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GLI ADELPHI

Gottfried Keller

Tutte le novelle
«Più ancora che nei romanzi, Keller si rivelò arti­
sta di prima grandezza nei racconti, che ora han­
no visto la luce in Italia in una splendida e com­
pleta raccolta pubblicata dalla casa editrice Adel­
phi. Novelle ricche di humour, di invenzione fan­
tastica, di grazia fiabesca e di acutezza realistica...
In queste novelle, magnificamente tradotte e pre­
sentate, palpita la dimensione più alta, più aperta
della narrativa tedesca di quegli anni».
CLAUDIO MAORIS

In copertina: Albert Anker, Louise,


la figlia dell’artista (1874). Museum
ISBN 978-88-459-2835-2
Oskar Reinhart, Winterthur.
© MUSEUM OSKAR REINHART

€ 20,00 9 788845 928352


GLI ADELPHI
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Se il fatto di essere svizzero ha in passato nociuto


alla fortuna di Keller (Zurigo 1819 - Milano
1890) fuori del mondo tedesco - dove, invece, è
sempre stata grande -, la critica internazionale
riconosce ora in lui uno degli scrittori meno
provinciali del suo tempo. Proprio il suo essere
svizzero, cioè radicato in un’antica tradizione di
libertà e di aristocratica rusticità, gli ha infatti
consentito di individuare come pochi altri i falsi
valori del mondo moderno al suo nascere, senza
tuttavia che il suo realismo, talora aspro sino al
grottesco, diventi mai pessimismo né si adombri
di crudeltà, come accade in molti narratori tede­
schi del periodo romantico. Divise in gruppi, le
novelle di Keller - pubblicate per la prima volta
da Adelphi in due volumi nel 1963 e 1964 - for­
mano un’opera unitaria i cui temi, nella loro va­
rietà, si proseguono, approfondiscono e illumi­
nano a vicenda.
Gottfried Keller

Tutte le novelle
LA GENTE DI SELDWYLA
SETTE LEGGENDE
NOVELLE ZURIGHESI
L’EPIGRAMMA
DUE STORIE D’ALMANACCO

Traduzioni di Lavinia Mazzucchetti,


Ervino Pocar, Anita Rho e Gianni Ruschena
Prefazione di Elena Croce

ADELPHI EDIZIONI
titoli originali:
Die Leute von Seldwyla
Siebend Legenden
Züricher Novellen
Das Sinngedicht
Zwei Kalendergeschichten

Gli originali delle illustrazioni sono conservati presso


la Zentralbibliothek di Zurigo a eccezione del ritratto
di Keller, conservato nel Gabinetto delle Stampe della
Eidg. Technische Hochschule

© 1963-1964 adelphi edizioni s.p.a. Milano


I edizione gli adelphi: settembre 2013
www.adelphi.it

ISBN 978-88-459-2835-2
INDICE

Prefazione xvii
LA GENTE DI SELDWYLA
PARTE PRIMA 3
Introduzione 5
Pankraz l’imbronciato 9
Romeo e Giulietta del villaggio 57
Regula Amrain e il suo figlio minore 130
I tre pettinai amanti della giustizia 175
Specchietto il gattino 216
PARTE SECONDA 253
Introduzione 255
L’abito fa il monaco 258
II fabbro della sua fortuna 301
Lettere d’amore smarrite 330
Dietegen 400
Il sorriso perduto 459
SETTE LEGGENDE
Prefazione 549
Eugenia 550
La Vergine e il Demonio 564
La Vergine al torneo 572
La Vergine e la monaca 582
Fra Vitalis, santo a modo suo 589
Dorothea e il canestro di rose 608
La breve leggenda della danza 615
NOVELLE ZURIGHESI
Novelle zurighesi 623
Hadlaub 637
Il pazzo di Manegg 714
Il podestà di Greifensee 736
La bandiera dei sette impavidi 830
Ursula 895
L’EPIGRAMMA
1. Un naturalista scopre un procedimento
e cavalca le terre per saggiarne la validità 959
2. Dove l’esperimento riesce a metà 963
3. Dove riesce l’altra metà 967
4. Dove si evita una sconfitta 970
5. Il signor Reinhart comincia a intuire
la portata della sua intrapresa 975
6. Dove si pone un quesito 979
7. Di una vergine folle 985
8. Regine 996
9. La povera baronessa 1053
10. Il visionario 1091
11. Don Correa 1121
12. Le « breloques » 1168
13. Dove l’epigramma riceve conferma 1183
DUE STORIE D’ALMANACCO
Due diversi campioni della libertà 1215
Il giorno delle elezioni 1239

Notizie sull’autore 1257


Notizie sui testi 1262
Bibliografia 1267
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Da un album di disegno del giovane Keller


La sorella Regula. Disegno a matita di Keller
Da un album di disegno di Keller
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durante la stesura di «Enrico il verde


Gottfried. Keller nel 1840. Disegno di Eduard Süffert
Particolare della « Città medievale». Disegno di Keller (1843)
Ritratto di Keller da un’incisione di Karl Stauffer (1887)
PREFAZIONE
Gottfried Keller è uno scrittore che, in virtù della sua
classica solidità, della sua robusta capacità di circoscri­
vere la realtà che rappresenta, penetrandone le ragioni
profonde, sembra essere stato immunizzato quasi a priori
contro il rischio dei riconoscimenti ambigui, delle oscilla­
zioni del gusto. Nel costatare la fortuna che egli ha avuto,
bisogna tuttavia chiedersi se in questo giusto riconosci­
mento non persista (malgrado le eccezioni, che vanno dal
giudizio di Nietzsche al saggio, per questo aspetto piena­
mente chiarificatore, di Lukàcs) una nota affettuosamente
rivendicatrice, sottilmente apologetica, che non trova
più giustificazione all’orecchio del lettore odierno; di un
lettore, cioè, che scopre il narratore svizzero nel momento
in cui va scomparendo la nozione ottocentesca d’Europa,
nella quale si era sinora inquadrata la sua opera.
Gli studiosi e gli appassionati di Keller — che anche in
Italia ha avuto critici attenti e fini — lo hanno infatti
sempre difeso da un sospetto di provincialismo, secondo
loro inseparabile dallo sforzo valoroso per accettare e
insieme superare i confini di un mondo svizzero, che a
quel tempo appariva tanto più minuscolo in quanto lo si
contrapponeva a una «grande» Germania. Oggi invece
questa prospettiva è venuta, se mai, a rovesciarsi, perché
l’ormai definitiva sconsacrazione di alcuni idoli del mondo
borghese ci consente di cogliere appieno il profondo in­
segnamento umano contenuto nella critica che a quegli
idoli aveva mosso lo scrittore svizzero. Per il suo libera­
lismo, radicato nell’antica tradizione repubblicana e de­
mocratica della sua patria, e quindi eccezionalmente ag­
guerrito contro i pericoli di corruzione della democrazia;
per la concezione severa e aperta, refrattaria all’idillio
romantico-borghese, che egli aveva della vita familiare,
Keller è di fatto l’unico narratore tedesco della sua epoca
che possa dirsi non provinciale. Nel microcosmo della
città svizzera egli ci mostra riflessi come in uno specchio
magico quelli che saranno poi i falsi valori del mondo
moderno : il culto dello spirito d’intrapresa in quanto tale,
quello della «personalità» come sacra coscienza di sé, che
consente di imporre agli altri qualsiasi sacrificio; l’equi­
XX PREFAZIONE

voca confusione tra l’eccitato esibirsi in faziose congreghe


e la vera popolarità, e così via. Ad essi egli contrappone
la coscienza della responsabilità individuale, dell’inscin-
dibilità della vita privata da quella pubblica, intese in
uno schietto spirito liberale, la cui spregiudicatezza si
riveste oggi di una singolare suggestione simbolica.
Un sentimento della patria amoroso e aspro, inattacca­
bile dalle degenerazioni della coscienza nazionale, e un
sentimento della solidarietà umana ben difeso dalle insi­
die della coscienza di classe, erano certamente iti Keller
un patrimonio ereditario. Egli seppe però farne valere
tutta la nobile solidità, su di esso edificando quella con­
cezione della libertà e dignità dell’uomo, intese da vero
umanista moderno, che anima, integra e illumina la sua
opera, preservando il suo realismo, spesso implacabile
sino al grottesco, da ogni scadimento pessimistico, nonché
dall’ombra di crudeltà affiorante nei narratori romantici
che si possono contare fra i suoi maestri.
È infatti da un lato agli scrittori dell’età classica, e so­
prattutto a Goethe e a Schiller, dall’altro a Jean Paul e
Arnim, e più immediatamente al suo conterraneo Gott-
helf, che Keller si ricollega : privilegio questo conferitogli
dalla sua aristocratica rusticità svizzera, che lo preserva
dall’aria spessa e soffocante del mondo Biedermeyer. La
sua arte è quella di un grande prosatore che sottomette
(con disciplina che non è, beninteso, mortificazione) la
fantasia poetica alle esigenze razionali di una ricerca di
verità morale : nel che egli ci sembra avvicinabile, sep­
pure in senso lato, al Manzoni, e non certo, come molti
dicono, all’autore del Decanteront o, come in particolare
afferma Lukàcs, al suo contemporaneo Tolstoi. Del resto
i racconti di Keller non sono «novelle», nemmeno nel
più ampio senso romanzesco della parola: sono «storie»
e, quando hanno uno spunto storico, «leggende», perché
un istinto preciso fa rifuggire questo scrittore dall’ibrido
del romanzo storico. Essi rappresentano inoltre l’opera
pienamente matura di un artista che si era già lasciato
alle spalle un lungo periodo di difficile formazione.
Il primo gruppo di storie, La genie di Seldwyla, si può in­
PREFAZIONE XXI

fatti considerare come la meta raggiunta dopo una serie


di esperimenti, nei quali, oltre alla sua fallita carriera di
pittore e alla sua prima raccolta di versi, va in parte
inclusa anche la prima stesura del suo romanzo auto-
biografico Enrico il Verde. Questi suoi primi racconti sono
in effetti di stile più vario e sperimentale, poiché vi si
passa dalla «Dorfgeschichte» {Romeo e Giulietta del villag­
gio) alla novella pedagogica di gusto settecentesco {Pan­
kraz l’imbronciato, Regula Amrain) alla fiaba ironica {Spec­
chietto il gattino). Ma già in essi vediamo raggiunta una
mirabile oggettività di rappresentazione: il celebrato
«realismo» di Keller, che nessuno potrebbe confondere
con i vari generi naturalistici cui si applica questa desi­
gnazione. Realismo, in Keller, significa un linguaggio
estremamente vitale e concreto, uno stile che è frutto di
una originalissima sintesi di precisione analitica e di con­
cisione epigrafica.
L’ispirazione animatrice della prosa di Keller, che pure
nasce come puro artista, anzi come pittore, e a volte ar­
ricchisce la pagina come uno squisito miniaturista, è indi­
scutibilmente morale e civile. E la sua intonazione (anche
qui occorre dare ragione al Lukàcs, pur non sottoscri­
vendo il termine, da lui impiegato nell’accezione marxi­
sta, di «epico») è eroica, nonostante, anzi proprio a cau­
sa della disciplina di umiltà, che spesso comporta un co­
mico castigo, da lui imposta ai suoi caratteri. Caratteri
còlti nella loro individualità morale più che non perso­
naggi. La polemica contro il concetto, o feticcio, borghese
della «personalità», che affiora in tanti suoi racconti (da
Pankraz l’imbronciato alla storia di Salomè in L’epigramma)
è uno dei motivi più originali di Keller, un motivo che da
solo gli varrebbe l’investitura, non ancora pienamente
conferitagli, di grande moralista.
Un riconoscimento pieno della statura e dell’originalità
del moralista che è in Keller consente anche di meglio
individuare il contenuto del suo realismo, ossia la fede
sempre presente nella conquista della verità, nella possibi­
lità sempre data all’uomo di intravvederla : così come la
intrawedono i suoi Romeo e Giulietta campagnoli, quan-
XXII PREFAZIONE

do decidono che il loro amore fuori legge non potrà vivere


incorrotto in un mondo tanto crudele verso gli inermi.
O come essa si chiarisce agli occhi del lettore, quando è
costretto a trarre da solo la morale della tetra storia I tre
pettinai amanti della giustizia, tanto aridi di cuore e di imma­
ginazione che la loro eroica avarizia non li salva dagli in­
certi inumani di una società in cui tutto è ridotto a gioco,
e la cui spietatezza ci ripugna, alla fine, assai più della
grettezza dei miseri pettinai. La forza di concentrazione
con cui Keller riesce sempre ad afferrare il nodo moral­
mente vitale di una «storia» ha una qualità interiore, in
ultima analisi religiosa, che non viene ben còlta dalla de­
signazione troppo generica di realismo, pure assai utile
per segnare polemicamente il distacco del gusto classico
di Keller da quello romantico-positivistico predominan­
te fra i suoi contemporanei. L’arte di Keller, cioè, non
solo non si presta a esser confusa con alcuna mascherata
«in costume», perché, se essa ha qualcosa di gotico, è la
pungente evidenza della scultura gotica, magari lignea e
riccamente dipinta; essa risente anche assai meno dei
segni del tempo di quanto non avvenga invece ad altri
grandi scrittori ottocenteschi, come ad esempio Maupas­
sant. Scegliamo un paragone così antitetico, perché Keller
ha in comune con Maupassant la caratteristica di essere
un grande autore di racconti, i cui romanzi sono di fatto
racconti dilatati e squilibrati, e anche perché il divario
stesso che vi è tra la disinvoltura del grande feuilletonista
francese e la pazienza artigiana dello svizzero contri­
buisce a sottolineare come quest’ultimo, appunto, superi
di gran lunga il primo nella libertà dagli schemi roman­
tico-positivistici. Mentre Maupassant è schiavo di un
concetto della «passione» assolutamente inscindibile dal­
le fogge delle capigliature, dei baffi, dei tendaggi e dei
corsetti della sua epoca, i personaggi di Keller (che anche
in ciò era effettivamente un realista) sono, è vero, più
lignei, ma assai meno legati a un costume, e ci appaiono
oggi, per l’eterno privilegio del gusto classico, più mo­
derni. Essi non seguono i canoni psicologici dell’ultimo
ottocento; non spendono ad esempio troppe parole sul
PREFAZIONE XXIII

tema del turbamento dei sensi; valutano però, in com­


penso, con un senso molto più esatto delle proporzioni,
il peso degli istinti nei confronti della volontà morale:
distinguono benissimo, come fa ad esempio Regula Am-
rain, sin dove giungono i diritti di un sangue giovane e
caldo e dove invece comincerebbe la degradazione di
un’accensione sensuale incrementata dalla cupidigia affa­
ristica e da un bicchiere di troppo bevuto all’osteria; op­
pure, come è il caso di Hansli Gyr, il protagonista di
Ursula, fra la tentazione di aderire a un seducente quadro
di intimità coniugale, già bell’e pronto, e il pericolo di
un matrimonio che non sarebbe vero matrimonio, perché
manca la base del rispetto delle reciproche convinzioni:
desiderio e tenerezza non potranno cancellare la ripugnan­
za che Hansli prova per il fanatismo della sua promessa
sposa. Attraverso Jean Paul, Keller aveva ereditato la ric­
chezza di intuizione psicologica, patrimonio della sette­
centesca filosofia del sentimento. E quella eredità era
stata per lui fruttifera, anche se la sua morale liberale e
terrestre andava in direzione opposta a quella di Jean
Paul, che accomunava in un unico sprezzante compati­
mento quietistico le passioni e ogni forma di affaccenda­
mento umano in genere. Libero com’è da ogni tenebro­
sità, lo scrittore svizzero non condivide coi primi roman­
tici tedeschi l’elemento magico che li rende affascinanti
ma talora stucchevoli. Egli è però uno scrittore estrosissimo,
pieno di imprevisti, che non consente al lettore di impi­
grirsi: la chiave è lì, ben in vista, ma mai in un posto
convenuto, verso il quale si possa allungare automatica-
mente la mano. Inoltre, benché Keller sia un autore di
racconti, non è un autore da antologia: non basta, per ca­
pirlo, leggere quelli che sono considerati i suoi capolavori,
Romeo e Giulietta, I tre pettinai, e altri. I racconti formano
un’opera unitaria, i cui temi si proseguono, si approfondi­
scono e illuminano a vicenda. E come opera unitaria, o
per lo meno come un’opera che si svolge lungo un ininter­
rotto filo conduttore, essi sono stati di fatto concepiti.
È facile, quando si apre per la prima volta Keller,
soggiacere al giustamente radicato pregiudizio nei con­
XXIV PREFAZIONE

fronti delle cornici di stile decameroniano usate da certi


novellieri ottocenteschi, che generalmente accentuano
soltanto la loro frigidità. Ma le cornici, sia di La gente
di Seldwyla che delle Novelle zurighesi, esulano interamente
da questo tipo, perché sono, se non necessarie a capire
i singoli racconti, indispensabili a creare lo spazio in cui
essi pienamente respirano. Le paginette introduttive alla
prima e alla seconda parte di La gente di Seldwyla sono di
fatto due capolavori di saggistica moderna. Seldwyla è
quasi un simbolo di quel fanatismo della Gemütlichkeit
che già contiene in nuce tutti gli orrori dell’ideale con­
temporaneo di «welfare», anche se oggetto della satira
è invece il capitalismo moderno al suo stadio primitivo.
Non manca, tra i caratteri altamente simbolici di Seldwyla,
quello di tollerare soltanto una «aristocrazia di giovani»,
fra i venti e i trentasei anni : dopo di che si scompare dal
mondo, ossia, dato che Keller è sempre fertile di signi­
ficati reconditi, comincia la vera vita, l’avventura, eccete­
ra. Tutti i fatti che si svolgono nell’àmbito di quella comu­
nità sono veramente fatti di Seldwyla, in quanto presup­
pongono, come si è già accennato, la disumanità di un
mondo in cui l’allegro gioco delle aziende messe su e
sostenute con cambiali e con un prestigio che si afferma
spendendo e primeggiando alle birrerie e ai tavoli da
gioco, non consente che si stenda mai la mano agli altri.
Come funamboli che camminano su di una corda da cui
non bisogna cadere fino a che non è giunto il momento,
del resto previsto, della bancarotta, i Seldwylesi non pos­
sono chinarsi a fare elemosine. Seldwyla uccide Romeo e
Giulietta, uccide il povero pettinalo Jobst. Essa non è
però invincibile, perché viene domata dalla signora Am-
rain, la quale ha imparato a caro prezzo cosa significhi es­
sere moglie di un brillante seldwylese, e ne trae accorta-
mente e coraggiosamente la morale educando suo figlio
come un uomo responsabile, che darà filo da torcere ai
concittadini. D’altra parte, Seldwyla è incorreggibile,
perché nella seconda serie dei racconti la variazione è
tutta esteriore : ai vecchi, gonfi e sbrindellati portafogli di
un tempo, si sono sostituite le eleganti cartelle di maroc-
PREFAZIONE XXV

chino, le maniere lisce e corrette dei moderni banchieri.


Se le cornici aumentano il rilievo dei racconti, non tol­
gono comunque nulla alla loro autonomia, che nella
prima parte di La gente di Seldwyla si associa a una grande
varietà di generi. In Romeo e Giulietta lo sfondo ha ancora
la cruda vernice della scena campestre settecentesca, e
d’altra parte la risoluzione moralistica è del tutto secon­
daria rispetto a quella poetica, costituita dalla rappre­
sentazione, veramente shakespeariana, dell’amore dei
due ragazzi. In Pankraz si ha il meraviglioso apologo del
musone che si libera del proprio broncio ma a ben caro
prezzo : la sua musoneria, anziché difenderlo, l’aveva pa­
ralizzato, esponendolo come un allocco a far da bersaglio
agli esercizi di cacciatrice della sua graziosa padroncina.
Ma benché egli scopra la spessa natura filistea di colei che
in silenzio aveva adorato come una presenza angelica,
non riuscirà mai (e anche qui Keller è realista) a scio­
gliere quell’incantesimo, o puntiglio, che lo costringe co­
stantemente a riproporsi di scoprire ciò che egli assur­
damente continua a desiderare, e cioè che, per un qual­
che mistero da svelare, «lei» non sia così come egli
l’ha vista, ma come l’aveva un tempo vagheggiata, che
le sue imbronciate fantasticherie siano in fin dei conti la
realtà. In Regula Amrain e il suo figlio minore abbiamo in­
vece una donna energica e saggia la quale prosegue col
proprio figlio quel «dialogo con l’uomo», con l’uomo a
cui occorre aprire gli occhi sui suoi vari doveri familiari e
pubblici e sulla vanità e pericolosità delle infatuazioni,
che le era fallito con il marito. È un dialogo puramente
morale, nel cui contrasto tra la saggezza femminile e l’ini­
ziativa mascolina è assente ogni implicazione di tipo freu­
diano. La signora Amrain è una madre così razionalista
che dei suoi tre figli, mettendo subito da parte i primi due
(da lei chiamati tra sé e sé «dormiglioni», e il cui sonno
sodo, anche quando in casa c’è pericolo, dimostra quanto
essi siano insensibili), elegge come interlocutore unica­
mente il terzo, e precisamente quello che, somigliando a
suo marito, andava corretto, ma anche meritava di esser­
lo. Con Specchietto il gattino abbiamo non una vera e pro-
XXVI PREFAZIONE

pria fiaba, ma un’incantevole storia di animali ironica­


mente umanizzati.
La seconda serie di La gente di Seldwyla è più stretta-
mente inquadrata nella satira della società (si veda per
esempio L'abitofa il monaco e Lettere d'amore perdute). Invece
una divagazione giocosa, in cui la preziosità dello stile
non elimina un involontario stridore parodistico, è costi­
tuita dalle Sette leggende, nelle quali sotto il gusto, fine
a se stesso, del raccontare scherzoso, si può intrawedere
una satira che non ha nulla di antireligioso (il pio rispetto
per la vita e l’amore per le creature hanno in Keller un’in­
tonazione su cui non possiamo ingannarci), ma si ri­
volge semmai alla assoluta insensibilità con cui il bigot­
tismo moderno ha accolto senza minimamente rielaborar­
li psicologicamente gli schemi delle pie leggende, che,
estratte dal contesto della loro ingenuità primitiva e ri­
cucinate in volgari edizioni moderne, diventano di una
rozzezza insopportabile. Ma il significato delle Sette leg­
gende nell’opera di Keller è forse soprattutto quello di un
esercizio letterario, attraverso il quale egli raggiunge quel-
l’ulteriore maturazione del suo stile che gli consentirà di
svolgere, con ritmo sostenuto e armonioso, il tema delle
Novelle zurighesi, senza consentire che la materia, densa di
memoria e di riflessione storica e morale, diventi mai pe­
sante né opaca.
Anche nelle Zurighesi la cornice, seppure più narra­
tiva, ha una notevole importanza saggistica. Vedia­
mo per esempio Jacques, simbolo del signorino otto­
centesco, che viene amabilmente descritto in tutte le
gaucheries e ingenuità di quindicenne, in cui però già
spunta l’insradicabile pianta della sicumera borghese.
Jacques si preoccupa, con una sensibilità tipica dell’epoca,
della impossibilità che il suo tempo riserva a chi sogne­
rebbe di essere un «originale». Egli tenta, armeggiando
fanciullescamente, tutte le strade che gli sembrano con­
durre all’ambita originalità, ma viene tempestivamen­
te erudito dal suo padrino sul come essere originali si­
gnifichi solo comportarsi in modo che serva di esem­
pio a molti altri; erudito ma non corretto, perché,
PREFAZIONE XXVII

non appena gli hanno raccontato per istruirlo la storia


del codice dei Minnesänger, creato per iniziativa di Ru­
dolf von Manesse, egli si affretta a provvedersi di una
pergamena su cui iniziare un nuovo codice da sostituire,
per sua gloria, a quello perduto. E infine lo ritroviamo in
veste di mecenate che, in mancanza di un proprio genio da
sviluppare, coltiva il germe di quello altrui, e paga a uno
scultore svizzero il viaggio a Roma perché produca, tanto
per cambiare, un fauno di marmo; ma con suo grande
disappunto trova l’opera incompiuta, e lo svizzero impe­
gnato a celebrare le nozze con la sua modella ciociara.
Nelle Novelle zurighesi le qualità di pittore di paesaggio
e di ambiente, di cui Keller è cosi ricco, assumono un
risalto particolare dall’amore con cui egli va indivi­
duando, uno ad uno, i tratti del volto della sua città:
dalle linee dei castelli medioevali che si indovinano nel
profilo delle colline, all’acqua del lago, alla trasposizione
moderna e mercantile, borghese, dell’antico profilo goti­
co, feudale. Ma la vena pittorica di Keller, il quale può
veramente dirsi uno di quei grandi pittori romantici che
esistono solo in letteratura e non si sono mai realizzati sulla
tela, è tutt’altro che locale, anzi piuttosto eclettica e av­
venturosa. Illimitata è la bravura, la spregiudicatezza co-
mico-simbolistica con cui egli dipinge una sposina indiana
che viene tolta per i piedi, come un pesciolino dalla pa­
della, dal rogo sul quale arrostiva cantando beata con
voce argentina (anche qui Keller coglie l’occasione per
una puntata contro il fanatismo, in particolare contro la
puerilità del fanatismo femminile) ; oppure, in L'epigram­
ma, un conte brasiliano, nero come la pece, e lungo e sotti­
le come una lancia; o ancora, raffinati grotteschi, come
quello del cacciatore pellirossa che fa una danza di guerra
davanti a uno sciocco, odioso rubacuori, il quale, per sua
punizione esemplare, vedrà pendere da quel naso feroce
un anello cui sono sospesi tutti i delicati ciondoli da lui
rapiti, estorti e collezionati. Non v’è dubbio però che
quando egli evoca la vecchia Zurigo suscita una parti­
colare evidenza di sensazioni: basti pensare alle descri­
zioni, che troviamo in Ursula, del passaggio del soldato che
XXVIII PREFAZIONE

rimpatria sul ponte di legno ghiacciato, o a quella degli


incontri col vecchio cencioso lanzichenecco, e poi con la
banda dei fanatici millenaristi di cui vediamo dipinte, una
a una, le fisionomie sinistre e puerili, indimenticabili.
Tutte le Zurighesi sono intessute di meditazioni sul
raffronto degli antichi e moderni contrasti fra poteri e
fra ceti, fra la vera democrazia riformatrice e le infatua­
zioni collettive, sul tema del dissidio fra la coscienza li­
berale e la democrazia meccanicamente intesa come fatto
di maggioranza. In quello che, con Ursula, è uno dei più
bei racconti della raccolta, ossia La bandiera dei sette impavi­
di, si svolge anche un esemplare dibattito tra la concezione
patriarcale, rappresentata dal padre di famiglia, e rac­
comodante, avventuroso e ambizioso spirito della donna:
dibattito risolto con un atto di fiducia nell’avvenire, nei
giovani, che hanno mostrato di saper raccogliere l’eredità
morale dei vecchi, e nell’atto stesso in cui li rassicurano
fanno però accettare loro un punto di vista nuovo sulle
cose pratiche.
Nelle Novelle zurighesi la robusta vena moralistica di
Keller tocca il suo culmine e si consolida al punto di con­
sentire una nuova libertà allo scrittore : forte della propria
ben provata razionalità, egli può ora abbandonarsi con
fiducia a una fantasiosità trasparente, veramente pura da
scorie, in quello che è insieme l’ultimo suo volume di rac­
conti e il suo capolavoro, L’epigramma, dove i singoli rac­
conti si innestano l’uno nell’altro, riassorbendosi in quello
di fondo come un leggero gioco di scatole cinesi. Come av­
viene per le strutture perfettamente armoniose, in cui
tutto è inscindibilmente connesso, L’epigramma non si pre­
sta a riferimenti e citazioni, che guasterebbero quella
sensazione incantata, di continua sorpresa, costituente la
singolare attrattiva del libro. Per tentare di definire questo
racconto (si tratta, in fondo, di un racconto unico) si
dovrebbe ricorrere a paragoni che al primo momento
possono suonare assurdi, perché occorrerebbe citare a un
tempo Goethe e Dostoevskij. Ma quel che importa è che
tutto ciò è perfettamente fuso, come alternativa di saggez­
za e bizzarria, in un romanzo pedagogico, nel quale il pe-
PREFAZIONE XXIX

dagogismo raggiunge il vero e proprio sublime. L’ultimo


capitolo di L?epigramma, in cui Lucia racconta del suo
innamoramento, tanto precoce da parer mostruoso, per
un cugino che la chiamava «mogliettina», e che poi
scomparve perché si fece prete, è forse una delle pagine
poetiche e morali più belle e più inedite che la letteratura
moderna ci abbia dato sull’adolescenza. Forse, in realtà,
vi è ancora quasi tutto da imparare da parole come
quelle che Reinhardt dice alla fine a Lucia : « Ciò che Lei
ha provato è molto diverso dalla sconveniente avidità
d’amore dei bambini viziati, e colpisce soltanto poche
creature elette la cui nobile, innata generosità di cuore
precorre il tempo con inconsapevole, innocente impazien­
za. La candida fede infantile nelle parole spensieratamen­
te scherzose del sighor cardinale, da lei così a lungo ser­
bata, fa parte di questa generosità, come l’ala di una co­
lomba è connessa con l’altra ala; e con ali simili volano
gli angeli in mezzo agli uomini. Un tale esempio di bontà
mi fa considerare con vergogna quanto la mia vita sia
stata finora vuota, indifferente, e con quale sventatezza
io mi sia presentato anche al Suo cospetto ! ». Reinhardt,
moderno intellettuale, e, come il dottor Faust, quasi
alchimista, deve riscoprire che cosa sia la vita, dimen­
ticata per i lambicchi, ma a ciò non è sobillato dalla
voce del demonio, bensì dalla malizia fatata di un epi­
gramma amoroso.
Le affinità storico-letterarie che legano Keller ai mag­
giori narratori suoi contemporanei sono troppo evidenti
perché occorra illustrarle. Se ci si addentrasse nel terreno
comparativo si dovrebbe discutere se, fra i romanzieri
inglesi, gli sia più vicino, non certo Dickens, che nella sua
alternativa di umorismo e sentimentalismo è il rovescio
di Keller, ma Thackeray o Meredith, col quale egli ha
persino qualche analogia di temi, come quello che «l’abi­
to fa il monaco»; oppure si potrebbero analizzare i mo­
tivi che lo accostano a Gogol e a Dostoevskij ben più che
a Tolstoi, a Flaubert, ma anche a Stendhal. Non meno
evidente è del resto il suo rapporto con la letteratura te­
desca contemporanea, nella quale egli non era isolato
XXX PREFAZIONE

materialmente, poiché, a parte i legami importanti con


l’università di Heidelberg e con un critico del valore di
Hermann Hettner, ebbe rapporti cordiali e anche ami­
chevoli con tutti gli scrittori più in voga al suo tempo, da
Gustav Freytag a Paul Heyse, fino a Theodor Storm,
nessuno dei quali però, anche se aggiungiamo il nome di
Stifter, può essere considerato appartenente alla costella­
zione, decisamente maggiore, di Keller. Più vicini gli
sono invece senza dubbio i suoi due conterranei, l’uno di
una generazione antecedente, l’altro di lui alquanto più
giovane, Jeremias Gotthelf e Conrad Ferdinand Meyer
(e negli ultimi anni pochi scrittori della generazione se­
guente colpirono la sua attenzione come Carl Spitteler).
Sempre in Svizzera erano del resto presenti, e si potevano
contare tra i suoi ammiratori, gli uomini che rappresen­
tavano le maggiori forze dei tempi nuovi, Wagner e
Nietzsche. Ma lo sguardo di Keller, via via che gli anni
avanzavano, era sempre meno incuriosito dal futuro,
sempre più rivolto a se stesso. Chiuso il periodo della sua
attiva partecipazione alla vita pubblica, il vecchio sca­
polo, che come il suo Balivio aveva saputo trarre succo
di saggezza senza amaro dai rifiuti che avevano sanzionato
la sua sfortuna amorosa e la sua troppo bizzarra bruttez­
za, andò sempre più isolandosi. Ai salotti cosmopoliti,
allora fiorenti a Zurigo, che sarebbero stati lieti di ornarsi
della presenza del grande concittadino, preferiva l’osteria,
e nel bere egli riscaldava quella fantasia la cui presenza
toglie ogni tristezza all’immagine della sua solitudine.

ELENA CROCE
LA GENTE DI SELDWYLA
VERSIONE DI LAVINIA MAZZUCCHETTI

SETTE LEGGENDE
VERSIONE DI ERVINO POCAR

NOVELLE ZURIGHESI
VERSIONE DI LAVINIA MAZZUCCHETTI

L’EPIGRAMMA
VERSIONE DI ANITA RHO

DUE STORIE D’ALMANACCO


VERSIONE DI GIANNA RUSCHENA
LA GENTE DI SELDWYLA
PARTE PRIMA
Seldwyla in linguaggio arcaico significa una località pia­
cevole e solatia, e tale è di fatto la cittadina di questo
nome situata in qualche posto della Svizzera. È ancora
circondata dalla stessa cerchia di mura e di torri antiche
come trecento anni or sono, ed è pur sempre rimasta lo
stesso paesino; le finalità originarie e profonde che pre­
siedettero alla sua fondazione risultano dalla circostanza
che i fondatori l’hanno voluta erigere una buona mezz’ora
lontano da un fiume navigabile, a chiaro indice che non
se ne dovesse cavar nulla. È tuttavia proprio ben collo­
cata, in mezzo a verdi montagne aperte a mezzodì, così
che vi penetrano i raggi del sole, ma non mai aspri venti.
Per questo, lungo le vecchie mura, crescono viti discrete,
mentre più su, sui fianchi delle montagne, si stendono
foreste sconfinate, che costituiscono il patrimonio della
città. Questa è infatti la sua caratteristica, la sua sorte
singolare, che il Comune è ricco mentre la cittadinanza è
povera, povera al punto che a Seldwyla nessuno ha un
soldo e nessuno capisce di che cosa si viva, in fondo, da
secoli. I Seldwylesi vivono del resto di ottimo umore,
considerando l’allegria come propria specifica competen­
za, e quando giungono in un posto dove vi sono altri
costumi, per prima cosa criticano l’umore locale affer­
mando che in quell’arte nessuno può dar loro dei punti.
Il nucleo e il vanto della popolazione consistono nei
giovanotti dai venti ai trentacinque anni: sono essi che
dànno il tono, che tengono viva la socievolezza e rappre­
sentano il fasto di Seldwyla. Durante quel periodo gio­
vanile esercitano il mestiere, la professione, l’abilità, quel
che insomma hanno imparato, cioè fanno lavorare per
loro, sin che possono, gente estranea, valendosi intanto
della propria professione per un comodo giro di debiti
che costituisce la base di ogni potere e magnificenza e le­
tizia per i signori seldwylesi e che vien quindi tenuto in
vita con raffinata reciprocanza e comprensione, ma, si no­
ti bene, sempre soltanto fra questa aristocrazia giovanile.
Appena infatti un seldwylese raggiunge il limite degli anni
fiorenti, quando altrove uno comincerebbe a raccogliersi
e a rafforzarsi, a Seldwyla tutto è finito: deve cedere le
6 LA GENTE DI SELDWYLA

armi e, se è uomo di poco conto, rimane sul posto esauto­


rato ed espulso dal paradiso del credito. Che se poi non
è ancora del tutto ridotto allo zero, si arruola in un eser­
cito fuori del paese e impara a fare per un tiranno stra­
niero quel che non s’è degnato di fare per se stesso: ab­
bottonar la giubba stretta e tenersi ben rigido ! Costoro
rimpatriano dopo parecchi anni come bravi soldati e sono
fra i migliori istruttori della Svizzera, capaci di addestrare
le reclute così che è una gioia vederli. Altri invece verso
il quarantesimo anno vanno altrove in cerca d’avventura
tanto che nei luoghi più disparati si possono incontrare
Seldwylesi, che si distinguono tutti perché abilissimi a
mangiar pesci, in Australia o in California, nel Texas
come a Parigi o a Costantinopoli.
I pochi che invece rimangono in paese e ci invecchiano,
finiscono per imparare a lavorare, o meglio per dedicarsi
a mille piccole disordinate faccende non mai imparate,
al fine di raggranellare quattro soldi quotidiani. I Seldwy­
lesi poveri e anziani con le rispettive mogli e i figlioli, dopo
aver abbandonato il mestiere regolare, diventano la gente
più laboriosa del mondo e fan davvero pietà quando van­
no in caccia dei modesti mezzi per la conquista di un buon
boccone di carne come in tempi passati. Tutti i cittadini
hanno abbondanza di legna e il Comune ne vende an­
nualmente buona parte, sovvenendo e mantenendo la
gran miseria e facendo si che per la vecchia cittadina
continui immutato sino a oggi quel corso degli eventi.
Sono comunque sempre vispi e allegri e se un’ombra
Oscura le loro anime, se sulla città gravano troppo tenaci
difficoltà finanziarie, si distraggono e si fanno coraggio
con la loro grande agilità politica, altra caratteristica dei
Seldwylesi. Essi infatti sono politicanti arrabbiati, revisori
di costituzioni e presentatori di interpellanze, e quando
son riusciti ad escogitare una mozione ben assurda da far
proporre dal loro rappresentante nel Gran Consiglio, o
quando emana da Seldwyla il richiamo a un mutamento
costituzionale, tutti nel paese sanno che c’è carestia di
soldi. Essi d’altra parte amano la varietà delle idee e dei
principi e, il giorno dopo che hanno eletto un governo, so-
LA GENTE DI SELDWYLA 7

gliono mettersi all’opposizione del medesimo. Si tratta di


un governo radicale? Allora per dargli noia si schierano
al fianco del pastore piuttosto bigotto e conservatore, che
hanno sino alla vigilia schernito: gli fanno la corte affol­
lando la sua chiesa con simulato entusiasmo, lodandone
le prediche e facendosi ostentatamente distributori dei suoi
opuscoletti propagandistici e dei rapporti della Società
Missionaria di Basilea, senza, si capisce, contribuirvi però
neppur con un soldo. Se invece è al timone un governo
di tinta anche solo vagamente conservatrice, subito s’af­
follano attorno ai maestri comunali, e al povero pastore
tocca chiamare il vetraio per riparare finestre rotte. Se il
governo si compone di giuristi liberali preoccupati delle
forme oppure di finanzieri tenaci, corron subito dal socia­
lista più prossimo e irritano il governo eleggendo questi
nel Consiglio con il grido di guerra : Basta col formalismo
politico; al popolo stanno a cuore solo i suoi interessi
materiali ! Oggi pretendono il veto e persino un autogo­
verno più immediato con assemblea popolare permanente,
per la quale a vero dire i Seldwylesi avrebbero il maggior
tempo disponibile; domani invece si dànno arie di stanco
scetticismo in affari pubblici e permettono che le elezioni
siano guidate da una mezza dozzina di vecchi relitti, falliti
trent’anni avanti e giunti silenziosamente a riabilitarsi.
Quando poi, stando comodamente seduti all’osteria, ve­
dono quei vecchi avviarsi verso la chiesa, se la ridono
sotto i baffi, come quel ragazzo che diceva: «Ben gli sta
a mio padre se mi si congelan le dita, perché non vuol
comprarmi i guanti!». Ancora ieri si entusiasmavano
esclusivamente per la vita federale ed erano indignati che
nel Quarantotto non si fosse proclamata l’unità completa,
oggi viceversa hanno l’idea fissa della sovranità cantonale
e non eleggono candidati al Consiglio Nazionale.
Quando però una delle loro iniziative o mozioni diventa
incomoda e perturbatrice per la maggioranza del paese,
il governo suole mandar loro tra capo e collo, come cal­
mante, una commissione d’inchiesta per riordinare l’am­
ministrazione dei beni comunali di Seldwyla, e allora
hanno grattacapi sufficienti e il pericolo è sventato.
8 LA GENTE DI SELDWYLA

Tutto questo li diverte molto, e il divertimento è su­


perato soltanto dalla gioia di ogni autunno, quando viene
spillato il vinello nuovo, il mosto in fermento che essi chia­
mano Sauser. Se la qualità è ottima non si è sicuri della
vita in mezzo a loro, tanto è il chiasso indemoniato : tutta
la città odora di vin nuovo e i Seldwylesi perdono comple­
tamente la testa.
Ma quanto meno essi son buoni di concludere qualcosa
di bene a casa propria, tanto meglio sanno invece affer­
marsi, caso singolare, quando vanno militari, sia che lo
facciano isolati o in compagnie; così in guerre passate
sempre si son fatti onore. Anche come speculatore e
imprenditore d’affari più d’uno è riuscito, appena fuori
da quella calda valle solatia dove non c’era per lui ter­
reno favorevole.
In una città tanto allegra e singolare non può esserci
scarsità di storie e di vicende strane, visto che l’ozio è il
padre di tutti i vizi. Io però in questo libriccino non vo­
glio narrare le storie connaturate col sopradescritto carat­
tere dei Seldwylesi bensì, piuttosto, alcuni fatterelli bizzar­
ri, capitati così per caso, per eccezione in certo modo, ma
che tuttavia non potevan verificarsi altro che a Seldwyla.
PANKRAZ L’IMBRONCIATO

In una piazzetta remota, accanto alle mura, viveva la


vedova di un cittadino di Seldwyla che aveva da tempo
compiuto la sua giornata e giaceva sotto terra. Non era
stato uno dei peggiori, anzi nutriva una così intensa aspi­
razione a diventare un uomo ammodo e posato che soffri­
va del tono da dominatore al quale da giovane non aveva
potuto sottrarsi; quando poi la sua età migliore fu tra­
scorsa ed egli, secondo le consuetudini, dovette sparire
dalla scena, tutto gli parve un brutto sogno, quasi una vita
perduta ; gliene venne la consunzione e morì prontamente.
Lasciò alla vedova una casupola cadente, un campo di
patate fuori porta e due figli, un maschio e una femmina.
Filando essa si guadagnava il latte e il burro per cuci­
nare le patate che coltivava, mentre un meschino sussidio
vedovile, che l’assistente dei poveri le versava ogni anno,
dopo essersene servito nella sua azienda per qualche set­
timana oltre il termine di scadenza, bastava appunto alle
esigenze del vestiario e ad alcune altre piccole spese. Quei
soldi erano sempre attesi con pena, in quanto le vesticciole
dei bimbi, appunto per quelle settimane di ritardo, fini­
vano di sdruscirsi completamente e il vaso del burro lascia­
va scorgere il fondo in più punti. L’apparire del fondo ver­
de di quel recipiente era un fenomeno annuo, regolare
quanto quelli del cielo, e trasformava ogni volta con pari
regolarità la fredda rassegnazione della famigliola in vera
ribellione. I bimbi tormentavano la mamma perché desse
loro cibo migliore e più abbondante, giacché nella loro
ingenuità la ritenevano in grado di farlo, vedendo in lei
la potenza suprema, la loro unica protezione e autorità.
La madre d’altra parte era scontenta che i ragazzi non
riuscissero ad avere o più buon senso o più cibo o l’una e
l’altra cosa insieme.
I suddetti fanciulli mostravano peraltro indoli opposte.
Il maschio era un ragazzo poco notevole di quattordici
anni, dagli occhi grigi e dai lineamenti seri, che s’indu­
giava a letto la mattina, poi leggiucchiava un volume
IO LA GENTE DI SELDWYLA

stracciato di storia e geografia e che ogni sera, d’inverno


e d’estate, correva sulla montagna per assistere al calar
del sole, unica vicenda spettacolosa e brillante che esistes­
se per lui. Pareva che il tramonto fosse per lui pressap­
poco quel che per i commercianti è il mezzodì in Borsa;
egli almeno ne ritornava in stati d’animo altrettanto mu-
tevoli, e se aveva veduto belle nuvole rosse o gialle, ma­
novranti maestose al pari di grandiosi eserciti nel sangue
e nel fuoco, poteva dirsi davvero contento.
Di tanto in tanto, ma solo di rado, copriva un foglio di
carta di strani elenchi e di cifre, unendolo poi ad un fasci­
colo legato con un vecchio cordoncino d’oro. In esso c’era
anzitutto un librettino messo insieme con un foglio ripie­
gato di carta dorata, le cui facciate bianche eran tutte
zeppe di linee, di figure e puntini frammezzati a nuvole
di fumo e a bombe volanti. Il ragazzo considerava spesso
e con gran soddisfazione il libriccino e vi aggiungeva
nuovi disegni, per lo più al tempo in cui il campo di pa­
tate era in fiore. Si stendeva allora fra il verde fiorito
sotto il cielo azzurro, e dopo aver contemplato una delle
pagine scarabocchiate, fissava per un tempo tre volte più
lungo la contropagina dorata, nella quale si rifrangeva il
sole. Egli era per il resto un ragazzo ostinato e incline a
tenere il broncio, che non rideva mai e nel bel mondo di
Dio non imparava né concludeva nulla.
Sua sorella aveva dodici anni ed era una bimba grazio­
sissima dai folti capelli castani, dagli occhi bruni e dalla
pelle candida. Era mite e tranquilla, sopportava molte
cose e brontolava assai meno di suo fratello. Aveva una
vocetta limpida e cantava come un usignuolo, ma benché
per tutto questo fosse più leggiadra e gentile del fratello,
la madre, apparentemente, dava la preferenza a lui. Essa
indulgeva al suo carattere appunto perché ne aveva com­
passione, vedendo che non imparava niente e che sarebbe
stato probabilmente sfortunato, mentre a parer suo la
figliola non aveva grandi bisogni e se la sarebbe sempre
cavata.
La sorella doveva quindi filare senza posa, perché il si­
gnorino avesse più da mangiare e potesse aspettare con
PANKRAZ L’IMBRONCIATO 1 1

maggior agio la sua futura mala sorte. Il ragazzo accet­


tava senz’altro la situazione e si comportava come un pic­
colo indiano che fa lavorare le donne; ma sua sorella me­
desima non ne provava sdegno, persuasa che così dovesse
essere.
La bimba si concedeva un solo compenso, e vendetta,
permettendosi ad ogni pasto, con la forza o con l’astuzia,
una grave sconvenienza. La madre infatti preparava ogni
mezzodì una spessa purea di patate sulla quale versava
panna oppure buon burro dorato. Mangiavano questa
polentina da un gran piatto, tutti e tre insieme, coi loro
cucchiai di stagno, scavando ciascuno un avvallamento
nel compatto monte di patate. Il ragazzino che, fra le altre
stranezze, rivelava nelle faccende manducatone un ri­
gido senso di regolarità militare, curava severamente
che nessuno prendesse più o meno di quanto gli spettas­
se, e badava che il latte o il burro fuso scorrente at­
torno al piatto affluisse uniformemente nelle rispettive
fossette; la ragazzina invece, molto più semplice, appena
le sue fonti si inaridivano, tentava con svariati scavi e
fosse di derivazione di far defluire dalla sua parte i gu­
stosi rivoletti. Per quanto il fratello vi si opponesse eri­
gendo, appena si presentava una falla sospetta, non me­
no ingegnosi sbarramenti e tamponamenti, essa riusciva
sempre ad aprire una nuova vena segreta nella poltiglia,
oppure introduceva con aperto atto ostile il proprio cuc­
chiaio nella ricolma trincea del fratello, mentre lo guarda­
va sorridendo. Quello allora gettava il cucchiaio, borbot­
tava e metteva il broncio, sin che la buona mamma, solle­
vando un poco il piatto, faceva correre tutto il suo condi­
mento nel labirinto di canaletti e di argini dei due ragazzi.
La famiglinola viveva così i suoi giorni uniformi, e ap­
punto perché tutto rimaneva immutato e i ragazzi cre­
scevano senza che si mostrasse loro un’occasione favore­
vole per entrare nel mondo e diventar qualcuno, crebbe il
disagio e il rammarico della loro esistenza in comune.
Pankraz, il maschio, continuò a non fare e a non imparare
nulla, fuorché una raffinata e artificiosa maniera di tenere
il broncio, con la quale tormentava sua madre, sua sorella
12 LA GENTE DI SELDWYLA

e se medesimo. Questo diventò la sua occupazione rego­


lare e interessante, in cui prodigava le oziose energie
dell’animo suo, escogitando centinaia di piccole tragedie
domestiche da lui stesso provocate e in cui con pronta
maestria sapeva sostenere sempre la parte della vittima.
Estherchen, la sorella, veniva così indotta ad abbondanti
lagrime, tra le quali però presto rispuntava il sole della
sua serenità. Ma tale superficialità irritava e offendeva
Pankraz al punto da indurlo a periodi sempre più lunghi
di muso e persino a piangere in segreto per la rabbia da
se stesso procuratasi.
Simile tenor di vita rafforzò tuttavia notevolmente la
sua salute e le sue energie, ed egli allora, sentendosele
crescere in corpo, ampliò la cerchia della propria attività,
girando per i campi e pei boschi con in mano un ramo
nodoso o un manico di scopa, per vedere dove potesse
procurarsi e subire qualche palese ingiustizia. Appena
gli se ne offriva e sviluppava una, egli senz’altro picchia­
va ferocemente i suoi avversari, acquistando e dimo­
strando in tale attività tanta energia tattica e destrezza,
sia nello scovare il nemico sia nella lotta medesima, da de­
bellare singoli giovanotti di forza molto superiore e anche
interi manipoli di questi, o da compiere almeno una riti­
rata impunita.
Al ritorno da una simile avventura fortunata, gustava
doppiamente il pranzo e i suoi potevano compiacersi del
suo buon umore. Un giorno però, invece di distribuir
busse, gli toccò di prendersele e in abbondanza. Venne
a casa pieno di mortificazione, di rabbia e di rancore e
s’accorse che Estherchen, dopo aver filato tutto il giorno,
non aveva resistito alla voglia e si era pappata una buona
parte del pranzo messo in serbo per lui ed anzi, a quel che
gli parve, la parte migliore. Triste e sconsolato, tratte­
nendo a stento le lagrime, osservò i miseri avanzi ormai
freddi, mentre la perfida sorella, di nuovo seduta al fila­
toio, scoppiava in una risata.
Questo fu troppo per lui : doveva succedere qualcosa di
grosso ! Pankraz si ritirò affamato, senza toccar cibo, nella
sua cameretta e quando al mattino sua madre andò a
PANKRAZ L’IMBRONCIATO !3

destarlo perché scendesse a colazione, egli era sparito e


non fu possibile trovarlo. Passò quel giorno senza che ri­
tornasse, e così il seguente e un altro ancora. La madre ed
Estherchen erano molto tristi e angosciate; compresero
subito che era fuggito di proposito, portando con sé le
poche cose sue. Piansero e gemettero a lungo vedendo
rimaner infruttuosi tutti i loro sforzi per rintracciarlo, ma
quando dopo un semestre Pankraz rimase irreperibile, si
rassegnarono con malinconia alla loro sorte, che parve
ancor più solitaria e. misera.
Come par lunga una settimana, anzi una giornata sola,
quando si ignora dove siano e dove vadano quelli che si
amano, quando in tutto il mondo regna il silenzio su di
loro, e in nessun luogo v’è la minima traccia del loro
nome mentre pur si sa che son vivi e che in qualche posto
essi respirano!
Così per la madre e per Estherchen trascorsero cinque
anni, poi dieci, poi quindici, tutti i giorni eguali, e neppur
sapevano se il loro Pankraz fosse morto o vivo. Fu un
broncio ben lungo ! Estherchen, che s’era fatta una bella
ragazza, si trasformò nel frattempo in una zitella non
priva di grazia e di finezza, che rimaneva presso la vec­
chia madre non soltanto per devozione filiale, ma anche
per la curiosità di esser presente il giorno in cui il fratello
sarebbe finalmente riapparso, per vedere come si sarebbe
svolta la scena. Essa era di animo sereno e fermamente
sperava che un giorno sarebbe tornato e che ci sarebbe
stata allora ragione di buone risate. Del resto non le pesò
il rimaner nubile, perché aveva buon senso e capiva
che con quelli di Seldwyla v’era poco da contare su una
felicità duratura, mentre essa viveva colla madre senza
mutamenti, in un modesto benessere, in calma e senza
crucci, essendo venuta a mancare una buona forchetta,
ed essendo i loro bisogni quasi inesistenti.
Era una volta un bel pomeriggio estivo, a metà setti­
mana, una di quelle giornate in cui non si pensa a nulla e
la gente delle piccole città lavora di lena. Il fior fiore di
Seldwyla, col bel sóle, si trovava tutto sugli ombreggiati
giochi di birilli fuori porta o anche nelle fresche osterie
M LA GENTE DI SELDWYLA

della città. Quelli ridotti in malora e i vecchi invece con­


tinuavano a martellare, a cucire, a batter suole, a incolla­
re, a intagliare e a far mille piccoli lavori con assiduità per
utilizzare la lunga giornata e conquistarsi una serata al­
legra, di cui apprezzavano ormai il valore. Sulla piazzetta
dove abitava la vedova non c’era da vedere che il pacifico
sole estivo sul selciato erboso ; presso le finestre aperte in­
vece i vecchi artigiani lavoravano e i bambini giocavano.
La vedova filava dietro una cassetta di rosmarino in fiore,
con di fronte Estherchen intenta a cucire. Erano già pas­
sate alcune ore dal pranzo e i vicini non si erano ancora
scambiati una parola. Allora il calzolaio trovò probabil­
mente che era giunto il momento per una piccola pausa
ristoratrice e lanciò uno starnuto tanto forte e baldanzoso
che tutte le finestre ne tremarono e il legatore di fronte,
che in realtà non era affatto un legatore di libri, bensì
solamente uno che improvvisava alla meglio lavori di
cartonaggio e teneva attaccata alla porta una vetri­
netta nella quale un bastone di ceralacca si deformava al
sole, il legatore insomma gridò: «Alla salute!» fa­
cendo ridere tutti i vicini. L’uno dopo l’altro sporsero il
capo dalle finestre, alcuni anzi si fecero sulla porta e si
offrirono prese di tabacco, col che fu dato il segnale di
una piccola conversazione pomeridiana e di qualche al­
legra risata durante il caffè della merenda, che già man­
dava da tutte le case il suo profumo di cicoria. Quella
brava gente aveva alla fine imparato a divertirsi di po­
co. E il divertimento fu completato dal sopravvenire di
un suonatore straniero con un ben lucidato organetto, il
che costituisce in Isvizzera una relativa rarità, non essen­
dovi suonatori d’organetto indigeni. Suonò una nostal­
gica canzone sulla lontananza e le sue bellezze che parve
a quel pubblico ammirevolissima e che strappò lagrime
specialmente alla vedova, facendola pensare al suo Pan-
kraz ormai sparito da tanti anni. Il calzolaio diede una
moneta al suonatore, che se ne andò lasciando la piaz­
zetta di nuovo nel suo silenzio. Ma non molto tempo dopo
arrivò un altro girovago con un grande uccello esotico in
una gabbia, che egli, mentre lo descriveva, andava di
PANKRAZ L’IMBRONCIATO Ιό

continuo stuzzicando con un bastoncino infilato tra i ferri,


non lasciando pace alla povera bestia. Era un’aquila d’A­
merica, ed alla vedova vennero in mente le regioni più re­
mote e più azzurre sulle quali l’uccello si era librato in
libertà, il che la fece immelanconire, anche perché non
sapeva affatto che paesi mai fossero né dove si trovasse il
suo caro figlio. Per vedere l’aquila i vicini erano dovuti
uscire in piazza e dopo che fu portata via fecero gruppo,
coi nasi in aria, in attesa di altre novità, dato che avevano
ormai voglia di sciupare il resto della giornata.
Tale voglia fu accontentata, poiché non passò molto
tempo che si presentò, con grande strepito e fra l’accorre­
re di tutti i bambini della borgata, uno spettacolo inau­
dito. Avanzava ondeggiando un enorme cammello, sulla
cui gobba si pigiavano numerose scimmie e lo seguiva un
bell’orso condotto per l’anello del naso; c’erano anche
due o tre uomini e ben presto si svolse una rappresenta­
zione con danza dell’orso, il quale di tanto in tanto lan­
ciava dei brontolìi irosi da far spaventare il pacifico pub­
blico che si metteva a guardare la bestia a rispettosa di­
stanza. Estherchen rideva e si divertiva un mondo del­
l’orso che salterellava con tanta grazia reggendo il ba­
stone, e del cammello dalla faccia soddisfatta, e delle scim­
mie. La madre invece non faceva che piangere: aveva
compassione dell’orso feroce e doveva ripensare al figlio
scomparso.
Sparito finalmente anche questo corteo e tornato il si­
lenzio sulla piazza, dopo che i vicini eccitati se ne furono
andati a bere qua o là una bottiglia vespertina, Esther­
chen disse alla madre : — Ho idea che proprio oggi debba
arrivare Pankraz, visto che sono accadute già tante cose
impreviste e son comparsi cammelli, scimmie ed orsi ! —
La madre si stizzì che il povero Pankraz venisse in certo
modo messo insieme, con derisione, a quelle bestiacce,
e le impose di tacere, senza rendersi conto che anche
lei, coi suoi melanconici pensieri, aveva fatto la stessa
cosa. Poi disse con un sospiro : — A me non sarà più
dato di vederlo tornare !
Mentre pronunciava quelle parole avvenne la cosa più
ι6 LA GENTE DI SELDWYLA

straordinaria della giornata: una carrozza aperta da


viaggio con un postiglione speciale piombò nella tran­
quilla piazzetta ancora a mezzo sfiorata dal sole tramon­
tante. Nella carrozza sedeva un uomo con un berretto
simile a quello degli ufficiali francesi, con baffi e barba
e una faccia abbronzata e riarsa dal sole che per di
più recava le tracce di fucilate e di sciabolate. Era av­
volto in un burnous simile a quelli che usan recare dal­
l’Africa i soldati di Francia e appoggiava i piedi su una
immensa pelle di leone distesa sul fondo della carrozza;
sul sedile di fronte erano posati una spada, una pipa ara­
ba di media lunghezza ed altri oggetti esotici.
L’individuo, pur facendo la faccia seria, spalancava gli
occhi cercando evidentemente lì intorno una casa, con
l’aria di chi si desti da un sonno pesante. Balzò quasi in­
ciampando dalla carrozza che s’era fermata in mezzo alla
piazza, ma prese poi la spada e la pelle di leone e s’awiò
a passi sicuri verso la casetta della vedova, come se ne
fosse uscito un’ora prima. La madre ed Estherchen vi­
dero tutto questo con grande stupore e curiosità e tesero
l’orecchio per sentire se lo straniero saliva le scale. Esse
infatti, pur avendo parlato poco prima di Pankraz, in
quel momento non immaginavano che fosse lui, e il loro
pensiero era stato anzi trascinato mille miglia lontano dal­
la sorpresa e dalla curiosità. Ma d’un tratto lo riconob­
bero alla maniera con cui superò d’un salto gli ultimi
gradini, afferrando quasi subito, passato il pianerottolo,
la maniglia della porta, dopo aver fulmineamente ricac­
ciato nella toppa la chiave male infilata, proprio come so­
leva sempre fare da ragazzo lo scomparso, il quale, mal­
grado la sua fannullaggine, aveva sempre serbato un vivo
senso dell’ordine. Lanciarono un grido e rimasero lì, come
paralizzate, accanto alle loro sedie, con la bocca spalan­
cata e gli sguardi tesi verso la porta che si apriva. E sulla
porta c’era proprio lo straniero Pankraz, dal volto adusto
e austero di soldato, ma con uno strano guizzo attorno agli
occhi, mentre la madre tremava alla sua vista, non sa­
pendo che fare, ed Estherchen stessa per la prima volta
era del tutto attonita e non osava muoversi. Ma questo
PANKRAZ L’IMBRONCIATO lì

durò un momento soltanto; il signor colonnello, giacché


a tanto era giunto il figliuol prodigo, si tolse subito il ber­
retto con la cortesia e il rispetto imparati nei duri fran­
genti della vita, cosa che mai prima avrebbe fatto en­
trando nella stanza. Un’inesprimibile cordialità (come
almeno parve alle due donne che mai l’avevan veduto
cordiale né tale lo potevan pensare) si diffuse sul suo
volto rugoso ma non vecchio di soldato, facendone bril­
lare i denti candidi mentre correva loro incontro e le
stringeva ambedue fra le braccia in uno scoppio di pas­
sione.
La mamma aveva a tutta prima tremato di fronte al
figlio dall’aria marziale, che essa supponeva ancora cat­
tivo, ma palpitò poi di trepida beatitudine quando si
sentì stringere fra le braccia del reduce, che già l’aveva
incantata col suo rispettoso saluto e col lampeggiare di
una nuova gentilezza, quale soltanto commozione e penti­
mento possono suscitare. Quel ragazzino aveva infatti co­
minciato ancora prima dei sette anni a sottrarsi alle sue
tenerezze e sin da quel tempo, con amara ritrosia ed osti­
natezza, s’era ben guardato dallo sfiorare anche solo con
un dito sua madre, senza contare le innumerevoli volte
in cui era andato a coricarsi imbronciato e senza augurar
la buona notte. Le parve dunque un istante incredibile
e meraviglioso, tale da compendiare un’esistenza intera,
quello in cui, dopo ben treni’anni, si vide per così dire
per la prima volta abbracciata da suo figlio. Anche a
Estherchen il mutamento d’indole del fratello parve cosi
serio e importante che, mentre mille volte aveva deriso
il suo broncio, non ebbe ora la forza di salutare con una
risata la sua convertita gentilezza, e anzi s’avviò con gli
occhi inondati di lagrime verso la sua sediolina e rimase
incantata a guardare Pankraz.
Questi fu il primo che dopo alcuni istanti si riprese e da
buon soldato trovò una via d’uscita e una soluzione al­
l’imbarazzo andando a prendere il proprio bagaglio. La
mamma voleva aiutarlo insieme a Estherchen, ma egli
la riaccompagnò con estrema amorevolezza alla sua sedia
e permise soltanto che la sorella scendesse alla carrozza
ι8 LA GENTE DI SELDWYLA

caricandosi di pochi oggetti leggeri. L’ulteriore svolgi­


mento della scena fu merito di Estherchen, che riacqui­
stò presto il buon umore e non seppe trattenersi dall’af-
ferrare la pelle di leone per la lunga coda possente, tra­
scinandosela dietro sul pavimento, ridendo a crepapelle e
ripetendo di continuo:
— Ma che pelliccia è mai? Che mostro è questo?
— Questo — disse Pankraz ponendo un piede sulla
spoglia — tre mesi or sono era ancora un leone vivo e
l’ho ucciso io. È stato questo signore a istruirmi e a
convertirmi tenendomi una predica di dodici ore tan­
to persuasiva che alla fine io miserello fui guarito per
sempre dal fare il muso e dal serbar rancore. In memoria
di ciò non mi staccherò mai da questa pelle. È stata pro­
prio una bella storia ! — aggiunse con un sospiro.
Prevedendo che le due poverette, se le avesse trovate
in vita, non avrebbero avuto in casa nulla di prelibato,
Pankraz, passando per l’ultima città, aveva comprato
una cassetta di buon vino e un cesto di cibi eccellenti,
in modo che a Seldwyla non ci fosse poi bisogno di uscire
per acquisti e che egli potesse cenare in piena tranquillità
insieme alla madre e alla sorella. La madre non ebbe così
che da apparecchiare la tavola su cui Pankraz dispose al­
cuni polli arrosto, uno splendido pasticcio in gelatina, un
pacco di pasticcini ed altre leccornie. E ancora : lungo la
strada aveva ricordato la povera lucemetta a olio che
mandava ben scarsa luce, e come spesso s’era adirato
per la misera illuminazione che gli impediva di trovare le
sue coserelle, e ciò benché la madre, che pur aveva occhi
più stanchi dei suoi, solesse spingergli la lucerna sotto il
naso, con grande spasso di Estherchen pronta a rubar­
gliela ad ogni momento. Ah ! Una sera egli l’aveva per­
sino spenta piangendo per la stizza e quando la mamma
l’aveva riaccesa con un sospiro, era stata Estherchen a
spegnerla un’altra volta ridendo, dopo di che egli era
corso a letto col cuore spezzato dalla rabbia. Questi e
tanti altri ricordi gli eran tornati per via e, mentre con
dolore ed angoscia moriva dall’impazienza di sapere se
avrebbe riveduto le due abbandonate, aveva comprato
PANKRAZ L’IMBRONCIATO 19

anche alcune candele di cera ; ne accese ora due così che


le donne non finivan d’ammirare tutto quello splendore.
Fu dunque come un piccolo pranzo di nozze nella ca­
setta della vedova, ma più tranquillo, e Pankraz si valse
della luce delle candele per studiare i volti invecchiati del­
la madre e della sorella e questa vista lo turbò più di tutti
i pericoli che aveva dovuto affrontare. Si immerse in
profonde meditazioni melanconiche sulla natura e sulla
vita, su come proprio le nostre qualità secondarie, un’in­
dole cordiale o aspra, non soltanto determinino la nostra
sorte e fortuna, ma anche quelle di chi ci circonda, po­
tendo farci colpevoli verso costoro senza che noi quasi ce
ne rendiamo conto, non essendo stati noi a sceglierci il
nostro carattere. Fu tuttavia distolto da queste medita­
zioni dai vicini, che non avevano più saputo dominare la
curiosità e arrivavano l’uno dopo l’altro in casa della ve­
dova per vedere la bestia rara, essendosi ormai diffusa
in tutta la cittadina la voce che era ricomparso Pan­
kraz, e precisamente come generale francese, in un tiro
a quattro.
Questo fu un caso estremamente complesso per i Seld-
wylesi radunati nei loro locali di divertimento, per i vec­
chi come per i giovani, e tutti si grattavano la testa per­
plessi, perché era contro l’ordine e le norme di Seldwyla
che uno piovesse d’un tratto dal cielo, in veste di uomo
arrivato e di generale proprio nell’età in cui si era belli
e finiti. Che cosa intendeva fare? Stabilirsi davvero in
città senza essere uno dei tanti decaduti e restarci per tut­
to il resto della vita, magari invecchiandoci? Ma come
aveva mai fatto? Che cosa aveva combinato, per tutti i
diavoli, quel ragazzo trascurabile e insignificante, du­
rante la sua giovinezza, senza ridursi male? Questo era
il problema che turbava tutti gli spiriti, né trovavano la
chiave per risolvere l’enigma, perché la loro conoscenza
degli uomini e delle anime era troppo meschina per sa­
pere che appunto l’indole aspra ed amara, pur procuran­
do a lui e ai suoi tanti acerbi dolori, aveva d’altra parte
ben conservato la sua intima essenza, come l’aceto forte
conserva un pezzo di carne di montone, e l’aveva aiutato
20 LA GENTE DI SELDWYLA

a superare la pericolosa età fulgente dei Seldwylesi. Per


risolvere il problema, si cominciò dal porre in dubbio la
verità stessa dell’evento, e per confermare tale ipotesi
vennero inviati nella piazzetta parecchi vecchi falliti,
così che Pankraz, i cui vicini già accorsi appartenevano a
quella classe, si vide circondato da una intera assemblea
di curiosi e bonari uomini mancati, come un antico eroe,
sceso negli inferi, dalle ombre che accorrono verso di lui.
Accese allora la sua pipa turca riempiendo la stanza
del profumo esotico del tabacco orientale; le ombre, o i
falliti, annusavano sempre più incuriosite quelle nuvole
azzurre, ed Estherchen e la madre ammiravano stupe­
fatte la giovialità e l’abilità con cui Pankraz sapeva in­
trattenere la gente e la cortese ma ferma disinvoltura con
cui sciolse alla fine l’adunata, quando gli parve ne fosse
giunta l’ora.
Ma poiché le gioie basate sulla felicità domestica e sui
lieti eventi familiari hanno il dono, anche dopo lunghissi­
me sofferenze, di ringiovanire e ingalluzzire coloro che le
godono, invece di renderli esausti come è delle eccitazioni
del mondo esterno, così la vecchia madre, non meno
dei due figlioli, non avvertiva stanchezza né sonnolenza,
ed anzi, riscaldata dal buon vino bevuto con piacere,
volle alla fine, insieme alla figlia ancor più impaziente,
qualche precisa notizia sulla sorte di Pankraz.
•— Non posso ora — cominciò questi — raccontarvi per
esteso la mia melanconica storia, e certo ci sarà tempo per
esporvi a poco a poco, nei particolari, le mie vicende. Oggi
ve ne voglio dare solo alcuni accenni, quanto è necessario
per giungere alla conclusione, cioè al mio ritorno e al
modo in cui fu deciso, giacché esso fa da perfetto ri­
scontro alla mia fuga di un tempo e ne ha la stessa
origine. Quando, allora, me la svignai in quel modo ver­
gognoso, ero pervaso da un inestinguibile sdegno e tor­
mento, non contro di voi, bensì contro me stesso, contro
questo paese, questa inutile città, contro tutta la mia
giovinezza. Di ciò mi son reso conto solamente più tardi.
Quando mi arrabbiavo, quasi sempre per il mangiare, e
vi tenevo il broncio, la ragione segreta era il mio rodi­
PANKRAZ I.’IMBRONCIATO 21

mento di non guadagnarmi quel cibo, perché non stu-


diavo e non lavoravo, anzi perché niente mi incitava a
un’attività e non vi era quindi speranza che mai le cose
mutassero. Tutto quel che vedevo far dagli altri mi sem­
brava pietoso e stolido; persino il vostro eterno filare mi
appariva insopportabile e mi dava il mal di capo, benché
esso provvedesse ai bisogni del mio ozio. Fuggii cosi in una
notte di cupa disperazione e camminai per sette ore. Al
levar del sole scorsi dei contadini che facevano fieno su un
gran prato ; senza dire una parola né chiedere nulla, de­
posi il mio fardelletto, presi un rastrello o un forcone e
lavorai come un ossesso insieme a quella gente con la
massima abilità, giacché durante il mio vagabondare
qui intorno avevo ben studiato tutti i gesti e i modi di
chi lavorava, pensando anzi sovente che essi davan di
piglio all’uno o all’altro strumento con goffaggine, e co­
me si sarebbe dovuto esser ben più svelti per potersi dire
un giorno buoni operai.
Quelli mi guardarono stupiti, e nessuno mi ostacolò
nel mio lavoro; quando fecero il primo spuntino, fui in­
vitato, il che era stato appunto il mio scopo, e poi lavorai
sino a che venne il pranzo, che mangiai pure di ottimo
appetito. Ma i contadini stupirono anche più e mi segui­
rono con risatine sconcertate allorché io, invece di riaf­
ferrare il forcone, mi pulii la bocca, ripresi il fagottino e
senza perdermi in parole, proseguii per la mia strada. Mi
stesi a terra in un fitto e fresco boschetto di faggi e dormii
sin verso il crepuscolo, poi balzai in piedi, uscii dal bosco
e studiai il cielo, dove cominciavano ad occhieggiare le
stelle. La posizione degli astri era fra le poche cose da me
studiate durante il mio ozio, e avendovi riscontrato grande
ordine e puntualità, sempre me ne ero compiaciuto, tanto
più che queste creature splendenti non sembravano os­
servare tale puntualità per un salario o per una zuppa di
patate, ma facevano soltanto quel che non potevano tra­
lasciar di fare, come per loro spasso, e per di più vi riu­
scivano bene. Siccome d’altra parte, avendo imparato
a memoria il nostro libretto di geografia, per semplice
che fosse, io conoscevo anche la terra, seppi orientarmi
22 LA GENTE DI SELDWYLA

bene e decisi sull’istante di attraversare tutta la Germania


dirigendomi verso nord sino a raggiungere il mare. Cam­
minai dunque la notte intera per ben otto ore e col primo
sole giunsi ad una località selvatica e solitaria sul Reno,
dove proprio sotto i miei occhi un barcone carico di sac­
elli di grano si incagliò in una secca, cosi che l’acqua
inondava una parte della merce. Non essendoci che tre
uomini sul barcone e non potendosi scorgere a quell’ora
e in quel punto deserto nessun altro, fui il benvenuto
quando mi diedi ad aiutare l’equipaggio a portare a riva
il pesante carico e a disincagliare poi lo scafo, disponendo
il grano inumidito su tavole al sole, rimestandolo bene e
ricaricandolo quindi sul barcone. Questo però ci occupò
buona parte della giornata ed io trovai intanto occasione
di dividere parecchi ottimi pasti coi battellieri; anzi,
quando ebbimo finito, mi diedero un poco di denaro e,
a mia richiesta, mi traghettarono sull’altra sponda a mez­
zo della piccola scialuppa legata dietro il grosso barcone.
Di là mi trovai su una montagna boscosa e dormii su­
bito sino a notte, rimettendomi poi in marcia e cammi­
nando sino all’alba successiva. Per dirvela in poche pa­
role, con questo metodo in poco più di due mesi giunsi ad
Amburgo, sempre afferrando, di giorno, ogni lavoro che
si offrisse, senza troppo parlare con la gente e andando­
mene non appena sazio per riprendere di notte il cam­
mino. Il mio modo di fare ogni volta lasciava la gente
stupefatta, cosi che nessuno mi si opponeva e, se taluni
volevan mostrarsi indispettiti o curiosi, io ero già bell’e
lontano. Siccome evitavo le città e i miei rapporti di la­
voro si svolgevano tutti all’aperto, per i monti o per i
boschi, dove non c’era che gente semplice e primitiva,
viaggiai davvero come al tempo dei patriarchi. Non
vidi mai nulla dei diversi regimi di quegli Stati che
attraversavo e la mia sola cura era di passare appunto
per tali terre senza elemosinare, senza sentirmi obbligato
verso nessuno per il mio nutrimento, facendo quel che
m’accomodava e soprattutto riposando quando volevo e
marciando quando mi piaceva. Più tardi, naturalmente,
ho anche imparato ad attenermi a un saldo ordinamento
PANKRAZ L’IMBRONCIATO 23

esterno a me e a una regolare continuità, ma, come avevo


appreso di colpo a lavorare, così imparai subito anche
quello senza sforzi particolari, appena ne compresi la
necessità.
La vita all’aria aperta, alternando lavoro pesante, nu­
trimento abbondante e riposo sereno, mi giovò non poco,
e le mie membra vennero così esercitate che quando arri­
vai nella grande città commerciale di Amburgo ero un
uomo robusto ed energico. Corsi subito al mare e mi
mescolai agli uomini che là si aggiravano intenti al carico
delle navi. Dato che aiutavo dappertutto senza perder
tempo a guardare, ma stando attento e senza sciupare
parole né torcere mai la bocca, quella gente aspra e taci­
turna mi accettò senz’altro e io trascorsi una settimana
con loro, dopo la quale m’imbarcarono clandestinamente
su un mercantile inglese, il cui capitano mi accolse a patto
che lo aiutassi nel lavoro privato cui si dedicava durante la
navigazione. Tale lavoro consisteva nel ricomporre o ri­
parare armi da fuoco d’ogni genere, vecchie e sciupate,
che egli acquistava in quantità ad ogni scalo nel vecchio
mondo. Erano strani e misteriosi strumenti di morte che
ricostruiva con terribile passione, per barattarli poi alla
prima occasione lungo le coste esotiche con preziosi pro­
dotti della pace o con miti prodotti naturali. Mi dedicai
tranquillo al mio lavoro, imparandolo abbastanza presto
e riducendomi ben sudicio di olio, di carta vetrata e di li­
matura, come un perfetto armaiolo. Quando una di quelle
strane pistole era rabberciata alla meglio, la si provava
con un colpo rimbombante, mai, però, più d’uno, la­
sciando la continuazione ai compratori pellirosse o negri
nelle loro isole remote. Quella volta però la nave si recava
soltanto a New York e di lì tornava in Inghilterra, dove
io, ormai bene addestrato nell’arte dell’armaiolo, mi con­
gedai e mi feci senz’altro arruolare in un reggimento
destinato alle Indie Orientali.
A New York ero bensì sbarcato e avevo veduto per al­
cune ore la vita americana, che avrebbe in verità dovuto
piacermi, poiché ognuno faceva quel che voleva e si mo­
veva a tutto suo agio e capriccio, passando da un’occupa-
24 LA GENTE DI SELDWYLA

zione all’altra a seconda che gli piacesse, senza vergo­


gnarsi di alcun lavoro, né ritenerne uno più nobile dell’al­
tro. Ma, non so come fu, m’affrettai a risalire sulla mia
nave invece di rimanere nel nuovo mondo, finendo
cosi nella parte più antica e più fantastica della sfera ter­
restre, nell’antichissima, torrida India, e capitandoci in
giubba rossa, da silenzioso soldato inglese. Non posso dire
che mi spiacesse la nuova esistenza che già s’era iniziata
sulla nave ove era imbarcato il nostro reggimento. Già,
anzi, mi piacque moltissimo la circostanza che noi tutti,
quanti eravamo, fossimo nutriti con la massima puntua­
lità e regolarità, tanto che ciascuno riceveva la sua razione
con la sicurezza con cui procedono le stelle in cielo, e
nessuno più o meno dell’altro, senza possibilità che l’uno
facesse scapitar l’altro, e in special modo mi piacque che
nessuno fosse tenuto a renderne grazie e che tutto trovasse
la sua sola giustificazione nella nostra bene ordinata esi­
stenza. Benché noi reclute dovessimo essere istruite già
a bordo con esercizi giornalieri, tale occupazione mi pia­
ceva oltre misura, giacché noi non dovevamo brandire la
baionetta per infilare con abilità una patata, ma si tratta­
va di un mero esercizio per nulla connesso al mangiare, in
cui bastava esser sempre attenti e puntuali per non avere al­
tri pensieri. Subito, al secondo giorno della traversata, vidi
picchiare un soldato che, dopo essersi già reso colpevole di
alcune irregolarità, aveva brontolato contro un suo supe­
riore. Mi proposi subito di non incappare in tale situazione
e qui mi venne ottimamente in aiuto il mio malvezzo di
fare il muso, facilitandomi una puntualità e un’attenzione
silenziose e dandomi la possibilità di non cadere mai in
fallo.
Diventai così un ottimo e scrupoloso soldato; mi faceva
piacere capir bene ogni cosa ed eseguirla come ci era
prescritto e, quando ci riuscii, mi sentii finalmente abba­
stanza soddisfatto, senza però spendere più parole che in
passato. Solo di rado diventavo appena un poco allegro
e mi lasciavo andare a un mezzo scherzo, il che diede l’ul­
timo tocco alla mia figura di soldato come si deve, e im­
pedì in pari tempo che mi si prendesse in uggia. Insomma,
PANKRAZ L’IMBRONCIATO 25

trascorso appena un anno in quello strano e torrido paese,


cominciai ad esser promosso e divenni alla fine un ap­
prezzato sottufficiale. Dopo alcuni anni ero divenuto a
modo mio un pezzo grosso, ero per lo più assegnato agli
uffici del comandante del reggimento e mi ero rivelato
un buon amministratore, riuscendo a impratichirmi sul
momento e senza alcuno sforzo mentale nelle arti in­
dispensabili, nella scrittura e nella contabilità. Tutto mi
andava ormai liscio ed io mi sentivo contento di star­
mene senza fatica e senza crucci sotto quel bel cielo az­
zurro; tutto quello infatti che mi toccava di fare pareva
venir da sé, e io non avvertivo differenza se andavo at­
torno per servizio o per diporto. Il cibo non era ormai
più per me qualcosa di essenziale, e a malapena sapevo
se e che cosa mangiavo. Due volte durante quel periodo
vi avevo mandato notizie e alcuni risparmi, ma ambedue
quelle navi, per uno strano caso, fecero naufragio e io ri­
nunciai irritato, proponendomi di rimpatriare io stesso
appena possibile, per far buon uso in patria della mia
acquisita capacità di lavoro e delle mie solide abitudini
di vita. Pensavo di portar con ciò a Seldwyla un tesoro
più prezioso che se ci avessi portato un milione, e già
immaginavo come avrei apostrofato quei farfalloni e man­
giatori di pesci se mi fossero capitati tra i piedi.
Ma doveva passar ancora del tempo e io dovevo anco­
ra imparare molte cose ed essere così trasformato e scosso
nella mia natura da perder la voglia di prendermela con
gli altri. Il comandante aveva fatto di me il suo factotum,
e io dovevo passar quasi tutto il mio tempo da lui. Era
uno strano uomo, di circa cinquant’anni, la cui moglie,
poiché viveva in Irlanda in un antico maniero, doveva
essere, se possibile, ancor più bizzarra di lui. Sin che ave­
vano vissuto insieme, erano andati avanti a sbuffi rabbiosi
come due gatti selvatici, soffrendo ambedue dell’idea fissa
di essersi reciprocamente sbagliati sposandosi, mentre in
fondo nessuno meglio di loro era fatto l’uno per l’altra.
Erano del resto sani e vispi e vivevano comodamente con
la loro fissazione, senza la quale non avrebbero saputo co­
me passare il tempo, e, quando erano lontani, l’uno si
26 LA GENTE DI SELDWYLA

preoccupava dell’altro con commovente sollecitudine.


L’unica figliola, di nome Lydia, viveva invece quasi sem­
pre presso il padre e gli era devota e affezionata, poiché
la differenza di sesso, anche fra padre e figlia, faceva sì che
essa provasse per il padre una più tenera pietà che per la
madre, benché in quella unione, ritenuta infelice, l’uno
non valesse meno dell’altro.
Il comandante aveva una bella e ariosa dimora fuori
di città, in una valle tutta piantata a palme, cipressi e
sicomori. Sotto quegli alberi, attorno alla casetta bianca,
erano disposti dei giardini e degli orti ove si coltivavano
in parte verdure sempre fresche e in parte innumerevoli
fiori, che per vero dire in quel paese crescono selvatici
in ogni cantuccio, ma che al comandante piaceva avere
raccolti in gran copia vicino a lui, così che fra le ombre
verdi degli alberi spiccavano chiazze splendenti di fiori
bianchi e purpurei. Quando non v’era nulla da fare
per il servizio, io, come uomo di fiducia, avevo anche il
compito di tener in ordine quei giardini e inoltre, perché
non mi abituassi troppo alle mollezze, di andare a caccia
col mio colonnello, così che divenni per giunta un abile
cacciatore; infatti subito dietro la valle cominciava una
landa selvaggia che finiva in regioni montagnose e deserte,
le quali ospitavano non soltanto abbondanti frotte di in­
nocente selvaggina, ma anche di tanto in tanto belve
feroci, e specialmente grandi tigri. Quando una di queste
si faceva viva, si iniziava una spedizione per darle la cac­
cia, e in tali occasioni imparai a conoscere il pericolo mol­
to prima che mi capitasse di combattere contro gli uo­
mini. Quando però non c’era altro da fare, mi toccava
giocare agli scacchi col vecchio signore, sostituendo sua
figlia Lydia che, non avendo alcuna disposizione e gio­
cando molto puerilmente, gli dava troppo poco gusto. Io
invece mi ci ero addestrato abbastanza da tenergli testa,
senza con ciò privarlo troppo spesso della vittoria e, se la
mia attenzione non si fosse più tardi distratta per altri
motivi, avrei presto superato il fiero vecchio.
Ero diventato in tal modo la più singolare istituzione del
mondo: mi aggiravo solenne e taciturno sotto quei pai-
PANKRAZ L’IMBRONCIATO 27

mizi nella mia uniforme scarlatta, con in mano una sot­


tile canna di bambù e con la testa avvolta in un bianco
turbante a protezione dal sole torrido. Ero soldato, am­
ministratore, giardiniere, cacciatore, amico di casa, non­
ché damo di compagnia di qualità singolarissima, giac­
ché non pronunciavo mai parola. Infatti, pur non te­
nendo più il broncio e sentendomi discretamente soddi­
sfatto, ero ormai così avvezzo a tacere che la mia lingua
non si muoveva più, se non per un comando o per una
bestemmia contro un soldato indisciplinato. Ma appunto
quelle maniere piacevano al colonnello e io rimasi così
circa cinque anni presso di lui, un giorno dopo l’altro, con
la libertà di fare quel che mi piaceva quand’ero fuori ser­
vizio. Adoperai il mio tempo libero a leggere e rileggere
di contìnuo la dozzina di libri che il vecchio signore pos­
sedeva e, poiché erano tutti abbastanza grossi, da essi
imparai a conoscere uno strano aspetto del mondo. Ero
un lettore tranquillo e zelante, che si era formato un’istru­
zione senza ben sapere se nel mondo ciò avesse o non aves­
se valore, come dovetti di lì a poco sperimentare. Benché
infatti avessi già visto e vissuto molte cose, ciò era sem­
pre avvenuto per così dire a zone, e la maggior parte del­
la realtà giaceva al di là delle zone per cui ero passato.
Il mio comandante alla fine venne nominato governa­
tore di tutta la provincia ove risiedevamo ; desiderò con­
servarmi accanto a sé e ottenne il mio trasferimento dal
reggimento, che stava per ritornare in Inghilterra, ad un
altro in arrivo, cosicché continuai ad aver modo di star con
lui tanto come militare che nelle altre mie qualità, e ciò
mi tornava molto gradito perché rimanevo un uomo in­
dipendente che non aveva al di sopra di sé altro padrone
fuorché la bandiera.
In quell’epoca, dall’antico castello irlandese giunse an­
che la figlia, per vivere definitivamente col padre gover­
natore. Ragazza di grande bellezza, non era però soltanto
avvenente, bensì anche una donna che sapeva il fatto suo
e dava subito l’impressione che chi si fosse innamorato
di lei non avrebbe trovato dietro ogni angolo un surrogato
o una consolazione, appunto perché essa appariva una
28 LA GENTE DI SELDWYLA

personalità completa e indipendente di cui non esisteva


un secondo esemplare. Inoltre tale nobile indipendenza
sembrava accoppiarsi alla più ingenua semplicità e bontà
di carattere ; e in tale bontà c’era quella limpida spregiu­
dicatezza che, unita a decisione ed energia, conferisce
una vera superiorità e, anzi, l’apparenza di una supe­
riorità arcana e geniale a chi in fondo non è che una
creatura affettiva, spontanea e originale. Essa era cólta in
mille belle cose, avendo trascorso l’infanzia e la giovinez­
za, come sogliono simili fanciulle, nell’imparare tutto ciò
che conviene; conosceva persino quasi tutte le lingue mo­
derne, senza che lo si notasse troppo, così che gli uo­
mini ignoranti in sua compagnia non provavano subito il
terribile disagio di saperne meno di una signorinella inu­
tile come una bella pianta ornamentale. In generale la sua
mente sana e ben preparata si rivelava precipuamente nel
suo modo di giudicare e trattare con estrema sicurezza gli
eventi o gli oggetti maggiori e minori, e inoltre i suoi pen­
sieri e le sue parole erano semplici, gentili e precisi quanto
il tono della sua voce e le movenze del suo corpo. E per
coronamento essa era, come ho detto, tanto puerile, tanto
poco astuta da non riuscire a giocare una seria partita di
scacchi, pur restando alla scacchiera con serenissima pa­
zienza a subir rimbrotti dal genitore. Per questo, vicino a
lei ci si sentiva a posto e come a casa propria; si pensava
subito che essa fosse il vero Giacobbe fra le donne, e la
miglior donna del mondo. Naturalmente a questo contri­
buivano i bei capelli biondi e gli occhi azzurro cupo, dallo
sguardo quasi sempre serio e schietto, anche perché la sua
bellezza, per notevole che fosse, era pervasa di modestia
tutta femminea, dando in pari tempo il senso di qualcosa
di unico: essa insomma, per ridirlo ancora in breve, era
una personalità. O meglio, io trovo che tale sembrava,
ma poi lo sa Dio se fosse proprio così o se dipendesse da
me quell’apparenza ingannatrice, insomma . . .
Pankraz a questo punto dimenticò di proseguire e si
immerse in melanconiche riflessioni, atteggiando il volto
a una espressione per nulla militare e quasi sempli­
ciotta. Le due candele eran più che dimezzate, madre e
PANKRAZ L’IMBRONCIATO 29

figlia, tutte insonnolite, ciondolavano la testa, incapaci


di udire o di vedere altro ; da quando Pankraz aveva co­
minciato la descrizione della sua presunta innamorata,
erano state còlte dal sonno, ed ora lo piantarono del tutto
in asso, addormentandosi sul serio. Fortunatamente per
la nostra curiosità, il colonnello non se ne avvide, e
avendo ormai dimenticato a chi parlasse, riprese senza
alzare gli occhi, simile a chi non sa più trattenersi dal
confidare qualche cosa che ha lungamente taciuto.
— Fino a quel tempo, non avevo mai studiato una
donna da vicino e ne sapevo e ne capivo come un rino­
ceronte si intende di musica. Non che non le avessi guar­
date sempre volentieri, appena avevo potuto sbirciarle
inosservato e senza fatica, ma mi ripugnava oltre misura
entrare anche nella più breve conversazione con una di
esse, giacché mi era sempre parso che non c’era cosa ra­
gionevole, chiara e precisa che avesse qualche importanza
per una donna, e che ad esse fosse impossibile rimanere in
argomento anche per sole sei parole consecutive, che il
loro scopo precipuo fosse, appena formulata un’idea buo­
na e logica, di farla subito seguire da un’enorme scioc­
chezza o bizzarria. Esse fanno poi passare tutto questo per
grazia e volubilità femminile, mentre si tratta in fondo di
slealtà, e di slealtà tanto più riprovevole in quanto è ac­
compagnata dall’intenzione in parte cosciente di abban­
donarsi più comodamente, dietro questo schermo con­
fuso, ad ogni cattivo istinto e ad ogni stramberia. Per que­
sto serbavo rancore a tutto il sesso femminile, non degnan­
dolo mai di uno sguardo palese. In India, quando mi sen­
tivo più contento e non nutrivo quindi rancori, c’erano
donne in abbondanza, sia di sangue indiano che inglesi,
giacché molti commercianti, ufficiali e soldati avevano
con sé le loro famiglie. Ma le indigene, che eran belle come
i fiori e a vederle e sentirle sembravano buone come lo
zucchero, non erano altro che belle e dolci e non mi com­
movevano affatto, poiché bontà e bellezza senza sale e sen­
za combattività mi sembravano doti noiose : pensavo che
sarebbe stato molto spiacevole avere una donna, che, una
volta mia, non sarebbe stata in grado di difendersi dalle
3° LA GENTE DI SELDWYLA

mie musonerie. Le donne europee, da me là conosciute,


quasi tutte provenienti dalla Gran Bretagna, sembravano
combattive, ma non erano tanto buone o, se anche lo
erano, praticavano bontà ed onestà come un’occupazione
orrendamente prosaica e casalinga, e persino della loro no­
bile femminilità, di cui tanto si vantavano queste consa­
pevoli e rispettabili damine, si valevano piuttosto da me­
schini droghieri che da vere donne. Qui si pesa un’oncia
di spezie e là se ne ravvolge con gran cura un’altra nel
cartoccio di carta porosa della rispettabilità borghese.
Avevo inoltre l’impressione che, nell’intimo di tutte queste
bellezze o non bellezze occidentali, albergasse un ele­
mento di profonda volgarità, la malattia del nostro tempo,
che esse non possono aver acquisito se non dal nostro sesso,
da noi signori uomini europei ; ma che in esse diventa un
male nuovo e doppio. Son brutti tempi, in cui i due sessi
scambiano le loro malattie infettandosi l’un l’altro delle ri­
spettive debolezze. Tali erano i miei pensieri ignari ed
ipocondriaci intorno alle donne, che costituivano la base
della mia condotta di fronte a loro, dell’andar cioè per la
mia strada senza curarmi di nessuna.
Quando però arrivò da noi la bella Lydia ed io le vissi
vicino giorno per giorno, tutta la mia saggezza subì un
gran colpo e poi crollò. Mi sentivo subito di ottimo umore
quando ella era presente, pur non sapendo bene che cosa
ne avrei ricavato. Ero molto stupefatto di non provare ver­
so di lei né rancore, né disprezzo, né compatimento e nep­
pure la voglia di sbirciarla di nascosto; mi compiacevo
anzi schiettamente della sua esistenza, la guardavo senza
sfacciataggine ma con aperta libertà quando avevo da
far qualcosa accanto a lei. Questo mi tornava tanto più
facile in quanto, nella mia condizione di umile soldato, io
non potevo rivolgerle mai la parola se non interrogato e
quindi non avevo altro comportamento da osservare che
quello di un rigido e serio graduato. Il tacere poi, specie
con le donne, era diventato una seconda natura per la
mia musoneria di tanti anni, così che non avrei saputo
fare un’eccezione neppure se fosse stato lecito. Sentivo
tuttavia una benevolenza viva e inconsueta per quella
PANKRAZ L’IMBRONCIATO 31

persona, nel mio intimo avevo per lei una grande simpa­
tia e per amor suo mutai la cattiva opinione che avevo
sulle dorme, pensando che in realtà non dovessero essere
poi tanto male o che, almeno in avvenire, in grazia di
quell’unico esemplare, avrebbero trovato in me maggior
indulgenza. Ero molto lieto quando Lydia era presente o
quando io trovavo occasione di recarmi da lei; ma non
facevo per questo neppure un passo che non fòsse giusti­
ficato dalla situazione; anzi, se mi trovavo nella mede­
sima stanza, non guardavo nemmeno dalla sua parte sen­
za un preciso ragionevole motivo, ma mi sentivo pervaso
da un’immensa calma, come l’acqua del mare quando non
v’è un alito di vento e per di più vi splende sopra il sole.
Così andarono le cose per circa un semestre, un anno
e forse più, non so esattamente, giacché ho perduto la
nozione di quel tempo che mi appare come una sola
afosa giornata d’estate attraversata da sogni. Durante
quel periodo iniziale di cui ignoro la durata, tutto pro­
cedette bene e tranquillamente. La signorina, quantun­
que mi dovesse veder sovente, non aveva molto da dire o
da trattare con me, ma quando lo faceva, mostrava la
massima cordialità e non tralasciava mai di atteggiare
il suo bel volto a un sorriso puerilmente ingenuo, che io
ricambiavo riconoscente, prendendo un’aria molto rispet­
tosa e senza una piega nel mio viso, mentre le rispondevo :
«Benissimo, signorina», o anche, mentre la contraddicevo
con disinvoltura nei rari casi in cui si sbagliava. Quando
però essa non c’era o io mi trovavo solo, pensavo molto a
lei, ma per nulla da innamorato, bensì soltanto come un
buon amico o un parente sinceramente affezionato che
le augurasse ogni bene ed escogitasse di continuo buone
cose per lei. Vi fu per me, se ben ricordo, soltanto un lieve
mutamento in ciò : che nei miei rapporti col governatore
osservai un maggiore riserbo, ostentando un po’ di più
le mie doti di soldato dedito esclusivamente al proprio do­
vere, e serbando meglio nelle mie altre prestazioni le
forme dell’indipendenza. Io non ero infatti da lui stipen­
diato e, quando avevo sbrigato il lavoro d’ufficio per cui
mi si pagava, collaboravo al resto da uomo di fiducia, e
32 I.A GENTE DI SELDWYLA

solo quando se ne presentava l’occasione dividevo la ta­


vola con lui. Ero quindi, come già dissi, del tutto tran­
quillo e soddisfatto, ciò che, naturalmente, poteva mani­
festarsi solo nel modo a me peculiare.
Accadde che un giorno, mentre accudivo a non so che
lavoro sotto gli alberi ombrosi, Lydia mi raggiunse ben
tre volte nel corso di un’oretta, senza che avesse niente
di particolare da fare. La prima volta sedette su una
cesta capovolta a mangiare un panierino di ciliegie
mature, chiacchierando di continuo con me e obbligan­
domi a risponderle. La seconda volta venne, accostò la
cesta all’arbusto di rose che stavo potando, poi si sedette
e attaccò un nastro bianco di seta a una bella cuffietta
da notte o che altro fosse; non potevo distinguer bene,
perché non guardavo quasi mai dalla sua parte e le ri­
spondevo a mala pena essendo un poco imbarazzato. Se
ne andò ben presto, per tornare una terza volta con un
gioco di pazienza cinese artisticamente intagliato in avo­
rio: prese la cesta e la portò lontana, sedendosi poi di
nuovo e voltandomi la schiena mentre cercava di risol­
vere in silenzio il suo gioco. Allora la guardai fisso, sin che
essa, rimessosi in tasca il gioco, d’un tratto s’alzò e si al­
lontanò lanciando uno strano trillo armonioso, ma senza
volgersi più dalla mia parte. Tutto ciò non mi pareva
chiaro, non mi persuadeva, e la mia anima arricciò un
poco il naso di fronte a tale contegno; però da quel mo­
mento fui innamorato di Lydia.
Pervaso da un delizioso, lieve eccitamento lasciai il
mio rosaio, andai a prendere il fucile a due canne e quella
sera mi inoltrai nella zona selvaggia. Vidi molti animali,
ma dimenticai di sparare, perché, ogni volta che mi ac­
cingevo a prender la mira, ripensavo al contegno della
fanciulla e perdevo cosi di vista la selvaggina.
“Che cosa vuole da te e che significa tutto ciò?” mi
dicevo; però, mentre così discutevo con me stesso, già
nel mio cuore divampava un’infinita gratitudine per
tutte le cose possibili ed impossibili che forse si celavano
dietro quel suo atteggiamento, e ciò benché il mio senso
dell’ordine e la coscienza della mia modesta e poco at-
PANKRAZ L’IMBRONCIATO 33
traente persona insorgessero con il massimo vigore. Non
trovando una soluzione, finii per pensare che quella donna
in apparenza tanto bella e brava non fosse alla fine altro
che una creatura leggera e corrotta, pronta a darsi da
fare col primo venuto e tale da non disprezzare neppure
un meschino intrigo con un povero sottufficiale. Questa
aborrita conclusione mi diede tanto dolore e mi colpì
così imprevedutamente, che, acceso di rabbia, abbattei
un enorme cinghiale apparso in quel momento fra gli
alti cespugli, e la mia palla si ficcò nel suo cervello con
la stessa impreveduta e indesiderata rapidità con cui
10 sciagurato pensiero era penetrato nel mio. Mi parve
anzi che la belva fosse invidiabile, in confronto a me,
per quello che le era toccato. Sedetti sulla sua spoglia e
vidi passarmi davanti agli occhi la bella immagine di
Lydia: la scorsi chiaramente tornare quelle tre volte, ri­
trovai ogni suo gesto e riudii ogni parola. Ma strana­
mente questa memoria precisa risalì oltre quella giornata,
sino alla prima in cui l’avevo veduta, attraverso il tempo
in cui ero pur stato perfettamente tranquillo. Come, al­
lorché l’aria è trasparente per ravvicinarsi della pioggia,
si scorgono sulle montagne lontane molti particolari di
solito inavvertibili, come nel silenzio della notte si odono
le campane più remote, così scopersi con meraviglia che
di tutto quel periodo di tempo mi si era inconsciamente
impresso nella memoria ogni modo ed atteggiamento del­
la sua persona, ogni suo gesto; nel silenzio di quel luogo
selvaggio mi parve di riudire con estrema chiarezza quasi
ogni sua parola, anche la più indifferente e fugace. Tutte
queste meraviglie s’erano accumulate dunque in me nel
sonno o in segreto e l’evento di quella giornata non aveva
fatto che togliere il chiavistello alla porta serrata o gettare
la fiaccola accesa su un fascio di paglia. Fra questi pen­
sieri dimenticai la mia ira, dandomi totalmente a sfrut­
tare la mia buona memoria e non condonandole neppure
11 minimo lineamento che essa mi potesse comunque of­
frire dell’immagine di Lydia. M’awiai così adagio ada­
gio verso la nostra dimora abbandonandomi soltanto a
queste gradevoli fantasie; non seppi però più essere altret-
34 LA GENTE DI SELDWYLA

tanto disinvolto e tranquillo in sua presenza, e, non sa­


pendo cosa d’altro fare, evitai per quanto possibile
ogni rapporto con lei per darmi tanto più intensamente
a pensarla. Trascorsero così tre o quattro settimane sen­
za che accadesse nulla di particolare, quando m’awidi
che lei, pur osservando il massimo ritegno, non tralasciava
l’occasione di fare o di dire qualcosa a mio favore. Comin­
ciò a darmi sempre ragione, a compiacermi, ad adope­
rare espressioni da me usate e a giudicare le cose come
le solevo giudicare io. In ciò non vidi nulla di strano,
perché m’era sempre parso gradevole scoprire in lei le mie
identiche opinioni circa quel che è opportuno o sba­
gliato; essa rideva delle medesime cose che parevano
risibili a me e si irritava delle stesse assurdità, quando
se ne verificavano. Alla fine però la cosa fu molto chiara,
come se lei, pur non avendo quasi da scambiar parola
con me, cercasse di vivere per il mio piacere, e non al pari
di una civetta smaliziata, bensì come una bimba semplice
e ingenua, tanto che io piombai in un indicibile turba­
mento, non sapendo più come contenermi. Per cavarmela
mi rifugiai nella mia antica e ben perfezionata arte di
musone e in questa m’ostinai, anche perché mi sentivo
tutt’altro che felice di quello strano rapporto. Essa ne
parve sinceramente turbata e mortificata, abbattuta e
intimidita, il che produceva un effetto seducente nel con­
trasto colla sua indole risoluta ed energica, poiché le
donne, e tanto più quanto più sono meschine, non si è
avvezzi di solito a vederle brillare e conquistare in virtù
di una tale ritrosa modestia. Esse al contrario credono che
nulla meglio si confaccia loro di una terribile sicurezza ed
impudenza. Quando poi anche il vecchio governatore co­
minciò a stuzzicarmi e a beffarmi in modo a me incom­
prensibile e poco delicato, dicendo dieci volte in una
giornata: «Ma davvero, Lydia, tu sei innamorata di
Pankraz!» questo mi parve troppo; ritenevo infatti che
ciò fosse un brutto scherzo sconveniente e volgare nei
riguardi di sua figlia, perverso e rozzo nei miei riguardi, e
fui spesso in procinto di dirglielo in faccia e di lasciarlo
perdere. Realizzai, in parte, quest’ultimo proposito, rin­
PANKRAZ L’IMBRONCIATO 35
chiudendomi totalmente nel mio riserbo. Lydia divenne
triste, anzi sembrava persino pallida e sofferente, il che
molto mi tormentò, senza che sapessi porvi riparo.
Quando però, malgrado il mio contegno, essa riprese a
seguirmi e a venire con continui pretesti dove ero io, fui
alla disperazione, e nella mia disperazione cominciai a
intavolare con lei goffi e frammentari colloqui. Non si par­
lava di nulla, erano balbettìi inarticolati e senza nesso,
come se fossimo ambedue rimbecilliti ; ma ambedue sem­
bravamo non avvedercene e ci sorridevamo come fanno i
bimbi fra loro, giacché io pure dimenticavo intanto tutto
il resto, felice, infine, solo di quei brevi colloqui con lei.
La felicità non durava però più di due minuti, perché noi,
per mancanza di calma e di riflessione, perdevamo subito
il filo ed assomigliavamo poi a bambini che abbiano mes­
so insieme una collana e vedano poi con dolore sfuggire
tutte le belle perle. Passavano settimane prima che riu­
scisse di nuovo una di queste imprese e non facevo mai
il primo passo senza la preoccupazione di non dovermi poi
rimproverare qualcosa e di non far sciocchezze con queste
persone un po’ fuor del comune. Cento volte presi la de­
cisione di andarmene, ma il tempo mi passava così rapido
che dovevo sempre rimandare la cosa. Ormai i miei pen­
sieri non avevano altro oggetto e il mio stato d’animo
era davvero molto singolare.
Avevo già quasi esaurito i libri del governatore e non
sapevo più impararne nulla. Lydia, vedendomi tanto
spesso leggere, approfittò dell’occasione e me ne prestò
dei suoi. Fra essi vi era un volume grosso come una Bibbia
di famiglia, che aveva l’aria di un libro di devozione,
perché legato in pelle nera con taglio dorato. C’erano
invece solo drammi e commedie stampati in minutissimi
caratteri inglesi. Quel libro si chiamava lo Shakespeare,
che era poi il suo autore e di cui c’era anche il ritratto sul
primo foglio. Questo falso profeta seduttore mi mise in
un bel pasticcio. Egli infatti rappresenta il mondo sotto
tutti i suoi aspetti proprio come esso è veramente, ma solo
come è negli uomini completi che nel bene e nel male tes­
sono con pienezza di carattere la trama della loro esisten-
3θ I.A GENTE DI SELDWYLA

za e delle loro inclinazioni, e li rappresenta trasparenti


come cristallo, ognuno, a modo proprio, di acqua pu­
rissima, così che mentre i cattivi imbrattacarte dominano
e dipingono il mondo della mediocrità e della scolorita
meschinità, traviando le teste deboli e riempiendole di
mille insignificanti inganni, costui invece domina ap­
punto il mondo di quello che è completo e ben riuscito a
modo proprio, cioè come dovrebbe essere, e travia così
le teste sagge, quando esse s’illudono di vedere e di
ritrovare nel mondo reale quel mondo essenziale. Ah, esso
esiste certamente, ma non mai dove noi in quel momento
ci troviamo o quando vi viviamo noi ! Vi sono ancora mol­
te donne cattive e temerarie, ma senza il bel sonnambu­
lismo di Lady Macbeth e quel suo angoscioso strofinarsi
la piccola mano. Le avvelenatrici che noi incontriamo
sono soltanto impudenti e senza rimorsi, e sono capaci
persino di scrivere la propria storia oppure, appena scon­
tata la loro pena, aprono un negozietto. Vi sono molti
ancora che credono di essere degli Amieti, e se ne vantano,
senza avere un’idea degli abissi del cuore di un vero Am­
ieto. Qui vediamo un uomo sanguinario, senza però la
demoniaca e tuttavia umanissima virilità di Macbeth,
là un Riccardo III senza la sua arguzia e la sua facondia.
Qui una Porzia senza bellezza, là una senza ingegno, là
infine una terza che è intelligente, ma non saggia, e sa
bensì render infelici gli altri, ma non dare la felicità a se
medesima. I nostri Shylock vorrebbero una libbra della
nostra carne, ma non oseranno mai arrischiare a questo
scopo una spesa in contanti, e i nostri mercanti di Ve­
nezia non affrontano i pericoli per un allegro amico senza
soldi, ma per uno stolido imbroglio di azioni, e non ten­
gono poi mai dei così bei discorsi melanconici, e per di più
ci fanno una faccia da stupidi. In fondo, come ho già det­
to, tutta questa gente esiste nel mondo, ma non così ben
raggruppata come in quelle storie : non c’è mai un completo
mascalzone che si incontri con un uomo del tutto combat­
tivo, mai un pazzo perfetto unito a un allegrone di as­
soluto ingegno, tanto che non si arriva né a una vera
tragedia né a una buona commedia.
PANKRAZ L’IMBRONCIATO 37
10 lessi notti intere quel libro, e mi ci sprofondai total­
mente, poiché mi sembrava scritto con tanta perfezione e
concretezza, e inoltre una simile fatica mi pareva non
meno nuova che meritoria. Sembrandomi tutto il resto
così esatto, vero e completo e tanto che io lo scambiavo
per il mondo effettivo, mi fidai dell’autore anche, in par­
ticolare, per le donne da lui rappresentate, guidato e af­
fascinato com’ero dal bell’astro di Lydia, e credetti che
di là mi venisse la luce e la soluzione del mio lungo e
tormentoso turbamento.
Bene ! pensavo, vedendo le belle immagini di Desde-
mona, di Elena, di Imogene e di altre che, tutte spinte
dalla sublime sovranità della loro natura femminile, se­
guivano così strani messeri aggrappandosi a loro senza ri­
tegno al pari di ingenue fanciulle, nobili, forti e fedeli al
pari di eroi, immutabili e fide come le stelle del cielo.
Bene ! ecco qui il caso nostro ! Questa Lydia infatti non
è altro che uno di tali vascelli saldi, sicuri e veloci che
gettano l’àncora una volta soltanto e in profondità inson­
dabili, ben sapendo che cosa vogliono. Tale pensiero sorse
in me come un sole radioso e ardente ; nella sua luce io da
allora vidi ogni moto ed ogni minima azione, ogni parola
della bella creatura, né trascorse molto tempo che essa ai
miei occhi superò tutto quanto il grande poeta aveva in­
ventato con la sua possente fantasia, poiché quel poema
vivente esisteva in carne e ossa alla luce del sole con un
vero pulsare del cuore e con una reale testolina piena di
riccioli biondi.
11 tenebroso enigma era ormai sciolto ed io non avevo
altro da fare che adattarmi a tale beatitudine creatami
dalla fantasia in gara con Shakespeare, cercando di ac­
comodare in qualche modo la mia insignificante e non
amabile persona a quel capriccio del destino, o meglio
dell’anima femminile piena di regale generosità, e lo feci
con mille progetti e speranze che si andavano aggiungen­
do al grande castello in aria. L’infinita gratitudine e la
venerazione che io così nutrivo per la donna amata
erano certamente in parte dovute al mio egoismo lu­
singato, ma ancor più al fatto che quella era l’unica
3» LA GENTE DI SELDWYLA

spiegazione possibile per non dover disprezzare o com­


patire quell’essere a me diletto; l’alta stima che sentivo
per lei era poi divenuta per me una necessità vitale
e il mio cuore tremava in sua presenza, mentre non
aveva mai tremato né di fronte ad uomini, né di fronte
a belve feroci.
Vissi così per un mezzo anno al pari di un sonnambulo,
carico di sogni come un melo è carico di frutti e sempre
senza andare innanzi di un passo con Lydia. Avevo ter­
rore del minimo avvenimento possibile, un po’ come un
buon cristiano teme la morte benché sia certo di pervenire
attraverso di essa all’eterna beatitudine. Ma tanto mag­
giore era la confusione nel mio cervello, dove gli eventi
e le storie più eccitanti, verificandosi nelle forme più belle
e indubitabili, s’accavallavano e s’espandevano alla rin­
fusa. Cominciai a trascurare i miei impegni e non ero
capace di far nulla. Il peggio per me era dover sedere per
ore alla scacchiera col padre, costretto a concentrare la
mia attenzione sul gioco, mentre ai miei gravi pensieri
amorosi non era concesso altro tempo che il breve inter­
vallo fra una partita e l’altra mentre si disponevano i pez­
zi. Mi feci dare scacco matto quanto più spesso era pos­
sibile senza che questo desse troppo nell’occhio, e mi
indugiavo poi a collocare re e regina, alfieri, cavalli e
pedoni, a muovere in qua e in là le torri, così che il go­
vernatore credette che fossi rimbambito e mi dilettassi
a giocherellare con i pezzi.
Alla fine però, tutta la mia esistenza minacciava di nau­
fragare in vani sogni ed io correvo pericolo di finire in
manicomio. Per di più, malgrado tutti questi dorati ca­
stelli in aria, ero indicibilmente scoraggiato e triste, giac­
ché, prima che sia pronunciata l’ultima parola, la realtà,
sempre inferiore a simili sogni lussureggianti, finisce per
deprimere, e la realtà attuale ha un poco il potere di
raffreddare e di allontanare. È questa in certo modo la
spinosa armatura protettiva di cui si circonda la bella rosa
della vita corporea. Quanto più Lydia si faceva cordiale
e confidenziale, tanto più incerto e dubitoso divenivo io,
perché capivo dalla mia stessa esperienza come sia dif-
PANKRAZ L’IMBRONCIATO 39
ficile mostrare un vero amore senza chiamarlo per il suo
nome. Solo quando essa mi sembrava severa o triste o sof-r
ferente attingevo qualche motivo a ragionevoli speranze;
ma questo mi tormentava poi ancor di più, non ritenen­
domi degno che essa per cagion mia avesse anche un solo
minuto di tristezza, mentre io avrei voluto mettere il
mio capo sotto i suoi piedi. Mi irritavo d’altra parte che
la fanciulla, per esser di buon umore, mi volesse veder
ridotto come un pazzo sartorello innamorato, mentre
non lo ero affatto, e anzi già a modo mio mi proponevo
di diventar disinvolto per farle piacere. Insomma, andavo
incontro ad una totale confusione e non ero più in grado
di assolvere alcun compito ordinatamente e corsi persino
il pericolo di retrocedere come soldato e di esser mandato
in congedo, se non volevo legarmi alla casa del gover­
natore come un povero tappabuchi subalterno non utiliz­
zabile per null’altro.
Quando dunque gli Inglesi vennero a serio conflitto
con delle popolazioni indiane e si iniziò una campagna
che fu poi alquanto sanguinosa per loro, io subito mi de­
cisi e, da buon combattente, rientrai nella mia compagnia,
congedandomi dal governatore. Questi non voleva sentir­
ne parlare e protestò rumorosamente, mi pregò e mi lu­
singò perché rimanessi, come fanno quelli che credono che
tutti siano a loro disposizione anima e corpo, nella buona
e nella cattiva sorte, soltanto per far passare loro il tempo
e servire ai loro comodi. Lydia invece durante i tre o quat­
tro giorni in cui si parlava della mia partenza non si fece
quasi mai vedere. Se però ci incontravamo, non mi guar­
dava o mi gettava appena un rapido sguardo pieno d’ira,
a quel che mi sembrava; soltanto l’occhio però pareva
irato, il passo e i gesti erano invece così pacati, nobili e
contegnosi, che quell’eletto sdegno mi lacerava il cuore.
Seppi pure che essa scendeva molto tardi al mattino e
che nessuno riusciva a spiegarsene il motivo, giacché ciò
significava che passava la notte insonne. Scorgendola per
caso l’ultimo giorno dietro la sua finestra, credetti di no­
tare che aveva gli occhi arrossati dal pianto; si ritrasse
anche subito mentre passavo. Malgrado questo io conti­
40 LA GENTE DI SELDWYLA

nuai tranquillamente per la mia strada col mio rigido


passo da sergente, facendo il mio lavoro, senza guardare
né a destra né a sinistra. Verso sera percorsi ancora una
volta le piantagioni, per mostrarle ad un mio attendente
e farne alla meglio una specie di giardiniere provvisorio,
sino al momento che si fosse offerto un sostituto più adat­
to. Ci trovavamo appunto in un boschetto di arbusti di
rose da me coltivati; le piantine arrivavano esattamente
all’altezza del volto ed erano così fitte che girando tra
esse il naso era sfiorato dalle corolle, il che era molto gra­
zioso e comodo e aveva fatto molto ridere il governatore,
non più costretto a curvarsi per gustare il profumo dei
bei fiori. Mentre io davo le mie disposizioni al soldato,
sopraggiunse Lydia che lo mandò via con non so quale
incarico, e che poi, mentre sembrava lo volesse subito se­
guire, indugiò un poco cogliendo alcune rose sin che
quello fu lontano. Io cincischiai per qualche minuto un
ramoscello, e quando mi voltai per allontanarmi vidi
che le grondavan lagrime dagli occhi. Feci fatica a domi­
narmi, ma finsi di non aver veduto nulla e m’affrettai
ad allontanarmi. Avevo però fatto appena dieci passi
quando udii e intuii che essa, ora correndo, ora sostando,
mi seguiva, e così fece per un buon tratto. Non resistetti
più, mi voltai di colpo e dissi a lei che m’era lontana ap­
pena tre passi: «Perché mi vien dietro, signorina?».
Essa si fermò, come atterrita da una serpe, e, chinando
gli sguardi a terra, si fece di fiamma in volto, poi impal­
lidì penosamente e tremò in tutte le membra, mentre al­
zava su di me i grandi occhi azzurri senza pronunciare
parola. Alla fine disse, con una voce in cui l’orgoglio fe­
rito lottava con un’umiliazione volentieri accettata : « Cre­
do di poter andare dove voglio nelle mie terre ! ».
«Certamente!» replicai io mortificato, continuando
per la mia strada. La fanciulla mi stava a fianco e mi
seguiva dappresso. Io però per l’eccitazione camminavo
a passi così rapidi e lunghi, che essa mi doveva tener die­
tro a fatica, nonostante si muovesse con energia, ma pure
lo faceva. La sbirciai più volte e vidi che aveva di nuovo gli
occhi inondati di pianto e dolorosamente e umilmente ri­
PANKRAZ L’IMBRONCIATO 41

volti a terra. Anche il mio volto bruciava e anche i miei oc­


chi s’inumidirono. La cosa era arrivata a tal punto che ero
in procinto di commettere o una sciocchezza o un atto
incosciente, mentre non avevo intenzione di far né l’una
né l’altra cosa. Pensavo però, mentre le camminavo al
fianco, coi miei poveri pensieri: “Se questa donna ti ama
e tu mai giungerai onorevolmente alla sua mano, dovrai
servirla sino alla morte, anche se fosse il diavolo in
persona!”.
Raggiungemmo intanto un posticino dove una o due
dozzine di aranci riempiva l’aria del loro olezzo, mentre
un venticello fresco passava attraverso i bei tronchi slan­
ciati. Se ci ripenso, mi par di risentire quell’alito e
quel profumo inebriante : forse ciò esercitò lo stesso effetto
anche sulla creatura che mi accompagnava, così che essa
sentì ed espresse la sua strana passione, l’egoistico amore
di se medesima, in misura estrema, quasi fosse un vero
amore per un uomo. Si abbandonò infatti a sedere su una
panchina sotto gli aranci, affondando il bel volto tra le
mani: i riccioli dorati scesero a coprirlo e abbondanti
lagrime stillavano fra le dita.
Mi fermai davanti a lei e dissi con voce strozzata:
«Ma che vuole, signorina Lydia, che cos’ha?».
«Che cosa vuole lei?» replicò la fanciulla «Si è forse
mai veduto maltrattare e tormentare a tal punto una
donna bella e gentile? Da che paese di barbari viene mai?
Che pezzo di legno ha mai in petto?».
«Ma come io la maltratto e la tormento?» replicai
sconcertato e perplesso, poiché quel linguaggio, che avreb­
be pur potuto avere un chiaro significato, non mi sem­
brava quello giusto.
«Lei è un rozzo e un insolente!» disse Lydia senza
alzar gli occhi.
Allora non seppi più trattenermi e risposi: «Lei non
direbbe questo, signorina, se sapesse come son lontano
nel mio cuore dall’esser rozzo o insolente nei suoi ri­
guardi ! Ma è appunto la mia grande cortesia e la mia
umiltà che ... .»
Quando m’interruppi, ella alzò lo sguardo e, col volto
42 LA GENTE DI SELDWYLA

rasserenato da un doloroso sorriso supplichevole, mi disse


rapida: «Ebbene?» e mi lanciò intanto un’occhiata che
mi fece perdere l’ultimo residuo di riflessione. Io che non
avrei mai creduto possibile cadere ai piedi neppure della
donna più amata, considerando questo una stoltezza e
una smanceria, non so come mi trovai d’un tratto steso
dinanzi a lei nascondendo la testa, con dedizione e con­
trizione, nel lembo della sua gonna che bagnavo di la­
grime cocenti. Essa però subito mi respinse, imponendomi
di alzarmi, ma, quando l’ebbi fatto, vidi che il suo sorriso
s’era fatto più intenso e luminoso, e allora esclamai:
«Sì... ora voglio dirglielo ...» e così via, e le raccontai
tutta la mia storia con una facondia di cui non mi sarei
mai creduto capace. Essa beveva le mie parole, mentre
io nulla le tacevo dal principio sino a quel momento
e le abbozzavo con cuore traboccante l’immagine di lei
quale viveva entro il mio animo, così come da molti
mesi l’avevo elaborata e perfezionata con zelo fedele. Es­
sa rideva con gli occhi bassi, tutta compiaciuta, reggendo­
si il mento con la mano, e sempre più assomigliava a un
bambino felice cui è stato regalato il giocattolo sognato,
mentre apprendeva che non uno dei suoi vezzi e dei suoi
meriti, non una delle sue parole era andata perduta per
me. Mi porse allora la mano e mi disse, con gentile rossore,
ma con soddisfatta sicurezza: «Le sono molto ricono­
scente, caro amico, della sua cordiale inclinazione ! Creda
che mi addolora di sapere che per tanto tempo si è cruc­
ciato per me, ma lei è un uomo di carattere e io debbo
stimarla per la sua capacità di nutrire un affetto così
bello e profondo ! ».
Quel discorso tranquillo cadde per vero dire come un
pezzo di ghiaccio nel mio sangue bollente, ma pensai su­
bito che bisognava perdonarla e di tutto cuore di voler
darsi il tono di dama contegnosa ed altera, e che dovevo
rassegnarmi a tutto ciò che avesse fatto, e a qualunque
tono avesse voluto scegliere.
Risposi però addolorato: «Ma chi parla di me, o bella,
bellissima Lydia? Che cosa conta quel che io soffro o
non soffro, quel che possa aver sofferto o che soffrirò un
PANKRAZ L’IMBRONCIATO 43
giorno, in paragone anche ad un solo istante di malumore
e di tormento da lei patito? Come potrò io, pover’uomo
rozzo e senza meriti, compensarla mai o risarcirla per
uno solo di questi?».
«Ebbene» riprese Lydia, sempre con gli occhi chini
e sorridendo, ma già con accento lievemente mutato «eb­
bene, debbo sinceramente confessare che il suo contegno
brusco e goffo mi ha irritata e persino tormentata, non
essendovi mai stata avvezza, avendo anzi diffuso sempre
intorno a me, dovunque andassi, gentilezza e devozione.
La sua apparente insensibilità grossolana mi ha vergogno­
samente irritata, già lo dissi, e tanto più per il gran conto
che mio padre ed io facevamo di lei. Mi è tanto più caro
quindi di vedere che anche lei ha un poco di sentimento
e soprattutto che io non ho cagione di dubitare ulterior­
mente del mio valore, perché ciò che più mi crucciava
era il dubbio che cominciava a destarsi in me, circa me
stessa e i miei pregi personali. Per il resto, caro amico,
io non nutro alcun affetto per lei, come per nessun altro,
e spero che lei, con tutta la devozione e la cortesia di cui
ha fatto ora professione, vorrà adattarsi all’irrevocabile
senza serbarmene rancore!».
Se aveva creduto che io dopo simile disinvolta dichia­
razione sarei rimasto davanti a lei affranto e annientato,
si era ingannata. Il mio cuore aveva tremato di fronte
alla donna presupposta buona ed amorosa, ma in presen­
za di quella belva di così falso e pericoloso egoismo non
tremai affatto, avvezzo com’ero ad affrontare serpenti e
tigri feroci. Al contrario, invece di sentirmi sconvolto e
disperato e tenace nel non rinunciare all’illusione, come
succede di solito in simili situazioni, divenni di colpo
freddo e cauto come lo può essere soltanto un uomo ferito
e oltraggiato nel modo più vergognoso, o come lo potreb­
be essere un cacciatore che si trovi di fronte inaspetta­
tamente, invece di un nobile e timido capriolo, un cin­
ghiale. Era però, lo ammetto, uno strano senso di freddo,
penoso e complesso, dovendo io intanto contemplare la
bellezza che mi splendeva dinanzi. Ma questo è appunto
l’inquietante mistero della bellezza.
44 LA GENTE DI SELDWYI.A

Certo che se non fossi stato bene abbronzato dal sole,


in quel momento sarei stato bianco come i fiori d’arancio
che stavan sopra di me, mentre dopo un non breve silenzio
le rispondevo : « Fu dunque per rafforzare la sua alta fidu­
cia nella propria personalità che ella seppe prodigare tutti
i segni dell’amore e del disinteresse puro e profondo? A
questo scopo soltanto ella mi corse dietro come un bimbo
innocente che cerchi la madre, per questo mi ha sempre
lusingato, e s’è mostrata pallida e sofferente, ha versato
lagrime e si è mostrata raggiante di una gioia irrefrena­
bile se appena scambiavo una parola con lei?».
«Se la mia condotta ebbe tale apparenza,» disse Lydia
sempre soddisfatta di sé «sarà stato appunto così. Lei ora,
uomo vanitoso, è un po’ in collera perché non è stato l’og­
getto di una devozione femminile tanto umile ed illimi­
tata, perché io miserella non sono l’agnelletto belante di
struggimento per il quale lei mi ha scambiato con suo di­
vertimento?».
« Io non mi sono mai divertito, signorina ! » replicai
«Se però gli dèi, se Cristo stesso s’abbandonarono più
volte a un infinito amore per gli uomini, se l’umanità
ha sempre trovato la propria somma felicità nel rendersi
degna di questo incondizionato amore divino e nell’obbe-
dirgli, perché mai dovrei vergognarmi di essermi creduto
amato in tal maniera? No, signorina Lydia ! Considero an­
zi un onore Tessermi lasciato allettare da lei e l’aver piut­
tosto creduto, dati i segni chiari e decisi, al semplice af­
fetto e alla bontà di un’anima ingenua, ben più che se non
avessi perversamente intuito nient’altro che una stolida
commedia. È infatti una stolida storia ! Che garanzia ha
mai per la sua fede in se stessa visto che lei, la bella e ari­
stocratica dama inglese, ha dovuto sfoggiare simili mez­
zucci per accalappiare il più misero dei miseri soldati? ».
«Quale garanzia?» protestò Lydia che andava ora a
poco a poco facendosi smorta e imbarazzata « Ma il suo
innamoramento, alla cui confessione l’ho finalmente co­
stretta ! Lei non mi vorrà negare di esser stato sedotto e
mi ha pur raccontato ora che le son piaciuta sin dal prin­
cipio. Perché nella sua musoneria non me lo ha lasciato
PANKRAZ L’IMBRONCIATO 45

scorgere un pochino, come si conviene anche all’uomo


più semplice e senza pretese, fosse pure un guardiano di
pecore? Allora tutta questa commedia, come la chiama
lei, ci sarebbe stata risparmiata ed io sarei stata paga ! ».
«Se mi avesse lasciato in pace, bella mia,» replicai
« ci avrebbe guadagnato di più. Lei sembra infatti dimen­
ticare che il mio sentimento benevolo deve ora trasfor­
marsi nel contrario, con mio dolore!».
«Non importa,» disse lei «ormai so che le sono pia­
ciuta e che le sto nel sangue ! Ho udito la sua confessione
e ho la certezza della mia conquista. Tutto il resto è
indifferente : così stanno le cose, egregio signor Pankraz,
e così vengon puniti coloro che peccano nel regno della
regina Bellezza!».
«Sembra trattarsi piuttosto» dissi io «del regno di una
banda di zingari. Come può infilarsi al cappello una
penna che ha rubato al pari di una ladra volgare? E
contro il volere del proprietario?».
Essa rispose: «In questo campo, egregio signor pro­
prietario, il furto torna a onore della ladra, e la sua stizza
non fa che comprovare come l’abbia colpito bene ! ».
Così disputammo una buona mezz’ora nel dolce aran­
ceto, ma con parole amare, e invano cercai di farle com­
prendere che quella avventura amorosa carpita col furto e
con l’inganno non poteva avere per lei il valore che essa le
attribuiva. Ne diedi la dimostrazione non soltanto per
meschina suscettibilità e stupidaggine, ma anche per ri­
destare in lei almeno una scintilla di coscienza del pro­
prio torto, della immoralità del proprio agire. Ma fu va­
no ! Essa non volle ammettere che una vera inclinazione
divampa in pieno e incondizionato amore soltanto quan­
do crede di aver motivo di speranza, e che concedere tale
motivo senza ricambiare il sentimento rimane pur sempre
un inganno volgare e immorale, tanto più perverso quan­
to più l’ingannato è semplice, leale e ingenuo. Ella con­
tinuava a insistere sul fatto della mia dichiarazione d’a­
more, buttando alla rinfusa, lei che sembrava di solito
così piena di buon senso, gli argomenti e i discorsi più
assurdi, meschini e sconvenienti e rivelandosi proprio una
46 LA GENTE DI SELDWYLA

sciocca. In tutti gli anni della nostra convivenza non ave­


vo mai parlato così a lungo con lei come in quella disputa
finale, e mi dovetti accorgere, giusto Iddio ! che essa era
sì una donna di indole fuor del comune, con i modi, i
gesti e le caratteristiche di una creatura realmente nobile
e rara, ma ciò malgrado aveva il cervello ... di una di
quelle volgari soubrettes che ho veduto poi a dozzine nei
teatri d’operetta di Parigi! Durante la disputa io però
la divoravo con gli sguardi e la sua bellezza incompren-
sibile e inutile che pareva tanto personale mi torturava il
cuore non meno del dibattito che si svolgeva tra noi.
Quando però alla fine disse cose affatto stolte e impudenti
io, scoppiando in amare lagrime, le gridai: «O signorina,
lei è il più grande somaro che io abbia mai veduto!».
Lydia scosse con energia la massa dei suoi riccioli e mi
guardò pallida e stupita, mentre una smorfia rabbiosa le
piegava la bella bocca. Voleva forse essere un sorriso di
scherno, ma divenne un’espressione di singolare imba­
razzo.
«Sì,» dissi cancellando le lagrime coi pugni chiusi «sol­
tanto noi uomini possiamo esser somari di solito, è il nostro
privilegio, e se la chiamo così, è ancora una sorta di di­
stinzione e un complimento per lei. Se fosse soltanto un
pochino più volgare e meschina, le darei solamente
dell’oca ! ».
Con queste parole m’allontanai definitivamente da lei,
e senza più voltarmi a guardarla, me ne andai, col senso
però di lasciarmi alle spalle per sempre quel tanto di
pura felicità che avrebbe potuto essermi destinata nella
vita e che era invece per sempre morta in me insieme alla
mia elevata fiducia in simili cose.
“Questo è il frutto della tua maledetta musoneria!”
dissi a me stesso “Se tu sin dal principio avessi di tanto in
tanto discorso cordialmente con lei soltanto la metà di
quanto hai fatto ora, non ti sarebbe potuto restare celato
che testa mai avesse e non ti saresti tanto grossolanamente
sbagliato. Vattene e svanisci, o bel fantasma !”.
Congedandomi con pensieri smarriti dal governatore,
mi avvidi che mi guardava allegro e furbesco, ammiccan-
PANKRAZ L’IMBRONCIATO 47
do ironicamente con gli occhi. Capii che sapeva la mia
storia, che anzi l’aveva osservata sin dall’inizio trovandoci
una specie di maligno divertimento. Dato che era per il
resto un uomo leale e rispettabile, non poteva trattarsi che
della candida gioia di tutti i filistei agli scherzi stolti e
crudeli. Nel secolo scorso i grandi signori se la spassavano
ubriacando i buffoni, i nani e gli altri loro subalterni, per
gettar poi loro addosso acqua fredda o maltrattarli in
altro modo. Oggigiorno usi simili non piaccion più alle
persone educate, ma in compenso ci si diverte precipua­
mente con l’ordire piccoli intrighi, e quanto meno queste
anime meschine son capaci di passioni forti e profonde,
tanto più sentono il bisogno di suscitarne con mezzi più o
meno grossolani in coloro che sono atti ad incappare in si­
mili trappole tese spietatamente. Se dunque il governatore
da parte sua non disdegnava di adoperare sua figlia come
boccon di lardo, non c’era più nulla da dire, ed io, ben­
ché partisse anche un buon carro delle salmerie, infilai
ostinatamente il mio pesante zaino e il moschetto sulle
spalle e di notte condussi un gruppo di soldati rimasti in­
dietro a raggiungere il reggimento già partito quella
mattina.
Dopo una penosa marcia sotto il solleone mi trovai
trasferito in un mondo diverso, in cui presto si iniziò la
campagna e le truppe della Compagnia delle Indie Orien­
tali dovettero combattere contro le tribù primitive delle
montagne, all’estremo confine dell’impero indobritannico.
Alcune compagnie del nostro reggimento erano sempre in
posizione avanzata, ma un giorno la mia fu così stretta-
mente accerchiata che ci trovammo al centro d’un gro­
viglio di cavalieri dall’aria brigantesca, di elefanti e di car­
riaggi stranamente dipinti e dorati, sui quali stavano,
fermi e taciti, dei bei pseudoprincipi indostani, cioè dei
fantocci che i selvaggi capi-tribù si portavano dietro in
combattimento. Quel giorno caddero tutti i nostri ufficiali
e la nostra compagnia si ridusse ad un terzo. Dato il mio
buon comportamento e i servigi prestati, ottenni il bre­
vetto di primo tenente della compagnia e alla fine della
campagna ne divenni il capitano.
4» LA GENTE DI SELDWYLA

Con tale grado tenni per due anni, insieme a circa cen­
tocinquanta uomini, una piccola zona di confine che era
stata conquistata per arrotondare i nostri domìni, e per
tutto quel tempo ebbi il potere supremo in quel lembo
di mondo selvaggio e pagano. Ero così solo quanto non
lo ero mai stato in vita mia, diffidente verso tutti e abba­
stanza severo nel mio servizio, senza però diventar
cattivo o ingiusto. La mia attività principale consisteva
nell’introdurre una polizia cristiana e nel dar protezione
efficace ai nostri missionari, in modo che potessero lavo­
rare senza pericoli. Ma soprattutto avevo da impedire il
rogo delle donne indiane rimaste vedove, e siccome quella
gente aveva una vera mania di trasgredire il nostro divieto
inglese e di arrostirsi viva reciprocamente, in onore della
fedeltà coniugale, dovevamo esser sempre in movimento
per sventare simili cerimonie. Gli indigeni si mostravano
allora scontenti e infastiditi, come quando da noi la polizia
disturba un divertimento illecito. Una volta, in un vil­
laggio remoto, avevano preparato la faccenda con molta
furberia e segretezza, tanto che il rogo ardeva già divam­
pando quando io arrivai trafelato al galoppo e dispersi
l’assembramento. Sul fùoco giaceva la salma di un de­
crepito vecchietto rinsecchito, che già emanava un certo
odore d’arsiccio. Ma gli stava accanto una graziosissima
mogliettina di sedici anni al più, che cantava le sue pre­
ghiere con la bocca sorridente e con voce argentina. Per
fortuna la poveretta non aveva ancora preso fuoco e io
ebbi giusto tempo di balzare da cavallo, di afferrarla per
i piedini e tirarla giù dal rogo. Ma lei si comportò come
un’ossessa : voleva a tutti i costi esser bruciata insieme al
suo vecchio guastafeste, così che ebbi gran difficoltà a
domarla e calmarla. È vero che quelle povere vedove non
ci guadagnavano molto ad esser salvate, perché cade­
vano poi fra la loro gente in uno stato di vergogna e di
estremo abbandono, senza che il governatorato facesse
nulla per render facile la vita loro salvata. Per quella
piccina trovai però un collocamento, procurandole un
corredo e facendola poi sposare a un indù battezzato al
nostro servizio, di cui essa divenne affezionata compagna.
PANKRAZ L’IMBRONCIATO 49
Solo questi singolari eventi occupavano i miei pensieri e
finirono per destare in me il desiderio di godere una simile
incondizionata fedeltà, ma, non avendo alcuna donna a
mia disposizione per quel capriccio, caddi nella senti­
mentale nostalgia di essere io stesso fedele a quella ma­
niera, e insieme nel cocente rimpianto di Lydia. Dato
il grado raggiunto e le mie buone prospettive per l’av­
venire, non mi parve impossibile, agendo con accortezza,
di conquistare la bella donna, nel caso fosse stata ancora
libera. In quell’idea pazza mi rafforzò proprio la circo­
stanza che essa si era tanto seriamente preoccupata di
farmi girar la testa. “Bisogna pure che tu abbia avuto
un certo valore ai suoi occhi,” mi dicevo “altrimenti non
ci si sarebbe messa a quel modo”. Detto fatto mi immersi
nell’idea fissa di sposare Lydia, se mi avesse voluto, così
com’era, di esser devotamente fedele, senza limiti, a lei e
alla sua bella personalità che non aveva eguale, conside­
rando anche la sua perversità e le sue qualità cattive come
virtù e sopportandole come fossero dolcissimo marzapane.
Mi persi in tali fantasie al punto che i suoi difetti, e per­
sino la sua parziale stupidaggine, divennero per me i più
desiderabili fra i beni terreni: me li ripensavo in mille
variazioni e mi dipingevo un’esistenza nella quale un
marito saggio ed accorto trasforma ogni giorno e ogni
ora le perversità e i difetti della sua gentile consorte in
avventure graziose e gradevoli, ed è capace, in grazia del­
la sua immaginazione sorretta dall’amore e dalla fedeltà,
di conferire alle sue stupidaggini un aureo valore, tanto
che essa avrebbe potuto poi, ridendo, menar vanto di
quelle sue doti. Dio sa di dove io attingevo tanta feconda
fantasia, probabilmente ancora sempre dallo sciagurato
Shakespeare datomi da quella strega, col quale essa mi
aveva doppiamente avvelenato. Mi stupirebbe però che
lei lo avesse mai letto con devozione !
Insomma, dopo che mi fui sufficientemente ubriacato
dei miei sogni, quando fui richiamato da quella guarnigio­
ne remota, chiesi una licenza e mi recai di gran furia dal
governatore. Egli viveva ancora allo stesso modo e mi ri­
cevette bene, e la figlia, che ancora viveva con lui, mi ac-
5° LA GENTE DI SELDWYLA

colse più gentilmente di quanto mi fossi aspettato. Ap­


pena l’ebbi riveduta ed ebbi scambiato alcune parole con
lei, ne fui di nuovo innamorato morto e confermato nella
mia idea fissa, senza la cui realizzazione mi pareva im­
possibile di esser mai più felice.
Essa però conduceva la faccenda con morbosa sovrec­
citazione e con aperta grandiosità e cedeva al suo scia­
gurato egoismo senza alcun ritegno. Ora era circondata
da una schiera di ufficiali piuttosto volgari e vanitosi, che
le facevan la corte in modo molto ordinario e che le dice­
vano quel che essa aveva piacere di sentire, comunque
venisse presentato. Era una vera gara di trivialità e di sto-
lidità, in cui le licenze più grossolane venivano accettate di
preferenza, purché sembrassero provenire da un’assoluta
devozione e confermassero alla sciagurata la sua fiducia
in se medesima. In quel momento aveva per di più fatto
girar la testa con un’unica occhiata a un povero tambu­
rino, il quale se ne andava attorno tutto tronfio, standole
di continuo tra i piedi, e aveva affascinato a tal punto un
calzolaio che lavorava per lei, che ogni volta che le por­
tava le scarpe, traeva di tasca in anticamera una spazzo-
lina e uno specchietto e si rassettava i capelli come un
gatto, nella fiduciosa aspettativa che quella volta sarebbe
accaduto finalmente qualcosa. Quando lo vedeva arri­
vare, tutta la brigata si raccoglieva in una galleria nasco­
sta, per osservare il povero diavolo così solennemente oc­
cupato. Il più strano era che nessuno si scandalizzava di
simile comportamento, non sembrava cioè aspettarsi nulla
di meglio da Lydia, ritenendo la sua condotta degna di
lei. Ero io dunque l’unico che ne avessi in cuore così alta
opinione, mentre tutti quei buffoni da me disprezzati, che
la pigliavano come era, parevano più saggi di me con la
mia profonda passione. “Eppure no !” mi dicevo “essa
è pur come la penso io, ed è appunto perché son teste
vuote che la trattano con tanta impudenza, senza sapere
quel che c’è o ci potrebbe essere in lei”. E tremavo d’im­
pazienza di porgerle un giorno lo specchio da cui le sa­
rebbe venuta incontro la sua immagine migliore, can­
cellando tutto quanto era indegno intorno a lei. Tuttavia
PANKRAZ L’IMBRONCIATO 51
le convenzioni esteriori e il ritegno di cui non riuscivo a
liberarmi malgrado ogni sforzo, mi rendevano impossibile
mescolarmi a quel branco di scimmiotti e fare anche un
sol passo per accostarla. Tornai a sentirmi confuso, impa­
ziente, e all’improvviso diedi le dimissioni dall’esercito in­
diano e presi la via del ritorno per dimenticare quella
sciagurata.
Arrivai così a Parigi e mi ci trattenni alcune settimane.
Vedendo un gran numero di donne belle e intelligenti,
pensai che il metodo migliore per liberarmi dalla mia ma­
laugurata vicenda fosse di contemplare dei bei volti fem­
minili; passai così da un teatro all’altro, dovunque se ne
raccogliessero, e mi feci anche presentare in varie buone
famiglie e società. Vidi in realtà molte figure piene di no­
bile slancio, nei cui occhi non eran pensieri malvagi ; ma
tutto quel che vedevo non faceva che ricondurmi a Lydia,
operando a suo favore. Essa era indimenticabile ed io
ero e rimanevo innamorato pazzo. Se la pensavo, provavo
un sentimento di singolare inquietudine: mi pareva cioè
che dovesse assolutamente esistere al mondo un essere
femminile che possedesse lo stesso fisico e gli stessi modi di
quella Lydia, la metà migliore insomma, ma anche l’altra
metà corrispondente, e che avrei avuto pace solo quando
avessi trovato una Lydia completa. Altre volte invece mi
pareva di avere il dovere di andare alla ricerca della vera
anima per quel leggiadro mezzo fantasma : insomma, tor­
nai ad ammalarmi di desiderio, e poiché non era pos­
sibile tornare a lei ancora una volta, cercai nuovi calori
torridi, nuovi pericoli e doveri assumendo servizio nel­
l’esercito africano della Francia. Mi recai senz’altro ad
Algeri e mi trovai ben presto al margine estremo della co­
lonia africana, dove mi aggirai sotto la vampa del sole e
sulla sabbia ardente combattendo contro i Gabili.
In quel momento però l’addormentata Estherchen,
destinata a comportarsi sempre male, sognò di precipitare
da una scala e s’agitò quindi rumorosamente, di colpo,
sulla sua sedia, così che Pankraz dovette finalmente inter­
rompersi, alzar gli occhi e accorgersi che le due ascolta-
trici dormivano. Si avvide in pari tempo che sino ad allora
52 LA GENTE DI SELDWYI.A

non aveva in fondo raccontato che una storia d’amore, e


se ne vergognò e s’augurò che non avessero udito nulla.
Svegliò le due donne e le mandò a letto e cercò anche lui
il suo giaciglio, dove s’assopì con un lungo ma pacifico
sospiro. Rimase a letto fino a tardi, come ai tempi in cui
era il piccolo Pankraz pigro e fannullone ; e come allora la
mamma dovette venirlo a svegliare. Quando si ritrova­
rono insieme alla prima colazione a bere il caffè, disse, ri­
prendendo il suo racconto:
— Se non aveste dormito, avreste sentito che nell’India
Orientale stavo per trasformarmi da un musone in un uo­
mo estremamente gioviale e bonario per amore di una bel­
la dorma, ma che il mio broncio mi giocò un brutto tiro,
impedendomi di conoscer meglio tale ragazza e facendo­
mene innamorare ciecamente ; avreste udito come fossi poi
ingannato e passassi, più musone di prima, dall’India in
Africa, al servizio dei Francesi, per buttar giù dalle teste
dei portatori di burnous i loro ridicoli altissimi cappelli di
paglia e per distribuire loro bòtte abbondanti, il che feci
con tanto rabbioso zelo da avanzar di grado anche coi
Francesi e diventar colonnello come sono rimasto sino ad
oggi-
Ero ridiventato taciturno e melanconico e non cono­
scevo che due piaceri: adempiere il mio dovere di sol­
dato e andare a caccia di leoni. A questa mi dedicavo
tutto solo, andandomene a piedi, armato soltanto di
un buon fucile, in cerca della belva, e si trattava poi o di
colpirla bene o di rimetterci la pelle. Il ripetersi continuo
di quell’unico grande pericolo e l’eventualità di un colpo
sbagliato si confacevano alla mia indole, e mai mi sentivo
più a mio agio di quando m’aggiravo solissimo per quelle
alture torride ed ero sulle tracce di un tipo forte e feroce,
il quale ben s’accorgeva di me e si divertiva a tenermi il
broncio, proprio come io facevo con lui. Circa quattro
mesi or sono era comparso in quella zona un leone di in­
consueta grandezza, quello di cui vedete qui la pelle, e
saccheggiava i greggi dei beduini senza che si riuscisse a
raggiungerlo ; doveva essere un furbacchione, che compiva
ogni giorno lunghe marce per dritto e per traverso, tanto
PANKRAZ L’IMBRONCIATO 53
che io, col mio modo di cacciare solo e a piedi, dovetti pe­
nare a lungo prima di vederlo anche da lontano. Dopo che
10 avevo avvistato un paio di volte senza arrivare a sparar­
gli, già mi conosceva, avendo capito che meditavo un colpo
contro di lui. Cominciò a ruggire spaventosamente e a ri­
tirarsi per ricomparire in un altro punto ; così per parecchi
giorni noi ci facemmo la posta come due gatti che vogliono
azzannarsi, io sempre muto come una tomba, lui ac­
compagnato di tanto in tanto dal suo selvaggio ruggito.
Un giorno m’ero messo in cammino prima dell’alba,
avviandomi in una direzione non ancora battuta, perché
11 leone il giorno innanzi s’era fatto vivo dal lato opposto
con una mancata rapina; e poiché la gente di quella re­
gione s’era allontanata insieme al bestiame, supponevo
che l’affamato signore quella notte avrebbe scelto il mio
cammino, come infatti si constatò poi. Al sorgere del sole
io traversavo piano piano una campagna collinosa giallo-
oro le cui irregolarità gettavano lunghe ombre azzurre sul
terreno dorato. Il cielo aveva l’azzurro intenso degli occhi
di Lydia, che dovetti inaspettatamente ricordare; di lon­
tano si stendevano catene di montagne azzurre su cui gia­
ceva la cittadina araba ove dimoravo, mentre all’altro
limite del paesaggio si vedevano alcuni boschi e praterie
verdi su cui spiccavano come punti neri gli attendamenti
dei beduini col loro fumo. Dovunque regnava un assoluto
silenzio e non si scorgeva creatura vivente. Incontrai la
costa di un burrone che attraversava tutta la regione pe­
trosa, invisibile sin che non gli si giungeva ben vicini. Sul
fondo scorreva un fresco torrentello e dove io mi trovavo il
declivio era pieno di cespugli d’oleandri in fiore. Nulla di
più bello a vedersi che il verde fresco di quegli arbusti coi
loro innumerevoli fiori rossi e al fondo la limpida acqua
scorrente. Quella vista fece sorgere in me un’antica nostal­
gia e mi fece del tutto dimenticare perché fossi lì giunto.
Mi venne il desiderio di scendere fra gli oleandri e di disse­
tarmi a quel ruscello, e, distratto da tali pensieri, posi a
terra il fucile e scesi rapidamente nel burrone, mi gettai
a terra, bevvi, mi rinfrescai il volto, sempre pensando in­
tanto alla bella Lydia. Mi domandavo dove potesse essere
54 LA GENTE DI SELDWYLA

in quel momento e come stesse. Ma ecco echeggiarmi vici­


nissimo, facendo tremare il terreno, un breve ruggito del
leone. Balzai in piedi come un pazzo e m’arrampicai per il
pendio, ma giunto in alto rimasi come inchiodato a terra,
vedendo che la belva, distante soltanto dieci passi da me,
aveva appunto raggiunto il mio fucile. Rimasi dove ero,
con gli occhi fissi sulla bestia. Quando essa infatti mi
scorse, si acquattò preparandosi al balzo, e proprio sopra
il mio schioppo a due canne, che gli giaceva sotto la pan­
cia di traverso, e se io avessi fatto il minimo movimento,
si sarebbe lanciata su di me dilaniandomi senz’altro. Ma
io me ne stetti immobile ore ed ore senza staccare lo sguar­
do da lui e senza che esso a sua volta lo distogliesse da me.
La belva si accucciò comodamente continuando ad osser­
varmi. Il sole salì e la tremenda caldura cominciò a tor­
mentarmi e il tempo scorreva con la lentezza che deve
avere l’eternità all’inferno. Dio sa tutti i pensieri che mi
passarono per il capo: maledicevo Lydia il cui solo ri­
cordo mi aveva gettato in quella sciagura, facendomi
dimenticare l’arma. Cento volte fui tentato di farla
finita, lanciandomi inerme sulla belva, ma prevalse
l’amore della vita e continuai a rimaner lì impietrito
come la moglie di Lot o come il gnomone di una meri­
diana: la mia ombra infatti col passar delle ore mi girò
attorno, si fece cortissima e ricominciò poi ad allungarsi.
Questo fu il broncio più lungo che abbia mai tenuto, e
mi proposi e feci voto allora che, se fossi sfuggito a quel
pericolo, sarei diventato gioviale e bonario, sarei tornato
a casa e avrei cercato di render la vita il più piacevole
possibile agli altri. Mi colava il sudore lungo la persona,
nello sforzo spasmodico di tenermi ritto e immobile allo
stesso tempo, tremavo lievemente in tutte le membra, ma
se appena accennavo a muovere le labbra inaridite, il
leone s’alzava a metà movendo la parte posteriore, faceva
lampeggiar gli occhi e ruggiva, costringendomi subito a
richiudere la bocca e a serrare i denti. Mentre però
dovevo dipanare così minuto su minuto, si spense in me
ogni furore e ogni amarezza, persino contro il leone, e
quanto più mi indebolivo, tanto più diventavo abile e
PANKRAZ L’IMBRONCIATO 55
quasi mi compiacevo della mia pazienza a sopportare
coraggiosamente ogni tormento. A giorno avanzato la cosa
non avrebbe però potuto durare ancor molto, quando mi
giunse l’insperata salvezza. La belva ed io eravamo
talmente presi l’uno dall’altro che nessuno di noi s’ac­
corse di due soldati sopraggiunti alle spalle della bestia
a una trentina di passi di distanza al massimo. Era una
pattuglia mandata a cercarmi per ragioni di servizio. I
due portavano in ispalla i loro fucili d’ordinanza ed io li
vidi scintillare al sole come una luce divina, proprio men­
tre anche il mio avversario avvertì nel silenzio del paesag­
gio i loro passi, benché essi, avendo già intuito qualcosa
da lontano, si fossero avvicinati il più piano possibile. D’un
tratto gridarono: «Guarda che bestia! Aiutiamo il co­
lonnello ! ». Il leone si voltò, balzò ritto, spalancò le fauci
infuriato come un demonio e parve esitare un istante su
chi dovesse prima lanciarsi. Quando però i due soldati, da
bravi Francesi allegri, gli si scagliaron contro senza riflet­
tere, fece un salto contro di loro. E già un soldato si trova­
va fra le sue zampe e sarebbe finito male se l’altro non
avesse immediatamente sparato col suo fucile e poi subito
colpito la belva nel fianco con la baionetta una mezza doz­
zina di volte. Ma anche questi avrebbe fatto una brutta
fine se io non avessi potuto finalmente afferrare la mia
arma, giungere barcollando sul campo di battaglia, e,
trascurando ogni prudenza, scaricare due colpi nell’orec­
chio del leone. S’adagiò a terra, ma poi tornò a balzar su
e ci volle ancora un colpo dell’altro moschetto per atter­
rarlo di nuovo, e alla fine tutti e tre spezzammo i calci dei
fucili su di lui, tanto tenace e selvaggia era la sua forza.
Per un caso singolare nessuno di noi era colpito, per­
sino il soldato rimasto sotto il corpo della belva se l’era
cavata con l’uniforme lacerata e un bel graffio alla spalla.
La faccenda era finita bene per quella volta, avevamo
per di più abbattuto il cercatissimo leone. Un poco di
vino e di pane mi restituì tutto il mio buonumore, e risi
come un matto insieme ai miei soldati, molto meravigliati
ed edificati dall’insolita verbosità e giovialità del loro
severo colonnello.
5θ LA GENTE DI SELDWYLA

Ma quella stessa settimana sciolsi il mio voto, presentai


le dimissioni ed eccomi ora qui.
Tale fu la storia della vita e della conversione di Pan­
kraz, e le sue donne furono non poco meravigliate delle
sue idee e delle sue avventure. Egli lasciò con loro la cit­
tadina di Seldwyla, trasferendosi nella capitale del canto­
ne, dove trovò modo, con le sue esperienze e le sue cogni­
zioni, di essere e di rimanere utile al paese, meritandosi
così, sia per la sua attività che per la sua immutabile
cortesia, la stima e l’affetto di tutti e non ricadendo mai
più nella sua musoneria d’un tempo.
Estherchen e la madre si arrabbiarono solo di essersi
lasciata sfuggire la storia di Lydia e ne chiedevano di
continuo una ripetizione. Ma Pankraz disse che se quella
notte non avessero dormito, l’avrebbero saputa, che lui
l’aveva raccontata una volta e non l’avrebbe mai più
ripetuta. Era la prima e l’ultima volta che aveva parlato
ad anima viva di quella vicenda amorosa, e bastava.
La morale della favola era del resto molto semplice: in
terra straniera egli era stato guarito dal vizio della muso­
neria per opera di una donna e di una belva.
Esse volevano almeno sapere il nome della donna, che
per la sua esoticità avevano già dimenticato e gli chiede­
vano di continuo :
— Ma come si chiamava?
E Pankraz rispondeva immancabilmente:
— Dovevate badarci ! Io non pronuncerò mai più quel
nome !
E mantenne infatti la parola: nessuno lo ha mai più
udito pronunciar quel nome e parve che finalmente
l’avesse dimenticato egli stesso.
ROMEO E GIULIETTA DEL VILLAGGIO

Raccontare questa storia sarebbe oziosa imitazione, se


essa non s’appoggiasse a un avvenimento vero, quasi a
dimostrare quanto profondamente sia radicata nella vita
umana ognuna delle favole su cui sono costruite le grandi
opere antiche. Il numero di tali favole non è eccessivo,
ma sempre esse si ripresentano in nuova veste, costrin­
gendo la mano a fissarle.
Lungo il bel fiume che passa a una mezz’ora di distanza
da Seldwyla si eleva un’estesa collinetta che va a perdersi,
pur essa ben coltivata, nella fertile pianura. Ai suoi piedi
c’è un villaggio, il quale contiene parecchie grandi fat­
torie, e oltre la dolce altura si stendevano in passato tre
splendidi e lunghi campi, simili a tre giganteschi nastri
paralleli. In una soleggiata mattina di settembre due con­
tadini erano intenti ad arare due di quei campi, quelli
esterni, mentre il terreno di mezzo aveva l’aria di essere
da anni incólto ed abbandonato, poiché era tutto coperto
di sassi e di erbaccia, ed una nuvola di moscerini gli ron­
zava sopra indisturbata. I contadini che procedevano ai
due lati dietro l’aratro erano due uomini alti e magri di
circa quarant’anni riconoscibili a prima vista per agri­
coltori agiati ed esperti. Portavano calzoncini cord di
fustagno robusto, in cui ogni piega aveva il suo posto im­
mutabile e sembrava scolpita nella pietra. Quando, in­
contrando un ostacolo, stringevano più saldo l’aratro, le
ruvide maniche delle camicie tremavano della lieve scos­
sa, mentre i volti ben rasati continuavano attend e tran­
quilli a guardare avanti, ammiccando un po’ nel sole, mi­
surando il solco o volgendosi talvolta a guardare, se un ru­
more lontano veniva a interrompere il silenzio del pae­
saggio. Procedevano con lentezza e anche con una certa
grazia naturale, e nessuno pronunciava parola se non per
dare qualche ordine al garzone che spingeva i robusti ca­
valli. Visti da una certa distanza si assomigliavano per­
fettamente, rappresentando la vera razza originaria della
regione, e a prima vista si sarebbe potuto distinguerli so-
5« LA GENTE DI SELDWYLA

lamente per il fatto che l’uno portava il fiocco del berretti­


no bianco in avanti, l’altro pendente sulla nuca. Ma in ciò
si alternavano, giacché aravano in direzione opposta;
quando s’incontravano su in alto e si passavano accanto,
il berretto di quello che procedeva contro il fresco vento di
est andava all’indietro, mentre all’altro, che aveva il
vento nel dorso, esso si portava in avanti. Vi era anche
ogni volta un momento di mezzo, in cui i berretti candidi
ondeggiavano nell’aria, simili a due fiamme bianche le­
vate verso il cielo. Ambedue aravano con calma ed era
bello vederli nel dorato silenzio del paesaggio autunnale,
quando giunti sull’altura si passavano accanto, taciti e
lenti, per allontanarsi poi gradatamente l’uno dal­
l’altro, sempre di più, sin che scendevano e sparivano
dietro la colma della collina, simili a due stelle al tramonto
per riapparire, dopo un buon tratto. Se trovavano
una pietra nei loro solchi, la gettavano con gesto trascu­
rato eppur fermo nel desolato campo di mezzo, il che
però accadeva di rado, poiché già vi si erano accumulati
tutti i sassi che si potessero trovare nei campi circostanti.
La lunga mattina era già in parte trascorsa, quando dal
villaggio giunse un minuscolo e grazioso veicolo che era
appena visibile allorché cominciò ad accostarsi alla lieve
altura. Era una carrozzella, dipinta di verde, in cui
i figlioli dei due aratori, un ragazzo e una piccolina, por­
tavano insieme la colazione antimeridiana. Per ciascuno
v’era nella carrozzella una bella pagnotta ravvolta in un
tovagliolo, un boccale di vino con bicchiere e ancora
qualche modesta leccornia aggiunta dalla tenera massaia
per il suo laborioso consorte. C’erano inoltre mele e pere
rosicchiate in forme strane, raccolte dai bambini per la
strada, e una bambola completamente nuda, con una
gamba sola e la faccia sporca, che sedeva tra le due
pagnotte come una damigella, facendosi comodamente
portare a spasso. Dopo parecchi spintoni e soste il veicolo
alla fine si fermò sulla cima, all’ombra di un gruppo di
giovani tigli posto in margine al campo, e si poterono allo­
ra osservare i due guidatori. Erano un ragazzo di sette an­
ni e una bimbetta di cinque, sani e vispi, e non si notava
ROMEO E GIULIETTA DEL VILLAGGIO 59
in loro nulla di speciale se non che ambedue avevano occhi
bellissimi e la piccina per di più colorito bruno e capelli
crespi e scuri che le davano un aspetto vivace ed ingenuo
insieme. I due aratori, giunti intanto in cima al campo,
diedero ai loro cavalli un po’ di trifoglio e lasciarono gli
aratri nel solco giunto a mezzo, avviandosi da buoni vicini
al pasto comune e salutandosi intanto per la prima volta,
giacché sino ad allora, quel giorno, non avevano scambiato
parola.
Mentre i due uomini consumavano piacevolmente la
colazione, facendone parte benevolmente ai bambini che
non si staccarono di lì finché si bevve e si mangiò, lascia­
rono vagare i loro sguardi vicino e lontano, e scorsero la
cittadina che scintillava e fumava fra le sue montagne,
poiché i pranzi abbondanti preparati ogni giorno dai
Seldwylesi solevano far salire sopra i loro tetti una nuvo­
letta argentea, visibile da lungi, che si librava ridente
lungo le loro montagne.
— Quei bricconi di Seldwyla fanno al solito gran cuci­
na ! — disse Manz, uno dei due contadini, e Marti, il
secondo, rispose: — Ieri è venuto uno da me per questo
campo qui.
— Uno del Consiglio distrettuale? È stato anche da
me ! — disse Manz.
— Davvero? E ti ha certo detto di adoperare la terra e
di pagare un affitto alle autorità?
— Già, sino a che sarà deciso a chi appartenga il campo
e che cosa se ne debba fare. Io però non ci pensavo nep­
pure a mettere in sesto quella terra selvatica per un altro,
e ho detto che vendessero il campo e mettessero da parte
il ricavato finché non si trovi un proprietario, il che del
resto non succederà mai; giacché quel che arriva negli uf­
fici di Seldwyla va sempre per le lunghe e per di più que­
sta è una faccenda difficile a decidersi. Quei bricconi vor­
rebbero volentieri aver qualcosa da rosicchiare con l’affit­
to, ma potrebbero anche farlo con una somma tratta dalla
vendita. Noi però ci guarderemmo dal farla andare troppo
su e sapremmo poi almeno quel che ci tocca e di chi resta
la terra !
6o LA GENTE DI SELDWYLA

— Penso esattamente lo stesso anch’io e ho dato un’ana­


loga risposta a quel signore !
Tacquero un poco, poi Manz riprese:
— È però un peccato che quel buon terreno resti lì ; fa
rabbia a vederlo, e sono ormai quasi vent’anni e nessuno
ci pensa, perché qui in paese non c’è anima viva che
possa aspirare a quel campo e nessuno neppure sa dove
siano andati a finire i figli dello sciagurato trombettiere.
— Già, — disse Marti — è una strana faccenda ! Se
guardo quel violinista nero che ora sta con gli zingari,
ora suona per i villaggi, giurerei che è un nipote del
trombettiere, il quale, si capisce, non ha neppure il so­
spetto di esser padrone di un campo. E che cosa ne fa­
rebbe? Si ubriacherebbe per un mese e tornerebbe poi
da capo ! E poi, chi ha voglia di dare un’indicazione simile,
non potendo sapere nulla di sicuro?
— Si potrebbe creare un bel pasticcio ! — rispose Manz
— Facciamo già fatica a rifiutare al violinista il diritto di
cittadinanza nel nostro Comune mentre continuano a
volerci accollare questo pezzente ! Se i suoi genitori sono
andati tra i senza patria, ci rimanga anche lui e suoni il
violino per i suoi zingari. Come possiamo noi in fondo sa­
pere che egli è il figlio del figlio del trombettiere? Per
quel che mi riguarda, pur credendo di riconoscere perfet­
tamente nella sua faccia scura quel vecchio, mi dico : erra­
re è cosa umana e per la mia coscienza servirebbe molto
di più un pezzettino di carta, un frammento di fede bat­
tesimale che non dieci facce di peccatori !
— Ma sicuramente ! — disse Marti — È vero che lui
sostiene di non aver colpa se non l’hanno battezzato. Ma
dovremmo forse avere un fonte battesimale mobile, da
portare nei boschi? No, quello sta ben fisso in chiesa,
mentre in compenso è mobile la barella dei morti appesa
fuori al muro. In paese abbiamo già troppa gente e presto
ci occorreranno due maestri !
Con questo finì il pasto e il colloquio dei due, che si
alzarono per terminare il lavoro della mattinata. I due
piccoli invece, che già si erano proposti di ritornare a
casa coi padri, spinsero la carrozzella sotto i giovani tigli
ROMEO E GIULIETTA DEL VILLAGGIO 6l

e partirono per una spedizione nel campo abbandonato,


il quale con le sue erbacce, gli arbusti e i mucchi di
pietre, rappresentava un’interessante e inusitata terra
vergine. Dopo aver camminato per un poco in mezzo al
verde, tenendosi per mano e divertendosi a passar le
mani unite sugli alti ciuffi di cardi, andarono finalmente
a sedersi all’ombra di uno di essi e la bimba cominciò
a rivestire la bambola con le lunghe foglie della sangui­
nella, confezionandole una bella sottana verde a punte;
un solitario papavero rosso ancora in fiore le fu mes­
so in testa come cuffia, ben trattenuto da un filo di
erba, col che la piccola persona ebbe l’aria di una maga,
specie dopo che fu anche ornata di una collana e di una
cintura di piccole bacche rosse. La posero poi su un alto
stelo di cardo e per un poco stettero a guardarla insieme,
finché il ragazzo ne ebbe abbastanza e la buttò a terra
con una sassata. Questo rovinò la sua bellezza e la bimba
la svestì in gran fretta per tornare ad adomarla; ma quan­
do la bambola fu di nuovo nuda, con soltanto la cuffia
rossa, lo sfacciato ragazzo strappò il balocco alla compa­
gna e lo lanciò in aria. La bimba, piangendo, cercò di
afferrarlo con un salto, ma l’altro fu il primo a ripren­
derlo e lo lanciò di nuovo, continuando per un bel po’ a
canzonare così la piccina, che inutilmente tentava di
riconquistarlo. Ma fra le sue mani la povera bambola
volante fu ferita, e precisamente al ginocchio dell’unica
gamba, di dove, da un piccolo buco, cominciò a piovere
la crusca. Appena il torturatore s’accorse di questo
buco, si tenne tranquillo e, a bocca aperta, con gran
zelo, si diede ad ampliarlo colle unghie per cercare di
dove la crusca venisse. Il suo silenzio parve estremamente
sospetto alla povera bimba, che gli si accostò e s’accorse
atterrita della sua crudele impresa. «Guarda!», gridò
lui agitandole sotto il naso la gamba e facendole volare
la crusca in faccia, e mentre la bimba cercava di affer­
rarla strillando e supplicando, egli scappò via e non ebbe
pace sinché la gamba intera non penzolò vuota e floscia
come una triste buccia inutile. Allora lanciò via il ba­
locco malmenato e quando la bimba si buttò piangendo
62 LA GENTE DI SEI.DWYLA

sulla sua bambola e la ravvolse nel grembiulino si diede


un’aria di grande impudenza e indifferenza. Poi la pic­
cina tornò a trarla fuori, considerando mestamente la po­
veretta, e vedendone la povera gamba riprese a piangere
forte, perché pendeva dal torso ridotta proprio come la
coda di una salamandra. Ai suoi pianti sempre più lamen­
tosi, il malfattore cominciò a sentirsi a disagio e s’accostò,
spaventato e pentito, alla disperata, che, appena se ne
accorse, s’interruppe di colpo per picchiarlo ripetuta-
mente con la bambola, e poiché lui finse di sentir molto
male e gridò con molta naturalezza: «Ahi, ahi!», essa
ne fu soddisfatta e continuò insieme al compagno l’opera
di distruzione e di smembramento. Praticarono in quel
corpo di martire un gran numero di fori, facendone sgor­
gare da tutte le parti la crusca, che raccolsero con cura in
un mucchietto su una pietra liscia, rimestandola e osser­
vandola poi attentamente. L’unica parte solida rimasta
alla bambola era ormai la testa, che attrasse particolar­
mente l’attenzione dei bimbi. La staccarono con cura dal­
la salma svuotata e guardarono stupiti la cavità interiore.
Mentre consideravano quello strano vuoto e d’altra parte
la crusca, il primo naturale pensiero fu di empire quella
testa con la crusca, ed ecco ora le manine dei bimbi in­
daffarate a metter crusca, a gara, nella testolina che per
la prima volta in vita sua contenne qualcosa. Al ragazzo
però tutto questo dovette sembrare scienza morta, per­
ché d’un tratto egli prese una bella mosca azzurra e,
tenendo imprigionato fra le sue mani l’insetto ron­
zante, ordinò alla bimba di vuotare di nuovo la te­
sta. Ci misero poi dentro la mosca, tappando l’apertura
con erba. I bimbi accostarono poi la testa all’orecchio e
la deposero quindi con tutta solennità su una pietra.
Quella testolina sonora ancora rivestita del papavero ros­
so somigliava ora al capo di una profetessa e i due bimbi
stettero ad ascoltare, in profondo silenzio, tenendosi ben
stretti, le sue rivelazioni e le sue fiabe. Ma non c’è
profeta che non susciti terrore e ingratitudine; quel po’
di vita dentro l’immagine deforme bastò a destare l’umana
crudeltà dei due bimbi, che decisero di seppellirla. Scava-
ROMEO E GIULIETTA DEL VILLAGGIO 63

rono così una fossa e vi deposero la testa, senza chiedere il


parere del moscone prigioniero, e su quella tomba eres­
sero un notevole mausoleo di sassi. Provarono tuttavia
un certo senso di raccapriccio per aver seppellito qualcosa
che aveva forma e vita, e s’allontanarono d’un bel tratto
da quel luogo pauroso. La bambina, ormai stanca, si di­
stese a pancia all’aria su un pezzetto di terreno compieta-
mente coperto di erbe verdi e cominciò a canterellare
con monotonia alcune parole, sempre le stesse, e il ra­
gazzo le si accoccolò vicino e l’aiutò, incerto se dovesse
egli pure sdraiarsi del tutto tanto era svogliato e ozioso.
Il sole entrava proprio dentro la bocca aperta della pic­
cina, illuminandone i dentini candidi e rendendo quasi
trasparenti le curve labbra porporine. Il ragazzo guardò
i denti e, reggendo la testolina della compagna e stu­
diandone curioso i dentini, esclamò:
— Indovina, quanti denti abbiamo?
La bimba ci pensò un poco, come se contasse attenta­
mente, poi disse a caso:
— Cento !
— Ma no, trentadue ! — replicò lui — Aspetta, li vo­
glio contare ; — e cominciò a contare i denti della piccina,
ma non arrivava ai trentadue, e ricominciava quindi
sempre da capo. Per un bel po’ la bimba stette ferma, ma
vedendo che lo zelante contabile non la smetteva, balzò
su esclamando:
— Ora voglio contare io i tuoi denti !
Fu allora il ragazzo a distendersi nell’erba, mentre
la bambina, curva su di lui, gli prese il capo e contò nella
sua bocca spalancata : uno, due, sette, cinque, due, uno,
giacché la piccolina non sapeva ancora contare. L’amico
la correggeva, insegnandole come doveva contare, e così
anche lei ripigliò infinite volte da capo e quel gioco parve
piacere ai due bimbi molto più di tutto quanto avevano
sino ad allora intrapreso. Alla fine però la bimba cadde
addosso al piccolo maestro d’aritmetica e tutt’e due si
addormentarono nel chiaro sole di mezzogiorno.
Nel frattempo i padri avevano finito di arare i loro cam­
pi, trasformandoli in una bruna superficie fresca e pro-
64 LA GENTE DI SELDWYLA

fumata. Finito l’ultimo solco, quando uno dei garzoni


voleva fermarsi, il padrone gli gridò:
— Perché ti fermi? Gira un’altra volta !
— Ma se abbiamo finito ! — disse il garzone.
— Sta’ zitto e fa’ quel che ti dico ! — ribattè il padrone.
Voltarono infatti, tracciando un solco profondo nell’ab­
bandonato campo di mezzo, facendo volar via pietre ed
erbaccia. Il contadino però non si attardò a buttar via
quelle pietre, pensando forse che per quello ci sarebbe
stato tempo e accontentandosi per il momento del lavoro
più grossolano. L’altura saliva con una dolce curva e
quando si era giunti in cima e il gentile venticello tornava
a ricacciare all’indietro la punta del berretto dell’uomo,
passava dall’altra parte il vicino, con la punta in avanti,
scavando anche lui un energico solco nel campo di mezzo
e facendo anch’egli volare ai due lati le zolle. Ciascuno
vide benissimo quel che faceva l’altro, ma nessuno parve
prenderne nota e tutti e due tornarono a scomparire alla
vista; cosi ognuna delle stelle passò silenziosa accanto
all’altra, calando poi dietro il curvo orizzonte. Cosi le
spole del telaio del destino si passano accanto e nessun
tessitore sa quel che tesse!

Un raccolto tenne dietro all’altro, e ognuno vide i


bimbi farsi più grandi e più belli e il campo senza pa­
drone farsi più stretto fra quelli allargati dei due vicini.
Ad ogni aratura esso perdeva da ambo i lati un solco,
senza che se ne facesse parola, e senza che occhio umano
sembrasse accorgersi di quel reato. Le pietre s’accumula­
rono sempre più e formavano ormai già una cresta ordina­
ta per tutta la lunghezza del campo e la vegetazione selva­
tica vi crebbe così alta, che i due bimbi, pur essendo cre­
sciuti, non si vedevano più se l’uno era al di qua e l’altro al
di là. Ora infatti non andavano più insieme in campagna,
perché il decenne Salomon o Sali, come era chiamato,
se ne stava ormai fra i ragazzi grandi e gli uomini, mentre
la bruna Vrenchen, pur essendo una bambina vivacis­
sima, doveva già subire la custodia del suo sesso per non
essere schernita dalle compagne come un mezzo maschio.
ROMEO E GIULIETTA DEL VILLAGGIO 65

Però durante ogni mietitura, quando tutti erano per i


campi, approfittavano dell’occasione per risalire la cresta
di pietre che li divideva e divertirsi poi a buttarsi giù
a spintoni. Benché non avessero ormai altri rapporti, pa­
reva che quella cerimonia annuale venisse osservata con
gran cura, perché le terre dei loro genitori non erano in
nessun altro punto confinanti.
Finalmente un giorno il campo abbandonato dovette
essere messo in vendita, e il ricavo affidato in custodia al­
le autorità. L’asta pubblica ebbe luogo sul posto, ma non
vi si recarono che pochi spettatori oltre ai due contadini
Manz e Marti, giacché nessuno aveva voglia di comprare
quella strana striscia di terra e di andare a lavorare fra i
due vicini. Benché questi infatti fossero fra i migliori
agricoltori del villaggio e avessero fatto solo quello che i
due terzi di loro avrebbero pur commesso in analoghe
condizioni, tacitamente venivano criticati e nessuno ave­
va il desiderio di andarsi a ficcare fra i due con quel cam­
po già rimpicciolito. La maggior parte degli uomini sono
capaci o pronti a commettere un’iniquità che è nell’aria,
se per caso ci si imbattono; ma quando è commessa
da un altro, sono in fondo contenti di non essere stati loro
a cedere a quella tentazione, e fanno di quel prescelto
la misura per le proprie debolezze e lo trattano con un
certo riguardo, quale esecutore del male designato dagli
dèi, mentre in certo modo loro hanno ancora l’acquo­
lina in bocca se pensano ai vantaggi che gli sono toccati.
Manz e Marti furono dunque i soli che fecero serie of­
ferte per il campo ; dopo una gara abbastanza tenace ven­
ne aggiudicato a Manz. Funzionari e spettatori se ne
andarono e i due contadini, che avevano lavorato ancora
un po’ nei rispettivi campi, tornarono a incontrarsi nel
partire e Marti disse:
— Ora certo tu metterai insieme il tuo terreno nuovo
e quello vecchio, per dividerlo poi in due parti eguali,
nevvero? Io almeno avrei fatto così, se fosse toccato a me.
— Lo farò sicuramente anch’io, — rispose Manz —
perché per un campo solo è un appezzamento troppo
grande. Ma a proposito : ho osservato che poco tempo fa,
66 LA GENTE DI SELDWYLA

là alla fine del terreno che ora mi appartiene, sei entrato


tu di traverso, tagliandone un buon triangolo. L’hai forse
fatto pensando che saresti venuto in possesso di tutto il
terreno e che era quindi comunque roba tua. Siccome
però ora è mio, comprenderai bene che non posso tolle­
rare un simile cuneo nel mio terreno e non avrai nulla in
contrario se tornerò a raddrizzare il confine ! Non avremo
da litigare per questo !
Marti rispose con la stessa impassibilità con cui aveva
parlato Manz:
— Non vedo neppure io di dove verrebbe una lite ! Mi
pare che tu hai comprato il campo così com’è; l’abbiamo
veduto tutti insieme, e da un’ora in qua non si è certo
modificato di un filo!
— Storie ! — disse Manz — Non stiamo a rivangare
quel che è successo in passato! Ma quel che è troppo,
è troppo, e alla fine tutto deve essere raddrizzato; questi
tre campi sono sempre stati così dritti e paralleli, come
disegnati con la squadra, è uno scherzo ben strano da
parte tua volerci fare un simile ghirigoro ridicolo e scioc­
co, e se noi ci lasciassimo quella punta storta, meriterem­
mo presto ambedue un soprannome. Bisogna toglierla via
senz’altro !
Marti rise e soggiunse:
— Hai tutto a un tratto una gran paura degli scherzi
della gente ! Ma si può metterci riparo : a me quel che
è storto non dà noia, se a te secca, bene, raddrizziamolo
pure, ma non sulla parte mia; se vuoi te lo metto per
iscritto !
— Non fare dei discorsi tanto buffi ! — disse Manz —
Certo lo raddrizzeremo, ma dalla parte tua, puoi stame
sicuro !
— Staremo a vedere ! — disse Marti, e i due uo­
mini se ne andarono senza guardarsi più in viso; anzi
fissarono il cielo in direzione opposta, come se vedessero
chissà quali meraviglie e fossero costretti a contemplarle
prodigando tutto il loro ingegno.
Già l’indomani Manz mandò un garzone, una ragazza
a giornata e il suo figlioletto Sali nel nuovo campo a estir-
ROMEO E GIULIETTA DEL VILLAGGIO 67

pare le erbacce e i cespugli facendone dei mucchi in modo


che poi si potessero più comodamente portar via le pietre
con carri. Era una novità da parte sua mandarci anche il
ragazzo appena undicenne, che non era mai stato costretto
ad alcun lavoro, e contro il consiglio della madre. Lo
fece con parole austere e untuose, quasi cercasse di sof­
focare in tale rigidità contro il suo stesso sangue l’ingiu­
stizia in cui egli medesimo viveva e che cominciava ap­
punto allora a produrre silenziosamente i suoi effetti. I
tre giovani sarchiarono allegramente l’erbaccia e taglia­
rono con energia gli strani arbusti e le piante d’ogni
genere che da anni vi si moltiplicavano. E poiché era un
lavoro molto insolito e in certo modo selvaggio, nel qua­
le non si chiedeva né regola né accuratezza, sembrava
loro quasi un divertimento. Le erbe e gli sterpi, seccati
dal sole, vennero raccolti in un mucchio e accesi con
grande allegria, e mentre il denso fumo si diffondeva
lontano, i tre giovani vi ballavano attorno come dei mat­
ti. Fu quella l’ultima festa allegra su quel campo scia­
gurato e vi prese parte anche la piccola Vrenchen, la
figlia di Marti, che era sopraggiunta quatta quatta e
aveva lavorato di lena. Il lavoro insolito e l’allegra ecci­
tazione furono buona occasione ai due compagni di
giochi per riavvicinarsi, e i fanciulli si sentirono infatti
allegri e felici attorno al loro fuoco. Vennero anche
altri bimbi e si raccolse una vispa compagnia, ma
ogni volta che venivano divisi, Sali cercava di riacco­
starsi a Vrenchen, mentre questa del pari sapeva scivo­
largli accanto di continuo con un sorriso sereno, e alle
due creature pareva che quella meravigliosa giornata non
dovesse e non potesse avere mai fine. Ma verso sera ar­
rivò il vecchio Manz a vedere che cosa avessero fatto, e,
benché trovasse finito il lavoro, disapprovò quella festic­
ciola e disperse la brigata. Alla fine comparve Marti sul
suo campo e, scorgendo la figliola, la richiamò con un
imperioso e acuto fischio lanciato con le dita in bocca,
che la fece accorrere spaventata. Senza neppur sapere
perché, le diede poi due ceffoni, tanto che ambedue i ra­
gazzi si avviarono a casa piangenti e tristissimi, senza
68 LA GENTE DI SELDWYLA

capire ora la causa della loro melanconia, come non ave­


vano prima capito quella della loro allegria, giacché la
rudezza dei padri, in verità piuttosto nuova, non era stata
ancora compresa dalle ingenue creature e non poteva
agitarle troppo.
Nei giorni seguenti si trattò di un lavoro più duro, e ci
vollero degli uomini quando Manz fece raccogliere e por­
tar via le pietre. Pareva che non finissero mai e che tutte
le pietre del mondo si fossero date convegno lì. Manz
però non le fece portare lontano, ma fece gettare ogni
carrata sul triangolo conteso già accuratamente arato
da Marti. Aveva prima tirato una riga diritta di con­
fine e ora caricò quel pezzetto di terreno con tutti i sassi
che loro due insieme da tempo immemorabile avevano
raccolto, tanto che ne sorse una grandiosa piramide,
che certamente, così almeno egli pensava, il suo avver­
sario si sarebbe ben guardato dall’eliminare. Marti que­
sto non se l’era proprio aspettato; credeva che l’altro
avrebbe proceduto come al solito con l’aratro, e aveva
quindi atteso di vederlo uscire ad arare. Seppe del bel
monumento eretto da Manz solo quando la cosa era
quasi finita; accorse pieno di rabbia, vide il bel regalo
e tornò indietro a volo in cerca del podestà, per prote­
stare intanto contro il mucchio di pietre e mettere il
sequestro giudiziario su quel pezzo di terreno. Da quel
giorno i due contadini furono intricati in processi recipro­
ci, né smisero finché non si furono rovinati ambedue.
I pensieri dei due uomini, un tempo tanto saggi, non
erano più lunghi della paglia trita ; ognuno di loro era per­
vaso dal più angusto senso della giustizia, poiché nessuno
dei due voleva o poteva ammettere che il compagno
con aperta ingiustizia arbitraria si attribuisse quel discus­
so e insignificante pezzetto di terra. Per Manz si aggiun­
geva uno strano amore per la simmetria e per le linee pa­
rallele, tanto che si sentiva davvero offeso dalla sciocca
pervicacia con la quale Marti insisteva perché rimanesse
quell’assurdo e impudente triangoletto. Ambedue poi
concordavano nella persuasione che l’avversario, riu­
scendo con tanta sfacciata goffaggine a imbrogliare l’altro,
ROMEO E GIULIETTA DEL VILLAGGIO 69

lo dovesse poi anche necessariamente ritenere uno spre­


gevole imbecille, visto che cose simili si può permettersele
con un povero diavolo senza carattere, ma non con un
uomo capace di reggersi e di difendersi con intelligenza;
ognuno si vedeva offeso nel suo amor proprio e si abban­
donava alla sfrenata passione della disputa e alla conse­
guente rovina. La loro vita assomigliò, da allora, alla tor­
tura di due dannati che, trascinati alla deriva su una
stretta tavola per un cupo torrente, si combattono e colpi­
scono l’aria, si afferrano e si annientano credendo di affer­
rare la propria sventura. Data la causa sballata, finirono
ambedue nelle mani di pessimi imbroglioni, i quali gonfia­
rono le loro fantasie malate al pari di mostruose vesciche,
riempiendole poi delle più inutili fole. Specialmente per
gli speculatori di Seldwyla quella contesa fu una bazza,
e ben presto ognuno dei contendenti ebbe un sèguito
di informatori, di consiglieri, e di agenti, abili nello spil­
lare denaro contante per mille vie. Il pezzetto di terra
ricoperto di un mucchio di sassi, tra i quali nel frattempo
era già spuntato e fiorito un boschetto di ortiche e di cardi,
fu il primo germe o, diciamo, la base di una vicenda con­
fusa e di un sistema di vita in cui i due cinquantenni
adottarono consuetudini e costumi, princìpi e speranze
ben diversi da quelli fino ad allora avuti. Quanto più
denaro perdevano, tanto più cresceva la smania di averne
e quanto meno ne avevano, tanto più ostinatamente si
proponevano di arricchire e di superare gli altri. Si la­
sciarono trascinare a ogni sciocchezza e puntarono anche
per molti anni su tutte le lotterie forestiere, i cui bi­
glietti solevano circolare in massa a Seldwyla. Mai riu­
scivano a vedere un tallero di guadagno, ma di continuo
udivano parlare dei guadagni di altri e di come loro stessi
fossero stati ben vicini a una vincita, mentre quella passio­
ne costituiva una regolare perdita di denaro per ambedue.
Talvolta i Seldwylesi si divertivano a far partecipare i
due contadini ad una lotteria con lo stesso biglietto,
senza che essi lo sapessero, in modo che basavano le loro
speranze di opprimere e annientare il rivale su un’unica e
identica cartella. Passavano la metà del loro tempo in città,
7θ LA GENTE DI SELDWYLA

dove ciascuno aveva il suo quartier generale in una taver­


na, e vi si facevano scaldar la testa e trascinare alle spese
più assurde, nonché a una sciagurata e stolta smoderatez­
za, che in segreto faceva loro sanguinare il cuore, cosi che
alla fine i due, i quali vivevano in lotta in fondo soltanto
per non passare da stupidi, diventarono degli imbecilli di
prima sorta e come tali da tutti reputati. L’altra metà del
tempo la passavano immusoniti a casa, oppure lavorando,
ma cercavano di riacquistare il tempo perduto con tale
frettolosa pazzia e impazienza, da allontanare inevita­
bilmente ogni lavoratore fidato e regolare. In quel modo
tutto andava alla rovescia e, prima che fossero passati
dieci anni, erano ambedue immersi nei debiti e si regge­
vano sulla soglia dei loro possessi, simili alle cicogne
che stanno su una gamba sola, col pericolo che ogni colpo
d’aria li buttasse a terra. Comunque però andassero le
cose, l’odio reciproco cresceva giornalmente, giacché cia­
scuno considerava l’altro quale origine della sua sventura,
quale nemico ereditario e avversario irragionevole, mes­
so al mondo espressamente dal diavolo per la sua rovina.
Appena si scorgevano da lontano lanciavano uno sputo;
nessun membro della famiglia doveva scambiare parola
con la moglie, i figli o i servi dell’altra, se voleva evitare i
peggiori maltrattamenti. Le loro donne si contennero in
modo diverso di fronte alla situazione di impoverimento e
peggioramento generale. La moglie di Marti, di buona in­
dole, non resistette a quella decadenza, si tormentò e morì
prima che sua figlia raggiungesse i quattordici anni. La
moglie di Manz invece si adattò alle mutate circostanze e
per rivelarsi una cattiva compagna non ebbe che ad allen­
tare le briglie ad alcuni difetti femminili da lei sempre
posseduti, trasformandoli in vizi. La sua golosità si tra­
sformò in avidità smodata, la sua lingua sciolta in perfida
consuetudine a lusinghe o calunnie menzognere, tanto
che a ogni istante diceva il contrario di quel che pensava,
aizzava gli uni contro gli altri e dava ad intendere una
cosa per un’altra al suo stesso marito; l’antica schiettezza,
di cui si era compiaciuta in passato chiacchierando inno­
centemente, divenne impudenza indurita nel valersi della
ROMEO E GIULIETTA DEL VILLAGGIO ?!

sua falsità e così, invece di soffrire per il marito, si prese


gioco di lui; se quello ne faceva di grosse, lei ne fece di
peggio, non si fece mancare nulla e riuscì a diventare il
più perfetto fiore di padrona per la casa in rovina.
Andavano dunque ben male le cose per i poveri figlioli,
che non potevano nutrire buone speranze per l’avvenire,
né godere una serena giovinezza, non essendo circon­
dati che dalla discordia e dai crucci. Vrenchen in appa­
renza stava peggio di Sali, avendo perduto la mamma
ed essendo in balia della tirannide di un padre inselva­
tichito, sola in una casa desolata. A sedici anni era già
una ragazza snella e graziosa; i capelli castano scuri si
inanellavano scendendo quasi sui bruni occhi lampeg­
gianti, il sangue ben rosso coloriva le guance abbronzate
e ne imporporava le labbra fresche, come si vede di rado,
rendendo caratteristico l’aspetto della bruna fanciulla. In
ogni sua fibra vibrava l’ardente allegria e la voglia di vi­
vere; appena il tempo era un po’ benigno, cioè appena
non la tormentavano troppo e non c’erano troppi crucci,
essa rideva ed era pronta al gioco e allo scherzo. Ma gli
affanni l’affliggevano spesso, giacché non soltanto do­
veva sopportare i dolori e la crescente miseria di casa, ma
badare a sé e cercare di vestirsi con discreto ordine e cura
senza riceverne dal padre il minimo aiuto. Vrenchen
faceva quindi fatica ad adornare in qualche modo la sua
graziosa personcina, a conquistarsi un modestissimo abito
della festa e possedere un paio di scialletti colorati di
scarsissimo valore. La bella e vispa giovinetta veniva così
di continuo umiliata e oppressa e non correva certo peri­
colo di peccare d’alterigia. Aveva per di più assistito con
intelligenza già sveglia alle sofferenze e alla morte della
madre e questo ricordo era un ulteriore freno alla sua in­
dole lieta e appassionata, cosicché era uno spettacolo
infinitamente leggiadro e impensato e commovente veder
talvolta la buona figliola ravvivarsi malgrado questo
ad ogni raggio di sole, subito pronta ad un sorriso.
La sorte di Sali non era a prima vista altrettanto dura:
egli era infatti un bel ragazzo robusto, capace di difen­
dersi e il cui contegno esteriore rendeva senz’altro impos­
72 LA GENTE DI SELDWYLA

sibile un cattivo trattamento. Vedeva benissimo il disor­


dine dei genitori, e gli pareva di ricordare che le cose non
erano andate sempre così; conservava anzi bene nella
memoria l’antica immagine di suo padre come di un con­
tadino assennato, prudente e tranquillo mentre ora si ve­
deva dinanzi un pazzo dai capelli grigi, fannullone e
attaccabrighe, che procedeva per cento vie stolte e fallaci
millantando e smaniando e che di ora in ora andava
all’indietro al pari di un gambero. Se questo gli spiaceva
e lo colmava spesso di vergogna e di dolore, non renden­
dosi egli conto nella sua inesperienza di come le cose fosse­
ro giunte a tal punto, i crucci erano d’altra parte assopiti
dalle lusinghe con le quali lo trattava sua madre. Essa in­
fatti, per compiere indisturbata le sue malefatte ed avere
anzi un buon alleato, e anche per obbedire alla propria
mania di grandezza, gli concedeva sempre quanto deside­
rava, lo vestiva con sfarzo e lo appoggiava in tutto quanto
intraprendesse per suo divertimento. Sali accettava senza
molta gratitudine, trovando che la madre chiacchierava
e mentiva troppo, ma, pur avendone scarsa gioia, faceva
sventatamente e pigramente tutto quel che gli accomo­
dava, senza commettere però alcun male, non essendo an­
cora guastato dall’esempio dei genitori e sentendo ancora
in sé il bisogno giovanile di serbarsi in complesso semplice,
calmo e discretamente laborioso. Egli era insomma pres­
sappoco quel che suo padre era stato a quell’età, e ciò
appunto ispirava al padre un’involontaria stima per il
figlio, nel quale con turbata coscienza e con torturato ri­
cordo rispettava la propria gioventù. Malgrado la libertà
di cui godeva, il ragazzo non era contento della sua vita,
sentendo di non avere nulla di buono in vista e di non
imparare un bel nulla, giacché da un pezzo nella casa di
Manz non si poteva più parlare di una vera e propria
attività ragionevole e continuata. Il suo maggior conforto
era quindi l’orgoglio della propria indipendenza e irre­
prensibilità e in tale orgoglio egli passava sdegnosamente
i suoi giorni distogliendo gli sguardi dall’avvenire.
L’unica costrizione che doveva subire era l’inimicizia
di suo padre per tutto quello che si chiamava Marti e che
ROMEO E GIULIETTA DEL VILLAGGIO 73
a lui si riferiva. Per suo conto sapeva soltanto che Marti
aveva danneggiato il padre e che in quella casa si nutri­
vano eguali sentimenti di ostilità, cosi che non gli tor­
nava difficile non guardare né Marti né la figliola e far
la parte di un futuro se pur remissivo nemico. Vrenchen,
invece, dovendo sopportare ben di peggio ed essendo
molto più abbandonata in casa sua, si sentiva meno vitti­
ma di una vera e propria inimicizia e si riteneva soltanto
disprezzata da Sali così ben vestito e apparentemente for­
tunato; per questo lo evitava, e se per caso gli capitava
vicina, s’allontanava in fretta, senza che egli si desse la
pena di seguirla con un’occhiata. Fu così che per un paio
d’anni il ragazzo non ebbe occasione di accostarla e nep­
pure sapeva che aspetto avesse da quando era cresciuta.
Se ne stupiva però talvolta non poco, e quando il discorso
si riferiva a Marti, egli involontariamente pensava alla
figlia, il cui aspetto presente non gli era chiaro, ma il cui
ricordo gli era tutt’altro che odioso.
Fu però suo padre Manz il primo dei due avversari che
dovette cedere e perdere casa e podere. La precedenza
derivava dal fatto che egli aveva una moglie che l’aveva
aiutato a dilapidare e un figlio il quale pur consumava
qualcosa, mentre Marti nel suo traballante regno era il
solo a spendere, sua figlia poteva bensì lavorare come una
bestia da soma, ma non pretendere nulla. Manz non seppe
far di meglio che ascoltare il consiglio di alcuni suoi pro­
tettori di Seldwyla e trasferirsi in città per aprirvi un’oste­
ria. È sempre una malinconia vedere un antico contadino
invecchiato sulla sua terra, che si riduce in città con i re­
sidui dei suoi averi e vi apre una bettola o un’osteria, cer­
cando l’ultima àncora di salvezza nel sostenere la parte
dell’oste gioviale e spigliato mentre nell’animo è tutt’altro
che sereno. Quando Manz e i suoi lasciarono il poderetto
si potè vedere a che punto erano ridotti ; non caricarono
che vecchi mobili ed arredi, dai quali ben si capiva che da
molti anni nulla era stato acquistato o rinnovato. Tuttavia
la moglie indossò le sue vesti migliori per salire in cima
al carro della roba, facendo una faccia speranzosa, da
futura cittadina che già disprezzava i compaesani che
74 LA GENTE DI SELDWYLA

dietro alle siepi e ai cancelli guardavano pieni di compas­


sione il melanconico corteo. Essa si proponeva di incan­
tare la città intera con la sua amabilità e intelligenza e
di riuscire a quello cui non sarebbe riuscito il suo sciocco
marito, appena stabilita da signora ostessa in una bella
locanda. Questa in realtà non era che una melanconica
piccola bettola in un’angusta stradetta fuori mano, dove
già un altro era andato in rovina e che i Seldwylesi
affittarono a Manz, in quanto egli era creditore di al­
cune centinaia di talleri. Gli vendettero anche un paio
di botti di vino tagliato e gli arredi della bottega, consi­
stenti in una dozzina di rozze bottiglie bianche, altret­
tanti bicchieri, poche tavole e panche di legno d’abete,
un tempo verniciate in rosso vivo ed ora per lo più
logorate. Davanti all’ingresso cigolava un cerchio di ferro
appeso ad un gancio e dentro al cerchio una mano di
latta versava del vino da un piccolo boccale entro
un bicchiere. Inoltre sopra la porta era appeso un
ciuffo di agrifoglio secco, compreso anch’esso nell’af­
fitto. Manz non era però di buon animo come sua
moglie, anzi incitava pieno di rabbia e di oscuri pre­
sagi i cavallucci magri presi a prestito dal nuovo padrone
del podere. L’ultimo suo misero garzone l’aveva piantato
già alcune settimane avanti. Mentre partiva a quel modo,
vide benissimo che Marti si tratteneva per la strada pieno
di maligna gioia e di scherno e gli lanciò una maledizione,
considerandolo sempre unico autore di ogni sua sventura.
Sali invece, appena il veicolo si mosse, affrettò il passo;
lo precedette e andò solo in città per le scorciatoie.
« Eccoci arrivati ! » disse Manz, quando il carro si
fermò davanti alla piccola spelonca. La moglie rimase
davvero atterrita, giacché era una ben triste trattoria!
La gente s’affacciò subito alle finestre e si fece sulle porte
a vedere il nuovo oste-contadino, dandosi con superiorità
seldwylese grandi arie di compassionevole scherno. La
moglie scese dal carro e córse in casa con gli occhi lagn­
inosi per la rabbia, affilando già la lingua, ma per quel
giorno preferì elegantemente non farsi più vedere, ver­
gognandosi dei vecchi arredi e dei letti mezzo rotti che
ROMEO E GIULIETTA DEL VILLAGGIO 75
venivano scaricati. Se ne vergognava anche Sali, ma do­
veva pur dare una mano, accatastando insieme al padre
uno strano deposito nella viuzza, dove ben presto si ra­
dunarono i figlioli dei Seldwylesi falliti, divertendosi per
gli stracci dei contadini. In casa la melanconia era ancora
peggiore, e pareva davvero di essere in un nido di bri­
ganti. Le pareti umide e mal intonacate; oltre al locale
buio dell’osteria con le tavole rosse, ora stinte, non c’e­
rano che un paio di camerette miserevoli, e dappertutto
i predecessori avevano lasciato la più sconsolata sporcizia.
Così cominciarono e così continuarono. La prima set­
timana, specialmente la sera, si riempì sovente una tavo­
lata di gente, per la curiosità di vedere il nuovo venuto
oste di campagna, nella speranza di trovare motivo a qual­
che spasso. Ma nell’oste non c’era molto da vedere, giac­
ché Manz era goffo, rigido, scortese e melanconico, non
sapeva come comportarsi e neppure voleva impararlo.
Riempiva i boccali con lentezza e imperizia, li metteva
immusonito davanti ai clienti, tentando di dire qualche
cosa, ma senza trovar parola. Tanto più zelante, invece,
sua moglie si mise al lavoro, per qualche giorno riuscendo
a trattenere la gente, ma in modo tutto diverso da quel
che aveva sperato. La donna, piuttosto grassa, aveva mes­
so insieme un costume col quale si credeva irresistibile. Su
una gonna campagnola di lino greggio, portava una vec­
chia giacca di seta verde, un grembiule di cotone e un
orribile colletto bianco. Coi suoi capelli non più folti s’era
attorcigliata sulle tempie delle comiche chiocciole e nella
trecciola sulla nuca aveva infilato un pettine alto. Ballon­
zolava e scodinzolava attorno con grazia forzata, facendo
ridicole boccucce, che avrebbero voluto esser dolci, s’acco­
stava alle tavole con passo elastico, e porgendo un bicchiere
oun piatto di formaggio salato, diceva ridendo: «Così?
Così cosà ! Signorile, signorile, cari signori ! » e altre scioc­
chezze del genere, giacché, malgrado la sua lingua taglien­
te, ora non sapeva trovar nulla di intelligente, sentendosi
forestiera tra gente sconosciuta. I clienti, tutti Seldwylesi di
pessimo genere, tenevano la mano davanti alla bocca sof­
focando dalle risa e si davano calci sotto la tavola dicendo :
76 LA GENTE DI SELDWYLA

— Perbacco ! È un incanto !
— Un angelo ! — aggiungeva un altro — Accidenti !
Val la pena di venire qui, una come questa non l’abbia­
mo vista da un pezzo !
Il marito con sguardi torvi si accorse di tutto e le diede
una gomitata nelle costole, sussurrandole :
— Vecchia pazza ! Che cosa fai?
— Non seccarmi, — disse lei impaziente — brutto im­
becille ! Non vedi come mi do pena e come so trattar la
gente? Ma questi non sono che degli straccioni del tuo
genere! Lascia fare a me e avremo presto una clientela
distinta !
La scena era illuminata da un paio di moccoli di sego;
Sali, il figliolo, preferì andare nella cucina scura, dove
sedette accanto al focolare piangendo per il padre e per
la madre.
I clienti però furono presto sazi del divertimento offerto
dalla buona signora Manz e tornarono alle loro bettole
abituali, dove si sentivano meglio e potevano ridere di quel
nuovo bizzarro locale; solo di tanto in tanto compariva
un isolato a bere un bicchiere e sbadigliare annoiato,
oppure per eccezione c’era l’invasione di una brigata, ve­
nuta ad ingannare quei poveracci con un fugace disordine
e chiasso. Si sentivano sempre più angosciati fra quelle
strette mura, dove appena giungeva il sole, e Manz, ben­
ché abituato a starsene per giornate intere in città, trovava
ora insopportabile quella prigione. Se ripensava alla li­
bera ampiezza dei suoi campi, si metteva a fissare cupo il
soffitto o il pavimento, poi s’affacciava alla porta angusta,
ma ne rientrava subito, vedendosi contemplato con cu­
riosità dai vicini, che già gli avevano messo il nomignolo
di «oste cattivo». Non passò molto tempo che si ridussero
alla più completa miseria, e non avevano più nulla;
per mangiare un boccone dovevano aspettare che venisse
un cliente a bere un po’ del vino rimasto e, se chiedeva una
salsiccia o qualcos’altro, riuscivano a stento e con grande
ansia a procurarla. Ben presto furono costretti a custodire
il vino in un bottiglione che facevano riempire nascosta-
mente in un’altra bettola, ridotti ormai a tenere osteria
ROMEO E GIULIETTA DEL VILLAGGIO 77
senza vino e senza pane, e a mostrarsi gioviali a stomaco
vuoto. Erano quasi contenti se non arrivava nessuno e
stavano rintanati nella loro bettola, senza riuscire né a vi­
vere né a morire. Quando la donna ebbe fatto così tristi
esperienze, si spogliò della giacca verde e subì una nuova
metamorfosi, mettendo fuori, come prima i difetti, così,
ora, alcune virtù femminili, dato che il bisogno era or­
mai acuto. Dimostrò molta sopportazione, cercando di
sorreggere il vecchio e di avviare al bene il ragazzo; si
sacrificò in mille cose, esercitò insomma a modo suo una
specie di benefico influsso, che non valse per vero dire a
molto, né molto potè mutare, ma che era sempre meglio
di nulla o meglio del contrario, ed aiutò quanto meno a
ritardare la crisi, che altrimenti avrebbe dovuto scoppiare
molto prima. Sapeva suggerire espedienti in cose minute,
col suo buon senso, e se anche i suggerimenti poco vale­
vano e non avevano successo, sopportava paziente l’ira dei
due uomini ; insomma faceva ora, diventata vecchia, quel
che sarebbe stato tanto più utile se fatto prima.
Per procurarsi almeno qualcosa da mangiare e per far
passare il tempo, padre e figlio si diedero a pescare al­
l’amo, lanciandolo nel fiume là dove era lecito a tutti.
Era anche questa una delle occupazioni predilette dei
Seldwylesi falliti. Col tempo favorevole, quando i pesci
abboccavano volentieri, si poteva vederli avviarsi a doz­
zine, con la canna e il secchiello; e lungo le rive del fiu­
me si scorgeva ad ogni tratto un pescatore, l’uno con una
lunga giacca scura a falde e i piedi nudi nell’acqua, l’altro
ritto in piedi, in marsina azzurra, su un vecchio tronco
di salice, col vecchio cappello messo di traverso ; più in
là ce n’era uno addirittura in vestaglia sdruscita, a fiora­
mi, non possedendo altra veste, con una lunga pipa in una
mano e la canna nell’altra ; se poi si girava oltre un’ansa
del fiume, appariva un grassone tutto calvo e nudo come
un verme seduto su un sasso e intento a pescare: questi
però, pur essendo tanto vicino all’acqua, aveva i piedi così
sporchi che pareva tenesse ancora gli stivali. Ognuno
aveva accanto un vasetto o una scatoletta dove brulica­
vano i lombrichi, che in altre ore era andato a dissotter­
78 LA GENTE Dl SELDWYLA

rare. Quando il cielo era nuvoloso e il tempo incerto e


afoso prometteva pioggia, sempre più numerose si fa­
cevano lungo le rive quelle figure, immobili come una
galleria di statue di santi o di profeti. I contadini passa­
vano loro accanto con le bestie e i carri senza badarvi,
né li guardavano i battellieri sul fiume, mentre essi
borbottavano contro le barche disturbatrici.
Se dodici anni prima avessero predetto a Manz, quando
arava con la sua bella coppia di cavalli sul colle sovra­
stante la riva, che un giorno egli si sarebbe unito a quegli
strani santi per prender pesci, avrebbe protestato con
grande ira. Anche adesso passava frettoloso alle loro spalle,
risalendo il fiume come un’ostinata ombra infernale che
fosse in cerca per la sua dannazione di un posticino solita­
rio lungo le acque tenebrose. Tanto lui che suo figlio non
avevano però la pazienza di star lì fermi con la lenza e
ricordarono altri modi in cui i contadini pigliano pesci
quando sono svelti e coraggiosi, specialmente con le mani
nei ruscelli; per questo prendevano le canne solo per
mostra, ma risalivano poi i torrentelli, dove sapevano di
trovare ottime e preziose trote.
Anche per Marti, rimasto in campagna, le cose anda­
vano sempre peggio, e per di più si annoiava straordina­
riamente, così che, invece di lavorare le sue terre neglette,
venne anche a lui l’idea di pescare e di passare giornate
intere a diguazzare nell’acqua. Vrenchen era costretta a
non allontanarsi da lui, portandogli secchiello e stru­
menti per i prati umidi, attraverso ruscelli e pozzanghere,
ci fosse pioggia o bel tempo, mentre a casa veniva tra­
scurato il più necessario. Non c’era infatti più nessuno
al loro servizio, e di nessuno c’era ormai bisogno, visto
che Marti aveva perduto quasi tutto il suo terreno e
non possedeva che pochi campi, coltivati alla peggio o
addirittura per niente con l’aiuto della figlia.
Accadde così che una sera, mentre seguiva un tor­
rente abbastanza profondo e impetuoso, ove le trote sal­
tavano numerose, essendo il cielo pieno di nubi in tem­
pesta, imprevedutamente egli venisse ad incontrarsi col
suo nemico Manz, il quale risaliva l’altra riva. Al vederlo
ROMEO E GIULIETTA DEL VILLAGGIO 79
si risvegliò in lui un terribile rancore : da anni non si erano
visti così da presso, fuorché in tribunale, dove non pote­
vano ingiuriarsi, e Marti cominciò rabbioso:
— Che cosa vieni a fare qui, cane? Non puoi rimaner­
tene nel tuo lurido covo, straccione di un seldwylese?
— Ci arriverai presto anche tu, furfante! — replicò
Manz — Stai già cercando i pesci, non hai quindi più
molto da perdere !
— Taci, pendaglio da forca ! — urlò Marti, poiché
le onde del torrente erano lì più rumorose — Sei tu che
m’hai mandato in rovina !
E poiché ora anche i salici lungo l’argine comincia­
vano a stormire impetuosamente al vento che si alzava,
Manz dovette gridare ancor più forte:
— Se fosse proprio così, sarei felice, povero cretino !
— Cane ! — strillava Marti da una parte; e Manz dal­
l’altra :
— Asinaccio, quanto sei stupido ! — e quello saltellava
lungo il torrente come una tigre, cercando di attraver­
sarlo. La ragione per cui Marti era il più furente sta­
va nella persuasione che Manz, come oste, dovesse
avere almeno da bere e da mangiare a sufficienza e con­
durre una vita relativamente spassosa, mentre egli si do­
veva ingiustamente annoiare nel suo podere rovinato.
Manz camminava non poco rabbioso sull’altra sponda
con alle spalle il figlio, il quale, invece di seguire la
disputa odiosa, sbirciava con curiosità e stupore Vren-
chen, la quale teneva dietro al padre guardando a terra
per vergogna, così che i riccioli bruni le piovevano sul
volto. In una mano reggeva un secchiello di legno per i
pesci e con l’altra portava calze e scarpe, sollevando
intanto l’abito per serbarlo asciutto. Ma da quando
aveva visto Sali sull’altra sponda, l’aveva lasciato rica­
dere pudica e ora si sentiva tre volte impacciata e infe­
lice, per dover portare il secchiello, per dover tener sol­
levata la sottana e per la disputa. Se avesse alzato
gli occhi sul ragazzo, avrebbe scoperto che quello non era
più né elegante, né superbo all’aspetto, ma al contrario
anch’egli triste e mal ridotto. Mentre Vrenchen teneva
8o LA GENTE DI SELDWYLA

gli occhi a terra confusa e intimidita e Sali non vedeva


che quella figurina esile e graziosa malgrado tanta mi­
seria, che procedeva tanto umile e imbarazzata, i due non
s’accorsero che i loro padri si erano d’un tratto taciuti,
ma affrettavano il passo con rinnovato furore, avendo
scorto un ponticello di legno che non molto lontano at­
traversava il torrente. I primi lampi cominciarono ad
illuminare stranamente il fosco e melanconico paesaggio
fluviale; dalle nubi nerastre rumoreggiava cupo il tuono
e caddero pesanti gocce di pioggia quando i due energu­
meni si precipitarono insieme sullo stretto ponticello oscil­
lante sotto i loro piedi e si afferrarono di colpo, menandosi
pugni sulle facce pallide e tremanti d’ira e di cruccio
prorompente. Non è certo spettacolo grazioso o gentile
vedere due uomini un tempo posati che, per prepoten­
za, per sventatezza o per legittima difesa giungono
al punto di distribuir botte o prenderne in presenza
di gente indifferente ; ma questo è ancora un gioco inno­
cente in confronto allo spettacolo di due vecchi pervasi
da profonda angoscia, che ben si conoscono da lungo
tempo, e che per intimo odio e per le vicende di tutta una
vita si riducono a mettersi le mani addosso e a prendersi
a pugni. Così fecero in quel momento i due uomini già
canuti; erano forse passati cinquant’anni da quando si e-
rano azzuffati l’ultima volta da ragazzi, per cinquanta
lunghi anni poi non si erano sfiorati, se non, nel buon
tempo dell’amicizia, per stringersi la mano, e anche que­
sto, data la loro indole asciutta e seria, era capitato ben
di rado. Dopo due o tre colpi, si fermarono un momento
e continuarono poi la lotta, avvinghiati, taciti e tre­
manti, solo mandando ogni tanto un gemito e digrignan­
do penosamente i denti, cercando di gettarsi recipro­
camente nell’acqua al di sopra dello scricchiolante pa­
rapetto. Nel frattempo i figli li avevano raggiunti e
assistevano alla pietosa scenata. Sali fece un balzo per
soccorrere il padre e dare il colpo decisivo all’odiato ne­
mico, che già appariva del resto il più debole e minacciava
di soggiacere. Ma anche Vrenchen, gettando quanto ave­
va in mano, accorse con un alto grido e abbracciò il
ROMEO E GIULIETTA DEL VILLAGGIO 8l

padre per difenderlo, riuscendo invece soltanto a impac­


ciarlo. Con gli occhi grondanti di lagrime guardò sup­
plichevolmente Sali, che stava per afferrare il vecchio
e sopraffarlo. Egli involontariamente prese invece il
proprio padre, cercando di staccarlo dall’avversario e di
calmarlo, tanto che per un momento la lotta sostò, o
meglio tutto il gruppo oscillò agitato in qua e in là
senza potersi sciogliere. Inoltre i due giovani, insinuan­
dosi sempre più fra i contendenti, si erano trovati in
diretto contatto, e in quell’istante uno squarcio fra le
nuvole, lasciando filtrare la viva luce del tramonto,
illuminò il volto vicino della fanciulla, che apparve a
Sali tanto familiare e pur tanto mutato e più bello. In
quell’attimo Vrenchen s’accorse a sua volta del suo
stupore e, pur in mezzo alle lagrime e al terrore, ebbe
un breve e rapido sorriso. Allora Sali, svegliato da­
gli sforzi del padre per liberarsi da lui, si fece ancor più
energico e alla fine con la sua fermezza e con parole di
intensa preghiera riuscì a trascinarlo lontano dal nemico.
I due vecchi compari, staccandosi, trassero un gran respiro
e ripresero a insultarsi e a gridare; i loro figlioli, invece,
non respiravano quasi, silenziosi come la morte, ma men­
tre si voltavano per separarsi, senza che i vecchi se ne
accorgessero si porsero rapidamente le mani, che erano
umide e fresche d’acqua e di pesci.
Quando i due gruppi contendenti ripresero la via, le
nubi si erano richiuse, il buio si faceva sempre più fitto
e la pioggia scendeva a torrenti. Manz andava avanti per
gli oscuri sentieri bagnati, curvo sotto gli scrosci, con le
mani in tasca, ancora tutto tremante nei tratti del volto,
battendo i denti, mentre gli gocciolavano nella barba
incólta lagrime non viste che egli lasciava scorrere per
non rivelarle asciugandole. Suo figlio del resto non vedeva
nulla, perché camminava perduto in dolci immagini. Non
avvertiva né pioggia né tempesta, né oscurità né miseria;
per lui tutto era lieve, caldo e sereno, dentro e fuori, e
si sentiva ricco e sicuro come il figlio d’un re. Vedeva di
continuo davanti a sé il brevissimo sorriso di quel bel
volto accostato e lo ricambiava, solo in quel momento,
82 LA GENTE DI SELDWYLA

con una buona mezz’ora di ritardo, sorridendo pieno


d’amore nella notte e nella bufera a quel caro volto che
gli si ripresentava di continuo nelle tenebre, tanto che
gli pareva che Vrenchen dovesse senz’altro scorgere e
sentire quel suo riso segreto.

Suo padre il giorno seguente era ridotto uno straccio


e non volle uscire di casa. Tutta la vicenda e la sciagura
di molti anni assunsero quel giorno un nuovo e più chiaro
aspetto, si diffusero fosche nell’atmosfera opprimente della
taverna, tanto che marito e moglie non fecero che girare
stanchi e intimiditi attorno a quel fantasma, passando
dall’osteria nelle camerette scure, di lì nella cucina, e da
questa trascinandosi di nuovo nella saletta, dove non un
cliente era comparso. Alla fine ciascuno si rifugiò in un
angolo e cominciò per tutta la giornata a mormorare
stanchi rimproveri e vane recriminazioni; a tratti si ad­
dormentavano, ridestandosi però pel tormento di inquieti
sogni nati dal loro rimorso. Soltanto Sali non udiva e
non vedeva nulla, perché pensava incessantemente a
Vrenchen. Continuava ad avere l’impressione non soltanto
di essere indicibilmente ricco, ma anche di avere final­
mente imparato qualcosa di giusto e di sapere una quan­
tità di cose belle e buone, perché sapeva con precisione e
chiarezza quel che aveva veduto la vigilia. Tale scienza
gli era come piovuta dal cielo e lo immergeva in un pe­
renne stupore beato, ma pure gli sembrava di averla sem­
pre posseduta, di aver sempre conosciuto quel che lo
riempiva di così meravigliosa dolcezza. Nulla infatti
eguaglia l’imperscrutabile ricchezza di una beatitudine
che si offre all’uomo nella forma così precisa e limpida
di un essere battezzato da un prete e ben munito di un suo
nome particolare, che ha un suono diverso da tutti gli altri.
Sali quel giorno non si sentiva né disoccupato né in­
felice, né povero né disperato; aveva anzi fin troppo da
fare per rappresentarsi senza interruzione, un’ora dopo
l’altra, la figura e il volto di Vrenchen, solo che nel corso
di tale eccitata occupazione finì per svanirgliene quasi to­
talmente l’oggetto, vale a dire che si persuase di non sa­
ROMEO E GIULIETTA DEI. VILLAGGIO 83

per più quale fosse il vero aspetto di Vrenchen, avendone


bensì un’immagine generica nella memoria, ma non essen­
do più capace di descriverla se l’avesse voluto. La vedeva
senza posa quell’immagine, come gli stesse davanti, e ne
traeva una piacevole impressione, ma la scorgeva soltanto
come qualcosa che ci è apparso una sola volta fugacemen­
te, di cui siamo in potere senza però ancora conoscerla.
Rammentava esattamente e con grande piacere i tratti del
volto di lei ancora bambina, ma non i lineamenti intravi­
sti la sera innanzi. Se non avesse incontrato mai più Vren­
chen, le facoltà della sua memoria avrebbero dovuto arran­
giarsi e ricostruire accuratamente il caro volto senza di­
menticarne un tratto. Ma in quel momento esse con perfi­
da tenacia si ricusavano di servirlo, perché gli occhi esige­
vano il loro diritto e il loro piacere, tanto che quando nel
pomeriggio il sole raggiunse limpido e caldo i piani su­
periori delle case nerastre, Sali s’awiò fuori di porta, verso
il suo paese natale, che gli appariva ora una Gerusa­
lemme celeste con dodici porte dorate, e gli faceva bat­
tere il cuore man mano che vi si appressava.
Incontrò lungo la strada il padre di Vrenchen, che
sembrava avviato verso la città. Trasandato e selvaggio,
con la barba ormai grigia, non tagliata da settimane,
aveva l’aspetto del contadino mal ridotto e cattivo,
che ha dilapidato le sue terre e che si dispone a far
del male agli altri. Sali tuttavia, passandogli accanto,
non lo guardò più con odio, bensì con tremore e timidez­
za, quasi che la sua vita fosse nelle mani di colui ed egli
preferisse strappargliela con le suppliche che con la violen­
za. Marti invece lo squadrò con un’occhiataccia da capo
a piedi e proseguì per la sua strada. Ciò piacque a Sali, il
quale, vedendo il vecchio allontanarsi dal villaggio, si rese
più chiaramente conto delle proprie intenzioni. Per noti
sentieri fece un giro attorno al villaggio e, percorrendo
viuzze nascoste, andò a finire in faccia alla casa e al podere
di Marti. Erano molti anni che non rivedeva quel luogo
così da vicino, giacché quando abitavano ancora lì, i
due avversari evitavano a vicenda di venirsi tra i piedi.
Fu dunque stupito di quello che egli pure aveva già veduto
84 I.A GENTE DI SEEDWYEA

nella sua casa paterna e contemplò esterrefatto la deso­


lazione che gli si presentava dinanzi. A Marti avevano
sequestrato un campo dopo l’altro, tanto che non pos­
sedeva ormai più che la casa e il terreno circostante, con
un po’ d’orto e con quel campo sull’altura accanto al fiu­
me, dal quale con grande ostinazione non voleva staccarsi.
Di una vera coltivazione non si poteva parlare, ed an­
che il campo, un tempo ondeggiante di bel grano rego­
lare, era invece seminato a caso con avanzi di sementi
di scarto, racimolate da vecchie scatole e da cartocci
stracciati, e vi crescevano rape, cavoli e verdure simili, e
un po’ di patate, cosi che sembrava un orto trasandato,
una specie di campionario bizzarro, fatto per vivere alla
giornata, e andarvi a cogliere, quando si aveva fame e
non c’era altro di meglio, ora un mazzo di rape, ora
un cesto di patate o di cavoli, lasciando che il resto insel­
vatichisse o marcisse a suo piacere. Ognuno ci poteva
entrare a suo piacimento e la bella striscia ampia di terra
aveva quasi lo stesso aspetto desolato del campo di nessu­
no da cui avevano avuto inizio tutte le disgrazie. Nella
casa, del resto, non v’era più alcuna traccia di vita agri­
cola. La stalla era vuota, con la porta appesa a un solo
cardine, e innumerevoli ragni crociati cresciuti du­
rante l’estate tendevano le loro reti lucenti al sole sul
fondo scuro dell’ingresso. Dalla porta aperta del granaio,
ove in passato entravano i frutti del buon terreno, pen­
devano vecchi strumenti da pesca a testimonianza di
quell’assurdo baloccarsi con l’acqua; nel cortile non si
scorgeva né una gallina né una colomba, né un gatto né
un cane ; di vivo non c’era più che la fontana, e neanche
l’acqua rifluiva per il cannello, ma sprizzava da una fes­
sura del terreno, sollevandosi poco da terra, formando
ovunque piccole pozzanghere ed offrendo l’immagine mi­
gliore della pigrizia. Mentre sarebbe costata poca fatica
al padre chiudere la fessura e riparare il cannello, Vren-
chen doveva con gran disagio strappare l’acqua pulita a
tanta rovina e lavare alla meglio in quelle pozzanghere
invece che nell’abbeveratoio di legno secco e scheggiato.
La casa medesima presentava un aspetto non meno mi-
ROMEO E GIULIETTA DEL VILLAGGIO 85

seranđo; le finestre avevano i vetri spezzati in più punti


e rappezzati con carta, ma essi erano ancora il meglio
fra tanta rovina, giacché i frammenti erano puliti, anzi
veramente lustri, con la chiara lucentezza degli occhi di
Vrenchen, i quali pure del resto dovevano sostituire per
lei nella sua miseria ogni altra ricchezza. E come agli
occhi di Vrenchen si accompagnavano i capelli ricciuti
e gli scialletti di mussola gialli e rossi, così le finestre luc­
cicanti erano incorniciate dalla vegetazione che s’arram­
picava disordinata sulla casa, ondeggiante boschetto di
fagioli e profumata selva di violacciocche rosse e gialle.
I fagioli si reggevano alla meglio ora a un manico di ra­
strello o ad un troncone di scopa piantato in terra, ora
ad una alabarda arrugginita o spuntone, com’era chia­
mato quando il nonno di Vrenchen l’aveva usato da
sergente e che ora la ragazza, per necessità, aveva con­
ficcato tra i fagioli; più in là risalivano allegramente
una vecchia scala a pioli appoggiata al muro da tempo
immemorabile, scendendo poi giù a lambire le chiare
finestrelle, come i riccioli di Vrenchen le lambivano i be­
gli occhi. Quella fattoria, più pittoresca che ospitale, era
quasi isolata, senza vicini immediati, e in quel momento
non si scorgeva all’intorno anima viva, cosicché Sali potè
appoggiarsi tranquillamente ad una vecchia capannuccia
messa lì a circa trenta passi e contemplare la tacita dimora
desolata. Per un bel pezzo stette lì appoggiato a guardare,
anche quando Vrenchen si affacciò alla porta, guardando
fisso dinanzi a sé, come se fosse immersa con tutti i suoi
pensieri in un dato oggetto. Sali non si mosse e non staccò
gli occhi da lei. Quando ella finalmente diresse per caso
lo sguardo da quella parte, lo vide. Si fissarono per un
tratto, come se contemplassero un’allucinazione, finché
Sali si raddrizzò, traversò lentamente la strada e il cortile
e si avvicinò a Vrenchen. Quando le fu accanto, essa gli
porse le mani mormorando:
-Sali!
Egli gliele strinse continuando a fissarla. Le lagrime le
grondarono dagli occhi, mentre il volto si faceva di por­
pora sotto i suoi sguardi ed essa mormorò :
86 LA GENTE DI SELDWYLA

— Che cosa vuoi qui?


— Soltanto vederti ! — replicò — Non vogliamo tor­
nare buoni amici?
— Ed i nostri genitori? — domandò Vrenchen, vol­
gendo il viso rigato di lagrime, perché non aveva le mani
libere per nasconderlo.
— Abbiamo colpa noi di quello che hanno fatto e di
come si sono ridotti? — disse Sali — Forse potremo ripara­
re a tanta sciagura, se ci terremo uniti e ci vorremo bene !
— Non sarà mai possibile ! — rispose Vrenchen con
un profondo sospiro — Va’ per la tua via, in nome di
Dio, Sali !
— Sei sola? —- domandò lui —- Non posso entrare un
momento?
— Il babbo è andato in città, a quel che ha detto, per
dare una lezione a tuo padre, ma non puoi entrare, altri­
menti forse non ti riesce di andartene poi inosservato
come adesso. Per ora non c’è nessuno per strada, te ne
prego, vattene!
— No, a questo modo non parto ! Da ieri non ho fatto
che pensare a te e non me ne vado così; bisogna che noi
si discorra insieme, almeno una mezz’ora, o un’ora intera :
ci farà bene !
Vrenchen rimase un momento perplessa, poi disse:
— Verso sera devo andare là al campo, sai bene quale,
perché ormai non ne abbiamo altri, a prendere un po’
di verdura. Son sicura che là non ci sarà nessuno, perché
stanno facendo fieno altrove; se vuoi, raggiungimi là,
ma ora vattene, e bada che nessuno ti veda! Benché
nessuno ormai ci frequenti ne farebbero tal pettegolezzo
che anche il babbo verrebbe subito a saperlo. Si lascia­
rono le mani, ma tornarono subito a riafferrarsi, dicendo
a una voce:
— E tu, come stai?
Ma invece di darsi risposta, ripeterono la domanda e
la risposta rimase nei loro occhi eloquenti, poiché essi,
come sempre gli innamorati, non sapevano più dirigere
le loro parole, e alla fine, senza dir altro, mezzo beati e
mezzo tristi, se ne andarono rapidi.
ROMEO E GIULIETTA DEL VILLAGGIO 87

— Verrò presto, vacci pur subito ! — gli gridò dietro


Vrenchen.
Sali s’awiò infatti senz’altro verso la bella e tacita
altura su cui si stendevano i due campi; e il meraviglioso
placido sole estivo, le belle nubi bianche vaganti sopra
l’ondeggiante campo di grano maturo, il nastro azzurro
e lucido del fiume fluente rapido in basso, tutto questo lo
riempì per la prima volta dopo tanti anni di felicità e
contentezza invece che di corruccio, così che si gettò
lungo disteso nella diafana penombra del grano, al limite
del terreno inselvatichito di Marti, guardando beato l’az­
zurro.
Benché avesse atteso appena un quarto d’ora fino alla
venuta di Vrenchen, ed egli non pensasse che alla sua
felicità e al nome di questa, tuttavia lei gli apparve
insperata e improvvisa, sorridendogli dall’alto, facendolo
balzare in piedi spaventato. «Vrenchen!» esclamò, e la
fanciulla gli porse con un tacito sorriso ambedue le mani e
così uniti procedettero costeggiando il grano mormo­
rante sin giù al fiume e risalirono poi, senza quasi par­
lare. Rifecero quella via due o tre volte, tranquilli, taciti
e beati, cosicché la giovane coppia rassomigliava a una
costellazione che salisse oltre la colma soleggiata del colle
per tramontare dietro di essa, come facevano in passato
gli aratri sicuri dei loro padri. Alzando però una volta gli
occhi dai fiordalisi azzurri che stavano fissando, scorsero
d’un tratto un altro fosco astro, un uomo dal volto bruno,
che non capivano di dove fosse sbucato. Certo doveva
aver dormito fra il grano; Vrenchen ebbe un sussulto e
Sali mormorò spaventato: «Il violinista nero!». Infatti
l’individuo che passava davanti a loro reggeva sotto il
braccio un violino con l’archetto ed era piuttosto nero ;
oltre al cappelluccio di feltro nero e al giacchettino
fuligginoso che indossava, anche la sua chioma era nera
come pece e così la barba incólta, di colore scuro la faccia
e le mani, anche a cagione del suo lavoro, giacché egli
esercitava svariati mestieri, soprattutto aggiustava pen­
tole, aiutava a far carbone e a fondere la pece nei boschi,
cercando di fare bella figura col suo violino là dove i
88 LA GENTE DI SELDWYLA

contadini facevano allegria e celebravano una festa. Sali


e Vrenchen lo seguirono senza aprir bocca, sperando che
sarebbe uscito dal campo e sparito senza voltarsi, e così
sembrò che avvenisse, giacché pareva non si fosse accorto
di loro. Essi si sentivano d’altronde come ipnotizzati e,
non osando lasciare lo stretto sentiero, seguirono il miste­
rioso personaggio involontariamente sino alla fine del
terreno, dove il famoso mucchio di pietre ancora rico­
priva il lembo conteso. Una massa di papaveri e di roso­
lacci vi si era insediata, tanto che la montagnetta sem­
brava tutta una fiamma. D’un tratto il violinista nero salì
con un salto sulla piramide rossa e si volse a guardare at­
torno. La coppia si fermò osservando imbarazzata l’ap­
parizione scura; passargli accanto non potevano, perché
la strada conduceva al villaggio, né volevano voltargli
subito le spalle. Egli li fissò e gridò loro: «Vi conosco,
siete i figli di quelli che mi hanno rubato questo terreno !
Mi fa piacere vedere a che punto siete arrivati e avrò
certo ancora la consolazione che voi sarete morti prima di
me ! Guardatemi pure in faccia, passeri miei ! Vi piace il
mio naso? ». In realtà aveva un naso spaventoso che spor­
geva dal suo volto bruno e riarso come una squadra, o
meglio assomigliava a una sbarra o ad un battacchio
gettatogli in mezzo al volto, sotto il quale si stringeva
stranamente un rotondo buchetto di bocca di dove usci­
vano incessanti sbuffi, fischi e sibili. Anche il cappelluccio
era più che bizzarro, né rotondo né a punta, e di così
singolare conformazione, che sembrava mutar foggia
ad ogni istante, pur rimanendo immobile. Degli occhi
dell’uomo non si vedeva quasi altro che il bianco,
poiché le pupille guizzavano sempre rapidissime sal­
tellando di continuo a zig zag come due lepri. «Guar­
datemi pure in faccia,» proseguì «i vostri padri mi co­
noscono bene e tutti in questo villaggio sanno chi io sia,
se appena guardano il mio naso. Anni fa fu annunciato che
c’erano dei soldi per l’erede di questo campo ; io mi sono
fatto avanti venti volte, ma non ho fede di battesimo né
documento di cittadinanza, e i miei amici, i senza patria
che hanno assistito alla mia nascita, non sono testimoni
ROMEO E GIULIETTA DEL VILLAGGIO 89

validi, così il termine è trascorso da un pezzo e io ho per­


duto la sommetta con la quale avrei potuto emigrare. Ho
scongiurato i vostri padri che volessero attestare di do­
vermi in buona coscienza ritenere il legittimo erede; ma
essi mi hanno scacciato dai loro poderi ed ora sono andati
loro stessi in malora ! Così va il mondo, e io non ho nulla
da ridire, anzi voglio farvi una suonatina, se avete voglia
di ballare!». Così dicendo scese giù a balzi dall’altra
parte del mucchio di pietre, sparendo verso il villaggio
dove a sera venivano portate a casa le messi e la gente
era allegra. Quando fu scomparso, la coppia si lasciò
cadere turbata e scoraggiata sui sassi ; le mani intrecciate
si sciolsero per sorreggere le teste melanconiche: l’appari­
re del suonatore e le sue parole infatti li avevano strappati
dal beato oblio in cui si erano persi come due bimbi
e ora, mentre sedevano sulla loro dura miseria, s’offuscò
ogni serena luce di vita e i loro cuori si fecero pesanti
come pietre.
D’un tratto Vrenchen ricordò lo strano aspetto e il naso
del violinista e dovette di colpo scoppiare a ridere escla­
mando :
— Quel poveraccio ha un’aria proprio tanto divertente !
Che naso ! — e una deliziosa, sfavillante allegria irradiò il
volto della fanciulla, quasi avesse solo aspettato il mo­
mento in cui il naso del suonatore avrebbe disperso le nu­
vole fosche. Sali guardò Vrenchen e vide la sua allegria,
ma essa nel frattempo ne aveva già dimenticato la causa
e rideva per conto suo fissando Sali. Questi, sempre più
stupefatto, con la bocca ancor ridente, la guardò istin­
tivamente negli occhi come un affamato che avesse scorto
una focaccia dolce, ed esclamò.
— In nome di Dio, Vrenchen, quanto sei bella !
La ragazza continuò a sorridergli, gorgheggiando ar­
moniosamente una breve scala di risatine che sembra­
vano al povero Sali il canto di un usignolo.
— Strega ! dove hai imparato questo? — esclamò —
Che arti diaboliche sono queste?
— Oh, Dio mio ! — disse la ragazza con voce tenera e
prendendogli la mano — Non sono certo arti diaboliche !
90 LA GENTE DI SELDWYLA

Ma è tanto tempo che avevo voglia di ridere! Spesso,


quand’ero sola, ero costretta a ridere di qualcosa, ma non
era vera allegria; ora invece avrei una smania di riderti
sempre in faccia, appena ti vedo, e ti vorrei anche sempre
vedere. Ma tu mi vuoi pure un pochino di bene?
— Oh, Vrenchen ! — disse lui fissandola negli occhi
con schietta devozione — Non ho ancora mai guardato
una ragazza; avevo sempre l’impressione che un giorno
ti avrei dovuto voler bene, e anche senza volerlo o saperlo
ho sempre avuto te in testa !
— E io avevo te, — disse Vrenchen — e ancor di più,
perché tu non mi hai mai guardata e nemmeno sapevi
come ero diventata, mentre io di tanto in tanto da lon­
tano, e qualche volta da vicino, di nascosto, ti ho osser­
vato benissimo e ho sempre ben saputo che aspetto avevi !
Ti ricordi quante volte da bambini siamo venuti quassù?
Rammenti il nostro carretto? Com’eravamo piccini, e
quanti armi sono passati ! Si direbbe che siamo già vecchi.
— Quanti anni hai tu ora? — domandò Sali felice e
soddisfatto — Credo che siano circa diciassette !
— Diciassette e mezzo ! — replicò Vrenchen — E tu?
Ma lo so già, ne avrai presto venti !
— Come lo sai? — domandò Sali.
— Se credi che te lo dica !
— Ma non lo vuoi dire?
-No!
— Proprio no?
— No, no !
— Lo devi dire !
— Mi vuoi forse costringere?
— Oh, la vedremo !
Sali teneva questi sciocchi discorsi solo per dar da fare
alle sue mani e per assediare la bella fanciulla con goffe ca­
rezze che volevano sembrare busse. Anch’essa, difenden­
dosi, tirò in lungo con molta tolleranza la sciocca disputa,
che malgrado la sua vacuità sembrava loro dolce e arguta,
sinché Sali si mostrò stizzito e audace abbastanza per im­
padronirsi delle mani di Vrenchen e premerla sul letto
di papaveri. Così essa ora giaceva ammiccando con gli
ROMEO E GIULIETTA DEL VILLAGGIO gl

occhi accecati dal sole e la bocca semiaperta lasciava


intravedere due file di bianchi dentini scintillanti. Le so­
pracciglia scure si confondevano in una bella linea sottile,
e le sue guance erano rosse come porpora e il giovane
petto palpitava sotto il gioco delle quattro mani che vi si
incontravano in confusa e tenera lotta. Sali non stava in
sé dalla gioia di vedersi fra le braccia una cosi bella crea­
tura, sapendola sua, e gli pareva di possedere un gran
regno.
— Hai ancora tutti i tuoi dentini bianchi ! — disse ri­
dendo — ti ricordi quante volte quel giorno li abbiamo
contati? Hai imparato adesso a contare?
— Ma questi non sono gli stessi, sciocco ! — disse Vren-
chen — quelli son caduti da un pezzo !
Sali nel suo candore voleva riprendere l’antico gioco e
contare le perline scintillanti; ma Vrenchen serrò ad un
tratto la boccuccia rossa, si rizzò a sedere e cominciò ad in­
trecciare una ghirlanda di papaveri che si pose poi sul
capo. La ricca e ampia ghirlanda conferì alla bella bru­
netta una grazia indicibile, e il povero Sali tenne tra le
sue braccia quel che molti ricchi avrebbero pagato caro
anche per poterlo soltanto vedere dipinto su una parete;
Ma d’un tratto Vrenchen balzò in piedi esclamando:
« Cielo, che caldo ! E noi stiamo qui come sciocchi a
farci arrostire. Vieni, caro! Nascondiamoci nel grano
alto!». Si insinuarono con tanta cautela e abilità, da
non lasciare quasi traccia del loro passaggio, e tra le spighe
dorate si costruirono un angusto carcere che sorpassava le
loro teste quando furono seduti, così che non videro più
nulla del mondo, fuorché il cielo di un intenso azzurro.
S’abbracciarono e si baciarono senza sosta sinché non
sentirono un poco di stanchezza, o come la si vuol chia­
mare, quando il baciarsi di due innamorati si esaurisce
per un minuto o due e fa intuire, pur fra l’ebbrezza della
fioritura, la fugacità di ogni cosa viva. Udirono le allo­
dole che cantavano alte sopra di loro, le cercarono con
gli occhi acuti e quando pareva loro di averne scorta
una guizzare nel sole simile a una stella che improvvisa
si accende ed attraversa il cielo azzurro, si premiavano
92 LA GENTE DI SELDWYLA

tornando a baciarsi e cercavano poi di ingannarsi l’un


l’altra per rubare altri baci.
— Guarda, là ne passa una ! — sussurrava Sali, e Vren-
chen rispondeva altrettanto piano:
— Io la sento, ma non la vedo !
— Ma sì, sta’ attenta, là dove c’è la nuvoletta bianca,
un poco più a destra !
E tutti e due guardavano smaniosi, spalancando i bec­
cucci come quagliette nel nido, per tornare a ricongiun­
gersi appena s’immaginavano di aver veduto un’allodola.
D’un tratto Vrenchen s’interruppe per dire:
— È ormai una cosa intesa, dunque, che ciascuno di
noi due ha il suo amoroso, non ti pare?
— Sì, — disse Sali — mi pare proprio !
— E ti piace la tua amorosetta? — continuò Vren­
chen — che ragazza è, che cosa puoi dirmene?
— È una bella ragazza, — disse Sali — ha due occhi
bruni, la bocca rossa, e cammina su due piedi; ma del­
l’animo suo ne so meno che del papa a Roma! E che
cosa sapresti dirmi tu del tuo amoroso?
— Ha due occhi azzurri, una bocca briccona e due
braccia forti e ardite; ma i suoi pensieri mi sono più
sconosciuti dell’imperatore di Turchia!
— In fondo — ammise Sali — ci conosciamo meno che
se non ci fossimo mai veduti prima, tanto ci hanno reso
estranei i lunghi anni trascorsi da quando eravamo pic­
cini ! Che cosa è mai avvenuto nella tua testolina, bimba
cara?
— Oh, non molto ! Volevano spuntare mille pazzie, ma
sono sempre stata fra tante disgrazie che non sono riu­
scite a sbucar fuori !
— Povero tesorino ! — disse Sali — Credo però che tu
sia una bricconcella, no?
— Te ne accorgerai a poco a poco, se mi vuoi proprio
bene !
— Quando sarai mia moglie?
A queste ultime parole Vrenchen ebbe un lieve tremito
e si strinse ancor più fra le braccia di Sali, tornandolo a
baciafe a lungo con tenerezza. Le si riempirono gli occhi
ROMEO E GIULIETTA DEL VILLAGGIO 93
di lagrime e ambedue si fecero tristi d’un tratto ripen­
sando all’ostilità dei genitori e al loro avvenire povero di
speranze. Vrenchen sospirò dicendo: «Vieni, bisogna
che me ne vada ! » e insieme si alzarono e uscirono dal
campo di spighe tenendosi per mano, quando d’un tratto
si videro di fronte il padre di Vrenchen. Questi, incon­
trando Sali, aveva cominciato a rimuginare, con l’acu­
tezza meschina della miseria oziosa, che cosa mai il gio­
vanotto andasse a cercare al villaggio e, ripensando alla
scenata della vigilia, ritrovò alla fine, sempre scendendo
verso la città, la giusta traccia, ispirato dal rancore e
dall’inane perfidia senza meta che nutriva in cuore.
A poco a poco il sospetto assunse forma precisa, tanto
che, giunto a Seldwyla, prese d’un tratto la via del ritor­
no, sino al villaggio, dove invano cercò la figlia in casa
o lì presso. Corse con curiosità crescente al loro campo
e, vedendo in terra il canestro che serviva di solito a
Vrenchen per la verdura, ma non scoprendò la ragazza
da nessuna parte, stava appunto spiando tra il grano del
campo vicino, nel momento in cui ne sbucarono fuori i
due ragazzi spaventati.
Questi stettero lì impietriti e anche Marti a tutta pri­
ma rimase interdetto a fissarli con sguardi biechi, livido e
plumbeo; poi cominciò a inveire spaventosamente, ge­
sticolando, ingiuriando e tentando alla fine di serrare il
ragazzo alla gola; Sali gli sfuggì, arretrò di qualche passo
esterrefatto da quel furore, ma balzò poi subito avanti
quando vide che il vecchio afferrava invece la fanciulla
tremante e le dava uno schiaffo, facendo cadere a terra la
ghirlanda rossa e attorcigliandosi i suoi capelli attorno alla
mano, per trascinarsela dietro continuando a malme­
narla. Senza riflettere, Sali raccolse una pietra e colpì il
vecchio alla testa, un po’ per difendere Vrenchen e un
po’ per l’ira improvvisa. Marti vacillò un istante, poi
s’abbattè privo di sensi sul cumulo di pietre, trascinan­
dosi dietro la figlia che urlava da far pietà. Sali le liberò
i riccioli dalla mano del caduto e la rimise in piedi, poi
rimase lì come una statua, smarrito e intontito. La ra­
gazza, vedendo il padre disteso e come morto, si passò
94 LA GENTE DI SELDWYLA

le mani sul volto stralunato, esclamando con un brivido :


— Lo hai ammazzato? — Sali annuì in silenzio e
Vrenchen urlò :
— Oh Dio, Dio mio ! È mio padre ! Pover’uomo ! — e
si gettò come pazza sul suo corpo, ne sollevò la testa, dal­
la quale però non usciva sangue. La lasciò ricadere, men­
tre Sali si inginocchiava dall’altra parte, e ambedue, in
un silenzio sepolcrale e con le mani paralizzate, rimasero
a fissare quel volto inanimato.
Tanto per dir qualcosa, Sali alla fine balbettò:
— Ma non è poi detto che sia già morto !
Vrenchen strappò un petalo da un rosolaccio, l’appog­
giò sulle labbra livide e vide che si muoveva lievemente.
— Respira ancora ! — esclamò — corri dunque giù al
villaggio a chiedere aiuto.
Quando Sali fece per correr via, lo trattenne ancora
per la mano richiamandolo :
— Tu però non tornare qui, e non dire come è acca­
duto ; tacerò anch’io, da me non sapranno nulla ! — e il
suo viso, rivolto verso quello del povero ragazzo interdetto,
era inondato di lagrime di dolore.
— Vieni, baciami ancora una volta ! No, vattene, scap­
pa ! È finita, è finita per sempre, noi non potremo mai es­
sere uniti ! — Lo mandò via ed egli corse come un automa
verso il villaggio. Incontrò un ragazzino che non lo cono­
sceva, e a quello diede l’incarico di chiamare gente,
descrivendogli esattamente dove dovessero portare soc­
corso. Poi s’allontanò disperato, rimanendo per tutta la
notte a vagabondare nei boschi. L’indomani, celandosi
fra i campi, cercò di sapere che cosa fosse accaduto e da
contadini mattinieri che ciarlavano fra loro apprese che
Marti era ancora in vita, ma fuor di conoscenza, e che
tutti trovavano strana la vicenda, poiché nessuno sa­
peva che cosa gli fosse capitato. Allora tornò in città
e si rintanò nella cupa miseria della sua casa.

Vrenchen mantenne la parola, nessuno le cavò altro


di bocca, se non che aveva trovato il padre in quello stato,
e poiché questi il giorno seguente riprese a muoversi e a
ROMEO E GIULIETTA DEL VILLAGGIO 95
respirare meglio, sia pure senza coscienza, e non c’era
inoltre alcuno a far denuncia, si pensò che fosse caduto
ubriaco sul mucchio di pietre e non ci si occupò della
cosa. Vrenchen lo curò, non allontanandosi se non per
andare a prender le medicine dal dottore e per prepararsi
una minestra alla meglio; essa viveva ormai di nulla,
benché dovesse vegliare notte e giorno senza che nessuno
l’aiutasse. Passarono quasi sei settimane prima che il ma­
lato ritornasse gradatamente in sé, benché già prima
fosse abbastanza vispo nel suo letto e mangiasse normal­
mente. Non ritrovò però la sua antica ragione, fu anzi
sempre più chiaro, quanto più parlava, che era di­
venuto scemo, e nel modo più strano. Rammentava
l’accaduto molto vagamente, come qualcosa di alle­
gro che non lo riguardasse più, rideva spesso come un
pazzo ed era di ottimo umore. Ancora costretto a letto,
borbottava idee assurde e bizzarre, faceva smorfie, si ti­
rava il berretto di lana néra sugli occhi e poi sul naso, il
quale sporgeva come una bara sotto il drappo funebre.
La povera Vrenchen, pallida ed esausta, lo ascoltava
pazientemente, lagrimando sulla sua imbecillità, che l’an­
gosciava ancor più della cattiveria di un tempo ; ma
quando il vecchio talvolta si comportava in modo troppo
ridicolo, essa irresistibilmente, malgrado le sue sofferenze,
scoppiava in una risata, giacché la sua indole compressa
era sempre pronta a scattare verso la gioia, come un arco
teso, ripiombando però poi in ancor più profonda tristez­
za. Quando il vecchio fu in grado di alzarsi, non si sape­
va come prenderlo; non faceva che sciocchezze: rideva
e gironzolava attorno alla casa, si sedeva al sole tiran­
do fuori la lingua o tenendo lunghe concioni ai fagioli.
In quel periodo finirono anche i residui del suo an­
tico possesso e il disordine giunse al punto che anche la
casa e l’ultimo campo, da tempo ipotecati, andarono in
vendita giudiziaria. Il contadino che aveva comprato i
due campi di Manz approfittò della totale rovina e della
malattia di Marti per condurre a fine con rapida deci­
sione l’antico processo circa il triangolo dei sassi e la scon­
fitta determinò l’estrema rovina di Marti, che intanto,
9θ LA GENTE DI SELDWYLA

scemo come era, non si rendeva più conto di nulla. Tutto


andò all’asta e Marti venne internato dal Comune a spese
pubbliche in un ricovero per simili disgraziati. Quell’isti­
tuto si trovava nel capoluogo del cantone ; il povero men­
tecatto, sano di corpo e sempre affamato, venne ben rim­
pinzato ancora una volta, poi caricato su un carretto
tirato da buoi, che un povero contadino conduceva in
città per vendervi alcuni sacchi di patate, e Vrenchen
sedette accanto al padre sul carro, per accompagnarlo
nella sua ultima spedizione verso la triste sepoltura dei
vivi. Fu un viaggio davvero amaro e doloroso, però Vren­
chen ebbe sempre cura del padre, non lasciandogli man­
car nulla, senza guardarsi attorno e non spazientendosi
anche se la gente, resa attenta dai lazzi dell’infelice, inse­
guiva spesso il carretto per dove passavano. Alla fine giun­
sero in città nell’ampio edificio dove i lunghi corridoi, i va­
sti cortili e un bel giardino erano popolati da una quantità
di simili sciagurati, tutti vestiti di giubbe bianche e con dei
resistenti berrettini di cuoio sulle teste dure. Anche Marti,
ancora in presenza di Vrenchen, venne rivestito di quella
uniforme e se ne compiacque come un bambino, metten­
dosi a ballare e a canterellare. «Salute a voi, egregi si­
gnori!» gridò ai suoi nuovi compagni «avete un bel pa­
lazzo ! Toma a casa, mia piccola Vrenchen, di’ alla mam­
ma che io non ci torno più, qui sto troppo bene ! Evviva !
C’è un riccio nel boschetto, l’ho sentito abbaiare ! Bimba
mia, non baciare mai un vecchio, bacia soltanto i bei
giovanotti ! Tutte le acque vanno nel Reno, gli occhi az­
zurri io voglio almeno! Te ne vai, piccina? Sembri la
morte in piedi, mentre io sto tanto bene ! La volpe grida
per la campagna oho, oho ! Il cuor risponde aha, aha ! ».
Un guardiano gli ordinò di tacere e lo condusse ad un
facile lavoro, mentre Vrenchen usciva in cerca del car­
retto. Vi si sedette, tolse di tasca un pezzo di pane e si mise
a mangiarlo, poi si addormentò e dormì finché venne il
contadino e con lui rientrò nel villaggio. La ragazza s’av­
viò verso la casa dove era nata e dove aveva il permesso
di stare ancora due giorni e vi fu per la prima volta in vita
sua perfettamente sola. Accese il fuoco per prepararsi un
ROMEO E GIULIETTA DEL VILLAGGIO g7

rimasuglio di caffè che ancora possedeva e sedette al fo­


colare, perché non si reggeva in piedi. Aveva una gran
nostalgia di vedere un’unica volta ancora Sali, e pensava
a lui intensamente, ma il dolore e le preoccupazioni ama­
reggiavano quella nostalgia, che a sua volta inacerbiva
le sue pene. Se ne stava lì cosi con la testa fra le mani,
quando qualcuno si affacciò alla porta aperta.
— Sali ! — gridò Vrenchen alzando gli occhi e get-
tandoglisi fra le braccia; poi ambedue si guardarono spa­
ventati esclamando insieme:
— Che brutta cera !
Sali infatti non era meno pallido e consunto di Vren­
chen. Questa, di tutto dimentica, se lo fece sedere accanto
al focolare, dicendogli:
— Sei stato malato oppure hai avuto anche tu tanti
dispiaceri?
Sali rispose:
— No, non sono malato, se non per la nostalgia di te !
Da noi le cose vanno a gonfie vele ; il babbo ha ora clien­
tela e ricovero di canaglie forestiere e, a quel che vedo,
credo sia diventato un manutengolo. Perciò adesso nella
nostra taverna regna l’abbondanza, finché durerà e finché
non finirà in una catastrofe. La mamma, per la trista cupi­
digia di veder qualche cosa in casa, dà il suo aiuto, e
crede di rendere la situazione accettabile con un po’ di
sorveglianza e di ordine ! Io non sono interpellato e nep­
pure me ne occupo, perché non faccio che pensare a te
giorno e notte. Dato che vengono molti vagabondi, ab­
biamo avuto ogni giorno notizia di quel che accadeva in
casa vostra e mio padre se ne compiaceva come un bam­
bino. Abbiamo anche saputo che oggi hanno portato tuo
padre all’ospizio e ho pensato che saresti rimasta sola e
sono venuto per vederti !
Vrenchen si sfogò allora con lui di tutto quanto l’op­
primeva ed aveva sofferto, ma lo fece con parole serene
e confidenziali, quasi descrivesse una grande fortuna,
tanto si sentiva felice di avere Sali al suo fianco. Nel frat­
tempo riuscì a preparare una ciotola di caffè caldo, co­
stringendo l’amato a dividerlo con lei.
9» LA GENTE DI SELDWYLA

— Dopodomani dunque dovrai andartene? — disse


Sali — ma che cosa sarà di te, in nome del cielo?
— Non lo so, — disse Vrenchen — dovrò andare a ser­
vizio per il mondo ! Ma non ci resterò senza di te, eppure
non potrò mai averti, anche se non ci fosse tutto il resto,
perché tu hai colpito mio padre e gli hai tolto la ragione !
Questo sarebbe sempre un cattivo fondamento per il no­
stro matrimonio e noi non potremmo mai essere sereni !
Sali sospirò e disse :
— Anch’io volevo già tante volte farmi soldato o pren­
der servizio come garzone in un paese lontano, ma sinché
tu sei qui non riesco ad andarmene, e dopo la lontananza
mi consumerà. Credo che la disgrazia renda il mio amore
per te ancor più forte e doloroso, cosicché si tratta di vita
o di morte ! Non avevo mai conosciuto sentimenti simili !
Vrenchen lo fissava sorridendo amorosamente ; s’appog­
giarono con le spalle alla parete e non parlarono più, ab­
bandonandosi silenziosi al senso beato, superiore ad ogni
pena, di volersi bene con profonda serietà e di sapersi ri­
cambiati. S’addormentarono cosi pacificamente su quel­
l’incomodo focolare, senza un cuscino o piumini, e dormi­
rono con la calma dolcezza di due bambini in culla. Già
spuntava l’alba allorché Sali si destò per primo e svegliò
Vrenchen quanto più dolcemente potè, ma quella, an­
cora intontita, gli ricadeva addosso, non riuscendo a
uscire dal sonno. Egli allora la baciò forte sulla bocca e
Vrenchen balzò su, spalancò gli occhi e, scorgendo Sali,
esclamò :
— Buon Dio ! Stavo proprio sognando di te ! Sognavo
che ballavamo insieme alle nostre nozze, per ore e ore !
Ed eravamo tanto felici, ben vestiti, e non ci mancava
nulla ! Ma finalmente volevamo baciarci e ne avevamo
una gran sete, e invece c’era sempre qualcosa che ci di­
videva ed eri invece tu, che mi disturbavi e mi trattenevi.
Ma che bella cosa averti qui !
Gli cadde fra le braccia appassionatamente e lo baciò
come se non dovesse mai più finire.
— E tu, che cosa hai sognato? — domandò accarezzan­
dogli le guance e il mento.
ROMEO E GIULIETTA DEI. VILLAGGIO 99
— Ho sognato di camminare per una lunga strada sen­
za fine, attraverso un bosco, e tu mi precedevi sempre da
lontano; di tanto in tanto ti voltavi a guardarmi, mi fa­
cevi cenno, ridevi e allora mi pareva di essere in cielo.
Ecco tutto !
Si fecero sulla porta della cucina rimasta spalancata, che
dava immediatamente nel cortile e dovettero ridere guar­
dandosi in volto. Infatti la guancia destra di Vrenchen e
la sinistra di Sali, appoggiate l’una all’altra’durante il
sonno, erano rimaste molto arrossate dalla pressione, men­
tre il freddo della notte aveva aumentato il pallore dell’al­
tra metà. Stropicciarono teneramente l’uno all’altro la
guancia fredda e pallida perché ridiventasse rosea; la
fresca aria del mattino, la calma rugiadosa distesa su
tutto il paesaggio, le prime luci rosee, li rendevano felici e
dimentichi di sé, e soprattutto Vrenchen sembrava per­
vasa da un lieto spirito di spensieratezza.
— Domani sera dovrò dunque lasciare questa casa —
disse — e cercare un altro asilo. Prima però vorrei essere
per una volta, per una volta sola, molto allegra, e proprio
con te; mi piacerebbe ballare in qualche posto a lungo e
di gusto, perché il ballo del sogno mi è rimasto ancora in
mente !
— Ad ogni modo voglio star con te e vedere come
riuscirai a collocarti — disse Sali — e anch’io ballerei
volentieri con te, cara piccina, ma dove?
— Domani c’è festa in due paesetti non lontani di
qui, — rispose Vrenchen. — dove ci conoscono e ci os­
servano meno: ti aspetterò fuori, lungo il fiume, e poi
andremo dove vorremo a divertirci, una volta, una volta
sola! Ma, ahimè, noi non abbiamo soldi! — aggiunse
d’un tratto con tristezza — e dobbiamo rinunciare !
— Lascia fare, — disse Sali — porterò io qualche cosa !
— Ma non di tuo padre, non ... roba rubata?
— No, sta’ pur tranquilla ! Ho conservato il mio oro­
logio d’argento e lo venderò.
— Non posso sconsigliartelo — disse Vrenchen arros­
sendo — perché credo che ne morirei, se domani non
potessi ballare con te.
lOO LA GENTE DI SELDWYLA

— Il meglio sarebbe che potessimo morire insieme tutti


e due ! — disse Sali. Si abbracciarono con dolorosa melan­
conia congedandosi, ma nell’andarsene si sorrisero dolce­
mente nella sicura speranza deU’indomani.
— Ma quando verrai? — gli gridò ancora Vrenchen.
— Al più tardi alle undici, — replicò lui — faremo
insieme un buon pranzetto a mezzogiorno !
— Benissimo ! Vieni piuttosto già alle dieci e mezzo ! —
Ma quando Sali già s’era avviato, ella lo richiamò ancora
una volta e gli mostrò d’un tratto una faccia sconvolta e
disperata.
— Non se ne fa nulla ! — disse piangendo amaramente
— non ho più le scarpe della domenica. Già ieri ho do­
vuto mettere queste scarpacce per venire in città ! Non
posso trovarne altre !
Sali disse sconcertato :
— Non hai scarpe? — Dovrai adattarti a venire con
queste !
— Ma no, con queste non posso ballare !
— Allora ne compreremo un paio !
— Dove? Con che cosa?
— A Seldwyla ce ne sono anche troppi di negozi di
scarpe e in meno di due ore troverò del denaro.
— Ma io non posso girare con te a Seldwyla, e poi il
denaro non basterà per comperare anche le scarpe !
— Bisogna che basti ! Voglio comprare le scarpe e por­
tartele domattina!
— Scioccone, se le compri tu non andranno bene !
— Dammi allora una scarpa vecchia o, meglio an­
cora, ti prenderò io le misure : non è poi una cosa tanto
difficile !
— Prender le misure? Davvero, a questo non ci avevo
pensato ! Vieni, vieni, ti cercherò una cordicella ! — Se­
dette di nuovo sul focolare, sollevò un poco la sottana
e si tolse la scarpa rimanendo con la calza bianca che
aveva per il viaggio del giorno prima. Sali si inginocchiò
e prese come potè le misure, circondando il grazioso pie­
dino con lo spago per il largo e per il lungo e facendovi
poi accuratamente dei nodi.
ROMEO E GIULIETTA DEL VILLAGGIO 1O1

— Bravo calzolaio ! — disse Vrenchen chinandosi su di


lui rossa in volto e gentile. Anche Sali però arrossì e tenne
tra le sue mani quel piedino più a lungo del necessario,
sinché Vrenchen, sempre più imbarazzata, lo ritrasse e
tornò ad abbracciare e baciare impetuosamente il confuso
amico, ordinandogli però poi di partire.
Appena giunto in città Sali portò l’orologio da un
orologiaio che gli diede sei o sette fiorini, e anche per la
catena d’argento ottenne qualche fiorino, così che si cre­
dette un riccone, non avendo mai posseduto da quando
era nato tanto denaro in una volta. Fosse solo passata
questa giornata e venuta già la domenica, pensava, per
comprarsi con quei soldi tutta la felicità che si ripromet­
teva ! Se anche dopodomani dovesse essere un giorno fosco
e pieno di incognite, il divertimento agognato di domani
non ne avrebbe tratto se non più raro ed alto splendore.
Fece passare piacevolmente il tempo cercando un paio di
scarpette per Vrenchen, l’occupazione più allegra che mai
avesse avuto. Andò da un negozio all’altro, facendosi mo­
strare tutte le scarpe da donna esistenti, e alla fine ne
comprò un paio molto leggero ed elegante, bello come
Vrenchen non ne aveva certo mai avuti. Nascose le scarpe
sotto il farsetto e non se ne staccò per il resto del giorno,
anzi la sera le mise sotto il guanciale. Avendo visto la
ragazza quella mattina stessa e dovendola rivedere all’in­
domani, dormì sodo e tranquillo, ma era già sveglio all’al­
ba e cominciò a mettere in ordine e a ripulire come po­
teva le sue modeste cose della domenica. Sua madre se
ne accorse e gli domandò stupita che progetti avesse,
dato che da un pezzo non si era vestito con tanta cura.
Rispose che intendeva andare a fare un giro in campagna;
per non ammalarsi in quella casa.
— Da un po’ di tempo in qua fai una vita strana ! —
borbottò il padre — giri attorno con mistero !
— Lascialo andare, — disse invece la madre — forse
gli farà bene, fa spavento a vedersi la sua brutta cera!
— Hai denaro per una gita? E come ne hai? — disse il
vecchio.
— Non ne ho bisogno ! — disse Sali.
102 LA GENTE DI SELDWYLA

— Eccoti un fiorino ! — replicò il padre gettandogli la


moneta — Dovresti andare all’osteria del nostro paese e
mangiare là, perché non credano che noi si sia troppo
pitocchi.
— Non voglio andare in paese e non ho bisogno del fio­
rino, tenetevelo pure!
— È come se lo avessi avuto, sarebbe un peccato dar­
telo, testa dura che sei ! — esclamò Manz rimettendo in
tasca il suo fiorino. Sua moglie invece, che non sapeva
perché, ma provava quel giorno una certa melanconia e
commozione di fronte al figliolo, gli portò un gran fazzo­
letto da collo di seta di Milano, nero con l’orlo rosso, che
lei aveva rare volte portato e che al figliolo era piaciuto,
Sali se lo mise attorno al collo, lasciando svolazzare i due
lunghi capi, e in un accesso di vanità contadinesca alzò
anche per la prima volta sino agli orecchi, con serietà da
uomo, il collo della camicia, che soleva invece portare
rovesciato. Infine, con le scarpette nella tasca interna della
giacca, si avviò che erano ancora le sette del mattino. La­
sciando la casa, fu còlto dallo strano bisogno di dar la
mano al padre e alla madre e giunto in istrada si volse
ancora una volta a guardare.
— Direi quasi — Osservò Manz — che il ragazzo corra
dietro a qualche donna: ci mancherebbe anche quello!
La moglie osservò:
— Volesse Iddio ! Farebbe forse la sua fortuna ! Ne
avrebbe bisogno il povero figliolo !
— Si capisce ! — schernì il marito — sicuro ! Sarà
una fortuna straordinaria, se ha poi la disgrazia di incap­
pare in una lingua di vipera ! Ne avrebbe bisogno il po­
vero figliolo! Si capisce!
Sali diresse dapprima i suoi passi verso il fiume ove si
era dato ritrovo con Vrenchen; ma per via mutò idea e
andò diritto al villaggio, per trovarla a casa, sembrandogli
troppo lungo aspettare fino alle dieci e mezzo. “Che cosa
ci importa della gente!” pensò. “Nessuno ci aiuta e io
sono un ragazzo onesto che non ha paura di nessuno!”
Così arrivò inaspettato nella stanza di Vrenchen e inaspet­
tatamente la trovò vestita di tutto punto in attesa dell’ora
ROMEO E GIULIETTA DEL VILLAGGIO I03

della partenza, priva soltanto delle scarpe. Sali rimase a


bocca aperta in mezzo alla stanza scorgendo la ragazza,
tanto bella gli apparve. Aveva un abito semplicissimo di
lino di colore azzurro, ma era fresco e pulito e le fasciava
molto bene il corpo snello. Su di esso portava un collo a
scialle di mussolina candida ed era questo tutto il suo lusso.
I capelli bruni e ricciuti erano disposti con gran cura,
i riccioli, non disordinati e selvaggi come al solito, incor­
niciavano il volto con finezza e grazia; non essendo uscita
di casa da molte settimane, l’incarnato di Vrenchen s’era
fatto più pallido e trasparente, anche per i dispiaceri, ma
a quella trasparenza l’amore e la gioia aggiungevano ora
pennellate rosee ; e sul petto le spiccava un mazzolino di
rose, di rosmarino e di splendidi astri. Sedeva accanto
alla finestra aperta, respirando con calma soave la fre­
sca e splendente aria mattutina; quando vide apparire
Sali, gli tese le belle braccia, nude sino al gomito,
esclamando: «Hai fatto proprio bene a venir già ora
e sin qui ! Mi hai portato le scarpe? Davvero? Non mi
alzo finché non le ho messe ! ». Egli trasse di tasca il so­
spirato dono e lo porse alla bella fanciulla desiderosa che,
scagliando lontano le sue vecchie scarpe, infilò le nuove
che le stavano a pennello. Solo allora s’alzò dalla sedia,
passeggiando beata più volte in su e in giù con le scar-*
pette nuove. Sollevava un poco la lunga veste azzurra e
ammirava i bei legacci di lana rossa che adornavano le
calzature, mentre Sali non cessava di contemplare la de­
liziosa figurina, che gioiosamente gli si agitava dinanzi.
«Hai visto i miei fiori?» disse Vrenchen «Non ho
fatto un bel mazzolino? Devi sapere che sono proprio
gli ultimi fiori trovati in questo deserto. Qui una rosel­
lina, là un astro, ma messi così insieme nessuno si accor­
gerebbe che sono raccolti fra tanta rovina ! Ora però è
proprio tempo che io me ne vada; non c’è più un fiorelli­
no in giardino e anche la casa è vuota!».
Sali si guardò attorno e solo allora s’accorse che tutti i
mobili e gli arredi erano stati portati via.
— Povera piccina, — disse — ti hanno già preso tutto?
— Ieri — disse lei — sono venuti a ritirare tutto quan-
104 LA GENTE di seldwyla

to era trasportabile e m’hanno lasciato a malapena il


letto. Però l’ho venduto subito anche quello e ho anch’io
del denaro, guarda ! — Trasse dalla tasca dell’abito alcuni
talleri lucenti e glieli mostrò. Continuò poi:
— L’ufficio di tutela ha mandato qui uno a dirmi che
con questi soldi andassi a cercare un servizio in città e
che partissi oggi stesso !
— Ma qui non c’è proprio più niente ! — disse Sali
dopo un’occhiata alla cucina — Non vedo né legna, né
una padellina, né una posata ! Non hai fatto colazione?
— No ! — disse Vrenchen — avrei potuto andare a
prendere qualcosa, ma ho preferito restare con la fame per
mangiare poi molto insieme noi due ; ci penso con tanto
piacere, non puoi immaginarti quanto ne sono felice !
— Se potessi soltanto toccarti, — disse Sali — ti farei
vedere io quel che ho in cuore, mia bella !
— Fai bene a stare lontano, guasteresti tutto il mio
lusso, e se avremo riguardo per questi fiori, sarà meglio
anche per la mia povera testa, che tu di solito metti tanto
in disordine !
— Vieni dunque, andiamocene !
— Dobbiamo ancora aspettare che vengano a pren­
dere il letto, poi chiudo la casa vuota e non ci ritorno più !
Lascio il mio fagottino in deposito alla donna che ha
comprato il letto.
Sedettero così l’uno di fronte all’altra in attesa, e presto
venne la contadina, un donnone tarchiato dalla voce stri­
dula, accompagnata da un garzone per portare la lettiera.
Scorgendo l’innamorato di Vrenchen e la ragazza così
tutta in ghingheri, la donna spalancò la bocca e gli occhi,
inarcò le mani sui fianchi e gridò:
— Ma guarda un po’ Vrenchen ! Non perdi tempo !
Hai visite e sei ornata come una principessa !
— Non è vero? — disse Vrenchen con un sorriso gio­
viale — e sapete chi è?
— Credo bene che sia Sali Manz ! Monti e valli non si
incontrano mai, si suol dire, ma gli uomini sempre ! Sta’
però attenta, ragazza, e pensa come sono finiti i vostri
genitori !
ROMEO E GIULIETTA DEL VILLAGGIO IO5

— Oh, le cose sono mutate e tutto è ormai accomo­


dato, — replicò Vrenchen sorridendo gentile e cordiale,
quasi con condiscendenza — vedete, Sali mi sposa !
— Ti sposa? Che cosa mi racconti !
— Sì, è un riccone, ha vinto centomila fiorini alla lot­
teria ! Pensate un po’, cara donna !
Quella fece un salto, giunse le mani atterrita gridando :
— Cento . . . centomila fiorini !
— Centomila fiorini !— confermò Vrenchen con gran
serietà.
— Signore Iddio ! Ma non è vero, tu mi racconti delle
frottole, bimba mia!
— Ebbene, credete quel che vi pare !
— Ma se è vero e se tu lo sposi, che cosa ne farete di
tanto denaro? Vuoi proprio far la signora?
— Si capisce, fra tre settimane celebreremo le nozze !
— Vattene, sei proprio un’imbrogliona di prima forza !
— Ha già comprato la più bella casa di Seldwyla, con
un gran giardino e un vigneto; dovrete venirmi a trovare,
quando saremo a posto, ci conto!
— Certo, streghetta del diavolo !
— Vedrete come è bello ! Vi farò un ottimo caffè e vi
offrirò la focaccia d’uova, con burro e miele !
— Oh, bricconcella, fa’ pur conto che ci verrò ! — escla­
mò la donna con faccia ingorda e con l’acquolina in bocca.
— Ma se verrete verso mezzogiorno, stanca del mer­
cato, troverete sempre pronto un buon brodo di carne
e un bicchiere di vino !
— Mi farà bene !
— E non mancheranno dolci o panini bianchi per i
vostri piccini a casa !
— Mi sento già un languore !
— Un bel fazzolettino o un ritaglio di seta o un nastro
antico per le sottane o uno scampolo per un grembiule
nuovo lo troveremo pure, andando a frugare nelle mie
casse, in un’ora di confidenze !
La donna girò sui tacchi, agitando con piccoli strilli di
gioia le sottane.
— E se vostro marito volesse concludere un affare van-
ιο6 LA GENTE DI SELDWYLA

taggioso di bestiame o di terreni, ma mancasse di denaro,


sapete dove chiedere aiuto. Il mio caro Sali sarà ben lieto
di collocare un po’ di capitale in modo sicuro e piacevole !
Anch’io del resto avrò sempre qualche risparmio per aiu­
tare un’amica fidata!
La donna perdette del tutto la testa e disse com­
mossa:
— L’ho sempre proclamato che tu sei una brava e bella
e buona bambina ! Che Dio sempre te ne rimuneri e ti
benedica in eterno per quello che vuoi fare per me !
— In compenso però desidero che anche voi non vi
dimentichiate di me !
— Sempre lo potrai pretendere !
— Dovrete in ogni caso, prima di andare al mercato,
mostrare a me la vostra merce, sia frutta che patate o ver­
dura, in modo che io sia certa di avere una contadina
sulla quale posso contare ! Quel che un altro paga per la
merce, lo pagherò io pure con piacere, mi conoscete ! Non
c’è nulla di più bello che quando una cittadina ricca, co­
stretta a starsene tra le sue mura e necessitando di tante
cose, stringe una buona e durevole amicizia con un’onesta
contadina, pratica di tutte le cose utili e importanti ! Ne
derivano vantaggi in cento casi, nelle disgrazie e nelle for­
tune, nei battesimi e alle nozze, quando i bambini vanno a
scuola o alla confermazione; quando cominciano a im­
parare un mestiere o debbono lasciare il paese ! Anche in
tempi di cattivo raccolto, di inondazioni, di incendi o
grandinate, che Dio ce ne guardi !
— Che Dio ce ne guardi ! — ripetè la buona donna sin­
ghiozzando e asciugandosi gli occhi col grembiule. —
Che sposina assennata e intelligente sei mai, certo avrai
fortuna, altrimenti non ci sarebbe giustizia a questo
mondo ! Sei bella, linda, saggia e previdente, laboriosa e
abile in ogni cosa ! Non ce n’è una più fine e migliore di te,
dentro e fuori del villaggio, e chi ti possiede deve credere
di essere in paradiso, altrimenti è un briccone che l’avrà
a che fare con me. Bada, Sali ! Sii ben grazioso con la mia
piccola Vrenchen, se no te la farò vedere io, tu che hai la
fortuna di cogliere una rosellina pari a questa !
ROMEO E GIULIETTA DEL VILLAGGIO 107

— Ecco, prendete anche il mio fagotto come mi avete


promesso, sino a quando lo farò ritirare ! Ma forse verrò
io stessa a prenderlo in carrozza, se non avete nulla in
contrario. Non mi rifiuterete allora una tazza di latte:
ed una bella torta con le mandorle da mangiarci insieme
la porterò io !
— Benedetta figliola ! Dammi il fagottino !
Vrenchen caricò, sopra il materasso ripiegato che la
donna già reggeva in capo, un sacco bislungo nel quale
aveva ficcato tutta la sua poca roba, così che quella se ne
stette lì con una torre oscillante in testa.
— Mi par che sia troppo pesante tutto in una volta, —
disse — non potrei fare due viaggi?
— No, no ! Noi dobbiamo andarcene subito, perché ci
aspetta un lungo cammino, visite a parenti di riguardo
che si sono fatti avanti ora che siamo ricchi ! Sapete come
vanno le cose!
— Lo so benissimo ! Che Dio vi protegga, e pensa a me
nella tua fortuna !
La contadina s’allontanò con la sua torre di fagotti,
serbando a fatica l’equilibrio, seguita dal garzone, il
quale si era infilato nella lettiera, un tempo dipinta a co­
lori, della bella Vrenchen, puntando il capo contro il bal­
dacchino disseminato di stelle impallidite, e afferrando,
nuovo Sansone, le due colonne anteriori graziosamente
scolpite. Mentre Vrenchen, appoggiata a Sali, seguiva
con lo sguardo il piccolo corteo, osservando quel tempio
ondeggiante fra gli orti, gli disse:
— Si potrebbe fame una bella capannetta o una per­
gola, piantandolo in mezzo a un giardino, con dentro un
piccolo tavolo e una panchina e seminando tutto all’in­
torno vilucchi ! Non ti piacerebbe starci dentro con me,
Sali?
— Certo, piccina! Specialmente se i vilucchi fossero
cresciuti ben fitti!
— Ma perché stiamo ancora qui? — disse Vrenchen
— Niente più ci trattiene !
— Vieni allora, e chiudiamo la casa ! A chi vuoi dare la
chiave?
ιο8 LA GENTE DI SELDWYLA

La fanciulla si guardò attorno. — Vogliamo appenderla


qui a questa vecchia alabarda? è in questa casa, come ho
sentito spesso dire dal babbo, da più di cent’anni, e ora
resta qui a far l’ultima guardia !
Appesero la chiave arrugginita a un ricciolo arrugginito
della vecchia arma avviluppata dai fagioli, e se ne anda­
rono. Vrenchen però impallidì e per qualche momento si
coprì gli occhi, così che Sali dovette guidarla sin che
furono lontani d’un buon tratto. Non si voltò mai a guar­
dare, ma chiese:
— Dove andiamo ora?
— Prima ce la godremo in campagna — replicò Sali —
tutto il giorno dove ci piacerà, senza alcuna fretta, e verso
sera troveremo bene un posto dove si balla !
— Bene ! — disse Vrenchen — staremo insieme tutto
il giorno andando dove ci accomoda. Ora però mi sento
molto debole, andremo subito al paese vicino a bere un
caffè!
— Si capisce ! — disse Sali — Usciamo soltanto alla
svelta da questo villaggio !
Ben presto furono in aperta campagna e traversarono in
silenzio i bei prati l’uno accanto all’altro; era una limpida
mattina domenicale di settembre, non una nuvola era nel
cielo, le cime dei monti e i boschi erano ravvolti in una
tenue nebbia che rendeva il paesaggio più misterioso e
solenne, e da ogni parte giungeva la voce dei campanili,
qui il suono armonicamente profondo di una ricca bor­
gata, là il tenue chiacchierio della campanella d’una po­
vera cappelletta. La coppia innamorata dimenticò quel
che l’attendeva alla fine della giornata per abbandonarsi
al gioioso senso di inespresso sollievo nel godere la dome­
nica ben vestiti e liberi al pari di due persone felici che le­
gittimamente si appartengono. Ogni suono che rompeva
il silenzio festivo e ogni richiamo remoto destavano un’e­
co commossa nell’anima loro; l’amore infatti è una cam­
pana che fa riecheggiare ciò che vi è di più lontano e indif­
ferente e lo trasforma in una particolare armonia. Benché
avessero fame, la mezz’ora di cammino sino al villaggio
più prossimo parve loro un salto, ed entrarono esitando
ROMEO E GIULIETTA DEL VILLAGGIO lOg

nella locanda all’ingresso del paese. Sali ordinò una buo­


na colazione e, mentre la preparavano, essi osservarono
in perfetto silenzio l’andamento ordinato e gentile del
grande e lindo locale. L’oste era infatti in pari tempo
fornaio, e il pane appena portatovi in forme di ogni tipo
in ceste sovrapposte profumava deliziosamente la casa in­
tera, poiché dopo la chiesa la gente soleva venire a pren­
dere il pane bianco e a bere un bicchierino. La padrona,
una donna graziosa e pulita, stava adornando tranquilla
e gentile i suoi bambini per la festa, ed essi, via via che
la mamma li lasciava andare, si accostavano confidenzial­
mente a Vrenchen per mostrarle le loro eleganze e raccon­
tarle le loro gioie. Quando arrivò finalmente il caffè forte
e profumato, i due poverini si accostarono timidi alla ta­
vola come fossero invitati. Ma presto ripresero animo e
cominciarono a parlottare fra loro, modesti ma beati. Ah,
come gustava Vrenchen, riprendendosi, il buon caffè, la
panna densa, i panini ancor caldi, il bel burro e il miele, la
focaccia e tutte le altre delizie loro servite ! Le piacevano
perché intanto poteva guardarsi il suo Sali, e mangiava
con l’entusiasmo di chi non abbia mangiato da un anno.
Intanto si rallegrava pure della fine porcellana, dei cuc­
chiaini d’argento, giacché la padrona li doveva aver giu­
dicati buoni clienti da trattare con riguardo, e di tanto in
tanto si sedeva a chiacchierare vicino a loro, che risponde­
vano giudiziosamente, con sua soddisfazione. Vrenchen
era solo incerta, non sapendo se avrebbe preferito tornare
all’aperto e vagabondare fra prati e boschi col suo diletto,
oppure se le sarebbe piaciuto di più rimanersene in quel-
l’ospitale ambiente per sognare almeno poche ore una sua
casa comoda e agiata. Sali le facilitò la scelta invitandola
rispettosamente e con una certa premura alla partenza,
come se avessero in vista una meta precisa e importante.
Padrone e padrona li accompagnarono sin fuori della
porta, congedandosi molto cordialmente per il loro buon
contegno, malgrado l’evidente povertà, e i due giovani
salutarono con le migliori maniere del mondo, allonta­
nandosi tranquilli e composti. Ma anche quando furono
di nuovo all’aperto, e furono penetrati in una vastissima
1 IO LA GENTE DI SELDWYLA

querceta, continuarono a camminare a lato, sprofondati


in sogni gradevoli, come non provenissero da famiglie ro­
vinate, piene di litigi e di miseria, ma fossero figlioli di
brava gente, ricchi di liete speranze. Vrenchen chinò la
testolina meditabonda sul petto ornato di fiori e, tenendo
le mani accuratamente appoggiate alla veste, procedeva
sul terreno umido e liscio del bosco, mentre Sali cammi­
nava agile ed eretto, rapido e pensieroso, con gli occhi ri­
volti ai saldi tronchi, quasi fosse un contadino intento a
scegliere gli alberi più convenienti da abbattere. Alla fine
si ridestarono dai vani sogni, si guardarono in volto e si
accorsero che serbavano ancora l’atteggiamento con cui
avevano lasciato la locanda, del che arrossirono abbas­
sando melanconici il capo. Ma la giovinezza è spen­
sierata, il bosco era verde, il cielo azzurro, essi erano soli
nell’ampio mondo e ben presto s’abbandonarono di nuo­
vo a tale sentimento. Non rimasero però molto a lungo
soli, poiché il bel sentiero boscoso si popolò presto di
gruppi di giovani a passeggio e anche di coppie che pas­
savano le ore dopo la messa cantando e scherzando.
Anche la gente di campagna ha le sue passeggiate ricer­
cate e i suoi parchi come quella di città, con la sola diffe­
renza che questi non costano nulla e sono più belli ; i cam­
pagnoli non soltanto s’aggirano con un senso particolare
della domenica per i loro campi che fioriscono e matura­
no, ma fanno raffinate passeggiate per i boschi e lungo i
verdi pendìi, fermandosi ora su una graziosa altura dal­
l’ampia veduta, ora ai margine di un bosco, cantando le
loro canzoni e subendo con piacere l’influsso di quella
schietta natura ; e poiché evidentemente non fanno tutto
questo per penitenza, ma per piacere, è da ritenersi che
abbiano senso della natura, anche a prescindere da ogni
sua utilità. Tutti colgono qualcosa di verde, i giovanotti
come le vecchiette che ripercorrono le vecchie strade della
loro giovinezza, e persino certi rigidi contadini, nel fiore
degli anni e degli affari, quando sono in campagna e attra­
versano un bosco amano tagliarsi un rametto snello, al
quale poi tolgono le foglie lasciando solo in alto un ciuf­
fo verde. Reggono quel bastoncino come uno scettro e, se
ROMEO E GIULIETTA DEL VILLAGGIO HI

entrano in un ufficio o in una cancelleria, depongono ac­


curatamente il ramo in un angolo, non dimenticando di
riprenderselo dopo le più serie sedute e di portarlo con
ogni cautela, sano e salvo, a casa, dove soltanto al bimbo
più piccolo verrà concesso di farlo a pezzi. Quando Sali
e Vrenchen videro i molti viandanti, risero sotto i baffi e
si compiacquero di essere essi pure in coppia, ma devia­
rono cercando sentierini laterali, per perdersi in assoluta
solitudine. Sostavano dove più piaceva loro, prosegui­
vano per tornare a riposare, e come non vi era una nuvola
nel cielo limpido, così nessuna cura turbò in quelle ore la
loro anima: dimenticarono di dove venissero e dove an­
dassero e si comportarono con tanta finezza e riserbo, che
la graziosa e semplice eleganza di Vrenchen, malgrado il
lieto eccitamento e la passeggiata, rimase fresca e intatta
come era stata al mattino. Sali non si comportò come un
contadinotto quasi ventenne o come il figlio di un betto-
liere rovinato, ma come se fosse stato ancor più giovane di
qualche anno e avesse goduto ottima educazione. Era
quasi comico vederlo rimirare di continuo la sua allegra
Vrenchen con tenerezza, con attenzione e rispetto. I due
poveretti, in quell’unica giornata loro concessa, dovevano
passare attraverso tutti gli aspetti e le sfumature dell’amo­
re, recuperando i giorni perduti della tenerezza e antici­
pando la fine passionale col sacrificio della loro vita.
A furia di camminare tornò la fame e furono felici di ve­
dere, dall’alto di una montagna ricca d’ombre, il bian­
cheggiare di un villaggio, dove intendevano pranzare.
Scesero svelti ed entrarono in quella nuova località con
la stessa aria ammodo con cui avevano lasciato la prece­
dente. Non c’era nessuno attorno che li avesse riconosciuti,
perché soprattutto Vrenchen nel corso degli ultimi anni
s’era ben poco mostrata tra la gente e, ancor meno, nei
villaggi dei dintorni. Avevano dunque l’aria di una cor­
retta e graziosa coppia diretta a qualche interessante
meta. Scelsero la prima trattoria del posto e Sali ordinò
un’ottima colazione; fu loro apparecchiato festivamente
un tavolino privato, dove sedettero modesti e silenziosi,
guardando le pareti rivestite di noce lucido, la campagno-
1 12 LA GENTE DI SELDWYLA

la ma splendente e ben provvista credenza dello stesso


legno, e le bianche e linde cortine alle finestre. Arrivò la
padrona zelante e depose sulla loro tavola un vaso di fiori
freschi dicendo: «Sinché vien la minestra, potrete, se ne
avete voglia, saziar gli occhi con questi fiori. All’apparen­
za, se è lecita la domanda, siete una coppia di fidanzati,
certo avviata in città per sposarvi domani?». Vrenchen
arrossì senza osare una risposta, anche Sali tacque e l’o­
stessa continuò: «Già, per vero dire siete molto giovani,
ma chi si sposa da giovane vive a lungo, si suol dire, e voi
almeno siete bellini e sembrate buoni, e non avete bisogno
di nascondervi. Due persone come si deve, se si uniscono
tanto giovani e sono attive e fedeli, giungono certo a
qualcosa. Ma bisogna esserlo davvero perché il tempo è
breve e lungo insieme, e ne vengono poi dei giorni, tanti
giorni ! Se si è bravi nell’usarli, sono belli e divertenti !
Scusatemi, ma mi ha fatto piacere vedervi, siete una
coppia così graziosa!». La servetta portò la minestra e,
poiché aveva sentito una parte di quel discorso, e avrebbe
voluto trovar marito anche lei, diede una occhiata invi­
diosa a Vrenchen, la quale a suo parere aveva tanta for­
tuna. Quando fu nella stanza di servizio, quell’antipatica
sfogò la sua stizza e disse alla padrona lì venuta, così forte
che l’avrebbero potuta udire in sala:
— Ecco un’altra coppia di straccioni, che se ne va
senz’altro in città a sposarsi senza un soldo, senza amici,
senza corredo e senza avvenire, senz’altro avvenire che la
miseria e la mendicità ! Dove si arriverà, se si sposano an­
che delle ragazzine che non sanno ancora vestirsi da sé né
fare una minestra? Mi fa compassione quel bel giovanot­
to, già invischiato con la sua bella !
— Zitta ! Chiudi il becco, lingua maligna, — disse la
padrona — non me li toccare ! Quelli sono due bravi e
onesti giovani venuti dalla montagna, da dove ci sono
gli opifici, sono vestiti modestamente, ma in ordine, e se si
vogliono bene e sono laboriosi faranno più strada di te
con la tua linguaccia ! Tu puoi aspettare un pezzo prima
che ti prendano, se non diventi meno acida, o vaso d’aceto !
Vrenchen godette così tutte le gioie di una sposa che si
ROMEO E GIULIETTA DEL VILLAGGIO li3

reca a nozze : l’incoraggiamento benevolo di una donna


assennata, l’invidia di una cattiva zitella smaniosa di ma­
rito, che per rabbia compassiona e loda l’innamorato,
nonché un eccellente pranzo al fianco del predetto inna­
morato. Aveva il volto fiammante come un garofano rosso
e le batteva il cuore, tuttavia mangiava e beveva di buon
appetito ed era sempre più cortese con la servente, senza
poter tuttavia tralasciare dal fissare teneramente Sali e dal
cinguettare con lui, così che anch’egli aveva l’animo in
subbuglio. Rimasero a lungo e comodamente a tavola,
quasi esitassero a staccarsi da quella dolce illusione. La
padrona portò dopo le frutta delle paste e Sali ordinò al­
lora un vino più fine e più forte, che infiammò le vene
di Vrenchen appena ne bevve un sorso. Essa però fu pru­
dente, centellinò solo qualche goccia e se ne stette timida
e pudica come una vera sposa. Un poco sosteneva quella
parte per malizia, per vederne l’effetto, un poco era dav­
vero in quello stato d’animo, sentendosi il cuore scoppiare
d’amore ardente e d’angoscia, sinché le parve di soffocare
tra le quattro pareti e desiderò riprender la via. Parve che
ambedue temessero di trovarsi troppo soli e appartati,
giacché senza intesa proseguirono sullo stradone in mezzo
alla folla, non guardando né a destra né a sinistra. Quan­
do ebbero però lasciato il villaggio e si diressero verso
l’altro paese dove c’era fiera e ballo, Vrenchen s’aggrap­
pò al braccio di Sali, sussurrandogli con parole tremanti :
— Sali, perché non dovremmo unirci ed essere felici !
— Non lo so neppur io il perché ! — replicò il giovane
fissando il mite sole autunnale che dolcemente splendeva
sui prati, costretto a dominarsi e a contrarre stranamente
la faccia. Si fermarono per darsi un bacio : ma sopravven­
ne gente e ci rinunciarono riprendendo la strada. La gros­
sa borgata dove c’era festa già si affollava di gente allegra,
e dalla trattoria principale giungeva una fragorosa mu­
sica da ballo, poiché tutti i giovani paesani avevano
già cominciato a danzare sin da mezzodì. Sulla piazza
davanti all’osteria c’era un piccolo mercato, con ban­
carelle di dolci e un paio di baracche di chincaglie­
rie attorno alle quali si pigiavano i bimbi e quella
114 LA GENTE Dl SELDWYLA

parte di folla che si limitava a guardare. Anche Sali e


Vrenchen diedero un’occhiata a quegli splendori, ambe­
due con la mano in tasca, ognuno desiderando di fare un
dono al compagno, visto che per la prima e unica volta si
trovavano insieme a una fiera. Sali comprò una casa di
panforte tutta imbiancata di zucchero, con un tetto verde
su cui stavano appollaiate delle colombe bianche, mentre
dal camino spuntava un piccolo Amore in veste da spazza­
camino ; alle finestre aperte s’abbracciavano due person­
cine paffute con boccucce minuscole e rosse, e si baciavano
davvero, giacché il pittore, pratico e frettoloso, con uno
zuccherino solo aveva fatto tutte e due le bocche fuse in­
sieme. Dei puntini neri segnavano occhietti arguti e sulla
porta color di rosa si leggevano le seguenti strofette:

Entra pur, senza sgomento !


Ma t’avverto già sin d’ora:
Solo a baci in tal dimora
Sarà fatto il pagamento !

Gli risponde la diletta:


Non m’arresta alcun timore;
Già da tempo questo cuore
Ogni gioia da te aspetta !

E se meglio ci ripenso
Son venuta qui per questo!
Entra allora presto, presto,
Da’ al bel rito il tuo consenso !

Un signore in marsina azzurra e una dama dal petto


molto sporgente, dipinti a destra e a sinistra sulla facciata,
scambiavano questi complimenti poetici invitandosi a
entrare in casa. Vrenchen in cambio donò a Sali un cuore
che aveva appiccicata da un lato una strisciolina con il
motto :
Mandorle dolci stan dentro il cuore,
Ma ben più dolce sarà il mio amore !
ROMEO E GIULIETTA DEL VILLAGGIO H5

e dall’altro:

Non obliare il motto, dopo mangiato il cuore !


Chiuso sarà il mio ciglio ma eterno vivrà amore !

Lessero con passione questi versetti e nulla di rimato o


di stampato parve mai più bello e più profondo di quelle
iscrizioni sui dolci; i due ragazzi consideravano rivolte
personalmente a loro le parole lette, tanto sembravano
adatte.
— Ahimè ! — sospirò Vrenchen — tu mi regali una
casa ! Anch’io te n’ho donata una, e quella vera; perché
il nostro cuore è ora la nostra casa in cui viviamo, e la
portiamo con noi proprio come le lumache. Non ne ab­
biamo altra!
— Allora però siamo due lumache, di cui ciascuna por­
ta la casa dell’altra! — disse Sali, e Vrenchen replicò:
— Tanto meno ci potremo lasciare, dovendo ognuno
rimanere accanto a casa sua!
Ma non sapevano di comporre coi loro discorsi gli
stessi scherzi che andavano leggendo sui dolci di miele
dalle svariate forme, e continuarono a studiare quella pri­
mitiva letteratura amorosa, esposta loro dinanzi su una
quantità di cuori grandi e piccini. Ogni rima appariva
loro bella e insuperabile; quando Vrenchen lesse su un
cuore dorato, sul quale erano tese delle corde come su una
lira:
Somiglia a una cetra il mio cuore:
più tu lo sfiori, più canta amore !

si sentì così pervasa di musica, da sembrarle che il suo


cuore stesso risuonasse. C’era persino un ritratto di Na­
poleone, costretto esso pure a farsi portatore di un motto
amoroso, giacché ci si poteva leggere:

Napoleone fu grande eroe:


d’acciaio il brando, d’argilla il cuore;
Ma la mia bella, cinta di rose,
fede d’acciaio serba nel cuore !
116 LA GENTE DI SELDWYLA

Mentre però si fingevano ambedue immersi nella lettura,


ognuno ne approfittò per fare un acquisto segreto. Sali
comprò per Vrenchen un anellino dorato con una pie-
truzza verde e Vrenchen un anellino di corno di camoscio
nero, sul quale era fissato un non-ti-scordar-di-me d’oro.
Probabilmente ebbero ambedue il pensiero di donarsi
quei poveri ricordi nel momento del distacco.
Mentre si immergevano in queste cose, erano tanto
assorti, che non s’avvidero di essere a poco a poco
circondati da un gruppo di persone che li osservavano at­
tente e curiose. Essendoci infatti a quella fiera una quan­
tità di giovani del loro villaggio, erano stati riconosciuti
e tutti ora li guardavano un po’ da lontano, stupiti di
quella coppia graziosa, che nella sua fervida intimità
sembrava obliare completamente il mondo circostante.
«Guardate!» dicevano «son proprio la Vrenchen di
Marti e il Sali di Seldwyla ! Come si sono incontrati e
messi insieme ! E guardate quanta tenerezza ed amicizia !
Guardate un po’! Ma dove vorranno andare a finire?».
Lo stupore degli spettatori era uno strano miscuglio di
compassione per la sventura, di disprezzo per la cattiveria
dei genitori, e di invidia per la beatitudine e la concordia
della coppia, la quale appariva innamorata in modo af­
fatto insolito e quasi nobile, riuscendo ai rozzi contadini
non meno estranea per quella sua dimentica e assoluta
dedizione reciproca, che per la sua miseria desolata.
Quando essi infine, come ridestandosi, si guardarono at­
torno, non videro che facce curiose; nessuno li salutò ed
essi non sapevano se dovessero salutare qualcuno, il che
da ambedue le parti era piuttosto effetto di imbarazzo
che non di scortesia. Vrenchen si sentì le fiamme al volto
per l’angoscia, impallidì e poi arrossì di nuovo. Sali
le prese la mano e condusse via la poveretta che gli
tenne dietro docile con la sua casa in mano, benché le
trombe dell’osteria richiamassero allegramente alla dan­
za, cui Vrenchen tanto volentieri si sarebbe unita.
— Qui non possiamo ballare ! — disse Sali, dopo che
furono un poco lontani — mi pare che qui non ci diver­
tiremmo molto!
ROMEO E GIULIETTA DEL VILLAGGIO 117

— Comunque, — disse Vrenchen triste — sarà meglio


che ci rinunciamo addirittura e che io cerchi un modo di
collocarmi !
— No ! — esclamò Sali — devi ballare una volta con
me, per questo ti ho portato le scarpe ! Andremo dove si
divertono i poveri, come noi, e quelli non ci disprezzeran­
no; anche nel «Giardinetto del Paradiso» si balla tutte le
volte che qui c’è fiera, perché è proprietà comunale;
andremo là e tu potrai poi al caso anche passarci la notte.
Vrenchen rabbrividì all’idea di pernottare per la prima
volta in un luogo sconosciuto, ma tenne dietro passiva
alla sua guida, che era ormai tutto quanto essa possedesse
al mondo. Il «Paradiso» era una trattoria ben situata su
un pendio solitario, con un’ampia veduta a valle, dove
però in simili giorni di festa non si recavano che i più
poveri, i figli dei piccoli possidenti, i braccianti e anche
gente vagabonda. Cento anni prima era stato costruito
come villa da un ricco originale, ma dopo di lui nessuno
aveva voluto abitarci, e, non essendo il posto altrimenti
utilizzabile, la strana villa, andata in rovina, finì nelle
mani di un oste che vi esercitò il suo mestiere. Era rima­
sto però ancora il nome antico e la costruzione ad esso
corrispondente aveva il solo pianterreno, con una loggia
il cui tetto era sorretto ai quattro angoli da statue di
arenaria che rappresentavano i quattro arcangeli ed era­
no ormai del tutto in rovina. Sul cornicione del tetto
erano disposti all’intorno degli angioletti musicanti^
anch’essi di pietra, con testoline e pancette grassocce,
che suonavano il triangolo, il violino, il flauto, il cem­
balo e il tamburino, strumenti in origine dorati. Il
soffitto interno, come pure la balaustrata della loggia e
gli altri muri della casa, erano ricoperti di affreschi ormai
sbiaditi, rappresentanti liete schiere di angeli o di santi
danzanti e cantanti. Tutto però ormai era svanito e con­
fuso come un sogno, e per di più largamente rivestito dai
rami della pergola, mentre scuri grappoli maturi pende­
vano da ogni parte tra il fogliame. Attorno alla casa
si ergevano dei castagni inselvatichiti e qua e là soprav­
vivevano forti e nodosi rosai selvatici come altrove i sam-
118 LA GENTE DI SELDWYLA

buchi. La gran terrazza serviva da salone da ballo; quan­


do Sali e Vrenchen vi giunsero, scorsero già da lontano le
coppie che volteggiavano lassù, mentre intorno alla casa
una folla di clienti beveva e faceva chiasso allegramente.
Vrenchen, che reggeva con melanconica devozione la sua
casa d’amore, sembrava in quel momento una delle sante
patronesse che figurano sui quadri antichi con in mano il
modello di un duomo o di un monastero da loro fondati,
ma quella pia fondazione sognata dalla poverina non si
sarebbe realizzata mai. Udendo però la musica vivace che
giungeva dall’alto, dimenticò il suo dolore e non ebbe al­
tro desiderio che ballare con Sali. Si fecero strada attraver­
so ai clienti fermi davanti alla casa e dentro il locale, tutti
straccioni di Seldwyla che si concedevano una gita a buon
mercato e poveracci di altri paesi, salirono la scala e su­
bito girarono cullati da un bel valzer, senza staccarsi gli
occhi di dosso. Solo quando il valzer fu finito si guarda­
rono attorno: Vrenchen aveva schiacciato e rotto la sua
casina e stava per rattristarsene, quando fu còlta da ben
più grave spavento scorgendo lì vicino il violinista nero.
Questi sedeva su una panca issata sopra una tavola ed
era nero come al solito; quel giorno aveva però infilato
nel suo cappelluccio un rametto di abete, aveva ai piedi
una bottiglia di vino e un bicchiere che non rovesciava
mai, benché suonando continuasse a dimenar le gambe,
quasi eseguisse una danza delle uova. Gli stavano accanto
un giovane bello e melanconico con un corno da caccia
e un gobbetto che suonava il contrabbasso. Anche Sali
rimase spaventato scorgendo il violinista, ma questi li sa­
lutò molto cordialmente, gridando: «L’ho sempre sa­
puto che avrei suonato una volta per voi ! State allegri,
cari sposini ! Alla vostra salute ! ». Offrì a Sali il bicchiere
pieno e Sali lo vuotò salutandolo. Quando il suonatore
s’accorse quanto fosse atterrita Vrenchen, cercò di in­
coraggiarla gentilmente con alcuni scherzi quasi graziosi
che la fecero ridere. Così i due si rianimarono e furono
anzi contenti di avere un conoscente e di stare in certo
modo sotto la speciale protezione del violinista. Ballarono
ininterrottamente, dimenticarono se stessi e il mondo fra i
ROMEO E GIULIETTA DEL VILLAGGIO 1 ig

giri, i canti e il chiasso che risuonavano fuori e dentro la


casa e dal monte si perdevano lontano nel paesaggio che
andava intanto avvolgendosi negli argentei vapori della
sera autunnale. Ballarono finché fu buio e finché la mag­
gior parte degli allegri clienti, canticchiando più o meno
ubriachi, si dispersero in ogni direzione. I pochi rimasti
erano i cosiddetti miserabili, i senza tetto che dopo la gior­
nata volevano godersi anche una notte allegra. Fra essi ta­
luni dall’aspetto di forestieri e dagli strani abbigliamenti,
sembravano in buona amicizia col suonatore. Si faceva no­
tare specialmente un giovanotto con una giacca di velluto
verde e un vecchio cappello di paglia spiegazzato, intor­
no al quale aveva posto una ghirlanda di sorbe. Egli era
in compagnia di una ragazza dall’aspetto selvaggio, con
una sottana rosso ciliegia a pallini bianchi e con attorno
alla testa una corona di pampini da cui scendeva su cia­
scuna tempia un grappolo scuro. Era la coppia più sfre­
nata; ballava, cantava senza posa, presente in tutti gli
angoli. C’era anche una fanciulla esile e graziosa, con un
abito di seta nera stinta e un fazzoletto bianco attorno
al capo, la cui punta le scendeva fin sul dorso. Il fazzo­
letto aveva striature rosse intessute e non era altro che un
buon asciugamani o un tovagliolo di lino. Ma sotto di esso
scintillava un bel paio d’occhi d’un azzurro violaceo. At­
torno al collo e sul petto scendevano sei collane di sorbe
rosse infilate, surrogato del più bel vezzo di coralli. Que­
sta figurina ballava di continuo da sola, rifiutando osti­
natamente di accettare un cavaliere. Tuttavia si muoveva
con grazia e leggerezza, sorridendo ogni volta che passava
vicino ai melanconico suonatore di corno, il quale però
sempre volgeva il capo dall’altra parte. C’erano anche
altre donnine allegre coi loro protettori, tutte di aspetto
piuttosto miserando, ma vivaci e in ottima armonia fra
loro. Quando fu buio del tutto, l’oste rifiutò di accendere
lumi, affermando che il vento li avrebbe spenti mentre
stava per sorgere la luna piena, e che tanto, per quel che
gli rendevano quei clienti, bastava la sua luce. Tale no­
tizia fu accolta con grande piacere; l’intera brigata s’ap­
poggiò alla balaustrata del salone aereo per assistere al

I
120 LA GENTE DI SELDWYLA

sorgere della luna, di cui già si scorgeva il riflesso all’oriz­


zonte, ed appena il disco si alzò gettando i suoi raggi di
sbieco nella loggia del «Paradiso» continuarono a ballare
a quella luce, tranquilli, composti e soddisfatti, come se
danzassero al riflesso di cento candele. La strana illumi­
nazione creava un’atmosfera confidenziale, e anche Sali
e Vrenchen non poterono fare a meno di unirsi all’allegria
comune, ballando anche con altri. Ma ogni volta che erano
rimasti divisi per pochi momenti, tornavano a corrersi in­
contro, festeggiando quel rivedersi come se si fossero cer­
cati e finalmente ritrovati dopo anni. Sali, quando bal­
lava con un’altra, aveva una faccia melanconica e scon­
trosa e continuava a voltarsi verso Vrenchen, che non lo
guardava passandogli accanto, ma, ardente come una ro­
sa porporina, sembrava felicissima con chiunque bal­
lasse.
— Sei geloso, Sali? — gli domandò quando i musicanti
ormai stanchi si interruppero.
— Dio me ne guardi ! — disse — non saprei nemmeno
come cominciare ad esserlo!
— Perché allora sei tanto arrabbiato quando ballo con
gli altri?
— Non è che sia arrabbiato, ma è perché devo ballare
io con altre ! Non posso sopportare nessun’altra ragazza,
mi pare d’avere tra le braccia un pezzo di legno, se non
sei tu ! Non è così anche per te?
— Oh, io mi sento come in paradiso, purché balli e
sappia che tu mi sei vicino ! Ma credo che cadrei morta
di colpo se te ne andassi lasciandomi qui sola!
Erano scesi davanti alla casa; Vrenchen lo strinse fra le
braccia, premendo il suo corpo snello contro di lui, ap­
poggiando al suo volto la propria guancia ardente, umida
di lagrime cocenti, e disse fra i singhiozzi:
— Noi non possiamo essere uniti, ma io non mi posso
staccare da te, non per un minuto, non per un istante !
Sali abbracciò la ragazza impetuosamente, stringendola
forte e coprendola di baci. I suoi pensieri confusi cerca­
vano una via d’uscita senza trovarla. Se anche avesse po­
tuto superare la miseria disperata della sua famiglia, la
ROMEO E GIULIETTA DEL VILLAGGIO 121

sua giovinezza e la sua passione inesperta non erano in


grado di accettare e di superare un lungo periodo di prova
e di rinuncia, e ci sarebbe poi sempre stato il padre di
Vrenchen da lui rovinato per tutta la vita. Il sentimento
di non poter essere felice entro il mondo borghese se non
con un matrimonio onesto e regolare, era presente in lui
non meno che in Vrenchen; per i due derelitti esso rap­
presentava l’ultima fiamma di quell’onore che in tempi
remoti aveva riscaldato le loro case e che i loro padri ave­
vano poi spento e distrutto con una follia, quando, sen­
tendosi sicuri e illudendosi di accrescere appunto tale
onore aumentando la proprietà, s’erano stoltamente ap­
propriati i beni di un disperso credendo di farlo sen­
za pericolo. Ciò accade in realtà ogni giorno, ma tal­
volta il destino istituisce un esempio, fa che si incon­
trino due simili individui avidi di onore e di posses­
so, destinati immancabilmente a distruggersi o divorar­
si al pari di due belve. Gli ambiziosi che vogliono ingran­
dire il proprio regno non sbagliano i loro calcoli soltanto sui
troni, ma talvolta anche nelle più umili capanne, e perven­
gono a una meta perfettamente opposta a quella dove
avevano sperato di giungere, cosicché l’insegna dell’ono­
re si trasforma in un batter d’occhio in un’insegna d’ob­
brobrio. Sali e Vrenchen nella tenera infanzia avevano
ancora conosciuto l’onore della famiglia e rammenta­
vano di essere stati bimbi ben curati, di aver veduto i loro
babbi stimati e sicuri come gli altri uomini. Poi erano ri­
masti per lunghi anni divisi e ritrovandosi vedevano in se
stessi anche la perduta felicità della casa, e tanto più inten­
samente s’aggrappavano l’imo all’altra col loro affetto.
Avrebbero voluto esser lieti e felici, ma soltanto su una
base salda e buona, e questo appariva loro irraggiungibile,
mentre il loro sangue ribollente sentiva il bisogno di
unirsi senz’indugio.
— Ormai è notte ! — esclamò Vrenchen — e dobbia­
mo dividerci!
— Ed io dovrei andare a casa e lasciarti sola? — pro­
testò Sali — no, non lo posso fare !
— Ma poi tornerà giorno e saremo allo stesso punto !
122 EA GENTE DI SELDWYLA

«Vi voglio dare un buon consiglio, ragazzi senza te­


sta ! » disse una voce acuta alle loro spalle, e il violinista
apparve ai loro occhi. «Ve ne state qui» proseguì «sen­
za saper che fare e volendovi un gran bene. Vi consi­
glio di prendervi così come siete, senza perder tempo.
Venite con me e coi miei buoni amici in montagna, dove
non avrete bisogno del parroco, né di denaro, non di do­
cumenti né di onore, né di un letto, dove basterà la vo­
stra buona voglia ! Non si sta tanto male da noi, l’aria è
buona e c’è da mangiare se si lavora; le foreste verdi sono
la nostra casa, dove ci vogliamo bene come ci accomoda,
e in inverno ci prepariamo dei rifugi ben caldi o andiamo
a cacciarci fra il fieno dei contadini. Siate risoluti e fe­
steggiate addirittura qui le vostre nozze, venite con noi,
così vi sarete liberati di ogni preoccupazione e resterete
l’uno dell’altra per l’eternità, o almeno sino a quando lo
vorrete. Poiché nella nostra libera esistenza diventerete
vecchi, credetelo a me ! Non pensiate che io voglia farvi
colpa di quel che i vostri padri mi han fatto ! No ! È vero
che mi fa piacere vedervi giunti al punto in cui siete, ma
questo mi basta e, se voi ascoltate il mio consiglio, vi sarò
volentieri d’aiuto». Disse tutto questo in un tono vera­
mente schietto e cordiale. «Ebbene, pensateci per un po’
ma seguitemi, se il mio consiglio vi par buono ! Mandate
alla malora il mondo, amatevi e non domandate a nessu­
no il permesso! Pensate a un allegro letto nuziale nel
denso del bosco o, se vi par troppo freddo, in un fienile ! ».
Così dicendo rientrò nella casa. Vrenchen tremava tutta
fra le braccia di Sali, e questi le domandò:
— Che cosa ne dici? A me pare che non sarebbe male
dimenticare il mondo intero e in cambio amarci senza
ostacoli e senza limiti ! — ma lo disse piuttosto col tono
di uno scherzo disperato che sul serio. E Vrenchen replicò
ingenua con candore, baciandolo:
— No, lassù non vorrei vivere, perché là le cose non
vanno a mio talento. Quel giovanotto che sonava il corno
da caccia e la ragazza dalla sottana di seta si apparten­
gono così e pare siano stati molto innamorati. Ma si dice
che la settimana scorsa quella donna gli sia stata per la
ROMEO E GIULIETTA DEL VILLAGGIO I23

prima volta infedele, del che lui non voleva persuadersi,


e per questo è tanto triste ed è in collera con lei e con gli
altri che lo deridono. Lei invece fa penitenza per ischerzo
ballando sola e non parlando con nessuno, e in questo
modo non fa che schernirlo. Ma si capisce che quel povero
suonatore finirà ancor oggi per rappacificarsi con lei.
Dove le cose vanno a questo modo non vorrei essere, per­
ché non vorrei mai mancarti di fede, mentre saprei sop­
portare ogni altra cosa purché tu sia mio !
Intanto però la povera Vrenchen tremava febbrici­
tante fra le braccia di Sali; già da quando a mezzodì la
padrona della trattoria l’aveva scambiata per una sposa
ed essa ne aveva sostenuta la parte senza contraddirla, le
bruciava nel sangue il desiderio di nozze, tanto più in­
tenso e indomabile quanto più svaniva la speranza. Sali
non stava meglio, poiché i consigli del suonatore, anche
se non voleva seguirli, gli avevano però turbato la mente,
cosicché disse smarrito e balbettante:
— Vieni dentro, dobbiamo almeno mangiare e bere
ancora qualcosa.
Entrarono nella sala della locanda, dove c’era ormai
soltanto la piccola brigata degli zingari, già raccolti at­
torno a una tavola per un modico pasto. «Ecco i no­
stri sposi!» esclamò il violinista «Siate allegri che noi
ora si festeggia la vostra unione ! ». Vennero fatti sedere a
forza a quella tavola, dove del resto cercarono quasi ri­
fugio da se stessi, lieti di essere per un momento in mezzo
alla gente. Sali ordinò vino e vivande più abbondanti e
l’allegria riprese. L’amante imbronciato s’era riconciliato
con la sua infedele e già la coppia si vezzeggiava con sma­
niosa beatitudine; l’altra coppia cantava e beveva non
risparmiando manifestazioni amorose mentre il violinista
e il gobbetto facevano gran chiasso fra loro. Sali e Vren­
chen tacevano tenendosi stretti; d’un tratto il violinista
impose silenzio e celebrò un rito scherzoso parodiando un
matrimonio. I due dovettero porgersi la mano mentre
tutta la compagnia si alzava e sfilava davanti a loro per
congratularsi e salutarli benvenuti nella loro confrater­
nita. Essi lasciarono fare senza dir parola, considerandolo
124 I.A GENTE DI SELDWYLA

uno scherzo, ma sentendosi però fremere da brividi caldi


e freddi.
La piccola compagnia si fece sempre più chiassosa e
sfrenata, accesa dal vino generoso, sinché d’un tratto il
violinista esortò tutti alla partenza. «La strada è lunga»
esclamò «e la mezzanotte è passata! Suvvia, vogliamo
accompagnare la coppia dei nostri sposi e io li precederò
col mio violino, e sarà una bellezza ! ». I due poveri de­
relitti non sapevano qual altro partito prendere, ed erano
ormai tanto confusi, che si lasciarono passivamente col­
locare in testa ad un corteo formato dalle altre due coppie
e chiuso dal gobbetto col contrabbasso sulle spalle. Il
violinista nero li precedette, sonando come un invasato,
e scese a valle mentre gli altri gli tenevan dietro cantando,
saltando e ridendo. Il pazzo corteo notturno attraversò
così le campagne silenziose e poi il villaggio nativo di Sali
e di Vrenchen, dove tutti erano già immersi nel sonno.
Passando per quelle viuzze silenti e davanti alle per­
dute case paterne, i due furono còlti da un impetuoso
e doloroso tormento e si diedero a ballare a gara con gli
altri, baciandosi fra lagrime e risa. Risalirono, sempre
danzando, l’altura verso cui li guidava il violinista, dove
c’erano i tre famosi campi, e lassù il nero suonatore si
abbandonò come un fantasma a una ridda di danze e
di melodie ancor più violente, mentre i suoi compagni cer­
cavano di superarlo con furia sfrenata, tanto che la tacita
collina si trasformò in un vero monte delle streghe;
persino il gobbo saltellava ansimante col suo strumento
sul dorso, né più si vedevano l’un l’altro. Sali afferrò
più stretta Vrenchen, costringendola a fermarsi, poiché
era stato il primo a ritornare in sé. La baciò forte sulla
bocca, per indurla a tacere, poiché la fanciulla, di tutto
dimentica, s’era messa a cantar forte. Ma alla fine lo sentì
e ambedue si fermarono in ascolto, mentre il folle corteo
procedeva per il sentiero perdendosi lungo la riva del
fiume, senza neppure accorgersi della loro mancanza. Il
violino, le strida delle donne e gli evviva dei giovani,
echeggiarono per un bel pezzo nella notte, sinché ogni
voce svanì e ritornò il silenzio.
ROMEO E GIULIETTA DEI, VILLAGGIO 125

— A questi siamo sfuggiti, — disse Sali — ma come


sfuggire a noi stessi? Come dividerci? — Vrenchen non era
in grado di rispondergli, abbandonata ansante al suo pet­
to. — Non è meglio che ti riconduca al villaggio e svegli
qualcuno perché ti ospiti? Domani potrai riprendere la
tua via e certamente avrai fortuna, tu trovi dappertutto
da vivere !
— Vivere senza di te !
— Devi dimenticarmi !
— Non lo farò mai ! E lo potresti far tu?
— Non si tratta di questo, cuor mio ! — disse Sali ac­
carezzandole le guance infiammate, mentre essa appas­
sionatamente si gettava sul suo petto — ora si tratta solo
di te ; sei ancora tanto giovane e puoi avere ancora tanta
fortuna !
— E tu no, vecchione?
— Vieni — disse Sali trascinandosela dietro. Ma non
proseguirono che pochi passi per fermarsi di nuovo e ab­
bracciarsi e baciarsi più comodamente. Il silenzio del mon­
do cantava armonioso nelle loro anime, non si udiva che
il lieve e dolce mormorio del fiume fluente.
— Come è bello qui tutt’attorno ! Non senti una mu­
sica, come un canto o un suono di campane?
— È la voce dell’acqua ! Del resto tutto tace.
— No, c’è qualche cos’altro, qua e laggiù, dappertutto
è una musica!
— Credo che sentiamo rombare nelle orecchie il no­
stro sangue!
Stettero così per un poco in ascolto di quelle armonie
immaginarie o reali, provenienti dal gran silenzio not­
turno o scambiate da loro con i magici effetti della luce
lunare diffusa dovunque sulle candide basse nebbie d’au­
tunno. D’un tratto a Vrenchen venne in mente qualcosa;
cercò in seno e disse:
— Ti ho comperato un piccolo ricordo che ti voglio
dare ! — e gli porse il semplice anello, infilandoglielo ella
stessa al dito. Anche Sali prese il suo anellino e lo mise
alla mano di Vrenchen dicendole :
— Abbiamo avuto lo stesso pensiero ! —Vrenchen alzò
12Ö LA GENTE DI SELDWYLA

la mano nella pallida luce argentea per ammirare il suo


anello :
— Che bellezza ! — disse ridendo — ora però siamo
davvero fidanzati e promessi, tu sei mio marito e io tua
moglie ; vogliamo almeno pensarlo per un momento, solo
finché quella striscia di nebbia sia passata davanti alla
luna, o finché avremo contato sino a dodici ! Baciami do­
dici volte!
Sali amava certo non meno intensamente di Vrenchen,
ma in lui il problema delle nozze non era così intensa­
mente vivo come un preciso dilemma, come un assoluto
essere o non essere, mentre Vrenchen, capace di un solo
sentimento, nel suo appassionato assolutismo vedeva in
quello la vita o la morte. Ora finalmente, però, il giovane
comprese, e quel che nella fanciulla era femmineo istinto
divenne d’un tratto in lui desiderio impetuoso e violento,
e una chiarezza rovente gli illuminò i sensi. Se anche già
prima aveva abbracciato e carezzato vivamente la sua
Vrenchen, lo fece ora ben diversamente, con veemenza,
coprendola di baci. Vrenchen, pur nella sua passione,
intuì senz’altro quel mutamento e un tremito intenso la
pervase tutta, ma ancor prima che la striscia di nebbia
fosse passata davanti alla luna, ne fu trascinata essa stessa.
Le loro mani inanellate si cercarono vezzeggiandosi e
combattendo e si afferrarono poi, strette come a consa­
crare spontanee nozze, senza l’imposizione di volontà al­
cuna. Il cuore di Sali ora pulsava violento, martellante,
ora sembrava fermarsi: trasse un profondo sospiro e poi
le sussurrò:
— Vi è una strada sola per noi, piccola Vrenchen:
celebriamo le nozze in quest’ora e poi ce ne andiamo dal
mondo . . . Laggiù vi è l’acqua profonda . . . laggiù nes­
suno più ci dividerà e noi saremo pur stati uniti... se per
poco o per molto, può esserci indifferente.
Vrenchen gli disse subito:
— Sali... quel che tu mi dici, l’ho già da un pezzo
pensato e deciso fra me, cioè che noi potremmo morire e
che tutto sarebbe allora passato . . . giurami dunque di
volerlo fare con me !
ROMEO E GIULIETTA DEL VILLAGGIO 127
— È ormai già quasi compiuto, nessuno può strapparti
più dalle mie mani, fuorché la morte ! — esclamò Salì
fuor di sé. Vrenchen respirò profondamente e lagrime di
gioia le sgorgarono dagli occhi; staccandosi da lui s’av­
viò rapida come un uccello oltre i campi, verso il fiu­
me. Sali la seguì in fretta, pensando che volesse sfug­
girgli, mentre Vrenchen credeva che fosse lui a voler­
la trattenere. Si rincorsero così e Vrenchen rideva come
una bimba che non vuol farsi acchiappare.
— Te ne penti già? — gridarono entrambi quando,
giunti al fiume, tornarono a riunirsi.
— No ! Ne son sempre più felice ! — ripeterono ambe­
due. Liberi da ogni affanno s’avviarono verso la riva,
seguendola poi più rapidi della corrente, tanto erano im­
pazienti di trovare un posto ove adagiarsi. La loro passio­
ne non vedeva ormai che l’ebbrezza e la beatitudine del
loro congiungimento e tutto il valore e il contenuto del­
la vita confluiva in esso ; quello che sarebbe venuto poi,
morte e annientamento, non era per loro che un alito, un
nulla; non ci pensavano più di quanto lo spensierato si
chieda di che cosa vivrà l’indomani mentre sciupa il suo
ultimo soldo.
— I miei fiori mi precedono, — esclamò Vrenchen —
guarda, son già morti e appassiti !
Li tolse dal petto, li gettò nell’acqua, cantando:
— Ma ben più dolce sarà il mio amore !
— Fermati ! — gridò Sali — ecco il tuo letto di nozze !
Erano giunti ad una strada che dal villaggio portava
al fiume, dove c’era un approdo con ormeggiato un bar­
cone carico di fieno. Egli cominciò senz’altro, con impeto,
a slegare le grosse corde, ma Vrenchen gli si gettò tra le
braccia ridendo e dicendo:
— Che cosa vuoi fare? Rubare il barcone ai contadi­
ni per finire in bellezza?
— Questa sarà la dote che ci dànno: un letto galleg­
giante e piume come non ne ha mai avute una sposa !
Del resto ritroveranno la loro proprietà a valle, dove deve
arrivare, e non sapranno neppure come ci sia giunta.
Guarda, dondola già, vuol partire !
128 LA GENTE DI SELDWYLA

La barca era un poco discosta dalla riva, nell’acqua


fonda. Sali sollevò Vrenchen sulle braccia e s’awiò a
guado verso l’imbarcazione; ma la ragazza, abbraccian­
dolo con impeto e dimenandosi come un pesciolino, non
gli permetteva quasi di tenersi ritto nell’acqua corrente.
Cercava di immergere le mani e il volto, gridando :
— Voglio sentire anch’io l’acqua fresca ! Ti ricordi co­
me erano fredde ed umide le nostre mani quando ce le
stringemmo la prima volta? Allora prendevamo pesci ed
ora saremo pesci noi stessi, e due pesci grandi e belli !
— Sta’ fermo, demonietto ! — disse Sali che faceva fa­
tica a tenersi ritto fra l’impeto della corrente e della sua
diletta — altrimenti il fiume mi trascina via ! — Issò il
suo dolce carico sulla barca e vi si arrampicò poi egli
stesso, quindi sollevò la ragazza sul fieno alto, morbido e
profumato e vi salì egli pure, e quando furono lassù, il
barcone cominciò a spingersi nel mezzo del fiume e a
scendere poi, con un lento giro su se stesso, a valle.
Il fiume attraversava ora boschi densi che lo ombreg­
giavano, ora l’aperta campagna; passava dinanzi a vil-
laggetti tranquilli e a capanne isolate ; talvolta rallentava,
simile a un placido laghetto, così che la barca quasi s’ar­
restava, tal’altra lambiva rocce e scogli, lasciandosi dietro
rapido le rive addormentate, e quando l’aurora fu alta,
dalle sue nebbie argentine spuntò una città con le sue
torri. La luna calante, rossastra come oro, tracciava una
scia luminosa in mezzo al fiume, che la barca, scendendo
lenta, tagliava diagonalmente. Mentre si avvicinava alla
città, nel gelo del mattino autunnale due figure pallide,
strettamente abbracciate, scivolarono giù da quella massa
cupa nelle gelide onde.
La barca, poco più avanti, si inceppò contro un ponte
e vi si fermò. Quando più tardi le salme furono trovate
oltre la città e se ne stabilì la provenienza, si potè leggere
nei giornali che due giovani, figli di due poverissime fa­
miglie andate in rovina e tra loro inconciliabilmente ne­
miche, avevano cercato la morte nel fiume, dopo aver bal­
lato allegramente tutto un pomeriggio, ed essersi divertiti
a una sagra rusticana. Tale fatto era da ritenersi con-
ROMEO E GIULIETTA DEL VILLAGGIO 1 2C)

nesso col ritrovamento di un barcone da fieno della stessa


regione approdato in città senza barcaioli; si riteneva che
i due gióvani se ne fossero appropriati per celebrarvi le
loro nozze empie e disperate, il che era un nuovo sintomo
della crescente immoralità e del degenerare delle passioni.
REGULA AMRAIN
E IL SUO FIGLIO MINORE

Regula Amrain era la moglie di un seldwylese assente;


questi era stato proprietario di una grande cava di pietre
situata dietro la cittadina e per un certo tempo l’aveva
sfruttata secondo i metodi di Seldwyla. Quasi tutto il
grosso borgo era fabbricato con l’ottima arenaria di cui
era composta la montagna; ma sin dal principio il com­
plesso dei debiti gravanti sulle case aveva cominciato pro­
prio dalle pietre di cui erano costruite : nulla infatti parve
ai Seldwylesi tanto adatto quale materia e oggetto di
intenso traffico quanto una simile cava, ed essa somiglia­
va a un teatro romano scavato nella roccia, sulla quale
passavano rapidi, rincorrendosi, i successivi possessori.
Il signor Amrain, un bel pezzo d’uomo costretto a con­
sumare una considerevole quantità di carne, pesce e vino
e ampi tagli di seta azzurra, rosso vivo o a grossi quadri,
per i suoi grandi ed eleganti panciotti, era stato inizial­
mente un fabbricante di bottoni e per qualche ora al
giorno li aveva persino ricoperti con le sue mani. Dive­
nuto però col passar degli anni tanto grasso e grosso, non
gli si confece più la vita sedentaria : dopo aver raggiunto
le insegne del perfetto gaudente, il panciotto di velluto
rosso, la catena d’oro all’orologio e l’anello a sigillo, li­
quidò la bottoneria e in una seduta importante degli
speculatori seldwylesi comprò la cava di pietre. Aveva
trovato così la vita movimentata che faceva al caso suo :
se il tempo era bello, faceva una passeggiatina fino alla
cava, con una borsa rossa gonfia di carte e un’elegante
canna su cui era applicato un metro con chiodi d’argento,
e con quel bastone cincischiava i depositi delle pietre, già
sotto sequestro, poi guardava il bel paesaggio asciugando­
si il sudore della fronte e rientrava svelto in città per atten­
dere agli affari veri e propri, cioè a spostare le svaria­
te carte nella borsa, il che avveniva di preferenza nella
frescura delle osterie. Insomma, egli era un seldwylese
perfetto, anche nella incostanza politica, che fu però ca-
REGULA AMRAIN !3!

gione della sua prematura caduta. Infatti un capitalista


conservatore di una città commerciale, il quale non sop­
portava scherzi, aveva investito una piccola somma in
quella cava credendo di venire in tal modo in aiuto di un
compagno di partito. Quando invece il signor Amrain, in
un accesso di sventatezza assoluta, si lasciò sfuggire ac­
centi di molto compromettente liberalismo, che subito
vennero propalati, quel signore se ne adontò a buon dirit­
to, poiché la mancanza di precise opinioni politiche non
potrà mai essere più sconveniente che in un uomo grande
e grosso con un panciotto di velluto colorato! L’adi­
rato finanziatore ritirò di colpo i suoi soldi, quando nes­
suno se lo aspettava, e a quel modo costrinse anzi tempo il
povero Amrain ad abbandonare la cava di pietre per il
vasto mondo.
Di rado gli uomini grandi e grossi sono sfortunati, per­
ché essi hanno il dono efficace e convincente di saper
provvedere alle esigenze del loro fisico: i cibi non pos­
sono sottrarsi loro a lungo, ma sono anzi possentemente
attirati dalla montagna magnetica della loro pancia. Co­
si il povero esule Amrain se la cavava felicemente in re­
moti lidi e, benché non concludesse nulla di grande, man­
giava e beveva in terra straniera non peggio che a casa
sua.
I Seldwylesi però che stavano discutendo quale di loro
fosse il più adatto a fare per un certo tempo gli onori di
casa fra quei sassi, fecero i conti senza l’oste, giacché
la moglie abbandonata del signor Amrain mise inaspet­
tatamente un piede sull’arenaria e, in grazia della dote
investitavi, si attribuì la cava, dichiarando di voler con­
tinuare l’azienda e anche, se possibile, soddisfare i cre­
ditori del marito. Fece questo passo soltanto dopo che il
detto consorte fu al di là dell’oceano Atlantico e impos­
sibilitato al ritorno. Tutto si tentò per dissuaderla e per
ostacolarla, ma la donna diede prova di tale fermezza,
energia e prudenza, che non si potè far nulla e che essa
divenne realmente proprietaria della cava di pietre. Il
lavoro fu ripreso con assiduità e regolarità sotto la dire­
zione di un buon capo, venuto da fuori; e per la prima
132 LA GENTE DI SELDWYLA

volta l’impresa si basò, invece che. su un traffico fittizio,


sull’effettiva produzione. In questo soprattutto vollero
ostacolarla, ma con lei non c’era modo di spuntarla : come
donna e madre economa non aveva, in confronto ai signo­
ri Seldwylesi, grandi spese, ed era cosi in grado di parare
le peggiori tempeste nel modo più semplice, pagando tutte
le legittime pretese. Non fu tuttavia cosa facile, e per af­
fermarsi ella dovette dedicarvisi notte e giorno con co­
raggio, furberia ed energia.
La signora Regula, stabilitasi a Seldwyla dopo il ma­
trimonio, era una donna energica, alta e robusta, con
belle trecce nere e occhi fermi e scuri. Aveva avuto da suo
marito tre ragazzi, allora di circa dieci, otto e cinque
anni, e spesso li guardava seria e attenta, domandandosi
se valeva la pena tenere in piedi la ditta per loro, dato
che essi eran pure, e sarebbero sempre rimasti, dei Seld­
wylesi. Ma i ragazzi erano suoi e l’amor materno, insieme
a un poco di amor proprio, le faceva sempre ritrovare il
coraggio nella speranza che anche in questo, alla fine,
avrebbe saputo manovrare il timone diversamente da
quel che fosse l’uso di Seldwyla.
Immersa in tali pensieri una sera dopo cena sedeva con
davanti il libro mastro e una quantità di conti. I ragazzi
erano a letto e dormivano nella cameretta di cui era
aperta la porta : poco prima era andata a guardare i pic­
cini addormentati con la lampada in mano, osservando
particolarmente il minore, quello che meno le somigliava.
Era biondo, aveva un nasino ardito all’insù, mentre lei
aveva un naso serio, dritto e lungo, e al posto della sua
bocca dal taglio severo il piccolo Fritz mostrava anche
nel sonno labbra sdegnosette e sporgenti. Tutto questo
gli veniva dal padre, era quel che le era tanto piaciuto al
tempo del matrimonio e che ora anche le piaceva nel
piccolo, ma che le suggeriva anche così gravi preoccupa­
zioni. Quando ad uno piace un certo taglio di faccia, non
c’è rimedio; per questo la signora Amrain era contenta
che il marito fosse lontano e che lei non lo vedesse più;
però nel figlio minore le aveva lasciato una copia fedele
del suo aspetto esteriore, ed essa non poteva saziarsene.
REGULA AMRAIN 133

Il dirigente della cava, o capo-operaio, che entrò in quel


momento per esaminare con lei lo stato degli affari e di­
scutere parecchie cose importanti, la trovò appunto im­
mersa in tali pensieri. Era un giovanotto piacente e in­
traprendente, di figura snella e robusta, equilibrato nel
suo modo di vivere, laborioso e tenace, e in pari tempo
con una certa furberia primitiva nei suoi pensieri, che,
unita alle notevoli doti della sua padrona, faceva andar
avanti bene la ditta e sconfiggeva le stolte scaltrezze dei
Seldwylesi. Egli era con tutto questo un uomo, pensava
quindi anzitutto a se stesso, e in tali pensieri non avrebbe
trovato sgradevole esser lì da vero padrone fissandovisi in
modo durevole, per il che aveva ripetutamente e rispet­
tosamente suggerito alla signora Regula di promuovere
un regolare divorzio dal suo lontano consorte.
Essa lo aveva compreso benissimo, ma al suo orgoglio ri­
pugnava dividersi pubblicamente, e con motivazione mor­
tificante, da un uomo che una volta le era piaciuto, col
quale aveva vissuto e dal quale aveva avuto tre figli. Per
amore di quei figlioli poi non voleva mettere a capo della
famiglia un estraneo, preferendo conservarne almeno
l’unità esteriore fino a quando i figli sarebbero stati adulti
e avrebbero potuto ricevere dalle sue mani un’eredità in­
tatta, che essa sperava di mettere insieme ad onta delle
difficoltà, mostrando alla gente del luogo quali fossero gli
usi dei paesi donde era venuta lei. Teneva quindi a freno
il suo collaboratore e così facendo andò a mettersi in
un maggiore imbarazzo ; giacché quello, avvertendone la
resistenza e il saldo carattere, s’innamorò davvero di lei
e più che mai si propose di arrivare a quel che desiderava.
Mutò condotta, e invece di aspirare, come aveva fatto
sin allora, molto correttamente alla mano della padrona,
si mise a far il patito per la sua persona, seguendola do­
vunque e guardandola con occhi innamorati appena c’era
l’occasione. Questo pareva un mutamento a lui giovevole,
poiché chi mostra di innamorarsi davvero di una persona,
con ciò la seduce e la vince ben meglio che con le più
rispettabili intenzioni matrimoniali. Benché la signora
Amrain non perdesse la testa e non s’innamorasse di lui,
134 LA GENTE DI SELDWYLA

divenne per lei sempre più difficile difendersene senza


provocare una rottura e senza perderlo, e si sa che è una
delle passioni delle donne conservarsi amici e alleati
preziosi appena lo possono fare senza gravi sacrifici.
Quando il capo-operaio entrò nella stanza, i suoi occhi
splendevano di una luce insolita, perché trattando e di­
scutendo energicamente con alcuni clienti, nell’interesse
della padrona, aveva bevuto una bottiglia di vino gene­
roso. Mentre le riferiva e faceva i conti con lei, la guar­
dò più volte all’improvviso, si fece distratto ed ecci­
tato, come chi covi qualche cosa. Essa trasse un poco in­
dietro la sua sedia e cominciò a stare in guardia, pur
soffocando un risolino, quasi schernisse l’improvvisa intra­
prendenza del giovanotto. Ma questi le afferrò di colpo le
mani e cercò di attirare a sé la bella donna, mentre, con
la stessa voce sommessa con cui per riguardo ai bambini
addormentati avevano condotto la discussione d’affari, la
lusingava con infiammato ardore e voleva persuaderla a
non lasciare passare vuota e inutile la sua esistenza, ma
ad essere saggia e non rifiutare la sua fedele devozione.
Essa non osò né un gesto vivace né una parola ad alta
voce, per timore di svegliare i bambini fuori tempo, ma gli
sussurrò adirata di lasciarle libere le mani e di uscire im­
mediatamente. Egli tuttavia non le ubbidì, anzi l’afferrò
più stretta, ricordandole con parole insistenti la sua giovi­
nezza, la sua bellezza e la pazzia che commetteva lascian­
do passare quei beni tanto preziosi senza goderli. Re­
gula, ben misurando il suo avversario, i cui occhi splen­
devano non meno di gioia di vivere che di furberia, si rese
conto che quello mirava soltanto a soggiogarla e subordi­
narsela per la via dei sensi e della passione, preparando
una ben triste fine alla sua indipendenza. Non mancò di
farglielo capire con sguardi di scherno, mentre conti­
nuava a cercare, il più silenziosamente possibile, di libe­
rarsi dalla sua stretta, al che egli s’opponeva con aumen­
tata energia e ostinazione. Lottò così per un bel pezzo col
robusto giovanotto, senza che all’una o all’altra parte
riuscisse di progredire, mentre di tanto in tanto la tavola
smossa o un’esclamazione di sdegno repressa o un sospiro
REGULA AMRAIN 135

facevano un po’ di rumore. La povera donna era penosa«


mente divisa fra il triplice oggetto delle sue preoccupazioni
che dormiva nella cameretta e gli ardenti assalti della vita
anche troppo desta. Non aveva che trent’anni, era già da
parecchio abbandonata dal marito e il suo sangue scorre­
va caldo e vivo come non mai : non v’è certo da stupirsi
che alla fine sostasse un momento con un profondo sospiro
e che in quell’istante la cogliesse il dubbio che non valesse
la pena di vivere con cosi fedele perseveranza nella ri­
nuncia e nel lavoro, mentre forse in fondo la sua vita era
la cosa essenziale e sarebbe stato più saggio fare come gli
altri, cioè concedere non a quell’intruso impudente, bensì
a se stessa quel che le avrebbe potuto dar gioia e sol­
lievo ; tanto le faccende a Seldwyla avrebbero comunque
seguito il loro corso ! Mentre per un attimo pensò tutto
questo, le mani le tremarono fra quelle del capo-operaio,
e appena egli avvertì tale piacevole mutamento d’atmo­
sfera, raddoppiò i suoi sforzi, e sarebbe forse giunto alla
vittoria, malgrado la rinnovata difesa della valorosa don­
na, se non fosse intervenuto un aiuto imprevisto.
Col grido angosciato e infuriato: «Mamma! C’è un
ladro!» balzò nella stqnza il figlio minore, il piccolo
Fritz, in tutto simile ad un piccolo San Giorgio. I riccioli
d’oro gli ondeggiavano attorno al volto arrossato dal son­
no, ma gli occhi azzurri ardevano di adorabile indigna­
zione e la bocca sdegnosa aveva una piega ardita. La
corta camiciola candida svolazzante sembrava la tunica
d’un crociato e il minuscolo cavaliere reggeva con le
braccine nude un lungo ferro da tenda con un grosso
pomo dorato, e lo picchiò a tutta forza sulla testa dell’uo­
mo che, balzando subito in piedi, cominciò, imbarazzato,
a fregarsi il bernoccolo che gli spuntava mentre gli si
riempivano gli occhi di lagrime. Regula Amrain, arros­
sendo vivamente, trattenne il ragazzo gridandogli : « Ma
che ti prende, Fritz? È Florian e non ci fa nulla di male ! ».
Il ragazzino scoppiò in dirotto pianto, aggrappandosi im­
barazzato alle ginocchia della madre; questa se lo prese
in braccio e stringendoselo al petto congedò con un riso
appena trattenuto lo sconcertato Florian, che, benché
13θ LA GENTE DI SELDWYLA

avesse una gran voglia di dar scapaccioni al ragazzo,


dovette far buon viso a cattivo giuoco e ritirarsi mortifi­
cato. La donna chiuse rapidamente la porta alle sue spalle,
poi sostò con un sospiro di sollievo, restando però pensie­
rosa in mezzo alla stanza, sempre con in braccio il bravo
bimbo che le aveva messo il braccìno sinistro attorno al
collo e con la manina destra teneva ancora, puntato a
terra, il lungo ferro da tenda dal pomo dorato. Essa fissò il
volto del fanciullo, lo coprì di baci, poi riprese la lampada
e s’awiò nella cameretta a vedere che facessero i due mag­
giori. Quelli dormivano come marmotte e non avevano
udito nulla. Sembravano dunque dei dormiglioni, benché
assomigliassero a lei, nelle fattezze, mentre il minore, così
simile al padre, s’era rivelato sveglio, sensibile e coraggioso
e prometteva di diventare un giorno ciò che avrebbe do­
vuto essere il genitore e che essa in passato aveva invano
cercato in lui. Mentre meditava su tale misterioso giuoco
della natura, non sapendo se compiacersi che il ritratto
del marito un tempo amato fosse migliore delle due pigre
creature fatte a sua immagine, riportò il piccino nel suo
letto, lo ricoprì bene e decise di riporre da quel momento
tutta la sua fiducia e la sua speranza in quel minuscolo
San Giorgio, ricompensandolo della sua precoce caval­
leria. “Se i due dormiglioni, che son pure sempre miei
figli” pensò “voglion venire con noi per la buona stra­
da, tanto meglio, lo facciano pure”.
L’indomani parve che il piccolo Fritz avesse già dimen­
ticato l’incidente, e per vecchi che diventassero madre e
figlio, mai con una sillaba ne fecero menzione tra loro. Il
figlio tuttavia lo serbò chiaramente nella memoria, pur
dimenticando del tutto, col tempo, molti altri eventi
posteriori. Ricordava esattamente di essersi destato già
all’arrivo di Florian, perché, malgrado il sonno sodo,
era un ragazzino svelto e vigile che udiva tutto. Ave­
va così sentito ogni parola del colloquio, sinché se
ne era spaventato, intuendo anche, senza comprender­
lo, qualcosa di sconveniente e di pericoloso. L’aveva
còlto un vivo terrore per la mamma, tanto che, avverten­
do più per istinto che con l’udito la tacita lotta dei due,
REGULA AMRAIN 137

era balzato in suo soccorso. E chi può seguire le vie mi­


steriose di certe facoltà che si nascondono nell’anima in­
fantile? Quand’ebbe ben riconosciuto Florian, chi in­
segnò all’ometto la fulminea, incosciente e riguar­
dosa finzione? Chi gli suggerì di far come se vedesse un
ladro e gli fece così prontamente colpire l’avversario sulla
testa?
Sua madre mantenne la parola e l’allevò in modo che di­
ventò un brav’uomo a Seldwyla, e fu uno dei pochi che co­
sì seppe conservarsi sino alla morte. Difficile sarebbe dire
come avviasse e portasse a termine quest’impresa, poiché
di fatto essa lo educò il meno possibile e l’opera sua consi­
stette quasi esclusivamente nel lasciar crescere accanto a
sé e secondo il suo esempio l’alberello fatto dello stesso suo
legno. La brava gente laboriosa fa molto meno fatica a
educare bene i propri figli, di quanta ne farebbe per esem­
pio uno stupido analfabeta per insegnare a leggere al suo
bambino. In complesso tutta la sua pedagogia consistette
nel far capire al piccino, pur senza sentimentalismi, quan­
to essa gli volesse bene, suscitando così in lui il bisogno di
piacerle sempre e ottenendo che in ogni occasione pensas­
se a lei. Senza incepparne i liberi movimenti, teneva il
piccolo molto con sé, così che esso assunse i modi e i pen­
sieri di lei e spontaneamente non fece poi nulla che non
fosse del gusto della madre. Essa lo vestì sempre sempli­
cemente, ma bene, e con una certa raffinatezza, cosicché
egli si sentì sicuro, comodo e soddisfatto nei suoi abiti,
senza che mai dovesse pensarci, il che lo salvò dalla va­
nità e gli fece ignorare la smania di vestirsi meglio o di­
versamente dal solito. Analogamente si comportò per il
cibo ; consentì a tutti i desideri equi e non dannosi dei suoi
tre figlioli e nessuno in casa sua mangiava una cosa di cui
essi non avessero parté: però, malgrado la regolarità e
l’abbondanza, trattava i cibi con tale trascuratezza e qua­
si dispregio, che il piccolo Fritz imparò a sua volta a non
attribuirvi particolare peso e a non ripensare appena sazio
a qualche straordinario buon boccone. Soltanto la tre­
menda e prolissa importanza che quasi tutte le buone mas­
saie conferiscono ai cibi e al modo di cucinarli, suscita di
138 LA GENTE DI SELDWYLA

solito nei bambini la golosità e l’ingordigia, che si trasfor­


ma poi, quando sono adulti, in tendenza alla vita gauden­
te e spendereccia. È strano come presso i popoli germanici
sia considerata come la migliore e la più virtuosa massaia
quella che fa più chiasso con le sue pentole e non si presen­
ta mai senza avere in mano qualcosa di commestibile;
non c’è da stupirsi se poi i signori germanici son diventati
dei gran ghiottoni, se tutta la felicità dell’esistenza si basa
su un’ottima cucina e se si dimentica totalmente quale
cosa secondaria sia in fondo il mangiare nel nostro fugace
viaggio mortale. Allo stesso modo si comportò per quello
che di solito invece i genitori trattano come cosa tre­
mendamente solenne: il denaro. Appena possibile fece
conoscere al figlio le loro condizioni patrimoniali, gli fece
contare somme di denaro, gliele fece riporre nella cassa,
e, appena fu in grado di distinguere le monete, gli lasciò
un piccolo salvadanaio a sua completa disposizione. Se
commetteva poi una sciocchezza o cedeva a una tenta­
zione della gola, non ne faceva un gran delitto, ma gliene
dimostrava con poche parole la sconvenienza e il ridi­
colo. Se si appropriava di qualcosa che non gli spettasse
o si permetteva una di quelle compere segrete che tanto
atterriscono i genitori, non ne nasceva una catastrofe ; essa
lo mortificava semplicemente e apertamente, come un
ragazzo sventato e sciocchino. Tanto più severa si mostra­
va invece quando egli si comportava con meschinità e
con volgarità nelle parole o nei gesti, il che però accadeva
solo di rado : allora gli faceva una sfuriata senza riguardi
e gli dava degli scapaccioni così energici che la faccenda
non poteva cadere in dimenticanza. Di solito si agisce
proprio in modo opposto: quando il bambino commette
un peccato di denaro o arriva persino ad appropriarsi di
una somma, genitori e maestri sono còlti dalla strana
paura di un avvenire scellerato, come se essi medesimi
sapessero quanto sia difficile non diventare un ladro o un
imbroglione ! Quel che su cento casi è novantanove volte
la mera bizzarria improvvisa e inspiegabile di un bam­
bino trasognato, diventa così oggetto di un terribile pro­
cesso, in cui si parla addirittura di forca e di galera. Come
REGULA AMRAIN 139

se queste care pianticine, con il destarsi della ragione, non


fossero protette dal voler diventare ladri e bricconi dal
loro stesso egoismo umano, o anche solo dalla vani­
tà. Come vengono invece trattati con indulgenza be­
nevola e persino favoriti mille altri tratti e sintomi minori
dell’invidia, della gelosia, della vanità, dell’arroganza,
dell’egoismo e della presunzione ! È ben difficile che i si­
gnori educatori scoprano in un bambino un’indole preco­
cemente ipocrita e falsa, mentre si scagliano con infernale
sdegno su quello che per imbarazzo o per birichineria ha
detto con tutta ingenuità un’unica e sfacciata menzogna !
Qui essi trovano un pretesto comodo e ben chiaro per ur­
lare nelle orecchie stupite del piccolo genio inventivo il
loro comandamento: «Non mentirei». Quando Fritz
osava una bugia di quel genere, la signora Regula gli
diceva semplicemente, fissandolo: «Che scherzi mi fai,
stupidello? Perché inventi simili sciocchezze? Credi di
poter prendere a gabbo i grandi? Stai contento se non
la dànno a bere a te, e lascia perdere tali scherzi ! ».
Quando invece ricorreva a una bugia per dissimula­
re il peccato commesso, gli dimostrava con parole
serie ma affettuose che in tal modo la faccenda non
era tolta di mezzo, e riusciva a fargli comprendere
che sarebbe stato meglio per lui confessare con aperta
lealtà il suo fallo; non istruiva però un nuovo processo
per la menzogna, ma considerava il peccato senza tener
conto se avesse poi mentito o no, cosicché il bimbo presto
comprese l’inutilità e la meschinità di quei ripieghi e finì
per sentirsi troppo orgoglioso per ricorrervi. Se invece
mostrava la minima tendenza ad attribuirsi qualità che
non possedeva o ad esagerare quel che sembrava promet­
tere bene in lui, o a menar vanto di ciò di cui era capace,
lo biasimava con parole dure e taglienti e arrivava anche
a dargli qualche scappellotto se la cosa le sembrava trop­
po grave e antipatica. Anche quando s’accorgeva che
giocando ingannava altri bambini per trarne piccoli van­
taggi, lo puniva con maggior severità che se avesse ne­
gato qualche sua più grave mancanza.
Nell’insieme però tutta l’educazione non costava forse le
140 LA GENTE DI SELDWYLA

parole che ci son volute qui per esporla e si basava co­


munque più sul carattere della signora Amrain che su un
sistema predisposto o ancor peggio tratto da letture. Per
questo una parte di quel procedimento non potrà essere
seguito da chi non possegga il suo carattere, mentre un
altro aspetto, ad esempio il suo modo di fare circa le vesti,
il nutrimento e il denaro, non potrà servire a gente
troppo povera. Dove infatti non c’è nulla da mangiare,
il cibo diventa naturalmente di capitale importanza a
ogni istante e sarà difficile disabituare dalla ghiottoneria
bambini cresciuti in simili condizioni, poiché tutti gli
sforzi e le preoccupazioni della famiglia si concentrano
sul nutrimento.
Specialmente durante l’infanzia del ragazzo, lo sforzo
pedagogico fu molto lieve per la madre, poiché, come di­
cemmo, l’educazione procedette piuttosto con la sua per­
sonalità che con la lingua, e andò a confondersi così con la
sua consueta esistenza. Se volessimo chiedere in che cosa
consistesse, date la facilità e la semplicità del compito, la
sua particolare tenacia e il suo proponimento, potremmo
rispondere : soltanto nell’amore che gli prodigava, impri­
mendo alla personalità del fanciullo la propria e facendo
diventar suoi i propri istinti.
Non mancò però l’ora in cui le toccò applicare alcune
misure educative decise ed energiche, quando cioè il bravo
Fritz, ormai giovanotto, si ritenne completamente educa­
to, mentre la madre stava più che mai all’erta, dovendosi
proprio allora decidere se avrebbe imboccato la via giusta
o sbagliata. Non furono che pochi i momenti in cui intra­
prese passi decisivi ed energici contro la sua giovane indi-
pendenza, ma lo fece sempre al momento giusto e così
all’improvviso, in modo tanto significativo e persuasivo,
che non mancò mai un durevole effetto.
A diciott’anni Fritz era un bel giovinetto, piacevole a
vedersi coi suoi capelli biondi, i suoi occhi azzurri, molto
sicuro e disinvolto in ogni sua attività. Aveva già assunto
la direzione dell’azienda per quel che riguardava il la­
voro all’aperto, dopo aver lavorato sin dal suo quattordi­
cesimo anno alla cava. Aveva una faccia seria e intei-
REGULA AMRAIN 141

ligente, pur serbandosi sereno e di buon umore, e quel che


più piaceva a sua madre era la capacità di trattare con
tutti senza imitarne i modi. Non lo trattenne dall’andare
a passeggio quando si annoiava troppo a casa né dallo
stringere amicizia con altri compagni, ma l’acuta osser­
vatrice vide con piacere che non prendeva troppo gusto a
stare coi giovani di Seldwyla, coi quali a volte si in­
tratteneva : ne misurava il carattere e con loro ingannava
soltanto il tempo, finché gli accomodava. Vide anche con
soddisfazione che non era tirchio e in compagnia of­
friva volentieri qualche bottiglia, senza però risentirne per
proprio conto cattive conseguenze, e che non veniva im­
plicato in alcun pasticcio sporco o sgradevole, pur dandosi
dattorno dappertutto e sapendo sempre come si erano
svolte le cose, anche senza essere un ipocrita o un delatore.
Aveva una certa opinione di sé senza cadere nell’alterigia
e sapeva difendersi quando era necessario. La signora
Regula stava quindi di buon animo, persuasa che quella
fosse la maniera giusta e che il suo rampollo non fosse
certo uno stupido.
Una volta s’accorse che cominciava a farsi rosso in­
contrando delle belle ragazze, che osservava con critica
attenzione persino quelle brutte e che si mostrava imba­
razzato quando una vispa donnina grassottella entrava in
casa, pur divorandosela in segreto con gli occhi. Da que­
sti tre sintomi dedusse due cose : in primo luogo che non si
era ancora guastato, in secondo che, se c’era per lui il pe­
ricolo di inciampare sulla larga strada della città, questo
pericolo poteva venirgli soltanto da parte delle dame di
Seldwyla, e disse in cuor suo: “È a quello che vorresti
arrivare, briccone?”.
Le belle della città non erano peggiori dei loro mariti, e,
giunte a una certa età, pensavano a conservare molte cose
che quelli invece avrebbero preferito ancora disperdere.
Siccome però i mariti volentieri si divertivano, esse non
volevano restare indietro sinché potevano, e nel bel sesso,
come è noto, tutte le deviazioni e le mancanze hanno
un’unica conclusione, il che è una vecchia storia che ha
molteplici ripercussioni sulla fortuna o la sfortuna dei si-
142 LA GENTE DI SELDWYLA

gnori loro compEci. Perciò anche sotto questo rapporto


le cose a Seldwyla procedevano un po’ più allegramente
che in altri posti.
Allorché la signora Amrain, tenendo bene aperti i suoi
occhi neri, s’accorse con irata preoccupazione del come e
quando si tentasse di corromperle il suo ragazzo, si pre­
sentò presto un’occasione al suo intervento materno. Si fe­
steggiarono delle nozze solenni in municipio e la nuova
coppia faceva parte di quella gente troppo rumorosa ed al­
legra che era appunto allora in auge. Come in altri luoghi
della Svizzera, anche nelle feste nuziali di Seldwyla,
quando v’è banchetto e ballo serale, ci sono ospiti di due
qualità: i veri invitati alle nozze e poi gli amici e i parenti
di questi, che recano umoristici doni per la festa o per il
pranzo, con svariati scherzi, con poesie e allusioni. Per
far ciò indossano allegri travestimenti di vario genere, in
corrispondenza al dono offerto, mantengono la maschera,
mentre vanno a cercare ciascuno il proprio amico o pa­
rente, mettendosi poi dietro la sua sedia e tenendo un
discorso allorquando offrono il regalo. Fritz Amrain ave­
va l’intenzione di offrire alcuni doni a una sua cuginetta
e la mamma non vi si era opposta, dato che la ragazzina
era ancora molto giovane e di buona indole. Ma Fritz
era attratto, più che dalla cuginetta, dall’indistinto desi­
derio di sfogarsi una volta, a piacere, fra le allegre dame
seldwylesi, la cui esuberanza, quando erano in numerosa
brigata, gli era stata molte volte piacevolmente descritta.
Non aveva però ancora deciso quale maschera scegliere
per presentarsi alla festa, e solo verso sera si convinse,
dietro il consiglio di alcuni conoscenti, a travestirsi da
donna. Sua madre era per caso uscita quando egli rientrò
con quell’allegro proposito e subito cominciò ad attuarlo.
Senza cattive intenzioni, diede l’assalto all’armadio del­
la mamma, e buttò tutto alla rinfusa, aiutato da una do­
mestica ridanciana, sinché ebbe trovato le vesti migliori dai
colori vivaci e se le fu prese. Indossò il più bell’abito di sua
madre, quello che essa non portava che in occasioni solen­
ni e frugò per di più nelle scatole piene di collarini, di na­
stri e di altri ornamenti. Alla fine cinse persino la collana
REGULA AMRAIN 143

della mamma e si uni in quella guisa, ornato alla meglio,


ai suoi compagni, che si erano nel frattempo travestiti essi
pure. Trovò là due allegre sorelle che completarono il suo
costume pettinandogli con molta grazia la testa bionda e
perfezionando il suo busto con un adeguato seno femmi­
nile. Mentre stava seduto su una sedia subendo le manipo­
lazioni delle ragazze per nulla timide, il volto gli si faceva
di fuoco e il cuore gli batteva di impaziente piacere, ma
d’altra parte si destava in lui la cattiva coscienza, insi­
nuante che la faccenda non fosse poi del tutto in ordine.
Mentre si avviava quindi con la sua brigata verso il mu­
nicipio, reggendo un cestello coi doni, aveva davvero
l’aspetto confuso e pudico di un’autentica fanciulla e
quando apparve così, con gli occhi abbassati, alla festa
di nozze, suscitò il plauso generale, specialmente delle
signore ivi raccolte.
Nel frattempo però sua madre era tornata a casa e
aveva visto l’armadio spalancato e il saccheggio operato
nelle scatole e nei cassetti. Quando venne infine a sapere
per qual scopo ciò fosse accaduto e le dissero che il suo ram­
pollo era uscito con abiti femminili, e per di più coi suoi
migliori, fu còlta prima da grande rabbia, poi da ancor
più grande inquietudine. Nulla infatti le sembrava più
adatto ad iniziare un giovanotto alla vita scapestrata che
una spedizione in abiti femminili a nozze seldwylesi. Ri­
nunciò quindi alla sua cena, aggirandosi in grande ansia
per la casa per un’ora intera, senza sapere come avrebbe
potuto sottrarre il figliuolo ai pericoli che lo minacciava­
no. Le ripugnava farlo semplicemente chiamare in­
dietro, infliggendogli così una mortificazione; temeva
inoltre, a buona ragione, che lo avrebbero trattenu­
to o che egli medesimo si sarebbe rifiutato di venire.
D’altra parte intuiva come in quella sola notte lo po­
tevano far piegare in modo decisivo sulla via del male.
Alla fine, non trovando pace, si decise ad andare in per­
sona a prendere suo figlio e poiché, con le sue molteplici
relazioni, aveva un mezzo pretesto per fare una comparsa
di un’oretta alla festa, si vestì rapidamente, scegliendo un
abito un po’ più elegante di quello di tutti i giorni, ma non
144 LA GENTE DI SELDWYLA

tanto solenne da rivelare eccessivo rispetto per l’allegra


brigata. Si avviò dunque verso il municipio accompagnata
soltanto dalla domestica, che la precedeva reggendo la
lanterna. Entrò nel salone del banchetto, ma la cena
e l’allegra cerimonia dei doni erano già passate; i do­
natori avevano ormai tolto le maschere, mescolandosi
agli altri invitati. Nel salone non si vedevano altro che
dei gruppi di uomini, in parte intenti a giocare a carte,
in parte a bere, ed essa salì allora la scaletta che condu­
ceva ad una antiquata galleria, di dove si poteva ben
dominare il salone in cui si svolgeva il ballo. La galleria
era affollata di gente varia, non in vista, che si acconten­
tava di assistere alle danze come gli abitanti di una sede
principesca alle nozze dei loro sovrani. Regula potè così
osservare inavvertita il ballo, che si svolgeva con una cer­
ta solennità, dissimulando alla meglio la generale bramo­
sia amorosa con il ridicolo di un rigido cerimoniale. Non
diversamente si sarebbero mai comportati i Seldwylesi,
fedeli al motto: Tutto a suo tempo. Se con poca fatica
potevano offrire e godere lo spettacolo di un ballo, per
i loro criteri molto aristocratico, perché avrebbero do­
vuto rinunciarvi?
Frizt Amrain non era però fra i ballerini, e più sua madre
lo cercava, tanto meno le riusciva di scovarlo. Ma quanto
più a lungo non lo trovava, tanto più cresceva in lei il
desiderio di vederlo, e non soltanto per la paura, ma per
constatare davvero che figura facesse e se non avesse
aggiunto scioccamente alla sventatezza il ridicolo, girando
attorno, Dio sapeva dove, come una donnaccia goffa e
mal conciata. Durante le sue ricerche capitò in un cor­
ridoio laterale della galleria, chiuso da una finestra muni­
ta di tenda e destinata a dar luce appunto a quel corri­
doio. La finestra però dava sul salone minore del munici­
pio, un’antica stanza gotica, e si apriva in alto sulla pa­
rete. Scostando un poco la tenda e guardando giù nella
sala scarsamente illuminata da strani lampadari pieni di
fronzoli, scorse una piccola comitiva che sembrava diver­
tirsi in tutta tranquillità e allegria. Guardando meglio,
la signora Regula riconobbe sette o otto signore, i cui
REGULA AMRAIN I45

rispettivi mariti aveva già visto giocare nell’altro salone,


sfoggiando grosse puntate. Le signore sedevano in uno
stretto semicerchio, avendo di fronte altrettanti giovanot­
ti intenti a far loro la corte. Ma neanche fra questi si tro­
vava Fritz e la mamma ne fu ben felice, poiché il gruppo
di quelle dame non era certamente rassicurante. Osser­
vandole infatti una ad una, vide che erano tutte sposine
considerate, ognuna a suo modo, pericolose, e che in città
godevano di una nomea se non cattiva, per lo meno miste­
riosa, il che, data la tolleranza generale, era pur sempre
abbastanza. Riconobbe per prima la non brutta Adele An-
derau, appetitosa a vedersi, senza che si sapesse bene il
perché, e che nei momenti di bonaccia sapeva guardare i
giovanotti a occhi semichiusi in un certo modo da cacciar
loro in cuore una strana scintilla di speranzoso desiderio.
Essa ne lasciava però andare dieci senza riguardi, anzi con
un certo clamore, per concedere poi la felicità tanto più
regolarmente, in un’ora sicura, all’undicesimo. Vi era poi
Julie Haider, la passionale, che vezzeggiava pubblica­
mente con grande impeto e in presenza di quanti testimoni
era possibile il proprio marito, ostentando la più infiam­
mata gelosia e accusandolo di continuo di infedeltà, sinché
un terzo qualunque, invidioso dell’insensibile consorte,
aspirava a condividere tanta passione. Vi era lì anche la
mite e melanconica Emmeline Ackerstein, una povera vit­
tima maltrattata dal marito perché non sapeva far nulla e
trascurava la casa; sempre pallida e languida s’abban­
donava lagrimosa tra le braccia di chi fosse disposto a con­
solarla. Né mancava la perfida Lieschen Aufdermaur,
capace di ordire intrighi e pettegolezzi sinché un calun­
niato, preso dall’ira, non la metteva alle strette a quat­
tr’occhi e non si vendicava su di lei. Seguiva poi, oltre a
due o tre vispe creature che senza alcuna ulteriore motiva­
zione facevano senz’altro il piacer loro, la taciturna
Theresa Gut, sempre inerte e impassibile, che di nessuno
s’occupava e a mala pena rispondeva se interpellata, ma
che, se per caso capitava in un’avventura e veniva aggre­
dita, si metteva inaspettatamente a ridere come una pazza
rinunciando a ogni difesa. Si trovava infine nel gruppo
146 LA GENTE DI SELDWYLA

anche la frivola Käthchen Amhag, sempre oberata da


una quantità di colpe segrete.
Riconosciuta la qualità di quella comitiva femminile,
la signora Amrain stava per ringraziare il buon Dio che
almeno lì non ci fosse suo figlio, quando scoprì tra le donne
una figura che al primo momento non riconobbe, pur
sembrandole di averla già spesso veduta. Era una matrona
alta e di bella persona, con l’atteggiamento di un’amaz­
zone e un’ardita testa di riccioli biondi, che se ne stava
però fra quelle donne allegre in leggiadra confusione,
come innamorata, e che tutte trattavano con grandi ri­
guardi. La seconda occhiata però le bastò a riconoscere
suo figlio e insieme il proprio abito di seta violetta, che
gli stava a pennello, tanto che dovette subito ammettere
che si era acconciato con molta grazia e abilità. Ma nello
stesso momento vide anche che una vicina gli dava un
bacio, conseguenza di un giuoco di società cui l’allegra
compagnia era intenta, mentre egli a sua volta baciava
una vicina, e ritenne allora che fosse giunto il momento
in cui ricambiargli quel servigio che egli, bimbo di cinque
anni, le aveva reso un giorno.
Scese rapida la scaletta ed entrò nella sala, salutando
con distaccata cortesia la brigata stupefatta. Tutti si alza­
rono imbarazzati: benché infatti in città se ne dicessero
abbastanza anche sul suo conto, ella ispirava pur sempre
molta stima dovunque apparisse. I giovanotti la saluta­
rono con sincera riverenza imbarazzata, tanto più sincera
quanto più essi erano teste calde; delle donne poi nes­
suna voleva darsi l’aria di essere in cattivi rapporti con
la più rispettabile dama della città, o di non saper abbor­
darla, per il che le si affollarono tutte intorno con gran
chiasso, appena si furono un poco rimesse dalla sorpresa. Il
più sconcertato era tuttavia Fritz, che non sapeva più co­
me comportarsi nell’abito di sua madre; questo fu infatti il
suo primo spavento, e l’occhiata severa da lei lanciatagli
per il momento l’attribuì soltanto alla seta preziosa della
sottana. Non erano ancora sorti in lui ulteriori scrupoli,
giacché fra l’allegria generale lo scherzo poteva sembrare
lecito e consueto. Allorché tutti ebbero ripreso posto e do-
REGULA AMRAIN H?

po che la signora Amrain si fu intrattenuta un quarto


d’ora cordialmente con i giovani, fece cenno al figliuolo e
gli chiese di volerla accompagnare a casa, desiderando
rientrare. Quando egli si disse subito pronto a obbedirle,
gli sussurrò severamente : « Se volevo farmi accompa­
gnare da una donna, potevo trattenere Grete, che mi ha
fatto lume sin qui ! Farai la cortesia di andare prima a
casa a indossare abiti che meglio ti si convengono di
questi ! ».
Solo allora si rese conto che la cosa non era giusta;
s’allontanò arrossendo e, mentre correva per la strada sen­
tendosi impacciato dall’insolito fruscio della veste fra i
piedi, mentre il guardiano notturno gli mandava occhiate
sospettose, ancor più si accorse che quello non era un
abbigliamento adatto per un giovane repubblicano e che
con esso non si poteva guardare in faccia nessuno. Men­
tre, giunto a casa, mutava in fretta il vestito, gli venne in
mente che la madre intanto era rimasta sola tra la folla
in municipio e questo pensiero lo rese di colpo estrema-
mente irritato e preoccupato del suo onore, tanto che cer­
cò di arrivarci il più presto possibile per riaccompagnarla.
Gli parve di renderle un vero servizio da cavaliere ricom­
parendo molto puntualmente e di appianare così nel
modo migliore le eventuali difficoltà. Ma la signora Am-
rain si congedò dalla compagnia e si avviò seria e taciturna
verso casa, a fianco di suo figlio. Ivi giunta sedette con un
sospiro nella sua solita poltrona e tacque un momento*
poi si alzò, prese la sua bella veste di seta e la fece a pezzi
dicendo :
— Ormai posso gettarla via, tanto non la porterò mai
più !
— Ma perché mai? — disse Fritz stupito e di nuovo
intimidito.
— Come potrei — replicò Regula — portare ancora
una veste che mio figlio ha indossato tra donne scostu­
mate, fingendo di essere una di loro? — E ruppe in lagri­
me ordinandogli di andare a letto.
— Infine — disse lui andandosene — non sarà poi una
cosa tanto pericolosa ! — Ma non potè addormentarsi,
148 LA GENTE DI SELDWYLA

perché la sua testa era eccitata e dal divertimento inter­


rotto e dalle parole della madre. Ebbe quindi agio di
meditare sulla faccenda e trovò che la mamma in un certo
senso aveva ragione, ma lo ammise soltanto perché egli
stesso disprezzava quella gente con cui poco prima s’era
divertito. Si sentiva poi un poco lusingato nel suo orgoglio
da quell’interpretazione, e soltanto quando la madre la
mattina e i giorni seguenti rimase seria e triste, comprese
meglio e sino in fondo la cosa. Non se ne parlò mai più
fra loro, ma Fritz fu salvo, perché si vergognava di fronte
a sua madre più che di fronte al mondo intero.
Per alcuni mesi Regula non ebbe motivo di nuove pre­
occupazióni, finché un giorno, quando si presentò una
bella e fiorente ragazza di campagna per cercar servizio
da lei, Fritz si diede senz’altro ad osservarla e poi le si
avvicinò, dimenticando ogni cosa dintorno, e le accarezzò
le guance. Ne fu subito spaventato egli stesso, e corse via,
ma anche la mamma si spaventò, la ragazza arrossì irri­
tata e si volse per andarsene senz’altro. Regula vedendo
questo la trattenne e riuscì a convincerla a entrare al
suo servizio. “Qui bisogna decidersi”, pensò, sentendo in
pari tempo che non era possibile dominare più a lungo
quel sangue caldo in modo solo negativo. Si avvicinò quin­
di quello stesso giorno a suo figlio, quando questi si fu
accomodato colla sua merenda dietro la casa, sotto un
ombroso pergolato di uva, di dove guardava lontano nella
valle, verso le linee azzurre dei monti abitati da gente
diversa. Gli circondò le spalle col braccio e guardandolo
affettuosamente negli occhi disse:
— Caro Fritz ! Sii ancora docile e obbediente per due
o tre annetti, ed io poi ti procurerò la più bella e la più
buona mogliettina del mio paese, della quale potrai an­
dare orgoglioso !
Fritz abbassò gli occhi arrossendo, còlto da vivo im­
barazzo, e replicò sgarbato:
— Ma chi dice che voglia avere una moglie?
— Ma la devi prendere ! — replicò la madre — e, co­
me ti dico, una buona e bella, ma solo se la meri­
terai, perché mi guarderò bene dal render disgraziata
REGULA AMRAIN 149

una brava figliola! — Così dicendo baciò suo figlio, il


che non aveva fatto da tempo immemorabile, e rientrò
in casa.
Il giovane provò una strana impressione e da quell’ora
tutti i suoi pensieri erano rivolti alla moglie buona e bella,
ed erano pensieri che durevolmente lo occupavano e lo
lusingavano, così che non ebbe più occhi per nessuna
donna di Seldwyla. La tenerezza con la quale la mamma
gli aveva suggerito simile idea conferì ai suoi desideri un
indirizzo più intimo e più nobile, ed egli si sentì ben si­
curo fra tanta benevolenza. Non aspettò però i due anni e
i preparativi della madre, ma cominciò presto, nelle do­
meniche di bel tempo, a far gite in campagna e ad aggi­
rarsi specialmente nel paese della mamma. Prima d’ali
lora c’era stato sì e no una volta e ci trovò la più cordiale
accoglienza da parte dei parenti: e degli amici materni,
che si compiacquero altamente di quel bel giovanotto e
10 considerarono per di più una specie di miracolo, es­
sendo un Seldwylese ben riuscito, di indole posata e non
spaccone. Divenne familiare in quella regione, del che
sua madre ben si accorse senza opporvisi; non immagi­
nava però che avesse già, prima di ogni suo sospetto, una
vera e propria innamorata, che gli sembrava corrispon­
dere esattamente alle promesse fattegli dalla madre.
Quando Regula ne ebbe notizia, corse a vedere molto
preoccupata chi mai potesse essere, ma con suo lieto stu­
pore constatò che egli era su di un’ottima strada: non
potè infatti che lodare il gusto e la scelta del figlio, non­
ché la limpida serenità e la fedeltà con cui esso amava la
fanciulla prescelta, così che si vide finalmente sollevata
da ogni ulteriore astuzia o costrizione.
Aveva appena superato con fortuna quello scoglio,
quando se ne presentò un altro, che minacciava di farsi
ancora più pericoloso e che porse un’altra volta a Regula
l’occasione di mettere alla prova la sua saggezza. Era ar­
rivato cioè il tempo in cui il figlio Fritz cominciò a far
della politica e a venire così a contatto, più che per ogni
altra ragione, con i suoi concittadini. Per la sua giovinezza,
11 suo senno, la sua buona coscienza quanto all’adempi-
15° LA GENTE DI SELDWYLA

mento dei doveri personali e per l’intelligenza ereditata


dalla madre era di sensi liberali. Secondo le idee più con­
suete e superficiali si sarebbe potuto supporre che la signora
Amrain nutrisse sentimenti aristocratici, perché costretta
a disprezzare la maggioranza delle persone tra cui viveva,
ma così non era, giacché più alta e importante che la
disistima è la stima del mondo nel suo insieme. Chi è li­
berale si aspetta qualcosa di buono da sé e dal mondo
ed è virilmente cosciente che bisogna darsi per questo
scopo, mentre il conservatorismo antiliberale si basa sulla
paura e sull’angustia mentale, le quali sono difficilmente
conciliabili con la vera energia virile. Or sono mill’anni,
s’iniziò l’età in cui era considerato perfetto eroe e cavaliere
soltanto chi fosse anche un buon cristiano, giacché nel
cristianesimo stavano allora il senso di umanità e il pro­
gresso. Oggi si può dire : per valoroso ed energico che uno
sia, se non sa essere liberale non è un uomo completo.
E la signora Regula, dopo essersi tanto sbagliata col pro­
prio marito, aveva adottato troppo rigidi criteri, circa
quelle che per il suo gusto erano le virtù virili, per fare a
meno di un solido e sicuro liberalismo. Quando del resto
suo marito l’aveva chiesta in isposa, brillava nel pieno
splendore del suo giovanile radicalismo, che per vero
dire egli maneggiava con la stessa importanza con cui un
giovanetto maneggia il suo primo orologio d’argento.
Anche a prescindere del resto dalle ragioni di gusto,
essa proveniva da un paese in cui da tempi immemora­
bili tutti erano stati sempre liberali e che nel corso del
tempo e ad ogni occasione s’era distinto quale borgata
decisa, energica e perseverante, tanto che quando si dice­
va : « Quelli di X. . . hanno detto questo o fatto que-
st’altro», un’intera regione veniva trascinata da quel vi­
goroso impulso. Se per esempio la signora Amrain aveva
occasione di esporre la sua opinione circa un caso contro­
verso, non badava a quel che ne dicevano i Seldwylesi,
bensì al parere della gente del suo paese nativo e a quello
ispirava i suoi pensieri.
Tutto ciò per Fritz era spinta sufficiente ad essere un
buon liberale, anche senza aver fatto studi speciali.
REGULA AMRAIN 151

Quanto all’altro pericolo che nasce per chi si appassioni


alla politica là dove c’è libertà di parola e di azione, e
dove la gente sceglie la propria strada, il pericolo cioè
di diventare un ozioso frequentatore di osterie, esso era
senza dubbio anche più grande a Seldwyla che in altri luo­
ghi della Svizzera, che serbano fedeli insieme a tutto il vec­
chio mondo il comodo metodo germanico di voler discu­
tere e rimuginare le faccende importanti in serena calma
trasognata, accanto alle sorgenti delle bevande e comun­
que a un qualche godimento. Non dovrebbe essere così,
giacché bere un buon bicchiere in calma serena è scopo,
compenso, frutto, mentre, a volerlo considerare in un senso
più profondo, l’esercizio dei diritti politici non è che un
mezzo per pervenirvi. Questo pericolo peraltro non era
grave per Fritz, già troppo avvezzo all’ordine e al lavoro
e non incline ad imitare proprio i Seldwylesi. Maggiore
era invece per lui il pericolo di diventare un chiacchierone
e un fanfarone che ripete sempre le stesse cose ed è con­
tento di ascoltare se stesso; infatti in gioventù nulla può
più facilmente sedurre che il vivo senso di princìpi e di
idee da poter sfoggiare liberamente e senza riguardi, es­
sendo essi rivolti al bene e all’utile di tutti.
Ma quando cominciò davvero a parlare di politica gior­
no e notte, a stiracchiare il medesimo argomento, e as­
sunse il vezzo puerile di intontirsi con cieche affermazioni,
illudendosi che le cose debbano davvero procedere secon­
do quel che si desidera e si afferma, sua madre una volta lo
interruppe in pieno entusiasmo del tutto inaspettatamente
dicendogli : « Che cosa sono queste eterne chiacchiere da
politicante? Non mi accomodano per nulla ! Se non puoi
farne a meno vai in piazza o all’osteria, qui in casa non
voglio tanto chiasso!».
Fu una parola detta al momento giusto ; Fritz si fermò
sconcertato a mezzo della sua conclone, non sapendo più
che dire. Uscì, e rimuginando sul singolare incidente
cominciò a vergognarsene, tanto che una buona mezz’ora
dopo ne arrossì sino alle orecchie, e da quell’ora fu bell’e
guarito e s’awezzò a liquidare la sua politica con poche
parole e con più pensieri. A ciò era bastato il rimprovero
152 LA GENTE DI SELDWYLA

fattogli una volta da una bocca femminile di essere un


chiacchierone politicante.
Ben più grave si rivelò il terzo pericolo, quello opposto,
di rovinarsi mal collocando le sue energie. Se infatti i
Seldwylesi erano mutevoli e incostanti nelle loro idee
politiche, rimanevano invece pervicaci nel partecipare ad
ogni impresa soldatesca e ribelle, e quando nella regione
si trattava di abbattere con la violenza un governo d’op­
posizione, di intimidire una debole maggioranza o di ap­
poggiare a mano armata una minoranza insofferente e
ribelle, sempre da Seldwyla, qualunque fosse l’idea do­
minante, partiva per il luogo dei disordini una schiera di
gente armata, di notte e per vie traverse e nascoste, o in
pieno giorno e sullo stradone, a seconda del pericolo.
Nulla sembrava loro tanto divertente come girare il
mondo per alcuni giorni in sessanta o settanta, bene ar­
mati di fucile, ben provvisti di minacciose e pesanti palle
di piombo e di preziosi talleri d’argento, coi quali ultimi si
■poteva godersela nelle osterie affollate, alzando col bic­
chiere in mano rumorosi brindisi ad altri militi, che pure
prendevano la cosa più o meno sul serio. Dato che a com­
pletare la vita e a farla procedere ci vogliono la legalità e la
passione, la norma e la spontaneità naturale, la tradizione
e la rivoluzione, non v’era in questo campo da dir nulla se
non: «Badate voi a quel che combinate!». Ma i Seld­
wylesi nelle loro spedizioni avevano la particolare sfor­
tuna di arrivare sempre o troppo presto o troppo tardi e
al posto sbagliato, e di non poter mai tirare un colpo, se
non durante il ritorno, al quale si inducevano dopo com­
plesse discussioni e abbondanti bevute e durante il quale
sparavano almeno in aria per proprio divertimento alcune
cartucce. Questo tuttavia bastava ad accontentarli : erano
stati in qualche modo della partita; e in paese si diceva
che anche i Seldwylesi erano accorsi in perfetta forma­
zione, tutti uomini coi fucili pronti e con gli orologi d’oro
in tasca.
Quando accadde la prima volta che Fritz Amrain sentì
parlare di simili spedizioni in età da potervisi unire, egli,
trattandosi di una causa giusta, corse subito a casa impa-
REGULA AMRAIN 153

ziente, perché era già l’ultimo momento e il gruppo era


già sulle mosse. A casa indossò l’abito migliore, prese de­
naro sufficiente, si mise a tracolla la cartuccera e prese il
suo fucile di soldato, sempre tenuto in perfetto stato,
giacché era un ottimo ed energico giovane capofila che
non pensava di sfoggiare un’arma senza saperla ma­
neggiare, ma si proponeva con sincero zelo di cari­
care e scaricare il suo schioppo leggero appena se ne
presentasse l’occasione, anzi già con la fantasia non ve­
deva altro che l’ultima collina, l’ultima svolta, oltrepas­
sando la quale si sarebbe scorto l’avversario odiato e sa­
rebbe cominciata la sparatoria.
Non prese con sé alcun bagaglio e si congedò a mala­
pena dalla madre, che lo guardava sdegnata e col cuore
in tumulto, ma senza dir parola. «Addio!» disse «do­
mani o dopodomani mattina al più tardi siamo di ri­
torno ! ». E se ne andò senza stenderle la mano, come se
si recasse soltanto alla cava per sorvegliare i suoi operai.
Essa lo lasciò andare senza proteste, ripugnandole di trat­
tenere quel ragazzo nella sua prima giovanile manifesta­
zione di coraggio, prima che il tempo e l’esperienza lo
avessero ammaestrato. Lo seguì anzi dalla finestra con
compiacenza, vedendolo marciare baldanzoso e allegro.
Non s’accostò però del tutto alla finestra, ma rimase a
guardarlo dal centro della stanza. Era ella stessa del resto
di indole coraggiosa e non si preoccupava eccessivamente,
ben sapendo come solevano risolversi quelle spedizioni
seldwylesi.
Fritz tornò infatti già all’indomani di buon mattino,
sgattaiolando timido in casa. Era stanco, assonnato, stor­
dito, fiacco per il troppo vino bevuto e di pessimo umore,
non avendo fatta altra esperienza né concluso altro che
rovinare la sua bella giacca vagabondando e vuotare il
borsellino.
Quando sua madre se ne accorse e vide inoltre che non
faceva come gli altri reduci che giungevano man mano a
gruppi, cioè non mutava soltanto l’abito per prender poi
nuovo denaro e correre all’osteria a discutere la spedi­
zione sfortunata e a confortarsi delle stanchevoli imprese
154 LA GENTE DI SELDWYLA

mancate, ma che andò invece a dormire un’oretta e s’av­


viò poi silenzioso al suo lavoro, s’allietò in cuor suo, pen­
sando che s’accorgeva da solo di come stessero le cose.
Non passò però un semestre, che s’offrì nuova occasione
di partire per altra meta, e infatti i Seldwylesi tornarono
a partire. Si trattava di abbattere un governo vicino che
s’appoggiava alla piccola maggioranza di una popolazione
campestre fervidamente cattolica. Siccome però questi
contadini sostenevano le loro pie convinzioni e le loro idee
politiche con la stessa energica passione dei loro illuminati
avversari, e nelle vicende elettorali osservavano la me­
desima concorde e manesca prontezza, quelli arsero di
impaziente e intenso sdegno e decisero di far vedere con
un coraggioso colpo di mano a quelle zucche ostinate chi
comandasse in paese. Numerosi compagni di partito dei
cantoni confinanti avevano promesso l’intervento, come
se un’aringa potesse diventare un salmone a morderle via
la testa e a dirle: «Tu sarai un salmone!». Ma nei
tempi di rivolta, quando si diffonde uno spirito nuovo, il
vecchio guscio del diritto tradizionale non ha più valore,
essendosene già perduto il nocciolo. Una nuova coscienza
giuridica va però prima conquistata con lo studio e con
l’abitudine affinché “la legalità abbia massima durata”,
cioè sino a quando vivrà e durerà quel nuovo spirito per
poi a sua volta invecchiare, facendo ricominciare le di­
scussioni e le lotte per il guscio della giustizia. Allorché,
secondo le consuetudini, alcune dozzine di Seldwylesi si
riunirono per partire quale valorosa milizia a strappare
di carica l’odiato governo dei vicini, la signora Regula
Amrain era di ottimo umore, pensando che quella volta i
politicanti armati sarebbero stati ben delusi se credevano
che suo figlio li avrebbe seguiti. In base alle sue precedenti
esperienze, secondo cui il buon sangue si corregge sempre
dopo un primo insegnamento, a Fritz non avrebbe do­
vuto venire in mente di accompagnarli. Ma guarda in­
vece ! Inaspettatamente, mentre essa lo credeva alla cava,
Fritz apparve in casa, spazzolò bene la solida stoffa del
suo abito da lavoro, mise la spazzola insieme a poca
biancheria e ad alcuni oggetti militari in un tascapane
REGULA AMRAIN 155

che infilò a tracolla dall’altra parte della cartuccera ri­


colma, riprese poi il fucile e lo abbassò per andarsene, do­
po aver però fatto ripetutamente scattare col pollice il
cane per provare se la molla funzionava.
«Questa volta» disse «affronteremo diversamente la
faccenda, addio!», e partì, non ostacolato dalla madre,
la quale ancora una volta, vedendo la serietà dei suoi
propositi, non seppe trattenerlo. Ma fu molto più spa­
ventata questa volta, presa di sprovvista, e per un mo­
mento impallidì, pur constatando con compiacenza la
sua decisa energia. La schiera dei Seldwylesi ritornò al­
l’indomani come di consuetudine, senza neppur sapere
che cosa fosse successo sul campo di battaglia: superato
di un passo il confine avevano trovato il paesetto in
grande eccitazione e i contadini molto sdegnati che si
osasse presentarsi sul loro territorio come ai tempi del di­
ritto del più forte. Senza fare tuttavia opposizione, si ten­
nero lungo le strade con volti di scherno, che sembravano
dire che gli intrusi li lasciavano entrare, per il momento,
ma che al ritorno li avrebbero guardati in faccia. Tutto
questo era garbato ben poco ai Seldwylesi, che avevano
perciò stabilito, prima di procedere oltre, d’attendere il
promesso intervento di altre schiere. Quando queste non
vennero e si diffuse la voce che la rivolta era già finita
favorevolmente, tutti presero la via del ritorno, ad ecce­
zione di Fritz Amrain, il quale, solo soletto, con sdegnosa
temerità, si staccò da loro e continuò la marcia attraverso
la regione nemica, verso il capoluogo. Egli infatti, mentre
lasciava che i suoi compagni bevessero e chiacchierassero,
aveva preso informazioni e saputo che ad alcune ore da
lì avrebbe incontrato un gruppo di giovanotti del luogo
di nascita di sua madre, ai quali pensò di unirsi. Li
raggiunse infatti senza incidenti, poiché se ne andava
disinvolto e rapido per la sua strada, e con quelli proce­
dette senz’altro. La cosa però finì male. Quel governo
tentennante, in seguito a coincidenze favorevoli, si affermò
per quella volta ancora e, appena ciò fu chiaro, la popo­
lazione di campagna accorse verso la capitale, in gara con
i volontari, per sbarrare a questi le vie, cosicché Fritz e i
156 LA GENTE DI SELDWYLA

suoi compagni, prima ancora di raggiungere la cittadina,


vennero a trovarsi tra due forti nuclei di contadini armati
e, decisi come erano ad aprirsi un varco, si determinò im­
mediatamente uno scontro. Fritz si vide così in faccia a
villaggi e a campanili sconosciuti, intento a scaricare e ri­
caricare la sua arma, mentre le campane a stormo sembra­
vano piangere e protestare contro l’impudente invasione
e l’offesa al patrio suolo. Dovunque si volgesse la piccola
schiera, i contadini indietreggiarono con grandi grida,
giacché i loro elementi giovani erano già stati avviati in
città in uniforme, mentre queste truppe che assalivano
gli invasori non erano formate che da vecchi o da ragazzi,
su incitamento di preti, di sacrestani e persino di donne.
Essi tuttavia si radunarono sempre più fitti e, dopo che
alcuni di loro furono feriti, quella schiera cupa di vecchi
atterriti, di donne e di preti, vera leva in massa del po­
polo, fu la rappresentante del paese esasperato e offeso,
le cui campane, superando ogni altro rumore, proclama­
vano il suo sdegno per tutto il territorio. Le file minac­
ciose si strinsero sempre più attorno ai giovani combat­
tenti, alcuni vecchi energici si fecero avanti e dopo non
molto tempo il gruppo era prigioniero. Si arresero senz’al­
tro quando videro che avevano contro tutti gli abitanti.
Venir presi prigionieri in guerra aperta dal nemico del
paese è una disgrazia come un’altra, che non offende
troppo il soldato; venire invece catturato dai propri con­
cittadini quale avversario politico violento, è la cosa più
umiliante e avvilente che possa accadere a questo mondo.
Appena disarmati e circondati dalla folla, si sentirono
piovere addosso tutti gli insulti immaginabili: violatori
della pubblica tranquillità, franchi tiratori, masnadieri e
furfanti erano le grida più miti che toccò loro di udire.
Erano per di più squadrati da tutte le parti quasi fossero
bestie feroci e, quanto più l’aspetto e il contegno erano
impeccabili, tanto più i contadini sembravano arrab­
biarsi che gente simile si prendesse di quegli spassi.
Non potevano far altro che star fermi o camminare in
qua e in là, dove e come veniva loro imposto dal capriccio
di quel sovrano dalle molte teste al quale avevano voluto
REGULA AMRAIN I57

strappare i suoi diritti. Esso ora li esercitava abbondante­


mente, non risparmiando pizzichi e urtoni appena i signo­
ri prigionieri facevano gli sdegnosi o rifiutavano obbedien­
za. Ognuno gridava loro un buon consiglio: «Foste ri­
masti a casa, non avreste bisogno di obbedirci ! Chi vi ha
chiamati? Poiché voi venivate a governarci, penseremo
ora a governare voi, bricconi ! Che stipendio prendete per
questo lavoro, che paga per la vostra milizia? Dove avete
la cassa e il generale? Andate spesso in campo senza
trombettiere, in gran silenzio? O avete già mandato a
casa il trombettiere ad annunziare la vittoria? Credevate
che qui da noi l’aria fosse peggiore che la vostra, visto
che siete venuti a farvi fischiare le palle di piombo? Avete
già fatto colazione, signorini? O vorreste morder l’erba?
Ve lo sareste ben meritato ! Avete creduto che noi non
avessimo un governo regolare, che non valessimo nulla
nel nostro paesetto, che ci vagabondavate in truppa senza
permesso? Volevate prender volpi o conigli? Bei confede­
rati questi che vorrebbero privarci dei nostri diritti con
lo schioppo in mano! Andate a ringraziare quelli che
v’hanno chiamato, perché vi prepareremo un buon pran­
zo ! Per ora assaggerete il rancio delle nostre carceri ; c’è
una decisa maggioranza di ottimi piselli, conditi col sale
di un ottimo codice contro l’alto tradimento, e, dopo che
avrete scontato un annetto, vi permetteranno, a celebra­
zione della gloriosa entrata, di sopraffare persino una pic­
cola minoranza di lardo, ma badate di non perderci i
denti ! Non vi è nulla di meglio di una sana passeggiata ;
è ottima per la salute, specie quando pare non si abbia
lavoro e moto regolare ; bisogna però stare attenti quando
si va a spasso; è scortesia entrare col cappello in testa in
una chiesa o con l’arma in mano in uno Stato pacifico !
O avete forse creduto che noi non costituissimo uno Stato
perché abbiamo ancora una religione e ci permettiamo di
rispettare i nostri preti? Così ci accomoda di fare, e noi stia­
mo qui di casa in questo paese da tanto tempo come voi,
brutti scimuniti che ora siete lì incapaci di sbrigarvela ! ».
Simili frasi echeggiavano incessantemente attorno a
loro e la facondia dei vincitori era tanto più inesauribile
158 LA GENTE DI SELDWYLA

in quanto essi stessi avevano commesso le medesime colpe


di cui accusavano gli avversari, ed erano pronti a commet­
terle ad ogni istante, se le circostanze e la capacità per­
sonale l’avessero permesso, proprio come un ladro sfog­
gia lo sdegno più eloquente quando gli viene sottratto
un gioiello da lui stesso rubato. L’uomo infatti trasferisce
addirittura nel campo morale la disinvolta impudicizia
dell’animale e, confidando nell’utile legalità del proprio
arbitrio, si comporta con tanta ingenuità, come i cani
per le strade. I volontari prigionieri dovevano per il mo­
mento sopportare ogni cosa, preoccupati solo di non pro­
vocare con atti di sfida anche maltrattamenti fisici. Non
avevano altra scelta, e i più esperti o anziani fra loro sop­
portarono la disgrazia di buon animo, ben prevedendo
che la faccenda non sarebbe finita così pericolosamente
come sembrava. L’uno o l’altro di essi riconosceva in un
bifolco urlante chi aveva un giorno comprato nel suo ne­
gozio rimanendo poi debitore di una falce o di una misu­
ra di semente di trifoglio, e si riprometteva di restituirgli
a suo tempo i commenti ingiuriosi con gli interessi; e
se il contadino poi s’accorgeva di quelle occhiate e se ne
riconosceva a sua volta il mittente, non cessava senz’altro
dall’inveire, ma indirizzava improvvisamente gli oc­
chi e le parole a qualcun altro del gruppo e si ritirava
intanto gradatamente dietro il fronte, giacché le piccole
passioni umane si intrecciano ben intimamente e strana­
mente. Fritz Amrain invece rimaneva estremamente de­
presso e sconsolalo. Due o tre suoi compagni erano morti,
e giacevano ancora a terra, altri erano feriti ed egli ve­
deva il terreno tutto all’intorno lordo di sangue; gli
avevano tolto fucile, tascapane e cartuccera; non vedeva
in giro che volti minacciosi. Si era così destato all’im­
provviso dalla sua febbrile e sconsiderata eccitazione,
il sole di quella allegra giornata di lotta era scomparso,
svanita l’eco dei colpi e la piacevole musica della breve
battaglia. Quando poi, alla fine, le autorità locali usci­
rono dalla folla confusa e si iniziò la regolare suddivi­
sione dei prigionieri che dovevano venire arrestati, Fritz
si sentì come uno scolaretto, il quale venga d’un tratto
REGULA AMRAIN 159

strappato dal più odioso dei maestri ad un allegro diver­


timento che gli pareva fondato per l’eternità e perfetta­
mente legittimo e messo in castigo; nella sua dispera­
zione egli credeva che tutto fosse perduto e che fosse
arrivata la fine del mondo! Si vergognava senza sa­
pere di fronte a chi, disprezzava i suoi nemici, ma era in
mano loro. Era partito con entusiasmo per attaccarli, ma
pure essi erano nel loro buon diritto sotto ogni rispetto;
giacché anche la loro stupidaggine e la loro angustia
mentale era un loro legittimo possesso, contro il quale non
vi era mandato alcuno, fuorché il successo che purtroppo
era venuto a mancare. I volti rabbiosi e appassionati di
quei contadini vecchi e rugosi, alteri della vittoria riporta­
ta, gli si presentavano agli occhi con strana chiarezza nella
penombra del suo sconforto ; dappertutto dove lo facevano
passare vi erano nuove facce ignote che egli guardava
contro voglia e mai uno per uno, ma che tuttavia gli si im­
primevano come in una nitida luce, quasi fossero altret­
tanti rimproveri, improperi e accuse. Man mano che
il corteo di prigionieri si avvicinava al capoluogo,
crebbe il movimento; la città stessa era affollata di
soldati e di contadini in armi schieratisi attorno al
rafforzato governo, e i prigionieri furono fatti sfilare
in trionfo. Dell’opposizione, che la vigilia era stata
ancora abbastanza forte da aspirare al governo e del
tutto libera nei suoi movimenti, non restava la minima
traccia; era un mondo grossolano e ostile, ben diverso
da quello immaginato, che si presentava a Fritz come si­
curo, ben fondato, e che sembrava addirittura stupito che
mai lo si fosse potuto mettere in discussione e attaccare.
Ognuno infatti balla quando suonano la sua melodia, e
quando molti uomini insieme si mettono in mente qual­
cosa, quella loro illusione si gonfia all’infinito. Da ultimo
i prigionieri furono acquartierati nelle carceri e in altri
edifici, già tutti zeppi di simili campioni intraprendenti;
anche Fritz si trovò così sotto chiavistello, dal che si spie­
ga come non fosse fra i reduci seldwylesi.
Questi si vendicarono della spedizione fallita attribuen­
do senz’altro agli avversari vittoriosi il più vergognoso e
ΐ6θ LA GENTE DI SELDWYLA

disumano spirito di vendetta. Ogni scampato si diceva


sicuro che i prigionieri sarebbero stati fucilati. Vi fu
gente, di solito non così sciocca, che credette, con tutta
serietà, e poi ripete, che i contadini fanatici avevano le­
gato alcuni catturati fra due tavole per segarli poi in due
e che ne avevano crocifissi alcuni.
Appena la signora Regula udì queste esagerazioni e
questa smoderata diffidenza, le passò la metà della pau­
ra a tutta prima provata, giacché la stoltezza della gente
finisce sempre per regolare e rendere innocua la sua in­
fluenza sui più saggi. Se i Seldwylesi avessero solo espres­
so il timore che i prigionieri potessero forse venire fucilati
secondo la legge di guerra, sarebbe rimasta in mortale an­
goscia; quando le dissero invece che li avevano segati
in due e crocifissi, non credette neppure al primo peri­
colo. Ricevette in compenso ben presto una breve lettera
da suo figlio, da cui risultava che era veramente imprigio­
nato e la pregava di versare subito una cauzione per essere
messo in libertà. La informava pure che parecchi came­
rati erano già tornati liberi in quel modo. Il governo
vittorioso, trovandosi in gravi difficoltà finanziarie, si
procurava infatti per quella via provvidenziali redditi
straordinari, trasformando le somme di cauzione versate
in altrettante multe. La signora Amrain ripose tutta lieta
quella lettera in seno, poi con tutto comodo e senza fretta
cominciò a raccogliere i fondi necessari, tanto che pas­
sarono ben otto giorni prima che si disponesse a portarli.
Venne allora una seconda lettera che Fritz aveva tro­
vato modo di far spedire in segreto, in cui la scongiurava
di far presto, essendo davvero insopportabile vedere la
propria persona in potere di uomini odiati. Erano rin­
chiusi come bestie feroci, senz’aria e senza moto, dove­
vano mangiare con cucchiai di legno zuppa d’avena e di
piselli, pescando tutti in comune da un solo mastello di le­
gno. Ella allora rimandò sorridendo la partenza ancora di
qualche giorno, e solo quando l’intraprendente prigionie­
ro ebbe scontato due intere settimane, prese una carrozza,
preparò una sacca con biancheria pulita, abiti buoni e il
denaro della cauzione e si pose in viaggio. Arrivando
REGULA AMRAIN 161

però apprese che era imminente un’amnistia per tutti


quelli che non si erano distinti come caporioni e special-
mente per i forestieri, che non si aveva più voglia di nutri­
re inutilmente e per i quali non si aspettavano ormai più
somme di riscatto. Ella si trattenne allora altri due o tre
giorni in un albergo, pronta ad ogni istante a liberare il fi­
glio, del quale, del resto, per la sua giovinezza poco si cu­
ravano. L’amnistia venne infatti proclamata, poiché que­
sta volta il partito vittorioso seguì per parsimonia il giusto
metodo di trovare compiacimento e soddisfazione nella
vittoria medesima, non nella vendetta o nella punizione.
Il povero Fritz trovò quindi sua madre che lo aspettava
all’uscita della prigione. Gli diede da bere e da mangiare,
lo rivestì a nuovo e se ne partì con lui e col denaro
risparmiato.
Quando si sentì ben sicuro e ristorato al fianco di sua
madre, le domandò perché mai l’avesse lasciato così a
lungo in prigione. Ella replicò brevemente, ma a quel
che gli parve con una certa allegria, di non aver potuto
trovare prima la somma richiesta. A lui però era troppo
noto lo stato degli affari per non sapere dove si potevano
cercare e trovare i mezzi. Non s’accontentò quindi del
pretesto e ripetè la domanda. Ella l’ammonì allora a star
contento di avere guadagnato una bella sommetta col suo
soggiorno in carcere e di avere per di più avuto occasione
di fare un’ottima esperienza. Certo non gli doveva esser
mancato il tempo per ragionevoli meditazioni. «Alla
fine tu mi hai lasciato là di proposito, » ribattè Fritz
sgranandole gli occhi in faccia «e col tuo spirito ma­
terno mi hai tu stessa affibbiato la prigionia ! ». A ciò
essa non rispose nulla, ma scoppiò a ridere nella carroz­
za sobbalzante, com’egli non l’aveva veduta ridere mai.
Fritz, non sapendo che faccia fare, arricciò il naso comi­
camente e la madre, che rideva sempre più forte, lo ab­
bracciò e gli diede un bacio. Il giovane non pronunciò
più parola e da quel momento si vide che in realtà la pri­
gione gli aveva insegnato qualcosa.
Tutta la sua indole apparve infatti da quel giorno più
seria e più concentrata e non gli venne più la tentazione
1Ö2 LA GENTE DI SELDWYLA

di sfidare con delle iniziative illegali o imprudenti un


potere costituito, dandogli in balìa la propria persona, con
suo scorno e senza utile altrui. Non già che si prefiggesse
senz’altro di non partecipare ad imprese, giacché non si
possono prevedere gli eventi, e nessuno può comandare
al proprio sangue di arrestarsi quando scorre rapido, ma
era ormai al riparo da ogni litigiosità superficiale e sven­
tata. L’esperienza ebbe tale efficacia sul giovanotto, che
egli parve progredire in ogni campo, dirigendo ad ap­
pena vent’anni gli affari come un uomo fatto. La si­
gnora Amrain gli diede quindi la moglie che deside­
rava e dopo un anno, quando era già padre di un bel
piccino, Fritz era bensì sempre di buon umore, ma
altrettanto serio e misurato nelle sue occupazioni quanto
era allegra e ridanciana sua moglie, che amava straordi­
nariamente la nuova casa e se la intendeva benissimo
con la suocera, pur essendo da lei differente e con un
buon carattere di altro tipo.
L’opera educativa della signora Regula, sembrava or­
mai coronata in modo da farle aspettare con calma l’av­
venire; anche gli altri due figli, indolenti per natura ma
buoni, li aveva discretamente trascinati dietro all’e­
nergico Fritz e quando s’erano fatti adulti aveva usato
la prudenza di mandarli apprendisti in altre città, dove
essi poi rimasero e fondarono la loro ulteriore esistenza,
da brave persone un poco pigre ma ammodo di cui
ben poco ci fu sempre da dire.
Fritz invece, benché diventato degno padre di famiglia,
dovette andare ancora una volta a scuola dalla mamma,
e proprio per un argomento di cui le madri di solito
non sogliono occuparsi. Il figlio era sposato da circa due
anni quando il cantone cui apparteneva Seldwyla do­
vette rinnovare il suo governo e indire perciò le elezioni
quadriennali, in base alle quali si nominavano anche le
autorità amministrative e giudiziarie. Alle ultime elezioni
generali, Fritz non era ancora ammesso al voto; era quin­
di questa la prima volta che vi avrebbe partecipato. Nel
paese regnava una grande bonaccia; i contrasti sembra­
vano acquietati e tra i partiti si erano appianati i punti
REGULA AMRAIN 163

d’attrito: dovunque si lavorava assiduamente, si ripu­


liva il codice dagli antichi particolarismi creandone
con diligenza dei nuovi, buoni e cattivi; si erigeva­
no opere pubbliche, ci si addestrava ad un’ammini­
strazione abile, senza imprudenze ma anche senza
anticaglie; si cercava di assegnare a ciascuno la giu­
sta funzione da lui compresa e fedelmente assolta, e
infine di mostrarsi gentili e giusti verso chiunque a
suo modo dimostrasse buon volere e non fosse prepotente
o astioso. Tutto questo per i Seldwylesi era noiosissimo,
giacché un simile sviluppo tranquillo non provocava al­
cun eccitamento. Delle elezioni senza confusione, senza
adunate preliminari, senza bevute, discorsi e manifesti,
senza disordini e crisi acute, non sembravano loro vere
elezioni. Quella volta insomma era decisamente di cattivo
gusto parlare di elezioni a Seldwyla, mentre i cittadini
si davano l’aria di molto preoccuparsi per istituire una
società per azioni per fabbricare birra e iniziare una
piantagione di luppolo, essendosi messi d’un tratto in
mente che una tale importante fabbrica di birra con
vaste cantine, mescite e terrazze avrebbe dato nuova
vita alla città, rendendola celebre e visitata. Fritz Am-
rain non concorreva a quegli sforzi, ma si preoccu­
pava anche ben poco delle elezioni, quantunque quat­
tro anni prima tanto avesse desiderato parteciparvi.
Pensava che, dato che tutto procedeva bene nel pae­
se, non c’era ragione di occuparsi della cosa pubblica
e che la macchina non si sarebbe fermata per il fatto
che lui non andava a votare. Non gli riusciva comodo
stare seduto in chiesa coi vecchi in una bella giornata;
e a considerarlo bene, pareva persino che un velo di pe­
dantesco ridicolo si stendesse quell’anno sulle elezioni,
ridotte a un adempimento regolare e tranquillo del do­
vere. Non che Fritz temesse il dovere ma, come fanno
tutti i giovani, odiava i doveri minori, che ci costringono
a indossare la giacca buona in un’ora incomoda, a pren­
dere il cappello migliore e a recarci in un luogo estre­
mamente uggioso e melanconico, quale è per esempio un
fonte battesimale, un camposanto o un’aula di tribunale.
164 LA GENTE DI SELDWYLA

La signora Amrain invece trovava insopportabile e im­


pudente proprio quel modo di fare seldwylese, e poiché
nessuno ci andava, doppiamente desiderò che lo facesse
suo figlio. Si valse quindi della giovane moglie, incari­
cando questa di persuaderlo a recarsi regolarmente, nel
giorno delle elezioni, all’assemblea, per dare il suo voto
ad un uomo meritevole, anche se dovesse trovarsi solo.
Forse però la mogliettina non possedeva sufficiente elo­
quenza per una causa a lei stessa indifferente, o forse il
giovane marito non intendeva nutrire e crescere in lei
una seconda educatrice : fatto sta che nel giorno in que­
stione egli partì di buon mattino per la sua cava e vi ri­
mase a lavorare al caldo sole di maggio con tanto zelo
e serietà, come se proprio in tal giornata fosse stato ne­
cessario sbrigare tutto il lavoro del mondo e non avesse
dovuto l’indomani più sorgere il sole. Sua madre allora
s’impazientì e s’impuntò a farlo andare in chiesa. Av­
volse attorno al capo le sue trecce ancor nere e lu­
centi, vi pose sopra un ampio cappello di paglia, prese sul
braccio la giacca e il cappello di Fritz e s’avviò frettolosa
fuor della cittadina, verso il colle dove era l’ampia cava
di pietre. Mentre risaliva il lungo e curvo stradone
dove si trasportavano i carichi, notò quanto profonda­
mente in quei vent’anni la cava si fosse addentrata nel
monte e andò calcolando l’indubitabile buona eredità
da lei raccolta e conservata. A diversi livelli martellavano
numerosi operai da tempo diretti da Fritz, senza bisogno
di un capo, e più in alto di tutti, dove faggi verdi incoro­
navano il candore della cava, riconobbe il figliolo dalla
sua camicia ancor più candida, poiché si era liberato di
panciotto e giubba, curvo su di un punto insieme a
un gruppetto d’altra gente. In quello stesso momen­
to la videro arrivare e le gridarono di stare attenta. Si
riparò sotto una roccia e dopo breve silenzio seguì in
alto un forte rimbombo e piovve tutt’intorno una massa
di pietruzze e di terra. “Chissà quali eroismi crede di
compiere” disse a se medesima “stando qui a scagliar
pietre contro il cielo, invece di compiere il suo dovere
di buon cittadino !” Quando fu giunta su ed ebbe ripreso
REGULA AMRAIN 165

fiato, Fritz, dopo aver dato una sbirciatina alla giacca e al


cappello che portava sul braccio, finse di non badarle e
continuò a studiare i fori appena praticati, girando attor­
no col metro in mano. Non potendola però evitare, finì
per dirle:
— Buon giorno, mamma ! Fai una passeggiata? È pro­
prio il tempo giusto ! — e stava per andarsene. Ma Re­
gula gli prese la mano, lo trasse in disparte e gli disse :
— Ti ho portato la giacca e il cappello, fammi ora il
piacere di andare alle elezioni. È una vergogna che nes­
suno ci vada dalla città!
— Ci mancherebbe proprio — replicò Fritz impaziente
— di tornare con questo bel tempo in quella noiosissima
chiesa a distribuire schede. Naturalmente tu poi avrai
già pronto per il pomeriggio qualche funerale che io deb­
ba seguire, cosicché tutta la giornata ne resti rovinata !
Che voi donne abbiate sempre la mania di spedirci alle
sepolture e ai battesimi è comprensibile, ma che vi
occupiate anche tanto di politica è per me cosa nuova !
— Bella vergogna — disse la madre — che siano le don­
ne a dovervi incitare a far quel che si conviene, quel che
è vostro santo obbligo e dovere !
— Non esagerare ! — replicò Fritz — Da quando in
qua il paese si fermerà perché vota uno di più o di meno,
e da quando in qua è proprio necessario che io sia dap­
pertutto?
— Non è modestia questa che ti fa parlare, — rispose la
madre — ma è anzi celato orgoglio ! Voi credete di dover
sempre comparire quando c’è qualcosa di grosso e solo
perché disprezzate il procedere calmo delle cose non vi
degnate di esserci!
— È in realtà ridicolo andarci da soli, — disse Fritz —
ognuno ci vede andar là dove non c’è proprio che il cane
in chiesa.
Ma la signora Amrain non cedette e replicò : — Non
basta tralasciare quel che ti sembra ridicolo nei Seldwy-
lesi ! Devi anche fare quello che essi ritengono invece ri­
dicolo; se qualche cosa è giudicata tale da quegli asini,
deve essere senz’altro buona e ragionevole ! Si ricono-
ι66 LA GENTE DI SELDWYLA

scono gli uccelli dalle penne e i Seldwylesi da ciò che


essi giudicano ridicolo. In tutte le piccole occasioni, in
ogni stupida storia, nei vani divertimenti e nelle sciocchez­
ze, negli scherzi e nei pettegolezzi fra parenti, ci si sforza
di essere estremamente puntuali; ma recarsi una volta al
completo e puntualmente, ogni quattro anni, ad una ele­
zione che è la base della nostra vita pubblica e del nostro
governo, quello deve essere invece noioso, insopportabile
e ridicolo ! Ciò dipenderà dal capriccio e dalla comodità
del singolo, che invoca sempre i suoi diritti, ma che ap­
pena quei diritti puzzano solo un poco anche di dovere,
cerca il diritto di non esercitarne alcuno ! Voi vorreste rap­
presentare un libero Stato e siete poi troppo pigri per sa­
crificare ogni quattro anni mezza giornata, per mostrare
un po’ d’attenzione, dirvi soddisfatti o insoddisfatti del go­
verno da voi legittimamente istituito? Non venite a dire
che ci sareste sempre nel momento necessario ! Chi è pre­
sente solo quando gli fa piacere o la sua passione è alletta­
ta, finirà per essere lontano e farsi giocare un tiro proprio
quando meno ci pensa.
Ogni lavoratore merita il suo compenso, cosi anche
chi lavora per il bene del paese e ne cura gli affari pubbli­
ci, che con le istituzioni e con le leggi penetrano profonda­
mente in ogni casa. Già la più esteriore cortesia e corret­
tezza verso gli uomini in carica esigerebbe di presentarsi al
completo almeno in questa giornata, perché essi si accor­
gano di non stare sospesi nel vuoto. Anche la convenienza
di fronte ai vicini e l’esempio da dare ai figli esigono che
questo atto si compia con energia e con dignità, ma questi
eroi lo trovano incomodo e ridicolo, gli stessi che ogni
giorno osservano la massima puntualità nell’assistere ad
una partita di birilli o a qualche altra insulsa e inutile
storia.
E che diresti se le autorità, offese da tanta scortesia,
vi piantassero in asso andandosene tutte in una volta? Non
dire che ciò non accadrà mai ! Sarebbe pur possibile, e
allora la vostra presunzione rimarrebbe come il burro al
sole, giacché la vostra presuntuosa compiacenza di voi me­
desimi può farsi sentire soltanto in tempi di pace, con buo-
REGULA AMRAIN 167

ne consuetudini, ordine, avvicendamenti regolari o ener­


giche approvazioni. Per lo meno la sua applicazione o la
sua manifestazione più assurda è il non mostrarsi affatto
perché così le accomoda !
Non avertela a male, questi sono pensieri puerili e
fisime da donna; se voi credete che simile condotta vi si
confaccia, siete in errore. Ma voi siete stanchi della pace
e della comodità; e affinché le cose sembrino in ogni caso
tanto mal fondate nel vuoto, anche se non sapete opporvi
a nulla, non andate a votare o affidate la funzione ai guar­
diani notturni, perché, come si è detto, in caso di bisogno
si gridi dal vostro borgo di Seldwyla che i poteri pubblici
non hanno salda base nel popolo. Ma questa è una inde­
gnità, ed è bene che il vostro potere non vada più oltre
della vostra miserabile cinta cittadina !
— Voi e sempre voi ! — disse Fritz irritato — Che cosa
ho a che fare io con questa gente? Se costoro hanno simili
moventi e capricci, quanto mi riguarda ciò?
— Benissimo, — esclamò la signora Regula — allora
compòrtati diversamente da loro in questa faccenda, e va’
ai seggi elettorali !
— Già, — replicò il figlio con un sorriso — perché si
possa poi dire che l’unico Seldwylese il quale vi ha parte­
cipato ci fu mandato dalle donne?
La signora Regula Amrain posò la mano sulla spalla
del figlio dicendogli:
— Se diranno che è stata tua madre a mandarti, questo
non è una vergogna per te, ed è per me un onore se un
cosi brav’uomo ascolta sua madre ! Io ne sarei orgogliosa
e tu puoi in fondo farmi questo piccolo favore per il mio
piacere, non ti pare?
Fritz non seppe opporre altro, indossò la giacca e mise
il cappello da città. Mentre scendeva dalla collina con
l’ottima sua madre, disse:
— Non ti ho mai sentito parlar tanto di politica in tutta
la mia vita come poco fa, mamma ! Non ti avrei mai rite­
nuta capace di così lunghi discorsi !
Essa rise, ma poi replicò tutta seria:
— Quel che ho detto non è in fondo politica, ma eco­
ι68 LA GENTE DI SELDWYLA

nomia domestica. Se tu non avessi già moglie e un figlio,


non mi sarebbe venuto in mente di stare a convincerti;
ma così, potendo sperare in una ben conservata famiglia
del mio sangue, ritengo sia parte importante del patrimo­
nio di simile casa che in essa si osservi in ogni cosa la giu­
sta misura. Se i figlioli di una casa vedono e imparano per
tempo come gli affari pubblici siano da rispettarsi in giu­
sto modo, questo basterà forse a salvarli dal commette­
re poi atti ingiusti o sventati. E se sono fedeli e rispettosi
verso l’una cosa, lo saranno anche verso il resto; io, in­
somma, non ho agito in fondo che da prudente nonnina,
mentre mi si dirà che sono un’accanita vecchia poli­
ticante !
Nella chiesa Fritz invece di sei o settecento cittadini ne
trovò appena quattro dozzine, e questi erano quasi tutti
contadini delle fattorie periferiche, ammessi però al voto
coi Seldwylesi. Anche quei campagnoli avrebbero dovuto
essere sei volte più numerosi, ma poiché i non presenti
lavoravano davvero nei campi col sudore della fronte, la
loro assenza era piuttosto un’innocente sventatezza o un
segno di contadinesca avarizia di fronte al bel tempo, men­
tre la lunga via che avevano da fare rendeva tanto più
meritevole la presenza degli altri. Della città non era com­
parso che il presidente del Comune per dirigere le ele­
zioni, il segretario per redigere il protocollo, poi la guardia
notturna e due o tre altri poveri diavoli che non avevano
soldi abbastanza per la bevuta antimeridiana degli allegri
Seldwylesi. Il signor presidente era però un oste che anni
prima aveva fatto fallimento e da allora continuava l’a­
zienda col nome della moglie. In ciò veniva aiutato dai
suoi concittadini, giacché egli era un uomo fatto apposta
per loro, gran chiacchierone e sempre presente in tutti i
pasticci, da vero oste esperto. Che egli però fosse lì in ca­
rica a presiedere le elezioni, era uno dei peccati di Sel-
dwyla, che andavano di volta in volta sempre moltiplican­
dosi finché il governo non piombava addosso con un’in­
chiesta. I contadini si rendevano conto, in parte, che quel
presidente non andava bene, ma erano troppo lenti e ri­
trosi per intraprendere qualcosa a suo danno, così che,
REGULA AMRAIN 169

quando Fritz giunse, quello si era già appropriato in un


batter d’occhio di tutto il lavoro della giornata insieme a
tre o quattro altri suoi concittadini. Vedendo il gruppetto
dei bravi votanti di campagna, Fritz si compiacque al­
meno di non essere solo e fu pervaso d’un tratto da uno
spirito di intraprendenza, così che chiese subito la parola
per protestare contro il presidente, in quanto egli era
fallito e civilmente morto.
Fu un fulmine a ciel sereno. L’oste fece la faccia di uno
che sia stato seppellito per mille anni e torni a resuscitare ;
tutti si voltarono a guardare quell’ardito oratore, ma la
cosa era di tale puerile evidenza, che nessuno in alcun
modo potè opporvisi e non ne sorse la minima discussione.
Quanto più inaudito e imprevisto era l’evento, tanto più
esso appariva ormai comprensibile e naturale, ma quanto
più comprensibile risultava, tanto più si sdegnarono quei
pochi Seldwylesi. Appunto per tale chiarezza si adirarono
di se stessi, del giovane Amrain, della perfida volgarità
del mondo che s’aggrappa alle cose più trascurabili e
vicine per far crollare la grandezza e sconvolgere le situa­
zioni. Il signor presidente usurpatore, dopo qualche mi­
nuto di sconcertato silenzio, che lo lasciò al punto di
prima, non seppe dire altro se non:
— Qualora . .. qualora ci siano riserve . . . circa la mia
persona... insomma, io non mi impongo a nessuno e
invito la spettabile assemblea a procedere ad una nuova
elezione del presidente, e invito i controllori dei voti a di­
stribuire le rispettive schede.
— Voi non avete da proporre qui un bel nulla, né dare
ordini ai controllori dei voti ! — interruppe Fritz Amrain, e
al grande magnate ed oste non restò altro che trovare una
volta di più comprensibile quella vicenda inaudita e quasi
triviale, e senza pronunciare parola lasciò la chiesa, se­
guito dalla guardia notturna costernata e dai pochi altri
straccioni. Rimase soltanto il segretario per redigere il
protocollo, e Fritz Amrain gli si accostò subito per con­
trollare quel che scriveva. I contadini finalmente si desta­
rono dallo stupore e approfittarono dell’occasione per
concludere alla svelta l’elezione, nominando al posto dei
170 LA GENTE DI SELDWYLA

membri precedenti due uomini in gamba della loro zona,


che avrebbero già da un pezzo volentieri veduto nel con­
siglio, se i Seldwylesi avessero loro fatto posto. Questo
non era affatto nei calcoli dei Seldwylesi assenti; essi
avevano infatti pensato che il loro presidente, insieme alla
guardia notturna, non avrebbe mancato dall’eleggere
infallibilmente i due vecchi fantocci, come era già stato
ben predisposto in una breve intesa conclusa in qualche
cantuccio recondito. Come si meravigliarono allorché,
messi in allarme dal falso presidente scacciato, accorsero
in frotta e trovarono il protocollo legittimamente chiuso
col suo risultato ! I paesani se ne andarono con un sorriso
tranquillo, Fritz Amrain invece, che si avviava verso
casa sua, venne raggiunto dai concittadini, e considerato
con imbarazzo e con scherno, con sbirciatine o con oc­
chi sbarrati. L’uno esclamava: «Ah!», l’altro invece:
«Oh !». Fritz capiva di avere per la prima volta dei veri
nemici e ben più pericolosi di quelli contro cui una volta
aveva marciato armato di piombo e di polvere. Si rendeva
pure conto di avere pronunciato un giudizio inesorabile
contro un uomo più vecchio di vent’anni di lui, e che
avrebbe dovuto star doppiamente in guardia, per non
cadere a sua volta in fallo, e a quel modo la vita prese per
lui un aspetto ben diverso da quel che avesse avuto due
ore avanti. Entrò in casa sua con questi gravi pensieri e,
per rasserenarsi, si propose di vedere se a sua madre pia­
cesse la svolta presa dalle cose, visto che era stata lei sola
a spingerlo ad affrontare quel pericolo.
Mentre però entrava nell’andito, gli venne incontro la
madre e gli cadde piangente tra le braccia dicendo:
— È tornato tuo padre ! — S’accorse però che quella
notizia rendeva il figlio ancora più imbarazzato e incerto
di quanto fosse ella stessa, e riprendendosi, dopo averlo
di nuovo stretto al cuore, aggiunse:
— Vedrai che per noi non muterà nulla ! Sii gentile
con lui, come deve esserlo un figlio.
A quel modo tutto si era un’altra volta mutato : ancora
pochi minuti prima, mentre camminava per la strada,
gli sembrava molto preoccupante l’ostilità di una città
REGULA AMRAIN 171

intera, ma cos’era quel timore in confronto al trovarsi


all’improvviso in faccia a un padre mai conosciuto, del
quale sapeva solo che era un uomo vanitoso, impetuoso e
sventato, che per di più aveva girato il mondo vent’anni
e sa Iddio che tipo insopportabile ed estraneo poteva es­
sere divenuto?
— Di dove viene? Che cosa vuole, che aspetto ha, che
cosa cerca alla fine? — domandò Fritz, e la madre rispose :
— Sembra che gli sia toccata non so che fortuna e ab­
bia pescato qualcosa, e ora si presenta con l’aria di chi vo­
glia mangiarci d’amore ! L’aspetto è forestiero e selvatico,
ma lui è rimasto quello d’una volta, me ne sono accorta
subito.
Fritz s’era intanto incuriosito e salì con passo fermo
la scala, avviandosi verso il salotto, mentre la madre, pas­
sando per la cucina, vi entrava quasi contemporanea­
mente. Essa infatti considerava la miglior ricompensa e
il miglior trionfo per tutte le sue fatiche vedere come il
figlio da lei educato avrebbe accolto suo marito. Aprendo
la porta ed entrando, Fritz vide un uomo corpulento e
alto, seduto alla tavola, e gli parve di veder se stesso con
vent’anni di più sulle spalle. Lo straniero era vestito con
lusso ma con disordine, aveva nell’atteggiamento qualcosa
di fermo e di ostinato, ma pure qualcosa di inquieto nello
sguardo quando s’alzò e vide con spavento entrare una
giovane copia di se stesso, ben ritto e non più basso di un
filo di quanto egli fosse. Intorno al capo del giovanotto
però c’era un’aureola di folti riccioli biondi, e se anche il
volto esprimeva la stessa ferma ostinazione del vecchio,
egli però arrossì con ingenuità e modestia. Quando il
vecchio, fissandolo con l’imbarazzata sfacciataggine degli
sventati, gli disse:
— Tu saresti dunque mio figlio? — il giovane abbassò
gli occhi e rispose :
— Sì, e voi siete dunque mio padre? Sono contento di
vedervi finalmente ! — Poi alzò gli occhi curiosi e os­
servò pacatamente il vecchio, ma quando questi porgen­
dogli la mano gliela scosse con ostentata energia, quasi
per dimostrargli la sua grande forza e violenza, il figlio
172 LA GENTE DI SELDWYLA

ricambiò senz’altro la stretta, cosi che quella forza risalì


come una scarica elettrica su per il braccio del vecchio,
scuotendone tutta la persona. Quando poi il giovane
riaccompagnò con pacata cortesia il padre verso la sua
sedia, obbligandolo gentile e deciso a sedervisi, il reduce
ebbe la strana impressione di trovarsi dinanzi un’imma­
gine perfetta di se stesso, che era ben lui, ma nello stesso
tempo anche qualcuno di molto diverso. La signora Re­
gula non pronunciò quasi parola, ricorrendo alla saggia
scappatoia di fare onore al consorte a suo modo, con un
trattamento festoso, preoccupandosi di offrirgli e di
versargli il suo vino migliore. A quel modo, mentre se ne
stava tra la moglie e il figlio, si attenuò in parte l’imba­
razzo del vecchio e le lodi per il buon vino furono spunto
ad esprimere la supposizione che le cose andassero bene
per loro, a quel che vedeva con piacere, e ciò portò nel
miglior modo a discutere lo stato dei loro affari. Moglie e
figlio non cercarono di celare o dissimulare con paura la
verità, ma gli esposero con chiarezza la situazione della
loro ditta e del loro patrimonio; Fritz andò a prendere
mastri e documenti e gli espose le cose con tale giudizio
e chiarezza, che quello spalancò gli occhi stupito per la
perfetta amministrazione e per l’inattesa agiatezza della
sua famiglia. S’alzò allora in piedi e disse :
— Voi state ottimamente e avete fatto le pose per bene,
del che molto mi compiaccio. Ma anch’io non arrivo a
mani vuote e col lavoro e l’intraprendenza ho fatto quat­
tro soldi ! — Trasse fuori così dicendo alcuni assegni e
anche una cintura zeppa di monete d’oro che gettò sulla
tavola: erano di fatto alcune migliaia di fiorini o di tal­
leri. Però egli non li aveva guadagnati a poco a poco, e
tacque prudentemente di aver ottenuto quel capitale di
colpo, per un caso di fortuna, dopo aver vagabondato
per molti anni in miseria negli stati del Nordamerica.
— Metteremo anche questo nell’azienda e riprendere­
mo il lavoro con forze riunite, — disse — poiché sento
un vivo desiderio, visto che è possibile, di far qualcosa e
dimostrare di che sono capace a quei cani che un giorno
mi hanno mandato via.
REGULA AMRAIN 173

Suo figlio però gli versò con tutta calma un altro


bicchiere di vino e gli disse poi:
— Padre, mi permetto di darvi il consiglio di riposarvi
per un poco e di godere la vostra vita. I vostri debiti sono
pagati da un pezzo e potete così far uso del vostro denaro
come vi aggrada, e inoltre non vi mancherà mai nulla qui
da noi ! Per quel che riguarda però l’azienda, io la cono­
sco sin dalla prima giovinezza e ormai so la ragione per cui
non avete avuto successo allora. Bisogna però che abbia
le mani libere, se non si vuole tornare indietro. Se vi fa
piacere di tanto in tanto dare una mano e guardare come
vanno le cose, è per vostro passatempo che lo farete. Ma
se anche voi foste, invece che mio padre, un angelo del
cielo, io non vi accetterei come vero comproprietario,
perché non avete imparato questo lavoro e, perdonatemi
la scortesia, non lo capite !
Il vecchio fu non poco seccato e imbarazzato da quel
discorso, ma non potè replicare nulla, perché era stato
tenuto con molta energia, cosicché subito s’accorse che
suo figlio sapeva quel che voleva. Radunò quindi le sue
ricchezze ed uscì a fare un giro in città. Entrò in parec­
chie osterie, ma s’accorse che all’ordine del giorno v’era
una nuova generazione e che i suoi antichi compagni
erano quasi tutti spariti. Inoltre l’America gli aveva dato
abitudini diverse. Aveva dovuto avvezzarsi a bere il bic­
chierino in piedi per riprendere senza sosta l’incessante
caccia della vita; aveva quanto meno assistito al lavoro
ininterrotto ed intenso degli altri e si era un poco modifi­
cato fra gli americani, in modo da non trovar più gusto a
quell’eterno star fermi chiacchierando. S’accorse che nella
sua casa ben tenuta c’era da star meglio che nelle osterie e
involontariamente vi ritornò, senza ben sapere se restarci o
ripartire. Andò nella camera che gli avevano preparato e
lì il pover’uomo ormai vecchio gettò disgustato in un can­
to i suoi denari,sedette a ch'alcioni di una sedia, appoggiò
il testone melanconico si a spalliera e scoppiò a pian­
gere amaramente. Entrò intanto sua moglie, che lo vide
infelice e fu costretta ad aver rispetto della sua infelicità.
Ma appena ebbe qualcosa da rispettare in lui, rinacque
174 LA GENTE DI SELDWYLA

anche il suo antico affetto. Non stette a parlargli, ma ri­


mase per il resto della giornata nella sua camera, prima
disponendo l’una e l’altra cosa per la sua comodità, poi
mettendosi con un lavoro a maglia accanto alla finestra,
in silenzio. Solo a poco a poco nacque un colloquio tra i
due coniugi da tanto tempo divisi e sarebbe ben difficile
ripetere quel che si dissero, ma più tardi si sentirono am­
bedue più a loro agio ed anche in seguito il vecchio si
lasciò un pochino educare e guidare dal suo tanto bene
educato figliolo, senza che questi lo contraddicesse o gli
mancasse mai di rispetto. La strana situazione non durò
neppure troppo a lungo, poiché il vecchio finì per divenire
un socio tranquillo e sicuro dell’azienda, con molte soste
di riposo e piccole deviazioni, senza però mai procurare
danni o disonore alla sua florida famiglia. Vissero tutti
soddisfatti e ben fomiti, e la stirpe della signora Regula
Amrain attecchì così vigorosa in quella casa, che neanche
i numerosi figlioli di Fritz correvano pericolo di vederla
finire. Regula nell’ora della morte si allungò in tutta la
sua imponenza sul suo letto, e mai infatti a Seldwyla fu
portata in chiesa una bara così lunga per una donna e
che ospitasse una salma tanto onorata.
I TRE PETTINAI
AMANTI DELLA GIUSTIZIA

Gli abitanti di Seldwyla hanno dato la dimostrazione che,


se necessario, una città intera di gente ingiusta o sventata
può perpetuarsi, nel mutare dei tempi e delle condizioni ;
i tre pettinai dimostrarono invece che tre uomini giusti
non possono vivere sotto un medesimo tetto senza acca­
pigliarsi. Qui non si parla però della giustizia celeste
né della naturale giustizia della coscienza umana, bensì
di quell’anemica giustizia che ha cancellato dal Padre
nostro la preghiera: «rimetti a noi i nostri debiti co­
me noi li rimettiamo ai nostri debitori» perché essa non
fa debiti e non ha crediti ; quella giustizia che non vive
a danno di nessuno, ma neppure a vantaggio di nessuno,
che vuole bensì lavorare e guadagnare, ma non mai
spendere, e che nella laboriosità trova solo un profitto, ma
non una gioia. Gli uomini giusti di questo tipo non tira­
no sassate ai lampioni, ma neppure ne accendono, e da lo­
ro non irradia luce alcuna ; esercitano molti mestieri e per
loro l’uno vale l’altro, purché non vi sia connesso un ri­
schio; amano stabilirsi dove vi sono molte persone a loro
giudizio ingiuste, giacché, se di quei furfanti non ve ne
fossero, essi finirebbero col consumarsi tra di loro, al pari
di macine fra le quali non vi siano chicchi di grano. Quan­
do li coglie una sventura, sono molto stupiti e levano alti
lai come se arrostissero allo spiedo, non avendo essi mai
fatto male ad alcuno. Considerano infatti il mondo come
una istituzione in cui la polizia sia bene organizzata, dove
nessuno ha da temere una multa se scopa bene davanti
alla sua porta, non tiene sul balcone vasi di fiori incu­
stoditi e non ne lascia gocciolare l’acqua.
A Seldwyla esisteva una fabbrica di pettini, i cui pro­
prietari solitamente mutavano ogni cinque o sei anni, no­
nostante fosse stata, se ben condotta, un’ottima azienda,
poiché riforniva i mereiai frequentatori delle fiere circo­
stanti. Ivi si fabbricavano, oltre ai soliti pettini di corno
d’ogni genere, i più raffinati pettini ornamentali per le
176 LA GENTE DI SELDWYLA

belle dei villaggi e per le servette, fatti con buon corno


trasparente di bue, nel quale l’arte dei lavoranti a secon­
da della loro fantasia (i padroni non lavoravano mai),
incideva belle nuvolette rossobrune tipo tartaruga, tanto
che a tenere quei pettini contro luce pareva di vedere le
più belle albe e i più splendidi tramonti, cieli rossi a pe­
corelle, bufere tempestose e altri fenomeni naturali a
chiazze. D’estate, quando i lavoranti amavano girova­
gare e si facevano rari, venivano trattati con cortesia, con
buone paghe e buon vitto; d’inverno invece, quando cer­
cavano un ricovero e se ne potevano avere in abbondan­
za, dovevano adattarsi a far pettini a più non posso e per
un salario minimo. La padrona metteva ogni giorno in
tavola un piatto di cavoli agri e il mastro pettinalo dice­
va: «Questi sono pesci!», e se uno dei lavoranti osava
replicare: «Domando scusa, ma è cavolo acido!» era
senz’altro licenziato e doveva mettersi in viaggio in pieno
inverno. Appena invece i prati tornavano a verdeggiare
e le strade erano praticabili, essi dicevano : « Ma è cavolo
acido ! » e facevano fagotto. Se anche la massaia s’affret­
tava a gettare fette di prosciutto sui cavoli e il padrone di­
ceva : « In coscienza credevo che fossero pesci ! Però que­
sto è davvero prosciutto ! », quelli avevano sempre smania
di partire. I tre lavoranti dovevano fra l’altro dormire in­
sieme in un letto a due piazze, e alla fine di un inverno,
a furia di gomitate e di fianchi congelati, ne avevano
proprio abbastanza.
Una volta, però, da un paese della Sassonia arrivò un
lavorante docile e zelante, che si adattò ad ogni cosa;
lavorava come una bestia e non si fece mai licenziare,
diventando alla fine un arredo fisso nell’azienda, e più
volte vide mutare il padrone perché in quegli anni gli
affari furono più burrascosi del solito. Jobst a letto si
stendeva il più rigido possibile affermando d’inverno
e d’estate il suo diritto al posto contro la parete; ac­
cettava mansueto cavoli per pesci e salutava in pri­
mavera, con modesta gratitudine, un pezzetto di pro­
sciutto. Metteva da parte la paga magra comò quella
più abbondante, giacché non spendeva mai un soldo
I TRE PETTINAI lì?

e tutto risparmiava. Non viveva come gli altri lavo­


ranti, non beveva mai un bicchiere, non bazzicava quelli
del suo paese né altri colleghi, ma sedeva la sera sotto il
portone a chiacchierare con le vecchie, aiutandole, se era
di umor generoso, a porsi in capo le secchie d’acqua e
andava a letto con le galline, a meno che non ci fosse
lavoro straordinario da poter fare di notte per speciale
compenso. Lavorava anche la domenica fin nel pome­
riggio, persino quando il tempo era splendido ; ma non si
creda che lo facesse con gioia e soddisfazione come
Johann, rallegro saponaio; al contrario, era sempre av­
vilito da quella fatica volontaria e si lagnava senza
posa di quanto stancante fosse la vita. Giunto il po­
meriggio della domenica, traversava la strada con gli
abiti da lavoro sporchi e ciabattando andava a riti­
rare dalla lavandaia la camicia pulita, lo sparato ina­
midato, il colletto alto o il fazzoletto migliore e portava
poi tutte queste meraviglie sino in casa, sulla mano tesa,
con l’elegante andatura dei garzoni. Infatti, malgrado il
grembiule da fatica e le ciabatte, molti lavoranti ser­
bano un passo strano e ricercato, come se fossero librati in
più alte sfere, e cosi fanno specialmente i dotti legatori di
libri, gli allegri calzolai e i pochi e strani pettinai. Giunto
nella sua cameretta, Jobst stava ancora a meditare se gli
convenisse proprio mettere la camicia o lo sparato (giac­
ché, malgrado la sua mitezza e la sua rettitudine, era un
vero porcellino) o se ancora per una settimana potesse
far servizio la biancheria vecchia e se infine non gli con­
venisse starsene a casa e lavorare ancora un pochino.
In questo caso, sospirando sulle difficoltà e le pene del
mondo, tornava a sedersi al lavoro, a tagliare immusonito
i denti dei suoi pettini o a trasformare il corno in scaglia
di tartaruga, nel che si dimostrava però cosi prosaico e
privo di fantasia da non saperci mettere altro che le so­
lite misere tre macchie; quando infatti non aveva ordini
assoluti non prodigava la minima fatica in un lavoro.
Se si decideva invece ad andare a passeggio, stava per
due o tre ore a ripulirsi e adornarsi, prendeva un baston­
cino da passeggio e s’avviava tutto rigido fuori porta,
178 LA GENTE DI SELDWYLA

dove stava poi a bighellonare intimidito e annoiato,


tenendo annoiati discorsi con altri bighelloni che non
sapevano che cosa fare di meglio, per lo più Seldwylesi
vecchi e poveri che non avevano più soldi per frequentare
l’osteria. Con essi amava piantarsi davanti a una casa in
costruzione, o a un campo, o a un melo danneggiato dalla
tempesta o a una nuova filanda, e stava a criticare vivace­
mente queste cose, la loro utilità, il loro prezzo, le previ­
sioni del raccolto e lo stato della campagna, tutti argomen­
ti di cui non si intendeva affatto. Neppure del resto gliene
importava, ma il tempo passava così nel modo più econo­
mico e rapido per il suo gusto, e i vecchi lo chiamavano poi
sempre il sassone gentile e assennato, perché anche loro
non se ne intendevano meglio. Quando i Seldwylesi im­
piantarono una grande fabbrica di birra, ripromettendo­
sene notevole incremento alla vita cittadina, e quando co­
minciarono a sorgere dal terreno le ampie fondamenta,
egli ci passò spesso le serate della domenica, studiando i
progressi della fabbrica, con occhiate da conoscitore e con
l’apparenza di un vivo interessamento, come se fosse stato
un competente di edilizia e uno dei più forti bevitori· di
birra. «Ma davvero!» continuava ad esclamare «è una
fabbrica splendida ! Avremo un insieme grandioso ! Però
quanti denari ci vogliono, quanti denari! Peccato: qui
le arcate le vorrei un po’ più basse e il muro un poco più
robusto!». Mentre cianciava così, pensava soltanto ad
andare a cena in tempo prima di buio ; questo era infatti
l’unico torto che facesse alla sua padrona, di non rinun­
ciare mai al suo pasto la sera della domenica, come gli al­
tri lavoranti, così che essa doveva rimanere in casa solo per
lui o comunque a lui provvedere. Mangiato il suo pezzetto
d’arrosto o di salsiccia, si baloccava ancora un pochino
in camera e andava poi a letto: quella era stata per lui
una piacevole domenica.
Malgrado questa sua indole modesta, mansueta, e ir­
reprensibile, non gli mancava un lieve tratto d’interiore
ironia, quasi schernisse in segreto la leggerezza e la va­
nità del mondo, e ponesse chiaramente in dubbio la gran­
dezza e l’importanza delle cose, covando in sé ben più
I TRE PETTINAI 179

profondi pensieri. In realtà aveva talvolta un’espressione


così saputa, specie durante le sue competenti concioni
domenicali, che pareva di leggergli in faccia quali ben più
importanti cose serbasse in segreto dentro di sé, al cui
confronto tutto quanto altri intraprendeva, costruiva o
erigeva non era che giuoco da fanciulli. Il grande piano
da lui covato giorno e notte, sua tacita stella polare du­
rante i lunghi anni passati come lavorante a Seldwyla,
era di metter da parte la sua paga sino a poter un bel
giorno acquistare l’azienda, quando fosse di nuovo anda­
ta in vendita, e diventare così proprietario e maestro. A
questo mirava ogni suo sforzo, avendo ben compreso che
in quel paese un uomo attivo e parsimonioso doveva pro­
sperare, un uomo che andasse tranquillo per la sua strada
e sapesse trarre dalla leggerezza degli altri l’utile ma non
i danni. Una volta diventato maestro e padrone, avrebbe
guadagnato tanto da ottenere la cittadinanza, e si pro­
poneva di vivere allora con saggezza e furberia, come
non aveva mai fatto un cittadino di Seldwyla, non cu­
rando che il proprio benessere, non spendendo un soldo
ma assicurandosene quanti era possibile nel turbine di
sventatezza di quella città. Il piano era tanto facile quan­
to giusto ed ovvio, specialmente data la sua bravura e
tenacia nell’attuario; egli aveva infatti già messo da parte
una bella sommetta, che custodiva con cura e che, secon­
do i suoi precisi calcoli, con l’andar del tempo doveva
diventare abbastanza grossa per concedergli di raggiun­
gere il suo fine. In quel suo tacito e pacifico progetto era
soltanto mostruoso il fatto che proprio Jobst se lo fosse
proposto: non vi era infatti nulla nel suo cuore che lo
costringesse a vivere a Seldwyla, non una predilezione
per il paesaggio o per la gente, per le istituzioni politiche
del paese o per i suoi costumi. Tutto era per lui indiffe­
rente quanto il suo stesso paese natale, di cui mai sentiva
la nostalgia; con la sua diligenza e la sua impeccabilità
avrebbe potuto fissarsi in cento altri posti del mondo ; ma
gli mancava la libera scelta, e con la sua mente vacua
s’aggrappava al primo casuale filo di speranza che gli si
offrisse e da questo traeva ampio nutrimento. «Dove
ΐ8θ LA GENTE DI SELDWYLA

sto bene è la mia patria!» si suol dire; e tale motto


valga anche per quelli che in realtà trovano nella nuo­
va patria una ragione migliore e necessaria al loro
benessere o per quelli che sono andati deliberatamen­
te nel mondo a conquistarsi con energia qualche van­
taggio per ritornarsene, poi, bene a posto. Valga per
quanti» fuggono a schiere una situazione penosa e si uni­
scono, seguendo la moda del tempo, alla nuova migra­
zione di popoli oltre oceano ; oppure per quelli che hanno
trovato altrove amici più fedeli che in patria, o condi­
zioni più rispondenti alle loro intime simpatie, o che vi
sono trattenuti comunque da un più bel vincolo umano.
Però tutti costoro, dovunque siano, dovranno almeno
amare la nuova terra del loro benessere e in caso di bi­
sogno ad essa anche offrirsi. Jobst invece sapeva appena
dove fosse ; le istituzioni e gli usi degli Svizzeri gli riusci­
vano incomprensibili, solo talvolta mormorava: «Già,
già, gli Svizzeri sono dei politicanti ! La politica, penso,
è certo una bella cosa quando uno se ne intende! Per
parte mia non me ne intendo e al mio paese non era in
uso». I costumi dei Seldwylesi gli ripugnavano ·ε lo
preoccupavano; quando essi preparavano una dimostra­
zione o una spedizione, si nascondeva tremante in fondo
al laboratorio, temendo che succedessero tragedie. Tut­
tavia il suo unico pensiero e il suo grande segreto era di
rimaner lì sino alla fine dei suoi giorni. In tutti i punti
della terra sono sparsi di questi uomini impeccabili che
vi sono capitati per la semplice ragione di aver lì incon­
trato per caso una cannuccia di prosperità da succhiare,
ed essi continuano a succhiare tranquillamente, senza no­
stalgia per la patria antica, senza amore per quella nuova,
senza guardar lontano né vicino, e assomigliano così, in­
vece che ad uomini liberi, a quegli organismi inferiori, a
quegli strani animaletti o a quelle sementi che vengono
trasportati dall’aria e dall’acqua nel punto fortuito in
cui poi prospereranno.
Jobst visse a quel modo un annetto dopo l’altro a Seld-
wyla, accumulando il suo gruzzolo che teneva celato
sotto un mattone del pavimento di camera sua. Non
I TRE PETTINAI ι8ι

c’era un sarto che potesse vantarsi di aver guadagnato


un soldo da lui, perché l’abito delle feste con cui era arri­
vato trovavasi nello stesso stato di allora. Non un calzo­
laio aveva riscosso da lui un centesimo, perché non erano
ancora consumate le suole degli stivali che al suo arrivo
pendevano fuori del suo zaino; l’anno ha infatti soltanto
cinquantadue domeniche, e di queste solo la metà era
dedicata ad una passeggiatina. Nessuno poteva vantarsi
di aver mai visto in mano sua una moneta grande o pic­
cola : quando riceveva il salario, esso spariva immediata­
mente nel modo più misterioso; e anche se andava fuori
porta non metteva un soldo in tasca, cosicché non gli era
affatto possibile far spese. Se venivano al laboratorio don­
ne ad offrire ciliegie, prugne o pere, e gli altri lavoranti
soddisfacevano le loro voglie, anch’egli ne provava mille e
una, ma sapeva placarle dirigendo le trattative con massi­
ma attenzione, accarezzando le belle ciliegie e le prugne e
lasciando poi partire sconcertate le donne, che l’avevano
scambiato per il migliore dei clienti. Si compiaceva allora
della sua astinenza e guardava con piacere soddisfatto i
colleghi che mangiavano, dando loro mille piccoli consigli
sul modo di far cuocere o di sbucciare le frutta comprate.
Se però per nessuno egli aveva una moneta, per nessuno
aveva una parola brusca, una richiesta sconveniente, o
una faccia scontenta; egli anzi evitava con la massima
cura ogni disputa e non se ne aveva a male di nessuno
scherzo che si permettessero con lui ; per quanto curioso di
osservare e di giudicare lo svolgimento di molti pettego­
lezzi e conflitti, i quali gli fornivano pur sempre un pas­
satempo gratuito, mentre i compagni andavano ai loro
rozzi festini, egli si guardava però dall’immischiarsi in
qualche affare e dal lasciarsi cogliere in peccato d’im­
prudenza. Insomma, egli era la più strana mistura di
una saggezza e di una perseveranza veramente eroiche
con la più placida e vile insensibilità.
Una volta gli capitò di restare per molte settimane
unico lavorante nella ditta, e così indisturbato stava bene
come un pesce nell’acqua. Specialmente la notte godeva
dell’ampio spazio a letto e impiegava molto saggiamente
i82 LA GENTE DI SELDWYLA

quel bel tempo, per compensarsi dei giorni futuri, tripli­


cando in certo modo la propria persona, mutando con­
tinuamente di posto, e immaginandosi di essere in tre a
letto, dei quali due invitavano di continuo il terzo a non
prender riguardi e a fare i propri comodi. Quel terzo era
proprio lui, e ad ogni invito si ravviluppava voluttuosa­
mente nella coperta intera, oppure apriva le gambe, o
si metteva di traverso sul letto o addirittura, con inno­
cente allegria, vi faceva le capriole. Un giorno però, che
già era coricato prima di buio, arrivò inaspettatamente
un lavorante forestiero, che fu mandato su, nella came­
retta, dalla padrona. Jobst teneva con raffinato piacere
la testa in fondo al letto e i piedi invece sul capezzale,
quando il forestiero entrò, posò il pesante zaino e comin­
ciò, stanchissimo, a spogliarsi. Jobst scattò svelto e si stese
ben rigido al suo antico posto lungo la parete, dicendosi :
“Costui se ne andrà presto, visto che siamo in estate e che
è il tempo buono per chi cammina !”. Con questa speranza
si rassegnò sospirando al suo destino, in attesa delle gomi­
tate notturne e dell’inevitabile lotta per la coperta. Non
fu poco stupito invece quando il sopravvenuto, pur essendo
bavarese, gli si venne a coricar vicino con un cortese sa­
luto, pacifico e bene educato non meno di lui, e si tenne al­
l’altra estremità del letto, senza disturbarlo affatto du­
rante tutta la notte. Tale inaudita avventura gli tolse tanto
la pace, che, mentre il bavarese dormiva tranquillo, egli
in quella notte non chiuse occhio. L’indomani osservò
con estrema attenzione il suo compagno e vide che era egli
pure un lavorante anziano, il quale si informò con parole
calme della situazione e della vita del posto, proprio allo
stesso modo con cui l’avrebbe fatto egli stesso. Appena
se ne accorse, si fece riservato, tacendo anche le cose più
semplici quasi fossero un gran mistero e cercando invece
di scoprire il segreto del bavarese; infatti che questi ne
avesse pur uno, era evidente; perché sarebbe stato per­
sona cosi assennata, tranquilla e ponderata, se non si pro­
poneva qualche oscuro vantaggio? Cercarono cosi di son­
darsi a vicenda, con la massima prudenza e pacatezza,
a mezze parole e con cortesi rigiri. Nessuno dei due diede
I tre pettinai 183

una risposta chiara, eppure, passate poche ore, ciascuno


fu certo che il compagno non fosse altro che il suo perfetto
sosia. Quando nel corso della giornata Fridolin, il bava­
rese, si recò ripetutamente in camera a far non si sa che
cosa, Jobst approfittò dell’occasione per andarci a sua vol­
ta mentre l’altro lavorava e fare una rapidissima rivista al
bagaglio di Fridolin : non scoprì però che le stesse coserelle
da lui medesimo possedute, se non che l’agoraio di legno
era in forma di pesce, mentre Jobst ne possedeva uno
dalla forma scherzosa di un neonato in fasce, e al posto
della lacera grammatica francese per il popolo che Jobst
scartabellava di tanto in tanto, trovò dal bavarese un
libretto ben legato dal titolo II bagno caldo e freddo, indi­
spensabile manuale del tintore. Sul libro stava poi scritto a
matita: «Pegno per tre soldi da me prestati a quello di
Nassau». Da ciò dedusse che l’amico fosse un uomo par­
simonioso : spiò involontariamente il pavimento e scoprì
ben presto una mattonella che pareva di recente spostata;
sotto di essa v’era infatti, ravvolto in una vecchia pezzuola
e legato con lo spago, un tesoretto di peso quasi eguale al
suo, che, a differenza di questo, era nascosto in una calza.
Rimise a posto il mattone, tremando d’eccitamento e di
ammirazione per quella grandezza straniera, ma anche
molto spaventato di veder scoperto il suo segreto. Corse
giù subito in laboratorio e si diede a sgobbare come do­
vesse rifornir di pettini il mondo intero, mentre il bavarese
faticava come ci fosse da pettinare anche il cielo. Gli otto
giorni successivi confermarono pienamente la prima im­
pressione reciproca; se Jobst era laborioso e parco, Frido­
lin era assiduo e astinente ed esalava gli stessi gravi sospiri
sulle difficoltà di tali virtù; se Jobst era saggio e sereno,
Fridolin si mostrava scherzoso e prudente ; se l’uno era mo­
desto, l’altro era umile, se l’uno arguto e ironico, il secon­
do scaltro e quasi satirico e se Jobst faceva una faccia di
pacifica innocenza davanti a una cosa che lo spaventasse,
Fridolin assumeva un’insuperabile aria di asino. Non era
una gara, ma era piuttosto l’esercizio di una cosciente
maestria ad animarli, e nessuno dei due sdegnava di pren­
dere a modello l’altro e imitarne i tratti più raffinati anco­
184 LA GENTE DI SELDWYLA

ra a lui mancanti per così perfetta condotta di vita. Appa­


rivano tanto uniti e concordi che parevano avere una cau­
sa comune, e assomigliavano a due valenti eroi che si com­
portano cavallerescamente e si incoraggiano a vicenda
prima di combattersi. Ma dopo appena otto giorni arrivò
di lontano un terzo, venuto dalla Svevia, di nome Die­
trich, del che i due provarono tacito compiacimento,
come di una divertente misura per la loro grandezza, e si
proposero di prendere in mezzo fra le loro virtù quel po­
veretto di uno svevo, che era di certo un buono a nulla,
come due leoni prendono una scimmietta per baloccarsi.
Ma indescrivibile fu lo stupore quando lo svevo si com­
portò esattamente come loro, e si ripetè per i tre la consta­
tazione già verificatasi tra i due, col che non soltanto
essi vennero a trovarsi in un’imprevista situazione di
fronte al terzo, ma anche in un ben diverso stato reciproco.
Già quando a letto lo presero in mezzo, lo svevo si ri­
velò perfettamente alla loro altezza : giacque rigido e quie­
to come uno zolfanello, tanto da lasciare ancora un po’ di
spazio per ciascuno dei lavoranti, mentre la coperta si
stendeva su di loro come un foglio di carta su tre aringhe.
La situazione si fece più seria : i tre si stavano di fronte in
perfetta parità, come gli angoli di un triangolo equilate­
ro, né era più possibile tra due di essi un rapporto di confi­
denza, un armistizio o una piacevole gara, mentre tutti
tendevano con gran serietà ad espellersi reciprocamente
dal letto e dalla casa. Quando il padrone s’accorse che
quei tre originali sopportavano ogni cosa pur di non an­
darsene, abbassò il salario e peggiorò il vitto ; ma quelli la­
voravano con ancor più intenso zelo e lo misero in grado di
gettare sul mercato grandi riserve di merce a buon merca­
to, di evadere ordinazioni aumentate, facendo soldi a pa­
late per merito di quei lavoranti in cui aveva trovato una
vera miniera d’oro. Egli allora allentò la cintola di alcuni
fori, assunse cariche importanti nella vita cittadina, men­
tre i suoi stolti operai sgobbavano giorno e notte nell’o­
scuro laboratorio, sperando così di eliminarsi a vicenda.
Dietrich, lo svevo, pur essendo il più giovane, si mostrò
tagliato nello stesso legno degli altri due, solo che non
I TRE PETTINAI 185

possedeva ancora risparmi, essendo in giro da troppo


poco tempo. Questa sarebbe stata una circostanza molto
grave per lui, dato che Jobst e Fridolin acquistavano un
vantaggio eccessivo, se egli da piccolo svevo ingegnoso
non si fosse valso di una nuova stregoneria per controbi­
lanciare la superiorità degli altri. Avendo l’animo libero
da ogni passione, libero quanto quello dei colleghi, ma non
dalla passione di fissarsi in quel paese e proprio in nessun
altro e di trarne vantaggio, ricorse all’idea d’innamorarsi
e di chiedere la mano di una persona che possedesse a un
dipresso quel medesimo capitale che il sassone e il bavare­
se tenevano sotto il pavimento. Fra le caratteristiche mi­
gliori dei Seldwylesi, v’era quella di non voler sposare per
soldi donne brutte o sgradevoli ; non erano indotti del re­
sto in grandi tentazioni, perché nella loro città non esiste­
vano ricche ereditiere, né belle né brutte. Essi si riservava­
no almeno la prodezza di disprezzare i bocconi peggiori e
di unirsi piuttosto a graziose creature allegre, di cui potes­
sero per alcuni anni fare sfoggio. Non fu quindi difficile al­
lo svevo, che stava in vedetta, trovar modo d’arrivare ad
una virtuosa fanciulla abitante nella sua stessa strada e
della quale, da saggi discorsi con le vecchie, aveva saputo
che era in possesso di una cartella di credito di ben sette­
cento fiorini. Costei era Züs Bünzlin, una zitella di ven-
tott’anni convivente con la madre lavandaia ma padrona
assoluta dell’eredità paterna. Teneva il titolo in una picco­
la scatola di lacca, e anche i rispettivi interessi, la sua fede
di battesimo, il certificato della confermazione, un uovo
di Pasqua dipinto e dorato, nonché mezza dozzina di
cucchiaini d’argento, un paternostro stampato in oro su
una specie di vetro trasparente che ella chiamava pelle
d’uomo, un nocciolo di ciliegia su cui era incisa la passione
di Cristo e un astuccio d’avorio traforato e foderato di
taffetà rosso con dentro uno specchietto e un ditale
d’argento; vi era poi un secondo nocciolo di ciliegia nel
quale si agitava un minuscolo giuoco di birilli, una noce
contenente una Madonnina sotto vetro, un cuore d’argen­
to che celava una spugnetta profumata, una scatoletta per
dolci fatta in buccia di limone, sul cui coperchio era di-
ι86 LA GENTE DI SELDWYEA

pinta una fragola e dentro la quale stava appoggiata sulla


bambagia una spilla d’oro in forma di non-ti-scordar-di-
me e un medaglione con una ciocca di capelli; inoltre
un pacchetto di carte ingiallite con ricette e segreti, un
flaconcino di gocce calmanti, un altro d’acqua di Colo­
nia e un astuccetto di muschio, uno scatolino con un po’
di liquerizia, un cestino intessuto di steli odorosi e uno
fatto invece con perline di vetro e chiodi di garofano;
infine un libretto legato in azzurro, dal taglio d’argento,
e intitolato Auree regole di vita per la fanciulla quale sposa,
moglie, e madre-, un libretto di sogni, un segretario galante,
cinque o sei lettere d’amore e un bisturi da salasso, giac­
ché Züs una volta aveva avuto un legame con un bar­
biere o aiutante chirurgo che intendeva sposarla, ed
essendo donna abile e intelligente, aveva imparato dal­
l’innamorato a salassare, ad applicar sanguisughe e ven­
tose e roba del genere e persino a sbarbare lo sposo di sua
mano. Egli però si era dimostrato uomo indegno, col quale
forse sarebbe stata in giuoco tutta la sua felicità, ed essa al­
lora, con melanconica ma saggia risolutezza, aveva inter­
rotto la relazione. I regali erano stati restituiti da ambo le
parti, ad eccezione del bisturi, che essa trattenne quale
compenso per un fiorino e quarantotto centesimi da lei
prestatigli in contanti. Quell’indegno affermava però di
non essere debitore, avendogli lei messo in mano quei soldi
in occasione di un ballo, per coprire le spese, ed avendo
poi mangiato il doppio di lui. Così egli si tenne il fiorino
e i quarantotto centesimi, e lei il bisturi, col quale salas­
sava in privato tutte le donne di sua conoscenza e si
guadagnava dei buoni soldi. Tutte le volte però che usava
lo strumento era costretta a ripensare con dolore all’ani­
mo meschino di colui che le era stato tanto caro e che
era stato per diventare suo consorte !
Tutto ciò trovava posto dentro la scatola di lacca, ben
chiusa, conservata a sua volta in un antico armadio di
noce, la cui chiave Züs Bünzlin portava immancabil­
mente in tasca. La zitella aveva capelli fini e rossicci ed
occhi azzurro chiari non privi d’attrattiva, che talvolta
assumevano un’espressione di mite saggezza; possedeva
\ ■ i
I TRE PETTINAI 187

una quantità di abiti, pur indossandone sempre pochi e


i più vecchi, ma era accurata e pulita, e non meno or­
dinata e ben tenuta era la sua camera. Aiutava con grande
assiduità sua madre nella lavanderia, stirando le cose più
fini, lavando le cuffie e i polsini delle Seldwylesi, col che
faceva buoni guadagni. Da tale attività derivava forse che
in tutti i giorni della settimana in cui c’era da lavare
serbava quell’umore austero e contenuto che invade le
donne il giorno del bucato, e tale stato d’animo era
in lei ben fisso in quei giorni, mentre soltanto con
la stiratura subentrava grande allegria, che in Züs era
condita poi, sempre, da un grano di saggezza. Lo spi­
rito ordinato della casa si manifestava anche nel suo
principale ornamento, una ghirlanda di pezzi di sapone
quadrangolari e di esatta misura, disposti ad asciugare
tutt’intorno alla cornice del rivestimento d’abete, per es­
sere meglio utilizzati. Questi pezzi di sapone erano
ogni tanto segnati col compasso e tagliati poi dalla
massa ancor fresca a mezzo di un filo d’ottone da Züs
medesima. Il filo, per essere più comodamente affer­
rato e maneggiato nel sapone tenero, aveva ai due ca­
pi due traversine di legno; un fabbro, col quale era stata
un giorno quasi fidanzata, le aveva preparato e do­
nato un bel compasso per far le parti dal pezzo grande.
Da lui proveniva anche un bel mortaio piccolo e lucido,
che adornava la testata dell’armadio, fra la teiera azzurra
e il vaso da fiori dipinto. Per lungo tempo un simile gra­
zioso mortaio era stato un suo desiderio, e il fabbro gen­
tile fu il benvenuto presentandosi il giorno del suo ono­
mastico con quel dono e con insieme qualcosa da pestarvi :
una scatola piena di cannella, di zucchero, di chiodi di
garofano e di pepe. Aveva allora tenuto il mortaio appeso
al mignolo sulla soglia della stanza, prima di entrarvi,
facendolo risuonare col pestello al pari di una campana,
e fu una mattina molto serena. Poco tempo dopo però
quell’ipocrita abbandonò il paese e non si seppe mai più
nulla di lui. Per di più il suo padrone pretese la restitu­
zione del mortaio, che il fuggiasco si era appropriato in
bottega senza pagarlo. Züs però non cedette quel caro ri­
ι88 LA GENTE DI SELDWYLA

cordo, anzi sostenne un energico piccolo processo, difen­


dendosi in persona davanti alla giustizia in base ad un
conto per lavatura di biancheria del disertore. Quelli in
cui dovette lottare per il mortaio furono i giorni più me­
morabili e dolorosi della sua esistenza, giacché essa, con
la sua profonda intelligenza, comprendeva e sentiva più
intensamente di altra gente superficiale la pena di pre­
sentarsi in giudizio per così delicata faccenda. Tuttavia
conseguì la vittoria e conservò il mortaio.
Se però la graziosa galleria di pçzzi di sapone attestava
la sua operosità e la sua indole ordinata, un mucchietto
di libri vari, disposti in bell’ordine presso la finestra e
da lei assiduamente letti la domenica, non ne vantava
meno lo spirito edificante e istruito. Züs possedeva anco­
ra, dopo tanti anni, tutti i suoi libri di scuola, non ne
aveva perduto uno, così come ricordava ancora tutta quel-
l’antica povera erudizione; sapeva a memoria il cate­
chismo e la grammatica, l’aritmetica e la geografia, la
storia biblica e i racconti profani; possedeva inoltre
alcune delle graziose storielle di Christoph Schmid, e le
sue novelline coi bei versetti alla fine, nonché almeno una
mezza dozzina di florilegi e testi popolari da consultare,
una raccolta di calendari ricchi di sicura e provata sag­
gezza ed esperienza, alcune singolari profezie, un avvia­
mento al giuoco delle carte, un manuale di edificazione
destinato alle fanciulle assennate per tutti i giorni dell’an­
no e un antico esemplare dei Masnadieri di Schiller, che
rileggeva appena le sembrava di averli abbastanza di­
menticati, lasciandosi ogni volta di nuovo commuovere,
ma commentandoli poi in modo ragionevole e prudente.
Tutto quello che c’era in quei libri c’era anche nella sua
testa, ed essa era in grado di parlarne molto bene e di
parlare anche di molte altre cose. Quand’era soddisfat­
ta e non troppo indaffarata, dalla sua bocca fluiva­
no ininterrotti discorsi, e su tutto ella sapeva dare
un parere o una sentenza. Giovani e vecchi, umili e
grandi, dotti o ignoranti dovevano imparare da lei
e sottoporsi al suo giudizio, dopo che essa, sorridente
o meditabonda, aveva per un poco considerato di che
I TRE PETTINAI 189

cosa si trattasse. Qualche volta parlava con l’untuo­


sità e l’abbondanza di una dotta cieca, che non vede
nulla del mondo e il cui unico piacere è stare ad ascol­
tarsi. Dalla scuola elementare e dall’istruzione religiosa
aveva conservato ininterrotta la consuetudine di scrivere
composizioni e brani edificanti e massime schematiche
di ogni tipo, cosi che ancora nelle lunghe domeniche
di riposo spesso redigeva i temi più bizzarri, infilan­
do le frasi più strane ed' assurde, sotto qualunque ti­
tolo sonoro che avesse udito o letto, per fogli interi,
così come sbocciavano dal suo bizzarro cervello, per
esempio sull’utilità di una malattia, sulla morte, sul be­
neficio salutare della rinuncia, sulla grandezza del mon­
do visibile e sul mistero di quello invisibile, sulla vita cam­
pestre e le sue gioie, sulla natura, sui sogni, sull’amo­
re; oppure pensieri sull’opera redentrice di Cristo, idee
sulla presunzione, meditazioni sull’immortalità. Leggeva
poi ad alta voce quei lavori ai suoi amici ed ammiratori
e a quelli che aveva più cari faceva dono di uno o due di
tali scritti, imponendo loro di conservarli dentro la Bibbia
se ne possedevano una. Questo suo lato spirituale le
aveva attirato una volta l’affetto profondo e sincero di un
giovane legatore di libri, il quale leggeva tutti i volumi
che legava ed era uomo pieno di aspirazioni e di buoni
sentimenti e molto inesperto. Quando portava il suo fa-
gottino di biancheria alla mamma di Zùs gli pareva di
essere in cielo, tanto gli piaceva ascoltare quei bei discorsi,
che già parecchie volte aveva rimuginati idealmente fra
sé e sé senza avere il coraggio di metterli fuori. Con timi­
do rispetto accostava la fanciulla ora severa ed ora facon­
da, e questa gli concesse la sua amicizia e lo legò a sé per
un anno, non senza però ben chiaramente escluderlo da
ogni speranza, entro limiti che essa gli segnava con mano
dolce ma inesorabile. Egli era infatti di nove anni più gio­
vane di lei, povero in canna e inetto al guadagno (sempre
scarso del resto per un legatore a Seldwyla, dove la gente
non leggeva e faceva legare pochi libri) ed essa quindi non
gli celava neppure per un istante l’impossibilità di un
matrimonio e cercava in tutti i modi di educare il suo
ΐ9θ LA GENTE DI SELDWYI.A

spirito alla sua stessa capacità di rinuncia, imbalsamando­


lo in una nuvola di frasi multicolori. Egli l’ascoltava con
fervore e osava persino di tanto in tanto una bella senten­
za, che essa però gli ammazzava appena nata con un’altra
ancor più bella. Questo fu per lei l’anno più sublime e
intellettuale, non velato da alcuna ombra di volgarità, e
il giovanotto in quel tempo le rilegò a nuovo tutti i suoi
libri e per di più, nel corso di molte notti e di molti giorni
festivi, le eresse un prezioso e raffinato monumento della
sua venerazione. Era un gran tempio cinese in cartone,
con innumerevoli cassettini e riparti segreti, scomponibile
in molti pezzi, tappezzato di carta martellata a colori e
guernito da tutte le parti di galloncini d’oro. Vi si alter­
navano pareti a specchio e colonne, e se si alzava uno
scompartimento o si apriva un vano, si scoprivano nuovi
specchietti e figurine seminascoste, mazzi di fiori o cop­
pie amorose; alle punte dei tetti a pagoda erano appesi
dovunque campanellini. C’era dentro anche un portaoro-
logio per signora con graziosi gancetti alle colonne per
appendervi la catenina d’oro e farla serpeggiare lungo
l’edificio, ma fino ad allora non s’era fatto avanti alcun
orologiaio né alcun orefice a deporre su quell’altare un
orologio o una catena. In quell’ingegnoso tempio erano
prodigati un lavoro e un’abilità senza fine, e il suo
progetto non era stato meno arduo della precisa esecu­
zione. Quando quel monumento di un anno di felicità
fu portato a termine, Züs Bünzlin vincendo se stessa per­
suase il bravo legatore a strapparsi da lei e a ripigliare il
suo bordone, dato che il mondo gli era aperto dinanzi e
che a lui, ora che aveva tanto nobilitato il suo cuore alla
scuola e nella vicinanza di lei, avrebbe certo arriso ancora
la più bella felicità, mentre essa, senza mai dimenticarlo,
si sarebbe data alla solitudine. Quando, dopo quel con­
gedo, dovette partire dalla cittadina, il poverino versò
vere lagrime, ma la sua opera troneggiò da quel giorno
sull’antico cassettone di Züs, protetta da un velo di garza
verde mare che la sottraeva alla polvere e agli sguardi
profani. Era per lei così sacra che la serbò nuova e inuti­
lizzata, senza riporre mai nulla in quei cassettini. Al suo
I TRE PETTINAI !9*

autore attribuì nel ricordo il nome di Emanuel, mentre in


realtà si chiamava Veit, e andava ripetendo ad ognuno
che soltanto Emanuel l’aveva compresa e aveva intuito la
sua natura. Con lui in persona però non lo aveva che ben
di rado ammesso, tenendolo anzi severamente a stecchet­
to e dimostrandogli spesso, per spronarlo a più alte mete,
che egli tanto meno la capiva quanto più si illudeva di
riuscirvi. In compenso anch’egli le giocò un piccolo tiro :
ripose in un doppio fondo, nella parte più nascosta del
tempio, una splendida lettera, bagnata di lagrime, nella
quale le confessava l’indicibile tormento, l’amore, la vene­
razione e l’eterna fedeltà del suo cuore con parole così
spontanee e leggiadre, quali le trova soltanto il vero senti­
mento andato a smarrirsi in un vano labirinto. Cose così
belle non aveva mai potuto esprimerle, perché lei non l’a­
veva mai lasciato parlare. Siccome però Züs non aveva al­
cun sospetto di quel tesoro nascosto, si diede il caso che la
sorte fu giusta, non concedendo a quella falsa innamorata
ciò che non meritava di vedere. E fu come un simbolo
che toccasse proprio a lei non comprendere la natura un
po’ pazza, ma pur fervida e sincera del bravo legatore.
Già da un pezzo Züs aveva avuto parole di lode per la
condotta dei tre pettinai, chiamandoli uomini giusti e
assennati; giacché non aveva mancato di osservarli.
Quando dunque Dietrich, lo svevo, cominciò a trattenersi
più a lungo con lei nel portarle o riprenderle la sua ca­
micia e si diede a farle la corte, essa lo accolse benigna­
mente, trattenendolo per ore intere con saggi conversari.
Dietrich, pieno d’ammirazione, assentiva con entusiasmo
a tutto più energicamente che poteva ed essa era ca­
pace di sopportare lodi smaccate, anzi amava que­
sta droga quanto più forte era, e se uno magnificava
la sua saggezza, lei taceva sinché quello aveva vuotato
il cuore, per poi riprendere il filo con maggiore untuosi­
tà e completare qua e là l’immagine che di lei era stata
abbozzata. Non era passato molto tempo dalle prime
visite di Dietrich, che essa già gli aveva mostrato la fa­
mosa cartella di rendita, ed egli era speranzoso e serbava
coi suoi compagni l’aria di mistero di chi abbia scoperto
192 LA GENTE DI SELDWYLA

il moto perpetuo. Jobst e Fridolin tuttavia trovarono le


sue piste e non poco stupirono del suo profondo genio e
della sua abilità. Specialmente Jobst si diede dell’asino,
giacché anch’egli da anni frequentava quella casa e mai
gli era venuto in mente di cercarvi altro che la biancheria;
al contrario odiava quasi quella gente, le sole persone che
settimanalmente riuscissero a carpirgli qualche soldo. Ad
un matrimonio non aveva mai pensato; per lui una donna
non rappresentava altro che un essere pronto ad esigere
qualcosa che non le spetta. Non pensava d’altra parte a
pretenderne a sua volta qualcosa di utile, avendo fede
soltanto in se stesso e non sapendo spingere i propri angusti
pensieri oltre l’àmbito prossimo e limitatissimo del suo
gran segreto. Ora però si trattava di farla allo svevo, il
quale coi settecento fiorini della giovane Biinzlin avrebbe
potuto impiantare una brutta storia, se toccavano a lui,
mentre quei settecento fiorini cominciavano di colpo ad
assumere uno splendore trasfigurato agli occhi del sassone
e del bavarese. Dietrich, l’ingegnoso, aveva dunque sco­
perto soltanto un continente che ben presto divenne bene
comune. Gli toccò l’aspra sorte di tutti gli scopritori; i due
compagni infatti seguirono le sue orme e frequentarono a
loro volta Züs Bünzlin, che si vide circondata da un’intera
corte di pettinai assennati e rispettabili. Questo le piaceva
straordinariamente ; non aveva mai posseduto tanti ado­
ratori in una volta, così che divenne per lei un ottimo eser­
cizio spirituale trattare i tre uomini con massima pruden­
za e imparzialità, tenendoli a bada e animandoli con mi­
rabili parole alla rinuncia e al disinteresse sino al giorno
in cui il cielo avrebbe voluto manifestare la sua immuta­
bile decisione. Siccome infatti ciascuno dei tre le aveva
confidenzialmente rivelato il suo segreto e il suo pro­
getto, essa si propose senz’altro di render felice colui che
avesse raggiunto la meta e fosse diventato proprietario
dell’azienda. Escluse senz’altro lo svevo, che non avrebbe
potuto vincere se non in grazia di lei, e si propose di non
sposarlo. Siccome però era il più giovane, il più intelli­
gente e simpatico dei lavoranti, gli diede qualche tacito
segno di speranza e, fingendo di sorvegliarlo e dirigerlo
I TRE PETTINAI 193

con particolare cordialità, spronò gli altri due a farsi ancor


più zelanti, tanto che il povero Colombo, scopritore della
bella terra, divenne il vero zimbello della partita. I tre an­
darono a gara nella devozione, nella modestia, nella ragio­
nevolezza e nell’arte gentile di lasciarsi guidare dall’auste­
ra fanciulla, ammirandola disinteressatamente, cosi che
quando l’intera brigata era raccolta, assomigliava ad una
strana conventicola, in cui si tenessero i più bizzarri
discorsi. Malgrado la devozione e l’umiltà, capitava tutti
i momenti che l’uno o l’altro, deviando all’improvviso dal
magnificare la comune signora, tentasse invece di lodare
e, di mettere in luce se stesso, ma si vedeva dolcemente
ripreso, doveva interrompersi mortificato e stare a sen­
tirla, mentr’essa gli esaltava le virtù degli altri due, che
egli tosto riconosceva e confermava.
Era una dura esistenza per i tre poveri pettinai ; malgra­
do la freddezza della loro indole, da quando c’era una
donna in giuoco, sorgevano inusitate eccitazioni nate da
gelosie, preoccupazioni, paure e speranze; il lavoro e la
parsimonia li consumavano facendoli visibilmente dima­
grire, si fecero melanconici, e mentre in pubblico e special-
mente con Ziis ostentavano concordia ed eloquenza, quan­
do lavoravano insieme o erano in camera loro non scam­
biavano quasi parola e si coricavano nel letto comune con
un sospiro, sempre silenziosi e pazienti come tre matite.
Un unico sogno, sempre lo stesso, si librava ogni notte su
quella triade, finché una volta fu tanto intenso che Jobst
si spostò urtando Dietrich, il quale spinto indietro, urtò
Fridolin. Ecco che fra i tre compagni mezzo intontiti dal
sonno scoppiò un terribile rancore, e nel letto si svolse una
lotta tremenda : per tre minuti tanto si picchiarono, scal­
ciando con tale violenza, che le sei gambe formarono un
groviglio e il gruppo intero finì a terra tra altissime stri­
da. Svegliandosi del tutto, credettero che il diavolo fosse
venuto a pigliarli o che i ladri fossero entrati in camera :
balzarono in piedi e sùbito Jobst andò a mettersi sul suo
mattone, Fridolin sul proprio, anche Dietrich su quello
che proteggeva già i suoi miseri risparmi, e mentre se ne
stavano così formando triangolo, tremavano e dimena­
194 LA GENTE DI SELDWYLA

vano le braccia, invocando aiuto ed urlando: «Fuori!


Fuori ! », finché il padrone spaventato si precipitò in ca­
mera a calmare i suoi lavoranti impazziti. Ancora treman­
ti di paura, di sdegno e di mortificazione, si ricacciarono
alla fine sotto le coperte e vi rimasero l’uno accanto all’al­
tro sino al mattino senza parlare. Ma la scena notturna
non era stata che un preannuncio del più grave spavento
che li attendeva, quando il giorno dopo, durante la prima
colazione, il padrone dichiarò che non poteva più tenere
tre operai e che due di essi avrebbero dunque dovuto par­
tire. Essi infatti avevano esagerato producendo una tal
quantità di merce che una parte era rimasta invenduta;
dal canto suo il padrone s’era valso dell’aumentato gua­
dagno per rovinare di nuovo l’azienda quando era nel
massimo rigoglio, facendo una cosi bella vita da contrarre
debiti per il doppio delle sue entrate. Per questo i tre ope­
rai, pur così laboriosi e parchi, erano diventati d’un tratto
un peso superfluo. Per consolarli disse loro che li aveva ca­
ri tutti e tre, e che lasciava loro decidere chi dovesse rima­
nere e chi riprendere la via. Essi però non decisero nulla
ma rimasero lì pallidi come la morte, sorridendosi l’un
l’altro, e poco dopo furono còlti da terribile inquietudine,
essendo giunta l’ora fatale : l’avvertimento del padrone era
infatti un sintomo chiaro che egli non avrebbe resistito
a lungo e che la piccola fabbrica di pettini sarebbe stata
una buona volta rivenduta. La meta a cui tutti avevano
aspirato appariva dunque vicina, luminosa come una Ge­
rusalemme celeste, ma davanti alle sue porte due di loro
avrebbero dovuto prender la via del ritorno e volgerle le
spalle. Senza alcuna esitazione, tutti e tre dichiararono
di voler rimanere anche lavorando gratuitamente. Ma il
padrone non sapeva che farsene e confermò che comun­
que due di loro dovevano andarsene; essi gli caddero ai
piedi torcendosi le mani, lo scongiurarono, e ciascuno in­
vocava in particolare per se stesso di tenerlo ancora due
mesi soltanto, ancora soltanto quattro settimane. Ma il
padrone sapeva benissimo a che cosa mirassero, tanto che
se ne irritò e volle prenderli a gabbo, proponendo d’un
tratto un modo divertente di risolvere la questione. « Se
I TRE PETTINAI 195

non potete mettervi d’accordo» disse «su chi debba li­


cenziarsi vi indicherò io un modo di decidere la faccenda,
in modo definitivo! Domani è domenica, io vi do la
solita paga, voi fate il vostro fagotto, prendete il vostro
bastone, e ve ne andate tutti e tre di buon accordo
fuor di città, per una buona mezz’ora, dalla parte che
preferite. Vi riposate poi un pochino, e se ne avete voglia
bevete un bicchierino; fatto questo rientrate in città,
e quello che sarà allora il primo a tornarmi a chieder la­
voro, io lo riprenderò; gli altri invece dovranno inesora­
bilmente andarsene dove a loro piaccia ! ». Essi tornarono
a inginocchiarsi davanti a lui, scongiurandolo di rinun­
ciare a quel crudele proposito, ma fu vano : egli rimase fer­
mo e inesorabile. D’un tratto lo svevo balzò in piedi e
corse come un forsennato da Züs Bünzlin; ma appena
Jobst e il bavarese se ne accorsero, interruppero i loro
lamenti per corrergli dietro, così che la scena di dispera­
zione si trasferì ben presto nella dimora dell’atterrita
donzella.
Questa era molto colpita e preoccupata dell’inattesa
avventura; fu però la prima a riprender animo e, domi­
nando la situazione, decise di legare la propria sorte alla
bizzarra pensata del principale, considerandola una ispi­
razione celeste; andò a prendere commossa uno dei suoi
florilegi poetici, puntò uno spillo su una pagina e vide
che il motto da questo segnato si riferiva alla tenacia
nel perseguire una buona meta. Fece ripetere la prova
dai tre operai conturbati e tutti i motti da loro se­
gnati trattavano dello zelo nel procedere su uno stret­
to cammino, dell’andare innanzi senza guardarsi alle
spalle, di una pista, insomma sempre di camminare
o di correre, tanto che la gara podistica mattutina
appariva chiaramente prescritta dal cielo. Temendo
però che Dietrich, il più giovane, potesse troppo fa­
cilmente conquistare la palma, decise di accompa­
gnarsi ai suoi innamorati, per vedere che cosa avrebbe
potuto fare a proprio vantaggio. Essa infatti desiderava
che vincitore fosse uno dei due anziani, e le era del tutto
indifferente quale. Impose quindi calma e rassegnazione
ig6 LA GENTE DI SELDWYLA

ai tre che piagnucolavano e si bisticciavano, dicendo:


«Sappiate, amici miei, che nulla accade senza una ra­
gione, e per quanto singolare e inconsueta sia l’idea del
vostro principale, noi dobbiamo considerarla come una
provvidenza e assoggettarci a quest’improvvisa decisione
con una saggezza superiore, della quale quell’uomo petu­
lante non ha neppure idea. La nostra convivenza ragio­
nevole e pacifica era troppo bella perché potesse prolun­
garsi in modo così edificante, giacché, ahimè !, ogni cosa
bella ed utile è breve e fugace, e nulla a lungo sussiste
fuorché il male, la pervicacia, e la solitudine dell’anima,
come noi ben possiamo osservare e considerare con la
nostra devota saggezza. Perciò, prima che fra noi insorga
il demone maligno della discordia, vogliamo piuttosto
separarci spontaneamente e disperderci come le grade­
voli aurette primaverili, quando iniziano il loro corso
veloce nel cielo, per non staccarci invece come i venti
tempestosi dell’autunno. Io stessa vi accompagnerò per
quel penoso cammino e vorrò esser presente quando ini­
zierete la gara di corsa, affinché siate animati da sereno
coraggio e abbiate dietro di voi lo sprone più bello, mentre
davanti vi arride la meta della vittoria. Ma come il vin­
citore non deve troppo insuperbirsi della sua fortuna, così
i vinti non devono disperare e serbare cruccio o rancore,
ma andar sicuri del nostro affettuoso ricordo e riprendere
le vie del mondo quali allegri giovani lavoratori ; giacché
gli uomini hanno edificato molte città altrettanto belle o
ancor più belle di Seldwyla ; Roma è una grande e singola­
re città, dove vive il Santo Padre, e Parigi è una potentis­
sima città di molte anime e con mirabili palazzi, e a
Costantinopoli regna il sultano, di fede turca, mentre
Lisbona, una volta distrutta dal terremoto, è stata rico­
struita ancor più bella. Vienna, detta città imperiale, è
la capitale dell’Austria, e Londra la più ricca città del
mondo, situata in Inghilterra, su un fiume che ha nome
Tamigi. Ben due milioni di uomini vi abitano ! Ma Pie­
troburgo è la capitale e la residenza del sovrano della
Russia, così come Napoli è la capitale del regno dello
stesso nome, con un monte Vesuvio il quale erutta fuoco
I TRE PETTINAI 197

e sul quale un giorno ad un capitano di mare inglese


apparve un’anima dannata, come io ho letto in una strana
descrizione di viaggi, un’anima che aveva appartenuto ad
un tale John Smidt, che era stato un secolo e mezzo prima
uomo empio e che affidò al detto capitano un incarico
per i suoi posteri in Inghilterra, onde essere salvato ; giac­
ché tutta quella montagna di fuoco è dimora di dannati,
come può leggersi sul trattato del dotto Peter Hasler
intorno alla presumibile ubicazione dell’inferno. Vi sono
ancora molte altre città,.fra le quali voglio citare soltanto
ancora Milano, Venezia, tutta costruita sull’acqua, Lione,
Marsiglia, Strasburgo, Colonia ed Amsterdam ; di Parigi
ho già parlato, ma non ancora di Norimberga, di Augusta
e di Francoforte, di Basilea, Berna e Ginevra, tutte belle
città, nonché della bella Zurigo, e ve ne sarebbe ancora
una quantità, che non finirei mai di elencare. Tutto ha
infatti i suoi limiti, non però lo spirito inventivo degli uo­
mini, i quali in ogni direzione si diffondono per intra­
prendere quanto loro sembra utile. Se essi sono uomini
giusti riusciranno, ma l’ingiusto svanirà come l’erba dei
campi o come il fumo. Molti sono i chiamati, ma pochi gli
eletti. Per tutte queste ragioni e sotto altri riguardi im­
postici dal dovere e dalla virtù della nostra pura co­
scienza, noi vogliamo assoggettarci alla voce del destino.
Perciò andate e preparatevi al vostro pellegrinaggio, ma
da uomini giusti e mansueti, che portano in sé il loro va­
lore dovunque essi vadano e il cui bordone dovunque
potrà metter radici, uomini che, qualunque cosa facciano,
potranno dirsi: “Ho scelto la parte migliore!”».
I pettinai non volevano però sentir ragione e insiste­
vano con la dotta Züs perché scegliesse uno di loro, impo­
nendogli di restare, e naturalmente ciascuno pensava a
se stesso. Ma ella si guardò bene dal fare una scelta, anzi
proclamò seria e imperiosa che dovevano obbedirle,
altrimenti avrebbe tolto loro per sempre la sua amicizia.
Jobst allora, il più anziano, tornò a scappar via verso la
casa del padrone, e al galoppo gli tennero dietro gli altri,
nel timore che intraprendesse qualcosa a loro danno, e
così girarono per tutto il giorno, simili a comete, finendo
198 LA GENTE DI SEI.DWYLA

per odiarsi come tre ragni nella stessa ragnatela. Mezza


città notò lo strano spettacolo dei pettinai impazziti,
mentre erano sempre stati tanto quieti e tranquilli, e i
vecchi se ne spaventarono, scorgendo nel fenomeno il mi­
sterioso preannuncio di gravi eventi. Verso sera erano
stanchi ed esausti, senza essere riusciti ad escogitare o a
decidere nulla di meglio, e battendo i denti andarono a
coricarsi nel loro vecchio letto. Uno dopo l’altro si caccia­
rono sotto le coperte e si distesero come fossero morti, coi
pensieri confusi finché un sonno pietoso non li colse. Jobst
fu il primo a destarsi all’alba e vide che una serena mat­
tina di primavera illuminava la cameretta dove dormiva
'da ormai sei anni. Per misera che fosse, gli parve un pa­
radiso, che era costretto ad abbandonare, e tanto ingiu­
stamente. Lasciò vagare lo sguardo sulle pareti, studiando
le tracce familiari lasciatevi dai molti lavoranti che vi ave­
vano abitato più o meno a lungo ; lì uno soleva sfregare la
testa e ci aveva lasciato una macchia scura, là un altro ave­
va infitto un chiodo per appendervi la pipa, e c’era ancora
il nastrino rosso. Che bravi ragazzi erano stati quelli, pron­
ti ad andarsene tranquillamente mentre i due che gli dor­
mivano accanto non volevano cedere il posto ! Fermò poi
l’occhio sulla zona più prossima alla sua faccia e considerò
i piccoli oggetti già mille volte veduti quando la mattina
o la sera prima di buio giaceva a letto, compiacendosi
della sua beata e non costosa esistenza. C’era una scre­
polatura nell’intonaco che aveva l’aspetto di una terra
pon laghi e città, in cui un mucchietto di granelli di sab­
bia più grossi rappresentava un gruppo di isole beate;
più in là si stendeva una lunga setola caduta dal pennello
e rimasta ficcata nell’azzurro; Jobst infatti l’autunno pre­
cedente aveva trovato, una volta, un avanzo di quella
tinta a calce, e, perché non andasse sciupata, aveva di­
pinto un pezzo della sua parete, quel che era venuto,
scegliendo il posto più vicino al suo letto. Al di là della
setola c’era un minuscolo rialzo, una specie di collinetta
azzurra che proiettava la sua ombra delicata oltre la se­
tola, sino alle isole beate. Già tutto l’inverno era stato a
meditare su quel monte, che gli sembrava non ci fosse
I TRE PETTINAI !99

stato prima. Mentre lo andava cercando quel mattino coi


suoi occhi assonnati e melanconici, d’un tratto non lo
trovò più e non volle credere ai propri sensi scoprendo al
suo posto una piccola macchia chiara della parete, men­
tre vide che la minuscola montagna azzurra si muoveva
e sembrava allontanarsi. Jobst balzò a sedere stupito, co­
me si trattasse di un miracolo, e scoprì che era una ci­
mice, che certo nell’autunno egli aveva distrattamente
ricoperto con la tinta mentre già era in letargo. Ora inve­
ce, rianimata dal calore primaverile, s’era messa in mo­
vimento e proprio in quell’istante risaliva intrepida la
parete con la sua schiena azzurra. La seguì con lo sguardo
commosso e ammirato: sinché procedette entro l’azzurro
non la si distingueva quasi dalla parete, ma quando uscì
dalla parte dipinta e si lasciò alle spalle le ultime spruzza­
ture, l’animaletto azzurro continuò molto visibilmente la
sua via nelle regioni più fosche. Jobst si lasciò ricadere tri­
stemente sui cuscini ; benché di solito non pensasse a cose
simili, quella vista ridestò in lui uno strano sentimento*
quasi fosse anch’egli costretto a riprendere il cammino, e
gli parve buon insegnamento a rassegnarsi all’inevitabile,
e ad avviarsi almeno di buona voglia. Fra tali pensieri
più pacati gli tornò anche la sua naturale, impassibile
prudenza; considerando più da vicino la cosa, si disse
che, se si mostrava modesto e rassegnato, se si sottopo­
neva alla dura prova mantenendosi cauto ed accorto^
aveva pur sempre le maggiori possibilità di superare gli
avversari. Scese pian piano dal letto, cominciò a mettere
ordine fra le sue cose e anzitutto a prender fuori il suo
tesoro per riporlo in fondo al vecchio zaino. Nel frattempo
si svegliarono i suoi compagni e, vedendolo preparare così
rassegnato il bagaglio, si stupirono molto, e ancor più
quando Jobst rivolse loro parole concilianti e augurò il
buon giorno. Non disse però altro, ma continuò quieto e
tranquillo il suo lavoro. Subito i compagni, anche senza
saper quello che preparasse, sospettarono nel suo conte­
gno un’astuzia di guerra e lo imitarono prestando una,
estrema attenzione a quel che avrebbe poi fatto. Lo strano
si fu che tutti e tre, per la prima volta, andarono a pren­
200 LA GENTE DI SELDWYLA

dere i loro gruzzoli sotto le mattonelle e li riposero senza


neppure contarli negli zaini. Sapevano infatti da un
pezzo che ognuno aveva indovinato il segreto degli altri
e non diffidavano nel senso di temere un’offesa alla pro­
prietà: ciascuno era certo che i colleghi non l’avrebbero
derubato, e si dice infatti che nelle camerate dei lavoran­
ti, dei soldati e simili non vi siano mai né serrature né
diffidenza.
I tre furono ben presto pronti alla partenza, il padrone
consegnò loro la paga e i rispettivi libretti di lavoro, in
cui le autorità civiche e il principale stesso avevano re­
datto i più begli attestati sulla loro buona condotta e
abilità, e giunsero così melanconicamente davanti alla
casa di Züs Bünzlin, con le loro lunghe giacche brune ri­
coperte da vecchie spolverine stinte e coi cappelli, benché
già vecchi e spelacchiati, accuratamente ricoperti da un
pezzo di tela cerata. Ognuno aveva fissato al proprio ba­
gaglio un carrello destinato a portarlo in caso di lungo
viaggio ; ma non pensavano di usar quelle ruote, che in­
fatti, per intanto, si ergevano alte sui loro dorsi. Jobst
s’appoggiava a una rispettabile canna di bambù, Fri­
dolin a un bastone di frassino dipinto in rosso e nero,
Dietrich a un fantastico gran bordone, attorno a cui si
avvolgeva il disordinato intrico di molti rami. Quasi però
si vergognava di quell’oggetto sfarzoso, proveniente an­
cora dal primo dei suoi pellegrinaggi, quando non era
certo ragionevole e ammodo come al presente. Molti del
vicinato, coi loro bimbi, s’erano raccolti attorno ai tre
poveri pettinai, per augurare loro un viaggio fortunato.
In quel momento apparve sulla porta Züs con aria so­
lenne, e s’awiò coraggiosamente fuori porta alla testa
dei tre amici. Si era vestita in loro onore con sfarzo
insolito: portava un cappellone con vistosi nastri gialli,
una veste di cotonina rosa tutta sbuffi e rigonfi, una
sciarpa di velluto nero con una gran fibbia di simi­
loro e scarpe di marocchino rosso a frange. Per di
più reggeva un’ampia borsa di seta verde che aveva
riempito di pere e prugne secche e teneva aperto un picco­
lo parasole, che aveva sulla punta una grande lira d’avo­
I TRE PETTINAI 201

rio. Aveva anche appeso al collo il medaglione con la cioc­


ca di capelli biondi, si era appuntata la spilla d’oro a
non-ti-scordar-di-me e infilati guanti bianchi a maglia.
Tutto quel lusso le conferiva un aspetto delicato e gentile;
il volto era lievemente arrossato e il petto le ansimava più
del consueto, tanto che i tre rivali si struggevano di me­
lanconia e di dolore, giacché l’estrema tensione degli
animi, la bella giornata primaverile, che illuminava la lo­
ro partenza, e il fasto di Züs aggiungevano ai loro senti­
menti un tantino di quello che si chiama veramente amo­
re. Giunti alla porta della città, la gentile donzella esortò
i suoi innamorati a mettere il bagaglio sulle rotelle e a
tirarselo dietro per non stancarsi inutilmente. Così essi
fecero e quando, usciti dalla cittadina, s’avviarono verso
le montagne, parevano quasi un piccolo drappello di arti­
glieri che salisse a piazzare una batteria. Dopo una buona
mezz’ora si fermarono su una bella collinetta da cui si
dipartiva un bivio e sedettero in semicerchio sotto un ti­
glio di dove si godeva un’ampia veduta oltre boschi,
laghi e paesi. Züs aprì la sua borsa e diede a ciascuno
una manciata di pere e prugne per ristoro, ed essi conti­
nuarono a sedere per un bel pezzo seri e taciturni, ma
schioccando la lingua e producendo un mite fruscio
nel masticare i dolci frutti.
Poi Züs, mentre gettava lontano un nocciolo di prugna
e si ripuliva la punta delle dita nell’erba novella, co­
minciò a parlare: «Cari amici! Vedete come è bello
e ampio il mondo, pieno tutt’attorno di cose splendide
e di dimore umane ! Scommetterei tuttavia che in que­
st’ora solenne in nessun luogo di quest’ampio mondo
stanno radunate quattro anime così rette e buone come
siamo noi, così sensate e ponderate, così dedite ad ogni
attività e virtù laboriosa, al riserbo, alla parsimonia, alla
socievolezza e all’intima amicizia. Quanti fiori non ci
stanno dintorno, di tutte le specie prodotte dalla prima­
vera, e specialmente le gialle primule che possono dare un
tè eccellente e salutare, ma sono essi forse retti e laboriosi?
Sono essi parsimoniosi, prudenti, capaci di pensieri saggi
e istruttivi? No, sono creature ignoranti e senza spirito,
202 LA GENTE DI SELDWYLA

prive di anima, che sciupano incoscientemente e stolta­


mente il lotto tempo e, per quanto belle siano, non se ne ca­
va che fieno morto, mentre noi con la nostra virtù di tanto
le superiamo e non cediamo loro per la grazia dell’aspetto,
giacché Dio ci ha creato a sua somiglianza e ci ha conces­
so il suo divino afflato. Oh, potessimo starcene qui per
sempre in questo paradiso e in questa innocenza ! Sì, amici
miei, mi sembra che siamo tutti nello stato dell’innocenza,
nobilitati da una conoscenza scevra di peccato; giacché
tutti noi, grazie a Dio, sappiamo però leggere e scrivere ed
abbiamo appreso un mestiere a noi adatto. Per molti lavo­
ri avrei abilità e disposizione, mi sentirei anzi capace di far
cose che la più erudita damigella non sa fare, se volessi an­
dare al di là del mio stato, ma modestia e umiltà sono le
prime virtù di una brava fanciulla e a me basta sapere che
il mio spirito non è senza valore e non viene disprezzato da
una superiore saggezza. Già molti mi hanno desiderata che
di me non erano degni, ed ora vedo tre degni scapoli rac­
colti insieme attorno a me, di cui ciascuno sarebbe egual­
mente meritevole di possedermi! Misurate da questo
quanto il mio cuore, pur nella singolare sovrabbondanza,
debba languire: prendete esempio da me e immaginate
che ciascuno di voi sia circondato da tre fanciulle di pari
merito che a lui aspirino e che appunto per ciò non gli sia
possibile decidersi per alcuna, né alcuna ottenere ! Rap­
presentatevi con tutta evidenza che intorno ad ognuno di
voi stiano tre giovani Bünzlin, sedute attorno a voi, tutte
vestite come lo sono io, e dello stesso volto, e che io sia in
certo modo qui, nove volte ripetuta, intenta a rimirarvi
da tutte le parti e a struggermi per voi! Ve lo imma­
ginate?».
I bravi giovanotti interruppero meravigliati la masti­
cazione e cercarono con facce imbambolate di risolvere
lo strano problema. Lo svevo ci arrivò per il primo ed
esclamò col volto eccitato:
— Masi, spettabilissima madamigella ! Se lei me lo vuol
benignamente concedere, io me la vedo non soltanto tri­
plicata, ma centuplicata girarmi attorno con occhi be­
nevoli ed offrirmi mille bacini !
I TRE PETTINAI 203

— Ma no ! — protestò Züs severamente — Non in ma­


niera così sconveniente ed esagerata! Che cosa le viene
in mente, o indiscreto Dietrich! Non vi ho permesso di
vedermi centuplicata ad offrir baci, ma soltanto in tre
copie per ognuno, e in aspetto pudico e rispettabile,
cosicché io non corra alcun rischio !
— Sì, — esclamò alla fine Jobst facendo segni all’in­
torno col picciolo di una pera rosicchiata — io vedo la
carissima signorina Biinzlin solo tre volte, e con grande
rispettabilità, che mi passeggia d’intorno e mi fa cenni
benevoli, appoggiandosi una mano sul cuore! La rin­
grazio, la ringrazio devotamente ! — aggiunse sorridendo
e inchinandosi in tre direzioni, come se veramente avesse
quella visione.
— Così va bene ! — disse Züs sorridendo, e riprese — Se
una differenza è possibile, siete voi, caro Jobst, il più in­
telligente, o almeno il più ragionevole !
Il bavarese Fridolin non era ancora arrivato alla sua
visione, ma sentendo far tante lodi a Jobst prese paura
ed esclamò in fretta:
— Vedo anch’io la diletta signorina Bünzlin triplicata,
che mi passeggia attorno molto rispettabilmente e mi fa
dei cenni voluttuosi mettendo la mano sul. . .
— Vergogna, bavarese ! — gridò Züs volgendo la fac­
cia — Non una parola di più ! Di dove trae lei il coraggio
di parlare di me con così smodate parole e di immaginare
simili porcherie? Vergogna, vergogna!
Il povero bavarese fu quasi còlto da un accidente e si
fece di fiamma, senza saperne la ragione, giacché non
aveva pensato un bel niente, ed aveva ripetuto soltanto
pressappoco, seguendo il suono delle parole, quanto ave­
va udito dire da Jobst, vedendolo lodato per quel suo di­
scorso. Züs tornò a volgersi a Dietrich dicendogli:
— Ebbene, caro Dietrich, non ci è riuscito finalmente
in modo più modesto?
— Sì, con vostra licenza, — replicò quello, felice che
gli rivolgesse di nuovo la parola — adesso la vedo solo
tre volte attorno a me, gentile e contegnosa, che mi guar­
da e mi offre tre mani bianche che io bacio !
204 LA GENTE DI SELDWYLA

— Benissimo ! — disse la Biinzlin — E lei, Fridolin?


Non è ancora uscito dalla sua aberrazione? Il suo san­
gue impetuoso non può placarsi in un’immagine decente?
— Domando perdono ! — disse Fridolin mortificato —
ora mi par di veder tre damigelle che mi offrono pere
secche e che non sembrano maldisposte verso di me. Una
è bella quanto l’altra e credo che scegliere tra loro sarà
un affar serio.
— Ebbene, — disse Züs— ora che nella vostra fantasia
siete circondati da tali nove meritevoli persone e pur fra
così graziosa abbondanza soffrite carestia nei vostri cuori,
provate da ciò a misurare il mio stato; e come vedeste
che io so dominarmi con saggio e modesto cuore, così
prendete esempio dalla mia forza e giurate a me ed a voi
stessi di rimanere concordi per l’avvenire, e di separarvi
come io amorevolmente da voi mi congedo, con altret­
tanto amore, comunque vorrà decidere la sorte che vi
attende! Stendete le vostre mani insieme qui sulla mia
mano e giurate !
— Davvero ! — esclamò Jobst — Lo voglio ben fare,
non mancherò!
E gli altri due si affrettarono ad aggiungere:
— E neppure io, certamente ! — e congiunsero le ma­
ni, mentre ciascuno però si riprometteva di correre a buon
conto quanto meglio avrebbe potuto.
— In verità non mancherò ! — ripetè Jobst — Io
del resto sono sempre stato sin dalla gioventù di in­
dole generosa e conciliante. Non ho mai avuto dispute e
non ho mai potuto veder soffrire una bestia; dovunque
sia stato, ho vissuto in pace e raccolto le migliori lodi per
la mia condotta tranquilla ; benché me ne intenda un po­
chino di tante cose e sia un uomo ragionevole, non si vide
mai che io mi impicciassi in cose che non mi riguardava­
no, mentre ho sempre adempiuto al mio dovere con molta
prudenza. Posso lavorare quanto voglio senza che mi fac­
cia male, giacché sono sano e robusto e nel fiore dell’età !
Tutte le mogli dei miei padroni han detto sempre che io
sono un prodigio, un portento, che con me c’era sempre
da andar d’accordo ! Ah ! sono io stesso persuaso che con
I TRE PETTINAI 205

lei, diletta madamigella Züs, vivrei come in paradiso!


— Oh ! — intervenne con zelo il bavarese — lo credo
bene, e non sarebbe gran merito vivere con la signorina
come in paradiso ! Ci riuscirei anch’io, perchè non sono
mica uno stupido! Il mio mestiere lo conosco a fondo
e so tener le cose in ordine senza far parole inutili.
Non ho mai avuto brighe, pur lavorando in grandi città,
non ho mai picchiato un gatto né ucciso un ragno. Sono
parco e morigerato e contento di ogni cibo e so divertirmi
con pochissimo ed esserne sempre soddisfatto. Sono an­
che sano e vispo e molto resistente, poiché una coscienza
tranquilla è il migliore elisir di lunga vita ; tutte le bestie
mi voglion bene e mi corron dietro, sentendo che ho la
coscienza a posto, giacché esse non amano invece vivere
con un uomo ingiusto. Un barbone una volta mi ha se­
guito per tre giorni quando uscii dalla città di Ulm, e fui
costretto ad affidarlo poi ad un contadino perché da po­
vero artigiano non ero in grado di nutrire una bestia si­
mile, e quando attraversai la foresta di Boemia i cervi e i
caprioli si fermavano a venti passi senza paura. È strano
come anche gli animali selvatici riconoscano gli uomini e
sappiano chi ha buon cuore !
— Certo, dev’esser vero ! — esclamò lo svevo — Non
vedete quel fringuello che già da un pezzo mi va svolaz­
zando intorno e cerca di awicinarmisi? E quello scoiat-
tolino là sull’abete si volta di continuo a guardarmi e qui
c’è un maggiolino che mi si arrampica su per la gamba
e non si lascia staccare. Evidentemente sta bene qui con
me quella cara bestiolina !
Ma a questo punto si svegliò la gelosia di Züs, che disse
un po’ piccata:
— Ma da me vogliono rimanere tutte le bestie ! Ho
avuto un uccello per otto anni e gli dispiacque molto di
lasciarmi quando mori ; il nostro gatto mi corre dietro do­
vunque io vada, e le colombe del vicino s’affollano a bi­
sticciarsi davanti alla mia finestra quando do loro briciole
di pane ogni mattina ! Singolari doti hanno le bestie, a se­
conda della loro specie ! Il leone segue volentieri i sovrani e
gli eroi, mentre l’elefante accompagna il principe e il vaio-
2o6 LA GENTE DI SELDWYLA

roso guerriero; il cammello porta il mercante attraverso il


deserto, conservando l’acqua fresca nella sua pancia, e il
cane accompagna il padrone attraverso ogni pericolo e si
precipita per lui anche in mare ! Il delfino ama la musica
e tien dietro ai bastimenti, l’aquila segue gli eserciti. La
scimmia è una creatura simile agli uomini che imita tutto
quanto vede fare da questi, mentre il pappagallo com­
prende la nostra lingua e chiacchiera con noi come un
vecchio ! Persino i serpenti si lasciano domare e danzano
sulla punta della loro coda; il coccodrillo piange lagrime
umane e viene dai cittadini di quel paese stimato e ri­
sparmiato; lo struzzo si lascia sellare e cavalcare come
un destriero, il bufalo selvaggio trascina il carro dell’uo­
mo e la renna cornuta le sue slitte. Il liocorno gli fornisce
il candido avorio e la tartaruga le sue ossa trasparenti. . .
— Con permesso, — interruppero in coro i tre petti­
nai — in questo certamente lei si sbaglia: l’avorio lo si
trae dai denti degli elefanti e i pettini di tartaruga si
fanno non con le ossa, ma con il guscio della bestia !
Züs si fece di fiamma e disse :
— Non si tratta di questo, giacché voi non avete certo
veduto di dove lo si prenda, ma lavorate soltanto i pezzi :
è raro che io mi sbagli, ma ad ogni modo lasciatemi finire :
non soltanto gli animali hanno strane caratteristiche loro
imposte da Dio, ma persino le morte pietre che si estrag­
gono dalle montagne. Il cristallo è trasparente come ve­
tro, il marmo invece duro e venato, ora bianco e ora
nero; l’ambra ha proprietà elettriche e attira il fulmine
ma poi brucia ed emana odore d’incenso. La calamita
attira il ferro, sulle tavole di ardesia si può scrivere, ma
non sul diamante perché questo è duro come acciaio;
lo adopera infatti il vetraio per tagliare i vetri, perché è
piccolo e aguzzo. Voi vedete, cari amici, che io pure
so dirvi qualcosa degli animali ! Ma quanto ai miei rap­
porti con loro vi è da osservare : il gatto è una bestia scal­
tra e astuta che ama perciò soltanto la gente scaltra
e astuta; la colomba è simbolo di semplicità e inno­
cenza e può sentirsi attratta soltanto da anime semplici
e innocenti. Dato che sia i gatti che le colombe mi ama­
I TRE PETTINAI 207

no, ne deriva che io sono saggia e semplice, scaltra e nello


stesso tempo innocente, come sta scritto infatti: Siate
astuti come serpenti e semplici come colombe ! In questo
modo noi ben possiamo degnamente apprezzare gli ani­
mali e i loro rapporti con noi e impararne molte cose, se
sappiamo bene osservarli.
I poveri pettinai non osarono pronunciar più parola ;
Ziis li aveva sgominati e continuava ad esporre le sue idee
altisonanti, così da lasciarli intontiti. Tuttavia essi am­
miravano l’ingegno e l’eloquenza della fanciulla e in
tale ammirazione ognuno credeva di poter aspirare al
possesso di quella gemma, tanto più che tale ornamento
di una casa costava tanto poco e consisteva soltanto in una
lingua sempre in moto. Simili allocchi in fondo non si
chiedono affatto, o solo all’ultimo, se son meritevoli di
quel che apprezzano e se saprebbero servirsene, ma so­
migliano ai bambini che vogliono afferrare tutto quanto
luccica, leccare i colori di ogni oggetto variopinto e
mettersi in bocca un intero sonaglio, invece di avvici­
narlo soltanto alle orecchie. A quel modo essi sempre più
si eccitavano nella fantasia e nel desiderio di conquistare
quell’eccezionale persona, e quanto più le assurde frasi
della Bünzlin si facevano vacue, aride e vanitose, tanto più
commossi e depressi erano i tre pettinai. In pari tempo la
frutta secca mangiata aveva loro riarso la gola: Jobst e il
bavarese andarono a cercare acqua nel bosco, e trovata
una sorgente si riempirono di acqua fredda. Lo svevo in­
vece aveva astutamente portata con sé una borraccia di
acquavite di ciliegie allungata con acqua e zucchero, gra­
devole bevanda destinata a dargli forza e vantaggio nella
corsa, giacché sapeva che gli altri erano troppo parsimo­
niosi per portar qualcosa o entrare in un’osteria. Mentre
quelli dunque si gonfiavano d’acqua, egli trasse fuori la
sua grappa e ne offrì alla signorina Züs. Questa gliene bev­
ve metà, e tanto le piacque e la ristorò che gettò a Dietrich
leggiadre occhiate di traverso, facendogli sembrare il ri­
manente gustoso al pari di vin di Cipro. Sentendosi molto
rinvigorito non potè trattenersi dall’afferrare la mano di
Züs e dal baciarle graziosamente la punta delle dita;
2o8 LA GENTE DI SELDWYLA

essa gli diede sulle labbra un buffetto con l’indice ed egli


finse di volerlo mordere, spalancando la bocca come una
carpa sorridente; la ragazza fece una smorfietta falsa e
gentile, Dietrich un’altra furba e dolciastra; eran seduti
a terra l’uno di fronte all’altra e di tanto in tanto si sfiora­
vano con le suole delle scarpe, come volessero darsi la ma­
no coi piedi. Ziis si chinò un poco verso di lui, appoggian­
dogli la mano sulla spalla, e Dietrich volle ricambiare quel
bel giuoco e anche continuarlo, quando riapparvero, pal­
lidi e gementi, il sassone col bavarese. La troppa acqua
versata sulle pere secche li aveva fatti star male di colpo e
il corruccio che provarono vedendo la coppia intenta a
vezzeggiarsi, unito al grave malessere del ventre, fece im­
perlare le loro fronti di sudor freddo. Züs però non si scom­
pose ed anzi li chiamò con un cenno gentile, esclamando:
«Venite, carissimi, sedetevi ancora un pochino qua vici­
no a me, cosicché si possa godere un altro poco e per l’ulti­
ma volta la nostra amichevole concordia ! ». Jobst e Fri­
dolin s’accostarono di furia stendendo anch’essi le gambe;
Züs lasciò una mano allo svevo, diede l’altra a Jobst e coi
piedi sfiorò le suole degli stivali di Fridolin, mentre la fac­
cia distribuiva sorrisi l’un dopo l’altro. Vi sono allo stesso
modo dei virtuosi capaci di suonare parecchi strumenti in
una volta : scuotono per esempio una sonagliera con la te­
sta, soffiano nell’ocarina con la bocca, grattano la chitarra
con le mani, battono i piatti con le ginocchia, fan tintinna­
re il triangolo col piede e picchiano con i gomiti il tam­
buro appeso alle spalle.
Ma d’un tratto la donna si alzò da terra, rassettò la
veste che prima aveva già accuratamente rialzata, e disse :
«È venuto il momento, cari amici, di porci in cammino
perché vi accingiate a quella seria prova che il vostro
padrone, nella sua stoltezza, vi ha imposta, ma che noi
consideriamo predestinata da un fato superiore ! Avviatevi
per quella strada pieni di santo zelo, ma senza ostilità o in­
vidia reciproca, pronti a concedere di buon animo la co­
rona al vincitore!».
I tre compagni balzarono in piedi come punti da una
vespa. Eccoli lì costretti ad una gara di corsa con quelle
I TRE PETTINAI 209

loro brave gambe, che sino ad allora avevano sempre


camminato a passo giudizioso e rispettabile ! Nessuno
riusciva a ricordarsi di aver mai fatto corse o salti; il
più fiducioso sembrava lo svevo, che cominciò addirittura
a razzolare lievemente e ad agitare i piedi impaziente.
Si lanciavano occhiate strane e sospettose, erano pallidi
e sudavano come se già corressero disperatamente.
— Datevi ancora una volta la mano ! — comandò
Züs, ed essi lo fecero, ma così di malavoglia e pigramente,
che le tre mani si staccarono freddamente e caddero come
fossero di piombo.
— Dobbiamo proprio cominciare la stolida gara? —
domandò Jobst asciugandosi gli occhi che volevano lagri-
mare.
— Già, — aggiunse il bavarese — dobbiamo proprio
metterci a correre e saltare? — e scoppiò a piangere.
— E lei, carissima damigella Bünzlin, — disse Jobst sin­
ghiozzando — che cosa farà lei?
— A me si conviene, — replicò quella avvicinando il
fazzoletto agli occhi — a me si conviene tacere, soffrire e
guardare !
Lo svevo aggiunse, cortese ma malizioso:
— Ma poi, signorina Züs?
— Oh Dietrich ! — replicò lei dolcemente — Non sa­
pete che la sentenza del destino è la voce del cuore? —
e così dicendo gli scoccò un’occhiata di traverso che gli
fece venir voglia di partire subito al trotto. Mentre i
due rivali mettevano in ordine i carrelli col bagaglio e
Dietrich faceva la stessa cosa, essa più volte lo sfiorò col
gomito o gli pigiò un piede; poi spolverò il suo cappello,
ma nello stesso tempo si voltò verso gli altri in modo da
non esser veduta da lui e sorrise loro come se prendesse a
gabbo lo svevo. Tutti e tre a quel punto gonfiarono le gote
mandando gran sospiri. Si guardarono intorno in tutte le
direzioni, si tolsero i cappelli, si asciugarono il sudore
dalla fronte, ricacciarono i ciuffi appiccicati e tornarono a
mettere i loro copricapi. Poi si guardarono ancora una
volta attorno cercando di prender fiato. Züs aveva pietà di
loro ed era commossa al punto di piangere essa stessa.
210 LA GENTE DI SELDWYLA

— Ecco ancora tre prugne secche, — disse — pren­


detene una in bocca, e tenetecela per ristoro! Ed ora
partite e trasformate la stoltezza dei malvagi in saggezza
dei giusti ! Quel che essi hanno escogitato per scherno
voi trasformerete in una edificante opera di purificazione,
nella ingegnosa conclusione di una lunga e tenace gara
di virtù ! — Ficcò ad ognuno la prugna in bocca, ed essi
si misero a succhiarla.
, Jobst si premette la mano sullo stomaco esclamando:
— Se così dev’essere andiamo, in nome di Dio ! — E
d’un tratto, alzando il bastone, cominciò a marciare
energicamente con le ginocchia molto piegate, trascinan­
dosi dietro il suo bagaglio. Appena Fridolin vide questo,
lo seguì a lunghi passi, e i due, senza più guardarsi attor­
no, s’awiarono con discreta velocità giù per la strada. Lo
svevo fu l’ultimo a muoversi, e camminò con faccia fur­
bescamente allegra, ostentando grande calma, accanto a
Züs, come fosse sicuro del fatto suo e volesse lasciare un
vantaggio ai due compagni. Züs lodò la sua cortese im­
passibilità e lo prese confidenzialmente sotto braccio di­
cendogli con un sospiro :
— È pur bello avere un saldo appoggio nella vita !
Anche se si ha sufficiente ingegno e si procede con sag­
gezza e prudenza, per la via della virtù, quello stesso
cammino è ben più gradevole al braccio fidato di un
amico !
— Diavolo, si capisce, lo dico bene anch’io ! — replicò
Dietrich ficcandole il gomito nel fianco e guardando in­
tanto se i suoi avversari non guadagnassero un vantaggio
eccessivo — Lo vede, egregia signorina, conosce final­
mente i suoi polli?
— Oh, Dietrich, caro Dietrich, — riprese lei con un
sospiro ancor più profondo — spesso mi sento proprio
sola !
— Evviva, così deve essere ! — gridò lui sentendosi il
cuore balzare in petto come un leprottino tra i cavoli.
— Oh, Dietrich ! — ripetè la donna stringendosi ancor
più a lui. Egli si sentì soffocare e il cuore gli voleva
scoppiare dalla gioia, però in pari tempo s’accorse di non
I TRE PETTINAI 211

scorgere più i due già spariti oltre la svolta. Cercò di strap­


parsi dalle braccia di Züs per inseguirli, ma quella lo
serrava così saldo che non ci riuscì, anzi gli si aggrappava
addosso come se svenisse.
— Dietrich ! — mormorò stralunando gli occhi —
Non mi lasci sola, io confido in lei, mi sorregga !
— In nome di tutti i diavoli, mi lasci andare, signorina !
gridò lui spaventato — altrimenti arrivo tardi e allora è
finita !
— No, no ! non mi deve lasciare, sento che mi vien
male ! — gemeva l’altra.
— Male o non male ! — gridò il compagno strappan­
dosi a forza; balzò su un’altura, si guardò attorno e scorse
i due corridori che scendevano in volata molto lontano.
Si dispose a balzare avanti, ma prima lanciò un’ultima
occhiata a Züs, e vide che essa lo chiamava con cenni
allettanti seduta all’inizio di uno stretto sentierino om­
broso. A quella vista non seppe resistere, e invece che giù
per la china, corse di nuovo da lei. Vedendolo venire, ella
s’alzò e si addentrò nel bosco, sempre voltandosi a guar­
darlo, col proposito di impedirgli in tutti i modi la corsa,
trattenendolo in maniera da farlo giungere troppo tardi,
perché non potesse restare a Seldwyla.
L’ingegnoso svevo però in quello stesso momento mutò
pensiero e si propose di conquistare la sua vittoria lassù,
e così fu che le cose si svolsero ben diversamente da quanto
l’astuta damigella aveva sperato. Appena Dietrich l’ebbe
raggiunta e si trovò solo con lei in un posticino recondito,
le cadde ai piedi investendola con le più ardenti dichia­
razioni d’amore che mai un pettinaio abbia fatto. Dap­
prima essa cercò di calmarlo senza respingerlo e di fargli
perdere tempo coi buoni modi, sfoggiando la sua saggezza
e le sue grazie. Ma quello invocò il cielo e l’inferno con
magiche parole suggeritegli dal suo spirito intraprendente
già eccitato e commosso, la colmò di tenerezze d’ogni
genere, cercando di impadronirsi ora delle sue mani e ora
dei suoi piedi, lodando ed esaltando il corpo e l’anima e
tutto quanto era in lei, così da fare impallidire il sole, e
poiché per di più la natura e il bosco li circondavano
212 LA GENTE DI SELDWYLA

con tanto silenzio gentile, Züs finì per perdere la bussola.


In fondo era una creatura i cui pensieri non andavano più
in là dei suoi sensi ; il cuore le si agitò inerme e impaurito
come un povero maggiolino rovesciato sul dorso e Dietrich
la vinse su tutta la linea. Essa l’aveva attirato nel boschet­
to per tradirlo, ma fu in un momento conquistata dal
piccolo svevo, né ciò accadde perché fosse particolarmente
innamorata, ma perché la sua mente limitata, malgrado
la presunta saggezza, non le permetteva di vedere al di là
del proprio naso. Rimasero senz’annoiarsi in quella so­
litudine abbracciandosi e baciandosi mille volte. Si giu­
rarono eterna fedeltà e con tutta sincerità decisero di spo­
sarsi ad ogni costo.
Nel frattempo in città s’era diffusa la notizia della stra­
na gara dei tre lavoranti ed era stato il maestro pettinaio
medesimo a render nota la cosa per proprio divertimento.
I Seldwylesi si compiacevano dello spettacolo imprevisto
ed erano ansiosi di veder correre e arrivare con loro spasso
gli austeri e impeccabili pettinai. Una gran folla s’awiò
verso la porta della città e si dispose ai due lati dello stra­
done, come quando si attende un corridore. I ragazzi s’ar­
rampicarono sugli alberi, i vecchi e gli anziani sedettero
sull’erba fumando la pipa, soddisfatti che si offrisse loro un
divertimento così a buon mercato. Si erano mossi persino i
signori del luogo, per non mancare allo scherzo, e sede­
vano in ameni conversari nei giardinetti e sotto le pergole
delle osterie imbastendo una quantità di scommesse. Nelle
strade per le quali dovevano passare i corridori tutte le
finestre erano aperte, le donne avevano esposto cuscini
bianchi e rossi a quelle dei salotti per appoggiarvi le brac­
cia e ricevevano numerose visite; si erano così improv­
visate liete brigate e le servette erano affaccendate a ser­
vire il caffè con paste e biscotti. In quel momento i ra­
gazzi saliti sugli alberi più alti fuori porta videro avvi­
cinarsi una nuvoletta di polvere e cominciarono a gri­
dare: «Arrivano, arrivano!». Non passò gran tempo
ed ecco che Fridolin e Jobst arrivarono davvero, rapidi
come l’uragano, sollevando in mezzo alla strada una gran
nuvola di polvere. Con una mano trascinavano i carret­
I TRE PETTINAI 213

tini sobbalzanti pazzamente sulle pietre, con l’altra te­


nevano fermi i cappelli ricacciati verso la nuca, mentre
le falde delle loro giubbe svolazzavano a gara al vento.
Erano ambedue coperti di sudore e di polvere, con la
bocca spalancata e ansimante, non vedevano né udivano
più nulla di quanto li circondava e grosse lagrime roto­
lavano sulle guance dei poveracci che non avevano tempo
di asciugarle. Si stavano proprio alle calcagna, ma il bava­
rese aveva una spanna di vantaggio. Al loro apparire si le­
vò ed echeggiò uno spaventoso coro di urla e di risate. Tut­
ti balzarono in piedi affollandosi verso la strada e da tutte
le parti si gridava: «Benone ! Benone ! Correte ! Tieni du­
ro, sassone ! Coraggio bavarese ! Uno ha già rinunciato,
non ce ne sono che due !». I signori nei giardini salirono
sui tavoli, squassati dalle risa. E le risate echeggiarono co­
me il tuono al di sopra dello smodato vocio della folla ac­
campata sulla strada e diede il via ad una giornata di fe­
sta inaudita. I monelli e la plebaglia si confusero in un’u­
nica disordinata colonna dietro i due poveri lavoranti, su­
scitando un’immensa nuvola che procedette con loro sin
verso la porta; persino donne e ragazze s’unirono alla
corsa, mischiando le loro vocette stridule agli strilli dei
maschi. Già erano in vicinanza della porta, le cui torrette
erano gremite di curiosi che agitavano i berretti; i due
correvano come cavalli impazziti, col cuore pieno d’an­
goscia e di tormento, ma un monello balzò come uno
gnomo sul carrettino di Jobst, facendosi trascinare tra gli
applausi della folla. Jobst si voltò e lo scongiurò di scen­
dere, tentando anche di colpirlo col bastone, ma il bir­
bante s’abbassò svelto facendogli boccacce. Intanto Fri­
dolin guadagnò maggior vantaggio, e Jobst accorgendo­
sene gli gettò il bastone fra i piedi e lo fece cadere. Mentre
questi cercava di balzare avanti, il bavarese lo afferrò per
le falde della giubba, tirandosi così in piedi; Jobst lo
pestò sulle mani strillando : « Lasciami, lasciami ! », ma
quello non mollava e Jobst allora afferrò a sua volta le
falde dell’altro e così, tenendosi stretti a vicenda e sempre
rigirandosi s’avvicinavano lentamente alla porta, tentan­
do di tanto in tanto un salto per svincolarsi. Piangevano,
214 LA GENTE DI SELDWYLA

singhiozzavano e gemevano come bambini e andavano


gridando con indicibile angoscia: «Oh Dio! Lasciami!
Oh, Gesù benedetto, lasciami, Jobst ! Via, Fridolin ! Vat­
tene, Satana ! » e intanto si davano gran colpi sulle mani,
e riuscivano in qualche modo ad avanzare un poco. Ave­
vano perduto cappelli e bastoni che due monelli portava­
no gli uni infilati sugli altri, e tutt’attorno si assiepava e
procedeva la folla urlante. Le finestre erano gremite di
donne che riversavano le loro risate argentine sulle onde
tempestose della folla: da molto tempo non c’era stata si­
mile allegria in città. Il chiassoso spettacolo tanto piaceva
ai Seldwylesi, che nessuno mostrò ai due campioni la me­
ta, cioè la casa del pettinalo alla quale finalmente erano
giunti. I poverini non la videro, essi non vedevano più
nulla, così che il pazzo corteo si trascinò per tutta la citta­
dina uscendo per la porta opposta. Il padrone era rimasto
ad aspettarli ridendo sotto la sua finestra, e dopo avere at­
teso per un’oretta il vincitore, stava appunto per andarse­
ne a godere i frutti della sua bella trovata, quando entra­
rono in casa sua, tranquilli e inattesi, Dietrich e Züs.
I due infatti nel frattempo avevano raccolto le loro idee
e si erano detti che certo il padrone del laboratorio, non
potendo tirar avanti ancora a lungo, non sarebbe stato
alieno dal vendere la sua azienda per una somma in con­
tanti. Züs voleva dare la sua cartella e lo svevo i suoi po­
chi soldi, col che sarebbero stati signori della situazione e
avrebbero potuto ridere dei due colleghi. Esposero il loro
disegno al maestro stupito, ma questi si compiacque subi­
to all’idea di concludere l’affare alla svelta, alle spalle dei
suoi creditori, prima di arrivare ad una crisi, appro­
priandosi cioè insperatamente della somma in contanti.
Tutto fu rapidamente stabilito, e prima che calasse il sole
madamigella Bünzlin era la legittima proprietaria della
fabbrica di pettini e il suo fidanzato locatario della casa
in cui essa aveva sede. A quel modo Züs, senza che lo
avesse supposto al mattino, fu finalmente conquistata e
legata dall’energia del giovane svevo.
Jobst e Fridolin giacevano mezzo morti di vergogna, di
stanchezza e di rabbia nell’osteria dove li avevano ri­
I TRE PETTINAI 215

coverati dopo che alla fine eran caduti a terra, ancora


stretti in un groviglio. Tutta la città, ormai eccitata, aveva
già dimenticato la prima ragione della festa, pur prolun­
gandola l’intera notte. In molte case si ballò e nelle oste­
rie si bevve e si cantò come nelle maggiori ricorrenze seld-
wylesi; giacché a Seldwyla non occorreva molto per creare
con maestria un grandioso divertimento. Quando i due
poveri diavoli videro che la loro bravura, con la quale
s’erano illusi di sfruttare la follia del mondo, aveva inve­
ce servito soltanto a farla trionfare e a renderli oggetto
dello scherno generale, ne ebbero il cuore spezzato: essi
infatti vedevano fallito e annientato il saggio piano di
molti anni, non solo, ma perdevano insieme la fama di
persone giudiziose, rette e tranquille.
Jobst, il più anziano, che aveva vissuto sette anni a
Seldwyla, si sentì completamente perduto e non seppe tro­
vare via d’uscita. Prima dell’alba, immerso in profonda
tristezza, andò fuori di città e si impiccò ad un albero,
proprio dove il giorno avanti s’eran seduti tutti insieme.
Quando il bavarese, un’ora più tardi, passò di lì e lo vide,
fu còlto da tale orrore, che si mise a fuggire come impaz­
zito : mutò completamente la propria indole e, a quel che
si seppe poi, diventò un uomo dissoluto e un vecchio
operaio vagabondo e misantropo.
Soltanto Dietrich, lo svevo, rimase uomo giusto e si
tenne a galla nella cittadina. Non ne trasse però una
gran gioia, giacché Zùs non gliene lasciò mai il merito,
ma lo dominò e lo oppresse sempre, considerando se stessa
quale unica sorgente di ogni bene.
SPECCHIETTO IL GATTINO
FIABA

Quando un seldwylese ha concluso un affare gramo o è


stato imbrogliato, a Seldwyla dicono: «Ha comprato il
grasso al gatto!». Questo proverbio è in uso anche al­
trove, ma in nessun posto lo si sente tanto spesso come là,
il che forse deriva dal fatto che in quella città esiste una
leggenda sull’origine e il significato di tale detto.
Or sono parecchi secoli, si racconta, viveva sola a Seld­
wyla una donna attempata con un bel gattino grigio e
nero, che stava con lei in tutta saggezza e allegria, senza
far male a nessuno che lo lasciasse in pace. La sua unica
passione era la caccia, ma la soddisfaceva con misura e
con giudizio, senza lasciarsi sedurre dalla circostanza che
quella passione aveva pure un utile fine e ben piaceva alla
sua padrona, né lasciarsi troppo trascinare alla crudeltà.
Acchiappava e uccideva quindi soltanto i topi più sfac­
ciati e importuni, che si facevano cogliere in una data
zona della casa, e quelli con sicura abilità: solo di rado,
invece, inseguiva un topo specialmente scaltro, che avesse
eccitata la sua ira, oltre quella cerchia, e in tal caso in­
vocava con molta cortesia dai signori vicini la licenza di
caccia nelle loro case, il che gli veniva volentieri concesso,
poiché Specchietto lasciava in pace i bricchi del latte,
non s’arrampicava su per i prosciutti che eventualmente
pendessero alle pareti, ma si dedicava tranquillo e at­
tento al suo lavoro e appena finito s’allontanava com­
posto col suo topolino in bocca. Il gattino non era poi
né timido né sgarbato, ma anzi gioviale con tutti, e non
rifuggiva dalle persone ragionevoli, anzi da queste tol­
lerava uno scherzo e si lasciava persino tirare un pochino
le orecchie senza graffiare. Non sopportava invece la
minima confidenza da quel tipo di gente sciocca la cui
stupidaggine, come egli affermava, derivava da un cuore
arido e vuoto : la evitava, oppure, se lo molestavano con
goffaggine, tirava una buona zampata.
Specchietto, tale era il nome del gattino per il suo pelo
SPECCHIETTO IL GATTINO 217

liscio e lucente, viveva i suoi giorni grazioso e contem­


plativo, in decorosa agiatezza e senza superbia. Non sa­
liva troppo spesso sulla spalla della sua gentile padrona
per ghermirle i bocconi dalla forchetta, ma soltanto quan­
do s’accorgeva che era disposta al gioco ; durante la gior­
nata ben di rado dormiva o giaceva sul suo cuscino caldo
dietro la stufa, preferendo tenersi desto e star piuttosto
sulla stretta balaustrata delle scale o nella gronda, ab­
bandonandosi a filosofiche considerazioni e all’osser­
vazione del mondo. Soltanto ogni primavera e ogni au­
tunno quella tranquilla esistenza s’interrompeva per una
settimana, quando fiorivano le viole o i miti calori del­
l’estate di San Martino scimmiottavano il tempo delle
viole. Allora Specchietto andava per conto suo, vagabon­
dava con innamorato entusiasmo su per i tetti più remoti
e cantava i suoi canti più belli. Notte e giorno, da vero
Don Giovanni, affrontava le più scabrose avventure, e se
per eccezione si lasciava vedere un momento a casa, ci
veniva con un aspetto tanto temerario e goliardico, anzi
dissoluto e arruffato, che la sua tranquilla padrona gli
gridava quasi adirata: «Ma Specchietto! Non ti ver­
gogni di condurre una vita simile?». Chi non si vergo­
gnava era proprio Specchietto ! Da uomo di princìpi, ben
conscio di quel che gli fosse lecito concedersi per benefica
variazione, si dedicava con tutta calma a ristabilire la lu­
centezza del suo pelo e l’innocente serenità del suo aspetto,
e si passava le zampine umide sul naso, impassibile come
se nulla fosse accaduto.
Quella vita regolare fu però bruscamente troncata.
Proprio quando il micio Specchietto era nel fiore dei suoi
anni, la padrona morì inaspettatamente di debolezza se­
nile, lasciando il bel gattino orfano e abbandonato. Fu la
prima sventura che gli toccasse, ed egli accompagnò la ba­
ra fin sulla strada con quei lamenti laceranti che esprimo­
no l’angoscioso dubbio circa la causa reale e legittima di
un grande dolore, e s’aggirò poi smarrito per il resto della
giornata dentro e fuori della casa. Tuttavia la sua buona
indole, la sua ragione e la sua filosofia gli imposero ben
presto di farsi animo, di sopportare l’irrevocabile e di di­
2 l8 LA GENTE DI SELDWYLA

mostrare la sua grata devozione alla casa della morta pa­


drona offrendo i suoi servigi agli allegri eredi, e apprestan­
dosi ad assisterli col consiglio e con l’azione, tenendo in
iscacco i topi e facendo loro più d’una saggia comunica­
zione, che gli stolti non avrebbero disprezzata, se non fos­
sero stati appunto uomini irragionevoli. Ma quella gente
non permise al micio di dire una parola: gli lanciavano
sulla testa pantofole e il grazioso sgabellino della povera
morta appena si faceva vedere. Dopo otto giorni di grandi
liti fra loro, iniziarono un processo per l’eredità, e chiu­
sero sino a nuovo ordine la casa, nella quale non abitò, co­
sì, più nessuno.
II povero Specchietto se ne stava ora triste e abban­
donato sul gradino di pietra dinanzi alla porta e non
aveva nessuno che gli aprisse. Di notte arrivava per vie
traverse fin sotto il tetto della casa, e da principio vi si
tenne nascosto anche una buona parte del giorno, cer­
cando di far passare i crucci dormendo; ma la fame lo
riportò ben presto alla luce e lo costrinse a ricomparire
al caldo sole e tra la gente, per esser pronto là ove si of­
frisse un boccone di qualunque cibo. Quanto più di rado
ciò succedeva, tanto più attento si fece il bravo Spec­
chietto, e in tale preoccupazione andarono perdute tutte
le sue doti morali, tanto che ben presto non assomigliò
più a se stesso. Faceva gite numerose dalla porta della sua
casa, attraversando la strada rapido e impaurito, per
ritornare talvolta con in bocca un pezzetto di robaccia
ripugnante che in passato neppure avrebbe guardato, e
talvolta addirittura con niente. Di giorno in giorno di­
ventò più magro e arruffato, e insieme ingordo, stri­
sciante e codardo. Tutto il suo coraggio, la sua bella di­
gnità felina, la sua ragione e la sua filosofìa erano morti.
All’uscita dei ragazzi dalla scuola, appena li sentiva ve­
nire, si nascondeva in un cantuccio, spiando se nessuno
di loro gettava una crosta di pane e notando subito
il posto ove era caduta. Se arrivava di lontano anche
il più brutto botolo, balzava via, mentre prima aveva
guardato impassibile il pericolo in faccia e non di rado
aveva dato una lezione a cani prepotenti. Solo quando
SPECCHIETTO IL GATTINO 219

passava un uomo rozzo e goffo, uno di quelli che un tem­


po usava saggiamente scansare, rimaneva al suo posto,
benché il povero gattino, con l’ultimo residuo della sua
esperienza umana, riconoscesse in lui il briccone; ma la
necessità costringeva Specchietto all’illusione e alla spe­
ranza che quel malvagio eccezionalmente lo avrebbe ac­
carezzato e gli avrebbe offerto del cibo. Anche se veniva
invece picchiato e tirato per la coda, non graffiava, ma si
rannicchiava silenzioso in un angolo voltandosi ancora a
guardare desideroso la mano che l’aveva pizzicato o col­
pito, ma che odorava di salsiccia o di aringa.
Quando già il nobile e saggio Specchietto era decaduto
a tal punto, se ne stava un giorno magrissimo e triste su
una pietra ammiccando al sole. Passò di lì lo stregone ci­
vico Pineis, vide il micio e gli si fermò dinanzi. Sperando
in qualcosa di buono, benché conoscesse l’uomo miste­
rioso, Specchietto rimase umilmènte sulla sua pietra, in
attesa di quel che il signor Pineis avrebbe detto o fatto.
Ma quando questi lo apostrofò:
— Orsù, gatto ! Vuoi che compri il tuo grasso? — per­
dette ogni speranza, persuaso che lo stregone volesse scher­
nirlo per la sua magrezza. Tuttavia replicò modesto e sor­
ridente, per non guastarsi con nessuno:
— Oh, al signor Pineis piace scherzare !
— Niente affatto, — esclamò Pineis — parlo con tutta
serietà ! Ho bisogno di grasso di gatto per le mie strego­
nerie, ma deve essermi ceduto spontaneamente e per
contratto dagli egregi signori gatti, altrimenti è inefficace.
Mi pare che se mai un bravo gattino fu in condizione di
concludere un affare vantaggioso, quello sei tu ! Vieni al
mio servizio: io ti manterrò da signore, ti farò grasso e
tondo con salsiccette e quaglie arrosto. Sull’antico tetto
della mia casa, di inaudita altezza, il quale tra parentesi
è anche uno dei più deliziosi tetti del mondo per un gatto,
pieno di angoli e di zone interessanti, cresce sulle cuspidi
più soleggiate un’eccellente erba aguzza, verde come
smeraldo, che ondeggia esile e sottile al vento, invitan­
doti a gustarne le tenere punte quando le mie leccornie
t’avessero procurato qualche leggera indigestione. Così
220 LA GENTE DI SELDWYLA

rimarrai in ottima salute e mi fornirai un giorno grasso


sostanzioso e adatto!
Specchietto aveva già da un po’ aguzzato le orecchie,
ascoltando con l’acquolina in bocca, ma alla sua intel­
ligenza un po’ indebolita la faccenda non riusciva chiara,
ed egli quindi replicò :
— Non sarebbe certo male tutto questo, signor Pineis !
Sapessi soltanto come potrò poi incassare e godere il
prezzo pattuito, se, per cedervi il mio grasso, dovrò ri­
metterci la vita, e non ci sarò più?
— Incassare il prezzo? — disse lo stregone con stu­
pore — Ma lo godi già con i cibi abbondanti e sontuosi
con cui ti ingrasso, è ben chiaro! Non voglio del resto
costringerti all’affare ! — e fece l’atto di andarsene. Ma
Specchietto lo trattenne con ansia frettolosa:
— Dovreste concedermi almeno un ragionevole lasso
di tempo oltre il momento della massima rotondità rag­
giunta, in modo che non me ne debba andare così di
colpo, quando tale istante così gradevole e purtroppo
così triste sarà arrivato e constatato.
— Sia pure ! — disse il signor Pineis con apparente
bonarietà — Potrai godere il tuo piacevole stato sino al
successivo plenilunio, ma non oltre! Non dobbiamo en­
trare in luna calante, perché il suo influsso diminuirebbe
l’efficacia del mio legittimo possesso.
Il gattino s’affrettò ad accettare e a sottoscrivere il
contratto che lo stregone aveva con sé, con la sua decisa
scrittura, ultimo residuo e indice di giorni migliori.
— Puoi venire da me per il pranzo, gatto, — disse lo
stregone — si mangia alle dodici in punto.
— Ci verrò, con vostra licenza ! — disse Specchietto e
a mezzodì si recò infatti puntualmente dal signor Pineis.
Là iniziarono alcuni mesi di vita veramente deliziosa
per il gattino, il quale non aveva da fare altro al mondo
che mangiare le buone cose che gli offrivano, guardare il
padrone intento alle sue stregonerie quando gli era per­
messo e passeggiare sul tetto. Questo assomigliava ad un
enorme «spartinebbia» nero o a un cappello a tre tubi,
come son detti i cappelloni dei contadini svevi, e, come un
SPECCHIETTO IL GATTINO 22 1

simile copricapo ombreggia un cervello pieno di simula­


zioni e di capricci, cosi quel tetto ricopriva una grande
casa fosca e bizzarra, colma di stregonerie e di incante­
simi. Il signor Pineis era un factotum che teneva cento uf­
fici: curava la gente, distruggeva le cimici, strappava i
denti e prestava denaro a interesse; era tutore di tutti
gli orfani e di tutte le vedove, nelle ore libere affilava pen­
ne, un soldo la dozzina, e preparava dell’inchiostro nero;
trafficava in zenzero e pepe, in unto da ruote e rosolio, in
ganci e chiodi da scarpe, riparava l’orologio del campa­
nile e redigeva ogni anno il calendario con la meteoro­
logia, le regole agricole e l’omino dipinto per indicare il
tempo dei salassi. Faceva insomma alla luce del sole dieci­
mila cose legittime, per scarso compenso, e solo al buio e
per passione privata ne aggiungeva alcune illegittime, op­
pure appiccicava in fretta a quelle legittime, prima di
staccarsene, un codino di illegittimità, non più grande del­
la piccola coda di un ranocchio, quasi soltanto per amore
del comico. Inoltre esorcizzava il tempo in periodi diffi­
cili, con la sua arte sorvegliava le streghe e quand’erano
mature le mandava al rogo; da parte sua esercitava la
stregoneria soltanto come tentativo scientifico e per uso
personale, e allo stesso modo esperimentava e deformava
le leggi civiche da lui redatte e trascritte in bella copia
per stabilirne la resistenza. Dato che i Seldwylesi avevano
sempre bisogno d’un cittadino che facesse per loro tutte le
piccole e grandi cose sgradevoli, era stato nominato stre­
gone civico e già da molti anni rivestiva quella carica da
mattina a sera, con instancabile dedizione ed abilità.
Per questo la sua dimora era piena zeppa da cima a fondo
di tutte le cose più impensabili e Specchietto molto si di­
vertiva a guardare e annusare tutto.
Da principio però non ebbe attenzione che per il man­
giare. Divorava ingordo tutto quello che Pineis gli offriva,
resistendo appena ad attendere da un pasto all’altro. Si
caricò così lo stomaco che fu davvero costretto a salir sul
tetto per mordicchiare le erbette fresche e curarsi di sva­
riati malesseri. Il maestro si compiacque osservando quel­
l’ingordigia e pensò che il gattino a quel modo sarebbe
222 LA GENTE DI SELDWYLA

ben presto ingrassato e che egli, spendendo di più, sa­


rebbe però stato più furbo e avrebbe finito per rispar­
miare nell’insieme. Costruì quindi un vero paesaggio
nella stanza di Specchietto, impiantandovi un boschetto
di piccoli abeti, con collinette di pietre e di muschio e
disponendovi persino un laghetto. Sugli alberi pose allo­
dole profumatamente arrostite, oppure, a seconda della
stagione, fringuelli, cingallegre e passeri, così che al gatto
non mancava mai qualcosa da prendere e da mangiuc­
chiare. Nascose nelle collinette, entro topaie artificiali,
degli splendidi sorcetti da lui accuratamente ingrassati a
farina bianca, poi sventrati, farciti di listerelle di lardo
e ben arrostiti. Alcuni di questi topi erano a portata di
zampa per Specchietto, altri invece, per aumentare il suo
spasso, erano nascosti più profondi, ma legati a un filo,
col quale il gattino li doveva accortamente tirare fuori, se
voleva godersi l’imitazione di una caccia. Il laghetto ve­
niva riempito ogni giorno da Pineis con latte fresco,
perché Specchietto in quella dolcezza spegnesse la sua
sete, e vi metteva anche a nuotare dei ghiozzi fritti, ben
sapendo che talvolta i gatti amano anche la pesca.
Specchietto, che menava ora una vita magnifica, potendo
fare o tralasciare, bere o mangiare quel che gli accomo­
dava e quando gliene veniva l’estro, prosperò visibilmente
in tutto il corpo: la pelliccia ridiventò liscia e lucida e
l’occhio vispo; in pari tempo però, aumentando le sue
energie intellettuali in ugual misura, riprese migliori usan­
ze; la selvaggia ingordigia si placò e, avendo egli una
triste esperienza passata, seppe essere più prudente di
prima. Si moderò nelle sue voglie e non mangiò più di
quanto fosse giovevole, dandosi di nuovo a sagge e pro­
fonde considerazioni e tornando a vedere ben chiare
le cose del mondo. Un giorno s’era tirato giù dai rami
un bel tordo e, mentre lo trinciava meditabondo, trovò
il suo piccolo stomaco gonfio come una palla di cibo an­
cora fresco e intatto. Erbette verdi graziosamente arro­
tolate, semi bianchi e neri e una bacca rossa lucente sta­
vano lì leggiadramente premuti insieme, come se una
mammina avesse preparato la bisaccia per il viaggio del
SPECCHIETTO IL GATTINO 223

suo figliolo. Dopo che Specchietto ebbe lentamente di­


vorato l’uccello, osservando filosoficamente la piccola sac­
ca dello stomaco riempita in modo tanto piacevole che
gli stava tra le zampe, si sentì commosso dalla sorte del
povero tordo, il quale dopo un così pacifico pasto aveva
dovuto lasciar la vita senza neppure digerire il suo ba­
gaglio. “Che profitto gliene è mai venuto, povero dia­
volo,” disse Specchietto “dall’essersi nutrito con assiduo
zelo, così che questo sacchetto sembra proprio una gior­
nata bene spesa? È stata questa bacca rossa ad allettarlo
dal bosco sicuro entro il laccio dell’uccellatore. Egli pen­
sava d’essere più furbo e di prolungare la sua vita con que­
ste bacche, mentre io, che ho appena finito di mangiare
la sciagurata bestiola, non mi sono così che avvicinato di
un passo alla morte! Come conchiudere un patto più
disastroso e codardo del prolungare la propra esistenza
ancora di un breve tratto, per poi perderla immancabil­
mente? Non sarebbe stata preferibile una morte rapida
e volontaria per un gatto di carattere? Ma io sono stato
uno spensierato, e ora che so pensare, non vedo da­
vanti a me altro che il destino di questo tordo; quan­
do sarò tondo abbastanza, dovrò andarmene, proprio
per la sola ragione d’essere diventato ben tondo. Bella
ragione per un gatto che ama la vita e ha la testa sulle
spalle! Ah, se riuscissi soltanto a cavarmela da questa
trappola !”.
Si immerse in complesse meditazioni sul modo di riu­
scirvi, ma non essendo il momento del pericolo ancora
imminente, non ci vide chiaro e non trovò via d’uscita.
Tuttavia, da gatto saggio, osservò da allora la virtù della
continenza che è sempre il miglior preludio e il miglior
uso del tempo quando si deve giungere a una decisione.
Ripudiò il cuscino morbido che Pineis gli aveva messo a
disposizione perché vi dormisse e vi ingrassasse, prefe­
rendo andare a riposare sugli stretti cornicioni o nei punti
più alti e pericolosi. Ripudiò anche gli uccelli arrosto e i
topi farciti, acchiappando invece con abile astuzia sui tet­
ti, dove aveva di nuovo una sua legittima bandita, un
semplice passero vivo, o anche un agile topo dei solai, e
224 LA GENTE DI SELDWYLA

quella selvaggina la gustava più della cacciagione arrostita


dei boschetti artificiali di Pineis, mentre essa d’altra parte
non lo impinguava. Anche il movimento e il coraggio,
nonché il ritrovato esercizio della virtù e della filosofia,
ostacolarono una troppo rapida corpulenza, così che Spec­
chietto aveva bensì un’aria sana e lustra, ma, con stupore
di Pineis, rimase fermo a un certo grado di grassezza,
ben lontana da quella cercata dallo stregone con la sua
cura; egli infatti sognava una bestia ben tonda e impi­
grita, che non si muovesse dal suo cuscino e fosse fatta tutta
di adipe. In questo però la sua stregoneria aveva sbagliato
i conti, ed egli non s’era detto, malgrado fosse furbo, che
quando si dà da mangiare a un asino, quello rimane
pur sempre un asino, e se si ciba una volpe, quella non
cessa di essere una volpe, poiché ogni creatura cresce a
modo suo. Quando Pineis scoprì che Specchietto si fer­
mava allo stesso stadio di snellezza ben portante, ma pur
sempre agile e robusta, senza voler mettere pancia, una
sera gliene chiese bruscamente conto dicendogli:
— Che c’è, Specchietto? Perché non mangi le buone
pietanze che io ti preparo e ti manipolo con tanta arte e
accuratezza? Perché non acchiappi sugli alberi gli uccel­
letti arrostiti e non cerchi dentro la montagna i sorcetti
squisiti? Perché non peschi più nel lago? E perché non
hai cura di te? Non dormi sul cuscino? Perché ti strapazzi
e non ingrassi?
— Oh, signor Pineis, — rispose Specchietto — per­
ché mi sento meglio a questo modo! Non dovrei forse
passare il po’ di vita che mi resta nella maniera più
piacevole?
— Come ! — protestò Pineis — Tu devi vivere in modo
da farti grasso e tondo, non faticare a quella maniera!
Lo vedo bene a che cosa miri ! Credi di imbrogliarmi e di
farmi perdere tempo, perché io ti lasci girare attorno in
eterno in questo stato intermedio? Non ci riuscirai mai !
Tuo dovere è mangiare, bere e curarti per ingrassare e
metter lardo ! Rinuncia quindi immediatamente a questa
tua sobrietà perfida e anticontrattuale, oppure l’avrai a
che fare con me!
SPECCHIETTO IL GATTINO 225

Specchietto, che aveva cominciato a far le fusa per darsi


un contegno, si interruppe per dire:
— Non ho proprio mai saputo che nel contratto ci sia il
mio obbligo di rinunciare alla sobrietà e a un sano tenore
di vita ! Se il signor stregone civico ha calcolato che io sia
un ingordo fannullone, non è colpa mia! Voi nel corso
della giornata fate mille cose legittime : aggiungetevi dun­
que anche questa e restiamo ambedue nella regola, poi­
ché voi sapete benissimo che il mio grasso vi serve solo se
è cresciuto per via legittima!
— Vuoi forse darmi una lezione — esclamò Pineis in­
furiato — con le tue chiacchiere? Fammi un po’ vedere
a che punto sei grasso, o buono a nulla ! Forse si potrebbe
ammazzarti presto ! — Afferrò il gattino per la pancia,
ma quello, sentendosi sgradevolmente solleticato, diede
un bel graffio alla mano dello stregone. Pineis se la guardò
attentamente, poi disse:
— Siamo a questo punto fra noi, brutta bestia? Bene,
allora ti dichiaro solennemente, in grazia del contratto,
già abbastanza grasso ! M’accontento di questo risultato
e saprò bene assicurarmelo! Fra cinque giorni abbiamo
luna piena e sino ad allora puoi godere la vita, secondo
quanto sta scritto, ma non un momento di più ! — Così
dicendo volse le spalle e lo lasciò ai suoi pensieri.
Questi erano molto tristi e preoccupati. Era dunque
vicina l’ora in cui il bravo Specchietto avrebbe dovuto
lasciarci la pelle? E non v’era proprio nulla da fare, mal­
grado la sua saggezza? Salì sospirando sull’alto tetto, i cui
comignoli spiccavano foschi sul cielo nel bel vespro au­
tunnale. La luna saliva sulla città mandando la sua luce
alle tegole scure e muscose del vecchio tetto, un dolce
canto risuonò all’orecchio di Specchietto e una gattina
candida attraversò luminosa un comignolo vicino. Subito
Specchietto dimenticò le previsioni di morte in cui viveva
e ricambiò l’inno della bella col suo più raffinato canto fe­
lino. Le si affrettò incontro, incappando in una violenta
tenzone con tre altri gatti forestieri, che valorosamente
seppe battere in fuga. Fece poi la corte alla dama con
devozione e ardore e passò con lei giorno e notte, senza
226 LA GENTE DI SELDWYLA

pensare a Pineis né farsi vedere in casa. Cantò come un


usignolo per tutte quelle belle notti di luna, rincorrendo
la sua bianca innamorata lungo i tetti e per i giardini,
rotolando più d’una volta nell’impeto del giuoco amoroso
o in lotta coi rivali giù dagli alti tetti, cadendo sulla strada,
ma soltanto per rimettersi sulle zampe, scuotere la pellic­
cia e riprendere la ridda selvaggia delle sue passioni. Ore
di calma e di fervore, dolci sentimenti e dispute irose, col­
loqui leggiadri, arguto scambio di idee, astuzie e scherzi
d’amore e di gelosia, baruffe e tenerezze, la violenza della
felicità e la sofferenza della sventura misero l’innamorato
Specchietto fuor di sé, e quando il disco della luna fu
pieno, egli per tanti eccitamenti e passioni era ridotto più
miseramente scarno e arruffato che mai. In quello stesso
istante Pineis da una torretta lo chiamò: «Specchiettino,
Specchiettino! Dove sei? Vieni un momento in casa!».
Specchietto si congedò allora dalla bianca amica, che
se n’andò per la sua strada miagolando fredda e soddisfatta
e s’awiò orgoglioso verso il suo carnefice. Questi scese in
cucina facendo frusciare il foglio del contratto e gli disse:
«Vieni Specchietto, vieni Specchietto!», e il gattino gli
tenne dietro nella cucina dello stregone, e si pose dinanzi
al maestro in tutta la sua irsuta magrezza, con aria di
sfida. Quando il signor Pineis si vide defraudato in tal
modo del suo profitto, balzò in piedi come un ossesso ur­
lando: «Che cosa vedo! Briccone, infame canaglia!
Che cosa mi hai fatto?». Fuor di sé per l’ira afferrò una
scopa tentando di picchiare Specchietto, ma questi in­
curvò il dorso nero rizzando i peli in modo che vi passò
un breve crepitante bagliore, poi tirò indietro le orecchie,
sbuffò e mandò lampi così feroci che il vecchio esterrefatto
e atterrito balzò indietro tre passi. Cominciò a temere di
aver di fronte un altro stregone più abile di lui e pronto a
schernirlo. Disse dunque malcerto e intimidito :
— Forse che lo spettabile signor Specchietto è uno del
mestiere? Forse che qualche dotto mago s’è compiaciuto
di travestirsi nella sua forma esteriore, visto che riesce a
dominare il proprio fisico a piacere e può ingrassare quan­
to gli fa comodo, né troppo né troppo poco, o anche im-
SPECCHIETTO IL GATTINO 227

prowisamente ridursi a uno scheletro per sfuggire alla


morte?
Specchietto si calmò e disse lealmente:
— No, non sono un mago ! È soltanto il dolce potere
della passione che m’ha ridotto a questo punto e che con
mio piacere si è portato via il vostro grasso. Se però cre­
dete di ricominciare da capo il nostro accordo, io mi ci
atterrò coraggiosamente ! Datemi solo intanto una bella
salsiccia arrosto, perché sono proprio esausto e affa­
mato!
Pineis allora prese rabbiosamente Specchietto per il
collo, lo ficcò nella stia delle oche sempre vuota e gli urlò:
— Vedi un po’ se il dolce potere della passione riu­
scirà a farti uscire e sarà più forte che il potere degli in­
cantesimi e del mio legittimo contratto ! Ora, come si
suol dire: «Uccello, mangia o muori!». Arrostì subito
una lunga salsiccia, tanto appetitosamente profumata
che non potè trattenersi dall’assaggiarne un pezzettino
alle due punte prima di introdurla fra le sbarre. Spec­
chietto la divorò da un capo all’altro e, mentre si ripuliva
contento i baffi e si leccava il pelo, andava dicendosi:
“Per l’anima mia ! Che bella cosa è l’amore ! Per questa
volta mi ha salvato dalla trappola ! Ora voglio riposarmi
un poco e cercare, con la vita contemplativa e con buon
nutrimento, di ritrovare i miei saggi pensieri ! Tutto a suo
tempo ! Oggi un pochino di passione, domani un po’ di
meditazione e di calma : l’una e l’altra valgono a modo lo­
ro. Questa prigione non è poi troppo brutta e ci si potranno
certamente escogitare idee profittevoli!”. Pineis si mise
d’impegno e preparò ogni giorno con tutta la sua arte tali
leccornie e con tale affascinante varietà e convenienza
che il prigioniero non vi sapeva resistere. In realtà le sue
provviste di grasso felino volontario e legittimo scema­
vano di giorno in giorno minacciando di esaurirsi, e il
povero stregone senza quell’ingrediente necessario sa­
rebbe stato un uomo finito. Ma Pineis insieme al corpo di
Specchietto ne continuava a nutrire anche lo spirito, e
non riuscendo a liberarsi da questa incomoda aggiunta,
la sua stregoneria si rivelava sempre insufficiente.
228 LA GENTE DI SELDWYLA

Quando alla fine gli parve che il gattino nella stia fosse
pingue abbastanza, non indugiò oltre, ma predispose sotto
gli occhi del gatto molto attento le diverse pentole e at­
tizzò un bel fuoco sul focolare per mettere a cuocere il
premio così a lungo agognato. Affilò poi un coltellaccio,
aprì la stia, ne trasse Specchietto dopo aver ben richiuso
la porta della cucina, e gli disse di ottimo umore:
— Vieni qua, briccone, vogliamo anzitutto tagliarti la
testa, poi ti scorticheremo ! La pelliccia mi darà un bel
berretto caldo, al che io scioccamente non avevo pensato !
O sarà meglio che prima ti levi la pelle e poi ti tagli la
testa?
— No, se vi piace — disse umilmente il gattino — pre­
ferirei che tagliaste prima la testa !
— Hai ragione, poverino ! — disse il signor Pineis —
Non stiamo a torturarti inutilmente ! Quel che è giusto è
giusto !
— Avete detto una verità ! — disse Specchietto con un
sospiro straziante, piegando il capo con rassegnazione —
Oh, avessi sempre fatto quel che è giusto, non trascurando
una così importante faccenda, ora potrei morire con la
coscienza più leggera ! Io muoio volentieri, ma vi è un’in­
giustizia che mi amareggia la morte del resto desiderata,
dato che ormai cosa mi può offrire la vita? Soltanto
paura, affanni e miseria, e quale diversivo una tempesta
di passione deleteria, ancor peggiore della tacita e trepida
paura !
— Di quale torto e di quale importante faccenda vai
parlando? — domandò Pineis incuriosito.
— Che giova ormai il parlare? — sospirò Specchietto —
Quel che è fatto è fatto, e il pentimento è tardivo!
— Vedi, o briccone, che razza di peccatore sei mai? —
disse Pineis — Vedi come meriti di morire? Ma che cosa
diavolo hai combinato? Mi hai forse rubato, sottratto
o guastato qualcosa? Hai forse commesso a mio danno un
orribile torto di cui nulla ancora io so, intuisco o suppon­
go, Satana? Belle storie mi fai ! Fortuna che ti ho scoper­
to ! Confessa immediatamente, altrimenti ti scortico e ti
metto a cuocere bell’e vivo ! Parlerai o no?
SPECCHIETTO IL GATTINO 22g

— Ah, no certo ! — disse Specchietto — Non ho nulla


da rimproverarmi nei riguardi vostri. Si tratta dei dieci­
mila fiorini d’oro della mia povera padrona ... ma a che
giova discorrere? Veramente... a pensarci bene, forse
potrebbe anche non essere troppo tardi ... Se vi guardo,
vedo bene che siete ancora un uomo bello e in gamba, nel
fiore degli anni. . . Ditemi un po’, signor Pineis : non
avete mai sentito il desiderio di fare un matrimonio ono­
revole e vantaggioso? Ma cosa sto a chiacchierare ! Quan­
do mai un uomo di tanta saggezza e abilità avrebbe simili
oziose idee ! Quando mai un maestro preso da cosi utili
occupazioni penserà a stupide femmine? È vero che in
fondo anche la peggiore ha qualcosa in sé che può giovare
a un uomo, questo non lo si può negare ! E se anche non
vai molto, una brava massaia sarà pur sempre bianca di
corpo, accurata di mente, affettuosa di indole, fedele di
cuore, assennata nell’amministrare, ma prodiga nel cu­
rare il marito, divertente nelle parole, gradevole negli atti,
lusinghiera sempre ! Bacia il marito con la bocca e gli ac­
carezza la barba, lo circonda con le braccia e lo gratta un
pochino dietro le orecchie, come a lui piace ; insomma fa
mille cose che non sono certo da disprezzare ! Gli si tiene
ben vicina oppure in discreta lontananza, a seconda del­
l’umore di lui, e quando egli è immerso nei suoi affari,
non lo disturba, ma nel frattempo va cantandone le lodi
dentro e fuori della casa; perché essa non tollera che lo si
biasimi e tutto di lui esalta. Ma la cosa più leggiadra è la
conformazione mirabile della sua tenera esistenza corpo­
rea, che la natura ha fatto tanto dissimile dall’essere no­
stro, malgrado l’apparente somiglianza umana, così che
in un felice connubio suscita un miracolo perenne e na­
sconde in se stessa la più raffinata arte magica ! Ma che
cosa sto a chiacchierare come uno stolto sulla soglia della
morte ! Quando mai un saggio baderà a simili vanità? Per­
donatemi, signor Pineis, e mozzatemi la testa !
Pineis replicò impaziente:
— Fermati una buona volta, ciarlone ! E dimmi piut­
tosto: dove è una moglie simile, e ha proprio diecimila
fiorini d’oro?
23° LA GENTE DI SELDWYLA

— Diecimila fiorini d’oro? — disse Specchietto.


— Ma sì, — replicò Pineis impaziente — non ne stavi
parlando or ora?
— No, — rispose il gatto — quella è un’altra faccenda !
Sono seppelliti in un posto!
— E che cosa ci fanno, a chi appartengono? — gridò
Pineis.
— Non appartengono a nessuno: di qui appunto il mio
caso di coscienza, perché sarebbe spettato a me collocarli.
In fondo appartengono a colui che sposerà una donna
quale l’ho descritta io. Ma come trovare unite in questa
città empia tre cose simili: diecimila fiorini d’oro, una
massaia saggia, fine e buona e un marito saggio ed
onesto? Per questo il mio peccato non è troppo grave:
esso era un compito davvero eccessivamente arduo per
un povero gatto!
— Se ora — gridò Pineis — tu non mi rimani in argo­
mento e non racconti tutto in modo comprensibile e or­
dinato, comincio dal tagliarti la coda e le orecchie!
Avanti!
— Poiché me lo comandate, bisogna che racconti per
bene, — disse Specchietto accomodandosi placidamente
sulle zampe posteriori — benché questo ritardo non fac­
cia che aumentare i miei dolori !
Pineis pose a terra, fra sé e il gatto, il coltellaccio ta­
gliente, poi sedette incuriosito su di una botticella per
ascoltare il racconto e Specchietto continuò:
— Voi sapete, signor Pineis, che la mia defunta e brava
padrona è morta nubile, da vecchia zitella, che aveva
fatto molto bene in segreto, senza mai tornar discara a
nessuno. Non sempre però c’era stata intorno a lei quella
pace, e benché essa non fosse di indole maligna, aveva in
passato provocato molti dolori e molti danni; nella sua
giovinezza infatti essa era la più bella ragazza del paese,
e tutti i giovani signori e gli arditi popolani che qui vi­
vevano o per di qui passavano, si innamoravano di lei,
ostinandosi a volerla sposare. Ella aveva bensì gran voglia
di nozze e di prendersi un marito bello, rispettabile e in­
telligente, e le rimaneva la scelta, giacché indigeni e fore-
SPECCHIETTO IL GATTINO 231

stieri gareggiavano per conquistarla, e più di una volta si


ficcarono la spada in corpo per ottenere la precedenza.
Chiesero la sua mano e le si raccolsero intorno aspiranti
arditi e timidi, astuti e bonari, ricchi e poveri, taluni con
florida azienda, altri che vivevano da cavalieri solo delle
proprie rendite: l’uno ricco di certi meriti, eloquente o
taciturno, l’altro vispo e gioviale, un terzo, pur dall’aspet­
to di sempliciotto, sembrava uomo di meriti. Insomma, la
signorina aveva una scelta perfetta, quale una ragazza da
marito può soltanto sognare ! Essa possedeva però, oltre
alla sua bellezza, un bel patrimonio di molte migliaia
di fiorini, e questa era la cagione per cui mai si indusse a
fare una scelta e a prendere un marito. La damigella am­
ministrava i suoi beni con grande accortezza e prudenza,
attribuendo loro gran valore, ma, poiché l’uomo dalle
proprie tendenze giudica quelle altrui, accadde che, ap­
pena le si avvicinava un aspirante rispettabile che un po­
chino le piacesse, subito ella si metteva in mente che
quegli la desiderasse soltanto per gli averi. Di uno ricco
era persuasa che non l’avrebbe richiesta se non fosse stata
ricca anche lei, mentre dei poveri era addirittura certa
che mirassero solo ai fiorini e pensassero a godersela.
Insomma, la povera signorina, che attribuiva tanto valore
ai possessi terreni, non era in grado di discernere nei suoi
innamorati l’amore del denaro e degli averi dall’amore
per la sua persona o non era almeno capace di un indul­
gente perdono quando tal debolezza veramente fosse esi­
stita. Più volte era già stata molto vicina al fidanzamento,
e il suo cuore aveva battuto più forte; poi d’un tratto
credeva di dedurre da qualche sintomo che la si volesse
tradire mirando solo ai suoi beni, ed eccola rompere di
colpo la relazione, ritrarsi con molto rammarico, ma ine­
sorabilmente. Metteva alla prova in cento modi tutti
quelli che non le spiacevano, tanto che occorreva non po­
ca abilità per non cadere in trappola, e alla fine non
potè avvicinarla con qualche speranza se non chi fosse
uomo straordinariamente falso e raffinato, il che finì per
rendere la scelta in realtà difficile, visto che uomini simili
suscitano pur sempre una misteriosa inquietudine e, quan­
232 LA GENTE DI SELDWYLA

to più abili e astuti si mostrano, tanto più lasciano in una


donna la più penosa incertezza. Il primo modo di mettere
alla prova i suoi adoratori era misurarne il disinteresse
inducendoli ogni giorno a grandi spese, a ricchi regali
e ad atti di munificenza. Comunque però si comportas­
sero, non la imbroccavano mai giusta; se si mostravano
generosi e pronti al sacrificio, se davano feste brillanti,
offrivano regali, le affidavano cospicue somme da distri­
buire ai poveri, ella ad un tratto diceva che tutto ciò era
solo il modo di pescare un salmone con un lombrico, o,
come si suol dire, di acchiappare un quarto di lardo con
un salsicciotto. Distribuiva i doni e il denaro affidatole a
monasteri o a fondazioni benefiche, sfamando i poveri,
ma respingeva poi spietatamente i delusi aspiranti. Se
questi d’altra parte si mostravano esitanti o peggio spi­
lorci, era pronta la condanna, perché di ciò ancor più si
sdegnava, credendo di riconoscervi la più assoluta ed
egoistica mancanza di riguardo. Accadde cosi che essa,
mentre cercava un cuore puro e soltanto a lei devoto,
fini per circondarsi di adoratori tutti ipocriti, astuti ed
egoisti, dei quali non capiva nulla, e che le amareggia­
vano l’esistenza. Un giorno si senti tanto scoraggiata e
infelice che espulse tutta la sua corte, chiuse casa e partì
per Milano, dove aveva una parente. Valicando il San
Gottardo in groppa a un asinelio, l’animo suo era cupo
e tetro come le rocce che si ergevano dagli abissi, e sentiva
impetuosa la tentazione di precipitarsi dal Ponte del Dia­
volo nelle acque tumultuose della Reuss. Solo con gran
pena le due cameriere che aveva con sé e che io ho ancora
conosciuto ma che ora sono morte da un pezzo, e con esse
la guida, riuscirono a calmarla e a distoglierla da quei
foschi propositi. Giunse però pallida e triste nella bella
terra italiana, e, benché il cielo vi fosse cosi azzurro, i suoi
neri pensieri non si volevano rasserenare. Dopo alcuni
giorni trascorsi presso la sua parente, echeggiò tuttavia per
lei una nuova melodia e sbocciò una primavera da lei sino
ad allora quasi ignorata. Nella casa della parente giunse un
giovane compaesano che le piacque a prima vista a tal pun­
to da potersi dire che si innamorò spontaneamente e per la
SPECCHIETTO IL GATTINO 233

prima volta. Era un bel giovanotto, di buona educazione e


di nobile condotta, né povero né ricco a quell’epoca, poi­
ché possedeva soltanto diecimila fiorini d’oro ereditati dai
genitori defunti, coi quali, avendo fatto studi di com­
mercio, intendeva fondare un’azienda di sete a Milano.
Era uomo intraprendente, dalle vedute chiare e dalla
mano felice, come accade spesso a persone candide e
disinvolte: tale era infatti e quantunque bene istruito
appariva semplice e innocente al pari di un fanciullo.
Pur essendo commerciante e di indole leale e sincera, il
che è già una rarità preziosa, restava energico e caval­
leresco nel suo contegno e portava la spada al fianco con
la stessa baldanza di un esperto uomo d’armi. Tutto
questo, insieme alla fresca e avvenente giovinezza, con­
quistò a tal punto il cuore della fanciulla, che essa a mala­
pena sapeva dominarsi e già lo trattava con la massima
cordialità. Si fece sempre più serena, e se anche di tanto
in tanto si immelanconiva, non era che l’alternarsi fra
speranza e trepidazione amorosa, il che significava pur
sempre un sentimento più nobile e più piacevole che non
l’imbarazzo della scelta tra i numerosi spasimanti che
l’aveva un tempo tormentata. Non conosceva ormai che
una cura e un affanno: piacere al giovane buono e av­
venente. Quanto più bella era lei medesima, tanto più si
faceva umile e incerta nutrendo per la prima volta un ve­
ro affetto. Anche il giovane commerciante però non aveva
mai veduto una simile beltà, o almeno mai l’aveva così
avvicinata e ne era stato trattato con sì viva gentilezza.
Non v’è da stupirsi dunque, visto che la fanciulla era non
solo bella ma anche buona di animo, e fine di educazione,
che il giovane schietto, dal cuore ancor liberissimo e
inesperto, si innamorasse del pari di lei, e con tutto l’ab­
bandono e l’energia che era dell’indole sua. Forse pe­
rò nessuno mai l’avrebbe saputo, se il giovane non fos­
se stato incoraggiato nel suo candore dai modi insinuan­
ti della signorina, che egli, ignaro di ogni ipocrisia, osò
con segreto timore interpretare quale corrispondenza al
suo affetto. Resistette alcune settimane, convinto di tener
segreta la cosa ; ma ognuno gli leggeva in faccia che era
234 LA GENTE DI SELDWYLA

innamorato morto, e appena era in vicinanza della da­


migella o di questa solo si faceva il nome, era chiaro a
tutti di chi fosse innamorato. Ma non gli bastò a lungo
andare essere innamorato; cominciò ad amare davvero,
e con tutta l’intensità della sua giovinezza, così che la fan­
ciulla divenne per lui quel che di più alto e di meglio v’era
al mondo, in cui riponeva una volta per sempre la salute
e il valore di tutto se stesso. Di ciò la signorina si com­
piacque oltre misura, poiché in tutto quanto egli diceva o
faceva c’era un tono diverso da quello da lei sin lì spe­
rimentato, il che la persuase e commosse al punto che ella
stessa cadde in preda alla più ardente passione, senza pen­
sar più ad una scelta. Ognuno assisteva alla vicenda di cui
si parlava apertamente e variamente si scherzava. Ciò
era ragione di alta compiacenza per la signorina, la quale,
mentre il cuore le voleva scoppiare di ansiosa attesa, con­
tribuì da parte sua a complicare e ad ampliare un poco il
romanzo, per poterlo ben centellinare e godere. Il gio­
vanotto infatti nel suo turbamento commetteva deliziose
e puerili ingenuità, quali mai le era toccato di vedere e che
la lusingavano e la soddisfacevano meglio d’ogni altra
cosa. Egli però nella sua leale dirittura non potè reggere
così a lungo; sentendo che tutti si permettevano allusioni
e scherzi, gli parve che la cosa degenerasse in commedia,
mentre la donna amata era troppo sacra per lui per esser­
ne oggetto. Quel che lei gradiva dava invece a lui cruccio,
imbarazzo e inquietudine per l’amata. Era poi persuaso
di offenderla e d’ingannarla portando attorno a lungo una
così viva passione per lei, pensandola ininterrottamente,
senza che lei ne avesse il sospetto, cosa davvero sconve­
niente e per lui stesso intollerabile ! Un mattino si capì da
lontano che aveva qualcosa in petto, e infatti le confessò il
suo amore in poche parole, per dirlo una volta e non ripe­
terlo la seconda, nel caso avesse avuto sfortuna. Non era
infatti avvezzo a pensare che una damigella di tanta bel­
lezza e bontà non potesse senz’altro esprimere il suo vero
responso, dando subito di primo acchito un sì o un no irre­
vocabile. Egli era non meno tenero d’animo che violente­
mente innamorato, non meno scontroso che ingenuo, or­
SPECCHIETTO IL GATTINO 235

goglioso che schietto e per lui era subito questione di morte


o di vita, di sì o di no, di botta e risposta. Ma mentre ap­
punto udiva la sua confessione tanto ansiosamente attesa,
la signorina fu còlta dall’antica diffidenza, e nel momen­
to più inopportuno ricordò che l’innamorato era un com­
merciante, il quale alla fine avrebbe potuto aspirare al suo
patrimonio per sviluppare le proprie imprese. Che anche
poi fosse un tantino preso della sua persona, non era gran
merito, data la sua bellezza ; la esasperava ancor più l’idea
di rappresentare solo una giunta desiderabile unita al suo
denaro. Invece, quindi, di confessare il suo amore e di ac­
coglierlo benigna, come le sarebbe pur piaciuto di fare,
escogitò di colpo una nuova astuzia per mettere alla prova
la devozione del giovane. Con aria severa e quasi triste gli
confidò di essere fidanzata al suo paese con un giovanotto
da lei teneramente amato. Glielo avrebbe voluto dire
già più volte, poiché essa per lui, per il commerciante,
nutriva un affetto da amica, come doveva aver capito dal
suo contegno, e gli si affidava come a un fratello. Ma
l’improntitudine degli scherzi sorti in società sul loro con­
to aveva reso difficile ogni spiegazione; ora che egli stesso
l’aveva sorpresa schiudendole il suo nobile cuore, ella
non poteva meglio ringraziarlo del suo affetto che confi­
dandosi altrettanto schiettamente a lui. «Sì» proseguì,
essa poteva appartenere soltanto all’uomo scelto e mai le
sarebbe stato possibile concedere il cuore ad un altro; ciò
stava scritto a lettere d’oro e di fuoco nell’anima sua e
quell’uomo amato ignorava egli stesso quanto le fosse ca­
ro, pur conoscendola bene. Purtroppo una stella maligna
li perseguitava; il suo fidanzato era commerciante, ma po­
vero in canna, e perciò si erano decisi a fondare un’azien­
da coi mezzi della fidanzata. Già l’inizio era compiuto
e tutto bene avviato, le nozze avrebbero anzi dovuto ce­
lebrarsi in quei giorni, quando un’imprevista sventura
aveva a un tratto minacciato il suo patrimonio, metten­
dolo in pericolo forse di andar per sempre perduto,
mentre d’altra parte il povero promesso sposo aveva da
fare prossimi pagamenti a gente d’affari di Milano e di
Venezia, dal che dipendeva il suo credito, la sua prospe-
23θ LA GENTE DI SELDWYLA

rità e il suo onore, anche a non parlare della loro felice


unione! Essa era corsa a Milano, dove aveva parenti
agiati, per trovare via di scampo, ma vi era giunta in
un momento non propizio ; nulla pareva giungere a con­
clusione, mentre s’awicinava sempre più il termine, e se
non fosse riuscita ad aiutare l’amato, ne sarebbe morta di
tristezza. Egli era infatti l’uomo più diletto e stimabile
del mondo; sarebbe certamente diventato un grande uo­
mo d’affari se trovava appoggio, mentre per lei non esi­
steva altra felicità in terra fuorché diventarne la consorte !
Alla fine di tal racconto il bel giovanotto era ridotto bian­
co come un cencio. Non si lasciò tuttavia sfuggire una
parola di lamento, non disse più motto di sé e del suo
amore, ma domandò soltanto con melanconia a che cifra
ammontassero gli impegni assunti dallo sposo felice e sfor­
tunato insieme. «A diecimila fiorini d’oro!» replicò lei
ancor più melanconica. Il giovane commerciante si con­
gedò tristemente, esortando la fanciulla a star di buon
animo, perché si sarebbe certo trovato un rimedio.
S’allontanò senza osar di guardarla in volto, tanto era col­
pito e umiliato per aver aspirato a una dama che con
cosi fedele passione amava un altro. Naturalmente l’in­
felice aveva creduto ad ogni parola del suo racconto come
a un Vangelo. Si recò poi senza indugio dai suoi amici
d’affari e, pregando e rinunciando a una certa somma,
li indusse ad annullare alcuni acquisti e ordinazioni
che avrebbe dovuto saldare proprio in quei giorni coi
suoi diecimila fiorini, affari ai quali s’appoggiava tutta la
sua carriera. Prima che fossero trascorse sei ore, si ripre­
sentò alla signorina con l’intero patrimonio e le chiese che
per amor di Dio volesse da lui accettare quell’aiuto. Al
vederlo, le lampeggiarono gli occhi di gioiosa sorpresa ed
il cuore le martellò in petto come in una fucina; gli chiese
di dove avesse preso tale capitale ed egli replicò di averlo
avuto in prestito sul suo buon nome e di poterlo rendere
senza disagio, dato il buon avviamento dei suoi affari.
Essa gli lesse chiaramente in faccia che mentiva e che sa­
crificava alla sua felicità tutto il suo avere e tutte le spe­
ranze, ma finse tuttavia di credere a quelle parole. Lasciò
SPECCHIETTO IL GATTINO 237

libero corso ai suoi sentimenti, fingendo con crudeltà che


si riferissero alla fortuna di poter salvare e sposare il suo
diletto e non le bastarono le parole per esprimere la sua
gratitudine. D’un tratto però si riprese per dichiarare che
accettava l’atto generoso solo a un patto, e che in caso
diverso nulla sarebbe valso a persuaderla. Richiesta in
che cosa consistesse tale condizione, pretese la solenne
promessa che egli si sarebbe recato da lei, in un giorno
prestabilito, per assistere alle sue nozze e diventare amico
e protettore del suo futuro consorte, cosi come era stato
il più fedele amico protettore e consigliere di lei medesima.
Egli la pregò arrossendo di rinunciare a tale richiesta, ma
invano espose tutte le ragioni per farla desistere, invano le
assicurò che i suoi commerci non gli permettevano di ri­
tornare in Svizzera e che tale viaggio gli avrebbe arre­
cato notevoli danni. Essa insistette tenace nella richiesta,
respingendo anzi il suo oro se non vi consentiva. Alla
fine egli promise, e dovette darle la mano, giurandolo sul
suo onore e sull’anima sua. La signorina gli indicò con
esattezza il giorno e l’ora in cui avrebbe dovuto arrivare
e tutto fu sigillato da un giuramento in nome della sua
fede cristiana e della sua beatitudine eterna. Solo dopo
di ciò accettò il suo dono e fece portare lietamente il te­
soro nella sua camera dove lo rinchiuse di sua mano in
un cofano da viaggio, infilando la chiave nel petto. Essa
non si trattenne oltre a Milano, ma rivalicò il San Got­
tardo, tanto allegra quanto era stata melanconica alla
venuta. Giunta al Ponte del Diavolo, di dove aveva vo­
luto precipitarsi, rise come una sventata e con grida giu­
bilanti della sua voce armoniosa gettò nella Reuss un
mazzo di fiori di melograno che portava al petto; insom­
ma la sua gioia era irrefrenabile e quello divenne il più
lieto viaggio che mai avesse compiuto. Tornata in patria,
aperse e arieggiò la sua casa da cima a fondo, ornandola
come per l’attesa di un principe. A capo del letto mise il
sacchetto coi diecimila fi< mi e la notte appoggiava bea­
tamente la testa a quel mucchietto duro e vi dormiva
come fosse stato il più morbido piumino. A malapena po­
teva aspettare il giorno fissato in cui lo attendeva infalli­
23» LA GENTE DI SELDWYLA

bilmente, ben sapendo che egli mai avrebbe infranto una


semplice promessa e tanto meno un giuramento, quan­
d’anche ne fosse andato della sua vita. Ma sorse il giorno
e l’amato non comparve e trascorsero altri giorni e setti­
mane senza che desse notizia di sé. Allora cominciò a
tremare in tutte le membra, còlta dalla massima ango­
scia ; mandò lettere su lettere a Milano, ma nessuno seppe
dirle dove fosse sparito. Alla fine però venne in luce per
puro caso che il giovane mercante s’era fatto confezionare,
da una pezza di damasco rosso sangue che già aveva in
casa e già aveva pagato al principio del suo commercio,
un’uniforme da guerriero, arruolandosi poi tra gli Svizze­
ri che combattevano allora la guerra di Milano al soldo del
re Francesco di Francia. Dopo la battaglia di Pavia, nella
quale tanti Svizzeri lasciarono la vita, fu trovato, fra un
cumulo di Spagnoli uccisi, col corpo crivellato da molte
ferite mortali e con la sua bella veste di seta a brandelli.
Prima di esalare l’ultimo respiro affidò alla memoria di
un seldwylese che gli giaceva al fianco, ma era meno
malconcio di lui, questo messaggio, pregandolo di trasmet­
terlo se avesse avuta salva la vita: «Diletta signorina!
Benché avessi giurato sul mio onore, sulla mia fede cri­
stiana e sulla mia beatitudine eterna di presenziare alle
vostre nozze, non mi è stato tuttavia possibile rivedervi
sapendo un altro partecipe della felicità più alta che sa­
rebbe esistita per me. Di questo mi sono persuaso solo in
vostra assenza, non avendo prima saputo quale grave e mi­
steriosa cosa sia un amore simile al mio per voi, ché in ca­
so diverso avrei senza dubbio saputo meglio difenderme­
ne. Ma stando così la faccenda, ho preferito perdere l’ono­
re del mondo e la beatitudine spirituale e affrontare la
dannazione eterna quale spergiuro piuttosto che ricom­
parire alla vostra presenza con una fiamma in cuore che è
più forte e più inestinguibile del fuoco dell’inferno e che
varrà a non farmelo quasi sentire. Non pregate per me,
bellissima damigella, perché io non potrò mai essere beato
senza di voi, né qui né là, e con ciò siate felice e abbiate il
mio saluto ! ». Così, in quella battaglia, dopo la quale re
Francesco disse: «Tutto è perduto fuorché l’onore !» l’in­
SPECCHIETTO II. GATTINO 239
felice amante perdette tutto, la speranza, l’onore, la vita e
la beatitudine eterna ma non l’amore che lo struggeva. Il
seldwylese se la cavò con fortuna, e appena si fu un poco
ripreso e si vide fuor di pericolo, scrisse le parole del fedele
defunto sulla sua tavoletta, per non dimenticarle. Tor­
nò in patria, si fece annunciare all’infelice madamigella
e le lesse il messaggio con la rigidezza militare con cui,
poiché era tenente, era avvezzo a far la chiamata del suo
drappello. La signorina si strappò i capelli, si lacerò le
vestì, e cominciò a piangere e a urlare, cosicché la sen­
tirono per la strada e si adunò la folla. Essa andò a pren­
dere come pazza i diecimila fiorini, li sparse per terra, vi
si gettò distesa baciando le monete lucenti. Cercò poi,
fuor di senno, di radunare il tesoro che le rotolava via,
di abbracciarlo come se in esso fosse stato presente l’uo­
mo amato che essa aveva perduto. Rimase così notte e
giorno adagiata sul gruzzolo, rifiutando cibo e bevanda,
vezzeggiava e baciava senza posa il gelido metallo, sinché
una notte s’alzò all’improvviso, portò a più riprese il te­
soro nel giardino e ivi con lagrime amare lo buttò nel
pozzo profondo, pronunciando una maledizione, perché
non dovesse mai più appartenere a nessuno.
Quando Specchietto fu giunto a questo punto del di­
scorso, Pineis lo interruppe:
— E quella bella somma è ancora giù nel pozzo?
— Già, dove dovrebbe essere? — replicò Specchietto
— Solo io potrei cavarla di là, ma sino ad ora non l’ho
fatto !
— È vero, hai ragione, — disse Pineis — me lo ero del
tutto dimenticato ascoltando la tua storia ! Non te la cavi
male a raccontare, brutto demonio ! E m’è quasi venuta la
voglia d’una donnetta che avesse per me lo stesso affetto;
ma dovrebbe essere molto bella ! Raccontami ancora in
fretta come la cosa è poi finita !
— Passarono parecchi anni — disse Specchietto — pri­
ma che la signorina, dopo amari tormenti, si rimettesse
al punto da cominciare a diventare quella vecchia e
tranquilla zitella che io ho conosciuta. Posso vantarmi di
essere stato nella sua vita solitaria e sino alla sua placida
240 LA GENTE DI SELDWYLA

morte il suo unico conforto e il suo amico più fidato.


Quand’essa però si sentì prossima a morire, rievocò ancora
una volta l’epoca della sua remota gioventù e bellezza, e
sofferse ancora una volta, ma con pensieri più miti e
rassegnati, le dolci emozioni e gli amari dolori di quel
tempo, pianse silenziosamente per sette giorni e sette notti
sull’amore del giovane, da lei non goduto per la sua dif­
fidenza, così che i suoi poveri occhi poco prima di mori­
re persero la vista. Si pentì poi della maledizione lanciata
sul tesoro e mi disse, affidandomi l’importante incarico:
«Ora decido altrimenti, caro Specchietto! E ti do pieni
poteri di attuare le mie disposizioni. Guardati attorno e
vedi di trovare una ragazza bellissima e senza mezzi,
alla quale per la sua povertà manchino aspiranti. Se si
dovesse poi trovare un galantuomo, assennato e di bella
persona, con un buon reddito, che desideri quella fan­
ciulla ad onta della miseria, mosso solo dalla sua bellezza,
costui dovrà impegnarsi coi più sacri giuramenti ad esserle
non meno fedele, disinteressato e devoto di quanto sia
stato il mio infelice amante, e di condiscendere in tutto
e per tutta la vita a questa donna. Tu darai allora in dote
alla sposa i diecimila fiorini d’oro che giacciono nel pozzo,
perché essa ne faccia una sorpresa allo sposo la mattina
delle nozze!». Così disse quella benedetta, e io fra le
mie malaugurate vicende ho invece trascurato di tener
dietro alla cosa e debbo temere che la poverina non abbia
pace nella sua tomba, il che potrà avere ben sgradevoli
conseguenze anche per me.
Pineis contemplò Specchietto sospettosamente e gli
disse:
— Saresti capace, bricconcello, di darmi una piccola
prova oculare del tesoro?
— Sempre a disposizione ! — replicò Specchietto —
Ma dovete sapere, signor stregone civico, che non vi sarà
lecito ripescare senz’altro quell’oro. Vi torcerebbero im­
mancabilmente il collo, perché giù nel pozzo c’è qual­
cosa che non va: ne ho gli indizi sicuri, anche se non
posso trattarne più a lungo, per certi riguardi !
— Ma chi dice di ripescarlo? — disse Pineis non senza
SPECCHIETTO IL GATTINO 24I

paura — Conducimi soltanto a vedere il tesoro. O meglio


ti ci condurrò io, tenendoti legato a un buon laccio per­
ché non mi scappi !
— Come volete ! — disse Specchietto — ma prendete
anche un’altra corda lunga e una lanterna cieca da po­
ter calare nel pozzo, il quale è molto profondo e oscuro !
Pineis seguì il consiglio e accompagnò il vispo gattino
nel giardino della povera defunta. Scavalcarono insieme
il muro e Specchietto mostrò al mago la via che condu­
ceva al pozzo, semicelato tra cespugli inselvatichiti. Pi­
neis calò il lanternino, seguendolo con lo sguardo cupido,
mentre non lasciava scappare il gatto al guinzaglio. Vide
realmente scintillare l’oro sul fondo, sotto l’acqua verda­
stra ed esclamò:
— Certo che lo vedo, c’è proprio ! Specchietto, sei un
vero diavolo ! — Poi, tornando a guardar giù eccitato,
aggiunse — Saranno proprio diecimila?
— Quello non lo si può giurare ! — disse il gatto — Io
non ci sono mai stato laggiù, e non li ho contati ! È anche
possibile che la signora abbia perduto qualche moneta
per la strada, portando qui il tesoro tanto eccitata !
— Che siano anche una dozzina più o meno — riprese
Pineis — a me poco importa ! — Sedette sull’orlo del
pozzo e anche il gattino s’accomodò leccandosi le zam-
pette. — Qui ci sarebbe il tesoro ! — mormorò Pineis
grattandosi il capo — e qui ci sarebbe anche il marito
adatto, manca soltanto la bellissima moglie!
— Come? — domandò Specchietto.
— Dico — riprese l’altro — che manca soltanto colei
che dovrà ricevere le diecimila monete in dote per far­
mene una sorpresa la mattina delle nozze, e possiede in­
sieme tutte quelle gradevoli virtù di cui tu hai parlato !
— Ehm ! — replicò Specchietto — la cosa non sta
proprio così come dite voi ! Il tesoro c’è, come voi giusta­
mente constatate, e la bella donna, ad esser sincero, l’ho
già scovata; ma è il marito disposto a sposarla in così
difficili circostanze che è arduo trovare giacché oggi-
giorno la bellezza deve essere per di più rivestita d’oro,
come le noci di Natale, e più vuote sono le teste, più si
242 LA GENTE DI SELDWYLA

sforzano a riempire la vuotaggine con ricchezze muliebri


per passare poi meglio il loro tempo. Ecco che ora si va a
vedere con aria di importanza un cavallo, o si compra una
pezza di velluto, si va in cerca correndo e girando di una
buona balestra e l’armaiolo ti mette radici in casa. Il pri­
mo dice di dover imbottigliare il suo vino e ripulire i suoi
barili, potare i suoi alberi e far ricoprire il suo tetto, il se­
condo deve mandare ai bagni la moglie malaticcia che
gli costa un occhio, deve spedire il suo legname e far incas­
sare i suoi crediti; uno ha acquistato un paio di levrieri
in cambio dei suoi bracchi, un altro ha comprato un bel
tavolo di quercia allungabile dando in cambio il suo gran­
de armadio di noce; un terzo ha tagliato le pertiche dei
fagioli cacciando il suo giardiniere, ha venduto il suo fieno
e seminato la sua insalata, sempre suo e sua, da mattina a
sera. Taluni dicono persino: «La settimana prossima
ho il mio bucato, devo dar aria ai miei letti, prendere una
domestica e avere un nuovo macellaio, perché voglio
liberarmi di quello vecchio; ho fatto acquisto, per caso,
di una piccola, graziosissima forma per le cialde, ven­
dendo in cambio il mio bossolo d’argento per la cannella,
che tanto non mi serviva». Tutto questo, si capisce, è
roba della moglie, e un tipo simile passa il suo tempo ru­
bando le giornate al buon Dio ed enumerando tutte le
sue occupazioni senza far mai nulla. Al più al più, se uno
di costoro deve usar discrezione, forse dirà: «Le nostre
mucche e i nostri maiali, ma . ..».
Pineis diede uno strappo al guinzaglio di Specchietto,
facendolo miagolare, e urlò:
— Ma smettila, chiacchierone! Dimmi senza indugi:
dove è quella che tu conosci? — L’enumerazione di tutti
gli splendori e i lussi che vanno uniti alla dote di una
moglie avevano fatto venire ancor più l’acquolina in
bocca al magro stregone.
Specchietto rispose stupito:
— Ma vorreste veramente buttarvi nell’impresa, signor
Pineis?
— Si capisce che lo vogliose chi meglio di me? Dimmi
dunque: dove è la donna?
SPECCHIETTO IL GATTINO 243

— Perché voi andiate a chiederla in sposa?


— Senza dubbio !
— Sappiate allora che l’affare passa soltanto per mano
mia. È con me che dovete parlare, se volete denaro e
moglie ! — disse Specchietto con aria impassibile e indif­
ferente, passandosi ambedue le zampette dietro le orec­
chie, dopo averle un poco inumidite.
Pineis meditò parecchio, trasse un sospiro e disse poi:
— Capisco : tu vuoi annullare il nostro contratto e sal­
vare la testa!
— Vi sembrerebbe forse cosa non equa e naturale?
— Ma alla fine tu mi inganni e mi imbrogli da bric­
cone !
— Questo è anche possibile! — ammise Specchietto.
— Bada bene : non ingannarmi ! —- esclamò Pineis con
tono di comando.
— Sia, allora non vi inganno ! — disse il gatto.
— Ma se lo fai !
— È segno che lo faccio.
— Non starmi a tormentare, Specchietto ! — disse Pi­
neis quasi piangendo, al che il gatto replicò facendosi
serio :
— Siete un uomo ben strano, signor Pineis ! Mi tenete
a una corda e la tirate da togliermi il respiro ! Tenete so­
spesa su di me da più di due ore la spada della morte,
ma che dico, da un semestre intero, e poi mi venite a
dire: «Non tormentarmi, Specchietto!». Se mi date li­
cenza, vi dirò in breve: a me può far piacere assolvere
quel dovere d’affetto verso la morta e trovare un marito
adatto per la predetta fanciulla, e voi mi sembrate con­
veniente sotto ogni riguardo; non è cosa facile collocare
bene una donna, benché lo sembri, e io tomo a ripetere :
sono contento che voi ci siate disposto ! Ma che non costi
nulla, non c’è che la morte ! Prima di pronunciare una
sola parola o di fare un passo, prima anzi di tornare ad
aprire la bocca, voglio riavere la mia libertà e la vita as­
sicurata ! Staccate quindi quella corda, e deponete il con­
tratto qui sul pozzo, su questa pietra, oppure mozzatemi
addirittura la testa : una delle due !
244 I.A GENTE DI SELDWYLA

— Oh, pazzo furioso! — disse Pineis — quanta fretta;


non saremo tanto alle strette? Son cose che vanno ben
discusse e comunque bisogna concludere un nuovo con­
tratto !
Specchietto non diede più risposta e se ne rimase 11 im­
mobile per uno, per due, per tre minuti. Il maestro
stregone prese allora paura, trasse il portafoglio, ne cavò
con un sospiro il documento, lo rilesse ancora una volta
e lo depose poi esitante davanti al gattino. Ma appena
veduta la carta, Specchietto l’afferrò e ne fece un bocco­
ne; e benché non fosse facile da inghiottire, gli parve la
pietanza più gradita e profittevole che mai avesse man­
giato, nella fiducia che essa gli avrebbe giovato ancora a
lungo e l’avrebbe reso vispo e grassottello. Terminato quel
simpatico pasto, riverì cortesemente il mago, e gli disse:
— Avrete presto mie nuove, signor Pineis, e non vi sfug­
giranno né moglie né denaro. Preparatevi piuttosto ad
essere bene innamorato, per poter giurare e adempiere le
condizioni di un’inviolabile dedizione nei riguardi di vo­
stra moglie che ormai già può dirsi veramente vostra!
E con ciò per ora vi ringrazio del trattamento e del vitto
che mi avete offerto e prendo congedo !
Così dicendo Specchietto se ne andò, compiacendosi
tra sé della stupidaggine dello stregone, il quale pensava
di poter ingannare se stesso e il mondo intero, in quanto
egli non voleva certo sposare la sognata fanciulla con
disinteresse, per solo amore della bellezza, ma conosceva
in anticipo la circostanza dei diecimila fiorini. Specchietto
però aveva già sott’occhi una tale da regalare allo stolto
stregone, in cambio dei suoi tordi, topi e salsicciotti.
Di fronte alla casa del signor Pineis c’era un’altra casa,
con la facciata accuratamente imbiancata e le finestre
sempre scintillanti di pulizia. Le modeste cortine erano
sempre candide e ben stirate e non meno candidi erano
il fazzoletto e le bende di una vecchia beghina che ivi
abitava, tanto che la sua acconciatura monacale, scen­
dente fin sul petto, sembrava carta da lettere ripiegata, e
sulla quale si poteva scrivere, il che del resto si sa­
rebbe comodamente potuto fare sul suo petto piatto e
SPECCHIETTO IL GATTINO 245
duro come una tavola. Se aguzze e taglienti erano le pie­
ghe e gli spigoli della sua veste, non meno lo erano anche
il naso e il mento della beghina, la sua lingua e lo sguar­
do cattivo dei suoi occhi ; parlava però poco con la lingua
e guardava anche poco con gli occhi, non amando lo spre­
co e usando di tutto a tempo debito con gran prudenza.
Ogni giorno si recava tre volte in chiesa e, quando attra­
versava la strada con la sua acconciatura candida e scric­
chiolante e col naso bianco appuntito, i bambini scappa­
vano spaventati e persino gli adulti, se erano ancora in
tempo, si rifugiavano dietro le porte. Essa era bensì fa­
mosa per la rigida religiosità e riservatezza, specialmente
presso il clero, ma i preti stessi preferivano trattare con
lei per iscritto piuttosto che a voce e, quando andava a
confessarsi, il parroco usciva poi ogni volta dal confes­
sionale grondante di sudore, come venisse da un forno.
La pia beghina di austeri sentimenti viveva così in pace
profonda, da tutti indisturbata. Non s’occupava a sua
volta di nessuno e lasciava che la gente, purché le stesse
alla larga, facesse a modo suo ; solo contro il vicino Pineis
pareva nutrire un odio particolare, giacché ogni volta che
questi s’affacciava a una finestra, gli lanciava un’occhia­
taccia, abbassando immediatamente le sue candide cor­
tine. Pineis d’altra parte la temeva come il fuoco e sol­
tanto ben tappato in casa osava pronunciare qualche
frizzo contro di lei. Se la dimora della beghina era bianca
e chiara verso strada, essa aveva in compenso un aspetto
nero e fumoso, misterioso e strano, nella parte posteriore,
non visibile peraltro se non agli uccelli dal cielo e ai gatti
sui tetti, perché inserita in un vicolo oscuro con mura-
glioni altissimi e senza finestre, dove non compariva mai
faccia umana. Sotto quel tetto pendevano vecchie gonne
lacere, cesti e sacchi d’erbe, mentre sopra il tetto cresce­
vano ordinatamente tassi e pruni e un gran comignolo fu­
ligginoso si ergeva fosco nell’aria. Non di rado però, nelle
tenebre della notte, da quel comignolo volava fuori, a ca­
vallo della sua scopa, una hella e giovane strega, nuda
come Dio ha fatto le donne e come Satana volentieri le
guarda. Uscendo dal comignolo, aspirava la fresca aria
246 LA GENTE DI SELDWYLA

notturna col suo nasino gentile e con le sorridenti labbra


porporine e procedeva poi nel candido riflesso del suo
corpo, mentre alle spalle le ondeggiava, simile a una
fosca bandiera, la lunga chioma corvina. In un cavo del
fumaiolo abitava una vecchia civetta e da essa si recò
appunto Specchietto appena libero, tenendo in bocca un
topolino grasso, acchiappato lungo la strada.
— Vi auguro la buona sera, cara signora civetta !
Sempre di guardia? — disse, e la civetta rispose :
— Per forza ! Ricambio la buona sera ! Non vi siete
fatto vedere da un pezzo, signor Specchietto !
— Ho avuto le mie buone ragioni, ve le racconterò.
Ecco, vi ho portato un topolino, quel che si trova in que­
sta stagione, se vi volete degnare di accettarlo ! La pa­
drona è fuori?
— Non ancora, credo voglia fare una volatina di un’o-
retta soltanto verso il mattino. Grazie del bel topo ! Siete
sempre quel gentile Specchietto! Avevo messo qui da
parte un modesto passerotto che oggi m’è volato troppo
vicino: se vi fa voglia, assaggiatelo ! E che è stato di voi?
— Cose strane, — replicò Specchietto — volevano far­
mi la pelle. State ad ascoltarmi, se non vi dispiace.
Mentre i due cenavano piacevolmente, Specchietto rac­
contò all’attenta civetta tutto quel che gli era toccato e il
modo con cui era riuscito a sottrarsi alle mani del signor
Pineis. La civetta commentò:
— Mi congratulo mille volte con voi, ormai siete un
uomo a posto e potete andar lontano, avendo raccolto
non poche esperienze.
— La cosa non è finita, — disse Specchietto — Pineis
deve trovare la moglie e i suoi fiorini !
— Ma avete perduto la testa? Far del bene a quella
canaglia che voleva scorticarvi?
— Infine egli l’avrebbe potuto fare legittimamente, a
termini di contratto, e se io lo posso servire di pari moneta,
perché dovrei rinunciarvi? Chi dice che gli voglia far del
bene? Tutto il racconto è stato una mera invenzione; la
mia defunta padrona era una povera donna semplice,
che mai in vita sua era stata innamorata né circondata da
SPECCHIETTO IL GATTINO 247

adoratori, e quel tesoro è denaro ingiusto da lei una volta


ereditato e gettato poi nel pozzo perché non le portasse
sventura. Essa aveva dichiarato: «Sia maledetto chi lo
toglie e lo adopera ! ». Quanto al beneficio ci sarebbe dun­
que da discutere!
— Allora la faccenda cambia ! Ma da dove volete
prendere la moglie adatta?
— Qui dal fumaiolo ! Per questo sono venuto, per scam­
biare quattro parole sensate con voi ! Non vorreste liberar­
vi una buona volta dagli incantesimi di questa strega? Stu­
diate un po’ come potremmo acchiapparla e farla sposare
al vecchio briccone !
— Oh, Specchietto, basta che voi vi avviciniate perché
si destino in me fecondi pensieri !
— Lo sapevo bene, che voi siete una testa fine ! Io ho
fatto la mia parte, è meglio che ora ci aggiungiate la vo­
stra, impiegandovi tutte le forze, e il successo non potrà
mancare !
— Poiché tutto coincide ottimamente, non ho bisogno
di meditare a lungo : il mio piano è pronto da un pezzo !
— Come la accalappiamo?
— Con una nuova rete da beccacce fatta con corde so­
lide di canapa; deve essere intrecciata da un figlio di cac­
ciatore ventenne che non abbia mai guardato una donna,
e tre volte deve averla bagnata la rugiada notturna senza
che abbia preso una beccaccia; e il movente di tutto ciò
dev’essere stato per tre volte una buona azione. Simile
rete è forte abbastanza per pigliare la strega.
— Sono curioso ora di sapere dove andrete a prenderla,
— disse Specchietto — giacché ben so che voi non state a
far parole vane.
— È già trovata, come·fatta per noi; in un bosco non
lontano di qui c’è un figlio di cacciatore, ventenne, che
non ha mai veduto donna, perché è nato cieco. Appunto
per questo non può far altro che intrecciar reti e pochi
giorni fa ha finito una bellissima rete da beccacce. Quan­
do il padre cacciatore volle tenderla per la prima volta,
passò di lì una donna che tentò di indurlo in peccato ; era
però tanto brutta, che il vecchio scappò via spaventato,
248 LA GENTE DI SELDWYLA

lasciando cadere a terra la rete. Per questo ci si è posata la


rugiada, senza che prendesse una beccaccia, e la causa
ne fu una buona azione. Quando tornò il giorno seguente
per tenderla di nuovo, passò un cavaliere che aveva alle
spalle un pesante sacco bucato dal quale, di tanto in tan­
to, cadeva a terra una moneta d’oro. Il cacciatore lasciò di
nuovo a terra la sua rete per rincorrere zelantemente il
cavaliere, e stava raccogliendo appunto le monete nel
suo cappello quando il cavaliere si voltò, lo scorse e ri­
volse adirato la sua lancia contro di lui. Il cacciatore si
chinò impaurito, e gli porse il cappello dicendogli: «Scu­
sate, signore, avete perduto molto oro e io ve l’ho rac­
colto con cura!». Questa fu un’altra buona azione, anzi
restituire il trovato è una delle più ardue e migliori ! Si era
ormai tanto allontanato dalla sua rete che la lasciò una
seconda notte nel bosco, avviandosi a casa per la strada
più breve. Il terzo giorno, finalmente, cioè ieri, mentre
era in cammino, il vecchio incontrò una graziosa sua co­
mare che soleva far la vezzosa con lui e alla quale già
àveva regalato più di un leprotto. L’incontro gli fece
totalmente dimenticare i beccaccini e l’indomani mat­
tina disse: «Ho condonato la vita alle povere beccacce:
bisogna esser pietosi anche verso gli animali !». E in gra­
zia di queste tre buone azioni, si ritenne troppo buono
per questo mondo e stamattina per tempo si è ritirato in
ùn convento. Per questo la rete è ancora inadoperata nel
bosco e non ho che andare a prenderla.
— Andateci subito!— disse Specchietto — servirà ot­
timamente ai nostri fini!
— Io ci vado, — disse la civetta — voi intanto fate la
sentinella per me quassù e se la padrona chiedesse dal
basso se non ci sono pericoli, rispondete, imitando la mia
voce : «Non c’è ancor puzza nella sala d’armi ! ».
Specchietto si collocò nella nicchia e la civetta volò
tacita oltre la città, verso il bosco. Tornò ben presto con
la rete, e gli chiese:
— Ha già chiamato?
— Non ancora! — rispose Specchietto.
Tesero allora la rete sul fumaiolo e si posero lì accanto in
SPECCHIETTO IL GATTINO 249

silenzio: l’aria era scura e alitava un venticello mattutino


in cui tremolavano un paio di stelle.
— Vedrete — sussurrò la civetta — con quanta abilità
sa sbucar fuori dal camino senza sporcarsi le spalle nude !
— Non l’ho mai veduta tanto da vicino; — replicò
Specchietto sottovoce — purché non riesca ad acchiap­
parci !
In quel momento la strega domandò dal basso:
— Nessun pericolo? — e la civetta rispose:
— Nessuno, c’è una puzza meravigliosa nella sala d’ar­
mi ! — E subito sbucò fuori la strega, incappando nella
rete, che gatto e civetta serrarono e legarono con gran
prontezza.
— Tieni saldo ! — disse Specchietto.
— Lega bene ! — gridò la civetta. La strega si dibat­
teva furiosa, ma in perfetto silenzio, come un pesce nella
rete. A nulla però le giovò, perché la canapa resistette.
Solo il manico della scopa sporgeva dalle maglie. Spec­
chietto cercò di tirarlo fuori pian piano, ma gli toccò un
tal colpo sul naso, che quasi cadde svenuto e constatò
quanto fosse pericoloso avvicinarsi troppo a una leonessa
sia pure in gabbia. Alla fine la strega s’acquietò e chiese :
— Che cosa volete da me, o strane bestioline?
— Mi dovete licenziare dal vostro servizio, restituen­
domi la libertà — disse la civetta.
— Quanto chiasso per nulla ! — replicò la strega —
Sei libera, apri la rete !
— Non ancora ! — disse Specchietto, continuando a
sfregarsi il muso — Dovete impegnarvi a sposare il vostro
vicino, lo stregone civico Pineis, nel modo che noi vi in­
segneremo, e a non lasciarlo mai più !
La strega cominciò a dimenarsi e a sbuffare di nuovo
come un diavolo e la civetta disse:
— Non accetta !
Specchietto però aggiunse:
— Se non state tranquilla e non fate quel che deside­
riamo, appendiamo la rete col suo contenuto là al ma­
scherone della grondaia, verso la strada, in modo che do­
mani tutti vi vedranno e riconosceranno la strega. Ditemi
25° LA GENTE DI SELDWYLA

dunque: preferite venir arrostita agli ordini del signor


Pineis, oppure mandare lui arrosto sposandolo?
La strega replicò con un sospiro:
— Parlate allora: come vedete voi la faccenda?
Specchietto le espose con precisione quel che volevano
e quel che a lei sarebbe toccato di fare.
— È cosa tollerabile, se non c’è altra via ! — disse lei,
arrendendosi poi con le formule più solenni che pos­
sano impegnare una strega. Allora le due bestie aprirono
la rete e la lasciarono libera. Essa inforcò subito la scopa,
la civetta si accomodò con lei sul manico e Specchietto in
fondo, sul fascio di saggina, tenendosi ben saldo, e a quel
modo cavalcarono sino al pozzo, dentro il quale si calò
la strega per cavarne il tesoro.
L’indomani mattina Specchietto si presentò al signor
Pineis, annunciandogli che avrebbe potuto conoscere e
domandare in sposa la ben nota persona ; questa era però
ridotta in tale miseria da trovarsi, derelitta e scacciata,
lì sotto un albero davanti al portone di città, immersa in
un amaro pianto. Subito il signor Pineis indossò lo sdru-
scito giubbetto di velluto giallo che serbava per le occa­
sioni solenni, mise il berretto buono di pelo di can bar­
bone e affibbiò la spada. Prese poi in mano un vecchio
guanto verde, un flaconcino in cui c’era stato del balsamo
e che ancora ne serbava il profumo e un garofano di carta,
e s’avviò così con Specchietto fuori porta a prender la
sposa. Trovò seduta in lagrime sotto un salice una donna
di straordinaria bellezza, come non ne aveva vedute mai;
la sua veste era tanto lacera e mal ridotta che, malgrado
i suoi gesti pudichi, ne sbucava qua e là il corpo candi­
dissimo. Pineis spalancò gli occhi mentre l’impetuoso ra­
pimento gl’impediva quasi di formulare la sua domanda.
La bella donna, sentendolo, asciugò le lagrime, gli porse
la mano con un dolce sorriso, lo ringraziò della sua ma­
gnanimità con una voce da campana celeste, giurando di
essergli eternamente fedele. Nello stesso istante però Pineis
fu còlto da tale furiosa gelosia per la sua sposa, che
decise di non lasciarla mai vedere ad alcun occhio
umano. Fece celebrare le nozze da un vecchissimo eremita
SPECCHIETTO IL GATTINO 251

e festeggiò il banchetto nella propria casa, senz’altri


ospiti che Specchietto e la civetta, che il gatto aveva chie­
sto licenza di portare con sé. I diecimila fiorini d’oro
stavano sulla tavola entro un gran piatto, e di tanto in
tanto Pineis vi immergeva la mano, poi tornava a guar­
dare la bella donna che gli sedeva accanto in una veste di
velluto azzurro mare col bianco collo cinto di perle e coi
capelli ravvolti in una rete d’oro ed ornati di fiori. Cer­
cava di continuo di baciarla, ma quella sapeva rifiutarsi
con pudico ritegno, con un sorriso seducente, giurandogli
che non l’avrebbe mai fatto davanti a testimoni e prima
del calar della notte. Ciò non faceva che renderlo più
innamorato e beato, mentre Specchietto faceva saporoso
il banchetto con piacevoli conversari, ripresi dalla bella
donna con le parole più argute e lusinghiere, tanto che lo
stregone era fttor di sé dalla gioia. Quando però si fece
buio, civetta e gatto chiesero discretamente congedo e il
signor Pineis li accompagnò sino alla porta di casa con
un lume, ringraziando di nuovo Specchietto, che pro­
clamò persona eccellente e cortese. Ma, di ritorno nella
sala, vide seduta alla tavola la vecchia bianca beghina
sua vicina di casa, intenta a fissarlo con uno sguardo fe­
roce. Pineis esterrefatto lasciò cadere il lume e s’appoggiò
tremando alla parete. Gli pendeva fuori la lingua e la
faccia gli era divenuta livida e aguzza come quella della
beghina. Questa intanto si alzò, gli si accostò e lo spinse
dinanzi a sé verso l’alcova, dove con arti infernali lo mise
a una tortura quale nessun mortale ha mai conosciuto.
Egli fu così indissolubilmente accoppiato alla vecchia, e in
città, quando lo si seppe, si disse: «Guarda come son
profonde le acque chete ! Chi avrebbe pensato che la pia
beghina e il signor stregone civico avrebbero finito per
sposarsi! Bene, è una coppia legittima e rispettabile, se
anche non troppo graziosa!».
Pineis condusse da quel giorno una vita miseranda : la
sua consorte si era impossessata di tutti i suoi segreti e lo
dominava assolutamente. Non la minima libertà o il mi­
nimo svago gli eran concessi: doveva fare a tutti i costi
incantesimi da mattina a sera, e quando Specchietto pas-
252 LA GENTE DI SELDWYLA

sando di là lo vedeva faticare, gli diceva gentilmente:


«Sempre al lavoro, nevvero signor Pineis?».
Da quel tempo a Seldwyla si suol dire: «Quello ha
comprato il grasso al gatto ! », specialmente quando qual­
cuno per cupidigia s’è presa una moglie cattiva e ri­
pugnante.
LA GENTE DI SELDWYLA
PARTE SECONDA
Da quando è comparsa la prima metà di questi raccon­
ti, ben sette città della Svizzera discutono a quale di esse
si sia voluto alludere con Seldwyla, e poiché per antica
esperienza l’uomo vanitoso preferisce essere ritenuto cat­
tivo, fortunato e divertente piuttosto che ammodo, ma
golfo e sempliciotto, cosi ciascuna di quelle cittadine ha
offerto all’autore la cittadinanza onoraria per il caso che
egli si dichiarasse per lei.
Dato però che già possiede una città natale, non in­
feriore ad alcuna di quelle ambiziose comunità, l’autore
ha cercato di ammansirle facendo loro credere che in ogni
città e in ogni valle della Svizzera si erge un piccolo cam­
panile di Seldwyla e che questa località è quindi in certo
modo da considerarsi una sintesi di quei piccoli cam­
panili, una città ideale segnata soltanto nelle nebbie
della montagna, destinata perciò a migrare con esse dal­
l’uno all’altro distretto, superando forse anche, qua e là,
i confini della cara patria, oltre il vecchio Reno.
Mentre però alcune di quelle città continuano tena­
cemente a volersi assicurare il loro Omero ancora viven­
te, nell’autentica Seldwyla s’è determinata una tale meta­
morfosi, che il suo carattere specifico, rimasto identico
attraverso i secoli, in meno di un decennio ha mutato,
sino a minacciare di diventare l’opposto.
Oppure, per esser più sinceri, la vita del paese in ge­
nere si è foggiata in maniera che in essa possono svilup­
parsi mirabilmente le particolari doti e bizzarrie degli
ottimi' Seldwylesi, i quali vi trovano una corrente favo­
revole, un terreno propizio ove si sentono maestri e dove
si trasformano in gente bene arrivata e pacifica che per
nulla più si distingue dal resto del saggio mondo.
È stato particolarmente il partecipare alla specula­
zione, ovunque diffusasi, in valori noti e ignoti ciò che
aprì ai Seldwylesi un campo il quale parve sin dai pri­
mordi creato per essi e che li ha di colpo parificati a mi­
gliaia di seri uomini d’affari.
Discutere in pubblico tali valori, darsi attorno per av­
viare un affare che non implica altro lavoro fuorché
subire complesse emozioni, aprire e spedire telegrammi e
25θ LA GENTE DI SELDWYLA

compiere cento cose del genere fatte per riempire la gior­


nata : ecco proprio quel che faceva per loro ! Ogni seld-
wylese è ora un agente nato, o qualcosa di simile; emi­
grano anzi in tal veste, come i confettieri dell’Engadina,
i gessaiuoli ticinesi e gli spazzacamino savoiardi.
Invece dello spesso portafogli di un tempo, gonfio di
ricevute spiegazzate e di miserabili cambialette, essi ora
tengono in tasca degli eleganti taccuini dove vengono
segnati brevemente gli ordini per azioni e per obbliga­
zioni, per seta o cotone. Appena nasce una qualunque
impresa, subito accorrono alcuni di loro e le svolazzano
attorno come passeri, aiutandola ad ampliarsi. Se a uno
riesce di agguantare un guadagno, subito si fa da parte,
come la carpa col verme in bocca, per riaffiorare alle­
gramente in un altro punto di attrazione.
Sono sempre in moto ed entrano in rapporti col mondo
intero. Giocano a carte con gli uomini d’affari più quotati
e sono abilissimi nel lanciare fra una mano e l’altra ra­
pide risposte a domande d’affari o nel conservare un si­
gnificativo silenzio.
Si son fatti intanto già più laconici e asciutti: ridono
meno che in passato e non trovano quasi più tempo per
escogitare beffe o divertimenti.
Già qua e là si accumula un poco di patrimonio, che
al sopravvenire di crisi commerciali trema invero ancora
come una foglia, oppure anche si dissolve tacitamente al
vento, come fa un comizio illegale al sopravvenire della
polizia.
Ma non vi sono più, come in passato, comodi e volgari
fallimenti e reciproche rovine, bensì signorili concordati
con distinti creditori stranieri, o rovesci di fortuna medita­
tamente discussi, che hanno, quasi quasi, una parvenza
di legalità; così pure vi sono ritorni di fortuna ed è ben
raro che uno debba sparir dalla scena.
Alla politica hanno quasi del tutto rinunciato, persuasi
che essa porti sempre alla guerra ; quali aspiranti al pos­
sesso, ora temono e odiano ogni eventualità di guerra al
pari del diavolo, mentre un tempo, dietro i loro boc­
cali di birra, muovevano guerra a tutta l’antica pen-
LA GENTE DI SELDWYLA 257

tarchia. Così gli ardenti politicanti di un tempo so­


no arrivati al punto di evitare, paurosi, ogni giudizio
sulle faccende pubbliche, per non appoggiarvi, voluta-
mente o no, alcun affare, ritenendo ben più salda base la
loro cieca fiducia nel caso.
Ma appunto per tal via la natura dei Seldwylesi si va
trasformando; essi, come già si disse, hanno ormai l’aspet­
to di tutte le altre persone; non accade più fra loro cosa
alcuna degna di essere annotata e meditata, ed è quindi
ormai giunta l’ora di spigolare un poco nell’allegro pas­
sato della città, lavoro al quale debbono appunto la loro
vita le cinque storie che qui seguono.
L’ABITO FA IL MONACO

In una uggiosa giornata di novembre un povero sartorello


s’avviava sullo stradone che conduce a Goldach, una
fiorente cittadina distante solo poche ore da Seldwyla.
Non aveva in tasca che un ditale e, in mancanza di mo­
neta, lo rigirava senza posa tra le dita quando per il gran
freddo ficcava le mani nei pantaloni, così che per il troppo
rigirarlo le dita gli dolevano. In seguito al fallimento di
uno dei grandi sarti di Seldwyla, aveva perduto il lavoro
insieme con la paga ed era stato costretto a emigrare.
Per colazione non aveva mangiato che qualche fiocco
di neve entratogli in bocca e non sapeva immaginare di
dove gli potesse arrivare un sia pur modesto spuntino.
Il chiedere aiuto gli riusciva straordinariamente penoso,
gli sembrava anzi impossibile, forse anche perché sull’abi­
to nero della domenica, l’unico suo vestito, indossava un
ampio mantello grigio scuro con colletto di velluto nero,
il quale gli conferiva un’aria austera e romantica; aveva
lunghi capelli neri e baffetti ben curati e poteva andare
orgoglioso di un volto pallido, ma dai tratti regolari.
Tale abbigliamento era divenuto ormai un’esigenza per
lui, senza che si proponesse per questo alcun male o alcun
inganno; era anzi contento se spltanto lo lasciavano lavo­
rare in pace; però avrebbe preferito morire di fame che
separarsi dal suo mantellone e dal berretto di pelo alla
polacca, che sapeva pure portare con grande dignità.
Poteva quindi lavorare soltanto nelle città di una certa
importanza, dove quel costume non dava nell’occhio:
quando invece viaggiava a piedi e senza un soldo cadeva
in situazioni molto imbarazzanti. Se si avvicinava a una
casa, la gente lo osservava un po’ stupita e incuriosita, ma
ben lungi dall’aspettarsi che venisse ad elemosinare; per
questo, non essendo egli poi per nulla facondo, gli mori­
vano le parole in bocca e finiva per essere il martire del
suo mantello e per soffrire una fame ancor più nera del­
la fodera di velluto di quest’ultimo.
Mentre, debole e crucciato, risaliva una collina, gli pas-
L’ABITO FA IL MONACO 259

sò accanto una carrozza da viaggio comoda e nuova che


un cocchiere privato era andato a prendere in consegna
a Basilea, per portarla al suo padrone, un conte forestiero
il quale viveva in qualche angolo della Svizzera orientale
in un castello comprato o affittato. La carrozza era bene
attrezzata per trasportar bagagli e sembrava quindi molto
carica, benché fosse in realtà vuota. Il cocchiere proce­
deva nella ripida salita accanto ai cavalli e quando, giun­
to in cima, risalì a cassetta, domandò al sarto se volesse
prender posto nella carrozza vuota. Cominciava a pio­
vere ed egli s’era accorto alla prima occhiata che quel
viandante andava per il mondo stanco e preoccupato.
Quello naturalmente accolse l’offerta con modestia e
gratitudine, il cocchio partì al galoppo e in meno di un’o­
ra entrò maestoso e rumoroso per la porta di Goldach.
L’elegante veicolo s’arrestò di colpo davanti alla prima
locanda, detta della Bilancia, e subito il facchino alla porta
diede un tale strappo al cordone del campanello da farlo
quasi andare in pezzi. Accorsero padrone e personale ad
aprire Io sportello, mentre già bambini e vicini circonda­
vano la carrozza lussuosa, curiosi di vedere quale nocciolo
uscisse da simile guscio straordinario, così che, quando fi­
nalmente ne saltò fuori il sarto intontito, ravvolto nel suo
gran mantello, pallido e avvenente, con lo sguardo melan­
conico rivolto a terra, egli dovette apparir loro per lo me­
no un principe misterioso, o un figlio di nobili. Scarso era
lo spazio fra la carrozza e l’ingresso della locanda, nonché
quasi tutto ingombro dalla folla degli spettatori. Gli man­
casse la presenza di spirito o il coraggio di rompere il
cerchio della gente per svignarsela . . . fatto è che non
lo fece ma si lasciò accompagnare passivamente entro la
casa, su per le scale, rendendosi conto della strana situa­
zione solo quando si vide accomodato in un’ospitale sala
da pranzo e gli fu premurosamente tolto dalle spalle il
solenne mantello.
— Il signore desidera pranzare? — gli dissero — Sarà
servito tra poco, è tutto pronto !
Senza aspettare risposta, l’oste della Bilancia corse in
cucina gridando:
2ÖO LA GENTE DI SELDWYLA

— Per tutti i diavoli ! E ora non abbiamo che manzo


lesso e una coscia di montone ! Il pasticcio di pernice non
lo posso intaccare, perché è destinato ai clienti di questa
sera ed è stato loro promesso. È sempre così! L’unico
giorno in cui non aspettiamo nessuno e non abbiamo nul­
la ci deve capitare un tale signore ! Il cocchiere ha lo
stemma sui bottoni e la carrozza sembra quella di un
duca ! E il giovanotto non apre quasi bocca, tanto è di­
stinto !
Ma la saggia cuoca replicò:
— Perché tanti piagnistei, signor padrone? Metta pure
in tavola con coraggio il pasticcio: non lo mangerà poi
tutto ! Lo daremo ai signori di stasera suddiviso a porzio­
ni e ne caveremo benissimo ancora sei fette !
— Sei porzioni ! Ma voi dimenticate che i signori sono
avvezzi a mangiare a sazietà ! — osservò l’oste, ma la
cuoca insistette impassibile:
— Mangino pure ! Mandiamo a prendere in fretta una
mezza dozzina di costolette, ché tanto ne abbiamo biso­
gno per il forestiero, e quel che avanza lo trituro bene e lo
mescolo poi al pasticcio : lasci fare a me !
Ma il bravo albergatore l’ammonì austeramente:
— Cuoca, vi ho già detto più di una volta che simili ri­
pieghi non vanno in questa città e in questa locanda!
Noi qui siamo gente seria e onorata, e ce lo possiamo per­
mettere !
— Diavolo, diavolo ! Va bene ! — riprese la cuoca, per­
dendo finalmente la sua calma — Ma se non ci si sa ar­
rangiare si corra un po’ di rischio ! Ecco qui due beccacce
che ho comprato proprio ora da un cacciatore e che po­
tremmo benissimo aggiungere al pasticcio. Speriamo che
quei ghiottoni non avranno nulla a ridire contro un pa­
sticcio di pernici adulterato a base di beccacce ! Ci sono
poi anche le trote : ho gettato la più grossa nell’acqua bol­
lente appena ho visto arrivare quello strano equipaggio,
e la salsetta cuoce già nella padellina: abbiamo quindi
pesce, manzo, verdura e costolette, arrosto di montone e
pasticcio; mi dia soltanto la chiave perché vada a prende­
re i sottaceti e la frutta. Quella chiave del resto, padrone,
L’ABITO FA IL MONACO 261

potrebbe affidarmela con tutto onore e fiducia, così non


si sarebbe costretti a correrle dietro ogni momento con
gran confusione!
— Cara cuoca ! Non dovete serbarmene rancore, ma io
ho dovuto giurare al letto di morte della mia povera
moglie che avrei sempre tenuto in mano mia le chiavi;
questo lo faccio dunque per principio e non per sfiducia.
Eccovi i cetrioli e le ciliegie, eccovi le mele e le albicocche ;
però non si può portare in tavola dei biscotti vecchi, la
Lise corra subito dal pasticciere a prenderne tre piatti
freschi, e se ha una buona torta ve l’aggiunga !
— Ma padrone ! Lei non può mettere tanta roba in
conto a un solo cliente, non ci guadagna neppure col più
buon volere !
— Non importa, ne va dell’onore ! Non mi rovinerò
per questo ma, in compenso, un gran signore passando
per la nostra città deve poter dire che ha trovato una
buona tavola, pur capitandoci inaspettato e in pieno in­
verno ! Non voglio che si parli di noi come degli alberga­
tori di Seldwyla, che mangiano loro il meglio e offrono
gli ossi ai clienti ! Coraggio dunque ed energia e sbrigatevi
tutti!
Durante questi prolungati preparativi il sarto era in
preda alla più penosa angoscia. Vedendo la tavola ap­
parecchiata con gran lusso, il povero affamato, che po­
chi minuti avanti aveva sognato una qualunque pietanza,
desiderava ora con altrettanto ardore di sfuggire alla mi­
naccia d’un pranzo. Alla fine si fece animo, tornò a rav­
volgersi nel mantello, mise il berrettone e s’awiò in cerca
di un’uscita. Siccome però nella sua confusione non trovò
subito la scala del vasto edificio, il cameriere, sempre af­
faccendato da quelle parti, credette che andasse in cerca
di un certo localino e gli gridò: «Permetta signore, le
indicherò subito io la strada!», e lo accompagnò infatti
per il lungo corridoio, il quale finiva dinanzi a una porta
ben verniciata su cui spiccava una nitida iscrizione.
L’uomo dal mantello, docile come un agnellino, non
potè che rassegnarsi ad entrare e rinchiuse la porta alle
sue spalle. S’appoggiò con un amaro sospiro alla parete,
2Ô2 LA GENTE DI SELDWYLA

invocando la preziosa libertà della strada, che in quel mo­


mento, malgrado il maltempo, gli appariva come la mas­
sima felicità.
Ma fu proprio allora, indugiando qualche minuto nello
stanzino chiuso, che incappò automaticamente nella pri­
ma menzogna e pose quindi piede sulla sdrucciolevo­
le via del peccato.
L’oste intanto, che l’aveva visto passare col mantello
sulle spalle, gridava : « Ma il signore ha freddo ! Riscal­
date meglio la sala ! Dov’è Lise, dove si è cacciata Anne?
Qua svelte: una cesta di legna nella stufa e alcune ma­
nate di trucioli perché attacchi bene ! Perbacco, forse che i
clienti della Bilancia dovran stare a tavola intabarrati?».
Quando il sarto ricomparve dal lungo corridoio, melan­
conico come l’antenato fantasma di un castello avito,
l’oste fra mille complimenti e fregatine di mano lo riac­
compagnò nel maledetto salone. Ivi venne senz’altro in­
dugio condotto a tavola, gli fu accomodata la sedia e,
anche perché il profumo da tanto tempo non gustato
della sostanziosa minestra gli toglieva ogni volontà, egli
si lasciò andare sulla sedia in nome di Dio e immerse
senz’altro il pesante cucchiaio nel brodo dorato. Ristorò
i suoi languenti spiriti vitali in profondo silenzio e venne
servito con rispettoso e tacito zelo.
Quand’ebbe vuotato il piatto, l’oste, accorgendosi che
l’aveva gustata, l’incoraggiò cortese a prendere un altro
cucchiaio di zuppa, salutare con quel tempaccio. Venne
poi servita la trota inghirlandata di verde e il padrone
stesso gli mise sul piatto il pezzo migliore. Ma il sarto,
tormentato dai suoi pensieri, non osava per lo smarri­
mento servirsi del lucido coltello e, timido e schizzinoso,
cincischiava il pesce con la forchettina d’argento. Se ne
accorse la cuoca, venuta a spiare dalla porta quel gran
cliente e disse agli astanti: «Sia lodato Gesù Cristo!
Quello si è capace di mangiare un pesce fino come si con­
viene ! Non ci dà dentro col coltello nella carne delicata,
quasi dovesse ammazzare un vitellino! È un signore di
sangue nobile, ne farei giuramento, se questo non fosse
proibito ! E come è bello e melanconico ! Senza dubbio è
L’ABITO FA IL MONACO 263

innamorato di una damigella povera, che non gli lasciano


sposare ! Ahimè, anche i gran signori hanno i loro dispia­
ceri ! ».
Nel frattempo l’oste s’accorse che il cliente non beveva
e gli domandò ossequioso: «Il signore non ama il vino
da pasto? Desidera forse un bicchiere di buon Bordeaux
che le posso proprio raccomandare?».
E qui il sarto commise automaticamente la seconda col­
pa, dicendo per obbedienza «sì», invece di «no», al che il
padrone corse tosto personalmente in cantina a prendere
una bottiglia speciale, giacché ci teneva che si raccontasse
che in paese c’era roba buona. Quando poi il cliente, per­
ché la coscienza lo rimordeva, non sorbì che piccoli sorsi
del vino versatogli, l’oste tornò allegro in cucina e disse
facendo schioccare la lingua:
— Che il diavolo mi pigli, se quello non è un inten­
ditore ! Sorbisce il vino buono in punta di lingua, co­
me si metterebbe un ducato sul bilancino dell’oro !
— Sia lodato Gesù Cristo ! — fece eco la cuoca — L’ho
detto anch’io che se ne intende !
Il pranzo s’àvviò a quel modo, dapprima con molta
lentezza, perché il povero sartorello mangiava e beveva
schizzinoso e malsicuro e il padrone, per lasciargli tem­
po, non affrettava il servizio. Ben poco era in complesso
quel che il cliente aveva consumato sino a quel momento ;
ma la fame, pericolosamente stuzzicata, finì per superare
la paura e, quando comparve il pasticcio di pernice, lo
stato d’animo del sarto si mutò di colpo e si impadronì
di lui un preciso pensiero : “Ormai la cosa è fatta,” si disse,
riscaldato ed eccitato da un altro goccio di vino “sarei
proprio uno sciocco se subissi lo scandalo e la persecuzione
inevitabile senza almeno essermi ben saziato ! Provvedia­
mo così finché è tempo ! Questa bella torretta che mi han­
no messo dinanzi è probabile sia l’ultima portata e a que­
sta mi attaccherò, avvenga quel che può! Quel che ho
in corpo non me lo potrà poi rubare neppure un re !”.
Detto fatto, col coraggio della disperazione, attaccò
l’appetitoso pasticcio, senza concedersi soste, così che in
meno di cinque minuti era sparito a metà e il problema
264 LA GENTE DI SELDWYLA

cominciava a presentarsi grave per i clienti della sera.


Carne, tartufi, pasta, crosta e fondo, tutto divorò senza
discriminazione, preoccupato soltanto di riempire bene
la sua bisaccia prima che il fato lo colpisse. Insieme
beveva vino a lunghi sorsi e ficcava in bocca gran pezzi
di pane; fu insomma un carico frettoloso e intenso, co­
me quando, mentre s’addensa un temporale, si mette in
salvo il fieno a precipizio, portandolo col forcone dal prato
vicino sino alla cascina. Il padrone scese un’altra volta in
cucina a commentare:
— Cuoca ! Mangia tutto il pasticcio, mentre non ha
quasi intaccato l’arrosto ! E beve il Bordeaux a mezzi bic­
chieri !
— Buon pro’ a lui ! — disse la cuoca — Lo lasci fare,
che quello sa cosa sono le pernici ! Se fosse un cliente da
poco, si sarebbe tenuto all’arrosto!
— Lo dico anch’io ! — annuì il padrone — Non è forse
un modo di mangiare molto elegante ma, quando giravo
per imparare il mestiere, ho visto mangiare a questa ma­
niera soltanto generali e canonici !
Nel frattempo il cocchiere aveva fatto dare la biada ai
cavalli e si era goduto a sua volta un buon pranzo nel
locale per la gente del paese; poi, siccome aveva gran
fretta, fece subito attaccare. I domestici della Bilancia non
seppero allora trattenersi, e chiesero all’elegante vettu­
rino, prima che fosse troppo tardi, chi mai fosse il suo pa­
drone su in salotto e come si chiamasse. Il cocchiere,
un bel tipo di burlone, replicò:
— Non l’ha ancor detto da sé?
— No ! — gli risposero. E allora soggiunse :
— Lo credo, quello non dice molte parole in fin d’una
giornata ! Ebbene è il Conte Strapinski ! si fermerà oggi
e forse qualche giorno ancora, poiché mi ha dato ordine
di precederlo con la carrozza.
Egli si permise quello scherzo sciocco per vendicarsi del
sartorello, il quale, com’egli credeva, invece di dirgli una
parola di congedo e di gratitudine per la sua cortesia,
era entrato in albergo a far la parte del signore senza nem­
meno voltarsi. Per condurre a termine la beffa, il cocchiere
L’ABITO FA IL MONACO 265

risalì poi in carrozza senza chiedere il conto per sé e per i


cavalli, fece schioccare la frusta e uscì dalla città. Tutti
intanto trovarono la cosa naturale e misero il debito in
conto al sarto.
Ma il caso volle che questi, oriundo della Slesia, avesse
davvero il nome di Strapinski, Wenzel Strapinski, sia che
questa fosse una coincidenza o che il sarto avesse dimen­
ticato in carrozza il suo libretto di lavoro e che il coc­
chiere se lo fosse preso. Comunque, quando il padrone
gli si accostò stropicciandosi le mani e gli chiese se il signor
conte Strapinski desiderava dopo tavola un bicchiere di
vecchio Tokay oppure una coppa di Champagne e gli co­
municò intanto che le camere erano già pronte, l’infelice
Strapinski impallidì, tornò a confondersi ma non seppe
che cosa replicare.
“Interessantissimo!” l’oste brontolò fra sé tornando
a correre in cantina per cavare da uno scaffale segreto
non soltanto una bottiglietta di Tokay, ma anche un
boccale di Bocksbeutel e ficcandosi sotto il braccio una
bottiglia di Champagne. Strapinski si vide d’un tratto
sorgere dinanzi una piccola selva di bicchieri, fra i quali
si ergeva al pari di un pioppo l’alto calice dello Cham­
pagne. Era uno scintillio, un tintinnio, un profumo ben
strano che ravvolgeva e, cosa ancor più singolare, quel­
l’uomo povero ma non goffo s’addentrò con abilità nella
piccola selva e, vedendo che l’oste aggiungeva una goc­
cia di vin rosso al suo Champagne, versò un po’ di Tokay
nel proprio calice. Nel frattempo erano sopraggiunti il se­
gretario comunale e il notaio per giocare come di con­
sueto la tazza di caffè ; venne pure il figlio maggiore della
ditta Haberlein & Co., il cadetto della ditta Pütschli-
Nievergelt, il contabile di una grande filanda, signor
Melcher Böhni. Invece di accingersi alla loro partita,
tutti quei signori giravano però attorno al conte polacco
con le mani nelle tasche, ammiccando e sorridendo a
fior di labbro. Erano membri di buone famiglie costretti a
passare la vita a casa loro, ma con parenti o amici sparsi
per il mondo, e persuasi quindi di conoscere benissimo
l’universo intero.
266 LA GENTE DI SELDWYLA

Quello dunque era un conte polacco? Avevano già ve­


duto passar la carrozza stando nei loro uffici; ora non si
capiva bene se era l’albergatore che invitava il conte o
viceversa. Però l’oste della Bilancia non aveva mai fatto
burle sciocche, era anzi conosciuto come una testa fine,
così che i curiosi signori strinsero sempre più i loro giri
attorno al forestiero, finché vennero a sedersi confiden­
zialmente alla sua stessa tavola e si invitarono senz’altro
a quel convito, cominciando a giocare ai dadi una bot­
tiglia.
Non bevvero molto, essendo ancora troppo presto, ma
ordinarono un sorso di ottimo caffè e si disposero ad of­
frire al polacco, come già chiamavano fra loro il sarto,
del buon tabacco, perché si rendesse ben conto di dove
era capitato.
— Posso offrire al signor conte un buon sigaro? L’ho
ricevuto direttamente da mio fratello, da Cuba ! — disse
l’uno.
— I signori di Polonia amano anche una buona siga­
retta, ed ecco qui vero tabacco di Smirne mandatoci dal
mio socio — intervenne un altro porgendogli una busta
di seta rossa.
— Questo di Damasco è ancor meglio, signor conte, —
esclamò un terzo — il nostro procuratore di là me l’ha
fatto avere lui stesso !
Un quarto gli mise dinanzi un enorme sigaro gri­
dando :
— Se vuole qualcosa di straordinario, provi questo si­
garo di un piantatore della Virginia, coltivato e confe­
zionato in casa, assolutamente fuori commercio!
Strapinski tacque con un sorrisetto agrodolce e si tro­
vò ben presto ravvolto in nuvolette di fumo odoroso, inar­
gentate leggiadramente dai raggi del sole riapparso. In
meno d’un quarto d’ora il cielo si rasserenò annunciando
il più bel pomeriggio autunnale. Tutti dissero allora che
bisognava godere quell’ora fortunata, visto che l’anno non
ne avrebbe forse regalate ancora molte, e fu deciso di re­
carsi in gita al podere di un allegro pretore che aveva
pigiato il vino pochi giorni innanzi, per assaggiare il suo
L’ABITO FA IL MONACO 267

nuovo prodotto, il celebre Sauser rosso. Pütschli-Niever-


gelt figlio mandò a prendere il suo calesse da caccia
e ben presto due giovani cavalli grigio ferro scalpitarono
davanti alla Bilancia. Anche l’oste fece attaccare e il conte
fu premurosamente invitato ad unirsi alla brigata per co­
noscere un poco il paese.
Il vino gli aveva aguzzato l’ingegno: si rese subito conto
che in tale occasione avrebbe potuto meglio svignarsela e
continuare poi il viaggio, lasciando il danno a quei signori
sciocchi e indiscreti. Accettò quindi l’invito con parole
cortesi e salì sulla carrozza del giovane Pütschli.
Per un’altra singolare coincidenza, il sarto non solo
da ragazzo nel suo villaggio aveva per qualche tempo
servito il castellano, ma aveva poi fatto il soldato negli
usseri, impratichendosi così a sufficienza di cavalli. Quan­
do il compagno gli domandò cortesemente se non deside­
rasse eventualmente guidare, prese senz’altro le redini e
la frusta e partì con scuola impeccabile al trotto, attra­
versando la porta della città e avviandosi rapido per lo
stradone, mentre gli altri guardandosi l’un l’altro si sus­
surravano: «Non c’è dubbio, è senz’altro un signore!».
In mezz’ora raggiunsero la tenuta del pretore; Stra-
pinski entrò con una splendida voltata, facendo poi fer­
mar di colpo la focosa pariglia: balzarono tutti a terra,
sopraggiunse il pretore che invitò la comitiva ad entrare
e a sedersi attorno a una tavola che presto fu coperta da
una mezza dozzina di caraffe colme di bel Sauser color
di corniola. Il vinello ancora caldo e in fermento venne
prima assaggiato, discusso e lodato, poi attaccato lieta­
mente, mentre il padrone diffondeva in casa sua l’annun­
cio dell’arrivo di un gran conte di Polonia e provvedeva
ad una più larga ospitalità.
La compagnia nel frattempo s’era divisa in due grup­
pi, per recuperare la partita mancata, giacché in quel
paese gli uomini, probabilmente per innato bisogno d’at­
tività, non sanno stare insieme senza fare un giuoco.
Strapinski, dovendo per varie ragioni rinunciare alla par­
tita, venne invitato a far da spettatore, il che sembrò
importante agli altri, avvezzi a sfoggiare alle carte tanta
268 LA GENTE DI SELDWYLA

intelligenza e presenza di spirito. Egli dovette così met­


tersi fra i due gruppi avversari, che miravano soltanto a
giocare con grazia e scaltrezza e ad intrattenere in pari
tempo il loro ospite. Questi se ne stava lì come un prin­
cipe malaticcio al quale i cortigiani offrano uno spetta­
colo gradevole e raccontino intanto i casi del mondo. Gli
spiegarono le mosse, i colpi di mano e gli avvenimenti più
importanti e quando uno dei partiti era costretto a rivol­
gere per un certo tempo la propria attenzione soltanto al
giuoco, l’altro tanto più calorosamente si dedicava a in­
trattenerlo. Supposero che gli argomenti migliori fossero
i cavalli, la caccia e simili, e Strapinski in quel campo era
a posto, giacché gli bastavà rievocare i modi di dire ascol­
tati un tempo da ufficiali o proprietari terrieri e che tanto
gli erano sempre piaciuti. Pur servendosi di tali formule
con parsimonia e con un certo ritegno, accompagnato dal
solito melanconico sorriso, ottenne il massimo effetto.
Quando due o tre dei giocatori si alzavano e si ritirava­
no tra loro in disparte, non facevano che ripetersi: «È
un perfetto signore!».
Soltanto Melcher Biffini, il contabile, uno scettico in­
veterato, si fregava le mani soddisfatto, mormorando tra
sé: “Vedo già che ci avviamo a uno dei nostri tipici sub­
bugli, anzi, ci siamo quasi già ! Era ben tempo, poiché
dall’ultima storia sono passati ben due anni! Costui ha
delle dita ben stranamente punzecchiate, che vengono
forse da Praga o da Ostrolenka ! Per parte mia, mi guar­
derò dal turbare il corso degli eventi !”.
Il giuoco volgeva alla fine, anche il gusto per il vin nuo­
vo era placato e i signori preferirono rinfrescarsi coi vini
vecchi che il pretore aveva intanto fatto servire. Ma fu
un rinfresco piuttosto eccitante, dato che subito, nel ti­
more di cadere in ozio vergognoso, fu proposto un giuoco
d’azzardo. Mischiarono le carte e ognuno mise fuori un
tallero ; quando però fu la volta di Strapinski, questi non
avrebbe certo potuto puntare il suo ditale. «Non ho di
questa moneta» mormorò arrossendo, ma già nel frat­
tempo Melcher Biffini, che non l’aveva perduto di vista,
aveva puntato per lui, senza che neppure gli altri vi ba-
L’ABITO FA II, MONACO 269

dassero, troppo ricchi per concepire il sospetto che qual­


cuno a questo mondo fosse privo di denaro. Un momento
dopo vennero spinte verso il sarto, rimasto vincitore,
tutte le puntate; confuso egli lasciò lì il denaro e Böhni
puntò per lui al secondo giro in cui vinse un altro, come
pure al terzo. Ma il quarto e il quinto toccarono di nuo­
vo al polacco, che a poco a poco si ingalluzzì e capì il
gioco. Serbandosi sempre tranquillo e taciturno, giocò
con fortuna alterna; una volta si ridusse a un solo tallero
che fu costretto a puntare, ma tornò a vincere e alla fine,
quando ne ebbero abbastanza della partita, si trovò in
possesso di alcuni luigi d’oro, più di quanto mai avesse
posseduto in vita sua, e vedendo che ognuno intascava i
suoi denari, li prese senz’altro, pur temendo ancora che
fosse tutto un sogno. Böhni, che lo studiava senza posa
acutamente, era ormai ben sicuro sul suo conto e si di­
ceva: “Ma costui non ha mai viaggiato in tiro a quat­
tro !”. Osservando d’altra parte che il misterioso forestiero
non manifestava avidità di denaro, ma s’era anzi compor­
tato con pacato riserbo, nutrì simpatia per lui e decise
di lasciar che le cose andassero per la loro strada.
Il conte Strapinski, però, mentre si facevano due passi
prima di cena, raccolse i suoi pensieri e ritenne fosse
giunto il momento opportuno per un discreto congedo.
Aveva fondi sufficienti e si propose di pagare al padrone
della Bilancia, dalla prossima città, il conto per l’ottimo
pranzo che gli aveva a forza largito. Si ravvolse pitto­
rescamente nel gran mantello, calcò sugli occhi il berret­
tone di pelo e s’aggirò lento al sole vespertino in un viale
di alte acacie, considerando il bel paesaggio, o meglio stu­
diando la via che voleva infilare. Era proprio bello a ve­
dersi nell’ondeggiare dell’ampio mantello, con la fronte
corrugata, i baffetti leggiadri e pur melanconici, i lucidi
riccioli neri e gli occhi scuri ! Il riflesso del tramonto e il
fruscio degli alberi completavano il quadro, così che la
comitiva lo osservava di lontano con attenta benevo­
lenza. S’allontanò sempre più dalla casa, attraversò
una boscaglia dietro cui passava un sentiero, e quando
si sentì al riparo dagli sguardi della compagnia, stava
270 LA GENTE DI SELDWYLA

appunto per avviarsi rapido attraverso ai campi, quando


d’un tratto sbucò e gli si fece incontro il pretore insieme a
sua figlia Nettchen. Questa era una graziosa signorina,
vestita con gran lusso, un po’ troppo vistosamente e con
abbondanza di gioielli.
«Siamo in cerca di lei, signor conte!» esclamò il
pretore «Volevo anzitutto presentarle mia figlia, e pre­
garla poi di volerci fare l’onore d’accettare una modesta
cena in famiglia: gli altri signori sono già in casa».
Il fuggiasco si tolse in fretta il berretto e s’inchinò ripe­
tutamente, con intimidito rispetto, mentre il volto gli si
faceva di bragia. Era una nuova svolta nel suo destino:
una damigella entrava sulla scena degli eventi. Ma il suo
impaccio e il suo eccessivo ossequio non gli furon di
danno presso quella dama; al contrario, essa trovò com­
movente, anzi addirittura affascinante la timidezza, l’u­
miltà e la devozione di un nobile signore tanto distinto e
interessante. “È proprio cosi, pensò la fanciulla: quanto
più uno è nobile, tanto più rimane candido e modesto.
Ricordatevene, voi bellimbusti di Goldach, che quasi di­
menticate di levare il cappello in presenza di una si­
gnorina !”.
Salutò quindi molto amabilmente il suo cavaliere,
arrossendo con grazia e si diede subito a conversare con
gran fretta di mille cose, come sogliono fare le signorine
di provincia per mostrarsi mondane con i forestieri.
Strapinski invece subì in breve tempo una vera trasfor­
mazione : mentre fino ad allora non aveva fatto nulla per
sostenere comunque la parte impostagli, ora cominciò
involontariamente a parlare con una certa ricercatezza, e
a mescolare nel suo discorso qualche parola polacca; in­
somma, in vicinanza di una donna, il sangue del sarto-
rello cominciò a far salti e a prendere la mano al suo pa­
drone.
A tavola gli toccò il posto d’onore accanto alla padron-
cina, la madre essendo morta. Tornò, è vero, ben presto
melanconico poiché pensava che avrebbe dovuto o andar
con gli altri in città o svignarsela in qualche modo nella
notte e capiva quanto fosse fugace la fortuna di cui in quel
L’ABITO FA IL MONACO 271

momento godeva. Tuttavia gustava quella felicità e si


disse: “Pazienza, almeno per una volta in vita tua sarai
stato qualcuno e avrai potuto sedere accanto a un simile
essere superiore !”.
Non era poca cosa infatti vedersi scintillare vicino un
braccio ornato di tre o quattro braccialetti tintinnanti e
scorgere a ogni occhiata di sottecchi una testolina dalla
più strana e vezzosa acconciatura, che graziosamente ar­
rossiva e ricambiava gli sguardi. Qualunque cosa facesse
o non facesse, tutto era interpretato come eccezionale e
squisito; la sua stessa goffaggine fu giudicata segno di biz­
zarra disinvoltura da quella signorina, che di solito era
capace di criticare per ore intere minimi peccati contro le
convenienze sociali. Nel buonumore generale alcuni invi­
tati intonarono le canzoni che erano di moda intorno al
1840. Il conte fu pregato di cantare una canzone polacca
e alla fine il vino superò la sua timidezza, se non le sue
paure. Egli aveva lavorato una volta per alcune settimane
in territorio polacco e conosceva alcune parole della lin­
gua, e persino una canzonetta popolare, che ripeteva però
come un pappagallo, senza comprenderne il senso. Cantò
quindi in polacco con nobile accento, più esitante che bal­
danzoso, con una voce in cui sembrava tremare un se­
greto tormento:
Sulla Desna e sulla Vistola
Centomila porci stabbiano
E Kathinka, la porcella,
Ci diguazza nello sterco !
Sui bei paschi di Volinia
Centomila bovi mugghiano !
E Kathinka, sì Kathinka,
Mi vorrebbe per suo damo !
«Bravo! Bravo!» esclamarono tutti insieme, batten­
do le mani, e Nettchen aggiunse commossa: «Ah, come
sono sempre belli i canti nazionali ! ». Per fortuna nessu­
no domandò la traduzione del testo polacco.
Passato quel punto culminante della serata, la compa­
272 LA GENTE DI SELDWYLA

gnia si dispose a partire, il sarto venne accuratamente


issato in carrozza e riportato a Goldach, non senza aver
dovuto promettere che sarebbe ritornato. Alla Bilancia
gli amici bevvero ancora un bicchiere di ponce, ma Stra­
pinski era sfinito e chiese di ritirarsi. Lo accompagnò
l’albergatore medesimo alle sue camere, al cui lusso egli
quasi non badò, malgrado fosse avvezzo a pernottare in
misere camerucce d’osteria. Se ne stava lì senza nulla in
mano su un ricco tappeto, quando di colpo il padrone s’ac­
corse della totale mancanza di bagaglio, e si batté la
fronte. Corse fuori, suonò il campanello, facendo accorrere
camerieri e facchini, confabulò con loro e tornò poi di­
cendo :
— È proprio così, signor conte, hanno dimenticato di
scaricare il suo bagaglio. Manca anche l’indispensabile !
— Non c’è neppure un pacchettino che avevo entro la
carrozza? — domandò Strapinski preoccupato, pensando
al fagottino lasciato sul sedile e contenente un fazzoletto,
una spazzola per capelli, un pettine, un vasetto di pomata
e un bastone di cera per barba.
— Manca anche questo, non c’è proprio nulla ! — dis­
se il buon padrone spaventato, supponendo che il pac­
chetto contenesse cose della massima importanza — Biso­
gnerà mandare immediatamente un messo in cerca del
cocchiere, — aggiunse zelante — ci penserò io !
Ma il signor conte, non meno spaventato, lo trattenne
per un braccio e gli disse con voce commossa :
— Lasci stare, non lo faccia ! Conviene che per qualche
tempo si perdano le mie tracce — aggiunse poi, sorpreso
egli stesso della sua trovata.
L’oste scese meravigliato dai vecchi clienti che stavano
ancora bevendo il ponce e narrò loro l’incidente, conclu­
dendo con l’ipotesi che il conte fosse senz’altro vittima di
una persecuzione politica o familiare. In quei tempi ap­
punto molti Polacchi venivano espulsi dal paese per azio­
ni violente, mentre taluni invece erano spiati o irretiti da
agenti stranieri.
Strapinski fece un’ottima dormita e destandosi molto
tardi vide per prima cosa, distesa su una sedia, la lussuosa
L’ABITO FA IL MONACO 273

veste da camera domenicale dell’oste, nonché un tavo­


lino gremito di tutti i più impensabili oggetti di toeletta.
Vi erano poi ad attenderlo parecchi domestici che reca­
vano cesti e valigie piene di biancheria, di abiti, di sigari,
di libri, di stivali, di scarpe, di sproni, di scudisci, di pel­
licce, di berretti, di cappelli, di calze e calzerotti, di pipe,
di flauti e violini: eran tutti mandati dagli amici della
vigilia, con la preghiera vivissima di volersi tempora­
neamente servire di tali comodità! Essendo trattenuti
dai loro affari nelle ore antimeridiane, quei signori prean­
nunciavano le loro visite per il pomeriggio.
Quei signori non erano per nulla ridicoli o ingenui, era­
no al contrario abili uomini d’affari, più furbi che igno­
ranti ; ma poiché la loro cittadina troppo piccola li annoia­
va, avevano sempre la smania d’una varietà, d’un qua­
lunque avvenimento a cui potersi dedicare senza riserve.
La carrozza a due pariglie, l’arrivo del forestiero, il suo
gran pranzo, le rivelazioni del cocchiere, erano fatti tanto
semplici e naturali che gli abitanti di Goldach, non av­
vezzi a perder tempo con inutili sospetti, ci si appoggia­
rono come su una salda roccia.
Quando Strapinski vide il magazzino di merci che gli si
stendeva dinanzi, ebbe come primo istinto il bisogno di
mettere la mano in tasca, per capire se sognava o era de­
sto. Se in tasca c’era ancora solitario il suo ditale, tutto
era un sogno. Ma no, il ditale s’affratellava col denaro
guadagnato al giuoco, strusciandosi amichevolmente coi
talleri ! Allora anche il suo padrone si rassegnò alla realtà,
uscì dalle sue camere e scese in istrada per visitare quella
città dove aveva tanta fortuna. Sulla porta della cucina
c’era la cuoca che gli fece un profondo inchino e lo seguì
con uno sguardo di viva compiacenza; nell’atrio e sulla
porta d’ingresso stavano altri addetti all’albergo, tutti col
berretto in mano, e Strapinski uscì dignitoso e modesto,
raccogliendo con aria ammodo le pieghe del suo mantello.
Il destino lo rendeva ad ogni minuto più grande.
Visitò la città con occhi ben diversi che se l’avesse gi­
rata in cerca di lavoro. Essa consisteva in gran parte di
begli e solidi edifici ornati da immagini scolpite o dipinte
274 LA GENTE DI SELDWYLA

e muniti tutti di un nome. In tali denominazioni delle ca­


se si rivelava chiaramente il costume dei diversi secoli. Il
Medio Evo si rispecchiava nelle più antiche oppure nelle
modernissime che avevano sostituite quelle vecchie con­
servando il vecchio nome dall’epoca delle leggende e dei
bellicosi scabini. Si chiamavano per esempio : Alla Spada,
All’Elmo, Alla Corazza, Alla Balestra, Allo Scudo Az­
zurro, Alla Daga Svizzera, Al Cavaliere, Alla Pietra Fo­
caia, Al Turco, Al Mostro di Mare, Al Drago d’Oro, Al
Tiglio, Al Bordone, Alla Sirena, All’Uccello del Paradiso,
Al Melograno, Al Liocorno e simili. L’epoca dell’illumi­
nismo umanitario era facile a riconoscersi nei concetti
morali che spiccavano in belle lettere d’oro su certe porte,
per esempio : Alla Concordia, All’Onestà, All’Antica Indi­
pendenza, Alla Nuova Indipendenza, Alla Virtù Civile A,
Alla Virtù Civile B, Alla Fiducia, All’Amore, Alla Spe­
ranza, All’Allegria, A Rivederci numero 1 e 2, Alla Giu­
stizia Interiore, Alla Giustizia Esteriore, Al Bene del
Paese (una casetta linda, dove sedeva, accanto a una gab­
bietta da canarini tutta inghirlandata di crescione, una
graziosa vecchina dalla cuffietta bianca intenta a filare
lino), Allo Statuto (vi abitava un bottaio, il quale metteva
cerchi con gran fracasso e zelo a secchi e botticelle, mar­
tellando senza posa) ; una casa aveva il terrificante nome :
Alla Morte, e un immenso scheletro sbiadito si tendeva
dal basso sino alle finestre più alte, e ivi abitava il giudice
conciliatore. Nella casa della Pazienza viveva l’esattore
dei crediti, un poveraccio sempre affamato, perché in
quella città nessuno aveva debiti.
Negli edifici più recenti infine si rivelava la poesia dei
fabbricanti, dei banchieri, degli spedizionieri e dei loro
imitatori coi nomi sonori di: Valle di Rose, Valle del
Mattino, Monte del Sole, Rocca delle Viole, Giardino di
Giovinezza, Monte della Gioia, Valle di Enrichetta, Alla
Camelia, Rocca di Guglielmina, e simili. Le valli e le
rocche dedicate a nomi femminili significavano sempre
per il bene informato una cospicua sostanza portata in
dote.
Ad ogni angolo di strada v’era una vecchia torre, con
L’ABITO FA IL MONACO 275

orologio, tetto variopinto e banderuola dorata. Queste


torri erano conservate con gran cura, perché a Goldach
ci si compiaceva a buon diritto così del passato che del
presente. Tutto quello splendore però era limitato da
bastioni circolari che, per quanto non servissero ormai a
nulla, erano serbati per bellezza, tutti ravvolti di vecchia
edera e formanti una fìtta ghirlanda sempreverde attor­
no all’intera cittadina.
Tutto ciò fece una singolare impressione a Strapinski,
che si credette trasportato in un mondo nuovo. Leggendo
le iscrizioni delle case, quali non ne aveva mai vedute, si
persuase che si riferissero ai particolari segreti e costumi
di ciascun edifìcio e che dietro ogni porta si vivesse in
realtà secondo quei motti, tanto che stava per immergersi
in una specie di utopia morale. Era indotto a credere
che la strana accoglienza incontrata fosse a tutto questo
connessa, che, per esempio, il simbolo della bilancia della
sua locanda volesse dire che lì si soppesava e si compensava
l’ingiusto destino, trasformando talvolta un sartorello va­
gabondo in un conte.
Durante la sua peregrinazione giunse oltre le porte del­
la cittadina e, vedendosi dinanzi l’aperta campagna, gli si
presentò per l’ultima volta il doveroso proposito di ri­
prendere senz’altro il cammino. Splendeva il sole, la stra­
da era bella, solida, non troppo arida e non troppo umida,
proprio fatta per una buona marcia. Aveva anche un
gruzzolo in tasca e avrebbe potuto ristorarsi a suo pia­
cere, così che non sussisteva ostacolo alcuno.
Se ne stava a un vero crocicchio come Ercole al bivio;
dalla corona di tigli che circondava la città salivano ospi­
tali colonne di fumo, le palle dorate delle torri occhieg­
giavano luccicanti in mezzo alle fronde; felicità, godi­
mento, colpevolezza e un destino misterioso lo chiamava­
no di qua; dall’altra parte lo allettava la libera ampiezza
dei campi, l’attendevano lavoro, rinunce, povertà e oscu­
rità, ma anche la coscienza tranquilla e un cammino
sereno. Ben rendendosene conto egli stava per avviarsi de­
ciso verso la pianura, quando nello stesso istante gli passò
rapida accanto una carrozza: era la signorina della vi-
27θ LA GENTE DI SELDWYLA

gilia che, seduta tutta sola in un elegante calessino, con


un gran velo azzurro ondeggiante, guidava un bel cavallo,
diretta verso la città. Appena Strapinski si tolse il ber­
retto, portandolo umilmente e tutto sorpreso sino al petto,
la fanciulla chinò il capo verso di lui facendosi tutta rossa
e sparì poi molto emozionata lanciando il cavallo al
galoppo.
Ma allora Strapinski involontariamente fece dietro­
front e s’avviò rincuorato in città. Quello stesso giorno
galoppava poi sul miglior cavallo della città, alla testa di
tutto un gruppo di cavalieri, lungo il viale che segue i
verdi bastioni, e le foglie di tiglio, cadendo, danzavano
come una pioggia d’oro attorno al suo capo trasfigurato.
Ormai lo spirito l’aveva invasato: si trasformava di
giorno in giorno al pari di un arcobaleno, sempre più
multicolore man mano che sale il sole. Apprese in poche
ore, in pochi momenti, quello che altri non imparano in
anni, perché tutto era già insito in lui, come l’essenza dei
colori nella goccia di pioggia. Osservò attentamente i
modi dei suoi ospiti e osservandoli li trasformò in qual­
cosa di nuovo e di esotico. Cercò soprattutto di intuire
quello che essi pensavano veramente di lui e l’immagi­
ne che se ne facevano, ed elaborò poi quell’immagine
a proprio gusto, con compiacenza e soddisfazione degli
uni, smaniosi di novità, e con stupore di altri, specialmen­
te delle donne, assetate di esempi edificanti. Divenne
così ben presto l’eroe di un amabile romanzo al quale
collaborava fervidamente tutta la città, il cui nucleo tutta­
via rimaneva sempre un mistero.
Ciò malgrado Strapinski passava, come non gli era mai
accaduto nei suoi tempi oscuri, le notti insonni, e bisogna
ammettere e deplorare che lo tenevano desto tanto la
paura dello scandalo nel caso l’avessero scoperto povero
sartorello quanto i morsi della coscienza. Il suo bisogno
innato di apparire persona graziosa ed eccezionale, sia
pure soltanto nella scelta delle vesti, l’aveva portato a
questo conflitto e provocava così il suo terrore, mentre la
coscienza riusciva soltanto a suggerirgli il continuo pro­
posito di cercare al momento buono un pretesto per par­
L’ABITO FA IL MONACO 277

tire e di guadagnare poi a una lotteria o in modo ana­


logo i mezzi per restituire da una misteriosa lontananza
le somme di cui veniva truffando gli ospitali goldache-
si. Si faceva intanto mandare, da tutte le città dove si
tenevano lotterie, cartelle di più o meno modesto va­
lore, e la corrispondenza derivatane, l’arrivo di molte
lettere, fu a sua volta interpretato come sintomo delle sue
alte relazioni.
Aveva già guadagnato più d’una volta alcuni fiorini, in­
vestendoli subito nell’acquisto di nuove cartelle, quando
un giorno, da un collettore forestiero che si faceva però
chiamar banchiere, ricevette una somma cospicua, suf­
ficiente all’attuazione dei suoi piani di salvamento. Non
era ormai più stupito della propria fortuna, che gli pareva
cosa ovvia, tuttavia provò un gran sollievo, specialmente
nei riguardi dell’ottimo albergatore, verso il quale in
grazia del buon trattamento nutriva gran simpatia. Ma
invece di troncare ogni impegno, di pagar senz’altro i suoi
debiti e partire, pensò di fingere un breve viaggio d’af­
fari e di annunciare poi da qualche grande città come
l’inesorabile destino gli vietasse il ritorno. In quel modo
avrebbe soddisfatto i suoi obblighi, lasciato buona me­
moria di sé e si sarebbe di nuovo dedicato al suo mestiere
di sarto con maggior accortezza e fortuna, oppure avrebbe
fors’anche trovato un’altra rispettabile carriera. In fondo
gli sarebbe piaciuto restarsene a Goldach, sia pure come
sarto, e avrebbe ormai avuto i mezzi per fondare una
modesta esistenza, ma era chiaro che in quella città non
poteva vivere che da conte.
La visibile preferenza e simpatia che gli manifestava
in ogni occasione la bella Nettchen, avevano già provo­
cato non pochi commenti, ed egli aveva persino osservato
che la signorina veniva chiamata di quando in quando la
contessa. Ma come avrebbe potuto causare a quella crea­
tura sì triste sorpresa? Come smentire il destino che l’ave­
va di colpo innalzato, svergognando se stesso?
Dal suo collettore di lotterie, pseudobanchiere, aveva
ricevuto un assegno che riscosse in una banca di Goldach,
e tale operazione consolidò le benevole opinioni circolanti
278 LA GENTE DI SELDWYLA

sulla sua persona e sulle sue condizioni, giacché quei solidi


commercianti erano ben lungi dal pensare a premi o a
lotterie. In quella stessa giornata Strapinski si recò a un
fastoso ballo al quale era stato invitato. Si presentò tutto
vestito di nero e comunicò subito a chi lo salutava che
era costretto a partire.
Dieci minuti dopo la notizia s’era diffusa fra tutti gli
invitati e Nettchen, il cui sguardo Strapinski cercava an­
siosamente, parve volerlo evitare esterrefatta, impalliden­
do e arrossendo. Ballò poi più volte di seguito con alcuni
giovanotti, sedette quindi distratta e ansimante e ri­
fiutò un invito del polacco, che le si era finalmente ac­
costato, con un cenno breve, senza neppure guardarlo.
Quegli se ne andò singolarmente preoccupato e dolente,
ravvolto nel suo celebre mantello e si mise a passeggiare
in su e in giù, con i riccioli al vento, in un viale del giar­
dino. Si rese conto allora che in fondo era rimasto tanto
tempo a Goldach soltanto per quella donna, inconscia­
mente spintovi dall’imprecisa speranza di starle vicino,
ma che tutta l’avventura non era che una follia delle più
disperate.
Mentre così camminava, udì alle spalle rapidi passetti,
lievi e tuttavia inquieti. Era Nettchen che gli passava
accanto e che, a giudicare dalle parole da lei gridate, era
in cerca della sua carrozza, la quale però si trovava dalla
parte opposta della casa, mentre lì non c’erano che cavoli
invernali e cespugli di rose ben ravviluppati immersi nel
sonno dei giusti. La fanciulla ritornò poi sui suoi passi e,
incontrandosi con lui che col cuore in tumulto le tendeva
le mani imploranti, gli cadde senz’altro tra le braccia,
scoppiando in doloroso pianto. Egli coperse le sue guance
ardenti coi suoi lunghi e bruni riccioli profumati, e il
mantello ravvolse la snella, candida e superba figura
della ragazza fra due nere ali di aquila: era un quadro
veramente splendido, che pareva recare la propria giusti­
ficazione soltanto in se stesso.
Ma Strapinski in quell’avventura perdette la ragione e
conquistò invece la fortuna, che è spesso benigna ai meno
ragionevoli. Nettchen infatti quella stessa notte, mentre
L’ABITO FA IL MONACO 279
tornava a casa, rivelò a suo padre che nessun altro fuorché
il conte polacco avrebbe potuto diventare suo sposo, e il
conte l’indomani si presentò a chiederne la mano con la
solita sua grazia timida e melanconica. Il genitore gli ten­
ne il seguente discorso : « Ecco che si adempiono la sorte e
il volere di quella pazzerella ! Già da piccina dichiarava
a tutti che avrebbe sposato soltanto un italiano o un po­
lacco, un gran pianista o un capo di briganti con dei bei
riccioli! Ora ci siamo! Ha rifiutato i migliori partiti
del paese, anche poco tempo fa dovetti deludere il bravo
Melcher Böhni, che farà ottima carriera in affari, ma che
essa ha disprezzato solo perché ha la barbetta rossastra e
annusa tabacco da una tabacchiera d’argento! Dio sia
lodato che ci arriva dalla più remota lontananza un
conte polacco! Se la prenda pure quest’ochetta, signor
conte, e me la rimandi a casa se mai un giorno nella sua
Polonia patirà troppo freddo, si sentirà infelice e si metterà
a piagnucolare! Ahimè, come sarebbe stata esultante la
sua povera mamma, se avesse potuto vedere quella sua
bimba viziata diventare contessa!».
Vi fu gran confusione in casa e fu deciso di celebrare
pochi giorni dopo il fidanzamento, poiché il pretore so­
steneva che il futuro genero non doveva lasciarsi osta­
colare negli affari e nei viaggi già predisposti a cagione
delle nozze, ma anzi conveniva li sbrigasse subito, affret­
tando il matrimonio.
Strapinski per il fidanzamento offrì alla sposa dei regali
che dimezzarono il suo patrimonio, mentre l’altra metà
servì a una festa che intendeva dare in onore della fi­
danzata. Era carnevale e il cielo serbatosi limpido of­
friva un tardo inverno luminoso. Le strade gelate offri­
vano ottime piste da slitta, come di rado capita, così
che il conte Strapinski pensò di organizzare una corsa di
slitte e un ballo nella splendida locanda preferita per tali
feste, posta su un altipiano con bella vista a circa due ore
di cammino, a mezza strada fra Goldach e Seldwyla.
Si diede il caso che proprio in quei giorni il signor
Böhni avesse da sbrigare degli affari a Seldwyla, dove si
recò in una piccola slitta pochi giorni prima della gran
28ο LA GENTE DI SELDWYLA

festa, fumando il migliore dei suoi sigari, e si diede pure il


caso che anche i Seldwylesi organizzassero per la stessa
giornata una festa in costume e un corteo di maschere
per quella stessa località.
Il corteo di slitte di Goldach partì attraversando la
città verso il mezzogiorno, fra gran chiasso di sonagli,
di trombe e di fruste, mentre dalle facciate delle antiche
case le immagini simboliche guardavano stupite. Nella
prima slitta stava Strapinski con la sposa, indossando
una giacchetta alla polacca di velluto verde ad alamari,
foderata e riccamente guarnita di pelliccia. Nettchen era
avvolta in una pelliccia candida e aveva il volto coperto
da veli azzurri a riparo dall’aria fredda e dal riflesso della
neve. Il pretore era stato trattenuto da un improvviso
contrattempo e gli sposi erano nella sua slitta, trainata da
una bella pariglia e adornata da una donna dorata, una
statuina raffigurante la Fortuna, dato che la dimora del
pretore aveva appunto il nome di Casa della Fortuna.
Seguivano quindici o sedici slitte, ciascuna con una
coppia, tutte allegre e bene adorne, nessuna però tanto
bella ed elegante come quella degli sposi. Ogni slitta re­
cava, come si usa per le navi, l’emblema della casa rispet­
tiva, tanto che la folla vedendole esclamava : « Guardate,
arriva il Valore ! Come è bello il Lavoro ! La Concordia è
stata riverniciata a nuovo, e il Risparmio l’hanno do­
rato ! Guarda la Fontana di Giacobbe e la Piscina di
Bethesda ! ». Nella Piscina di Bethesda, modesta slitta a
un cavallo che chiudeva il corteo, c’era Melcher Böhni,
pacifico e contento. Aveva come stemma del suo veicolo
il ritratto di un omino ebreo che aveva saputo aspettare
trent’anni la salute sulle rive del succitato laghetto. Così
la squadra navigò nel sole e apparve ben presto sull’altura
scintillante, avvicinandosi alla sua meta. Ma in pari tem­
po echeggiò dalla direzione opposta un’allegra musi­
chetta.
Da un boschetto brinato fece irruzione un ammasso va­
riopinto di colori e di figure che snodandosi formò un
corteo di slitte e si disegnò nitido lungo il margine can­
dido dei campi sul cielo azzurro, scivolando esso pure ver­
L’ABITO FA IL MONACO 281

so il centro della regione, con fantastico effetto. Parevano


per lo più grandi e rustiche slitte da carico, legate a due a
due per sorreggere strani fantocci. Sul primo veicolo si
ergeva una statua colossale rappresentante la dea Fortuna
pronta a spiccare il volo nell’etere. Era un gigantesco
bambolotto di paglia tutto orpelli luccicanti con le vesti
di velo svolazzanti al vento. Sul secondo carro c’era un
caprone non meno colossale, fosco e nero, che inseguiva
a corna abbassate la Fortuna. Veniva poi una strana
costruzione che rappresentava un gran ferro da stiro alto
quindici piedi e immense forbici spalancate che si chiu­
devano e si aprivano tirate da una corda, quasi volessero
adoperare il cielo come tessuto di seta per un panciotto
azzurro. Seguivano altre allusioni popolari alla professio­
ne del sarto. Ai piedi delle figure, su delle spaziose slitte
trainate da due pariglie, stavano i Seldwylesi con le ma­
schere più varie, ridendo e cantando sonoramente.
Quando i due cortei arrivarono contemporaneamente
sulla piazza prospiciente la locanda, ci fu gran confu­
sione e grande intrico di uomini e di cavalli. I Goldachesi
erano sorpresi e stupiti dell’incontro avventuroso; qùelli
di Seldwyla, invece, assunsero a tutta prima un tono di
modesta cordialità. La loro prima slitta con la dea For­
tuna recava l’iscrizione «L’uomo fa l’abito» e si comprese
poi che l’intera brigata coi suoi costumi raffigurava sarti
di tutti i paesi e di tutte le epoche. Era in certo modo un
grandioso corteo storico-etnografico di quell’arte e si chiu­
deva con un’altra iscrizione esplicativa: «L’abito fa l’uo­
mo». Nell’ultimo carro recante tale scritta figuravano in­
fatti, quale frutto del lavoro di sartoria dei pagani e cri­
stiani di prima, venerandi imperatori e re, magistrati e alti
ufficiali, prelati e badesse estremamente dignitose.
Tutto quel mondo delle forbici seppe allinearsi ordina­
tamente nella confusione, lasciando modestamente che i
signori e le dame di Goldach, con la coppia di fidanzati
in testa, entrassero nella locanda, per occupare dopo di
essi le sale a pian terreno già loro riservate, mentre gli
altri salivano l’ampia scala e prendevano possesso del sa­
lone da ballo. Gli ospiti del signor conte trovarono tale
282 LA GENTE DI SELDWYLA

contegno molto corretto e la loro sorpresa si trasformò così


in allegra compiacenza per l’inesauribile buon umore dei
Seldwylesi. Soltanto il conte nutriva cupi presagi che
non gli garbavano affatto, benché in questo presentimento
dell’animo suo non concepisse ancora un preciso sospetto
e non si rendesse neppur conto di dove venisse tutta quella
gente. Melcher Böhni, che aveva messo accuratamente al
riparo la sua Piscina di Bethesda e si teneva alle costole
di Strapinski, aveva dichiarato ad alta voce, perché quello
lo sentisse, che il gran corteo mascherato proveniva da
tutt’altra cittadina.
Poco dopo le due comitive, ciascuna al proprio piano,
sedevano alle tavole imbandite scambiando allegri di­
scorsi e scherzi vivaci in attesa di gioie ulteriori.
Queste si annunziarono presto per i signori di Goldach,
appena passarono a coppie nel salone, dove già i musi­
canti accordavano i loro violini. Mentre tutti eran disposti
in cerchio e stavano per formare le coppie del ballo, si
presentò un’ambasceria dei Seldwylesi con la richiesta e
la proposta cordiale di render visita ai signori e alle dame
di Goldach, offrendo per loro diletto lo spettacolo di una
danza figurata. Non si poteva agevolmente ricusare tale
offerta e per di più dagli allegri Seldwylesi ci si ripro­
metteva un buon divertimento. Tutti si posero quindi,
su indicazione degli ambasciatori, in gran semicerchio, al
cui centro brillavano quali astri principeschi il conte
Strapinski e la sua Nettchen.
Avanzarono l’uno dopo l’altro i gruppi di sarti già de­
scritti. Ciascuno interpretava con graziosa pantomima il
motto «L’uomo fa l’abito» e anche il suo contrario.
Essi infatti prima fingevano di confezionare con gran zelo
un indumento fastoso, per esempio un manto principesco
o una pianeta sacerdotale e cose simili, vestendone poi un
poveraccio che, trasformato di colpo, si dava grandi arie
e si metteva a marciare solennemente al suono della mu­
sica. Vennero interpretate allo stesso modo anche alcune
storie di animali ; comparve cioè una gran cornacchia che
adornata di penne di pavone ballonzolava attorno grac­
chiando, poi un lupo che si aggiustava addosso una pelle
L’ABITO FA IL MONACO 283

di pecora e alla fine un asino con un terribile vello di


leone fatto di stoppa, in cui si drappeggiava con piglio
eroico come in un mantello di carbonaro.
Tutti, dopo la loro pantomima, si ritirarono, dispo­
nendosi in modo che il semicerchio dei Goldachesi si tra­
sformò in un gran circolo di spettatori vuoto al centro. In
quel momento la musica passò ad una melodia seria e me­
lanconica e intanto si fece avanti una figura su cui con­
versero tutti gli occhi. Era uno snello giovanotto con un
mantello scuro, bei riccioli neri e un berretto alla polacca;
non era altri che il conte Strapinski, cosi come in quella
giornata di novembre camminava per lo stradone prima
di salire sul fatale equipaggio.
L’intera compagnia, senza una parola, come incantata,
fissava la maschera, che accennò con solenne austerità al­
cuni passi al ritmo della musica e, messasi poi al centro del
circolo, distese a terra il suo mantello, vi si accoccolò
nella posa caratteristica dei sarti e aprì il suo fagotto.
Ne trasse una giacca da conte quasi pronta, simile in
tutto a quella che indossava Strapinski alla festa, vi cucì
con gran furia e abilità fiocchi e passamani, la stirò a
regola d’arte, fingendo di provare il ferro scottante con le
dita timide. Poi si alzò lentamente, si tolse il giacchettino
sdruscito, infilò l’abito fastoso, trasse uno specchietto per
pettinarsi e accomodarsi meglio, e finì per riprodurre
l’esatta immagine del conte. Immediatamente la musica
assunse un ritmo vivace, l’uomo raccolse le sue robe nel
mantello e lanciò l’involto in un angolo della sala, al di
sopra delle teste degli ospiti, quasi per staccarsi total­
mente dal suo passato. Dopo di che percorse con abili
passi di danza tutto il circolo in atteggiamento nobile e
altero, inchinandosi benevolmente ora all’uno ora al­
l’altro, finché giunse di fronte ai due fidanzati. D’un
tratto ficcò gli occhi con immenso stupore in faccia al
polacco e gli si piantò dinanzi fermo come una statua,
mentre, come per un’intesa, la musica s’interrompeva e
subentrava, come un fulmine senza rumore, un silenzio
terrificante.
«Guarda, guarda!» esclamò con voce ben distinta,
284 LA GENTE DI SELDWYLA

puntando l’indice verso l’infelice «guarda il caro fra­


tello di Slesia, il nostro polacco di Polonia ! Mi ha pian­
tato in asso, credendo che per una piccola crisi com­
merciale io fossi bell’e spacciato ! Mi fa piacere vederlo in
tanta allegria festeggiare un così bel carnevale ! Ha forse
trovato lavoro a Goldach?»
Così dicendo porse la mano al falso conte, che se ne
stava lì con un pallido sorriso, e che passivamente la
prese quasi fosse una sbarra arroventata, mentre il suo
sosia riprendeva: «Venite amici, guardate il nostro dol­
ce lavorante: sembra un Raffaello e piaceva per questo
alle nostre servette, persino alla figlia del pastore, che
però è un po’ pazzerella ! ».
Sopravvennero allora tutti i Seldwylesi affollandosi in­
torno a Strapinski e al suo antico padrone e strinsero tutti
cordialmente la mano al conte in modo da farlo vacillare
e tremare sulla sedia. La musica riprese intanto con una
energica marcia e i Seldwylesi, dopo essere passati da­
vanti alla coppia dei fidanzati, si allinearono per l’uscita
e uscirono marciando e cantando un ben strumentato e
diabolico coro di risate, mentre quelli di Goldach, rapi­
damente illuminati da Böhni sul fatto stupefacente, si uni­
vano disordinatamente e in gran tumulto ai partenti.
Cessato il disordine, il salone apparve quasi vuoto ; sol­
tanto pochi, tenendosi accanto alle pareti, confabulavano
tra loro perplessi; alcune giovani dame esitavano, non
molto discoste da Nettchen, se dovessero avvicinarla o no.
I due sposi rimasero seduti, immobili, sulle due sedie,
come una coppia di faraoni egiziani di pietra, silenziosi
e isolati: pareva di sentire attorno l’immensa e ardente
distesa del deserto sabbioso.
Nettchen, bianca come marmo, volse lentamente il viso
verso il fidanzato, guardandolo in modo strano.
Egli allora s’alzò lento e uscì a passi grevi, chinando
a terra gli occhi da cui cadevano fitte lagrime.
Attraversò i gruppi dei Goldachesi e dei Seldwylesi
che affollavano le scale, come il fantasma di un morto
che s’allontani da una festa, e tutti lo lasciarono passare
proprio come fosse un morto, cedendogli il passo senza
L’ABITO FA IL MONACO 285

ridere né insultarlo. Andò oltre le slitte e i cavalli di Gol­


dach, già pronti alla partenza, mentre quelli di Seldwyla
si disponevano a spassarsela ancora un bel po’, e continuò
a camminare quasi incoscientemente, col solo istinto di
non ritornare più a Goldach, avviandosi cioè per la
strada di Seldwyla, dalla quale era giunto alcuni mesi
prima. Scomparve ben presto nell’oscurità del bosco per
cui passava lo stradone. Era a capo scoperto, avendo la­
sciato il berrettone di pelo e i guanti sullo sporto d’una
finestra, nel salone da ballo; camminava quindi a capo
chino, riparando le mani gelide sotto le braccia conserte,
mentre tentava di raccogliere e di ordinare i suoi pensieri.
Il primo sentimento di cui ebbe coscienza fu quello d’una
tremenda vergogna, quasi egli fosse stato veramente un
uomo di alta situazione rovinato da un’improvvisa e fa­
tale sciagura. Questa vergogna si trasformò poi nel vago
senso di aver subito un’ingiustizia. Egli infatti, sino al­
l’arrivo fastoso in quella città incantata, non era mai in­
corso in colpa alcuna : per quanto i suoi ricordi risalissero
sino alla fanciullezza, non rammentava di essere mai stato
punito o rimproverato per un inganno o una bugia;
ed eccolo invece diventato un imbroglione per il fatto
che la stoltezza umana l’aveva per così dire assalito in un
istante di inerme distrazione, facendone il suo trastullo.
Gli parve d’essere un bambino che sia stato indotto da un
perfido compagno a rubare il calice da un altare : si odiava
e si disprezzava, ma nel tempo medesimo aveva pietà
di se stesso e del suo sciagurato traviamento.
Quando un principe si appropria terre e popolazioni,
quando un sacerdote professa senza convinzione la dot­
trina della sua chiesa, ma ne consuma i benefici con
dignità; quando un presuntuoso docente accetta e gode
gli onori e i vantaggi di un’alta cattedra senza avere il
minimo concetto della nobiltà della sua disciplina e senza
farla minimamente progredire; quando un artista senza
valore riesce a diventar di moda con la sua leggerezza e il
suo vacuo istrionismo, rubando il pane e la fama al vero
lavoro; quando infine un imbroglione, avendo ereditato
o comunque acquisito un gran nome commerciale, truffa
286 LA GENTE DI SELDWYLA

con le sue pazzie e la sua mancanza di coscienza i rispar­


mi e i gruzzoli di innumerevoli persone, tutti costoro non
piangono su di se medesimi, ma al contrario si compiac­
ciono della propria fortuna e non trascorrono una serata
senza allegra compagnia di buoni amici.
Il nostro sartorello invece piangeva amaramente su se
stesso, o meglio cominciò a farlo quando i suoi pensieri,
superati parecchi anelli della pesante catena che li incep­
pava, giunsero d’improvviso alla Sposa abbandonata e lo
lasciarono umiliato ai piedi della donna lontana. La sven­
tura e la vergogna gli rivelarono con una luce improvvisa
la felicità perduta e trasformarono il confuso peccatore
superficialmente innamorato in un amante ripudiato. Egli
tese le braccia verso la fredda luce delle stelle e continuò
barcollante per la sua strada, fermandosi di tanto in
tanto e scotendo il capo. All’improvviso un riflesso ros­
sastro colorò la neve intorno a lui, mentre si udì un tintin­
nar di sonagli e scoppi di risa. Erano i Seldwylesi che tor­
navano a casa con slitte e fiaccole. Già gli erano alle spalle
i primi cavalli, quando egli trovò l’energia di portarsi
con un salto da un lato della strada, andando a rifugiarsi
dietro i primi tronchi del bosco. Lo sfrenato corteo passò
oltre svanendo nell’oscurità, senza scoprire il povero fug­
giasco, e questi, dopo essere rimasto per un buon tratto
immobile in ascolto, sopraffatto dal freddo e anche dalle
bibite eccitanti bevute poco prima, nonché dal cruccio
per, la propria stupidità, si lasciò cadere a terra e s’ad­
dormentò sulla neve scricchiolante, mentre da oriente
s’alzava un gelido venticello.
Nel frattempo anche Nettchen s’alzava dalla sua pol­
trona solitaria. Aveva attentamente seguito con lo sguar­
do lo sposo che usciva, ma poi era rimasta lì immobile
per più di un’ora e adesso scoppiò a piangere amara­
mente e si avviò disorientata verso la porta. Due amiche
le si accostarono con ambigue parole di conforto. Essa le
pregò di portarle il mantello, gli scialli, il cappello e così
via, li indossò poi, sempre muta, asciugandosi impetuosa­
mente gli occhi col velo. Ma poiché chi piange è di solito
costretto anche a soffiare il naso, dovette cavare il fazzo­
L’ABITO FA IL MONACO 287

letto e darsi un’energica soffiata, girando attorno uno


sguardo d’irosa alterigia. Con quell’occhiata incontrò
Melcher Biffini, il quale le si avvicinò subito con un sor­
riso umilmente cordiale, dicendole che le occorreva avere
un accompagnatore e una guida per il ritorno alla casa
paterna. Aggiunse che avrebbe lasciato lì alla locanda la
sua Piscina di Bethesda, riaccompagnando la stimatissima
e sventurata amica sino a Goldach sulla Fortuna.
Nettchen senza rispondergli lo precedette con passo
energico giù nel cortile dove già l’aspettava la slitta, una
delle ultime rimaste, coi cavalli ben pasciuti e impa­
zienti. Vi salì rapida, afferrò le redini e la frusta, e men­
tre Biffini, senza badarle, dandosi grandi arie soddisfatte,
traeva di tasca la mancia per lo stalliere che aveva prov­
veduto ai cavalli, essa frustò le bestie e partì veloce, con
grandi balzi che si trasformarono presto in un regolare
galoppo. Non si diresse però verso la città natale, bensì
per lo stradone di Seldwyla. Solo quando l’agile slitta
era svanita ai suoi sguardi, il signor Biffini se ne accorse e
le corse dietro, in direzione di Goldach però, lanciando
grandi grida per arrestarla, poi ritornò e con la sua slitta si
diede all’inseguimento della dama, a suo parere non
fuggita, ma involontariamente trascinata via dai cavalli.
Giunse così sino alle porte della cittadina in subbuglio,
dove lo scandalo aveva già messo in moto tutte le lingue.
Perché mai Nettchen avesse scelto quella via, se di propo­
sito o per mera confusione, non è facile a stabilirsi. Due cir­
costanze possono gettare un po’ di luce. In primo luogo
il berretto di pelliccia e i guanti di Strapinski, rimasti sulla
finestra dietro le poltrone dei due sposi, giacevano ora sul
sedile della Fortuna accanto alla guidatrice: come e
quando essa avesse raccolto quegli oggetti, era sfuggito a
tutti e forse a lei medesima, che aveva agito quasi come
una sonnambula. Ancora in quel momento non si rendeva
conto di averli accanto. Andava inoltre ripetendosi di con­
tinuo : “Bisogna che gli dica due parole, due parole sole !”.
Questi due fatti sembrano dimostrare che non era stato
il caso a guidare gli ardenti destrieri. Fu pure strano che,
appena la Fortuna s’awiò per il bosco ora illuminato dalla
288 LA GENTE DI SELDWYLA

luce lunare, Nettchen moderò la corsa dei cavalli e tirò


le redini, facendoli procedere quasi al passo, mentre la
guidatrice fissava ansiosamente i suoi occhioni tristi ma
acuti sulla strada, non trascurando né a destra né a si­
nistra il minimo particolare.
Nello stesso tempo però l’animo suo era immerso in un
profondo e doloroso smarrimento: che cosa sono mai la
fortuna e la vita ! Da che dipendono? Che cosa siamo noi
stessi, se una meschina e ridicola beffa carnevalesca ci può
rendere felici o sventurati? Qual è la nostra colpa, per
meritarci la vergogna e la disperazione in cambio di un
affetto fiducioso e sereno? Chi ci manda questi fantasmi
ingannatori, che sconvolgono il nostro destino, dissolven­
dosi al pari di tenui bolle di sapone?
Tali angosciose domande, piuttosto sognate che for­
mulate, occupavano l’anima di Nettchen, quando i suoi
occhi scorsero d’un tratto un oggetto lungo e scuro che
spiccava a un lato della strada sulla neve scintillante nel
chiarore lunare. Era proprio il povero Wenzel, i cui riccioli
scuri si confondevano con le ombre degli alberi, mentre
la snella figura spiccava ben distinta nella luce.
Nettchen fermò istintivamente i cavalli, col che un pro­
fondo silenzio invase la foresta. Continuò a guardare quel
corpo abbandonato, finché esso fu fuor di dubbio ricono­
scibile al suo occhio perspicace, e delicatamente allora
fissò le redini, scese dalla slitta, acquietò i cavalli con una
carezza e si avvicinò poi tacita e cauta al dormiente.
Era proprio lui. Il velluto verde cupo della giacca spic­
cava bello ed elegante persino sulla neve nella notte; la
snella persona dalle agili membra, ben attillata e ornata,
sembrava proclamare anche nell’immobilità, nell’abban­
dono, sull’orlo della rovina: «L’abito fa il monaco».
Quando la bella solitaria si curvò meglio su di lui, ri­
conoscendolo definitivamente, s’accorse anche subito del
pericolo in cui versava la sua vita e temette che fosse ormai
assiderato. Gli afferrò una mano, che le parve gelida e
inerte. Dimentica di ogni riguardo, si diede a scuotere
il poveretto gridandogli all’orecchio: «Wenzel! Wen­
zel ! ». Ma fu inutile ; quello non si mosse, respirando solo
X.’ABITO FA IL MONACO 289

debolmente e tristemente. Nettchen allora gli si buttò


addosso, gli passò la mano sul volto e nella sua angoscia
diede energici schiaffetti alla punta sbiancata del suo
naso. Questo le suggerì l’ottimo pensiero di prendere
delle manate di neve e di sfregargli con energia naso, fac­
cia e mani, sinché quel fortunato infelice si riebbe, si ri­
destò e a poco a poco si rizzò in piedi.
Guardandosi attorno scorse la sua salvatrice, che aveva
buttato all’indietro il velo, così che riconobbe ogni tratto
del volto pallidissimo intento a fissarlo con occhi sbarrati.
Wenzel le si gettò ai piedi baciandole l’orlo del man­
tello e gridando:
— Perdonami ! Perdonami !
— Vieni, forestiero ! — disse lei con voce vibrante e
repressa — voglio parlar con te e poi ti farò partire !
Gli accennò di salire sulla slitta, il che egli fece ob­
bediente; gli porse il berretto e i guanti, macchinalmente
come li aveva presi con sé, afferrò le redini e la frusta
e ripartì.
Oltre il bosco, non lontano dallo stradone, c’era la fat­
toria di una contadina rimasta vedova da poco. Nettchen
aveva tenuto a battesimo uno dei suoi bimbi, e suo padre
era il padrone dei terreni. La donna si era recata di re­
cente da loro, in città, per far gli auguri alla sposa e chie­
der qualche consiglio, e certamente non poteva ancora
avere notizia della mutata situazione.
Nettchen, deviando dallo stradone, s’avviò verso quella
casa e si fermò con una buona schioccata di frusta. Trape­
lava luce dalle finestrelle, poiché la contadina lavorava
ancora dopo che i bimbi e i servi dormivano da un
pezzo. Aprì la finestra e guardò fuori stupita.
«Sono io, siamo noi;» gridò Nettchen «ci siamo smar­
riti a cagione della nuova strada alta, di cui non sono
pratica: fateci un buon caffè, cara comare, e permet­
teteci di entrare un momento prima di ripartire».
La contadina, riconoscendo subito Nettchen, scese lieta
e frettolosa, mostrandosi ad un tempo felice e intimidita
all’idea di vedere anche il gran personaggio, il conte fo­
restiero. Ai suoi occhi, con quelle due persone varcavano
29° LA GENTE DI SELDWYLA

la soglia di casa sua la felicità e lo splendore del mondo,


e l’imprecisa speranza di parteciparvi un pochino, di
trarne sia pur modestissimo vantaggio per sé e per i pro­
pri figli, animava la brava donna, rendendola molto sol­
lecita a servire i due signorini. Destò in fretta un gar­
zone perché badasse ai cavalli e in fretta preparò un buon
caffè caldo, recandolo nella stanza semibuia dove Wenzel
e Nettchen sedevano l’uno di fronte all’altra, con sulla
tavola una lucernetta dalla fiamma tremolante.
Wenzel aveva chinato la testa fra le mani e non osava
alzare gli sguardi. Nettchen s’appoggiava allo schienale
della sedia con gli occhi chiusi e tenendo serrata anche la
bella bocca amara, dal che si capiva che non era affatto
addormentata.
Appena la donna ebbe posto sulla tavola il caffè,
Nettchen s’alzò per dirle sottovoce:
— Lasciateci soli pochi minuti e andate a riposare, bra­
va donna; abbiamo avuto una piccola disputa e dob­
biamo cogliere il buon momento per una spiegazione.
— Capisco, capisco ; giustissimo ! — disse la donna la­
sciandoli soli.
— Beva, — disse Nettchen che s’era rimessa a sedere —
le farà bene ! — Per conto suo non prese nulla. Wenzel
Strapinski, lievemente tremante, si rizzò, prese una delle
tazze e la vuotò, piuttosto per obbedirle che per ristorarsi.
La guardava intanto, e quando i loro occhi si incontra­
rono e Nettchen potè scrutare quelli dell’uomo, scosse il
capo e gli chiese:
— Ma chi è lei? E a che cosa mirava?
— Non sono quel che sembro ! — replicò lui melanco-
nicamente — Sono un povero sciocco, ma saprò riparare
tutto e darle soddisfazione e uscire ben presto da questo
mondo ! — Pronunciò tali parole con viva sincerità e
senza alcuna affettazione, così che gli occhi di Nettchen
ebbero un breve lampo. Tuttavia ripetè severa:
— Desidero sapere chi è lei, di dove viene e a che cosa
tende !
— Tutto è accaduto come le racconterò ora veridica­
mente — replicò lui, e cominciò ad esporle i fatti dall’ar­
L’ABITO FA IL MONACO 291

rivo a Goldach. Insistette specialmente nello spiegarle che


si era ripetutamente proposto la fuga, ma che ogni volta
l’apparizione di lei l’aveva trattenuto, come in un sogno
stregato.
Nettchen ebbe più volte l’impulso di ridere, ma la gra­
vità della sua situazione era tale che si trattenne. Conti­
nuò invece l’interrogatorio:
— E sin dove pensava di condurmi e che cosa inten­
deva fare più tardi?
— Non lo so neppur io, — replicò Strapinski — spe­
ravo in nuovi eventi straordinari o fortunati, e talvolta
anche pensavo alla morte, che avrei dovuto cercare,
dopo che ...
A questo punto Wenzel s’interruppe e la sua faccia
pallida si fece di fiamma.
— Avanti, continui ! — disse Nettchen impallidendo e
sentendo un gran ‘battito di cuore.
Allora gli occhi di Wenzel s’illuminarono di ardente
dolcezza, ed egli esclamò:
— Sì, ora lo vedo ben chiaro dinanzi a me quel che
sarebbe accaduto! Sarei andato per il mondo con te,
e dopo aver passato insieme alcuni brevi giorni felici, ti
avrei confessato l’inganno, dandomi in pari tempo la
morte! Tu saresti ritornata da tuo padre, dove nulla ti
sarebbe mancato e ben presto m’avresti dimenticato. Non
c’era bisogno che nessuno sapesse: io sarei sparito senza
lasciar traccia. Invece di tormentarmi tutta una vita
aspirando a un’esistenza degna, a un cuore affettuoso,
a un po’ d’amore, — continuò melanconicamente —
sarei stato grande e felice per un momento, più in alto di
tutti coloro che non sanno essere né felici né infelici e pur
non vogliono mai morire ! Oh, se lei mi avesse lasciato là
sulla neve gelata, come mi sarei addormentato tran­
quillo !
Tornò a immergersi nel silenzio, guardando cupo e
meditabondo dinanzi a sé.
Dopo qualche tempo Nettchen, che l’aveva conside­
rato in silenzio, lasciò che il battito del cuore, accelerato
dai discorsi di Wenzel, si placasse, e riprese:
292 LA GENTE DI SELDWYLA

— Lei ha mai tentato imprese eguali o somiglianti in


passato? Ha mentito con persone che non le avevano
fatto nulla di male?
— Me lo son chiesto anch’io in questa notte tremenda,
e non riesco a ricordare d’essere mai stato bugiardo !
Non m’è mai toccata un’avventura di questo genere ! An­
zi, in quei tempi remoti in cui era sorto in me, ancor quasi
fanciullo, il desiderio d’essere o di sembrare qualcosa di
meglio, ho saputo dominarmi e ho rinunciato ad una
fortuna che sembrava a me destinata.
— Come fu? — domandò Nettchen.
— Mia madre, prima di sposarsi, era stata al servizio
d’una padrona di estese tenute e l’aveva seguita viaggian­
do in grandi città e acquistando così modi più signorili
che non le altre donne del villaggio. Essa era anche un
po’ ambiziosa, amava vestir se stessa e me, suo unico
bimbo, con un poco più di grazia é di ricercatezza di
quanto usasse da noi. Ma il babbo, un povero maestru-
colo, mori giovane, e nella nostra estrema miseria non
avevamo certo la probabilità di quei fortunati eventi che
la mamma si compiaceva spesso di sognare. Doveva al
contrario caricarsi di lavoro per nutrirci, sacrificando
quanto essa prediligeva, cioè le abitudini e le vesti accu­
rate. Inaspettatamente la sua ex padrona, rimasta vedova
nel frattempo, quando io ebbi sedici anni decise di trasfe­
rirsi definitivamente in città e propose a mia madre che
mi mandasse con lei, essendo un peccato lasciarmi di­
ventare lì, nel villaggio, bracciante o contadino, mentre
essa intendeva farmi imparare un mestiere fine e di mio
gusto, tenendomi in casa sua ed esigendo da me soltanto
un facile servizio. Questa sembrava la miglior fortuna che
ci potesse capitare, e tutto era già infatti predisposto e
accordato, quando mia madre si fece triste e medita­
bonda, e un giorno, tra molte lagrime, mi supplicò di
non abbandonarla e di rimaner povero accanto a lei.
Mi disse che sentiva di dover morire giovane e che io certo
sarei giunto a qualche buon risultato anche dopo la sua
fine. La padrona, alla quale riferii molto dolente queste
cose, venne e fece grandi rimproveri a mia madre, ma
L’ABITO FA IL MONACO 293

questa si eccitò e cominciò a gridare e a ripetere che


non si sarebbe lasciata rubare suo figlio. Chi lo cono­
sceva ...
A questo punto Wenzel Strapinski s’interruppe di nuo­
vo e non seppe proseguire.
Nettchen gli chiese:
— Che cosa intendeva la mamma dicendo: «chi lo
conosceva ... »? Perché non continua?
Wenzel arrossì e rispose:
— Disse una cosa strana che non compresi bene e che
ad ogni modo non ho da allora mai constatato. Ma essa
era persuasa che chi conosceva suo figlio non poteva più
staccarsene, e con ciò voleva forse dire che ero un bravo
ragazzo o qualcosa di simile. Insomma, era tanto eccitata
che, malgrado i consigli della signora, io finii per rinun­
ciare e per rimanere con la mamma. Essa raddoppiò
il suo affetto e mille volte mi chiese poi perdono di essere
d’ostacolo alla mia fortuna. Ma quando si trattò di met­
tersi a guadagnare, fu chiaro che al villaggio non c’era
molta scelta, fuorché entrare nel laboratorio del nostro
sarto. A me non piaceva, ma mia madre tanto pianse che
finii per rassegnarmi. Ecco la mia storia.
Quando Nettchen gli chiese poi perché avesse più tardi
lasciato la mamma, Wenzel le spiegò:
— Fui chiamato al servizio militare e messo fra gli us­
seri; diventai un bell’ussero rosso, per quanto fossi forse il
più tonto del reggimento, o almeno certo il più tran­
quillo. Dopo un anno mi fu data finalmente una licenza
di poche settimane e corsi a casa da mia madre, ma essa
era morta da poco. Per questo, finita la ferma, cominciai
a girare il mondo da solo, per incappare poi in questa
disgraziata avventura.
Mentre egli così esponeva i suoi dolori, Nettchen l’os­
servava attentamente con un lieve sorriso. Per un certo
tempo regnò il silenzio nella stanza, ma d’un tratto la
donna parve còlta da un pensiero improvviso:
— Poiché lei fu sempre tanto apprezzato e gentile —
disse con un certo riserbo piccato — avrà certo avuto
le sue avventure amorose e avrà anche senza dubbio
294 LA GENTE DI SELDWYLA

più d’una povera ragazza sulla coscienza ... anche a


non parlar di me?
— Ahimè ! — ribattè Wenzel rosso come un gambero
— Prima di incontrarmi con lei non ho mai neppur sfio­
rato la punta delle dita d’una ragazza, fuorché . . .
— Ebbene? — disse Nettchen.
— Ebbene, — riprese Wenzel — quella signora che mi
voleva portar con sé per farmi educare, aveva una bim­
ba di sette o otto anni, una strana piccina, impetuosa
ma pur buona come lo zucchero e bella come un angelo.
Io avevo dovuto spesso farle da servitore e da protettore,
ed essa mi si era affezionata. L’accompagnavo regolar­
mente alla parrocchia un po’ lontana, dove il vecchio
pastore le faceva scuola, e andavo poi a riprenderla.
Spesso dovevo anche portarla fuori quando nessuno po­
teva accompagnarla. Questa bimba, quando la ricondussi
l’ultima volta a casa attraversando la campagna al tra­
monto, cominciò a parlare della sua partenza imminente
e mi dichiarò che io avrei dovuto seguirli ad ogni costo,
chiedendomi se consentivo. Le spiegai che non era pos­
sibile, ma la bimba continuò a supplicarmi più vivamente,
prendendomi per il braccio e impedendomi di camminare,
come sogliono fare i bambini, tanto che inavvertitamente
finii per liberarmene con uno strappo un po’ brusco. Allo­
ra la ragazzina chinò il capo e cercò di soffocare le lagrime
che le scendevano sulle guance, ma non riuscì a soffocare i
singhiozzi. Io tentai tutto confuso di calmarla, ma essa
si voltò irosa e mi mandò via sdegnata. Da quella sera
la bella bimba m’è rimasta sempre in mente e il cuore le
è rimasto fedele, benché non ne abbia più saputo nulla...
D’un tratto Wenzel, che s’era lasciato prendere da una
dolce commozione, s’interruppe spaventato e fissò impal­
lidendo la sua compagna.
—Ebbene, — disse Nettchen, che a sua volta era im­
pallidita, con voce strana — perché mi guarda così?
Ma Wenzel tese il braccio e puntò l’indice verso di lei,
come se gli apparisse uno spettro, gridando:
— Ma questo l’ho già veduto ! Quando quella piccina
s’arrabbiava, i suoi bei capelli si rizzavano sulla fronte
L’ABITO FA IL MONACO 295
e sulle tempie proprio come a lei ora, in modo che si ve-«
devano vibrare, e così fu anche quella sera fra i lampi,
al riflesso del tramonto!
In realtà i riccioli di Nettchen attorno alle tempie e
alla fronte s’erano lievemente rizzati, come mossi da un
alito leggero.
Madre natura, sempre un po’ civettuola, s’era valsa di
uno dei suoi segreti per portare a una soluzione quella
complicata vicenda.
Dopo un breve silenzio, col petto palpitante, Nettchen
s’alzò, girò attorno alla tavola e gli buttò le braccia al
collo, esclamando :
— Non ti voglio abbandonare ! Sei mio e io voglio
stare con te, sfidando il mondo intero !
Celebrò così il suo vero fidanzamento con profonda
decisione del cuore. La dolce passione le diede forza per
addossarsi il peso di un destino e per serbarsi fedele. Non
era però così ingenua da non tentare qualche ritocco à
quel destino, anzi prese nuove risoluzioni con rapida au­
dacia, dicendo al buon Wenzel, già immerso nei sogni
della ritrovata felicità:
— Ed ora andremo proprio a Seldwyla, per mostrare a
quelli che vollero rovinarci che essi ci hanno invece riuniti
e resi felici !
Il bravo Wenzel non ne era molto persuaso; egli avreb­
be preferito sparire in remote lontananze, creandosi
un’esistenza misteriosa e romantica di tranquilla beati­
tudine.
Ma Nettchen esclamò:
— Basta coi romanzi ! Voglio prenderti come sei, un
povero artigiano vagabondo, ma voglio esser tua moglie
nel mio paese, sfidando tutti i superbi e i befleggiatori.
Andremo a Seldwyla e là con l’assiduità e l’intelligenza
sapremo dominare proprio coloro che ci hanno schernito !
Detto fatto ! Richiamarono la contadina, che ebbe un
buon dono da Wenzel, già compreso della sua nuova si­
tuazione, poi ripresero la via. Questa volta fu Wenzel
a tenere le redini e Nettchen gli si appoggiava soddisfatta,
come se egli fosse il pilastro d’un tempio. Si sa che il pa-
296 LA GENTE DI SELDWYLA

radiso dell’uomo è la sua volontà; Nettchen aveva ap­


pena raggiunto l’età maggiore, così che poteva senz’altro
seguire il proprio volere.
A Seldwyla fermarono la slitta davanti alla locanda
dell’Arcobaleno, dove buona parte dei partecipanti alla
mascherata sedeva ancora davanti al bicchiere. Veden­
do arrivare la coppia, corse rapida come il fulmine la
notizia: «Ecco, abbiamo un ratto romantico; siamo pro­
prio stati abili nell’avviare una splendida avventura!».
. Wenzel attraversò la sala senza voltarsi, con la sua fi­
danzata, e dopo che questa fu salita in camera, passò
alla locanda del Selvaggio, un altro buon albergo, at­
traversando di nuovo un buon gruppo di Seldwylesi per
giungere in camera sua, e lasciandoli ai loro stupiti con­
ciliaboli, che li indussero a procurarsi un terribile mal
di capo per il troppo bere.
Anche a Goldach a quell’ora circolava già la scanda­
losa parola: «Ratto!».
Di buon mattino la Piscina di Bethesda arrivò a Seld­
wyla portandovi l’eccitatissimo Böhni con l’avvilitissimo
padre di Nettchen. Quasi quasi, per la gran premura,
avrebbero attraversato la città senza fermarsi, quando
scorsero a tempo, dinanzi all’Arcobaleno, la Fortuna,
deducendone che almeno la bella pariglia non poteva
esser troppo lontana. Fecero staccare i loro cavalli appena
l’ipotesi fu confermata e, sentendo che Nettchen era in
quell’albergo, vi scesero essi pure.
Passò qualche tempo prima che Nettchen facesse chie­
dere a suo padre di volerla raggiungere in camera, dove
voleva parlargli da sola a solo. Si seppe pure che aveva
già fatto chiamare il migliore avvocato della città, il quale
era atteso nel corso della mattinata. Il pretore, molto
preoccupato, salì da sua figlia, domandandosi come
avrebbe potuto trattenere dalla sua follia quella testa di­
sperata, e disponendosi a scene passionali.
Nettchen lo accolse invece con calma e pacata risolu­
tezza. Cominciò col ringraziare il padre in termini com­
mossi di tutto l’affetto e la bontà prodigatile e dichiarò
poi in forma precisa : in primo luogo non intendeva, dopo
L’ABITO FA IL MONACO 297

quel che era accaduto, almeno per i prossimi anni, risie­


dere a Golđach; in secondo luogo desiderava entrare in
possesso della cospicua eredità materna, che il padre già
da tempo teneva a sua disposizione per l’eventualità di
sue nozze; in terzo luogo, e in ciò era irremovibile, inten­
deva sposare Wenzel Strapinski; in quarto luogo aveva
deciso di stabilirsi con lui a Seldwyla, aiutandolo a fon­
dare una buona azienda; in quinto e ultimo luogo, tutto
sarebbe finito per il meglio, giacché ella s’era ben per­
suasa che Wenzel era un brav’uomo che l’avrebbe resa
felice.
Il signor pretore iniziò il suo compito di dissuasione,
ricordandole, come Nettchen già sapeva, che egli aveva
sempre desiderato rimetterle al più presto il suo patri­
monio per fondare la sua vera felicità. Le rappresentò poi,
con tutto l’affanno che lo dominava dal momento della
terribile catastrofe, quanto fosse inconcepibile il connubio
su cui ella insisteva, e le indicò infine il gran rimedio
che avrebbe potuto degnamente risolvere il grave con­
flitto. Si trattava di Melcher Böhni, il quale era disposto a
soffocare immediatamente con la propria persona il pe­
noso scandalo, difendendo e salvando di fronte a tutto il
mondo l’onore della fanciulla col suo nome inattaccabile.
Ma la parola «onore» suscitò l’eccitazione più viva
della figlia. Essa gridò che era appunto l’onore a imporle
di non sposare il signor Böhni, a lei insopportabile, e a
serbarsi invece fedele a quel povero forestiero al quale
aveva dato la sua promessa e che, in fondo in fondo, le
piaceva !
Ci fu ancora un inutile dibattito, che alla fine fece ver­
sare lagrime alla bella ostinata.
Proprio in quel punto sopravvennero Wenzel e Mel­
cher, che s’erano incontrati sulla scala. Minacciava così
di succedere un gran pasticcio, quando per fortuna si
presentò l’avvocato, persona ben nota al pretore, che
indusse i presenti a una conciliante ragionevolezza. Ra­
pidamente informato della situazione, ordinò anzitutto
che Wenzel si ritirasse nel suo albergo del Selvaggio e vi
si tenesse quieto quieto, e che anche il signor Böhni se ne
298 LA GENTE DI SELDWYLA

andasse senza immischiarsi di nulla. A Nettchen consigliò


poi di serbare sino alla fine della vicenda tutte le forme
della correttezza borghese, mentre il padre doveva ri­
nunciare a ogni tentativo di costrizione, visto che la
libertà della figliola era giuridicamente fuor di dubbio.
Si giunse così a un armistizio e a una separazione
provvisoria di alcune ore.
In città, dove l’avvocato seppe far correre la vaga noti­
zia che forse l’incidente avrebbe portato a Seldwyla un
vistoso patrimonio, ci fu gran chiasso. Gli umori dei
Seldwylesi si trasformarono di colpo a favore del sarto
e della sua fidanzata : tutti decisero di proteggere la cop­
pia a costo del loro sangue, garantendo nella loro città i
diritti e le libertà dell’individuo. Quando corse quindi la
voce che si volesse riportare a forza la fanciulla a Goldach,
ne nacque quasi una rivolta, fu messa davanti all’Arco­
baleno e al Selvaggio una guardia d’onore e di protezione
armata e ci si abbandonò con grandiosa allegria alla splen­
dida avventura che faceva da bizzarra continuazione a
quella della vigilia.
Il padre, intimorito e irritato, mandò il suo Böhni a
chiedere aiuto a Goldach. Questi vi si recò al galoppo, e
l’indomani giunsero di là in aiuto del genitore un buon
numero di uomini con una notevole scorta di poli­
ziotti, e quasi parve che Seldwyla dovesse diventare una
novella Troia. I due partiti stavano di fronte minacciosi;
il tamburino civico girava già la vite per tendere bene
il suo tamburo e accennava qualche colpetto col ba­
stoncino di destra. Ma si intromisero funzionari supe­
riori, laici ed ecclesiastici, e le trattative portarono al ri­
sultato che Nettchen tenne duro e che pure Wenzel non
si lasciò intimidire, incoraggiato dai Seldwylesi. Venne
quindi deciso di fare le pubblicazioni di nozze appena
radunati i documenti necessari, con tutte le forme, e di
aspettare poi se e quali legali impedimenti sarebbero stati
elevati contro tale procedura e con quale esito.
Però, data la maggiore età di Nettchen, un impedi­
mento poteva derivare soltanto dalla dubbia moralità
dello pseudo conte Wenzel Strapinski.
L’ABITO FA IL MONACO 299
Invece l’avvocato, che rappresentava lui e la sua sposa,
potè stabilire che quel giovanotto forestiero, né al suo
paese nativo, né durante le sue peregrinazioni, non aveva
riportato sulla fedina neppure l’ombra d’una macchia
e che anzi sul suo conto pervenivano soltanto testimo­
nianze favorevoli.
Circa quel che era avvenuto a Goldach, l’avvocato di­
mostrò che in fondo Wenzel non s’era fatto passare per
conte, ma che tal titolo gli era stato quasi violentemente
conferito da altri, mentr’egli in tutti i documenti scritti
aveva firmato col suo autentico nome di Wenzel Stra-
pinski, senza aggiunta alcuna. A suo carico sussisteva so­
lo la colpa di aver fruito di una stolta ospitalità che non
gli sarebbe stata concessa se non fosse arrivato in quella
bella carrozza, e se il cocchiere non si fosse permesso
quello stolido scherzo.
La guerra finì col matrimonio, che i Seldwylesi ac­
compagnarono generosamente con spari delle cosiddette
«teste di gatto», a dispetto dei Goldachesi, i quali li po­
tevano udire benissimo perché tirava vento di ponente.
Il pretore versò alla figlia l’intero patrimonio ed essa di­
chiarò che Wenzel doveva diventare un grande marchand-
tailleur e, come si diceva ancora a Seldwyla, un pannaiolo.
Così avvenne, in modo però ben diverso da quel che i
Seldwylesi avevano sognato. Wenzel si rivelò modesto,
economico e laborioso nella sua azienda, cui seppe dare
grande sviluppo. Confezionò ai cittadini i panciotti di
velluto color viola oppure a scacchi bianchi e azzurri,
le marsine da ballo a bottoni dorati, i mantelli guarniti
di rosso e li ebbe tutti debitori, ma non mai per molto
tempo. Giacché per ottenere indumenti nuovi e più belli,
da lui importati o confezionati, bisognava gli pagassero
gli arretrati, tanto che tra loro borbottavano, dicendo che
spillava il sangue dalle unghie.
Intanto egli si fece grassotto e aitante, perdendo quasi
la sua aria di sognatore: di anno in anno divenne più
esperto e più abile negli affari, e insieme al suocero, ormai
riconciliato, ebbe tanto successo in certe speculazioni da
raddoppiare il patrimonio e da potersi, dopo dieci o
300 LA GENTE DI SELDWYLA

dodici anni, trasferire a Goldach con altrettanti figlioli


regalatigli nel frattempo da Nettchen Strapinska, per di­
venirvi un personaggio molto stimato.
A Seldwyla però non lasciò neppure un soldo, forse per
ingratitudine, forse per vendetta.
IL FABBRO DELLA SUA FORTUNA

John Kabys, un brav’uomo di circa quarantanni, soleva


dire che ognuno può e deve essere il fabbro della propria
fortuna, senza troppo chiasso e agitazione.
Un uomo come si deve sa fabbricarsi la sua sorte tran­
quillamente, con pochi colpi da maestro ! Su questo chio­
do batteva spesso e con ciò non intendeva alludere sol­
tanto alla conquista del necessario, bensì anche di tutto
ciò che è desiderabile e superfluo.
Già nella sua tenera giovinezza egli aveva pertanto
giocato il primo colpo magistrale, trasformando il pro­
prio nome, Johannes, nell’inglese John, tanto per prepa­
rarsi a vicende inusitate e fortunate staccandosi da tutti i
semplici «Hans» e circondandosi di un’avventurosa au­
reola anglosassone.
Dopo di ciò se ne stette tranquillo per alcuni anni, senza
lavorare né imparare gran che, ma anche senza permet­
tersi bizzarrie, in prudente attesa.
Quando però la fortuna non parve voler abboccare al­
l’esca lanciata, egli giocò il secondo colpo maestro e tra­
sformò anche Fi del suo cognome in un y. A questo
modo la parola Kabis (altrove anche Kapes), che signi­
fica cavolo bianco, assunse un aspetto ben più nobile ed
esotico, e John Kabys rimase in ancor più legittima attesa
della sua fortuna.
Passarono tuttavia ancora parecchi anni senza che essa
si presentasse, e già egli era prossimo al trentunesimo della
sua vita quando si trovò, malgrado la sua amministrazio­
ne parsimoniosa, ad avere consumato la non cospicua ere­
dità. A questo punto cominciò a darsi seriamente dattor­
no e ad escogitare un’impresa da non prendersi a gabbo.
Già spesso aveva invidiato molti Seldwylesi per le loro
imponenti ditte, conquistate aggiungendo al proprio il
casato della moglie. Era t l’usanza sorta all’improvviso,
non si sapeva come né di dove, ma che ormai pareva ac­
cordarsi ottimamente ai panciotti di velluto rosso di quei
signori, e l’intera cittadina risonava in ogni canto di
302 LA GENTE DI SELDWYLA

pomposi duplici nomi. Targhe grandi e piccole, diciture


alle porte, ai campanelli, tazze da caffè e cucchiaini da
tè assumevano quell’iscrizione, e la gazzetta settimanale
per un po’ di tempo fu piena di avvisi e di dichiarazioni
che avevano l’unico scopo di comunicare la nuova ditta
collettiva. Era una delle prime soddisfazioni delle giovani
coppie poter varare una simile inserzione. Non mancarono
casi di invidia o di sdegno; se per esempio un ciabatti­
no dalle mani sudicie o qualche altro poveraccio tenuto
in poco conto tentava di partecipare alla rispettabilità
comune assumendo il doppio cognome, gli altri arriccia­
vano il naso, benché anch’egli fosse in legittimo pos­
sesso dell’altra metà coniugale. Non era comunque del
tutto indifferente che individui più o meno indegni pe­
netrassero con questo mezzo nell’allegra rete del vasto
credito, giacché quel prolungamento del nome ottenuto
per parentado s’era rivelato per esperienza uno degli ele­
menti più efficaci e insieme più delicati nel meccanismo
del credito stesso.
Per John Kabys tuttavia non vi poteva esser dubbio
circa l’esito di simile trasformazione. Le difficoltà erano
in quel momento tanto grandi da imporre alla giusta ora
il colpo maestro tenuto in serbo da lungo tempo, come
ben si conviene a un esperto fabbro della sua fortuna,
il quale non adopera il martello a casaccio. John si guardò
dunque attorno, tacito ma deciso, in cerca di una moglie,
ed ecco che già la sola risoluzione parve richiamare final­
mente la fortuna. Quella stessa settimana infatti arrivò
e si stabilì a Seldwyla una signora anziana con una figlia
in età da marito: essa si chiamava madama Oliva e la
figlia madamigella Oliva. John sentì risonare all’orecchio
e nell’animo l’accordo Kabys-Oliva ! Fondare un’azienda
modesta con quell’insegna significava senz’altro vederla
divenire in pochi anni una grande casa. Si mise quindi
saggiamente all’opera armato di tutti i suoi attributi.
Questi consistevano in un paio di occhiali a stanghette
dorate, in tre bottoni da camicia a smalto riuniti tra loro
da catenelle d’oro, in una lunga catena d’oro da orologio
attraversante il panciotto a fiorami e ricca di molteplici
IL FABBRO DELLA SUA FORTUNA 3°3
ciondoli, in una grandiosa spilla da cravatta, ove una
miniatura rappresentava la battaglia di Waterloo, in­
fine in tre o quattro cospicui anelli, in un rispettabile
bastone, la cui impugnatura era formata da un binocolo
da teatro che aveva la forma d’una botticina di madre-
perla. In tasca poi teneva sempre, e lo cavava ponen­
doselo dinanzi appena seduto, un grande astuccio di cuoio
in cui riposava un bocchino di schiuma intagliato, rap­
presentante Mazeppa legato al suo cavallo ; questo grup­
po, quando fumava, gli giungeva sino alle sopracciglia
ed era un vero pezzo da museo. Aveva inoltre un porta­
sigari rosso a chiusura dorata, con dentro bei sigari a
fascetta screziata bianco-rossa, un accendisigari d’inau­
dita eleganza, una tabacchiera d’argento e un taccuino
ricamato. Non gli mancava il più complicato e raffinato
dei portamonete, con scompartimenti innumerevoli e mi­
steriosi.
Tutto questo armamentario gli sembrava il corredo
ideale di un uomo fortunato : se lo era procurato, quale
cornice audacemente prevista per la sua vita, in anticipo,
nel tempo, cioè, in cui andava ancora rosicchiando il suo
patrimonietto, non mai però senza idee lungimiranti.
Quell’ammassamento di roba non era tanto il lusso senza
gusto d’un uomo vanitoso, quanto piuttosto una scuola
di pazienza, di perseveranza e di consolazione per il
tempo della sfortuna, nonché una preparazione degna alla
buona sorte, la quale avrebbe dovuto arrivare una bella
volta all’improvviso, come un ladro di notte. Avrebbe pre­
ferito morir di fame che vendere o impegnare il più pic­
colo di quegli ornamenti : a quel modo non poteva passare
per uno straccione né di fronte al mondo né di fronte a
se stesso ed era in grado di tollerare le peggiori avversità
senza rimetterci lo splendore esterno. Inoltre, per non
perdere o guastare, rompere o mettere in disordine tutta
quella roba, era costretto sempre a un contegno di calma
dignitosa. Non poteva concedersi una modesta sbornia o
una subitanea commozione; possedeva in realtà il suo
Mazeppa da ben dieci anni, senza che il cavallo avesse
perso un orecchio o che si fosse staccato un pezzetto della
3°4 LA GENTE DI SELDWYLA

coda svolazzante, mentre le fibbie e gli anellini dei suoi


astucci e necessaires chiudevano perfettamente, come nel
giorno della loro creazione. Insieme a tutti gli aggeggi, do­
veva pur tenere con riguardo abito e cappello, e, per met­
tere in bella mostra sullo sfondo bianco i bottoni, le ca­
tenine e la spilla, era necessario possedere sempre uno
sparato di camicia di impeccabile candore.
È vero che tutto ciò esigeva maggior fatica di quanto
egli volesse ammettere nei suoi discorsi a proposito dei
pochi colpi maestri ; ma è sempre stato un errore giudi­
car facili le opere di un genio.
Se dunque le due donne rappresentavano la fortuna,
questa si fece prendere docilmente nella rete tesa dal mae­
stro; il quale anzi, cosi rassettato e ingioiellato, sembrò
loro proprio l’uomo ch’erano venute a cercare. La sua
vita di ozio regolare pareva indicare un tranquillo e si­
curo piccolo proprietario, uno che vivesse di rendita te­
nendo i suoi titoli in un simpatico cofanetto. Allusero
qualche volta alla propria agiatezza, ma quando si ac­
corsero che il signor Kabys non pareva darvi gran peso,
preferirono tacere, persuase che fosse la loro personalità ad
attrarre il brav’uomo. A farla breve, in poche settimane
John era bell’e fidanzato con la signorina Oliva e contem­
poraneamente partiva per la capitale, a fare incidere un
elegante biglietto da visita a fregi col duplice nome, non­
ché a ordinare una splendida insegna e a iniziare al­
cune trattative commerciali a credito per un negozio di
stoffe e merceria. Pieno di baldanza si comprò anche due
o tre misure da un braccio, di legno di susino ben levi­
gato, alcune dozzine di formulari da cambiali con ricchi
emblemi di Mercurio, listini per i prezzi e cartellini a
orlo dorato da incollare, libri mastri e altre cose del
genere.
S’affrettò poi a tornare soddisfatto nel suo borgo natio,
dalla sposa, il cui solo difetto era di avere una testa spro­
porzionatamente grande. Venne accolto con cordiale te­
nerezza e le notizie del suo viaggio furono ricambiate con
quella che erano arrivati i documenti della sposa necessari
alle nozze. Questo gli fu però detto con sorridente ritegno,
IL FABBRO DELLA SUA FORTUNA 3θ5
come se dovessero prepararlo a un particolare non troppo
regolare, anche se secondario. Finalmente venne a sa­
pere che la madre era bensì una vedova Oliva, la figlia in­
vece un frutto illegittimo dei suoi anni giovanili, il quale
portava quindi nei documenti ufficiali il cognome ma­
terno. E questo sonava: «Häuptle», testolina! La fidan­
zata dunque era una madamigella Häuptle e la futura
azienda avrebbe dovuto intitolarsi «John Kabys-Häu-
ptle», il che significava pressappoco «Hans Testolina di
Cavolo»!.
Lo sposo rimase per un buon tratto senza fiato, consi­
derando la sciagurata metà del suo recentissimo capo­
lavoro, ma alla fine esclamò: «E con una zucca simile,
ci si può chiamare testolina ! ». La povera fidanzata chi­
nò il capo umilmente per lasciar passare la bufera, giac­
ché ella non sospettava che il suo bel nome avesse rappre­
sentato la maggior attrattiva per John.
Il signor Kabys senza far più parole andò difilato a ca­
sa sua, per meditare sull’accaduto, ma già per strada i
suoi concittadini sempre burloni gli gridarono «Hans
Testa di Cavolo», essendosi il segreto ormai diffuso. Per
tre notti e tre giorni cercò in assoluta solitudine di rab­
berciare l’opera mal riuscita. Al quarto aveva preso una
decisione : ritornò dalle due signore e chiese in matrimo­
nio la madre al posto della figlia. L’indignata matrona
peraltro aveva intanto scoperto che il signor Kabys non
possedeva alcun cofanetto di mogano pieno di titoli, e lo
mise rudemente alla porta, partendo poi subito con sua
figlia per un’altra città.
Così il signorJohn vide svanire il radioso « Oliva» al pari
di un’iridescente bolla di sapone nelle azzurrità dell’etere
e rimase molto sconcertato, con in mano il suo martello
per forgiare la fortuna. La faccenda gli aveva consumato
le ultime riserve in pecunia, così dovette finalmente deci­
dersi a fare un lavoro concreto, o almeno a porre una base
alla sua esistenza. Studiandosi e ristudiandosi, constatò
che l’unica sua abilità era di far la barba meravigliosa­
mente, nonché di tenere in buono stato e affilare bene i ra­
soi. Si sistemò dunque in una stanzuccia terrena con una
306 LA GENTE DI SELDWYLA

catinella da barbiere, mise alla porta l’insegna «John


Kabys», che aveva di persona ritagliato con una sega,
non senza melanconia, dall’elegante tavola preparata per
l’insegna con il perduto Oliva. Ma il nomignolo di «Te­
sta di Cavolo» gli rimase appiccicato in città e servì pu­
re a portargli vari clienti, cosicché egli vivacchiò pas­
sabilmente per parecchi anni, sbarbando guance e af­
filando rasoi, dimentico ormai del suo motto orgoglioso.
Un giorno entrò in bottega un concittadino appena ri­
tornato da lunghi viaggi e gli domandò distrattamente,
mentre si accomodava per farsi insaponare:
— A quanto vedo dalla sua insegna, a Seldwyla vi
sono ancora dei Kabys !
— Sono l’ultimo della mia stirpe — replicò il barbiere
non senza dignità — ma perché lei me lo chiede, se è
lecita la domanda?
Il forestiero non rispose finché non fu ben sbarbato e ri­
pulito, e soltanto a cose fatte, dopo aver versato il suo
obolo, continuò:
— Conobbi ad Augusta un vecchio originale molto
ricco, il quale spesso raccontava che sua nonna era ima
Kabis di Seldwyla, in Svizzera, e che sarebbe stato gran­
demente stupito di sentire che esistevano ancora persone
di quella famiglia.
Detto questo il cliente se ne andò.
Hans Testolina di Cavolo se ne stette a meditare, e
meditando sempre più si eccitò, allorché gli tornò vaga­
mente alla memoria che molti anni prima una sua proava
era andata a sposarsi in Germania, senza poi dar più
notizia di sé. Si ridestò a un tratto in lui un patetico
senso familiare, un interesse romantico per gli alberi
genealogici, e si angosciò chiedendosi se quel forestiero
sarebbe poi tornato. A tener conto della qualità della sua
barba, avrebbe dovuto ricomparire due giorni dopo, ed
ecco che in realtà l’amico comparve puntuale. John lo
insaponò ben bene e lo sbarbò con mani quasi tremanti
di ansiosa curiosità. Quand’ebbe finito non seppe tratte­
nersi dal domandargli qualche particolare più preciso.
L’altro rispose che si trattava di un certo signor Adam
IL FABBRO DELLA SUA FORTUNA 307

Litumléi, ammogliato ma senza figlioli, abitante in via


tal dei tali ad Augusta.
John ci dormì su ancora una notte, attingendovi il co­
raggio di ricercare energicamente la propria fortuna.
L’indomani chiuse la botteguccia, ripose l’abito della do­
menica in un vecchio zaino, i suoi ben conservati gioielli
e ornamenti in un pacchettino speciale, poi, munitosi
saggiamente di attestati scritti e di estratti del registro
parrocchiale, iniziò senz’altro il suo pellegrinaggio ad
Augusta, modesto e tranquillo come un non più giovane
apprendista.
Quando scorse i campanili e i verdi bastioni della
città, contò il suo capitaletto e si disse che avrebbe dovuto
serbarsi molto economo per avere, in caso di esito sfavo­
revole, la possibilità del ritorno. Scese quindi alla locanda
più modesta che gli riuscì di trovare dopo lunghe ricer­
che; entrò e vide appese al di sopra delle singole tavole
le insegne artigiane, fra le quali anche quella dei fabbri.
Per buon augurio, considerandosi fabbro della propria
fortuna, andò a sedersi proprio sotto a quella e si ristorò
con una colazioncina, essendo ancora buon mattino. Do­
mandò poi una stanzetta e mutò d’abito. Si acconciò nel
modo migliore, caricandosi di tutti i suoi ornamenti e
non mancò di avvitare sul bastone la botticella-binocolo.
Uscì a quel modo dalla stanzetta, facendo sbalordire col
suo splendore la brava ostessa.
Gli ci volle parecchio tempo prima di trovare la strada
ambita dal suo cuore, ma alla fine giunse a un corso
piuttosto ampio, con case antiche e imponenti, dove però
non si scorgeva anima viva. Finalmente gli passò svelta
accanto una ragazzina con un lucido boccale di birra
spumeggiante, ed egli la trattenne domandandole ove
abitasse il signor Adam Litumléi e la fanciulla gli additò
proprio la casa davanti a cui si era fermato.
Alzò incuriosito lo sguardo. Sopra un bel portone si
ergevano parecchi piani con alte finestre, i cui cornicioni
e profili offrivano all’occhio del povero cacciatore di for­
tuna un mare verticale di audaci scorci. Egli s’impres­
sionò, temendo di essersi accinto a troppo grandiosa im­
308 LA GENTE DI SELDWYLA

presa, visto che si trovava di fronte a un vero e proprio


palazzo. Tuttavia spinse pian piano il pesante battente,
sgattaiolò dentro e si trovò su un magnifico scalone. Una
doppia gradinata di pietra saliva con ampi pianerottoli,
affiancata da una splendida balaustrata di ferro battuto.
Ai piedi dello scalone e oltre la porta interna, aperta, si
vedevano aiuole fiorite al sole. John si avviò senza ru­
more da quella parte, sperando di incontrare un servitore
o un giardiniere, ma non vide altro che un gran giardino
in stile tedesco antico, pieno dei più bei fiori, nonché
una fontana di pietra con molte statue.
Tutto appariva come morto e abbandonato ed egli
ritornò sui suoi passi e salì le scale. Alle pareti erano ap­
pese grandi carte geografiche ingiallite, piante di antiche
città imperiali con le rispettive fortificazioni e con figure
allegoriche agli angoli. Una delle tante porte di quer­
cia sembrava solo accostata : l’intruso l’aprì a metà e vide,
distesa sopra un divano, una donna piuttosto graziosa alla
quale era sfuggito di mano il lavoro a maglia, immersa
in un tranquillo sonnellino, benché fossero soltanto le
dieci antimeridiane. John Kabys, essendo la stanza mol­
to spaziosa, accostò col cuore in tumulto il suo bastone
agli occhi per considerare meglio col binocolo di madre-
perla quella dolce apparizione. La veste di seta, le forme
opulente della dormiente, gli fecero sempre più apparire
quella dimora come un castello incantato, tanto che si ri­
trasse estremamente incuriosito e risalì le scale, lento e
prudente.
All’ultimo piano lo scalone si trasformava in una vera
armeria, poiché le pareti erano tutte guarnite di armi e di
armature d’ogni secolo: giachi di maglia arrugginiti, el­
mi, corazze di gala settecentesche, spadoni, bacchette da
miccia dorate : tutto disposto alla rinfusa, mentre agli an­
goli spiccavano dei cannoncini assai graziosi, verdi per
l’antichità. Insomma quello era senz’altro lo scalone di
un ricco patrizio e il signor John assunse un’aria molto
solenne.
All’improvviso si fece intendere, vicinissimo, una spe­
cie di grido, come di un bambino grandicello, e, poiché
IL FABBRO DELLA SUA FORTUNA 3θ9
non cessava, John si indusse ad andare a cercarlo, speran­
do così di trovar gente. Aprì la porta più vicina e vide un
ampio salone, tutto tappezzato dal basso all’alto di ri­
tratti d’antenati. Il pavimento era composto di matto­
nelle esagonali multicolori, il soffitto aveva stucchi con
figure in rilievo, in grandezza naturale, di uomini e di
animali, quasi librati nel vuoto, di ghirlande di frutti e di
stemmi. Davanti a una specchiera da camino alta dieci
piedi stava ritto un vecchierello minuscolo e grigio, non
più pesante di un capretto, ravvolto in una veste da ca­
mera di velluto scarlatto e con la faccia insaponata. Pesta­
va i piedi impaziente, gemeva piagnucoloso e ripeteva:
«Non posso più radermi ! Non posso più radermi ! Il mio
rasoio non taglia ! E nessuno mi aiuta, oh, povero me ! ».
Scorgendo nello specchio un forestiero, tacque, si voltò e
contemplò sconcertato, col rasoio in mano, non senza ti­
more il signor John, il quale avanzò fra ripetuti inchini,
tenendo il cappello nella destra, lo depose, tolse di mano
con un sorriso al vecchietto il suo rasoio, mettendosi a
provarne il filo. Lo passò alcune volte sul cuoio degli sti­
vali, poi sulla palma, infine considerò il sapone, sbattè
una schiuma più densa e finì insomma di sbarbare l’omet­
to disperato, in meno di tre minuti, a tutta perfezione.
«Perdoni, stimatissimo signore!» disse poi Kabys «la
libertà che mi son preso! Ma vedendola in tanto im­
barazzo, pensai di fare a questo modo naturalissimo la
sua conoscenza, qualora almeno io abbia veramente l’o­
nore di trovarmi di fronte al signor Adam Litumlei!».
Il vecchietto non cessava dal fissare stupito lo scono­
sciuto; poi si guardò nello specchio e gli parve di esser
rasato meglio del solito, dopo di che, oscillando tra com­
piacenza e diffidenza, tornò a considerare l’artista della
barba, constatando soddisfatto che si trattava di un fo­
restiero rispettabile. Gli chiese però ancora con una vo-
cetta sgarbata chi fosse e che cosa volesse.
John si schiarì la voce e rispose di essere un certo signor
Kabys di Seldwyla che, passando per caso durante un
viaggio per quella città, non aveva voluto rinunciare a
far ricerche e a portare un saluto al discendente di una
310 LA GENTE DI SELDWYLA

sua ava. E assunse un tono come se egli avesse sentito


parlare del signor Litumlei sin dall’infanzia. Questi ne
fu gradevolmente sorpreso ed esclamò con cordiale al­
legria :
— Guarda ! Allora la stirpe dei Kabis non è spenta !
È forse numerosa e prospera?
John, quasi fosse un apprendista artigiano in pellegri­
naggio di lavoro, che si presentasse al daziere all’ingresso
di una città, aveva tratto fuori i suoi documenti e por­
gendoli disse serio:
— Numerosa non è più davvero: io sono l’ultimo della
famiglia ! Ma il suo onore è sempre intatto !
Il vecchio, stupito e commosso da quelle parole, gli
porse la mano e gli diede il benvenuto. I due se la intesero
presto circa il grado della loro parentela ; Litumlei conti­
nuava a esclamare: «Ma come si toccano da vicino i
rami della nostra vita! Venga, caro cugino, qui può
vedere la sua nobile ed eccellente prozia, la mia povera
nonna ! ». Lo accompagnò lungo l’immenso salone, fin­
ché si trovarono in faccia a un ritratto di dama vestita
alla moda del secolo precedente. Difatti il cartellino fissato
in un angolo della cornice precisava il nome della dama,
e anche moltissimi altri dipinti eran muniti di analoghi
cartoncini. I ritratti recavano per vero dire altre iscri­
zioni in lingua latina, poco concordanti coi biglietti ag­
giunti.
Ma John Kabys rimaneva estatico a guardare, dicendo
intanto a se stesso: “Questa volta hai fatto un buon la­
voro! Qui infatti ti guarda dall’alto con cordiale beni­
gnità la progenitrice di questa fortuna in un ricco sa­
lone cavalleresco!”.
Con questo monologo s’accordarono armoniose le pa­
role del signor Litumlei, il quale dichiarava non potersi
ormai discorrere di proseguir subito il viaggio. Il degno
signor cugino doveva rimanere ed esser suo ospite, per
stabilire più intimi rapporti sintanto almeno che gli af­
fari glielo permettevano. Gli ornamenti vistosi del proni­
pote, che già l’avevano colpito, assolsero così ottimamen­
te il loro compito, ispirandogli la massima fiducia.
IL FABBRO DELLA SUA FORTUNA SU

Il vecchio diede uno strappo energico al campanello,


al che sopraggiunsero senza fretta alcuni domestici per
vedere che cosa volesse il piccolo padrone, e alla fine
comparve anche la signora addormentata del primo pia­
no, ancora un po’ rossa e ad occhi semichiusi per quel
sonnellino. Quando però l’ospite inatteso le fu presentato
li aprì del tutto, curiosa e divertita, a quanto sembrava,
per la novità. John fu accompagnato in altre sale e co-
stretto ad accettare uno spuntino, al quale partecipò di
buona voglia anche la coppia, come sogliono fare i bam­
bini, che hanno appetito a tutte le ore. Questo piacque
infinitamente all’ospite, poiché lo persuase di essere capi­
tato fra gente che non si faceva mancare nulla, e che anzi
sapeva apprezzare la roba buona. Da parte sua non
mancò di fare un’impressione sempre più gradevole, anzi
già durante il pranzo del mezzodì, che seguì poco dopo,
il successo fu ben chiaro, poiché ciascuno dei due coniugi
fece servire le sue pietanze predilette e John Kabys man­
giò di tutto, trovò tutto eccellente, conferendo ancor più
alto valore al proprio giudizio con la calma dignitosa a
lui abituale. Si mangiò e si bevve insomma gloriosamente
e mai tre brave persone ebbero a godere insieme una vita
più lussuosa e in pari tempo più innocente. Per John fu un
paradiso dal quale pareva escluso il pericolo del peccato
originale.
Insomma, ogni cosa procedette nel modo migliore:
erano già otto giorni che Kabys viveva in quella vene­
randa dimora, conoscendone ormai ogni cantuccio. Fa­
ceva passare il tempo al suo ospite in mille modi, andava
a passeggio con lui, lo rasava con la lievità di uno zef-
firo, il che piaceva enormemente al vecchietto. Poi s’ac­
corse che il signor Litumlei cominciava a rimuginare
qualche pensiero e si spaventava sentendolo parlare della
sua partenza, il che egli faceva di tanto in tanto con serie
allusioni.
Pensò allora che fosse tempo di tentare un piccolo colpo
maestro e alla fine dell’ottava giornata annunziò più
chiaramente al suo protettore l’imminente partenza, pren­
dendo a motivo il desiderio di non rendersi più difficile
312 LA GENTE DI SELDWYLA

e penoso, con un ulteriore ritardo, il congedo e l’adatta­


mento a una esistenza molto più semplice. Voleva sop­
portare da uomo il suo destino, la sorte di un ultimo
rampollo della sua stirpe, cui toccava il compito di ser­
bare alto l’onore della famiglia sino al suo estinguersi,
con austerità di lavoro e con riserbo.
«Venga un po’ su nella sala dei cavalieri insieme con
me!» replicò il signor Adam Litumlei, e i due si av­
viarono. Dopo che, là giunto, il vecchio si fu alquanto ag­
girato solennemente in su e in giù, riprese: «Ascolti la
mia decisione e la mia proposta, o caro pronipote ! Lei è
l’ultimo della sua gente e questo è un grave destino, ma
non meno grave è il destino a me imposto ! Mi guardi,
orsù ! Io sono il primo della mia stirpe ! ».
Così dicendo si rizzò orgoglioso, e John lo guardò,
senza riuscire a capire a che cosa alludesse. Ma quello
continuò :
«Se dico che sono il primo, ciò significa soltanto che
ho deciso di fondare una stirpe gloriosa, pari a quella che
lei vede raffigurata lungo le pareti di questa sala ! Costoro
infatti non sono i miei antenati, bensì i membri di una
gente patrizia ormai estinta di questa città. Quando im­
migrai una trentina d’anni or sono, era in vendita il pa­
lazzo con tutto il suo arredo e le sue opere d’arte e io
acquistai subito tutto per attuare la mia idea prediletta.
Io possedevo infatti un grande patrimonio, ma non avevo
né nome né antenati : neppur conosco il nome di battesi­
mo di mio nonno, il quale aveva sposato una Kabis. Da
principio mi consolai dichiarando miei antenati i signori e
le dame qui dipinti, assegnandone una parte ai Litumlei
e una parte ai Kabis, per mezzo dei cartoncini che ella
ha veduto. Ma i miei ricordi familiari bastavano appena
per sei o sette persone ; il rimanente dei quadri, frutto di
quattro secoli, sembrava schernire ogni mio sforzo. Tanto
più vivamente ero così spinto verso il futuro, verso la ne­
cessità di dare origine a una famiglia duratura, di cui
volevo essere il celebrato progenitore. Ho già fatto pre­
parare da tempo il mio ritratto, nonché un albero genea­
logico che reca alla radice il mio nome. Ma son per­
IL FABBRO DELLA SUA FORTUNA 313

seguitato da una maligna stella ! È già la terza moglie che


prendo e nessuna mi ha dato né una bambina, né tanto
meno un erede maschio. Le due prime mogli, dalle quali
divorziai, hanno in seguito, per mera perfidia, procreato
con altri mariti numerosi figlioli e quella attuale, che ho
già da sette anni, non mancherebbe di imitarle se io la
lasciassi andare.
«La sua comparsa, o caro pronipote, mi ha suggerito
una idea, l’idea di un artificio, quale fu adottato ripetu­
tamente nel corso della storia da piccole e grandi dinastie.
Che ne direbbe lei di questo progetto? Lei viene a star
con noi come un figlio e io la nomino mio erede legit­
timo ! In cambio ecco quel che dovrebbe fare : sacrificare
esteriormente la sua tradizione familiare, visto che ella è
l’ultimo della sua gente, e assumere alla mia morte,
cioè insieme all’eredità, il mio nome! Io nel frattempo
faccio correre la voce che ella sia un mio figlio naturale,
frutto di un’avventura giovanile ; lei accetta questa storia
senza contraddirla ! Forse sarà possibile più tardi confer­
marla con una documentazione scritta, con delle memo­
rie, per esempio un romanzetto o una memorabile storia
d’amore nella quale a me tocchi una parte appassionata,
seppur sconsiderata, in cui io semino sventura, per ripa­
rarvi però in vecchiaia. Infine lei si impegna ad accettare
da me in sposa quella moglie che io le troverò tra le più
stimate fanciulle della città, per continuare nel mio, in­
tento. Eccole la mia proposta nell’insieme e nei par­
ticolari ! ».
John durante quel discorso si era fatto ora rosso e ora
smorto, non certo per la paura o la vergogna, ma per la
gioia e lo stupore di fronte al sospirato arrivo della for­
tuna, e alla propria saggezza nell’essersela saputa atti­
rare. Non si lasciò tuttavia affatto sorprendere, finse anzi
di decidersi solo a stento al sacrificio del suo onorato
nome di famiglia e della sua nascita legittima. Chiese,
con parole cortesi e ponderate, ventiquattr’ore per ri­
fletterci recandosi poi a passeggiare meditabondo lungo i
viali del bel giardino. I fiori leggiadri, le violacciocche, i
garofani e le rose, i gigli e i giaggioli, le aiuole di geràni
3M LA GENTE DI SELDWYLA

e le pergole di gelsomino, gli arbusti di mirto ed oleandro,


tutti occhieggiavano cortesi, quasi per rendere omaggio
al nuovo padrone.
Dopo aver goduto per una mezz’oretta quel profumo e
quel sole, nonché l’ombrosa frescura della fontana, John
uscì sempre serio sulla strada, voltò l’angolo ed entrò
in una pasticceria dove mangiò tre focaccette calde e
bevve due calici di ottimo vino. Ritornò poi in giardino
e riprese a passeggiare un’altra mezz’ora, ma questa volta
fumando un sigaro. Scoprì allora un’aiuola piena di pic­
coli e teneri ravanelli: ne trasse un mazzetto dal terreno,
li risciacquò alla fontana i cui tritoni di pietra gli facevano
umilmente l’occhietto e s’awiò con essi in una fresca
birreria, ove li accompagnò con un boccale di birra spu­
mosa. Se la intese ottimamente con la gente del luogo e
tentò persino di trasformare il suo dialetto in quello più
morbido della terra sveva, prevedendo che sarebbe dive­
nuto un personaggio importante in mezzo a quei signori.
Di proposito arrivò con ritardo al pranzo di mezzodì.
Per sfoggiare meglio una critica inappetenza, si premunì
mangiando tre salsicce bianche di Monaco con una se­
conda birra, che gustò ancor meglio della prima. Alla
fine aggrottò la fronte e si presentò a tavola, dandosi a
fissare pensieroso la minestra.
Il povero Litumlei, che di fronte a ostacoli inattesi
soleva lasciarsi cogliere da accessi di appassionata cocciu­
taggine, e che era incapace di sopportare una qualsiasi
contraddizione, già era pieno di irosa paura che la sua
estrema speranza di fondare una genealogia andasse in
fumo, e osservava l’incorruttibile ospite con occhio dif­
fidente. Alla fine non potè tollerare l’incertezza di sapere
se sarebbe divenuto capostipite o no, e invitò l’irresoluto
ad abbreviare la dilazione chiesta e a decidersi senz’altro.
Temeva che la rigida virtù del cugino crescesse d’ora in
ora. Andò a prendere di sua mano una bottiglia di vec­
chissimo vino del Reno da una cantina della quale John
non aveva ancora avuto alcuna idea. Quando gli spiritelli
solari di quel nettare si irradiarono invisibili e profumati
oltre i calici di cristallo dal lieve tintinnio, quando a
IL FABBRO DELLA SUA FORTUNA 315

ogni gocciola di quell’oro liquido che giungeva alla


lingua parve sbocciare sotto il naso un giardinetto di
fiori, si rammorbidì perfino il rude animo di John Kabys,
il quale accordò il suo consenso. Venne presto chiamato
un notaio e, mentre si sorbiva uno squisito caffè, fu pre­
disposto un valido testamento. Alla fine il figlio naturale
e artificiale e il patriarca che stava fondando una stirpe si
abbracciarono, ma non fu un caldo abbraccio di carne e
di sangue, bensì qualcosa di molto più solenne, rincon­
tro di due grandi princìpi che s’imbattono lungo le loro
traiettorie.
John era ormai un uomo felice. Non aveva altro da
fare che osservare il gradito compito di comportarsi ri­
guardosamente verso il suo signor padre e di consumare
nel modo più piacevole un abbondante sussidio mensile.
Tutto si svolse nel modo più corretto e tranquillo, e in­
tanto egli potè vestire col lusso di un barone. Non dovette
acquistare nuovi gioielli o ornamenti, anzi si rivelò ora
appunto il suo genio, giacché quelli comprati molti an­
ni innanzi bastavano tuttora ed erano come uno schema
prestabilito che solo ora si realizzava completamente con
la pienezza della sua felicità. La battaglia di Waterloo ba­
lenava e tuonava su un petto sereno ; catene e ciondoli bal­
lonzolavano su una pancetta ben sazia, attraverso all’oc-
chialetto d’oro guardava una pupilla allegra e orgogliosa,
il bastone serviva più di ornamento che di appoggio a
un uomo esperto e la bella busta dei sigari era gonfia di
ottime marche, che egli fumava con intelligenza col suo
bocchino di Mazeppa. Il cavallo selvaggio era già di un
bel bruno lucente, il povero Mazeppa cominciava ap­
pena a essere rossastro, quasi color carne, cosicché la du­
plice arte dell’intagliatore e del fumatore suscitava ovun­
que la legittima ammirazione degli esperti. Anche papà
Litumlei ne fu entusiasta e imparò dal figlio adottivo a
imbrunire con zelo la schiuma. Si procurò tutta una rac­
colta di pipe e di bocchini, ma era troppo inquieto e impa­
ziente per quell’arte raffinata; toccava al giovane interve­
nire e riparare, il che a sua volta ispirava nuovo rispetto e
nuova fiducia al vegliardo.
3i6 LA GENTE DI SELDWYLA

Ben presto però intervenne una occupazione ancora più


importante per i due uomini, quando cioè il paparino
insistette perché inventassero e redigessero insieme il ro­
manzo con cui John sarebbe stato elevato al grado di figlio
naturale. Avrebbe dovuto divenire un documento se­
greto di famiglia in forma di frammentari «memorabili».
Per evitare inquietudini o gelosia da parte della signora
Litumlei bisognava compilarlo in sedute segrete, rinchiu­
derlo poi misteriosamente nell’archivio di famiglia non
ancora iniziato, in modo che venisse in luce soltanto in
tempi futuri, per narrare la storia del sangue dei Litumlei,
quando la casata fosse in piena prosperità.
John s’era già proposto di assumere dopo la morte del
vecchio non già il semplice nome di Litumlei, bensì quello
di Kabys de Litumley, poiché egli nutriva per il proprio co­
gnome, già così abilmente trasformato, una perdonabile
predilezione. Si propose del pari di bruciare senz’altro il
documento in preparazione, destinato ad attribuirgli una
nascita illegale da una madre immorale. Malgrado ciò,
per il momento era costretto a collaborarvi, il che rap­
presentò un leggero turbamento al suo benessere. S’adat­
tò tuttavia saggiamente all’inevitabile, e un mattino si
rinchiuse insieme al vecchio nella stanza che dava sul
parco per iniziare l’opera. Erano seduti a una tavola
l’uno di fronte all’altro allorché scopersero che il loro pro­
getto era di men facile attuazione di quanto avessero pre­
visto, giacché nessuno dei due aveva mai scritto in vita
sua cento righe di seguito. Non riuscivano a trovare un
principio, e quanto più stavano a rimuginarci, tanto meno
li soccorreva la fantasia. Alla fine al figlio venne in mente
che era anzitutto necessario allo scopo avere un fascicolo
di carta bella e resistente, se volevano compilare un docu­
mento davvero durevole. La cosa era evidente e i due
si recarono insieme in città. Dopo aver trovato quel che
cercavano si consigliarono l’uno l’altro, essendo una gior­
nata calda, di andare in un’osteria a cercarvi frescura e
raccoglimento. Ci rimasero allegramente a bere parecchi
quartucci e a mangiar noci, panini, salsiccette, sinché
John esclamò d’un tratto di aver finalmente trovato il
IL FABBRO DELLA SUA FORTUNA 317

principio della storia e volle correre di gran fretta a casa,


per non dimenticarla. «Corri, corri,» gli disse il vec­
chio «io nel frattempo me ne sto qui a inventare la
continuazione: già m’accorgo che sta per arrivare!».
John corse davvero in camera sua col quaderno nuovo
e scrisse:
«Fu nell’anno 17 . . ., un anno benedetto. Un barile
di vino costava sette fiorini, un barile di sidro mezzo fio­
rino e un barile di acquavite di ciliegie sedici soldi. Un
pane di due libbre costava quattro soldi, uno di segale la
metà e un sacco di patate trentadue soldi. Anche il fieno
era venuto bello e uno staio di avena costava due fiorini.
Erano riusciti bene anche i piselli e i fagioli, ma andavano
male la canapa ed il lino, al contrario pure bene le olive
e il sego, così che in complesso si verificava la notevole
situazione per cui la società civile era assai ben nutrita e
abbeverata, scarsamente vestita, ma bene illuminata. Così
l’anno si avviava alla fine e ognuno era giustamente cu­
rioso di vedere in qual modo si sarebbe iniziato l’anno
nuovo. L’inverno si rivelò un regolare e autentico inverno,
limpido e freddo: una calda coperta di neve proteggeva
sui campi le giovani sementi. Tuttavia alla fine si veri­
ficò un caso singolare. Tornò a nevicare, a disgelare e a
rigelar di nuovo nel mese di febbraio, con così frequente
alternanza, che non solo molte persone si ammalarono,
ma ne derivò anche tal quantità di ghiacciuoli, che tut­
ta la regione assunse l’aspetto di un grande magazzino
di vetri, e ognuno teneva in capo un’assicella per non
esser ferito dalle punte che cascavano. Del resto, i prez­
zi dei viveri si mantennero ancora come si è detto so­
pra, oscillando alla fine incontro a una singolare pri­
mavera».
A questo punto arrivò di corsa e con gran zelo il vec­
chietto, gli strappò di mano il foglio e, senza neppure leg­
gere quel che c’era già, né dire una parola, continuò a
scrivere :
«Allora giunse Lui e si chiamava Adam Litumlei. Non
intendeva scherzi ed era nato nell’anno 17... Venne
d’impeto, come un temporale d’aprile. Era uno di quelli.
318 LA GENTE DI SELDWYLA

Portava una giacca di velluto rosso, un cappello a piume,


e una spada. Indossava anche un panciotto d’oro con il
motto: “Gioventù non ha virtù !”. Portava sproni d’oro e
cavalcava un destriero bianco; lasciò il medesimo nella
prima locanda e gridò: “Non me ne importa un corno,
perché è primavera e i giovani debbono sfogarsi !”. Pa­
gava tutto a contanti e ognuno lo ammirava stupefatto.
Bevve il vino, mangiò l’arrosto, poi disse: “Tutto questo
poco mi gusta!”. Quindi disse: “Vieni, o mio leggiadro
amore, tu mi gusti meglio del vino e dell’arrosto, dell’oro
e dell’argento! Che me ne importa! Pensa a quel che
vuoi, quel che dev’essere, sarà”».
Qui il vecchio si inceppò a un tratto e non riuscì ad
andare avanti. Rilessero insieme quel che avevano scritto,
lo trovarono discreto e per i seguenti otto giorni si riuni­
rono conducendo intanto una vita piuttosto allegra. Si
recavano spesso in birreria per prendere nuovo slancio,
ma non tutti i giorni arrideva loro la fortuna. Alla fine
però John tornò ad afferrarla per il ciuffo, corse a casa
e continuò :
«Queste parole erano rivolte dal giovin signore Li-
tumlei a una certa damigella Liselein Federspiel, la
quale abitava nelle ultime case della città, dove comin­
ciano i giardini e c’è anche subito un boschetto. Essa era
una delle più attraenti bellezze che la città mai avesse
prodotto, con gli occhi azzurri e i piedi molto piccolini.
Era di così bella corporatura che non aveva bisogno di
busto e per questo risparmio, pur essendo piuttosto po­
vera, potè poi comprarsi un abito di seta violetta. Ma
tutto ciò era trasfigurato da una melanconia generale, che
tremava non soltanto sui leggiadri lineamenti del volto,
bensì su tutta l’armonia delle membra della damigella
Federspiel, così che al tacer del vento pareva di udire gli
accordi dolorosi di un’arpa eolia. Era cominciato infatti
un mese di maggio davvero singolare, nel quale pare­
vano convergere tutte le stagioni dell’anno. Vi fu al
principio ancora una nevicata, cosicché gli usignoli can­
tarono con i fiocchi di neve sulla testolina, quasi portas­
sero un candido berrettino, poi sopraggiunse tale caldura,
IL FABBRO DELLA SUA FORTUNA 319

che i bambini facevano i bagni all’aperto e le ciliegie ma­


turavano, e la cronaca ci ha tramandato i versetti:

C’è la neve nello stagno,


i bambini fanno il bagno,
rosse ciliegie e mosto in fermento
un mese di maggio ch’è un vero portento.

«Tali fenomeni naturali rendevano meditabondi gli


uomini che agivano in modo disparato. La giovane Li-
selein Federspiel che, particolarmente riflessiva, andava
pure ponderando, per la prima volta si rese conto di te­
nere in propria mano la sua buona e la sua cattiva sorte,
la sua virtù e la sua caduta, e mentre reggeva quella bi­
lancia e considerava la responsabilità della sua libertà,
non faceva che rattristarsene. Mentre se ne stava lì a quel
modo giunse l’audace cavaliere dalla giacca rossa e le dis­
se senz’altro : “Federspiel, io t’amo !”. Al che essa, per sin­
golare destino, mutò di colpo il corso dei propri pensieri
e scoppiò in una clamorosa risata ! ».
— Ora lascia che continui io ! — esclamò sopravve­
nendo con grande smania il vecchio che aveva letto alle
spalle del giovane quella pagina — è proprio il mo­
mento buono ! — E continuò la storia nel modo seguente:
«“Non c’è nulla da ridere !” disse il cavaliere “perché
io non ammetto scherzi !”. Insomma le cose andarono co­
me dovevano andare; là dove c’era il boschetto sull’al­
tura se ne stette fra il verde Liselein Federspiel che con­
tinuava a ridere, ma già il cavaliere balzava sul suo bian­
co destriero e rapido si allontanava, così che, grazie alla
legge della prospettiva, pochi momenti dopo prese un
colore azzurrastro. Sparì per non mai più tornare, perché
era davvero un tizzone d’inferno!».
— Ah, è fatta ! — esclamò Litumlei gettando la pen­
na ! — ora ho assolto la mia parte, pensa tu a finire, io
sono addirittura esausto da queste invenzioni infernali.
Per tutti i diavoli! Non mi stupisco più che si stimino
tanto i fondatori di grandi famiglie e che vengano dipinti
in grandezza naturale, perché ora comprendo quale fa­
320 LA GENTE DI SELDWYLA

tica mi costi il fondare la mia casata. Non ho però dimo­


strato audacia?
John continuò la redazione:
«La povera damigella Federspiel provò grande scon­
tentezza quando s’accorse d’un tratto che il giovane se­
duttore era sparito quasi contemporaneamente allo strano
mese di maggio. Ebbe però la presenza di spirito di di­
chiarare dentro il suo cuore la cosa come non avvenuta e
di ristabilire in questo modo lo stato di equilibrio della
sua bilancia. Ma non godé che per breve tempo questo
finale della sua innocenza. Giunse l’estate, si mietè il gra­
no ; dovunque si volgesse lo sguardo, si vedeva giallo tanta
era l’aurea abbondanza; i prezzi calarono di nuovo note­
volmente; Liselein Federspiel se ne stava sulla collina a
rimirare, ma tanto era il dolore e il pentimento che non
vedeva più nulla. Giunse l’autunno; ogni vite era una
fontana fluente, il terreno tambureggiava ininterrotta­
mente per la caduta delle mele e delle pere; tutti beve­
vano, cantavano, compravano e vendevano. Ognuno si
provvedeva di roba, il paese intero era un gran mercato,
ma per quanto abbondante e a buon prezzo fosse ogni
merce, tuttavia anche le cose superflue eran lodate, vez­
zeggiate e accolte con gratitudine. Soltanto il dono che
Liselein portava in sé non aveva valore e non trovava chi
lo volesse, come se tutta quella massa di gente immersa
nell’abbondanza non sapesse cosa farsi di una bocca di
più. Essa allora si ravvolse entro la sua virtù e partorì, con
l’anticipo di un mese, un vispo maschietto, il quale era
veramente destinato a divenire il fabbro della propria
fortuna.
«Questo figlio seppe conservarsi valorosamente per
tutta una movimentata esistenza, riunendosi alla fine,
dopo meravigliose vicende, a suo padre, da questi te­
nuto in onore e rimesso in possesso dei suoi diritti; e
questo è il secondo e noto capostipite della stirpe dei
Litumlei».
Sotto questo documento il vecchio scrisse di suo pu­
gno: «Visto e confermato, Johann Polycarpus Adam Li­
tumlei». John firmò a sua volta, poi il signor Litumlei vi
IL FABBRO DELLA SUA FORTUNA 321

appose il suo sigillo, il cui stemma mostrava tre mezzi


ami d’oro in campo azzurro e sette cingallegre a qua­
dretti bianchi e rossi su di una sbarra verde messa di
traverso.
Furono tuttavia stupiti che il manoscritto non fosse
divenuto più lungo, giacché erano riusciti a riempire a
malapena uno dei quinterni del librone. Lo misero tutta­
via nell’archivio destinandovi provvisoriamente una vec­
chia cassetta di metallo e rimasero soddisfatti e di ottimo
umore.
Fra queste e altre occupazioni il tempo passò nel
modo più gradevole; il fortunatissimo John si sentiva
quasi a disagio, accorgendosi di non aver più nulla da
sperare o da temere, da escogitare o da forgiare. Mentre si
guardava attorno in cerca di una nuova attività, gli parve
di accorgersi che la consorte del padron di casa avesse un
atteggiamento piuttosto scontento e sospetto nei suoi ri­
guardi; gli pareva soltanto, non avendo ragioni per af­
fermarlo decisamente. Immerso nelle sue diverse preoc­
cupazioni, poco aveva osservato la donna, che quasi sem­
pre dormiva, oppure, se sveglia, mangiava un buon boc­
cone, anche perché essa di nulla si immischiava e pareva
soddisfatta di ogni cosa, purché non si disturbasse la sua
pace. Ma d’un tratto lo colse la paura che ella potesse
preparargli un mutamento della situazione, facendo
cambiar parere al marito o facendo qualcosa di simile.
S’appuntò un dito sul naso e disse a se stesso : “Attento !
Mi pare che qui converrebbe dar l’ultima rifinitura al­
l’opera ! Come mai ho potuto trascurare per tanto tempo
una partita di simile importanza? Il bene è bene, ma il
meglio è meglio !”.
Il vecchio era appena uscito per dedicarsi discreta­
mente a trovare una consorte adatta al suo capostipite,
del che teneva il segreto anche con lui stesso. John decise
senz’altro di recarsi dalla signora, col proposito indeter­
minato di farle in qualche modo la corte, di ingraziarsela,
riparando così alla sua trascuratezza. Scese lo scalone
con estrema cautela, sino alla camera, dove quella soleva
trattenersi, e trovò al solito la porta appena accostata,
322 LA GENTE DI SELDWYLA

perché la signora, malgrado la sua pigrizia, era abbastan­


za curiosa e desiderava udire quel che accadeva in casa.
Entrò prudente e la vide di nuovo distesa e assopita, con
in mano una tortina di lampone a mezzo sbocconcellata.
Senza ben sapere che cosa gli convenisse di fare, s’accostò
in punta di piedi, afferrò la tonda manina e la baciò
rispettosamente. Quella non si mosse per nulla, ma aprì
a mezzo gli occhi e lo fissò, senza storcer la bocca, con uno
sguardo davvero singolare. John alla fine non seppe che
ritirarsi confuso e balbettante e rifugiarsi in camera sua,
dove sedette in un angolo, sentendosi sempre addosso
quella strana sbirciatina a occhi socchiusi. Tornò a scen­
dere e la donna si mantenne immobile come prima, ma al
suo avvicinarsi gli occhi tornarono a socchiudersi. Presa
la fuga ancora una volta, John andò a sedersi in un an­
golo della sua stanza, ma poi balzò in piedi, scese una
terza volta la scala, s’introdusse nella camera e vi rimase
finalmente sino al ritorno del patriarca.
Non passava ormai un giorno senza che i due non si
incontrassero per ingannare il vecchio. La bella sonnac­
chiosa si fece vispa a suo modo, mentre John s’abbando­
nò a un’appassionata sconoscenza per il suo benefattore,
sempre preoccupato di rassodare la sua situazione e di
inchiodare definitivamente la fortuna.
I due peccatori intanto moltiplicavano cordialità e de­
vozione verso l’ingannato Litumlei, che si sentiva a suo
agio, convinto di aver messo a posto le cose nel modo mi­
gliore. Sarebbe stato difficile dire chi, dei due uomini,
fosse il più soddisfatto di sé. Una mattina tuttavia parve
che al vecchio toccasse la palma, e questo dopo un collo­
quio confidenziale avuto con la moglie. Se ne andava in­
fatti attorno con aria strana, senza riuscire a star fermo,
tentando di fischiettare canzoncine allegre, il che non gli
riusciva per mancanza dei denti. Pareva fosse cresciuto
di un palmo da un giorno all’altro; insomma, era il ri­
tratto dell’uomo soddisfatto. Quello stesso giorno tuttavia
la vittoria tornò a volgersi verso il più giovane, quando
improvvisamente il vecchio gli domandò se non avesse
voglia per caso di far un bel viaggio, per imparare a co-
IL FABBRO DELLA SUA FORTUNA 323

noscere il mondo e in particolare, mentre educava se


stesso, studiare anche vari metodi di educazione infantile
negli altri paesi, informandosi almeno dei princìpi pre­
dominanti in rapporto soprattutto alle classi aristo­
cratiche.
Nulla poteva tornargli più gradito di simile meravi­
gliosa offerta, che accettò quindi con gran gioia. Furono
presto compiuti i preparativi, gli furono date le lettere
di credito ed egli se ne andò col massimo entusiasmo.
Vide prima Vienna, Dresda, Berlino, e Amburgo, poi
osò spingersi anche a Parigi, conducendo ovunque una
vita di splendore e di saggezza. Passò in rivista tutti i
luoghi di divertimento, i teatrini popolari estivi, percorse
i gabinetti di rarità dei diversi castelli e aspettò ogni mez­
zodì sotto il sole cocente nelle piazze per vedere le parate,
ascoltare la musica e rimirare gli ufficiali prima di anda­
re a pranzo. Quando vedeva quegli splendori insieme a
migliaia di altre persone, provava uno speciale orgoglio
e ascriveva a se stesso il merito di tutto quel fasto e ru­
more, giudicando poveri e ignoranti tutti quelli che non
c’erano. Univa però al rapido godimento anche la più
grande prudenza, per dimostrare al suo protettore che
non aveva mandato per il mondo uno sciocco. Non dava
un soldo a un mendicante, non comprava neppure una
bazzecola a un bimbo povero, riusciva tenacemente a evi­
tare le mance al personale delle locande senza averne dan­
no e in genere discuteva ogni prezzo prima di risolversi.
Lo divertiva oltre ogni dire prendere a gabbo ed eludere
quelle povere creature perdute con cui si divertiva ai balli
pubblici in lieta brigata con altri due o tre del suo stampo.
Insomma: viveva con rallegra sicurezza di un provetto
rappresentante di vini.
Alla fine non volle rinunciare a una giterella nella
nativa Seldwyla. Prese alloggio nel primo albergo, sedette
misterioso e taciturno alla tavola comune, lasciando che i
suoi concittadini si scervellassero per indovinare quel che
fosse diventato. Erano persuasi che in fondo fosse tutta ap­
parenza, però per il momento egli viveva evidentemente
nell’agiatezza, così che trattennero lo scherno e, pur ar­
324 LA GENTE DI SELDWYLA

ricciando il naso, sbirciavano le monete d’oro che gli ve­


devano apertamente maneggiare. Egli d’altra parte non
offrì nemmeno una bottiglia di vino, pur bevendone del
migliore in loro presenza, e andava soltanto escogitando
la maniera di far loro dispetto.
Alla fine del suo viaggio ripensò di colpo all’incarico
avuto di occuparsi delle istituzioni pedagogiche nei paesi
visitati, per stabilire i criteri in base ai quali i figli della
stirpe fondata da Litumlei e proseguita da Kabys avreb­
bero dovuto essere allevati. Gli riuscì molto comodo ri­
solvere tale problema a Seldwyla, giacché ciò gli permise
di darsi le arie di una specie di ispettore scolastico inve­
stito di una misteriosa missione e di prendere così ancor
meglio a gabbo i suoi concittadini. Era del resto nel posto
giusto, giacché costoro da qualche tempo si erano dedi­
cati a una lucrosa speculazione, facendo di tutte le loro
ragazze delle governanti da esportare. Venivano prepa­
rate a tal uopo figliole intelligenti o sciocche, sane o ma­
laticce, per mezzo di speciali istituti destinati a ogni esi­
genza. Allo stesso modo che si possono variamente cu­
cinare le trote, in bianco, fritte o farcite e così via, si pote­
vano preparar quelle brave ragazze in salsa ora netta­
mente cristiana e ora mondana, qui linguistica e là piutto­
sto musicale, indirizzandole o alle case signorili o alle
famiglie borghesi, a seconda dei paesi da cui venivano le
richieste a cui erano destinate. Il fatto curioso era che i
Seldwylesi si serbavano perfettamente neutrali di fronte
a quelle diverse destinazioni e neppure avevan cognizione
di quei remoti ambienti, ma l’ottimo smercio era spiega­
bile in quanto gli acquirenti dell’articolo di esportazione
non erano meno ignari e indifferenti. Un seldwylese che
si dava arie di anticlericale deciso era capace di far pre­
parare le sue ragazze destinate all’Inghilterra alle pre­
ghiere e alle pie funzioni domenicali ; un altro che nei suoi
discorsi in pubblico esaltava le virtù della schilleriana
consorte di Stauffacher, ornamento di ogni libera casa
elvetica, aveva esiliato quattro o cinque sue figlie nelle
steppe della Russia o in altre regioni inospitali dove le
poverine languivano in desolata solitudine.
IL FABBRO DELLA SUA FORTUNA 325

L’importante per quei bravi cittadini era spedire il più


rapidamente possibile le misere fanciulle, armate di pas­
saporto e di ombrello, godendo poi i guadagni che esse
mandavano a casa.
Da tutto questo tuttavia era venuta formandosi una
certa tradizione e abilità nel modo esteriore di educare
le donne e John Kabys ebbe non poco lavoro per racco­
gliere e fissare i curiosi criteri vigenti con la sua ancor più
curiosa capacità comprensiva. Visitò le diverse fabbriche
ove si confezionavano le future istitutrici, interpellò di­
rettrici e maestre e cercò di formarsi una idea del come
dovesse svolgersi in una grande famiglia l’allevamento
di un maschietto sin dal suo inizio, e sempre a carico e
fatica della gente a ciò pagata, senza pena o disagio dei
rispettivi genitori.
Compilò al proposito uno strano memorandum, che in
pochi giorni, in grazia dei suoi zelanti appunti) divenne
un grosso fascicolo col quale fece non poca impressione.
Serbava il promemoria arrotolato in un astuccio di me­
tallo e lo portava sempre appeso al fianco con una cin-
ghietta. Quando i Seldwylesi se ne accorsero, pensarono
che fosse stato mandato a carpire il segreto della loro fio­
rente industria per trapiantarla all’estero. Allora insorsero
contro di lui e lo cacciarono con insulti e minacce.
Lietissimo di averli potuti irritare, se ne partì e arrivò
ad Augusta sano e vispo come un pesce. Giunto così alle­
gro a casa, la trovò altrettanto animata e serena. La pri­
ma persona che incontrò fu una bella contadinotta dal
petto prosperoso : portava una scodella d’acqua calda ed
egli la credette una nuova cuoca e la considerò non senza
simpatia. Era però impaziente di salutare la padrona, ma
questa non riceveva ed era a letto, benché la casa echeg­
giasse di uno strano rumore. Questo proveniva dal vec­
chio Litumlei che girava attorno cantando, gridando, ri­
dendo e facendo chiasso, con gli occhi sbarrati, tutto rosso
per la gioia, l’orgoglio e la soddisfazione. Porse il ben­
venuto al suo protetto con giovialità e insieme con dignità,
affrettandosi però a scappar via, giacché pareva avesse
un gran daffare.
326 LA GENTE DI SELDWYLA

Di tanto in tanto si udiva da un certo punto della casa


un sommesso squittire, come di una trombettina da bimbi ;
la contadinotta dal petto prosperoso ripassò sulla scena
con un mazzo di pannolini bianchi in mano gridando con
la sua voce chiara: «Subito, tesoruccio mio! Subito,
subito, piccino!».
«Accidenti!» disse John «che bel bocconcino!».
Ma tornò a tender l’orecchio verso il misterioso squit­
tio che non voleva cessare.
— Ebbene? — gridò Litumlei, arrivando a passetti fret­
tolosi — non canta bene il nostro uccellino? Che ne dici,
figliuolo mio?
— Che uccellino? — domandò John.
— Oh, buon Dio ! Infine tu non sai ancora nulla?
— esclamò il vecchio — Finalmente ci è nato un figliolo,
abbiamo nella culla un maschio, vispo come un porcelli­
no ! Tutti i miei desideri, tutti i miei antichi progetti sono
ormai adempiti !
Il fabbro della sua fortuna rimase lì come una statua
di sale, senza peraltro comprendere ancora tutte le con­
seguenze dell’evento, per semplici che fossero; intuì sol­
tanto di trovarsi in un bell’impiccio, sbarrò gli occhi e
aguzzò le labbra come se avesse dovuto dare un bacio a
un porcospino.
— Suvvia, — continuò allegramente il vecchio — non
stare a prendertela: si capisce che i nostri rapporti ven­
gono a trasformarsi un pochino; ho infatti già annullato
è bruciato il testamento, e anche quell’allegro romanzo
di cui non abbiamo più bisogno, ma tu rimarrai in casa
nostra e dirigerai l’educazione del mio figliolo. Sarai
mio consigliere e aiutante in ogni cosa e non mancherai
di nulla finché io sarò al mondo. Ora va a riposarti, io
intanto debbo cercare un bel nome per quel demonietto !
Ho già letto tre volte il calendario e voglio studiare anche
qualche vecchia cronaca, dove ci sono degli alberi genea­
logici con nomi molto bizzarri!
John si ritirò finalmente in camera sua e andò a sedersi
nel solito angolo. Aveva ancora appeso al fianco l’astuccio
di latta col suo memoriale pedagogico e in quel momento
IL FABBRO DELLA SUA FORTUNA 327

senza badarci lo teneva stretto fra le ginocchia. Si rese


conto di come stavan le cose, maledisse la donna che gli
aveva giocato quel brutto scherzo preparandogli un ere­
de, maledisse il vecchio che s’illudeva di aver un figlio­
lo legittimo, ma non seppe maledire se stesso che era pure
l’unico e solo autore del minuscolo urlatore e che s’era
per quella via diseredato da sé. Si sentiva impigliato in
una rete inestricabile, ma fu tanto sciocco da correre di
nuovo dal vecchio, tentando di aprirgli gli occhi.
— E lei crede davvero — gli disse con voce soffocata —
che quel bambino sia suo?
— Come? Che dici? — rispose il signor Litumlei al­
zando gli occhi dalla sua cronaca.
John cercò di fargli comprendere a mezze parole che
egli non sarebbe mai stato in grado di diventar padre,
che sua moglie doveva essersi resa colpevole di infedeltà
e così via.
Appena il vecchio ebbe capito di che cosa si trattava,
balzò su come un ossesso, batté i piedi e si dimenò,
urlando infine:
«Fuori di qui, mostro sconoscente, canaglia e calun­
niatore ! Perché mai non dovrei essere in grado di mettere
al mondo un figliolo? Parla, sciagurato ! È questo il rin­
graziamento per tutti i benefici ricevuti? Macchiar l’onore
di mia moglie e il mio con la tua lingua malefica? Quale
fortuna che io m’accorga a tempo di aver nutrito una
mala serpe in seno ! È proprio vero che le grandi famiglie
vengono subito assalite sin nella culla dall’invidia e dal­
l’egoismo! Vattene subito fuori dalla mia casa!».
Così dicendo corse tremando di rabbia al suo scrittoio,
ne trasse una manciata di monete d’oro, le ravvolse in un
pezzo di carta e le gettò ai piedi del malcapitato.
«Eccoti un po’ di viatico e con questo liberami di te
per sempre!». Così dicendo s’allontanò, mandando si­
bili rabbiosi al pari di una vipera.
John raccattò il pacchettino, ma non lasciò la casa,
bensì si ritirò più morto che vivo in camera sua, si spogliò
sino alla camicia e, benché non fosse ancora sera, si coricò
battendo i denti e gemendo pietosamente. Malgrado la
328 LA GENTE DI SELDWYLA

disperazione, non1 riuscendo a trovar sonno, contò il de­


naro ricevuto e quello risparmiato dal suo viaggio. “È
inutile,” disse alla fine “io non penso ad andarmene:
voglio e debbo rimanere !”.
In quel momento due agenti di polizia bussarono alla
porta, entrarono e gli ordinarono di alzarsi e di vestirsi.
Egli obbedì impaurito e quelli gli imposero anche di fare
i bagagli; il che fu facile, perché erano ancora tutti in
ordine, dal suo viaggio.
Lo accompagnarono poi fuori di casa, seguiti da un ser­
vo che portava la sua roba : costui la pose in mezzo alla
strada e gli chiuse la porta in faccia. I due allora gli lessero
da una carta il divieto di rientrare in quella casa e s’al­
lontanarono. John rimase lì fermo a guardare ancora una
volta la dimora della sua perduta felicità, quando s’avvide
che si apriva una delle finestre alte, e che la bella balia
ritirava dei pannolini asciutti, mentre si faceva di nuovo
sentire la vocetta del neonato.
Allora finalmente cercò rifugio con tutta la sua roba
in una vicina locanda, tornò a spogliarsi e si mise a letto
indisturbato.
Il giorno seguente corse in preda alla disperazione da
un avvocato per sentire se non ci fosse proprio nulla da
fare. Ma appena questi ebbe ascoltato una metà dell’espo­
sizione, gli gridò iroso: «Faccia presto a levarsi di torno,
pezzo d’asino, con la sua estorsione di eredità, altrimenti
dovrò farla arrestare!».
Tutto scombussolato, si decise a tornare alla sua brava
Seldwyla, di dove era partito non molti giorni prima.
Tornò al buon albergo e per qualche tempo consumò
meditabondo il suo peculio, ma quanto più quello si li-
quefaceva, tanto più scorato egli diventava. I Seldwylesi
fecero allegramente brigata con lui e quando, trovandolo
ormai molto più affabile, ne ebbero appresa la mise­
randa sorte e lo seppero in possesso di un piccolissimo
capitale, gli vendettero una modesta e vecchia fabbri­
ca di chiodi fuori porta, che secondo le loro assicura­
zioni dava da campare. Per mettere insieme il prezzo
d’acquisto John dovette tuttavia sacrificare tutti i suoi
IL FABBRO DELLA SUA FORTUNA 329

gioielli e ornamenti, il che fece senza troppo sforzo,


perché ormai non vi fondava più alcuna speranza: lo
avevano sempre ingannato e, ormai, non voleva più cu­
stodirli.
Insieme alla fabbrichetta, che produceva tre o quattro
qualità di chiodi semplici, era compreso nell’acquisto un
vecchio operaio, dal quale John imparò senza troppa fa­
tica il mestiere, diventando un buon fabbro, che si diede
a martellare prima con poca voglia, ma poi con piena
contentezza, imparando tardi a conoscere la fortuna del
lavoro semplice e indefesso, che seppe liberarlo davvero
da ogni preoccupazione e purificarlo dalle sue male
passioni.
Riconoscente, lasciò che delle belle foglie di zucca coi
loro viticci si arrampicassero sulla sua oscura casupola,
ombreggiata anche da un grosso sambuco, mentre la pic­
cola fucina brillava sempre di un buon focherello.
Solo in certe notti tranquille ripensava ancora un poco
al suo destino, e talvolta, quando tornava l’anniversario
di quel pomeriggio in cui aveva sorpreso la signora Litum-
lei con la tortina di lampone in mano, al fabbro della sua
fortuna veniva voglia di sbattere il capo contro l’incudine,
tanto era il pentimento per l’inetto aiuto dato alla sua
sorte.
Ma anche questi eccessi di rimpianto cessarono a poco
a poco, man mano che gli riuscivano meglio i chiodi che
andava forgiando.
LETTERE D’AMORE SMARRITE

Viktor Störteler, dai concittadini di Seldwyla chiamato


senz’altro Viggi Störteler, conduceva una vita comoda e
ordinata, possedendo una redditizia azienda di spedizioni
e commercio, nonché una mogliettina graziosa, sana e
di buona indole. Questa, oltre alla gradevole personcina,
gli aveva portato un discreto patrimonio toccatole in
eredità e viveva quieta e affettuosa con suo marito.
Quel denaro gli era stato molto utile per l’ampliamento
dei suoi affari, ai quali si dedicava con assiduità e ac­
cortezza, facendoli ottimamente prosperare. In ciò gli
giovava una sua qualità insolita in quel paese, che gli
tornava talvolta di vantaggio. Egli infatti aveva trascorso
il periodo del suo tirocinio, e poi alcuni anni ancora, in
una città abbastanza grande, dove era divenuto membro
di una «Associazione fra giovani ragionieri» che aveva
per fine l’allargamento della loro cultura scientifica ed
estetica. Quei giovanotti, affidati esclusivamente a se stes­
si, erano naturalmente incorsi in eccessi, commettendo
sciocchezze d’ogni sorta. Leggevano i libri più astrusi
dedicandovi poi le discussioni più caotiche; recitavano
nel loro teatrino Faust e Wallenstein, Amleto, Re Lear e
Nathan il saggio-, davano difficili concerti e si leggevano
l’un l’altro saggi terrificanti: insomma non vi era auda­
cia che essi non osassero.
Di là Viggi Störteler aveva attinto e recato poi a Seld­
wyla il suo amore per la cultura e l’erudizione; ma, date
quelle sue tendenze, disdegnava di dividere gli usi e i
costumi dei suoi concittadini ; si diede anzi a procurarsi li­
bri, a farsi socio di ogni biblioteca circolante e di ogni cir­
colo di lettura della capitale; si abbonò alla «Garten­
laube» e divenne sottoscrittore di ogni pubblicazione a
dispense, giacché queste offrivano uno studio continuativo
e ben distribuito. A quel modo serbò se stesso al riparo
da ogni danno nella vita domestica e anche nella sua
azienda. Dopo aver condotto di lena e con prudenza i suoi
affari giornalieri, accendeva la pipa, allungava il naso e si
LETTERE D’AMORE SMARRITE 331

sprofondava nella lettura, mare ove navigava con gran


perizia. Ma andò ancor oltre. Scrisse egli medesimo pa­
recchie dissertazioni che definì a sua moglie Essays, ri­
petendo sovente che riteneva di essere per disposizione un
saggista. Quando però i suoi saggi vennero cestinati dalle
riviste alle quali li mandava, si diede a scriver novelle
e ad avviarle verso i più svariati gazzettini domenicali,
sotto il nome di «Corrado della Selva». Con queste ebbe
maggior fortuna: le sue opere comparvero realmente e
solennemente col suo splendido pseudonimo nelle regioni
più disparate dell’impero tedesco, tanto che ben presto
qua un Rodrigo Della Valle, là un Ugo Dell’Isola,
altrove un Genserico del Prato cominciarono ad ac­
cusare acute trafitture di gelosia per quel nuovo intruso.
Partecipò anche in segreto a tutti i concorsi per novelle
aumentando non poco in tal maniera la gradevole varietà
della sua vita ritirata. Traeva sempre nuova spinta dai
suoi più o meno brevi viaggi d’affari, durante i quali
incontrava nei piccoli alberghi numerosi spiriti affini
con cui scambiare una parola cólta; anche le visite alle
salette di redazione di fogli amici nelle diverse pro­
vince segnavano un nobile sollievo in mezzo agli affari,
benché di tanto in tanto gli costassero una bottiglia di
vino.
Un’avventura capitale gli toccò una volta in una cit­
tadina della Germania centrale alla tavola di ritrovo se­
rale d’una trattoria, dove sedevano, accanto ai vecchi
clienti locali, parecchi giovani viaggiatori di commercio
forestieri. I degni signori dai capelli canuti discutevano
pianamente di opere svariate, parlavano di Cervantes, di
Rabelais, di Sterne e di Jean Paul, nonché di Goethe e
di Tieck, vantando il fascino che viene dal poter seguire il
segreto della composizione e dello stile, senza che ne sia
attenuato il godimento per il contenuto. Stabilivano ade­
guati confronti, cercando il filo conduttore che circola in
tutte le opere simili; ora ridevano insieme di un ricordo,
ora con faccia austera si compiacevano d’una nuova bel­
lezza scoperta, ma tutto senza chiasso ed eccitazione, e
alla fine, dopo che l’uno ebbe bevuto la sua tazza di tè,
332 LA GENTE DI SELDWYLA

l’altro vuotato il suo quartino, liberarono della cenere le


loro pipe di gesso e s’awiarono con passi un poco gottosi
al consueto riposo. Uno soltanto si ritrasse inosservato in
un angolo a leggere il giornale e bere un bicchiere di
ponce.
Ma ecco che allora si sviluppò una conversazione fra
gli avventori più giovani, che se ne erano stati ad ascol­
tare in silenzio. Uno cominciò a lanciare un commento
ironico sui discorsi venerandi dei vecchi, che certamente
otto lustri avanti erano stati gli astri del luogo. La sua os­
servazione fu accolta con vivacità: una parola tirò l’al­
tra e ne derivò una seconda discussione d’argomento let­
terario ma di intonazione del tutto diversa. Intorno agli
antiquati argomenti di quei vecchi ricordavano a mala­
pena certe frasi fatte di cattivi manuali di storia letteraria,
ma in compenso venne in luce la conoscenza più estesa ed
esatta di quelle pubblicazioni di genere leggero che sboc­
ciavano quotidianamente, e anche di tutte le personalità o
personcine che ad ogni ora trovavano sfogo sotto i più
singolari nomi d’arte in mille giornalucoli. Fu presto chia­
ro che essi non erano, come quelli, vecchi ignoranti giu­
dici a riposo o eruditi senza carica: no, eran gente del me­
stiere ! Non passò molto tempo infatti, che già si udirono
le parole editore, compenso, cricca, camorra, tutte in­
somma le cose atte a eccitare l’ira e a nutrire la fantasia
di simile gente. Già il tono era alto e il vocìo confuso come
se fossero in venti a parlare, già gli occhi scintillavano ma­
ligni, né poteva tardare una scena di generale e glorioso
riconoscimento. Ecco che l’uno si smascherò quale Guido
Casadauro, l’altro, era Oskar Stella Polare, un terzo Cu­
niberto dell’Oceano. Anche Viggi allora non conobbe più
esitazioni: mentre sin lì non aveva quasi parlato, seppe
ora farsi riconoscere, non senza timidezza, come Corrado
della Selva. E tutti sapevano di lui, come egli sapeva de­
gli altri, giacché codesti signori, che lasciavano intonso
per decenni un buon libro, divoravano invece senza ri­
tardo ogni prodotto dei loro simili, facendone ricerca in
tutti i caffè, non certo per interessamento vero, ma per
una specie di singolare vigilanza»
LETTERE D’AMORE SMARRITE 333
«Ah! Lei è Corrado della Selva?» chiesero con voci
tonanti «Ah! Benvenuto!». Furon tosto fatte venire
alcune bottiglie di un vinello fatturato e agro, di poco
prezzo, il più a buon mercato fra quelli in bottiglia, e co­
minciò a levarsi un gran baccano. Bisognava far mostra
della propria spregiudicatezza ! Tutti i galantuomini che
avevano un qualunque successo e che in quel momento,
cento miglia lontani, dormivano probabilmente il sonno
del giusto, vennero spietatamente demoliti; ognuno af­
fermava di aver le notizie più esatte sul conto loro, e
non vi fu obbrobrio che non fosse a loro attribuito, e il ri­
tornello conclusivo era per tutti la frasettina pronunciata
con apparente indifferenza: «Fra l’altro è un ebreo!»,
alla quale faceva eco, con la stessa intonazione asciutta,
il coro: «Già, già, si dice sia ebreo !».
Viggi Störteler si fregava le mani entusiasta, pensando :
“Sei proprio arrivato al tuo mulino ! Scrittore fra scrittori !
E che teste fini! Quanta intelligenza e quale santo
sdegno !”.
In quella notte, con l’aiuto di quel vino solforoso, per
rivoluzionare il malo mondo e suscitare una novella
aurora, fu decisa la formale e solenne fondazione di un
nuovo periodo di Sturm und Drang, con intenzioni e attua­
zioni ben definite, per creare ad arte quei fermenti dai
quali solo sarebbero potuti scaturire i classici dell’età
moderna.
Dopo aver peraltro concluso quel grandioso accordo,
non ne poterono più: le loro teste stanche caddero sui
petti ed essi dovettero cercare riposo; giacché questi pro­
feti non sopportavano il vin buono e tanto meno quello
cattivo, e scontavano ogni anche piccolo disordine con
grande debolezza e con nausea.
Quando se ne furono andati, il vecchio cliente rimasto,
che si era divertito un mondo a quella scena, chiese al ca­
meriere che gente mai fossero.
— Due di loro — rispose il cameriere — sono viaggia­
tori di commercio, un signor Störteler e un signor Huberl ;
il terzo si chiama Stralauer, ma io conosco bene solo il
quarto, che si fa chiamare dottor Mewes e ha soggiornato
334 LA GENTE DI SELDWYLA

qui alcune settimane durante lo scorso inverno. Nella


sala da ballo del «Luccio Azzurro», dove ero io, tene­
va conferenze sulla letteratura tedesca, copiandole paro­
la per parola da un libro. Questo doveva essere stato sot­
tratto a qualche biblioteca, a giudicar dalla copertina,
ed era tutto pieno di orecchie, di macchie d’inchiostro e
d’unto. Oltre a questo libro possedeva un manuale sle­
gato e gualcito di conversazione francese e delle carte da
giuoco che, a guardarle contro luce, rivelavano figurine
oscene. Soleva copiare dal suo libro a letto per rispar­
miare il riscaldamento, ma finì per rovesciare il cala­
maio sulla trapunta e il lenzuolo, e quando gli fu messo in
conto un modesto indennizzo, minacciò di diffamare nei
suoi scritti e nei suoi articoli il «Luccio Azzurro». Aveva
anche altre cattive abitudini, così che alla fine fu messo
alla porta. Scrive sotto il nome di Cuniberto dell’Oceano
una quantità di storie dolciastre di seconda mano.
— Guarda guarda ! — osservò il vecchio — Voi par­
late di simili cose come un uomo del mestiere, caro Georg !
Il cameriere arrossì, esitò un momento, poi disse:
— Le confesserò che io medesimo per un anno e mezzo
sono stato scrittore.
— Perbacco, perbacco ! — esclamò il vecchio — E che
cosa avete mai scritto?
— Non saprei dirlo con precisione ormai, — replicò
l’altro — ero di servizio in un caffè affollato tutto il giorno
da un gran numero di persone della stessa qualità di que­
sti clienti d’oggi. Si stendevano qua e là, girondolavano,
discutevano, sfogliavano i giornali, s’arrabbiavano delle
fortune altrui, si rallegravano delle altrui disgrazie e di
quando in quando scappavano a casa a buttar giù con la
massima leggerezza una dozzina di pagine; non avendo
nulla imparato, non avevano neppure il concetto di una
qualsiasi responsabilità. Divenni ben presto il confidente
di questi signori, la loro esistenza mi parve di gran lunga
preferibile alla mia condizione subalterna e mi feci anch’io
scrittore. Nella mia cameretta serbavo un pacco di vecchi
giornali francesi raccolti nelle diverse osterie, dove avevo
servito in passato, per avvezzarmi un poco alla lingua,
LETTERE D’AMORE SMARRITE 335
così come si conviene a un giovane cameriere. Da quelle
gazzette dimenticate tradussi un miscuglio di storie e di
chiacchiere d’ogni genere, anche intorno a personalità
che non conoscevo affatto. Per ignoranza della lingua te­
desca mantenni sovente non soltanto la costruzione e la
sintassi francese, ma anche tutti i gallicismi; poi aggiunsi
alcune sbrodolature di testa mia in quel gergo che io ri­
tenevo caratteristico dei letterati. Dopo aver riempito
di simili scarabocchi un libro intero, l’affidai come opera
originale ai miei clienti ed amici, ed ecco che quelli lo
accolsero con molti incoraggiamenti, riuscendo subito a
darlo alle stampe. È proprio strana la sorte dei cattivi
scribacchini ! Quantunque siano le persone più maligne
e litigiose del mondo, hanno una tendenza invincibile ad
associarsi e a moltiplicarsi in formazioni di massa, quasi
per esercitare cosi una pressione meccanica sugli strati
superiori. Il mio libretto fu subito annunciato come il
notevole esordio di un giovane autore d’ingegno, il quale
conciliava l’acutezza di giudizio tedesca con l’eleganza
francese, il che derivava certamente dal suo soggiorno di
parecchi anni a Parigi. In realtà io ero stato in quella
città sei mesi a servire un oste tedesco. Poiché fra quella
robaccia tradotta v’erano parecchi aneddoti piccanti or­
mai dimenticati, questi presero a circolare assieme al no­
me del mio libro, in un gran numero di giornali. Sulla
copertina mi ero fatto chiamare George d’Osan, inver­
sione del mio onorato nome Giorgio Naso. E subito si dis­
se da tutte le parti: «George d’Osan nel suo interessante
libro racconta quanto segue del tale o del tal altro», così
che io montai in superbia e divenni tanto sfacciato da
continuare per quella via senza una sosta, come una palla
di cannone quando è lanciata.
— Ma per tutti i diavoli ! — esclamò allora il vecchio —
che materiale avevate mai da trattare? Non potevate
continuare a pescarlo nel pacco dei vostri giornali vecchi !
— No ! Non avevo altro argomento, per così dire, che lo
scrivere medesimo. Mentre intingevo la penna nell’in­
chiostro scrivevo su questo inchiostro. Appena mi vidi
proclamato scrittore scrissi sulla dignità, sui doveri, sui di­
33θ LA GENTE DI SELDWYLA

ritti e i bisogni della classe dei letterati, sulla necessità di


essere solidali di fronte alle altre classi : scrissi intorno al
vocabolo stesso Schriftsteller, «scrittore», senza sapere che
è un’antica, genuina parola tedesca, e ne chiesi l’abolizio­
ne, andando a scovare altri termini che a me parevano
molto più intelligenti ed esatti, proponendoli alla consi­
derazione, come ad esempio «scriba» o «inchiostrere»,
«libraro» o «brandipenna» e via dicendo. Insistetti pure
per un’associazione di tutti coloro che scrivono, sì da con­
seguire la garanzia di un reddito buono e sicuro per
ciascun membro : insomma con tutte queste sciocchezze
feci gran chiasso e per un certo tempo fra gli altri scribac­
chini ebbi la fama di un furbacchione. Tutto riferivamo ai
nostri problemi e sempre tornavamo agli «interessi» della
letteratura. Io continuai a scrivere, pur essendo il più in­
cólto uomo del mondo, esclusivamente intorno agli scrit­
tori, senza conoscerne il carattere per esperienza diretta, e
misi assieme Un’oretta con X, Una visita a N., o Un incontro
con P., oppure Una serata con la Q_. e altre cose ancora, ar­
rangiandomi con indicibile petulanza, impudenza, e bam­
binaggine. Avevo inoltre organizzato una vera industria
con: «Ci scrivono da ...» di ogni provenienza, diffon­
dendo qualsiasi meschina novità e pettegolezzo. Quan­
do non trovavo proprio materia nel presente, tradu­
cevo per la ventesima volta l’idillio di Sesenheim dalla
bella lingua goethiana nel mio volgare gergo e lo man­
davo come frutto di nuove ricerche a qualche oscura
gazzetta di provincia. Oppure estraevo da autori noti
quei passi intorno ai quali in tempi recenti si era poco
discusso, almeno che io sapessi, e li facevo circolare
con alcune stupide osservazioni come fossero scoperte.
Altre volte copiavo da un libro di recente pubblica­
zione una lettera o una poesia e la mettevo in circolazione
come manoscritto inedito, e sempre avevo il compiaci­
mento di vederla fare fresca fresca il giro della stampa in­
tera. Più di ogni altro fu il poeta Heine a fornirmi sostan­
zioso nutrimento: sul suo letto di malato io prosperavo
proprio come le rape su di un mucchio di letame.
— Ma voi siete stato un autentico briccone ! — esclamò
LETTERE D’AMORE SMARRITE 337
stupefatto il vecchio signore, e messer Giorgio replicò:
— Non ero un briccone, ma soltanto un povero diavolo,
che trasferiva le sue consuetudini di cameriere in un’atti­
vità e in rapporti dei quali non aveva proprio nessun con­
cetto né morale né immorale. Del resto il mio procedere
non recava danno effettivo ad alcuno.
— E come avete poi rinunciato a quella bella vita? —
domandò il vecchio.
— Altrettanto facilmente e rapidamente come ci ero en­
trato; — rispose l’ex scrittore — non mi trovavo a mio
agio, malgrado l’esito brillante, e sentivo soprattutto la
mancanza dei buoni cibi e degli avanzi di vini prelibati
inerenti al mio stato precedente. Ero anche molto mal
vestito, dovendo indossare estate e inverno una vecchia
marsina di servizio celata da un leggero soprabito. Ina­
spettatamente mi toccò dal mio paese nativo una piccola
somma, e, avendo sempre avuto la smania di vestire bene,
ordinai subito a un sarto un’elegante marsina nuova e
un bel panciotto, comprai una catenina dorata da oro­
logio, nonché una camicia fine con gala. Ma quando mi
guardai allo specchio così in ghingheri, mi cadde il velo
dagli occhi : mi giudicai d’un tratto troppo bello per uno
scrittore e in compenso maturo per esser primo came­
riere in un ristorante di seconda categoria: mi cercai
quindi un posto del genere.
— Ma come si spiega — chiese ancora il cliente —
che sappiate giudicare tanto assennatamente la vostra
vita di allora?
— Si spiega forse col fatto — replicò Giorgio Naso con
un sorriso — che adesso io nelle ore libere cerco di eru­
dirmi, ma solo per mio piacere personale !
A questo punto finalmente il vecchio pagò il conto e se
ne andò, dopo aver esortato il cameriere a interloquire in
futuro nelle discussioni dei clienti, non lasciandosi sfuggire
l’occasione di narrare tutto quel che rammentava delle
proprie allegre imprese e vicende. Così avvenne che in
quella trattoria i clienti fissi e il rispettivo cameriere posse­
dessero più cultura e preparazione che il piccolo congresso
di scrittori che a quell’ora dormiva sotto il medesimo tetto.
338 LA GENTE DI SELDWYLA

L’indomani quei signori si dispersero in tutte le direzio­


ni, non senza aver ancora discusso con la massima energia
l’importante fondazione di un « nuovo periodo di Sturm und
Drang». Cominciarono già a distribuirsi provvisoriamente
alcune delle parti, e magnificarono come felice circo­
stanza il trovar ottimamente avviate in Viggi Störteler
le relazioni con la Svizzera. Questi infatti si assunse di
fare intanto la parte di Bodmer e di Lavater insieme, per
offrire ospitalità e incoraggiamento ai novelli Klopstock,
Wieland e Goethe che sarebbero giunti in Svizzera.
Egli tornò quindi al suo paese pieno di speranze e di
piani. Si lasciò crescere i capelli, ricacciandoli dietro le
orecchie, inforcò occhiali di purissimo vetro e si fece cre­
scere una barbettina a punta, perché l’esterno corri­
spondesse all’importanza del contenuto, cui egli era giun­
to di colpo, in grazia delle sue nuove conoscenze. Fedele
alla missione assuntasi, cominciò a guardarsi attorno in
cerca di adepti fra i concittadini. Se appena udiva che un
tale aveva mandato una novellina a un almanacco o
messo insieme quattro versetti satirici, unica letteratura
che fiorisse a Seldwyla, cercava di acquisire un membro
al novello Sturm und Drang. Ma appena quella brava gente
notava le sue intenzioni e comprendeva i suoi inviti biz­
zarri, lo faceva oggetto di risa e di nuove rime burlesche,
che venivan poi lette a suo dileggio nelle osterie locali.
Quando poi, durante un banchetto civico, chiese velata­
mente al segretario comunale che opinione egli nutrisse
su Corrado della Selva e quegli gli rispose: «Corrado
della Selva? Che razza d’asino è?», ne ebbe abbastanza e
tornò a rinchiudersi nell’intimità della sua casa.
Ivi si diede a osservare sua moglie e, vedendo la leg­
giadra Gridi seduta all’arcolaio con la sua cuffietta, la
bocca rosea, il petto dal calmo respiro, i piedini graziosi,
gli venne un’ispirazione: decise di innalzarla facendone
la propria musa. Da quel momento le fece metter da parte
l’arcolaio tutto ornato di anelli di avorio e di campanel-
line e togliere il nastro di seta verde dalla conocchia.
In compenso le mise in mano un vecchio trattato di an­
tropologia, imponendole di leggerlo mentre lui lavorava
LETTERE D’AMORE SMARRITE 339
in ufficio, tanto perché la grande causa non rimanesse
neppure in quel tempo abbandonata. Se ne andò poi per
i suoi affari, soddisfattissimo della trovata. Ma quando
tornò a pranzo, impaziente del primo colloquio spirituale
con la sua musa, questa scosse solo il capo e non seppe dir­
gli un bel nulla.
“Debbo cominciare con maggior delicatezza” pensò, e
dopo tavola le diede un volume, Lettere primaverili di una
solitaria, con l’obbligo di leggerle prima di sera. Si recò
poi nel suo magazzino per la spedizione di una partita di
legno da tintoria, poi nel bosco, dove doveva presenziare
a un’asta di corteccia di quercia. Concluse un buon af­
fare, il che lo indusse a una passeggiata, non priva tut­
tavia di nuova utilità. Ripose infatti il libretto dei conti,
cavandone di tasca un altro più piccolo e munito di un
fermaglio di acciaio.
Si piantò davanti al primo albero incontrato, lo rimirò
esattamente, poi scrisse: «Tronco di faggio. Grigio chiaro
con chiazze e striature ancor più chiare. Due muschi di­
versi lo rivestono, uno quasi nerastro e un altro dai ri­
flessi di velluto lucente verde. Inoltre licheni giallastri,
rossastri e bianchi che spesso si confondono. Da un lato
sale sul tronco un tralcio d’edera. La luce sarà da studiare
altra volta, giacché ora l’albero è in ombra. Forse utiliz­
zabile per scene con masnadieri».
Si fermò poi davanti a un paletto conficcato nel ter­
reno, al quale un ragazzo aveva appeso una biscia morta,
e scrisse : « Interessante particolare. Piccolo bastone infisso
nel terreno. Cadavere di serpe grigiastro ravvolto attorno
ad esso; irrigidito nella convulsione della morte. Delle
formiche entrano o escono dalla cavità interna, portando
vita nella scena di morte. Le ombre di sbieco di alcuni
esili steli ondeggianti, le cui cime sono fornite di spighe
rossastre, giocano sull’insieme. È forse morto Mercurio
facendo infiggere in questa terra il suo bastone con le
serpi morte? Quest’ultima allusione più adatta a novella
di soggetto commerciale. N.B. Il paletto o bastone è vec­
chio e consunto, ha lo stesso colore della biscia: dove
il sole lo illumina appare rivestito di peluria grigia-
34° LA GENTE DI SELDWYLA

stra (quest’ultima osservazione dovrebbe esser nuova)».


Anche davanti a una carreggiata si fermò e scrisse:
«Motivo per racconto paesano: solco di carro semiriem­
pito d’acqua, ove nuotano piccoli insetti. Sentiero. Terre­
no umido, bruno scuro. Anche le orme sono colme d’acqua
rossastra e ferrosa. Grande pietra sulla strada, in parte con
tracce di recenti scalfitture, come da ruote di carrozza.
Qui si potrebbe inserire la descrizione di una carrozza
ribaltata, di lotte e violenze».
Procedendo incontrò una povera contadinella, la trat­
tenne, le diede qualche soldo e la pregò di star ferma cin­
que minuti; dopo di che, guardandola da capo a piedi,
scrisse: «Figura rozza, scalza, impolverata fin sopra le
caviglie : vesticciuola azzurra a righe, corsetto nero, avan­
zo di costume nazionale. Testa ravvolta in fazzoletto rosso
a scacchi bianchi.. .», ma d’un tratto la ragazza corse
via a gambe levate, quasi avesse il diavolo alle calcagna.
Viktor, seguendola con cupidi sguardi, scrisse svelto:
«Magnifico! Figura popolare-demoniaca, essere elemen­
tare». Solo giunta ben lontano, quella si fermò e si volse
a guardare : vedendo che continuava a scrivere, gli volse
le spalle e si diede con il palmo aperto parecchie manate
dietro le anche, scomparendo poi nel bosco.
Viggi tornò a casa, carico della sua preda al pari di
un’ape.
— Ebbene, mia piccola musa, — gridò arrivando da
sua moglie — hai letto il tuo libro? Io ho fatto un’ottima
passeggiata, porto a casa studi eccellenti, della cui utiliz­
zazione parleremo questa sera stessa ! — Ma la sposa non
sapeva che rispondergli, giacché aveva trascorso il po­
meriggio in giardino a sgusciare tranquillamente piselli.
Questa volta il marito scosse solo il capo pensando tra
sé: “Strano! Ma forse è meglio cominciare subito con la
pratica e affidarsi all’acutezza femminile !”. Seguendo tal
metodo le lesse durante la cena le annotazioni della gior­
nata, avviò un discorso sull’utilità di tali osservazioni, e
mentre le dava il consiglio di fissare anche lei per iscritto
analoghe percezioni e di comunicargli poi quanto avrebbe
raccolto, la invitò a esprimere la sua idea su tutto questo.
LETTERE D’AMORE SMARRITE 34I

— Io non ci capisco nulla! — fu la sua unica risposta.


Imponendosi di esser paziente, lui disse:
— Vogliamo allora considerare subito un insieme, che
forse ti riuscirà più chiaro, e nel quale tu forse saprai co­
gliere l’inserimento di quelle parti, per raffinato che sia?
Andò quindi a prendere il suo ultimo manoscritto e co­
minciò a leggerlo ad alta voce, spesso interrotto dagli in­
ciampi causati dalle cancellature e dalle correzioni, non­
ché dagli spostamenti degli occhiali che lo abbagliavano.
Si accorse tuttavia soltanto dopo una mezz’ora che sua
moglie s’era assopita.
Fece allora tintinnare energicamente il coltello contro il
candelabro d’ottone e, alla brava Gridi destatasi con un
sussulto, disse in tono di severo rimprovero:
— Così non si può continuare, cara moglie ! Vedi co­
me io faccio ogni sforzo per elevarti sino alla mia cultura
e tu invece non mi aiuti neppure un pochino ! Sai che ho
iniziato la spinosa carriera del poeta, che ho quindi bi­
sogno della comprensione, della spinta entusiasmante,
della partecipazione affettuosa di una creatura femminile,
di una consorte di affini sentimenti, e tu mi lasci in asso,
tu ti addormenti !
— Ma, mio caro marito — replicò la signora Gritli ar­
rossendo a quei discorsi — a me pare che un vero poeta
debba sapere la sua arte senza bisogno di simile sugge-
ritrice !
— Bene ! — gridò Viggi — Scherniscimi anche, invece
di sollevarmi e di confortarmi ! Benone ! Procederò solo,
in nome di Dio, per la mia strada !
Andò a letto rannuvolato e imbronciato e sua moglie
gli si coricò accanto con la paura che egli stesse per per­
dere la ragione. Tenne il broncio parecchi giorni, proce­
dendo solo per il suo cammino : ma poi non ci resistette e
decise di imporre il proprio volere con severità virile, co­
stringendo cioè la moglie a quel che un giorno sarebbe
stato per lei motivo di gratitudine. Abbozzò in fretta un
piano di educazione, preparò un certo numero di libri,
affrontò la consorte ordinandole di leggere senza alcun
fallo e di imparare quel che egli le assegnava. Essa si trovò
342 LA GENTE DI SELDWYLA

in un grave frangente : comprese che la pace domestica cor­


reva pericolo di esser distrutta; d’altra parte non osava
chieder consiglio a nessuno per non tradire il marito espo­
nendolo allo scherno della gente, alla quale tutta la storia
sarebbe stata di grande spasso. Si rassegnò quindi, benché
con cuore irato, e fece quanto lui desiderava : prese cioè in
mano quei libri, cercando di leggerli quanto più attenta­
mente le fosse possibile. Ascoltò pure con zelo i suoi discor­
si e ammaestramenti, si guardò dall’assopirsi, e fece per-
sin mostra di provar gusto e comprensione per talune cose,
illudendosi che a quel modo sarebbe più presto sfuggita
alla disgrazia. Ma in segreto versava lagrime amare;
aveva onta di se medesima in quella situazione stolta e
umiliante, e spesso scagliava lontano i libri o li calpe­
stava. Suo marito aveva infatti la mania di farle leggere
proprio tutto quel che riusciva a radunare di roba noiosa
o aridamente artificiosa e affettata.
Sulle prime lui fu abbastanza soddisfatto della sua do­
cilità, ma quando dopo alcune settimane osservò che la
donna non irradiava alcun eccitamento entusiasmante,
un bel mattino le disse: «A questo modo non arrive­
remo lontano! Chiamiamo dunque in soccorso la vita
stessa, la bella passione! Oggi io debbo partire per un
viaggio abbastanza lungo, dato che bisogna avviare gli
affari dell’autunno. Ebbene: ci scambieremo un carteg­
gio che un giorno si potrà far leggere ! Si tratta dunque,
mia cara mogliettina, di dar moto ai tuoi pensieri e ai tuoi
sentimenti! Io ti scriverò subito dalla vicina città una
prima lettera e tu risponderai nello stesso tono. Non ve­
nirmi però a raccontare che hai già trinciato i crauti o
ordinato le mie camicie da notte nuove, e che al mio ri­
torno mi vuoi tirar le orecchie, o che una notte hai dor­
mito con la mia berretta, dimenticandotene poi al mat­
tino, tanto da fare la prima colazione senza toglierla, o
altre trivialità del genere, come sei usa scrivere tu ! Ah,
no ! Coraggio ! Cioè, sii donna finalmente, starei per dire,
metti in luce la tua superiore femminilità e lascia echeg­
giare piene e pure quelle armonie che certo dormono in
te, così come in un bel corpo deve vivere una bell’anima.
LETTERE D’AMORE SMARRITE 343

Insomma: osserva il tono, lo spirito delle mie lettere é


regolati in conformità ... né altro ho da dirti ! ».
Quando il marito fu nel salotto pronto alla partenza,
Gridi lo sorprese col dono di una graziosissima valigetta
di giunco a colori nella quale trovavano posto nel modo
più comodo e appetitoso un pollo arrosto, alcuni panini,
due bottigliette di cristallo piene di vino vecchio e di li­
quore, un bicchiere d’argento, una posata e due tovaglio-
lini. L’aveva fatta confezionare lei su proprie indicazioni,
ricordando che spesso il marito si era lamentato di dover
soffrire la fame e la sete negli interminabili viaggi in fer­
rovia. Egli, dominato dalle proprie idee, prese distratta-
mente il dono e congedandosi disse ancora una volta con
fredda severità: «Distogli i tuoi pensieri da queste cose
materiali e medita su quel che ti ho detto ! Considera che
da quest’ultima prova dipendono la pace e la felicità del
nostro avvenire ! ».
Cosi dicendo s’allontanò e, prima che fossero trascorse
due ore, aprì la valigetta e si diede a consumare un pasto
appetitoso e stuzzicante per i suoi compagni di viaggio.
Il pollo era trinciato perfettamente e poi ricomposto con
arte; i panini eran di giusta cottura: rimaneva soltanto
l’incertezza se bere il vecchio Sherry o l’eccellente grap­
pa di ciliege, ma fini per prendere di tutt’e due. Se la go­
dette lietamente e alla fine accese un sigaro togliendolo
dall’astuccio ben fornito che sua moglie gli aveva rica-i
mato.
Questa intanto stava a casa tutt’altro che di buon
umore: era piena di preoccupazioni, giacché quell’osti­
nato originale di un signor Viggi Störteler aveva esco­
gitato una via meravigliosa per tormentarla anche da
lontano, e la sua partenza, invece di liberarla da un
incubo, pensiero che del resto esso pure era per lei nuo­
vo e conturbante, le faceva attendere il portalettere co­
me un fantasma di terrore. Che tutta la faccenda si fa­
cesse ormai seria, lo dimostravano le ultime parole del
marito. Aspettava dunque angosciata gli eventi, propo­
nendosi, se appena le fosse stato possibile, di rispondere
alle lettere di suo marito secondo le proprie forze migliori.
344 LA GENTE DI SELDWYLA

Ed ecco, che, passate sessanta ore, arrivò la seguente


epistola:

«Diletta amica dell’anima mia!


Quando due stelle si baciano, si inabissano due mondi !
Quattro labbra rosee s’irrigidiscono, se sul loro bacio cade
una goccia di veleno! Ma l’inabissarsi e l’irrigidirsi so­
no beatitudine e il loro attimo vale quanto un’eternità !
Molto ho pensato e meditato senza trovar fine al mio pon­
derare. A che la separazione? Una cosa soltanto so op­
porre a questo tremendo interrogativo e scaglio la pa­
rola sul piatto della bilancia : l’ardore della mia volontà
di amare è più forte della separazione, e se anch’essa
fosse la negazione primigenia ... sin che questo cuore
batte, l’universo non ha ancora perduto la primigenia
affermazione ! Amata ! Lontano da te sono immerso nel­
l’ombra .. . Sono davvero stanco ! Cerco solitario il mio
giaciglio ... Dormi bene ! ».
A questa lettera era unito un bigliettino:
«P.S. Ho di proposito, cara moglie, mantenuto breve
questa prima lettera, perché il principio non ti apparisse
troppo difficile. Vedi che in queste righe si tratta sempre
di un sol motivo, del concetto di “separazione”. Esprimi
i tuoi sentimenti in proposito e aggiungi un nuovo sti­
molo, che toccherà al tuo cuore e alla tua buona volontà
farti trovare. Oggi per la prima volta dalla mia partenza
riposo in un letto, speriamo che non ci siano cimici!
Il giovane Müller della Burggasse, qui incontrato, mi ha
chiesto quaranta franchi in prestito, così en passant e in
presenza di altri viaggiatori, tanto che nella fretta non
ho potuto ricusarglieli. Sapendo che i suoi genitori hanno
ancora una partita di semi oleosi, sarà bene che il nostro
commesso vada a comprarli facendoli mettere in conto.
Ma subito, prima che essi sappiano che il ragazzo mi deve
qualcosa, altrimenti non avremo né semi oleosi né de­
naro».

«N.B. Scriveremo le notizie domestiche e d’affari su


foglietti extra come questo, in modo da poterli poi tener
LETTERE D’AMORE SMARRITE 345

distinti. In attesa della tua sollecita risposta, sono il tuo


marito e amico Viktor».

Gridi se ne stava ora lì con la lettera in mano e non sa­


peva che cosa rispondere. Sebbene fosse riuscita a met­
tere insieme alcuni prosaici pensieri sulla crudeltà o
l’utilità della separazione, le mancava ogni trovata per il
nuovo stimolo che avrebbe dovuto aggiungere, e se anche
qualcosa le si presentava alla mente, era ben lontana dalle
stelle baciantisi e dall’affermazione primigenia; impalli­
divano pure nel confronto le sue consuete considerazioni
sul distacco relative soltanto alla necessità e alla reddi­
tizia efficacia d’un giro d’affari, giacché per lei non esi­
stevano altri moventi.
Scese in giardino con la lettera e si mise a passeggiare
in su e in giù con crescente angoscia : vide passare il com­
messo di suo marito, e le venne l’idea di confidarsi con lui
esponendogli i suoi crucci e inducendolo ad aiutarla. Ma
rinunciò subito a quell’idea, per non distruggere in lui
il dovuto rispetto verso il principale. In quel momento il
suo sguardo si volse al giardinetto della casa attigua, di­
viso dal suo soltanto da una siepe, e d’un tratto la sua astu­
zia femminile escogitò una strana via di salvezza, per la
quale essa, poi, si avviò senz’altro, senza pensarci a lungo
e come ispirata da una luce superiore.
Nella casetta abitava un povero maestro supplente della
città, di nome Wilhelm, un giovane considerato di scarso
giudizio e di corta mente, che aveva però begli occhi scuri
e sentimentali. Egli guardava con gran gioia le donne,
ma era eccezionalmente timido e taciturno e inoltre,
dato il suo modestissimo impiego, non poteva pensare a
sposarsi o comechessia a far la corte al bel sesso. S’accon­
tentava quindi di ammirare la bellezza da lontano e, poi­
ché per la sua brama non c’era alcuna possibilità di suc­
cesso, sia che l’oggetto della sua ammirazione fosse signora
o ragazza, egli con tutta onestà si permetteva di variare,
scegliendo or l’una or l’altra quale meta dei suoi pensieri.
Viveva così dentro il suo cuore come un pascià e a lui
appartenevano tutte le bellezze che a Seldwyla bevevano
34θ LA GENTE DI SELDWYLA

caffè, facevano calze o anche semplicemente andavano a


passeggio. Per dare una base o una giustificazione scien­
tifica a questa sua condotta in certo modo frivola, il buon
Wilhelm s’era anche staccato dal cristianesimo e avviato
verso una filosofia veramente pagana, e ciò sebbene ogni
domenica dovesse far intonare ai bambini i canti in chiesa e
sentirsi intanto spiegare il catechismo. Egli faceva rivivere
tutti gli dèi e le dee della mitologia che aveva letto, e per
suo spasso ne popolava il paesaggio. A seconda dell’aspet­
to del cielo di Seldwyla, si sentiva un germano, un greco
o un indiano e in segreto trattava le sue donne al modo
di quei suoi compatrioti. Solo quando il tempo era trop­
po desolato, il pane troppo scarso e in nessun canto
gli appariva un benigno occhio femminile, soffiava via
di colpo tutte quelle divinità, affermando tra sé e sé
che per una simile esistenza non c’era bisogno di dio
alcuno.
Proprio questo maestrino era stato scelto dalla bella
donna come suo salvatore, appena venutole in mente.
Da parecchio sapeva che egli la guardava volentieri e che
doveva essere persona tranquilla e timida, se sempre ar­
rossiva e abbassava gli occhi incontrandola. Le sembrò
insomma l’uomo adatto a serbare un segreto. Essa copiò
la lettera di suo marito, mutando però alcune parole e al­
tre aggiungendone, in modo che sembrasse scritta da una
donna a un uomo. Poi piegò graziosamente il foglietto
e lo suggellò senza apporvi alcun indirizzo.
La sera tornò in giardino, proprio mentre Wilhelm an­
naffiava i suoi pochi fiori lungo la siepe. Si accostò ad
essa quanto possibile e lo chiamò sottovoce per nome.
Esitante e furtiva gli mostrò la letterina e quand’egli alzò
lo sguardo, gli chiese, lanciandogli un’occhiata radiosa,
se fosse capace di tacere. Stavolta egli dimenticò di abbas­
sare Io sguardo, anzi senza rendersene conto le rise di ri­
mando come fa un bimbo di sei mesi al quale si mostri un
oggetto lucente, e stava quasi per lasciar cadere l’annaf­
fiatoio e cercar di afferrare la sua testa e di avvicinarla
alla propria bocca, come fanno i bimbi ancora incapaci
di rendersi conto delle distanze. Ma non rispose sin che
LETTERE D’AMORE SMARRITE 347
essa ripetè la domanda, al che egli assentì seriamente;
«Prendete allora questa letterina, quando nessuno vi
vede, e mettetemi lì in cambio una graziosa risposta ! Si
tratta di uno scherzo e a voi non ne verrà alcun danno ! »
disse ficcando la sua lettera fra il fogliame della siepe e
allontanandosi di corsa, come se l’avesse morsa una serpe,
per andare a nascondersi nel suo salotto.
Wilhelm la seguì con lo sguardo, come uno che avesse
visto un fantasma, poi prese pian piano la lettera dal
biancospino, fece un giro, quale il minuscolo giardino
glielo permetteva e si rifugiò nella sua cameretta che dava
immediatamente sul giardino. Lesse una, due volte, in
gran fretta, l’epistola, ed esclamò, mentre il cuore comin­
ciava a battergli potentemente: “Oh Gesù! È proprio
una lettera d’amore !”. Tosto coprì di baci il foglio, poi
ebbe un momento di paura, ma infine, ricordando lo
sguardo lanciatogli da Gridi, si ritenne amato. Si guardò
attorno nella cameretta. Un fitto intrico di convolvoli a
fiori azzurri e rossi copriva quasi completamente le basse
finestre, pure il sole al tramonto si faceva strada gettando
le sue luci dorate sulla parete, sul suo lettuccio, sui suoi tre
o quattro testi mitologici e sullo scrittoio. Il primo pen­
siero che gli pervase l’animo riconoscente fu il buon Dio, e
precisamente il solo Dio cristianamente rispettabile. “Na­
turalmente !” esclamava aggirandosi su e giù con la lette­
ra in mano, quasi fosse un dispaccio “si capisce che c’è un
Dio, naturalmente!”. E si sentiva beato di poter rappa­
cificarsi in quel modo piacevolissimo col Creatore che
aveva creato anche le belle donne. Ma di colpo si fermò
come spaventato. “Ma diavolo! Che faccio ora? Essa ha
un marito !... Però ... quello è affar suo ! Io faccio quel
che lei comanda ! Se lo vuole, non le rivolgerò mai una
parola, e, se lo esige, mi sprofondo con lei nelle viscere
della terra, e, se lo desidera, mi ci sprofondo da solo!”.
Poi sedette sul letto e si abbandonò a sogni incantevoli;
alla fine, nell’ultimo chiaror del tramonto, rilesse ancora
una volta la letterina, che gli parve tuttavia un poco biz­
zarra e pazzerella. “Ah!” concluse, sorridendo tra sé
“anche per un cuore donato vale il proverbio: A cavai
348 LA GENTE DI SELDWYLA

donato non si guarda in bocca! Scriverò la risposta al modo


suo, che essa ama e capisce!”.
Accese un moccolo, cercò un foglio e stese una rispo­
sta alla lettera di Viggi, proprio come quello avrebbe
desiderato, non senza spirito, e insieme pervasa dal cor­
diale fervore che sentiva in quel momento. Poi ripiegò il
foglietto e uscì a nasconderlo nella siepe. Subito rientrò
e andò dalla sua padrona di casa a mangiare la solita mi­
nestra, ma guarda ! fu ben stupito di non poterne inghiot­
tire che poche cucchiaiate, tanto si sentiva già sazio di
tutte le delizie gustate, mentre in passato, nelle sue avven­
ture amorose soltanto sognate, aveva sempre serbato il
miglior appetito. Si coricò subito smanioso di vedere se
avrebbe sognato la sua diletta; senza di che le lunghe ore
del sonno gli sarebbero apparse un imperdonabile danno e
perditempo. Appena a letto cominciò, per la prima volta
da tanto tempo, a pregare e a porgere sentitissimi ringra­
ziamenti al buon Dio per il dono prezioso, toccatogli così
inaspettatamente, di una bella innamorata. Però, mentre
pregava, s’interruppe intimidito, ricordandosi che la fac­
cenda non era certamente adatta a una preghiera, e quasi
quasi deplorò di aver rimesso in trono così imprudente­
mente il Dio cristiano della sua infanzia, che non si la­
sciava trattare con allegra disinvoltura al pari delle divi­
nità che figuravano come «voci» nelle sue enciclopedie.
Era tuttavia pervaso da un gioioso senso di vita, poiché
egli, anche nei periodi più difficili, non aveva mai pregato
per chiedere a Dio un tozzo di pane. A questo modo pensò,
per così dire di straforo, alla bella donna fin che giunse
l’alba e potè addormentarsi profondamente. Ebbe allora
un sogno. Sognò di star macinando una libbra di buon
caffè profumato, e il suo macinino suonava una melodia
dolce, celestiale, che gli dava un senso di infinita beati­
tudine; però non gli apparve in sogno la signora Gridi.
Questa nel frattempo aveva cercato e trovato la sua
lettera e l’aveva ricopiata la notte medesima con le ne­
cessarie variazioni. Nel far questo due cose le accaddero :
anzitutto il cuore le batteva piuttosto appassionatamente,
ben avvertendo il calore che ardeva nelle parole di
LETTERE D’AMORE SMARRITE 349
Wilhelm da lei accuratamente trascritte; in secondo luogo
non le venne neppur da lontano in mente di introdurre
nella lettera stessa o nel poscritto richiestole per le no­
tizie d’affari una delle sue allegre trovate, come la tiratina
d’orecchi o la berretta da notte, così che il divieto del
consorte si dimostrò del tutto superfluo. Essa però non
stette a badare a quelle due circostanze, tutta compresa
nella cura di accontentare lo sposo. Il poscritto diceva:
«Il nostro commesso è andato oggi stesso dai Müller
nella Burggasse e ha comprato i semi oleosi, ma appena
due minuti dopo, ancor prima che li avessimo portati in
casa, mandarono a prendere loro per lo stesso importo
ioo pietre da cote azzurre. Nel frattempo debbono aver
avuto dal figliolo la notizia che ti aveva chiesto in
prestito quaranta franchi ; infatti, quando andammo a ri­
tirare i semi, si scusarono dicendo che la padrona, all’in­
saputa di suo marito, li aveva già venduti due giorni or
sono a un contadino. Così essi ora hanno i quaranta fran­
chi e in più le pietre da cote. Voglia Iddio che la mia let­
tera non ti dispiaccia troppo: essa mi è costata un certo
sforzo, ma non troppo però e mi accorgo che la cosa po­
trà avviarsi».
Spedì la lettera con la prima posta e già due giorni
dopo ebbe una replica di quattro pagine con allegato il
seguente foglietto:
«Eccoti la seconda lettera da parte mia, cara moglie!
Sono davvero orgoglioso di aver finalmente scelto la via
giusta: infatti, senza volerti adulare, tu hai dato ottima
prova ! Ma ora bisogna tener duro ! Vedi come io mi ci
metto e come ho riempito quattro pagine di pensieri
e di immagini vigorose. Non ti sto a dire altro, fuorché:
mettiti di buona voglia ! Quanto ai Müller, che il diavolo
se li porti appena vengo a casa! Il loro modo di fare
mi ha offeso, mi ha guastato una buona giornata in cui
avevo fatto delle conoscenze interessantissime. Ho dimen­
ticato di firmare la prima lettera. Scrivi tu in calce, ma
esattamente: Corrado D. S. O meglio, lascia stare: ri­
vedrò io tutto il carteggio più tardi».
Nel corso degli ultimi due giorni Gridi aveva seria-
35° LA GENTE DI SELDWYLA

mente ponderato tutta la faccenda, e decise di rompere


Con Wilhelm. Voleva dirgli sin che era in tempo come si
fosse trattato di uno scherzo, che si proponeva di giusti­
ficargli poi in qualche modo; copiando le due lettere si
era anche fatta animo e sperava di potersela in seguito
cavar da sola. Ma quando ebbe tra le mani la nuova fila­
strocca, le venne il capogiro e, al pensiero che le cose
sarebbero diventate sempre più pazze, perdette ogni spe­
ranza : ripresa dalla paura, s’affrettò a ricopiare le quat­
tro pagine e a portarle nel posto solito.
Wilhelm, che aveva trascorso due cattive giornate, non
vedendo né sapendo nulla della sua dama, si precipitò
come un falco sulla preda e in men di un’ora redasse una
risposta che per slancio e tenerezza superò di gran lunga il
capolavoro di Viggi. Nel copiarla Gridi si sentì molto
commossa e le caddero persino alcune lagrime sulla carta,
giacché mai nessuno le aveva detto qualcosa di simile.
Le pareva quasi che, se avesse avuto da scrivere cose del
genere a un uomo come Wilhelm, il compito sarebbe
stato meno diffìcile : ma a Viggi? Rinunciò compieta-
mente all’idea di portare avanti da sola il carteggio e la­
sciò che gli eventi avessero il loro corso, affidandosi alla
propria astuzia, che in caso di necessità avrebbe ben sa­
puto trovare una nuova via di uscita. Questa volta ag­
giunse il seguente poscritto:
«Non ho nulla di nuovo da dirti di qui, fuorché una
strana storia che non ho osato mettere nella lettera prin­
cipale. Il povero Schorenhans di fuori porta, che, come
ben sai, ha più scherzi in testa che bocconi in bocca,
domenica scorsa doveva andare in città a versare un gra­
voso affìtto. Siccome non gli sarebbe rimasto neppure
abbastanza per entrare in una trattoria a mangiar qual­
cosa, disse a sua moglie: “Mi alzerò alle quattro del
mattino e camminerò svelto, così che, essendoci sette
ore di strada, arriverò verso mezzogiorno e potrò certa­
mente avere dal padrone un piatto di minestra e forse
anche un bicchier di vino”. Così fece infatti e corse col
suo denaro come un ossesso. Ma verso le dieci sentì tale
appetito che non credette di farcela e domandò quindi
LETTERE D’AMORE SMARRITE 35I

alla gente che incontrava quanta strada ci fosse ancora.


“Se andate di buon passo” gli risposero “ci arrivate in
un’ora !”. “E a che ora si pranza in città?” chiese preoccu­
pato. “La domenica alle undici” dissero. Il poveraccio
corse a tutta forza perché lo aspettava un lungo ritorno
e non aveva un soldo in tasca. Arrivò finalmente, proprio
mentre battevano le undici ed entrò affannato nel salotto
dietro la domestica che lo annunciava, facendo tintinnare
i suoi sacchetti di denaro. La famiglia sedeva già a tavola
e stavano portando via la minestra. Il padrone, un poco
irritato di quella intrusione, gli disse : “Bene, brav’uomo !
Sedetevi lì sulla panca della stufa e abbiate un poco di
pazienza !”. Egli sedette esausto e melanconico sulla pan­
ca e stette a guardare i signori che mangiavano e beve­
vano, e udì i bambini chiacchierare e ridere e sentì il
profumo del grandioso arrosto che stavano appunto ser­
vendo. Nessuno pensava a lui, sin che per caso il padrone
voltandosi gli domandò: “Che cosa c’è di nuovo da voi
in campagna, caro amicò?”.
“Nulla di particolare!” replicò Schorenhans con ra­
pido accorgimento “se non che per combinazione que­
sta settimana una scrofa ha avuto tredici porcellini !”. A
queste parole la padrona congiunse le mani al di sopra
del capo ed esclamò in tono di gran compassione : “Dio
buono! Che cosa ne fanno mai del tuo mondo! Una
scrofa non ha che dodici tette, e dove potrà succhiare
il tredicesimo porcellino?”. Schorenhans si strinse nelle
spalle sorridendo e replicò: “Farà come me: starà a
guardare !”. Della risposta molto rise il padrone, poi escla­
mò: “Moglie mia, fa’ portare un piatto al contadino e
dàgli da mangiare di tutto quanto abbiamo avuto noi !”.
Così fu fatto e gli toccò minestra, arrosto e ogni buona
cosa e il padrone gli versò vino vecchio nel bicchiere e
gli diede anche una mancia generosa alla partenza. Caro
marito, ti racconto questo scherzo solo perché mi è ve­
nuta un’idea. Vorrei cioè che tu, avendo tante relazioni,
redigessi questa storiella come graziosa collaborazione per
uno dei tuoi giornali, adattandola e ornandola un po­
chino, in modo che diventasse abbastanza importante.
352 LA GENTE DI SELDWYLA

Allora tu, dicendone lo scopo, potresti farti pagare un


piccolo compenso, per esempio dieci franchi, e questi noi
li daremmo al bravo Schorenhans, che certo se la go­
drebbe un mondo intascando il reddito della sua bella
pensata ! ».
A questa lettera seguì da parte di Viggi un’epistola
ancor più lunga con il seguente allegato:
«La cosa va bene, cara Gridi! Ormai possiamo pro­
cedere arditamente e scriverci ogni giorno, capisci? ogni
giorno ! Forse fra qualche tempo due volte al giorno, per
far buon uso della mia assenza e mettere insieme una co­
spicua raccolta. Sto già pensando a un nome ideale per
te, giacché il tuo prosaico nome consueto non ci serve in
questo caso. Ti piacerebbe Isidora o Alwine? La tua sto­
ria di Schorenhans ha avuto il solo risultato di farmi paga­
re doppia tassa postale, poiché da simili storie scipite non
si cava niente, e quand’anche poi fosse, non puoi preten­
dere che io intrattenga la mia musa con simili meschi­
nità ! Di una iniziativa benefica' pubblica si potrebbe di­
scorrere: anch’io sono già impegnato con alcune di queste
onorevoli istituzioni. Se tu però vuoi far pervenire a
quella povera gente qualche franco, non ho nulla in con­
trario, ché non vorrei contrastare il tuo spirito soccor­
revole. Desidero che tu ti decida per il nome di Alwine».
Da allora lo strano carteggio continuò quotidianamente
e in realtà, dopo qualche tempo, due volte il giorno.
Gridi doveva ormai copiare ogni giorno quattro lunghe
epistole, tanto che i suoi ditini rosei erano quasi sempre
macchiati d’inchiostro. Sospirava non poco durante quella
inusitata fatica ; le veniva ora da ridere e ora da piangere
di fronte alle trovate dei due epistolografi che passavano
tra le sue mani. Firmava Alwine le lettere a Viggi e Gridi
quelle a Wilhelm, il che le faceva pensare : questo almeno
si accontenta del mio povero nome ! Da qualche tempo
aveva notato che Wilhelm non era troppo ben fornito di
carta, così che utilizzava colori e formati diversi. Comprò
quindi un pacco di bella carta da lettere e gliela lasciò
nella siepe con l’avvertimento:
« Ora bisognerà scrivere due volte al giorno ! Non chie-
LETTERE D’AMORE SMARRITE 353

detemi il perché, non mostrate di conoscermi, non cer­


catemi. Il mistero sarà un giorno chiarito!».
Contava fermamente sulla sua bonarietà, la sua sem­
plicità e la sua tacita devozione, certa che, se pure deluso,
avrebbe sempre conservato il segreto, lieto di possederne
uno. Così la vicenda procedette con ritmo ossessivo e in tre
luoghi andarono accumulandosi tre mucchi di appassio­
nate lettere amorose. Viggi raccoglieva con gran cura le
presunte epistole della moglie, Gritli serbava gli originali
di ambedue le parti e Wilhelm radunava in un grosso
portafogli, che teneva sul suo petto, le graziose copie di
Gritli, mentre non si curava affatto delle proprie risposte.
In un poscritto Viggi osservò:
« Con piacere ho veduto che si distinguono fra le righe
tracce di lagrime da te versate (a meno che tu abbia
avuto il raffreddore!). Comunque sto ora pensando se
in una eventuale pubblicazione a stampa non si potreb­
bero riprodurre con delicati colori quelle lagrime. Ma
invero, converrebbe allora stampare in facsimile tutta la
raccolta, un’idea da non scartare».
Wilhelm scriveva invece in una delle sue lettere:
«O mio cuore diletto, è pur triste essere così inesorabil­
mente divisi e dover parlare col nero inchiostro mentre si
vorrebbe far parlare il rosso sangue! Oggi ho già due
volte dovuto prendere un foglio nuovo, perché mi erano
sgorgate le lagrime e ho salvato il terzo soltanto rico­
prendolo svelto con la mano. Se tu mi ami anche solo un
pochino, non mi disprezzerai per questa debolezza».
Simili passi, che a parer suo la riguardavano particolar­
mente, Gritli li toglieva con cura dalle copie ; in compenso
scambiava talvolta nelle sue missive a Wilhelm le apo­
strofi solenni «Caro amico dell’anima mia» e simili, con
apostrofi confidenziali, quali «mio caro ragazzo» o «mio
caro ometto», il che la riempiva poi di nuovo di preoccu­
pazioni e di pentimenti ; mentre lasciava che nelle lettere
al marito rimanessero le grandi parole vuote. Insomma:
desiderava ardentemente il ritorno del coniuge, perché
tutti i rischi finissero e potessero venir portati a soluzione.
Ma ecco che il marito scrisse imprevedutamente che ave-
354 LA GENTE DI SELDWYLA

va sbrigato i suoi affari, ma che, vedendo il carteggio così


bene avviato, intendeva rimaner fuori ancora una quin­
dicina di giorni perché questa faccenda che gli stava tanto
a cuore potesse meglio svilupparsi e venir portata felice­
mente a compimento. Da parte sua nelle due prossime
settimane non si sarebbe occupato d’altro e la esortava
a voler essa pure resistere con zelo, per conseguire la
meta che le avrebbe assicurato un posto nella file delle
donne preclare.
Così continuarono a scrivere e a scrivere ; le penne vola­
vano. Gridi si fece pallida e sciupata, poiché doveva co­
piare più di uno scrivano; il maestrino dimagrì a vista
d’occhio e non sapeva più ove avesse la testa, tanto più che
egli scriveva spinto da vera passione e non ci si raccapez­
zava più nella strana vicenda. Gridi non osava più trat­
tenersi in giardino, per non vederlo; se si incontravano
per caso in strada, egli a sua volta non aveva il coraggio
di guardarla, come fosse stato lui il colpevole.
Viggi invece, pur scrivendo molto, se la spassava bene e
viveva sotto ogni riguardo come un vero giramondo; egli
era del resto avvezzo, come molti sogliono fare, a con­
siderare i suoi viaggi d’affari quale stato d’eccezione in
cui sia lecito ricrearsi di ogni regolarità domestica. Ogni
sera accompagnava una donnina diversa a teatro o ai
balli pubblici, avendo però la mania di farsi raccontare
da tutte la storia del loro destino, cioè di farsi imbro­
gliare da molte bugie. Verso la fine diventava regolar­
mente sentimentale, trovava ogni cosa molto notevole,
cominciava a prendere appunti, mentre lo schernivano
dietro le spalle e bevevano il suo Champagne. Alla fine
però prese la via del ritorno, dopo aver avuto occasio­
ne di concludere un buon affare in manufatti di paglia.
All’ultima stazione prima di Seldwyla scese dal treno :
in quel bel giorno d’autunno voleva raggiungere la città a
piedi, col libretto degli appunti in mano, facendo studi per
un Ritomo del pellegrino ed escogitando in quella dorata aria
vespertina un titolo d’effetto per il carteggio. Era soddi­
sfatto di se stesso, del mondo, di sua moglie, del cielo, e
aveva in testa un cappellino alquanto bizzarro, mezzo di
LETTERE D’AMORE SMARRITE 355
paglia e mezzo di seta, con un nastro che gli ricadeva
sul dorso. “In fondo” disse fra sé “non c’è bisogno di alcun
titolo speciale ! Il più semplice sarà il migliore. Per esem­
pio una fusione dei due nomi darebbe un ottimo vocabolo
armonioso: Corralwino. Lettere di due contemporanei.
Buono, ottimo !”. Tutto lieto e baldanzoso, mentre attra­
versava un boschetto, cominciò a un tratto a cantare sul
motivo della romanza di Rinaldo Rinaldini1 :
Corralwino, disse allegra, Corralwino, destati !
Già si sveglia la tua gente, alto è il sole in cielo già.

Con questa sua stramba canzone fece sussultare uno


snello giovanotto che se ne stava seduto sotto un abete
col capo appoggiato alla mano e gli sguardi assorti vólti
verso la valle. Era Wilhelm, che alle prime note del can­
to del signor Störteler si alzò e fuggì via. Al suo posto
s’accomodò Viggi, allorché scorse un grosso portafogli
certamente lì dimenticato dal giovane. “Che avrà mai da
fare”, disse tra sé “qui all’aperto quel morto di fame, in­
vece di correggere i compiti dei suoi scolari? E che sorta
d’archivio si portava dietro?”. Senz’altro aprì il pacchetto
di carte e trovò tutto il fascio di lettere di Gritli che, seb­
bene scritte su carta molto fine, stavano a stento insieme.
Aprì subito la prima, pensando di scoprire chi sa quale
interessante segreto, quale buono studio !
La lettera incominciava:
«Quando due stelle si baciano», eccetera.
Guardò meglio la scrittura: era proprio quella di sua
moglie. Aprì un secondo fogho, poi un terzo : erano le sue
lettere. Cominciò dalla fine e incontrò proprio l’ultima
epistola da lui scritta; erano tutte accuratamente copiate
e indirizzate al maestro. Balzò in piedi gridando: “Per
tutti i diavoli ! Ma che cosa accade? Sono pazzo o no?”.
Per alcuni minuti restò lì come intontito, poi cacciò
disordinatamente portafogli e carte nella valigetta da
viaggio che portava a tracolla, agitò il bastone, calcò il
cappellino sugli occhi tanto da guastarlo e storiarlo e s’av-
I. Protagonista di un popolare romanzo d’avventure di Christian
August Vulpius (1762-1827).
35θ LA GENTE DI SELDWYLA

viò con passi severi verso la sua casa. Lungo la strada gli
passò accanto di corsa il maestrino, che evidentemente
tornava a cercare le sue lettere. Viggi finse di non vederlo
e proseguì.
Attraversando la città stupì i suoi concittadini coll’at­
teggiamento rigido e col non salutare nessuno. « È tornato
Viggi Störteler!» si disse «se ne va tutto d’un pezzo!
Perbacco, che arie ! ». Egli s’affrettava senza soste verso
casa. Vide che la porticina della cantina era aperta, entrò
e scorse sua moglie con un candeliere in mano intenta a
scegliere alcune mele. Le si parò dinanzi così inaspettato,
che essa si spaventò un poco e si fece ancor più pallida.
Ben se ne avvide Viggi e la osservò un momento: essa
pure lo fissò e nessuno dei due pronunciò parola. D’un
tratto egli le tolse il lume di mano, le strappò il mazzo di
chiavi dalla cintura, uscì, chiuse la porta della cantina e si
ficcò in tasca la chiave. Poi salì nel salotto dove era lo
scrittoio della moglie, un mobiletto grazioso e leggero
donatole per il suo onomastico e non certo adatto a celare
pericolosi segreti. Non ebbe neppur bisogno del mazzo
di chiavi : i cassetti si aprirono da soli al giusto tocco. In
un cassettino c’erano infatti le sue lettere, ma con nuova
meraviglia rinvenne in un altro gli originali delle lettere
della moglie, di mano estranea, anzi con la firma del
maestro. Le guardò ad una ad una, le aprì, le ripiegò,
tornò ad aprirle, le gettò infine tutte sulla tavola rotonda
al centro della stanza. Poi trasse dalla valigetta le lettere
del maestrino, tornò a osservarle e finì per gettarle esse
pure sulla tavola: facevano insieme un bel mucchio!
Infine si mise a girare con sguardo stravolto attorno
alla tavola, battendo di tanto in tanto gran bastonate sul
mucchio di carte e facendone volar via alquante. Alla
fine riprese fiato e mormorò: “Corralwino, Corralwino!
Addio, o bel sogno svanito !”.
Dopo alcuni altri giri attorno alla tavola, si fermò, tese
il braccio munito di bastone e proseguì: “Una perfida
druda dalle guance morbide e dalla testa vuota, troppo
sciocca per mettere in parole la propria onta, troppo igno­
rante per eccitare il suo ganzo con una qualunque epistola
LETTERE D’AMORE SMARRITE 357
d’amore, ma pur astuta abbastanza per il più inaudito
intrigo che mai il sole abbia mirato! Essa prende gli
sfoghi sinceri e fedeli, le lettere del consorte, deforma i
sessi e sposta i nomi e di tutto fa dono, adornandosi di
penne trafugate, al sedotto complice del suo peccato!
Così gli estorce analoghe effusioni, ardenti di peccami­
nosa fiamma, vi gozzoviglia, nutrendosi come vampiro,
nella sua povertà, di quella estranea ricchezza ; e non ba­
sta! Essa ancora una volta inverte il sesso, ancora una
volta scambia i nomi e inganna con anima perfida l’igna­
ro consorte, inviandogli le nuove carpite missive amorose,
ancora una volta ornando la propria testa vuota, e pur
astutissima, di penne altrui ! Così due uomini, senza
conoscersi, il legittimo marito e il drudo sedotto, si bef­
fano l’un l’altro, schermendo a vuoto con il sangue del
loro cuore divenuto inchiostro: l’uno supera l’altro, ma
viene a sua volta superato in amore e in passione; ognun
d’essi crede di rivolgersi a una donna soave, mentre que­
sto demonio ignorante e pur lussurioso se ne sta invisibile
nel mezzo, compiacendosi del proprio giuoco infernale !
Oh ! Ben lo capisco, ma pur non so concepirlo !... Chi
potesse ora, da estraneo disinteressato, considerare questa
bella storia, potrebbe in verità dire di aver trovato un
buon argomento per . . .”.
A questo punto s’interruppe e si scosse, avendo final­
mente intuito di essere diventato egli stesso soggetto di
una vera storia, il che non gli accomodava, giacché a lui
piaceva condurre una vita tranquilla e indisturbata.
“Dove è finita la mia calma, la mia allegria,” si disse
“turbata appena da lievi preoccupazioni d’affari da
me facilmente superate? Questa donna mi distrugge resi­
stenza, ora come prima ! La credevo un’oca; ed essa ben
lo è, ma un’oca con artigli da avvoltoio!”.
Rise e continuò : “Un’oca con artigli da avvoltoio ! Ben
detto ! Perché cosette simili non mi vengono alla penna
quando scrivo? Ma io diventerò pazzo: bisogna finirla !”.
Così dicendo uscì, chiuse il salotto e lasciò la casa. Per
le scale urtò la domestica che cercava stupita e sconcer­
tata la sua padrona.
358 LA GENTE DI SELDWYLA

Pieno di irritazione e di dolore per il colpo alla sua va­


nità e al suo egoismo, si avviò per le strade scure. La
pena principale, il perduto affetto della moglie, non
pareva turbarlo gran che; o almeno mangiò una grossa
porzione di trota al ristorante del municipio, dove i no­
tabili della città usavano trascorrere la serata del sabato
e passare anche la notte bevendo. Ivi rimase taciturno
e turbato, mischiandosi di tanto in tanto all’improvviso
nella conversazione con argomenti estranei ed attirandosi
così gli scherzi altrui, anche perché era una figura insolita
che disturbava la compagnia. Portava ancora in testa il
suo cappellino ultimo modello, che non accomodava a
quei signori. Benché essi infatti adottassero pronti ogni
moda appena affermatasi, non potevano mai soffrire le
assolute primizie e in genere si tenevano lontani da fogge
troppo aggraziate o bizzarre. Proprio poco tempo avanti
uno tornando da Parigi aveva introdotto lo scherzo di
chiamare il cappello maschile duro e alto «copricorna»,
boîte à cornes, denominazione accolta con gran giubilo.
Da allora per ogni sorta di cappello usavano, invece dei
mille altri termini scherzosi, quali coperchio, tubo della
stufa, padella dei pidocchi, noli me tangere, secchiello, staio,
portascherzi, feltro o simili, la sola indicazione di copri­
corna. Naturalmente il copricapo di Viggi fu giudicato
una graziosa scatola per corna, e si disse subito che dove­
vano esser cornetti ancora ben giovani, piccoli e teneri,
altrimenti ci sarebbe voluta una scatola più solida. Egli
credette allora che la sua disgrazia fosse già la favola della
città e che tutti alludessero a quanto appunto lo turbava.
Tese le orecchie, li stuzzicò per indurli a maggiori chiac­
chiere e sostenne per parecchie ore una tormentosa ten­
zone, solo contro tutta la comitiva, senza altro risultato
fuorché di essere alla fine ubriaco e pieno di irosa melan­
conia. Non arrivando ad altro risultato, fini per far capire
ai suoi interlocutori che li considerava tutti una massa di
mascalzoni, al che essi reagirono con grande sdegno but­
tandolo fuori dal ristorante. Egli s’aggiustò sul capo il
cappellino malmenato e barcollò piangendo amaramente
verso casa, si buttò sul letto e dormì come una marmotta
LETTERE D’AMORE SMARRITE 359
sin che suonarono le campane della messa. Avrebbe certo
dormito ancora più a lungo, se non l’avessero destato la
serva e il domestico chiedendogli con gran lamenti della
signora. D’un tratto gli si ripresentarono alla mente tutte
le esperienze della vigilia, ampliate e deformate dalla
gran confusione della sua testa: balzò dal letto con tre­
mendo furore e con gesti impetuosi, ma poi si grattò il
capo e stette a meditare sin che gli venne alla memoria
la chiave della cantina. Aveva l’impressione d’aver im­
prigionato la moglie da settimane, tanto era fuor di sen­
no, ma questo gli parve solo tanto più importante e gran­
dioso, e si affrettò con sguardi roteanti a portare a termine
il gran processo. Aprì la cantina, dove Gridi stava seduta,
pallidissima e intirizzita, su un vecchio sgabello. Essa se
ne era rimasta tranquilla tutto quel tempo nella speranza
che il marito venisse ad aprirle senza testimoni e le desse
modo di spiegarsi; al suo primo apparire aveva infatti ben
intuito che Viggi aveva scoperto lo scambio di lettere, ma
non poteva indovinare per quale via ci fosse giunto.
Quando dunque lo scorse, si alzò, gli afferrò la mano,
pronta a scongiurarlo di ascoltarla anche solo pochi mi­
nuti. Ma vide che alle sue spalle stavano i domestici e
non potè dir nulla, e per di più egli la prese subito per un
braccio e la accompagnò di malagrazia fuori sulla strada
con le parole : « Così io ti ripudio e ti scaccio, o sciagura­
ta femmina ! Mai più varcherai la soglia di questa casa ! »,
Così dicendo sbatte la porta e mandò bruscamente le
persone di servizio alle loro faccende.
Poi, essendo già svanita la sua lena, tornò a gettarsi sul
letto e dormì come un ghiro sino al pomeriggio.
Davanti alla sua casa già da un’ora s’era radunata una
piccola folla di vicine, che circondavano curiose la ripu­
diata e la accompagnavano con gran lamenti ad ogni
suo passo. Essa credette proprio di dover sprofondare
nelle viscere della terra per la vergogna e la confusione:
non osava alzar gli sguardi e si volgeva ora da una parte,
ora dall’altra; a Seldwyla non aveva più né i genitori
né parenti, fuorché una vecchia cugina, della quale alla
fine però si rammentò. Si avviò tosto verso la sua casa e
360 LA GENTE DI SELDWYLA

vi giunse senza neppur vedere le facce dei fedeli diretti


alla chiesa, attraverso i cui gruppi si affrettava. Presso
una parte della popolazione si verificava allora di nuovo
una grande corrente di religiosità, il che tuttavia non im­
pedì che alcuni deviassero dal tempio di Dio e, col libro da
messa in mano, corressero dietro alla povera errabonda.
Gritli del resto trovò da parte della vecchia accoglienze
cordiali e premurose. Dopo essersi un poco riposata, co­
minciò a singhiozzare violentemente, e quando anche
questo accesso fu passato, giurò che mai avrebbe riposto
piede nella casa di Viggi Störteler, e la cugina, con rapida
decisione, mandò quel giorno stesso a prendere gli effetti
più necessari della scacciata.
Quando Viggi finalmente fu sazio di sonno, sentì un
terribile appetito e volle mettersi subito a tavola; ma la
serva disorientata non aveva preparato nulla e la tavola,
invece che di pietanze, era ingombra del carteggio di due
contemporanei. Viggi tornò a strepitare, ordinò che si cu­
cinasse subito tutto quel che c’era in casa e chiuse per
intanto le lettere nel suo scrittoio. Dopo cena, tornato un
poco più tranquillo, cominciò a rendersi conto della sua
solitudine, e solo allora si sentì molto a disagio, tanto più
che dopo gli eventi dell’ultima notte non poteva neppure
cercar rifugio nella compagnia dei suoi concittadini.
Quando poi venne una donna ed egli fu costretto a conse­
gnare, traendola dagli armadi, la roba profumata della
moglie, gli occhi gli si riempirono di lagrime e quasi desi­
derava d’averla ancora lì con sé, e chiedeva a se stesso se
dopo più attenta analisi il delitto non sarebbe stato per­
donabile.
Attese due giorni, se mai lei non desse notizia, ma poi­
ché non giunse nulla, si recò dal pastore della città per
avviare le pratiche di divorzio. Pensava che forse la fac­
cenda avrebbe potuto chiarirsi, durante i tentativi di ri­
conciliazione ai quali le autorità ecclesiastiche sono te­
nute. Fu però molto stupito quando apprese che già Gritli
vi si era recata poco prima per la stessa ragione e quando
il parroco gli spiegò come si erano svolte le vicende del
carteggio, come Gritli ammettesse bensì il suo errore, ma
LETTERE D’AMORE SMARRITE 361

10 ritenesse anche già scontato e, per l’eccesso della pu­


nizione e per il trattamento irragionevole, desiderasse or­
mai separarsi da lui.
Ritenne questo pensiero un’astuzia e, convinto di per­
suadere la peccatrice, lasciò libero corso alla causa. Tor­
nato a casa vi trovò una lettera di una donna, di nome
Käthchen Ambach. Costei era una signorina fra i trentasei
e i trentott’anni che dai quattordici in su aveva sostenuto
le parti di prima amorosa in tutte le compagnie di dilet­
tanti filodrammatici successivamente costituitesi a Seld-
wyla, e ciò non propriamente per la bellezza della figura,
bensì per il suo superiore ingegno e la sua ardita disin­
voltura. Quanto alla figura infatti, possedeva un busto
lungo lungo, sorretto da due gambette corte corte, così
che la vita segnava il terzo inferiore della sua persona.
Aveva inoltre una mandibola inferiore sproporzionata,
con la quale era in grado di macinare rispettabili masse
di carne e di pane, ma che trasformava per così dire tutta
la faccia in un mento, cosicché esso pareva un grandioso
zoccolo per una casetta minuscola, con cupola angusta e
con un microscopico balconcino, cioè un naso di minime
proporzioni, che si ritraeva come annientato dalla massa
mandibolare. Da ciascun lato del volto pendeva un unico
lungo ricciolo a cavatappi, mentre sulla nuca si arrotolava
un codino di topo con l’estremità sempre ribelle e sfuggen­
te a pettine e forcine : se vi si infilava una forcina, si divi­
deva biforcuto come una lingua di vipera, mentre riusciva
sempre a scivolare fra i denti del pettine più fitto.
Quanto al suo ingegno, era, come già si disse, di qualità
superiore, come del resto si vedrà tosto dal suo scritto,
che Viggi Stòrteler trovò a casa.

«Nobile signore!
Vi sono situazioni che ci fanno dimenticare i riguardi
dell’angusta vita quotidiana e che ispirano anche alla
più timida delle donne il coraggio, anzi le impongono
11 dovere, di uscire da se stessa e rivolgere apertamente la
sua più elevata partecipazione là dove si consuma fra
immeritato cordoglio un’incompresa e maltrattata gran­
3θ2 LA GENTE DI SELDWYLA

dezza virile. In simile situazione credo di trovarmi io in


calce sottoscritta, che, superiore ad ogni meschino scru­
polo, sia per la mia conoscenza del mondo che per la mia
cultura, oso pertanto accostarmi a Lei, egregio signore, nel
più nobile degli intenti ! Io oso offrirLe liberamente quei
servigi che potrebbero forse lenire la Sua sventura! Da
lungo tempo ho tacitamente ammirato i fiori del Suo inge­
gno, e tanto più intimamente in me li accoglievo, in quan­
to deploravo che un uomo par Suo fosse abbandonato alla
incomprensione e alla solitudine in questo barbaro paese.
Tanto più sereno e felice, mi dicevo, dovrà essere nel sa­
crario della Sua casa, al fianco di una sposa piena di sen­
timento ! Ora anche la Sua casa è deserta, una penosa no­
vella corre per la nostra città — perdoni, se a questo pun­
to io faccio scendere il velo del nobile riserbo femminile !
Ma sarò breve : se Ella nel Suo presente abbandono sen­
tisse il bisogno della partecipazione di un cuore pietoso,
del consiglio ordinatore e dell’opera di una solerte mano
di donna, io La pregherei di concedermi una grande gioia,
disponendo senza riguardo alcuno del mio tempo e delle
mie forze, giacché io sono del tutto libera nell’uso del
mio tempo e facilmente potrei ogni giorno dedicare qual­
che oretta alle Sue esigenze. Senza dubbio, anche se il Suo
forte spirito non ha bisogno di compagnia che lo sollevi,
il governo della Sua casa tanto più abbisognerà invece di
una sorveglianza attenta; il tatto sicuro delle donne cólte
sa questo meglio che non lo possa intuire il rozzo istinto di
quelle donne volgari. Io non rinuncerò quindi ad appa­
rire oggi o domani in persona al Suo focolare deserto per
conoscere i Suoi eventuali desideri e bisogni. Appena le
Sue condizioni si saranno felicemente ristabilite, mi ri­
tirerò subito con il più nobile disinteresse nel sacrale si­
lenzio del mio studio.
Gradisca la più cordiale assicurazione della mia stima
più sincera, con la quale mi firmo
Sua devotissima Käthchen Ambach».

Quando Viggi ebbe letto questa missiva, fu pervaso da


sentimenti molto confusi. Era avvezzo, come tutti in città,
LETTERE D’AMORE SMARRITE 3θ3
a ridere della Käthchen e non aveva certo il ricordo più
gradevole del suo aspetto esteriore. Tuttavia gli pareva di
aver atteso da un pezzo una lettera di quel genere, quasi
fosse una voce di un mondo migliore, quasi gli si rivelasse
un’anima piena di comprensione. Intanto che meditava
così fra sé e sé, comparve Käthchen in persona.
Indossava un abito di velluto di cotone nero, una
sciarpa rossa e un cappellino tondo, grigio con una piu­
ma. Tale apparizione lo conquistò di colpo, e quand’essa
gli porse in silenzio la mano, rivolgendogli uno sguar­
do di mesta compassione, dimenticò completamente di
averla mai derisa, anzi, subito si intonò bene al suo atteg­
giamento.
Non è possibile descrivere il colloquio che si svolse fra
quei due spiriti : basti dire che alla fine Viggi si sentì conso­
lato e senz’altro preso da simpatia per Käthchen. Lo ave­
va soprattutto commosso quando, mentre le raccontava
la vicenda delle lettere e gliene mostrava il gran mucchio,
essa, senza pronunciare parola, aveva solo sospirato, e ver­
sato alcune lagrime silenziose, e lagrime sincere, poiché
pensava a quanto sarebbe stata più abile e saggia lei in
una simile fortunata contingenza, visto che lo scriver
lettere era sempre stata la sua passione.
Alla fine Käthchen sottopose la domestica a un inter­
rogatorio; ispezionò la cucina, impartì alcune superflue
disposizioni, e in ultimo, sollevando la gonna, con grandi
gesti e parlando ad alta voce, scese l’ampia scala di Stör-
teler che a lei, in paragone alla scaletta angusta di casa
sua, piaceva in modo particolare. Il quasi-vedovo l’ac­
compagnò fin sulla strada, dove ebbe luogo un compli­
mentoso e solenne commiato.
«Dio li fa e poi li appaia» disse un seldwylese che
per caso, passando di lì, assistette a quella scena im­
ponente.
Il più infelice di tutti era Wilhelm, il maestrino. Si era
fatto un po’ di coraggio e aveva cercato di parlare con la
signora Gridi, ma non c’era affatto riuscito, poiché questa
non la si vedeva in nessun posto, né dava notizia di sé. Le
scrisse allora una lettera spiegandole come era avvenuta la
3θ4 LA GENTE DI SELDWYLA

disgrazia del portafogli e chiedendole che cosa avrebbe


potuto mai fare per lei. Non osò scriverle nient’ altro, se
non di esser pronto a fare qualunque cosa essa giudicasse
opportuna. Andò a imbucare la lettera in un paese lonta­
no parecchie ore e ricevette solo poche righe di risposta
che gli dicevano di star tranquillo sino al momento dell’in­
terrogatorio in giudizio, e allora avrebbe dovuto dichia­
rare quel che sapeva, né più né meno, cioè di aver scritto
per espresso desiderio di lei le risposte alle lettere fattegli
pervenire.
Il poveraccio, abbandonato a se stesso, torturato da
mille dicerie, nell’assoluta incertezza circa il vero senso
degli eventi, non aveva neppur più il coraggio di uscir
dalla porta per curare il suo giardinetto, e il valoroso
epistolografo nutriva una paura non ingiustificata per
tutto quanto accadeva in casa del vicino Viggi.
I due peccatori accusati non si vedevano dunque mai,
mentre Käthchen e Störteler presto entrarono in rapporti
confidenziali. Essa si recava due volte al giorno da lui e
per tutta la città si dava l’aria di dovere almeno salvare dal
peggio, per puro spirito di sacrificio, il pover’uomo ridot­
to in tristissime condizioni. Descriveva intanto come orri­
bile il disordine lasciato da Gridi, e in realtà aveva messo
a soqquadro la casa di Viggi, mutando posto a tutti i
mobili, disponendo rami d’edera in tutti gli angoli, rita­
gliando le belle tende per farne degli strani straccetti smer­
lati. Col pretesto di voler mettere ordine, vuotò tutti gli
armadi e frugò specialmente nel ricco corredo di Gridi
rimasto ancora in casa. Spadroneggiava anche in cucina.
Viggi era stupito e beato di aver sempre servita carne cu­
cinata di fresco e di non vedere mai verdure riscaldate;
Käthchen infatti mangiava i resti di carne fredda in cu­
cina con dei gran pezzi di pane, e se non c’era altro spal­
mava sul pane il grasso dell’arrosto. Divorava pure piatti
interi di fagioli, di cavoli-rapa e di patate fredde; e sei
grossi recipienti lasciati da Gridi pieni di frutta in con­
serva furono vuotati, ma sino in fondo, in meno di quat­
tro settimane. Dopo tali imprese sedeva per un’oretta ac­
canto a Viggi, lo confortava, rivedeva con lui i suoi lavori,
LETTERE D’AMORE SMARRITE 3θ5
con lui si entusiasmava e riusciva, senza averne l’aria,
ad aizzarlo contro la moglie, finché un giorno si portò
via la sua ultima opera letteraria per studiarla durante
la notte. Si trasportava a casa anche, smaniosa di ap­
prendere, molti dei suoi libri, quanti ne reggeva sotto brac­
cio, ma ne leggeva soltanto le parti più divertenti, come
fanno i bimbi che piluccano l’uva passa da un panet­
tone.
Dato questo stato di cose non vi è da stupire che i ten­
tativi di riconciliazione delle autorità non avessero suc­
cesso e che si avvicinasse la discussione della causa di
divorzio. La signora Gritli non fu per nulla risparmiata,
anzi furono interrogati parecchi testimoni, che Käthchen
Ambach era andata a scovare. Fu interrogato ripetuta-
mente anche Wilhelm, ma tutto questo non fornì alcuna
aggravante contro i due rei. Soltanto un bambino aveva
visto qualche volta portare o ritirare le lettere alla siepe,
ma i rapporti epistolari erano già ammessi da Gritli e
da Wilhelm.
Si giunse così al gran giorno del processo e Viggi pro­
nunciò una severa ed eloquente requisitoria. Espose con
grande abilità le sue nobili aspirazioni intellettuali, e con
quanto santo zelo avesse tentato di farvi partecipare la
consorte, per raggiungere quella armonia degli spiriti sen­
za la quale è impossibile una felice alleanza coniugale, ma
come essa gli avesse amareggiato la vita, pervicacemente
insistendo nell’ignoranza e nell’ignavia intellettuale e più
tardi ingannandolo con astuta finzione, e come essa alla
fine, durante i suoi faticosi viaggi d’affari che egli aveva
cercato di alleviarsi con un intimo e cólto carteggio con la
sposa, fosse passata al più autentico adulterio, recitando
la più vergognosa commedia col credulo consorte ! Da par­
te sua lasciava con piena fiducia che i giudici sentenziasse­
ro se fosse mai possibile la vita in comune con una simile
oca dagli artigli di avvoltoio !
Chiuse la sua conclone on questa perfida formula cui
non seppe rinunciare. Gli fece eco una generale risata
sommessa; la moglie offesa nascose per qualche momento
il volto e pianse. Ma poi si alzò e si difese con sdegno ed
366 I.A GENTE DI SELDWYLA

eloquenza, tali da far non poco stupire e vergognare il


vanitoso consorte.
Essa dichiarò di non poter ella stessa giudicare se fosse
veramente rozza e ignorante; erano comunque ancora
al mondo tutti i maestri e i sacerdoti che l’avevano edu­
cata, non essendo passato gran tempo dalla sua infanzia.
Suo marito l’aveva sposata come brava ragazza borghese
e lei aveva preso lui come commerciante e non come dotto
o intellettuale. Non era certo stata lei a mutar carattere,
bensì il marito, e sino a quel giorno essa era vissuta felice
e contenta con lui, ed egli in apparenza contento di lei.
Anche quando egli aveva cominciato con le sue nuove
bizzarrie, tutti lo potevano dire, non ne aveva riso con
la gente; anzi, vedendo che ne andava della pace dome­
stica, s’era onestamente sforzata di adattarsi alle sue idee
sin dove le era stato possibile, malgrado la situazione
sgradevole e poco gloriosa in cui era venuta a trovarsi.
Ma alla fine egli aveva preteso da lei l’impossibile, cioè di
costringere i suoi sentimenti di donna in un linguaggio
ampolloso e innaturale e in lunghe lettere destinate alla
pubblicità, l’aveva obbligata a passare il suo tempo in
un’attività a lei estranea, ripugnante e inutile, invece di
accudire ai suoi doveri di massaia. Non era stata lei ad
usare l’inganno, bensì proprio lui, che, pur essendo per
indole arido e per nulla sentimentale, aveva forzato se me­
desimo e lei insieme a sostenere per lettera una commedia
veramente ridicola. Tuttavia essa, intimidita da lui e spe­
ranzosa d’altra parte d’abbreviare così quel perturba­
mento, aveva cercato di soddisfarlo, sia pure scegliendo
nel duro frangente e nella confusione una via sbagliata,
come era apertamente disposta ad ammettere.
Ogni donna di Seldwyla sapeva che il giovane maestro
era uomo non meno innamorato che discreto, timido e
riguardoso, col quale si poteva osare in caso di necessità
uno scherzo innocente senza con ciò mettersi in una situa­
zione pericolosa. Tanto più aveva ritenuto lecita una can­
dida astuzia incaricandolo di rispondere alle epistole del
marito, dandogliene anzi ordine formale, come sovente
si fanno redigere lavori scritti e specialmente lettere d’a­
LETTERE D’AMORE SMARRITE 3θ7
more da maestri di scuoia, per il che poteva invocare la
testimonianza di tante brave servette. Non era stata lei a
compilare le lettere che attendevano risposta, bensì Stör-
teler, col che rimaneva senz’altro troncata ogni accusa di
infedeltà. A suo modesto criterio, tutta la faccenda avreb­
be dovuto esser portata piuttosto davanti a un tribunale
letterario che a quello dei divorzi. Essa tuttavia a quest’ul­
timo si sottoponeva, perché i fatti avvenuti avevano por­
tato una luce inattesa sulle condizioni intime della loro
unione matrimoniale. Essa non sentiva più inclinazione
alcuna per il signor Störteler e questo era motivo suf­
ficiente, dato il punto cui erano arrivate le cose, per insi­
stere anche da parte sua sulla completa separazione.
Il tribunale, in quanto rigida e tradizionale corte ma­
trimoniale, non avrebbe dovuto pronunciare sentenza di
divorzio, dato che il presunto adulterio si era rivelato in­
vece soltanto un traviamento esteriore, ma quei signori,
e insieme l’intera città, troppo si divertivano a privare
il povero Viggi di una mogliettina tanto graziosa e svelta
per farlo finire con la ridicola Käthchen, ed essi quindi
emisero sentenza di divorzio. Questo venne proclamato
per inconciliabilità di carattere e di consuetudini, per
maltrattamenti da parte del marito, quali il rinchiuderla
in cantina e il gettarla in strada; e per errori di sventa­
tezza della moglie, quale il carteggio col maestrino. La
moglie però era da considerarsi intemerata, illibata e in­
sospettabile; ciascuna delle parti doveva conservare il
proprio patrimonio senza essere tenuta ad alcun assegno,
cioè Störteler doveva senza indugio rendere o investire
con garanzia il patrimonio portatogli in dote da Gridi.
Viggi tornò a casa più depresso che rasserenato, del che
si meravigliò egli stesso, dato che si era liberato dal peso
opprimente di una consorte indegna e ottusa. Non gli
mancarono spiegazioni e commenti : già sotto il portone
del tribunale alcuni fra il pubblico gli gridarono :
— Pazzo furioso che sei ! Dovevi proprio aver presa
una sbornia d’inchiostro, per lasciarti scappare una don­
nina di quel genere ! Con quel simpatico patrimonio, e
quelle spalle rotondette e quell’impeccabile contegno !
368 LA GENTE DI SELDWYLA

— Hai visto — diceva l’uno all’altro — che riccioli lu­


centi le piovevano sotto l’ala del cappello?
— Ma certamente, — ribatteva quello — e hai osserva­
to com’era carina nell’ira, e che dolce fiamma le ardeva
ancora negli occhi ridenti? Davvero, se l’avessi io, la farei
arrabbiare ogni giorno, solo per rappacificarla a furia di
baci ! Bene, Dio sia lodato, ora quella troverà di certo un
buon conoscitore!
Lungo la strada una voce gridò:
— Passa uno che getta le albicocche dalla finestra e
mangia mele selvatiche.
— Gli faccian buon pro ! — fece eco un’altra voce. Un
ciabattino disse:
— Quello dà uno schiaffo a una mosca e crede di esser
spadaccino !
E un bottonaio commentò:
— Lascia fare ! Quello è un gran pensatore : ce ne sono di
molte qualità, ci sono anche quelli che ponzano sul letame !
Il ramaio infine, che stava ripulendo con la stoppa una
pentola stagnata, aggiunse:
— Quello fa come il diavolo, che una volta per cambia­
re prese una bragia sotto la coda e andò a sedersi su un ba­
rile di polvere!
Questi discorsi ferivano e addoloravano Viggi oltre
misura; rientrò nel suo salotto proprio scoraggiato e
afflitto. Ma presto quelle nuvole furono disperse dal sole
che poi apparve : Kätchen Ambach si presentò in un ele­
gante abito di taffetà e con sul petto un orologetto d’oro
dalla cassa sottile e malandata, che da quindici anni non
era stato caricato perché da ancor più tempo non aveva
dentro di sé molla alcuna. Si tolse lo scialle e si venne a se­
dere sul divano accanto a Viggi, afferrandogli le mani,
piena di compassione. Lo abbindolò ben bene e l’eccel­
lente coppia fu concorde nel decidere le nozze per offrire
l’esempio di un perfetto matrimonio spirituale e ap­
passionato. A quel modo l’allegra Käthchen era diventata
felicemente una fidanzata ; si trattenne intanto a colazio­
ne e i due si fecero tante moine che la serva, molto affezio­
nata alla prima padrona, dovette vergognarsene. Un po­
LETTERE D’AMORE SMARRITE 3θ9
chino inebriati dal miglior vino di Viggi, uscirono nel po­
meriggio a braccetto, andando a finire nella casa della
sposa, dove radunarono alla svelta alcuni conoscenti per
festeggiare il fidanzamento. Il meglio della festa fu che la
vecchia madre di Käthchen in quell’occasione vide arri­
vare in casa cibi e bevande in abbondanza, cosi che per la
prima volta in tanti anni potè saziarsi : infatti da trent’an-
ni la sua gran preoccupazione era stata di saziare la figlia
sempre affamata, dovendola poi stare a guardare, invece
di sfamarsi essa stessa. Ora che finalmente Käthchen le
aveva portato in casa un genero ben fornito, le pareva di
poter morire volentieri, non lasciando senza appoggio la
figliola incapace di qualsiasi lavoro. Così ogni mostruo­
sità è pur legata con un nastrino d’oro a un sentimento
umano.
Le nozze furon celebrate con gran fretta, e riuscirono
brillanti, sfarzose e rumorose, giacché Käthchen voleva
godersi lo spettacolo in tutti i suoi particolari, ed essere il
centro leggiadro d’una grande festa, mentre Viggi invi­
tando una massa di gente approfittò dell’occasione per
ristabilire migliori rapporti con quei suoi concittadini
generosamente ospitati. La nuova signora Störteler non
aveva certo l’intenzione di condurre una tranquilla esi­
stenza casalinga, anzi indusse il marito a continuare i
divertimenti iniziatisi con le nozze, a frequentare con lei
tutte le feste, ad aprire la propria casa e a procedere in­
somma a gran galoppo.
Egli del resto ci si trovava a suo agio ed era contento di
vivere fra tanta confusione, poiché lei lo esaltava dovun­
que quale un gran genio e lo faceva centro delle conver­
sazioni, tutto riferendo a lui e chiamandolo sempre sol­
tanto Corrado.
«Il mio Corrado ha detto questo, ha osservato que-
st’altro,» diceva ad ogni momento «Come ti sei espres­
so quel giorno, Corrado? Eri delizioso ! Debbo ammirarti,
caro, che tu non sia del tutto esausto dopo il tuo gran stu­
diare e lavorare ! Ahimè ! Ben sento il mio difficile dovere ;
quel che la moglie può e deve essere per un uomo par
tuo ! Non sarà meglio andare a casa, mio buon Corrado?
37θ LA GENTE DI SELDWYLA

Mi sembri stanco; ravvolgiti bene nello scialle, figliolo!


Ma oggi non ti permetto più di scrivere dopo che saremo
arrivati a casa, te lo dico già ora!».
Così chiacchierava in presenza della gente e Viggi
sorbiva ogni cosa come fosse miele e in cambio chiamava
la moglie «la mia donna ardita» o «la mia fida consorte»
e si fingeva ora sofferente ora infiammato, a seconda dei
discorsi della sua Fama dalle gambe corte.
Per gli abitanti di Seldwyla tutto ciò era più appetitoso
che ostriche e insalata di gamberi, anzi forse neppure un
fagiano arrosto li avrebbe indotti ad abbandonare il cam­
po dove Viggi e Käthchen davano spettacolo. Per anni
erano ormai provvisti di nuovo materiale umoristico;
tuttavia quei raffinati bricconi si comportavano con estre­
ma prudenza per prolungare lo spasso, ed ebbero anzi una
trovata : quando proprio i muscoli della bocca non pote­
vano più frenarsi, veniva lanciato un frizzo che permet­
teva a tutti di scoppiare a ridere. Si tenne una vera riserva
di simili scherzi, che, aumentata e migliorata, venne a
formare una raccolta di cospicuo valore. Vi erano citta­
dini di Seldwyla, artigiani e impiegati, capaci di passare
giornate, anzi settimane intere, inventando e limando una
nuova facezia. Quando sembrava abbastanza ben pen­
sata e rifinita, si teneva prima una prova in una piccola
osteria, per vedere se faceva il suo effetto e, a seconda
dell’esito, spesso consultando competenti, si introducevano
correzioni secondo le migliori regole della composizione
artistica. Ripetizioni, prolissità ed esagerazioni erano se­
veramente proibite o considerate lecite soltanto quando
perseguivano uno scopo speciale.
Viggi non aveva alcun sospetto di tale coscienziosa as­
siduità. Quando, per deviare il riso da lui, veniva lanciata
una di queste storielle, egli ostentava un’aria altezzosa
e diceva a sua moglie: «Come ci si può vantar felici,
quando si è superiori a simili puerilità e si conosce qual­
cosa di più elevato!».
Verso tali sublimità si dirigeva a gonfie vele, sospinto
dall’alito possente della consorte. Navigò tanto bene che
con l’aiuto di Käthchen, dopo un certo tempo, approdò
LETTERE D’AMORE SMARRITE 371

là dove era predestinato alla maggior parte dei Seldwylesi


di approdare, tanto più che anche il suo capitale, cioè
la dote di Gridi, aveva fatto divorzio dall’azienda. In­
vece di badare agli affari, si uni a un gruppetto di teste
storte del suo genere da lui pescate in paese, e si diede
a produrre una letteratura puerile e disordinata, ai mar­
gini del mondo ragionevole, che si proclamava con eterne
ripetizioni come qualcosa di nuovissimo e di inaudito,
mentre non faceva che ruminare rimasugli rifiutati da altri
e creare assurdità. Se appena uno non accettava la sua
fama indiscreta, ci si vendicava accusandolo di rappre­
sentare una conventicola maligna e ostile. Fra di loro
però si disprezzavano segretamente, e Viggi, che aveva
prima avuto una esistenza tanto tranquilla e serena, era
ora tribolato non soltanto da crucci e intrighi, ma anche
da stolte passioni e dai tormenti della vanità schernita e
impotente. Già lo irritavano le spese postali per tutte le
lettere inutili, per i manifesti, i prospetti, gli appelli stam­
pati o litografati che arrivavano e partivano ogni giorno
e non avevano il minimo valore. Ritagliava con un so­
spiro i francobolli dalla strisciolina che s’accorciava di
giorno in giorno, mentre sempre più rare si facevano le
buone, solide e redditizie lettere d’affari munite di affran­
catura. Alla fine rimase del tutto sprovvisto di bolli e
Käthchen, in conformità alla sua missione, ebbe il com­
pito di andare alla posta con quella roba per affrancarla,
ma essa gettava senz’altro la corrispondenza nella cas­
setta e sprecava poi il denaro in leccornie. Al mattino an­
dava dal salumiere a mangiare un piedino di porco, nel
pomeriggio invece entrava in una pasticceria e prendeva
una torta di mele. In compenso a Viggi perveniva dai
corrispondenti vendicativi doppia quantità di lettere e
plichi non affrancati, con scritto «Saluti e strette di ma­
no», ma con molte tacite maledizioni per lui.
Durante quel periodo pareva che Gridi fosse sparita dal
mondo. Non la si vedeva in nessun posto e nulla si udiva
di lei, tanto faceva vita ritirata. Quando lasciava la casa,
usciva dalla porticina posteriore, posta presso alle mura
della città, e faceva passeggiate solitarie; si assentava so-
372 LA GENTE DI SELDWYLA

vente, talvolta per mesi interi, probabilmente per ripo­


sarsi e godere la propria libertà in altri luoghi. A Seldwyla
nessun aspirante poteva avvicinarla, però corse ripetu­
tamente la voce che si fosse fidanzata altrove, senza
che si avessero precise notizie. Che essa non sembrasse
curarsi affatto di Wilhelm e mai lo incontrasse, non stu­
piva alcuno, giacché nessuno aveva creduto a una sua
seria inclinazione per quel povero giovanotto.
Per quest’ultimo le cose andavano invece proprio male !
Nessuno metteva in dubbio che egli fosse innamorato mor­
to di Gridi, e tanto gli uomini che le donne non gli per­
donavano di aver osato mettere l’occhio su di lei, mentre
d’altra parte lo schernivano per la sua credula mania
epistolare. Persino le ragazze alla fontana, vedendolo pas­
sare, canterellavano:
Non son tue, maestrino,
quelle mele del vicino!
Egli molto si vergognava, ma non tanto di fronte alla
gente come di fronte a se stesso. Il modo in cui Gridi lo
aveva trattato in tribunale era stato per lui un colpo al
cuore, gli aveva aperto, o almeno lo credeva, gli occhi su
se medesimo e sulle donne, così che da allora le aveva
scacciate tutte insieme dai suoi pensieri. Si richiuse in
sé, rinunciò alle sue bizzarrie e si dedicò con amore e assi­
duità agli scolaretti. Ma quando le cose cominciavano ad
andar meglio, venne a scadere il termine del suo incarico
giacché egli era supplente e non aveva un impiego fisso.
Quando avrebbe dovuto essergli rinnovata la nomina, al
parroco, quale presidente del consiglio scolastico, non fu
difficile mandarla a monte esponendo in un rapporto
all’autorità che Wilhelm era stato implicato in una in­
cresciosa causa di divorzio e invocando per lui una puni­
zione salutare. Il parroco odiava il maestro per la sua irre­
ligiosità e le sue pratiche mitologiche, non sapendo che
Wilhelm si era convertito al Dio vero e unico appena s’era
illuso d’essere amato. Così fu sospeso dall’ufficio per due
anni e rimase senza pane né lavoro.
Fece quindi fagotto per andare a cercare altrove un ri­
LETTERE D’AMORE SMARRITE 373
fugio e nel suo pentimento decise di nascondersi, di gua­
dagnarsi il pane da povero bracciante col lavoro dei
campi. Egli infatti, figliolo di una famiglia di agricoltori
dei dintorni, ormai estinta, aveva sin da bambino dovuto
apprendere le faccende campestri. Con questa intenzione
una triste mattina di marzo si pose in cammino per valica­
re la montagna; giunto però alla colma, la nebbiolina
umida si trasformò in acquazzone violento : Wilhelm cer­
cò un ricovero vicino, nella speranza che il maltempo sa­
rebbe presto passato. Notò a poca distanza una casupola
posta in cima a un grande vigneto al margine del bosco. Il
tetto sporgente di questa casetta da vignaiolo offriva
buon riparo, ed egli vi si diresse, per sedersi sulla scaletta
di pietra. Era una casina vecchia e pittoresca, con una
bandieruola sul tetto e vetri tondi alle finestre. La spor­
genza del tetto si appoggiava su due colonne di legno e la
scala aveva una balaustrata di ferro che formava al tempo
stesso un balcone, dal quale, col tempo buono, si ammira­
va un ampio paesaggio, a sud e ovest, sino alle montagne
nevose. Le travi e le imposte recavano pitture a colori;
tutto però era già consumato e sbiadito dal tempo.
Mentre se ne stava lì al riparo, s’udì un rumore entro
la casa e comparve sulla porta il proprietario del vigneto,
invitando Wilhelm a entrare e ad aspettare con lui che
la pioggia cessasse. Sulla tavola vi era una bottiglia di
grappa di ciliegie, l’uomo tolse da un armadietto a muro
un altro bicchierino e lo riempì per l’ospite. «Pane
quassù non ne ho,» disse «ma possiamo fare insieme
una pipata». Così dicendo trasse dall’armadio anche
due lunghe pipe di terracotta e buon tabacco, perché
allora gli uomini di Seldwyla, disgustati dei sigari, erano
tornati con gran dignità alle antiche pipe di terracotta,
come fossero commercianti olandesi.
Questo seldwylese, benché di mestiere fosse cimatore,
aveva avuto il capriccio di dedicarsi all’agricoltura, per­
ché i prodotti agricoli erano alti di prezzo e perché quel
lavoro gli avrebbe dato occasione a frequenti passeggiate.
Quel vigneto, insieme a parecchi grandi prati e ad alcuni
campi, era un’antica terra demaniale da lui acquistata.
374 LA GENTE DI SELDWYLA

Ci era venuto quel giorno per vedere in che condizioni


fossero le viti, dato che bisognava cominciare i lavori
primaverili. Non sapendo ancora nulla della sua destitu­
zione, chiese a Wilhelm dove fosse diretto e che progetti
avesse. Wilhelm gli rispose che voleva cercare impiego
presso contadini, aiutandoli in tutti i lavori : era uomo di
pochi bisogni e sperava di cavarsela in pace. Il cimatore
si stupì di quel piano e insistette sin che apprese la
causa che aveva spinto il maestrino ad andarsene, poi
disse :
— Questo è un colpo mancino di quel prete, che non sa
distinguere una bambinata da una cattiva azione. Pen­
seremo noi del resto a fargli smettere quel suo eterno tene­
rume con le scolare del catechismo : quelle belle e graziose
se le tiene ben vicine, le gobbe, guerce o tristanzuole le
mette nelle ultime file e non rivolge loro quasi mai la pa­
rola, e questo è scandalo ben maggiore che non tutto il
vostro scarabocchiar lettere. Se quegli esercizi di stile
son parsi a lui sconvenienti, per noi è ancor meno oppor­
tuno il suo amore per la bellezza ! Ma voi avete davvero
cognizione dei lavori campestri e di simili cose?
— Oh sì, discretamente ! — replicò Wilhelm — du­
rante la malattia dei miei poveri genitori facevo tutto io e
solo a diciotto anni, quando i miei genitori morirono e il
nostro podere venne venduto, entrai, col poco denaro ri­
masto, alle scuole magistrali : sono passati solo cinque anni
da allora, e del resto anche alla scuola facevamo pratica
di agricoltura.
— Ma perché non volete piuttosto trar profitto dalle
vostre cognizioni e cercare un’attività migliore che non
sia star al servizio di contadini? — domandò quello, ma
Wilhelm aveva preso il suo partito e non era disposto a
discutere di nuovo tutta la sua situazione con quel­
l’uomo.
Nel frattempo la pioggia era cessata e il sole tornava
già ad illuminare l’ampio paesaggio. Il proprietario si di­
spose a fare un giro nel suo vigneto e invitò Wilhelm
a fargli compagnia un’ora, ché tanto per quella giornata
avrebbe fatto poi abbastanza cammino.
LETTERE D’AMORE SMARRITE 375
Tra i filari delle viti il seldwylese constatò che Wilhelm
aveva nozioni sicure in quel ramo e insieme buon senso,
e quando poi qua e là, per illustrargli la sua idea, egli
potò o legò una vite, dimostrò anche una mano esperta.
Si fece quindi accompagnare anche ai pascoli e ai campi,
chiedendogli sempre il suo parere. Wilhelm consigliò
senz’altro di ridurre di nuovo i campi a prati, come era
evidentemente stato in passato, poiché il grano che si po­
teva ottenere a quell’altezza non era quasi da contare,
mentre dal bosco veniva umidità sufficiente a dare dei
buoni pascoli. In quel modo si sarebbe potuto tenere be­
stiame che, col latte e con capi di vendita, prometteva
ottimo reddito, mentre il foraggio autunnale sarebbe stato
guadagno netto. Tutto questo persuase il cimatore: egli
meditò un poco e poi senz’altro fece al maestro la pro­
posta di entrare al suo servizio. Avrebbe dovuto fare solo
il lavoro leggero e per il resto mantenere in ordine e sor­
vegliare bene il podere. Gli avrebbe dato quel che a lui
sarebbe parso di dover guadagnare, e inoltre l’avrebbe
trattato con ogni riguardo. Wilhelm stette a pensarci
qualche minuto, poi gli tese la mano accettando, a condi­
zione però che potesse vivere nella casupola, senza ob­
bligo di scendere in città. Questo piacque al padrone,
così che Wilhelm già al principio del pellegrinaggio trovò
il suo rifugio.
Il cimatore fece trasportare quel giorno stesso su al vi­
gneto un letto e un po’ di viveri che sarebbero stati rinno­
vati di tempo in tempo : non mancava una piccola cucina
per poter nei giorni della vendemmia cuocere e arrostire;
a terreno vi era una stanzetta delle provviste e sotto la sca­
la fu facile preparare una specie di stalla per una capretta
che desse il latte. In questo modo Wilhelm si trovò trasfor­
mato d’un tratto in eremita e contadino e si adattò alla
sua sorte con abilità e buon volere. Fece preparare i ter­
reni con cura dai braccianti mandatigli dal padrone,
badando che fossero tolti i sassi, e vi seminò poi del fieno.
Alle viti provvide quasi del tutto da solo, finendo prima
del previsto : è infatti spesso così, che chi eseguisce un la­
voro per eccezione o dopo lunga pausa, conclude nel
37θ LA GENTE DI SELDWYLA

primo zelo più di chi vi si dedica abitualmente. Dopo


poche settimane trovò tempo di preparare un orticello
àccanto alla casupola, per far bollire un po’ di cavoli e di
carote con la carne che gli veniva mandata su due volte
la settimana. Una notte buia scese persino in città a
prender germogli dei suoi garofani e delle violacciocche e
ne mise dovunque gli si offrisse un poco di spazio : attorno
al giardinetto tirò una siepe di roselline selvatiche; lungo
la balaustrata e su per le colonne di legno fece salire il
caprifoglio, così che al giungere dell’estate la casina aveva
l’aspetto multicolore e leggiadro d’una figurina d’album.
Ogni giorno, ancor prima che il sole si alzasse, era in
piedi, cercando la propria pace in un’attività ininterrotta
sino a quando l’ultimo riflesso rosato era sparito sulle
vette alpine. In quel modo ebbe molto tempo a disposi­
zione e si sentì libero di usarne anche senza trascurare i
doveri assunti. Per assicurarsi il fabbisogno di legna fa­
ceva grandi giri nel bosco, dove un carico era presto rac­
colto. Approfittava per tali passeggiate delle ore calde, per
stare all’ombra e in pari tempo per cercare un contrappe­
so al pesante lavoro manuale. Il bosco era ormai la sua
aula e la stanza dove studiava, se non con gran dottrina,
però applicando attentamente quel poco che sapeva.
Spiava la vita degli uccelli e degli altri animali ; non rien­
trava mai senza mettere ben accuratamente dentro la sua
fascina qualche dono della natura, un muschio raro, un
nido abbandonato d’artistica fattura, una pietra strana,
o una interessante anomalia nelle forme di piante o ar­
busti. Da una cava in disuso trasse alcuni antichissimi
fossili con l’impronta di piante e di insetti. Iniziò inoltre
una raccolta completa delle cortecce di tutti gli alberi da
foresta nei diversi periodi della loro vita, tagliandone e
raccostandone pezzi quadrati coperti di muschi e di li­
cheni, scegliendo quelli di conifere con gocce lucenti di
resina, e formandone delle belle figure. Coi suoi tesori
ornava, in mancanza d’altro posto, le pareti e persino il
soffitto della sua stanzetta. Non portò però mai a casa
alcun essere vivente : quanto più bella e rara gli sembrava
una farfalla — e in quella regione ve ne erano svariate
LETTERE D’AMORE SMARRITE 377
specie - con tanto maggior rispetto la lasciava libera.
“So io” si diceva “se la poveretta ha già potuto accop­
piarsi? E se non fosse, che orrore annientare in un attimo
la stirpe di un animale così leggiadro e innocente, che
costituisce un ornamento del paese e una gioia per gli
occhi ! Annullare, uccidere la progenie di un tenero fiore
volante, che si è conservato dal principio del mondo at­
traverso tanti millenni, che è forse l’ultimo campione
della sua specie in tutta la regione ! Chi può infatti con­
tare i nemici e i pericoli che la minacciano?”.
A compensarlo di questi suoi pii sentimenti fu una
stirpe estinta. Egli infatti, scavando nel bosco un rialzo
di terra che gli era parso sospetto, rinvenne la tomba
di un guerriero celtico. Apparve ai suoi sguardi un lungo
scheletro con indosso armi ed ornamenti. Ricoprì la fossa
con cura, senza parlarne ad alcuno, perché non deside­
rava uscire dal suo rifugio. Studiò però attentamente il
bosco e scoprì altri di quei tumuli ricoperti di pietre e si
riservò di avvertirne più tardi chi di dovere. Gli ornamenti
e le armi della prima tomba andarono ad unirsi alle biz­
zarrie del suo romitaggio.
In questo modo sperimentò i conforti e la distrazione
che il regno vegetale può offrire a chi è abbandonato,
e apprese che la solitudine è scuola benedetta per chiun­
que non sia di indole vacua e volgare.
Era molto svelto a nascondersi appena il cimatore saliva
al vigneto con una gran comitiva, alla quale offrire l’ospi­
talità della casina facendola poi scorrazzare allegramente
nei pascoli circostanti. Specialmente le allegre signore
cercavano di vedere il misterioso eremita tanto abile e
che nella libertà del sole e dell’aria di montagna era anche
diventato un bel ragazzo abbronzato. Parve d’un tratto
che valesse la pena di non permettere al fuggiasco di sot­
trarsi del tutto al potere dei loro occhi. Di quando in
quando una più ardita spingeva da sola le sue passeggiate
sino a quell’altura e s’aggirava come per caso nei pressi
della casupola. Ma Wilhelm era ormai trasformato: inve­
ce di abbassare gli occhi e di innamorarsene in segreto,
guardava le pellegrine con calma e con una lieve aria di
378 LA GENTE DI SELDWYLA

scherno, proseguendo nelle sue faccende senza la minima


tentazione. Anche questo era un miracolo nuovo che au­
mentò le chiacchiere della città sul suo conto.
Il cimatore era soddisfatto del suo podere. Giù al piano,
dove possedeva pure un po’ di terra, aveva costruito
un’ampia stalla e un fienile e ci teneva il bestiame, in­
torno al cui allevamento e commercio Wilhelm gli dava
consigli molto assennati. Anche il doppio raccolto del fie­
no fu da lui messo felicemente al coperto e la vendem­
mia che seguì dimostrò che le viti erano state ottimamente
curate.
Quando il cimatore fece i suoi conti, constatò che, se le
cose fossero continuate cosi, sarebbe stato bene a posto
per l’avvenire, e invece di prenderci un gusto fugace,
come era uso del luogo, decise di insistere con serietà,
cercando di giungere a buon fine. Benché egli fosse un
allegro cimatore, celava in se stesso una buona disposi­
zione, venutagli chissà di dove, così che pose attenzione al
buon volere, al buon senso e alla perseveranza di Wilhelm,
soprattutto quando vide che il maestrino innamorato e
sentimentale aveva messo fuori quelle virtù all’improv­
viso, quasi le avesse trovate per la strada. Quel che sa fare
un altro, riuscirà a me pure, pensò, e a quel modo, per
puntiglio di vanità, divenne accurato e vigile. Si alzò di
buon mattino e si dedicò con ordine ai suoi affari. Invece
di abbandonare l’azienda nelle mani degli operai, vi ac­
cudì in persona, affrettò il lavoro che procedette rapido,
e acquistò così anche tempo per la sua azienda agricola.
Abbreviò sempre più le soste nelle adunanze e nelle oste­
rie, dove stavano i burloni, e si avvezzò ad alzarsi e a con­
gedarsi in qualunque momento, ma senza diventare un
cosiddetto peso massimo. Osservò che la vera allegria vie­
ne a lavoro terminato, e che chi resta sempre nell’atmo­
sfera dell’osteria e in quelle consuetudini, diventa alla
fine uno zoticone, che il borghesuccio dalla vita sregolata
non vai certo di più di quello morigerato, e che in genere
amici avvezzi a vedersi più volte al giorno finiscono per
scambiare solo scipitaggini. La sua conversione incontrò
tuttavia grandi difficoltà, ed egli dovette fare i più eroici
LETTERE D’AMORE SMARRITE 379
sforzi per non ricadere. Quando però la tentazione o le
chiacchiere erano troppo forti, lasciava la città e si rifu­
giava da Wilhelm, per il quale aveva preso affezione e che
aveva fatto suo confidente. Da ciò Wilhelm fu a sua volta
spinto a non affievolirsi nelle sue lodevoli abitudini. Ma il
diavolo cercò di nuovo di seminar zizzania ! La moglie
del cimatore non voleva lasciar la vita solita e rianno­
dava di continuo i rapporti con i fannulloni e i burloni.
Quando il marito narrò all’eremita le sue difficoltà, que­
sti stette un poco sopra pensiero, poi gli consigliò di rasare
i capelli alla sua donna, in modo che per un anno non
potesse uscir di casa. Egli si considerava ormai gran ne­
mico delle donne ed era contento di far fare penitenza ad
una. Il cimatore gli spiegò che non era possibile, i capelli
di sua moglie eran troppo belli, formavano in certo modo,
dato che per il resto essa poco valeva, un elemento im­
portante del suo inventario. Allora Wilhelm ci ripensò e
consigliò di affidare alla moglie lo smercio del latte, la­
sciandole una parte del profitto. A quel modo si sarebbe
svegliata la sua cupidigia, essa non avrebbe mancato di
mischiar acqua al latte, si sarebbe così inimicata mezza
città, finendo in un benefico isolamento. Questo progetto
fu trovato abbastanza buono e tale si mostrò anche al­
l’attuazione. La donna si compiacque del guadagno e fu
inoltre costretta a casa la sera per sorvegliare la mungi­
tura e badare che non le venisse danno.
Nel frattempo era giunto l’autunno e Wilhelm non
aveva altro lavoro fuorché badare alle bestie mandate al
pascolo. Non volle rinunciare a quell’umile ufficio e volle
trascorrere almeno un autunno solo sull’alpe con la sua bel­
la mandria. Ma proprio questo eccesso, giacché egli non
aveva che il compito di un qualunque pastorello, non gli
fece buon pro, lo privò anzi d’un tratto della libertà e
della serenità che si era conquistate col lavoro. Mentre
infatti stava sui colli soleggiati e fra il suono delle campane
delle sue mucche guardava la città distesa ai suoi piedi
nel dorato vapore dell’autunno, l’immagine di Gritli gli
riapparve sempre più distinta, quasi a conferma del vec­
chio detto che l’ozio è padre dei vizi ! In fondo era una
38ο LA GENTE DI SELDWYLA

faccenda non giunta a soluzione, destinata, al pari delle


gambe amputate, a dolere ad ogni mutamento di tempo
o di stagione. Ogni minimo residuo di speranza in una
felicità perduta rinnova mille sofferenze, appena l’animo
cade nell’ozio, e permette al sole di infiltrarvisi.
Un giorno, mentre dalle valli giungeva lo scampanio
del mezzogiorno, Wilhelm s’avviava verso la casina per
preparare il suo semplice pasto, quando scoprì all’im­
provviso una graziosa figura di donna in piedi all’ombra
del tetto, con lo sguardo rivolto lontano. A circa duecento
passi gli parve di riconoscere Gritli e, con intenso terrore,
si fermò chiedendosi: “Che vuole mai qui? Che fa qui?”.
Si nascose dietro un pero selvatico e per cinque minuti
almeno non osò volger lo sguardo da quella parte. Quando
infine trovò il coraggio di farlo, la donna si era voltata e
guardava attraverso la finestra nell’interno della casina
e sembrava osservare con attenzione la stanza. Si pose
poi a sedere sul gradino più alto, trasse di tasca, a quel
che parve, un panino o qualcosa di simile e cominciò a
mangiare : non sembrava probabile che volesse andarsene
tanto presto. Wilhelm fece dietrofront e, poiché la sua di­
mora era sotto quella sorveglianza, tornò alla sua mandria
senza voltarsi e senza aver mangiato. Rimase fuori in
grande eccitamento sino a sera, ma poi la fame lo fece
scendere; s’accostò con prudenza al suo romitaggio e
trovò che la via era libera. L’angelo dalla spada fiam­
meggiante era partito dalla soglia. Wilhelm osservò ogni
cosa con attenzione, la finestra e la scala, e trovò che
tutto era come prima, placido e innocente. Ma la sua
pace era perduta, benché neppure sapesse con certezza
se era stata proprio Gritli.
Senza volerselo confessare, da quel giorno si vestì con
maggior cura, così da aver quasi un aspetto troppo ele­
gante per un mandriano, e non di rado s’avvicinava cauto
alla casetta, ma l’apparizione non si ripete. In compenso
tutta la montagna si popolò di quell’immagine, che ad
ogni momento gli si presentava e lo guardava attraverso
la finestrella dai vetri tondi: gli parve insopportabile
viverle tanto vicino, ma d’altra parte non avrebbe voluto
LETTERE D’AMORE SMARRITE 381

allontanarsene, giacché la circostanza che essa era ormai


libera e sola accresceva il disordine dei suoi pensieri. Ma
alla fine riuscì a padroneggiarsi e a ritrovare la propria
energia.
Al cadere della prima neve, la vita da pastore finì; il
cimatore avrebbe voluto prendersi in casa Wilhelm. Ma
questi si schermì e lo pregò di lasciarlo in montagna. Il
padrone non volle ostacolarlo in quel capriccio; gli mandò
su una stufetta e gli procurò vario lavoro per sé e per altri.
Wilhelm comprò col suo salario alcuni libri, che il pa­
drone gli fece venire perché curasse le sue facoltà intel­
lettuali, e così rimase ben presto sepolto tra la neve, più
solitario che mai.
In realtà solitario soltanto come lo può essere un ere­
mita autentico, al quale non manca una svariata affluenza
di fedeli. Anche a Wilhelm toccò una bizzarra clientela.
I contadini della regione, anche a parecchie ore di distan­
za, parlavano di lui come di un mezzo sapiente e mezzo
profeta, il che derivava soprattutto dal suo armeggiare nel
bosco e dal singolare adornamento della sua stanza. Ap­
pena i contadini credono di scoprire un simile santo, che,
còlto da pentimento per qualche misterioso errore, cerca
di salvarsi per vie eccezionali, rifugiandosi nella solitudine
e conducendo vita inconsueta, essi sentono la fantasia
eccitarsi e attribuiscono a queiroriginale idee e facoltà
speciali, che essi sentono l’irresistibile bisogno di sfrut­
tare, proprio in contrasto con la gente molto illuminata
di città, la quale chiede invece consiglio a chi non ha
mai deviato dall’aurea via di mezzo e non ha mai pas­
sato la misura.
Venne prima una povera vedova con un figliolo discolo
che a scuola non voleva studiare e combinava mille bi­
richinate, e gli chiese consiglio, amaramente lagnandosi
in presenza del ragazzo. Wilhelm parlò col peccatore
gentilmente, chiedendogli perché mai facesse certe cose
e non ne facesse certe altre, e lo esortò a correggersi as­
sicurandolo che si sarebbe trovato meglio. La lunga pas­
seggiata, il solenne atto d’accusa materno, l’arredo strava­
gante della casina del profeta e le sue parole benigne e
382 LA GENTE DI SELDWYLA

austere fecero tale impressione al fanciullo, che in realtà


si corresse e la vedova andò diffondendo la gloria di
Wilhelm.
Giunse poco dopo un’altra donna a lagnarsi di una
vicina maligna, poi un vecchio contadino che voleva li­
berarsi dall’annusar tabacco ritenendolo peccato; Wil­
helm lo incoraggiò a fiutar pure, non essendo peccato, e
quegli lodò e magnificò il consigliere ovunque andava.
Alla fine non passò giorno senza una simile visita e a lui
si rivelarono tutte le magagne morali e domestiche. Veni­
vano soprattutto ragazze e donne per farsi scrivere lettere
segrete, cui attribuivano particolare efficacia, e compar­
vero persino dei superstiziosi ai quali avrebbe dovuto far
ritrovare oggetti rubati o perduti, oppure suggerire far­
machi misteriosi contro mali fisici o addirittura fare pro-
nostici. La cosa finì per diventare tediosa e preoccupante,
ed egli cercò di liberarsi degli importuni con scherzi o
con parole brusche. Ma si disse allora più che mai che
aveva i suoi capricci e non accontentava ognuno, e di
questo fu lodato. Più che altro gli piaceva occuparsi dei
bambini che non riuscivano a far progressi a scuola, e che
venivano ripetutamente acompagnati da lui, sin che tro­
vavano poi la strada da soli. A questi si dedicava affet­
tuosamente, lieto di averne spesso attorno uno o pa­
recchi. Riusciva quasi sempre a rimetterli in carreggiata,
conquistandosi così gratitudine e rispetto e un gran séguito
devoto tra i piccoli che talvolta, nelle domeniche di bel
tempo, si recavano in massa a trovarlo portandogli regali
puerili, per esempio una mela ciascuno, cosicché tutte as­
sieme riempivano un cestino, o anche dieci noci a testa,
così che alla fine ne riempivano un cassetto. Li faceva poi
cantare in coro e li accompagnava per un tratto sulla via
del ritorno.
La bella Griffi udiva spesso raccontare tali imprese e
molto se ne interessava, senza tuttavia darlo a vedere.
Era curiosissima e desiderava vivamente poter vedere
con i propri occhi la sua dimora e sentirlo parlare. Quan­
do la venne a trovare un’amica fidata di un’altra città,
per aiutarla a passare il tempo, le due donne decisero di re-
LETTERE D’AMORE SMARRITE 383

carsi dall’eremita. Si travestirono da contadinelle, si scu­


rirono la pelle con arte e ravvolsero il capo in ampie
pezzuole. Così camuffate si posero in via in una chiara
mattina invernale e salirono la montagna che spiccava
candida sull’azzurro del cielo. Giunte di fronte alla ca­
setta del vigneto, si fermarono ad osservarla curiose e
stupite. Tutto scintillava come fosse d’argento e di cri­
stallo. Dal tetto spiovente scendevano grossi ghiaccioli
appuntiti, lunghi talvolta quasi sino a terra. La bande­
ruola sul tetto, gli ornamenti in ferro battuto della balau­
strata, ancora del Settecento, come pure i rami del capri­
foglio, tutto era ricoperto di brina e tutto era illuminato
dal rifrangersi dei raggi solari nei sette colori dell’iride.
Sotto la sporgenza del tetto, sulle lastre di pietra, c’era una
gran quantità di uccelli grandi e piccini intenti a beccare
il loro cibo e a saltellare allegramente : erano tanto dome­
stici che appena fecero posto ai piedi delle visitatrici, an­
dando l’un dopo l’altro a posarsi sulla balaustrata o sul da­
vanzale della finestrella. Ciascuna delle due donne invitò
l’altra con un colpetto di gomito a picchiare alla porta:
una tossicchiò, l’altra parlottò, ma nessuna voleva bussare.
Alla fine però l’amica di Gritli si fece animo e picchiò
addirittura con l’energia di un contadino, aprendo sen­
z’altro la porta e facendosi avanti con goffa andatura.
Wilhelm era intento a osservare un librone con disegni
di piante : non fu molto contento di essere disturbato di
buon’ora, e tanto meno scorgendo due belle donnine.
Ma Ännchen, l’amica, snocciolò subito una tiritera, mi­
schiandovi alla rinfusa una quantità di domande e di
preghiere. Voleva che le correggesse un conto di paglia
venduta in cambio di una mucca pregna, poi trasse di
tasca un cartoccio pieno di piombo fuso e ne chiese l’inter­
pretazione ; poi gli domandò l’avvenire dalla lettura della
mano, poi quando mai fosse meglio seminare l’avena, e
se fosse lecito promettersi in nozze due volte in un armo,
e se lui fosse capace di riparare un macinino da caffè
stregato nel quale si era ficcato un demonietto. Alla fine
gli porse un fascetto di penne di pollo, d’oca e di anitra,
pregandolo di temperargliele dietro compenso, che sa-
384 LA GENTE DI SELDWYLA

rebbe venuta a riprenderle, giacché lei aveva la passione


dello scrivere, ma era senza penne, e alla fine volle sa­
pere se l’anno prossimo sarebbe stato favorevole al ma­
trimonio per una contadina giovane e illibata. Tutto
questo, paglia, mucca, avena, piombo, macinino, diavo­
letto, penne e matrimonio, lo buttò in faccia all’interlo­
cutore con tale rapida confusione, che nessuno avrebbe
potuto risponderle. Appena Wilhelm apriva bocca, lo
contraddiceva spiegando che non aveva voluto dir quello,
ma quest’altro, recitando insomma una scenetta grazio­
sissima. Gritli nel frattempo se ne stette lì con le mani
sotto il grembiule, non movendosi per la paura di tra­
dirsi. Guardava di soppiatto la strana dimora di Wilhelm,
che dentro aveva un aspetto ancor più fiabesco che di
fuori. Le pareti erano rivestite di corteccia muscosa, di
ammoniti, di nidi d’uccelli, di quarzi lucenti, mentre dal
soffitto pendevano rami e radici d’albero dalle forme biz­
zarre e ogni sorta di frutti del bosco, come pigne o mazzi
di bacche rosse o nere. Le finestre erano splendidamente
ghiacciate: ciascuno dei dischi tondi di vetro mostrava
un disegno diverso : un fiore o un paesaggio o uno slancia­
to gruppo di alberi o una stella o un damasco d’argento :
vi eran forse cento di quei dischetti e non uno era uguale
all’altro, proprio come fossero opera di un architetto go­
tico che costruisca un chiostro e per le cento ogive trovi
sempre nuovi disegni.
Tutto questo piacque oltre misura alla donna che Vig-
gi e Käthchen avevano calunniato come natura piatta e
prosaica, ma essa lanciava di tanto in tanto anche un’oc­
chiata all’abitatore della casetta, che non le piaceva me­
no. Indossava un pellicciotto di volpe rossiccia che il ci­
matore gli aveva dato per l’inverno ; i capelli scuri erano
divenuti folti e lunghi, sul labbro superiore erano cre­
sciuti dei baffetti bruni e tutta la persona aveva acquisito
maniere spigliate e sicure. Una lunga sciarpa rossa che
portava sciolta attorno al collo aumentava l’aria franca del
suo aspetto, che sarebbe però certo stata meno ardita se
egli avesse saputo chi gli stava di fronte.
Ma Ännchen recitava così bene la sua parte, che non
LETTERE D’AMORE SMARRITE 385

gli sorsero sospetti, e credette di aver a che fare con una


mezza pazza, accompagnata da un’amica timida e un
po’ sciocca. Quando la storia cominciò a seccarlo troppo,
interruppe la chiacchierona con violenza dicendole:
— Il vostro conto della paglia ammonta a tanto; tutte
le altre son sciocchezze che farete bene ad andare a rac­
contare dove volete, cara la mia donna !
— Davvero? — mormorò Ännchen con un tono deli­
zioso, e Wilhelm di rimando:
— Davvero ! Andatevene, in nome di Dio e lasciatemi
in pace !
— Ma che modi ! — rispose Ännchen — Davvero dav­
vero . . . Bene ! Tante grazie, signor stregone ! E non pren­
detevela tanto ! Che Dio vi protegga e non arrabbiatevi !
Venite, Barbel!
Ma giunta sulla porta, si volse ancora indietro e gridò:
— Già, quasi dimenticavo di farvi dei saluti ! O ve li ho
già fatti?
— No. E di chi?
— Ah ! Di una bella donnina, che voi dovete conoscer
meglio di me, perché io non saprei dirvene il nome.
— Non so nulla e non conosco signore !
— Ma pensateci bene: abita lungo le mura, non è
troppo grande, ma di bella figura, e ha una testa tutta
ricci bruni come un can barbone! Già, Barbel e io le
abbiamo portato delle uova e le abbiamo detto che vo­
levamo venir quassù a farci legger la fortuna, e fu così
che lei ci incaricò dei suoi saluti!
Wilhelm si fece di fiamma ed esclamò con furia:
— Non so di chi parlate ! — e si immerse di colpo nel
suo libro, senza degnar più le donne di uno sguardo. Que­
ste se ne andarono, facendo gran chiasso sulla scaletta con
i loro scarponi.
Appena un poco lontano, Ännchen esclamò :
— Sai, se io non avessi già marito, ti ruberei proprio
quello lì ! È un ragazzo simpatico, benché faccia lo zotico !
— Ah ! — sospirò Gritli — mi piace anche troppo,
ma non mi fido di lui ! Malgrado l’aria seria che ora ha
preso, potrebbe tornare facilmente ad essere lo scapato
386 LA GENTE Dl SELDWYLA

sentimentale di una volta, pronto a perdersi con tutte, e


allora cascherei dalla padella nella brace. Bisognerebbe
metterlo in qualche modo alla prova!
— Mettiamocelo pure ! — esclamò l’amica. Discus­
sero la via da tenere e Ännchen promise di tentare la
cosa appena passato l’inverno. Ma Gritli tornò a sospi­
rare:
— Ahimè ! Manca ancora tanto tempo ... e per la
primavera dovrebbe esser tutto fatto !
Ännchen replicò ridendo:
— In questo non posso aiutarti, carissima ! Ora debbo
prima tornare da mio marito, né del resto avrei voglia di
risalire spesso con questa neve sino alla dimora del sel­
vaggio, per bella che sia, così guarnita di ghiaccio!
Abbi dunque pazienza ! Ma appena fioriranno le viole, ri­
tornerò e metterò alla prova il tuo merlotto di montagna,
però a tuo rischio e pericolo !
Gritli si rassegnò : passò il resto dell’inverno molto riti­
rata, ma le pareva che la neve non finisse mai e talvolta
era incerta se far quella prova o condurre invece la cosa a
termine da sola. Alla fine venne il buon vento del sud a
riversare sulla montagna e sulle valli i suoi tiepidi acquaz­
zoni. Le masse nevose si sciolsero in fuga frettolosa e l’ac­
qua sprizzò ridendo, chiacchierando e cantando con mille
lingue giù per tutte le chine. Gritli ascoltava quelle voci
quasi fossero scampanio di nozze, e appena il prato vicino
fu asciutto, corse in cerca di viole. Non ne trovò ancora,
ma in compenso alcuni bucaneve, e al suo ritorno l’amica
era arrivata con una grossa valigia in cui c’erano tutti gli
strumenti per la loro impresa.
Era lo sfarzoso costume festivo di una donna di cam­
pagna, con parecchi capi di ricambio ; tutto era nuovo e
grazioso, quasi prezioso, anzi. La prima domenica, di
buon mattino, Ännchen si vestì con gran cura, aiutata da
Gritli, e fece risplendere con calcolo ardito tutta la sua
bellezza, che non era poca. Sopra una sottanella corta, di
panno scarlatto, ne indossò una nera della stessa lun­
ghezza, in modo che il rosso apparisse visibile soltanto
ad ogni rapida mossa, facendo ancor più graziosamente
LETTERE D’AMORE SMARRITE 387

spiccare il candore delle calze. Dorso, spalle e braccia


tondeggianti erano ben modellate da una giacchettina di
seta attillata, che lasciava libero il petto, stretto a sua
volta in un busto di velluto nero trattenuto da nastri ana­
loghi infilati in ganci d’argento. Sulla fronte fece cadere
alcuni riccioli civettuoli alla moda contadinesca, mentre
il resto dei capelli scendeva quasi fino a terra in grosse
trecce, legate ai capi da nodi di velluto ornati di pizzo.
Man mano che Gritli aiutava l’amica allegrissima a in­
dossare un indumento, si faceva sempre più seria e preoc­
cupata. Quando alla fine l’amica baldanzosa e tutta or­
nata si specchiò, ben conscia della sua bellezza, Gritli
si pentì della trovata e sollevò mille difficoltà. Ma
Ännchen le rise in faccia esclamando:
— Quel che si vuol fare dev’essere fatto bene ! Come
indurre l’eremita in tentazione con uno spaventapasseri?
I santi di quella sorta hanno sempre avuto gusto fine!
Gritli disse che almeno avrebbe dovuto metter calze di
lana nera al posto di quelle di filo bianco, visto che era
ancora umido e freddo!
— Ho le scarpe robuste ! — disse Ännchen — e i pol­
pacci delle donne non prendono mai il raffreddore, lo sai
bene, tesoro!
— In ogni caso devi proteggere meglio il collo ! — disse
supplichevolmente la poverina; ma l’altra incorreggibile
rispose :
— Hai proprio ragione ! Dammi quel fazzolettino di
seta : lo potrò mettere in tasca appena sarò al sole caldo !
Aprì poi la finestra e guardò fuori nel mattino festivo :
regnava ancora il silenzio e pareva fosse il momento
adatto per scappar via. Gritli la trattenne quanto le fu
possibile con la colazione, offrendole tutte le sue leccornie
preferite, pur di rimandare la partenza, ma il momento
di questa venne, e quando Ännchen se ne andò, la pove­
retta scoppiò in lagrime. L’amica allora tornò sui suoi
passi con grandi occhi stupiti e le disse seria seria:
— Senti, pazzerella ! Se davvero credi che non ci sia da
fidarsi, rinunciamo addirittura ! Deciditi ! Io faccio pre­
sto a mutar d’abiti !
388 LA GENTE DI SELDWYLA

Gridi piangeva sempre più forte, ma seppe lottare con


se stessa ed esclamò risoluta:
— No ! Fa’ pure e fa’ quel che credi sia bene ! È neces­
sario !
La signora Ännchen s’avviò dunque di buon animo
nel paesaggio primaverile e immerse allegramente la sua
figura in quell’aria lucente. Camminando agitava le sot-
tanelle facendo balenare ad ogni passo la balza scarlatta
della sottana; recava in braccio una ciambella appena
sfornata e una lavagna ravvolta in una stoffa a quadra­
tini biancazzurri. Così giunse alla casina del vigneto,
bussò con discreta energia alla porta ed entrò con buone
maniere. Wilhelm non la riconobbe subito, ma fu colpito
dalla bella apparizione. Stava appunto preparandosi il
caffè della domenica, che spandeva il suo gradevole pro­
fumo nella casa. Ännchen fece un inchino grazioso e disse :
— Arrivo proprio a tempo ! Avete temperato le mie
penne, signor stregone? Son venuta a prenderle e ho qui
un piccolo dono per il vostro disturbo, solo per dimo­
strarvi la mia buona volontà!
Così dicendo aprì il fagottino della ciambella e la pose
sulla tavola.
— Potete riprendervi il regalo ! — replicò Wilhelm —
perché le vostre non erano penne da scrivere e io le ho
gettate via!
— Davvero? Allora bisognerà che compri penne in
città, ma non importa, vi lascio egualmente la ciambella
e ne mangerò un pezzettino, se mi offrite una tazza di
caffè ! Lo farete, non è vero? — Sedette senza compli­
menti alla tavola e cominciò a tagliare la ciambella.
Wilhelm non sapeva come comportarsi: aveva l’im­
pressione che uno spirito pericoloso si fosse introdotto
nella sua tranquilla dimora, e il sole primaverile scintil­
lava attraverso le finestrelle, illuminando la bella conta­
dina. Si rassegnò, andò a prendere una delle tazze di por­
cellana che il cimatore teneva riposte, e divise equamente
il suo caffè con l’intrusa.
— Sapete fare un caffè davvero eccellente, signor stre­
gone ! — gli disse — Dove avete mai imparato?
LETTERE D’AMORE SMARRITE 389

— Son contento che vi piaccia, — rispose Wilhelm —


ma vi prego di non chiamarmi sempre stregone, perché
io purtroppo non so fare alcuna stregoneria !
— No? Io l’avevo creduto invece, — disse Ännchen
con un sorriso, lanciandogli un’occhiatina scintillante —
o almeno con me vi è già un poco riuscito, benché non
siate certo il più gentile dei cavalieri ! Ma un bell’uomo
lo siete! Non vi annoiate, così sempre solo?
— Par di no ! — borbottò Wilhelm arrossendo — altri­
menti andrei fra la gente; ma voi sembrate di buon umo­
re, bella donna !
— Bella donna? Guarda, guarda... Va già meglio ! Do­
vreste andare ancora un pochino a scuola e credo che ar­
rivereste a un buon profitto ! Ma purtroppo debbo andare
a scuola io stessa. Ho un altro desiderio, prima che me ne
dimentichi : è anzi la ragione principale della mia venuta,
se permettete ! Il conto per la paglia, che mi avete fatto
l’ultima volta in un batter d’occhio, mi ha reso buoni ser­
vigi. Io ho un vasto podere e non ho marito che tenga
ordine e faccia i conti ; da bambina non sono mai stata at­
tenta e non ho imparato molto ; in genere sono una buona
a nulla ! Ora mi tocca di farne la penitenza, perché non so
mai a che punto sono e se vengo ingannata o meno !
Bene ! mi son detta: tu non sei così vecchia a venticinque
o ventisei anni da non poter imparare, va’ dunque dal
signor stregone e pregalo che ti insegni come si fanno certi
conteggi. Se ben ricompensato, lo farà certamente, e tu
non avrai paura di dargli un sacco di patate o un quarto
di lardo, se arriva a farti prender confidenza con quei be­
nedetti numeri. Ecco : ho portato con me una lavagna e
un gessetto . . . Già, dove è andato a finire il gesso?
Depose la lavagna sulla tavola e cacciò la mano nella
tasca della gonna frugandovi impaziente. Ne cavò una
manata di roba, gettandola sulla tavola: un temperino
miserello, un ditale di ferro, alcuni soldoni, briciole di
pane, un fischietto per i cani, una pera secca e un pez­
zettino di gesso. Ficcò in bocca la pera ed esclamò ma­
sticando ancora:
— Ecco quel gesso del diavolo ! Ora si comincia ! —
39° LA GENTE DI SELDWYLA

E intanto gli si spinse vicino con la sedia, guardandolo


con una faccia piena di attesa.
— Veramente io non sono avvezzo a scolare così gran­
di, — disse Wilhelm imbarazzato, scostandosi un poco —
ma se volete stare attenta, vedrò quel che si può fare. —
Cominciò subito a spiegare alla donna le quattro opera­
zioni, e la donna finse di sentire cose nuove di zecca. Gli si
avvicinava sempre più, ad ogni momento gli toglieva il
gesso di mano, gli confondeva i calcoli e faceva mille buf­
fonate, interrompendosi di tanto in tanto per sbarrargli gli
occhi in faccia. Egli la guardava allora stupito e con una
certa compiacenza, senza tuttavia perder le staffe. Anche
quando era china sulla lavagna, osservava tranquillo la
bella testolina, come si guarderebbe una pianta nobile.
Però qualche volta ammutoliva all’improvviso, dimenti­
cando di risponderle. Di colpo essa si alzò dicendo:
— Per oggi basta, altrimenti divento troppo sapiente !
Tornerò dopodomani verso sera, se avete tempo, e che
Dio vi guardi, signore!
Senza aspettare risposta s’allontanò inaspettatamente
come era arrivata.
Wilhelm la seguì con lo sguardo, senza alzarsi dal­
la sedia. Poi andò rimuginando i suoi pensieri e con­
cluse :
— Alla fine dovrò andarmene anche di qui ! Mi sembra
che quella donna non sia del tutto a posto !
La signora Ànnchen si compiaceva tanto del suo co­
stume campagnolo, che prolungò la passeggiata per sen­
tieri solitari sino alle campane del mezzogiorno. Osservava
ora un campo appena seminato, ora il corso d’un ruscel­
letto, non pensando però né al campo né all’acqua, ma
soltanto meditando tra sé sino a che punto le convenisse
spingere la prova con quel giovanotto. Credeva di avere
il successo in suo potere, ed esitava soltanto se trame
dapprima un poco di sollazzo per sé, oppure se agire da
donna e amica leale. L’eremita le sembrava fatto apposta
per un comodo capriccio e per una commedia a sue spe­
se. Se Wilhelm si lasciava allettare, l’amica evitava un
marito poco fedele e le si recava un servizio prezioso,
LETTERE D’AMORE SMARRITE 39I

mentre egli trovava giusto castigo in un allegro ingannoi


Ännchen era accanto a un minuscolo laghetto formato
da un torrentello e vi rimirava la propria immagine. Le
pareva di essere quasi troppo bella per il suo indifferente
consorte, ma d’altra parte l’avventura non le appariva
priva di rischi: avrebbe potuto costarle cara e buttare
all’aria la sua placida tranquillità; inoltre l’amica ben si
meritava una buona sorte, ed essa sapeva che Gritli sa­
rebbe poi riuscita a tener saldo quel merlotto, se le riu­
sciva di acchiapparlo ancora illeso. Le sue considerazioni
si tenevano quindi in equilibrio: fini per affidare la de­
cisione a una foglia secca che nuotava lenta alla super­
ficie del piccolo specchio d’acqua cercando una via. Se
fosse andata a finire sulla riva destra, lei avrebbe servito
l’amica, se sulla sinistra, avrebbe pensato solo a se stessa !
Ma la foglia si mise d’un tratto a scendere rapida verso la
foce e Ännchen decise di lasciare che la faccenda se­
guisse il suo corso. In quel momento appunto risuonò il
mezzogiorno e la giovane donna, non vista da alcun oc­
chio umano, s’awiò verso la porta posteriore delle mura:
era l’ora infatti in cui nel mondo antico dormiva il gran
Pan e nel mondo moderno gli abitanti di Seldwyla, al
gran completo, sedevano con tutta la famiglia attorno al­
l’arrosto domenicale, lasciando le strade più deserte che
nel buio della mezzanotte.
Gli occhi di Gritli parvero divorare con angosciosa im­
pazienza l’amica baldanzosa che entrava ridendo nella
sua stanza. Ma quella subito le gettò le braccia al collo e
la baciò esclamando:
— Vieni ! A star col tuo amico m’è venuta una gran vo­
glia di distribuir baci!
— Oh ! Non essere così cattiva ! Non avrai commesso
pazzie! Come è andata? Come si è comportato?
— Sta’ tranquilla: si è comportato come un pezzo di
legno ! — replicò Ännchen, al che Gritli esclamò:
— Dio sia lodato ! Smettiamola allora !
— Smetterla? Questa sarebbe bella ! — interruppe
Ännchen — Allora ne sapremmo meno di prima ! Lui
era un pezzo di legno, ma adesso comincia il bello. Ora
392 LA GENTE DI SELDWYLA

potrebbe arrivare il peggio, ma anche però voltarsi tutto


in bene ! Insomma : si avrà quel che si meriterà !
Ancora una volta Gritli si fece animo e disse:
— Hai ragione: bisogna andare sino in fondo ! Se sfug­
ge alle tue armi diaboliche, si è proprio corretto e sarà
tanto più degno di premio!
La tentatrice riprese dunque il cammino il giorno se­
guente, e precisamente sul calar del sole. Indossava lo
stesso costume, con qualche modificazione e maggior sem­
plicità, come è uso delle donne di campagna nei giorni
feriali quando devono mettersi in viaggio. Ma si era tut­
tavia preoccupata che tutto le stesse bene. I capelli però
li aveva curiosamente acconciati all’uso cittadino e co­
perti con un fazzoletto.
Wilhelm era appositamente uscito, col proposito di
far fare un’inutile gita alla bella originale, se davvero essa
fosse tornata da lui. Ma quando scese la sera, affrettò il
passo oltre il necessario, rientrando a casa, sia per cu­
riosità che per bisogno di svagarsi un poco con l’allegra
donna. La incontrò proprio sulla porta, alla quale essa
aveva inutilmente bussato.
— Ah, eccovi ! — disse con dolcezza — avevo già cre­
duto che mi aveste lasciato in asso! Già, son tornata,
se permettete: di giorno non mi fu possibile esser Ubera.
Wilhelm accese il lume e disse:
— Come va? Avete ritenuto qualcosa di quanto vi in­
segnai l’ultima volta, o avete già tutto dimenticato?
— Non lo so bene neppure io, — replicò lei mode­
stamente, e parve essere di umore dolce e mite, così che il
maestro non ci si raccapezzava.
Quando cominciarono a far conteggi, la donna si fece
taciturna e distratta, e nella sua distrazione non soltanto
cessò dallo sbagliare, ma, come per caso, fece i calcoli
sempre giusti e ne diede anche la controprova da sola.
D’un tratto si rivelò abile a far conteggi quanto il maestro,
ma pareva non rendersene conto. Wilhelm per un poco
stette a guardarla, mentre si sentiva invaso da una strana
inquietudine. Finalmente osservò che manine bianche
avesse mai quella campagnola e s’accorse che i suoi ca-
LETTERE D’AMORE SMARRITE 393

pelli intrecciati con arte gli esalavano proprio sotto il naso


uno squisito profumo.
Di botto le disse:
— Lei non è una contadina ! Di dove viene? E che cosa
cerca qui?
Ännchen depose spaventata il gesso, lo guardò intimi­
dita, poi abbassò gli occhi incrociando le mani. Regnava
un gran silenzio. Alla fine cominciò con un lieve sospiro
e a bassa voce:
— Sono una giovane vedova, che per la noia ha già
commesso più d’una sciocchezza. Poco tempo fa combinai
con un’amica di venire a vedere il saggio eremita di cui
tanto si discorreva. Avete veduto come abbiamo attuato
il nostro proposito, ma la curiosità non mi ha fatto buon
pro !
— Perché no? — chiese Wilhelm ridendo, benché co­
minciasse a sentirsi soffocare.
Ella continuò ancora più piano:
— Purtroppo mi sono innamorata di lei. . . — e cosi
dicendo gli alzò in volto gli occhi sorridenti. Non era
uno sguardo schietto e spontaneo, ma piuttosto uno
sguardo fabbricato, un brillante di vetro, ben lo sentì
Wilhelm; tuttavia era ardente abbastanza per ridestare in
lui una serie di sentimenti e di pensieri che reciproca­
mente si attizzarono come lampi.
“Alla fin fine bisogna prendere le donne come gli scor­
pioni : si guarisce dal morso di uno con l’umore che si ot­
tiene schiacciandone un altro ! A che serve spregiare la
dolcezza delle donne, perché esse sono deboli e inganna­
trici? Cogli le rose con prudenza, senza sfiorarne il gambo,
e non ti pungerai ! Bevi il vino e getta il calice, e vivrai in
pace ! Chi procede attraverso il deserto, si disseti alla sor­
gente che incontra, e chi è solo chiami il merlo ! Ecco !
l’una va, l’altra viene, questa è bruna e quella è bionda :
buona è soltanto quella che ti bacia!”.
Non queste espresse parole, ma il loro senso peccami­
noso pervase l’animo di Wilhelm mentre afferrava irre­
soluto ma sorridente la mano di Ännchen. I suoi atti
erano certamente più esitanti dei suoi pensieri, e così ac-
394 LA GENTE DI SELDWYLA

cadde che dopo un minuto non fa lui a tener fra le braccia


la bella, ma lei à tener lui. Stava appunto per imprimergli
un lungo bacio sul volto, quando un’altra ondata di pen­
sieri e di immagini venne a confluire in quell’attimo nel­
l’animo di Wilhelm.
“Questa è dunque la tanto sospirata felicità fra le
braccia di una donna ! Bene, è davvero abbastanza bella
e piacevole. Sia ringraziato Iddio che finalmente ne tengo
stretta una ! Che direbbe Gritli se mi vedesse ora?”.
Ma intanto gli parve di veder Gritli, prima in piedi,
poi seduta sulla scaletta davanti alla casa. “E se lei ti aves­
se davvero cercato? Se ti volesse davvero bene?”. Fu
còlto da grande pietà di lei, rimase atterrito della propria
durezza di cuore; insomma, distratto e svagato da tanti
pensieri, si ritrasse, sottraendo intanto inaspettatamente
la propria bocca al bacio che Ännchen voleva deporvi.
Guardò fuori e sempre più distinta gli apparve la va­
gheggiata figura di Gritli, assisa in silenzio sulla sua so­
glia, quasi lo aspettasse. Poi gli venne un’idea e chiese di
botto ad Ännchen:
— Che intendevate con quel saluto che alla vostra pri­
ma visita mi recaste da un’altra donna? Che cosa fa
quella, come sta?
— Che donna? Che saluto? — chiese Ännchen un po­
co sconcertata e imbarazzata, e dopo le sue più precise
spiegazioni, aggiunse freddamente:
— Ah ! È stato uno scherzo mio ! Non la conosco af­
fatto quella donna ! — La risposta fredda e sdegnosa non
gli piacque e lo offese: istintivamente si liberò dall’ab­
braccio, s’avvicinò alla finestra e l’aprì fissando lo sguar­
do irritato nel buio.
Il cielo stellato dominava la valle, ove le luci di Seld-
wyla splendevano fitte : egli a quella vista dimenticò quel
che v’era nella stanza e i suoi pensieri vagarono laggiù
attorno alle mura. Trasse un profondo sospiro mentre
sotto la sua finestra passava una figura di donna e una
voce gli diceva :
— Buona notte, signor stregone ! — Era Ännchen che
era sgattaiolata fuori della casetta e che s’avviava saitei-
LETTERE D’AMORE SMARRITE 395
landò rapida e ridendo giù per la discesa. Egli fece per
muoversi e una voce interna gli suggerì: “Non lasciartela
sfuggire !”. Tuttavia non si staccò dalla finestra e il suo de­
siderio tormentoso non andò alla falsa contadina, ma giù
nella valle, dove c’era Gritli. Tutti gli spiriti della pas­
sione erano ormai ridesti e s’agitavano come ebbri nel
suo cuore, così che trascorse la notte in un’inquieta in­
sonnia.
“Dobbiamo pensare al rimedio,” esclamò quando
già il sole era alto, destandosi dal breve sonno mattu­
tino “me ne andrò di qui per qualche tempo a cercare
un’altra aria !”. Detto fatto ! Infilò per la seconda volta
la bisaccia, prese un bastone, chiuse porta e finestre e si
mise in cammino per riportare la chiave al cimatore e
chiedergli un congedo.
Un passo lieve e rapido lo destò dallo stato di intonti­
mento in cui aveva fatto ogni cosa. Conosceva quel passo
e per qualche momento stette in ascolto, prima di trovar
il coraggio per alzare lo sguardo. Già il sole mattutino
gettava sulla strada lucida, proprio sotto i suoi occhi,
quasi l’ombra lieve d’un velo e questa aureola nebulosa
circonfondeva due spalle rotonde. Wilhelm si sentì a un
tratto come in un purgatorio, ma, pur nel suo gran turba­
mento, s’accorse che quel ritmico passo rallentava quasi
impercettibilmente. Alla fine alzò gli occhi e scorse vicino
la bella Gridi, che a sua volta arrossì e tenne gli occhi
sorridenti fissi davanti a sé. Ambedue nella confusione si
misero quasi a correre, passandosi accanto, per non in­
contrarsi probabilmente mai più. Ma in quel punto
Wilhelm si tolse il cappello e Gritli ricambiò il saluto
con un rapido inchino. Come tirato da un filo invisibile,
ciascuno dei due si voltò a guardare, si fermò e si avviò con
moti più 0 meno lenti sin che andò a scontrarsi coll’altro
come fanno due pezzetti di legno natanti su uno specchio
d’acqua. Proseguirono senz’altro insieme la via: «Ma
lei sta forse per partire, poiché vedo che ha la bisaccia e il
bastone?» domandò Gritli. Wilhelm replicò che pensava
infatti di andarsene, e quand’essa gli chiese dove e perché,
parlò d’affari, di bel tempo e di cose diverse; e Gritli
39θ LA GENTE DI SELDWYLA

intrecciò alle sue risposte discorsi non meno vuoti, ma


sempre con la più profonda commozione. Camminavano
rapidi, respiravano forte e si gettavano sguardi furtivi:
arrivarono così senza avvedersene a un sentiero nel
profondo del bosco, quando Gridi esclamò:
— Ma dove siamo venuti a finire? È questa la sua
strada?
— La mia? — domandò tutto serio — no certo !
— Benone ! — esclamò Gritli ridendo — allora dovre­
mo vedere di uscir dal bosco!
— Attraversiamo da questa parte ! — disse Wilhelm e
s’awiò per uno stretto viottolo. Dopo poco giunsero ad
una piccola radura circondata da alberi, le cui corone si
intrecciavano altissime. Sotto quei pini silvestri si am­
mucchiavano grandi pietre rossastre, poiché ivi appunto
c’era la tomba del guerriero celta e tutt’attorno il terreno
era costellato dalle candide corolle degli anemoni.
— Com’è bello qui ! — esclamò Gritli — voglio ripo­
sare un poco, perché mi sento stanca! — S’accomodò
sulle pietre e Wilhelm rimase ritto dinanzi a lei.
— Fate che non si svegli colui che dorme lì sotto —
disse, e Gritli gli chiese spaventata a che cosa volesse allu­
dere, al che Wilhelm rispose narrandole la storia della
tomba. Dopo un poco, Gritli osservò:
— Dove sarà mai sepolta sua moglie? Certo non lon­
tano !
— Questo non lo possiamo sapere ! — replicò Wilhelm
ridendo — forse giace su un campo di battaglia della
Gallia, forse su un’altra collina di questa regione, pro­
prio qui accanto, e forse, anche, il guerriero non ha mai
avuto moglie !
Seguì un silenzio tra i due e ciascuno parve profonda­
mente immerso nei suoi pensieri. Gritli s’era tolto il cap­
pellino e mostrava d’un tratto, invece dei riccioli che
avevano ferito il cuore del maestro, una testolina rotonda,
pettinata liscia liscia e lucente. Questo lo sconcertò com­
pletamente, poiché l’inattesa trasformazione gliela fece
apparire più bella che mai. Era inoltre vestita con straor­
dinaria eleganza e grazia, pur nella sua semplicità; tutto
LETTERE D’AMORE SMARRITE 397
era fresco e accurato, nulla era vistoso e ogni cosa susci­
tava però un’impressione gradevole, subordinata tuttavia
alla bella testa fiorente. Si vedeva che quella donna
nelle proprie vesti si sentiva comodamente a casa sua, e
chi ravvicinava non si trovava in una baracca da mercato.
Tutto ciò immerse Wilhelm in profonda melanconia : egli
guardava la bella donna che gli stava di fronte come si
fissa l’azzurra lontananza della primavera, che non si
potrà mai raggiungere.
Dopo che il silenzio fu durato per alcuni minuti, e in­
tanto il petto di Gridi si sollevava inquieto, echeggiò dal
fitto del bosco la voce del cuculo : una volta sola, ma con
un richiamo lungo e distinto. I due si guardarono e
Gridi, senza perdere altro tempo, disse col suo sorriso
gentile :
, — Mi è caro averla incontrata, perché avevo quasi
quasi l’intenzione di venirla a cercare nella sua casina !
Wilhelm le spalancò gli occhi in faccia: quelle parole lo
strapparono al suo oblio, facendogli presente la situazione
in cui si trovava con quella donna. Non riuscì che a bor­
bottare in risposta un laconico:
— Perché? — e temette, arrossendo irritato, una nuo­
va commedia. Ma ella continuò:
— Volevo domandarle se mi serba rancore per quella
storia delle lettere d’amore ...
— Io non le ho mai serbato rancore, — replicò Wil­
helm — bensì soltanto a me stesso, però quel che lei
disse di me al tribunale non fu giusto, e fu anche scono­
scente, giacché io ho avuto cosi grande stima della sua
grazia e della sua bellezza, da non saper far altro che
credere in quel Dio che l’aveva creata per farmene do­
no ... un pensiero certamente vanitoso e stolto !
- Uno splendido rossore illuminò il viso di Gridi.
—Io non fui ingrata — replicò sfilandosi i guanti e
guardandosi la punta delle dita — quando pronunciai
quelle parole . .. pensavo ... — qui si interruppe e Wil­
helm insistette con voce quasi afona:
— Ebbene, che cosa pensava? . . .
. — Io pensavo, — mormorò Gridi abbassando gli oc-
398 LA GENTE DI SELDWYLA

chi — insomma, in cuor mio mi dicevo che in compenso


la mia persona, così come è, avrebbe dovuto un giorno
appartenerle per sempre, quando fosse giunto il suo tem­
po ! Ed ora eccomi qui !
Così dicendo gli porse ambedue le mani e alzò gli occhi
verso di lui. Non fu un’occhiata lampeggiante come quella
che un giorno gli aveva lanciato oltre la siepe, ma ben più
limpida e profonda. Egli le afferrò le mani e la fece alzare,
ma quel gran pascià che nelle sue fantasie aveva dominato
tutta una città di belle donne, al momento buono e con
quell’unica non seppe far altro che andare su e giù per la
radura, sorridendole senza lasciare la sua mano. Alla
fine ripresero il cammino; Wilhelm la precedeva, ma si
voltava di tanto in tanto, per vedere se lo seguiva lungo
lo stretto sentiero, e sempre ne incontrava il sorriso. Ad
un certo punto essa si nascose dietro a un grosso faggio,
così che voltandosi Wilhelm non la scorse più. Incerto e
spaventato, si fermò un attimo, poi, non sentendola né
vedendola, rifece il cammino per circa venti passi, e ad
ogni passo rallentava, sentendo sorgere in sé il cupo ti­
more d’esser stato oggetto di una nuova burla, per invero­
simile che fosse. Egli infatti non riusciva ancora a sentirsi
sicuro nella sua parte di amante felice. Ma ecco che die­
tro il faggio si udì un colpo di tosse scherzosa e, quando
egli accorse, la bella smarrita gli aprì le braccia. Questa
volta finalmente egli l’afferrò e la coprì di baci che di se­
condo in secondo gli riuscivano meglio, mentre lei se ne sta­
va quieta e silenziosa, sentendo che sino a quel momento
aveva saputo ben poco dell’amore.
Dopo che Wilhelm si fu un poco quietato, sedette con
la sua amata sulla grossa radice muschiosa del faggio, le
carezzò le guance e le chiese se non fosse già salita una
volta d’autunno alla sua casetta. «Mi avevi dunque ve­
duto?» replicò lei vivacemente. Egli le raccontò l’av­
ventura e anche, con tutta sincerità, quella con la si­
gnora Ännchen, e le spiegò come soltanto il ricordo di
Gritli seduta sulla scala davanti alla sua porta lo avesse
salvato dalla caduta.
Gritli lo accarezzò a sua volta, lo baciò e disse: «Tu
LETTERE D’AMORE SMARRITE 399

sei proprio uno di quelli giusti, e coi quali nessuna fatica


va perduta ! ».
Al giungere del maggio festeggiarono liete nozze sotto
alberi in fiore. E durante il loro viaggetto il cimatore
cercò nella regione un bel podere che essi al ritorno com­
prarono e nel quale andarono ad abitare. Wilhelm lo am­
ministrò con attività e con oculatezza, accrescendo i suoi
beni, tanto da diventare persona autorevole e saggia,
mentre sua moglie conservò la sua grazia benedetta.
Quando un’ombra di malumore calava sul marito o sor­
geva una piccola disputa, Gritli scioglieva i suoi riccioli e,
se questi non avevano potere sufficiente, tornava a petti­
narli lisci lisci dietro le orecchie, al che Wilhelm sempre
si dava per vinto.
Ebbero dei figli bene educati, i quali a loro volta, quan­
do furono adulti, sposarono giovanette di buona educa­
zione. Anche il cimatore rimase loro unito in amicizia
e si conservò uomo solido; così a poco a poco si venne for­
mando una piccola colonia di benestanti che, senza ri­
nunciare ai sereni piaceri della vita, seppero però tener
la misura ed ebbero prosperità. Venivano chiamati ironi­
camente dai Seldwylesi «i benestanti mezzo allegri»
oppure «i furbacchioni», ma erano stimati, anche perché
tornavano utili in varie contingenze e accrescevano ri­
nomanza al paese.
Invece Viktor Störteler e la sua Käthchen erano da
lungo tempo spariti e dimenticati, e insieme le lettere
d’amore, che essi, spinti dalla fame e dalla miseria, ave­
vano riesumate e attribuite a se stessi e accresciute di
numero fra grandi litigi.
DIETEGEN

Sui pendìi settentrionali di quelle stesse boscose colline, su


cui, esposta a mezzodì, giace Seldwyla, prosperava, ancora
verso la fine del Quattrocento, ira dense ombre, la citta­
dina di Ruechenstein. Grigio e fosco era il nucleo serrato
delle sue mura e delle sue torri, non scadenti erano i con­
siglieri e i cittadini, ma rigidi e imbronciati, e la loro
occupazione nazionale consisteva nell’esercitare l’auto­
rità giudiziaria, nel maneggiare leggi e decreti, mandati e
regolamenti, dispense ed esecuzioni. Il loro supremo or­
goglio era il possesso di una propria giurisdizione crimi­
nale, grande e massiccia, che essi nel corso dei tempi, con
grande zelo e sacrifici, erano riusciti a conquistare e a com­
pletare riunendola da sparsi tribunali criminali dell’Im­
pero, così come altre città ricercano la propria libertà e
i beni terreni. Sulle rocce sporgenti attorno alla città si
ergevano forche, ruote di tortura e patiboli di vario
genere; il municipio era pieno di catene e di collari di
ferro, gabbie robuste pendevano dalle torri e a ogni canto
di strada vi erano le berline girevoli di legno per ficcarci
le donne. Persino lungo il fiume azzurro cupo che ba­
gnava la città, erano state istituite speciali stazioni ove si
buttavano e si facevano annegare i delinquenti, coi piedi
e le mani legate, oppure dentro sacchi, a seconda delle
sottili distinzioni della sentenza.
Gli abitanti di Ruechenstein non erano però figure
ferree, terrificanti e robuste, come si potrebbe dedurre
dalle loro simpatie; appartenevano anzi a un tipo di
gente dall’aspetto volgaruccio e filisteo, con le pancette
tonde e le gambe esili, ma avevano tutti dei gran nasi lun­
ghi e giallicci, proprio i nasi con cui per tutto l’anno re­
ciprocamente brontolavano e si apostrofavano. Nessuno,
giudicando da questo loro aspetto filisteo, avrebbe loro at­
tribuito i nervi robusti che son pure indispensabili per as­
sistere di continuo a simili spettacoli crudeli. Ma erano
in essi qualità nascoste.
Essi tenevano quindi la loro giurisdizione tesa sul di­
DIETEGEN 4OI
stretto civico, come una rete sempre avida di preda; e in
realtà in nessun luogo v’erano così curiosi e originali reati
da perseguire come a Ruechenstein. La loro inesauribile
fantasia nell’inventare nuove pene pareva mettere real­
mente alla prova quella dei peccatori, incitandoli a una
gara. Ché se malgrado ciò interveniva poi scarsità di rei,
non si smarrivano per questo, ma senz’altro acchiappa­
vano e punivano i bricconi di altre città, così che chiunque
traversava il loro territorio doveva proprio avere la co­
scienza pulita. Appena infatti essi avevano notizia di un
delitto consumato in una lontana regione, catturavano il
primo viandante che capitasse loro sotto mano, lo lega­
vano alla ruota sinché quello non confessava, oppure non
risultava, per un caso fortuito, che tal delitto non era stato
per nulla commesso. Conflitti di competenza li mette­
vano di continuo in lite con la Confederazione e con altre
località e non di rado subivano ammonizioni.
Per le loro impiccagioni, i loro roghi e annegamenti
prediligevano un tempo sereno e senza vento, tanto che
era soprattutto nelle più belle giornate estive che da loro
succedeva qualche cosa. Un viandante poteva allora scor­
gere non di rado da un campo remoto, fra il grigiore del
paesotto roccioso, il lampeggiare improvviso di una man­
naia, la colonna di fumo di un rogo, oppure, nel fiume,
qualcosa come il balzar luccicante di un grosso pesce,
quando una strega condannata cercava dibattendosi di
uscire dalle acque. La parola di Dio non sarebbe loro
piaciuta senza almeno lo spettacolo di una povera coppia
di amanti davanti all’altare con la ghirlanda di paglia e
senza la lettura dei più feroci mandati sul malcostume.
Non v’erano per loro altre gioie, feste o sagre, poiché
tutto era vietato da un numero infinito di decreti.
È facile immaginare che questa città non poteva aver
vicini più sgradevoli che la gente di Seldwyla, la quale sta­
va loro alle spalle dietro il bosco, come la voce della co­
scienza. Ogni seldwylese che si lasciasse cogliere in terri­
torio di Ruechenstein veniva arrestato e messo sotto in­
chiesta per l’ultimo delitto del momento. In compenso i
Seldwylesi acchiappavano tutti i sudditi di Ruechenstein
402 LA GENTE DI SELDWYLA

che capitassero loro sotto mano e a tutti infliggevano


senza ulteriore indagine, solo perché erano di quel posto,
sei vergate sul deretano nella piazza del mercato. Erano
queste le uniche verghe da loro consumate, perché fra
concittadini non amavano farsi del male. Poi prendevano il
malcapitato, gli dipingevano con un nero indelebile il
lungo naso gialliccio e lo rimandavano a casa tra alti e
gioiosi schiamazzi. Per questo a Ruechenstein si potevano
sempre vedere alcuni tipi particolarmente imbronciati
andare attorno con nasi ancora nerastri e solo lentamente
tornanti al pallore, che, austeri e taciturni, giravano in
cerca di poveri peccatori.
I Seldwylesi tenevano la vernice nera sempre pronta in
un secchiello di ferro su cui era dipinto lo stemma di Rue­
chenstein; chiamavano questo secchiello «il vicino gen­
tile» e lo lasciavano appeso insieme al pennello al por­
tone di città per cui si andava a Ruechenstein. Quando
la tintura era seccata o consumata, la si rinnovava con un
gran corteo umoristico per far dispetto ai poveri vicini.
Quelli, una volta, tanto se ne adontarono che uscirono
in armi col gonfalone per punire i Seldwylesi. Ma questi,
tempestivamente avvertiti, andarono a incontrarli e li
attaccarono impavidi. Quelli di Ruechenstein però ave­
vano messo come avanguardia dei vecchi lanzichenecchi
dalle barbe grigie, con nuove corde all’elsa degli spadoni
e i Seldwylesi furon còlti da tanta paura, che eran lì lì
per ritirarsi e sarebbero stati perduti senza una trovata
improvvisa, che fu la loro salvezza. Avevano portato
con sé, in segno di scherno, «il vicino gentile», e, invece
del gonfalone, un lunghissimo pennello. L’alfiere che lo
reggeva, con grande presenza di spirito, lo intinse subito
nella vernice nera, balzò con esso incontro ai primi ne­
mici e riuscì con gran rapidità a impiastricciare loro
la faccia, così che i più vicini, minacciati dell’aborrito
sfregio, si diedero alla fuga e nessuno volle mantenersi
in prima Enea. La schiera vide così vacillare le sue file:
un panico imprecisato colse quelli della retroguardia,
mentre i Seldwylesi, ripreso animo, avanzavano tra gran­
di risate e respingevano gli avversari entro Ruechenstein.
DIETEGEN 4°3
Appena quelli tentavano di difendersi, arrivava il temuto
pennello dal lungo stelo; e non senza vero e proprio
eroismo, giacché per ben due volte i temerari verni­
ciatori eran caduti trafitti dalle frecce, ma sempre un
nuovo seldwylese era intervenuto ad afferrare la strana
arma e ad attaccare nuovamente il nemico.
Alla fine però quelli di Ruechenstein vennero total­
mente respinti e fuggirono alla rinfusa col loro gonfalone
attraverso il bosco, e i Seldwylesi alle calcagna. A stento
poterono raggiungere la città e chiuderne il portone, che
insieme al ponte levatoio fu poi dagli inseguitori così a
lungo imbrattato di nero col maledetto pennello, sinché
gli altri poterono tornare a radunarsi e a bombardare i
rumorosi pittori con secchi di calce.
Siccome nell’ardore della lotta alcuni cospicui Seldwy­
lesi erano capitati nella città e vi erano stati chiusi den­
tro, e in cambio una dozzina degli aggressori era rimasta
in mano dei Seldwylesi, dopo pochi giorni si venne a
patti per lo scambio dei prigionieri, dal che derivò un
vero e proprio trattato di pace. Ambedue le parti si erano
sfogate e sentivano il bisogno di una più tranquilla vici­
nanza. Vi fu quindi promessa di un contegno di buon
vicinato, e per cominciare i Seldwylesi promisero la con­
segna del secchiello di ferro, che sarebbe stato abolito,
mentre quelli di Ruechenstein da parte loro si impegna­
vano solennemente a rinunziare ad ogni procedura puni­
tiva contro Seldwylesi a passeggio e venivano pure aboliti
gli eventuali diritti a questo riguardo.
Per confermare tale patto venne fissato un giorno e per
l’incontro si scelse quella stessa radura sulla montagna
ove si era svolta la lotta. Da parte di Ruechenstein inter­
vennero alcuni consiglieri giovani, giacché gli anziani
non sapevano adattarsi a trattare con affettuosità quelli
di Seldwyla. Questi si presentarono realmente in nume­
rosa delegazione; portarono con allegro cerimoniale il
«vicino gentile» e insieme una botticella del loro vino
più vecchio con alcune pregevoli coppe argentate e dora­
te. Con questo sedussero i giovani signori dell’austera cit­
tadina, per i quali spuntò un sole sconosciuto che li rese
404 LA GENTE DI SELDWYLA

tanto felici da indurli, invece che a un pronto ritorno, a


seguire i loro seduttori sino a Seldwyla. Ivi furono ac­
compagnati in municipio dove li attendeva un eccellente
banchetto; sopravvennero belle dame e damigelle, furono
recati sempre più numerosi i boccali, le coppe e i bicchieri,
così che, fra tanto luccichio di occhi ardenti e di nobile
metallo, i poveri giovani di Ruechenstein finirono col per­
dere la testa e col diventare di ottimo umore. Cantarono,
non sapendo di meglio, un salmo latino dopo l’altro per
alternare le canzoni e i brindisi dei Seldwylesi e alla fine
commisero l’imprudenza d’invitare questi ultimi a resti­
tuire la visita insieme alle loro mogli e figliole, prometten­
do ottima accoglienza. La proposta fu accettata all’unani­
mità, ne seguì gran giubilo e, per farla breve, i rappre­
sentanti di Ruechenstein partirono in perfetta beatitudine,
ritenendosi poi per di più, ridendo, dei conquistatori for­
tunati, quando le belle e gioiose signore vollero accom­
pagnarli fino alla porta di città.
Certo che il piacevole aspetto dell’avventura si trasfor­
mò l’indomani, allorché gli allegri messeri si destarono
nella loro fosca città nativa e dovettero far rapporto di
tutta la loro missione. Poco mancò, quando giunsero a
confessare l’invito, che non li si facesse arrestare e sotto­
porre ad inchiesta perché stregati. D’altra parte anch’essi
sentivano scorrere nelle loro vene il sangue di alte autori­
tà civiche, cosicché, pur deplorando ormai l’accaduto, in­
sistettero nel voler mantenere la loro parola spiegando ai
vecchi come fosse senz’altro un’esigenza dell’onore civico
offrire buona ospitalità ai Seldwylesi. Trovarono appoggio
fra la cittadinanza, specialmente descrivendo i ricchi arre­
di sfoggiati da quelli di Seldwyla ed esaltando le loro don­
ne e le vesti eleganti. Gli uomini giudicarono che la situa­
zione non era tollerabile, che bisognava far vedere a quei
signori la propria ricchezza, la quale stava a luccicare
rinchiusa nelle casseforti, mentre le donne smaniavano
all’idea di poter trasgredire il rigido regolamento contro
il lusso e di potersi una volta tanto adornare e ingioiellare
col pretesto della politica. Non mancavano loro nei cas­
soni le belle vesti, altrimenti tutti quei regolamenti sa­
DIETEGEN 4θ5
rebbero riusciti loro da un pezzo insopportabili ed esse
avrebbero già provveduto coi loro poteri a sbarazzarsene.
Fu quindi deciso di ricevere gli antichi avversari e no­
velli amici, con grande rabbia dei più anziani. Questi
subito escogitarono di solennizzare la giornata scandalosa
con un’impiccagione, in modo da moderare salutarmente
e con dignità ogni eccesso d’allegria. Mentre i più gio­
vani s’occupavano di preparare la festa, gii anziani pre­
sero in gran .segretezza le loro misure, acchiappandosi
un povero delinquente, un giovane minorenne che pro­
prio allora si dibatteva nella rete. Era un ragazzino un­
dicenne di bellissime fattezze, i cui genitori erano scom­
parsi in tempi di guerra e alla cui educazione aveva prov­
veduto la città. O per meglio dire, questa l’aveva messo a
dozzina da una sciagurata e perfida guardia municipale,
che teneva quel fanciullo avvenente, snello e robusto, qua­
si al pari di una bestia da soma, in ciò ben coadiuvata
dalla sua consorte. Il ragazzo aveva nome Dietegen e
questo nome era tutto quanto possedesse, era la sua bene­
dizione serale e mattutina, il suo viatico per l’avvenire.
Miseramente vestito, non aveva mai posseduto un abito
della festa, e la domenica, quando tutti han qualcosa di
meglio addosso, avrebbe avuto l’aria di uno spaventa­
passeri se non fosse stato tanto bello di persona nel suo
misero abituccio. A lui toccava sfregare, scopare e com­
piere ogni sorta di simili fatiche donnesche, e quando la
padrona non aveva alcun mesti eraccio da assegnargli,
lo dava a prestito alle vicine per denaro, perché sbrigasse
le più brutte faccende da quelle desiderate. Esse, pur
vedendolo volonteroso, lo credevano uno sciocco, perché
obbediva in silenzio, senza mai fare opposizione, tuttavia
non lo potevano guardare a lungo negli occhi ardenti,
quand’egli con inconscia audacia girava intorno lo sguar­
do lampeggiante.
Alcuni giorni prima avevano mandato Dietegen dal
bottaio verso sera, a prendere dell’aceto, perché i suoi
genitori adottivi avevano voglia di mangiare l’insalata.
L’aceto era da tempi lontani tenuto in un boccalino anne­
rito e creduto quindi di latta, comprato per pochi soldi
4o6 LA GENTE DI SELDWYLA

con altro ciarpame dalla madre della padrona, ma che


in realtà era d’argento. Il bottaio che preparava l’aceto
abitava in una parte solitaria della città, dietro le mura.
Mentre il ragazzo passava con il boccale, gli strisciò ac­
canto un vecchio ebreo con un sacco e gettò una rapida
occhiata al recipiente sporco, ma di fine fattura, do­
mandando al ragazzo con parole insinuanti il per­
messo di osservarlo meglio. Dietegen glielo porse, l’e­
breo senza farsi scorgere provò a scalfire il metallo
con l’unghia del pollice, e subito offri in compenso allo
stupefatto fanciullo una balestra dall’apparenza mol­
to graziosa, che trasse dal sacco insieme ad alcune
frecce contenute in un astuccio di pelle di lontra molto
sdruscita. Il ragazzo afferrò l’arma smanioso, subito la
tese con mano abile e robusta, mentre l’ebreo se la svi­
gnava senza che l’altro s’occupasse di lui. Al contrario, co­
minciò immediatamente a mirare alla porta di una tor­
retta costruita sulle mura e, senza che alcuno venisse a
disturbarlo, dimentico del mondo intero, proseguì nel
suo giuoco sino a buio, tirando poi ancora al riflesso
della luna nascente.
Nel frattempo la guardia aveva fatto un ultimo giro
d’ispezione per la città e aveva còlto l’ebreo mentre
tentava di sgattaiolare fuori mura. Perquisendo il suo
sacco, riconobbe con stupore il boccale per l’aceto, con­
segnato poco prima al figlio adottivo. L’ebreo, per paura
di rimetterci la pelle, confessò senz’altro che era d’argento
e inventò che glielo aveva voluto cedere a tutti i costi un
giovanetto in cambio di una magnifica balestra, che però
forse era di minor valore. La guardia corse a chiamare un
orefice, questi vide il boccale e confermò che si trattava di
un antico oggetto d’argento di eccellente fattura. Allora la
guardia e sua moglie, sopraggiunta nel frattempo, fu­
rono còlti da grande eccitamento e furore, in primo luogo
per aver posseduto senza saperlo un recipiente tanto pre­
zioso e in secondo luogo per aver arrischiato di perderlo.
Il mondo parve loro pieno di orribili torti, il fanciullo
addirittura un demonio, che stava per defraudarli della lo­
ro beatitudine eterna, in cambio delle loro infinite cure
DIETEGEN 407

e benemerenze. Finsero d’un tratto di aver sempre saputo


che il boccale era d’argento e di averlo sempre pregiato
in casa. Con le più aspre maledizioni accusarono il ra­
gazzo di grave furto, e mentre quello, ignaro, continuava
a baloccarsi con le frecce, centrando sempre meglio con
ogni colpo il bersaglio, già due schiere di sgherri parti­
vano per cercare il fuggiasco, con alla testa la guardia
e la moglie, che per nulla aveva voluto rinunciarvi.
Incontrarono così da due direzioni diverse, dopo non
molto, il tiratore, che continuava a lume di luna e parve
destarsi da un sogno quando si vide di colpo circondato e
preso. Solo in quel momento si rese conto della sua ne­
gligenza e insieme della mancanza del boccale. Credette
però di aver fatto un buon baratto e porse con un sorriso
la balestra al patrigno per rabbonirlo. Venne tuttavia
subito legato, trascinato in carcere e interrogato, e am­
mise senz’altro il fatto, senza sapere per nulla difendersi.
Il povero fanciullo fu condannato alla forca e l’esecu­
zione fissata per il giorno in cui sarebbero venuti in visita
i Seldwylesi.
Essi giunsero infatti in maestoso corteo, con colori sgar­
gianti e le trombe civiche in testa. Erano tutti armati di
buone spade e pugnali e recavano con sé una dozzina
delle loro donne più giovani e audaci, in grande ele­
ganza, e persino alcuni fanciulli con i colori della città,
recanti dei doni. I giovani consiglieri di Ruechenstein,
i loro amici, andarono ad accoglierli un tratto fuor della
porta, porsero il benvenuto e li riaccompagnarono un
poco esitanti in città. La porta era stata ripulita il meglio
possibile, verniciata a nuovo e decorata con modeste
ghirlande. Ma all’interno della porta c’erano allineate
tutte le guardie civiche in uniforme e ben armate, che ac­
compagnarono il corteo, con gran tintinnare metallico,
lungo le buie e anguste vie cittadine. Dalle finestre la
gente guardava muta ma incuriosita, come se passasse un
serpente di mare, e quando un seldwylese alzava lo sguar­
do e salutava allegramente, le donne ritraevano il capo
intimidite. I mariti invece schiacciavano curiosamente la
punta del naso contro i piccoli vetri verdastri, per osser­
4o8 LA GENTE DI SELDWYLA

vare meglio l’inusitato spettacolo di colli femminili nudi.


Il corteo raggiunse così la grande sala del municipio,
fastosa ma cupa, con le pareti e il soffitto rivestiti di
quercia dipinta in nero con lievi fregi d’oro. Vi stava una
lunga tavola apparecchiata con tovaglie di lino intessute
di seta verde e fili d’oro, a figure rappresentanti bo­
schetti con cervi, cani e cacciatori. Sopra quella stoffa
v’erano delle tovagliette di finissimo tessuto bianco da­
mascato che, ad osservarle da vicino, mostravano un
raffinato disegno di allegre storie mitologiche, quali non
si sarebbero mai aspettate in un così austero ambiente.
La splendida imbandigione offriva tutto quanto costi­
tuisce un pubblico banchetto ; quindi anche un gran nu­
mero di coppe preziose, lavorate a cesello, ora a mezzo
rilievo, ora a tutto tondo, che rappresentavano un mon­
do brillante di ninfe, di naiadi e di altre divinità. Persino
il trofeo centrale, una specie di gran bastimento da guer­
ra in argento con alta velatura, in sé molto dignitoso e
aulico, aveva per polena una bella Galatea dalle forme
audacissime.
Lungo questa tavola andava in su e in giù un gruppetto
di mogli dei consiglieri, tutte vestite di rigida seta nera o
granata, con merletti inamidati che le coprivano fino al
mento. Recavano numerose collane d’oro, cinture e cuf-
fiette preziose, e avevano sopra i guanti a ogni dito una
quantità d’anelli. Queste donne non erano brutte, pote­
vano anzi dirsi graziose, o almeno erano dotate tutte di
un incarnato tenero e trasparente e di guance rosee ; erano
però d’aspetto tanto rigido, aspro e scostante, che ci si
chiedeva se avessero mai riso in vita loro, o per lo meno
una sola volta, nel buio della notte, quando avevano in­
dotto il marito ad accettare il primo berretto da notte.
I saluti riuscirono piuttosto imbarazzati e tutti furono
contenti di sedersi a tavola, per dissipare l’imbarazzo
mangiando e bevendo. I Seldwylesi furono i primi a ri­
trovare la loro serenità naturale, ammirando la ricchezza
con cui era apparecchiata la tavola. Ciò non dispiacque
a quelli di Ruechenstein, e stavano per iniziare una
conversazione piuttosto stentata, quando l’incontro prese
DIETEGEN 409
una piega che non avrebbero mai sognato. I Seldwylesi
infatti, che sapevano far buon uso dei loro occhi, non
tardarono a scoprire le figure graziose e allegre delle to­
vaglie damascate e delle artistiche coppe e lasciarono scor­
rere i loro sguardi pieni di lieto compiacimento sulle sce­
ne piuttosto libere e voluttuose, indicandosele l’un l’altro,
interpretando e definendo con grazia scherzosa quanto
era rappresentato, nel far che le donne non erano da
meno dei loro cavalieri. Ciò parve alquanto puerile ai
loro ospiti, che si diedero a considerare anch’essi più
attentamente quel che gli altri ammiravano. Rimasero
tutti a bocca aperta ! Essi, con la loro mentalità piuttosto
limitata, non si erano mai indugiati a guardare quegli
arredi, pensando che gli oggetti di lusso son fatti apposta
per il lusso, senza che però la gente seria debba degnarli
di sguardi più attenti. S’accorsero inorridendo di avere
sotto i loro occhi pudichi tutto il mondo degli orrori pa­
gani. Erano peraltro sdegnati del modo curioso e indi­
screto con cui i Seldwylesi mettevano in luce quelle fri-
volità insignificanti, invece di trascurarle dignitosamente,
limitandosi ad ammirare la preziosità del materiale. Gli
uomini abbozzarono un sorriso forzato e agrodolce quan­
do l’uno scopriva una Leda e un altro un’Europa, mentre
le signore si facevano rosse oppure pallide d’ira e stavano
appunto per alzarsi sdegnose, quando venne a calmarle
d’improvviso il suono triste di una campana. Era la cam­
panella dei condannati di Ruechenstein; un brusìo lon­
tano annunciava dalla strada che stavano per accompa­
gnare alla forca il giovane Dietegen. Tutta la brigata dei
banchettanti s’alzò e corse verso le finestre, dove quelli
di Ruechenstein con un sorriso maligno fecero posto ai
loro ospiti.
Passavano un prete, il boia col suo aiutante, alcuni
addetti al tribunale, poche guardie, e alla testa del pic­
colo corteo procedeva il buon Dietegen a piedi scalzi,
vestito soltanto del camice bianco con orlo nero dei con­
dannati a morte. Aveva le mani legate sul dorso ed era
tenuto per una fune dal carnefice. I bei capelli gli cadeva­
no sul candido collo nudo, aveva l’aria confusa e supplì-
410 LA GENTE DI SELDWYLA

chevole e alzava gli sguardi, invocando aiuto e compassio­


ne, verso le finestre delle case. Sotto il portone del munici­
pio stavano allineati in abiti festivi i fanciulli e le fanciulle
seldwylesi, che, come sogliono fare i ragazzi, erano scap­
pati da tavola per correre fuori a vedere. Quando il po­
vero condannato scorse quei giovanetti belli e fortunati,
come non ne aveva visti mai, volle fermarsi davanti a lo­
ro, mentre giù per le guance gli grondavano calde lagrime,
ma il carnefice lo spinse avanti con un urtone e il corteo
fu presto sparito. Su nella sala le donne di Seldwyla
erano impallidite e anche i loro mariti erano còlti da
profondo orrore, non essendo per nulla amanti di simili
spettacoli. Si sentirono sempre più a disagio fra quella
gente, tanto che cedettero all’insistenza delle loro mogli
impazienti, e chiesero licenza quanto più cortesemente
poterono. I signori di Ruechenstein invece, giocata la
loro carta, si sentivano soddisfatti e pressoché allegri,
così che accompagnarono i loro spettabili ospiti, come
dissero, fra galanti e loquaci discorsi fuori città.
Giunta però alla porta, la schiera degli ospiti incontrò
il gruppo dei giudici che tornavano con facce imbron­
ciate. Li seguiva subito dopo un solo garzone, il quale
spingeva un carretto ove era deposto in una rozza bara il
giustiziato. Il povero diavolo si fermò timido e rispettoso,
e si trasse in disparte per lasciar passare la brillante bri­
gata, e intanto rimetteva a posto il coperchio della cassa,
che, sempre sul punto di cascare, lasciava scorgere l’im­
piccato. Ma fra i giovani seldwylesi vi era una ragazzina
di sette anni, ardita, bella e ricciuta, che non aveva smesso
di piangere dal momento in cui aveva veduto portar via
quel poverino e che non poteva ancora consolarsi. Quando
il corteo passò accanto al carretto, la piccola vi si accostò
d’un balzo, s’appoggiò con un piede sulla ruota e scoper­
chiò la bara, in modo che tutti poterono vedere il povero
Dietegen inanimato. Ma in quello stesso momento egli
aprì gli occhi e trasse un lieve sospiro, giacché nella con­
fusione di quella giornata lo avevano impiccato male e
staccato troppo presto dalla forca, forse perché gli addetti
al tribunale speravano di arraffare ancora i resti del ban-
DIETEGEN 411
chetto. L’impetuosa fanciullina mandò un grido: «Vive
ancora ! Vive ancora ! ». Subito le donne di Seldwyla s’af­
follarono attorno alla bara, e quando videro che il bel fan­
ciullo esanime cominciava a muoversi, se ne impadroni­
rono senz’altro, traendolo giù dal carro e richiamandolo
in vita con massaggi, spruzzi d’acqua, sorsi di vino e altre
cure. Gli uomini le aiutarono in ciò, mentre i cittadini
di Ruechenstein se ne stavano inerti d’attorno, non sa­
pendo che pesci pigliare. Quando finalmente il ragazzo
fu rimesso in piedi e si guardò attorno, credendosi quasi
ridesto in Paradiso, scorse all’improvviso il boia che gli
aveva messo il cappio intorno al collo, ed esterrefatto al
pensiero che avesse potuto seguirlo in cielo, tornò a rifu­
giarsi fra il gruppo delle donne. Esse pregarono allora
commosse i severi vicini di far loro dono, in segno di buo­
na amicizia, di quel ragazzo; i mariti si unirono nella
preghiera e ai signori di Ruechenstein, dopo breve consi­
glio, non rimase che dichiararsi disposti a lasciar loro
prendere il piccolo peccatore, che volentieri regalavano
insieme alla sua vita. Le belle dame ed i loro figli ri­
masero felicissimi e Dietegen se ne partì, così come era,
cioè col camice dei condannati, insieme ai Seldwylesi.
Era una bella sera estiva, tanto che essi, giunti al cri­
nale della montagna su territorio proprio, decisero di
spassarsela ancora un poco nel bel bosco per proprio
conto, rifacendosi così dello spavento preso, tanto più
che dalla città veniva loro incontro una discreta folla,
curiosa di sapere come fossero andate le cose. I musicanti
dovettero riprendere a suonare e le coppe recate alla festa
circolarono finalmente in perfetta letizia.
Dietegen si guardava attorno con tanta beatitudine,
curiosità e ingenuità che ognuno capiva da lontano come
fosse un povero innocente, ciò che fu poi confermato dal
suo racconto. Le Seldwylesi non si saziavano di rimirarlo,
gli intrecciarono e gli posero sul capo una ghirlanda di fo­
glie e di fiori alpestri, che insieme al lungo e ampio
camice bianco gli diede un leggiadro aspetto, e se lo sba­
ciucchiarono l’una dopo l’altra, e quando l’ultima lo la­
sciava libero, la prima lo riprendeva per la testa.
412 LA GENTE DI SELDWYLA

Ma quella fanciullina che era stata la vera salvatrice di


Dietegen uscì d’un tratto dal gruppo e, mettendosi sde­
gnosa fra il fanciullo e la dama che stava per baciarlo, glie­
lo strappò di mano, portandoselo nel gruppo dei fanciulli,
al che la brigata con uno scoppio d’allegria commentò:
— Benissimo ! La piccola Küngolt non si lascia scap­
pare la sua conquista ! E ha buon gusto : guardate come
quell’ometto ben le si adatta !
Il padre di Küngolt, il guardaboschi della città, in­
tervenne dicendo:
— Quel ragazzo mi piace, ha degli occhi buoni ! Se i
signori son d’accordo, lo prendo per ora in casa mia,
visto che non ho che una figliola e voglio vedere se non ne
potrò fare un buon cacciatore !
La proposta ottenne il consenso dei Seldwylesi e la
piccola Küngolt, ben contenta, non staccò la sua dalla
mano di Dietegen e se lo tenne ben vicino. La piccola
coppia era davvero graziosa; anche la fanciulla aveva
sulla testolina una bella ghirlanda di fiori ed era vestita
di verde e di rosso e i due passavano davanti alla folla
serena come un’immagine di favole antiche, mentre essa
s’avviava finalmente, nel tramonto di fuoco, verso la
città. Poco dopo il guardaboschi si staccò dalla compa­
gnia, avviandosi con i ragazzi alla sua dimora, posta un
po’ fuori porta, ai margini del bosco. Un viale alberato
e scuro conduceva verso la casa, dove la tranquilla moglie
del guardaboschi vide stupita l’arrivo dei due fanciulli.
Accorse subito la servitù e, mentre la donna dava da man­
giare ai due ragazzi ormai stanchi, il marito le narrò
l’avventura di Dietegen. Questi era sfinito e anche in­
freddolito in quel suo camice troppo leggero. Subito si
domandò chi voleva per quella prima notte prendere nel
suo letto quel nuovo ospite. Ma tanto i garzoni che le do­
mestiche si ritrassero intimoriti, rifuggendo anche sol­
tanto dal toccare una creatura appena staccata dalla for­
ca. Küngolt allora esclamò vivace:
— Verrà a dormire nel mio lettino dove c’è posto per
tutti e due !
Tutti scoppiarono a ridere, ma la madre disse benevola :
DIETEGEN 413

— Benissimo, cara figliola ! — Poi, osservando affet­


tuosamente il sopravvenuto, aggiunse — Appena entrato
quel poverino, ho avuto lo strano presagio di vedermi
apparire un angelo, destinato a essere la nostra fortuna.
Questo almeno sento con certezza, che da lui non ci ver­
rà disgrazia!
Così dicendo accompagnò i ragazzi nella cameretta
accanto al salotto e li fece coricare. Dietegen, che non
ci vedeva più dal sonno, abbozzò i gesti abituali per
svestirsi, ma essendo in certo modo già in camicia, i suoi
tentativi assonnati fecero un effetto molto comico alla
sua compagna, che nel frattempo s’era già rifugiata sotto
le coperte e che, scoppiando a ridere divertita, gridò:
— Guardate l’uomo in camicia ! Vorrebbe svestirsi ma
non trova né giubbetto né stivali!
Anche la madre dovette ridere e disse:
— In nome di Dio, vattene pure a letto, povero figliolo,
con la camiciola dei condannati! Almeno è nuova e di
buona tela ! Bisogna dire che quella brutta gente di
Ruechenstein se non altro commette i suoi orrori con
un certo lusso!
Così dicendo rimboccò il letto e non seppe trattenersi
dal baciare ambedue i fanciulli; così che Dietegen era
ormai più felice di quanto non fosse mai stato in vita sua.
Ma aveva gli occhi già chiusi e l’anima era immersa nel
sonno.
— Non ha neppur detto la preghiera ! — osservò sotto­
voce e addolorata Küngolt, e la mamma le ribattè:
— Prega allora anche per lui, figliola mia — e se ne
tornò in salotto. Difatti la fanciulla recitò due Pater noster,
uno per sé e l’altro per il compagno di letto, dopo di che
scese il silenzio nella cameretta buia.
Parecchio tempo dopo mezzanotte Dietegen si destò,
poiché solo allora cominciò a sentir male al collo per
quella brutta corda. La camera era tutta illuminata dalla
luce della luna, ma il bimbo non riuscì a comprendere
dove si trovasse e che cosa gli fosse accaduto. Capì sol­
tanto che, ad onta del male al collo, era felicissimo. La fine­
stra era aperta e giungeva la voce gentile di una fontana,
414 LA GENTE DI SELDWYLA

mentre la notte argentea mandava i suoi sussurri fra le


chiome degli alberi del bosco accarezzate dalla luna:
tutto questo gli parve miracoloso e inaudito, giacché
mai, né di notte né di giorno, aveva visto il bosco. Guardò,
stette in ascolto, poi si rizzò a sedere e si vide accanto la
piccola Kiingolt, sul cui volto si posava appunto un rag­
gio di luna. Essa taceva, ma era ben desta, perché la
gioia e l’eccitamento le impedivano il sonno. Per questo
gli occhi spalancati brillavano e la bocca era atteggiata
al sorriso quando Dietegen la guardò e ritrovò il ricordo
dell’accaduto.
«Perché non dormi? Devi dormire!» disse la fan­
ciulla, ma egli si lagnò allora del male al collo. Subito
Kiingolt gli buttò al collo le sue tenere braccine e accostò
piena di compassione le guance alle sue, tanto che egli
credette davvero di non avvertir più dolore a quella salu­
tare medicazione. Cominciarono a chiacchierare sottovo­
ce; lei voleva che Dietegen parlasse di sé, ma il fanciullo
era laconico, non avendo nulla da dire che lo allietasse e
non potendo esporle le miserie vissute senza conoscere an­
cora nulla che vi facesse contrasto, ad eccezione di quella
sera stessa. Ma gli venne d’un tratto in mente il piacere
provato con la balestra, di cui s’era nel frattempo dimen­
ticato, e le raccontò del vecchio ebreo, che l’aveva messo
negli impicci, e come avesse tirato splendidamente per
oltre un’ora e quanto desiderasse soltanto riavere una si­
mile balestra. «Di armi e di balestre mio padre ne ha
quante ne vuoi e puoi cominciare sin da domattina a ti­
rare a segno a piacimento ! » disse la piccina e cominciò
a sua volta a enumerargli tutte le belle e buone cose che
c’erano in casa sua e a parlargli poi di quelle preziosissime
che teneva in un suo piccolo cofano : due scodelline d’oro
iridate, una collana di ambra, un libriccino di leggende
con tutti i santi colorati e anche una splendida lumaca
con dentro una Madonnina tutta oro e seta rossa, protetta
da una lastrina di vetro. Era sua proprietà anche un cuc­
chiaino d’argento dorato col manico ritorto, ma con
quello le avrebbero permesso di mangiare soltanto quando
fosse grande e avesse un marito. Allora le sarebbero toc­
DIETEGEN 415

cati per le nozze anche i gioielli da sposa della mamma e


il suo abito di broccato azzurro che stava ritto da solo,
anche senza che nessuno lo indossasse. Tacque per un
pezzetto; poi aggiunse attirando a sé più strettamente il
compagno e sussurrando piano:
— Ascolta, Dietegen !
— Che c’è? — domandò l’altro, ed essa replicò:
— Quando siamo grandi devi diventare mio marito,
tu mi appartieni! Sei disposto?
— Ma certo ! — disse lui.
— Allora dammi la mano per il patto ! — disse la pic­
cola aspirante al matrimonio, e il ragazzo l’accontentò,
e dopo quel fidanzamento finalmente i bimbi si riaddor­
mentarono placidi per non svegliarsi che quando il sole
era già alto in cielo. La brava mamma, per permettere al
ragazzo di riposarsi, non aveva neppure svegliato la sua
figliola.
Ma ora entrò premurosa nella cameretta, recando sul
braccio un abito completo da ragazzo. Due anni prima un
suo figliolo era stato ucciso da una quercia abbattuta, e i
suoi abiti dovevano andar bene a Dietegen malgrado que­
sti fosse minore di un anno, perché aveva proprio la
corporatura del ragazzo perduto. Era un abito festivo
che la povera donna aveva conservato non senza melan­
conia. Si era levata all’alba per staccarne alcuni nastri
colorati che l’adornavano e per ricucire le fenditure che
lasciavano vedere una fodera di seta. Mentre lavorava le
eran tornate le lagrime, man mano che la seta rossa, splen­
dente come una primavera sprecata, andava sparendo
sotto il panno nero del giacchettino e dei piccoli calzoni
a sbuffo. Fu pervasa tuttavia da una dolce consolazione,
vedendo che il destino le mandava una così bella creatura
strappata alla morte, perché indossasse l’abito scuro del
suo figliolo, e non fu soltanto per la fretta, ma con inten­
zione, che non tolse la chiara seta della fodera, quasi
fiamma celata del suo cuore materno ; giacché quella don­
na aveva molto più cuore e gentilezza per tutti di quanto,
così riservata, poteva mostrare. Se il ragazzo si compor­
terà bene, disse tra sé, tornerò ad aprire le fenditure,
416 LA GENTE DI SELDWYLA

tanto quel bell’abito non dovrà portarlo che per pochi


giorni, sinché non gli abbia preparato qualche indu­
mento più solido e pratico. Mentre spiegava al ragazzo
come indossare quelle vesti per lui inconsuete, la bimba
era sgusciata fuori dal letto e si era per caso trovato tra le
mani il camice del condannato. Se l’era infilato per ischer-
zo e ora girava così per la cameretta strascicandolo sul
pavimento. Teneva le mani intrecciate sul dorso, fingendo
fossero legate e salmodiava:
— Sono un povero condannato, e le calze non ho
indossato !
La moglie del guardaboschi a quella vista impallidì
di spavento, ma disse tuttavia con dolcezza:
— In nome di Cristo chi ti insegna simili cattivi scher­
zi? — E portò via alla birichina il triste camice dei
condannati. Ma Dietegen fu pronto a impadronirsene
pieno di rabbia e in quattro e quattr’otto lo ridusse a
brandelli.
Quando i fanciulli furono finalmente vestiti, andarono
nel tinello per la colazione. Quel mattino si era fatto il
pane e v’erano quindi, come accompagnamento della
tazza di latte, focacce con l’anice, e invece dell’unico
panino, identico nella forma alle grosse pagnotte ma
preparato e cotto con cura per Kiingolt, ne avevano pre­
parati quel giorno due simili. La padroncina non ebbe
requie sinché Dietegen non si fu scelto il più perfetto.
Mangiava senza timidezza tutto quello che gli offrivano,
come se fosse ritornato alla casa paterna, dopo essere stato
tra gente cattiva e sconosciuta, ma se ne stava tutto silen­
zioso, continuando a guardare la mite e gentile padrona,
la stanza chiara e i ricchi arredi. Dopo mangiato continuò
le sue osservazioni: le pareti erano rivestite d’abete e
dipinte a fiori di vario colore e alle finestre brillavano due
vetri colorati con gli stemmi del marito e della moglie.
Dopo aver guardato attento i lucidi bricchi di peltro sulla
credenza, gli venne d’improvviso alla memoria il piccolo
e sporco bricco d’argento che gli aveva portato sventura
e ricordò il triste tugurio dov’era cresciuto, e timoroso di
doverci ritornare, domandò preoccupato :
DIETEGEN 417

— Ma dovrò tornare a casa? Non so più la strada!


— Non hai bisogno di saperla, — disse la madre com­
mossa accarezzandogli il mento — non ti sei ancora ac­
corto che devi ormai rimanere con noi? Suvvia, bambina,
fagli fare il giro della casa e del bosco e mostragli bene
ogni cosa, ma non andate troppo lontano !
Küngolt lo prese per mano e lo condusse anzitutto nel
piccolo locale dove suo padre teneva le armi. Vi stavano
appese sei o sette belle balestre e inoltre spiedi da caccia,
pugnali e coltelli, e in un angolo c’era anche il lungo
spadone del guardaboschi. Dietegen contemplò ogni co­
sa senza aprir bocca, ma con gli occhi ardenti; Küngolt
salì su una sedia per porgergli le balestre, di cui talune
erano ornate di artistici intarsi. Il ragazzo ammirava tutto
con occhi rispettosi, come farebbe un giovanetto pieno di
talento visitando in sua assenza lo studio di un gran pit­
tore. La promessa della ragazzina, che presto avrebbe
potuto cominciare a lanciar frecce, non potè a dir vero
essere mantenuta, perché le frecce erano chiuse in un
cassetto; in compenso però gli diede in mano una bella
lancia corta, tanto perché fosse armato, e con quella lo
condusse nel bosco. Attraversarono prima una riserva
cintata, dove la città teneva allevamento di cervi dome­
stici, affinché nei banchetti pubblici non mancasse mai un
buon boccone d’arrosto. La bimba fece accostare un cer­
vo e alcuni caprioli, animali che sino ad allora Dietegen
non aveva mai veduto se non già morti, così che se ne
stava estatico con la sua lancia appoggiata alla spalla,
senza saziarsi di guardare l’andirivieni delle belle bestie.
Stese con desiderio la mano verso un cervo superbo per
accarezzarlo, e quando quello d’un balzo fuggì al galop­
po, gli corse dietro con grida di giubilo, seguendolo a
gara per un ampio giro. Era forse la prima volta in vita
sua che esercitava in quel modo il suo corpo e che prova­
va la gioia di vivere; il cervo, pieno di grazia e di forza,
pareva attirare per suo spasso il fanciullo e sfoggiare nella
fuga i suoi balzi più rapidi.
Ma Dietegen tornò a farsi silenzioso e pensieroso quan­
do entrarono nel bosco d’alto fusto, dove gli abeti e le
4i8 LA GENTE DI SELDWYLA

querce, i pini e i faggi, gli aceri e i tigli si ergevano fitti e


alti verso il cielo. Gli scoiattoli balenavano rossastri di
ramo in ramo, s’udiva il martellare del picchio e dall’alto
lo stridere degli uccelli rapaci, e mille segreti pareva sus­
surrassero invisibili fra le verdi corone e i densi cespugli.
Küngolt rideva come una pazza constatando che il po­
vero Dietegen non capiva e non sapeva nulla di nulla, pur
essendo cresciuto in una cittadina posta fra boschi e mon­
tagne, e si compiacque di istruirlo in ogni cosa dicendoglie­
ne il nome. Gli mostrò la ghiandaia appollaiata sui rami
più alti e il picchio variopinto proprio mentre si arrampi­
cava su un tronco, e di tutto il fanciullo molto si stupiva e
anche che alberi e arbusti avessero tanti e tanti nomi. Egli
non sapeva neppur distinguere le piante di nocciole o di
more. Passarono accanto ad un ruscelletto sonante men­
tre, svegliata dai loro passi, una biscia guizzava via rapi­
da, tuffandosi nell’acqua e allontanandosi a nuoto o ce­
landosi poi fra le pietre del fondo. Subito la fanciulla gli
strappò di mano la lancia, cercando con essa di frugar
nell’acqua per scovare la biscia. Ma quando Dietegen
vide che stava per maltrattare la sua bell’arma lucente,
gliela ritolse subito, facendole notare che quelle pietre
avrebbero guastato la bella punta lucente.
«Hai proprio ragione e di te si potrà far qualcosa!»
disse improvvisamente il guardaboschi che stava con un
suo garzone alle spalle dei ragazzi, senza che essi, per il
rumore del torrente, l’avessero sentito. Il garzone portava
un gallo cedrone da loro preso a caccia, poiché erano già
usciti di buon mattino. Dietegen ebbe il permesso di ap­
pendere lo splendido volatile alla sua lancia e di portarlo
sulla spalla, in modo che le ali spiegate gli nascondevano
gli agili fianchi, e il guardaboschi osservava con compia­
cimento il bel giovanetto, ripromettendosi di fame un
buon aiutante.
Per il momento però, bisognava che imparasse alla me­
glio a leggere e a scrivere e a questo scopo doveva recarsi
ogni mattina insieme a Küngolt in città, ove, in un con­
vento di suore e in uno di frati, i figli dei cittadini riceve­
vano una prima istruzione. Ma l’insegnamento migliore
DIETEGEN 419

fu per Dietegen quel che gli impartiva durante l’andata e


il ritorno la sua compagna, schiudendogli il mondo, infor­
mandolo di tutto quello che incontravano per via. La pic­
cola maestra in ciò seguiva un metodo pedagogico di
strana invenzione. In un primo tempo prendeva a gabbo il
povero ragazzo credulo e ignorante, infinocchiandolo in
mille modi, ma quando poi quello accettava bonario le
sue storie e le sue bugie, manifestando il proprio stupore,
lei lo mortificava dichiarandogli che erano tutte fandonie,
e dopo averlo schernito per la sua cieca fede gli rivelava
con grande sapienza la vera realtà del mondo, per quel
che ne sapeva la sua testolina di bimba, e il compagno si
proponeva arrossendo di essere più accorto un’altra volta,
ma ricadeva poi nella trappola successiva. A poco a poco
però, così ammaestrato, imparò l’andar del mondo, e se ne
accorse con suo spavento un ragazzo che aveva tentato di
imitare Küngolt volendo dar da bere a Dietegen una im­
pudente fandonia e ricevendone in cambio un improvviso
pugno sul naso. Küngolt, sconcertata dalla scena, era cu­
riosa di sapere se quell’ira si sarebbe sfogata anche contro
di lei e mise subito alla prova il suo scolaro con nuove
menzogne, ma non senza prudenza. Da lei invece accet­
tava ogni cosa ed essa potè continuare sfacciatamente il
suo insegnamento, finché s’accorse che il compagno comin­
ciava a scherzare bonariamente delle sue fandonie e inizia­
va anche una contropartita, ricambiando le sue mali­
ziose trovate con delle bizzarre invenzioni abbastanza
argute, tanto che fu lei a trovarsi non di rado nell’im­
barazzo. Pensò allora che era giunto il momento di
licenziarlo da quella scuola e fargli fare un passo avanti.
Cominciò a tiranneggiarlo in tal misura che egli sofferse
quasi più rigida schiavitù che non un tempo in casa dei
suoi tutori ; toccava a lui sempre portare, alzare, andare a
prendere ed eseguire tutto. Non un momento gli era per­
messo lasciarla, doveva attingere acqua, coglier frutti,
sgusciar le noci, tenerle il cestello o affibbiarle le scarpette ;
tentò persino di insegnargli a pettinare e a intrecciare i
suoi capelli, ma qui il ragazzo si ribellò. Essa gli tenne il
broncio e litigò con lui, e quando anche la mamma prese
420 LA GENTE DI SELDWYLA

le parti del ragazzo e la ammoni a farla finita, giunse


persino a mancarle di rispetto.
Dietegen però non ricambiava le scortesie né le parole
stizzose e si serbava sempre docile e paziente. La padrona
di casa vedeva tutto questo con grande compiacimento e
per ricompensarlo allevava il fanciullo come un figliolo,
dandogli tutti quei consigli tanto delicati e fini e quei sug­
gerimenti inavvertiti che si tramandano di solito soltanto
al proprio sangue e coi quali gli si conferisce il bel colore
di tradizionali buone costumanze. Ella ebbe per vero dire
il vantaggio di trovare nel fanciullo un vero e proprio
modello di tutte le virtù per quella sfacciatella d’una fi­
gliola ; era veramente divertente osservare l’inquieta Kiin-
golt che talvolta si sforzava di imitare contrita quel buon
esempio e che tal altra invece ne era irritata e stizzita. Un
giorno tanto si arrabbiò che gli andò contro impetuosa­
mente con le forbici : Dietegen le afferrò con rapida ener­
gia il polso e senza farle male e senza neppure un’occhia­
taccia, le tolse di mano, con dolce violenza, le forbici. La
scena commosse tanto la madre, che vi aveva assistito non
vista, che essa accorse e strinse fra le braccia il fanciullo
amorevolmente baciandolo. La bimba usci dalla stanza
senza parole, pallida di eccitazione, e la madre gli disse:
«Va’, riconciliati con lei, rabbonisci quell’ostinata! Tu
sei il suo buon angelo!».
Dietegen andò a cercarla e la trovò dietro la casa, sotto
un albero di sambuco : piangeva disperatamente e convul­
samente e aveva rotto la sua collanina stringendola attorno
alla gola come per strangolarsi e ora calpestava le perline
di vetro cadute a terra. Quando Dietegen le si accostò,
tentando di prenderle le mani, essa gridò fra i singhiozzi:
«Nessuno fuor di me deve baciarti! Tu sei mio, mio
possesso soltanto, io sola ti ho liberato da quella bara ove
saresti rimasto per sempre ! ».

Il ragazzo s’era fatto robusto e un giorno il guardabo­


schi dichiarò che era ormai venuto il momento di portarlo
nella foresta con sé a imparare l’arte della caccia. Venne
così strappato dal fianco di Küngolt e passò quasi tutte le
DIETEGEN 421

sue giornate, dall’alba al calar della no tte, nei boschi, nella


landa e fra le paludi, insieme agli uomini. Solo allora le
sue membra si svilupparono agili e forti che era un piacere
a vederlo; rapido e duttile come un cervo obbediva al­
l’istante, correndo dovunque lo mandassero. Docile e si­
lenzioso, era sempre a disposizione, per portare gli arnesi,
aiutare a porre le reti, superare a salti coste e fossati per
spiare ove fosse la selvaggina. Imparò presto a conoscere
le orme degli animali, a imitare i richiami degli uccelli,
e prima che ci fosse tempo d’accorgersene, avviò un gio­
vane cinghiale verso lo spiedo che l’aspettava. Il guarda­
boschi diede allora anche a lui una balestra e con questa
il giovanetto s’addestrò sia al bersaglio che contro la
selvaggina, tanto che quando raggiunse sedici anni era
ormai un buon cacciatore cui si poteva affidare ogni
compito e già il guardaboschi lo mandava solo a guidare i
garzoni o a sorvegliare le riserve di caccia della città.
Si poteva quindi vedere Dietegen per la montagna,
non munito soltanto della balestra sulla spalla, ma anche
di carta e penna alla cintura; e così divenne coi suoi occhi
vigilanti e con la sua memoria vergine un ottimo aiuto
del suo padre adottivo. Questi, vedendolo farsi sempre
più esperto, lo prendeva ogni giorno più in affezione
e diceva che il giovane avrebbe dovuto diventare un
perfetto cittadino capace di difendersi.
Ben si comprende che Dietegen era devoto coll’anima
e col corpo al suo buon protettore, giacché nulla è pa­
ragonabile all’affetto di un adolescente per colui che è
disposto a tramandargli e a insegnargli il meglio di sé e
che da lui è ritenuto modello impeccabile.
Il guardaboschi era un uomo di circa quarant’anni, al­
to e vigoroso, dalle spalle ampie e dal bel volto. I suoi ca­
pelli biondi erano già velati da una sfumatura d’argento,
mentre erano giovanili il colorito del volto roseo e fresco e
gli occhi azzurri, grandi, aperti e pieni di fuoco. Da gio­
vane era stato uno dei più allegri e bizzarri Seldwylesi,
sempre pronto a giocare i tiri più strani, ma, dopo sposata
la giovane moglie, s’era mutato d’un tratto, divenendo
l’uomo più tranquillo e posato del mondo. La moglie era
422 LA GENTE DI SELDWYLA

infatti di complessione estremamente delicata, piena di


timida bontà e, benché fosse tutt’altro che sciocca, non
avrebbe saputo replicare a un’ingiuria neppure con una
parola aspra. Probabilmente ima donna energica e com­
battiva avrebbe spinto il marito a nuove imprese ; ma di
fronte a quella debolezza piena di grazia della sua mo-
gliettina egli si comportò da vero uomo forte, custoden­
dola come le sue pupille, facendo ogni cosa che le desse
piacere e rimanendo tranquillo presso il focolare dopo aver
compiuto il lavoro del giorno.
Soltanto nelle solennità maggiori della città, tre o
quattro volte l’anno, scendeva fra i magistrati e i cittadi­
ni, prendeva la direzione della baldoria con fresca ener­
gia e, dopo aver ubriacato i più forti bevitori l’uno dopo
l’altro, partiva ultimo dall’osteria municipale, risalendo
ritto ed energico su alle sue foreste.
Il divertimento maggiore era però quello dell’indo­
mani, quando la testa gli ronzava dolcemente e si destava
con l’umore mezzo allegro e mezzo minaccioso di un buon
leone, tanto lontano da quella depressione da gatti in
cui sono immersi oggigiorno i bevitori, quanto è ap­
punto lontano un leone da un gatto. Compariva nel chia­
ro sole mattutino alla prima colazione e, dominando ogni
malessere, la iniziava con una facezia gettata brontolando
o un’allegra trovata. Sua moglie, sempre desiderosa di
parole scherzose da parte di quel marito di solito tacitur­
no, rideva subito con un trillo così limpido che non ci si
sarebbe mai aspettati da una creatura tanto delicata ;
ridevano anche i bimbi, i cacciatori e i domestici. Così
continuava la giornata, si lavorava fra risa ininterrotte
e il padrone era sempre davanti a tutti, maneggiando la
scure o sollevando grossi pesi. In una di quelle giornate
era una volta scoppiato un incendio in città; al di sopra
dei tetti in fiamme si ergeva un solaio di legno irraggiungi­
bile, dal quale una povera vecchia dimenticata invocava
aiuto tenendo sulle spalle uno storno addomesticato, pie­
toso e ridicolo nel suo spavento. Nessuno osò spingersi sino
a lei, fuorché il guardaboschi subito accorso in aiuto. Que­
sti s’arrampicò su una sporgenza di un alto muro di fronte,
DIETEGEN 423

portandosi dietro con forza sovrumana una scala e, solle­


vatala in aria, la spinse sino alla finestra della povera di­
sgraziata. Attraversò quella specie di aereo ponte e se ne
ritornò, reggendo la vecchia tra le braccia, con l’uccello
posato sul capo mentre le lingue di fuoco stavano già per
lambirlo. Fece tutto questo come fosse una burla, accom­
pagnandosi con parole e gesti scherzosi.
Quando aveva portato a termine un buon lavoro, in­
vitava generosamente i suoi familiari a un allegro festi­
no, e in quei casi dimostrava una insolita tenerezza per
la moglie, prendendola persino sulle ginocchia con gran­
de divertimento dei figli, chiamandola il suo uccellino,
la sua rondinella, mentre essa, con le braccia incrociate
in estasi di beatitudine, ridendo, non staccava gli occhi dal
marito.
Fu in una di queste giornate che egli organizzò un bal­
lo, essendo per giunta proprio il primo giorno di maggio.
Mandò a chiamare un musicante e invitò qualche giovane
della città. Si ballò leggiadramente sul prato appena fal­
ciato, sotto gli alberi in fiore accanto alla casa, e il padro­
ne aprì le danze con sua moglie, che, adornata con mo­
destia, volteggiava, sorridendo, con la sua fine personcina’.
Dietegen, che in quegli ultimi anni era sempre stato ze­
lantemente fra gli uomini, s’accorse allora come Küngolt
cominciasse a diventare una bella ragazza. Il volto dai
lineamenti delicati e graziosi ricordava quello della ma­
dre, ma nella persona somigliava piuttosto al padre, giac­
ché cresceva alta come un giovane abete e l’ossatura del
torace era così robusta da farla quasi sembrare formosa,
malgrado i suoi quattordici anni; i riccioli dorati scende­
vano abbondanti sul dorso nascondendo le spalle ancora
un poco ossute, ma già di bella linea. Era vestita quel
giorno di verde e aveva sul collo nudo la collana d’ambra
e in testa, seguendo come le altre fanciulle l’uso del tempo,
una ghirlandetta di rose. Gli occhi giravano attorno fe­
stosi e lucenti, ma d’un tratto mandarono lampi birichini,
colpendo come con delle frecce il gruppo dei giovanotti, per
sostare un poco su Dietegen e passar poi oltre tranquilli.
Dietegen non distolse lo sguardo da lei, essa si voltò ancora
424 LA GENTE DI SELDWYLA

una volta a guardarlo, al che egli abbassò gli occhi arros­


sendo, mentre Küngolt si diede ad aggiustarsi i capelli. Fu
la prima volta che si guardarono con qualche imbarazzo,
ma poco dopo si trovarono vicini e si unirono dandosi la
mano in una danza a girotondo. Un nuovo senso di dol­
cezza pervase Dietegen e non l’abbandonò neppure
quando Fanello si sciolse. Küngolt da parte sua se ne
staccò come da una cosa sua, della quale si è ben sicuri.
Solo di tanto in tanto gli gettava uno sguardo, e allorché
egli capitava vicino ad altre ragazze ella compariva im­
provvisamente nel gruppo.
Regnò dunque perfetta beatitudine fino a tarda sera:
i giovani divennero vispi e arditi come colombacci, su­
perando presto l’allegro padron di casa, mentre questi si
specchiava compiaciuto nei lieti successori, occupandosi
però soprattutto della moglie, evidentemente felice di ve­
derla tanto contenta, soprattutto quand’essa cominciò ad
affibbiargli per scherzo tutta una serie di soprannomi ri­
dicoli. Per quanto la festa si serbasse nei limiti onesti,
ai cittadini di un’altra città sarebbe potuto forse sem­
brare di un filo troppo calda; il vino drogato offerto agli
invitati era stato preparato secondo tutte le regole, ma
vi era forse un po’ troppo zucchero, e così nella loro gioia
un eccesso di dolcezza. Le mani delle fanciulle si appog­
giavano ininterrottamente alle spalle dei giovani e molti
della brigata non si trattenevano dal prendersi le ragazze
in grembo, scambiandosi qua e là un bacetto, senza bi­
sogno di giustificarlo con giuochi di penitenze come usan
fare oggigiorno i nostri filistei. Insomma, mancava loro
quella certa fredda ritenutezza, di cui Dietegen, quale
oriundo di Ruechenstein, era anche troppo provvisto. Ben­
ché egli infatti fosse già innamorato, si teneva lontano
dalle moine, che quasi tutti avevano cominciato a scam­
biarsi, come dal fuoco, restando prudentemente fuori dal­
la linea del pericolo. Tanto più audace e confidenziale
divenne invece Küngolt la quale, come sogliono fare le
adolescenti ancora inesperte, non sapeva dominarsi e
andò anzi a cercare il contegnoso compagno, che se ne
stava seduto all’ombra di grandi alberi, mettendosi ac­
DIETEGEN 425

canto a lui, afferrandogli la mano e giocherellando quasi


puerilmente con le sue dita. Quando egli la lasciò fare e
anzi, con un’aria da protettore, quasi fosse il suo padrino,
si diede a passarle leggermente la mano fra i riccioli, essa
senz’altro gli pose un braccio attorno al collo e lo vezzeg­
giò con la disinvoltura e anche con l’impeto incontrollato
di una bimba, mentre in lei era già la donna a destarsi.
Dietegen, che non era più un fanciullo, volle essere ra­
gionevole per due, e stava appunto preoccupandosi di
sciogliersi dalle sue braccia quando sopravvenne la ma­
dre della fanciulla, che fu lieta di vedere i due ragazzi
insieme.
— Fate bene a tenervi uniti — disse stringendoli fra
le braccia ambedue insieme — e tu, figliola mia, cerca
di essere buona con Dietegen ! Egli merita davvero di
trovare una patria non soltanto nella nostra casa, ma
anche nel tuo cuore, e tu, Dietegen, sii sempre un buon
custode e protettore per la mia piccina e non perderla
mai di vista, poiché di te mi fido!
— Lui appartiene a me sola, ed è già un pezzo — disse
Küngolt quasi in tono di sfida, e intanto lo baciò ardi­
tamente e alla leggera su una guancia, un po’ come fareb­
be una fanciulla col fidanzato e un po’ come una bimba
bacia il suo gattino. A questo punto il povero giovanotto
restò troppo confuso fra madre e figlia : si liberò quasi bru­
scamente da loro e s’allontanò alcuni passi, ma Kün­
golt lo inseguì ridendo, e quand’egli nella corsa si trovò
vicino alla bella mammina, questa lo afferrò scherzando
e lo trattenne con le parole:
— Eccotelo, figlioletta mia ! Corri a tenerlo saldo !
Quand’egli fu di nuovo così prigioniero, sentì il cuore
battergli di grande emozione, e mentre gli pareva d’essere
così in un asilo sicuro, provò allora per la prima volta il
senso della sua solitudine nel mondo. Gli pareva di essere
un’anima perduta, caduta dall’albero della vita, rac­
colta bensì da tenere mani soccorritrici, ma privata per
sempre di una propria libera esistenza. Perciò, mentre in
lui la coscienza della libertà personale lottava con la te­
nera simpatia, rimase lì trepido e silenzioso, da una parte
426 LA GENTE DI SELDWYLA

ribelle alla prepotente affettuosità delle donne, dall’altra


tentato di trarre impetuosamente a sé la ragazza e di
prenderla per i capelli. Voleva bene alla madre con devo­
zione riconoscente e fedele, ma quell’invito spregiudicato
alla tenerezza gli riuscì strano e perturbante; si considera­
va, è vero, legato alla fanciulla, ma sentiva con molta se­
rietà la responsabilità dei suoi buoni costumi, e quando
Küngolt in quel momento tentò di baciarlo sulla bocca,
interpose rapido la mano, dicendo con benevolenza, ma
col tono di un vecchio pedagogo:
— Sei troppo giovane per far questo ! Non sta bene !
La fanciulla impallidì di stizza e di mortificazione, poi
si allontanò, andando a unirsi alla brigata, dove prima
ballò attorno con sfrenatezza eccitata, e andò poi a se­
dersi rabbuiata in un canto. La madre accarezzò sorri­
dendo la guancia del giovane censore e gli disse:
— Sei proprio un compagno ben rigido ! Ma tanto più
fedelmente ti occuperai della mia figliuola ! Promettimi di
non abbandonarla mai ! Vedi, noi siamo tutti gente al­
legra che forse pensa troppo poco all’avvenire !
Dietegen, con gli occhi umidi di pianto, le porse la ma­
no ed essa lo riaccompagnò tra la folla. Ma Küngolt gli
volse dispettosa le spalle, mentre con vero sdegno e dolore
fissava gli occhi nella notte di maggio.
Strano ! A un tratto la bimba era cresciuta abbastan­
za da procurar crucci amorosi al giovane tanto conte­
gnoso; egli pure infatti se ne rimase in un canto, triste e
imbarazzato, più vergognoso ancora della ragazza. Quan­
do l’allegro guardaboschi se ne accorse, domandò:
— Che cosa succede? Perché tanta melanconia? — E
Küngolt scoppiò a piangere appassionatamente, gridando
in faccia a tutti:
— Mi è stato regalato dai giudici, quando non era
che un cadavere, che io sola avevo richiamato in vita !
Non tocca quindi a lui giudicarmi, ma a me sola giudicar
lui, e deve fare tutto quel che desidero, e se a me piace
di baciarlo, la cosa riguarda me sola e lui ha da star
zitto !
Tutti risero a quella strana uscita, ma la madre prese
DIETEGEN 427

il giovane per mano, e l’accompagnò verso la fanciulla


dicendogli :
— Vieni, fa’ la pace con lei e permettile per questa
volta che ti baci ! Più tardi sarai tu a comandare e a de­
cidere in simili faccende !
Dietegen, arrossendo per la quantità degli spettatori,
offrì a mezzo la bocca alla fanciulla: questa lo afferrò
prepotentemente per i capelli e lo baciò e poi, gettandogli
un’ultima occhiataccia irosa, corse via così rapida e piena
di sdegno, che la massa dorata dei suoi riccioli ondeggiò
nell’aria della notte andando a sfiorare il volto di Die­
tegen. Divampò allora anche in lui una fiamma di pas­
sione; si staccò poco dopo dalla brigata e si diede a cercare
sempre più impetuoso quella ragazza selvaggia, finché la
trovò dall’altro lato della casa, seduta meditabonda pres­
so la fontana e intenta a giocherellare con la sua collana
d’ambra. Le afferrò le mani, stringendole nella sua destra,
mentre con la sinistra le serrava la spalla cosicché la
splendida, ancora acerba creatura sussultò sotto la sua
stretta, e le disse precipitosamente:
— Ascolta, bambina ! Non voglio che ci si prenda giuo­
co di me ! Da oggi tu sei mia quanto io son tuo e nessun
altro uomo ti dovrà mai aver viva ! Ricordatene quando
avrai l’età per pensarci !
— Guarda quest’uomo grande e vecchio ! — disse Kün­
golt con un risolino, ma impallidendo un poco — Tu sei
mio e non io son tua ! Ma non preoccuparti perché non
ti lascerò mai libero!
Così dicendo si alzò, e senza più guardare il compagno
d’infanzia girò attorno alla casa.
La buona moglie del guardaboschi in quella fresca notte
di maggio prese freddo e si guadagnò una malattia mor­
tale, cui soccombette dopo pochi mesi. Sul suo letto di
morte si torturava per il marito e per la figlia; cercava di
negare ostinatamente la causa del suo male ben sen­
tendo che quella sua non era la giusta morte di una brava
massaia, ma una morte procurata dall’imprudenza e fra
i divertimenti.
Quando giacque nella bara, tutti si rattristarono e
428 LA GENTE DI SELDWYLA

l’intera città la compianse, perché non aveva un nemico.


Il marito pianse la notte nel suo letto, ma durante la
giornata non disse una parola; s’accostava di tanto in tan­
to alla bara a contemplare la salma immobile e s’allon­
tanava poi scuotendo il capo.
Fece intrecciare una greve ghirlanda con ramoscelli
d’abete e la pose sulla bara, e sopra la figliola vi ac­
cumulò una montagna di fiori selvatici, e a quel modo
la morta fu portata giù alla chiesa, seguita dai parenti,
dagli amici e dai garzoni cacciatori.

Quand’essa fu a riposare nella terra fredda, il guarda­


boschi accompagnò il corteo sino alla locanda dove aveva
fatto allestire un abbondante banchetto funebre. Aveva
cacciato lui stesso la selvaggina, un capriolo e due splen­
didi galli cedroni, pieno di dolore per la sua perdita,
e mentre i due uccelli con le loro belle penne giunsero
in tavola, egli dovette ripensare alla foresta sulla monta­
gna dove li aveva cacciati e che nei verdi anni del suo
amore aveva tante volte percorsa con l’immagine della
morta amata nel cuore. Ma il guardaboschi non potè
abbandonarsi a lungo a simili ricordi, giacché quando il
chiaretto e la malvasia vennero serviti e la tavola fu in­
vasa da un gran cesto di dolciumi, gli ospiti ritrovarono
la loro vivacità; così in breve la mesta cerimonia non
parve differire molto da un banchetto per battesimo.
Il guardaboschi sedeva fra Dietegen e Küngolt, i quali
per via della sua robusta persona non avrebbero potuto
vedersi se non chinandosi innanzi oppure guardandosi
dietro le spalle di lui, ma non lo facevano, essendo i soli,
in mezzo alla rinascente allegria, che restassero seri e
melanconici. Gli stava di fronte una donna di circa
trent’anni, una sua cugina di nome Violande. Questa
signora si faceva notare per le vesti strane e ricercate, che
sembravano essere non l’abbigliamento di una donna
soddisfatta e felice, ma di un’anima vuota e inquieta.
Era bella e sapeva lanciare occhiate graziose, quando
non le passava improvvisa sulla fisionomia un’espressione
di falsità e di egoismo.
DIETEGEN 429

Già a quattordici anni era stata innamorata del futuro


guardaboschi, perché era allora il più alto e il più bello
dei ragazzi che le eran capitati sott’occhio. Egli però non
s’era accorto della precoce passione, non badando affatto
alla cuginetta e avendo già la mente rivolta alle ragazze
più grandi che gli piacevano. Invidiosa e gelosa e già piena
di malizia, la giovinetta era riuscita a mandare in fumo
due o tre piccole relazioni amorose del guardaboschi, de­
formando e confondendo le cose col riferirle impercettibil­
mente alterate. Quando egli era in procinto di conqui­
stare una bella ragazza, l’ipocrita fanciulla inventava e
diffondeva sottomano con tutta disinvoltura dei tratti o
dei fatti che sembravano dimostrare come egli, in fondo,
non avesse alcuna simpatia per la persona in questione,
ma pensasse anzi a un’altra e fosse in genere un giovane
astuto e insincero. Egli non potè quindi più volte capire
perché mai la donna da lui amata s’allontanava d’un
tratto con diffidenza, mentre un’altra, alla quale egli non
aveva mai pensato, di colpo lo onorava delle sue grazie e,
una volta cominciato, non smetteva prima che la gente co­
minciasse a parlare di loro due. Egli allora piantava indi­
spettito e confuso la prima e la seconda concedendosi una
breve vacanza. In questo modo, benché egli fosse un
bel giovanotto in gamba, tutto gli andò sempre male,
finché non s’incontrò con la ora defunta sua moglie.
Questa se lo tenne ben saldo, perché era leale e aperta
quanto lui, e tutte le arti della piccola strega riuscirono
vane; essa neppure le avvertì, perché non guardava altro
che gli occhi del suo amato. Di ciò egli le aveva serbato
gratitudine, rimanendole fedele e considerandola, sinché
fu viva, una preziosa conquista.
Violande invece, quando vide finalmente a posto l’a­
mico, esercitò le apprese raffinatezze, tanto perché non
rimanessero inutilizzate, in altra direzione, con sempre
maggior ingegno e successo, quanto più vecchia si fece,
ma senza fortuna per se stessa. Rimase infatti zitella, e
gli uomini che riusciva a sottrarre alle amiche si guar­
davano dal rivolgersi a lei, anzi parevano sentir per lei
piuttosto odio e disprezzo. Si rivolse allora al cielo e
43° LA GENTE DI SELDWYLA

disse di volere farsi monaca, ma poi ci ripensò e all’ultima


ora, invece di entrare in un convento, entrò in un Ordine
dal quale avrebbe potuto uscire prendendo anche marito.
Sparì così dagli occhi della gente, passando dall’una casa
religiosa all’altra in città diverse, senza trovare mai pace.
D’un tratto, mentre la moglie del guardaboschi era ma­
lata, ricomparve in abiti secolari a Seldwyla e fu così
che venne a sedere di fronte al povero vedovo durante il
banchetto funebre.
Dominò la propria inquietudine, e in certi momenti
ebbe un’aria modesta e quasi infantile. Quando le donne
s’alzarono per girare attorno mentre gli uomini conti­
nuavano a bere seduti a tavola, essa s’accostò a Küngolt,
la baciò e le si mostrò amica. La ragazza si sentì onorata
dagli approcci di una dama, quasi di una religiosa, che
aveva visto tanti paesi e pareva conoscere il mondo:
s’immersero subito in una lunga chiacchierata confiden­
ziale, come se si conoscessero da anni, e quando tutti se
ne andarono Küngolt chiese al padre di invitare Violande
a guidare la sua casa; poiché ella si sentiva ancora troppo
giovane e inesperta per quel compito. Il padre, che si tro­
vava in uno stato d’animo singolarmente ondeggiante fra
il lutto e l’ebrezza, mentre i suoi pensieri andavano tutti
alla morta, diede il suo consenso senza riflessione, per
quanto non avesse gran simpatia per la cugina e la rite­
nesse una persona bizzarra.
Nei giorni seguenti ella salì dunque alla casa forestale
e prese posto dignitosamente e non senza commozione
presso quel focolare, dove pareva che dovessero adem­
piersi una buona volta, dopo lungo errare, i sogni della
sua prima giovinezza. Aprì modesta gli armadi di colei
che l’aveva preceduta, vide le tele e le provviste bene or­
dinate e in profonda pace; vasi e pentole, bricchi e reci­
pienti stavano in file precise, mentre dal tetto pendevano
tranquilli i fascetti di lino. Ella lasciò che quella pace re­
gnasse ancora per un paio di settimane, ma poi cominciò
a poco a poco a mettere i pentolini tra i pentoloni, a
mischiare le pezze di tela, ad arruffare il lino, e quan­
do ebbe finito quel lavoro, aveva nel frattempo por­
DIETEGEN 431
tato il disordine anche fra le persone di quella casa.
Avendo intenzione di riuscire a sposare il padrone,
per mettersi a posto, le parve anzitutto necessario stac­
care per sempre la sua figliola dal giovane Dietegen, del
quale aveva subito compreso la situazione. A buona ra­
gione si disse che Dietegen, se avesse ottenuto in moglie
la ragazza, sarebbe rimasto in casa del guardaboschi
come suo successore e che questi, data la sua devozione
per la moglie morta, non si sarebbe risposato, il che
invece sarebbe agevolmente accaduto qualora i due gio­
vani se ne fossero andati, facendogli sentire la solitudine
della sua casa.
Mentre Küngolt si faceva di giorno in giorno più bella,
essa risvegliò in lei la coscienza precoce di tale bellezza
e uno spirito di civetteria, sia pure ancora puerile, riu­
scendo, senza che alcuno lo notasse, a mettere con poche
parole la ragazza in un rapporto imbarazzante rispetto
a tutti i giovanotti. La piccina imparò a considerare cia­
scuno a seconda se scopriva e apprezzava la sua bellezza,
mentre ciascuno di quei giovani a sua volta si illudeva
di essere stato particolarmente notato dalla bella ragazza.
In seguito Violande fece venire altre leggiadre giovani,
in modo che si formassero liete brigate, dove sotto la sua
guida non mancava mai una certa galanteria.
Fu così che Küngolt, ancor prima di compiere i sedici
anni, si vide radunato d’intorno tutto un gruppo di
spiriti inquieti.
Vi furono svariate feste, piccole e grandi, incidenti
e piccole dispute, canti e suoni e, come suole avvenire,
taluni ospiti indiscreti o sciocchi si resero sgraditi, ma
furono tuttavia più degli altri tollerati.
Di tutto questo Dietegen non si compiacque certo.
Da principio stette a vedere con una certa timida melan­
conia, che non torna troppo di vantaggio agli adole­
scenti; ma quando la brigata ne sembrò più divertita
che commossa e Küngolt medesima non mostrò che fred­
dezza, egli volle reagire tenendo goffamente un broncio
ostinato. Con ciò ebbe ancor minore successo e andò a fi­
nire che un giorno gli parve d’accorgersi che Küngolt
432 LA GENTE DI SELDWYLA

se ne stava sola in un gruppo di giovanotti dall’aria bef­


farda, intenta ad ascoltare con compiacenza le maldi­
cenze evidentemente rivolte contro di lui.
S’allontanò e da quel momento evitò tacitamente ogni
compagnia. Era entrato intanto nell’età in cui gli adole­
scenti più robusti si preparavano a divenir soldati. Sulle
terre di quella riserva di caccia gravava da tempo l’ob­
bligo di tener pronte tre o quattro armature da guerriero
e il guardaboschi si era sempre fatto dovere di fornire
anche propri uomini. Si compiaceva di pensare che Die-
tegen, snello e slanciato come era, sarebbe stato di lì a
poco adatto per una bella corazza nella quale egli aveva
sperato di vedere un giorno il suo unico figlio.
Dietegen si recava quindi durante le lunghe serate in­
vernali insieme ad altri garzoni nella scuola di scherma,
dove imparava a servirsi delle armi corte secondo l’uso
del luogo ; e di primavera e per tutta l’estate trascorse più
di una domenica e di una giornata festiva in campo aperto
o su una radura, esercitandosi con gli altri giovani alle
rapide marce e alle file serrate, oppure a superare ampi
fossati con le lunghe lance, rendendo in ogni modo ro­
busto il proprio corpo e sottoponendosi infine all’istru­
zione nelle armi da fuoco.
Poiché per tutto questo la vita della casa si era mutata
e poiché si sentiva particolarmente disturbato dall’af-
faccendarsi delle donne, pur non osservando di che cosa
mai si occupassero, il guardaboschi da parte sua s’av­
vezzò a riprendere, molto più spesso di quanto solesse ai
tempi in cui era in vita sua moglie, la via delle osterie dei
suoi concittadini. Lontano dalle puerili stoltezze di casa
sua subiva la più matura stoltezza degli uomini, e talvolta
rientrava la sera con la testa pesante ma sempre ritta, ver­
so i suoi boschi, quando già suonava la campana di
mezzanotte.
Così le cose procedevano in direzioni diverse e così
passò il tempo finché in una chiara giornata di San Gio­
vanni non cominciarono ad adempiersi svariati destini.
Il guardaboschi scese in città per recarsi alla sua Corpo-
razione, che celebrava il raduno principale con un grande
DIETEGEN 433

banchetto annuale, e già si preparava a godersela sino a


notte fatta.
Dietegen si recò per tempo nella sala d’armi, con l’in­
tenzione di esercitarsi a tirare a suo piacimento per
tutta quella lunga giornata estiva. Gli altri garzoni an­
darono per conto loro, l’uno a casa dei suoi, l’altro a
ballare con un’amica, il terzo a un mercato a comprare
la stoffa per un abito o un paio di scarpe nuove.
Le donne rimasero quindi sole nella casa del guarda­
boschi, da una parte poco edificate del modo scortese con
cui in quel giorno di festa tutti gli uomini se l’erano
svignata senza pensare a come esse avrebbero passato il
tempo, ma dall’altra guardando fuori nella tremula luce
del sole, spiando il modo di procurare anche per sé un po’
di divertimento.
Cominciarono coll’impastare torte e dolciumi, poi pre­
pararono ad ogni buon conto molto vino caldo drogato
da offrire, come dicevano, agli uomini al loro ritorno la
sera. Infine indossarono gli abiti della festa e si ornarono
di fiori, mentre arrivavano altre fanciulle da esse chiamate
per una festicciuola fra donne, ed erano tutte bene ac­
conciate, mentre anche in casa sino all’ultima servetta
aveva un aspetto grazioso e contento.
Quando calò la sera fu apparecchiata la tavola sotto
i bei tigli che si ergevano davanti alla casa e tutto era
immerso, città e vallata, nella luce d’oro del tramonto.
Le donne sedettero intorno alla tavola, si diedero buon
tempo e cominciarono ben presto a cantare con belle
voci armoniose lunghe canzoni nostalgiche piene di dol­
cezze e di tristezze d’amore, come quella dei «due figli
di re» o quella del «cavaliere con la donzella». Il canto
riecheggiava lontano, invitante, nella campagna, e gli
uccelli nascosti sui tigli o nel bosco vicino, dopo aver per
un pochino ascoltato, finirono per cantare a gara. Ma
presto s’aggiunse un terzo coro, echeggiarono cioè dalla
montagna suoni di violini e di pifferi frammisti a voci
maschili. Era un gruppo di giovani provenienti da
Ruechenstein che sbucava in quel momento dal bosco
infilando il sentiero che, attraversando la residenza fore-
434 LA GENTE DI SELDWYI.A

stale, conduceva alla valle. In capo al gruppo c’erano un


paio di musicanti e a condurli tutti era stato il figlio del
sindaco di Ruechenstein, un tipo piuttosto allegro, di­
verso dai suoi concittadini. Rientrando in famiglia dopo
gli studi, aveva condotto con sé alcuni studenti scioperati,
tra cui un paio di futuri sacerdoti e anche un giovane
monaco nonché Hans Schafürli, lo scrivano di Rue­
chenstein, un bizzarro gobbetto che, munito di una lun­
ga spada, chiudeva il corteo, che era costretto per la
strettezza del sentiero a procedere in fila indiana.
Quand’essi però videro le belle donne canterine in­
terruppero la loro musica, come aspettando la fine della
canzone da esse intonata. Ma intanto erano ammutolite
anche le donne: erano sorprese e sorridevano in atte­
sa degli eventi. Solo Violande non parve sconcertata,
ma subito si diresse verso il figlio del sindaco, che la sa­
lutò cortesemente, spiegandole come avessero pensato di
fare una visita divertente nell’allegra città vicina per non
trascorrere un San Giovanni troppo melanconico, e
aggiunse che ivi li allettava però una sosta migliore,
qualora almeno fosse loro concesso di offrire un ballo a
quelle rispettabili donzelle.
In meno di tre minuti la faccenda fu sistemata e tut­
ti ballavano sul gran prato dinanzi alla residenza fo­
restale; Küngolt col figlio del sindaco, Violande col mo­
naco, e le altre con gli studenti. Il più agile e appassio­
nato era tuttavia lo scrivano che, malgrado la sua gobba,
faceva i salti più lunghi allargando le gambe, in modo
che pareva gli si volessero spaccare fino al mento.
Küngolt non si sentiva però felice, né sapeva che cosa
le mancasse. Quando Violande le sussurrò di badare al
figlio del sindaco per poter essere un giorno la moglie del
sindaco di Ruechenstein, rimase fredda e indifferente,
sinché scorse la danza impetuosa del gobbo che la fece
scoppiare in una risata. Desiderò subito di ballare con
lui e sembrò una scena da favola quand’essa, con la bella
figura vestita di verde e il capo ornato di rose rosso scuro,
passò come volando fra le braccia del grottesco scriva­
no, che celava la sua gobbetta in una giubba scarlatta.
DIETEGEN 435
Ma di colpo mutò umore passando al monaco e da
questo ad uno studente. Non era trascorsa mezz’ora che
già aveva ballato con tutti i giovanotti presenti, così che
tutti, stranamente eccitati, non staccavano gli occhi da lei,
mentre le altre donne a poco a poco cercavano di con­
quistarsi un cavaliere. Affinché ciò accadesse, Violande
invitò la brigata a cena sotto i tigli perché si riposasse e ri­
storasse, e dispose un giovanotto accanto a ogni ragazza,
mettendo Küngolt vicino al figlio del sindaco.
Questa peraltro era come torturata dalla smania di
vedere tutti quei giovanotti ai suoi piedi. Gridò che vole­
va esser lei a mescere il vino e corse in casa per prenderne
più larga provvista. Ivi giunta si introdusse in fretta nella
camera di Violande e andò a rovistare nel suo cofano.
Violande un giorno le aveva mostrato in segreto una
fialetta, confidandole che era un filtro amoroso chiamato
«Vienmidietro»: chiunque ne bevesse un sorso offertogli
da una donna cadeva senza scampo in suo potere, co­
stretto a seguirla. Non c’era in quella fiala il pericoloso e
forte veleno di Ippomane, preparato coi crini della fronte
di un puledro primo nato, ma quella mistura era fatta con
gli ossicini di una rana verde deposta in un formicaio e
dalle formiche divorata e accuratamente spolpata. Co­
munque era forte abbastanza per far girare la testa a una
mezza dozzina di uomini insubordinati. Lei aveva avuto
in dono quella fialetta da una monaca, il cui amante, pri­
ma che ella potesse usarne, era morto improvvisamente di
peste, inducendola a chiudersi per disperazione nel con­
vento. Violande non si era mai arrischiata né a valersi
del filtro, né a disfarsene; perché ne poteva nascere chissà
quale sventura.
Küngolt prese dunque la fialetta e ne versò in fretta e
di nascosto il contenuto in una brocca di vino, con la
quale ritornò fuori all’aperto, col cuore in tumulto. Invitò
tutti i giovani a vuotare i calici, dicendo di voler mesce­
re loro un nuovo vin dolce e seppe manovrare in ma­
niera che alla fine, dopo aver riempito i bicchieri degli
uomini e avere versato ad ognuno un goccio supple­
mentare gettando uno sguardo dolce e scherzoso come
43θ LA GENTE DI SELDWYLA

un lampo di calore, non ne rimase neppure una goccia.


In quelle occhiate imparzialmente distribuite stava ap­
punto il velenoso incantesimo che, unito al vino generoso,
fece girare il capo ai giovanotti, i quali accecati e appas­
sionati si diedero tutti a fare la corte alla splendida ra­
gazza con quell’egoismo che sempre si rivolge subito là
dove si presenta un bene desiderato da un altro o agogna­
to da tanti. Tutti trascurarono le altre donne, le quali,
pallide di rabbia, tenevano gli sguardi bassi o cercavano
di dissimulare il loro imbarazzo chiacchierando ad alta
voce. Persino il monaco, che stava vezzeggiando una
bella servetta bruna, la lasciò andare d’un tratto e Scha-
fürli, lo scrivano gobbetto, con i suoi lunghi passi si pose
dinanzi al figlio del sindaco che teneva Küngolt tenera­
mente per mano.
Questa non dava la preferenza a nessuno: gelida in
cuor suo verso tutti, seppe però tutti lusingarli peggio di
una serpe e quando vide che c’erano cascati l’un dopo
l’altro cercò invece di rabbonire le donne richiamandole
accanto a lei.
Si era fatto buio, le stelle scintillavano e la falce della
luna spiccava sulla foresta, impallidendo però presto di
fronte al bagliore di un grande fuoco di San Giovanni
acceso su un’altura da giovani contadini.
«Andiamo tutti a quel fuoco!» gridò Küngolt «la
via è breve e attraversa piacevolmente il bosco ! Ma, co­
me ben si conviene, precedano le donne e vengano dopo
i giovanotti». Così fu fatto e tutti si avviarono, facendo­
si luce con torce resinose, attraverso il bosco, fra lieti
canti.
Solo Violande rimase a custodire la casa e ad attendere
il guardaboschi, poiché anch’essa pensava quel giorno
di far buona caccia. Non passò molto tempo che quello
giunse, assai eccitato e con la mente piuttosto annebbiata.
Vedendo le tavole disposte sotto i tigli, si sedette e chie­
se giovialmente a Violande una buona bibita che gli
conciliasse il sonno, al che essa s’affrettò ad andare a
preparargliela.
Prima però corse in camera sua a prendere il ben con­
DIETEGEN 437
servato filtro «Vienmidietro», ma non lo trovò più. E
neppure lo potè rinvenire là dove Küngolt distrattamente
l’aveva poi gettato perché già raccolto dalla servetta
che, lasciata in disparte dal monaco, s’era ritirata con
gran rabbia in casa.
Violande però non stette a pensarci molto. Fece il vin
caldo ancor più dolce e drogato e mentre il cugino be­
veva gli si strinse ben vicino. Da essa emanava una tenera
affettuosità : indossava inoltre una bella veste giallo chia­
ro a bordi rossi, che faceva spiccare il candore del collo.
Aveva tolto la ghirlanda dai capelli, per non apparire
infantile, e rialzato invece sulla fronte le sue belle trecce
scure.
— Cugina mia ! — disse il guardaboschi sogguardan­
dola oltre il bicchiere mentre lei gli stava vicinissi­
ma — siete proprio bella oggi !
Ella sorrise beata e lo fissò con occhi splendenti di te­
nerezza dicendogli:
— Finalmente, ma così tardi vi piaccio? Se sapeste
come vi guardavo già volentieri sin da bambina !
Quelle parole furono più efficaci per il buon uomo di
un filtro d’amore: immagini strane, imprecisi ricordi di
una bella ragazzina gli traversarono la mente, mentre
quella bimba gli stava ora accanto con la sua durevole
bellezza di donna in piena maturità, quasi giungendo a
lui improvvisa da una remota lontananza. Il suo sangue
generoso gli salì al cervello eccitato creandovi in gran furia
svariate immagini. Violande gli apparve d’un tratto una
creatura resa preziosa da molti dolori ed esperienze, con
la quale si sarebbe serrato fra le braccia un notevole
tratto di vita ricco di misteri e da cui, offrendole la pace
e una casa, il donatore avrebbe tratto egli stesso un pre­
zioso tesoro.
Le prese la mano, le accarezzò le gote dicendo : « Ma
non siamo vecchi, mia cara cugina Violande ! Non vor­
reste diventare ancora mia moglie?», e poiché essa gli
lasciò la sua mano, curvandosi ancor più verso di lui,
sfavillante di vera felicità, egli staccò l’anello da sposa
della sua prima moglie, che dopo la morte di lei aveva
438 LA GENTE DI SELDWYLA

fissato a mo’ di ornamento al suo pugnale, e lo infilò


nell’anulare di Violande. Essa premette il suo volto sul
largo viso grigio-biondo e barbuto del cugino e i due
s’abbracciarono e si baciarono teneramente sotto il
fruscio dei tigli, mentre il brav’uomo era convinto di
aver trovato la sua fortuna.
Proprio in quel momento tornò a casa Dietegen con
le sue armi. Aveva attraversato il prato, così che i due
non ne sentirono i passi ed egli rimase estremamente
colpito da quello spettacolo. Arrossendo confuso, si ri­
trasse cercando di non farsi notare e girò attorno alla
casa per entrare da una porticina posteriore. Ma da quella
parte gli giunsero dal bosco e grida e richiami come se
qualcuno litigasse o fosse in pericolo. Senza esitare s’avviò
in quella direzione e presto incontrò la compagnia, mos­
sasi con tanta letizia, ridotta in condizioni pietose. I gio­
vanotti, resi come pazzi dal vino e dalla reciproca gelo­
sia, mentre tornavano dai fuochi di San Giovanni e
procedevano frammisti alle donne, erano venuti a lite e
si erano assaliti con i pugnali, così che più d’uno perdeva
sangue. Proprio nel momento in cui arrivò Dietegen, lo
scrivano gobbo aveva steso a terra con un colpo di spada
il giovane figlio del sindaco, che, impugnando anch’egli
l’arma, giaceva tra il verde, e stava rendendo l’anima
a Dio, mentre gli altri si erano presi a coppie per la gola,
e invano le donne atterrite invocavano aiuto ad eccezione
di Küngolt che, pallida come una morta, a bocca spalan­
cata per l’intensa curiosità, fissava in silenzio l’orribile
spettacolo.
«Küngolt, che succede?» le domandò Dietegen
scorgendola; era la prima parola che le rivolgesse da
lungo tempo. La fanciulla sussultò, ma lo guardò con
sollievo. Egli balzò senza indugio tra i rissanti e con
energici sforzi riuscì a staccare quegli invasati, mostrando
loro il morto, al che essi di colpo lasciarono cadere le
braccia e si diedero a guardare, passata l’ebbrezza, ora
il cadavere, ora il feroce gobbetto che mandava occhiate
tutt’attorno come folle.
Nel frattempo erano sopraggiunti dei contadini e anche
DIETEGEN 43g

i garzoni forestali che senz’altro fecero prigionieri quelli


di Ruechenstein e legarono Schafürli.
Fu ben triste la mattina seguente. Il guardaboschi si
trovò fidanzato con la maligna Violande, aveva un ter­
ribile mal di capo e doveva tenersi in casa il morto di
Ruechenstein mentre gli altri erano chiusi nella torre.
Già prima di mezzogiorno si presentò una commissione
da Ruechenstein col vecchio sindaco in persona per con­
durre un’inchiesta sulla sciagura e sulle sue cause e do­
mandarne conto.
Ma già dalla sua torre lo scrivano civico, ben sapendo
che, quale assassino del figlio del sindaco, ci poteva ri­
mettere la testa, aveva elevato vivaci accuse contro le
donne di Seldwyla, e in particolare contro Küngolt, da
lui incolpata di stregoneria. La servetta abbandonata,
infatti, era riuscita a consegnare con alcune parole al suo
monaco, al quale aveva ormai perdonato, la fialetta so­
spetta e costui l’aveva passata allo scrivano.
Con grande spavento dei Seldwylesi la faccenda prese
in quello stesso giorno una brutta piega per la figlia del
guardaboschi e per la sua casa. Ognuno, tanto a Seldwyla
che a Ruechenstein, credeva all’efficacia dei filtri ma­
gici e i cittadini di Ruechenstein assunsero un atteggia­
mento tanto minaccioso, che neppure l’autorità e la po­
polarità del guardaboschi, il quale per di più si sentiva
come intontito, potè impedire che Küngolt venisse ar­
restata.
Essa poi, quasi fuor di senno per la paura, ammise la
realtà del fatto, tanto che lo scrivano e i suoi compagni
vennero scarcerati. Quelli di Ruechenstein pretesero che
la strega colpevole di aver recato danno alla loro gente
e procurato la morte di un cittadino venisse loro conse­
gnata per esser punita. Ciò però non fu concesso ed essi se
ne andarono con la salma del figlio del sindaco. Quando
però più tardi appresero che i Seldwylesi avevano con­
dannato la ragazza soltanto alla mite pena di un anno di
carcere, si ridestò l’antica inimicizia rimasta sopita per
qualche anno e tornò ad essere pericoloso per ogni
seldwylese penetrare nei loro confini.
440 LA GENTE DI SELDWYLA

La città di Seldwyla non manteneva, per i delitti che


a suo modo di vedere non erano di troppa gravità e che
voleva trattare con indulgenza, un apposito carcere, ma
affidava i colpevoli, specie quando si trattava di donne
o di minorenni, a privati, perché se ne servissero e li
tenessero intanto in buona custodia. Per questo la povera
Kiingolt doveva essere condotta in municipio e ivi messa
pubblicamente all’incanto.
Il guardaboschi, che aveva perduto ogni traccia d’alle­
gria, disse sospirando a Dietegen che era una ben dura
prova per lui andare in municipio ad assistere la figlia che
pur doveva avere qualcuno dei suoi vicino in quell’amara
circostanza. Dietegen gli rispose:
— Lo farò volentieri, se io vi basto !
Il guardaboschi gli strinse la mano dicendogli:
— Fallo ed abbiti la mia gratitudine.
Dietegen si recò dunque nella sala dove già erano con­
venuti i rappresentanti del Consiglio, alcuni privati che
volevano partecipare all’incanto ed anche una piccola
folla di curiosi. Con la lunga spada al fianco e il volto
corrucciato, Dietegen aveva un aspetto molto virile e
severo.
Quando fu fatta entrare Kiingolt, smorta e afflitta, che
doveva stare in piedi davanti al tavolo, Dietegen prese
subito una sedia e ve la fece accomodare, mettendosi poi
dietro di lei con una mano appoggiata alla spalliera. Essa
lo aveva guardato con sorpresa e si volse ancora per man­
dargli un doloroso sorriso, ma il giovane si serbò impassi­
bile, come se neppure la vedesse.
Il primo che fece un’offerta per prendersi in casa a
servizio la prigioniera fu il pifferaio della città, un noto
ubriacone mandato da sua moglie, la quale sperava con
tal guadagno di migliorare le rovinose finanze della fa­
miglia, soprattutto calcolando che, palesemente o in se­
greto, la condannata avrebbe ricevuto soccorsi da casa,
che si sarebbe potuto sottrarle o quanto meno dividere
con lei.
«Vuoi andare dal pifferaio?» domandò asciutto Die­
tegen alla ragazza e questa, dopo aver guardato il naso
DIETEGEN 441

rosso e l’aspetto intontito del musicante, replicò di no,


al che quello s’allontanò barcollando con una risata di­
cendo: «Poco importa!».
Si presentò poi a chiederla un vecchio valigiaio e cap­
pellaio che pensava di farla cucire senza tregua e di ca­
varne così un buon guadagno. Aveva però delle piaghe
aperte alle gambe che per tutta la giornata medicava con
unguenti e cerotti e sulla testa gli spuntava per di più
un’escrescenza grossa come un uovo, che già a Küngolt
bambina aveva sempre ispirato paura quando tornando
dalla scuola doveva passare dinanzi al suo piccolo labo­
ratorio. Quando Dietegen le chiese se volesse andare da
questo, tornò a rifiutarsi e quello dovette ritirarsi bestem­
miando.
Si fece avanti un cambiavalute in pessima fama sia
come avarissimo usuraio che per la sua odiosa libidine.
Ma appena ebbe messo i suoi occhi arrossati sulla bella
ragazza e aperto la bocca storta per fare la sua offerta,
Dietegen, guardandolo minaccioso, gli fece cenno con la
mano di andarsene, senza neppure interpellare la fan­
ciulla atterrita.
Seguirono alcuni bravi cittadini contro i quali non vi
era nulla da ridire e questi vennero ammessi alla vera e
propria asta. Quello che chiese meno per ospitarla e nu­
trirla fu il becchino del Duomo, un onest’uomo con una
brava moglie e con anche a disposizione un locale che a
lui pareva adatto e dove già erano stati ricoverati delin­
quenti di quel genere.
Il Consiglio comunale finì per assegnare Küngolt a
costui ed essa fu subito condotta nella sua casa, posta fra
il cimitero e una viuzza laterale. Dietegen la accompagnò
per vedere ove sarebbe stata alloggiata. La collocarono
in una specie di atrio aperto che confinava direttamente
col cimitero, da esso diviso soltanto da un cancello di
ferro. Il becchino soleva rinchiudere i suoi prigionieri in
quel locale aperto, nella buona stagione, mentre d’in­
verno se li portava senz’altro nel tinello, assicurandoli con
una catenella di ferro a un piede della grande stufa.
Quando però Küngolt fu nel suo carcere e si vide di-
442 LA GENTE DI SELDWYLA

visa appena da un cancello dalle tombe di tanti morti e


per di più vicinissima all’ossario pieno zeppo di ossa e di
teschi, cominciò a tremare e invocò che non la lascias­
sero lì al venir della notte. Ma la moglie del becchino
che stava appunto portandole un pagliericcio e una
coperta e applicando una specie di tenda al cancello, le
disse che doveva restarci e che quell’austero soggiorno era
proprio adatto quale salutare penitenza dei suoi peccati.
Dietegen la consolò dicendole di star tranquilla, che
lui non aveva paura dei morti e degli spiriti e che sarebbe
venuto a far la guardia lì al cancello ogni sera finché ella
non si fosse avvezzata.
Glielo disse però in modo da non farsi udire dalla vec­
chia e tornò poi a casa sua, dove trovò il povero guardabo­
schi pieno di tristezza, il quale aveva appunto stabilito
con Violande di non celebrare le loro nozze se non dopo
che Küngolt avesse scontato la sua pena e fosse in certo
modo liquidata la triste faccenda. Violande si serbò ben
docile, contenta di aver potuto evitare con tanta fortuna
le conseguenze dello sciagurato incantesimo, benché in
realtà ne fosse la vera responsabile. Nel severo interroga­
torio subito era riuscita a far accettare la sua affermazione
di aver conservato quel filtro soltanto per evitare che ca­
desse in mani imprudenti, ed era stata quindi senz’altro
liberata.
Quando fu passato il crepuscolo e s’avvicinava la mez­
zanotte, Dietegen si pose non visto per strada, dopo aver
preso la sua spada e una piccola bottiglia di vino, e scese in
città, dove senz’altro scavalcò il muro del cimitero e
s’avviò, passando senza paura fra le tombe, al pauroso
carcere della povera Küngolt. Essa stava raggomitolata
sul suo pagliericcio dietro la tenda, con l’orecchio teso
ad ogni rumore, perché prima che venisse l’ora degli spi­
riti aveva già subito alcuni spaventi. Un gatto era passato
nell’ossario facendo sbattere lievemente i resti degli sche­
letri. Poi il vento, movendo i cespugli sopra le tombe,
ne aveva tratto lievi fruscii e aveva fatto girare il gallo
sulla torretta del campanile con uno strano stridore che
non si sentiva mai nel fragore del giorno.
DIETEGEN 443

All’udire l’avvicinarsi dei passi, la fanciulla tornò a


spaventarsi e sussultare, ma quando Dietegen, insinuando
la mano oltre il cancello, smosse la tenda cosicché la luna
piena illuminò l’atrio e la chiamò a bassa voce, ella fu
subito in piedi e gli porse le mani attraverso le sbarre.
— Dietegen ! — esclamò scoppiando in lagrime, le pri­
me lagrime che riuscisse a versare da quel giorno scia­
gurato che l’aveva immersa in una specie di intontimento
paralizzante.
Dietegen non le porse soltanto la mano ma anche la
piccola bottiglia di vino e le disse:
— Bevine un sorso, che ti farà bene.
Essa bevve e accettò anche il buon pane della casa
paterna portatole dall’amico. Riprese così animo e quan­
do s’accorse che il giovane non aveva voglia di discor­
rere con lei, si sdraiò in silenzio sul suo giaciglio, pian­
gendo sommessa sinché cadde in un placido sonno.
Dietegen però con la sua rigidità giovanile e la sua ine­
sperienza la considerava ormai un essere corrotto, inca­
pace di fare il bene, e se vegliava per lei, seduto su un’an­
tica lapide appoggiata alla parete, lo faceva in ricordo
della madre morta e perché sapeva di doverle egli stesso
la vita.
Küngolt dormì sino allo spuntar del giorno e al suo ride­
starsi vide che Dietegen se ne era già andato in silenzio.
Egli ritornò allo stesso modo ogni notte a vegliare
su di lei, giacché in base alle sue credenze egli riteneva
che quel posto fosse realmente pericoloso per chi non
avesse la coscienza tranquilla e fosse pieno di paura. Le
portava ogni volta qualche ristoro e le domandava se
avesse qualche desiderio, accontentandola in ogni cosa
che gli sembrasse lecita. Veniva anche con la pioggia e il
maltempo e non mancò una notte, e quando vi furono
nottate che secondo le credenze popolari d’allora erano
particolarmente malfamate riguardo ai morti e a quanto
essi facevano, si presentava ancor più puntuale.
Küngolt dal canto suo s’awezzò a tirare la tenda du­
rante il giorno per celarsi ai curiosi che venivano al cimi­
tero, secondo quanto affermava, ma in realtà per dormire :
444 LA GENTE DI SELDWYLA

le piaceva infatti essere sveglia di notte e non staccare gli


occhi dalla oscura figura del suo buon guardiano e me­
ditare su di lui e su se stessa, sul come tutto fosse accaduto,
mentre egli la credeva placidamente addormentata.
Appena egli giungeva e le era dato d’immergersi in
sua presenza nei propri taciti pensieri, la ragazza si sentiva
pervasa da un senso di nuova, inconscia beatitudine. Essa
non intuiva la severità con cui Dietegen la giudicava e spe­
rava di riconquistare i diritti su di lui, che le si dimostrava
così fedelmente devoto. Non così la pensava il padre, che la
veniva a trovare ogni settimana ; quand’ella nominava ti­
midamente con qualche pretesto Dietegen, lasciando ben
capire di pensare di nuovo a lui, il padre sospirava in cuor
suo, giacché gli sarebbe bensì piaciuto che il figlio adottivo
salvasse la semiperduta figlia del suo sangue, ma temeva
che ben difficilmente il giovane avrebbe voluto unirsi a
una donna sospettata, anzi già condannata come strega.
Ma intanto un altro visitatore si presentò alla ragazza.
Lo scrivano di Ruechenstein, il violento gobbetto Scha­
fürli, non riusciva a dimenticare la bella fanciulla, ne
portava l’immagine nel suo sangue che fluiva impetuoso
malgrado le troppe curve del suo corpo e la sentiva in sé
come una strega che passa di notte solitaria su un fiume
in una barca oscura.
Si disse allora, temerario com’era, che invece di cer­
car salute e liberazione dai frati cappuccini, poteva ten­
tare di ottenerle dall’autrice medesima dell’incantesimo,
e in una notte oscura superò la montagna e scese nel ci­
mitero dove la sapeva prigioniera. Non essendo ancora
l’ora in cui soleva giungere Dietegen, ed essendo di­
verso il suono di quei passi, Küngolt si spaventò al sentirlo
e andò a celarsi dietro la tenda. Ma Schafürli accese un
lumicino che aveva portato con sé, scostò la tenda e illu­
minando il piccolo atrio riuscì a scoprirla.
«Accostati, piccola strega ! » sussurrò appassionatamen­
te e a mezza voce «dammi le tue mani e la tua bocca
perché tocca a te guarire il male che tu mi hai fatto!».
Kiingolt lo riconobbe subito per la figura deforme, e il
ricordo della sera sciagurata e la presenza di quell’indi­
DIETEGEN 445

viduo la colmarono di tanto terrore che, senza poter dire


parola, tremava come una foglia.
Lo scrivano allora cominciò a scuotere il cancello e,
accorgendosi che non era per nulla robusto, ma desti­
nato solo a prigionieri docili, si accinse a scardinarlo di
forza. In quel momento però sopraggiunse Dietegen che,
accorgendosi della scena, afferrò lo scrivano per le spalle.
Questi lanciò un urlo tentando di afferrare il pugnale.
Ma Dietegen gli teneva le mani prigioniere e in breve
lo costrinse ad arrendersi. Si domandò se lo dovesse ar­
restare e denunciare o soltanto mandar via, ma, non co­
noscendo come stessero le cose e non volendo provocare
complicazioni per la ragazza, preferì lasciar scappare il
gobbo, proibendogli, se aveva cara la vita, di ritornar
mai più in quel posto. Subito dopo però entrò nella casa
del becchino e lo indusse a far rientrare la prigioniera,
anche perché l’autunno era alle porte e le notti si face­
vano troppo fredde per quel soggiorno all’aperto.
Quella stessa sera Küngolt fu incatenata alla stufa con
la solita catenella dei prigionieri. La stufa era una sottile
costruzione di maiolica verde, ove era rappresentata con
nobile lavoro la storia della creazione dell’uomo e del
peccato originale; ai quattro angoli figuravano i quattro
grandi profeti su colonnine attorcigliate e sporgenti e l’in­
sieme costituiva un monumento non privo di grazia e di
armonia, al quale ora Küngolt poteva tenersi appoggiata
sedendo sulla panca.
Era felice di quel luogo sicuro e della salvezza dovuta
all’amico, ma tutto attribuiva alla sua fedele devozione
per lei, benché in quella notte non le avesse neppure ri­
volto una parola e a cose finite se ne fosse andato senza
congedo.
Quando però la buona Küngolt fu così ben sistemata,
sorse un nuovo ammiratore della sua bellezza nella per­
sona di un cappellano addetto a svariati uffici minori
della chiesa e incaricato pure di assistere i malati e i
prigionieri. Il pretonzolo, ora che la ragazza era in una
stanza calda, la visitò di frequente per confortarla, per
guarirla dalle sue tendenze agli incantesimi e ai filtri
446 LA GENTE DI SELDWYLA

amorosi e per compiacersi in pari tempo del suo bell’a­


spetto e della sua indole gentile. Con l’inizio delle sue sof­
ferenze era infatti maturata in lei una nuova bellezza:
era ormai una donna fatta, snella e pallida, con gli oc­
chi irradianti un fuoco dolce e soave, circonfuso da
un’ombra di lutto. All’infuori della catena, era trattata
come un membro della famiglia, di cui facevano anche
parte alcuni bambini, e quando veniva il cappellano, gli
offrivano un bicchiere di vino o di birra al quale probabil­
mente aveva provveduto il padre di Kiingolt. Quando il
sacerdote aveva fatto le sue esortazioni e bevuto il suo
bicchiere, rimaneva più a lungo evidentemente soltanto
per contemplarsi ancora un pochino la peccatrice riconfor­
tata e carezzarle discretamente la manina. La fanciulla
allora si abbandonava a una timida allegria, conside­
rando che splendido innamorato ella possedesse in Die-
tegen, al confronto di quel pretonzolo.
Avvenne così che la fanciulla, con la sua modesta le­
tizia, dopo aver sognato durante il giorno un migliore
avvenire, diventava la sera la beniamina dei suoi ospiti,
che avvicinavano la tavola a lei e alla stufa. Anche nella
notte di Capodanno, ormai sopraggiunta, le cose anda­
rono così : il prete si unì alla famiglia, così che il becchino,
sua moglie coi bambini e il cappellano sedettero attorno
alla tavola accanto a Kiingolt incatenata, ed erano in­
tenti appunto a giocare con le noci, e Kiingolt stava ri­
dendo di qualcosa che il prete aveva detto tenendole la
mano, quando d’improvviso entrò Dietegen per portare
alcuni doni di casa alla sua protetta, figlia del suo signore.
Un inconscio desiderio del cuore, la sopita nostalgia di
lei, gli avevano suggerito il proposito di trascorrere in
quella casa un’ora con la prigioniera, perché essa, che
per la prima volta nella sua giovane esistenza era lon­
tana da casa nella prima notte dell’anno, avesse vicino
qualcuno dei suoi.
Ma quando scorse la lieta scenetta e vide il prete ca­
rezzare la mano di Kiingolt ridente, fu còlto da un gelo
improvviso che gli fermò quasi il sangue nelle vene e dopo
aver consegnato alla ragazza le buone cose con poche
DIETEGEN 447
parole, quale dono del padre, se ne partì senz’altro men­
tre dalla sua bocca uscivano le parole: «Quel che è fini­
to è finito ! ». Küngolt ebbe l’improvviso intuito di quel
che significasse quell’istante e anche a lei raggelò il san­
gue. Ricadde impallidendo all’indietro, mentre gli altri si
scostavano imbarazzati, e nella casa del becchino fu spenta
la luce prima che venisse la prima ora dell’anno nuovo.
Küngolt fu quasi dimenticata dai suoi, anche perché in
quei giorni la Confederazione echeggiava sempre più di
rumori guerreschi e si susseguivano gli eventi noti sotto
il nome di guerra di Borgogna. Al sopravvenire della pri­
mavera, all’awicinarsi della giornata di Grandson1, an­
che le cittadine di Seldwyla e di Ruechenstein, come altre
dei dintorni, scesero in campo con i loro stendardi e fu
per il guardaboschi e per Dietegen un sollievo uscire dalla
triste casa e respirare l’aspra e forte atmosfera di guerra.
Procedevano a passo energico, con il loro stendardo,
se anche più taciturni degli altri, e s’unirono insieme alle
rimanenti schiere che si affrettavano a raggiungere il
grosso dei confederati già impegnato nella lotta.
L’ampio quadrato sembrava un fitto bosco di ferro
e al centro sventolavano le bandiere dei singoli pae­
si e delle città. A migliaia si allineavano i combattenti,
ciascuno un mondo in sé chiuso per la saldezza e l’intre­
pidezza, ma pur tutti insieme una povera folla di creature.
Ivi stavano in attesa della loro ora lo spensierato e il
gaudente accanto all’avaro e al preoccupato; il litigio­
so e il conciliante offrivano la propria forza con eguale
calma; chi aveva il cuore oppresso, serbava il silenzio
non meno del loquace e del gradasso; il povero e dere­
litto rimaneva calmo e orgoglioso accanto al ricco e
potente. Schiere di vicini sempre pronte alle zuffe stavano
pacificamente allineate, l’invidia e la perfidia reggevano
la lancia e l’alabarda con pari fermezza che la generosità
e la bonarietà; l’ingiusto come il giusto tendevano l’oc-

I. Nelle celebri battaglie di Grandson e di Murten, o Morat (3


marzo e 22 giugno 1476) gli Svizzeri sconfissero Carlo il Te­
merario, duca di Borgogna.
448 LA GENTE DI SELDWYLA

chio soltanto al dovere più prossimo. Chi aveva preso


congedo dal mondo e poteva sacrificare solo un residuo
della sua forza senza lasciare rimpianti non valeva di più
o di meno di un fiorente giovinetto, su cui si basavano le
speranze di una madre e di tutto un avvenire. Chi era d’a­
nimo fosco tollerava senza protesta gli scherzi sommessi
dei burloni e questi a loro volta subivano senza ridere le-
pedanterie del piccolo borghese che avevano al fianco.
Accanto allo stendardo di Seldwyla spiccava quello di
Ruechenstein, così che le schiere delle città vicine e ne­
miche venivano a toccarsi e il guardaboschi, posto a
capo di una parte dei suoi concittadini e costituendone
il pilastro, venne ad essere vicino allo scrivano di Rue­
chenstein, posto alla retroguardia di un gruppo dei suoi,
ma nessuno di loro pareva ormai rammentare il passato.
Dietegen uscì insieme ai tiratori e ai ragazzi dispersi fuor
dal quadrato delle truppe, ed era già in mezzo allo spa­
ventoso tumulto, quando quelle si misero in moto al­
l’improvviso, entrando nella battaglia per mettere in fuga
uno dei primi prìncipi della guerra, simile a un re favo­
loso, insieme al suo esercito radioso di splendore e di
fasto.
Nel tumulto della dura lotta il guardaboschi insieme
ad alcuni suoi garzoni era stato staccato dal suo stendardo
per opera della cavalleria borgognona e ora cercava di
aprirsi un varco, ma riuscì soltanto a trovarsi solo in
mezzo alla fanteria nemica. Egli si scavò tenacemente un
vano dentro di essa, come un buon minatore, ma pro­
prio quando aveva praticato una porticina, per quell’a­
pertura si insinuò una palla tardiva e sviata di Carlo il
Temerario, che gli lacerò l’ampio petto, così che in breve
momento egli entrò nella pace dell’eterno riposo, non
più oppresso da nulla.
Quando Dietegen ritornò sano e ardito dalla lotta e
dall’inseguimento dei borgognoni fuggiaschi e dopo breve
inchiesta trovò morto il suo fedele padre ed amico, lo
seppellì di sua mano insieme alla spada, fra le radici di
una quercia possente posta non lontano dal campo di
battaglia, al margine di un bosco.
DIETEGEN 449
S’avviò poi di nuovo con l’esercito verso la propria
città che, in riconoscimento del suo valore, lo insediò in­
tanto nella residenza forestale, perché ne assumesse la
sorveglianza. Con la morte del guardaboschi si sciolse
la famiglia. I suoi beni erano andati perduti negli ultimi
anni per trascuratezza e Küngolt non aveva più nulla al
mondo fuorché la sua persona e la protezione di Diete-
gen, il quale era a sua volta un poveretto.
Essa rimaneva immobile accanto alla stufa, appog­
giando le guance a quelle rozze immagini che, ripeten­
dosi nei riquadri, rappresentavano in quattro o cinque
scene la perdita del paradiso : la creazione di Adamo, la
creazione di Èva, l’albero della conoscenza e la cacciata
dal paradiso. Quando le doleva il volto per la pressione,
si staccava e si metteva a guardare quelle primitive im­
magini, tornando a considerarle mentre le cadevano le
lagrime, quando almeno ritrovava la forza di piangere.
Anzi, ogni volta che ritornava al piccolo rettangolo rap­
presentante la cacciata dal paradiso, sentiva un bisogno
di ridere, perché in esso, per disattenzione dell’artigiano,
Adamo aveva sul ventre, invece di un ombelico incavato,
una specie di bottoncino sporgente che si ripeteva ogni
volta.
Ma quando Küngolt stava per sorridere della ingenua
immagine, l’angoscia tornava a serrarle il cuore e la
gola, provocando per un istante una specie di lotta
fisica tormentosa, sinché le si inumidivano gli occhi e il
volto le tremava come a chi vuol starnutire e non ci
riesce. Fini per evitare di guardare quell’immagine.
Nel frattempo era venuta anche la battaglia di Murten
e pressappoco nello stesso tempo venne a scadere il tem­
po della prigionia di Küngolt. Dietegen aveva disposto
che provvisoriamente tornasse alla casa forestale e rima­
nesse con Violande, la quale s’era fatta modesta, me­
lanconica e piuttosto assennata, giacché il tardivo fidan­
zamento col cugino e la sua morte erano pur stati eventi
tali da darle qualche fermezza interiore. Dietegen invece
non venne ad abitare con loro, ma si trattenne in guerra
sino alla fine di quelle campagne.
45° LA GENTE DI SELDWYLA

Perché tuttavia anch’egli non esca da queste vicende


senza macchia, diremo che le consuetudini di guerra,
congiunte al tacito rammarico per la fanciulla perduta,
lo avevano indotto a una certa sfrenatezza e impetuosi­
tà. Si fece amico di quella rozza schiera di giovani che,
sotto il nome di Folle Vita, si disponevano a riscuotere di
propria iniziativa il pagamento dei contributi di guerra
imposti dal trattato di pace alla città di Ginevra e da
questa sempre differito. Si era fatto confezionare abiti
fastosi con la parte di bottino dei Borgognoni a lui toccato ;
marciando al seguito della pazza bandiera, indossava una
giubba di damasco rosa di Borgogna e la croce elvetica
sul petto e sul dorso era intessuta d’argento con applica­
zione di perle. Intorno al cappello sporgeva un ampio
ciuffo di piume ondeggianti di struzzo tolte ai cappelli
dei cavalieri sparsi qua e là per gli accampamenti con­
quistati. Portava pugnale e spada appesi riccamente a una
preziosa bandoliera, e oltre all’astuccio dell’esca una lun­
ga lancia alla quale la sua robusta figura slanciata come
un abete s’appoggiava cullandosi, mentre di sotto la tesa
del cappello lanciava occhiate minacciose per spaventare
una ragazza o qualche codardo chiacchierone. Gli piace­
va ad esempio afferrare per le trecce una ragazza strillan­
te, guardarla bene in volto per un momento e lasciar poi
libera la poverina atterrita o qualche volta anche ridente.
In quel costume si era anche presentato per un mo­
mento nella casa forestale di Seldwyla prima di unirsi al
corteo della Folle Vita e somigliava davvero a un ram­
pollo di antichissima e pura razza popolare, tanto erano
audaci, sicuri, forti e pur agili i suoi atteggiamenti.
Quando Küngolt, alla quale egli aveva rivolto passan­
do solo un freddo, fiero sorriso, l’aveva visto con quei modi
cui s’era assuefatto in campo, n’era rimasta come abba­
gliata. Mentre Dietegen restava lontano, non fece altro
che ruminare il passato e rivivere i giorni felici dell’in­
fanzia perduta. I suoi ricordi si fermavano quasi a ogni
ora su quell’altura boscosa dove le donne di Seldwyla un
giorno avevano vezzeggiato e ornato di fiori il povero fan­
ciullo nella sua camicia di condannato a morte, e lassù ella
DIETEGEN 4SI

si recava appena poteva, guardando nostalgicamente le


lontane regioni di sud-ovest, dove si diceva si fosse ac­
campata la minacciosa schiera degli invincibili gio­
vanotti.
Ma in quella stessa zona montana attraversata dal
confine di Ruechenstein soleva aggirarsi lo scrivano
Schafiirli, che sempre continuava a cercare guarigione al
suo male, o almeno vendetta, perché, malgrado la sup­
posta stregoneria di Küngolt, in Ruechenstein s’appunta­
va contro di lui, per l’uccisione del figlio del sindaco, un
odio aperto e segreto che egli sperava di placare con la
morte di Küngolt, che i Seldwylesi, secondo i vicini, ave­
vano lasciata impunita. Quando un giorno la poveretta
se ne stava ignara seduta su una pietra di confine, ma in
modo che i suoi piedi s’appoggiavano al territorio di
Ruechenstein, Schafiirli balzò fuori all’improvviso dal
bosco con uno sgherro civico, la catturò e la portò inca­
tenata nella sua città, dove fu subito istruito contro di lei
un nuovo processo per la non espiata uccisione del figlio
del sindaco.
A Seldwyla, tanto più in quei momenti di disordine
bellico, non c’era più nessuno disposto a occuparsi di
lei, neppure se ciò avesse avuto probabilità di successo.
Si disse quindi ben presto che ci avrebbe rimesso la vita.
Fu allora Violande, un tempo tanto perfida, che, spinta da
pietà e da rimorso, osò andare in cerca dell’unico soccorso
che le pareva possibile. Si pose in viaggio, camminando
notte e giorno in direzione d’occidente, in cerca delle
bande della Folle Vita e di Dietegen. La fama delle im­
prese di quella schiera di temerari le fece presto trovare la
giusta via e scoprì il ricercato mentre con aria indifferente
giocava a dadi in una locanda.
Gli diede notizia della nuova disgrazia toccata a Kün­
golt ed egli la ascoltò inaspettatamente attento ma dis­
se poi:
— Qui non posso far nulla ! È una questione di diritto,
e se i Seldwylesi non intraprendono nulla, io non troverei
neppur dieci compagni disposti a seguirmi per liberare
la ragazza!
452 LA GENTE DI SELDWYLA

Ma Violande, che per le sue passate abitudini serbava


memoria di tutte le possibili situazioni matrimoniali, re­
plicò :
— Non c’è bisogno di violenza. Per quelli di Ruechen-
stein vige da tempo la legge che una donna condannata
a morte può essere salvata da qualunque uomo e a
questi consegnata, se egli la desidera in moglie ed è di­
sposto a celebrar subito le nozze con lei !
Dietegen fissò l’interlocutrice con aria strana e stupe­
fatta, non senza abbozzare un sorriso di scherno proprio
militaresco.
— Io dunque dovrei prendermi in moglie una specie di
sgualdrina? — disse arricciandosi i baffetti nascenti e
fingendosi esterrefatto, benché il volto tradisse commo­
zione.
— Non chiamarla sgualdrina — disse Violande — per­
ché non lo è proprio !
Poi, scoppiando d’un tratto in lagrime, afferrò le mani
di Dietegen e continuò:
— Quel che ha fatto di male, non è che mia colpa,
lasciamelo confessare ! Io volevo dividervi e mandar voi
due fuori di casa per conquistarmi il padre ! Per questo
ho spinto la ragazza a tutte le sue sciocchezze !
— Lei non avrebbe dovuto lasciarsi spingere, — pro­
testò Dietegen — i genitori erano brava gente, ma lei ha
fatto cattiva riuscita !
— Ma io ti posso giurare sulla mia salute eterna —
esclamò Violande — che tutto quanto la deturpava è
passato, come distrutto dal fuoco; essa è buona e saggia
e ti vuol bene, al punto che da un pezzo avrebbe cercato
la morte se non rimanessi tu in questo mondo. Ricordati
del resto di quanto tu le devi ! Saresti qui pieno di forza
e di bellezza, se essa non ti avesse strappato dalla bara
del boia? E non ricordi la madre di Küngolt e il suo ot­
timo padre, che t’hanno educato come un loro figliolo?
Sei forse tu il solo giudice degli errori di una debole fan­
ciulla? Non ne hai commessi tu pure? Non hai anche tu
in guerra ucciso qualcuno la cui morte non era necessa­
ria? Non hai incendiato capanne di poveri senza difesa?
DIETEGEN 453

E se anche non hai fatto questo, hai sempre esercitato la


misericordia, quando ne hai avuto occasione?
Dietegen arrossì e disse:
— Non voglio accettar doni né rimanere in debito
verso nessuno. Se le cose stanno come voi dite quanto a
quell’usanza a Ruechenstein, ci andrò e sposerò la ra­
gazza ! Che Dio aiuti me e lei se non saprà poi serbarsi
sulla retta via !
Diede senz’altro alla povera donna esausta, che non
avrebbe potuto tenergli dietro, un po’ di denaro per rifo­
cillarsi e prepararsi al ritorno. Egli partì immediata­
mente, prendendo le armi, e traversò rapido il paese,
non sostando né trovando pace sinché non scorse da lon­
tano la fosca città di Ruechenstein.
Là erano andati per le spicce e, dopo pochi giorni dalla
cattura, Küngolt, rinchiusa intanto nella vecchia torre,
era stata condannata a morte, e solo per riguardo al pa­
dre intemerato e caduto per la patria, in segno di parti­
colare clemenza, alla morte per decapitazione invece che
sul rogo o sulla ruota o in qualche altra delle loro per­
verse maniere.
Venne così accompagnata fuori dalla porta di città sulla
piazza del patibolo, scalza e rivestita soltanto del camice
dei condannati, con le spalle e il dorso coperti dalle
lunghe chiome fluenti. Procedeva passo passo fra i suoi
carnefici, inciampando talvolta, ma senza perdersi d’a­
nimo, perché era ormai rassegnata e aveva rinunciato
a ogni ulteriore speranza di vita o di felicità. “Ecco che
cosa può toccarci !” pensava tra sé con un pallido sorriso,
e solo quando d’un tratto le tornò il ricordo di Dietegen,
dai suoi occhi caddero dolci lagrime, perché pensò che
egli le andava debitore della sua vita fiorente, e quel pen­
siero la confortò, tanto generoso e buono s’era fatto il
suo cuore.
Già era seduta sulla sedia, in certo modo contenta di
potersi riposare del penoso cammino. Mandò per l’ultima
volta un’occhiata al paesaggio e al velo azzurro del­
l’orizzonte, ma subito il carnefice venne a bendarle gli
occhi, e si preparava a reciderle la ricca chioma che sbu­
454 LA GENTE DI SELDWYLA

cava fuori dalla benda quando d’un tratto apparve da


lontano Dietegen, lanciando alte grida e agitando l’a­
labarda e il cappello. Nello stesso tempo però, per im­
pedire comunque l’esecuzione, egli tolse di spalla il fu­
cile e tirò un colpo che passò sopra la testa del carnefice.
I giudici, sorpresi e spaventati, si fermarono, e tutti diedero
di piglio alle armi, mentre il giovane cavaliere avanzava
a grandi balzi e saliva sull’impalcatura del patibolo, che
quasi crollò per l’impeto del suo salto. Afferrò Küngolt
per le spalle, poiché aveva le mani legate sul dorso, e
dovette per un poco riprendere fiato prima di poter par­
lare. I cittadini di Ruechenstein, vedendolo solo e non se­
guito da una banda, aspettavano gli eventi, e quando egli
potè finalmente formulare la sua domanda, si ritirarono
in un canto a discutere la cosa.
La loro smania di osservare inalterabilmente le usanze
legali vigenti, nonché l’autorità di Dietegen per le sue im­
prese di guerra e per tutto il suo atteggiamento, fecero sì
che la questione fosse risolta senza difficoltà, appena supe­
rata la meschina irritazione per il disturbo inatteso. Persi­
no lo scrivano, il quale non aveva rinunciato ad assolvere
il suo ufficio anche in quella penosa circostanza e a per­
suadersi della fine di quella strega, si nascose il meglio
che potè, per non richiamare su di sé l’attenzione di quel
pericoloso guerriero di cui, malgrado il suo coraggio,
aveva non poca paura.
Lo stesso sacerdote che aveva poco prima pregato in­
sieme alla moritura, dovette procedere immediatamente
alle nozze lì sul palco. Küngolt venne slegata e fatta riz­
zare sulle gambe vacillanti e le fu chiesto se volesse dar la
sua mano e seguire come legittima consorte quest’uo­
mo venuto a chiederla in sposa.
Essa alzò muta gli occhi su di lui, che era la prima cosa
apparsale dopo che le fu tolta la benda, e le pareva di
vederlo come in un sogno, però, per non sbagliare, anche
in caso si trattasse di un sogno, ebbe la presenza di spirito,
non riuscendo a spiccicar parola, di far cenno d’assenso
per tre o quattro volte, e di ripeterlo subito dopo ancora
un paio di volte, così che persino quei foschi magistrati
DIETEGEN 455
ne rimasero commossi e sorressero la sua figurina tre­
mante, mentre veniva solennemente unita in matrimo­
nio con il giovane.
Dopo questa funzione essa gli venne data anima e cor­
po, così com’era, senza riserve né diritti a risarcimenti,
dietro versamento di una somma al prete per il certificato
di nozze e dietro pagamento di dieci misure di vino al car­
nefice e ai suoi aiutanti, nonché, quale speciale dono di
nozze, tante monete, quante fossero necessarie per com­
prare un nuovo farsetto al boia.
Quand’ebbe pagato ogni cosa, Dietegen prese per mano
la sua donna e lasciò con lei il luogo del supplizio. Doven­
do egli prendersela così com’era, cioè scalza e con indosso
il solo camice dei condannati, mentre la stagione era an­
cora piuttosto fredda, essa si sentiva molto a disagio e non
riusciva a tenere il passo col marito. Questi allora se la
prese in braccio, ricacciò sulle spalle il gran cappello, ed
essa subito gli circondò il collo con le braccia, appoggiò
la propria testa alla sua e s’addormentò dopo pochi passi.
Dietegen, che teneva nell’altra mano la lancia, s’awiò
con buona andatura sul colle solitario e la sentì prima
piangere sommessamente nel sonno, poi rallentare con
dolce serenità il respiro. Quando le sue lagrime gli stil­
larono sulla fronte, gli parve di venir battezzato dalla bea­
titudine stessa, e quel ragazzone forte e rozzo ebbe egli
pure le guance irrorate di lagrime. Era ormai sua quella
vita che portava in braccio e la sorreggeva come se si
trattasse del ricco mondo di Dio.
Quando giunsero a quel punto del colle, dove egli stesso,
fanciullo, s’era trovato nella sua camiciola di condannato
in mezzo alle donne, e dove pochi giorni innanzi Küngolt
era stata catturata, il sole di marzo s’era fatto abbastanza
limpido e caldo da concedere una breve sosta. Dietegen
sedette sulla pietra di confine e s’accomodò adagio il suo
carico prezioso sulle ginocchia; il primo sguardo rivoltogli
al risveglio e le prime esitanti parole da lei finalmente
balbettate, gli confermarono che egli non solo aveva fe­
delmente assolto un antico dovere, ma ne aveva assunto
uno nuovo, quello cioè di divenire buono e bravo in mo-
45θ LA GENTE DI SELDWYLA

do da rendersi degno sempre della felicità che ora gli


riempiva l’animo.
Il terreno tutt’attomo alla pietra di confine era già
disseminato di pratelline e di altri fiori precoci, il cielo
era tutto azzurro e non un suono, fuorché il canto dei
fringuelli nei boschi, interrompeva il silenzio pomeri­
diano.
Non dissero nulla, ma respirarono insieme la buona
aria tiepida, quindi s’alzarono, e poiché la strada verso la
casa forestale scendeva ormai lungo morbidi terreni mu­
schiosi nel bosco di faggi, proseguirono l’uno a fianco
dell’altro.
D’un tratto Küngolt cercò con la mano i suoi riccioli
d’oro che credeva già recisi e, trovandoli intatti, si fermò
e disse a Dietegen, guardandolo teneramente:
— Non potrei avere anche una ghirlandetta da sposa?
Il giovane si guardò attorno e vide un agrifoglio verde
e lucente, ne tagliò rapido un lungo ramo dal cespuglio,
lo intrecciò a ghirlanda e deponendoglielo delicatamente
sul capo le disse:
— È una ghirlanda da sposa piuttosto aspra, ma serve a
difendersi, come sempre dovrà fare il nostro onore ! Chi
l’offendesse con le parole o con l’azione dovrà sentirne
la pena !
Poi la baciò forte una sola volta sotto la sua ghirlanda
ed ella proseguì felice accanto a lui.
Trovarono la residenza forestale vuota e abbandona­
ta, perché domestici e garzoni, a causa della presunta
esecuzione, se n’erano andati in parte per melanconia e
in parte per leggerezza e infedeltà, e quel giorno nessuno
tornò a casa. Tanto più facile riuscì alla giovane donna
presto tornata alla vita rivelarsi a ogni momento più te­
nera e lieta. Corse da un armadio all’altro, da una stanza
all’altra e ben presto ricomparve indossando la preziosa
veste di nozze di sua madre, di cui aveva parlato a colui
che adesso era suo marito in quella notte lontana in
cui avevano dormito insieme nel loro lettuccio da
bimbi. Poi apparecchiò la tavola con tovaglie festive e
gli servì il meglio che potè trovare in cibi e bevande.
DIETEGEN 457
Se ne stettero così uno accanto all’altra in tranquilla
solitudine, essa con la ghirlanda in capo, egli avendo
deposto le armi, e dopo quel semplice pasto andarono a
riposare. “Ecco che cosa può toccarci !” ripetè Küngolt
per la seconda volta in quella giornata, ma con cuore
sollevato e piano piano, mentre giaceva febee accanto al
marito, giacché in lei era pur sempre rimasto un resto di
birichineria.
Dietegen divenne un uomo influente per meriti mili­
tari, non migliore di tanti altri di quel tempo, soggetto
anzi agli stessi errori. Divenne capitano e combattè ora
in favore e ora contro i signori stranieri, assoldò merce­
nari, cumulò preda e ricchezze e passò così di guerra in
guerra come i primi del suo paese, acquistando autorità
ed esercitando sovente un influsso notevole. Con sua mo­
glie invece visse in concordia ininterrotta e onorata e
fondò con lei una numerosa famiglia che fiorisce ancor
oggi in vari paesi, dove le vicende belliche condussero in
passato i progenitori.
Violande, da parte sua, poco dopo le nozze di Diete­
gen e di Küngolt, che le erano state di grande consola­
zione, era entrata in un vero monastero facendosi vera­
mente monaca e mandando di tanto in tanto torte e dol­
ciumi ai figli di Küngolt. Si compiaceva pure, quando il
signor Dietegen, al colmo della sua importanza, soleva
tenere banchetti presiedendoli con la sua lunga barba e la
sua catena d’oro di cavaliere, di parteciparvi da monaca
in visita, con un bel crocifisso d’oro sul petto, e scambiare
con quei guerrieri pettegolezzi cortesi.
Quale fosse l’aspetto esteriore di Küngolt al principio
del sedicesimo secolo, è ancora attestato dal ritratto di
un buon pittore che figura in una nota galleria e secon­
do l’iscrizione ritrae appunto lei. Vediamo una snel­
la e fine donna patrizia, i cui tratti rivelano una pro­
fonda serietà ravvivata, però, da una dolce e saggia le­
tizia.
Anch’essa, come sua madre, la moglie del guardabo­
schi, morì ancor giovane di un’infreddatura, quando suo
marito perse la vita in una delle spedizioni milanesi e
458 LA GENTE DI SELDWYLA

trovò sepoltura nel camposanto di una chiesuola lombar­


da. Essa vi accorse subito con l’intenzione di erigergli un
monumento funebre, ma in realtà per trascorrere sulla
sua tomba, di nascosto, tutta una notte piovosa, così che
una gran febbre se la portò via in due giorni, dandole
riposo al fianco del suo Dietegen.
IL SORRISO PERDUTO

CAPITOLO I

Sol tre braccia di bandiera,


pochi uomini d’onore,
vesti gaie e buona cera:
non vuol altro questo cuore.
Sorgo all’alba dal giaciglio
della breve notte estiva
e a bagnar m’appresto il ciglio
della Patria alla sorgiva.
Carri e barche inghirlandate
vedo giunger da ogni lato,
nelle aeree navate
il salone è già affollato;
e la coppa, premio al forte,
sull’arengo argentea sta.
Viva, o popol, la tua sorte,
ché tu parli in libertà !
La canzon di bocca in bocca
va ed echeggia in ogni seno.
Se la gioia oggi trabocca,
ahi, ben presto verrà meno.
Ma il dovere è rinsaldato,
è temprata ogni energia
e quel grano han seminato
che non è buttato via.
Oh, restate, quando fiera
la nazion canta e gioisce,
e la libera bandiera
sale al ciel lieta e garrisce !
Nella Patria il buon umore
non conosce mai peccato.
Non sarò certo peggiore,
se anche torno non mutato.1
I. Versione di Ervino Pocar.
460 LA GENTE DI SELDWYLA

Ecco la canzone intonata dal portastendardo del coro


di Seldwyla mentre in una meravigliosa mattina estiva si
avviava alla festa dei cantori. Quei signori erano partiti
la sera innanzi percorrendo in ferrovia la prima parte
del viaggio, ma avevano poi deciso di proseguire a piedi
nel fresco mattutino, visto che si dovevano ormai attra­
versare soltanto belle zone boscose.
Già s’apriva dinanzi a loro il lago luccicante con la
città tutta imbandierata sulla riva, quando i sessanta o
settanta membri di varie età di quell’associazione scesero
a gruppi staccati per una splendida foresta di faggi, fa­
cendo risuonare con grida di giubilo e con strofe di can­
zoni l’eco annidata dietro i grandi tronchi e rispondendo
anche talvolta a qualche stendardo che li precedeva nella
discesa.
Soltanto l’alfiere d’avanguardia, un giovanotto dalla
figura snella e dal volto bellissimo, cantò per intero la sua
canzone con voce gioiosa e pur pacata di baritono. Cin­
geva una sciarpa larga e riccamente ricamata, portava
un bel cappello a piume e teneva appoggiata alla spalla
la magnifica e pesante bandiera di seta, a metà arroto­
lata, la cui punta dorata scintillava a tratti tra le ombre
verdi, appena i raggi del sole mattutino si insinuavano
tra il fogliame.
Finito che ebbe il suo canto, si volse indietro sorridente,
mostrando un volto radioso di una felicità che nessuno gli
invidiava, perché il suo sorriso particolarmente gradevole
gli cattivava tutte le simpatie al suo primo apparire.
«Il nostro Jukundi» dissero fra loro quelli che lo se­
guivano «sarà certo il più bel portabandiera della fe­
sta». Egli infatti aveva il sereno e armonioso nome di
Jukundus Meyenthal e da tutti veniva chiamato con gene­
rale tenerezza semplicemente Jukundi. Quella speranza
si avverò, giacché quando i Seldwylesi, giunti sul posto,
s’allinearono per la sfilata tra le lunghe schiere dei can­
tori, il suo aspetto suscitò grande compiacenza dovunque
passasse.
Per quelli che avevano già preso parte a parecchie feste,
egli era già conosciuto nel modo più vantaggioso come
IL SORRISO PERDUTO 461

una figura esemplare per una festa. Perennemente allegro


e operoso dal primo all’ultimo istante, Jukundi rimaneva
tuttavia la calma e la pacatezza in persona ; lo si vedeva
sempre condividere ogni gioia altrui e ogni particolare
evento, perseverante e servizievole, non mai rumoroso,
né tanto meno ubriaco. Sapeva tollerare il pagliaccio ur­
lante al pari dell’ospite di cattivo umore che si abbandona
ad eccessi e guasta la gioia, e riusciva con tatto e cortesia
a liberare l’uno e l’altro da sgradevoli avventure appena la
pazienza del pubblico minacciava di venir meno, salvan­
doli così da un mortificante naufragio. Riusciva persino
con tacita abilità a portar fuori dalla folla un forsennato,
senza badare ai suoi insulti, acquistandosi la sua grati­
tudine e la sua devozione dopo che era rinsavito.
In tale attività del resto egli non era che un buon rap­
presentante di tutti i Seldwylesi quando partecipavano a
una festa. Se di solito erano oziosi e sregolati, in tali occa­
sioni invece osservavano l’ordine, la diligenza e il buon
contegno. Arrivavano e ripartivano gloriosamente, piccola
schiera impeccabile per la durata dei festeggiamenti, com­
piacendosi in anticipo del libero spasso che si sarebbero
poi concessi a casa, dopo così austeri sforzi.
Allo stesso modo avevano egregiamente studiato il
coro col quale speravano di conquistarsi un premio
nel giorno delle gare, e risparmiavano le loro voci con
grandi rinunce. Avevano scelto una composizione intito­
lata «Il risveglio della violetta», composta su un testo
mediocre, ma talmente raffinata e difficile a eseguirsi,
che già da mesi si discuteva in tutti i luoghi se mai
i Seldwylesi troppo osando non si fossero esposti a un
disastro.
Quando però fu giunto il giorno delle gare e nell’im­
menso auditorio migliaia di ascoltatori si trovarono di
fronte ad altrettante migliaia di cantori e il gruppetto
dei Seldwylesi, giunta la sua ora, avanzò isolato con la
sua bandiera fra quell’oceano di gente, essi seppero sor­
reggere senza tremare il canto non meno delicato che
grave attraverso tutte le sue complesse armonie e varia­
zioni e lo fecero echeggiare con sì morbida purezza che
462 LA GENTE DI SELDWYLA

parve di udire aprirsi sommessi gli azzurri boccioli delle


violette e aleggiare la loro prima delicata fragranza.
Dopo un breve assoluto silenzio scoppiò scrosciante e
fragoroso l’applauso: gli alti giudici annuirono col capo
visibilmente, guardandosi poi l’un l’altro, dando di piglio
alle tabacchiere d’oro, doni di prìncipi e di popolazioni
di paesi lontani, e offrendosi reciprocamente una presa,
poiché fra essi vi erano alcuni dei primi maestri di cap­
pella.
I Seldwylesi si ritirarono calmi e contegnosi, riuscendo
a sottrarsi inavvertiti dallo spiegamento in ordine di bat­
taglia per andare a gustare una modesta refezione con
Champagne in un giardino ombroso. Nessuno volle bere
più dei suoi tre bicchieri e nessuno, quando rientrarono
nell’auditorio, si era accorto della loro assenza.
Con la stessa dignità si comportarono per tutta la
durata della festa, sinché giunse l’ora della distribuzione
dei premi. L’oro del sole pomeridiano inondava il gran
padiglione affollato sino all’ultimo posto, tutto ornato di
drappi rossi e verdi e di trofei di bandiere, che sembrava
nuotare in quella solenne luminosità. Su un podio ele­
vato, dove scintillavano le coppe e i corni d’oro e d’ar­
gento destinati a premio, sedevano alcune giovinette
prescelte per appuntare alle bandiere vincitrici le rispet­
tive corone.
Per meglio dire, quelle giovinette fungevano da séguito
alla più bella e prestante tra loro, alla bella Justine Glor
von Schwanau, che con gran pena s’era lasciata indurre
ad assumersi il compito di distribuire le corone. Aveva
davvero l’aspetto di una musa ; nella chioma bruna e ric­
ciuta portava una fresca ghirlanda di rose e la veste bianca
aveva una cintura rossa.
Tutti gli occhi si fissarono su di lei quando si alzò reg­
gendo la prima ghirlanda, che poco innanzi, fra squilli di
trombe e di tamburi, era stata assegnata ai Seldwylesi.
In pari tempo si vide Jukundi prender posto di fronte a
lei con il suo stendardo, ridendo con gioia serena, e dal
volto della premiatrice irradiò come un riflesso lo stesso
bel sorriso e fu chiaro che quei due esseri provenivano
IL SORRISO PERDUTO 4θ3
dalla stessa patria, di dove giungono quanti sanno sorride­
re a quel modo. Dato che ciascuno di loro era più o meno
conscio di tale sua qualità e la ritrovava nell’altro, e che
anche il popolo attorno si accorse con sorpresa di quel
fenomeno, arrossirono ambedue, non senza fissarsi ripe­
tutamente mentre veniva appesa la corona.
Un’ora più tardi l’ultimo e più rumoroso corteo per­
corse la città in festa, fra innumerevoli vessilli e ghirlande,
affiancato dalla massa del popolo, mentre venivano por­
tati attorno gli stendardi premiati e le coppe conquistate.
I due si rividero allora, mentre Justine guardava sfilare
il corteo dal giardino dei suoi ospiti, e Jukundi nel passare
agitò la sua bandiera; inoltre la sera accadde che, per una
sorte particolarmente benigna, Jukundi al banchetto fi­
nale si trovò a sedere allo stesso tavolo di fronte alla bella,
così che a mezzanotte erano ormai entrati in lieta e cor­
diale familiarità.
S’incontrarono di nuovo il giorno seguente, ormai buo­
ni conoscenti, su un gran battello imbandierato che do­
veva portare i capi della festa e un certo numero di
ospiti di riguardo e di amici forestieri a una gita sul lago.
Un cielo tersissimo dominava le acque, le rive e le mon­
tagne, facendo aprire quelle sorgenti di una nobile letizia
che fossero eventualmente ancora chiuse. Il battello sol­
cava le acque cristalline di un verde intenso, ora risuo­
nando dei concerti di buona musica, ora di cori e can­
zoni. Dai fiorenti paesetti lungo le due rive echeggiavano
saluti e ondeggiavano bandiere, mentre agli ospiti si mo­
strava con orgoglio quella celebre regione con le sue
ricche ville e borgate. Una bella corona di dame sedeva
su un pontile elevato del battello, e fra queste Justine Glor,
con un bell’abito alla moda ma pur semplice, reggendo
il parasole, cosicché quando Jukundi le si accostò nel
suo costume da alfiere per salutarla, rimase sorpreso e
quasi intimidito dal suo aspetto mutato e forse ancora
più elegante. Non scambiarono tuttavia che poche paro­
le, come suole accadere quando c’è ancora a disposizione
una lunga giornata estiva.
Allorché, poco dopo, Jukundi le tornò vicino, ella gli
4θ4 LA GENTE DI SELDWYLA

fece un cenno e gli disse che i suoi genitori avrebbero in­


vitato a passar la serata nei loro giardini di Schwanau,
nella parte superiore del lago, tutta la comitiva, dato che
il battello vi doveva approdare, ed espresse la speranza
che egli pure sarebbe venuto. Questa notizia confiden­
ziale, a ben pochi ancora giunta, gli procurò subito al­
lusioni e congratulazioni da parte dei presenti, da cui egli
si schermì modestamente, pur ascoltandole con piacere.
In realtà fu presto noto che il battello si sarebbe fer­
mato la sera a Schwanau e che tutti erano invitati a
prendere un ultimo rinfresco nella villa della famiglia
Glor. Questa lo faceva in onore della figlia, per dimo­
strare che essa aveva una casa e non era certo obbligata
a presenziare a banchetti tra forestieri, ma anzi in grado
di offrirne ella medesima. Erano infatti gente un poco
orgogliosa dei propri possedimenti, da loro stessi acqui­
stati.
Per godere con pieno agio la promettente serata, fu­
rono rigidamente osservati i tempi delle soste negli altri
punti d’approdo dove il battello era atteso, e la sonora e
canora imbarcazione attraversò puntualissima il lago scin­
tillante, e, salutata da salve di cannone, approdò a Schwa­
nau, dove gli alti alberi del parco Glor si specchiavano
nelle acque e le case splendevano dall’alto delle colline e
dei terrazzi.
La folla dei cantori si disperse sotto gli alberi e intanto
Justine scomparve in casa ad aiutare i suoi, lasciando che
il padre e i fratelli si occupassero di accogliere e di salutare
i numerosi ospiti. Sotto le pergole e sulle verande erano
stati disposti punti di riposo per le dame, con ricchi rin­
freschi, mentre su un prato da poco falciato, tra alberi di
frutta, si stendevano lunghe tavole apparecchiate per gli
uomini. Non passò però molto tempo e anche tutte le
dame furono sul prato, attirate dai frizzi, dagli scherzi e
dai giuochi dei giovanotti, facendo grande chiasso. Vi era
molto da vedere e molto da ridere, perché il buon umore
e l’abilità dei singoli escogitavano mille piccole graziose
invenzioni e scenette, in cui anche il più ingenuo su­
scitava il più simpatico successo, fra la generale al­
IL SORRISO PERDUTO 4θ5
legria. Anche una capriola tentata all’improvviso trovò
ammiratori, e persino l’infelice virtuoso che aveva voluto
modulare tutto serio sul suo pettine una melodia senti­
mentale, finendo con una stonatura, si compiaceva delle
omeriche risate che lo salutarono e non si toglieva più
dal capo la ghirlanda di paglia che gli avevano imposto.
Soltanto Jukundi fra tutto quel chiasso si sentiva un
po’ isolato, non scorgendo per lungo tempo Justine, sulla
quale credeva di aver già qualche diritto, almeno per
quell’ultima giornata. Ebbe tuttavia una leggiadra sor­
presa, quando d’un tratto la fanciulla gli si accostò, senza
che sapesse di dove fosse venuta, e lo presentò al padre e
ai fratelli quale portastendardo della associazione vitto­
riosa. Gli uomini lo salutarono con cortesia e cordialità,
dandogli il benvenuto, ma non senza quel tanto di freddo
riserbo che, così ricchi proprietari, ritenevano dover man­
tenere di fronte a un seldwylese nullatenente o poco agia­
to, per il caso che questi si fosse illuso di rappresentare
qualche cosa di più di un buon partecipante alla festa.
Il bonario giovanotto lo avvertì immediatamente e ne
rimase un poco imbarazzato; così anche Justine, la quale
in compenso, appena i signori furono andati oltre, si ac­
compagnò a lui, proponendogli di mostrargli la tenuta.
Designò due edifici eguali, sul tipo di ville di moder­
nissimo stile, seminascosti negli ombrosi boschetti accan­
to al lago, come le abitazioni dei due fratelli, che avevano
fondato ciascuno una famiglia propria, senza staccarsi
per questo da quella paterna. Risalì poi con lui sentieri
e scalinate sino all’altura dove sorgeva, dominando le
corone degli alberi sottostanti, la casa dei genitori nella
quale viveva ella stessa, un edificio un poco più antiqua­
to, ma pur sempre vasto e signorile, attorniato da rustici
e da scuderie. Più oltre si vedevano lunghi e alti edifici in­
dustriali con innumerevoli finestre, confinanti con lo stra­
done polveroso che passava da quella parte. Al di là di es­
so però, sul declivio della montagna, si stendevano ancora
campi, vigneti, prati e frutteti, e al disopra di tutto
questo Justine gli indicò la casa dei nonni, sede origina­
ria della famiglia, che splendeva nel sole declinante. Era
466 LA GENTE DI SELDWYLA

un’ampia casa rurale di antica forma, con chiare e


numerose finestre, mura bianche e ornamenti di legno
variopinto al tetto e ai granai, con scalette aperte di pie­
tra dalle balaustrate di ferro battuto artisticamente. Là
vivevano con i loro domestici il nonno e la nonna, agri­
coltori ottantenni che però ancora lavoravano e dirige­
vano ogni giorno e ogni ora, tenaci e austeri, dai costumi
semplicissimi, sempre pronti a giudicare i giovani, a quel
che Justine raccontò al suo compagno. «Non vogliamo
salire un momento da loro a salutarli, poiché disdegna­
no di scendere dalla loro altura a guardare la nostra fe­
sta? Di lassù si gode una magnifica veduta ! » disse la fan­
ciulla. Ma Jukundi senti una specie di paura di quei vec­
chi e schermendosi ringraziò la sua guida, anche perché
quei vasti possedimenti lo intimidivano piuttosto che al­
lietarlo.
Tornarono così sui loro passi, mischiandosi agli ospiti
sempre più allegri, finché ad oriente salì la luna piena,
ammiccando al sole tramontante, mentre nell’aria e sul­
l’acqua il rosa s’accoppiava all’argento e presto si do­
vette risalire sul battello pronto alla partenza.
Vi fu gran ressa, poiché ognuno voleva stringere la
mano agli ospitali signori rimasti sulla riva, mentre l’e­
quipaggio incitava a far presto. Fu così che Jukundi
Meyenthal fu distolto dal suo proposito di accomiatarsi
dalla bella Justine e costretto a seguire la folla senza in­
contrarla. Padre e fratelli gli strinsero bensì la mano
mormorando un frettoloso «felicissimo», ma l’uno lo
chiamò signor Thalmeyer, l’altro signor Meienberg, il
terzo addirittura Meierheim, e nessuno aggiunse: «Ar­
rivederci ! ».
Quando il battello avanzò nella luce serale, egli non
scorse più la fanciulla, immersa con le altre signore nel­
le ombre già fosche degli alberi.

A casa Jukundi viveva con la madre, di cui egli, suo


unico figlio, era la giocondità e la grande speranza. Il
padre era morto presto, sciupando così soltanto una metà
del patrimonio portato in dote dalla moglie forestiera, e
IL SORRISO PERDUTO 467

questa aveva potuto allevare il figlio con l’altra metà.


Ne rimaneva ancora una parte, benché egli non avesse
ancora preso un decisivo avvio né conseguito grandi
guadagni. In compenso aveva ben poco consumato, ser­
bandosi discretamente docile verso la madre, dalla quale
gli venivano la bellezza e la salute e che lo amava senza
severità.
Non si era ancora fissato in una precisa professione.
Prima parve mostrare tendenze ad abilità tecniche e si
impiegò per un certo tempo negli uffici di un ingegnere.
Ma poi le sue simpatie si volsero al commercio, ed entrò
in un’azienda che poco dopo fu malauguratamente liqui­
data senza però sue gravi perdite. In quel momento era
propenso a dedicarsi alla vita militare e faceva gli studi
per divenire ufficiale istruttore e di stato maggiore. Do­
veva rimanere la maggior parte dell’anno in servizio
compensato, il che gli procurava un’esistenza comoda,
la quale, col suo moderato tono di vita, non esigeva gran­
di aggiunte di denaro proprio.
Quando dopo la festa le si presentò nella sua bella
uniforme, a cavallo e con la spada al fianco, sua madre
10 contemplò con compiacimento, osservando però che
11 suo grazioso sorriso aveva acquistato una sfumatura di
melanconia. Aveva l’aspetto di uno che ha incontrato lo
struggimento o il desiderio. Essa ci ripensò e tentò anche
alcune caute inchieste, e quando udì dell’avventura con
la fanciulla assegnatrice dei premi, e seppe che gli altri
di ciò lo punzecchiavano, le balenò un’idea, che la spinse
subito a un tacito lavoro per creargli una solida e con­
veniente fortuna.
Avendo dedotto più dal volto che dalle parche parole
di Jukundi come i fatti corrispondessero alle sue ipotesi, ma
come egli, modesto e con una chiara visione delle situazio­
ni, non mostrasse grande intraprendenza, preferì per il mo­
mento tacere. Con l’avanzarsi però dell’estate, annunziò,
per la prima volta in vita sua, che alla sua età doveva pur
cominciare a far qualcosa per la salute, e che intendeva
frequentare per qualche settimana un bel luogo di cura,
purché Jukundi consentisse a ricuperare più tardi quella
468 LA GENTE DI SELDWYLA

spesa con risparmi comuni. Egli si dichiarò senz’altro


disposto e la madre se ne partì contenta e in ottima sa­
lute, portando con sé le sue migliori toelette.
Dispose perché suo figlio, quando da lei avvertito, an­
dasse a prenderla, facendo in modo di trattenersi con
lei ancora per qualche giorno in quella villeggiatura.
Poco dopo fece la sua comparsa nello splendido e ce­
lebre luogo di cura montana e sedette in grande eleganza
e con piena disinvoltura al lato opposto della lunga ta­
vola, al cui capo stava la ricca e stimata signora Gertrud
Glor von Schwanau con la bella figlia Justine. Essa aveva
la stessa alta statura della madre di Jukundi, ma era
molto più robusta, con lo sguardo saggio e un po’ severo,
e faceva intendere volentieri di essere soprannominata
non solo nella cerchia familiare, ma anche in tutto il co­
mune, e persino in una più ampia regione, una Stauffa-
cherin, probabilmente per il suo nome di Gertrud, quello
della virtuosa e saggia consorte nel celebre Guglielmo Teli
schilleriano.
Si rendeva però ben conto di quel che significasse un
simile nome, indicante l’ideale di una donna svizzera
intelligente ed energica, astro e ornamento della casa,
conforto della patria.
La signora Meyenthal apprese tutto questo dopo una
mezza giornata di soggiorno, ma si tenne ritirata e tran­
quilla e soltanto verso la fine del secondo giorno, quan­
do per la signora Gertrud divenne insopportabile che
una villeggiante nuova rimanesse a lei sconosciuta, la
madre di Jukundi si lasciò trascinare a un breve e cor­
tese colloquio. Trovò però già nel corso di questo l’oc­
casione di afferrare la mano della solida signora e di dirle
con tono cordialissimo, come sentisse il bisogno di espri­
merle la sua gioia per aver incontrato una tale autentica
figura di Stauffacherin\ Scorgendola ci si aspettava pro­
prio di vederla uscire da una casa di Schwyz adorna di
stemmi e di motti, pronta ad appoggiare la sua mano
consolatrice sulla spalla del preoccupato consorte !
Mentre la signora Glor von Schwanau arrossiva di
compiacenza, la signora Meyenthal fu quasi spaventata
IL SORRISO PERDUTO 4θ9
guardando, mentre discorreva, la bella figlia Justine,
perché riconobbe il leggiadro sorriso identico a quello del
figlio e soffuso della stessa ombra di sottile nostalgia.
La signora Meyenthal rimase colpita da quel mirabile
giuoco della natura, da quella innegabile manifestazione
del destino, da quell’evidente dato di fatto, anche perché
Justine, alla quale già il volto della madre dell’alfiere
era parso noto e familiare, udendone il nome e la pro­
venienza, non dubitò un momento di chi si trattasse e
la fissò contenta negli occhi con lo stesso sorriso, per un
breve istante di spontaneo abbandono.
Quando il sole calò, illuminò le tre alte figure di donna
che, stranamente commosse dall’amore di se stesse o dal­
l’amore e dalla cura per altri, stavano l’una di fianco al­
l’altra sull’altura del monte e sembravano ondeggiare
un poco turbate.
La madre di Jukundi fu comunque la prima a ripren­
dersi e quella sera stessa scrisse al figlio di venirla a tro­
vare entro una settimana circa, per rientrare con lei dopo
alcuni giorni di villeggiatura. Con le signore di Schwa-
nau finse di non sapere nulla dell’incontro .alle gare di
canto, mentre la signora Gertrud da parte sua a malape­
na se ne rammentava, e neppure aveva veduto il bell’al­
fiere quella sera, trattenuta quasi sempre in casa dalle
sue cure di padrona.
Soltanto Justine era imbarazzata e inquieta; non
osava domandare notizie del figlio alla nuova conoscente,
ma non le piaceva neppure credere che questi non avesse
raccontato nulla a casa della festa e di lei medesima. La
signora Meyenthal dal canto suo desiderava che i due
giovani si rivedessero all’improvviso e si teneva quindi
molto riservata, pur non trascurando occasioni per catti­
varsi con un accorto contegno le simpatie della vecchia
Stauffacherin. Si poteva davvero chiamarla la vecchia
Stauffacherin, in quanto la bella e buona Justine, in pieno ri­
goglio giovanile, aveva tutto quel che occorre per eserci­
tare la dignità di una Stauffacher e non le mancava che un
consorte preoccupato per le sorti della patria.
Che non ci fosse ancora un marito derivava dai sin­
47° LA GENTE DI SELDWYLA

golari destini che lasciano spesso invecchiare ottime fan­


ciulle per l’apparente freddezza con la quale vien scam­
biata la loro nobile calma, o per la custodia gelosa pro­
digata dalle famiglie e soprattutto anche per il loro privi­
legio di saper ascoltare soltanto la voce del cuore.
Alla fine però una bella sera calò sulla montagna e
con essa arrivò Jukundi, e precisamente, perché prove­
niente da manovre e diretto ad altre esercitazioni, in uni­
forme, con un po’ di rosso e un po’ d’oro sulla giubba
scura. Dopo essersi ristorato e intrattenuto a lungo con
la mamma, s’avviò ignaro a passeggio con lei, che lo
guidò là dove sapeva di incontrare le due signore Von
Schwanau, oltre il bosco, a un promontorio roccioso e
solitario, fornito però di sedili e di parapetti, alto sulla
profonda valle già velata d’azzurro.
La beatitudine improvvisa dei due giovani, che si
rivelò sui loro volti all’insperato incontro, la somiglianza
della loro espressione e il particolare ingenuo sorriso che
l’accompagnò, superarono talmente l’immaginazione e
l’attesa della madre Meyenthal, che essa non ebbe più
da sostenere una parte e fu soltanto lieta di rimanere spet­
tatrice tranquilla e vigilante degli eventi.
La signora Gertrud invece, molto stupita, non stac­
cava gli occhi dai due ragazzi, alternando i suoi sguardi
dall’un volto all’altro. Alla fine però le lievi onde dell’im­
provvisa eccitazione generale si placarono e si avviò un
gradevolissimo cicaleccio, durante il quale si levò la luna,
illuminando i torrenti e gli stagni precedentemente na­
scosti nel cuor delle valli e facendoli brillare come astri
d’oro.
La signora Gertrud Glor provò una specie di voluttà,
come se tornasse a rivivere la sua lontana felicità giova­
nile, e quando si avviarono verso l’albergo e i due giovani
la precedettero discorrendo o tacendo insieme, essa prese
sottobraccio mamma Meyenthal. Questa era a sua volta
commossa e colpita dall’importanza del fatto, era inna­
morata ugualmente di ambedue i giovani, ma anche
molto preoccupata di dove si sarebbe andati a finire.
Durante il pranzo la diffusa felicità parve accrescersi,
IL SORRISO PERDUTO 471

se possibile, come suole accadere quando una dolce spe­


ranza ravviva i partecipanti, incitandoli a esporre senza
pericolo un segreto alla generale lètizia.
La signora Gertrud Glor alzò il suo calice con Jukundi,
molto compiaciuta del suo aspetto e del suo buon con­
tegno, e quando prima di coricarsi la figlia l’abbracciò
versando alcuni lagrimoni nel suo collare di pizzo, quasi
tributo risparmiato con fatica, non se ne mostrò stupita,
ma l’accarezzò affettuosamente sulle guance.
Appena però digerito con un primo sonno il goccio
bevuto, il che accadde già a mezzanotte, perché era stato
proprio un gocciolino, come ben si conveniva a una degna
Stauffacherin, essa si svegliò preoccupata e per il resto della
notte stette a ripensare al danno, mentre Justine, pure
insonne, ben s’accorgeva che la madre era desta. Essa però
si teneva immota, felice di non sciupar tempo dormendo e
di poter pensare così senza posa alla sua gioia.
Con l’avanzarsi dell’aurora diventava tuttavia sempre
più chiara alla madre l’impossibilità che entrasse in fa­
miglia un marito di Seldwyla, di quel paese dove nessuno
mai aveva fatto fortuna e nessuno possedeva un soldo.
Si apprestò dunque preoccupata ma decisa ad affrontare
il giorno, per soffocare il male sul nascere, male che le
appariva tanto più grande se considerava le rigide idee
degli uomini di casa sua a questo proposito.
Venne ancor meglio confermata in quei propositi quan­
do verso l’alba un ospite ritardatario, evidentemente un
po’ brillo, salì le scale, accompagnato da un fattorino
dell’albergo davanti alle diverse porte, e a quella delle
signore Glor inciampò nelle rispettive scarpe, scaglian­
dole, con una pedata, ben lontano. Le scarpe della mam­
ma scivolarono, l’una a pancia all’aria e l’altra a pancia
in giù, per tutto il corridoio; gli stivaletti della figlia,
per un colpo di striscio, precipitarono come due bar­
chette in gara verso la scala e poi giù per la medesima.
— Ecco ! — esclamò dal di dentro la vigile madre
— ecco il nostro seldwylese !
E si sentì come sollevata da quella pronta rivelazione.
Justine era balzata a sedere nel suo letto e ascoltava
472 LA GENTE DI SEI.DWYLA

con angosciosa tensione, ma, appena ebbe udito un paio


di parole del rumoroso ospite, gridò a sua volta sollevata,
anzi con colpevole gioia:
— Ma non è il capitano! Questo è il nostro Rudolf,
se la voce non m’inganna !
La madre si voltò sorpresa verso la figlia, dicendole
quasi irosa:
— Sei matta? Come vuoi che il nostro Rudolf arrivi
qui a quest’ora? E da quando usa inciampare ubriaco
per i corridoi di un albergo? Non è partito appunto da
poco per le sue manovre?
Ma si trattava proprio del figlio minore, del beniamino
della signora Gertrud, che in quel momento andava a
letto su quell’alta montagna.
Egli era giunto frettoloso, a tarda notte, con una guida,
stanco morto ed evidentemente con un gran cruccio.
Indossava egli pure l’uniforme e veniva da una guarni­
gione, dove era stato sfidato a duello da un altro ufficiale
da lui offeso. Siccome però s’intendeva più di contabi­
lità e di borsa che di duelli, aveva una moglie giovane
con due bambini e si sentiva molto preoccupato, così
aveva ottenuto una proroga ed era corso in fretta lassù
per consultare la madre circa il modo di comportarsi.
Nella sala da pranzo aveva incontrato Jukundi che,
non avendo ancora sonno, trascorreva solo solo un’oretta
di piacevole fantasticheria.
Trovandosi ambedue sul comune sentiero delle armi,
i due signori furono costretti a salutarsi e ad iniziare una
conversazione, quando il tenente Glor si mise a tavola
per una cena tardiva. Avendo recentemente saputo che il
capitano Meyenthal godeva grande stima negli ambienti
militari, Rudolf Glor fu lieto di rinnovare la conoscenza
e si sentì subito attratto da fiducia verso di lui. Trascina­
tovi da alcuni bicchieri di vino bevuti un po’ in fretta
per l’eccitazione, gli raccontò ben presto la sua faccenda
e gli disse anche d’essere venuto a chiedere il parere della
madre, che ben meritava il suo soprannome di Stauffa-
cherin e aveva sempre un rimedio per tutto.
Jukundi però gli consigliò di non parlarne con la ma­
IL SORRISO PERDUTO 473
dre, se non voleva aggravare la cosa. Gli spiegò come,
date le idee dominanti in questioni del genere, correva
pericolo di squalificarsi come ufficiale se fosse corsa voce
che affidava le sue questioni d’onore alla mamma e ne
seguiva le direttive.
Il signor Rudolf allora si immerse in nuova melan­
conia, giacché, molto ragionevolmente, non sapeva capa­
citarsi perché mai dovesse rischiar di abbandonare per
sempre moglie e figlioli per simili stupidaggini.
Jukundi gli chiese allora quale fosse stata la vera ori­
gine della disputa e come si fosse svolta.
Rudolf giocava a carte con tre altri colleghi. Alla fine
di un giro nel quale il suo compagno non aveva fatte le
mosse desiderate da Rudolf, mentre si distribuivano le
carte fu criticato lo svolgimento della partita, e precisa-
mente con le coniugazioni al tempo presente.
— Io gioco così — dissero — e tu a questo modo;
allora lui deve metter fuori quella carta e non quest’altra
e io l’assecondo e gioco così, dopo di che tu fai quella
mossa ed è ben chiaro allora che noi vinciamo.
— No, non è chiaro, — aveva replicato il compagno
di Rudolf — prendo prima la briscola e gioco poi l’altra
carta !
— E tu allora giochi come un asino ! — aveva escla­
mato Rudolf, al che tutti erano balzati in piedi, e il mat­
tino seguente era venuta la sfida in forma così solenne e
sbrigativa che il bravo giovanotto non era riuscito nep­
pure a dare spiegazioni soddisfacenti.
Quando Jukundi, che sorrideva del racconto, udì il
nome dello sfidante, osservò:
— Ah, quello ! Ha bisogno tutti gli anni di lanciare
una sfida, per paura che il suo onore metta la muffa!
Il suo onore però, signor tenente, esige che per questa
vicenda lei non esponga la propria vita, ma dichiari sem­
plicemente all’avversario che egli non avrebbe affatto
giocato come un asino, bensì in quel qualunque modo a
lui più gradito ! Ella ne potrà comunque trarre l’insegna­
mento che quando s’indossa un’uniforme convien misu­
rare sempre il proprio linguaggio, anche nelle ore del di­
474 LA GENTE DI SELDWYLA

vertimento. Bisogna però evitare assolutamente l’appa­


renza che la sua dichiarazione sia effetto di un colloquio
con la mamma, se non vuole attirarsi conseguenze ben
più gravi. Se le posso render servizio, sono disposto a far­
mi avanti come consigliere, scrivendo subito due righe a
quel signore, per comunicargli che lei ha parlato con me e
ha stesa una dichiarazione soddisfacente su mio consiglio.
La lettera partirà domattina e la faccenda sarà risolta con
soddisfazione generale, glielo posso senz’altro garantire !
Il giovane guerriero s’era sentito sollevato del gran
peso, e per dimostrare la sua gratitudine e consolarsi in­
tanto della paura passata, aveva a forza fatto venire
buon vino in abbondanza, trattenendo poi il soccorrevole
amico fino all’alba. Questi era rimasto volentieri in sua
compagnia, ascoltando le allegre chiacchiere di un gio­
vanotto che era fratello di Justine. Ma l’ardore del vino
si spense senza danno nelle profondità del suo caldo affet­
to, ed egli s’era poi coricato ben saldo in gambe, mentre
l’altro aveva cercato il suo giaciglio in modo tanto ru­
moroso.
La situazione era dunque peggiorata per la Stauffache-
rin, che s’era illusa di trionfare col primo sole; non sol­
tanto era stato suo figlio a dar scandalo, ma in lui so­
praggiungeva un ottimo alleato dell’avversario.
Justine era riuscita a chiamare attraverso la porta
semiaperta una cameriera, e a farsi dire da lei che in
realtà era arrivato il signor fratello e che aveva trascorso
la notte in buona compagnia col signor capitano. Dopo­
diché la ragazza era tornata sotto le coperte e si era final­
mente addormentata felice.
Jukundi pure non fu mattiniero e quanto a Rudolf
non si riusciva a svegliarlo, così che la madre per poterlo
interrogare dovette fare irruzione in camera sua. Consi­
derando la questione d’onore ormai risolta, egli si indusse
a raccontare ogni cosa a sua madre e le spiegò come sol­
tanto il buon consiglio e l’aiuto del capitano di Seldwyla
avessero eliminato le difficoltà e, si poteva ben dire, sal­
vato la sua vita. Egli infatti non poteva concepire di tirare
una vera palla di pistola contro un collega vivo e sano,
IL SORRISO PERDUTO 475
aspettandone da parte sua un’altra. Esaltò quindi con
eccitata eloquenza la saggezza e l’energia del seldwylese,
a tal punto che la madre, sconcertata e irritata, si ritirò
in camera e senz’altro vi si rinchiuse.
Essa era oltre a tutto gelosa della propria fama di
energica eroina schilleriana, dei propri diritti materni, e
s’infuriava sentendo che il suo consiglio avrebbe reso al
figliolo un servizio peggiore di quello di un qualunque gio­
vane seldwylese. Si precipitò quindi ben presto fuori dal
suo ritiro col proposito di dare una lavata di testa al non
richiesto mentore e di far scoppiare con ciò un utile con­
flitto che ponesse fine all’amicizia. Ma scendendo incon­
trò l’intera brigata raccolta in lieta concordia sotto una
pergola, ciascuno provvisto di un tardivo spuntino di
propria invenzione e intento a far baratti coi compagni.
Appena riveduta la giovane coppia bella e felice, dimen­
ticò i suoi duri propositi, anzi subito concorse a discutere
e a fissare una bella gita per il pomeriggio. Essa, infatti, era
una donna serena, come tutte le vere seguaci della saggia
Gertrud, quando non gravano sul capo dei loro uomini
nubi di tempesta che esse debbano dissipare.
Quando poi nel corso della giornata interrogò Ju-
kundi e questi le espose la faccenda del duello con parole
cortesi e assennate, dovette rendersi conto che egli aveva
ragione e che aveva reso un buon servizio al figlio, il che
la riempì di un senso di fiduciosa gratitudine.
Si accostò quindi quello stesso giorno anche alla ma­
dre del giovanotto, interpellandola con molti rigiri inda­
gatori a proposito dei due giovani.
La signora Meyenthal afferrò senz’altro il filo di quel
discorso e lo ravvolse svelta sulla sua spola, concedendo
senz’altro all’avversario di conoscere perfettamente il
malanno di Seldwyla. Ma tutto dipendeva dalle circo­
stanze. Anch’essa vi era venuta dal di fuori a nozze, era
stata al tempo suo un buon partito e a prescindere dalla
morte precoce del suo povero consorte, non aveva avuto
poi da lagnarsi, così che riteneva suo figlio, grazie a Dio,
di ottima indole, e preparato a una vita onorevole, del
che anche la signora Glor era persuasa.
47θ LA GENTE DI SELDWYLA

Con ciò erano compiute le trattative segrete essenziali


e iniziava il suo corso quanto rispondeva al desiderio
di possenti voci naturali. Le difficoltà da aspettarsi da
parte degli altri membri della famiglia di Schwanau
vennero superate con calma e discrezione, e pochi mesi
dopo fu annunciato il fidanzamento di Jukundi con
Justine.
Parve in generale un avvenimento cosi giusto e gen­
tile, che non si udirono malignità in proposito. I fidan­
zati non ricevettero neppure una lettera anonima di in­
sulto o di ammonimento, come suole accadere quando
si suscita una grande invidia. Il più limpido cielo mat­
tutino rideva sul loro amore e le nozze stesse furono una
festa soleggiata e armoniosa, tutta canti e bandiere, che
per la massa del popolo accorso somigliò a un’antica e
bella canzone.

CAPITOLO II

La giovane coppia viveva nella casa paterna di Seld-


wyla. Questa era un edificio abbastanza grande, con
sale e camere spaziose, costruito nel secolo precedente
da un cittadino arricchito all’estero e venuto poi a far
sfoggio dei suoi beni nella città nativa. Prima però che
la casa fosse arredata e completata, egli, nei primi anni
della rivoluzione e delle guerre, aveva riperduto l’in­
tero patrimonio, così che, invece di venire ad abitarla,
era sparito per vedere se non potesse riacciuffare la for­
tuna là dove l’aveva incontrata una prima volta. La
casa era in séguito passata di mano in mano, perché ogni
volta che un seldwylese si credeva in possesso di mezzi
sufficienti a una vita lussuosa, e ne aveva la voglia,
comprava quell’edificio e lo abitava per un certo tempo,
senza riuscir tuttavia a portarlo mai a fine, nell’interno.
I Meyenthal lo possedevano ormai da più tempo che
gli altri e nel corso degli anni si erano permessi qua una
tappezzeria, là una rifinitura; prima delle nozze Jukundi
aveva rinfrescato l’esterno e messo in ordine il giardino,
così che quando Justine fece il suo ingresso con una co­
IL SORRISO PERDUTO 477
spicua dote di tendaggi e di arredi d’ogni genere e li di­
stribuì bellamente nei fastosi ambienti, parve che la for­
tuna ben forgiata, o in questo caso ben cucita, venisse
ad abitare quella casa durevolmente. L’autrice di quella
fortuna, la madre Meyenthal, risiedeva contenta e or­
gogliosa nelle sue stanze, soddisfatta di vedere che la
bella Justine rivelava un senso chiaro e solido della pro­
prietà e della sua conservazione, mentre Jukundi da parte
sua non sembrava perdere anche nei riguardi della gio­
vane moglie la sua bonaria docilità.
Sposandosi, egli, in base agli accordi, aveva rinun­
ciato alla carriera militare, per le continue assenze che
tale professione gli avrebbe imposto. Al fine di assicurarsi
tuttavia un reddito onorevole e un’attività regolare,
aveva avviato un’azienda commerciale, basata sull’ab­
bondanza di legnami della città e della regione circo­
stante. Alle grandi foreste provenienti ancora dalla sud-
divisione territoriale alemanna s’erano più tardi aggiunte
le regioni boscose del castello e del monastero presso le
cui mura era venuta sorgendo la città.
Questa aveva sino ad allora rispettato le sorgenti della
propria agiatezza, conservandole anche per orgoglio ci­
vico, allo stesso modo che serbava accuratamente nella
taverna comunale le ricche coppe antiche ed il vino vec­
chio. Ma per qualche fessura s’era insinuata la seduzione
e la smania di guadagno, e già ormai la morte, non vista,
passava per le grandiose foreste, si insinuava al margine
dei boschi, battendo con le sue dita ischeletrite sui grandi
tronchi lisci. Quando dunque intorno a quell’epoca si
fece avanti Jukundi per fare acquisti di legname da co­
struzione e da ardere, la sua azienda fu subito florida;
i Seldwylesi infatti preferirono la mediazione di un loro
ben noto e onesto concittadino alle pressioni di quei
mercanti forestieri che avevano per primi fatto entrare
la disgrazia.
Cominciarono allora ad abbattere le grandi foreste
secolari, aprendo così il passaggio alla grandine sui vi­
gneti e sui campi. Ma quei boschi erano pur stati un
giorno giovani e bassi, o anzi lo erano già stati ripetuta­
478 LA GENTE DI SELDWYLA

mente, e avrebbero potuto invecchiare e crescere un’al­


tra volta. Quando però la scure raggiunse le boscaglie
più giovani, quando si inventarono scopi sempre più belli
per fare affluire il denaro, mentre i pendìi dei monti
si facevano ogni giorno più brulli, Jukundi, che sin dalla
giovinezza era stato sempre grande amico della foresta,
cominciò a sentirsi raggelare. Faceva guadagni cospicui
in quel commercio, ma sempre più se ne vergognava:
gli sembrava di essere nemico e distruttore di quella
verde e gioiosa bellezza ; perdette il buon umore e si con­
fidò con la moglie, quand’essa, vedendo divenire sempre
più raro quel sereno sorriso che era stato gemello al suo,
lo interrogò angosciata. Essa però riteneva che le cose,
con o senza suo marito, avrebbero seguito il loro corso,
probabilmente anzi peggiorando, e si preoccupava sol­
tanto di saperlo ricco ed indipendente per merito pro­
prio, onde poter essere orgogliosa di lui anche sotto que­
sto aspetto. Non confermò quindi il consorte nella sua
ripugnanza, ma anzi lo incoraggiò a continuare ed egli
seguì il suo consiglio.
Lungo un pendio irregolare e prolungato, chiamato il
«Wolfhartsgeeren», si tagliava un bosco di media al­
tezza. Da questo si ergeva da tempi immemorabili la
grandiosa volta verde di una quercia millenaria chiamata
appunto la quercia di Wolfhartsgeeren. In documenti
antichi essa quale punto di riferimento aveva anche altri
nomi, da cui poteva dedursi che le sue giovani fronde
avevan conosciuto i venti mattutini dei popoli germanici.
Dopo aver tagliato tutto il bosco che le stava attorno,
volendosi riservare quell’albero possente ad una vendita
speciale, la quercia spiccò come un monumento gran­
dioso, quale nessun principe della terra o nessun popolo
con tutti i suoi tesori avrebbe mai potuto erigere. Il
tronco misurava alla base ben dieci piedi di diametro, e
i rami orizzontali, che da lontano si disegnavano sullo
sfondo del cielo come arboscelli delicati, apparivano in­
vece, visti da vicino, tronchi robusti. Il bel monumento
verde era visibile a miglia di distanza, e molti accorsero
per ammirarlo da vicino.
IL SORRISO PERDUTO 479
Quando si aspettò l’acquirente che avrebbe offerto il
prezzo più alto, Jukundi ebbe pietà dell’albero e cercò
di salvarlo. Fece notare che sarebbe stato conveniente
per il comune lasciar sussistere simili testimonianze del
passato come ornamento del paese, concedendo loro a
spese del pubblico aria, rugiada, e quel po’ di terreno
necessario. La somma relativamente piccola del suo ac­
quisto non poteva aver peso in confronto all’insostitui­
bile valore di simile adornamento. Ma non trovò ascolto:
appunto la perfetta sanità del vecchio gigante gli doveva
costar la vita, giacché dissero che era giunto il momento
opportuno per ricavarne il reddito massimo, poiché ap­
pena il tronco si ammala il suo valore precipita. Jukundi
si rivolse al governo, suggerendo la conservazione di sin­
goli alberi eccezionali, dovunque essi si trovassero, come
un principio generale. Gli fu risposto che lo stato pos­
sedeva bensì foreste per milioni e poteva aumentarle a
suo piacimento, ma non aveva un tallero a disposizione,
né la minima facoltà di comperare un albero destinato
ad essere abbattuto e posto su terreno comunale, per
lasciarlo poi vivere.
S’accorse che nessuno era accessibile alle sue idee e
che egli ci faceva solo una cattiva figura come uomo d’af­
fari, esponendosi a essere segretamente deriso. Allora com­
però egli stesso la quercia e il pezzo di terreno sul quale
essa sorgeva. Ripulì il sottobosco, mise una panca all’om­
bra dell’albero, di dove si godeva una bella vista, e
ognuno lo lodò della sua iniziativa e venne ad ammirare.
Ma da quel momento ognuno anche cercò di sfruttarlo
e di ingannarlo, come fosse un gran signore verso il quale
non occorre avere riguardi.
Per ripugnanza ad abbattere continuamente i bei bo­
schi Jukundi trasformò gradatamente, ma quanto più
presto gli fu possibile, la sua azienda, lasciando il com­
mercio del legname e dandosi invece ai tesori che ven­
gono dal seno della terra e sostituiscono il legno. Apprestò
depositi di litantrace e di lignite, importò tubi di terra
refrattaria e di ferro a sostituzione degli acquedotti di
legno, nonché mattoni per costruzioni leggere che si so-
480 LA GENTE DI SELDWYLA

levano fare in legno, cemento per vasche d’ogni sorta e


indusse persino un ricco contadino a farsi fare una gran­
diosa botte da mosto in solido e fresco cemento. Dopo
quel successo, sognava già di vedere in ogni cantina, al
posto delle botti di doghe, tali recipienti, simili alle grandi
anfore che gli antichi tenevano sotto terra per il vino, e
calcolava il risparmio di buon legname di quercia.
Comperò anche grandi quantità di rotaie ferroviarie
fuori uso, che in cento casi sostituiscono una trave di
legno.
Naturalmente l’esportazione del legname continuò
senza curarsi di lui verso le grandi città divoratrici, ma
egli aveva la coscienza tranquilla, senza la cui tacita
compagnia non si sentiva un commerciante felice. I nuovi
affari non sarebbero rimasti infruttuosi, se non fosse in­
tervenuta insieme al mutamento commerciale una certa
crisi, da quando si era assunto la protezione del grande
albero e il contegno dei suoi colleghi aveva cominciato
a mutarsi, rivelandogli il loro vero volto.
Jukundi diceva sempre la verità e in cambio credeva
anche a tutto quanto a lui era detto. Manifestava già
da principio completamente la sua opinione e le sue in­
tenzioni, e accettava per vero quel che gli comunicava
l’altro circa i suoi patti di acquisto o di vendita e circa
la natura della merce, mentre l’altro comunque suppo­
neva che avrebbe pensato lui a indagare meglio e poi,
non accadendo questo, arditamente si proponeva di in­
gannarlo. Non giovarono le numerose esperienze, né le
esortazioni delle sue donne a non essere tanto credulo.
Già la volta seguente si lasciava persuadere, non po­
tendo far altro o sembrandogli troppo spregevole e ripu­
gnante bisticciare e mercanteggiare. Si aggiunga che egli
non era un finanziere molto abile, capace di manipolare
credito e denaro, e si comprenderà perché, un bel giorno,
i suoi mezzi furono esauriti e s’appressò la sua fine. Ac­
cadde all’improvviso, dato che egli non era ricorso a ri­
pieghi e non aveva trascinato una situazione fittizia.
Meditò se dovesse confidarsi prima con la madre o
con la moglie, o con ambedue a un tempo, confessando
IL SORRISO PERDUTO 481

loro che l’agiatezza era finita, e che bisognava ricomin­


ciar da capo, non sapeva ancora come. Si decise per la
moglie. Quando, solo con lei nel suo studio, cominciò a
esporle col cuore pesante la sua triste situazione, essa gli
si accostò, gli passò le mani sulla fronte corrugata e lo
interruppe domandandogli se i suoi libri erano completi
e in ordine. Alla sua pronta conferma, ella gli rivolse un
sorriso che gli sollevò il cuore e gli disse che in tal caso
conosceva già la situazione, perché, mossa dalla curiosità,
poco tempo prima, durante una sua assenza, aveva stu­
diato gli affari suoi, o meglio di loro due.
In realtà la donna, essendosi accorta che il marito le
celava qualche preoccupazione, durante una tranquilla
domenica in cui egli aveva dovuto partire, lasciandole
al solito le chiavi sul suo tavolino da lavoro, si era rin­
chiusa nel suo studiolo a leggere i mastri e le carte, del
che ben si intendeva. Tutto era chiaro e ordinato, con
ogni cifra al suo posto. Vide che non avrebbe potuto re­
sistere ancora a lungo, ma che non c’era il pericolo di
una soluzione disonorante, purché vi si passasse un frego
definitivo per tempo. Conoscendo la lealtà di lui, era certa
che la confessione non si sarebbe fatta molto aspettare,
e nel frattempo aveva agito mettendo i genitori a parte
della cosa. Già al tempo in cui avevano dato il consenso
alle nozze, l’orgoglio di quei ricchi aveva fatto prevedere
simile vicenda, e in segreto era stato deciso che gli
sposi, qualora, come probabile, le cose non andassero
bene a Seldwyla, si trasferissero a Schwanau. Justine
non fu quindi troppo spaventata dalla sua scoperta e
provò anzi una gioia segreta all’idea di introdurre nella
casa paterna il suo ottimo e bello sposo, per circondarlo
poi là di ogni cura e riguardo, come una fragile figurina
di vetro.
Quando però comunicò al marito quei piani e gli
spiegò che bastava provvedere a una pacifica liquida­
zione degli affari a Seldwyla, per trasferirsi poi a Schwa­
nau, dove certo Jukundi avrebbe potuto rendersi utile,
questi replicò impallidendo:
— Ma allora sarebbe perduta la mia libertà e ogni
482 LA GENTE DI SEI.DWYLA

rispetto per me stesso ! Preferisco andare a far lo spacca­


legna !
— Bene, ma ci dovrò essere anch’io ! — disse Justine
— Ti aiuterò a segare, e quando saremo sotto la pioggia
in una strada tirando insieme la sega, litigheremo e fa­
remo fermare la gente, come quei due che abbiamo vedu­
to in quella gran città durante il nostro viaggio di
nozze !
Sedette e poi continuò:
— Ti ricordi quale strana impressione ci fecero? Pio­
veva a dirotto, il legno era bagnato, anche la sega era
bagnata, marito e moglie, fradici fino alle ossa, tiravano
in qua e in là la sega, lanciandosi aspre parole e insulti !
E sai perché? Litigavano per la miseria, per la dispera­
zione, senza neppure più vergognarsi della gente che li
ascoltava...
— Taci, — esclamò Jukundi — come puoi interpre­
tare così le mie parole, mentre sai bene quel che voglio
dire?
— Ma in esse può anche celarsi tutto quel che ho detto
10 ! — replicò Justine. Poi aggiunse, girandogli un braccio
attorno alle spalle: — Vieni, tutti ti vogliono bene e ti
aiutano, tu sei un uomo'capace, se appena avrai sotto i
piedi un terreno ragionevole ! Ma qui non è possibile per
noi avere fortuna !
Jukundi interruppe il colloquio per ritrovare la calma,
perché era molto confuso e turbato, non avendo consi­
derato le cose così disperate come le vedeva la moglie,
tanto che si sentiva ora un poco offeso. Andò da sua ma­
dre, ma questa, appena sentì come stavano gli affari,
cominciò a piangere. Le parve che tutto fosse perduto se
11 figlio non si teneva ben stretto alla moglie e alla sua
famiglia, cosicché lo scongiurò di non voler rovinare la
fortuna sua e dei suoi.
La buona madre aveva dovuto troppo a lungo difen­
dersi dalla miseria e credeva di esserle sfuggita per sem­
pre col saggio matrimonio del figlio, e ora aveva paura
di tornar povera più che di una spada affilata.
Justine invece odiava e disprezzava la miseria come
II. SORRISO PERDUTO 483
qualcosa di cattivo e di spregevole, a meno che si trat­
tasse di poveracci ai quali si doveva far del bene. Essa
esercitava con ordine e zelo la beneficenza, recandosi nei
tuguri e visitando i bisognosi. Quando però la povertà
voleva penetrare nella cerchia più vicina del parentado
e degli amici, ne provava un’aspra ripugnanza, come di
fronte alla peste, e decisamente la fuggiva. Non servì
quindi a nulla che Jukundi tornasse da lei per farle ca­
pire che avrebbe potuto tentare e sopportare per un poco
un incerto destino al suo fianco, dato che comunque le
rimaneva aperto il rifugio presso i genitori con la ricca
eredità. No, non un giorno essa voleva vedere esposti il
marito e se stessa al bisogno e all’umiliazione, e quando
suo padre venne e cordialmente incoraggiò il genero,
come a una cosa naturalissima, da regolare per il bene
di tutti, quegli dovette arrendersi.
I dipendenti di Jukundi vennero liquidati e congedati,
la casa venduta, poiché la madre, che ne era compro-
prietaria, non volle rimaner sola a Seldwyla, e furono
così regolati tutti gh impegni. A Jukundi non rimase
neppure un tallero in tasca, il che gli causò una strana
impressione. Justine si dedicò di buon animo e con molta
energia ai preparativi del trasloco ed a fare i bagagli
di ogni bene mobile; ora era a Schwanau per arredare
la sua nuova dimora, ora tornava a Seldwyla per curare
le ultime cose, sempre ben provvista di mezzi e dimenti­
cando completamente, nel suo vivace zelo, di chiedersi
se mai Jukundi ridotto così senza fondi avesse bisogno
di nulla.
Egli si trovò nello stato d’animo di chi sia costretto a
peregrinare in terra remota, fra persone straniere, di cui
non comprenda il linguaggio : si guardò attorno, preoc­
cupato del come mettere insieme in qualche modo una
piccola somma di sua proprietà. Era stata dimenticata
la grande quercia che egli aveva voluto salvare e conser­
vare. Con un melanconico sorriso vendette il buon gi­
gante con il relativo terreno sul quale esso sorgeva, rica­
vandone alcune migliaia di franchi, che mise gelosamente
in serbo.
484 LA GENTE DI SELDWYLA

L’acquirente fece venire subito una dozzina di bo-


scaioli che ne misero alla luce le radici, scavando tutt’at-
torno e lavorandoci per buoni otto giorni. Quando si fu
al punto di abbattere l’albero, tutta Seldwyla accorse
sulla collina per assistere alla caduta e migliaia di per­
sone si accamparono attorno, ben provviste di cibi e di
bevande.
Furono assicurate alla corona robuste corde e una quan­
tità di uomini vi si attaccarono, cominciando a tirare al
ritmo dei comandi : ma la quercia appena vacillò lieve­
mente, così che si dovette ancora scavare e segare per
delle ore fra le possenti radici. La folla intanto mangiava
e beveva e se la spassava, non senza un sentimento di
ansiosa attesa.
Alla fine furono fatti allontanare di nuovo tutti, tor­
narono a tirare le corde e dopo un forte ondeggiamento
di alcuni minuti, fra un silenzio veramente sepolcrale,
la quercia si abbatté con i rami spezzati che mostravano
il candore del legno. Dopo un primo grido generale, fu
subito un brulichio di gente attorno al grandioso tronco.
A centinaia s’arrampicarono su per il verde intrico della
corona abbandonata nella polvere. Altri invece scesero
nella scavatura delle radici, frugando entro la terra. Ma
non trovarono altro che un pezzetto di vetro fuso dell’e­
poca romana, dalla lucentezza di madreperla, e una
punta di freccia consumata dalla ruggine.
Su una lontana collina, per la quale in quel momento
passava appunto lentamente in carrozza Jukundi coi suoi,
alcuni contadini intenti al lavoro gridarono a un tratto
accennando all’orizzonte : «Guardate come oscilla la
vecchia quercia di Wolfhartsgeeren ; c’è forse un tempo­
rale laggiù?». Essi infatti non potevano vedere gli uo­
mini intenti ad abbatterla. Anche Jukundi guardò e s’ac­
corse che d’un tratto tutto era sparito e non si scorgeva
in quel punto che il cielo vuoto.
Ebbe una stretta al cuore, come se fosse tutta colpa
sua, e come se in lui rimordesse la coscienza dell’intero
paese.
I Seldwylesi quella sera furono più melanconici che
IL SORRISO PERDUTO 485

allegri, avendo perduto a un tempo il grande albero e


il buon Jukundi,

All’inizio del suo soggiorno a Schwanau, Jukundi pas­


sò la maggior parte del tempo sulla collina presso i nonni,
che in passato gli avevano quasi ispirato paura per la
loro indole apparentemente brusca e scortese. Nel corso
dei mesi era invece entrato in buoni rapporti con loro,
ne era anzi diventato il beniamino, poiché spesso accade
che simile gente di campagna, salda nella propria anti­
chissima sicurezza, si veda attorno con piacere qualcuno
di ozioso e di ben diverso da loro, tale da suscitare allegria.
Il giovanotto era per loro un individuo forestiero e ine­
sperto, ma molto gentile, destinato probabilmente a
non aver fortuna, degno quindi di interesse e di compas­
sione. Così pensavano i due «matrimoniali», come veni­
vano ancora chiamati i vecchi dal popolo, in grazia del­
l’antico ufficio matrimoniale tenuto mezzo secolo prima
dal nonno, una specie di tribunale per i buoni costumi
e per le questioni fra coniugi. Non meno antiquato di
quella carica era il taglio della cuffia bianca e del gran
colletto candido, di cui si ornava la vecchia. Tutto risa­
liva ancora all’epoca in cui già Goethe, visitando questa
regione, scrisse che essa dava un’idea attraente e ideale
della più bella e sublime civiltà. Gli edifici rustici
sono ben distanziati tra loro, inframmezzati da vigneti,
da campi, orti e frutteti, e qui si può vedere coi propri oc­
chi quel che è il sogno degli economisti : il massimo grado
di cultura insieme a una moderata agiatezza.
Quelle condizioni erano rimaste immutate nel podere
dei nonni, sino alla casa padronale, agli arredi di noce
delle stanze e al vasellame negli armadi, mentre i nuovi
tempi, coi loro mutati aspetti e le loro aumentate esi­
genze, si affermavano giù verso la riva. Jukundi godeva
lassù l’aria pura e aiutava con tanto fervore i vecchi
e i loro subordinati in tutti i lavori, che fu presto esperto
in ogni cosa e divenne un vero funzionario presso i pa­
triarchi, del quale essi non potevano più privarsi.
Justine si compiaceva della stima conquistata da suo
486 LA GENTE DI SELDWYLA

marito presso i nonni; la sera saliva spesso contenta da


lui per farsi riaccompagnare a casa, o anche si divertiva
se, còlta da un temporale durante la falciatura, era co­
stretta a passarvi la notte. Svestiva allora il suo abito ele­
gante, si gettava sulle spalle uno dei grandi fazzoletti
della nonna, annodandone le punte sul dorso, preparava
la minestra di farina abbrustolita, friggeva una saporosa
frittata o arrostiva una gustosa salsiccia che andava a
rubare per cena, senza permesso, nello stanzino delle
provviste. Quando poi, col volto lietamente arrossato,
e con gentile espressione, versava a tavola il limpido vi­
nello dalla lucida caraffa di peltro, i vecchi le dicevano che
sembrava proprio una vera figlia del paese dei tempi an­
tichi, ed essa si divertiva a fare una piccola mascherata,
andando a prendere gli antichi vezzi di granato della
nonna, le cuffiette della festa e le giacchette di seta, da
lei portate sessant’anni prima nella sua fiorente giovinez­
za. La nipote le indossava con gioia di tutti; ma invece
di guardarsi nello specchio, Justine guardava in volto col
suo sorriso beato il buon Jukundi, intento a contempla­
re quella luminosa immagine risorta da tempi remoti.
Anche la domenica egli soleva salire sulla collina,
sentendosi là meglio a suo agio che nel chiasso monotono
della società chiacchierona che si adunava nelle ville.
Nei giorni festivi in casa dei nonni c’era sempre sulla
tavola la Bibbia aperta, perché la vecchia potesse, du­
rante le lunghe ore di riposo, leggervi a suo agio quando
gliene veniva il gusto, così come in simili giorni di sosta
si lascia attorno un boccale di vino, un piatto di ciliegie
o di altre golosità per eventuale ristoro.
Quand’essa, stanca della lettura, deponeva sul libro
il suo ramoscello di rosmarino e gli occhiali, Jukundi
soleva sedersi e riprendere la lettura della Bibbia, dato
che quel libro non gli era spesso sottomano, come avviene
dove si è obbligati a leggere di continuo cose nuove più
necessarie, o si ritiene di conoscere sufficientemente quelle
antiche sin dal tempo della costrizione degli anni di
scuola. Considerava allora gli sfondi tempestosi dell’An­
tico Testamento, con le sue figure appassionate, oppure
IL SORRISO PERDUTO 487

scopriva l’amletica scena del Vangelo di San Giovanni,


quando Gesù meditabondo traccia con un dito dei segni
sul terreno, prima di dire che solo chi è senza peccato
può scagliare la prima pietra contro la peccatrice, ma
poi torna a scrivere, e quando alza gli occhi tutti gli accu­
satori sono spariti e gli sta di fronte, nel tempio di nuovo
silenzioso, soltanto la donna.
La nonna lo osservava con piacere, perché nella sua
salda ortodossia era ben persuasa che la lettura della
Bibbia giovasse senz’altro a ognuno. Justine, per attenua^
re il fatto the il marito non andava in chiesa, lo aveva
descritto ai vecchi come un filosofo; per conto suo essa se­
guiva l’imprecisa religione allora in voga, prodigandovi
molto zelo, per quanto vaghe fossero le sue concezioni,
Una volta, mentre egli era intento a leggere, la veo
chia gli si sedette confidenzialmente accanto; le alette
ben pieghettate della cuffia sfiorarono la sua guancia ed
essa gli accarezzò una mano dicendogli:
«Ebbene, caro filosofo, io credo pur sempre che tu
abbia in fondo un poco di timor di Dio ! ».
Jukundi fu sorpreso da quell’osservazione e tornò a
meditarvi. Sentì che avrebbe ben potuto rispondere, ma
come confidare a quella vecchia quel che in fondo, se
ben ci pensava, sua moglie stessa non gli aveva mai chie­
sto? E come avrebbe potuto interrogarlo su cose che essa
ignorava? Justine possedeva un caldo sentimento reli-!
gioso, ma circa le cose di Dio era troppo curiosa e indi-!
screta e possedeva anche un eccessivo senso di sicurezza
personale per poter avere quello che nel suo senso più
puro si chiama timor di Dio. Che le cose col Signore Iddio
non fossero ben chiare, l’aveva imparato dai più ricercati
predicatori, alle cui conferenze soleva recarsi, ma per
Gesù Cristo, per il più bello e perfetto fra gli uomini,
come lo definivano quegli oratori, ella nutriva piuttosto
un senso di fraterna reverenza o di accesa amicizia;
avrebbe potuto ricamargli un bel cuscino da divano o
delle splendide pantofole per dare degno riposo al suo
capo o ai suoi piedi! Anzi, quando in viaggio aveva
veduto il celebre quadro del Correggio che rappresenta
488 LA GENTE DI SELDWYLA

con magico effetto il sembiante di Cristo sul sudario di


Veronica, era stata còlta da profonda commozione. Im­
mersa nella contemplazione di quel volto sognante, irri­
gidito nella suprema sofferenza, aveva esalato un pro­
fondo sospiro, ma subito aveva poi sorriso al marito che
le stava al fianco, cercandone la partecipazione. An­
cora adesso quell’istante costituiva uno dei suoi più cari
ricordi, ma ciò non aveva nulla a che fare col timor di Dio.
Quando però la vecchia nonna insistette per avere
risposta, Jukundi disse pensoso :
— Ritengo che quanto alla sostanza io abbia qualcosa
di simile al timor di Dio, in quanto sono incapace di im­
pudenza di fronte al destino e alla vita. Non credo di
poter pretendere che le cose vadano ovunque e senz’altro
bene, temo piuttosto che qua e là finiscano male e spero che
possano poi volgersi al meglio. Inoltre in tutto quello
che io faccio o penso, anche senza che altri mi veda o lo
sappia, ho sempre presente l’insieme del mondo, ho il
senso che in realtà tutti sanno tutto e che non si può con­
tare sulla vera segretezza dei propri pensieri e delle pro­
prie azioni, né si possono a capriccio tacere le follie e gli
errori. Questo è innato a una parte di noi, ad altri invece
non lo è, anche prescindendo dalle dottrine religiose.
Anzi, i più zelanti assertori di una fede, i fanatici, non
posseggono di solito timor di Dio, altrimenti non vivreb­
bero né agirebbero come fanno. Non so di che natura
sia questa coscienza di tutti per il tutto, ma credo si
tratti di una grandiosa repubblica dell’universo, che vive
secondo un’unica ed eterna legge, e nella quale alla fine
ogni cosa diviene conoscenza comune. Le nostre scarse
cognizioni odierne ci permettono di intuire meglio che
mai tale possibilità, giacché mai è stata tanto evidente
l’intima verità della parola che sta in questo libro: «Nella
casa di mio Padre vi sono molte dimore!».
— Amen! — disse la vecchia, che aveva ascoltato
attenta — è pur sempre qualcosa e meglio di nulla quel
che tu vai predicando. Leggi con cura la mia Bibbia e
avrai alla fine un borgomastro per la tua repubblica !
— È ben possibile — replicò Jukundi ridendo — che
IL SORRISO PERDUTO 48g

di tanto in tanto ne venga eletto uno e che quindi il


buon Dio sia una specie di re elettivo !
La vecchia rise pure di quell’idea, ed esclamò :
— Un governatore universale molto stimato ! Come
quelli di laggiù che hanno i loro baili ! — E così dicendo
accennò per la finestra aperta alla montagna di fron­
te, dove nelle antiche repubbliche paesane i magistrati
supremi avevano quel titolo.
Ne rise sempre più, giacché, compiacendosi di pen­
sare continuamente nella sua tarda età al buon Dio e
all’eternità, le era gradito anche quel giuoco innocente
col nome del Signore, pur di averselo vicino.
Mentre i due si divertivano e ridevano in quel collo­
quio religioso non precisamente ortodosso, Justine si af­
facciò fra i vasi di garofano che stavano alla finestra e
il suo volto, dopo la salita della collina per andare a pren­
dere suo marito, ardeva a gara coi fiori. Il suo bel viso si
fece quasi più fiammeggiante dei garofani rossi allorché
la nonna gridò lietamente:
— Vieni dentro svelta, figliuola ! Una novità ! Tuo ma­
rito ha proprio un pochino di vero timor di Dio; me lo
ha confessato in questo momento !
La giovane donna fu còlta immediatamente da una
strana gelosia, sentendo che la nonna conosceva meglio
di lei, sua moglie, i pensieri di Jukundi, e replicò:
— Probabilmente è per questo che non mi concede
mai l’onore di accompagnarmi in chiesa !
— Sta’ zitta! — disse Jukundi — Non litigare! Non ci
bisticciamo mica per l’acqua pura che ognuno di noi
beve quando e quanto vuole!
Justine, quando la sera scese al braccio di suo marito
dall’altura percorrendo una strada più lunga del solito,
riprese quelle parole e gli disse:
— Noi non ci litighiamo per l’acqua pura, ma bisogna
che badiamo a non bisticciarci neppure per il pane, né
tra noi, né con altri ! — E gli raccontò che la sua famiglia
e lei medesima desideravano che egli finalmente assu­
messe un posto fisso nella grande azienda industriale e
commerciale della casa. Le occupazioni agricole nel po-
49° LA GENTE DI SELDWYLA

dere dei nonni non si convenivano, alla fine, per lui, e


non portavano ad alcun risultato, mentre giù tutti erano
pronti a iniziarlo agli affari e a dividere onestamente
con lui la fatica e il guadagno.
Jukundi comprese perfettamente la recondita inten­
zione: non si voleva tollerare nessuno in famiglia che
non fosse abile e disposto a diventar ricco, e poiché egli
in fondo non poteva pretendere nulla di meglio, si adattò
senz’altro, pur diffidando in segreto di se stesso. Disse
dunque a Justine che avrebbe cominciato la mattina
seguente, un lunedi, sforzandosi di meritarsi la sua paga
settimanale.
L’indomani venne infatti introdotto negli uffici e nelle
officine della ditta, perché imparasse a conoscere l’uno
dopo l’altro i vari rami dell’azienda sino ad averne pa­
dronanza. La ditta Glor esercitava da oltre trent’anni
l’industria della seta, un’attività che si era notevolmente
sviluppata col tempo. In cento casette campestri lungo i
pendìi soleggiati, dietro finestrelle luminose, c’erano i telai
delle ragazze e delle giovani donne del posto, che tesseva­
no con mano facile e assidua lucide stoffe, ponendo la base
di una piccola agiatezza. Per tutte le strade si incontra­
vano figure robuste con i rotoli sulle spalle, avviate a
consegnare il tessuto finito e a prendere la seta per il
nuovo lavoro. In grandi ambienti vi erano inoltre le mac­
chine per la tessitura di stoffe più pesanti e fastose, e
ad essa erano addetti degli operai.
L’acquisto della seta grezza, la sua preparazione at­
traverso i diversi stadi, la sorveglianza e il controllo del
lavoro, la vendita della merce accumulatasi, lo studio del
traffico generale e il calcolo del momento opportuno per
ogni trattativa commerciale, il vantaggioso impiego, in­
fine, delle somme incassate, tutto questo imponeva un’at­
tività rapida e incessante e una serie di complesse espe­
rienze.
I rapporti con i mediatori che venivano a offrire i
filati dei diversi continenti, quelli per l’esportazione dei
tessuti in altre terre con gli agenti sempre preoccupati di
arricchirsi a loro volta, esigevano grande abilità e rapida
IL SORRISO PERDUTO 491

decisione. La concorrenza ogni giorno più aspra rendeva


necessario un accurato impiego dei mezzi disponibili, e
in pari tempo il più rigido controllo del lavoro preso in
consegna quanto a bontà e purezza, mentre quelle stesse
mani di lavoratori che conveniva così severamente sor­
vegliare, erano di continuo cercate e sottratte quando le
iniziative prosperavano; se invece erano in ribasso, bi­
sognava mantenerle attive con sacrifici per giorni mi­
gliori.
Occorreva inoltre seguire attentamente il mutarsi del
gusto e delle richieste nelle più diverse parti del mondo,
Qui si doveva fornire l’abito di seta elegante e di buona
durata per le cittadine di paesi socialmente molto solidi;
là si trattava invece di vistose stoffe a buon mercato per
le donne degli avventurieri di California o d’Australia,
che se ne ornavano durante brevi giorni di allegria, get­
tandole poi senza cura. A seconda della destinazione bi­
sognava pure usare l’arte delle grandi tintorie e combat­
tere con esse per ottenere i colori più belli e più resistenti,
desiderati dall’occhio conoscitore delle brave massaie,
oppure l’apparenza ingannevole per le bellezze di colore
del remoto occidente americano.
Jukundi si trovò di colpo immerso nella complessa
azienda perché imparasse a nuotare, ma non superò
troppo bene la prova. Da principio, quando si trattò di
lavori piuttosto semplici, tutto procedette bene, data la
sua attenzione e accuratezza. Ci si lagnò tuttavia ben
presto della sua lentezza, essendo ormai passata per lui
la duttilità e l’agilità della prima gioventù, e si disse che
rimaneva sempre allo stesso punto. Per insegnargli a nuo­
tare a tutta forza, lo buttarono a capofitto nella corrente,
ed egli si tenne a galla con forzato brio, o meglio con
una certa dissimulata paura, che gli faceva perder la
testa. Gli operai lo ingannavano sul peso della seta rice­
vuta, fornendo un tessuto troppo rado e leggero e raccon­
tandogli bugie per spiegarne la ragione. Altri riuscivano
a strappargli chiacchierando alcuni segreti della ditta,
per poi iniziare per proprio conto una dannosa concor­
renza. Ai mediatori e ai mercanti, malgrado i suoi seri
492 I.A GENTE DI SELDWYLA

propositi, credeva subito sulla parola, accettando le loro


offerte quando gli altri appena avrebbero cominciato a
prestare orecchio e a dar risposta. Per di più egli si fissò
sempre meglio in questa sua inettitudine, anche oltre le
necessità della sua indole; una specie di intontimento
non naturale avvolgeva il suo animo e annebbiava i suoi
pensieri appena erano in giuoco gli affari: insomma,
prima che fosse trascorso un semestre, egli, al pari di un
piccolo roditore nascosto, aveva causato alla ditta un
notevole danno, sotto forma di una diminuzione dei
guadagni, di cui si ricercò la causa.
Quando Justine si accorse che gli estranei e gli impie­
gati della ditta già non ritenevano più suo marito una
testa fina, ma anzi ne ridevano con compassione, pianse
in segreto di dolore e di stizza e fu còlta dall’angoscia di
doverlo essa stessa un giorno giudicare un pover’uomo
limitato e sfortunato. I giudizi del padre e dei fratelli,
quando la cosa fu tra loro segretamente discussa, non
erano fatti per rianimare il suo coraggio e il suo orgoglio,
e persino le parole confortanti della vecchia Stauffa-
cherin, che una buona barca come la loro era bene in
grado di sopportare senza fatica il peso di un passeggero
non pagante, purché costumato, non bastarono a risol­
levarla.
Se poi andava dalla madre di Jukundi a interrogarla
e a lagnarsi, questa si univa alle sue lagrime, scongiu­
randola di aspettare, poiché Jukundi non era certo uno
sciocco, e lo avrebbe un giorno dimostrato.
Jukundi era completamente ignaro di quel che si sus­
surrava sul suo conto, ma si sentiva tuttavia a disagio. Es­
sendo ognuno convinto che le cose non potevano proce­
dere a lungo così e che sarebbe venuto un chiarimento,
nessuno voleva essere il primo a parlargli e a dargli dolori;
però si diffuse attorno a lui una specie di nebbiolina che
sembrava velare gli occhi di chi lo circondava e abbassare
il tono delle loro voci.
Quando tuttavia un giorno in cui aveva comprato
una partita di seta grezza a un prezzo buono dodici ore
prima, ma già disceso nel frattempo, lo si pregò di rinun­
IL SORRISO PERDUTO 493
ciare a quella parte di attività, e quando la stessa pre­
ghiera fu ripetuta pochi giorni dopo per un altro ramo
d’affari, egli, sconcertato, interruppe ogni attività. Sol­
tanto vedendo che nessuno gli chiedeva la ragione del
suo ozio arbitrario e che tutto procedeva come se nulla
fosse, Jukundi finalmente si rese conto della sua vera si­
tuazione e del suo totale isolamento.
Quello stesso giorno tale scoperta gli fu anche con­
fermata.
Justine era invitata per quella sera alla parrocchia,
dove il pastore intendeva fare una conferenza sulla attuale
rinascita della Chiesa e sul suo rinnovamento per mezzo
delle arti, un argomento che molto la interessava e che
già in piccola misura la occupava. Jukundi da parte sua
era indifferente e amava tenersi il più possibile lontano da
quel sacerdote. Tuttavia, essendo una scura serata au­
tunnale, aveva promesso alla moglie di andarla a pren­
dere.

Il pastore era in primissima linea fra i campioni di una


riforma ecclesiastica, per la comunità religiosa dell’avveni­
re. Durante la sua giovinezza aveva predicato sempre con
spiriti liberali, tanto che i greggi da lui dipendenti erano
molto edificati, pur non vedendo chiaro su quale terre­
no si appoggiassero. La giovane generazione, sotto la
protezione dei poteri secolari e seguendo l’esempio di
guide provate, aveva conseguito sul pulpito una più libe­
ra visione del mondo insieme a una più ampia libertà
di movimenti nella vita. L’indirizzo ortodosso s’era ridotto
impercettibilmente a difendere soltanto la propria esi­
stenza, senza peraltro che ciò molto apparisse nella forma
esteriore del culto. Dominavano ancora gli antichi canti,
le antiche preghiere e gli antichi testi biblici, e soltanto
in date occasioni le cose superumane venivano trattate
umanamente; per il resto Cristo rimaneva Signore e
Redentore e non si poteva discutere l’unità e la persona­
lità dell’ordinamento del mondo e neppure l’immorta­
lità dell’anima. La teologia era considerata ancora una
scienza chiusa, anche dove i suoi rappresentanti da un
494 LA GENTE DI SELDWYLA

pezzo tacitamente seguivano le opinioni più incerte, con­


siderando il buon Dio un brav’uomo e pensando con se­
greti sospiri alla fine eventuale della loro importanza.
Si guardava intanto con disprezzo agli antichi illu­
ministi e razionalisti, i quali pure con il loro arido corag­
gio avevano preparato il tempo attuale, si sorrideva pre­
suntuosamente delle spiegazioni filistee dei miracoli,
mentre per proprio conto si escludeva l’uno o l’altro mi­
racolo, facendolo accadere metà per via naturale e metà
per via soprannaturale.
Ma anche quest’epoca felice, in cui tutto si svolgeva
con comodità e gloria di chiunque avesse doti d’elo­
quenza e non fosse privo d’audacia, si trasformò come
ogni cosa a questo mondo.
Appunto la crescente diffusione e potenza di un libero
indirizzo favorì il piacere di una più salda unione e confi­
gurazione, nonché il desiderio di dominio, dal che derivò
una più chiara proclamazione di quanto veramente si
professava e si credeva.
Ma quella era anche l’epoca in cui i fisici andavano
facendo una serie di scoperte e di singolari esperienze
e in cui prevaleva la tendenza a confondere il vedere
con il comprendere, mentre, come è naturale, dal fram­
mento si traevano conclusioni per l’insieme, non però là
dove sarebbe stato più necessario.
Inoltre dei nuovi filosofi, i quali appendevano le loro
formule da un chiodo all’altro, come fossero cappelli
frusti, andavano diffondendo frasi maligne e temerarie,
e c’era grande abbondanza di massime e di idee supina­
mente ripetute.
I più tranquilli e modesti fra i sacerdoti pensavano
che un grado più o meno forte di oscurità non avesse
grande importanza, e si mantenevano quindi saggia­
mente pacifici nelle posizioni acquisite, lottando soltanto
contro gli antichi avversari e oppressori. Altri invece non
volevano a nessun prezzo aver Paria di essere in arre­
trato in alcun argomento, di non sapere tutto e non essere
in cima a tutto. Questi si munirono di armi pesanti e
andarono a issarsi sugli estremi rami dell’albero, di do­
IL SORRISO PERDUTO 495
ve un giorno sarebbero precipitati con grande strepito.
Il parroco di Schwanau s’era unito a questa schiera,
non essendo anche per lui possibile vivere in contraddi­
zione con lo spirito e la cultura del tempo suo, quali al­
meno gli apparivano.
Egli quindi predicava come si dovesse concedere alla
scienza che non è più possibile ammettere un reggitore per­
sonale del mondo e una corrispondente teologia. Però
là dove cessa la scienza, cominciano la fede e l’intuizione
di quanto è inesplicato e indeterminato, ma che solo può
soddisfare l’anima, e in tale soddisfacimento consiste
appunto la religione, che deve venire più che mai curata,
mentre la teologia, il sacerdozio e la chiesa non sono
altro che il governo di tale campo. Il verbo divino è
dunque immortale e sacro, e santo e consacrato è il suo
governo. Oggi come sempre è eretto il tabernacolo in­
torno al quale debbono schierarsi quanti non vogliono
perire per il vuoto disperato del loro cuore. Anzi, il mi­
sterioso contenuto del tabernacolo ha più che mai bi­
sogno di sacerdoti che consacrino e incensino, facendo
da guide a un gregge smarrito. Nessuno deve spingersi
dietro il tabernacolo, bensì ognuno rivolgersi con fiducia
a chi lo custodisce. D’altra parte i sacerdoti non debbono
più tenersi lontani da quanto è umano poiché essi meglio
di ogni altro sanno comprendere, e debbono offrirsi ad
aiutare e assistere ovunque, in modo che la salsiccia
venga sempre tagliata dalla parte giusta. Essi però, in
compenso, esigono che si ritenga santo il tabernacolo
dell’Ignoto e che tutti siano attenti alla sua proclamazio­
ne e descrizione.
A questo punto il pastore deplorò con toni commo­
venti la mancanza di veridicità sul pulpito, il non chia­
mare le cose col vero nome e il non dire al popolo
pane al pane, come se esso non lo potesse sopportare;
poi descrisse l’ipocrisia e la dissimulazione in modo così
perfetto, che il suo pubblico esclamò entusiasta: «Come
lo ha detto bene, con quanta verità e profondità ! ».
Egli invitò poi l’adunanza a liberarsi da tutte le scorie,
a consacrarsi al pensiero dell’immortalità, santificando
49θ LA GENTE DI SELDWYLA

ogni azione. Bisognava bensì concedere alla scienza che


la sopravvivenza personale dell’anima è probabilmente
un sogno del passato; se però uno nel frattempo vuole e
deve ancora sperarla, questo non gli è vietatole del resto
l’immortalità è già presente in ogni momento. Essa con­
siste negli incessanti effetti che seguono da un respiro
all’altro e nei quali sta la garanzia della durata eterna.
Dalle sue parole una vecchia rimasta zitella poteva de­
durre che noi continuiamo la nostra esistenza nei figli
e nei nipoti, il povero di spirito si consolava con l’immor­
tale efficacia dei suoi pensieri e delle sue opere, il parsi­
monioso si compiaceva che non un atomo del suo corpo
mortale andasse veramente perduto, ma rimanesse com­
preso nell’economia della natura in eterna trasmutazione
di forme, contribuendo prodigalmente al sorgere di
mille nuovi germi. L’uomo stanco e gravato infine poteva
sperare in un definitivo riposo da tutte le sue pene.
Il pastore tappezzò l’edificio del suo discorso nel modo
più raffinato, con mille versetti e immagini tratte dai
poeti di ogni tempo e di ogni popolo; pareva di essere
nella stanzetta di un esattore delle imposte che maschera
la povertà delle sue quattro pareti incollandovi figurine
ritagliate, testate di lettere e vignette di ogni paese, e che
tiene davanti alla finestra il frate-barometro con il cap­
puccio che s’alza e che si abbassa.
Ma non si trattava soltanto di adornare a quel modo il
tempio della parola, bensì anche di riedificare in modo
conveniente ai tempi nuovi il tempio reale, di muratura.
La chiesa di Schwanau era stata eretta circa due secoli
prima della Riforma e si trovava nello stato disadorno
in cui l’avevano lasciata gli iconoclasti e i loro rigidi suc­
cessori. Da secoli l’antico grigio edificio era rivestito
all’esterno di edera e di vite selvatica, ma era imbiancato
all’interno, e per le finestre non mai velate entrava indi-
sturbata la luce del cielo. Non vi si vedeva alcuna opera
d’arte, fuorché le pietre tombali murate di antiche fami­
glie; in quell’ambiente semplice, chiaro, ma pur vene­
rando dominava Sola, senza alcun aiuto per i sensi, la
parola del predicatore. La comunità da tre secoli si era
IL SORRISO PERDUTO 497
sentita forte abbastanza da disprezzare ogni abbellimento
esterno rivolto ai sensi, per poter più fervidamente ado­
rare il monumento spirituale della storia della redenzione.
Ora che anch’esso crollava all’aspro vento dell’epoca,
conveniva cercare di nuovo un ornamento esteriore per
abbellire il tabernacolo dell’Indeterminato.
A questo scopo fu cattivata specialmente Justine, la
quale, per compensare quanto possibile la tiepidezza reli­
giosa del marito, doppiamente si dedicava a quella sin­
golare attività di riforma, sia con propri doni generosi che
dandosi energicamente a raccogliere i contributi altrui.
Il candore luminoso delle pareti, incorniciato dal verde
dell’estate e dai fiori che in esso si cullavano, aveva do­
vuto far posto a un’affrescatura variopinta in stile gotico
e per di più eseguita da mano inesperta. Le volte del sof­
fitto vennero dipinte d’azzurro e disseminate di stelle
d’oro. Furono poi raccolti fondi per le vetrate a colori e
ben presto quelle arcate luminose si popolarono di mal­
certe figure di apostoli e di evangelisti, i quali, con le loro
superfici troppo grandi e pallidamente colorate all’uso
moderno, non irradiavano un intenso ardore, ma diffon­
devano soltanto una penombra malaticcia.
Ci volle poi una tavola d’altare fornita di tutti gli ar­
redi e un relativo quadro, affinché riprendesse inavverti­
tamente la circolazione dell’arte figurativa come «eccitan­
te estetico», per arrivare un giorno immancabilmente alle
statue miracolose sudanti sangue o lagrime, anzi addirit­
tura agli idoli, tanto per non lasciare senza oggetto le
future riforme.
Vennero infine messi al bando i calici per la Santa
Cena di acero bianco, i candidi e semplici piatti del pane
e le brocche di peltro per il vino, e a ogni solennità fa­
miliare le ricche case offrirono calici, piatti e boccali
d’argento, questo soprattutto dietro iniziativa di Justine,
il cui spirito d’orgogliosa agiatezza trovava piacere in
quel fasto, senza comprendere che esso aiutava la nuova
Chiesa a formarsi un vero e proprio tesoro, il quale
avrebbe potuto tenacemente accrescersi di giorno in gior­
no, attirando anche campi e vigneti e le decime del
49» LA GENTE DI SELDWYLA

lavoro di tutti, tanto più che un tabernacolo vuoto offre


sempre più posto di uno già occupato.
Erano ormai rappresentate tutte le arti, compresa la
scultura con alcune figure di gesso dipinto, ma mancava
la musica, che fu perciò presto chiamata. Non essendoci
ancora i mezzi per acquistare un organo, un tale offrì
un organetto strombettante; un coro misto studiò sen­
z’altro antiche messe cattoliche che, per aumentare la
solennità e perché tanto nessuno ne capiva il testo, ven­
nero cantate in latino. Questo coro si suddivise in varie
sezioni, furono formati e istruiti gruppi di bambini, e,
col pretesto di una liturgia che ravvivasse il culto, solo a
titolo di esperimento, si mise in scena una vera e propria
operetta, dalla quale poteva poi svilupparsi la fastosa rap­
presentazione di un grande Mistero.
Ma tutte quelle imprese sarebbero rimaste scipite sen­
za l’aggiunta di una salutare disciplina. Pur di riempire
il tempio restaurato, il pastore non tollerò che qualcuno
non ci volesse entrare. Si diede quindi all’attacco di tutti
coloro i quali se ne tenevano fuori, presumendo di sapere
già quel che. egli andava predicando.
— Non i gesuiti e i miscredenti — proclamò ad alta
voce dal pulpito — sono ora i nemici più pericolósi della
Chiesa, bensì quei frigidi e indifferenti, i quali con vani­
tosa superbia, con triste ignoranza credono di poter fare
a meno della nostra chiesa e della comunità religiosa e di
disprezzare le nostre dottrine, perseguendo con frivola
mondanità solo i beni terreni e i godimenti o gli interessi
materiali. Perché, quando siamo raccolti nel nostro tem­
pio a elevarci al di sopra delle cose temporali, a cercare
quel che è divino e imperituro, non vediamo tra noi l’uno
o l’altro concittadino? Forse perché, dopo che noi con lot­
ta secolare liberammo la Chiesa dalla rigida corazza dei
dogmi, quegli si illude che a lui non tocchi più di credere
nulla, di nulla temere, di nulla sperare che non sia capace
di esprimere egli stesso ben meglio di ogni prete? Egli
non sa che ogni fede e ogni scienza delle cose divine
passata e presente forma un sapere unico, complesso,
grande e profondo, destinato a vivere e a essere gover­
IL SORRISO PERDUTO 499
nato da coloro che per lungo studio lo comprendono. Egli
non sa infine che nell’ora amara della sua morte invo­
cherà la nostra assistenza e invocherà il misterioso con­
forto del tabernacolo!
Ma ora è pur sempre immerso nell’egoismo e nella
presunzione. Sentendosi libero e senza inciampi per me­
rito nostro, rifiuta sconoscente di partecipare alla nostra
alleanza contro le forze delle tenebre e della menzogna,
di condurre insieme con noi la lotta dell’esistenza, di far
della nostra gioia la sua, di proclamarsi cristiano ador­
nando con noi l’altare ! Egli se ne va solitario, questo tal
dei tali, questo indifferente, questo orgoglioso. Certo egli
ignora sino a qual punto ci appare triste e miserando
in quella sua sicurezza che noi non possiamo né vogliamo
togliergli, quantunque non sia che nostro dono ! Certo
egli non sa quanto sia arido il sentiero da lui percorso,
dove non echeggiano campane domenicali, non fioriscono
Pasque e Risurrezioni, e non già voglio dire la Risurre­
zione della carne, bensì quella dello spirito, le Pasque
eterne del cuore! Ma tale sarà la sua sorte! Nessuna
benedizione lo accompagna, il suo animo si esaspera e
serba rancore a noi, che oggi e sempre ci compiacciamo
delle nostre conquiste e dell’opera del nostro Signore
Gesù Cristo e possiamo godere l’Agnello Pasquale. Quan­
do un giorno fiumi e torrenti, sciolti dal gelo, si riverse­
ranno a valle e la nostra ultima barca, beata e giubilante,
s’allontanerà carica sino a traboccare, egli dovrà starsene
a guardarci triste dalla riva, escluso e condannato da se
medesimo! Noi infatti non condanniamo e non maledi­
ciamo nessuno. No, noi lasciamo a ognuno la sua libertà,
memori del motto in verità tragicamente ambiguo: «Di­
nanzi allo schiavo che infrange la sua catena, dinanzi al­
l’uomo libero non dovete tremare!».
Non lasciarlo però sfuggire alle adamantine catene delle
eterne leggi morali da te fondate, o amoroso Creatore e
Signore, principio e fondamento della terra come dei
flutti del mare, tu reggitore dell’eterna volta celeste !
Riconducilo alla protezione del tuo sacrario, che noi ti
abbiamo eretto obbedendo alla legge che tu ci annun-
500 LA GENTE DI SELDWYLA

ciasti per bocca di Mosè: «E tutti gli uomini industriosi


che sono tra voi vengano e facciano tutto quello che il
Signore ha comandato: Il Tabernacolo, la sua tenda, la
sua coperta, i suoi anelli, le sue assi, i suoi chiodi, le sue
colonne, i suoi piedistalli; l’Arca, e le sue stanghe; il Co­
perchio e la Cortina da tendere davanti; la Tavola e le
sue stanghe, e tutti i suoi strumenti, e i candelabri e le sue
lampade e l’olio per ardere e i pani della proposizione e
l’Altare dei profumi, e le sue stanghe; l’Olio dell’Unzione,
e il profumo degli aromati, e il Tappeto dell’entrata,
per l’entrata del Tabernacolo; l’Altare degli olocausti
e la sua grata di rame, e le sue sbarre e tutti i suoi stru­
menti; la Conca e il suo piede; le Cortine del Cor­
tile, le sue colonne e i suoi piedistalli, e il tappeto del­
l’entrata del Cortile; i piuoli del Tabernacolo, e i piuoli
del Cortile e le lor corde; e i vestimenti del servigio,
da fare il servigio nel Luogo santo; i vestimenti sa­
cri del Sacerdote Aaronne, e i vestimenti dei suoi fi­
gliuoli, per esercitare il sacerdozio ! ». Riconducilo nella
tua dimora, perché egli preghi con noi: «Spirito d’amore,
anima del mondo, paterno orecchio, non sordo ad alcuna
voce dei mortali che ti lodano ! Una catena di preghiere
di ringraziamento, un filo d’inni di lode sono tesi fra la
nebbia dell’alba e il bagliore del tramonto. Una ca­
tena d’inni di lode, un filo di preghiere di ringrazia­
mento sono tesi fra la nebbia della sera e il bagliore
dell’alba. Fa’ che anche quest’anima accesa dalle fiam­
me della preghiera per te illumini la sua intima vita».
Fa’ che egli cerchi la terra imperitura con la nostal­
gia della vergine sacerdotessa alla quale Goethe fa dire:
« E sulla riva me ne sto lunghi giorni, anelando con l’a­
nima il suolo elleno ! ».
cosicché egli un giorno ripeta col moribondo fiore del
poeta :
«O eterno cuore ardente del mondo, fa’ che in te mi
distrugga! O cielo, stendi la tua tenda azzurra, mentre
la mia cade qui avvizzita. Salve, o primavera, al tuo
IL SORRISO PERDUTO 5OI

splendore ! Salve al tuo alito, vento mattutino ! M’addor­


mento senza pena per alzarmi senza speranza»,
e gli sia risposto:
« Modesto cuore, rinfràncati : a quanto fiorisce è desti­
nata una semente. Lascia che la bufera della morte
disperda la polvere della tua vita ; da quella polvere an­
cora cento volte tu ti rinnoverai. Amen ! ».

Quando egli concludeva con tanta sonorità e spesso


con gli occhi umidi, commosso dalla sua filastrocca,
accadeva spesso che sulla via del ritorno gli ascoltatori
gli si affollassero intorno ringraziandolo e stringendogli
la mano e che alle laute tavole domenicali le donne sen­
timentali lo esaltassero e gli uomini saggi ne facessero le
lodi, dicendo che finalmente si poteva andare in chiesa
ed essere buoni cristiani senza esporsi al sospetto d’esse­
re di mente angusta e in ritardo.

Fra gli indifferenti e i tiepidi così aggrediti vi era


anche Jukundi. Non che fosse ostile alla nuova Chiesa o
desiderasse ostacolarla, ben conscio che tutte le cose di
questo mondo devono fare il loro corso, ma, dato il suo
ingenuo amore per la verità, gli riusciva impossibile par­
tecipare all’apparenza di una religiosità che, almeno a
uomini avvezzi a pensare, suonava falsa, e, senza chiasso
né vanteria, egli esercitava il diritto alla libertà per­
sonale. Così faceva tanto più ostinatamente, perché quel­
lo era ormai quasi l’unico campo in cui conservasse pie­
na indipendenza sia dalle preoccupazioni che dall’amore.
Il pastore invece, che contava la signora Justine fra i
migliori sostegni, visto che essa, tanto stimata, valeva
quasi uno degli anziani, non vedeva di buon occhio che
il marito, tenendosi in disparte, sembrasse disappro­
vare o mostrarsi superiore. Sentiva quella sua assenza
come un tacito rimprovero a lui rivolto, come una critica
silenziosa al suo agire e si era quindi incaponito contro ,
Jukundi, predicando al suo indirizzo. Giacché alcuni dei
nuovi sacerdoti avevano ereditato dai vecchi anche que-
5θ2 LA GENTE DI SELDWYLA

sto difetto, di sfogare dal pulpito, dove avevano soli la


parola e nessuno poteva replicare, le loro passioni per­
sonali, accusando e denunciando a capriccio. Quello pe­
rò non ne sapeva nulla, perché non badava molto ai di­
scorsi della gente, e non si interessava di interpretare
oscure allusioni.
Quando Jukundi a sera tarda giunse alla parrocchia
per riaccompagnare, secondo la promessa, sua moglie a
casa, il pastore aveva appena terminato il discorso tenuto
ad alcuni amici intorno al reciproco ringiovanimento
della Chiesa e delle arti belle. Jukundi dovette sedersi
per qualche minuto con gli altri.
— Se ella avesse voluto onorare il mio modesto lavoro
del suo ascolto, — gli disse il parroco — avrebbe forse
trovato un punto d’appoggio nel pensiero che è giunto
ora il tempo in cui l’arte sa di dovere la sua esistenza
alla religione e può ricompensare quella buona e ricca
madre ridotta in tanta miseria! Ella troverebbe forse
qualche compiacimento nell’idea di potere almeno un
giorno sfogare il suo cuore nel canto insieme a noi, in
un’opera musicale pregevole, anche pensando quel che
meglio vorrà, e permettendoci di fare altrettanto !
Durante queste parole Justine fissava speranzosa suo
marito. Fra i suoi più bei ricordi v’era quello di essersi
prodotta insieme al marito, nel primo anno del loro matri­
monio, in una festa musicale. Eseguendo un grandioso
oratorio biblico, ognuno di loro due si era sentito tanto
vicino all’altro con la sua voce, che nelle pause si erano
stretti la mano. E la sera Jukundi l’aveva presa tenera­
mente tra le braccia, confessandole che, nonostante tante
esperienze, mai si era sentito felice come in quel giorno,
in cui s’era confuso nell’onda armoniosa della musica e del
canto, distinguendo in pari tempo la sua voce diletta.
Quella sera però, già arrivato 11 di umore nero e non
certo rasserenato dalla prepotenza del prete, gli rispose
secco secco:
— Io non sono della sua opinione, che la religione ab­
bia creato l’arte ; credo anzi che l’arte esista per se stessa
da sempre e che sia essa ad aver trascinato la religione
IL SORRISO PERDUTO 5θ3
sul suo cammino portandola avanti per un buon tratto !
Il parroco si fece rosso in volto, non sopportando facil­
mente di essere contraddetto nell’àmbito del suo angusto
distretto e rispose:
— Non vogliamo discutere oltre ; ella sotto molti aspetti
è un profano, altrimenti le sarebbe noto che noi teologi
oggigiorno abbiamo associato alla nostra scienza teolo­
gica parecchie branche del sapere che prima non aveva­
no rapporti con essa e le cui concezioni evidentemente a
lei, nella sua situazione, sono sconosciute !
Jukundi replicò piuttosto vivamente:
— Può darsi che voi teologi sentiate questa esigenza;
io non credo tuttavia che la vostra teologia riacquisti
con ciò il carattere di una scienza viva, così come non
potrebbero essere chiamati tali l’antico sapere della caba­
la, l’alchimia e l’astrologia !
Offeso nell’intimo da quelle parole, il pastore esclamò:
— Il suo odio contro di noi la rende cieco e stolto !
Ma basta, noi siamo superiori a lei e ai suoi simili e sarete
voi, col vostro presuntuoso accecamento, a rompervi la
testa contro le nostre salde mura !
— Sempre tanto chiasso ! — disse Jukundi che nel
frattempo aveva riconquistato la massima calma — Noi
non andiamo a cozzare contro nessuna muraglia ! E non
si tratta né di odio né di ira ! Si tratta semplicemente
che noi non vogliamo ricominciare sempre da capo a isti­
tuire cattedre per materie che nessuno può insegnare
agli altri, se è leale e sincero, e a distribuire questi uffici a
quanti vi tendono le mani. Io personalmente per ora sono
di questo avviso, pur augurandovi nel frattempo ogni be­
ne; prego però che mi lasciate del tutto in pace, per­
ché in questo argomento non tollero scherzi !
Aveva pronunciato le ultime parole con voce ferma, e
quella voce lacerò il cuore di sua moglie che gli aveva in
quel momento preso il braccio per avviarsi a casa. Essa
nella nuova cultura religiosa, che le appariva tanto libe­
rale, equa e raffinata, aveva finito per trovare l’unico
conforto contro le segrete pene che la turbavano, ed ec­
co che suo marito proclamava un’aperta ribellione. Na-
504 LA GENTE DI SELDWYLA

turalmente lo riteneva, in confronto al pastore, ignorante


e insufficiente, un povero disgraziato! Si trovava d’un
tratto, in mezzo a una vita ecclesiastica illuminata e fa­
conda, di fronte alla sventura di un disaccordo di creden­
ze unita alle sue incipienti sventure domestiche.
Appena giunta sulla strada, Justine si staccò dal brac­
cio del marito e proseguì al suo fianco barcollando e
piangendo sommessa. Siccome pioveva e c’era vento,
Jukundi pensò che volesse camminare più comoda da
sola e non s’accorse del suo stato. Prima di giungere a casa
essa si era esteriormente dominata, ma nell’intimo vi­
brava ancora di eccitazione e di sdegno.
Jukundi, dimenticando presto l’incidente e preso da
altre cure, cominciò a discutere con lei la loro situa­
zione, esponendole la sua idea che in quella casa non v’era
posto per lui e che gli conveniva tentare di rendersi indi-
pendente, cosa per cui era ancora in tempo. Ella avrebbe
dovuto seguirlo nella capitale, dove non gli mancavano
buone relazioni e amicizie. Se le fosse stato possibile
per i primi tempi farsi dare un aiuto dai genitori, solo
quel che essa soleva spendere per esempio per il culto
ecclesiastico e per le altre sue occupazioni predilette, egli
da parte sua non temeva l’avvenire.
Accennò timidamente a quest’ultimo punto, perché
era persuaso di non aver bisogno di nulla per se stesso,
mentre si preoccupava della paura di Justine di fronte
alla mancanza di mezzi.
Ma appena fu giunto a quell’argomento, ella non sep­
pe più a lungo tacere; venne improvvisamente alla luce
con tutta la sua asprezza, anche in lei, la rozza schiet­
tezza della famiglia popolana arricchita, da cui erano
talvolta presi il padre e i fratelli. Gli gridò senza riguardi
e senza riflessione che andasse dove gli garbava, che lei
non l’avrebbe seguito, visto che non aveva saputo tro­
varsi bene in casa sua, dove nessuno aveva mancato di
benevolenza per lui. Né a lei né ai suoi poteva venire in
mente di fare ancora dei sacrifici per un’esistenza ormai
perduta e di gettare soldi per un simile . . .
Qui adoperò un epiteto che non le era forse mai uscito
IL SORRISO PERDUTO 505

di bocca, e che, pur non essendo un vero insulto, nessun


marito può tollerare da parte di sua moglie.
Appena la parola le fu sfuggita, Justine impallidì e
guardò a occhi sbarrati il marito, che già prima s’era
fatto smorto e che in quel momento se ne uscì in si­
lenzio.
Justine andò in cerca della propria mamma, ma que­
sta era in una delle case dei fratelli, così che dovette re­
carvisi lei pure per cercare consiglio e rifugio.
Jukundi invece svegliò sua madre, che si era già corica­
ta stanca, le ordinò di vestirsi e di fare i bagagli stretta-
mente necessari, andò quella notte stessa a prendere una
carrozza da nolo e partì inavvertito con sua madre nella
notte piovosa, fornito del poco denaro rimastogli dopo la
vendita della sua vecchia quercia.
Da quel momento dal volto dei due coniugi era spa­
rito quel sorriso grazioso e felice così totalmente come se
non vi fosse mai stato.
Nella carrozza buia, accanto alla madre già anziana,
che, rassegnata e assonnata, era tornata ad addormen­
tarsi, Jukundi si vedeva dinanzi il volto di Justine come
gli era apparso ridente il primo giorno. Ma il sorriso, si
diceva amaramente, non è che l’arte di un muscolo con­
formato in un dato modo ; basta reciderlo con un piccolo
taglio e tutto è finito per sempre !
All’alba, Justine, che neppure si era coricata, stava
davanti allo specchio osservando le sue labbra pallide e
dure; cercò di sorridere dolorosamente del dolce e triste
sogno di una felicità perduta. Ma la sua bocca e le sue
guance erano rigide come il marmo e le labbra da quel
momento rimasero chiuse da mattina a sera, un giorno
dopo l’altro.

CAPITOLO III

Jukundi si era recato nella capitale, dove suo primo


ufficio fu curare la madre ammalatasi di spavento e di
dolore e infine seppellirla. Infatti essa non si ristabilì,
perché non nutriva più in cuore alcuna speranza che il
5o6 LA GENTE DI SELDWYLA

figlio facesse fortuna e che potesse perdurare ciò che lei


non aveva ordito e tessuto.
Ritornando dal cimitero, Jukundi incontrò un uffi­
ciale suo superiore, che ben lo conosceva, ma da lungo
tempo non l’aveva incontrato. Questi gli domandò dei
casi suoi, e quando li ebbe appresi, per quel tanto che
erano comunicabili, disse a Jukundi che egli era proprio
l’uomo che stava cercando per riempire una lacuna nella
sua vasta azienda commerciale. Voleva appunto un uo­
mo tranquillo e di fiducia, che adempisse alle sue man­
sioni con precisa puntualità, senza guardare a destra o a
sinistra, senza interrompere la vigilanza, e che soprat­
tutto non si desse a speculazioni personali.
Jukundi si legò con lui, assumendo subito il posto asse­
gnatogli, e le cose procedettero bene fin dal primo mo­
mento. L’attività affidatagli era di natura tale da non
costringerlo a ingannare o a mentire, e neppure a cre­
dere alle menzogne altrui. Non aveva bisogno di esage­
rare nelle pretese, di abbassare le offerte, di discutere i
prezzi, di usare astuzie e di schermirsene. Quel tanto di
conoscenza degli uomini che era necessario non gli man­
cava, anche perché, sparita la sua timidezza, gli si erano
aperti gli occhi.
Le sue giornate correvano serie e tranquille, ma non
la minima gioia gli illuminava mai lo sguardo. Aveva
perduto ogni contatto con Justine, aspettava invano da
lei un cenno che indicasse il pentimento per l’offesa profe­
rita e il desiderio di ritrattarla, mentr’essa ne era impedita
dai suoi, che trovavano meglio lasciare le cose momen­
taneamente al punto in cui erano, aspettando di vedere
se la fortuna di Jukundi sarebbe stata durevole. Non
avevano torto di chiamarla fortuna, giacché il trovar se
stessi in giorni oscuri è per lo più questione di fortuna, più
di quanto gli uomini di solito vogliano ammettere, e in
questo caso tutto era dipeso in realtà dall’incontro ca­
suale con quell’estraneo esperto e accorto.
La fredda e amara calma di Jukundi non durò a lun­
go. Egli, dimostrandosi sempre più adatto al suo ufficio,
pervenne ben presto a un grado superiore, quasi senza
IL SORRISO PERDUTO 5°7
che nessuno vi contribuisse, e ottenne così il ricco gua­
dagno e le fondate speranze di possesso che erano sem­
brate irraggiungibili; ma intanto si determinò nella vita
pubblica un movimento nel quale egli venne appassiona­
tamente trascinato piuttosto dal suo stato d’animo esa­
cerbato che da vera simpatia.
Nella repubblica elvetica erano passati quarant’anni
dalle ultime trasformazioni politiche con cui il popolo
aveva riconquistato diritti ormai perduti o ampliato di­
ritti esistenti ; nella moderna generazione si era maturata
una volontà di tempi nuovi che gli esponenti delle condi­
zioni precedenti non conoscevano o non volevano ricono­
scere. Questi ritenevano ottimo e completo il mondo e lo
stato così come essi erano, e rifiutavano con un no pervi­
cace ogni collaborazione a mutamenti decisivi, limitandosi
a una ininterrotta attività nel graduale sviluppo di quan­
to già preesisteva ed era un tempo tanto pregiato. Con ta­
le opposizione essi s’acquistarono la fama di retrogradi, ad­
dirittura di nemici del progresso, e suscitarono antipatie
sempre più vive. Siccome d’altra parte conducevano le co­
se pubbliche con oggettiva probità, dedicando ogni cura
a cose tutt’altro che retrogade, era molto difficile trovare
un punto di partenza per una grande azione. Se infatti il
popolo non trova una spinta a fatti violenti, giungendo
così anche in un solo giorno alla meta desiderata, occorre
un inaudito eccitamento morale per conseguire tale fine
per via legale, annullando una Costituzione liberamente
impostasi e dei rappresentanti liberamente eletti e sosti­
tuendovi qualche cosa di nuovo.
Tale spinta, che nelle rivolte violente sorge da alcune
gocce di sangue fumante, si produce per una via diversa
soltanto quando il popolo commette una prima ingiusti­
zia, lanciando una falsa accusa, per non fermarsi poi più,
in grazia della verità per cui chi fa il male perseguita con
odio crescente la sua vittima, sino al giorno in cui è
tolta di mezzo la pietra dello scandalo ed è conquistata
la nuova base legittima da esso desiderata.
Non era però facile trovare un appiglio per una chiara
accusa sufficiente a provocare il diffondersi di un moto
508 LA GENTE DI SELDWYLA

violento. Ogni singola aspirazione insoddisfatta non co­


stituiva un problema di disonestà o di corruzione, bensì
soltanto di discutibile opportunità.
Siccome però un popolo o una repubblica, quando
cercano a tutti i costi di attaccar briga coi loro capi e
amministratori, non sono alla lunga imbarazzati circa
un movente e sanno sempre escogitare nuovi mezzi, così
alla fine si affrontò senz’altro quella gente, dicendo loro :
«Le vostre facce non ci piacciono più!».
Questo accadde con un moto diabolico e singolare,
che celava in sé più orrori e persecuzioni di molte san­
guinose rivolte, benché a nessuno fosse torto un capello
né dato uno schiaffo.
Si cominciò dapprima rivolgendo lo scherno contro al­
cune personalità non cospicue per un motivo particola­
re, poi beffandone altre più importanti per loro qualità in
parte ridicole e in parte sconvenienti, e comunque de­
formate. Si diffuse sempre più la smania della persecu­
zione satirica ; sorsero i virtuosi della beffa e della carica­
tura, e presto l’umorismo si trasformò in feroce calunnia,
e questa invase le dimore designando le sue vittime e tra­
scinando in piazza l’intimità privata.
Dopo che queste vittime furono ben manipolate entro
una pasta di ridicolaggine, fatta di consuetudini e di di­
fetti fisici inventati o anche spesso soltanto di piccole
goffaggini, si lanciarono all’improvviso contro quei di­
sgraziati accuse di colpe remote, di condotta vergogno­
sa, di bassezza nel pensiero e nell’azione, accuse tanto
più impressionanti e insopportabili data la stima da
essi sino a quel tempo goduta. Le denunce di precisi
reati, tali da provocare un procedimento giuridico, fu­
rono bensì lasciate cadere con un sorriso alla prima vi­
vace reazione dei colpiti, ma rimase l’orrore verso quelle
persone. Il caotico arbitrio durò anche per lo smarrimento
dei perseguitati, mentre la paura e il disgusto generale
creavano una vera impunità, tanto più che ogni processo
si trasformava in una festa per i persecutori ed era salu­
tato con le più gravi minacce.
Sbucarono frettolosi da tutte le fessure e i nascondigli i
IL SORRISO PERDUTO 5θ9
delegati a quella grande dieta della calunnia e della dif­
famazione. Persone che per l’aspetto fisionomico, per i
costumi o l’agire sarebbero stati ottimi oggetti di scherno,
venivano a mettersi in primissima fila e alzavano la voce,
quali grandi signori della calunnia diffamatrice, mentre
man mano che cresceva il chiasso feroce le vittime si fa­
cevano più silenziose e intimidite. Gli spettatori comin­
ciarono a diffondere un luogo comune fatale ai colpiti,
dicendo che se anche soltanto la centesima parte delle
accuse era vera, poteva bastare. Essi non pensavano che
ciascuno di loro, se si fosse giudicato con giustìzia, por­
tava sulle sue spalle almeno quella centesima parte.
Oltre ai personaggi noti e rispettati, di tanto in tanto
in un cantuccio si annientava un ignoto, e pareva di sen­
tire il grido di una pollastrella strangolata sola di notte
da una martora. Talvolta anche alcuni di quei gran si­
gnori fra le belve feroci s’aggredivano reciprocamente,
ma si ripresentavano poi coi musi morsicati e sanguinanti
alla Dieta generale, senza risentirne alcun danno. Si lec­
cavano il pelo arruffato e tornavano a chiedere sfaccia­
tamente la parola.
Tutto il fenomeno era così nuovo e singolare, che lo
storico non sapeva confrontarlo ad alcun altro nel pas­
sato, dove pure più di una volta s’era verificato un muta­
mento di governo o un ampliamento della libertà in
seguito a una spinta non giusta o non vera.
Uomini ridotti deformi e miserabili da quella perse­
cuzione in cui non s’era tuttavia versata una goccia di
sangue né si era torto un capello, si videro abbandonati
da vecchi amici, i quali ascoltavano incerti le loro di­
chiarazioni di innocenza, ma poi non ebbero miglior
sorte per conto proprio.
Altri, che avrebbero potuto pronunciare una parola
coraggiosa e decisiva, tacevano per non essere insudi­
ciati da un’infame calunnia di fronte alla fidanzata o
alla moglie; altri ancora tacevano per amore della pace
e del candore dei loro figlioletti. V’era poi chi, conside­
rando che l’una o l’altra debolezza umana, cui aveva
forse ceduto talvolta, avrebbe potuto essere punto di
Sio LA GENTE DI SELDWYLA

partenza per uno sciagurato attacco, si teneva ben tran­


quillo. E si teneva tranquillissimo anche qualche ine­
quivocabile delinquente, troppo notorio per potersi ac­
codare ai persecutori, intento a spiare chi volesse even­
tualmente attaccarlo. Quello veniva lasciato in pace, non
soltanto perché temuto dai calunniatori come pericolosa
canaglia, ma anche perché la singolare campagna, mal­
grado gli eccessi apparenti, manteneva una certa legge
di economia, non cercando vittime che non si trovassero
sul suo cammino.
Né si può negare che permaneva pur sempre la sensa­
zione che si trattasse, in fondo, soltanto di una grande
beffa un po’ grossolana. Mentre infatti la massa non esi­
tava a rappresentare il paese come corrotto, pervaso e do­
minato dall’immoralità, il vero strato sotterraneo dell’a­
biezione, che non manca in alcun paese, rimaneva indi-
sturbato, quando non si metteva spontaneamente in luce
per partecipare a quel gran parlamento e collaborare al
saccheggio dell’odiata rispettabilità. L’attiva schiera dei
bugiardi assomigliava alla pettegola del villaggio, la qua­
le trova in fondo naturalissimo che ognuno creda quel che
gli accomoda, persuasa che ogni calunniato non le ser­
berà troppo rancore dei suoi scherzi.
Ma Jukundi non possedeva tale senso umoristico. Nel­
lo stato d’animo in cui si trovava, era ancor più incline a
credere ogni cosa, di quanto già ve lo spingesse la sua
indole ingenua. Se nella vita degli affari s’era fatto più
prudente, da questo movimento pubblico fu invece sor­
preso come un.' bambino : credette ogni vergogna riferi­
tagli come fosse Vangelo, stupito oltre misura che cose
simili avvenissero in una repubblica.
I suoi più stretti concittadini, i Seldwylesi, sin dall’i­
nizio avevano salutato quegli eventi come un’età dell’oro.
Non ci poteva essere per loro spasso migliore che il de­
ridere e il denigrare tante facce lunghe, le quali si erano
per tanto tempo data l’aria di essere superiori agli altri.
Se anche non si distinsero nell’inventare orrori, furono
però molto attivi nello scoprire aspetti ridicoli. Arriva­
vano di continuo nella capitale, a gruppi o a brigate, in
II, SORRISO PERDUTO 511
cerca di novità, per prender parte al crescente movi­
mento. Jukundi era il più rappresentativo e ne divenne
quindi il capo; se ne andava così in testa alla compagnia
ridanciana dei Seldwylesi, tutto serio, triste e preoccu­
pato, ma anche pieno di sdegno e di spirito punitivo.
Egli infatti non aveva ancora mai veduto il mondo
sotto questa luce; gli pareva che ne fosse fuggita la pri­
mavera, lasciando un grigio e arido deserto di sabbia,
al cui margine lontano e velato svaniva solitaria l’ombra
di sua moglie. Quando nei circoli e nelle adunanze, ac­
canto a energici e ben noti agitatori, vedeva dei figuri
sbucati da fosche spelonche, che con le loro mani sporche
cercavano di annegare entro quel diluvio universale le
loro disgrazie di anni e si sforzavano di trascinare in
basso a tutti i costi come con degli attizzatoi le classi supe­
riori, ben s’accorgeva che non erano certo tutti stinchi
di santo quelli che venivano a stringergli la mano.
Tuttavia sentiva una profonda pietà per quei tipi,
considerandoli vittime di un mondo nel quale egli
pure aveva fatto le sue esperienze. Come Santa Eli­
sabetta dimostrava predilezione per i poveri e i ma­
lati più luridi, sino a coricarsi nel letto di un lebbroso,
così anche Jukundi dimostrava una vera tenerezza
per quei rognosi e frequentava giornalmente gente che
in passato non avrebbe, come si suol dire, neppure preso
con le molle.
Continuava a farlo, mentre il moto popolare aveva già
superato un primo impeto e la massa, diretta alle sue
mete, lasciava fuggire quei miserabili fentasmi, preoc­
cupata solo dei propri nuovi diritti, così come dopo avere
estratto colori smaglianti o fini profumi da luride mate­
rie o detriti, di questi ci si libera poi subito. Non s’accor­
geva quasi d’essere rimasto ormai con la sua schiera per­
duta fuor dalla gran via, e quando cominciò a rendersene
conto, fu còlto da nuova pietà per i poveri profeti desti­
nati a essere nuovamente delusi. Non valse che alcuni
Seldwylesi più furbi gli sussurrassero che ormai i diffa­
matori e i detrattori non erano più di moda, che si badava
ormai agli interessi politici e statali, che non valeva la
512 LA GENTE DI SELDWYLA

pena di esporsi, che c’era ora bisogno di nuovo di un


governo solido con istituzioni e moralità, senza alleanze
con canaglie bugiarde. Egli credette ai poveri e ai dere­
litti invece che a quei saggi consiglieri.
Per dare pubblica testimonianza del suo coraggio e
della sua protezione, invitò un giorno una buona schiera
di quegli amici a un banchetto in una trattoria, trat­
tandoli con tanta abbondanza che furono tutti ben presto
di ottimo umore.
Gli facevano corona avvocatucci senza cause, piccoli
impiegati licenziati per irregolarità, agenti malfidi, com­
mercianti disoccupati e bancarottieri, imbroglioni d’ogni
genere, cantando e brindando come se fosse disceso il
paradiso in terra. Quanto più quelli erano allegri, tanto
più serio si faceva Jukundi; non il più pallido sorriso gli
illuminava il volto; egli pensava ai tempi in cui era
stato sereno e s’era ingenuamente goduto la vita, ma
tutto era finito ! Quando il vino cominciò a sciogliere
la lingua a quegli allegri compari, spegnendone ogni
saggia prudenza, essi si diedero a discutere le loro vicen­
de e i torti subiti. Ma sorse qua e là la contraddizione
dell’uno all’altro, la protesta di un terzo, l’intervento
di un quarto, le precisazioni di un quinto, e ne derivò
un gran chiasso di reciproche contumelie e accuse, che
rivelò all’ascoltatore spregiudicato un tessuto piuttosto
ampio e complesso di azioni meschine e poco gloriose, che
quegli eccellenti bricconi reciprocamente si rinfacciavano.
Lo facevano con tale raffinato incrociarsi e sovrapporsi di
assalti, che, se si fosse voluto darne un’immagine visiva,
come si fa per esempio con le figure sonore di Chladni,
si sarebbe ottenuto un finissimo merletto di Bruxelles
oppure una deliziosa filigrana genovese: tanto meravi­
gliose e varie sono le opere del Signore.
Jukundi, spinto prima dall’affetto, poi dallo stupore,
si sforzava di districare quella trama, ma il suo volto si
fece sempre più serio, quanto più chiara e certa gli ap­
parve la sua inguaribile credulità. Siccome però il peri­
coloso dibattito diventava sempre più vivace e minac­
cioso, passando in più punti ai fatti, tanto che parecchie
IL SORRISO PERDUTO 5*3
coppie già s’afferravano per il collo o per le barbe, pur
rimanendo sedute a tavola, l’esperto trattore intervenne
con un mezzo sicuro per placare la tempesta incipiente.
Servì in gran fretta un’altra portata tenuta in serbo,
un’insalata piuttosto rozza ma abbondante, composta di
nervetti di bue, fagioli, patate, cipolle, aringhe e formag­
gio. Appena i contendenti scorsero quelle delizie, si paci­
ficarono e tornarono al più profondo silenzio, che non fu
più interrotto fino all’esaurimento totale della vivanda.
Seguì poi una solenne riconciliazione generale, come
dopo una santa cena, e tutti deplorarono la follia di es­
sersi accaniti l’uno contro l’altro, mentre era tanto ne­
cessaria la concordia.
Sarebbe stato ben meglio e ben più utile, dissero, pro­
cessare qualche altro nemico e oppressore del popolo,
avviare un’allegra partita di caccia contro un tipo del
genere. Ce n’erano ancora parecchi che andavano at­
torno ritti e sdegnosi, oppure che si tenevano al riparo,
certi di essere risparmiati dalla bufera. Ma era giunta
l’ora di trarli fuori, di rinnovare il terrore !
Fu stabilita in massima tale linea di condotta, e si
passò poi subito alla designazione delle singole vittime,
che dovevano essere private della felicità e dell’onore.
Si scelsero alla svelta due o tre nomi di persone che ave­
vano avuto occasione di ostacolare l’uno o l’altro di quel­
la trista società e che ne erano per questo odiati. Quando
però si volle stabilire il modo dell’attacco e definire le
debolezze o le colpe da denunciare, l’assemblea non sep­
pe che pesci pigliare, sia perché non aveva più la fantasia
abbastanza vivace, sia perché l’innato ingegno dei con­
sulenti aveva sofferto per la tarda ora notturna. Dopo
che furono respinte alcune vane e imprecise proposte,
uno finalmente esclamò: «Bisogna ricorrere alla donna
dell’olio, non c’è altro modo!».
Jukundi, fattosi più attento, domandò chi fosse la don­
na dell’olio e gli spiegarono che era una vecchia così
chiamata in memoria della biblica vedova con l’inesau­
ribile orciolo dell’olio, perché era a sua volta inesauribile
nel dar consigli e nel calunniare il prossimo. Quando si
514 LA GENTE DI SELDWYLA

credeva che intorno a un individuo non ci fosse proprio


più nulla da criticare e da rivelare, quella, che abitava
in un lontano tugurio, sapeva invece spremere ancora
una gocciolina di olio ben denso per lordare il disgraziato,
ed era poi anche abilissima a diffondere una diceria in
pochi giorni per tutto il paese.
Jukundi volle assumere la missione di recarsi dalla
vecchia, il che gli fu con piacere concesso. Cominciò col
farsi ripetere chiaramente i nomi delle vittime destinate
a cadere. Si trattava, a quanto sapeva, di brave persone
che non avevano mai molto fatto parlare di sé, ed egli le
annotò accuratamente nel suo taccuino.
Ordinò poi altre bottiglie di vino buono per incitare la
brigata a nuova eloquenza, e si lasciò andare con un
sospiro sulla seggiola preparandosi a prestar loro ascolto.
Ormai però quei signori erano stanchi di serio lavoro
e inclini piuttosto a cantare, così che intonarono ad alta
voce i primi versi di tutte le canzoni che conoscevano.
La sala in cui si trovavano era ampia, ma molto bassa,
piuttosto scura e stranamente adornata. Infatti l’oste per
abbellirla aveva acquistato di seconda mano una vecchia
tappezzeria da una casa di lusso.
Essa rappresentava un grandioso paesaggio svizzero
che correva ininterrotto lungo le quattro pareti, rappre­
sentando vedute di montagna, con vette nevose, grandi
massicci, cascate e laghi. Siccome però il salone al quale
era stata in origine destinata quell’opera era di una metà
più alto del locale in cui l’avevano trasferita, s’era dovu­
to ricoprirne anche il soffitto, così che i grandi giganti
alpini, la Jungfrau, il Mönch, l’Eiger e il Wetterhorn,
lo Schreckarhorn e il Finsterarhorn, si piegavano a mez­
z’altezza e andavano a incontrarsi con le loro candi­
de vette nel mezzo del soffitto, dove però rimanevano
un poco offuscati dal fumo e dalla fuliggine delle lam­
pade. Lungo la parete invece troneggiavano i verdi pen­
dìi, disseminati di mucche bianche e rosse, e più giù luc­
cicavano i laghi azzurri solcati da barche imbandierate,
mentre sulle terrazze degli alberghi figuravano dame e si­
gnori a passeggio con marsine azzurre o giacche gialle e al­
IL SORRISO PERDUTO διό

ti cilindri fuori moda. Vi erano pure schiere di soldati dai


calzoni bianchi e dai bei berrettoni di pelo; in un’intera
fila diritta di soldati, la piccola guancia rossa di sinistra
era un tantino spostata o premuta dal listello, il che sem­
brava suscitare la disapprovazione del colonnello co­
mandante, dal gran cappello a lucerna e dal braccio
teso ; infatti i dischetti rossi sbucanti in parte accanto alle
guance vuote sembravano l’ombra della terra uscente
dal disco della luna in un’eclissi.
Lungo tutto il paesaggio girava tuttavia, all’altezza
di un uomo seduto, la traccia scura e sudicia lasciatavi
dai capelli unti di tutti i clienti che nel corso del tempo
vi si erano appoggiati.
D’un tratto un pallido individuo, designato nella com­
pagnia quale «l’idealista», scoprì la patria ridotta a tap­
pezzeria e ne approfittò subito per elevare un fervido
brindisi alla dolce, cara, meravigliosa terra, che radu­
nava lì, proprio come una piccola patria, la brigata dei
bravi confederati. E siccome anche quei poveri di spirito
e di fortuna amavano la patria, egli ebbe grande eco e
subito furono intonati tutti i noti inni nazionali. Soltanto
pochi di pelle dura rimasero indifferenti, anzi, poiché
proprio in quel momento stavano mangiando aringhe,
ne scagliarono abilmente le spine verso i ghiacci eterni in­
combenti sui loro capi, facendovele restare appiccicate.
Di questo gli altri li rimbrottarono, e l’oratore idealista
rinfacciò ai colpevoli il loro basso animo, dichiarando
che avevano scagliato in volto alla patria le loro proprie
anime d’aringa, contaminando la purezza dei nevai. Ma
quelli risposero con risate, così che riprese la chiassosa di­
sputa.
Jukundi appoggiò le braccia alla tavola e vi posò poi
la testa con un profondo sospiro.
Ora in mezzo al tumulto si distingueva la vocetta in
falsetto di un antico esattore comunale, il quale tentava
invano di intonare la canzone che un giorno Jukundi
aveva cantato traversando il bosco per recarsi alla festa
corale. Finalmente gli vennero in mente le ultime parole
e stridette con voce lacerante:
5i6 LA GENTE DI SELDWYLA

Nella patria il buon umore


non conosce mai peccato !
Non sarò pur io peggiore
se anche torno non mutato.
Allora si riaffacciò alla memoria di Jukundi la bella
giornata felice in cui aveva per la prima volta veduto
Justine, e dovette nascondere ancor meglio il suo volto,
mentre a stento tratteneva lagrime amare.

Nel frattempo anche Justine ripensava con crescente


nostalgia ai tempi in cui aveva incontrato Jukundi, e
sarebbe volentieri andata a cercarlo scusandosi del suo
torto, se non fosse stata di continuo trattenuta dalle cir­
costanze. Il primo ostacolo fu la sua partecipazione a quel
moto popolare e i suoi rapporti con la mala compagnia,
dato che tutta la sua famiglia e il cerchio delle sue ami­
cizie erano nell’altro campo, dove imperavano le più
fosche idee sulla faccenda.
Essa quindi, per svagare i pensieri e placare i suoi
sentimenti, s’era data con crescente zelo alle attività per
la chiesa e per il pastore, estendendo la sua azione anche
a cose mondane. Divenne presidentessa di tutte le inizia­
tive possibili e consumò molte buone scarpe, che si fece fa­
re più solide che in passato, essendo sempre per strada,
da una scuola all’altra, da una casa all’altra, da una se­
duta all’altra. In ogni cerimonia o trattativa, nelle confe­
renze o nelle solennità pubbliche, la si vedeva seduta nelle
prime file, ma senza che avesse ritrovato la calma o che
sul suo volto pallido fosse rispuntato il più lieve sorriso.
L’inquietudine la ricondusse persino in un’associazione
musicale che aveva da tempo abbandonato, dove can­
tava col volto serio e la voce bene intonata, senza però
raggiungere la minima serenità. Il medico cominciò a
preoccuparsi e disse che il tono melodico e tremulo della
sua voce faceva temere l’inizio di una malattia di petto,
così che erano consigliabili i maggiori riguardi.
Tutti intuivano quel che le mancava, ma non potevano
aiutarla, anche perché divennero d’un tratto essi stessi
IL SORRISO PERDUTO öl?

bisognosi d’aiuto. Scoppiò infatti allora, venendo da ol­


tre oceano, una delle più terribili crisi dell’intero mondo
commerciale e scosse anche la casa Glor, che pur sem­
brava tanto salda, riuscendo quasi ad annientarla, e
lasciandola in piedi per miracolo. Nel corso di poche
settimane giunsero l’uno sull’altro i messaggi di sventura,
togliendo il sonno a quegli orgogliosi mercanti, facendo
del mattino un terrore e delle lunghe giornate una con­
tinua tortura. Grandi masse di merce erano ormai oltre
oceano deprezzate, tutti i crediti risultavano inesigibili
e il patrimonio accumulato svaniva di ora in ora, insie­
me ai titoli ad alto interesse in cui era collocato, tanto
che alla fine non rimasero che i beni immobili e il capi­
tale iniziale costituito da antiche obbligazioni governa­
tive. Ma anche tutto questo bisognava sacrificarlo per
far fronte agli impegni già contratti, dato il vasto giro
d’affari, allo scoppiare della bufera.
Gli uomini non facevano che far conti, discutere fra lo­
ro, pallidi e sommessi, notti e giorni interi, mentre l’ordi­
nata vita casalinga pareva essere paralizzata. I domestici
lavoravano senza attendere ordini e preparavano i cibi,
ma nessuno andava a tavola o sapeva che cosa mangiasse.
Gli orologi si fermavano e venivano ricaricati solo dopo
soste di molti giorni, e bisognava allora stabilire l’ora esat­
ta come al buio si accende un lucignolo da un altro per po­
terci vedere. Alcuni gattini che sino al giorno della sven­
tura erano stati passatempo e giuoco di giovani e di vec­
chi, sparirono di colpo, ritraendosi a piccoli salti in un
cantuccio, e quando dopo parecchio tempo si ristabilì nella
casa una certa calma, tutti furono stupiti che i gatti fos­
sero di colpo diventati tanto grossi.
Quando si disse che, se si voleva salvare l’onore della
ditta e pagare tutti i debiti, non sarebbe rimasto in pos­
sesso della famiglia neppure il valore di un tallero, e che
tutti, ridotti in povertà, avrebbero dovuto ricominciar da
capo, mamma Gertrud, la Stauffacherin, tremò in tutta la
persona e fu costretta a sedersi.
Justine invece, col cuore angosciato nel timore della
miseria, pensò subito al come aiutarsi. Voleva andare nel
5i8 LA GENTE DI SELDWYLA

mondo e in grazia delle sue cognizioni mantenere non


soltanto se stessa, ma anche i genitori, e già abbozzava
febbrilmente piani avventurosi.
La madre però si riprese e dichiarò che essa avrebbe
preteso una buona parte del patrimonio come bene do­
tale, per salvare la casa e renderne possibile la continua­
zione. Gli uomini trovassero una via di accomodamento
coi creditori, secondo quanto era ormai diffusa consue­
tudine.
Gli uomini scossero la testa rannuvolati e dissero che
non potevano né volevano farlo: piuttosto preferivano
emigrare, poveri, e lavorare in un altro paese notte e
giorno per rifarsi una strada.
Ma Gertrud aveva nel frattempo riacquistato energia
ed eloquenza: insistette nel suo consiglio, dimostrando
con molti esempi che tale prudente condotta avrebbe
permesso di superare la bufera, salvare l’avvenire e più
tardi anche di soddisfare ogni equo impegno.
Tutto ciò costituiva ancora in certo modo un segreto
della famiglia. I numerosi operai venivano come in pas­
sato a consegnare le loro stoffe, ricevevano le paghe e le
nuove ordinazioni, giacché ogni misura decisiva era pro­
crastinata per la paura. Quanto più si prolungava
quell’incertezza, tanto più gli uomini si staccavano dai
loro propositi di rigida osservanza del dovere, che avreb­
be loro permesso, da veri uomini liberi, di non abbassare
gli occhi di fronte a nessuno. La madre era già in pro­
cinto di riportar vittoria, nel saldo convincimento di
agire a buon diritto, perché essa in realtà aveva beni do­
tali; ma a quel punto scesero dalla collina i due vec­
chi per opporsi a quell’intrigo e per sventarlo. Il vecchio,
egli pure molto ligio alla ricchezza, colpito dalla sventura
toccata ai figli, non era in grado di parlare e si sedet­
te tossicchiando su una sedia, lasciando la parola alla
moglie.
Questa depose sulla tavola un plico di titoli ingialliti,
dicendo che loro, i nonni, portavano i loro risparmi pur
di aiutare a salvare il buon nome; bisognava però pagare
tutti i debiti e rinunciare a ogni pasticcio con i beni do­
IL SORRISO PERDUTO 519

tali. Essa pronunciò parole così energiche ed eloquenti,


che parve, con la sua candida cuffia, essere la vera antica
donna di Stauffacher, mentre quella più giovane si rifu­
giava piangente presso la finestra.
La vecchia le rimproverò simile debolezza, poi, ac­
corgendosi in quel momento che, nell’elegante salotto ove
era accolta l’intera famiglia, il pianoforte e i tavolini
erano velati di polvere, cominciò senz’altro a spolverarli
col suo fazzoletto.
La famiglia si decise a quella linea di condotta austera
e dura contro se stessa, salvando così la pace e la rispet­
tabilità. I beni immobili vennero dati in pegno e il
giro d’affari non fu interrotto; però intanto tutti i membri
della famiglia erano poveri in canna e non uno aveva un
franco da sciupare per una cosa superflua o per un ca­
priccio.
Si chiusero così anche le presidenze e gli splendori
nella chiesa o in società per Justine, che dovette tenersi
in disparte, mortificata e silenziosa. Essa però, non sop­
portando una così assoluta mancanza di mezzi, si pro­
curò, secondo l’uso delle dame impoverite, lavori femmi­
nili di lusso per guadagnare almeno qualcosa per i suoi
minuti piaceri. Non sapeva di togliere così il pane di
bocca, per accontentare un capriccio, alla vedova di­
sperata, all’orfana abbandonata che cerca in egual modo
di mantenersi. Man mano che crescevano le modeste
somme guadagnate, aumentava anche il suo zelo al la­
voro, che essa assumeva con abile energia e in gran quan­
tità, obbligando chi le affidava la merce a dargliene
sempre più sottraendola ad altri.
L’occupazione continua le piaceva anche perché du­
rante il lavoro poteva o abbandonarsi ai suoi dolorosi
pensieri, oppure distrarsi considerando le deboli speranze
di una nuova fortuna. La madre era a parte del suo se­
greto; dapprima il suo orgoglio si era ribellato, ma
quando trovò nel guadagno di Justine aiuto anche per
se stessa, bastante a coprire talune spese che non osava
proporre agli uomini preoccupati e indaffarati, si adattò
facilmente alle idee della figlia.
520 LA GENTE DI SELDWYLA

Però alla fine padre e fratelli se ne accorsero; si chie­


sero cioè dove andassero a finire i moltissimi lavori d’ago
e di maglia che vedevano preparare senza sosta, e alla
fine scoprirono il segreto. Essi però, pur imponendosi ogni
rinuncia e avendo venduto carrozze, cavalli di lusso e
ogni cosa, non intendevano passare per gente incapace di
mantenere due donne, e trovarono sconveniente che que­
ste andassero in cerca di lavoro, mentre le operaie povere
ne cercavano e ne trovavano nella loro stessa casa.
La cosa fu quindi severamente proibita e a Justine si
disse di chiedere il necessario per i suoi bisogni, come
in passato, senza troppi riguardi, poiché sapeva di non
essere in vendita a così buon mercato. Justine tuttavia con
la sua mente turbata non riusciva a superare quella
questione. Cadde sempre più in preda di quella smania
morbosa di indipendenza, che pervade le donne della
nostra epoca a cagione dell’incertezza in cui gli uomini
lasciano il mondo. Essa si torturava meditando, e alla fine
abbozzò il disegno di cercare impiego quale maestra. Se
pensava alla capitale e ai suoi numerosi istituti di educa­
zione, si aggiungeva la tacita speranza di potervi più fa­
cilmente incontrare il marito che non nella casa paterna,
dove lo si giudicava più severamente che mai, benché si
sapesse che ormai le cose gli andavano bene.
Appena presa quella decisione, non esitò ad attuar­
la, e si recò dal pastore per averne consiglio e aiuto.
Solo avviandosi alla parrocchia le venne in mente con
stupore che l’egregio ecclesiastico, abituale frequentatore
della casa, dal giorno della loro sventura non vi era più
comparso, e che nessuno ne aveva sentito la mancanza o
aveva pensato di andare a confidarsi con lui per averne
consolazione.
Un senso freddo la pervase inoltre, considerando che
essa stessa da mesi non aveva rimesso piede nella chiesa
da lei adornata. Si fermò, cercando di interpretare quella
strana circostanza, ma non le riuscì di farlo subito e ri­
prese frettolosa la sua via, quasi in cerca di un appoggio.
Nel giardino della parrocchia incontrò la moglie del pa­
store, una donna modesta, che coglieva tranquillamente
IL SORRISO PERDUTO ÖS!

prezzemolo, e da essa seppe che il marito era appena


tornato da una visita a un moribondo e si sentiva un po’
indisposto. Le disse però di salire egualmente, poiché
certo la sua visita gli avrebbe fatto piacere. Justine s’awiò
senz’altro verso il suo studio e, come era avvezza a fare,
dopo avere energicamente bussato, entrò rapida.
Il pastore sedeva pallido ed esausto nella sua poltrona,
con la testa appoggiata alla mano. Quando si voltò e
s’alzò in piedi, le parve che fosse dimagrito e sofferente.
— Come ella vede — disse il sacerdote dopo averla
salutata — neanch’io sono in buone condizioni, e questo
le spiegherà perché non mi sia fatto vedere da tanto
tempo. In realtà, e più di quanto ella immagini, soffro
della stessa malattia di lei e dei suoi !
Quando Justine gli chiese con meraviglia di spiegarsi
meglio, proseguì:
— Ho voluto arricchire, e per questo, nelle relazioni
strette coi suoi, in casa sua, ho ascoltato e osservato
quali fossero i modi di mettere a frutto le somme patri­
moniali; ho notato le azioni da cui si aspettavano alti
guadagni, e ho scimmiottato in segreto, col modesto
patrimonio di mia moglie, le speculazioni che vedevo
fare da altri. Ma quando intuii che la ditta Glor era
scossa, compresi anche subito che io stesso avevo tutto
perduto, dissipando e consumando l’eredità di mia mo­
glie e dei miei figli. Essa non ne è ancora informata, e io
non posso confidarmi a nessuno, per non portare disonore
al mio stato. Ma di fronte a lei, che mi appare qui così
imprevedutamente, sento il bisogno di essere sincero!
Justine era spaventata; la nuova perdita le dava pro­
fonda irritazione, così che rispose un poco di malumore:
— Ma che cosa mai l’ha costretta a correr rischi con
gli affari, mentre ella aveva una parrocchia e un buon
reddito?
— Le ho detto — replicò melanconicamente il pasto­
re — che non mi è lecito compromettere la mia veste
confessando la mia viziosa stoltezza, mentre nell’intimo
non appartengo più neppure al mio stato ecclesiastico:
l’ho abbandonato e ho cercato di arricchire appunto
522 LA GENTE DI SELDWYLA

per vivere indipendente. Dopo quella malaugurata se­


ra in cui avevo avuto una discussione con suo marito
m’era rimasta una spina nel cuore che invano tentavo
di togliermi coi ragionamenti o con lo sdegno. Vedevo
Jukundi che, malgrado le sue sfortunate vicende, conti­
nuava impavido la sua via religiosa, e mi sentivo costret­
to a sottoporre ogni cosa a nuova indagine, il che pur­
troppo, considerando il mio cuore, non avevo da anni
più fatto riguardo all’aspetto morale della questione.
Giunsi alla conclusione che non vivevo più da uomo pio
né da cristiano, e che non ero più un sacerdote !
Dovetti confessarmi che da anni, appena ero solo,
non sentivo la minima spinta a ricordare il Crocifìsso, al
cui nome si intitola la mia missione e dal quale veniva
il mio nutrimento, e che il mio cuore, con tutti i miei sen­
si, era solo legato al mondo e alle sue gioie, se vuole
anche alle sue pene e ai suoi doveri, ma senza che mai
né di notte né di giorno mi sfiorasse il più lieve brivido
di un fervore intimo e personale, il minimo timore di
Colui che noi per mestiere proclamavamo nostro Signore
e Salvatore.
Anzi, se talvolta, senza esservi indotto dalla professione,
ripensavo in solitudine alla persona di Cristo da me
chiamata tanto sacra, lo facevo piuttosto con l’animo
altezzoso di un protettore che si occupa di un povero
diavolo e gli dice poi in confidenza: «Mio caro, tu mi
dài molti grattacapi ! ».
M’accorsi infine che senza avvedermene ero divenuto
un parlatore e un ciarlone smanioso di applausi, che, se
non possedevo la chiave d’oro di un vero Verbo divino tra­
scendente, non comprendevo più il segreto del mio pros­
simo e non potevo dominarne l’animo più di quanto lo
sappia fare un fanciullo, anzi, che per la mezza verità e
per l’ambiguità delle mie parole, mi trovavo a disagio
persino di fronte a un bimbo.
Cominciai a vergognarmi del superficiale successo che
incontravo; inoltre il mio stesso lavoro mi impediva di
ordinare i miei pensieri per l’intimità del cuore, per la
mia pace personale, perché ciò era inconciliabile con la
IL SORRISO PERDUTO 523

chiassosa violenza e con le esigenze del mio stato: per


questo volli lasciarlo e spogliarmi di questa veste ormai
sdruscita del riformatore.
Ciò è ormai impossibile, almeno per il momento, poi­
ché, mentre volevo evadere per mezzo della ricchezza,
mi sono invece privato persino dei mezzi atti a fondare
un’esistenza relativamente sicura.
Justine era come impietrita : venuta per chiedere con­
siglio e appoggio, vedeva crollare uno dei suoi sostegni,
un contenuto della sua vita ; intuì come per un lampo im­
provviso la realtà di quei problemi e perché essa stessa nel­
la sua sventura non avesse mai cercato conforto nella sua
chiesa sfarzosa. Si sentì pervadere il petto inquieto da un
amaro tormento, ma non potè abbandonatisi, poiché
un’ancor più profonda pietà era suscitata dalle parole
del sacerdote che lagrimando le disse:
— Oggi m’è toccata un’estrema esperienza : sono stato
allontanato da un letto di morte ! Da molte ore lotta con
la morte una tenace vecchietta, la quale spera ostinata-
mente di rivedere tutti i suoi figli, e specialmente il mag­
giore, morto in miseria. Mi reco da lei distratto e preoc­
cupato e, mentre mi preparo a pronunciare quelle pre­
ghiere dei moribondi di mia composizione, di carattere,
come ella sa, leggermente panteistico, rispondo con pa­
role vacue e malsicure alle domande che quella mi ri­
volge circa la certezza della vita eterna, tanto che la
moribonda mi volta le spalle, mentre i presenti, appog­
giati dal medico, mi prendono in disparte invitandomi a
rinunciare alle mie funzioni di curatore d’anime.
Il pastore narrò la vicenda con parole confuse, na­
scondendo alla fine il volto nel fazzoletto. Era profonda­
mente scosso, perché nessuno si sente dichiarare volen­
tieri incapace di esercitare secondo le regole dell’arte una
professione, sia pure non amata.
La scena diede a Justine l’impressione di veder crollare
una montagna. Quel che le era sembrato avere l’eternità
del granito precipitava e periva insieme alla saldezza
intima del sacerdote, allo spettacolo della sua fuga dal
tempio. Essa intuì bensì la forza grandiosa insita in quel
524 LA GENTE DI SELDWYLA

processo non appariscente e ancora celato, che si sarebbe


forse presto ripetuto qua e là, in cento altri punti, ma non
ne comprese il significato generale, subendone soltanto la
dolorosa oppressione.
Partì confusa e smarrita, senza avere neppure esposto
al pastore le pene personali che l’avevano condotta da
lui, e senza aver tentato di calmarlo con parole di con­
forto. Solo quando fu per la strada, man mano che
ripensava alle cose udite, riannodandole a precedenti
parole o vicende, fu còlta da un gelo. Si rese conto di es­
sere ormai senza una Chiesa, e la sua anima femminile,
per la forza dell’abitudine, si sentì smarrita come una
povera ape dispersa che in una fredda notte autunnale
vola su uno sconfinato oceano. Abbandonata dal marito,
perduti i suoi beni, privata ora anche della comunità
religiosa: tutto sembrava metterla vergognosamente al
bando.
La mancanza della Chiesa, per quanto esteriore fosse
stata la sua pietà, le parve riassumere tutte le sue altre
sciagure e, stranamente, credette senz’altro al pastore,
che dichiarava vuoto il suo tabernacolo, mentre non ave­
va mai voluto accettare le idee del marito, solo perché
egli non possedeva ai suoi occhi un’autorità spirituale.
Procedette silenziosa verso casa; prese, per passare in
qualche modo la prima ora, un lavoro a maglia, andando
a sedersi presso la porta del giardino che dava diretta-
mente sulla strada, quasi per dimostrare che c’era ancora
e che non aveva bisogno di nascondersi. Non parlò però
con nessuno, fissando pallida il lavoro, mentre con le lab­
bra contava meccanicamente le maglie.
Scese la sera; nella calma luce del lago le barche si
avviavano all’approdo e per la strada passavano operai,
senza che mai Justine alzasse gli sguardi, sinché le si
fermò di fronte, per riposare un poco e riprender lena,
una donnetta vecchissima che procedeva a stento. Aveva
in testa un cappellone di paglia gialla, indossava una
gonna rossa e corta, reggeva sul dorso incurvato un sac­
chetto bianco e in mano un bastone, mostrando così di
essere una pellegrina giunta da lontano e avviata al
IL SORRISO PERDUTO 525

santuario posto a poche ore di cammino sulla montagna.


Quando Justine s’accorse che la vecchietta non si reg­
geva quasi più, la fece accomodare al suo fianco sulla
panca.
— Mi siederò volentieri, se lo permettete, bella si­
gnora ! — disse la pellegrina, non indugiando a prender
posto. Frugò poi subito nel sacco e ne trasse un tozzo di
pane, cercando con lo sguardo una fontana che le offrisse
un sorso d’acqua. Ma Justine andò a prenderle in casa
un bicchiere di buon vino, che quella accettò con piacere.
— Perché alla vostra età ve ne andate sola per la strada
dura e faticosa, mentre tutti gli altri pellegrini viaggiano
in ferrovia e sui battelli, in comoda compagnia? — le
domandò Justine.
— Oh, non ci sarebbe allora merito né sacrificio per
me povera peccatrice! — rispose la pellegrina — Gli
altri oggigiorno viaggiano piuttosto per divertimento e
per curiosità, aggiungendo al più un’utile preghiera nel
luogo delle grazie. Io invece mi reco con le mie vecchie
gambe dalla beatissima Madre di Dio, e sono così con lei
non soltanto di fronte al santo altare: essa mi accompagna
per tutto il lungo cammino, a ogni passo, e mi sorregge
quando mi sento cadere, come farebbe una buona figliola
per la sua vecchia e debole mamma! Proprio adesso è
stata lei a porgermi con la vostra mano bianca questo
provvido ristoro ! Sapeste quanto è dolce e cara, quanto
è bella, luminosa ! E quale potere ha la Madonna, quan­
ta saggezza ! Essa ha un consiglio per tutto, e tutto può !
Mentre così la esaltava, la vecchia non aveva deposto
neppure per un momento il suo rosario. Justine la osser­
vava con curiosità maneggiare quelle palline, e volle
sapere come si usava e si faceva scorrere la corona. La
vecchia glielo mostrò subito, cingendo le sue mani con il
povero rosario. Justine rimase per qualche momento pen­
sierosa così, a mani giunte, con gli sguardi perduti dietro
i suoi pensieri, ma poi scosse lentamente il capo e restituì
il rosario alla pellegrina, senza una parola.
La donnetta non volle sostare più a lungo, preferendo
continuare il cammino ancora un’ora, prima di cercare
52θ LA GENTE DI SEI.DWYLA

asilo; la ringraziò e promise di recitare una preghiera per


la bella signora, lo volesse o no, e svanì a passi incerti
nell’ombra della sera, serena e sicura, così come ci si ag­
gira a casa nella propria stanza.
Justine s’appoggiò allo schienale seguendo con gli occhi
la barcollante figurina rossa, finché non si perdette nelle
nebbie azzurre del crepuscolo.
«Cattolica!» esclamò dimentica di sé, e si immerse
in affannosi pensieri indagatori, ma scosse ancora una
volta il capo.
Invano la sua smarrita anima femminile continuava a
cercare: si coricò senza neppure mangiare e passò la
notte insonne. Non poteva più dire ora di essere povera
come un topo di chiesa, ma piuttosto come un topo sel­
vatico di campagna. Nell’angoscia si ricordò di una po­
vera famigliola di operai, una vedova con una figlia, che
aveva fama di particolare religiosità e che pur nella con­
dizione più misera godeva perfetta contentezza e calma
spirituale, tanto che il pastore medesimo, benché le due
donne appartenessero, a quanto egli diceva, a una setta
stolta e ignorante, aveva spiegato che esse potevano dare
un’immagine dei cristiani primitivi. Le due donne ave­
vano vissuto in passato a Schwanau e la figlia era stata
operaia nelle fabbriche dei Glor. Justine, spinta da una
certa simpatia per quella gente, aveva involontariamente
rinunciato più volte al suo proposito di convertirle e di
guadagnarle alla sua Chiesa bene organizzata e ragio­
nevole ; più tardi madre e figlia avevano lasciato il paese
stabilendosi vicino alla capitale. L’insonne Justine decise
appunto di andare a cercarle per scrutare il segreto della
loro pace e della loro fede e per dividere se possibile la lo­
ro beatitudine, e volle anzi attuare il suo proposito già
l’indomani.

CAPITOLO IV

La mattina seguente, che prometteva una bella giorna­


ta, Justine s’alzò presto e si preparò alla passeggiata; vole­
va infatti, benché fosse un cammino di circa tre ore, com-
IL SORRISO PERDUTO 527

piere umilmente il pellegrinaggio a piedi, spintavi senza


dubbio dalla vecchietta della vigilia e anche per abban­
donarsi, cosi, meglio ai propri pensieri. Calzò un paio
delle sue solide scarpe da patronessa, che le tornarono
molto comode, e si caricò di un cesto dove depose alcuni
doni per le brave cristiane : una bottiglia di buona panna,
un pane bianco fresco, un pacchettino di tabacco da fiuto
per la madre, la quale, come ben sapeva, pur avendo ri­
nunciato al mondo, non disprezzava una presa quando
poteva procurarsela, e infine un paio di calze nuove per
la figliuola. Sollevò la veste e si pose in cammino, reg­
gendo però invece del bordone un parasole che, insieme
all’ampio cappello di paglia, le offriva sufficiente riparo.
Durante la strada ripensò a tutto quello che sapeva di
quelle donne, compiacendosi sempre più del suo pro­
posito.
La madre, Ursula, era venuta in quella regione come
povera servetta e aveva vissuto sempre tranquillamente
adempiendo ai suoi doveri. A quel tempo però, secondo
quanto essa stessa raccontava, amava il mondo e, com­
mossa dalla sua bontà e dal suo candido cuore, prestò
orecchio a un figlio di agiati contadini, unendosi a lui nel­
la miseria, come povere bestioline selvatiche. L’uomo in­
fatti era stato subito ripudiato e abbandonato dai suoi, che
non gli diedero neppure un cesto vuoto. I due vissero me­
schinamente da braccianti in una capanna miserabile e
remota, più abbandonati di tutti i Robinson naufragati su
di un’isola. Con la loro ingenuità e sopportazione essi,
in una regione ricca e cristiana, si attirarono la crudeltà
umana, come la calamita attira il ferro. Parve che tutta
la perversione altezzosa del paese si alleasse contro quei
poverelli, in modo che l’uno impediva all’altro ogni soc­
corso e vi aggiungeva lo scherno, mentre nessuno, come
accade nel mondo, ne poteva dare la ragione.
La giovane donna però aveva ancora desideri mondani.
Acchiappò un giorno un grosso gatto di contadini che
passava per caso accanto alla sua capanna, lo scorticò e
lo fece lessare per placare la sua tremenda fame, toglien­
dogli accuratamente il grasso per condire eventualmente
528 LA GENTE DI SELDWYLA

un po’ di pancotto, se mai avesse conquistato pane o


farina. Ma il misfatto venne scoperto e la multa impo­
stale assorbì la paga di tutto un mese del marito, che fi­
nalmente dopo lunghe ricerche aveva trovato lavoro co­
me manovale. Egli allora, cedendo ingenuamente al con­
siglio di altri, sciupò anche la paga successiva per una
sbornia prima che gliela carpissero in altro modo, e
rimase poi vittima di una frana, non essendosi messo in
salvo con sufficiente prontezza. Con ciò finì l’epoca del
peccato e del piacere mondano per la povera Ursula.
Intorno a quell’epoca erano comparsi dei predicatori
anonimi e poveri, che cercarono di far seguaci fra il po­
polino per una oscura setta e che battezzavano poi i con­
vertiti. Essi predicavano il puro cristianesimo primitivo,
quale esso risulta, secondo la loro opinione di incólti,
dalla Bibbia, interpretata leggendo letteralmente ogni
parola e proprio nella versione tedesca di cui potevano
disporre. Ma l’essenziale era l’obbligo di condurre in
realtà e in verità una nuova e santa esistenza in ogni
ora del giorno e in ogni luogo, era l’impegno dei cre­
denti a formare tra loro una salda lega dell’amore e della
reciproca solidarietà al fine di prepararsi e di farsi forti
per la grande ora vicina del promesso Giudizio univer­
sale.
Questi predicatori raccolsero ben presto attorno a sé
una comunità composta di oscure anime bisognose d’aiu­
to, d’ipocondriaci, di deboli presuntuosi che cercavano
nel loro modesto stato una base su cui essere migliori del
vicino, di cuori generosi spinti dall’amore, di infelici
desiderosi di un conforto, vanamente altrove sperato.
Taluni di questi, se fossero stati cattolici, si sarebbero
rifugiati senz’altro in un convento, altri, se vi fossero stati
portati dalle condizioni, si sarebbero fatti massoni, altri
infine, se ricchi e cólti, avrebbero fondato qualche asso­
ciazione di pubblica utilità e beneficenza o avrebbero ade­
rito a società di cultura o di musica, pur di elevarsi sopra
la povera esistenza volgare. La fervida e tacita setta li
compensava di tutto questo: in essa trovavano non sol­
tanto la santità e la vita eterna, bensì anche bastevole di­
IL SORRISO PERDUTO 529

strazione e divertimento nelle continue prediche pie, nel­


le dispute, nelle preghiere e nei canti.
Non erano però per nulla stimati e amati, bensì de­
risi e perseguitati da ogni parte, dalla Chiesa, dai liberi
pensatori, dagli ortodossi, dai credenti più raffinati, dalla
plebe e dalle autorità. Specialmente in campagna i loro
convegni venivano sciolti e disturbati, e quell’intolleranza
che ben presto s’era annidata fra le loro file, fu poi non
poco esercitata a loro danno.
Nel paese in cui abitava la povera vedova, la setta
aveva subito persecuzioni particolarmente gravi, tanto
che non poteva più radunarsi in territorio comunale.
Celebravano perciò i loro riti in un luogo remoto, fra le
mura abbandonate di un castello diroccato soprannomi-
nato la «cucina del diavolo». Senza curare lo scherno
derivante da quel nome, predicavano e cantavano con
gran fervore fra quei cespugli e quelle erbacce selvagge.
Una domenica sera Ursula udì dalla sua povera capan­
na diroccata, attraverso l’aria tranquilla, le pie canzoni,
proprio di là dove si scorgevano sospese nel bosco le
nuvolette dorate. Le parve un conforto dirigersi verso
quella luce e quell’armonia ; prese in braccio la sua bam­
bina di due anni, la piccola Agathchen, e andò sino al
luogo della segreta riunione, sedendosi modestamente su
un masso nel fondo della «cucina del diavolo», con la
bimba in grembo, e ascoltò molto attenta ogni parola
ivi pronunciata. Si fecero avanti parecchi predicatori, i
quali, oltre a occuparsi della dottrina redentrice, eser­
citavano ciascuno un lavoro manuale e maneggiavano
anche la parola con grande semplicità. Essi non cono­
scevano neppure la distinzione teologica fra Pietro e
Paolo e nessuno di loro sapeva bene chi fossero mai stati
quei Romani i cui soldati avevano crocifisso il Reden­
tore.
Da principio la povera vedova rimase celata nell’om­
bra di un arbusto di nocciòlo; ma il sole tramontando
ravvolse la donna e la bimba nei suoi riflessi, talché
alla fine la loro figura spiccò tutta dorata sullo sfondo
verde, e colpì l’attenzione di colui che stava appunto
53° LA GENTE DI SELDWYLA

predicando. Egli si interruppe vedendo la donna tacita


e attenta e l’invitò ad alta voce ad avvicinarsi e a pren­
dere posto fra il gruppo dei credenti, per cui tutta la co­
munità si volse e notò l’estranea.
Questa però non si mosse e rimase a sedere intimidita,
sinché da una fila di cinque o sei lavandaie anziane se­
dute solennemente su un tronco piuttosto elevato, quasi
fossero altrettanti vescovi, se ne alzò una e venne a pren­
dere per mano quella pecora smarrita insieme alla pic­
cina.
In tal modo Ursula fu accolta tra la comunità e di­
venne insieme alla bimba uno dei suoi membri stimati,
singolare e distinta da tutti gli altri, cosi come dallo stesso
terreno crescono piante delle specie più disparate.
Le lavandaie in un primo tempo la accolsero nella loro
lega e le procurarono sufficiente lavoro, facendola di­
ventare una lavandaia del Signore che per quarant’anni
faticò incessantemente giorno e notte sino a che le sue
forze furono più che esauste. Durante quel periodo la co­
munità era riuscita a farsi tollerare e si era notevolmente
sviluppata; tutti i suoi membri, sorretti dall’aiuto reci­
proco e dalla vita ordinata, si trovavano in condizioni
quasi agiate; i predicatori si davano già più l’aria di pasto­
ri, sfoggiando una certa dottrina, e indossavano vesti mi­
gliori ; le riunioni avevano luogo in un locale di preghiera
chiaro e simpatico e già si seguiva una piccola politica
ecclesiastica di fronte alla Chiesa ufficiale e alle altre
sètte che andavano diffondendosi.
Ursula e la sua Agathchen rimanevano invece sempre
le stesse, mantenendo la semplicità dei primi tempi e di­
ventando senza saperlo modelli di religiosità. La figlia era
debole e malaticcia ; per molti anni lavorò nel setificio del­
la casa Glor, vivendo con la madre lavandaia. Finché eb­
bero ambedue lavoro, guadagnavano il loro fabbisogno,
potevano aiutare i loro compagni di fede, soccorrendoli
senza farsi pregare, e avevano ancora modesti mezzi
per dimostrare la loro cordialità e gratitudine a chiunque
facesse loro il minimo servigio o la minima cortesia. Co­
noscevano istintivamente l’arte di essere ricche pur nella
IL SORRISO PERDUTO 531
povertà, ma soltanto per l’incessante lavoro e per la loro
capacità di essere sempre contente. L’unica guerra che
facessero fra loro consisteva nella gara reciproca a rifiu­
tare le cortesie e i benefici che esse rendevano a estranei,
perché ognuna, quando doveva accettare qualcosa, se ne
schermiva affermando che era inutile ed esagerata.
Vivevano per il resto nella più profonda pace con tutti.
Perdonavano ogni offesa sull’istante e non replicavano
mai a una parola aspra con pari asprezza, attingendo
dalla loro pietà un dominio di sé che si conquista di solito
soltanto per nascita e per educazione. Allo stesso modo
soffocavano senza sforzo l’indiscreta curiosità e lo spirito
critico e tutti insomma i piccoli vizi sociali; erano tanto
più benevole e tolleranti verso i miscredenti e i mondani,
quanto più erano convinte che quei poveretti fossero pro­
fondamente infelici e anzi perduti.
Accettavano l’ingiustizia senza compiacersene, ma an­
che senza combatterla. I fratelli del defunto marito, e
padre, erano saliti a una condizione di rispettabile agia­
tezza, senza mai versare la piccola eredità dovuta alla
bimba e a sua madre e senza neppure concederne i mi­
seri interessi. Quegli altezzosi parenti erano sempre in
difficoltà finanziarie e non amavano privarsi neppure di
piccole somme, ma per non confessarlo fingevano di non
riconoscere i chiarissimi diritti della vedova. Sarebbe
costato soltanto una parola alle due donne per costrin­
gerli a farlo e compromettere la loro pubblica rispetta­
bilità, ma non vi si lasciarono indurre neppure dai loro
compagni di fede e rimasero per tutta la vita povere e
pazienti creditrici di parenti superbi e ingiusti, così che
in realtà esse potevano chiamarsi ricche e quelli poveri.
Col passare degli anni erano però invecchiate; il la­
voro cominciò a diventare gravoso, a essere una quoti­
diana sofferenza, ma esse non vollero rinunciarvi. La
figliola malaticcia faceva duplici e triplici sforzi per pro­
curare alla madre almeno il più indispensabile sollievo
e rimanevano comunque serene e tranquille, consolando
ancora gli altri e prodigando piccoli aiuti invece di in­
vocarne.
532 LA GENTE DI SELDWYLA

Ma a quell’epoca la ditta Glor subì la sua grave crisi


durante la quale però si continuò a dar lavoro ai nume­
rosi operai, oltre la necessità, anzi oltre le possibilità del­
l’azienda. Mentre molti di essi, piccoli possidenti di cam­
pagna che ben conoscevano la situazione, continuavano
tranquillamente a cercare il loro guadagno nella fabbrica,
e i più poveri continuavano a esigerlo come loro dovu­
to, la povera e debole Agathchen fu presa da scrupoli.
Essa e sua madre si dissero che i padroni rovinati face­
vano un sacrificio per ogni stipendio che continuassero
a pagare e, non volendo più accettare tale sacrificio,
decisero, senza presunzione, per mera bontà, di sottrarsi
a quel lavoro abbandonando il paese. Agathchen, ormai
zitella anziana, aveva per vero dire anche il celato dise­
gno di sottrarre la madre alla sua clientela, il cui servizio
era ormai troppo pesante, quando un grandioso bucato
si iniziava alle tre del mattino per durare tre intere gior­
nate. Essa pensava di procurarsi un naspo per lavorare
la seta a domicilio e assistere così in pari tempo tutto il
giorno la madre a riposo lavorando per due.
Trovarono nei dintorni della capitale quel che cerca­
vano in una casetta loro affittata da un setaiolo. Il minu­
scolo edificio si trovava in un frutteto fuori mano ed era
costituito da due piccole camere, l’una verso il frutteto,
e l’altra che dava sulla strada maestra. La prima era so­
leggiata e accogliente, tutta nel verde, poiché il prato
con gli alberi giungeva sino alla finestra, l’altra invece
era un locale scuro e sgradevole, il cui ingresso faceva
anche da porta, sulla strada polverosa. Accanto alla porta
vi era quale finestra soltanto una piccola apertura a
inferriata.
In quel tugurio viveva una vecchia brutta e scontenta,
che avrebbe dovuto sloggiare, ma che vi fu lasciata ancora
per intercessione delle pie donne. Esse abitavano la came­
ra più accogliente, ma l’avevano già una volta scambiata
con quella buia, per cederla alla vecchia brontolona e li­
tigiosa, che però non c’era voluta restare, non potendo
di là vedere e sorvegliare quel che accadeva per la strada.
I due modelli di pazienza erano ritornati nella stanza
IL· SORRISO PERDUTO 533
chiara e la vecchia aveva ripreso il suo bugigattolo, di
dove senza posa spiava e minacciava chi entrasse o uscis­
se, indagando e cercando di aizzare ognuno contro le
due brave donne. Queste avevano infatti visite frequenti
di amici e di gente desiderosa di una buona parola. Divi­
devano inoltre sempre con la vecchiaccia ogni piccolo
dono o soccorso ricevuto con sincera gratitudine, ma
quella valutava scortese la divisione e la rifiutava se ap­
pena non le sembrava abbastanza rapida e puntuale.
Esse però non avevano per nulla paura di quel mostro
e le vivevano accanto come gli eremiti stavano in com­
pagnia di una belva o di un diavolo terrificante. La vec­
chia era proprio quella Sibilla della calunnia, sopranno­
minata «la donna dell’olio», che Jukundi Meyenthal do­
veva visitare per indagare sul male che aveva scoperto in
quella notte di allegria.
Quando Justine ebbe chiesto ove fosse la casetta e vi si
diresse, vide la donna dell’olio seduta davanti alla porta,
intenta a ripulire brontolando una padella.
Racconta la leggenda che quando Attila apparve coi
suoi Unni, nelle vicinanze di Augusta viveva una strega
messa al bando per la sua orrenda bruttezza, la quale,
mentre l’immenso esercito s’apprestava a passare il fiume
Lech, gli si fece incontro sola e nuda su un ronzino magro
e sporco, gridando: «Vattene, Attila!» e che Attila spa­
ventato fece di colpo dietrofront con tutta la sua orda,
prendendo un’altra direzione, così che la città salvata
dalla strega le donò poi una nuova e bella camicia. Ma
difficilmente questa strega si sarebbe meritata dalla pa­
tria una camicia.
Anche Justine ebbe la tentazione di retrocedere e di
fuggire vedendo davanti alla porta la donna dell’olio
con la sua gran faccia quadrata e giallastra, nella quale
si annidavano invidia, vendetta e perfidia sopra una va­
nità ormai morta, come degli zingari in una landa si
accovacciano intorno a un fuoco spento.
Il mostro assalì la bella Justine domandandole, men­
tre s’alzava in piedi, da chi volesse andare e che cosa
cercasse in casa delle due donne; Justine però si fece
534 LA GENTE DI SELDWYLA

animo e le passò davanti superando le tenebre per tro­


varsi d’un tratto in pieno sole, tra il fresco fogliame degli
alberi, accanto alle due pie donne.
«Come è bello qui!» esclamò deponendo il cesto e
il cappello e mettendosi a sedere. Ursula e Agathchen,
tutte stupite dalla grata sorpresa, manifestarono la gioia
più cordiale. La madre piena di gotta non riusciva ad
alzarsi dalla sua poltrona, ma Agathchen fermò subito
la mezza dozzina di naspi che attorcigliavano rapidi
al sole i fili di seta rossa. Il pallido volto di Agathchen,
che pure non aveva avuto fine educazione, si irradiò di
calma e nobile cordialità. Justine notò che anch’essa non
si reggeva troppo bene sui piedi e Agathchen ammise sor­
ridendo che questi infatti cominciavano a dolerle e talvolta
si gonfiavano un poco, ma tanto essa che la madre non
ebbero una parola di lamento. Descrissero anzi con in­
genua allegria la strega brontolona all’ingresso, quando
Justine si informò di quella paurosa apparizione, ag­
giungendo che bisognava aver pazienza con la povera
creatura posseduta da spiriti maligni e certo molto in­
felice.
Come furono poi stupite quando Justine trasse dal
cesto i suoi modesti regali ! Le calze arrivavano benvenute
ad Agathchen, la quale confessò di non trovare più tempo
per lavorare a maglia, soprattutto da quando la vista
non le reggeva la notte al lume del lucignolo. La madre
da parte sua aveva già aperto il cartoccino di tabacco
da fiuto riempiendone la sua piccola tabacchiera di corno
con una compiacenza quasi troppo intensa. Era questo
l’unico punto in cui la figlia tiranneggiava un poco la
madre, non concedendole tutto il mondano piacere ne­
rastro che essa forse, ricadendo nei peccati di gioventù,
sarebbe stata in grado di consumare. Questa volta però,
vedendo la mamma aspirare lieta una presa fresca, sor­
rise grata a Justine.
Agathchen riempì poi subito una scodella di panna,
tagliò una fetta del profumato pan bianco e si dispose a
portarla fuori alla povera vecchia.
— Non andar subito ! — disse la madre sottovoce
IL SORRISO PERDUTO 535

— per non sorprenderla se è a origliare alla porta ! Fai


prima un po’ di chiasso pestando i piedi!
— Ohimè, mi fanno troppo male, se cammino forte ! —
replicò Agathchen ridendo dell’ingenuo inganno sugge­
ritole. Tossì invece prima di aprire la porta e intravvide
infatti nella penombra del corridoio la figura informe
della vecchia che sgusciava via più rapida di quanto ci
si potesse da lei aspettare.
Quando furono di nuovo tranquille, mamma e figliuola
vollero sapere in qual modo la giovane padrona fosse
giunta fin lì e da dove fosse venuta, non supponendo che
avesse compiuto tutta quella strada soltanto per venire
da loro.
I raggi del sole, uniti alle ombre dei rami oscillanti,
giocavano sul pavimento e sulle pareti della cameretta;
davanti alle finestre aperte ronzavano le api, e una
lucertolina verde si era arrampicata su dal prato ad
occhieggiare curiosa lì dentro ; se ne aggiunse una seconda
e ambedue parevano in attesa degli eventi imminenti.
Justine vedeva ogni cosa e sentiva quella pace, ma non
trovò subito il coraggio di rompere il silenzio, sinché fu
presa dal pianto e, oppressa e turbata, si confidò alle
donne, raccontando loro che aveva perso la fede e che
era venuta a chiedere in che cosa consistesse la loro felicità
e di dove attingessero la pace interiore. Sperava di in­
contrare qualcosa di nuovo, di ignorato e di potente, cui
abbandonarsi senza altri tormenti.
Ursula mise subito da parte la tabacchiera e Agathchen
depose quel che aveva in mano. Ambedue si fissarono at­
territe e involontariamente giunsero le mani, e Justine
si accorse che ciascuna per suo conto pregava in silenzio,
Agathchen col volto rigato di lagrime, la madre con la
calma compostezza della vecchiaia. Nessuna osava pro­
nunciar parola : erano estremamente commosse dal com­
pito che si presentava loro, di portare alla salvezza una
persona istruita e brillante, ma la volontà divina era evi­
dente e indubitabile.
Cominciò prima Ursula a pronunciare alcune parole,
mentre Agathchen avvicinava a Justine uno sgabello e
53θ LA GENTE DI SELDWYLA

le si sedeva ai piedi, prendendole e accarezzandole le mani.


Justine infatti àveva da tempo rappresentato il suo segreto
amore, l’oggetto nobilissimo di ogni sua ammirazione.
Nel frattempo la cosa prese la via cercata, le lingue si
sciolsero e le due donne andarono poi a gara nell’esporre
la grande verità a quella creatura del mondo, rubandosi
la parola una all’altra e completandosi come due bambini
che ripetano a un terzo la fiaba raccontata dalla nonna.
Non vi era nulla di nuovo e di inaudito in quel che
esponevano. Era l’antica storia, arida e aspra, del pec­
cato originale, della riconciliazione con Dio attraverso il
sangue di suo Figlio, che sarebbe prossimamente venuto
a giudicare i vivi e i morti, della resurrezione della carne
e delle ossa, dell’inferno e del castigo eterno e della fede
assoluta in tutte queste cose. Narravano tutto ciò quasi
fosse qualcosa che nessuno tanto bene conosceva quanto
loro e la loro comunità, non con la bella grazia umana
insita in ogni loro atto e parola, bensì con aridità fretto­
losa, in modo monotono e incolore, quasi ripetessero
una lezione imparata a memoria. In nessun punto le
parole si fecero più morbide e miti, mai gli occhi più caldi
e vivaci: trattarono persino la passione e la morte di
Gesù come un argomento scolastico, non come qualcosa
che toccasse l’animo e il sentimento. Il mondo di cui
parlavano era vuoto e insussistente, mentre esse medesi­
me con la loro personalità vivevano in tutt’altra sfera.
Per di più le due donne, imitando ingenuamente i
predicatori, parlavano in forma incerta e sgradevole, e
anche in tono imperativo nei continui riferimenti alla
fede indispensabile.
Justine s’accorse allora che le buone donne attingevano
la loro intima pace da un’altra fonte e non da quella
dottrina, né potevano quindi con essa donarla; o me­
glio che su quell’arido terreno esse avevano potuto pro­
sperare per la loro speciale natura, perché traevano il
nutrimento dalla libera aria del cielo. Era venuta invano;
il cuore le si strinse quasi volesse fermarsi, e fu costretta
ad appoggiarsi al duro schienale della seggiola per ri­
prendere forza, mentre le sue predicatrici continuavano a
IL SORRISO PERDUTO 537
parlare. Si riebbe a poco a poco, ma era ancora pallida
come le pareti imbiancate della cameretta, e si chiese
come potesse cavarsela e andar via senza offendere le
due brave donne.
D’un tratto dalla porta echeggiò uno strido, come quan­
do si schiaccia la coda di un gatto. Agathchen corse spa­
ventata ad aprire, così che il corridoio s’illuminò di colpo
e si vide un uomo alto e snello che teneva la vecchia per
la gola, spingendola verso la parete. La lasciò però subito
andare vergognoso e imbarazzato, quando la luce appar­
ve, forse anche per disgusto, perché la vecchia, nella rab­
bia e nello spavento, gli aveva sputato sulla mano, che fu
costretto a ripulire. Ma d’improvviso si udì un’esclama­
zione di gioia da parte di Justine, che aveva riconosciuto
Jukundi Meyenthal. Questi si voltò verso di lei e di colpo
i due sposi si gettarono l’uno fra le braccia dell’altro, te­
nendosi stretti a lungo. Studiarono poi attentamente le
loro facce serie e tristi e s’avviarono alla fine verso la
cameretta delle due donne illuminata dal sole.
Mentre Justine riceveva l’istruzione religiosa, Jukundi
era giunto al momento buono nella tana della strega.
Essa dapprima aveva sorriso con gioia maligna, persuasa
che quel bel giovanotto avesse un appuntamento segreto
con la bella signora in casa delle due beghine, le quali
avrebbero finalmente rivelato il loro debole, così che
dall’avventura si sarebbe potuto ricavare un intero or­
ciolo d’olio di rosa.
Quando però Jukundi trasse il suo elenco di galantuo­
mini da calunniare e le disse di che cosa si trattava, per
incarico di chi veniva, e quando cominciò a chiedere in
modo asciutto e sommario che cosa sapesse di ciascuno
e che cosa si potesse fare per metterlo in fama di canaglia
e farlo punire, replicò scontrosa:
«Non lo conosco costui! Questi non mi hanno fatto
nulla di male ! ».
“Questa belva ha per lo meno ancora l’istinto di
mordere soltanto chi viene ad aizzarla !” pensò Jukundi
fra sé, e le chiese che cosa le avessero fatto alcune altre
vittime precedenti.
538 LA GENTE DI SELDWYLA

Al sentire il nome delle vittime, essa ebbe una risata


rauca e perfida, subito rammentandosi della parte note­
vole toccatale in quell’allegra caccia all’uomo. Non ri­
spose alla domanda precisa, ma cominciò con goffa fa­
condia a spiegare il suo procedimento nel creare e nel
diffondere le maldicenze e le accuse. Bastava in un pri­
mo tempo una caratteristica in sé innocua, una situazio­
ne, una particolarità dell’interessato, un incidente, il
coincidere di speciali circostanze, qualcosa di indubita­
bile che fornisse un nucleo di realtà all’invenzione suc­
cessiva. Non si trattava del resto di usare soltanto in­
venzioni; si poteva anche con vantaggio attribuire ad
altri, in grazia di coincidenze esteriori effettive, le colpe
commesse dagli uni, oppure accollare a quelli ciò che
nell’intimo si ha voglia di commettere o si è forse già in
parte commesso. Compensare in tal modo la frequente
ingiustizia della sorte suscitava un piacere in certo modo
divino, per esempio quando di due individui l’uno riu­
sciva relativamente simpatico mentre l’altro ispirava odio,
ma il primo era un povero, maligno e mal riuscito gra­
dasso, e il secondo invece un insopportabile presuntuoso
inattaccabile. Allora ci si trasformava in una specie di
provvidenza se si riusciva a togliere i difetti e le colpe del­
l’amico buono per gravarli sulle spalle dell’avversario o-
dioso e ostinato. Vi era davvero una grandiosa potenza nel­
lo spingere tutta una orgogliosa famiglia verso la vergogna
e la sventura con una sola parolina insinuata: maggiore
di quella dello stregone che suscita una tempesta e fa
naufragare una nave sull’oceano.
Così discorrendo la vecchia rivelò maggiore conoscenza
del mondo e delle persone di quanto il suo orrendo
aspetto e la sua misera condizione avrebbero fatto sup­
porre; ma tutte quelle cognizioni erano deformate e si
fermavano alle superficie delle cose, soffocandole come
una muffa. Assomigliava, malgrado la sua perfida astu­
zia, a un bambino che gioca inconsciamente col fuoco
appiccando un incendio a una città intera.
Dalle parole e dalle allusioni confuse si poteva con pena
intuire che la vecchia rimproverava ai suoi genitori e ai
IL SORRISO PERDUTO 539
suoi nonni di avere mandato in rovina la famiglia, espo­
nendo lei alla oscura miseria, che essa era stata un tempo
moglie di un calzolaio, da lui vinta e scacciata dopo
lunghi anni di contese, e che ora si manteneva alla meglio
andando a vendere l’una o l’altra merce, il che le conce­
deva di girare per tutte le strade, di casa in casa, dedi­
candosi alle sue mene oscure.
D’un tratto la strega si interruppe per chiedere che
il visitatore ripetesse i nomi di coloro che dovevano venir
calunniati, perché discorrendo le era tornata la voglia di
agire e di assumere la parte di provvidenza.
Jukundi le consegnò il foglietto, per vedere ancor me­
glio come procedesse in particolare, dopo che già in ge­
nerale si era potuto convincere della base su cui era stata
eretta la grande campagna di persecuzione pubblica.
Subito al primo nome di un bravo cittadino, la vecchia
esclamò:
— Ma certo quello lo conosco ! Come ho potuto di­
menticarlo? Questo è quel birbone che mi ha scacciato
una volta di casa mentre parlavo nella sua cucina coi
domestici! Ha avuto parecchie eredità successive e si è
arricchito, mentre alcuni suoi parenti vivono in miseria !
Sarà certo un tipo svelto a carpire eredità, se si andrà a
indagare la faccenda e a mettere abilmente in luce le
connessioni. Alcune sue vecchie parenti da cui ereditò so­
no morte all’improvviso, che cosa dico? suo padre stesso
è morto un paio d’anni or sono non molto vecchio né ma­
lato : un caso molto strano !
Jukundi a questo punto si atterrì delle conseguenze del
suo intervento e strappò il foglio alla vecchia, gridando:
— Taci, o brutta strega ! e bada bene di non ripetere
una sola parola di tutte queste tue menzogne, altrimenti
avrai a che fare con me !
— Con voi? — replicò il mostro fissandolo di colpo
con gli occhi spalancati, poi sibilò — Chi siete voi? Che
vuoi in fondo da me, o brutto cane? O maledetta spia?
Vuoi forse corrompermi e valerti di me per le tue perfi­
die? Bada bene, ti daremo una buona lezione ! Ti cono­
scono già ! Ti conoscono già, briccone !
54° LA GENTE DI SELDWYLA

Eccitato dalla ripugnante rabbia della strega e dal suo


mostruoso aspetto, Jukundi, che si era già avviato ad
andarsene, la afferrò, perdendo il dominio di sé, per il
collo, provocando il suo urlo e insieme rincontro con
Justine, tanto che alla fine non potè pentirsi di aver
trasgredito la legge orientale secondo cui una donna non
va colpita neppure con un fiore.

Ursula e sua figlia erano commosse e liete dell’incon­


tro avvenuto in casa loro tra i due sposi divisi; conside­
ravano questo un ulteriore segno della provvidenza di­
vina, pur ritenendo dubbio che l’istruzione religiosa ap­
pena iniziata potesse aver séguito, non fidandosi comple­
tamente del signor Meyenthal. Affidarono però il pro­
blema al Signore e intanto tacquero modestamente, e
anzi Ursula riprese subito la sua tabacchiera.
Jukundi e Justine non fecero molte parole, frettolosi di
uscire insieme. Dopo brevi e necessarie spiegazioni sulla
coincidenza dell’incontro, presero congedo dalle due
buone cristiane ben conosciute anche da Jukundi, e
promisero loro ulteriore appoggio. Passando per la tana
della strega, non la videro più, perché doveva essersi na­
scosta, ma, giunti sulla strada, il suo volto apparve die­
tro l’inferriata della finestra, per scagliare orrendi im­
properi e minacce. Essi erano però tanto occupati di se
stessi che non li sentirono neppure e procedettero a fian­
co con un nuovo senso di beatitudine ma con profonda
serietà.
Jukundi aveva lasciato a un’osteria vicina un cavallo
sul quale aveva compiuto il lungo percorso, mentre Ju­
stine s’era data ritrovo con uno dei suoi fratelli all’im­
barcatoio di un paese vicino, per ritornare insieme a casa
in battello. Stabilirono quindi di rivedersi il giorno se­
guente in casa dei nonni, sulla montagna di Scbwanau,
dove Jukundi si sarebbe recato di buon mattino. Ivi
avrebbero passato l’intera giornata spiegandosi recipro­
camente. Si separarono così, fissandosi teneramente negli
occhi, ma sempre serbandosi molto seri.
L’indomani era una domenica che si iniziò con la più
II. SORRISO PERDUTO 541
bella mattinata di giugno. Justine si destò col sole, si ve­
stì e s’adornò come per una festa, acconciandosi anche i
capelli, contro le sue recenti consuetudini, a riccioli
fluenti, indossando una chiara e profumata veste estiva, e
non dimenticando un fine vezzo attorno al collo. S’avviò
cosi, non vista dalla famiglia ancora immersa nel sonno,
verso la collina, col volto lievemente arrossato e a passo
energico. La nonna rimase stupita del suo aspetto giova­
nile e grazioso, ma fu anche contenta, sembrandole che il
destino volesse mutare. Costrinse la nipote, che non aveva
ancora preso nulla, a bere con lei una tazza di caffè, ma
Justine non sostò a lungo e si avviò per la strada di dove
doveva giungere Jukundi. Procedeva nel silenzio dome­
nicale con impazienza lieta e angosciosa insieme. Tutta la
terra era coperta di fiori, dagli alberi che cominciavano a
sfiorire cadevano i petali appena si levava un venticello.
Le campane cominciarono a suonare da vicino e da lon­
tano lungo l’ampia distesa del lago, dai paesetti biancheg­
gianti al sole ; le voci piene e profonde delle possenti cam­
pane si confondevano riempiendo l’aria di un infinito
mare sonoro che pervase il cuore esagitato di Justine mi­
nacciando di trascinarlo nei suoi gorghi. Essa però non
tornò sui suoi passi, ma corse, portata da quelle onde ar­
moniose, incontro all’uomo che in quel momento si avvi­
cinava a passi rapidi nello splendore del sole mattutino.
Appena si videro, il sorriso da tanto tempo perduto
riaccese i loro volti ed essi si abbracciarono e si bacia­
rono affettuosamente.
Senza neppure badare dove andassero, s’avviarono per
il sentiero del bosco, e tenendosi sotto braccio salirono alla
più alta cima della montagna, mentre si raccontavano
le reciproche vicende, tutto quanto avevano vissuto e
pensato durante la separazione. Lo scampanio intanto
andava gradatamente perdendosi nei boschi che si sten­
devano dietro di loro e quando svanì l’ultima nota essi si
resero conto dell’improvviso profondo silenzio. Erano al
limite di una vasta radura, che circondava un vivaio ben
tenuto di alberelli. A mille e mille s’ergevano in file rego­
lari i minuscoli abeti bianchi e rossi, pini e larici, non
542 LA GENTE DI SELDWYLA

più alti di tre o quattro pollici, che levavano verso l’alto


le loro testoline verde chiaro, simili a un solenne raduno
di innumerevoli asili infantili. Seguivano poi le file di al­
berelli di circa mezzo metro o di un metro, come vivaci
scuole elementari, poi un esercito di faggi, di querce e
di aceri adolescenti, e alle loro spalle il gruppo protet­
tore dei vecchi alberi da foresta che chiudevano l’assem­
blea. Il vivaio intero era tenuto con la grazia e l’ordine
di un parco signorile, benché appartenesse soltanto a
una cooperativa agricola; il solenne silenzio accresceva
l’effetto suscitato da tanta amorosa cura destinata non
alla propria vita, ma ai nipoti e pronipoti di un secolo
futuro.
All’ombra dei giovani aceri era stata posta una pan­
china, sulla quale sedettero Jukundi e Justine, godendo
in silenzio quello spettacolo di calma rasserenante.
— Vedi, — disse finalmente Jukundi afferrando le ma­
ni di Justine — appena ci siamo ritrovati, subito ci ac­
corgiamo che il mondo non è poi tanto cattivo come
vorrebbe parere. Tutti quegli egoisti duri e frettolosi in
realtà non si dan pena che per i loro figli e adempiono
doveri di previdenza persino per le generazioni future a
loro ignote!
— Mi vuoi ancora un pochino bene? — replicò Ju­
stine, la quale in quel momento voleva pensare soltanto
a se stessa.
Jukundi guardò lontano e vide attraverso due corone
d’abete un lembo di cielo azzurro con un edificio bianco
appena distinguibile.
— Puoi vedere quel punto bianco luccicante? — le
disse — è un convento fondato sette secoli or sono da un
cavaliere in memoria di sua moglie, quando essa gli morì.
Egli medesimo vi entrò e non lo lasciò più. Tu mi sei cara
quanto quella donna fu a lui, benché io non andrei in
convento se ti perdessi. Ma il grande e brillante salone
del mondo sarebbe per me soltanto il tempio della tua
memoria, il tuo mausoleo. Permetti però di risolvere
fra noi la piccola questione d’onore ancora sospesa. Per
penitenza e per punizione devi ripetermi ancora una
II, SORRISO PERDUTO 543
volta la brutale parola che ci ha separati, mia scorte­
se diletta, ma lo devi fare con bocca ridente, cosicché
perda il suo triste significato ! Orsù dunque, che cosa di­
cesti?
Le circondò intanto le spalle col suo braccio e le prese
il mento con l’altra mano. Ma essa scosse la testa e serrò
ben strette le labbra. Allora egli le diede un buffetto
sulle guance, cercando di aprirle la bocca e ripetendo:
— Svelta, parla, muovi la linguetta ! — finché essa con
tenera grazia sussurrò quasi impercettibilmente la pa­
rola:
— Pitocco ! — ed ebbe un bacio da Jukundi.
Mentre si tenevano strettamente abbracciati in silenzio,
Justine a un tratto riprese:
— Jukundi, e che faremo ora della religione e della
Chiesa?
— Nulla ! — rispose lui, e dopo breve meditazione
proseguì : — Se ciò che è eterno e infinito tace e si cela
sempre a tal punto, perché non dovremmo saper noi
tacere con serena pace per qualche tempo? Io sono stanco
della petulanza e della volgarità di questi ministri inetti
che non sanno nulla e che mi vogliono pur sempre far da
guida. Quando le grandi figure sono uscite da una reli­
gione, crollano i loro templi e il resto è silenzio. Ma il si­
lenzio e la pace conquistati non sono la morte, bensì la
vita che continua e illumina, al pari di questa mattina
domenicale, e noi possiamo procedere con buona co­
scienza, attendendo le cose che verranno o che non ver­
ranno. Procediamo uniti e con buona coscienza; non la­
sciamoci dilaniare la testa, il cuore e la mente o l’animo da
volgari e miserabili luoghi comuni; poiché dovremo pre­
sentarci come personalità inscindibili al giudizio che tut­
ti raggiunge !
Justine, durante questo suo discorso, fissava di conti­
nuo il marito con volto arrossato, sentendo che da un
pezzo l’avrebbe potuto udir parlare con tanta sincerità,
se in lui invece che nel sacerdote avesse posto la sua
confidenza.
Fossero sagge o stolte, le parole di Jukundi le piacquero
544 LA GENTE DI SELDWYLA

oltre misura, a prova che ormai essa del tutto gli appar­
teneva.
— Amen ! — disse Jukundi — ho paura che comincio
anch’io a predicare !
— Non dire amen ! — esclamò Justine — continua
a parlare ! Pensa che questo vivaio di alberelli sia la tua
comunità e predicale come quei santi che predicarono
alle pietre o ai pesci !
— No, il rito è finito ! Non senti il segnale? — rispose
Jukundi ridendo, poiché in realtà in quel momento le
campane di lontano annunciavano la fine del culto do­
menicale.
S’alzarono e s’avviarono lentamente verso la casa dei
nonni, alla quale giunsero a mezzodì. I vecchi avevano
fatto salire da Schwanau l’intera famiglia per celebrare
una bella festa di riconciliazione e preparato un pasto
semplice e succulento, secondo l’uso campestre. Quando
giunse la bella coppia rappacificata erano tutti riuniti.
Regnò da principio una certa imbarazzata tensione, ma
quando si vide che il sorriso perduto era tornato sui due
volti, la luce dell’antica letizia si diffuse su tutta la casa.
La Stauffacherin era radiosa come una stella e riprese il
timone per guidare di nuovo la rotta della nave ormai
riparata.
Justine andò a vivere con suo marito in città, dove i
suoi affari prosperarono ed egli perdette la sua eccessiva
credulità ottimistica, senza peraltro diventare falso e in­
gannatore.
Ebbero un figlio e una figlia, cui diedero il nome di
Justus e di Jukunde, e che continuarono l’eredità della
loro fiorente e sorridente bellezza.
Andavano spesso a trovare le pie donne Ursula e
Agathchen, non lasciandole mancare di nulla. La strega
aveva mutato alloggio, non riuscendo a sopportare vicina
quella perfetta innocenza.
Il pastore, di cui Justine aveva sorpreso un’ora di de­
bolezza, si recava talvolta da loro e si confidava volentieri
ai due coniugi. Continuò ancora per un certo tempo la
sua ambigua danza sulla corda, ma fu felice quando,
II. SORRISO PERDUTO 545
per mediazione di Jukundi, potè entrare in un’azienda
commerciale nella quale si dimostrò ben più pratico e
furbo di quanto avesse fatto Jukundi stesso a Seldwyla e
a Schwanau, poiché a lui, al parroco, non la si dava fa­
cilmente a intendere.
SETTE LEGGENDE
PREFAZIONE

Avendo Ietto alcune leggende, parve all’autore di que­


sto libretto che nel complesso di tali saghe si manifestasse
non solo l’arte della favola religiosa, ma anche a guar­
dar bene, la traccia di un’antica e più profana passione
per il novellare.
Ora, come un particolare di nubi, un profilo di mon­
tagne, un’incisione di un artista dimenticato spingono il
pittore a riempire una cornice, così l’autore s’è sentito
invogliato a ridar forma a quelle immagini frammenta­
rie e fluttuanti; certo è avvenuto che talora esse vol­
gano il viso verso un punto cardinale diverso da quello
della loro posa tradizionale.
Su questa vastissima materia ci si potrebbe diffondere
con la massima ampiezza; ma il gioco innocente può,
credo, acquistarsi il posticino a cui aspira, soltanto quan­
do sia moderato.
EUGENIA

La donna non porti indosso abito d'uomo;


l'uomo altresì non vesta roba di donna;
perciocché chiunque fa cotali cose è in
abbominio al Signore Iddio tuo.
Deuteronomio, 22, 5.

Quando le donne trascurano l’ambizione alla bellezza,


alla grazia e alla femminilità, per emergere in altri cam­
pi, va a finire che spesso camminano vestite di panni
maschili.
Questa smania di farla da uomo la troviamo già nelle
pie leggende dei primi tempi cristiani, e più d’una santa
di allora fu invasa dal desiderio di romperla con la tra­
dizione della propria famiglia e della società.
Ne diede un esempio anche la gentile fanciulla romana
Eugenia, seppure col risultato non insolito di dover ri­
correre, dopo essersi messa negli impicci con le sue prefe­
renze mascoline, alle risorse del proprio sesso per salvarsi.
Era figlia d’un nobile romano che viveva con la fami­
glia ad Alessandria, città formicolante d’ogni sorta di
filosofi e scienziati. Eugenia ebbe quindi un’educazione
e un’istruzione accurata e, appena fu cresciuta un tan­
tino, frequentò come uno studente tutte le scuole dei
filosofi, scoliasti e retori, accompagnata sempre da due
graziosi giovinetti della sua età. Questi erano i figlioli
di due liberti del padre, allevati per farle compagnia e
prender parte a tutti gli studi di lei.
Intanto si fece una bella ragazza che non se ne trovava
un’altra eguale, e i suoi compagni, i quali - caso strano -
si chiamavano Hyacinthus tutti e due, diventarono anche
loro due fiori di giovani ; e dovunque si mostrasse quella
rosa gentile di Eugenia si vedevano bisbigliare anche i
Hyacinthi, uno a destra, l’altro a sinistra, o tutti e due
dietro di lei, mentre essa volgeva il capo verso di loro a
disputare.
Né s’erano visti compagni d’una sapientona meglio
educati di loro: non erano mai di parere diverso da
Eueenia. e la loro sanienza si fermava semnre due dita
EUGENIA 551
più giù della sua, in modo che lei aveva sempre ragione
ed era sicura di non dire mai spropositi più gravi di quelli
dei suoi camerati.
Tutti i topi di biblioteca di Alessandria componevano
elegie ed epigrammi per la sua bellezza degna delle
Muse e i buoni Hyacinthi la seguivano recando le tavo-
lette d’oro, sulle quali avevano dovuto scrivere quei versi
con ogni cura.
Di anno in anno Eugenia si faceva più bella e più sa·,
piente, e già passeggiava per i labirinti della dottrina
neoplatonica, allorché il giovane proconsole Aquilinus
s’innamorò di lei e la chiese a suo padre. Questi però era
tanto compreso di quella sua figliola che, malgrado la
patria potestà romana, non osò farle alcuna proposta e
rimise il pretendente alla volontà di lei ; e sì che Aquilinus
gli sarebbe stato il genero più benvenuto.
Ma anche Eugenia segretamente gli aveva messo gli
occhi addosso già da parecchio tempo, poiché era l’uomo
più bello e cavalleresco di Alessandria ed era considerato
persona di spirito e di cuore.
Tuttavia ella ricevette il console innamorato con cal­
ma dignitosa tra i suoi rotoli di pergamena, i due Hya­
cinthi dietro alla sedia. Il primo era vestito d’azzurro,
l’altro aveva un abito color di rosa, mentre lei indossava
una veste candida; un forestiero non avrebbe distinto
se erano tre bei fanciulli o tre vergini fiorenti.
Il vigoroso Aquilinus, avvolto in una toga semplice e
seria, si presentò dunque davanti a quel tribunale, ma
avrebbe preferito dare sfogo alla sua passione con tene­
rezza e intimità; vedendo però che Eugenia non licen­
ziava i due giovani, sedette davanti a lei e le fece la sua
domanda con parole brevi e ferme, durando fatica a do­
minarsi, perché teneva fissi gli occhi su di lei e ne ammi­
rava la vaga leggiadria.
Eugenia sorrise appena, senza arrossire, fino a tal se­
gno l’erudizione e la cultura avevano incatenato in lei i
moti normali del cuore. Prese dunque un’aria seria e
pensosa e rispose:
— Il tuo desiderio, Aquilinus, di prendermi in moglie
552 SETTE LEGGENDE

mi onora moltissimo, ma non deve trascinarmi a un’im­


prudenza; ché tale sarebbe se seguissimo il primo impulso
senza conoscerci a vicenda. La prima condizione che
dovrei porre al mio eventuale marito è che comprenda
e rispetti la mia vita spirituale e le mie aspirazioni e vi
prenda parte attiva. Tu sarai quindi il benvenuto, se
vorrai frequentare la mia casa ed esercitarti, in gara con
questi miei compagni, a sviscerare con me i massimi
problemi. Allora non mancheremo di scoprire se siamo
fatti l’una per l’altro, e dopo un certo periodo di attività
spirituale in comune saremo in grado di conoscerci come
si addice a esseri creati da Dio, desiderosi di vivere non
nelle tenebre, ma nella luce.
A questa solenne richiesta, Aquilinus, che si sentiva ri­
bollire dentro, replicò con orgoglio tranquillo :
— Se io non ti conoscessi, non ti avrei chiesta in moglie,
e quanto a me, mi conoscono la grande Roma e le pro­
vince. Se il tuo sapere non basta per capire fin d’ora chi
sono; temo che non basterà neanche in avvenire. Né sono
venuto per ritornare a scuola, ma per avere una compa­
gna nella vita; e a proposito di cotesti fanciulli, se tu mi
concedi la tua mano, il mio primo desiderio sarebbe che tu
li rimandassi ai loro genitori perché siano loro d’aiuto e
giovamento. E ora ti prego di dirmi il tuo pensiero, non
da scienziata, ma da donna in carne e ossa.
Ora si che la bella filosofessa s’era fatta rossa come un
garofano purpureo, e mentre il cuore le batteva forte
disse:
— Il mio pensiero è presto detto, perché capisco dalle
tue parole che non mi ami, o Aquilinus ! Ma questo mi
potrebbe essere indifferente, se non fosse indegno della
figlia di un nobile romano stare ad ascoltare delle men­
zogne !
— Io non mento mai ! — disse Aquilinus con freddez­
za — Addio!
Eugenia volse il capo senza rispondere al saluto, men­
tre Aquilinus usciva lentamente per tornarsene a casa.
Essa cercò di rituffarsi nei libri come nulla fosse stato;
ma lo scritto le si confondeva davanti agli occhi, sicché
EUGENIA 553

fece leggere i Hyacinthi, mentre i suoi pensieri ardenti


d’ira vagavano altrove.
Ché se fino a quel giorno il console le era sembrato
l’unico pretendente che avrebbe accettato, se mai, per
marito, ora le appariva come una pietra di scandalo e
non riusciva a passarci sopra.
Aquilinus d’altro canto sbrigava tranquillamente i suoi
affari e sospirava in segreto per la propria stoltezza che
non gli faceva dimenticare la bella pedante.
Passarono quasi due anni, durante i quali Eugenia di­
ventò sempre più avvenente e si fece un fiore di bellezza,
mentre i Hyacinthi erano ormai due giovanotti robusti
cui cominciavano a spuntare i baffi. Benché da tutte le
parti sorgessero delle critiche a quell’insolito rapporto
e, invece degli epigrammi ammirativi, facessero capolino
gli spunti satirici, Eugenia non sapeva decidersi a licen­
ziare quei suoi satelliti; o non era Aquilinus che glieli
aveva voluti vietare? Ma egli andava per la sua strada
e sembrava che non si curasse di lei; a sua volta però
non guardava altre donne e già si udiva qualche voce
di biasimo perché un funzionario par suo continuava a
vivere da scapolo.
Eugenia, ostinata com’era, si guardava tanto più dal
mandar via i compagni indecorosi per non dargli un
qualsiasi segno d’incoraggiamento; essa era anche affa­
scinata dall’idea di sfidare le comuni usanze e l’opinione
pubblica rendendo conto soltanto a se stessa e conservan­
do la coscienza della propria purezza in condizioni che
per tutte le altre sarebbero state pericolose e inaccettabili.
Si può dire che stravaganze di questo genere fossero
allora nell’aria.
Eppure Eugenia non era contenta; i suoi dotti ser­
vitori dovevano sprofondarsi nella filosofia del cielo,
della terra e dell’inferno, per essere interrotti all’improv­
viso coll’ordine di accompagnarla in campagna per ore
e ore, senza che lei si degnasse di rivolger loro la parola.
Una mattina volle recarsi a un suo podere; guidava il
cocchio da sé ed era di ottimo umore; era infatti una
limpida giornata primaverile e l’aria era pregna di pro-
554 SETTE LEGGENDE

fumi. I Hyacinthi si godevano quell’allegria e così attra­


versarono uno dei sobborghi dove era concesso ai cristiani
di tenere le loro funzioni. Era domenica e dalla chiesa di
un convento di frati veniva un canto devoto; Eugenia
fermò i cavalli per ascoltare ed afferrò le parole del sal­
modiarne: «Come la cerva agogna le fonti, così l’anima
mia te, o Dio ! L’anima mia è assetata di Dio, dell’Iddio
vivente».
Al suono di quelle parole cantate da bocche umili e
pie, la sua anima artificiosa finalmente si semplificò, il
suo cuore ne fu colpito e parve capire ciò che voleva.
Lentamente, senza far motto, essa proseguì verso il po­
dere. Là si vestì da uomo, fece cenno ai Hyacinthi e partì
con loro senza farsi scorgere dalla servitù. Ritornò al con­
vento, bussò e presentò al superiore sé e i suoi compagni
per giovani desiderosi di essere accolti nel convento al
fine di ritirarsi dal mondo e dedicarsi alle cose eterne.
Istruita com’era seppe rispondere così bene alle domande
del superiore che questi, persuaso di aver a che fare con
persone nobili e colte, li accolse tutti e tre facendo loro
indossare l’abito religioso.
Eugenia era un bel monaco, quasi angelico, e si chia­
mò frate Eugenius e i Hyacinthi, volere o no, si videro
trasformati in frati anche loro, senza che nessuno avesse
chiesto il loro consenso, tanto erano avvezzi a vivere
secondo la volontà di quella donna. Ma non si trovarono
male nella vita monastica, poiché le loro giornate erano
molto più tranquille, limitandosi la loro vita, senza al­
cun obbligo di studiare, all’ubbidienza passiva.
Frate Eugenius però non si concedeva riposo e diventò
un monaco celebre, dal viso bianco come il marmo, dagli
occhi ardenti, dal portamento d’arcangelo. Egli conver­
tiva molti pagani, curava i malati e i poveri, si sprofon­
dava nella Scrittura, predicava con voce d’oro squillan­
te, e, quando morì il superiore, fu eletto al suo posto,
sicché la gentile Eugenia ebbe sotto di sé settanta buoni
frati, grandi e piccoli.
Dopo la sua inesplicabile scomparsa insieme ai com­
pagni, suo padre non riuscendo a trovarla aveva mandato
EUGENIA 555
a interrogare un oracolo, il quale annunciò che Eugenia
era stata rapita dagli dèi e collocata tra le stelle. Infatti
i sacerdoti approfittarono dell’avvenimento per ostentare
ai cristiani un miracolo, mentre questi avevano ormai il
pollo in pentola. Si giunse persino a mostrare in cielo
una stella del firmamento con due piccoli satelliti, come
la nuova costellazione ; gli Alessandrini per le strade e sui
tetti delle case guardavano in alto, e più d’uno che l’a­
veva vista e ne ricordava la bellezza, se ne innamorò
allora e stette a fissare con gli occhi umidi la stella che
navigava tranquilla per la volta buia.
Anche Aquilinus guardò lassù; ma scosse la testa,
perché la faccenda non era abbastanza persuasiva. Tan­
to più fermamente invece ci credeva il padre della scom­
parsa, il quale si sentiva non poco lusingato e, coll’aiuto
dei sacerdoti, ottenne si erigesse una statua a Eugenia e
le si attribuissero onori divini. Aquilinus, dalla cui autori­
tà dipendeva la concessione, la diede a patto che si fa­
cesse l’immagine somigliantissima alla giovane rapita, il
che non era difficile, perché esisteva una gran quantità
di busti suoi e ritratti, sicché la statua marmorea fu col­
locata nel pronao del tempio di Minerva, dove gli dèi
e gli uomini potevano ammirarla ; infatti, nonostante la
somiglianza perfetta, era idealizzata nel capo, nel porta­
mento, nelle vesti.
Quando giunse al convento quella novella, i settanta
frati si adirarono profondamente, per la boria dei pagani,
per la creazione di un nuovo idolo e per l’adorazione
sfacciata di una donna mortale. Più di tutto tempesta­
vano contro la donna stessa, che appellavano vagabonda,
ciarlatana e imbrogliona, e durante il pasto si sollevò un
baccano fuori dell’ordinario. I Hyacinthi, che erano di-,
ventati due pretonzoli bonaccioni e tenevano sepolto nel
cuore il segreto del superiore, gli lanciarono un’occhiata
espressiva, ma egli fece loro cenno di tacere e lasciò che
gl’improperi e il tumulto gli si scatenassero addosso in
espiazione dello spirito peccaminoso di quando era pa­
gano.
Ma nella notte - poteva esserne passata la metà - Eu-
55θ SETTE LEGGENDE

genia si alzò dal suo giaciglio, prese un martello e uscì in


silenzio dal chiostro per cercare l’immagine e abbatterla.
Trovò facilmente il quartiere luccicante di marmi dove
sorgevano i templi e i palazzi pubblici e dove lei aveva
vissuto la sua giovinezza. Non c’era un’anima in quel
mondo di pietra silenzioso; e mentre il frate donna
saliva i gradini del tempio, la luna sorgeva sopra le om­
bre della città e versava il suo chiarore fra le colonne
del pronao. Eugenia vide allora la propria figura bianca
come la neve fresca, meravigliosamente leggiadra, con
le vesti pieghettate tirate modestamente sulle spalle,
che guardava sorridendo davanti a sé con l’espressione
estatica.
La cristiana si avvicinò con curiosità, alzando il mar­
tello; ma un brivido di dolcezza la scosse quando potè
vedere in pieno la bella immagine ; abbassò il martello e
stette ad ammirare il proprio passato. Una tristezza
amara la prese, l’idea di essere stata respinta da un
mondo più bello e di vagare, ombra sconsolata, in un
deserto ; che se la statua era elevata a un’espressione idea­
le, essa rappresentava appunto perciò quell’intima es­
senza di Eugenia che la sua pedanteria aveva soltanto
mascherato, né era vanità, ma un sentimento più nobile,
quello che le fece riconoscere la parte migliore di sé nel
magico chiarore della luna. Allora ebbe l’impressione di
aver giocato una carta falsa, per dirla modernamente,
poiché certo allora le carte non c’erano.
A un tratto si udì il passo rapido di un uomo; Eugenia
si nascose istintivamente nell’ombra d’una colonna e vide
avanzare la figura maschia di Aquilinus. Lo vide arre­
starsi davanti alla statua, contemplarla a lungo, cingerle
il collo con un braccio e baciare sommesso le labbra mar­
moree; avvolgersi poi nel suo mantello e allontanarsi len­
tamente, volgendosi più di una volta a riguardare l’im­
magine luminosa. Eugenia tremava così forte che se
n’accorse, e accesa d’ira violenta andò di nuovo contro la
statua col martello alzato per farla finita con quell’ap­
parizione vergognosa; ma invece di mandare in frantumi
la bella testa, scoppiò in lacrime e baciò anche lei quelle
EUGENIA 557
labbra, dandosi quindi alla fuga, perché s’udirono sonare
i passi della guardia notturna. Con grande angoscia
ritornò alla sua cella e non riuscì a pigliar sonno tutta la
notte, fino al levar del sole ; mentre poi perdeva il mat­
tutino, sognava un vortice di cose che non ci avevano
niente a che vedere.
I monaci rispettarono il sonno del superiore creden­
dolo conseguenza di veglie spirituali. Infine si videro
costretti a svegliare Eugenia perché c’era un dovere par­
ticolare da compiere. Una nobile vedova, che affermava
d’essere ammalata e bisognosa di assistenza cristiana,
l’aveva mandata a chiamare chiedendo il consiglio e il
conforto spirituale del superiore Eugenius, che ella ve­
nerava già da gran tempo. I monaci non volevano lasciar­
si sfuggire quella conquista che avrebbe accresciuto l’au­
torità della loro chiesa e svegliarono Eugenia. Ancora
sconvolta e con le guance dolcemente rosate come non le
s’eran viste da molto tempo, uscì, ma i suoi pensieri erano
più tra i sogni mattutini e tra le colonne del tempio not­
turno che tra le cose presenti. Entrò in casa della pagana,
e, introdotta nella sua stanza, vi fu lasciata sola con lei.
Una bella donna di forse trent’anni giaceva su un lettuc-
cio, ma non da malata e contrita, bensì ardente d’orgoglio
e vitalità. Durò fatica ad apparire calma e compunta,
finché invitò il sedicente monaco a prender posto accanto
a lei; allora gli prese le mani candide, vi premette la
fronte e le cosparse di baci. Eugenia, che, smarrita tra i
suoi pensieri, non aveva posto mente all’aspetto empio
della donna, e prendeva quel comportamento per umil­
tà e devozione, la lasciò fare, tanto che quella si sentì
incoraggiata e le buttò le braccia al collo, credendo di
abbracciare un bellissimo fraticello. Prima che se ne
rendesse conto, questi si sentì stretto appassionatamen­
te, mentre sulla sua bocca scendeva una gragnuola di baci
violenti. Tutta stordita Eugenia si destò finalmente dalla
sua distrazione, ma ci voi ; del buono e del bello prima
che le venisse fatto di sciogliersi da quell’abbraccio sel­
vaggio e di rizzarsi in piedi.
Ed ecco che la lingua del demonio pagano cominciò
558 SETTE LEGGENDE

a muoversi; con un turbine di parole quella diavolessa


confessò al frate atterrito il suo amore e il suo desiderio e
cercò di dimostrargli in tutti i modi che la sua bellezza e la
sua giovinezza avevano il dovere di appagare quel deside­
rio e che il suo compito era soltanto quello. E intanto conti­
nuavano l’assalto e le tenere seduzioni, tanto che Euge­
nia non sapeva come difendersi ; ma infine ritrovò la sua
energia, e, lanciando dagli occhi lampi di sdegno, diede
a quel mostro una tale lavata di testa e gli rispose con
tali maledizioni (soltanto un frate le sa trovare) che quel­
la, visto fallire il suo piano malvagio, si tramutò di colpo
e corse al ripiego, che fu già adottato dalla moglie di
Putifarre e poi da cento e mille altre. Balzò come una
tigre su Eugenia, la strinse tra le braccia d’acciaio, la
tirò a sé sul lettuccio levando alte strida, di maniera che
le ancelle si precipitarono da ogni parte.
«Aiuto! aiuto!» gridava «costui mi vuol fare violen­
za !» e in quella respinse Eugenia che rimase lì sbalordita,
senza fiato, atterrita.
Le donne accorse si misero a urlare anche più della
padrona, a correre di qua e di là, a chiamare soccorsi
maschili. Eugenia per lo spavento non seppe proferir
parola, e fuggì da quella casa con vergogna e ribrezzo,
inseguita dal gridio e dalle esecrazioni di quella gente
infuriata.
La vedova satanica non mancò di andare difilato,
con un buon seguito, dal console Aquilinus e di accusare
il frate dell’azione più abominevole, raccontando com’era
entrato ipocritamente in casa sua, prima per cercar d’im-
porle la conversione, poi, fallito il tentativo, per tentare
di rubarle l’onore con la violenza. Siccome il seguito
confermava la verità di quella deposizione, Aquilinus
indignato fece occupare a mano armata il convento e
portare al suo cospetto il superiore con tutti i frati per
giudicarli.
«Son coteste le vostre opere, infami ipocriti?» disse
loro con voce severa «Avete la cresta già tanto alta
che, appena tollerati, offendete l’onore delle nostre donne
e andate in giro come lupi affamati? Son queste le cose
EUGENIA 559
che v’ha insegnato e ordinato il vostro Maestro, che io
onoro più di voi, o mentitori? Certo che no. Siete una
banda di miserabili che vi ammantate d’un nome per
tesser di nascosto le vostre arti malvagie! Difendetevi,
se potete, contro l’accusa!».
La vedova svergognata ripete il suo racconto menzo­
gnero, simulando sospiri e lacrime. Quand’ebbe finito e
si fu riavvolta pudicamente nel suo velo, i monaci si
guardarono l’un l’altro spaventati, guardarono il loro
superiore, della cui virtù non dubitavano, e levarono le
loro voci per allontanare da sé la falsa accusa. Ma non
solo la servitù di quella bugiarda, bensì anche molti vicini
e passanti, che avevano visto uscire dalla sua casa il
superiore, confuso e vergognoso, e lo ritenevano quindi
colpevole, fecero testimonianza a gran voce, sopraffa­
cendo con le loro grida la difesa dei frati.
Questi fissavano ora gli occhi dubitosi sul superiore e
i più anziani tra loro notavano con sospetto la sua aria
giovanile. Dissero che, se era colpevole, non sarebbe sfug­
gito al giudizio di Dio, come per conto loro essi lo affida­
vano al giudice terreno !
Tutti gli occhi erano rivolti ad Eugenia che se ne stava
abbandonata in mezzo all’assemblea. L’avevano trovata
singhiozzante nella sua cella, quand’erano venuti ad
arrestarla insieme con gli altri frati, e tutto il tempo era
rimasta a occhi bassi col cappuccio tirato sulla fronte,
in una situazione assai penosa: poiché, se manteneva il
segreto della sua origine e del suo sesso, soggiaceva alla
falsa testimonianza, e, se si dava a conoscere, la bufera
contro il convento si sarebbe scatenata più violenta,
perché un convento con una bella giovane per superiore
doveva aspettarsi i sospetti più atroci e le beffe del
mondo pagano già maldisposto. Tuttavia non avrebbe
provato quei timori e quelle incertezze se il suo cuore, a
giudizio di monaco, fosse stato puro; ma già dalla scorsa
notte durava nel suo cuore un dissidio, e l’infausto in­
contro con la donna perfida l’aveva sconcertata più an­
cora, sicché non ebbe il coraggio di farsi avanti decisa e
produrre un miracolo.
560 SETTE LEGGENDE

Ma quando Aquilinus la invitò a parlare, ella si ricordò


del suo affetto, e con piena fiducia in lui trovò un ripiego.
Con voce piana e umile disse che non era colpevole e
l’avrebbe dimostrato al console se le concedeva di par­
lare sola con lui. Il suono di quella voce commosse Aqui­
linus senza ch’egli sapesse perché, e le accordò di par­
largli a quattr’occhi. La fece condurre a casa sua e si tro­
vò solo con lei in una stanza. Eugenia alzò allora gli oc­
chi, sollevò il cappuccio e disse:
— Io sono Eugenia, quella che tu desiderasti una
volta in moglie.
Egli la riconobbe subito e fu certo che fosse lei ; ma su­
bito si sentì ardere di rabbia e gelosia, perché la ritrovava
d’un tratto come colei ch’era vissuta tutto quel tempo
nascosta fra settanta monaci. Per questo si dominò e,
guardandola con occhio indagatore, fece finta di non
prestar fede alle sue parole, e disse:
— Tu somigli infatti a quella stolta giovane. Ma que­
sto non mi riguarda; voglio sapere invece che cosa hai
fatto con quella vedova.
Eugenia raccontò il fatto angosciata e intimorita, e
Aquilinus capì dal racconto tutta la falsità e cattiveria
dell’accusa, ma rispose con apparente freddezza:
— Se tu sei Eugenia, in che modo pretendi di esser
diventata un frate? Con quali intenzioni? e come fu
possibile?
A queste parole lei arrossì e chinò gli occhi imbaraz­
zata : ma non le dispiaceva di trovarsi lì e di poter final­
mente parlare di sé e della sua vita con un buon cono­
scente; perciò non si fece pregare e raccontò franca­
mente tutto quanto era avvenuto dal momento della sua
scomparsa ; salvo che non disse verbo dei due Hyacinthi.
A lui quel racconto fece buona impressione, e di minuto
in minuto gli riusciva più difficile nascondere il proprio
compiacimento per aver ritrovato la bella Eugenia. Ma
ancora si fece forza, desiderando sentire come s’era com­
portata sino alla fine, per esser sicuro di aver davanti a
sé l’Eugenia di una volta, onesta e pura.
Disse perciò:
EUGENIA 561

— Hai presentato bene la tua storia; ma a onta delle


sue stranezze non ritengo la giovane, che dici di essere,
capace di tali avventure troppo stravaganti; non foss’al­
tro, la vera Eugenia avrebbe preferito farsi monaca.
Qual merito, quale salute può essere infatti, sia pure per
la donna più colta e pia, un saio di frate, e la vita in
mezzo a settanta monaci? Credo quindi ancora che tu
non sia altro che uno sbarbatello simulatore ! Per di più
quella Eugenia fu dichiarata divina e abitante fra le
stelle, la sua immagine consacrata è nel tempio, e male
t’incoglierà se vorrai persistere nelle tue affermazioni sa­
crileghe.
— Quell’immagine, un tale l’ha baciata questa not­
te! — sussurrò Eugenia lanciando un’occhiata strana
ad Aquilinus che la fissava come un essere dotato di
chiaroveggenza ultraterrena — Come può lo stesso uomo
torturare l’originale?
Ma egli, lottando con la propria perplessità, finse di
non udire e continuò, freddo e severo:
— In breve, per l’onore di quei poveri frati cristiani
che mi sembrano innocenti, non posso, non voglio credere
che tu sia una donna. Prepàrati al giudizio, perché le tue
parole non m’hanno soddisfatto.
Eugenia allora gridò:
— Che Dio mi aiuti ! — e lacerò il suo saio, lasciandosi
cadere, disperata e vergognosa, pallida come una rosa
bianca. Aquilinus la accolse fra le braccia, la strinse al
cuore, avviluppandola nel suo mantello, mentre le sue
lacrime cadevano sul bel capo di lei ; poiché egli aveva ca­
pito ch’era una donna onesta. La portò nella stanza atti­
gua, la depose cautamente su un ricco lettuccio e la
coperse fino al mento di coltri purpuree. La baciò poi
sulla bocca, tre, quattro volte, usci e chiuse bene la porta.
Prese poi il saio ancora tepido che giaceva per terra, e,
presentatosi alla folla in attesa, parlò così: «Si tratta di
cose singolari. Voi monaci siete innocenti e potete rien­
trare nel vostro convento. Il vostro superiore era un de­
monio che voleva perdervi o sedurvi. Prendetevi la sua
tonaca e appendetela da qualche parte per memoria;
5θ2 SETTE LEGGENDE

infatti, dopo aver mutato stranamente forma davanti ai


miei occhi, si dileguò e scomparve senza lasciar traccia !
Cotesta donna invece, che si servì del demonio per man­
darvi in rovina, è sospetta di magia e sia messa quindi
in prigione. Tornate dunque tutti alle vostre case e state
di buon animo ! ».
Tutti stupirono a udir quel discorso e guardarono con
spavento la veste del demonio. La vedova impallidì e si
coprì la faccia, segno evidente che non aveva la coscienza
pulita. I buoni frati si rallegrarono della vittoria e se
n’andarono riconoscenti con la tonaca vuota, senza so­
spettare quanta dolcezza avesse racchiuso. La vedova fu
messa in prigione e Aquilinus chiamò il più fedele dei
suoi servi, e andò con lui dai mercanti per comperare un
mucchio di abiti femminili preziosissimi. Lo schiavo ave­
va l’incarico di portarli a casa di soppiatto, il più presto
possibile.
E il console entrò pian piano nella stanza di Eugenia,
si sedette sulla sponda del letto e vide che dormiva sapo­
ritamente come chi si ristora dai passati guai. Gli venne
da ridere di quella testa da frate coi capelli corti, neri,
vellutati, e vi passò leggermente la mano. In quella
Eugenia si destò e spalancò gli occhi.
«Vuoi essere finalmente mia moglie?» le domandò
Aquilinus dolcemente; ella non disse né sì né no, ma fu
scossa da un brivido sotto le coperte di porpora, nelle
quali era avvolta.
Aquilinus le portò allora tutti gli abiti e gli orna­
menti che occorrevano a quei tempi a una donna ele­
gante per vestirsi da capo a piedi, e uscì.
Quel giorno stesso, dopo il tramonto andò con lei e
coll’unico schiavo fidato in una delle sue ville di cam­
pagna, che sorgeva solitaria e deliziosa all’ombra di
alberi fitti.
Nella villa i due si sposarono in perfetta solitudine, e se
c’era voluto tanto tempo per unirsi, pure quel tempo
non parve loro perduto; al contrario, provarono una
profonda gratitudine per la felicità che s’erano serbati a
vicenda. Aquilinus dedicava le giornate al suo ufficio,
EUGENIA 5θ3
e si recava ogni sera coi cavalli più veloci da sua moglie.
Salvo che in certe giomatacce di pioggia e tempesta pre­
feriva partire più presto e arrivare alla villa d’improvviso,
per rallegrare Eugenia.
Questa, senza star troppo a discutere, si dedicava all’a­
more e alla fedeltà coniugale con la stessa perseveranza con
cui s’era data dianzi alla filosofia e all’ascesi cristiana. Ma
quando i suoi capelli ebbero riacquistato la lunghezza
dovuta, Aquilinus, inventando abilmente una favola, ri­
portò sua moglie ad Alessandria, la ricondusse dai suoi
genitori stupefatti e festeggiò le nozze sontuosamente.
Il padre fu alquanto stupefatto di ritrovare in sua figlia,
invece d’una dea immortale e d’una costellazione celeste,
una donna terrena innamorata, e vide con tristezza ri­
muovere l’immagine sacra dal tempio; ma - sia detto a
sua lode - il piacere di riavere in carne e ossa la figliola,
fattasi bella e amabile come non mai, ebbe il soprav­
vento. Aquilinus collocò la statua marmorea nella stanza
più bella della sua casa, ma si guardò bene dal baciarla
ancora, poiché ora aveva a portata di mano l’originale
vivente.
Quando Eugenia ebbe ben compreso la natura del ma­
trimonio, si accinse a convertire suo marito al cristiane­
simo, cui era rimasta fedele, e non si diede pace finché
Aquilinus non ebbe professato in pubblico la medesima
fede. La leggenda narra ancora che tutta la famiglia
ritornò a Roma al tempo di Valeriane, nemico dei
cristiani, e che durante le persecuzioni Eugenia diventò
una celebre martire, dando prova della sua grande forza
d’animo.
La sua influenza su Aquilinus crebbe talmente che da
Alessandria potè portarsi a Roma anche i due Hyacinthi,
i quali si acquistarono anche essi la corona del martirio.
Si dice che la sua intercessione valga particolarmente
per le scolare pigre, rimaste indietro negli studi.
LA VERGINE E IL DEMONIO

Amico, destati e vigila


Il diavolo ti gira costantemente intorno,
e se ti viene addosso,
sei già bell'e spacciato,
Silesius, Il pellegrino serafico, vi, 206

C’era una volta un certo conte Gebizo1 che aveva una


moglie di bellezza meravigliosa, un magnifico castello
con intorno la città e tanti beni da essere reputato uno
dei signori più ricchi e più felici del paese. E pareva che
accettasse quel giudizio altrui con animo grato, poiché
non solo offriva la sua splendida ospitalità, mentre la
sua bella e buona donna riscaldava come un sole i cuori
degli ospiti, ma esercitava anche ampiamente la carità
cristiana.
Fondava e dotava chiostri e ospedali, abbelliva chiese
e cappelle e nelle grandi ricorrenze donava abiti, cibi e
bevande a un grande numero di poveri, talvolta a delle
centinaia ; anzi voleva che ogni giorno, perfino quasi ogni
ora ci fosse nel cortile del suo castello qualche dozzina
di poveri a banchettare e a benedirlo, altrimenti la sua
casa, per bella che fosse, gli pareva deserta.
Ma con una tale liberalità illimitata si finisce col dar
fondo anche alle ricchezze più grandi, e cosi fu che il
conte, per appagare quella sua gran voglia di beneficare
gli altri, dovette ipotecare via via tutti i suoi possedi­
menti e, quanto più affondava nei debiti, tanto più molti­
plicava le donazioni e le feste dei poveri, per cattivarsi
di nuovo, come diceva, il favore del cielo. Infine impo­
verì del tutto, il suo castello si spopolò e andò in rovina;
ma egli continuò a scrivere, secondo l’antica abitudine,
atti di donazione, stolti e vani, non ricevendone altro che
beffe, e se gli veniva fatto di attirare di quando in quando
al suo castello qualche mendico cencioso, questi gli getta-
I. Nome d’invenzione dell’autore, dalla radice del verbo geben
(dare), che suggerisce l’idea di una persona che ama donare, ge­
nerosa.
LA VERGINE E IL DEMONIO 565

va dietro la magra broda portatagli innanzi e se n’andava


coprendolo di contumelie.
Una cosa sola non era mutata, la bellezza di sua mo-
glie Bertrade ; anzi, quanto più desolata era la casa, tanto
più luminosa appariva quella bellezza. E più Gebizo
diventava povero, tanto più crescevano la grazia, l’af­
fetto, la bontà di lei, di modo che tutte le benedizioni
del cielo sembravano piovere su quella donna e mille
uomini invidiavano il conte per il tesoro che gli era ri*
masto. Ma egli non se n’accorgeva e, quanto più la dolce
Bertrade si sforzava di allietarlo e raddolcirgli la sua mi­
seria, tanto più egli spregiava quel gioiello e si chiudeva
in una melanconia tetra e ostinata, fuggendo il mondo.
Venne un bel mattino di Pasqua, giorno in cui era
solito veder arrivare al suo castello schiere gioconde di
pellegrini, ed ebbe tanta vergogna della sua caduta ché
non ardì neanche andare in chiesa, e almanaccava di*
sperato come passare le belle feste piene di sole. La sua
donna, con le lacrime agli occhi e la bocca sorridente^
lo pregò invano di non accorarsi e di venire in chiesa coti
lei, fiducioso; egli si divincolò bruscamente e scappò a
nascondersi nei boschi, finché fosse passata la Pasqua.
Salendo, scendendo, di colle in colle, giunse in una
selva antica, dove c’era un laghetto cinto da enormi
abeti barbati che si specchiavano neri e in tutta la loro
altezza in quell’acqua profonda, creando un quadro te­
tro e cupo. Il suolo intorno al laghetto era coperto di
strani muschi sfrangiati che smorzavano ogni rumore di
passi.
Gebizo si mise a sedere e s’adirava contro Iddio per il
suo destino sciagurato che non gli dava neanche tanto
da togliersi la fame, dopo che egli aveva colmato di gioie
migliaia di persone, e gli ricompensava le sue buone azio­
ni con lo scherno e l’ingratitudine del mondo. 1
A un tratto scorse in mezzo al lago una barca con un
uomo di alta statura. Siccome il lago era piccolo e l’oc­
chio lo poteva abbracciare tutto, Gebizo non sapeva
spiegarsi donde fosse venuto quel barcaiolo, non avendolo
visto prima; fatto si è che era lì e con un solo colpo di
566 SETTE LEGGENDE

remo fu davanti al cavaliere, prima che questi si fosse


riavuto dallo stupore, e balzando a terra gli domandò
perché mai facesse quella faccia così agra. Siccome lo
sconosciuto, nonostante il bell’aspetto, aveva intorno alla
bocca e negli occhi un’aria di profondo malcontento,
risvegliò la fiducia di Gebizo, che vuotò liberamente il
sacco del suo dispetto e della sua rabbia.
— Tu sei uno stolto — replicò quell’altro — poiché
possiedi un tesoro più grande di tutto quanto hai perduto.
Se io avessi la tua donna che m’importerebbero le ric­
chezze, le chiese, i conventi, e tutti i mendicanti di que­
sto mondo?
— Dammi coteste cose, e prendi pure la mia donna ! —
disse Gebizo con una risata amara, e quegli di botto:
— D’accordo: cerca sotto il guanciale di tua moglie,
là troverai quel tanto che basti, per tutta la durata della
tua vita, a costruire ogni giorno un convento, e a sfamare
mille persone, dovessi campare cent’anni! In cambio
portami qua la tua donna, senza fallo, la vigilia di Santa
Valpurga !
A quelle parole gli guizzò dal buio degli occhi un lam­
po tale che ne scivolarono via due fiammelle rossastre
sulle maniche del conte e di lì sui tronchi degli abeti e
sul musco. Gebizo intese con chi aveva a che fare e
accettò la proposta. Quegli diede di piglio ai remi e
navigò fino in mezzo al lago, dove sprofondò nell’acqua
con tutta la barca e con un fragore simile alla sghignaz­
zata di cento campane di bronzo.
Gebizo, con la pelle d’oca, prese la via più breve e ri­
tornò al castello, andò a frugare nel letto di Bertrade e
trovò sotto il guanciale un vecchio libercolo che non
riuscì a leggere. Ma, nello sfogliarlo, ne uscivano zecchini
l’uno dopo l’altro. Appena se n’accorse, scese col libro
nella più profonda segreta d’una torre e sfogliò, durante
le feste pasquali, un bel mucchio d’oro da quell’opera
interessante.
Poi si fece vedere di nuovo nel mondo, riscattò tutti i
suoi possessi, chiamò numerosi operai perché gli riat­
tassero il castello facendolo più bello che mai, e si die­
LA VERGINE E IL DEMONIO 5θ7
de a far del bene come un principe appena incoronato.
Ma la sua opera più grande fu la fondazione di un’im­
mensa abbazia per cinquecento canonici, tra i più no­
bili e i più devoti, una vera città di santi e dottori, in
mezzo alla quale intendeva farsi seppellire a suo tem­
po: previdenza che gli parve opportuna per la salvez­
za dell’anima. Non predispose invece il sepolcro per la
moglie, perché, tanto, le aveva preparato un destino di­
verso.
Alla vigilia di Santa Valpurga, verso mezzogiorno,
fece sellare i cavalli e ordinò alla bella moglie di montare
sul suo cavallo da caccia, perché dovevano fare molta
strada. Le comandò altresì di non farsi accompagnare
da nessuno scudiero o servitore. La poveretta fu presa da
grande angoscia, e tremando tutta, mentì per la prima
volta durante il suo matrimonio, dandosi malata e pre­
gando il marito di lasciarla a casa. Ma siccome poco
prima aveva canterellato a mezza voce, Gebizo si stizzì
per quella menzogna e credette di potersi imporre a
maggior ragione. Ella dovette montare a cavallo, tut-
t’agghindata per giunta, e andò via col marito senza
sapere dove.
Erano circa a metà del viaggio, allorché arrivarono a
una chiesetta che Bertrade aveva fatto costruire a suo
tempo, di straforo, dedicandola alla Madonna. L’aveva
fatta per amore di un vecchio artista che per i suoi modi
scontrosi e poco gentili non otteneva lavoro da nessuno,
tanto che anche Gebizo, cui tutti si dovevano presentare
riverenti e ossequiosi, non lo poteva soffrire e lo lasciava
a mani vuote nonostante le sue numerose iniziative. Ella
aveva fatto costruire la chiesuola di nascosto e il maestro
vilipeso le aveva dimostrato la sua riconoscenza scol­
pendo nelle ore libere una Madonna di grazia squisita e
collocandola sull’altare.
Ora Bertrade desiderò di entrare in quella chiesina
per un momento a dirvi le sue orazioni, e Gebizo lasciò
fare ; pensava infatti che poteva averne bisogno. Ella sce­
se dunque da cavallo, e, mentre suo marito l’aspettava
fuori, entrò, si inginocchiò davanti all’altare e si racco­
568 SETTE LEGGENDE

mandò alla Vergine Santissima. In quella fu vinta da un


sonno profondo; la Vergine scese dall’altare, prese le
sembianze e l’abito della dormiente, uscì franca e spedita
e montò a cavallo continuando il viaggio a fianco del
conte invece di Bertrade.
Quel miserabile voleva ingannare ancora la sua donna,
e quanto più si avvicinavano alla meta con tanto mag­
gior cortesia cercava di distrarla; parlava del più e del
meno mentre la Vergine, fingendo di scuotere da sé ogni
ansietà, gli rispondeva con garbo. In amichevoli conver­
sari giunsero verso sera nella boscaglia selvaggia in riva
al lago, sopra il quale si libravano delle nuvole fulve;
gli antichi abeti buttavano gemme purpuree, come fanno
solo nelle primavere più doviziose; dal fitto un rosignolo
spettrale mandava i suoi gorgheggi con tanta forza che
parevano cembali e canne d’organo, e di tra gli abeti
sbucò in groppa a un morello lo sconosciuto, vestito con
sfarzo, un lungo spadone al fianco.
Si avvicinò con molta grazia, pur lanciando rapidamen­
te a Gebizo un’occhiataccia talmente feroce, che questi
si sentì accapponare la pelle ; del resto parve che nemme­
no i cavalli fiutassero sventura, poiché stettero tranquilli.
Gebizo buttò tremando le redini della sua donna allo
sconosciuto e diè di sprone fuggendo senza voltarsi a
riguardarla. Quegli strinse le redini in pugno avidamente
e via, come una bufera, tra gli abeti, mentre il velo e la
veste della bella donna svolazzavano e schioccavano al
vento, per monti e valli, sulle acque correnti, dove gli
zoccoli dei cavalli toccavano appena la spuma delle onde.
Incalzata dalla tempesta sibilante, una nube rosea e
profumata rotolava davanti ai destrieri e luceva nel cre­
puscolo; e il rosignolo volava invisibile davanti ai due, po­
sandosi di quando in quando sopra un albero, e l’aria
risuonava del suo canto.
Infine i colli e gli alberi cessarono e i due si trovarono
a cavalcare sopra una landa sconfinata dal cui mezzo
veniva, come da lontano lontano, il canto del rosignolo,
benché non ci fosse ombra d’albero o di ramo su cui
potesse posarsi.
LA VERGINE E IL DEMONIO 5θ9
A un tratto lo sconosciuto si fermò, balzò di sella e
aiutò la donna a scendere con l’attitudine di perfetto
cavaliere. Essa aveva appena toccato terra che intorno a
loro sbocciò un roseto alto quanto un uomo, con una
magnifica fontana e un sedile e, in alto, un cielo stel­
lato così luminoso che a quella luce si sarebbe potuto
leggere. La fontana aveva una vasca rotonda in cui al­
cuni diavoli, a quel modo che oggi si fanno i quadri vi­
venti, formavano e rappresentavano un bianco gruppo
marmoreo di belle ninfe seducenti. Queste versavano
acqua scintillante dal cavo delle mani, e dove la pren­
dessero lo sapeva soltanto il loro maestro e signore; l’ac­
qua faceva una musica dolcissima perché ogni zampillo
aveva un suono diverso e tutti insieme erano accordati
come un’arpa. Era, per così dire, una fisarmonica ad
acqua, nei cui accordi vibravano tutte le dolcezze della
prima notte di maggio confondendosi con le forme deli­
ziose delle ninfe; il quadro vivente infatti non stava fermo,
ma si moveva e mutava insensibilmente.
Non senza commozione quello strano signore condusse
la donna verso la panca pregandola di prendere posto,
ma poi afferrò con tenerezza violenta la sua mano e
disse con una voce da straziare i timpani: «Io sono l’e-
ternamente solo che cadde dal cielo! Soltanto l’amore
di una buona donna terrena nella notte di maggio mi fa
dimenticare il Paradiso e mi dà la forza di sopportare
l’eterna rovina. Unisciti a me e io ti renderò immortale,
ti darò il potere di far del bene e di impedire il male a
volontà !».
E con viva passione si strinse al petto la bella donna
che gli apriva le braccia sorridendo; ma in quel momento
la Vergine prese il suo aspetto divino e strinse il Maligno,
che ormai era prigioniero, violentemente tra le sue brac­
cia luminose. In un baleno scomparvero il giardino, la
fontana, l’usignolo; i demoni che avevano composto l’ar­
tistico quadro vivente fuggirono, spiriti malvagi, con ge­
miti e guaiti, piantando in asso il loro padrone che
senza un grido si dibatteva con forza titanica per svin­
colarsi dallo strazio di quella stretta.
57° SETTE LEGGENDE

Ma la Vergine si batteva con valore e non lo lasciava,


benché dovesse impegnare tutte le sue forze ; aveva nien­
temeno che l’intenzione di trascinare il Diavolo corbel­
lato davanti al Cielo e di legarlo agli stipiti esponendo la
sua miseria alle beffe dei beati.
Ma il Maligno cambiò tattica, stette fermo un mo­
mento e riprese la bellezza di una volta, di quand’era il
più bello degli angeli; in questo modo raggiunse quasi
la divina bellezza di Maria. Questa s’innalzava al mas­
simo grado; ma se la Madonna splendeva come Venere,
la bella stella vespertina, quegli brillava come Lucifero, la
stella mattutina, dimodoché si sparse sopra la landa buia
uno splendore come se i cieli stessi fossero discesi.
Quando la Vergine s’avvide d’essersi accinta a un’im­
presa troppo grave, ché le forze le cominciavano a man­
care, si accontentò di lasciare andare l’Inimico in cam­
bio della sua rinuncia alla moglie del conte, e le due
bellezze, la celeste e l’infernale, si divisero con grande
frastuono. La Vergine ritornò un po’ stanca alla sua
chiesina; il Maligno invece, incapace di sopportare a
lungo una metamorfosi e fiaccato e infranto in tutte le
sue membra, si trascinò per terra orrendamente malme­
nato, scodinzolante, come l’angoscia fatta persona. Gli
era andato ben male il pregustato idillio !
Intanto Gebizo, abbandonata la sua dolce compagna,
era andato errando sul far della notte e, precipitato in­
sieme col cavallo in un baratro, si era spaccato la testa
contro una roccia rimanendo morto sul colpo.
Bertrade invece continuò a dormire finché sorse il sole
del primo di maggio; allora si destò stupita del tempo
trascorso. Recitò subito Ì’Ave Maria e appena uscita sana
e salva dalla chiesetta trovò il suo cavallo come l’aveva
lasciato. Non stette ad aspettare il marito, ma ritornò a
casa allegra e contenta, poiché sentiva di essere scampata
da qualche grave pericolo.
Ben presto la salma del conte fu ritrovata e portata al
castello. Bertrade lo fece tumulare con grandi onori e
fece dire un’infinità di messe per lui. Ma tutto l’af­
fetto era scomparso in modo misterioso dal suo cuore,
LA VERGINE E IL DEMONIO 571

benché fosse ancora tenera e gentile come dianzi. La sua


alta Patrona in Paradiso le cercò quindi un altr’uomo che
più del defunto Gebizo fosse degno d’un affetto così bello,
e ciò sta scritto nella leggenda seguente.
LA VERGINE AL TORNEO

Maria chiamiamo un trono, un'arca ed un castello,


e torre e pianta e casa, la fonte e la marina,
giardino, stelle, luna, l’aurora e la collina:
ma com’è tutto in lei? Non è di questo mondo.
Silesius, II pellegrino serafico, iv, 42.

Gebizo aveva aggiunto ai precedenti tanti nuovi ter­


reni che Bertrade possedeva ormai una contea consi­
derevole; e tanto la sua ricchezza quanto la sua bel­
tà erano celebri in tutto l’impero. E siccome essa si
dimostrava umile e cortese verso chiunque, la conquista
di quella perla sembrava facile a tutti i gentiluomini,
agli intraprendenti e ai timidi, agli arditi e ai peritosi, a
grandi e piccoli; e chi l’aveva vista alcune volte si me­
ravigliava di non tenerla già per mano. Eppure era pas­
sato un anno e non era corsa ancora la voce che qualcuno
nutrisse buone speranze.
Anche l’imperatore sentì parlare di lei e, nel desiderio
che un feudo così importante cadesse in buone mani,
decise di far visita alla celebre vedova, e glielo annunciò
con una lettera benigna e cortese. Affidò la lettera a
Zendelwald, un giovane cavaliere che doveva passare di
là. Bertrade lo accolse con ospitalità cordiale come tutti
coloro che si presentavano nel suo castello; ed egli am­
mirò rispettosamente le sale magnifiche, le mura e i
giardini, e per di più s’innamorò perdutamente della
proprietaria. Ma non per questo si trattenne un’ora di
più e, assolto il suo compito e vista ogni cosa, prese com­
miato dalla dama e spronò via, unico tra quanti c’erano
stati che non pensasse di conquistarsi quel tesoro.
Era anche pigro nelle parole e nei fatti. Quando il suo
animo e il suo cuore si erano impadroniti di un’idea (e
vi si buttavano dentro sempre con ardore), Zendelwald
non sapeva risolversi a fare il primo passo verso la rea­
lizzazione perché la cosa gli sembrava conclusa non ap­
pena era chiara dentrq di lui. Quantunque conversasse
volentieri quando non c’era nulla da ottenere, al mo­
LA VERGINE AL TORNEO 573

mento buono non gli usciva una parola che gli avrebbe
potuto portar fortuna. La sua fantasia non precedeva
però soltanto la sua lingua, ma anche la mano, tanto
che, battendosi coi nemici, fu più volte lì lì per essere
sconfìtto, perché esitava a menar l’ultimo colpo, vedendo
in anticipo l’avversario ai suoi piedi. La sua tattica de­
stava quindi grande meraviglia in tutti i tornei, poiché
dapprima non si moveva nemmeno, e alla fine vinceva,
riscuotendosi solo quand’era alle strette.
Ora Zendelwald, tutto immerso nel pensiero della
bella Bertrade, se ne cavalcava verso il castello avito
che sorgeva su un’altura in mezzo a un bosco. Egli non
aveva altri sudditi che alcuni carbonai e spaccalegna, e
sua madre aspettava ogni suo ritorno con amara impa­
zienza, per vedere se una buona volta portasse a casa la
fortuna.
E quanto Zendelwald era neghittoso, altrettanto era
operosa e decisa la madre, senza che perciò gliene venisse
molto vantaggio, perché a sua volta aveva esagerato fa­
cendo valer troppo quelle sue qualità e riducendole quin­
di a cosa vana. Da giovane aveva cercato di pigliar ma­
rito al più presto ed era andata con tanta fretta e solleci­
tudine a caccia di occasioni, che aveva fatto proprio la
scelta peggiore, prendendo un individuo incauto e teme­
rario che diede fondo all’eredità, trovò la morte prema­
turamente e non le lasciò altro che una lunga vedovanza,
la povertà e un figliolo incapace di muoversi per acchiap­
pare la buona ventura.
La famiglia si nutriva soltanto del latte di alcune ca­
pre, di frutta silvestri e di selvaggina. La madre di Zen­
delwald era una perfetta cacciatrice e con la sua bale­
stra uccideva a volontà colombe selvatiche e pernici;
pescava anche le trote nei torrenti, e dove il lastrico del
castello mostrava qualche falla lo aggiustava da sé con
calce e pietra. Era appunto ritornata a casa con una
lepre uccisa e, mentre la stava appendendo alla finestra
della cucina, guardò giù per la valle e vide il suo figliolo
che cavalcava verso casa; allora calò il ponte con gioia,
perché egli ritornava dopo molti mesi.
574 SETTE LEGGENDE

Cominciò tosto a indagare se il figlio non avesse acciuf­


fato la fortuna pel codino o almeno per una piuma e se
portasse buone notizie, e, quand’egli raccontò come al
solito gli avvenimenti insignificanti dell’ultima campa­
gna, cominciò a scuotere il capo adirata; e allorché ac­
cennò all’ambasciata presso la bella e gentile Bertrade e
ne magnificò la grazia e la bellezza, lo rimproverò aspra­
mente, dandogli del poltrone e del fannullone per la sua
ingloriosa partenza. In seguito si accorse che Zendelwald
non pensava ad altro che alla signora lontana, e allora
diventò anche più impaziente perché egli, pur avendo in
cuore una così nobile passione, non sapeva a che santo
votarsi e l’amore gli era più d’impedimento che di sprone.
Perciò non si può dire che egli passasse giorni lieti ; sua
madre gli teneva il broncio e, un po’ per la rabbia un po’
per il desiderio di distrarsi, si mise a riparare il tetto caden­
te della torre, sicché Zendelwald stava in pena vedendola
arrampicarsi lassù. Lei buttava giù ogni tanto le tegole
rotte e poco mancò che non accoppasse un cavaliere fore­
stiero che stava appunto entrando a chiedere ospitalità
per la notte.
Costui però riuscì a destare la cortesia dell’aspra ca­
stellana, raccontando a cena molte belle cose, e tra que­
ste che l’imperatore era arrivato al castello della bella
vedova, dove si passava di festa in festa, e la dolce signora
era continuamente assediata dall’imperatore e dai suoi
vassalli affinché scegliesse tra questi un marito. Essa però
era ricorsa a uno stratagemma e aveva indetto un grande
torneo promettendo la sua mano a chi avesse vinto tutti
gli altri, nella fiducia che la sua protettrice, la Vergine
divina, sarebbe intervenuta per guidare il braccio a chi
era degno di lei.
«Questa sarebbe un’impresa per voi;» concluse colui
rivolgendosi a Zendelwald «un cavaliere bello e giovane
come voi non dovrebbe lasciarsi sfuggire l’occasione di
conquistarsi quel che c’è di meglio oggidì secondo i con­
cetti umani ; dicono pure che la signora nutra la speranza
di incontrare in questo modo non so che fortuna ignorata,
come a dire un eroe povero e valoroso da tenersi poi
LA VERGINE AL TORNEO 575

nella bambagia, mentre non nutre alcuna simpatia pei


grandi conti e i pretendenti vanitosi».
Quando il forestiero se ne fu andato, la madre disse:
«Scommetterei che fu Bertrade stessa a mandare questo
messaggio per metterti sulla buona strada, mio caro
Zendelwald! Lo vedrebbe un cieco; che motivo avrebbe
quel tizio, che s’è asciugato il nostro ultimo boccale di
vino, di aggirarsi per questi boschi?».
A queste parole il figlio scoppiò in una risata e conti­
nuò a ridere sempre più forte, un po’ per l’assurdità
evidente delle, fantasie materne e un po’ perché, in fondo,
quelle fantasie gli andavano a genio. Il solo pensiero che
Bertrade potesse desiderare di averlo gli aumentava l’ila­
rità. Ma la madre, pensando che ridesse per farsi beffe
di lei, si adirò ed esclamò: «Ascoltami dunque! Se non
ubbidisci e non parti sui due piedi per conquistarti quella
fortuna, avrai la mia maledizione. Non ritornare senza
di lei perché non ti vorrei più vedere. E se tu osassi ritor­
nare, prenderei le mie armi e me n’andrei a cercarmi
una tomba dove non mi dia noia la tua stoltezza!».
Non c’era dunque da scegliere; per amor di pace,
Zendelwald preparò sospirando le armi e se n’andò in
nome di Dio verso il castello di Bertrade senza essere
ben persuaso di arrivarci. Tuttavia si tenne per la via
giusta, e quanto più si avvicinava alla meta tanto più
prendeva forma in lui il pensiero che, in fondo, poteva
anche mettersi seriamente in quell’impresa come qua­
lunque altro e, una volta liberatosi dai rivali, non era
poi la morte tentare un balletto con la bella signora.
E nella sua fantasia l’avventura si delineava e arrivava a
termine felicemente, anzi mentre cavalcava tra la ver-
zura estiva teneva dolci discorsi alla sua bella, dicendole
le più belle trovate in modo che lei arrossiva e raggiava
di gioia, beninteso nel suo pensiero.
A un tratto, mentre stava immaginando una di quelle
scene deliziose, vide splendere realmente sopra le monta­
gne azzurre le torri e i pinnacoli del castello nel sole
mattutino, e scintillare da lontano le balaustrate dorate,
e ne fu tanto sbigottito che tutti i suoi sogni dileguarono
57θ SETTE LEGGENDE

e non gli rimase altro che il suo cuore sgomento e irre­


soluto.
Fermò il cavallo involontariamente e cercò, tentennone
com’era, un rifugio. Vide allora una graziosa chiesina,
quella stessa che Bertrade aveva eretto un giorno alla
Madre di Dio e in cui aveva fatto quel tal sonno. Egli
decise tosto - di entrarvi in pio raccoglimento, tanto più
che era proprio il giorno del torneo.
Il prete stava dicendo la messa cui assistevano sola­
mente due o tre poveri diavoli, che si sentirono non poco
onorati per la presenza del cavaliere ; quando la funzione
fu finita e il prete e il sagrestano furono usciti, Zendelwald
si sentì tanto bene in quel luogo che pian piano si addor­
mentò, dimenticando il torneo e la bella, se pur non ebbe
a sognarla.
Di nuovo la Vergine Maria scese dal suo altare, prese
le sue sembianze e la sua armatura, montò sul suo ca­
vallo, e si avviò in vece sua al castello, Brunilde ardita, a
visiera calata.
Dopo un po’ incontrò lungo la via un mucchio di cal­
cinacci grigi e di stipe secche. Al suo occhio attento la
cosa sembrò sospetta ed essa notò che in quel mucchio
sporgeva come la punta di una coda di serpente. Capì
che era il diavolo che, ancora innamorato, si aggirava nei
pressi del castello e al sopraggiungere della Vergine s’era
nascosto rapidamente tra quelle macerie. Facendo finta
di non accorgersi passò oltre, ma fece abilmente fare al
cavallo un salto a lato, in modo che la sua zampa colpì
quella coda sospetta. Il Maligno balzò via sibilando e
non si fece più vedere.
Messa di buon umore da quella piccola avventura,
s’avviò serenamente al castello di Bertrade dove giunse
quando erano rimasti i due campioni più forti per l’ul­
tima tenzone.
Lenta e dimessa, proprio come Zendelwald, arrivò nel­
la piazza e parve indecisa se dovesse o meno entrare in
lizza.
«Ecco di nuovo il pigro Zendelwald» si udì mormo­
rare, e i due prodi cavalieri dissero: «Che vuole costui?
LA VERGINE AL TORNEO 577
Sbarazziamoci di lui prima di decidere tra noialtri!».
Uno dei due era detto «Gallo il Rapido». Egli soleva
caracollare come un turbine cercando di sbalordire l’av­
versario con mille trucchi e vincerlo coll’astuzia. Il pre­
sunto Zendelwald dovette combattere anzitutto con lui.
Questi aveva un par di baffi neri come la pece, le cui pun­
te erano attorte e tanto rigide che ne pendevano due
campanelline d’argento senza riuscire a piegarli col loro
peso e, quando moveva la testa, esse tintinnavano. Se­
condo lui quello scampanellìo doveva essere lo spavento
del nemico e il compiacimento della sua dama ! Quando
egli moveva lo scudo, questo cangiava colore, e i cambia­
menti erano tanto rapidi che l’occhio ne restava abbaci­
nato. Per cimiero aveva sull’elmo un’enorme coda di
gallo.
L’altro cavaliere si chiamava «Topo l’Innumerevole»
e ciò voleva dire che bisognava ritenerlo pari a un im­
menso esercito. A indicare la sua forza si era lasciato cre­
scere per sei pollici i peli che gli uscivano dalle narici e
ne aveva fatto due treccine che gli scendevano sulla bocca,
ornate in fondo da due fiocchetti rossi. Sopra l’armatura
portava un ampio mantello che lo nascondeva quasi
tutto insieme al cavallo ed era composto di mille pellic-
cette di topo. Sulla cresta dell’elmo si aprivano due ali
di pipistrello, di sotto alle quali lanciava sguardi minac­
ciosi dagli occhi a mandorla.
Quando fu dato il segnale della battaglia con Gallo il
Rapido, questi andò contro la Vergine aggirandola con
sempre maggior velocità, cercando di abbagliarla con lo
scudo e vibrando mille colpi di lancia contro di lei. La
Vergine non si mosse dal suo posto in mezzo alla lizza e
parava i colpi con la lancia e lo scudo facendo girare il
cavallo sulle zampe posteriori in modo da offrire sempre
la faccia all’avversario. Visto ciò Gallo si allontanò a un
tratto, si volse e si lanciò contro di lei con la lancia in
resta per buttarla di sella. La Vergine lo aspettava im­
mobile; ma uomo e cavallo sembravano fusi nel bronzo,
tanto erano saldi, e quel poveraccio, che non sapeva di
combattere contro una potenza superiore, incontrando
578 SETTE LEGGENDE

la lancia di lei, mentre la sua si spezzava contro quello


scudo come un fuscello, volò di sella e giacque sul ter­
reno. La Vergine balzò tosto da cavallo, pose un ginoc­
chio sul petto di lui, che sotto quella pressione formidabile
non poteva muoversi, e gli tagliò con un pugnale i due mu­
stacchi con le campanine d’argento, che infilò nella sua
tracolla, mentre le fanfare annnunciavano la sua vittoria,
o meglio quella di Zendelwald.
Poi venne in ballo il cavaliere Topo l’Innumerevole.
Egli mosse all’assalto con tanta violenza che il suo man­
tello svolazzò nell’aria come una nuvola grigia e minac­
ciosa. Ma la Vergine, che adesso sembrava cominciasse a
prender gusto alla lotta, gli si parò contro con egual vio­
lenza, lo buttò di sella al primo urto e, poiché Topo si
rialzò rapidamente, balzò da cavallo e sguainò la spada
per combattere a piedi. I colpi che cominciarono a gran­
dinargli fitti sulla testa e sulle spalle lo stordirono tanto
che sollevò il mantello con la sinistra per mettersi al ri­
paro e buttarlo al momento buono sulla testa dell’avver­
sario. Ma in quella la Vergine infilò con la punta della
spada una cocca del mantello e vi inviluppò Topo l’In­
numerevole da capo a piedi, in modo che dopo un mo­
mento sembrò un’enorme vespa dentro una ragnatela e
giacque a terra tremante.
Allora la Vergine cominciò a tribbiarlo a furia di
piattonate con tanta agilità che il mantello si scompose
nei suoi elementi e le pelliccette di topo volarono all’in-
giro oscurando l’aria e provocando le matte risate degli
spettatori, mentre il cavaliere rivenne a galla e se n’andò
zoppicando dopo che il vincitore gli ebbe reciso le trec-
cioline infiocchettate.
E cosi la Vergine che simulava Zendelwald rimase
vincitrice sul campo.
Allora alzò la visiera e salì verso la regina della festa,
piegò un ginocchio e mise ai suoi piedi i trofei. Poi si al­
zò, rappresentando uno Zendelwald meno timido del so­
lito. Ma senza vincer troppo la sua modestia salutò Ber-
trade con uno sguardo di cui ben sapeva l’efficacia su un
cuore femminile ; insomma seppe comportarsi da amante
LA VERGINE AL TORNEO 579
e da cavaliere tanto bene che Bertrade non ritirò la sua
parola, ma diede ascolto all’invito dell’imperatore, che
finalmente era lieto di veder potente un uomo così nobile
e valoroso.
Si svolse allora un grande corteo fino al parco dei tigli
in cui era preparato il banchetto. Bertrade sedeva tra
l’imperatore e il suo Zendelwald; ma fu opportuno mette­
re accanto al sovrano un’ospite vispa, poiché Zendelwald
non lasciava tempo alla sua sposa di parlare con altri,
tanto abilmente e teneramente la intratteneva. Si capiva
che le diceva parole molto garbate perché lei sorrideva
beata. In tutti fiorì la gioia più serena. In alto, sotto le
volte fronzute, gli uccelli cantavano gareggiando con gli
strumenti musicali, una farfalla si posò sull’aurea corona
dell’imperatore e i calici di vino olezzavano, come per
una benedizione speciale, di viole e resede.
Ma soprattutto Bertrade si sentiva tanto felice che, te­
nendo Zendelwald per mano, pensava nel suo cuore alla
divina protettrice e le diceva in silenzio una preghiera
di commossa gratitudine.
La Vergine Maria, che stava appunto al suo fianco,
lesse quella preghiera nel suo cuore e fu tanto lieta della
pia riconoscenza della sua protetta che abbracciò Ber­
trade teneramente e le diede sulla bocca un bacio che
riempì, come ben si comprende, l’animo della dolce
creatura di beatitudine celestiale ; poiché quando i celesti
fanno i confetti, è certo che riescono dolci.
L’imperatore e il suo seguito applaudirono allora il
presunto Zendelwald e alzando i calici fecero un brin­
disi alla salute della bella coppia.
Il vero Zendelwald si destò in quella dal suo sonno
intempestivo e capì dal sole che il torneo doveva essere
finito. Benché gli fosse ormai risparmiata ogni fatica, si
sentì molto triste e infelice perché avrebbe pur sposato
volentieri Bertrade. Per di più non poteva ritornare da
sua madre, e quindi decise di fare il cavaliere errante scon­
solato, finché la morte lo liberasse dalla sua esistenza
inutile. Senonché volle vedere ancora una volta la donna
amata e imprimersi nella mente le sue sembianze affin-
58o SETTE LEGGENDE

che gli fosse sempre presente qual bene aveva perduto.


Arrivò dunque al castello. Mischiandosi tra la folla udì
proclamare da tutti le lodi e la buona sorte di un certo
povero cavaliere Zendelwald e, con un’amara curiosità di
conoscere il fortunato omonimo, scese da cavallo e si fece
strada tra la calca finché giunse al margine del parco in
un punto elevato donde poteva dominare tutta la festa.
Allora vide accanto alla corona sfavillante del re la
faccia raggiante della donna amata e vicino a lei se stesso
in carne ed ossa. Pallido di stupore e quasi esanime vide
come il suo sosia abbracciava e baciava la sposa; allora
avanzò inosservato tra i convitati soffermandosi dietro ai
due col tormento di una strana gelosia. In quel mo­
mento la Vergine scomparve e Bertrade si volse spaven­
tata. Ma vedendo Zendelwald dietro a sé rise di gioia e
disse: «Dove vuoi andare? Vieni e resta con me!». E
presolo per mano se lo fece sedere accanto.
Per sincerarsi che non era un sogno egli prese il calice
che aveva davanti e lo vuotò d’un fiato. Il vino fece buo­
na prova e versò nelle sue vene nuova vita e fiducia;
di buon umore si volse alla donna sorridente e la guardò
negli occhi; questa allora riprese la conversazione in­
tima interrotta poco prima. Zendelwald non capiva in
che mondo fosse quando Bertrade gli diceva parole ben
note, alle quali egli rispondeva senza riflettere con altre
parole che aveva già detto altrove; anzi dopo un po’ si
accorse che il suo predecessore doveva aver avuto con lei
lo stesso colloquio che egli si era immaginato fantasti­
cando durante il viaggio; a buon conto lo continuò per
vedere come andava a finire.
Ma non andò punto a finire, anzi quel giuoco fu sem­
pre più edificante poiché, tramontato il sole, si accesero
le fiaccole e tutta la brigata si ritirò nella sala maggiore
del castello per darsi alle danze. Quando l’imperatore
ebbe fatto il primo giro con la sposa, Zendelwald la prese
a braccio e danzò con lei tre o quattro volte intorno alla
sala finché, rossa in viso, lei lo prese per mano e lo con­
dusse in una veranda inondata dal chiaro di luna. Lì si
strinse al suo petto, gli accarezzò la barba bionda e lo
LA VERGINE AL TORNEO 581

ringraziò per la sua venuta e il suo affetto. Ma l’onesto


Zendelwald voleva sapere se sognava o era desto e le
domandò come stessero le cose a proposito del suo omo­
nimo. Ci volle del bello e del buono prima che lei capisse,
ma, una parola dopo l’altra, egli le descrisse il suo viaggio,
la sua sosta nella chiesetta e come si era addormentato
e come aveva fatto tardi per il torneo.
Allora Bertrade comprese che c’entrava la sua Patro­
na. Ora poteva considerare il buon cavaliere come un
dono del cielo e fu tanto grata da stringersi al cuore quel
regalo sicuro e ridargli in pieno il bacio che lei aveva
ricevuto dal cielo.
Ma da quel momento il cavaliere Zendelwald si liberò
dalla sua pigrizia e indecisione di sognatore; parlava e
agiva a tempo debito sia davanti a Bertrade che davanti
al mondo e divenne un perfetto gentiluomo, tanto che
l’imperatore non fu meno contento di lui che Bertrade.
La madre di Zendelwald venne alle nozze a cavallo
e tanto orgogliosamente come se per tutta la vita avesse
nuotato nell’oro. Essa amministrava i beni e fino alla
sua tarda età andò a caccia nelle ampie foreste, mentre
Bertrade non mancò di farsi condurre una volta all’an­
no nel solitario castello avito di Zendelwald, dove se ne
stava col suo amore nella torre grigia come sugli alberi i
piccioni selvatici. Ma non dimenticarono mai di andare
a pregare in quella chiesetta davanti alla Vergine, che se
ne stava sull’altare santamente tranquilla come se non ne
fosse mai discesa.
LA VERGINE E LA MONACA

0Λ, avessi io l’ale, come le colombe!


io me ne volerei in cerca di pace.
Salmi 55, 7.

C’era sulla vetta d’un monte un convento le cui mura


dominavano il paese. Dentro c’erano molte dame, belle
e non belle, che servivano il Signore e la Vergine Madre
secondo una regola severa.
La più bella delle monache si chiamava Beatrix ed
era la sagrestana del monastero. Alta e slanciata, faceva
il suo dovere con nobile portamento, si occupava del coro
e dell’altare, lavorava in sagrestia e sonava le campane la
mattina prima dell’aurora e la sera quando spuntava la
stella di vespro.
Ma ogni tanto guardava con gli occhi umidi il palpito
lontano delle campagne azzurre, vedeva lampeggiare ar­
mi, udiva dai boschi il corno dei cacciatori e le grida degli
uomini e il suo petto era gonfio di nostalgia del mondo.
Non potendo reprimere più a lungo il suo desiderio si
alzò in una notte di luna (era di giugno), calzò le sue
scarpe più robuste e, pronta a partire, si fermò davanti
all’altare: «Son già parecchi anni che ti servo fedel­
mente» disse alla Vergine Maria «ma ora prendi tu le
chiavi perché io non posso sopportare più a lungo il
fuoco che mi brucia nel cuore». Così facendo posò sul­
l’altare il mazzo delle chiavi e uscì dal convento. Scese
dal monte solitario finché giunse in mezzo a un bosco
di querce dove si fermò a un bivio, incerta sulla via da
prendere ; sedette perciò su di una panca presso una fonte
che per comodità dei viandanti si raccoglieva in una va­
sca. Rimase lì, bagnata di guazza, fino al levar del sole.
Quando il sole sorse sopra le fronde degli alberi, i suoi
primi raggi caddero su un magnifico cavaliere che se ne
veniva tutto solo e armato per la strada del bosco. La
monaca gli fissò gli occhi addosso con la massima atten­
zione senza che nulla le sfuggisse di quel virile aspetto;
ma rimase tanto immobile che il cavaliere non l’avrebbe
LA VERGINE E LA MONACA 583

veduta, se il chioccolio della fontana non gli fosse giunto


agli orecchi attirando il suo sguardo. Egli deviò tosto
verso la fonte, scese da cavallo e lo abbeverò salutando
rispettosamente la monaca. Era un crociato che se ne
ritornava a casa solo soletto dopo lunga assenza, avendo
perduto tutti i suoi compagni.
Nonostante il suo rispetto non staccava però gli occhi
dalla bellezza di Beatrix, la quale faceva altrettanto am­
mirando incantata il guerriero : era già un pezzo conside­
revole di quel mondo che lei aveva tanto desiderato in
segreto. Ma a un tratto chinò gli occhi vergognandosi. In­
fine il cavaliere le domandò dove fosse diretta e se poteva
esserle utile in qualche modo. Il suono di quelle parole la
scosse; lo guardò di nuovo e, affascinata dai suoi occhi,
confessò che era fuggita dal convento per vedere il mondo,
che aveva paura e non sapeva a che santo votarsi.
Il cavaliere, che non era sciocco, rise di tutto cuore e le
propose di portarla su una buona strada se voleva affi­
darsi a lui : il suo castello era a una giornata di viaggio e,
se non le dispiaceva, lei vi si poteva preparare e, dopo
matura ponderazione, poteva lanciarsi di lì per le vie
del mondo.
Lei non rispose nulla, ma non oppose neanche resi­
stenza, quand’egli la mise in sella ; balzò a cavallo anche
lui e, tenendo davanti a sé la monaca rossa in viso e
tremante, trottò allegramente per boschi e campagne.
Per qualche centinaio di passi essa si tenne ritta guar­
dando fisso dinanzi a sé e appoggiando una mano sul
petto di lui. Ma ben presto il suo viso si trovò contro
quel petto, tollerando i baci che il cavaliere vi stampava,
e trecento passi più in là cominciò a ricambiarli con
tanto ardore, come non avesse mai sonato la campana
d’un convento. In tali condizioni non vedevano nulla
del paese che attraversavano e la monaca, che aveva
tanto desiderato di vedere il mondo, ora se ne stava a
occhi chiusi limitandosi al territorio che un cavallo riu­
sciva a portare in groppa.
Anche Wonnebold, il cavaliere, non pensava al ca­
stello dei suoi padri, finché non ne vide splendere da
584 SETTE LEGGENDE

lontano le torri nella luce dell’alba. Ma nei dintorni re­


gnava un ampio silenzio e nel castello il silenzio era anco­
ra più profondo; non si vedeva neanche un lume acceso.
Il padre e la madre di Wonnebold erano morti, tutta la
servitù s’era allontanata, salvo il castellano, un vecchio
tutto grinze, che dopo un gran bussare comparve final­
mente con una lanterna e fu quasi per morire dalla gioia
vedendo il cavaliere nel vano del portone aperto a fatica.
Il vecchio, malgrado gli anni e la solitudine, aveva man­
tenuto però l’interno del castello in condizioni abitabili
e la stanza del cavaliere era sempre pronta, perché po­
tesse riposare, quando fosse ritornato dalle sue peregri­
nazioni. Beatrix dunque si giacque con lui e appagò il
suo desiderio.
Non pensavano affatto a dividersi l’uno dall’altra.
Wonnebold apri le cassapanche di sua madre e Beatrix
vestì quegli abiti ricchissimi e si adomò di quei gioielli;
così vissero dapprima allegramente, se non che la donna
era senza nome e senza diritti, poiché il suo amante la
considerava come una proprietà; d’altronde, per il mo­
mento, essa non desiderava di meglio.
Ma un giorno arrivò al castello, che nel frattempo si
era ripopolato di servi, un barone forestiero col suo segui­
to, e in suo onore si fecero grandi feste. Infine i cavalieri
si misero anche a giocare ai dadi e il padrone di casa ebbe
tanta fortuna al giuoco, che, nell’ebbrezza della vittoria
e nella certezza di vincere, rischiò la cosa che gli era più
cara, cioè la bella Beatrix, così com’era, con tutti i
gioielli preziosi che aveva indosso, contro un vecchio ca­
stello melanconico puntato sorridendo dall’avversario.
Beatrix che aveva assistito al giuoco con piacere im­
pallidì, e a ragione, poiché i dadi piantarono in asso quel
temerario e la diedero vinta al barone.
Questi se ne partì senza indugio con la dolce vincita
e col suo seguito. Beatrix fece appena in tempo a raccat­
tare quei dadi sciagurati e a nasconderli in seno, e seguì
poi, piangendo a calde lacrime, il vincitore inesorabile.
Dopo alcune ore il breve corteo giunse in un ameno
boschetto di giovani faggi, dove scorreva un limpido ru­
LA VERGINE E LA MONACA 585

scello. Come una tenda di seta leggera si libravano in alto


le tenere fronde sostenute dagli agili tronchi d’argento e
coprivano il bel paesaggio estivo. Il barone decise di fer­
marsi lì con la sua preda. Fece passare avanti per un
tratto la sua gente e si sdraiò sul verde luminoso con
Beatrix, cercando di tirarla a sé con le sue carezze.
Ma quella si alzò fieramente e, lanciandogli uno sguar­
do infocato, esclamò che egli aveva bensì guadagnato il
suo corpo, ma non già quel cuore che non era giusto ba­
rattare con delle vecchie muraglie. Se era un uomo,
mettesse in giuoco una cosa più degna. «Arrischiate, per
esempio, la vostra vita; tiriamo i dadi, e se voi vincete, il
mio cuore vi apparterrà per sempre, se invece vinco io,
la vostra vita sarà nelle mie mani e io potrò di nuovo
disporre di me stessa».
Disse ciò con grande serietà, e fissandolo in un modo
così strano, che ora il cuore di lui cominciò a battere ed
egli la guardò sconcertato. Pareva che lei si facesse
sempre più bella, allorché continuò con voce più som­
messa e con uno sguardo interrogativo: «Chi vorrà pos­
sedere una donna senza esserne riamato e senza che lei
sia convinta del suo coraggio? Datemi la vostra spada,
prendete i dadi e osate, perché ci possa unire, se mai, un
amore leale». In quella gli porse i dadi d’avorio ancora
tiepidi del suo seno. Confuso com’era, egli le consegnò
la spada insieme con la cintura, tirò per primo e fece un­
dici punti.
Beatrix prese i dadi, li scosse tra le mani cave e, levan­
do un sospiro segreto alla Madre di Dio, giocò e vinse
con dodici punti.
«Vi dono la vostra vita!» disse, fece un inchino al
barone, raccolse i lembi della sua veste e, con la spada
sotto il braccio, si allontanò rapidamente per dove erano
venuti. Ma appena fu tanto lontana da non essere vista
dal cavaliere sbalordito e distratto, non continuò per la
sua via, ma girò astutamente nel faggete nascondendosi
a cinquanta passi dal cavaliere, dietro i tronchi degli al­
beri, che a quella distanza erano abbastanza fitti per na­
sconderla alla meglio. Essa se ne stette immobile; sol­
586 SETTE LEGGENDE

tanto un raggio di sole colpì una gemma che aveva al


collo facendola brillare nel boschetto senza che lei se ne
accorgesse. Il barone notò quel luccichio e vi fissò per
un momento lo sguardo distratto. Ma non vi badò pen­
sando che fosse una goccia di rugiada sopra una foglia.
Alfine si scosse e lanciò col suo corno da caccia uno
squillo potente. I suoi accorsero, egli balzò in sella e si
diede a rincorrere la fuggitiva. Dopo una buona ora,
la comitiva ritornò lenta e scornata sotto i faggi, ma senza
farvi sosta. Quando Beatrix capì che la strada era libera,
corse verso casa senza risparmiare le sue fini scarpette.
Intanto Wonnebold aveva passato una pessima gior­
nata, tormentato dall’ira e dal pentimento, e, poiché
provava vergogna anche davanti alla donna perduta
con tanta leggerezza, s’accorse che in fondo la stimava
moltissimo e non avrebbe potuto vivere senza di lei.
Quando se la vide dunque comparire dinanzi, le aprì le
braccia senza dire neanche una parola di sorpresa, e lei
vi si gettò senza un rimprovero, senza un lamento. Al­
l’udire il racconto del suo stratagemma egli rise di cuo­
re, facendosi poi pensoso per quella prova di fedeltà,
perché il barone era uomo di bell’aspetto e piacente.
Per evitare malanni futuri, egli fece della bella Beatrix
la sua sposa legittima davanti ai suoi pari e ai sottoposti,
e da allora in poi essa fu una dama che stava con le sue
pari tanto alle cacce e alle feste, quanto nelle case dei
sudditi e sui banchi della chiesa.
Passarono gli anni e in dodici autunni ella diede al ma­
rito otto figli che vennero su come cerbiatti.
Quando il maggiore ebbe diciotto anni, ella si alzò
in una notte d’autunno senza che Wonnebold se n’av­
vedesse, ripose accuratamente tutti i suoi abiti mondani
nelle stesse cassapanche donde erano stati tolti e le chiuse
posando le chiavi accanto al marito dormiente. Poi s’av­
vicinò a piedi nudi al letto dei figlioli e li baciò uno dopo
l’altro. Ritornò quindi al letto del marito, baciò anche
lui e, tagliatisi i lunghi capelli, indossò di nuovo la to­
naca scura che aveva conservato, abbandonò di soppiatto
il castello e partì, tra l’infuriar dei venti nella notte au-
LA VERGINE E LA MONACA 587

tunnale e il turbinare delle foglie cadenti, verso il con­


vento donde un giorno era fuggita. Senza posa sgranava
il rosario e ripensava pregando alla vita che aveva go­
duto.
Cammina e cammina, si ritrovò alla porta del conven­
to. Bussò e le venne ad aprire la portinaia invecchiata
che la salutò chiamandola per nome, come se fosse uscita
mezz’ora prima. Beatrix entrò in chiesa, s’inginocchiò
davanti all’altare della Vergine, che cominciò a parlare
dicendo: «Da un bel pezzo manchi, figlia mia! In tutto
questo tempo ho fatto io da sagrestana; e ora sono lieta
che tu sia qui a riprendere le chiavi».
L’immagine si chinò verso di lei e le consegnò le chiavi,
mentre Beatrix restava sbalordita per la gioia di quel
miracolo. Riprese tosto il suo servizio e, quando la cam­
pana diede il segno del pranzo, si recò a tavola. Molte
suore erano invecchiate, altre erano morte, alcune novizie
erano arrivate e a capo della tavola c’era una nuova
badessa; ma nessuno seppe che cosa fosse avvenuto di
Beatrix che era al suo solito posto, poiché la Madonna
l’aveva sostituita assumendone l’aspetto.
Passati altri dieci anni, le monache preparavano una
grande festa e stabilirono che ciascuna di loro presen­
tasse un dono alla Madre di Dio, il più bello possibile.
Una ricamò un gonfalone prezioso, un’altra una tova­
glia d’altare, la terza una pianeta. Una compose un inno
in latino, un’altra lo mise in musica, un’altra ancora
scrisse e miniò un libro di preghiere. In mancanza di
meglio, una cuci una camicia nuova per il bambino Gesù
e la suora cuoca gli preparò un vassoio di frittelle. Sol­
tanto Beatrix non aveva preparato nulla, perché era
stanca della vita e i suoi pensieri vagavano più nel pas­
sato che nel presente.
Venne il giorno della festa, e siccome essa non aveva
nulla da offrire, le altre monache ne furono meravigliate
e la rimproverarono, sicché lei si tirò in disparte, quando
in processione solenne si portarono tutte quelle belle cose
sugli altari infiorati, mentre le campane suonavano e le
nuvole d’incenso s’alzavano al cielo.
5«8 SETTE LEGGENDE

Le suore cominciarono a cantare a suon di musica,


allorché passò di lì un cavaliere canuto con otto giovani
bellissimi e armati, tutti su nobili destrieri, seguiti da al­
trettanti scudieri a cavallo. Era Wonnebold che condu­
ceva i figli all’esercito.
Udendo dalla chiesa la messa cantata, fece scendere
da cavallo i figli ed entrò con loro per pregare davanti
alla Vergine. Quando il vegliardo armato si inginocchiò
coi giovani guerrieri, belli come angeli corazzati, tutti
rimasero stupiti a quella vista e le monache, distratte,
interruppero per un attimo la musica e il canto. Ma
Beatrix riconobbe il marito e i figli, lanciò un grido,
corse verso di loro e dandosi a conoscere rivelò il suo se­
greto e raccontò del grande miracolo che le era toccato.
Allora tutti dovettero ammettere che in quel giorno
essa aveva offerto alla Vergine il dono più bello; e il do­
no fu accettato, come si vide dalle otto corone di quercia
che improvvisamente apparvero sul capo dei giovani, po­
satevi dalla mano invisibile della Regina dei Cieli.
FRA VITALIS, SANTO A MODO SUO

Guardati dall'aver familiarità con una


donna, ma piuttosto raccomanda al buon
Dio tutte le donne pie.
T. da Kempis, Imitazione di Cristo, 8, 2

Viveva in Alessandria d’Egitto, al principio dell’ottavo


secolo, un monaco stravagante di nome Vitalis, che si
era prefisso particolarmente di distogliere le donne per­
dute dalla vita del peccato e di riportarle alla virtù.
Ma il suo metodo era tanto singolare, e l’amore, anzi la
passione con cui perseguiva instancabilmente il suo scopo
era mista a uno spirito di abnegazione e d’ipocrisia così
strano che non era facile trovarne l’eguale.
Su un elegante rotolo di pergamena registrava con
cura tutte le cortigiane, e appena ne scopriva una nuova
in città o nei dintorni notava tosto il suo nome e il suo
alloggio, di modo che i figli dissoluti dei patrizi di Ales­
sandria non avrebbero trovato una guida migliore, se
il diligente Vitalis avesse perseguito un fine meno santo.
Ora accadeva bensì che il monaco cavasse loro di bocca
in ameni conversari indicazioni e notizie, ma quegli sca­
pestrati a loro volta non riuscivano mai a saper nulla
da lui.
Vitalis teneva quell’elenco arrotolato in un astuccio
d’argento sotto la tonaca e lo tirava fuori tutti i momenti
per aggiungervi un nome nuovo o per contare quelli già
notati o per vedere a quale delle traviate toccasse il
turno.
Andava allora in fretta dalla prescelta e le diceva, un
po’ vergognoso: «Concedimi la notte di domani, non
impegnarti con nessun altro ! ». Arrivato all’ora fissata
nella casa di lei, la piantava e si metteva nell’angolo più
lontano della camera; si buttava ginocchioni e pregava
tutta la notte a voce alta e con fervore per la peccatrice.
All’alba se ne andava vietandole energicamente di rive­
lare che cosa avesse fatto presso di lei.
Così egli trascorse un buon tratto di tempo, procuran­
59° SETTE LEGGENDE

dosi una pessima fama. Mentre, infatti, nelle camere


chiuse e segrete delle sgualdrine riusciva a scuotere e
commuovere qualche disgraziata con le sue prediche ar­
denti e con la fervida dolcezza delle preghiere, tanto da
farle mutar vita, in pubblico invece pareva che tenesse a
passare per vizioso e peccatore, per uno che, pur essendo
frate, si desse alla vita gaia e facesse dell’abito religioso
un simbolo di vergogna.
Trovandosi per caso la sera quand’annottava in com­
pagnia di persone ammodo, esclamava per esempio:
— Ma che sto a fare qui? Dimenticavo quasi che m’a­
spetta la bruna Doris, la mia piccola amica! Cospetto,
bisogna che vada subito perché non mi tenga il broncio !
Se allora qualcuno lo rimproverava, gridava indi­
spettito :
— Credete che io sia di sasso? Pensate forse che Dio
non abbia fatto le donnette anche pei frati?
Se qualcuno diceva:
— Padre, buttate piuttosto la tonaca alle ortiche e
pigliate moglie, per non dare scandalo! — rispondeva:
— Si scandalizzi chi vuole, e dia, se crede, del capo
nel muro ! Chi mi può giudicare?
E diceva queste cose dandosi delle grandi arie e facendo
l’ipocrita come chi difenda una causa ignobile con grandi
paroioni e molta sfrontatezza.
Se ne andava quindi a leticare coi rivali davanti alla
porta delle ragazze; qualche volta erano anche botte, e
allungò più d’un ceffone vedendosi investire al grido:
«Fuori il frate! Un monaco vorrà prenderci il posto?
Via di qua, testa rapata!».
Ma era tanto ostinato e invadente che di solito restava
padrone del campo e s’infilava in casa.
Ritornando all’alba nella sua cella si buttava ai piedi
della Madonna; per amor suo, per la sua gloria intra­
prendeva quelle avventure e si addossava il biasimo del
mondo, e quando riusciva a ricondurre all’ovile una pe­
cora smarrita e a farla entrare in qualche chiostro santo,
si sentiva felice e contento davanti alla Regina dei Cieli,
più che se avesse convertito mille pagani. La sua gioia più
FRA VITALIS, SANTO A MODO SUO 59I

grande era quel martirio di passare nel mondo per impuro


e dissoluto, mentre la Signora purissima del Cielo ben
sapeva che egli non aveva ancora mai toccato una donna e
che sul suo capo oltraggiato rideva una ghirlandetta invi­
sibile di candide rose.
Un giorno venne a sapere che una femmina partico­
larmente pericolosa seminava stragi con la sua bellezza
straordinaria, perché un guerriero nobile e violento
guardava la sua porta e abbatteva chiunque osasse venir
a tenzone con lui. Vitalis si propose tosto di prendere
d’assalto quell’inferno. Non notò neanche il nome della
peccatrice nel suo registro, ma s’awiò difilato a quella
casa di cattiva fama imbattendosi realmente nel soldato
che montava la guardia, vestito di scarlatto e con un
giavellotto in mano.
— Fatti in là, fratonzolo ! — gridò quegli beffarda­
mente al pio Vitalis — Come osi strisciare davanti al
covo del leone? Il cielo fa per te, ma il mondo è per noi !
— Il cielo e la terra e tutte le cose appartengono al
Signore — esclamò Vitalis — e a chi lo serve in letizia.
Vattene, villano rifatto, e lasciami passare dove mi pare
e piace !
Il guerriero alzò adirato l’asta del giavellotto per pic­
chiare sulla testa il frate ; ma questi levò rapidamente di
sotto alla veste un randello di pacifico ulivo, parò il colpo
e ammaccò la fronte a quell’ammazzasette con tanta
violenza da fargli quasi perdere i sensi; il monaco bel­
licoso gli tempestò poi tanti pugni sul grugno da inton­
tirlo e farlo scappare bestemmiando.
Vitalis, rimasto vincitore, entrò in quella casa e incon­
trò su una scala angusta la femmina che, con un lume in
mano, era accorsa al rumore e alle grida. Era di com­
plessione alta e vigorosa oltre il comune, con lineamenti
belli ma insolenti, tra ondate selvagge di capelli rossicci,
che svolazzavano come una criniera leonina.
Guardò Vitalis con disprezzo e domandò:
— Dove vai?
— Vengo da te, tortorella mia, — rispose — non hai
sentito mentovare Vitalis, il monaco tenero e gaio?
592 SETTE LEGGENDE

Ma sbarrando la scala con le sue forme possenti, lei


replicò bruscamente:
— Hai denaro?
Vitalis non se l’aspettava e disse:
— I frati non hanno mai denaro con sé.
— Allora vattene per la tua strada, se non vuoi che ti
faccia buttar fuori coi tizzoni accesi !
Vitalis, sconcertato com’era, si grattò la testa, perché
il caso era nuovo: fino allora nessuna delle convertite
aveva parlato di mercede, e le non convertite s’erano
limitate a colmarlo d’improperi per il tempo perduto.
Ma ora non riusciva neanche a entrare in casa per co­
minciare la sua opera di pietà; eppure aveva una gran
voglia di domare proprio quella rossa figlia di Satana,
perché le figure belle e slanciate sogliono indurre i sensi
ad attribuir loro un valore umano maggiore di quel che
abbiano in realtà. Si cercò indosso imbarazzato finché
si trovò in mano quel tale astuccio d’argento che era
ornato da un’ametista d’un certo pregio.
— Non ho altro che questo, — disse — lasciatemi en­
trare !
Lei prese l’astuccio, lo esaminò e disse a Vitalis che
poteva entrare. Arrivati nella camera da letto, egli non
si curò più di lei, ma, inginocchiatosi come al solito in un
angolo, cominciò a pregare ad alta voce.
L’etera, pensando che per pia consuetudine egli vo­
lesse iniziare con le preghiere anche le sue opere mon­
dane, cominciò a ridere sguaiatamente e si mise a se­
dere sul letto per osservar meglio quella scenetta che la
divertiva assai. Ma, visto che si andava per le lunghe,
cominciò ad annoiarsi; si denudò allora le spalle provo­
canti e avvicinatasi al buon Vitalis lo avvinghiò con le
braccia bianche e si strinse al seno quel capo raso e
chiericuto con tanta veemenza che a lui parve di soffo­
care e si mise a sbuffare come se fosse tra le fiamme del
purgatorio. Ma ben presto cominciò a scalciare come un
puledro alla fucina finché fu libero da quell’amplesso
diabolico. Prese poi il cordiglio che aveva intorno alla
vita e afferrò la donna per legarle le mani sulla schiena
FRA VITALIS, SANTO A MODO SUO 593
e starsene in pace. Dovette però lottare aspramente per
raggiungere il suo intento; alla fine le legò anche i piedi
e la issò con grande sforzo sul letto. Ritornò poscia nel
suo angolino e continuò a pregare come nulla fosse
stato.
La leonessa incatenata si avvoltolò, si contorse, rab­
biosa e inquieta, cercando di liberarsi e lanciando male­
dizioni; e mentre il monaco seguitava a pregare, a pre­
dicare, a scongiurare, si calmò un pochino, anzi verso il
mattino emise qualche sospiro, cui seguì il singhiozzo di
un cuore che si sarebbe detto contrito. Per farla breve,
quando il sole si levò, lei giaceva sciolta dai lacci ai piedi
del frate come una Maddalena e gli bagnava di lacrime
l’orlo della veste. Con fare dignitoso e sereno egli le ac­
carezzò i capelli e le promise di ritornare sul fare della
notte per dirle in qual monastero le avrebbero assegnato
una cella, affinché potesse far penitenza. Poi la lasciò,
non senza averle raccomandato di non far trapelare nulla
della sua conversione e di dire a chiunque glielo chiedesse
che durante la notte egli s’era dato buon tempo presso
di lei.
Ma quale non fu il suo sbigottimento allorché, ritor­
nando all’ora convenuta, trovò la porta chiusa e quella
femmina tutta in ghingheri alla finestra !
— Che vuoi tu, prete? — gli gridò, al che egli rispose
stupefatto:
— Che vuol dir ciò, pecorella mia? Lèvati cotesti
fronzoli e fammi entrare che io ti prepari alla penitenza.
— Vuoi venire da me, frataccio? — disse sorridendo
e fingendo di non aver capito — Hai denaro con te o
roba di valore?
Vitalis la guardò a bocca spalancata; poi si mise a
scuotere la porta disperatamente, ma era chiusa e rimase
tale, e anche la donna si ritirò dalla finestra.
Le risate e le imprecazioni dei passanti cacciarono il
frate apparentemente corrotto e spudorato via dalla casa
malfamata; ma egli non pensava ad altro che a rientrarvi
per sconfiggere il Maligno che s’era impadronito di
quella donna.
594 SETTE LEGGENDE

Immerso in questi pensieri entrò in una chiesa dove,


invece di pregare, studiò tra sé la maniera di farsi acco­
gliere da quella sciagurata. Il suo sguardo cadde sulla
cassetta che conteneva le offerte dei benefattori, e, appe­
na la chiesa fu vuota, il frate colpì la cassetta con un
pugno poderoso, ne versò il contenuto - un gruzzolo di
monete d’argento - nella tonaca rialzata e fuggì più
lesto d’un innamorato verso la casa della peccatrice.
Arrivò mentre la porta si apriva per accogliere uno
zerbinotto tutto agghindato; Vitalis lo acciuffò pei capelli
profumati, lo buttò in strada ed entrando d’un balzo in
vece sua gli sbatte l’uscio in faccia; così si ritrovò al co­
spetto della donna malvagia che lo guardò con tanto
d’occhi, vedendolo entrare invece del bellimbusto che
aspettava. Vitalis versò sulla tavola il denaro rubato e
domandò :
— Ti basta per questa notte?
La donna contò le monete in silenzio e disse riponen­
dole:
— Mi basta.
I due si misurarono con lo sguardo. Mordendosi le
labbra per non ridere ella lo guardò come ignara di
tutto, mentre il frate le lanciava occhiate incerte e an­
gosciose non sapendo da che lato pigliarla. Ma quando
lei cominciò a far dei gesti provocanti e a mettergli le
mani nella bella barba lucida, la tempesta scoppiò; le
diede una pacca sulla mano, la rovesciò sul letto che ne
scricchiolò tutto, le afferrò le mani, le puntò un ginoc­
chio contro il petto e senza sentire il fascino delle bel­
lezze di lei tanto disse ed esortò che la pervicace cominciò
a raddolcirsi.
A poco a poco ella smise di dibattersi nella stretta e il
suo viso bello e forte si rigò di molte lacrime ; il religioso
zelante la lasciò e, ritto accanto al letto del peccato,
guardava quella figura slanciata dalle membra stanche e
abbandonate, affranta dal pentimento e singhiozzante
per l’amarezza, con gli occhi pesti e pieni di stupore per
il mutamento involontario.
La tempesta della collera eloquente si mutò dentro di
FRA VITALIS, SANTO A MODO SUO 595
lui in tenerezza e compassione; dal suo cuore si levò un
inno alla Patrona Celeste, poiché a gloria di lei aveva
riportato la più difficile delle vittorie, e le sue parole
passavano come un’aura primaverile di conforto e di
pace sul ghiaccio infranto di quell’anima.
Più lieto che se avesse gustato un piacere dolcissimo,
uscì, ma non già per concedersi un’oretta di sonno sul
suo duro giaciglio, bensì per pregare davanti all’altare
della Vergine in favore di quella povera anima contrita
finché sorgesse il giorno: infatti s’era proposto di non
chiudere occhio prima di saper la pecorella al sicuro fra
le mura di un chiostro.
E quando il giorno fu ridesto, ritornò a quella casa,
ma vide venirgli incontro per la via il barbaro guerriero
che, mezzo ubriaco, dopo una notte di gozzoviglie, s’era
messo in mente di riconquistare l’etera.
Vitalis era più vicino di lui alla porta fatale e si slanciò
per entrare; ma l’altro vibrò contro di lui il giavellotto
che sfiorò la testa del monaco e si infisse nella porta.
Prima che l’asta cessasse di oscillare, il frate la estrasse
con forza e, voltatosi furibondo contro il soldato che ave­
va sguainato la spada, lo trafisse in un baleno; quegli
cadde riverso, e in quel momento Vitalis fu sorpreso da
un drappello di fanti che, tornando dalla ronda e avendo
assistito al misfatto, lo legarono e lo condussero in pri­
gione.
Con grande tristezza egli si volse a riguardare la ca­
setta dove non gli era dato di portare a compimento la
sua opera pia: le guardie credevano che imprecasse alla
sua cattiva stella che l’aveva distolto da un proposito ini­
quo e, finché non giunsero alle carceri, trattarono il frate
incorreggibile a improperi e legnate.
Là dovette passare molti giorni e fu interrogato dai
giudici; e se anche restò impunito, avendo ucciso il sol­
dato per legittima difesa, portò impresso il marchio del­
l’assassinio e tutti furono del parere che bisognasse spo­
gliarlo finalmente della tonaca. Ma il vescovo Giovanni
di Alessandria doveva aver subodorato la verità, oppure
aveva un piano superiore : infatti non volle espellere dal­
59θ SETTE LEGGENDE

l’ordine il frate malfamato e ordinò che per il momento


lo si lasciasse andare di nuovo per la sua strada singolare.
La quale lo riportò senza indugio alla peccatrice pen­
tita: ma questa aveva ancora cambiato idea e non lo
lasciò entrare, finché il povero Vitalis rattristato e sbi­
gottito non le ebbe recato un altro oggetto di valore
rubato in qualche luogo. Lei si pentì e convertì per la
terza volta e poi ancora per la quarta e la quinta, visto
che quelle conversioni erano più che mai redditizie e
dato che il suo spirito maligno ci trovava un gusto infer­
nale a corbellare il povero frate con quel tiremmolla.
Fra Vitalis aveva proprio lo spirito di un martire, poi­
ché più lei lo canzonava più lui s’intestava, quasi che la
sua salvezza dipendesse proprio dalla resipiscenza di quel­
la femmina. Era diventato un assassino, un sacrilego, un
ladro ; ma si sarebbe fatto mozzare una mano piuttosto di
rinunciare alla sua fama di gaudente e, benché il suo cuo­
re non reggesse quasi più a tanto peso, faceva di tutto per
sostenere davanti al mondo con modi e discorsi frivoli la
sua parte d’uomo malvagio. Si era specializzato in quel
genere di martirio! E dimagrava e intristiva ed era ri­
dotto un’ombra senza perdere però il sorriso dalle labbra.
Dirimpetto alla casa della tribolazione abitava un ricco
mercante greco con un’unica figlia che si chiamava Jole,
che era libera di fare quel che le garbava, tanto che non sa­
peva come passar le giornate. Suo padre, ritiratosi dagli af­
fari, studiava Platone, e quando era stanco componeva
eleganti epigrammi sui cammei antichi della sua ricca col­
lezione. Jole invece, deposta la cetra, non sapeva come
dare alimento al suo pensiero vivace e volgeva gli occhi al
cielo e all’orizzonte in cerca di uno spiraglio di speranza.
Così scoperse anche la tresca del frate famigerato e
seppe la storia delle sue gesta. Dal suo nascondiglio lo
spiava con orrore e riluttanza e non poteva fare a meno
di compiangere quella bella figura d’uomo. Ma quando
per tramite d’una schiava, ch’era amica d’una schiava
della sgualdrina, venne a sapere come stavano realmente
le cose, si meravigliò moltissimo e, ben lungi dall’ammi-
rare quel martirio, si sentì accendere d’ira ritenendo che
FRA VITALIS, SANTO A MODO SUO 597
quella sorta di santità non facesse onore al gentil sesso.
Stette un po’ lì a rimuginare la cosa e s’indispettì sempre
più, mentre al dispetto si mescolava una certa inclina­
zione per quell’uomo.
E se la Vergine Maria non aveva tanto senno da met­
tere quel disgraziato sopra una strada più onesta ci
avrebbe pensato lei, rubandole il mestiere : non immagi­
nava di essere lo strumento inconsapevole della stessa
Regina dei Cieli. Andò quindi subito da suo padre a la­
gnarsi amaramente per la vicinanza sconveniente della
prostituta e lo scongiurò di farla sloggiare ad ogni costo.
Il vecchio si recò tosto da colei e le offrì una certa som­
ma per la casetta a patto che ne uscisse sui due piedi e
s’allontanasse da quel quartiere. Quella non chiedeva di
meglio, e nella mattinata stessa scomparve da quei pa­
raggi, mentre il vecchio ripigliava il suo Platone senza
curarsi più della faccenda.
Jole intanto era in gran daffare per sgombrare quella
casa da tutto quanto potesse rammentare la proprietaria
precedente, e, quando l’ebbe fatta spazzare e pulire, vi
bruciò tante droghe e profumi che il fumo odoroso usciva
a ondate dalle finestre.
Poi fece portare nella camera vuota soltanto un tappeto,
un rosaio in fiore e una lucerna, e quando suo padre,
che andava a letto col sole, si fu addormentato, si recò
in quella casa con in capo una ghirlandetta di rose e se­
dette sola soletta sul tappeto, mentre due vecchi servi
fidati custodivano l’ingresso.
Questi misero in fuga alcuni nottambuli, ma appena
scorsero Vitalis si nascosero e lo lasciarono passare indi-
sturbato. Egli montò la scala con gran sospiri e con gran
paura di ritrovarsi canzonato, ma sperando tuttavia nel
pentimento sincero di quella creatura che gli impediva
di pensare alla salvezza di tante altre. Ma come rimase
quando trovò la camera della fulva leonessa spoglia di
quei suoi ninnoli e fronzoli e in sua vece, seduta su un
tappeto, una dolce fanciulla davanti a una piantina di
rose !
— Dov’è la sciagurata che abitava qui? — esclamò
598 SETTE LEGGENDE

guardando intorno con stupore e fermando gli occhi sul­


l’apparizione gentile che gii si spiegava dinanzi.
— È andata nel deserto — rispose Jole senza alzare lo
sguardo — a far penitenza vivendo da eremita. Stamani
il pentimento l’afferrò abbattendola come un filo d’erba,
perché si era ridestata in lei la coscienza. Invocava un
certo prete Vitalis che l’assistesse. Ma il nuovo spirito
che la esaltava non le diede tregua; e la stolta raccattò
le sue robe, le vendette, diede il denaro ai poveri e senza
por tempo in mezzo, tagliatisi i capelli, vestito il cilizio,
s’awiò con un bordone in mano verso il deserto.
— Sii lodato, o Signore, e lodata sia la tua Madre
piena di grazie! — esclamò Vitalis giungendo le mani
in devozione e sentendosi cadere un peso dal cuore. Ma
intanto osservò meglio la fanciulla con la sua coroncina
di rose e disse:
— Perché hai detto : la stolta? E chi sei tu? Donde sei
venuta e che intendi fare?
Jole abbassò ancor più i suoi sguardi e, chinatasi verso
terra, si sentì avvampare la faccia di rossore per la ver­
gogna che provava a dover dire a un uomo quanto s’era
prefissa di dirgli.
— Io sono — disse — un’orfana ripudiata senza padre
né madre. Dei miei averi non mi sono rimasti che questo
tappeto, la lucerna e il rosaio e con queste cose mi sono
messa qua per fare la vita che quell’altra ha smesso.
— Ah, corpo d’un ... ! — esclamò il monaco battendo
le mani — Guarda un po’ com’è sollecito il demonio!
E cotesta bestiola innocente lo dice così senza scomporsi,
come se io non fossi Vitalis ! Sentiamo dunque, gattina
mia, che cosa vuoi fare? Ripeti !
— Voglio darmi all’amore e servire gli uomini finché
avrà vita questa rosa — disse indicando la pianta. Ma le
parole le venivano a stento, e, mentre le pareva di spro­
fondare sotto terra dalla vergogna, la naturalezza del suo
pudore persuadeva sempre più il frate di aver davanti a
sé una bimba innocente che, ossessa dal demonio, stava
per buttarsi a piè pari nell’abisso. Egli si accarezzò la
barba contento di essere arrivato in tempo, e, per gustare
FRA VITALIS, SANTO A MODO SUO 599

più a lungo quel piacere, disse strascicando le parole in


tono scherzoso:
— E poi? E poi, colombella mia?
— Poi voglio andare misera e disperata all’inferno
dove c’è la bella Venere, o più tardi, se trovo un buon
predicatore, in un convento a far penitenza.
— Ma brava, di bene in meglio ! — esclamò Vitalis
— È un progetto magnifico, non c’è che dire. E in quanto
al predicatore, eccotelo qua, davanti ai tuoi occhiacci
neri, tizzoncino d’inferno che non sei altro. Anche il
chiostro è pronto, come una trappola tesa, ma ci si va
prima di peccare, capito? Prima di peccare, anche se
hai già fatto quel tuo proponimento carino che d’altronde
ti sarà utile perché ne avrai per tutta la vita se vorrai
liberarti dal rimorso. Altrimenti, piccola stréga che sei,
saresti una ben buffa penitente ! E ora — concluse con
serietà — lèvati coteste rose dai capelli e stammi un
po’ a sentire.
— No, — disse Jole arditamente — prima starò a
sentire e poi vedrò se mi conviene togliermi le rose.
Avendo superato la mia sensibilità femminile, le parole
non bastano più a trattenermi dal conoscere il peccato,
e senza peccato non c’è contrizione ; pensaci prima di af­
fannarti a parlare. Comunque, sono disposta ad ascol­
tarti.
Vitalis cominciò allora la più bella predica che avesse
mai fatta. La giovane lo ascoltava attenta e avvenente,
e il suo aspetto influiva non poco sulla scelta delle parole
senza che egli se n’avvedesse, poiché la leggiadria della
persona da convertire gli faceva scaturire di per sé un’elo­
quenza più fiorita del solito. Ma siccome non c’era un
briciolo di serietà in quella perversità simulata, il discorso
del frate non poteva farle grande impressione. Un vago
sorriso errava sulla sua bocca e quand’egli ebbe finito,
e ansiosamente si terse il sudore dalla fronte, Jole gli disse :
— Le tue parole m’hanno commosso soltanto a metà
e non so decidermi a desistere dal mio disegno; troppa è
la mia curiosità di sapere come si viva in mezzo al pia­
cere e al peccato.
6oo SETTE LEGGENDE

Vitalis rimase di sasso e non riusciva a spiccicare una


parola. Era la prima volta che la sua arte oratoria lo
lasciava in asso. Sospirando e riflettendo passeggiava in
su e in giù per la stanza fermandosi a riguardare quella
candidata all’inferno. La potenza del demonio si asso­
ciava in modo raccapricciante alla forza dell’innocenza,
formando un baluardo inespugnabile. Ma tanto più ap­
passionatamente egli si sforzava di trionfare.
— Non mi muovo di qui — disse — finché tu non ti
ravveda, dovessi restarci tre giorni e tre notti !
— Ciò mi renderebbe ancor più ostinata — obiettò
Jole — Tuttavia ci voglio pensare ancora e ti starò a
sentire anche la notte ventura. L’alba non è lontana;
va’ dunque per i fatti tuoi e io ti prometto che non farò
nulla e resterò come sono, ma tu promettimi di non dir
niente a nessuno e di venire qua soltanto a notte fatta.
— E sia ! — disse Vitalis allontanandosi, mentre Jole
infilava l’uscio della casa paterna.
Dormì un po’ e aspettò la sera con impazienza, perché
il frate, visto da vicino, le era piaciuto ancora più che a
vederlo da lontano. Aveva notato il fuoco che gli ardeva
negli occhi e il suo portamento deciso, nonostante l’abito
religioso. Considerando inoltre il suo spirito di sacrificio
e la sua perseveranza, non poteva non desiderare che
quelle buone qualità si volgessero al suo bene e al suo
piacere, nella forma di un marito innamorato e fedele.
E il suo compito era di fare di un martire valoroso un
marito anche migliore.
La notte seguente fra Vitalis la ritrovò su quel tappeto
e continuò con zelo indefesso gli sforzi per salvare la
sua virtù. Egli stava sempre in piedi, salvo quando
s’inginocchiava per pregare. Jole invece si sdraiò como­
damente sul-tappeto, incrociò le braccia sotto la testa e
tenne gli occhi fissi sul monaco che predicava davanti a
lei. Alcune volte chiuse le palpebre come presa dal sonno
e Vitalis, tosto che se ne accorgeva, la urtava col piede
per tenerla desta. Ma quel gesto burbero gli riusciva
meno aspro di quel che avrebbe voluto: poiché, appena
il piede si accostava all’agile fianco della fanciulla, mo­
FRA VITALIS, SANTO A MODO SUO 6oi

derava da sé il proprio peso e lo toccava lievemente, ma


quanto bastava perché una strana sensazione invadesse
il frate quant’era lungo, una sensazione che non aveva
mai provato accanto a nessuna delle altre belle pec­
catrici.
Verso il mattino Jole si appisolava sempre più di fre­
quente e Vitalis finì per gridare seccato:
— Tu non mi ascolti più, figliola, non riesci a star
desta, sei tutta pigrizia !
— Tutt’altro — disse lei aprendo gli occhi mentre un
dolce sorriso le illuminava la faccia come se vi fosse appar­
sa l’aurora imminente — sono stata attenta e ho in odio
adesso quel peccatacelo, tanto più odioso, perché tu,
caro frate, lo disapprovi; nulla mi potrebbe piacere che
dispiacesse a te !
— Davvero? — esclamò Vitalis con gioia — M’è dun­
que riuscita? Vieni, per maggior sicurezza, andiamo su­
bito al convento. Battiamo il ferro finché è caldo.
— Non mi hai ben compresa, — replicò Jole, abbas­
sando gli occhi e facendosi di bragia — io sono inna­
morata di te e ti voglio bene.
Vitalis sentì come un colpo al cuore, ma non faceva
male. E rimase lì stordito con tanto d’occhi e a bocca
aperta.
Ma Jole continuò, facendosi ancor più rossa, con voce
piana e dolce:
— Ora bisogna che tu mi persuada ancora e allontani
da me questo nuovo malanno, il che ti riuscirà certamente.
Vitalis non disse verbo e fuggì a precipizio. Si diede a
correre nella mattinata argentea e invece di recarsi al
suo giaciglio andava riflettendo se dovesse abbandonare
al suo destino quella giovane sospetta o tentare di levarle
dal capo quell’ultimo grillo, che gli sembrava il più spi­
noso di tutti e non senza pericolo per lui. Ma all’idea del
pericolo arrossì di rabbia e di vergogna; eppure poteva
essere un laccio tesogli dal demonio e in questo caso
era meglio di tutto prendere il largo a tempo. Ma doveva
disertare e arrendersi a quello sciocco arzigogolo infer­
nale? E se quella povera creatura fosse in buona fede?
6o2 SETTE LEGGENDE

Quattro parolacce picchiate sul sodo non la potevano


forse guarire dalle sue ubbie sconvenienti? Insomma Vi­
talis non sapeva decidersi, tanto più che in fondo al cuore
un’onda oscura faceva oscillare la navicella della sua ra­
gione.
Trovandosi alle strette s’infilò in una chiesina dove po­
co tempo prima avevano sistemato un bel simulacro an­
tico della dea Giunone facendola passare, con un’aureola
d’oro, per la Madonna, affinché non andasse disperso
quel dono divino dell’arte plastica. Davanti a quella
Maria marmorea Vitalis si gettò ginocchioni, le espose
la sua ambascia e chiese un segno : se la sua Patrona ac­
cennava col capo egli avrebbe continuato la conversione,
se invece lo scuoteva avrebbe desistito.
Ma l’immagine non si mosse e lo lasciò nella più cru­
dele incertezza. Se non che, al passaggio delle nubi mat­
tutine, un chiarore rosato si diffuse sul marmo, e il bel
viso parve sorridere, sia che si rivelasse l’antica dea pro­
tettrice del buon costume e della fedeltà coniugale, sia
che la nuova ridesse della pena di quel suo adoratore : in
fondo erano donne tutte e due e alle donne, si sa, vien
da ridere quand’è in vista qualche intrigo amoroso. Ma
Vitalis ne sapeva quanto prima; anzi la bellezza di quel
sorriso lo confondeva sempre più e gli pareva che l’im­
magine prendesse addirittura le sembianze di Jole, quasi
che arrossendo lo esortasse a levarle di mente il suo amore
per lui.
A quell’ora il padre di Jole passeggiava tra i cipressi
del suo giardino; aveva acquistato dei cammei bellissimi
ed era in piedi così per tempo appunto per ammirarli.
Li guardava estasiato tenendoli contro luce nel sole che
sorgeva. Su un’ametista scura era incisa la Luna che attra­
versava il cielo col suo cocchio, ignara che dietro a lei s’era
accoccolato Amore, mentre alcuni amorini svolettava-
no intorno gridandole in greco: «C’è seduto qualcuno,
dietro ! ». C’era un’onice magnifica che mostrava Miner­
va immersa nei suoi pensieri con in grembo Cupido che
lustrava con una mano la corazza di lei per specchiarvisi.
Sopra una sarda c’era infine Amore che scapriolava
FRA VITALIS, SANTO A MODO SUO 603

come una salamandra nella fiamma d’una vestale con


grande spavento e confusione della custode del fuoco.
Quelle scenette suggerirono al vecchio alcuni distici,
e, mentre li stava componendo, eccoti Jole pallida e affa­
ticata dalla veglia. Egli la chiamò a sé preoccupato e
stupito chiedendole la ragione della sua insonnia. Ma
prima di stare a sentire la risposta le mostrò i suoi gioielli
spiegandole il significato di ciascuno.
Jole trasse un gran sospiro e rispose:
— Ahimè ! se le supreme potenze, la Castità in persona,
la Saggezza, la Fede non si possono guardare dall’amore,
come potrò difendermi io, creatura piccina e insigni­
ficante?
Il vecchio si meravigliò non poco a quelle parole :
— Che ascolto? Ti avrebbe mai trafitta lo strale pos­
sente di Eros?
— Mi ha trafitta sì, — rispose lei — e se non vengo
subito in possesso dell’uomo che adoro, non mi resta che
morire !
Benché il padre fosse solito ad accondiscendere in tutto,
ora quella gran fretta gli parve esagerata e invitò la figlia
a riflettere con calma e con saggezza. Ma la saggezza
non le fece difetto ed ella perorò la causa tanto bene
che il vecchio esclamò :
— Dovrò dunque compiere il più triste dovere per un
padre? Andare in cerca dell’eletto, prendere l’omino per
mano e presentarlo a quanto di meglio possiedo pregan­
dolo che per favore ne prenda possesso? Ecco una donnet­
ta leggiadra, signor mio, prendi, non rifiutarla ! È vero
che preferirei pigliarti a scapaccioni, ma la piccina vuol
morire e bisogna che io sia cortese. Suvvia, non far
complimenti, ti pare? Accetta il pasticcino che ti offro,
è cotto appuntino, si scioglie in bocca !
— Ti risparmio tutto ciò — disse Jole — perché, se
permetti, conto di indurlo a venire lui stesso a chiederti
la mia mano.
— E se fosse un poco di buono, un villanzone?
— Allora sia scacciato con disonore ! Ma io ti dico
che è un santo.
6o4 sette leggende

— Va bene. Adesso lasciami con le Muse — disse il


buon vecchio.
Quella sera la notte non seguì il crepuscolo tanto rapi­
damente quanto Vitalis la piccola Jole nella ben nota
casetta. Ma non v’era ancora mai entrato così. Con un
gran batticuore cominciò a capire cosa voglia dire rive­
dere una creatura che abbia giocato una tale carta. Non
era lo stesso Vitalis che era uscito di lì il mattino, quan­
tunque egli stesso se ne rendesse ben poco conto, poiché
il povero missionario, il povero frate calunniato non ave­
va saputo neanche distinguere il sorriso d’una sgualdrina
da quello d’una donna onesta.
Salì tuttavia in buona fede e col proposito di levare
da quella testolina tutti i pensieri disutili; aveva però
come l’idea di doversi concedere dopo quell’opera, che
cominciava a spossarlo, un po’ di riposo nella sua attività
di martire.
Ma era proprio detto che in quella casa stregata do­
vesse incappare sempre in qualche sorpresa. Questa volta
trovò la stanza tutta ornata e fornita di ogni comodità.
Un fine olezzo di fiori era nell’aria e dava all’ambiente
come un tono di mondanità gentile; Jole se ne stava
sopra un lettuccio candido (la coperta di seta non faceva
neanche una piegolina fuori di posto), tutta agghindata
con garbo, dolcemente melanconica come un angelo me­
ditabondo. Il suo seno ondeggiava violentemente sotto
la bella veste come una tempesta in una tazza, e per
quanto splendessero le sue belle braccia bianche incro­
ciate sul petto, quella grazia appariva tanto legittima e
permessa che Vitalis si sentì morire in gola tutta la sua
eloquenza.
— Grande stupore è il tuo, o monaco gentile, — co­
minciò Jole — di trovar qui questo lusso e questi addobbi.
Sappi che questo è il mio addio al mondo e il mio distacco
da quei sentimenti che purtroppo devo nutrire per te.
Ma bisogna che tu mi assista secondo le tue forze e nel
modo che ho escogitato. Poiché se continui a parlarmi
in cotesto abito, da uomo di religione, siamo sempre
alle stesse. I modi frateschi non potranno persuadermi,
FRA VITALIS, SANTO A MODO SUO 605

perché io sono di questo mondo. Un frate non potrà


mai guarirmi dall’amore, perché non lo conosce e ne
parla non sapendo cosa sia. Se hai quindi ferme inten­
zioni di spianarmi le vie del cielo, entra in quella came­
retta: là troverai abiti secolari, indossali invece del tuo
saio, e vestito da gentiluomo vieni a tavola con me.
Così in abito mondano, aguzza il tuo ingegno ed esponi
i tuoi argomenti per allontanarmi da te e avvicinarmi alla
beatitudine divina.
Vitalis non rispose nulla, ma stette un po’ sopra pen­
siero. Infine deliberò di finirla e di battere il diavolo
mondano con le sue stesse armi, accettando la proposta
capricciosa di Jole.
Si recò veramente nella stanza attigua, dove due paggi
lo aspettavano con abiti sontuosi di lino e porpora. Ap­
pena li ebbe indossati parve un palmo più alto e ritornò
con nobile portamento da Jole, che se lo mangiava con
gli occhi e batteva giocondamente le mani.
Avvenne allora un vero miracolo e un curioso muta­
mento nel frate : si era appena seduto a fianco della donna
leggiadra che i giorni passati gli svanirono dal cervello
e il suo proponimento fu bell’e dimenticato. Senza dir
motto accoglieva avidamente le parole di lei, che pren­
dendogli una mano gli raccontò la sua vera storia, dicen­
dogli chi fosse e dove abitasse e quanto avrebbe desiderato
che egli abbandonasse quella sua vita stravagante e an­
dasse da suo padre a chiederla in sposa per diventare poi
un marito esemplare e timorato di Dio. Disse anche altre
bellissime cose, parlando con molta leggiadria di un amo­
re puro e felice, e conchiuse sospirando che vedeva pur­
troppo quanto fosse vano il suo desiderio e invitandolo
a confutarla, ma non prima di avere preso lena con un
po’ di cibo e bevanda.
A un suo cenno i servi recarono le coppe e un canestro
di frutta e biscotti. Jole versò a Vitalis, che se ne stava
silenzioso, una coppa di vino, e gli porse da mangiare con
tanta grazia che gli parve di essere in casa sua e gli ven­
nero in mente i bei tempi della sua infanzia quando la
mamma lo imboccava teneramente. Mangiò e bevette e
6o6 SETTE LEGGENDE

gli venne una gran voglia di riposarsi dopo i lunghi af­


fanni, e to’.. . il nostro Vitalis chinò il capo verso Jole
e si addormentò subito appoggiato a lei, restando così
fino al levar del sole.
Quando si destò era solo. Silenzio. Balzò in piedi at­
territo per l’abito splendido che aveva indosso; si mise
a correre su e giù per la casa rovistando da per tutto in
cerca della sua tonaca; ma non ne trovò traccia finché
scoperse in un cortiletto un mucchio di cenere e carboni
con sopra mezza manica bruciacchiata, per cui argo­
mentò giustamente che la sua tonaca vi era stata arsa
solennemente.
Poi sporse la testa ora da una finestra ora dall’altra, ri­
traendosi tutte le volte che passava qualcuno. Infine si
buttò sul lettuccio di seta sdraiandovisi così comodamente
come se non avesse mai riposato su di un duro giaciglio.
Ma s’alzò di scatto, si aggiustò la veste e fece per uscire.
Dietro la porta stette ancora un momento in forse, poi la
spalancò e uscì solenne e dignitoso. Nessuno lo riconobbe,
tutti lo credettero un gran signore forestiero venuto a
svagarsi ad Alessandria.
Ma egli non guardò né a destra né a sinistra, altrimenti
avrebbe scorto Jole sulla terrazza di casa sua. Se n’andò
invece difilato al convento, dove tutti i monaci insieme
col superiore avevano appunto deciso di espellerlo, per­
ché, essendo colma la misura dei suoi peccati, era di danno
e di scandalo alla Chiesa. Quando poi lo videro arrivare
in quest’arnese fastoso la loro indignazione traboccò: lo
annaffiarono d’acqua da tutte le parti e lo scacciarono dal
convento con scope e crocifissi, con mestoli e forconi.
In altri tempi quel trattamento ingiurioso gli sarebbe
parso un godimento e un trionfo del suo martirio. Anche
questa volta rise dentro di sé, ma in un altro senso. Fece
ancora una volta il giro delle mura cittadine mentre il
vento gli gonfiava il manto rosso. Dalla Terra Santa spira­
va un magnifico vento sul mare scintillante, ma Vitalis
si sentiva sempre più di questo mondo e senza avveder­
sene volse i passi verso le vie rumorose della città e verso
la casa di Jole, dove si arrese al suo volere.
FRA VITALIS, SANTO A MODO SUO 607

Da allora in poi fu un gentiluomo perfetto e un otti­


mo marito. La Chiesa, saputo come stavano le cose, fu
inconsolabile per la perdita di un tal santo e fece di
tutto per riportare il fuggiasco nel suo grembo. Ma Jole
lo tenne stretto, affermando che presso di lei era abba­
stanza al sicuro.
DOROTHEA
E IL CANESTRO DI ROSE

Ma separarsi così è ritrovarsi di più.


F. L. Blosius, Istruzione spirituale, cap. 12

Sulla riva del Ponto Eusino, non lungi dal fiume Ha-
lys, sorgeva nella luce della più bella mattinata di prima­
vera una villa romana. Dalle acque del Ponto il grecale
portava un’amena frescura nei giardini e ne godevano i
pagani e i cristiani clandestini altrettanto quanto le fron­
de tremolanti degli alberi.
Sotto un loggiato in riva al mare, lontano dal mondo,
c’era una giovane coppia, un bel giovane davanti alla
più tenera fanciulla. Questa teneva alta una grande cop­
pa, di una pietra rossiccia translucida intagliata con arte,
per farla vedere al giovane, e i raggi del mattino vi
giocavano con garbo mentre il riflesso rosso sul viso della
fanciulla dissimulava il suo rossore.
Era Dorothea, la figlia d’un nobile che Fabricius, il
governatore della Cappadocia, desiderava ardentemente
in sposa. Siccome però era un ostinato persecutore dei
cristiani, i genitori di Dorothea, che si sentivano attratti
dalla nuova fede e facevano di tutto per approfondirla,
cercarono di opporre resistenza alle pressioni del potente
magistrato. Non che volessero coinvolgere i loro figlioli
nelle lotte religiose o accaparrare i loro cuori alla fede;
erano troppo nobili e liberali per farlo. Ma pensavano
che, a chi tortura gli uomini per le loro credenze, non è
bene affidargli il cuore.
Dorothea non aveva bisogno di queste considerazioni
perché aveva trovato un altro modo di difendersi dalle
istanze del governatore, cioè l’affetto per il suo segretario
Theophilus che ora stava appunto vicino a lei e guarda­
va nella coppa rossa.
Theophilus era un uomo cólto e fine d’origine ellenica,
che aveva superato mólte avversità e godeva la stima di
tutti. Ma in seguito agli stenti della sua giovinezza aveva
DOROTHEA E IL CANESTRO DI ROSE 609

un carattere chiuso e diffidente e, accontentandosi di ciò


che doveva a se stesso, non gli veniva fatto di credere che
qualcuno gli volesse bene spontaneamente, senza altri
fini. Dorothea gli era cara quanto la vita, ma già il fatto
che l’uomo più influente della Cappadocia la voleva
per moglie gli impediva di nutrire speranze, e a nessun
patto avrebbe voluto rendersi ridicolo davanti a lui.
Tuttavia Dorothea cercava di portare a realizzazione i
propri desideri, e intanto di assicurarsi quanto più pote­
va la sua compagnia. E poiché egli appariva sempre calmo
e impassibile, la passione di lei giungeva fino a inventare
qualche astuzia e a scuoterlo con la gelosia fingendo di esser
tutta presa di Fabricius. Ma Theophilus non capiva quella
sorta di scherzi e, se li avesse capiti, era troppo orgoglioso
per farsi vedere geloso ; tuttavia si lasciò trascinare un po’
alla volta, fino a tradirsi ogni tanto, ma poi vinceva il
turbamento e chiudeva il suo cuore, sicché alla tenera
innamorata non rimase altro che procedere con maggior
risolutezza e tirare la rete al momento buono.
Egli si trovava nella regione del Ponto per affari di
stato e Dorothea che lo sapeva era partita da Cesarea
coi genitori che si recavano laggiù in campagna per l’ini­
zio della primavera. E quella mattina aveva saputo atti­
rarlo nella loggia con uno stratagemma complicato, fa­
cendogli credere un po’ al caso un po’ alla sua amichevole
intenzione, in maniera che la buona sorte e il pensiero
gentile gli dessero insieme fiducia e serenità.
Voleva mostrargli il vaso che un buono zio di Trebi-
sonda le aveva mandato per la sua festa. Il viso di lei
raggiava di gioia purissima, vedendo l’amato così vicino
e solo con lei ed essendo in grado di mostrargli una cosa
bella; e anche lui era molto lieto: il sole sorgeva final­
mente nel suo cuore, gli occhi gli brillarono, la bocca
sorrise con fiducia.
Ma gli antichi hanno dimenticato di mettere accanto
a Eros la dea invidiosa che al momento decisivo, quando
la felicità è a portata di mano, getta un velo sugli occhi
degli amanti e distorce loro le parole in bocca.
Mentre gli porgeva fiduciosamente quella coppa ed
6lO SETTE LEGGENDE

egli domandava chi gliel’avesse donata, non so che gio­


conda baldanza la indusse a celiare e a dire : «Fabricius ! »
nella certezza che egli non avrebbe frainteso lo scherzo.
Ma siccome non le riuscì di fondere col suo sorriso com­
mosso quel tono beffardo all’indirizzo dell’assente che
avrebbe reso palese la burla, Theophilus credette ferma­
mente che quell’onestà gioia derivasse dal dono e dal
donatore ; e vide che era caduto in una trappola, avendo
valicato i limiti di un circolo già chiuso e non fatto per lui.
Abbassò gli occhi umiliato e confuso, cominciò a tremare
e lasciò cadere il gioiello che s’infranse al suolo.
Nel primo spavento Dorothea non pensò affatto alla
burla e poco a Theophilus, e si chinò addolorata a rac­
cattare i cocci esclamando: «Come sei maldestro!». E
poiché non lo guardava in viso ella non vi notò il muta­
mento e non immaginò il malinteso.
Quando si alzò e lo guardò, dominandosi, Theophilus
s’era già calmato. Con un’occhiata cupa e indifferente
le chiese perdono quasi con ironia e, promettendo di ri­
sarcire il danno recato, salutò e uscì dal giardino. Pallida
e triste lei seguì con lo sguardo quella figura slanciata
nella bianca toga attillata, dal capo ricciuto, un po’ chino
su una spalla, come immerso in pensieri lontani.
Le onde argentee del mare lambivano dolcemente i
gradini di marmo, e nell’ampio silenzio Dorothea si vide
alla fine dei suoi piccoli artifici.
Si ritirò piangendo nella sua stanza per nascondervi i
cocci del vaso.
Per qualche mese non si videro più. Theophilus ritornò
alla capitale e quando in autunno vi giunse anche Do­
rothea cercò di evitarla in tutti i modi, perché lo atter­
riva anche il pensiero di un possibile incontro. Così ter­
minò per loro ogni letizia.
Allora, come suol accadere, ella cercò conforto nella
fede dei suoi genitori e, appena essi se ne avvidero, la in­
coraggiarono e la introdussero nei riti e nelle loro pre­
ghiere.
Ma le finte cortesie di Dorothea avevano fatto sciagu­
ratamente il loro effetto sul governatore, sicché questi
DOROTHEA E IL CANESTRO DI ROSE 6l I

rinnovò con maggior insistenza la sua domanda, per­


suaso di averne tutto il diritto. E quale non fu la sua sor­
presa quando Dorothea non lo degnò più neanche d’uno
sguardo, facendogli capire che le era più odioso di tutte le
sventure. Ma non per ciò quegli si ritrasse ; anzi diventò
più importuno e cominciò a tormentarla per la sua
nuova fede, unendo alle lusinghe anche qualche mal ce­
lata minaccia.
Dorothea però professava la sua fede apertamente,
senza paura, e non badava a lui più di quanto si badi a
un’ombra invisibile.
Tutte queste cose furono riferite a Theophilus, il quale
seppe così che la fanciulla non viveva giorni lieti. Più di
tutto lo sorprese la notizia che essa non voleva saperne
del proconsole. Benché in fatto di religione fosse pagano o
almeno indifferente, non si scandolezzò delle nuove cre­
denze della ragazza ma cercò di avvicinarla di nuovo
per vedere e sentire come stava. Lei però, in qualsiasi
occasione, parlava, adoperando le espressioni più tenere
e desiose, di uno Sposo celeste che aveva trovato e la
aspettava nella sua bellezza immortale per stringerla al
petto luminoso e porgerle la rosa della vita eterna, e
così via.
Era un linguaggio che egli non capiva per niente; era
offeso e adirato, e il suo cuore si gonfiava d’una strana
gelosia dolorosa contro quel Dio ignoto che abbindolava
la debole donna ; non sapeva infatti interpretare le parole
commosse di Dorothea altro che alla maniera della mito­
logia antica. Ma l’esser geloso di un ente soprannaturale
non feriva meno il suo orgoglio, e il suo cuore non provava
più compassione per una donna che si gloriava di amici­
zie divine. Eppure era stato il suo amore insoddisfatto per
lui a metterle sulle labbra quei discorsi, così come lui
continuava a portare infìsso nel cuore il pungolo della
passione.
Le cose andarono lisce per un po’ finché Fabricius
intervenne con la violenza. Col pretesto di nuove ordi­
nanze imperiali sulla persecuzione dei cristiani, fece im­
prigionare Dorothea e i suoi genitori, ma mise la figlia in
6i2 SETTE LEGGENDE

un carcere separato facendola sottoporre a un interroga­


torio severo. S’awicinò anche lui con curiosità e la udì
imprecar forte contro i vecchi dèi e proclamare unico
Signore del mondo il Cristo cui s’era promessa sposa.
A quelle parole anche il governatore sentì i morsi della
gelosia. Decise di farla finita e ordinò di torturarla e,
se si ostinasse, di ucciderla. Poi se n’andò. La misero so­
pra una graticola di ferro con sotto un po’ di carbone
acceso in modo che il calore salisse lentamente. Ma ba­
stava per far male a quel corpo delicato. Lei si mise a gri­
dare torcendo le membra legate alla graticola e versando
molte lacrime. Theophilus, che di solito non s’impicciava
in quel genere di persecuzioni, venuto a conoscenza del
fatto, era accorso inquieto e atterrito. Senza badare alla
propria sicurezza si lanciò tra la calca curiosa e udendo
i gemiti di Dorothea strappò di mano a un soldato la
spada e fu d’un balzo accanto al suo letto di tortura.
— Ti fa male, Dorothea? — domandò con un sorriso
doloroso accingendosi a tagliare i legami. Ma, come sciol­
ta da ogni pena e pervasa a un tratto da una gioia im­
mensa, lei rispose:
— Perché mi dovrebbe far male, Theophilus? Non
giaccio forse sul letto di rose del mio Sposo amatissimo?
Vedi, questo è il giorno delle mie nozze !
Sulle sue labbra errava come una celia graziosa mentre
quegli occhi lo guardavano raggianti di felicità. Un nim­
bo di luce ultraterrena avvolgeva lei e il suo giaciglio,
un silenzio solenne regnava intorno, tanto che Theophilus
lasciò cadere la spada e si ritirò, umiliato e confuso, come
quella mattina nel giardino in riva al mare.
Il fuoco si rianimò, Dorothea gemette, invocò la morte.
Le fu accordata e la condussero tosto al luogo del suppli­
zio per decapitarla.
S’awiò con passo leggero seguita dal vocio spensierato
del popolo. Lungo la via scorse Theophilus che le fissava
gli occhi addosso. I loro sguardi si incontrarono, Doro­
thea si fermò un momento e gli disse con garbo :
— O Theophilus, se tu sapessi come son belli e rigo­
gliosi i roseti del mio Signore, dove passeggero tra pochi
DOROTHEA E IL CANESTRO DI ROSE 6lß

istanti, e come son dolci i pomi che vi crescono, verresti


anche tu.
Theophilus rispose con un amaro sorriso:
— Ebbene, senti, Dorothea : quando sarai là man­
dami un saggio di quei pomi e di quelle rose.
Lei annuì e continuò per la sua strada.
Theophilus la seguì con lo sguardo, finché il nuvolone
di polvere sollevato dal corteo e dorato dal sole calante
scomparve in lontananza e le strade furono deserte e si­
lenziose. Poi si tirò il mantello sul capo e andò a casa,
e salì con le gambe che gli tremavano sulla terrazza
donde si godeva la vista dei Monti Argei : sopra una delle
prime alture sorgeva il ceppo. Egli vi distinse il formico­
lio della folla e tese le braccia verso l’altura. In quella gli
parve di scorgere nello splendore del sole morente il lam­
po della scure e stramazzò con la faccia per terra. Infatti
in quel momento cadeva la testa di Dorothea.
Ma egli non rimase a lungo immobile, ché una luce
vivida brillò nel crepuscolo insinuandosi abbagliante sot­
to le mani di Theophilus, sulle quali posava il suo viso,
e versandosi nei suoi occhi chiusi come oro colato. Nello
stesso tempo l’aria fu piena di profumo. Come invaso da
una nuova vita ignorata il giovane si alzò: davanti a lui
c’era un bellissimo fanciullo dai riccioli d’oro, dai pie­
dini nudi e lucenti, con un abitino cosparso di stelle, e
teneva con le piccole mani luminose un canestro pieno
di rose bellissime come non si erano mai viste, e, tra le
rose, tre pomi paradisiaci.
Con un sorriso infantile infinitamente candido e schiet­
to e non senza una certa arguzia il fanciullo disse:
«Queste cose te le manda Dorothea», e porgendogli il
canestro soggiunse: «Tienlo forte!» e disparve.
Theophilus si trovò realmente fra le mani il canestro
che non era scomparso; vide che i tre pomi avevano il
segno d’un morso, come usava tra gli amanti nell’anti­
chità. Li mangiò lentamente sotto la volta fiammante del
cielo stellato. Un immenso struggimento gli penetrò nelle
vene come un fuoco delizioso e, stringendosi al petto il ca­
nestro sotto il mantello, scese dalla terrazza, attraversò la
614 SETTE LEGGENDE

città di corsa, ed entrò nel palazzo del governatore che


era a cena e cercava di farsi passar la rabbia che lo rodeva,
stordendosi con mero vin di Coleo.
Theophilus gli si parò davanti con gli occhi lustri e,
senza mostrare il canestrino, gridò dinanzi a tutti :
— Professo anch’io la fede di Dorothea che avete uc­
ciso dianzi; è la sola fede vera!
— E segui dunque anche tu quella strega — rispose il
governatore, e balzò in piedi ardendo di furore e di gelo­
sia. E in quell’ora stessa fu decapitato anche il segre­
tario.
Così fu che Theophilus raggiunse quel giorno stesso la
sua Dorothea, che l’accolse con lo sguardo tranquillo dei
beati; come due colombe che, divise dall’uragano, si
siano ritrovate e volteggino sopra il loro nido, così si li­
bravano quei due, tenendosi per mano, rapidamente e
senza posa lungo la cerchia estrema del cielo, liberi da
ogni peso e pur consci di sé. Poi si separarono per gioco
e si perdettero nell’immensità, sapendo però l’una del­
l’altro il posto e i pensieri, e stringendo in un grande am­
plesso affettuoso tutte le creature e tutta l’esistenza. In
seguito si cercarono ancora con brama novella, ma priva
di dolore e d’impazienza; ritrovatisi si aggiravano uniti
per il cielo o si fermavano felici di rimirarsi a vicenda o
di contemplare l’universo infinito. Una volta però si tro­
varono, nel loro più soave abbandono, troppo vicini al
palazzo di cristallo della Santissima Trinità e vi entra­
rono; lì svennero, addormentandosi come due gemelli
sotto il cuore della mamma, e dormono probabilmente
ancora, se nel frattempo non hanno potuto uscire di lì.
LA BREVE LEGGENDA DELLA DANZA

Io ti riedificherò e tu sarai riedificata, o Vergine


d’Israele; tu di nuovo andrai ornata in mezzo
ai tuoi tamburi, e camminerai in mezzo al
coro dei sonatori. Si rallegreranno allora nel­
la danza le vergini, e i giovani coi vecchi.
Geremia, 31, 4, 13

A quanto racconta san Gregorio, Musa era la danza­


trice tra i santi. Figlia di buona gente, era una vergine
graziosa devota alla Madre di Dio e dominata da una
sola passione, cioè dalla smania invincibile di ballare,
tanto che quando non pregava danzava immancabil­
mente. In tutti i modi. Musa danzava con le compagne,
coi bimbi, coi giovanotti e anche sola ; danzava nella sua
cameretta, in sala, in giardino, sui prati e persino all’al*
tare s’accostava più danzando che camminando, e da­
vanti alla porta della chiesa sui lisci lastroni di marmo
non si lasciava sfuggire l’occasione di provare un balletto.
Anzi, un giorno che era sola in chiesa non seppe rinun­
ciare a far qualche figura di danza davanti all’altare e à
danzare, per così dire, una preghiera alla Vergine Maria.
Ed era tanto assorta che le parve di sognare quando vide
un signore anziano, ma bello, che le veniva incontro dan­
zando e completando le sue figure in modo da combinare
un ballo perfetto. Quel signore indossava un manto di
porpora regale, aveva in capo una corona d’oro, e la sua
barba nera lucente era soffusa della brina argentea del­
l’età come da un lontano chiarore di stelle. La musica
scendeva dal coro dove c’era una mezza dozzina di an­
gioletti, che stavano in piedi o seduti sul parapetto spen­
zolando di fuori le gambette tonde, e sonavano i vari
strumenti. E i piccini s’erano accomodati con molto senso;
pratico, perché si facevano reggere lo spartito da altret­
tanti angioli di pietra che ornavano la balaustrata del
coro; soltanto il più piccolo, un angioletto paffuto che
sonava il piffero, aveva incrociato le gambine e riusciva;
a reggere il foglio con le dita dei piedini rosei. E questi
era anche il più attento; gli altri infatti ciondolavano le
6ι6 SETTE LEGGENDE

gambe, o stendevano ogni tanto le ali frusciando e fa­


cendone brillar le tinte simili al collo cangiante dei co­
lombi o si stuzzicavano a vicenda.
Musa non trovò il tempo di meravigliarsi di tutto ciò,
presa com’era dalla danza che durò parecchio; anche
quel signore gaio ci si divertiva proprio come la ragazza,
che credeva di sgambettare in lungo e in largo per il pa­
radiso. Cessata la musica la ragazza si fermò trafelata, e
allora sì òhe cominciò ad aver paura e a guardare stu­
pita quel vecchio che non ansava né appariva accaldato :
egli prese anche la parola e si diede a conoscere per David,
antenato regale della Vergine Maria e suo messaggero.
E le domandò se avesse voglia di godersi la beatitudine
eterna in una continua danza gioiosa, una danza rispetto
alla quale il ballo.che avevano terminato allora non era
che un melanconico strascinamento.
Lei rispose tosto che non desiderava di meglio. E re
David di rimando:
f — In tal caso non hai da far altro che rinunciare du­
rante la tua vita terrena a tutti i piaceri e a tutte le
danze e dedicarti alla penitenza e agli esercizi spirituali
senza incertezze o recidive.
A sentire quella condizione la giovinetta restò perplessa
e disse:
— Dovrei dunque rinunciare alla danza in tutto e per
tutto? Ma si balla poi davvero in paradiso? Tutte le cose
hanno il loro tempo, e questo mondo terreno mi sembra
buono e adatto per ballarci su : dunque il cielo dev’essere
diverso, perché altrimenti la morte sarebbe una cosa
superflua.
Ma David le spiegò che commetteva un grave errore
e le dimostrò con molti passi della Bibbia e col suo esem­
pio personale che il ballo era realmente una santa occu­
pazione dei beati. Ma ora bisognava decidersi rapida­
mente per il sì o per il no ; se voleva acquistarsi con la
rinuncia temporanea la gioia perpetua, bene, se no egli
passava oltre, perché in paradiso c’era ancora bisogno
di alcune danzatrici.
Musa era ancora indecisa tra il sì e il no e giocherellava
LA BREVE LEGGENDA DELLA DANZA 617

animatamente con le punta delle dita sulla bocca: era


troppo duro non ballare mai più in attesa d’una ricom­
pensa ignota.
Allora David fece un cenno e la musica intonò alcune
battute di una danza così infinitamente dolce e celestiale
che Musa si sentì balzare il cuore nel petto e sussultare
tutta dalla gioia; ma non le venne fatto di muovere un
passo, perché il suo corpo era troppo greve e rigido per
quella musica. Vinta dal desiderio porse la mano al re e
fece la promessa secondo il suo volere.
Questi disparve e gli angeli sonatori svolazzarono via,
affollandosi frusciando a una finestra della chiesa, dopo
aver picchiato, a mo’ di bimbi che ruzzano, con gli spar­
titi arrotolati sulle gote dei pazienti angeli di pietra.
Musa andò a casa con passo modesto mentre la melo­
dia divina le ronzava nelle orecchie, si fece fare un cili-
zio e lo indossò invece degli abiti ornati. In fondo al giar­
dino dei suoi genitori, dove l’ombra degli alberi era più
fitta, si costruì una cella con un lettuccio di muschi e visse
santa e penitente, separata dai suoi congiunti. Passava
tutto il suo tempo in orazione e spesso si flagellava; ma
la sua penitenza più grave era di tener ferme e rigide le
gambe. Bastava un suono, il gorgheggio d’un uccello o il
frullo d’una foglia nell’aria per dare un fremito ai suoi
piedi e farle venire la smania di ballare.
Non riuscendo a liberarsi da quel fremito involontario
che talvolta, prima che lei se n’avvedesse, l’induceva a
fare un saltino, si fece legare i piedini con una catenella.
I congiunti e gli amici erano meravigliati di quel muta­
mento, e nella felicità di possedere una tal santa custodi­
vano l’eremo sotto gli alberi come la luce dei loro occhi.
Molti venivano a chiedere consigli e intercessioni. Spe­
cialmente portavano da lei le bambine un po’ male in
gambe, perché s’era visto che al suo tocco prendevano
un’andatura leggera e graziosa.
Passarono tre anni di quella vita ritirata e, verso la fine
del terzo, Musa s’era fatta affilata e diafana come una
nuvoletta estiva. Giaceva sempre nel suo lettuccio di mu­
sco guardando il cielo con tanto desiderio che già le pa­
6ι8 SETTE LEGGENDE

reva di scorgere attraverso l’azzurro i sandali d’oro dei


beati danzanti.
In una cruda giornata d’autunno si sparse la voce che
la santa era moribonda. S’era fatta levare lo scuro cilizio
e indossare il più candido abito nuziale. A mani giunte,
sorridendo, aspettava l’ora della morte. Il giardino era
pieno di una folla devota, il vento mormorava e le foglie
degli alberi piovevano da ogni parte. Ma a un tratto il
murmure del vento si fece musica e inondò tutte le fronde,
e quando i fedeli alzarono gli occhi, ecco che tutti i rami
erano vestiti di verde novello, i mirti e i melograni fioriti
olezzavano, il suolo si coprì di fiori e un chiarore rosato
avvolse il tenero corpicino della morente.
In quel momento essa esalò l’ultimo respiro, la cate­
nella che le stringeva i piedi si spezzò tinnendo, il cielo
si spalancò raggiante d’infinito splendore e tutti vi pote­
rono guardare. E videro migliaia e migliaia di bei giovani
e di splendide fanciulle che danzavano fin dove l’occhio
poteva giungere. Su di una nube, al cui margine era
un’orchestrina particolare di sei angioletti, un Re magni­
fico scese verso terra e accolse l’anima della beata Musa
davanti agli occhi di tutto il popolo che gremiva il giar­
dino. E la si vide salire nel cielo aperto e perdersi dan­
zando nelle carole sonanti e luminose.
C’era grande festa nel cielo ; e nelle grandi feste - san
Gregorio Nisseno lo nega, ma il Nazianzeno lo conferma -
si usava invitare in paradiso anche le nove Muse perché
dessero una mano, mentre di solito stavano all’inferno.
Ricevevano un buon trattamento, ma, una volta sbri­
gato il loro lavoro, dovevano ritornarsene laggiù.
Finite dunque le danze e le canzoni e tutte le cerimo­
nie, le schiere celesti si misero a tavola, mentre Musa ve­
niva fatta sedere alla mensa dove erano ospitate le nove
Muse. Queste si stringevano l’una all’altra quasi spaurite
e giravano intorno i loro occhioni neri o profondamente
azzurri. Le serviva con le sue mani la solerte Marta,
quella del Vangelo, che s’era messo il suo più bel grem­
biale da cucina e aveva sul mento bianco una graziosa
macchiolina di fuliggine. Essa metteva loro dinanzi le
LA BREVE LEGGENDA DELLA DANZA 6ig

cose più buone, ma solamente quando Musa e santa Ce­


cilia e altre donne esperte nelle arti vennero a salutare
giocondamente le timide Pieridi, queste presero maggior
confidenza. E in quel circolo femminile si svolse la più
garbata e gaia conversazione. Musa sedeva accanto a
Tersicore e Cecilia tra Polinnia ed Euterpe e tutte si
tenevano per mano. Vennero anche i bimbetti della mu­
sica e si misero a far le moine alle belle donne per aver
di quelle frutta lucenti che erano sulla mensa odorante
d’ambrosia. Venne quindi il re David in persona re­
cando un calice d’oro, dal quale bevvero tutte sentendosi
ardere in cuore una gioia purissima. Egli fece tutto com­
piaciuto il giro della tavola, e passando non mancò di ac­
carezzare il mento della gentile Erato. E, mentre alla
tavola delle Muse regnava la massima letizia, si fece ve­
dere persino Nostra Signora in tutta la sua bellezza e
bontà, sedendosi un po’ in loro compagnia e baciando
sulla bocca l’austera Urania incoronata di stelle; anzi
accomiatandosi le sussurrò che non si dava pace finché
le Muse non avessero potuto rimanere per sempre in
paradiso.
Certo però non si arrivò a tanto. Per dar prova della
loro buona volontà e dimostrarsi grate della bontà e delle
cortesie godute, si trovarono tutte insieme in un angolo
remoto dell’inferno a provare una laude, alla quale cer­
carono di dar la forma di quei corali che usavano in
paradiso. Si divisero in due gruppi di quattro voci, mentre
Urania faceva in certo modo da soprano, e combinarono
una curiosa musica vocale.
Alla prossima festa le Muse, invitate come al solito a
sbrigare il loro servizio, appena credettero fosse giunto il
momento buono, si misero in gruppo e intonarono la
loro canzone prima sottovoce, poi sempre più forte. Ma
in quell’ambiente il canto faceva un effetto cosi triste,
era anzi tanto rude ed aspro e nello stesso tempo lamen­
toso e pieno di struggimento, che dapprima si fece un gran
silenzio pauroso e poi tutti i presenti si sentirono stringere
il cuore di mestizia terrena e di nostalgia e scoppiarono
in lacrime.
620 SETTE LEGGENDE

Un singhiozzo infinito si udì nei cieli; i patriarchi e i


profeti accorsero sgomenti, mentre le Muse, sempre cre­
dendo di far bene, continuarono a cantare più forte e più
melanconicamente, tanto che il paradiso intero coi pro­
feti, coi patriarchi e con tutti quanti avevano calpestato
un giorno le zolle del mondo ne fu costernato. Infine
giunse la Santissima Trinità per mettere ordine e ridurre
al silenzio le Muse troppo zelanti con un tuono che rim­
bombò a lungo nei cieli.
Ritornarono allora la calma e la tranquillità; ma le
nove povere sorelle dovettero abbandonare il cielo per
non mettervi piede mai più.
NOVELLE ZURIGHESI
Verso il milleottocentotrenta, quando Zurigo era an­
cora circondata da ampie fortificazioni, in una chiara
mattina estiva si alzò dal suo giaciglio nel cuore della città
stessa un giovinetto, il quale, ormai adolescente, era già
chiamato signor Jacques dai domestici, mentre gli amici
di casa gli davano provvisoriamente del voi, trovandolo
troppo cresciuto per il tu e ancora troppo trascurabile
per il lei.
L’umore mattutino del signor Jacques non era ridente
come il cielo ; egli aveva anzi trascorso una notte inquieta,
piena di pensieri gravi e di dubbi sulla propria persona,
e quell’inquietudine s’era accesa in lui per una frase letta
la sera prima in chissà qual libro impertinente, secondo
cui non esisterebbero oggigiorno uomini veramente origi­
nali, bensì soltanto tipi dozzinali, persone fatte al tornio,
tutte ad un modo. Leggendo quella massima aveva in
pari tempo scoperto che il senso di vaga eccitazione che
da qualche tempo avvertiva a casa, a scuola o durante le
sue passeggiate, altro non era che l’impulso inconscio
ad essere o a diventare un originale, cioè a superare le
teste tonde dei suoi bravi condiscepoli. Già nei suoi temi
scolastici lo stile conciso e disadorno aveva cominciato a
farsi più mosso e colorito ; già egli introduceva qua e là,
ove gli pareva opportuno, un energico sic, così da essere
soprannominato dai compagni «il Sicambro». Già usava
modi di dire quali «benché possa sembrare», oppure
«a mio modestissimo avviso», o anche «l’aurora di que­
sta nuova èra», o «detto fatto» ed altri consimili. Ad
una composizioncina storica nella quale aveva rapidamen­
te elencato due dati di fatto decisamente contrastanti tra
loro, appose persino la chiusa solenne : « Si vede che le cose
non erano così semplici come potevano forse apparire ! ».
Fra le sue carte aveva un quaderno rimasto sempre
bianco, con la dicitura: Il nuovo Ovidio, nel quale egli si
proponeva di redigere una nuova serie di metamorfosi, e
cioè metamorfosi di ninfe e di creature umane nelle pian­
te dell’età moderna, ossia nelle colonne del commercio
coloniale al quale la sua famiglia paterna si dedicava.
624 NOVELLE ZURIGHESI

Invece dell’antico alloro, del girasole, del narciso e del


giunco, si sarebbe trattato della canna da zucchero, della
pianta del pepe, di quella del cotone o del caffè e della
liquerizia, il cui sugo nerastro in quella città si chiamava
popolarmente «sterco d’orso». Egli si riprometteva le
invenzioni più efficaci specialmente dai diversi legni colo­
ranti, dall’indaco, dal rosso dei tintori e così via, ed
in complesso la sua trovata gli pareva molto attuale ed
opportuna.
È vero però che le invenzioni stesse non offrivano alcun
appiglio da cui le potesse afferrare: somigliavan tutte a
grandi vasi tondi, pesanti e senza manico, e per questa ra­
gione il famoso quaderno si serbava, all’infuori del titolo
imponente, d’un candore immacolato. Ma il fatto medesi­
mo della sua esistenza, ed alcune altre manifestazioni in­
solite che non staremo ad enumerare qui, divennero ap­
punto ciò che egli scopriva ormai essere in sé un impulso
di originalità, proprio nel momento in cui tale virtù
veniva negata senz’altro a tutta la sua generazione.
Il signor Jacques osservava la bella giornata timidamen­
te, quasi con tristezza, ma poi, obbedendo alla propria
giovinezza, prese una decisione improvvisa, si munì del
taccuino accortamente preparato ad accogliere dispara­
ti appunti e si dispose ad una passeggiata di tutto il gior­
no, per meditare sul progetto ideato e condurlo in porto.
Salì su un alto bastione, il cosiddetto «Gatto», dove
ora c’è il giardino botanico, dominando con lo sguardo
tutta la città e rendendosi in quel modo superiore ai
suoi concittadini.
Tutti erano immersi nel lavoro e nelle cure quotidiane;
soltanto un ragazzetto che aveva marinato la scuola gi­
ronzolava attorno a Jacques e pareva voler anche lui
diventare un originale, anzi già forse lo superava in ge­
nialità; Jacques potè infatti osservare il piccino insinuarsi
in una delle casematte ed aprire un ripostiglio ivi pre­
disposto per trarne giocattoli e viveri, disponendosi a
divertirsi affatto solo, ma con gran passione.
Tutto insomma era affaccendato, persino il lago lon­
tano era coperto di vele e di navigli da carico pei mercati ;
NOVELLE ZURIGHESI 625

disoccupati erano soltanto la candida catena delle Alpi


ed il signor Jacques.
Dato che su quel « Gatto» non gli si offriva alcuna note­
vole esperienza né un modo di distinguersi, ridiscese in cit­
tà ed uscì dalla porta vicina, perdendosi presto lungo le ri­
ve solitarie della Sihl, che come al solito passava spumeg­
giante attraverso ai boschi e attorno ai blocchi di pietra
trascinati giù dalla montagna. Da cento anni questo an­
golo romantico e selvaggio proprio alle porte della città
era stato visitato dalle teste geniali di Zurigo, da filosofi
e da poeti con lo spadino e la parrucca; proprio lì i gio­
vani conti Stolberg, nel loro viaggio in Svizzera, aveva­
no fatto il bagno, genialmente nudi come Dio li ave­
va fatti, attirandosi le sassate dei pudichi indigeni. Le
rocce erose dal fiume avevano già cento volte servito
da domicilio alla Robinson a scolaretti che marinavano
la scuola; erano misteriosamente anneriti dalle fiamme
su cui erano state arrostite patate rubate o sciagurati pe­
sciolini cascati nelle mani dei Robinson. Il signor Jacques
in persona aveva escogitato non poche di quelle imprese,
ma, miglior commerciante di Robinson, le aveva ogni
volta cedute, vale a dire la scelta del posto e i particolari
dell’attuazione, per denaro sonante ad altri ragazzi, i
quali a loro volta e non meno regolarmente in seguito a
quella scelta e a quei piani s’eran visti assaliti dai conta­
dini come ladruncoli e picchiati di santa ragione.
Il signor Jacques procedeva lungo la riva ricca di
ricordi, tenendo in una mano il taccuino aperto e nell’al­
tra la matita, pronto a fissare le testimonianze della sua
originalità che le acque spumeggianti gli avrebbero certo
suggerito. Ma il fiume laborioso aveva ben altro da fare :
doveva recare ai cittadini di Zurigo il buon legno di fag­
gio tratto dal bosco di cui, secondo la tradizione, nell’an­
tico tempo imperiale, i figli di Alberto d’Austria avevan
loro fatto dono detraendolo dai beni di uno degli assas­
sini del padre, a compenso della loro condotta leale, ed
anche il legno della foresta regalata all’Abbazia di Zurigo
da Ludovico il Tedesco. A migliaia i docili tronchi scende­
vano dai boschi possenti, ricoprendo il fiume e navigando
626 NOVELLE ZURIGHESI

per ore, e la corrente gonfiata dalle piogge recenti, resa


sudicia e giallastra dalla terra che portava con sé, spin­
geva tutto quel peso con forza impetuosa, pari ad un
forte spaccalegna della brava città, ansioso di portare il
legname entro le sue mura.
Di fronte a quello spettacolo il signor Jacques avrebbe
potuto elevarsi a pensieri fecondi, e, risalendo il corso dei
tempi, affondare l’occhio nel grigio passato, considerare
la persistenza delle umane cose, oppure avrebbe potuto
cantare le lodi di quel bosco verdeggiante, solo superstite,
affidato alla tenace energia borghese, di tutta la magni­
ficenza di cavalieri e di abbazie ormai sparite, serbatosi
fresco come cinquecento o mille anni prima.
Ma egli non potè perdersi in tali divagazioni, giacché
subito si diede a contare quanto più rapidamente possi­
bile i tronchi entro un’approssimativa zona quadrata,
a calcolare poi la superficie corrispondente all’incirca ad
una catasta di ben misurato legno di faggio, a delimitare e
numerare infine tali superfici conteggiando il valore del
legname che gli passava sotto gli occhi, cosicché, dopo aver
risalito per mezz’ora il fiume con l’orologio in mano e
senza staccar gli sguardi dai tronchi, potè scrivere nel
suo taccuino per qual somma approssimativa la città in­
troduceva legna da ardere nel corso di due giorni. Egli
conosceva infatti esattamente i prezzi attuali del legname
e, dimenticando la missione propostasi per quel giorno,
si compiacque della sua abilità e diligenza.
Si destò ad un tratto dai suoi calcoli là dove il paesag­
gio fluviale si ampliava ed entrò in una pianura circon­
data da colline e da monti, detta il pascolo comunale di
Wollishofen, dove gli si offrì un nuovo spettacolo.
Egli infatti in quella pianura scorse un gruppetto di
signori quasi tutti attempati che si aggiravano energici
ma composti, facendo tutti i preparativi per un notevole
lancio di bombe. Erano i membri della benemerita an­
tica società delle guardie ed artiglieri, che si dedicavano
a quelle belliche occupazioni per divertimento privato
ed anche per utilità pubblica, e che celebravano in quel
giorno il loro annuale sparo di mortai.
NOVELLE ZURIGHESI 627

Molte di tali armi infatti erano state messe là in posta­


zione e splendevano al sole; lì accanto sorgeva una grande
tenda aperta sotto cui era una tavola carica di carte, di
strumenti, di bottiglie e di bicchieri ed anche di un lucido
recipiente di stagno per il tabacco, con accanto lunghe
pipe di terracotta. Quasi ognuno dei signori aveva una
pipa in mano ed in attesa della nuvola dell’esplosione
soffiava nuvolette di fumo. Due o tre fra i più anziani
portavano ancora il codino e parecchi altri i capelli in­
cipriati. Indossavano marsine azzurre o verdi, con pan­
ciotti e cravatte bianchi.
Ripulirono con attenzione gli affusti delle armi e mi­
sero tutto bene a posto, poiché, come già si leggeva nel
foglio della società del Capodanno 1697 dedicato «alla
gioventù amante della virtù e dell’onore»: Tutto ciò che
il mondo abbraccia ha bisogno di un fondamento.
Poi finalmente cominciarono:
I rapidissimi spari
molesti agli avversari !
Ben presto nuvole di fumo si diffusero per la pianura,
mentre le bombe con alta traiettoria spiccante sul cielo
azzurro raggiungevano i bersagli ed i vecchi signori
s’affaccendavano come diavoli in silenziosa allegria. Qui
uno collocava la bomba nel mortaio, là un altro abbassa­
va l’arma e la metteva abilmente nella giusta direzione,
un terzo accendeva la miccia e:
Già il quarto un mortaio scoperchia ed accende:
Vulcano ha sua prole che bene lo intende !
come si dice in un altro carme del Capodanno 1709.
Malgrado la loro furia, gli occhi di questi discepoli di
Vulcano splendevano in fondo di una antica religiosità,
anche a prescindere dal fatto che fra loro lavorava pure
un canonico del monastero, così che si poteva ricordare
un altro frammento del loro carme artiglieristico, il
quale dice:
Se il Maligno i suoi tormenti
giù ti scaglia in triste schiera,
628 NOVELLE ZURIGHESI

non fia mai che tema senti:


è tuo schermo la preghiera !
La tua fede già discaccia
del cannone la minaccia !
Il signor Jacques, che non aveva nulla da fare, ammi­
rava quel giuoco con modesta melanconia, tenendosi
all’ombra di un albero, finché uno dei bombardieri, che
era suo padrino, non lo riconobbe e lo chiamò a sé,
dandogli da tenere la lunga pipa di terracotta mentre
egli maneggiava il sacco della polvere. Anche gli altri
signori notarono quella comodità e cosi il giovanotto in
cerca d’originalità se ne stette fino a mezzogiorno, sem­
pre reggendo a braccia tese una o due pipe. Soltanto il
canonico, che al posto della pipa fumava un lungo sigaro
col bocchino, non se lo tolse di bocca, ma anzi con esso
diede audacemente fuoco al suo mortaio.
Per compenso della sua fatica, Jacques fu invitato al
pranzo che coronò l’attività degli artiglieri e che li at­
tendeva su una vicina collinetta, all’ombra degli alberi.
Se quegli arditi spiriti già si eran sentiti ringiovanire al­
l’odore della polvere, furono ancor più rasserenati dal
cielo azzurro, dalle verdi foreste circostanti e dal vino
dorato : dopo aver intonato tutti in coro una canzone di
guerra, si cimentarono in un canto alterno al quale nes­
suno di loro ricusò il suo contributo. Vennero così in
luce strofette piuttosto allegre, della cui esistenza il si­
gnor Jacques non aveva mai avuto idea. Egli se ne stava
silenzioso in ascolto, guardando l’uno dopo l’altro i can­
tanti, ed il suo naso pallido e piuttosto sporgente si rigi­
rava intanto lentamente all’intorno, simile alla coda di un
affusto di cannone, come osservò uno degli artiglieri.
Quando però fu la sua volta, e quei signori insistettero
perché anch’egli mettesse fuori i suoi versetti, non gli
venne in mente proprio alcun argomento cantabile e di
ciò rimase molto confuso e depresso.
Ma quegli adepti del fuoco non ci badarono e inizia­
rono il canto alterno Ora scoppia il fragor delle bombe nel
quale viene rivolta ad ognuno la domanda:
NOVELLE ZURIGHESI 629

Come chiami, o fratei, la tua bella?


E alla bella si doveva alzare poi, appena pronuncia­
tone il nome, un brindisi. Gli uni rispondevano, rispar­
miando la dignità della consorte, col nome finto di
un’amica di giovinezza, per esempio Doris, Phillis o
Cloe. Altri nominavano Diana, Minerva, Venere o
Constantia, Abundantia e simili. Queste però non erano
dame, bensì mortai e cannoni prediletti che facevan
bella mostra nell’arsenale.Tali nomi dei pezzi d’artiglieria
venivano lanciati ogni volta al pari di cannonate, con
voce terribilmente tonante, così che pareva quasi che
batterie di pezzi da dodici libbre facessero fuoco l’una
dopo l’altra. Quando venne anche qui la volta del signor
Jacques, egli pensò di far finalmente bella figura e de­
signò quanto più forte potè la sua amata col nome di
«Sapientia». Ma poiché la sua voce in quel tempo stava
mutando, solo le prime sillabe della parola echeggia­
rono in tonalità bassa, mentre la fine usci in un acuto,
il che, assieme al suo aspetto di profonda serietà, apparve
tanto comico da far scoppiare tutti i signori in un’alle­
gra risata.
Egli allora si fece ancor più taciturno e non osò per
lungo tempo alzare lo sguardo.
Il suo padrino che se ne accorse gli batté bonariamente
sulla spalla, dicendogli: «Che cosa avete, mastro Jac­
ques? perché cosi taciturno?».
Il giovinetto tacque ancora per un poco, imbarazzato,
sinché alcuni sorsi di vino buono non gli sciolsero d’un
tratto la lingua, inducendolo imprevedutamente a sfo­
gare l’animo suo. Espose al vecchio signore le sue pene.
Per loro era facile ridere, egli invece era nato in un’epoca
in cui non si poteva in nessun modo diventare un uomo
originale, si era costretti a rimanere gente ordinaria,
il che riusciva tanto più doloroso vedendo gli ultimi rima­
sugli di tempi migliori. Quei vecchi artiglieri con le loro
teste incipriate e le loro pipe di terracotta erano i più
bizzarri tipi del mondo, ed uno studentello d’oggigiorno
si torturava inutilmente la testa per escogitare qualcosa
630 NOVELLE ZURIGHESI

che potesse sostenere il paragone. Lì stava appunto lo


svantaggio deplorevole del secolo nel quale si era co­
stretti a vivere, e contro tale male non c’era rimedio !
Il vecchio sbirciava l’interlocutore senza aggiunger
parola, ma i più vicini si scambiarono delle occhiate,
borbottando ad alta voce contro un’epoca in cui degli
sbarbatelli si prendevano licenza di fare osservazioni in­
solenti intorno ai vecchi, soprannominandoli tipi biz­
zarri e simili.
Il poverino si sentì allora tanto più mortificato e inti­
midito, si fece di fiamma e girò attorno lo sguardo per
vedere da che parte potesse svignarsela. Ma il signor pa­
drino lo prese sotto braccio e gli disse: «Venite, mastro
Jakobus ! Voglio dedicarvi il resto di questa giornata se­
rena, visto che nessuno di noi due sarebbe oggi ormai più
adatto al lavoro ! Faremo una passeggiata verso il castello
Manegg e godremo intanto le bellezze del bosco».
Procedettero così oltre l’ampio pascolo, passarono la
Sihl, risalirono, attraversando bei boschi di giovani faggi,
le alture di fronte e giunsero ad uno spiazzo ombreggia­
to da due grandiosi faggi dagli ampi rami, dove però
il giovanile adoratore di Monna Sapientia incappò in una
nuova avventura.
Lo spiazzo era popolato e ravvivato da una schiera
di scolarette che erano state condotte in gita fuori dalla
città, per la tradizionale festa annuale cosiddetta dell’alle­
gria e che, sotto la sorveglianza di alcuni direttori e
maestre, si dedicavano ai giuochi innocenti del girotondo
e del rincorrersi. Erano vestite tutte di bianco o di rosa,
alcune però, per aumentare lo spasso, indossavano co­
stumi multicolori da contadinelle o da pastorelle, vesti
conservate in molte famiglie appunto per quegli scopi.
Nell’insieme ciò costituiva uno spettacolo sereno e bril­
lante sullo sfondo verde ed ombroso, così che il signor pa­
drino sostò volentieri un momento ad allietarsi a quella
vista gentile. Salutò i direttori a lui noti e scherzò con le
damine travestite, chiedendo loro di dove venissero e
che cosa facessero, se cercavano servizio sul posto o in­
tendevano continuare il viaggio, e così via.
NOVELLE ZURIGHESI 631

Ma subito tutta la schiera delle fanciulle arrivò di


corsa e circondò il vecchio signore insieme al suo giovane
protetto, il quale si trovò ancor più confuso che non fosse
già stato nel corso della giornata. Dovunque volgesse lo
sguardo, vedeva vicinissimi volti fiorenti e ridenti, che
serbavano al limite dell’infanzia tutta la loro amabile fre­
schezza, e non avevano ancora veduto il regno della brut­
tezza che pure li attendeva. Questo visino, per esempio,
dai begli occhi, dai denti un po’ grandi e sporgenti per
eredità familiare, non supponeva che in meno di dieci
anni sarebbe diventato una cosiddetta testa di morto;
laggiù quel regolare e calmo viso d’angelo non sem­
brava davvero lasciar posto ai tratti di una cupidigia e
di una ipocrisia ereditarie, che in breve tempo lo avreb­
bero solcato e devastato ; e chi poteva pensare di quel na­
setto un po’ schiacciato e roseo che esso fosse destinato a
diventar sede e trono di insopportabile curiosità indi­
screta, e che gli occhietti stellanti si sarebbero mutati in
fuochi fatui pieni di falsità? Chi avrebbe previsto di quella
bocca da baci appena un po’ larga, che le labbra ora
tanto graziose, stirate e deformate dal continuo fremito
di piccole passioni, si sarebbero spostate ora verso l’o­
recchio destro ora verso quello sinistro, ricoprendo il lab­
bro inferiore col superiore o viceversa e che poi, tutt’e
due riunite, si sarebbero allungate mettendosi a schia­
mazzare come un becco d’anatra? Ahimè, e quel nasetto
laggiù con tendenza ad appuntini, che sembra ora an­
nunziare la sublime Beatrice di un Dante futuro, mentre
è destinato a trasformarsi in un becco d’avvoltoio, che
roderà giorno per giorno il fegato ad una povera vittima
di marito rimanendo incolume dal tacito odio di lui? Ed
ecco d’altra parte questa rosellina ridente con calma inno­
cenza e con tenera serenità, destinata a sfogliarsi prima del
tempo fra mille crucci ed esperienze imprevedute, scolo­
rita dal dolore e troppo debole per opporsi sia pure col
disprezzo !
Nulla di tutto questo poteva ancora prevedersi; il
gruppo delle fanciulle si affollava simile ad una siepe
viva di rose attorno all’alta figura del padrino e a quella
θ32 NOVELLE ZURIGHESI

un poco più bassa del signor Jakobus, già noto a quelle


birichine, che spesso lo incontravano mentre andava a
scuola con l’aspetto serio e pedante dello studentello,
reggendo pesanti libroni sotto il braccio. Ora se lo po­
tevano curiosamente contemplare a loro agio e ben da
vicino, e scrutavano intrepide il suo volto meditabondo,
il suo atteggiamento imbarazzato, le mani e i piedi un
po’ troppo lunghi, ridacchiando di continuo fra loro sino
a metterlo un poco a disagio. Mentre il vecchio continua­
va a scherzare, accarezzando or l’una or l’altra delle
testoline, esse si avvicinavano sempre più, spingendo bal­
danzosamente in prima linea questa o quella rimasta
indietro. A questo modo capitò che d’un tratto una ra­
gazza alta e robusta, soprannominata da tutte il «ca­
valletto», spinse con tanta violenza una compagna deli-
catina verso il signor Jacques, che essa arrossendo e stril­
lando dovette puntargli le mani contro il petto per non
cascargli addosso, mentr’egli, sorpreso e spaventato, cer­
cava a sua volta di tenersela lontana quasi fosse un im­
preveduto e grave malanno.
Ed essa era invece il suo primo amore, da lui medesimo
come tale scelto e fissato, la sua fiamma giovanile che
senza bruciarlo illuminava tranquilla ogni suo passo,
una signorinetta snella con sette o otto lunghi riccioli
biondi ricadenti sul dorso, vestita di un abito candidis­
simo, con scarpine azzurre trattenute da nastri incrociati
attorno alle caviglie.
Quell’aspetto esteriore era opera e volontà della ma­
dre, la quale cercava in quel modo di suscitare nella bim­
ba, che sembrava trascurarlo, il senso della propria impor­
tanza, e ogni giorno con cura le arrotolava con le sue mani
i lunghi riccioli e la acconciava in modo che si distin­
guesse dalle altre ragazzine, pur essendo una personcina
del tutto comune.
Proprio quella singolarità esteriore aveva indotto il
giovane studente dai gusti ricercati, quando pensò di
crearsi il suo primo amore, a gettare gli sguardi sulla
fanciulla. Egli si limitava del resto a guardarla da lontano
e a percorrere le stesse vie per le quali essa si recava in
NOVELLE ZURIGHESI θ33
chiesa o a scuola, distogliendo però sempre il volto quan­
do le capitava vicino, così che in realtà i lineamenti del­
l’amata gli erano quasi ignoti, mentre aveva in testa
un’immagine approssimativa di cui i riccioli pendenti e
la veste erano parte preponderante. Anche il suo senti­
mento era per ora piuttosto debole e freddo, non accom­
pagnato da alcun battito di cuore. Il cuore non gli batté
neppure adesso, mentre si vedeva così insperatamente
vicina la sua diletta, ed era costretto a scostarla con forza,
il che facendo distinse per la prima volta con chiarezza
per un istante i tratti della fanciulla, e non senza un
breve e rapido senso di stupore, giacché quei tratti non
corrispondevano per niente all’idea che se n’era fatta.
Essi erano inoltre un poco sconvolti dalla vergogna e
dal dispetto per gli urtoni ricevuti. Malgrado queste cir­
costanze, apparentemente pericolose, si può già ora rac­
contare che il signor Jacques fu tanto pedante da rimaner
fedele al suo amore giovanile, elaborandolo sempre più,
per chieder più tardi la mano della fanciulla, sempre
con la calma misurata di un buon pendolo, senza perdere
il sonno e neppure, dormendo, sognare di lei.
Per il momento la scena subì però una nuova svolta im­
provvisa: dalla fattoria vicina, il cui padrone conduceva
una locanda, vennero portati grandi cesti pieni di dolci
d’un bel bruno dorato, profumatissimi, una specialità di
quel posto, da cui traevano il nome. Le ragazzine si voltaro­
no come uno sciame di colombe e corsero senza guardarsi
indietro verso il luogo della allettante merenda, così che
Jacques si trovò d’un tratto solo col suo padrino, costretto
a continuar la passeggiata con lui. Ma il dolce profumo
delle paste giunse al suo naso, e per di più egli per timi­
dezza non aveva mangiato abbastanza fra i discepoli di
Vulcano ed avvertiva un forte appetito. Fu ferito quindi
come da grande ingiustizia e gliene palpitò il cuore,
voltandosi invano a contemplare quei cesti beati mentre
il vecchio signore lo trascinava via. Dispetto e rammarico
si fecero in lui così forti da inumidirgli gli occhi, che si
asciugò di nascosto. Il padrino tuttavia se ne accorse e gli
mandò un’altra occhiata di traverso crollando il capo;
θ34 NOVELLE ZURIGHESI

egli però riteneva che non fossero i dolci, bensì le sue


preoccupazioni giovanili per l’originalità a tormentarlo
ed a stringergli il cuore; accompagnò quindi in silenzio il
melanconico adolescente su per il sentiero che ora si fa­
ceva ripido, sinché giunsero a quello spalto della monta­
gna, sul quale si distinguevano ancora le ultime rovine
dell’antico castello Manegg.
Ai piedi della muraglia sgorgava una piccola sorgente
di fresca acqua montanina, ornata di un’iscrizione in me­
moria dell’antico proprietario del castello, il cavaliere ed
amico dei cantori trovadorici, il signor Rüdiger Manesse.
I due passeggeri si ristorarono alla fresca sorgente, e poi­
ché il discorso verteva su castelli e cavalieri, il giovinetto
riprese animo e compì molto più calmo la salita alla rocca
insieme al vecchio. Giunti lassù sedettero su una panca
e si diedero ad osservare l’ampio panorama; sulle loro
teste si ergevano agili conifere, mentre dal basso salivano
tronchi centenari degli stessi alberi, stendendo sino ai
loro piedi le belle corone dai robusti rami rosseggianti
nella luce vespertina. A sud luccicava sul cielo senza nubi
il monte Glärnisch, dominando valli verdi e boscose,
mentre a nord-est, sul lago, si stendeva nel fulgore del
sole l’antica città.
«Voi dunque vorreste proprio essere un originale,
mastro Jacques?» disse il padrino mentre ricacciava
con una carezza i capelli dalla fronte accaldata del suo
protetto. «Già, ma importante è soltanto sapere di che
tipo ! Un originale di valore è soltanto chi merita di es­
sere imitato ! Ma degno di essere imitato è solo chi sa far
bene quel che intraprende e chi produce sempre qualcosa
di buono al proprio posto, anche se non è poi nulla di
inaudito e di arcisingolare ! Ma questo è in fondo così poco
frequente, anzi così raro, se si osserva bene, che la per­
sona la quale vi riesca assumerà poi sempre l’habitus di
un indipendente e di un originale, e con ciò si manterrà
nella memoria degli uomini, sia come stirpe che come
individuo.
Ecco per esempio questa famiglia, da tanto estinta, dei
Manesse, che nel tempo della loro floridezza portavano
NOVELLE ZURIGHESI θ35
a termine tutto quel che intraprendevano, e, senza farsi
notare per modi strani, assolvevano esemplarmente la
loro funzione, anche se non era la più alta. Noi qui ora
ci troviamo sulle rovine del loro castello, laggiù in città
possiamo vedere ancora l’alto tetto della loro torre caval­
leresca. Guarda! Deve essere tra la cattedrale di Nostra
Signora e il Duomo ! Ci sono lì attorno, è vero, anche
altri tetti aguzzi di antiche torri patrizie. Alla estremità
sinistra la torre Glentner e subito sopra la Wellenberg,
e più a destra la torre Grimmen, e lì vicino, come almeno
sembra, la Escher, mentre sotto, dietro alla Wasserkirche,
si erge la torre dei signori di Hottingen : ma dove si sta­
glia la sagoma dell’antica torre dei Manesse? Attento!
Se col dito risali dalla casa Wettinger, posta sulla riva,
superando la confusione dei tetti, arrivi proprio al cosid­
detto castello verde: tira allora una riga dritta a sinistra
fino a quel grosso ed alto scheletro di torre: proprio lì
abitò per un certo tempo una parte dei Manesse ! ».
Il giovane teneva dietro con attenzione e non senza
fatica al dito del vecchio; giacché entro i bastioni ed i
portoni della città sorgevano ancora molte grigie torri
delle antiche mura di cinta e delle antiche porte, fra le
quali bisognava cercare le elevate dimore delle fami­
glie nobili.
«Adesso» continuò il vecchio «quegli oscuri solai so­
no popolati da ragni e pipistrelli; il macellaio va a farvi
asciugare le sue pelli, o un ciabattino solitario martella
in una stanza là in alto! Ma una volta c’era allegria; là,
e qui dove siamo ora noi, Rüdiger Manesse von Manegg
raccolse uno dei più bei libri del mondo, i canti dei
Minnesinger, dei cantori d’amore, il cosiddetto codice
Manesse, che è ora a Parigi nella biblioteca del re. Quan­
do a suo tempo ci andrai, devi vedere quel libro : è legato
in cuoio rosso e il nome indegno di Luigi XV gli è impresso
sul dorso. Ma il nome del raccoglitore, del nostro Rüdi­
ger, è diffuso per tutto il mondo, appunto perché egli ha
attuato con perseveranza un’impresa tanto ricca d’amore
e di gioia e pur così modesta; il suo nome vive benché
di recente un pedante abbia tentato di mettere in discus-
636 NOVELLE ZURIGHESI

sione il suo merito, un saputello, per il quale quell’ope­


ra dopo cinquecento anni è ancora fonte e strumento del
suo lavoro quotidiano.
Ma il formarsi di quel codice fece si che sorsero e fiori­
rono altri originali ; tutto accadde con serenità e spasso e
negli anni di gioventù mi compiacqui di ripensarmi e
rappresentarmi quella storia, tanto che posso raccontarla
quasi come se l’avessi scritta, e così voglio ora narrarla a
te. Avremo una bella notte di luna e prima di arrivare a
casa avrò finito. Si tratta principalmente di mastro Had-
laub, che, secondo quanto presumo, ha scritto il libro,
ha in parte dipinto le numerose illustrazioni ed è così
facendo diventato egli stesso poeta per le consuetudini
trovadoriche e per gli scherzi che con lui si permisero
quei signori. Delle onorevoli storie d’amore è comunque
giusto che tu ormai sappia qualcosa».
A questo punto il vecchio diede un’altra occhiata fur­
besca al signor Jacques, pensando di confonderne un po­
co la rigida serietà. Mentre prendevano la via del ritor­
no, gli raccontò la seguente storia del come nacque il co­
dice Manesse di Parigi.
HADLAUB

A sud della cittadina di Kaiserstuhl, nell’Aargau, sor­


gono i due castelli del Wasserstelz nero e del Wasserstelz
bianco, il primo posto in mezzo al Reno, anzi, un po’
più vicino alla riva sinistra, ancora oggi abitato da gente
varia che vorrebbe comprarlo, l’altro, già tutto in rovina,
sulla riva destra. Al tempo di Rodolfo d’Asburgo, i due
castelli erano invece abitati da due sorelle, ereditiere di
un modesto feudo, che, una volta suddiviso, non aveva
lasciato un gran patrimonio. Per questo la più anziana,
Mechthildis, quella che dimorava nel Wasserstelz bianco,
ma era tuttavia nera come la fuliggine, fosca e violenta,
cercava senza posa di togliere l’eredità alla sorella mino­
re, Kunigunde del Wasserstelz nero, e di spingerla con
mille intrighi a entrare in convento. Questa Kunigunde
era di figura gentile e leggiadra, bianchissima di pelle e
di Ìndole serena, e aveva migliori possibilità di nozze
fortunate che non l’altra, tanto maligna.
Ciò malgrado, essa non consentiva ad alcuna richiesta
di matrimonio ed anzi se ne difendeva quasi con altret­
tanta cura come dagli astuti attacchi orditi dalla sorella in
combutta con altra gente maligna. La bella Kunigunde
alla fine si rinchiuse completamente nella sua fortezza
sull’acqua, lambita tutto all’intorno dalle verdi e pro­
fonde onde del Reno. Sulla riva possedeva un mulino te­
nuto da un suo fedele e valoroso vassallo, il quale sorve­
gliava con i suoi uomini incipriati di farina l’approdo e
l’ingresso al castello. Tutt’attorno del resto non regnava
che il silenzio dei boschi e non s’udiva che lo scorrere del
fiume ; se non che, una volta, qualcuno disse di aver udito
giungere dalla finestra aperta del castello il pianto di un
bambino ed un’altra volta un secondo affermò di averlo
anch’egli sentito, e in pieno giorno. Ben presto corse per il
paese la voce che la dama del Wasserstelz nero riceveva
le visite di un potente cavaliere, il quale non era altri che
il cancelliere dell’imperatore, Heinrich Klingenberg, da
cui c’era da guardarsi. La bella era innamorata di lui,
ÖS» NOVELLE ZURIGHESI

che, valido negromante, quando giungeva nella regione,


traversava il Reno di notte a piedi asciutti per poterla
visitare senza essere visto: egli scivolava su di una scala
di corda lucente come l’oro, oppure, come altri opina­
vano, veniva portato da demoni su per il muro della torre
fino alla finestra aperta della sua donna. Egli abitava
allora nel vicino castello di Röteln, oppure nella cittadi­
na di Kaiserstuhl, che più tardi comperò, in qualità di
vescovo di Costanza, da uno degli ultimi signori di Re­
gensberg.
Fatto è che, dopo circa sette o otto anni, la damigella
del Wasserstelz nero fece accompagnare a Zurigo una
graziosissima fanciullina, e poco dopo entrò essa stessa
volontariamente come monaca nell’abbazia di Zurigo.
Trascorso un altro lasso di tempo, per l’intervento influen­
te dello stesso vescovo Heinrich, venne eletta badessa.
Se questo passaggio alla vita monastica sia derivato
dal pentimento, per far penitenza degli anni della pas­
sione, o se la nobile coppia amorosa abbia mirato, dato
il proprio stato di alti prelati, a incontrarsi più spesso in
libera società, godendo le gioie di un’affezione ormai più
tranquilla, non lo possiamo più stabilire, però i costumi
del tempo e gli eventi successivi confermerebbero piut­
tosto la seconda ipotesi.
Nella nostra città di Zurigo v’era allora una società
varia ed eletta. Oltre ai prelati ed ai loro dipendenti,
vivevano in essa, già da parecchi secoli, antiche famiglie.
Erano i discendenti di regi governatori con vecchi nomi
e nomignoli germanici di una o due sillabe stranamente
deformati e ridotti poi a enigmatici cognomi, serbando
talvolta alcuni remotissimi suoni delle epoche della mi­
grazione dei popoli. Accorse verso Zurigo anche la pic­
cola nobiltà dei paesi circostanti, col nome delle sue re­
sidenze sui monti o nelle vallate; ed anche una serie di
importanti signorotti della Germania meridionale fre­
quentava Zurigo e vi aveva acquistato diritto di cittadi­
nanza. Fra tutti questi regnava una libera socievolezza,
non priva di grazia e, come un tempo in tali zone più
ristrette si continuò ad usare in architettura lo stile roma-
HADLAUB θ39
nico già abbandonato in regioni più ampie per quello
gotico, così a Zurigo ci si compiaceva ancora di un tar­
divo amore per la poesia trovadorica quando la sua
fioritura era già da un pezzo trascorsa.
Ora però dobbiamo occuparci della piccola Fides, la
figlioletta naturale della principesca badessa. Lo faremo
nel modo migliore, passando dall’altra parte della città e
salendo lo Zürichberg, dove subito incontreremo la bim­
betta a passeggio, tenuta per mano dal vecchio maestro
Konrad von Mure, il valente direttore della scuola di
canto della cattedrale. Quel buon vecchio ha accolto
sotto le ali della sua amicizia la vivace ragazzina, educata
per influente intervento del cancelliere nella casa del si­
gnor Rüdiger Manesse, e quel giorno, essendo ospite abi­
tuale della vicina dimora cavalleresca donde discende
anche il suo superiore, l’abate Heinrich Manesse, vi si è
recato a prendere la piccola amica per una passeggiata.
Quanto più si saliva, tanto meno però gli riusciva di
trattenere per mano la bimba vivacissima, e ciò a causa
della crescente debolezza e difficoltà di respiro, per cui,
del resto, quella eccellente persona non ebbe più molti
anni da vivere. Lasciò quindi che la bimba corresse a suo
piacimento, mentre egli con un bastone s’aiutava a risa­
lire gli ombrosi sentieri che conducevano al culmine della
collina fra numerose fattorie disseminate sul pendio.
Quand’ebbe raggiunto un punto da cui godere il pa­
norama, sostò per un poco, seduto su di un masso, com­
piacendosi a girare lo sguardo sull’ampio paesaggio, o
meglio su quella adunata di paesaggi che si allineava
con la stessa contraddizione della nostra Zurigo, della
sua gente e della sua storia. La regione montuosa verso
sud era di carattere prettamente elvetico, uno zig-zag
inquieto e sconvolto, un mondo selvaggio tenuto insieme,
in certo modo, soltanto dall’azzurro dell’aria estiva e
dal bagliore delle nevi e del lago. Se invece il cantore vol­
geva lo sguardo a destra, verso occidente, scorgeva la
tranquilla vallata della Limmat, per cui serpeggiava il
fiume, mandando qua e là luccichii e perdendosi poi
fra le morbide e flessuose linee dei colli. La valle, inqua-
640 NOVELLE ZURIGHESI

drata tra un possente albero di noce ed un paio di giovani


frassini, così immersa nell’oro della luce vespertina, asso­
migliava per la sua armonica semplicità ad un quadro del
gran lorenese che dipinse quattro secoli più tardi. Il
vecchio signor Konrad, quando faceva le sue soste in
quel punto, amava soprattutto guardare in quella dire­
zione, poiché la pace di tale spettacolo estasiava e cal­
mava il suo animo sempre agitato, malgrado l’età.
Allorché si rimise in cammino e giunse in alto, sul
dorso della montagna gli apparve un nuovo paesaggio.
Verso nord e verso oriente, al di là dei boschi e dei pendìi,
si stendeva una zona piana limitata all’estremo orizzonte
da sottili catene di monti di un intenso azzurro. In primo
piano invece si ergevano gruppi di querce maestose fra le
cui fronde oscure scintillava il biancore delle nubi. Quel­
la regione avrebbe potuto trovarsi nello Spessart o nel-
l’Odenwald, se non si guardava all’indietro.1
Qua e là fra gli alberi spiccava la dimora di uno di
quei montanari che avevano portato le loro case sin lassù,
spesso un discendente dei primigenii liberi coloni che
continuava a reggere un podere con l’antica libertà. Uno
di questi era senza dubbio il contadino Ruoff, ovvero
Rudolf di Hadelaub,2 la cui casa sorgeva al margine di
un bosco di quel nome. E il nome sembra indicare una
contesa probabilmente avvenuta in quel bosco o per quel
bosco ; fra le denominazioni locali di oggi non lo ritroviamo
più, perché l’intero podere è stato assorbito da possedi­
menti più grandi ed anche la casa colonica è da tempo
sparita. Però oggigiorno una frazione di foresta situata
appena cinquecento passi più a nord serba ancora il no­
me di «Streitholz» (bosco della lite). Allora la casa co­
struita con sassi grossi e piccoli presi dal torrente e dai
campi, munita di un basso tetto ad assicelle, era situata
insieme alle stalle in legno proprio accanto ad uno dei
burroni in cui va a gettarsi il torrente Wolfbach.
I. Lo Spessart e l’Odenwald sono due regioni montuose e bosco­
se, che si trovano, rispettivamente, nella Germania centrale e nel­
la Germania sudoccidentale. 2. Hadelaub·. da «Hader» (lite) e
«Laub» (fogliame) significa Bosco della contesa.
HADLAUB 641
Il signor Konrad si diresse a quella volta e chiamando la
bimba andò in cerca del padrone. Questi, un uomo alto
ed ossuto, si era appena alzato da un cavalletto sul quale
nelle ore di ozio soleva preparare lunghi fusti di lancia.
Il legno gli era fornito dagli agili frassini che crescevano
in abbondanza lungo il torrente e sulle alture. Provava
appunto la lunghezza e dirittura dell’asta che stava in­
tagliando, tenendola a filo di piombo davanti alla faccia
e socchiudendo gli occhi. Accorgendosi dell’arrivo del
reverendo, depose con calma il fusto sul mucchio di
quelli già pronti e lucidi, per salutarlo.
— Ruoff, tu meriti davvero il nome della tua casa ! —
esclamò Konrad von Mure, andandogli incontro — dove
c’è nel mondo lotta e battaglia, perché tu ti dia a fabbri­
care armi con tanto zelo?
— Succede sempre qualche cosa, — replicò l’altro
— ora qui ora là! Del resto bisogna che prepari i fusti
quando ho tempo ed il legno è asciutto, così trovo poi
un po’ di soldi! Benvenuto, signor Konrad, che buone
nuove recate?
— Tu sei sempre uno zurighese industrioso, siete tutti
eguali e non ne avete mai abbastanza, tanto laggiù al
lago, come quassù in montagna!
— Sì, noi siamo come quei bracconieri d’alta monta­
gna: dobbiamo cercare d’arraffare qua e là un po’ di
erba senza padrone; invece delle pareti rocciose qui ab­
biamo i muri di cinta delle chiese per arrampicarci!
Quando uno spera di comperare con danaro duramente
risparmiato un campicello o un praticello in buona posi­
zione, ecco che già a portarglielo via c’è in basso, in alto,
dietro e davanti al monte una casa di Dio, e bisogna
ancora considerare un grande onore se un povero diavolo
è ammesso a far da testimonio!
— Chiama la tua signora — disse il cantore ridendo
— perché dia un po’ di latte alla piccina ! È accaldata
ed ha sete. O piuttosto entriamo in casa per un momento,
giacché voi gente di campagna non conoscete la gioia
dei nobili di sedere a banchetto fra il trifoglio verde ed
i fiori! — Il padrone scosse i trucioli dal suo robusto
642 NOVELLE ZURIGHESI

grembiule di cuoio aggrottando lievemente la fronte,


giacché non gli piaceva che lo trattassero in certo modo
da contadino in contrasto con le consuetudini signorili.
Già il volto accuratamente rasato, incorniciato soltanto
da una barbetta a corona, e i capelli corti mostravano
che egli, quale libero possidente, sentiva di appartenere
alla buona società e non intendeva venir confuso con
un irsuto servo della gleba. Gli usi a quel riguardo, come
in molti altri casi, erano mutati: i signori erano sbarbati,
mentre i servi avevano lunghe chiome, e con lunghe
barbe si potevano concepire soltanto gli apostoli ed i re.
— Se è da nobili mangiare all’aperto, — disse — noi
siamo nobilissimi, perché in estate pranziamo all’ombra,
dietro la casa. Là potrà bere il suo latte la vostra damigel­
la, mentre voi prenderete un sorso del vecchio sidro stagio­
nato delle nostre pere selvatiche, che voi ben conoscete.
— Quello rinfresca e non è senza aroma; — replicò
il cantore — se una volta scendi da me con tua moglie
al Duomo, vi offrirò in cambio un bicchiere di vino ita­
liano portatomi da un signore amante del bel canto.
Si recarono quindi dietro la fattoria, dove effettiva­
mente stava un’antichissima tavola di pietra, sotto grandi
alberi che salivano dal torrente impetuoso e diffondevano
la loro ombrosa frescura. Tronchi accostati e ricoperti di
ghiaia e di zolle verdi formavano un guado carreggiabile
verso il bosco sull’altra sponda. La moglie di Rudolf, la
signora Richenza, era affaccendata ad una fontana. Era
meno alta di suo marito appena di un paio di pollici, così
che solo ora, vedendo la coppia insieme, si notava la sua
alta statura. Aveva i capelli ben tirati indietro sulla fronte
e sulle tempie e raccolti sulla nuca in una forte treccia,
come necessariamente li portano le donne che lavorano.
Anche la veste era un poco più corta di quanto usasse
per la classe dei liberi, e questo, unito alla rapidità dei
suoi gesti, le dava un aspetto robusto, mitigato però da
una tal qual gentilezza alemanna del suo chiaro volto.
Richenza strinse cordialmente la mano al reverendo
ed alla bambina e portò subito il latte ed il limpido si­
dro giallo insieme a buon pane di segale, mentre il ma­
HADLAUB θ43
rito, entrato pure in casa, sceglieva lento e ponderato
una salsiccia fra le provviste affumicate appese sopra il
camino. Spettava a lui infatti giudicare come fossero da
distribuirsi nell’impresa della vita i viveri più preziosi,
in modo che le riserve bastassero e non si verificassero mai
carestia, debiti ed impegni, i nemici sempre in agguato.
La piccola compagnia non era da lungo tempo seduta
alla tavola di pietra, quando dal bosco giunse il chiaro
canto di un fanciullo, e presto comparve una piccola
mandria di mucche che tornava dal pascolo ricondot­
ta a casa, passando per il ponte, dal bimbo decenne
del colono. Vestito soltanto di una lunga tunica di lino
azzurro, a piedi nudi, il volto e le spalle circonfusi da
una massa dorata di capelli biondi, con in mano un
lungo giunco, il fanciullo offriva insieme alle sue bestie
un quadro grazioso ed inconsueto, illuminato per di più
dalle luci del tramonto che si insinuavano attraverso il
verde del fogliame. Gli occhi di Konrad seguirono con
compiacenza quell’apparizione, sinché il bimbo, conti­
nuando a cantare spensierato e senza quasi voltarsi a
guardarli, ebbe guidato le mucche nella stalla, tornando
poi verso la tavola a prendere la sua cena. Porse la mano
al vecchio signore senza che glielo suggerissero, ma poi
ritrasse stupito la mano dietro il dorso e si diede ad os­
servare la piccola Fides che stava appunto per recare alla
bocca la scodella del latte ed occhieggiava al di sopra di
essa. La depose un istante per dire: «Che sciocco ra­
gazzo ! », ma subito la riprese, la vuotò e si ripulì le labbra.
Quello abbassò gli occhi mortificato e volse il capo con
la bocca tremante; un’apostrofe tanto scortese non gli
era mai toccata nel breve corso di sua vita. Quando però
Richenza attirò a sé il fanciullo per rabbonirlo e il cantore
rimproverò alla bimba la sua scortesia, fu questa a pian­
gere e toccò ancora a Richenza intervenire per calmarla.
«Guarda, Johannes,» disse al ragazzo «la ghirlandet-
ta della signorina è quasi appassita ; scendi con lei al tor­
rente, dove ci sono tanti fiorellini azzurri e fanne una ghir­
landa fresca, ma tornate prima che sia troppo freddo».
In verità la coroncina di fiori di cui si adornava la
644 NOVELLE ZURIGHESI

chioma sciolta della damigella non era più in ottime con­


dizioni, così che la proposta fu approvata anche dal can­
tore. I ragazzi, quasi rappacificati, scesero dallo stretto
sentiero, là dove anche oggi il Wolfbach si insinua attra­
verso massi di pietra di tutti i colori, fra radici sommerse
ed altri misteri, formando cascatelle e cento altri piccoli
strani spettacoli. Giunsero ben presto ad un punto in cui
la riva è per un tratto soleggiata e quasi sempre smaltata
di fiori. Tutto era azzurro di nontiscordardimé, ma vi
si inframmezzavano anche stelline bianche e campanule
rosse, il che in quell’epoca tanto amante dei fiori costitui­
va una gioia non soltanto per gli occhi dei bimbi.
La piccola Fides si diede subito al lavoro ed intrecciò
rapida una ghirlanda per la quale Johannes, obbedendo
alla sua scelta ed ai suoi ordini, giungeva appena in tem­
po a porgerle i fiori. Prese il fusto ed il filo della ghirlanda
appassita, gettandone i fiori vizzi nel torrente. Dopo che
si fu posta in capo il nuovo ornamento cominciò a guar­
darsi intorno e a saltellare sulle pietre sporgenti dall’ac­
qua corrente, finché si trovò su una dalla quale non sa­
peva più scendere senza entrare nell’acqua. Questo però
non le conveniva per le belle scarpine e per l’abito:
dopo una breve esitazione ordinò al ragazzo, che l’aveva
seguita a salti e le stava ora accanto impacciato sulla
pietra, di riportarla a riva. Egli scese subito nel torrente,
prese in braccio la donnina in erba e con dura fatica,
mentre essa gli si stringeva al collo, la portò all’asciutto,
superando le pietre tonde ed aguzze.
Nel frattempo, mastro Konrad von Mure si avvicinava
allo scopo di quella sua gita. Da lungo tempo, vivendo in
buona amicizia con la gente di Hadlaub, aveva notato
la costituzione delicata e l’indole vivace e pronta ad ap­
prendere del piccolo Johannes, e desiderava prenderlo
con sé, prima per farsene un discepolo ed un piccolo scri­
vano di cui sentiva la mancanza in lavori di vario tipo,
poi anche per avviarlo a sorte migliore di quella che gli
pareva lo attendesse lì, in cima ad una montagna. Co­
minciò quindi a parlare di come il ragazzo sapeva can­
tare, ritenendo, sia pure a frammenti, parole e melodie
HADLAUB θ45

di molte opere musicali, senza che si sapesse come ci


fosse riuscito. Poi formulò a poco a poco la sua propo­
sta, non incontrando però il consenso del padre. Questi
anzi lo interruppe mentre era nel pieno della sua orazio­
ne, dicendogli:
— Caro signore, non continuiamo l’argomento ! A que­
sto ragazzo hanno già dato, senza ch’io sappia bene co­
me, al posto di un onesto nome da cristiano, come si
usa per tradizione qui sulla montagna e nelle terre intor­
no, quale Heinz, Kunz, Götz, Siz, Frick, Gyr, Ruoff,
Ruegg, un nome alla moda, da prete: Johannes. Ma non
voglio che le cose vadano oltre, quanto al diventare pre­
te! È il mio unico figliolo. Da tempo immemorabile i
miei avi hanno tenuto queste terre: non voglio che per
colpa mia le cose mutino e che non vi sia più uno della
mia famiglia a reggere l’aratro, a far pascolare le bestie
e a scendere da qui con lo scudo e la lancia se chiamato
alle armi.
— Be’, per quello che riguarda il nome da cristiano —
replicò il vecchio sorridendo — vi hanno informato male.
Mi avete citato come cristiani solo gli antichi e selvaggi
nomi pagani, non esclusi il vostro ed il mio. Sapete come
si scriveva in passato il vostro nome di Rudolf? Hruodwolf,
lupus gloriosus, un lupo celebre, il capo dei lupi, il lupo
dei lupi ! Bel cristianesimo ! Come suona invece santo il
biblico nome di Johannes, sia esso il Battista o l’apostolo
prediletto del Redentore o l’Evangelista !
In quel momento giunsero i due fanciulli; il cantore at­
tirò subito a sé il ragazzo, e gli prese le mani dicendogli :
— Guardate, o capo di tutti i lupi, queste manine
delicate sono forse adatte a guidare l’aratro e a portare
la lancia? Non sono piuttosto quelle di un prete o di uno
studioso? Di un pacifico erudito Johannes? Non osservate
la saggezza della buona madre natura che da un popolo
tanto vigoroso di quando in quando crea un tenero arbu­
sto, atto a diventare maestro o sacerdote, perché altri­
menti andreste a finire tutti, malgrado la vostra forza,
nell’ignoranza e nel peccato? Non è poi detto che egli
debba ad ogni costo diventare prete, a me basta che co-
646 NOVELLE ZURIGHESI

minci ad imparare qualche cosa senza perdere tempo !


— Vorresti andare a scuola dai signori del Duomo? —
intervenne la madre, rivolgendosi al fanciullo che guar­
dava stupito tutti, l’uno dopo l’altro.
— Vorresti scrivere dei bei libri ed imparare a dipin­
gere con l’oro ed i vari colori, a cantare canzoni e a suo­
nare il violino? — aggiunse il cantore — Belle canzoni
di maggio, mottetti sapienti ed il canto di Michele: 0
héros invincibilis dux . . . Non cantavi cosi oggi?
— Si, dico cosi: 0 Herr, 0 Vizibilidux! — rispose Johan­
nes con gran zelo, e Konrad gli domandò ridendo chi mai
glielo avesse insegnato.
— Frate Radpert del piccolo convento — replicò il
bimbo soddisfatto.
— È un monaco vecchissimo, un agostiniano che sta
là dietro il querceto, ed una volta da soldato ha compiuto
una spedizione in Terra Santa e racconta sempre al
bambino che solevano cantare quella canzone al momento
della battaglia.
Questa osservazione fu della madre Richenza, mentre
suo marito Rudolf disse al ragazzo:
— Ebbene, che cosa preferiresti? Vuoi stare a scuola
coi monaci e farti la tonsura, o preferisci rimanere qui
all’aria aperta e diventare un giovanotto in gamba?
Johannes comprese solo a metà il senso di quella discus­
sione, si guardò ancora attorno e alla fine suppose si
trattasse di una scuola in cui vi sarebbero state delle
damigelle simili a quella accompagnata lì dal signor
cantore e, poiché questa gli piaceva, dichiarò senz’altro
di voler andare a scuola.
— Basta, — esclamò il padre con un tono piuttosto
severo — non scherziamo oltre su un argomento simile ;
Johannes, va’ in casa a prendere il corno per chiamare i
garzoni e le donne!
Il cantore s’accorse che per quel giorno non avrebbe
ottenuto nulla, e poiché il sole stava per tramontare si
congedò e prese la via del ritorno. Intanto giungevano
frettolosi alla fattoria, con grandi grida e chiasso, un
vecchio ed un giovane garzone, con i buoi e gli erpici,
HADLAUB 647

tutti impazienti, uomini ed animali. Vedendo che l’atten­


zione del padre era da essi assorbita, Johannes colse l’oc­
casione per fuggire di casa e inseguire giù per la china il
cantore e la bambina. Era scalzo e non lo potevano udire.
Appena il signor Konrad si fermava un momento per
riposarsi e tirare il fiato, Johannes sostava pure, intimo­
rito, a una certa distanza, riprendendo la corsa appena
quelli procedevano. Ad una di queste soste lo scoprì la pic­
cola Fides, voltandosi indietro, ma gli lanciò uno sguardo
così altero e lontano, non avendo neppure l’aria di infor­
mare il vecchio signore del suo inseguimento, che egli se
ne rimase indietro mortificato, seguendoli melanconica-
mente con gli occhi fin che disparvero nell’ombra della
sera. Corse allora verso casa, atterrito in parte dalle
conseguenze della sua disobbedienza ed in parte dal mi­
stero della notte incipiente, e là la mamma, che già lo
andava cercando, l’accolse e lo fece entrare inavvertito,
ponendolo poi a letto, mentre con affetto materno me­
ditava fra sé l’offerta del degno sacerdote.
Quando dopo alcuni anni donò al consorte un secondo
figlio maschio, straordinariamente grande e robusto, Ru­
dolf di Hadelaub mutò pensiero ed acconsentì al deside­
rio del mastro cantore della prepositura di Zurigo.
Dopo circa otto anni incontriamo Johannes Hadlaub,
come viene ormai chiamato, leggiadro adolescente dai
riccioli biondi, instancabilmente immerso in lavori eru­
diti di ogni genere. Konrad von Mure lo aveva preso
sotto la sua speciale protezione, insegnandogli a leggere
e a scrivere con la stessa fretta con cui un guerriero ini­
zia il proprio ragazzo al cavalcare ed alla scherma.
Insieme a quell’esercizio e per mezzo di esso doveva im­
parare la lingua tedesca e quella latina, giacché il mo­
naco non gli concedeva a tale scopo tutto il tempo che
avevano i chierici ed i figli dei nobili nella scuola del
convento. In conformità alle consuetudini e al genere del
suo lavoro egli doveva rendersi subito il più possibile utile,
il che, al suo posto, consisteva nel copiare con chiarezza
e precisione. Per conto proprio doveva poi avvezzarsi
con tacita attenzione a comprendere quasi a volo il con­
648 NOVELLE ZURIGHESI

tenuto dei confidenziali discorsi del vecchio. Col tempo


avrebbe deciso che cosa fare, se gli sarebbe piaciuto di­
ventare un vero erudito e teologo. Per intanto, aveva
non solo da trascrivere diligentemente note e testi per la
musica della chiesa, bensì anche da copiare le opere in
versi di Konrad, i suoi trattati mitologici, geografici,
storici e scientifici, sinché il suo padrino Johannes Ma­
nesse, custode della prepositura di Zurigo, il figlio del
signor Rüdiger, non scoprì la cosa e non s’accorse della
svelta e graziosa calligrafìa del ragazzo. Egli quindi non
esitò e gli fece copiare senz’altro tutti i canti d’amore e
le poesie cavalleresche antiche e recenti che, secondo il
suo gusto profano, riusciva ad acquistare. Konrad von
Mure a sua volta badava che essi venissero trascritti con
esattezza per la musica, correggendo eventuali errori,
dal che il giovane Hadlaub, sempre pronto ad imparare,
trasse nuove conoscenze ed abilità.
L’ornamento dello scritto con pitture a più colori faceva
già parte dell’arte degli scrivani dei conventi a quel tem­
po; ma il giovinetto non si fermò a questo, bensì cercò
di cogliere dagli ingenui artisti del suo tempo, quali si
incontravano per esempio nell’opera delle due cattedrali,
la pratica sufficiente a dipingere a metà o per intero un
foglio di pergamena.
Il vecchio cantore e canonico von Mure era morto da
parecchi anni, ma Johannes Hadlaub era rimasto ad­
detto alla scuola cantoria ed alla biblioteca del convento,
senza però prepararsi allo stato ecclesiastico. Suo padre
ne pareva contento, quantunque il secondo figlio cre­
scesse robusto e promettesse di eguagliarlo in statura e
vigoria. Che Johannes diventasse un cittadino laico, pra­
tico di affari, non gli spiaceva, ed egli infatti cominciò ad
essere utilizzato come scrivano da diversi signori per le
loro trattative; fu specialmente Leuthold junior, barone
di Regensberg, che, per riassestare la sua instabile situa­
zione, si valse continuamente dei suoi servigi.
In seguito strinse più stretti rapporti col vecchio Ma­
nesse, il signor Rüdiger, quando il figlio di questi, il
«sagrestano», un bel giorno lo invitò a prendere in fretta
HADLAUB θ49
il violino ed a venire con lui alla dimora dei Manesse.
Johannes, arrossendo di gioia, prese subito lo strumen­
to e risalì insieme al canonico la via della Chiesa, che si
chiama ora via dei Romani. Il giovane dai riccioli d’oro,
camminando con imponenza a fianco del monaco, salu­
tava cordialmente i suoi conoscenti che passavano per le
strade affollate e da tutti era ricambiato con pari genti­
lezza, essendo egli invero di gradevole aspetto. Indossava
un manto a pieghe che si divideva in larghe strisce obli­
que bianche ed azzurre, giungendogli quasi fino ai piedi,
e portava un berretto purpureo, da cui scendeva sulla
nuca e sulle spalle un drappo bianco.
Arrivarono ben presto alla dimora dei signori Manesse :
Johannes alzò eccitato lo sguardo all’edificio di pietra
che si appoggiava allora alla torre ed era la casa d’abi­
tazione. Al secondo piano il muro era interrotto da un
leggiadro colonnato ad archi a tutto sesto, dietro cui
si trovava il salone, coperto dalle travature di quercia del
tetto. Il pianterreno aveva un paio di finestre con archi
analoghi ed inoltre un grande portone di ingresso che,
attraverso un androne, portava sino al cortile ed alle di­
verse scale. Sotto il portale v’erano i gradini di pietra, dei
quali le donne si servivano per salire a cavallo. Una di
quelle scale a chiocciola di pietra i cui gradini ci appaiono,
dove ancora si conservano, tanto alti e scomodi, condu­
ceva al salone superiore.
Quando Johannes Hadlaub con la sua guida s’affac­
ciò a quella porta, perse di colpo tutta la sua baldanza;
non aveva preveduto una così eletta società come quella
che sedeva attorno ad una grande tavola, in ampie pol­
trone o su sgabelli ricoperti di cuscini.
Vi era anzitutto il vescovo Heinrich di Costanza,
bell’uomo, dagli occhi e dai capelli scuri, dai tratti au­
steri, ma pieni di spirito; con la destra inanellata tene­
va la mano della badessa di Zurigo, che gli sedeva ac­
canto in abbigliamento mondano, una figura tranquilla
che si illuminava soltanto alla luce di quegli occhi. Al
suo fianco, dall’altra parte, sedeva la moglie del cava­
liere, della famiglia altrettanto antica dei Wolfleipsch,
650 NOVELLE ZURIGHESI

cd accanto a lei era un’altra ospite dell’abbazia stessa,


la signora Elisabeth di Wetzikon, parente del vescovo,
che divenne più tardi la più notevole delle badesse, essa
pure in abito non da religiosa. Accanto le stava il conte
Friedrich Toggenburg, discendente del trovatore Kraft
von Toggenburg, poi il signore di Trostberg, nipote del
cantore di egual nome, poi il signor Jakob von Wart,
e infine il signor Rüdiger, dai capelli grigi ma dal volto
giovanile, con un mantello guarnito di pelliccia. Alcuni
posti erano vuoti, poiché la giovane Fides s’era alzata
e girava con altre due dame in fondo alla sala.
Sulla tavola spiccavano fiori e frutta, dolci e coppe
d’argento con vino del meridione, e in mezzo v’erano an­
che libretti in pergamena, fascicoli grandi e piccoli e
lunghe strisce arrotolate dello stesso materiale, tutti co­
perti di rime fitte e senza fine, come armate di popoli
migranti nelle invasioni barbariche.
Il padrone di casa s’alzò per accogliere il figlio col suo
compagno.
— Ci hai condotto il giovane musico? — domandò
— Benissimo, perché col favore di questi signori, abbia­
mo acquistato alcune cose nuove. Ci piacerebbe sen­
tirne cantare qualcuna, ma nessuno qui canta all’infuori
del venerando principe Heinrich il quale, da che è vesco­
vo, non lo vuole più fare ! Il conte Friedrich ci ha portato
alcuni canti di suo nonno che non possedevamo; l’amico
Trostberg non meno di due dozzine di canzoni del suo
degno antenato, ed il barone Jakobus von der Wartburg,
indovina un po’ che cosa? Il libriccino scritto nella sua
gioventù che ci ha nascosto per tanto tempo, diciotto
composizioni; le ho già contate. Ma anche lui non vuole
più cantare !
— Se non posso più cantare — replicò a questo punto
il vescovo — ho in compenso fatto penitenza, portando
i versi del nobile e valoroso duca di Breslavia, del mio
bello e buon Heinrich ! Purtroppo reco insieme la notizia
che quell’eccellente giovane si è imprevedutamente spen­
to nel fiore degli anni: una notizia che mi ha profonda­
mente addolorato!
HADLAUB 651

Trasse da sotto il suo manto un piccolo rotolo di can­


zoni, lo esaminò attentamente e proseguì :
— Qui vi è una delle più graziose canzoni di quell’uo­
mo eletto : non potrebbe forse farcela sentire questo bravo
giovane?
Fece cenno a Johannes che si avvicinasse, gli diede da
leggere la canzone e a mezza voce gli insegnò la melodia
che quegli subito comprese; Johannes poi appoggiò al
petto il violino a quattro corde e cantò la canzone, ac­
compagnandola con la melodia di una terza più bassa
e solo armonizzandola alle due penultime note di ciascun
verso. Era il canto:
A te denunzio, o maggio, a te, delizia estiva,
a te denunzio, o landa luminosa,
a te denunzio, o bel trifoglio in fiore,
a te, foresta ombrosa ed a te, sole,
a te, Venere dea, l’aspra ferita
che la mia donna inferse a questo cuore !
e via di seguito, mentre ciascuno dei giudici invocati
promette la sua punizione, ma alla fine l’accusatore
ritira l’accusa e preferisce morire piuttosto che simile
sventura colpisca la bella.
Il canto era sgorgato così armonioso dalla gola fresca
del giovinetto lieto e innocente che tutti ne furono com­
mossi e turbati, tanto più che la notizia della prematu­
ra morte del poeta aveva già predisposto a tenerezza
gli animi. Il vescovo, insieme a Johannes ed al signor
Rüdiger, che si unì subito con zelo, corresse il testo, nel
quale, attraverso il canto, si erano rivelate alcune ine­
sattezze nel novero delle sillabe.
Allora balzò in piedi il cavaliere von Wart, prendendo
dalla tavola il libriccino dei suoi versi ed esclamando:
«Vorrei ascoltare dalla bocca di questo giovinetto an­
che una delle mie povere strofette, la prima che capita».
Mostrò una canzone a Johannes, che suonò e cantò:
Bellezza vaga al par di mattutina
stella è la donna mia, ch’io di buon grado
ora voglio servire ed in eterno.
652 NOVELLE ZURIGHESI

Se pure me gioia e conforto nega,


voglio che a lei fortuna e onore sian
fidi compagni a una gioiosa meta.
Ahimè che sua modestia, ahimè che sua bontade
sono per me già morte !
Io di questo l’accuso. E questa sola
è del mio triste cuor la pena ria !
Nel frattempo, il vescovo aveva scorso le poesie di Trost­
berg il vecchio, ed alzandosi di colpo tolse al giovane
suonatore il violino e si diede a cantare, accompagnandosi
impeccabilmente :
Fiorir di rosa è il dolce riso
della diletta mia.
Come crear potè tale portento
colui che a lei tanto splendore diede?
Essa è la luce dell’anima mia
e Dio non voglia che giammai tramonti.
«Perdonatemi, nobili amici» disse poi «se mi sono
lasciato trascinare, ma è la prima ora serena che io godo
da quando, povero e fedele cancelliere, ho seppellito
nella tomba imperiale di Spira il mio signore, Rodolfo ! ».
Così dicendo gettò uno sguardo lampeggiante alla ba­
dessa Kunigunde, che arrossì, e tutti espressero la loro af­
fettuosa partecipazione, pur sapendo ognuno che quel salu­
to del principe della Chiesa era stato rivolto alla principes­
sa badessa, da lui riveduta quel giorno dopo lungo distacco.
Intanto Jakob von Wart aveva staccato dalla parete
una piccola arpa alla quale egli era più avvezzo e, in­
fiammato dall’esempio del vescovo e dal buon vino, il non
più giovane signore cantò la bell’alba1 che sta alla fine
della raccolta di lui rimastaci, e regge al confronto con le
migliori poesie analoghe dell’epoca degli Hohenstaufen.
« Mi avete dato la più grande gioia ed il più grande
onore!» disse il signor Rüdiger «sono proprio felice di
possedere questo canto e le altre vostre composizioni ! ».

I. alba·, genere di canzone d’amore trovadorica, sul tema del­


l’apparizione dell’alba.
HADLAUB 653

Chi potrebbe ora cantarci una poesia di Toggenburg,


perché possiamo gustare qualche cosa di tutti?».
Il conte Friedrich protestò che per parte sua non ci
teneva in modo particolare alla produzione casalinga,
ma che era piuttosto smanioso di udire dal giovane suona­
tore un paio di belle canzoni a tutti note.
«Ebbene» disse il vescovo «allora ci canti qualche
cosa del vecchio Vogelweide; quello lì supera tutti per
armonia e per ingegno».
Le melodie più note di Walther von der Volgelweide
erano naturalmente familiari al giovinetto, che cantò
subito la canzone di sei strofe:
Or vedi meraviglia gaia di maggio !
Di laici e chierici
brulica al sole
festoso il borgo.
Oh, grande è maggio !
Non porta forse scettro e corona?
Nessuno è vecchio
nel regno suo !
A questa seguì la canzone:
Io sempre mi domando cosa mai una donna
in me abbia veduto .. .
Il bel ragazzo continuò:
Forse che non ha occhi?
Io non son certo degli uomini il più bello
nessun lo può negare . . .
Guardatemi la testa se vi pare
poco ben fatta . . .
serbando la più solenne serietà, mentre la compagnia
scoppiava in un’allegra risata.
Cantò da ultimo il notissimo canto: Sotto il tiglio sulla
landa col suo festoso ritornello con così ingenuo candore
da cattivarsi tutti, e il vescovo lo abbracciò e lo baciò.
Il signor Johannes, il «sagrestano», si compiacque della
654 NOVELLE ZURIGHESI

buona accoglienza che aveva trovato il suo protetto, e


solo allora lo presentò più esattamente:
— È figliolo di buona famiglia; — aggiunse — suo pa­
dre nel ’78 fu con Rodolfo a Marchfeld1 ed è uno dei po­
chi zurighesi che ne abbian fatto ritorno.
— Allora io lo riconoscerei certamente se lo vedessi, —
interloquì il signor Heinrich von Klingenberg — perché
io li ho visti tutti quando in quella lotta di popoli avan­
zarono tenaci insieme a quelli di Schwyz e di Uri, tanto
che il re esaltò il loro valore.
— È anche un conoscitore di antiche costumanze e
sa sempre, pur senza saper leggere, quel che è giusto;
— aggiunse il Manesse maggiore — più di una volta ho
avuto occasione di constatarlo.
Johannes Hadlaub intervenne modestamente nella
conversazione, osservando che suo padre, da quando il
figliolo era capace di scrivere, gli aveva spesso fatto fis­
sare per iscritto, nelle lunghe serate invernali, quanto
ricordava degli antichi usi delle Corti tutto all’intorno e
di cui non vi è notizia nei libri di diritto.
Il cavaliere esclamò subito incuriosito:
— Figlio mio ! Di tutto quello che tuo padre ti va det­
tando in tal modo, dovresti darmene copia, si capisce se
egli lo vorrà permettere ! Io temo che egli sia fra coloro
i quali ritengono che esser soli a sapere qualche cosa
conferisca potere nella vita giuridica, o che persino nu­
trono la superstizione che tali nozioni siano da serbare
come cosa soprannaturale e pericolosa.
— Egli non fa cosi, — rispose Johannes — ritiene
anzi ogni sapere bene comune, e considera un male che
tutto sia scritto e conservato soltanto nelle chiese, come
almeno accade qui.
— Guarda, figlio mio, io ho molte cose che ti possono
tornare di giovamento, mentre tu, a tua volta, puoi aiu­
tarmi ad aumentarle ! — continuò il cavaliere guidandolo
verso un grande armadio aperto, ricavato nello spesso

I. Nella piana di Marchfeld, in Austria, le truppe di Rodolfo


d’Absburgo sconfissero quelle di Ottocaro II di Boemia nel 1278.
HADLAUB 655

muro della sala, di dove era stata tolta parte dei manoscrit­
ti giacenti sulla tavola, ma nel quale stavano ancora alli­
neati e sovrapposti moltissimi libri e rotoli di pergamena.
Vi erano, oltre al Parzival, aXPErec, all’Iwein e al Povero
Enrico, al Tristano, alla Gara alla Wartburg e ad altre
opere poetiche, diversi volumi di natura descrittiva e
storica, così come si redigevano e scrivevano a quel tempo ;
ma si vedevano soprattutto copie di importanti testi e
documenti giuridici, quali solo un personaggio influente
e di alto rango era in grado di raccogliere. Il signor
Rüdiger trasse un libro accuratamente ricoperto, e lo mo­
strò al giovane. Era il manoscritto dello Specchio Svevo.
— Specialmente questo libro vorrei possedere, giac­
ché questa copia non appartiene a me, bensì ai signori del
Duomo; — disse — se tu volessi di quando in quando
venire qui, potresti copiarlo ed intanto lo leggeremo in­
sieme, giacché sarà un po’ difficile, essendo scritto in for­
ma antica e particolare. Quando avremo finito la copia vi
metteremo pure il motto finale, che questo scrittore ha
posto alla fine del diritto feudale e che pare anche a
me sia ben formulato : «Nessuno è tanto ingiusto, che non
riconosca l’ingiustizia quando si fa torto a lui. Perciò oc­
corrono saggi discorsi e buone arti per applicarle nel
giure. Chi in ogni tempo parla secondo il diritto si crea
non pochi nemici. A ciò l’uomo onesto deve di buon grado
assoggettarsi per amor di Dio e per il suo onore e per la
salvezza dell’anima sua. Il buon Dio ci consenta di amare
in questo mondo il giusto e di indebolire l’ingiustizia a
tal punto, da poterne trar godimento poi là, dove il corpo
e l’anima si separano ! ».
— Questa è proprio una bella sentenza — disse d’un
tratto una voce giovanile di donna proprio alle spalle di
Johannes. Questi si volse di colpo e si trovò di fronte ad
una giovinetta sedicenne di rara e particolare bellezza e
dalla figura insolitamente snella. La grazia dei suoi tratti
era quasi velata, ma pure nel contempo illuminata, resa
più intensa, dalla profonda serietà. Era Fides, che sino a
quel momento si era tenuta in disparte dalla compagnia.
Johannes non aveva riveduto la fanciulla per tutti
656 NOVELLE ZURIGHESI

quegli anni, pure serbandola nella memoria come suole


fare la gioventù, e pur avendo pensato, quel giorno, di
dover finalmente ritrovar senza dubbio la bimba di un
tempo. Ma non essendo essa più una bimba, bensì una
persona ed una figura del tutto diversa, egli, sorpreso
dalla brillante società e preoccupato del suo canto, nep­
pure l’aveva veduta, ed anzi i suoi pensieri s’erano com­
pletamente allontanati da lei.
Notando la sua sorpresa, Fides lo osservò più attenta­
mente e parve ripensasse dove mai lo poteva aver già
veduto, finché le venne in mente che lo scolaro del defunto
canonico che le stava di fronte non poteva esser altri che
il ragazzo il quale un tempo l’aveva portata di peso oltre
il torrente, seguendola poi giù per la montagna. Gli fece
un lieve cenno sorridente, ma poi riprese a passeggiare
con le compagne e da ultimo uscì dalla sala.
— Ora però il nostro giovane cantore si è meritato un
buon goccio ! — intervenne la padrona di casa — Acco­
modatevi un momento e ristoratevi, perché certamente
vi sarete asciugato la gola cantando.
Indicò a Johannes uno degli sgabelli vuoti ed egli vi si
accomodò timido e silenzioso.
Ma d’un tratto il signor Rüdiger, dopo essersi aggirato
pensieroso su e giù per la stanza, si pose dietro il vescovo
Heinrich e gli appoggiò la mano sulla spalla, così che gli
altri interruppero i loro discorsi.
— Sai, mio fido e vecchio amico, che idea mi è venuta
proprio nel momento in cui stavo guardando quei libri?
Da più di cento anni, pensavo, si canta d’amore in terra
tedesca e si creano tanti motti saggi e audaci; questi
canti passano di mano in mano e crescono di giorno in
giorno, ma nessuno li sa e li conosce tutti e, quanto più
fuggono gli anni, tanto più muoiono insieme agli uomini
anche queste canzoni ! Più di un nobile poeta giace nel­
l’eterno riposo da sessanta, settant’anni e noi ne posse­
diamo ancora le opere, ma solo poche delle sue melodie;
fra altri settant’anni che cosa sarà mai rimasto di quei
motivi e del suo nome? Forse soltanto una leggenda, co­
me per Orfeo, se va bene !
HADLAUB θ57
— Ti capisco, caro signore ed amico ! — replicò il
vescovo prendendogli la mano — tu vorresti raccogliere
in modo compiuto e salvare per quanto si può queste can­
zoni, ed io non posso che lodare sommamente tale propo­
sito ! Avete già fatto un buon inizio tu ed il tuo degno
figliolo, del quale ho ripetutamente sentito dire che va
a caccia di cose scritte in tutti i castelli e monasteri!
Ma dobbiamo ora ampliare ed approfondire la cosa e met­
tervi un certo ordine !
— Comprendimi bene ! — replicò Manesse — Io in­
tendo compilare un solo grande libro nel quale sia ordi­
nato e radunato tutto quello che ognuno canta nel suo
paese. Sì, lo vedo, — continuò con nobile eccitazione
— già mi pare di averlo dinanzi questo libro di bellissimo
aspetto, grande, prezioso e adornato, quanto, senza vo­
ler pronunciare blasfemia, il messale del Papa.
— Così me lo immagino anch’io, — rispose Klingen­
berg — e sai perché? Perché io sono già al corrente di
un primo avvio di quest’impresa. Nella biblioteca del
nostro Duomo di Costanza vi è un libro in cui sono già
raccolti venticinque poeti, pochi di essi forse al completo,
però ordinati con competenza e accompagnati dai loro
ritratti. Tu puoi iniziare un’opera più grande, più bella
e più ricca, ma anzitutto ci converrà completare i nomi.
A mio parere, invece che a venticinque, giungeremo ai
cento nomi !
— Forse s’arriverà anche ai centocinquanta! — escla­
mò Johann Manesse, il canonico — Quanti qui siamo,
dobbiamo cercare nelle nostre regioni, dal lago di Co­
stanza sino all’Üchtland ed ai monti del Bernese; e poi,
si penserà al Danubio, alla Baviera, alla Franconia, alla
Sassonia, al Reno, ai Paesi Bassi e alle Marche settentrio­
nali e orientali !
— Tanto più presto bisognerà incominciare — riprese
il signor Rüdiger — e perciò chiediamo formalmente à
voi, signor principe e vescovo di Costanza, se possiamo
valerci a titolo di prestito, per confronto e studio, di quella
raccolta di canti che ci è stata annunciata?
— Con gioia vi è messa a disposizione l’opera, — rispose
658 NOVELLE ZURIGHESI

il vescovo con scherzosa serietà — qualora però la nostra


eccellentissima e gentile principessa, la grande signora di
San Felice e Santa Regula di Zurigo, voglia prestare
malleveria per il ritorno intatto di quel tesoro !
— Essa lo vuole, — disse la badessa Kunigunde con
un sorriso — purché però il compenso per quella merce
lievissima che sono le canzoni, in caso vadano perdute o
siano rubate, venga fissato, per un valore del pari lieve,
per esempio in un cesto di rose o di fiori di campo, che sa­
rebbe da inviarsi a Costanza ogni anno, nel giorno del­
l’imperatore Enrico che è l’onomastico del principe mio
superiore, e beninteso dietro impegno di ospitare conve­
nientemente il messaggero e la sua cavalcatura, nonché di
rinviare ogni volta alla tributaria un paio di guanti nuovi !
— Una magnanimità veramente femminile, cui noi ci
sottoporremo con piena umiltà! — esclamò il vescovo.
Il signor Jakob von Wart si alzò a sua volta e levando
la coppa esclamò:
— Signori ! Non vorremo schernire le belle dame, a
cui lode e gloria deve principalmente servire quest’opera !
Essa infatti, se ben attuata, non diverrà anzitutto il mo­
numento e l’attestato dell’omaggio che noi sempre abbia­
mo reso e rendiamo a questi buoni angeli, e ciò in misura
quale mai al mondo fu udita, ma quale dovrà serbarsi
finché batteranno cuori di uomini cavallereschi?
— Bene, — intervenne Manesse — queste parole sono
di buon auspicio per la nostra impresa e augurale è an­
che la presenza del signore che le ha pronunciate, auten­
tico cavaliere e cantore d’amore. Riempiamo le coppe,
preghiamo le nobili dame di porgercele e brindiamo alla
salute imperitura della fiorente anima femminile, alla
salute del nostro amico Wart che oggi ci ha cantato la
sua canzone e alla buona riuscita della nostra impresa !
Tutti si alzarono, le donne accostarono l’una dopo l’al­
tra le coppe alle loro labbra, offrendole poi ai cavalieri,
che di buon animo le vuotarono.
Manesse abbracciò e baciò il signore di Wart, che,
lieto e commosso, come sogliono i vecchi, si compiaceva
di questa tarda fioritura della sua arte, senza presagire
HADLAUB 65g

che in meno di venti anni i suoi castelli sarebbero stati


distrutti e la sua stirpe spazzata dalla terra.
Quando dame e cavalieri ebbero ripreso posto, il ve­
scovo tornò a parlare:
— Non dobbiamo indugiare oltre, ma metterci al più
presto all’opera. A me sembra che il meglio sia assicu­
rarci subito una giovane forza per il nostro proposito,
che è di lunga portata ed esige perseveranza, nominando
cioè araldo e maresciallo della campagna quel nostro gio­
vinetto biancazzurro. Fra tre giorni rientrerò nella mia
sede pastorale; allora egli dovrà togliersi quel bell’abito
leggiadro, indossare una giubba da cavaliere e recarsi, se
voi amico Rüdiger siete d’accordo, a prendere il libro dei
canti a Costanza. Dico così perché intendo affidargli io
stesso quest’opera ed insieme altre cose che dovrò ricer­
care, accompagnandole pure con alcune indicazioni. In­
fatti, da quando era in vita il re e nella confusione degli
ultimi due anni, non ho più aperto e passato in rassegna
le mie borse e i miei cofani che contengono ancora non
poche cose. Quando avrò comunicato al ragazzo i miei
pensieri su tutte queste cose, ed egli, come spero e ri­
tengo, li avrà ben compresi, potrà venire a spiegare
ogni cosa a voi e a vostro figlio, il conservatore, per­
ché possiate ponderare e decidere. Che ve ne pare?
— Eccellente mi pare tutto quello che voi dite, — re­
plicò Rüdiger — e se il giovinetto della montagna è
d’accordo e non lo è meno suo padre, col quale potrò
parlare io stesso, nel servirci, o meglio, nell’aiutarci in
questa impresa, noi possiamo subito cominciare. Il me­
glio sarà che scriva egli stesso il libro, così abbiamo la
speranza che venga redatto tutto dalla stessa mano, an­
che se noi, nel frattempo, dovessimo morire !
A Johannes pareva di sognare, tanto meravigliosi erano
i pensieri che gli si affollavano in capo ; quando il conserva­
tore Johannes lo fissò interrogandolo, non seppe che inchi­
narsi felice e confuso e subito dopo, appena questi gli fece
cenno che era per lui conveniente ritirarsi, s’affrettò ad
andarsene col suo strumento sotto il braccio, dopo nuovi
inchini a tutti i presenti.
66ο NOVELLE ZURIGHESI

Sebbene fosse turbato e imbarazzato, ebbe però ab­


bastanza presenza di spirito da guardarsi intorno lungo
il vestibolo, le scale e il cortile, per quanto gli fu possibile
data la sua fretta; ma non scorse proprio nulla e non udì
neppure la voce della giovane Fides, che pareva sparita
nella stanza più remota di quella vastissima dimora ca­
valleresca.

Dopo circa otto giorni cavalcò difatti sino a Costanza,


e proprio su un ronzino che serviva ai canonici e special-
mente al signor conservatore, il quale era di indole inquie­
ta e bisognava che facesse sempre le sue trottate. Il ve­
scovo accolseJohannes con immutata benevolenza e lo fece
ospitare signorilmente. Appena espletati gli affari di go­
verno, fece venire il giovane nel suo studio e gli mostrò il
libro dei canti (esso è ora a Stoccarda sotto il nome di
codice Weingarten, perché per qualche tempo fu in pos­
sesso del monastero di Weingarten) ; gliene mostrò l’or­
dinamento e, accorgendosi che Johannes già conosceva
la struttura dei diversi componimenti, motti, canzoni,
eccetera, gli fece notare la necessità di tenere ben di­
stinte le singole poesie e di esaminarle attentamente.
In pari tempo gli porse un pacco di manoscritti minori,
che in parte contenevano lavori degli stessi poeti del li­
bro grande, ma che in quello mancavano, in parte in­
vece presentavano dei cantori che non figuravano nella
raccolta. Mentre faceva passare con lui queste cose, gli
mostrò una quantità di passi in cui il testo era stato cor­
rotto dagli scrivani, indicando come si dovessero corregge­
re gli errori secondo le leggi dell’arte e della lingua. Nelle
scritture di sua proprietà privata si trovava già una quan­
tità di tali passi corretti di mano sua. Johannes Hadlaub
ammirò in rispettoso silenzio il sapere e la perizia di quel
grande signore e si sforzò di non perdere una sola parola
di quei preziosi insegnamenti. Alla fine il vescovo gli
diede ancora un elenco di poeti che non si trovavano né
in quelle pergamene né, per quello che rammentava, fra
i manoscritti di Zurigo, di cui però gli era noto che ave­
vano vissuto e poetato. Per alcuni nomi c’era ancora
HADLAUB 661

annotato dove con relativa certezza si dovessero rinve­


nire le loro canzoni, per altri si accennava a dove even­
tualmente si potesse trovare una traccia.
«I signori di Zurigo» disse poi «amplieranno e chia­
riranno tutto questo. Lavora assiduamente e comincia
presto a trascrivere. Scegli pergamena bella e grande,
senza macchie né difetti; taglia subito da principio una
buona quantità di fogli eguali e per ogni poeta che già
abbiamo predisponi un fascicolo sufficiente, fagli una
nitida rigatura, così che potrai cominciare ad un tempo
in tutti i punti, e accanto ad ogni nome lascia vuoto lo
spazio per le aggiunte future. Naturalmente ti converrà
in certi casi misurare lo spazio a seconda delle circostanze.
Per esempio per l’imperatore Enrico è difficile che si tro­
vino altri canti oltre agli otto qui conservati; ti basterà
dunque preparare per lui un solo foglio».
Il vescovo così dicendo gettò uno sguardo alle otto
poesie che si conservano ancora nel codice e sostò sul­
l’ultima, leggendola ad alta voce:
Grazie o bel cavaliere
ch’io ti giacqui vicino !
Dimori nel mio cuor
sera e mattino.
Tu allieti la mia mente
e mi sei caro
come gemma preziosa
ch’è legata nell’oro.
«Con quanta bellezza fa esprimere ad una donna
quel che essa prova ! L’uomo amato le sta nella mente e
nel cuore, anzi nelle braccia, come la gemma entro l’oro ! ».
Dopo queste parole il vescovo si immerse per qualche
momento nei suoi pensieri, quasi pensasse a giorni lon­
tani, poi trasse dal dito un anello d’oro, lo infilò al dito
di Johannes e gli disse accarezzandogli i capelli:
« Prendilo quale segno che tu sei ora il giovane cancel­
liere della nostra buona compagnia. Ed ora parti e prendi
con te anche queste lettere or ora redatte nella mia can-
662 NOVELLE ZURIGHESI

celleria. Ci risparmierai un corriere. E questa è per la


badessa, per la signora Kunigunde; mi sarà caro se la
porterai tu stesso, poiché non si tratta di cose d’affari ! ».
L’ultima lettera l’aveva presa dal suo scrittoio e la
sigillò in persona.
Fra lui e la badessa non esisteva intimità di rapporti
se non per via epistolare; di persona s’incontravano sem­
pre fuori casa, sempre con più o meno numerosi testi­
moni, in occasione di cerimonie pubbliche o di riunioni
in società. La signora Kunigunde lo riceveva talvolta
anche nell’abbazia, ma sempre nei saloni dove per lo
più si trovava parecchia gente. Se anche in tali occasioni
essi si permettevano un tono di serena disinvoltura, o
ostentavano persino una certa tenerezza confidenziale,
d’apparenza scherzosa, questo non era che un debole
compenso alla rinuncia rigidamente impostasi, evitando
assolutamente ogni incontro da soli, la prova più dura
per chi ama e non sarebbe impedito da alcuna volontà
estranea a vedersi.
Non si trattava in realtà di pentimento per il passato ;
essi non si erano pentiti perché si amavano, ma era stato
il modo con cui la loro creatura aveva accolto la notizia
della propria nascita e della propria posizione nel mondo
a indurli a quella severità verso se stessi.
L’origine di Fides era un segreto di Pulcinella, che
non potè più esser taciuto alla fanciulla appena questa
fu adolescente. Gliene avevano data la vaga intuizione
quando ciò non poteva farle troppo effetto, perché la
conoscenza del proprio stato venisse a formarsi in lei
per così dire spontaneamente. Ma quando la giovinetta
fu giunta a piena coscienza, essa non prese la cosa così
alla leggera come sarebbe stato desiderabile. La bimba
impetuosa ed impressionabile s’era fatta una creatura
dai sentimenti orgogliosi e profondi, dall’indole av­
veduta e assennata, le cui simpatie si ispiravano an­
zitutto alla giustizia ed all’onore, in gran parte per
l’esempio quotidiano del suo tutore, il vecchio signor
Rüdiger.
Dall’istante in cui le fu chiara la sua situazione nel
HADLAUB 663

mondo, non proferì un lamento né formulò una doman­


da ; ma la sua serenità sparì e gli onori che le si rendeva­
no, le elette costumanze alle quali partecipava non val­
sero a ridonarle quel che aveva perduto.
Amava ed onorava i genitori, ma non apriva mai loro
l’animo e sembrava non sperare nulla da loro. Solo una
volta, proprio all’inizio, aveva manifestato desiderio di
entrare subito nel monastero della madre per restarvi
vita naturai durante. Questo non era parso opportuno,
né del resto Kunigunde e Heinrich desideravano che la
figlia si facesse monaca, giacché non rinunciavano alla
speranza di poterne fondare la felicità nel mondo.
Ma la natura della fanciulla si ripercosse sul lorp con­
tegno, ed essi si imposero non soltanto per le alte cari­
che che ricoprivano, ma anche per la figlia, quella com­
pleta rinuncia che, dati i costumi del tempo, nella loro
classe sociale non sarebbe stata indispensabile.
Le lettere che Johannes portò a Zurigo si riferivano
all’acquisto, dalla famiglia ormai in decadenza dei Re­
gensberg, della città di Kaiserstuhl e della Rocca di
Röteln, situata di fronte, sulla riva destra del Reno. Poi­
ché questi possedimenti erano legati all’eredità Wasser­
stelz per certi rapporti feudali, il vescovo, quale feuda­
tario parziale, veniva ad acquisire una influenza su
di essi, ed egli si mise in grado di assicurare la successione
a Fides, dispensandola dagli ostacoli che avrebbero po­
tuto essere sollevati a cagione della sua nascita irregolare.
Si proponeva poi di coglier più tardi un’occasione per
aumentarne i beni e per crearle così un’agiata posizione
nel mondo.
Al suo ritorno, Johannes Hadlaub adempì i vari in­
carichi e si recò anche al monastero, dove fu introdotto
nell’appartamento privato della badessa. Trovò la «gran­
de signora di Zurigo » in un ricco salone, in compagnia di
alcune dame; sedevano in semicerchio e insieme lavora­
vano ad un grande arazzo, avendo ai piedi cestini pieni
di lana e di seta variopinta. Le pareti della stanza erano
rivestite sino ad una certa altezza da analoghi arazzi
rappresentanti un bosco verde ove si svolgeva la leggenda
664 NOVELLE ZURIGHESI

della fondazione del monastero: le figlie di Ludovico il


Tedesco che inseguono il cervo, il re che le guarda dal ca­
stello sul monte Baldern e che costruisce poi la cattedra­
le, ed infine il trasferimento a quel santuario delle ossa
dei santi martiri Felice e Regula da parte di vescovi e
sovrani. Sullo sfondo, sotto gli alberi, si aggiravano nu­
merosi personaggi ed animali: Diana cacciava i cervi con
le sue ninfe, Adone inseguiva il cinghiale, Venere pian­
geva il morto Adone, Sigfrido correva dietro l’orso e
Hagen gli gettava contro la lancia: era in certo modo il
tumulto del mondo in contrasto con le pacifiche scene del
primo piano. Al di sopra degli arazzi la parete era affre­
scata .con badesse inginocchiate, di cui ciascuna aveva
accanto il proprio stemma col cimiero ed i rispettivi or­
namenti. Il soffitto, e con esso le travi che lo reggevano,
era decorato da ghirlande di fiori variegati su sfondo
bianco e le finestrelle erano fatte con pezzetti di cristallo
spesso e irregolare uniti a mosaico in diversi colori. Ancora
maggior splendore di colori scintillava attraverso la porta
aperta di una stanza attigua, dove erano l’inginocchia­
toio e l’altare privato della badessa, quest’ultimo con
gemme dell’età carolingia.
Johannes, sorpreso da tanta magnificenza, non sapeva
quasi dove volgere gli occhi, e riuscì soltanto a fatica a
riferire alla signora Kunigunde, che aveva levato gli oc­
chi, il saluto del vescovo, consegnandole la sua missiva.
Non s’accorse neppure che Fides era nel gruppo delle
dame, benché già da tempo avesse accolto nel suo cuore
una piccola ed innocente adorazione per la fanciulla.
Mentre egli se ne stava accanto a quelle dame facendo
scorrere gli sguardi lungo le pareti, la badessa si trasse in
disparte per leggere la lettera; sembrò tuttavia un poco
sorpresa dal contenuto e scosse lievemente il capo. Il ve­
scovo Heinrich infatti le esponeva le sue preoccupazioni
per l’indole melanconica della loro figlia Fides e le co­
municava, affinché volesse ponderarla a suo agio, un’idea
in lui nata: se non si potesse, cioè, pur con tutta la riserva
e la prudenza, dare alla figliola quale compagno di svaghi
il candido e buon Johannes, in modo da rasserenarne
HADLAUB 665

l’animo triste richiamandolo alla vita. Una compagnia


cosi gradevole e non pericolosa avrebbe risvegliato dai suoi
sogni la fanciulla, facendole perdere la misantropia e
inducendola a trascorrere meglio le sue giornate, sinché
venisse il tempo di accasarla con vantaggio e fortuna.
La badessa, trattenendo la lettera, s’aggirò quasi irri­
tata su e giù per la stanza ripetendo tra sé: “O Heinrich,
regio cancelliere e dotto vescovo, quanto sei sciocco!”.
Le altre donne nel frattempo avevano guardato con
compiacenza il messaggero e l’una o l’altra lo aveva
scherzosamente interrogato circa la sua provenienza e la
sua missione; sinché una esclamò:
«Guarda, tiene al dito un anello d’oro ed è ancora
un ragazzo ! Che fortuna è mai questa ! ».
Johannes spiegò con un certo orgoglio che era stato il
signore di Costanza a fargli dono dell’anello. D’un tratto
Fides alzò gli occhi dal lavoro e, quand’egli spiegò solen­
nemente di essere ormai il primo cancelliere di tutta la
poesia trovadorica e che l’anello era il simbolo di quel suo
ufficio, essa lasciò udire una limpida risatina, tornando
però subito ad abbassare gli occhi sul lavoro e arrossendo.
Non potè però fare a meno di sbirciarlo ancora un mo­
mento, proprio mentre il giovane cancelliere della poe­
sia d’amore la fissava ammutolito, giacché nel compia­
cimento per la propria carica, o nel suo intimidito im­
barazzo, l’aveva solo allora riconosciuta. Quando tutto
il gruppo delle dame si unì alla risata, scherzando sul
grazioso cancelliere d’amore eletto da un vescovo, Fides
tornò ad abbassare ancor più il capo, come oppressa dal
peso di nuovo rossore e dalla oscura sofferenza di tutta
la sua vita. Le sfuggì una lagrima, un tacito disagio si
diffuse nella stanza e la badessa Kunigunde, arrossendo
ella pure, s’affrettò a congedare il giovane quando troppo
tardi s’accorse della strana conversazione.
Per Johannes Fides era sempre stata soltanto la dami­
gella von Wasserstelz, come si soleva chiamarla, senza
che mai avesse saputo o pensato altro circa la sua na­
scita. Di tutta la scena egli comprese quindi soltanto di
esserne stato la causa, e credette infine di aver provocato
666 NOVELLE ZURIGHESI

la tristezza della fanciulla per non averle prestato atten­


zione, il che non gli sembrava impossibile, data la sua
nuova ed importante posizione.

L’impresa della raccolta dei canti venne avviata con


gran zelo; l’elenco dei poeti era di giorno in giorno
completato dai signori Manesse padre e figlio, che non
risparmiavano nessuna fatica, mettendosi in rapporti ora­
li o epistolari con gente di ogni luogo, appena se ne of­
friva loro l’occasione. In pari tempo procedettero a procu­
rarsi i canti mancanti e Johannes Hadlaub fu mandato
sovente in città, monasteri e castelli, per trarne delle co­
pie, quando non si potevano avere le pergamene ivi con­
servate.
Venne pure iniziato un fascicolo per ciascuno dei poe­
ti già a disposizione, e si cominciò a trascrivervi le poe­
sie, in modo da poter poi raccogliere i singoli fascicoli
riunendoli in un solo volume.
Johannes rivelava non meno zelo che ingegno; tra­
scrisse lo Specchio Svevo per il signor Rüdiger, confron­
tandone il testo durante la copia con gli altri codici da
quello raccolti e comunicandogli accuratamente tutti i
mutamenti e le aggiunte perché decidesse; per il signor
Leuthold von Regensberg scrisse delle lettere, e intanto
si dedicava soprattutto alla grande raccolta.
Quest’ultimo lavoro èra il suo prediletto e ad esso de­
dicava ogni ora libera. Il giovanile impulso all’imitazione,
da cui era stato mosso dapprima, si trasformò inavvertita­
mente in un’azione cosciente: imparò a vedere e a sen­
tire veramente in quelle poesie la natura, la terra e
l’aria, le stagioni e gli uomini, e nello stesso tempo quella
che in un primo momento era stata una imitativa esal­
tazione della donna si trasformò per lui nell’incipiente
passione.
Nella casa patema aveva finalmente avuto notizia
dell’origine e della situazione particolare di Fides, mentre
per caso si parlava di simili cose. D’un tratto la taciturna
ed orgogliosa damigella del Wasserstelz gli apparve co­
me circonfusa di una luce d’oro, perché non sembrava
HADLAUB 667

felice. S’accrebbe ancora ai suoi occhi per quel singolare


destino la sua bellezza insolita e quasi misteriosa: essa
divenne di colpo l’unico pensiero che gli riempisse il cuo­
re, gravandolo insieme d’una dolce sofferenza non pro­
pria dell’età sua giovanile anche in cose d’amore.
Benché dovesse frequentare spesso la dimora del signor
Rüdiger, non vedeva che molto raramente la signorina,
e se anche ciò accadeva, essa appena gli volgeva lo sguar­
do e lo salutava con aria lontana e triste.
A lui tuttavia sembrava di riconoscere tali sentimenti
dalle poesie che ogni giorno e ogni ora leggeva o trascri­
veva, e gli pareva che fosse giusto così, benché probabil­
mente non trovasse la cosa divertente come quei cavalie­
ri erranti e quei trovadori. Quando venne l’autunno,
la sua giovanile passione giunse a tal punto che essa stessa
si creò una via d’uscita e Johannes un giorno, mentre
passeggiava al mite sole della montagna, compose im-
prevedutamente la sua prima poesia d’amore, che co­
mincia:
Come vorrei gioire !
Ma tutto è pena ormai,
ben grave fu il mio ardire,
non m’amerà giammai . ..
Subito dopo però, sua unica cura fu di assolvere il
proprio presunto dovere verso la fanciulla, facendole per­
venire in segreto quel frutto del cuore e dell’arte. Dopo
averci ben pensato, trovò finalmente una via, allorché
seppe che Fides si recava ogni mattina alla prima messa
nella chiesa di Nostra Signora e sedeva nel coro accanto
alla madre. In quella stagione all’ora della prima messa
era ancor buio.
Johannes trascrisse i suoi versi il meglio che potè su
un bel foglio, lo ripiegò al pari di una lettera e vi assi­
curò un amo da pesca. Poi s’alzò per tempo dal suo gia­
ciglio sulla montagna, si ravvolse in un vecchissimo man­
tello da pellegrino, prese un cappello ed un bordone che
da tempo immemorabile erano appesi dietro la porta, e
s’awiò rapido giù per il pendio, fingendosi uno dei pelle­
668 NOVELLE ZURIGHESI

grini che non di rado accorrevano a venerare le reliquie


dei santi martiri Felice e Regula.
Le campane mattutine chiamavano a gara alla messa
da tutte le sette o otto chiese conventuali della città,
rompendo la fitta nebbia autunnale che gravava su di
essa, illuminata dalla luna piena al tramonto al pari di
un gran mare ondeggiante, da cui emergevano soltanto
pochi alberi isolati. In cielo brillavano ancora le stelle.
Johannes si immerse in quella nebbia col cuore in tu­
multo; egli credeva di portar con sé, con la sua dichiara­
zione d’amore, un altro cielo stellato e di andare incon­
tro ad un evento che a modo suo era unico al mondo.
L’un dopo l’altro svanirono i tocchi delle campane ed
egli s’affrettò quanto fu possibile ad entrare per la porta
di città e giunse ansimante alla cattedrale, dove la messa
era già incominciata e nella chiesa semibuia non assiste­
vano al rito, all’infuori delle monache e dei capitolari
dell’abbazia, che ben poche persone. Johannes scorse su­
bito con l’acuto sguardo la figurina di Fides accanto alla
seggiola della badessa; appena la messa fu sul finire,
s’affrettò all’uscita e s’appostò accanto alla porta orien­
tale, per la quale Fides doveva uscire.
Secondo la poesia in cui più tardi Hadlaub descrisse
l’avventura, ed anche secondo l’immagine che egli mi­
niò per la raccolta, Fides era sola e sotto il mantello a
cappuccio foderato di pelle di vaio ed il velo nero,
che le avvolgevano il capo e la figura, portava a sua pro­
tezione soltanto un cagnolino bracco. La nobile figura
avanzò a rapido passo sul ponte nella penombra della
nebbia e del disco lunare dai riflessi rossastri, che stava
appunto calando ad occidente.
Il fosco pellegrino le tenne dietro con prudenza e
stese la mano per appendere con l’amo la lettera al suo
mantello. Essa ben s’accorse di essere seguita, ma af­
frettò soltanto il passo, senza volgersi a guardare. Il vi­
gile cagnolino abbaiò invece forte, sentendo che qual­
cuno toccava lievemente il mantello: la fanciulla fu co­
stretta a volgere lo sguardo e fissò bene in faccia l’inse­
guitore, che di colpo si fermò e si ritrasse poi timidamen-
HADLAUB 66g

te, nella persuasione che il suo messaggio pendesse sicuro


al mantello della bella.
Fides, senza dire una parola, continuò la sua strada e
si perdette per le viuzze ancora notturne, dove nel frat­
tempo già gli artigiani lavoravano alacri al lume delle lu­
cerne. Johannes invece risalì presto la montagna, dalla
cui altura si vedeva appunto sorgere il sole e dove il pa­
dre Ruoff Hadlaub insieme ai suoi garzoni preparava
i buoi per l’aratura.
«È in fondo meglio» disse questi a sua moglie Ri-
chenza, vedendo il figlio giungere in costume da pelle­
grino «che quello diventi scrivano o prete, perché con
le sue abitudini e fantasie strane, poco mi avrebbe gio­
vato qui per la terra ! ».
Johannes da parte sua quella mattina non s’attentava
a ritornare in città, ma d’altronde gli pareva di dover
andarci per esporsi a tutti gli sviluppi lieti o spaventosi
della sua impresa.
La gran giornata passò in realtà senza che null’altro
si verificasse. Ma neanche l’indomani ed il terzo giorno
accadde nulla, e così passarono giornate, settimane e
mesi, senza che Johannes riuscisse a sapere se Fides aveva
trovato e letto la lettera, e tanto meno come l’avesse ac­
colta e che cosa ne pensasse. Essa si chiudeva in un grande
riserbo ogniqualvolta egli giungeva alla torre dei Ma­
nesse, tanto che il suo occhio non la vide più per tutto
l’inverno. Provava un senso strano, come di chi non ab­
bia un’eco, non senta rispondergli dal bosco quando vi
lancia il suo grido.
La stagione fredda e fosca durò quell’anno oltre mi­
sura, e Johannes finì, per così dire, con l’awezzarsi allo
stato d’animo di un uomo, il quale non sappia se ha
fatto qualcosa di bene o di male. Per il momento non
compose una seconda canzone ; ma quando apparve final­
mente la primavera ed il sole riprese il suo dominio, an­
che l’animo suo si sgelò un poco ed ebbe improvvisamen­
te gran voglia di suonare e di cantare ad alta voce quella
prima canzone che non aveva mai cantato. “Lo farò una
volta sola” si disse “e dove nessuno mi possa udire !”.
6γο NOVELLE ZURIGHESI

Una bella mattina di maggio prese cosi il suo violino,


ben nascosto in un sacchetto, e usci di città, in cerca di
un posticino solitario. Andò oltre la porta alta, passando
per le terre di Stadelhofen, sinché giunse al torrente che
scende al lago dalle alture di Hirsland. Lungo quel fiu­
miciattolo correva un tacito sentiero che, risalendo dietro
il colle di Burgholz, portava passando, come in parte an­
cor oggi, all’ombra di alberi, tra mulini e piccole fucine,
in una verde zona selvaggia, circondata da ripidi pen­
dìi. Ivi l’acqua scorreva cristallina intorno ad una piccola
prateria coperta di fitti faggi, e tutti i fiori che posson
mai comparire in un canto d’amore sbocciavano sotto
quegli alberi e lungo quelle rive.
Il fogliame era però troppo giovane e rado per offrire
sufficiente riparo al cantore, il quale cercò un posto ancor
più segreto nel folto del pendio. Un faggio che subito si
scindeva in tre tronchi, offrendo fra essi un comodo se­
dile ben imbottito di muschio, gli parve infine adatto al
suo proposito. S’accomodò fra i tronchi lisci, trasse il
violino e cominciò con curiosità a suonare la melodia
da lui inventata per il suo canto senza che l’avesse però
mai udita:
Come vorrei gioire !
Ma tutto è pena ormai,
ben grave fu il mio ardire,
non m’amerà giammai !
Perenne è il mio dolore,
e come solo aiuto
strappo dal suo rigore
un gelido saluto !

Ripetè un poco più sicuro la prima strofa, e cantò


poi anche le altre strofe con voce più distinta, se pure
non troppo alta, e facendo molte pause. Cantò inoltre al­
cune vecchie canzoni a lui familiari, per ritornare d’un
tratto con nuovo slancio alla sua piccola opera, ripeten­
dola baldanzoso da cima a fondo: egli prega l’amata di
non creder troppo lieve il suo male, che può recare la
morte, e di meditare invece attentamente se non le sia
HADLAUB 671

possibile, concedendo il suo dolce e puro favore, allon­


tanare da lui il peggio e recargli salvezza.
La cosa gli parve ben riuscita e stette a meditare, te­
nendo il violino appoggiato alle ginocchia, che effetto
avrebbe fatto poter cantare in persona alla sua bella
quella canzone. Mentre così pensava, sentì risuonare
dall’alto delle voci di donna, come se qualcuno avesse
ascoltato il suo canto, e, alzando sorpreso gli occhi, vide
che attraverso alle corone degli alberi spiccava una torre
illuminata dal sole. Solo allora scoperse di trovarsi ai
piedi del castello di Biberlin, sede antica di quella auto­
revole famiglia che si era poi trasferita in città.
In mezzo alla torre sporgeva un piccolo balcone con
la balaustrata di pietra, e ad esso s’appoggiavano delle
donne, illuminate dal sole pomeridiano, e mandavano ri­
chiami ad altre amiche che dovevan trovarsi giù in giar­
dino o ancor più sotto nel bosco. Echeggiarono risa e
canti, le figure sulla torre sparirono ed alla fine si radu­
narono tutte sulla penisoletta fiorita e circondata dal
fiumicello. Pareva cercassero il cantore prima udito; ma,
siccome Johannes era ammutolito e si teneva nascosto,
non udivano nulla e cominciarono a giocare fra loro in
mezzo agli agili tronchi, offrendo un leggiadro spettacolo
al giovane che le spiava attraverso i cespugli.
Cantarono in girotondo e battendo le mani tentarono
una danza in cinque o sei. Ma non s’avviavano bene,
e allora Johannes si immischiò pian piano nella faccen­
da col suo violino, ed intanto s’alzò e s’awicinò passo
passo alla brigata, sempre suonando, sinché all’improv­
viso fu tra loro e le belle fuggirono tutte strillando cosic­
ché in meno di un minuto egli non ne vide più neanche
una attorno a sé.
Solo allora gli parve con suo spavento d’accorgersi che
fra quelle damigelle ci fosse stata anche Fides, e fosse
sparita come un’ombra. Credette però a un’illusione,
quando tutto tornò in silenzio, mentre gli giungeva sol­
tanto tutt’attomo dal verde dei cespugli il rumore som­
messo di parole e di risa soffocate. Se avesse resistito con
più coraggio avrebbe veduto che le dame tornavano ad
672 NOVELLE ZURIGHESI

avvicinarsi da tutte le direzioni. Ma lo colse un senso di


timore: persuaso d’aver commesso un’improntitudine,
mise sotto braccio lo strumento e a sua volta si tolse dai
piedi, o meglio dai fiori.
Fides era proprio nel numero di quelle fanciulle, ed
al vederlo era corsa più lontana delle altre, ma precisa-
mente infilando il sentiero che doveva percorrere Johan­
nes per rientrare in città. Solo dopo un buon tratto s’ac­
corse di allontanarsi dal castello dov’era in visita e ritor­
nò allora sui suoi passi, procedendo lenta, quando appun­
to si vide venire incontro Johannes.
Il sentiero lungo il torrente era tanto stretto che non
vi passavano due persone a fianco. Ma Johannes era così
atterrito, che proseguiva con gli occhi fissi su quell’appa­
rizione. Vedeva distintamente, malgrado il turbamento,
la sua figura, il suo volto e le sue vesti e continuava ad
avvicinarsi. Essa indossava, sopra un lungo abito purpu­
reo, un mantello di seta azzurro, delicatamente orlato
d’oro, lungo quasi quanto la veste e con grandi fenditure
alle maniche, fluente, senza cintura o altri ornamenti,
in ampie pieghe. Sotto un berretto piatto, a corona, di
panno bianco, trattenuto attorno al mento da un’ampia
e morbida sciarpa, i capelli scuri le scendevano ondulati,
sciolti e lunghi sulle spalle e per il dorso. Alta di statura
per la sua età, camminava con modestia ed insieme con
alterigia, e rivolse gli occhi al suolo, dopo di aver gettato
un rapido sguardo verso Johannes. Questi vedeva esatta­
mente ogni cosa, ma in uno stato di incoscienza, perché
la fanciulla gli si avvicinava sempre più, circonfusa dalla
luce dorata della sera che vibrava attraverso la verde pe­
nombra del sentiero, ed accompagnata dal canto e dal
cinguettio quasi assordante di innumerevoli uccelletti na­
scosti tra le fronde all’intorno, senza che Johannes sem­
brasse rientrare in sé e salutare doverosamente quella
giovane bellezza. Giuntole molto vicino riuscì appena a
portarsi rapidamente sul lato del sentiero per lasciarla
passare. In quel momento solenne abbassò gli occhi im­
pallidendo mortalmente e le ginocchia tremarono al tre­
pido giovanotto; non seppe pronunciare parola e Fides
HADLAUB 673

gli passò accanto senza salutarlo, come sta poi penosa­


mente descritto in una sua poesia.
Egli non poteva invero accorgersi che i suoi lineamenti
severi s’erano ravvivati un poco per un quasi lieto ros­
sore e che la bocca, sempre chiusa, si era aperta in un
lieve sorriso, quando ella era passata, né che essa si era
data a cercare le compagne, affrettando involontaria­
mente il passo. Mortificato e spaurito, quasi avesse sfug­
gito il diavolo, anche il giovane proseguì il cammino in
gran fretta, tremando in tutte le sue membra.
Comunque, dopo che ebbe ritrovato la calma, l’avven­
tura fu per lui un importante evento, proprio adatto a
fargli riprendere le sue imprese di cantore amoroso. An­
che rincontro silenzioso con la donna amata su vie soli­
tarie era un avvenimento, una pietra miliare nel viaggio
della vita, senza contare le altre graziose circostanze,
come le donne intente al giuoco nella landa fiorita, e Jo­
hannes infatti non perdette tempo, ma anzi lo usò subito a
trasformare l’avventura in una canzone a regola d’arte.
A questa ne seguirono poi altre, che riuscirono, a seconda
del favore del momento e della più o meno palese bene­
dizione del cielo, ora sentite ed originali, ora un pochino
noiose o di imitazione inavvertita, ora appassionate ed ora
pedanti. Quelle poesie che gli sembravano meglio riu­
scite o che erano sgorgate in un immediato impeto d’af­
fetto, seppe farle pervenire nei modi più vari, ma sempre
segreti, nelle mani della signorina, pur non osando va­
lersi mai di un complice messaggero.
Il tenace silenzio della dama non lo turbò, la cosa
seguiva ormai il suo corso; egli volgeva il suo canto ad
una bellezza crudele o severa, sperando esaudimento,
ma doveva aspettare e sospirare come ogni altro cantore
perché esso tardava così a lungo. Gli bastava che non
gli giungesse alcun segno ed alcun divieto al suo procedere,
e proprio su questo fondo gettò arditamente l’àncora
della sua speranza.
In ciò però si ingannava. Fides leggeva bensì tutte quel­
le «lettere» e le conservava accuratamente ; una simpatia
per il gentile giovinetto la turbava sempre più chiara­
674 NOVELLE ZURIGHESI

mente; cominciava a sentirsi il cuore pervaso di tenero


calore ogni volta che le perveniva una nuova poesia.
Ma se da un lato essa non intendeva baloccarsi con lui
nel consueto giuoco intellettuale, dall’altro non pensava
affatto a rompere il suo austero proposito, abbandonan­
dosi ad una seduzione, come essa pensava, a lei vietata.
A ciò si sentiva tanto più impegnata perché ben intuiva
che anche Johannes, malgrado quel po’ di pedanteria
scolastica inerente al suo atteggiamento, non giocava,
ma le era seriamente devoto. Tali sentimenti testimonia­
vano non meno la serietà precocemente matura e assen­
nata della fanciulla che la vera benevolenza da lei nutrita
per l’ardito giovinetto.
Meditando tra sé il modo più conveniente per por
fine alla faccenda, non le venne però l’idea di confidarsi
alla madre o alla madre adottiva, ma si rivolse anzi
senz’altro al vecchio cavalier Manesse; trovatolo solo gli
consegnò il pacchetto delle poesie, pregandolo in forma
concisa, ma con intensa serietà, di far sì che tali invii
cessassero, richiamando il folle giovinetto alla via giusta.
Ma in ciò Fides s’era ingannata e non aveva invocato
il giusto aiuto.
Invece di corrugare la fronte e di mostrar segno di mal­
contento, il signor Rüdiger manifestò sempre più alta
compiacenza, man mano che svolgeva e leggeva quei
fogli.
Percorse le singole poesie una seconda volta, si assi­
curò di avere davanti a sé componimenti originali e
non copie, e il demone di tutti i collezionisti ed amatori si
impadronì di lui.
«Costui non è un folle: è un nuovo poeta d’amore
da te suscitato, figliola mia ! » disse allegramente a Fides,
che ritta davanti a lui aspettava la sua risposta «Non
bandiamo dal nostro giardino quest’usignolo ! Che cosa
pensi mai? Sta’ tranquilla, in tutto questo non v’è nulla
che non sia buono e gradevole ! Vogliamo anzi far sì che
la navicella navighi senza pericolare sulle acque ! ».
Il cavaliere cominciò ad insegnare a Fides il modo di
restare impassibile, accettando gli omaggi del giovane
HADLAUB θ75
leale senza per questo darsi prigioniera. Tale era il gen­
tile costume, che non faceva danno a nessuna delle parti ;
badasse soltanto a non sottrarsi mai alla sua protezione
e a non intraprendere nulla di cui non fossero informati i
suoi amici e protettori. Badasse soprattutto a non per­
dere e sciupare nessuna delle missive poetiche che rice­
veva, e a consegnarle tutte fiduciosamente in custodia al
signor Manesse.
Fides non era per nulla soddisfatta ; ma quella giovane
creatura si sentiva insicura di fronte al vecchio e degno
cavaliere e consigliere, e se ne andò, così, più preoccu­
pata di quando era giunta.
Fu per questo indotta a invocare pure in quella stessa
giornata un consiglio femminile ; rivelò il segreto alla sua
madre adottiva, alla brava consorte del cavaliere, prima
fra quante la sorvegliavano e proteggevano, ed essa ac­
colse la storia con molta più preoccupazione, anzi con
estrema serietà.
Malgrado la pace coniugale, quella dama austera, in
molte circostanze della vita esteriore, era spesso di pa­
rere diverso dal suo consorte e conduceva una perenne
guerra segreta contro di lui, senza però far mai chiasso
per rispetto alle buone maniere. Essa senza dubbio era
un prototipo di quelle Zurighesi, che vengono così de­
scritte in un almanacco svizzero dell’anno 1784: «Ancora
verso la fine del secolo scorso, le nostre donne erano dello
stampo di quelle dei secoli passati. Esse sapevano per­
suadere i nostri antenati che il riserbo e le virtù casalin­
ghe superavano in ogni essere femminile molte altre e
più brillanti doti; questa persuasione era generale e do­
minava a tal punto le nostre donne, che esse non si occu­
pavano d’altro che delle faccende di casa, provvedendovi
con la più rigida sorveglianza ed estendendo il loro severo
governo e il loro senso del risparmio a un punto tale
che lo si riconosceva talvolta nelle gambe magre e nelle
guance incavate dei loro mariti e figlioli. Una simile don­
na era sempre la prima in casa a saltare dal letto e l’ulti­
ma a coricarsi; non vi era inezia che sfuggisse al suo
vigile occhio; dovunque stava alle calcagna delle dome­
676 NOVELLE ZURIGHESI

etiche, mentre marito e figli venivano tenuti a stecchetto


quanto a vesti, cibi e bevande».
Anche la signora di cui qui si discorre era di tale
mentalità e la estendeva a tutte le faccende sociali e do­
mestiche, mentre il marito, assennato, nobile e giusto
sotto ogni aspetto, proprio in tutte queste cose si mostrava
liberale in modo a lei contrastante. Egli era bonario,
ospitale, brillante, e sapeva dispettosamente condurre la
guerra segreta ora con astute sorprese, ora con la calma
cordiale di pochi detti o sguardi, in modo che si arrivava
quasi sempre ad una sconfitta della moglie, la quale si
ritirava silenziosa e talvolta ancora prima che lo scon­
tro s’avvicinasse. Quando però era decisa la sorte della
giornata o dell’ora, tutto procedeva per il meglio, giacché
la parte vinta era perfettamente istruita e preparata per
questo caso. Accadeva così che in nessun luogo si vivesse
con tanto agio e buona grazia come nella dimora dei
Manesse, quando il padrone era a casa e vi radunava
ospiti.
Anche nella predetta faccenda, la moglie s’oppose
subito all’opinione del consorte confidatale da Fides ed
esclamò: «Ci mancherebbe proprio che si tenessero in
casa nostra simili mascherate ! Noi viviamo in una città
con la sua vita ed i suoi commerci, non in nobili castelli
o in giardini incantati. Le vecchie favole le leggiamo nei
libri, ma non le recitiamo fra di noi, giacché noi donne
borghesi dobbiamo pensare alle erbe e alla verdura ed
all’avena e al miglio per la servitù!».
Lodò la figlia adottiva per il suo contegno e l’esortò
a respingere con tutta severità l’ardito rimatore, tenen­
doselo ben lontano. Le promise pure di cercare di cat­
turare dovunque potesse le lettere e i foglietti e la esortò
a riferirle sempre quando e dove gliene pervenissero dei
nuovi.
Ma nella stessa giornata venne a Zurigo il vescovo,
che faceva una visita alla sua diocesi e si presentò alla
casa dei Manesse per vedere la fanciulla. Si informò in­
tanto anche dei progressi della raccolta poetica ed ap­
prese così confidenzialmente dal signor Rüdiger quale
HADLAUB 677

poeta fosse sbocciato in Johannes Hadlaub e quale og­


getto avesse scelto per il suo amore.
Il vescovo Heinrich udì tutto questo con grande pia­
cere; gli parve che fosse proprio quello che lui desiderava,
e già nella sua fantasia immaginava la bella Fides ras­
serenata da quell’avventura, riconciliata col mondo e
con le sue gioie, divenuta insomma una disinvolta ed
allegra damina che non avrebbe mancato di conquistare
un giorno un nobile signore, dopo che il bravo Johannes
l’avesse trasformata coi suoi canti e messa brillantemente
in luce. Anch’egli, al pari del saggio Rüdiger, credeva
senz’altro che il giovinetto considerasse la vicenda uno
di quegli «alti amori» in cui la dama è ritenuta infinita­
mente superiore e del tutto irraggiungibile. Gli sembrava
superfluo nutrire dubbi e paure in proposito, dopo che
tanti nobili, piccoli e grandi, da cento anni nelle loro
poesie esaltavano quanto non era loro dato di raggiun­
gere, anzi neppure di nominare.
Prese dunque occasione per trarre a sua volta in di­
sparte la figliola ed incoraggiarla confidenzialmente ad
accettare senza paura quegli omaggi, non respingendo e
tanto meno distruggendo i foglietti e le missive del buon
ragazzo. Fides aveva così raccolto consigli disparati; per
non riceverne ancora di più tacque e decise di seguire un
po’ dell’uno e dell’altro. Mantenne la propria severità
di fronte a Johannes, non parlò mai a lui, né rispose
mai ai suoi messaggi. Li accettò, però, vedendoseli giun­
gere in modo sempre diverso, tanto che la signora Ma­
nesse invano spiava, sorpresa di non cogliere nulla.
Fides a sua volta di tanto in tanto consegnava le poesie
al cavaliere, che le raccoglieva con compiacenza e ac­
curatamente le serbava.
Era proprio contro la consuetudine, ed avrebbe do­
vuto provare che tutto era un giuoco il fatto che le aspi­
razioni amorose di Hadlaub vennero divulgate e non si
tacque neppure il nome del suo amore, tanto che il giuo­
co gentile si trasformò così in un divertimento per una
più ampia cerchia. Tutti quelli che vi partecipavano in­
ducevano l’ingenuo cantore alla perseveranza; gli pro-
6γ8 NOVELLE ZURIGHESI

mettevano una dolce ricompensa e intercedevano per lui


presso la bella. Questa fu tormentata ora dall’uno ora
dall’altro dei nobili ospiti perché desse l’incarico di sa­
lutare il suo poeta o concedesse di riferirgli che ella aveva
addirittura chiesto di lui. Persino sua madre, la badessa,
l’invitò spesso scherzosamente a mostrarsi più benigna
verso il giovane, e quando finalmente questi fu indotto
a venire in casa e messo poi all’improvviso in sua pre­
senza, Fides fu costretta a nascondersi sdegnosa, non vo­
lendo esporre né se medesima né lui a simile giuoco.
Tuttavia la vicenda non procedeva tra risa e scherzi, ma
anzi con un certo solenne e delicato compiacimento.
Fides, malgrado tutto, fini per avvezzarsi a quegli stra­
ni rapporti e si fece poco alla volta più serena, pur non
mutando il suo contegno di fronte a Johannes. Trascorse
così qualche anno; ai folti riccioli biondi del giovinetto
s’aggiungeva già una barbetta altrettanto bionda attorno
alle guance ed al mento, se dobbiamo credere al suo ri­
tratto di quel tempo; Fides era divenuta una delle più
belle e superbe figure di donna che si trovassero nella
contrada, e Johannes non si stancava di cantarla in ogni
stagione: primavera, estate, autunno, inverno. Tutti gli
incanti della natura mutevole s’univano nei suoi canti
alla nostalgia, al lamento, alla devozione amorosa e alla
lode della donna amata. Egli s’era fatto sicuro della sua
arte ed il signor Rüdiger possedeva ormai una cospicua
raccolta di sue poesie.
Ma anche la grande raccolta dei cantori d’amore era
ormai giunta a tal punto da radunare quasi cento di essi,
e per lo più al completo, ciascuno col suo proprio fasci­
colo di bella pergamena, quasi sempre accompagnato
dal ritratto e dallo stemma. Un artista fiorentino che
lavorava alle due cattedrali fu di aiuto allo scrivano, dal
che alcune di quelle immagini traggono la loro espressiva
semplicità e la nobiltà delle linee. A ritrovare gli stemmi
di tutti quei nobili cantori aveva provveduto il vecchio
Manesse, ed in particolare il vescovo Heinrich, uomo
abile sotto ogni aspetto, che già come prevosto a Zurigo
ai tempi di Konrad von Mure e più tardi come cancel-
HADLAUB 679

liere regio aveva acquisito grande esperienza in tale


materia.
In quel momento era sovrano tedesco il deforme Al­
berto, figlio di Rodolfo, prepotente e violento, e fu ap­
punto in occasione di un suo soggiorno a Zurigo che vi
convennero in gran numero signori laici ed ecclesiastici,
i quali, dopo la partenza dell’imperatore, si intratten­
nero nella città amica, di cui quasi tutti avevano la citta­
dinanza, facendosi più lieti appena lo spinoso reggitore
della corona, a nessuno benigno, se ne fu andato. Aveva
trattato a Zurigo una serie d’affari di stato, fra l’altro
anche con il consiglio civico, ed in tale occasione Johan­
nes Hadlaub s’era fatto favorevolmente notare, senza
saperlo, con un’inezia. Il cavaliere Rüdiger lo aveva
preso con sé per averlo sempre a disposizione quale scri­
vano ed archivista. Allorché l’imperatore, di cattivo umo­
re, attraversò frettolosamente il numeroso seguito rac­
coltosi nella dimora del governatore e prese una dire­
zione inattesa, Johannes senza alcuna sua colpa si trovò
sui suoi passi, tanto da scontrarsi con lui. Alberto lo
apostrofò furioso:
— Chi sei tu?
— La pietra dello scandalo ! — replicò Johannes ri­
dendo, senza arrossire né impallidire.
— Sei un ragazzo sfacciato, vattene ! — esclamò l’al­
tro, e gli voltò le spalle.
L’impassibilità di Johannes era stata notata con com­
piacenza dai circostanti, che per lo più non amavano il
sovrano, e in seguito si parlò dell’indole spensierata e
coraggiosa del giovane e più d’uno fra quei personaggi
importanti, che non sarebbero stati capaci di simile atto,
gli batterono sorridendo la mano sulla spalla.
Quando, come si disse, fu partito il sovrano, i rimasti
pensarono di divertirsi ancora un poco. La badessa Ku­
nigunde e Walther, il barone di Eschenbach, che posse­
devano a occidente e a sud di Zurigo molte terre, invita­
rono una grande brigata a cacciare nelle loro foreste, si­
tuate al confine del monte Albis e nella valle della Sihl,
che sono oggi proprietà civica di Zurigo. Il signor Ma-
68ο NOVELLE ZURIGHESI

nesse invitò in quello stesso giorno i cacciatori a pran­


zare nel suo castello di Manegg, dove intendeva, per ab­
bellire la festa, mostrare la raccolta di canti sin dove
era giunta, facendo cosi speciale onore a Johannes, in
compenso a tanta sua fatica.
La brava signora Manesse non era soddisfatta di tutto
quel progetto; a prescindere dal ricco invito, la disturba­
vano quelle storie d’amore ed in particolare la commedia
di Hadlaub, di cui diffidava. Malgrado la sua attenzione,
durante la caccia ai messaggi di Hadlaub non aveva
messo mano che su un’unica sua poesia, e per caso pro­
prio su quella in cui egli, seguendo la tradizione, espri­
meva il disprezzo per chi sorvegliava e spiava: «Siano
maledetti con le loro lingue lunghe e la loro celata astu­
zia! Si guardano attorno di soppiatto come il gatto in
caccia del topo; che il diavolo se li pigli e cavi loro gli
occhi ! » si diceva in fondo a quella canzone.
Benché le intenzioni non fossero tanto perfide, la si­
gnora sorvegliante in capo non era certo lusingata di
simile componimento e cercò di mandare a vuoto il piano
del consorte. Ma i suoi sforzi furono vani, ed anzi il
pranzo al castello fu allestito in ogni particolare tanto
più sfarzosamente quanto più essa l’avrebbe voluto sem­
plice. Pareva che il cavaliere avesse occhi per tutto e si
intendesse di cucina quanto di amministrazione pubblica,
di giurisprudenza, di poesia amorosa e di araldica.
Una mattina soleggiata dell’inizio di settembre, la no­
bile brigata partì in grande letizia per i boschi dell’Albis.
C’era il vescovo Heinrich von Klingenberg, la badessa
con parecchie dame, tra le quali anche Fides, gli abati
di Einsiedeln e di Petershausen, il conte Friedrich von
Toggenburg, Lüthold von Regensberg, il signor Jakob
von Wart col giovane figlio Rudolf, i nobili von Landen­
berg, von Tellinkon e von Trostberg. Il signor Walther
von Eschenbach apriva il corteo a cavallo, coi servi ed i
cani, e il signor Manesse col figlio, il canonico, e con
Johannes Hadlaub lo chiudeva. Altri signori, prelati e da­
me, troppo pigri per la caccia, si sarebbero trovati poi
al castello Manegg, dove la padrona di casa stava im-
HADLAUB 681

prowisando il pranzo che, come al solito, era andato


trasformandosi da uno spuntino di formaggio e salsiccia
in un banchetto principesco. Ma sarebbe stata l’ultima
volta ! si riprometteva con quell’indistruttibile fiducia nel­
l’avvenire che è l’astro consolatore di tutta l’umanità.
Quale debolezza ! potrebbe esclamare a questo punto
più di una donna; ma quanto amabile invece quella pa­
drona sempre in lotta con la propria avarizia e sempre
vinta, che non rompeva la pace domestica per il pro­
blema del sale e del pepe e non si mostrava inflessibile,
pensando piuttosto che non era detta l’ultima parola e
che sarebbe venuto anche per lei un tempo più propizio
e dolce ! Ed è un peccato che noi ignoriamo il suo nome
di battesimo, che avrebbe dovuto essere particolarmente
armonioso.

La caccia proseguiva rapida su per le boscaglie, si


inseguiva un cervo, piuttosto per giungere in maniera
movimentata ed allegra in cima della montagna che per
conquistare una preda. Alla Schnabelburg, che domi­
nava dall’alto il paesaggio, Walther von Eschenbach
salutò i suoi ospiti come padrone della rocca e successore
degli antichissimi ed estinti baroni di Senableborc, poi­
ché sei secoli or sono c’erano già per quella gente tempi
inconcepibilmente remoti. Da quel punto si dominavano
al di qua e al di là della montagna, sin oltre la Reuss, i
castelli ed i villaggi dei baroni di Eschenbach e quel gio­
vane, fiorente cavaliere si sentì veramente felice quando
le dame ed i signori, affacciandosi a tutte le finestre della
sala, ammirarono il paesaggio, lodando i suoi possedi­
menti. I laghi di Zurigo e di Zug parevano scintillare dal
fondo delle grandi vallate soltanto quali specchi della
sua felicità, ed il mondo alpino, allora ancor serrato nel
suo argenteo silenzio, dalle vette di quello che sarebbe
poi stato il Bernese sino al Säntis, pareva esistere solo
per far da testimonio ad un presente di eterna beati­
tudine.
Dopo una breve sosta tutti risalirono a cavallo per
ripartire in volata sul dorso della estesa montagna. Ven-
682 NOVELLE ZURIGHESI

nero portati dei falchi poiché a quell’altezza c’era spazio


libero, e le dame si compiacquero di far salire gli abili
uccelli. Si distìngueva per gioiosità specialmente la gio­
vane consorte di Eschenbach, a lui da poco sposata, e
con lei andava a gara la fidanzata del giovane Wart,
ospite alla Schnabelburg, Gertrud von Balm, una gra­
ziosa vicina della Lenzburg. Simili a due gemelle nella
loro gioia, con leggiadra baldanza, la sposina e la fidan­
zata galoppavano, con veli ondeggianti, precedendo tutti,
lanciando i loro falchi in aria con grida di giubilo al ve­
dere i due uccelli piombare contro lo stesso airone, che
si era alzato dal lago di Turi dirigendosi ad oriente,
verso la valle della Glatt. Il paesaggio si stendeva nel­
l’azzurro, davanti alla brigata diretta verso il nord, oltre
le regioni di Zurigo, Aargau e Thurgau sino alle alture di
Svevia ed alle montagne del Giura, e da tutti i punti
occhieggiavano le torri delle famiglie dominanti, le cap­
pelle e le chiese. Procedevano sulla cresta della monta­
gna come un corteo di divinità, con la gioia e l’orgoglio
sui volti; dagli alti cappelli a punta dei cavalieri ondeg­
giavano al vento i nastri allora di moda, graziosamente
annodati alle estremità, quasi a proclamare la libertà di
quegli istanti privi di ogni preoccupazione. Soltanto la
bella Fides cavalcava col volto austero, sul quale si me­
scolavano dolore ed orgoglio, senso di smarrimento e
repressa voglia di vivere, misteriosi come le ombre della
pianura dove viveva un popolo invisibile, padrone del­
l’avvenire.
Finalmente il corteo di caccia rientrò nella foresta per
raggiungere il castello Manegg, dove la padrona con le sue
serventi aveva impeccabilmente portato a termine tutti gli
odiati preparativi ed era pronta ad accogliere i caccia­
tori con cortese gentilezza, circondata dagli ospiti già
giunti. Persino Johannes Hadlaub, che modestamente
entrò ultimo, ottenne da lei uno sguardo benevolo, poi­
ché essa pensava che ormai, dopo che gli avevano por­
tato via tutte le sue poesie, quel giuoco avrebbe avuto fine.
Quel giorno però gli toccò una parte non lieve, giac­
ché il vescovo Heinrich appena seduto a tavola chiese del
HADLAUB 683

«cancelliere d’amore» e non ebbe pace finché non lo


vide seduto fra gli ospiti. Fides arrossì e si guardò attorno
inquieta, anzi irritata: Johannes arrossì ancor più senza
osare alzar gli occhi. Tuttavia venne osservato con benevo­
lenza e senza superbia, giacché egli, quale libero figlio del­
la montagna, apparteneva a quella borghesia, la cui pro­
tezione e buona volontà tornava utile a più di un nobile.
Dopo il pasto, il padrone di casa condusse la compagnia
in un salone che egli aveva recentemente costruito nel
castello. Lungo le finestre e le pareti erano disposte delle
sedie ove tutti presero posto ; in mezzo alla sala c’era una
tavola su cui stavano allineati i libri dei poeti trascritti
da Johannes; ciascun fascicolo era provvisoriamente po­
sto fra due sottili tavolette di legno legate con nastro di
seta, e dove vi erano già miniature queste erano difese
da un velo di seta rossa, azzurra o di altro colore. I libri
furono presentati in modo che Johannes dovette andare
a mostrarli l’un dopo l’altro, dopo aver pronunciato il
nome del singolo poeta. Il signor Manesse in persona gli
toglieva i fascicoli di mano per porgerli alle dame, ai
prelati, ed ai cavalieri, così che ben presto i bei fogli bian­
chi di pergamena spiccavano all’intorno nella sala e le
immagini tutte oro e colori splendevano da ogni canto,
commovendo o rallegrando per il loro contenuto.
Dopo l’imperatore Enrico VI, riprodotto, secondo la
tradizione, da un’immagine antica, coi solenni para­
menti, veniva l’ultimo rampollo degli Hohenstaufen, Cor-
radino, alla caccia col falco, un gentile fanciullo dalla
corona d’oro, con la lunga veste verde e guanti da caccia
bianchi, galoppante su di un leardo, pensato cioè nei
suoi lieti giorni, prima che partisse alla conquista del
trono avito e perdesse la giovane esistenza. Nei pochi
canti che seguivano questa immagine cinguettava, an­
cora quasi bambino:

Non so ancora che siano


dell’amore gli affanni:
l’amor non mi perdona
d’esser giovane d’anni.
684 NOVELLE ZURIGHESI

Anche la vignetta per i canti del re Venceslao di Boe­


mia era un’invenzione di Johannes; egli pure sedeva in
pompa magna sul trono, circondato dagli alti funzionari
di corte, con due trovatori ai piedi, tra cui un suonatore
di viola in cui Hadlaub aveva ritratto se medesimo. Un
conte palatino porgeva ad un cavaliere inginocchiato la
bandoliera, e questo conte palatino, d’aspetto giovanile,
aveva un viso tanto delicato e nobile da sembrar troppo
grazioso per un uomo, sin che non si scoprì trattarsi, in
realtà, del volto di Fides. La scoperta non avvenne subito,
bensì solo quando alcune altre illustrazioni mostrarono
lo stesso sembiante e si cominciò a domandarsi come mai
quelle nobili figure sembrassero tanto note. Già il poeta
seguente, il duca Heinrich von Breslau, armato e in ar­
cioni, fra il suo seguito, ad un torneo, mentre riceveva
la corona dalle dame, mostrava gli stessi leggiadri linea­
menti, e del pari il margravio Heinrich von Meissen che
va a caccia con quattro falchi, e così di seguito parecchi
altri, mentre nessuna mai delle molte figure femminili
rivelava i tratti di Fides.
Lo scrivano e pittore innamorato con quell’accorgimen­
to aveva ottenuto due vantaggi : anzitutto aveva potuto ri­
produrre spesso le amate sembianze senza compromet­
terne la proprietaria, inoltre quegli eroi nuovi traevano
un carattere misteriosamente ideale, che li staccava dalle
molte figure secondarie, esse pure, quasi sempre, di aspet­
to delicato e giovanile. È infatti singolare come tutto
questo mondo di immagini, analogamente alle opere
arcaiche della più remota antichità, si riveli eternamente
sereno e sorridente e come talvolta gli uomini, se non
sono celati nelle ferree armature, si distinguano soltanto
per i capelli più corti dalle figure femminili, una prova
che la bellezza dovrebbe essere più bella della vita reale.
Ma nelle illustrazioni del duca d’Anhalt e di Johann von
Brabant, turbinose e violente scene di guerra rammenta­
vano l’epoca ferrea delle lotte : vi si scorgevano viluppi
di cavalli che non erano certo il forte del volonteroso
pittore; soltanto nelle braccia che brandivano energi­
camente le lance si rilevava una certa abilità, come pure
HADLAUB 685

nel modo corretto di tenere le briglie. Più pacifico si


presentava il signor Otto von Brandenburg della Freccia,
il quale siede alla scacchiera con la sua dama mentre
ascolta la musica di quattro suonatori, due con la tromba,
uno col tamburo ed uno con la cornamusa.
A quei personaggi principeschi tenevano dietro subito
i conti, i cavalieri ed i maestri borghesi dediti alla poesia ;
e i primi ritratti erano dedicati ai cantori del paese. Il
conte Kraft von Toggenburg, vestito d’un abito rosso
cupo a belle pieghe, sale per una scala al verone della
sua bella: la testa mostra una chioma splendida e ben
acconciata e bellissimi lineamenti. La dama gli porge
una ricca ghirlanda di fiori, intrecciata attorno ad un
cerchio d’oro, mentre ha ella stessa sul capo una ghir­
landa di rose. Quando il fascicolo con questa immagi­
ne giunse tra le mani del conte Friedrich, egli la fece
passare al vicino oscurandosi in volto, giacché quella
scena d’amore gli rammentava il tempo in cui un fra­
tricidio aveva rattristato la nobile famiglia, cosi che non
poteva certo compiacersi, né amava parlare di quella
tragedia.
Il signor Konrad von Altstetten della valle del Reno
sedeva sotto un ampio cespuglio di rose con l’oggetto del
suo amore, appoggiando la testa al suo grembo, con
un falco sulla mano, mentre la donna si chinava su di
lui e gli appoggiava la guancia alla guancia, stringendolo
fra le sue braccia. A questa coppia seguiva Wernher von
Teufen, che va egli pure alla caccia del falco con la sua
dama, ma è ancora in arcioni e cavalca, mentre essa
regge il falco ed egli si curva verso di lei, circondandole
teneramente la spalla col braccio. Erano tutte, insomma,
immagini veramente graziose.
Infine però col nome di Jakob von Wart fu chiamato
uno dei presenti. Johannes Hadlaub ebbe un arguto sor­
riso, perché gli aveva dedicato l’immagine più lusin­
ghiera. Il vecchio signore ita in un giardino alberato e
tutto cosparso di fiori ed è immerso in una tinozza da ba­
gno, svestito, quindi, ma l’acqua è del tutto ricoperta di
rose. Sul suo capo si intrecciano rami di tiglio dove can-
686 NOVELLE ZURIGHESI

tano degli uccelli ed intorno gli stanno quattro dami­


gelle intente a servirlo. Una gli pone una ghirlanda sulla
testa grigia, ma ancora florida e sorridente, la seconda
gli porge da bere in una coppa d’oro, la terza gli stropiccia
o gli accarezza molto decorosamente spalle e braccia e
questa ha in testa un prezioso copricapo alla moda, una re­
te di perle, mentre le altre hanno sui riccioli delle
ghirlande di fiori. La quarta invece, vestita di bianco e
con la testa velata, essendo certo una servente, sta in
ginocchio davanti ad un fuoco su cui pende una caldaia
e maneggia il mantice per tener sempre calda l’acqua
per il bagno.
— Ecco che arriva il compenso alla virtù ed alla pie­
tà — esclamò il signor Manesse porgendo il libro al
vecchio signor von Wart, e quanti videro poi il quadretto
gli augurarono fortuna con allegre risate, battendo le
mani.
— Ohimè ! avessi davvero avuto simile avventura ! —
esclamò il vecchio, unendosi alle risa — A che mi giova
questa immagine dipinta di felicità? È vero che il signor
Ulrich von Liechtenstein narra di aver goduto gioia sif­
fatta durante i suoi viaggi amorosi ed anche il Parzival
di Wolfram ci descrive questa usanza, ma io, purtroppo,
non l’ho mai provata.
— Vi farò preparare subito un bagno, se voi volete
entrarvi, nobile signore — disse la signora Manesse, che
ormai, passata la fatica, aveva ritrovato il suo buon
umore.
— Certo, fatelo subito, — replicò il cavaliere — sce­
glieremo senza indugio le quattro dame per accarez­
zarci il dorso ; come ci farà bene !
Mentre tutti sorridevano ancora dell’allegria del vec­
chio cavaliere, echeggiò, d’un tratto, un’argentina risata
proveniente da Fides. Pareva che anch’essa, finalmente,
si fosse ridestata all’allegria alla vista di uno strano mo­
stro alato che avanzava cavalcando in una delle imma­
gini; essa doveva ritrarre Hartmann von Westerspühl,
il vassallo della Reichenau, che ha probabilmente com­
posto i poemi II Povero Enrico, Erec e Iwein. Forse era
HADLAUB 687
una delle prime vignette di Hadlaub, intrapresa sen­
za buona riflessione; non si vedeva infatti che un enorme
e goffo elmo su un cavalluccio e, al di sopra, una mo­
struosa testa d’uccello. L’invisibile ometto era per di più
celato dallo stemma dei Westerspühl con tre teste di gallo,
e al di sopra di lui ondeggiava al vento il gonfalone con
tre eguali galli, ma le sei teste, come il gallo maggiore
che adorna l’elmo, erano e sono ancora tanto mal ritratti,
che nessuno può riconoscere la natura dell’uccello ed
anzi alcune sembrano teste di aquila.
«Cos’è mai questo uccello cavaliere o questo cava­
liere d’uccelli?» esclamò Fides «Sembra una gallina sa­
lita in sella con sei pulcini ! ».
Il quadretto girò di mano in mano a divertire la com­
pagnia, poiché Fides aveva dimenticato che l’autore po­
teva forse offendersi, ma il vecchio Wart osservò che quel
bizzarro cavaliere era realmente il nonno del suo vicino
von der Thur, il giovane signor Hans von Westerspühl, e
che anche lui aveva ancora il titolo di vassallo della Rei­
chenau. « Quegli però ora ha nello stemma tre corni da
caccia al posto delle teste di gallo» concluse.
Nel frattempo Fides aveva già trovato nuovo ogget­
to al suo spirito critico nella raffigurazione della gara
fra i cantori che andava allora circolando. In essa si
vedevano, seduti in alto a far da giudici, in tutta la loro
magnificenza, il langravio Hermann con la langravia
Sophie, mentre sotto, seduti stretti su una panca, stavano
i sette cantori. Al centro, Klingsohr di Ungheria con a
fianco Heinrich von Ofterdingen, Walther von der Vo­
gelweide, Heinrich von Rissach, il virtuoso scrivano
Biterolf, Reinmar il vecchio e Wolfram von Eschenbach.
Era davvero molto comico vedere quei sette contendenti
mossi dalla passione e pure costretti a star serrati su
quella povera panchina, mentre lassù i principi se la
godevano in tutta comodità e pace.
«Ecco,» esclamò Fides «questo è proprio il giuoco
che si fa a scuola e che si chiama “fare il cacio”, in
cui quelli che siedono alle estremità del banco premo­
no verso il centro per spingere fuori quelli che si trova­
688 NOVELLE ZURIGHESI

no in mezzo, mentre quelli del mezzo si allargano a


forza per far cadere dal banco quelli seduti alle due estre­
mità». Johannes Hadlaub non aveva mai sentito Fides
parlare così a lungo, ed ecco che ciò accadeva soltanto
per dispregiare e mettere in ridicolo il suo lavoro ben
intenzionato. Cosi almeno gli parve, giacché non poteva
sapere che altri si sarebbero invece compiaciuti di quegli
scherzi, testimonianza di una incipiente gaiezza. Rimase
quindi melanconico e confuso di fronte ai signori che
ridevano e proclamò a bassa voce il nome di Gottfried
von Strassburg porgendone il libro, e stava già per affer­
rare quello dedicato a Konrad von Würzburg, quando il
signor Rüdiger Manesse si fece avanti con un altro
fascicolo e proclamò ad alta voce, leggendone il fronte­
spizio: Maestro Johannes Hadlaub! Egli aveva in segreto ra­
dunato i canti di Johannes e li aveva trascritti di sua mano
col gusto di un raccoglitore e di un protettore. Tutti si
fecero attenti quando annunciò poi la comparsa di un
nuovo poeta d’amore nella loro cerchia e comunicò che
i degni prìncipi, il vescovo Heinrich e la badessa, col
consenso del Consiglio di Zurigo, avevano deciso di ele­
vare al grado di maestro il benemerito personaggio; la
virtuosa dama Fides von Wasserstelz era la prescelta ad
imporgli la corona, dimostrandogli il meritato favore.
Contemporaneamente, il vescovo, dando il braccio al­
la badessa Kunigunde, si diresse verso Fides per conse­
gnarle una ghirlanda di rose intrecciate attorno ad un
cerchio d’argento. Fides però s’alzò con impeto, copren­
dosi di rossore e disponendosi a fuggire. Ma erano già
in piedi dietro il suo seggio Eschenbach ed il giovane
Walther, la di lui consorte e la fidanzata dell’altro, e le
due coppie la trattennero al suo posto, ponendole la
ghirlanda in mano. Frattanto Manesse e Toggenburg,
seguiti dagli abati e 'dagli altri signori, guidavano Jo­
hannes, pallido e tremante, incontro a Fides. Il timido
maestro, che pochi giorni avanti aveva saputo ridere in
fàccia al trùce imperatore, pareva fosse condotto a morte
ora che doveva inginocchiarsi ai piedi della sua pura,
dolce, gentile ed amabile donna, di cui nei suoi canti
HADI.AUB 689

aveva detto che avrebbe lottato con lei gettandola su un


letto di fiori, se appena l’avesse avuta vicina !
Nulla era più bello a vedersi che la leggiadra Fides nel
suo turbamento, trattenuta sul suo seggio dalle due fio­
renti coppie, ma anche nulla di più commovente, se qual­
cuno avesse potuto presagire il domani e sapere che en­
tro breve lasso di tempo quell’allegro Wart sarebbe stato
messo alla ruota per l’assassinio del re Alberto e la leg­
giadra fidanzata, poi sua consorte, sarebbe giaciuta a
terra per tre giorni e tre notti, immersa in preghiera da­
vanti alla ruota, sino al suo estremo respiro ; se si fosse sa­
puto che quel medesimo barone di Eschenbach avrebbe
trascinato fuggiasco la vita per trentacinque anni, come
garzone di pastori, per morire nascosto ed ignorato in
una capanna, che tutta quella famiglia sarebbe stata an­
nientata, dispersi i secolari possedimenti e distrutti i
castelli, che l’opera dei feroci vendicatori avrebbe fatto
salire le fiamme al cielo e avrebbe intriso la terra di san­
gue. La nube di un nero destino librantesi su quel lumi­
noso quadro di vita celava il fulmine di un delitto incon­
sulto ed inaudito, sorto improvviso e imprevisto sotto la
spinta di una iniqua violenza, e che avrebbe annientato
insieme l’oppressore e il vindice.
Il maestro Hadlaub venne accompagnato con spen­
sierata gaiezza di fronte a Fides e fu fatto inginocchiare,
il che non gli tornò diffìcile, ché anzi sarebbe addirittura
cascato indietro se i nobili signori non lo avessero trat­
tenuto e sorretto. Deviò lo sguardo atterrito quando Fi­
des, premuta dagli amici, gli pose sul capo la ghirlanda;
ma allorché essa gli ebbe presa la mano mettendola nella
propria e gli ebbe detto infine, da tutti incitata, mezzo
ritrosa e mezzo sorridente: «Dio saluti il mio amico!»
egli ebbe un guizzo come una bestiolina che sembra
morta per la paura, ma che a poco a poco riprende vi­
ta e vivacità. Alzò lo sguardo su di lei e le serrò la mano
con le sue due e la fissò in faccia, vicino come non mai.
Vide allora per la prima volta ben distinto ciò che aveva
tante volte descritto : la sua bocca, le piccole guance
rosee, i suoi limpidi occhi, il candido collo, la sua fem-
θ9° NOVELLE ZURIGHESI

mirtea modestia e le mani più candide della neve. SI,


tutto era cosi e mille volte ancor più bello, era tutto un
miracolo ! In quel volto non vi erano rapporti topogra­
fici imprecisi, non v’erano spazi o linee o superfici inde­
terminate o superflue : e i tratti erano segnati nitidamente,
se pur con grande dolcezza, come in una fusione perfetta,
mentre tutto era illuminato dalla più originale e dolce
personalità. La bellezza aveva una serietà interiore vera
ed inconfondibile, benché in essa s’annidasse un tono di
schietta birichineria, che sembrava attendere il mo­
mento per ridestarsi.
Johannes, di tutto dimentico, mentre le sue braccia si
appoggiavano al grembo di lei, la fissò così trasfigurato
dalla beatitudine, che ineluttabilmente un alito di felicità
si trasfuse nell’animo della fanciulla, facendole fiorire
sul labbro un grazioso sorriso. Trascinati dallo spettacolo
leggiadro e veramente commovente che la coppia offriva
in quell’istante, tutti i circostanti manifestarono ad alta
voce la loro gioia ed il loro plauso; per essi era raggiunto
il culmine del giuoco gentile e godevano felici il loro
piccolo capolavoro.
Fides però fu strappata alla breve estasi dal mormorio
plaudente : sussultò e tentò di sottrarre la propria mano
da quella di Hadlaub. Ma questi non s’era ancora
affatto destato e la tratteneva più salda, sinché Fides,
estremamente eccitata e con le lagrime agli occhi, si
chinò su di lui e gli morsicò forte la mano. Benché non
gli facesse affatto male, come più tardi ebbe ad assicu­
rare, ciò valse però a ridargli coscienza. Abbandonò dol­
cemente la mano e Fides subito s’alzò per allontanarsi
dal gruppo dei circostanti. Ma in quel momento le si
fece incontro suo padre, il vescovo, con la preghiera di
porgere un dono al bravo giovane, in memoria di quel
giorno, quale lieve compenso dell’amore, come l’usanza
suggeriva. Essa cercò nella borsa che le pendeva al fian­
co, dove teneva i guanti ed altre cosucce, ne trasse un
agoraio d’avorio, un artistico lavoro greco, su cui erano
intagliati due draghi in lotta coperti di squame: glielo
gettò per essere finalmente libera.
HADLAUB 691
«Non essere così scortese!» ammonì la principessa
madre, mentre raccoglieva da terra il piccolo oggetto e
glielo rendeva «Porgilo con bei modi, così che egli
possa trarne anche gioia ! ».
Il monito fu appoggiato e ripetuto da tutti i presenti.
Fides allora pose l’agoraio nella mano del giovane e fuggì
poi in gran fretta dalla sala.
Johannes teneva l’avorio così stretto in pugno, come
se avesse conquistato un ossicino di San Pietro e si trasse
in disparte, mentre la principessa osservava: «Mi stu­
pisce che glielo abbia donato, perché fu portato d’oltre­
mare da un antenato ed essa lo ha sempre portato con sé,
fin da bambina».

Se Johannes avesse voluto diventare sarto, ora sarebbe


stato almeno in possesso di un agoraio ! Nessun altro van­
taggio o progresso gli sembrò tuttavia di aver ricavato dal­
la sua poesia dopo quella beata festa di caccia. Pareva che
Fides fosse sparita dal mondo o che mai fosse vissuta. Non
la vedeva in nessun luogo, né mai la sentiva nominare;
persino quando egli poco dopo compose un lungo poe­
metto, un Leich,1 il signor Manesse non ne fece cenno,
e precisamente perché non lo vide, giacché Fides non gli
consegnò quel fascicoletto, né altri messaggi ricevuti da
Johannes; né alcuno seppe che cosa ne facesse. Anche
quando Hadlaub partì per terra straniera non gli giun­
se segno di vita, nessuno gli chiese se volesse congedarsi
da lei. Si era trovato opportuno che egli conoscesse il
mondo e gliene fu data occasione, affidandogli svariati
incarichi. Anzitutto conveniva andare personalmente in
cerca delle parti ancor mancanti della raccolta nei luoghi
in cui si sperava di trovarle, e le lacune conducevano in
genere verso l’oriente e lungo il corso del Danubio.
Johannes era ormai da tempo pratico di tale faccenda e
ben adatto a giovare a quell’impresa, che considerava
anche propria. Aveva inoltre da seguire, presso la cancel­
leria regia, alcune pratiche che gli Zurighesi avevano in
I. Leich·, componimento poetico-musicale coltivato dai Minne­
sanger, in molti casi analogo al lai provenzale.
692 NOVELLE ZURIGHESI

sospeso e da provvedere alle cose del vescovo Heinrich,


il quale, in qualità di ex cancelliere del defunto Rodolfo,
faceva talvolta da consigliere al figlio Alberto per av­
viarlo, sin dove gli fosse possibile, sulle orme felici del
genitore saggio e filantropo. Il giovane sapeva assolvere
simili incarichi con abilità e modestia, ed era capace di
osservare, senza essere indiscreto, come stessero le cose.
Il vescovo gli donò un cavallo, il signor Manesse una
bella veste ed il padre lo munì di denaro, non volendo
che Johannes dipendesse in tutto dai signori. Si ebbe an­
che buone lettere di raccomandazione di luogo in luogo,
così che, attraversando dapprima la Svevia e la Baviera, fu
dovunque bene accolto, sinché salì insieme al suo caval­
lino su di un battello del Danubio per scendere verso
l’Austria. Dovunque, nelle città, nei castelli e nei mona­
steri, si dedicava con zelo a copiare e a raccogliere noti­
zie, così che ancor prima di giungere a Vienna aveva
riunito circa duecento nuove strofe del solo Walther von
der Vogelweide, o che almeno circolavano sotto il suo
nome e non figuravano ancora nei manoscritti zurighesi.
A Vienna si trattenne circa un anno ed ivi trovò so­
prattutto le vaste orme di Neithart von Reuenthal, la
cui attività si era svolta circa settantanni prima alla
Corte di Federico il Bellicoso. Lo struggimento che il suo
amore non corrisposto gli metteva in cuore, nella solitu­
dine della lontananza, era talvolta stranamente mitigata
dal contrasto con la musa paesana di Neithart, la poesia
dei villici, delle robuste ragazze al ballo, dei bellimbusti di
campagna. Il suo cruccioso sdegno lo fece cadere in quel
tono pastorale, ed in uno dei primi canti composti a
Vienna comparò la fatica degli inesauditi trovatori col
duro lavoro dei carbonai nei boschi, costretti a rompere e
dissodare la terra, oppure dei carrettieri, che si affannano
senza posa al vento ed alla pioggia per trarre le ruote,
bestemmiando, fuori dal fango dove sono andate a fic­
carsi; e disse che il cuore di tali amanti, presi dall’amore
come in una tenaglia, sobbalza ininterrottamente nel pet­
to, come squittisce un maialetto chiuso dentro un sacco.
Più tardi s’aggiunse in lui la nostalgia e rievocando la
HADLAUB 693

serena vita campestre sul colle paterno l’esaltò con nuovi


accenti. Nei canti per la mietitura da lui composti, pro­
rompe d’un tratto: «Orsù, intrecciate i capelli e incoro­
nateli bene di ghirlande, robuste ragazze, è venuta la
mietitura ! Ci sono gioie in abbondanza ed allegri giuo­
chi con i garzoni sulla paglia, al di qua e al di là del
torrente, giuochi che tutti sanno senza averli imparati;
se mai arrivasse adesso qui un’innamorata, certamente
andrei con lei sul granaio e dimenticherei ogni affanno !».
Ed anche con nuovi accenti cantò l’abbondanza del­
l’autunno, come se egli fosse un grande mangiatore: «Su,
su ! attizzate bene il fuoco, fate che la padella trabocchi
di grasso per intingervi il pane bianco! Salsicce, pro­
sciutto, cervello dolce, animelle, trippa e buon arrosto
di porco, qua tutto, cosi che nella calda cucina splendano i
volti ardenti degli scudieri e delle superbe fanciulle ! Poi
venga vino nuovo in abbondanza e si riprenda con il collo,
il petto, la testa e le zampe friggenti e bollenti ! Chi vuol
darsi alla melanconia stia lungi da noi epuloni, pieni di
gioia e di ogni cosa buona, ma chi vuole invece ingrassa­
re, venga qua : una buona mangiata ingrassa la servitù !
Padrone, riscalda ancor meglio la stanza, mandaci oche
e polli ripieni e capponi lessati, fa’ abbattere piccioni
e cacciare fagiani, per onorare l’autunno! Fa’ bollire la
pentola e mettici molto sale, perché ci venga tanta sete
e la testa s’infiammi come se le avessimo dato fuoco ! ».
È vero che concludeva di solito tutta questa abbon­
danza con una delicata svolta in altra più fine direzione,
deplorando cioè che l’imminente inverno avrebbe presto
fatto male agli uccellini e celato la bellezza delle donne
amate nei cappucci caldi, nelle pellicce e negli scialli,
lasciando libera a malapena la punta del naso, così che i
poveri innamorati dovevano con doppia impazienza at­
tendere la primavera, quando le loro belle si sarebbero
di nuovo mostrate all’aperto. Però simili strofe di conge­
do sembravano appiccicate solo per convenienza all’ar­
rosto di porco, alla trippa di pecora ed alle salsicce, e
non c’era da farsi illusione circa la crescente rozzezza
della musa di Hadlaub.
θ94 NOVELLE ZURIGHESI

Per studiare con spirito accademico e da epigono il


nuovo indirizzo artistico, Johannes frequentò, tanto in
città che nei bei dintorni di Vienna, i divertimenti del
popolo, non mancando dove vi fosse da suonare e da
ballare e da bere. Un vecchissimo cantore, che percorre­
va la regione del Danubio ed abitava a Vienna nella
stessa locanda, gli fece da guida. Questo vecchio suona­
tore aveva la strana dote di aver dimenticato compieta-
mente il proprio luogo di origine e il proprio nome, a
quanto affermava, dopo una caduta fatta più di cin-
quant’anni avanti, e neppure riusciva a tenere a mente
il nuovo nome che gli avevano dato o che egli aveva ri­
chiesto. Lo ripeteva più volte per fissarselo nella memoria,
ma, passato un brevissimo tempo, di nuovo lo aveva di­
menticato, ed egli citava soltanto il nome di chi glielo
aveva conferito. Tutto conosceva, ma non il nome dei
suoi genitori, del suo paese nativo, né la sua stessa sorte
avanti la caduta. Era capace di leggere, ma non più di
scrivere e possedeva una piccola borsa di cuoio piena di
antichi e sdrusciti libriccini di poesie che dovevan risalire
a molti anni prima; erano il suo solo possesso, oltre ad
una piccola arpa, il cui legno, per il lunghissimo uso,
era ridotto sottile come carta e che era in più punti ac­
comodata con striscioline di tela incollate. La sua veste
era ormai consunta, senza colore, la lunga barba, un
tempo argentea, cominciava qua e là ad ingiallire, la
testa era completamente calva, ma di bellissima forma e
lucente come una palla d’avorio: la si vedeva però di
rado, perché egli la teneva ininterrottamente protetta da
un ampio berretto di pelliccia sdruscita, alla cui ombra
il vecchio pareva dimorare come sotto il tetto dell’obliata
casa nativa; gli occhietti infossati scintillavano almeno
così soddisfatti al riparo di quella tesa scura, come fine­
strelle sotto un tetto di paglia. Tuttavia da quella vecchia
creatura echeggiava sonora una gran quantità di canzo­
ni, ed il minuscolo, decrepito strumento accompagnava il
canto con sorprendente energia.
Johannes Hadlaub non ne trasse però larga mèsse,
giacché quasi tutte le canzoni ripetute dal vecchio erano
HADLAUB θ95
canti popolari, sorti ancor prima della poesia artistica
aulica, ed avevano avuto la loro fioritura nelle classi
sociali più basse, senza possedere mai un nome d’autore.
Anche nella forma si presentavano cosi antiquate e sem­
plici che Johannes non potè valersene per i suoi fini,
e rinunciò a sfruttare il vecchio suonatore per la sua rac­
colta. Lo seguiva tuttavia con piacere quando si metteva
in cammino e l’invitava ad accompagnarlo. Voleva bene
a quello strano vecchio e questi a sua volta gli era devoto
per i suoi modi bonari e composti, in contrasto con la
rozzezza delle persone da cui doveva cercare il suo pane.
Il decrepito cantore, infatti, aveva preso gusto solo
molto tardi al guadagno, quando finalmente la miseria
di tutta la vita aveva perduto ogni presa su di lui e si
era data per tónta. Una volta, in un momento di spe­
ciale confidenza, aveva mostrato al giovane amico, nella
massima segretezza, un sacchetto pieno d’oro e d’argento,
che portava nascosto sotto la veste, e gli confessò di essere
stato finalmente dimenticato dalla dea fortuna che lo
aveva cosi a lungo perseguitato. Ora, da lei inavvertito,
raccoglieva instancabile quanto abbondantemente gli toc­
cava, mantenendo il più gran segreto, affinché quella
strega non si facesse di nuovo attenta. In realtà, ovunque
egli cantasse e suonasse, gli pioveva un abbondante com­
penso per la sua tarda età. Alla domanda di Johannes,
per chi mai mettesse in serbo con tanto zelo il denaro,
replicò che avrebbe potuto ancora tornargli alla memoria
il suo nome e il suo paese, ed allora sarebbe ritornato in
patria ed avrebbe avuto qualche cosa per i suoi.
Un giorno s’avviarono verso il campo di Tuln, dove si
svolgeva una grande sagra, con fiera e divertimenti d’o-
gni genere. Vi era una grande confusione di soldati, con­
tadini, cittadini, donne e ragazze; in tutti gli angoli c’e­
rano musiche, giuochi e danze e si alzava il fumo dalle
padelle e dalle pentole. Il vecchio pregò Johannes di la­
sciarlo solo fino a sera, perché colla sua bella veste avrebbe
trattenuto la generosità degli astanti. Hadlaub quindi
lo vide solo di tanto in tanto, per il resto del tempo
non si stancò di unirsi al popolo, il che non avvenne senza
βθθ NOVELLE ZURIGHESI

pericolo. Molti contadini s’erano adornati, con bizzarra


baldanza, di giubbe e di nastri variopinti, portando lun­
ghi baffi falsi, ed ai due lati del volto avevano appiccicato
un lungo ricciolo di peli rossi o neri come la pece, scen­
denti fino alla cintola ; per lo più avevano al fianco gran­
di spadoni, pugnali ed altre armi, ma solo per bravata,
a sfida dei soldati, se questi avessero voluto rubare le loro
ragazze abbigliate in modo altrettanto variopinto. Tale
ostentata rozzezza e litigiosità si sfogava però su chiun­
que appena li guardasse.
Johannes s’accompagnò ad un gruppo di allegri stu­
denti, in cerca di buon vino. C’era un monastero che ne
spillava di ottimo, e ben presto esso salì alla testa del
giovane. L’eccitazione ridestò in lui l’antico cruccio amo­
roso ed insieme una baldanzosa gioia di vivere ad esso
contrastante. Superò così, se possibile, i goliardi in spen­
sierato ardire ; girarono attorno cantando e si divertirono
specialmente a guardare le belle cittadine, che, secondo
la moda del posto, se ne andavano a spasso con dei cap­
pelli immensi, così che solo sbirciando sotto quei grandi
copricapo si poteva godere la vista dei loro volti. É noto
come egli abbia dedicato una sua canzoncina a questi
cappelli da donna austriaci, augurando loro di finir tutti
nel Danubio. Volarono molti motti scherzosi e amiche­
voli e ne venne a Johannes più d’uno sguardo gentile
e gioviale, il che piacque oltre modo all’infedele, che
sempre più sfacciatamente s’insinuò sotto i cappelli in
cerca degli occhi cordialmente scintillanti. Ma alla fi­
ne cominciarono le liti : alcuni giovani artigiani si fecero
incontro agli studenti ; il chiasso e la bellicosità crebbero :
i soldati attaccarono i cittadini, i contadini i soldati, e al
calar della sera la sagra s’era trasformata in battaglia ed
il campo era pieno di polvere di grida e di sangue.
Johannes aveva da un pezzo perduto i suoi compagni.
I fumi del vino erano svaniti ed egli si sottrasse con le ve­
sti lacere e la faccia sanguinante alla confusione, la cui
bavarica violenza gli riusciva inusitata e terribile. In
quella confusione notturna si diede a cercare preoccu­
pato il vecchio cantore e lo trovò disteso sulla strada che
HADLAUB θ97
conduce a Vienna, privo di sensi e con una vasta ferita
alla testa. Gli avevano strappato le vesti di dosso e il bel
cranio lucido era fratturato insieme alla piccola vecchia
arpa con la quale aveva tentato di difendersi : lo avevano
poi derubato, poiché la borsa col tesoro gli era stata ta­
gliata dalla cinghia.
Johannes portò con grande pena e grande cura il po­
vero vecchio nella locanda, dove riprese conoscenza.
Parve ripensasse ancora al nome perduto, ma scosse so­
spirando il capo e mormorò: «Non ci riesco più». Pregò
poi Johannes di prendere e di conservare la sua cartella
di cuoio con le poesie e, subito dopo, spirò.
Il giorno seguente Johannes studiò più accuratamente
quel mucchietto di pergamene: oggigiorno si paghereb­
bero per ognuno di quei fascicoletti o rotolini sbiaditi alme­
no cento fiorini del Reno, in moneta sonante; Johannes
invece non sapeva che farsene, avendovi trovato un solo
quaderno che recasse un nome. Era quella dozzina di
brevi canzoni del poeta von Kürenberg, che noi cono­
sciamo nella loro forma arcaica, opere di un poeta vero
e completo, di cui Hadlaub sentì l’immediatezza e la
bellezza. Stupefatto, intuì in quei brevi esempi uno spiri­
to diverso da quello di cento altri cantori, dominante in
una solitudine ignorata, ed il defunto cantastorie, che ave­
va ritenuto che soltanto quel nome, fosse degno di essere
conservato, gli apparve da quel momento in una luce mi­
steriosa e veneranda. Tornò ad una maggiore serietà, ed
essendo comunque giunto il suo tempo, raccolse quanto
aveva acquistato è si pose in viaggio verso il paese nativo.

Procedendo per la sua strada, meditava, ora con letizia


ed ora con melanconia, su quale potesse essere l’animo di
Fides, e quale contegno avrebbe dovuto tenere verso di
lei, senza però nutrire grandi speranze. Per il momento
tuttavia provava la più intensa bramosia di rivederla an­
cora una volta, così come quando si è al buio si ha biso­
gno della luce del sole, anche se non si possiede un vi-
gneto che l’attenda per maturare.
Quando finalmente giunse al suo paese natale non
6g8 NOVELLE ZURIGHESI

trovò però le cose come le aveva lasciate. Il feudo, in


seguito alle pratiche del vescovo, era passato a Fides, e
questa dimorava, quale baronessa Wasserstelz, nel suo
castello sul Reno, sola come un tempo vi era stata sua
madre. Appena divenuta indipendente, essa infatti aveva
voluto recarvisi e là trascorreva la maggior parte del suo
tempo, resistendo ad ogni consiglio. La rocca a quel
tempo era più grande di ora; invece del piccolo castello
con la soprastruttura ottagonale e col giardinetto, essa
comprendeva allora, con le sue forti mura e torrette,
tutta la grande roccia emergente dal fiume. Oltre ad
alcune serventi da lei prese nel suo piccolo dominio del
villaggio di Fisibach, Fides aveva condotto nel castello
anche alcuni uomini robusti che, insieme agli energici
mugnai del castello, costituivano per lei una sufficiente
protezione. Con la perfida parente Mechthildis del
Wasserstelz bianco essa viveva del resto discretamente
in pace. Persuasasi finalmente che l’eredità della sorella
per lei era perduta, costei si limitava a definire la gio­
vane padrona del Wasserstelz nero una «buona lana»
oppure la «bella gramigna», ma non sdegnava di far
macinare il suo grano a quel mulino e di andare a ritirare
la farina di persona, nella sua barchetta, perché Fides le
offriva larga ospitalità.
Poco dopo il ritorno di Hadlaub, convennero nella
casa del signor Manesse alcuni ospiti, ai quali il soddi­
sfatto signor Rüdiger mostrò la mèsse poetica raccolta
in viaggio dal giovane cantore. Fu discussa la qualità e
l’autenticità dei singoli componimenti, e ne fu cantato
per prova qualcuno per precisarne la melodia, al che
Johannes in persona dovette cooperare. C’erano quasi
tutti i soliti nobili signori, ma durante il trattenimento
apparve qualcuno di nuovo per Johannes, che destò tutta
la sua attenzione.
Era il conte Wemher von Homberg e Rapperswyl,
un giovane di circa vent’anni, di alta e maestosa figura,
già per l’aspetto un perfetto cavaliere, dall’atteggiamento
energico e pacato, dallo sguardo audace ed ardente, quel
medesimo che, dopo la morte di Alberto, in ancor gio­
HADLAUB θ99

vane età, era divenuto, regnando Enrico di Lussem­


burgo, balivo imperiale nei tre cantoni originari della
Svizzera, e che fu più tardi supremo comandante in Ita­
lia e capo della Lega ghibellina in Lombardia, distin­
guendosi per le sue imprese di guerra. Quando si presen­
tava armato superava i sette piedi di statura, poiché al
di sopra dell’elmo si piegavano i candidi colli del doppio
cigno dei Wandelburg, con scintillanti anelli di rubini
nei becchi e rubini negli occhi, mentre sullo stemma d’oro
spiccavano le aquile di Homberg di zibellino nero. Dei
suoi stemmi era disseminata la lunga giubba militare a
pieghe e la spada gli scendeva sugli sproni come ad un
giovane Sigfrido.
Quando quel brillante cavaliere intervenne con sicu­
rezza nella conversazione e con poche parole si mostrò
esperto di canto e di poesia, Johannes lo guardò sempre
più stupito, sino che qualcuno gli sussurrò all’orecchio
che il conte aveva già rivolto poesie a più di una dama,
mentre correva voce che in quel momento cantasse la
bella Fides von Wasserstelz. Johannes impallidì : quella
novità, per naturale che fosse, gli riuscì troppo nuova ed
egli ne rimase scombussolato. Quantunque egli amasse
con speranze molto vaghe, o addirittura senza alcuna
speranza, non era stato fino allora avvezzo a vedersi ac­
canto dei rivali, e quantunque l’apparire del primo non
significasse ancora che egli senz’altro l’avrebbe condotta
sposa, sentì improvvisa in sé quella scossa che sempre pro­
va un innamorato, trovandosi di fronte inaspettatamente
l’estraneo, lo sconosciuto, l’odiato personaggio che, secon­
do lui, potrà tranquillamente metter fine al suo romanzo.
Che poi il conte, appunto perché distinto cavaliere,
non unisse a quell’omaggio da trovatore ciò che oggi si
chiamerebbero le intenzioni serie, dato che secondo l’an­
tico costume non si chiedeva in sposa là dove si cantava
d’amore, questo non appariva possibile a Johannes. E
tanto più glielo perdoneremo, visto che più tardi egli ben
osservò che gli amici, e prima di tutti i genitori di Fides,
in quel caso giocavano una partita seria, cercando di
procurare a Fides la sperata posizione per l’avvenire.
γοο NOVELLE ZURIGHESI

Il giovane signore, da parte sua, era già informato


circa la persona di Hadlaub, le sue condizioni e le sue
imprese poetiche e lo osservò da capo a piedi, ridendo
non senza cordialità. Ma tanto più studiava il bel poeta
con gli occhi splendenti, tanto più severi e freddi si fecero
i suoi lineamenti, e quando questi inavvertitamente gli
si accostò lungo la scala, strinse quasi il pugno, con uno
di quei gesti d’ira con cui più tardi soleva afferrare per
la collottola i guelfi ben armati, mentre stavano in arcio­
ne, facendoli prigionieri insieme ai loro cavalli.
Anche altri cavalieri, che prima s’eran mostrati bene­
voli verso Johannes, mutarono il loro atteggiamento, e
più d’uno dei signorotti lo guardò con cipiglio minac­
cioso quando egli osò farsi avanti col gesto e con la parola.
Soltanto il signor Rüdiger Manesse mantenne il suo
tranquillo e sicuro favore, ed anche il vescovo Heinrich,
quando Johannes ebbe a che fare con lui, si mostrò quasi
più gioviale di prima e lo incoraggiò persino a non tra­
scurare la sua arte poetica ed a perfezionarsi anzi sempre
più nel nobile servizio d’amore, fonte di ogni bell’attività.
L’abile diplomatico pensava di accrescere accortamente
il valore personale della figlia e di incitare intanto il
conte esitante.
Il povero Johannes, preso tra lo scompiglio della pas­
sione amorosa e le difficoltà del mondo, non trovò altra
via d’uscita fuorché rivolgersi di nuovo alla causa dei
suoi mali, seguire cioè il consiglio del vescovo. Mandò così
alla sua dama alcuni messaggi, cioè delle canzoni d’a­
more, l’una dopo l’altra, invidiandogliele dal castello
del signore di Regensberg, mentre era occupato presso
di lui. Quel barone gli serbava ancora il suo favore ; egli
era per molti aspetti dipendente dagli Zurighesi, e quale
rampollo di dinasti ormai messo a riposo, il cui zio un
tempo così potente era morto nel territorio della città
di Zurigo e sotto la protezione di essa, conosceva la
transitorietà di ogni grandezza. Inoltre riteneva che il
giovane conte Wernher, la cui casa materna e paterna
era ancora grande ed importante, mentre già andavano
perdendosi le sue terre, difficilmente avrebbe pensato a
HADLAUB 701

sposare Fides di così modeste condizioni, essendo egli in­


vece ben deciso a sfruttare, quanto più vantaggiosamen­
te gli fosse possibile, la sua brillante persona.
Gli faceva quindi un certo piacere appoggiare, per quel
che poteva, nella persona del modesto maestro Hadlaub
un rivale per il conte Wernher. Lo mise tuttavia in guar­
dia dalla prepotenza impetuosa di Wernher, geloso ed
incline all’ira, e che, da quanto si era potuto osservare,
negli ultimi tempi frequentava e faceva vigilare i din­
torni del castello; in ciò era appoggiato da altri nobili,
che non tolleravano che un cantore e scrivano borghese
insidiasse palesemente una baronessa.

Il sospetto che egli la volesse insidiare offese il candido


Johannes; mentre però tornando dal castello di Regens­
berg soppesava i consigli ricevuti e meditava tutta la
faccenda, ne nacque appunto in lui la smania di sfidare
il sospetto e le minacce, di cercare ad ogni costo ancora
una volta la vista dell’essere amato di cui da oltre un
lungo anno era ormai privo.
Mentre al crepuscolo entrava in città immerso in
simili pensieri e passava accanto al mulino, gli si accostò
un giovane garzone di mugnaio che in grande segretezza
gli mise in mano una lettera ; egli riconobbe in quel ragaz­
zo uno della prepositura e si rammentò che quello se ne era
partito poco tempo prima. Il ragazzo disse soltanto che re­
centemente si era trovato su di un mulino sul Reno, al di
sotto di Kaiserstuhl, e che ivi gli era stata consegnata
dalla mugnaia quella lettera, perché la recapitasse sicu­
ramente.
Johannes tornò in fretta a casa col cuore in tumulto.
Intuiva qualche cosa di sommamente singolare e buono,
senza indovinare nella sua modestia la verità, giacché
quello era precisamente un messaggio di Fides in per­
sona, in risposta alla sua ultima missiva. La lettera diceva :

« Il maestro che possiede l’agoraio e che invia instanca­


bilmente missive, può prendersi la responsabilità di
quanto dice e, se lo crede, scusarsi di fronte a colei cui si
702 NOVELLE ZURIGHESI

rivolge. Nella notte prima dell’Invenzione della Santa


Croce lo attenderà una barchetta al traghetto di Rheins-
felden. Ma anche sin là egli giunga non veduto e mostri
al barcaiolo i due draghi, dovendo del resto aspettarsi
di poterci lasciar la vita».

Il giorno della Invenzione della Santa Croce è, come


si sa, il 3 maggio, e poiché si era già all’ultimo di aprile,
Johannes non aveva più tempo da perdere, se voleva
rischiare quel viaggio. Ma che viaggio e che rischio?
Ciò era oscuro quanto il contenuto della missiva. An­
dava incontro ad un tradimento o a quella felicità che
egli, malgrado la sua maestria nelle più svariate albe e
serenate, non riusciva a concepire che come qualcosa di
estremamente misterioso e favoloso? Non importa: mal­
grado i mille dubbi che gli assalivano il cuore si preparò
ad un lungo e pericoloso viaggio; mise accuratamente in
ordine le sue cose, disponendole ciascuna al posto giusto,
perché fossero a tutti facilmente ritrovabili in caso di
non ritorno, quasi dovesse por piede nell’Orco; cercò e
provò poi le armi, ma vi rinunciò, prevalendo in lui una
fiducia serena e considerando meglio affrontare l’avven­
tura disarmato.
Preparò invece una veste pulita ed un mantello da
viaggio e, il giorno stabilito, verso mezzogiorno, partì
inosservato dal podere paterno, attraversò il bosco e le
vie campestri sin verso le alture della valle inferiore del
Töss, voltando poi a nord e proseguendo per i boschi,
così da giungere alla sera nel punto in cui il Reno passa
accanto alle paludi del Töss. Ivi si procurò un pescatore
che al cader della notte gli fece scendere il Reno nella sua
barca, passando sotto il ponte di Eglisau fino al punto
dove la Glatt sbocca accanto alla rocca dei signori di
Rheinsfelden e dove un nocchiero traghettava la gente
al di là del fiume. Questi però era a letto, ed anche il
piccolo castello appariva buio, fuorché un’unica fine­
strella. Johannes pagò il pescatore e finse di avviarsi
verso l’interno del paese, in modo che quegli risalisse il
fiume con la sua barca senza sospetto. Subito dopo però
HADLAUB 7θ3
una barchetta che veniva dal basso approdò alla riva.
Johannes si accostò e mostrò al barcaiolo, che era il
mugnaio del Wasserstelz nero, l’agoraio d’avorio coi due
draghi, dopo di che quello lo fece salire e lo condusse
lungo il Reno.
Le sponde boscose, a destra e a sinistra, erano silen­
ziose come una tomba. In cielo spiccava una luna piena
che trasformava il Reno in un’ondeggiante strada d’ar­
gento; i remi del barcaiolo grondavano incessantemente
scintille d’argento; il piccolo naviglio proseguì indistur­
bato a valle, passando per Kaiserstuhl e Röteln, dove
la città e la rocca erano ancora illuminate e rumorose.
Sul ponte v’erano ancora dei soldati che chiacchierando
s’appoggiavano alla balaustrata.
Navigarono ancora per un breve tratto, poi il castello
della bella Fides gli apparve, illuminato dalla luna, im­
mediatamente fuori dalle rapide onde. Pareva che lassù
ardessero molte luci: le finestre erano aperte nella notte
di maggio e molte persone erano adunate. Il cuore di
Hadlaub batteva sempre più forte, sin quasi a togliergli
il respiro, quando il barcaiolo approdò dalla parte ester­
na rivolta alla sponda opposta, dove, scendendo da
una porticina, una scaletta di pietra giungeva sino al­
l’acqua.
Il bianco barcaiolo bussò lievemente alla porticina che
si aprì senza rumore e si rinchiuse subito alle spalle di
Johannes il quale, afferrato al buio dalla mano di una
persona invisibile, fu guidato giù per una scala e spinto
poi in una fosca cella, la cui porta venne chiusa con tri­
plice catenaccio.
Il prigioniero avanzò a tastoni, finché urtò in un ta­
volaccio di legno, che pareva rivelare l’arredo di una
prigione, poco ospitale da parte di una dama. Ma quando
vi si sedette sopra si accorse che quel carcere era stato
utilizzato in modo pacifico, giacché v’erano distese delle
mele che dovette spingere da parte per farsi posto.
Attraverso le mura del carcere sentiva il fruscio delle
onde del Reno e da questo dedusse la profondità della
cella in cui si trovava. Come un tempo il signor Walther
704 NOVELLE ZURIGHESI

von der Vogelweide, incrociò le gambe, vi appoggiò il


gomito e posò il mento sulla mano, ma non seppe che
pensare del fatto che poco prima navigava sul verde Reno
nella bellissima notte di maggio, piena di dolci presagi,
mentre ora sedeva fra le tenebre, e tuttavia in vici­
nanza dell’amata. Non provava un vero terrore e comin­
ciò, anzi, a mangiare mele, essendo da dodici ore di­
giuno.
Su in alto, invece, nelle stanze luminose, vi era il
principe vescovo di Costanza, il quale col suo seguito era
ospite nel castello di Röteln e Kaiserstuhl ed aveva por­
tato con sé il conte von Homberg e Rapperswyl. Essi era­
no giunti inaspettati di sera e rimasero fin dopo la mez­
zanotte. Il vescovo si sforzava di rendere serena e gio­
viale la troppo seria padrona di casa, che però a tutto
provvedeva; da circa un’ora appariva visibilmente sod­
disfatta, il che il principe ascrisse al modo perfettamente
cavalleresco con cui il giovane conte le stava d’attorno.
Se ci fosse stata la signora badessa e principessa, que­
sta avrebbe ripetuto: «Oh, quanto sei sciocco !», giacché
ella infatti avrebbe certo notato con suo cruccio che il
conte Wernher non si conteneva come chi cerca una mo­
glie, ma come uno che aspiri ad un omaggio segreto,
dolce ed audace, e che si comporta quindi con tenera
prudenza.
Finalmente ambedue gli ospiti si congedarono e fu­
rono traghettati alla sponda opposta, dove li attende­
vano dei domestici con le fiaccole per accompagnarli a
casa.
Quando Fides dalla sua rocca vide che erano ben lon­
tani e che il paesaggio era ritornato silenzioso, scese con
una servente giù nella torre dove stava Johannes ed aprì
in persona la sua cella. Entro arrossendo, con la lampa­
da in mano, ed illuminò il prigioniero, per vedere se fosse
proprio lui.
— Vi hanno male accolto, Maestro Giovanni — gli disse
poi con un sorriso mal dissimulato — ed io dovrò tenervi
in custodia per altro tempo, sinché possa dedicarmi alla
vostra faccenda, giacché sulla vostra via si presenta un
HADLAUB 7θ5
pericolo. Voi avrete però almeno miglior alloggio, se
vorrete seguire questa persona e promettermi di serbarvi
là tranquillo sin quando io lo ritenga opportuno !
Johannes si era già alzato e le disse:
— Io non ho paura e posso ben aspettare quel che
accadrà. Sinché sono vicino a voi, son vivo.
Ma Fides era già lontana. La servente lo accompagnò,
facendogli salire molte scale di quella torre, sino ad una
cameretta provvista di un letto, di tavolo e sedie ; gli recò
cibi e bevande e, quando egli non ebbe più bisogno di
nulla, chiuse dal di fuori la porta robusta, recandone la
chiave alla sua signora, che andò a letto mettendola sotto
il guanciale.
Johannes, nelle poche ore prima del mattino, lottò
con cento sogni che incessantemente si inseguivano, por­
tandolo sempre alla soglia del risveglio. Ma la stanchezza
gli impedì di destarsi sinché non brillarono nella came­
retta i primi raggi del sole mattutino. Il castello si chia­
mava Wasserstelz nero perché per tutto il resto della
giornata rimaneva nell’ombra delle ripide sponde. Jo­
hannes vide che la sua finestrella, rivolta ad oriente,
dava sull’alto Reno ed era sottratta ad ogni osserva­
zione.
Presto tornò la fantesca per sbrigare i servizi necessari ;
mentre prestava la sua opera silenziosa ebbe agio di
osservare attentamente il prigioniero. Anche Hadlaub la
guardò fisso negli occhi, sforzandosi di accostarsi all’e­
nigma della sua condizione presente. Gli parve che essa
fosse una persona avvezza alla docile obbedienza ed al­
l’ordine, ma anche ben tenuta, non malcontenta e di
buoni costumi, il che, in base alle cognizioni del mondo
da lui già acquisite, non faceva pensare ad una padrona
di cattiva indole o a una casa ove accadessero eventi cru­
deli e inspiegabili. Gli parve quindi che la testa almeno
fosse salva; ben più incerta gli sembrò la sorte del suo
cuore, specialmente quando credette d’accorgersi che la
servente, nell’uscire, reprimeva un risolino.
Essa tornò a richiudere la porta e a dare la chiave alla
signora, che se la pose in tasca ed accolse il conte col suo
7o6 NOVELLE ZURIGHESI

seguito, il quale era venuto a prenderla perché si recasse


a Kaiserstuhl, ove il vescovo offriva un ricevimento al
podestà ed ai nobili del luogo, nonché al castaido di
Röteln e ad altri cavalieri dei dintorni. Vi partecipava
anche la fosca zia Mechthildis, e quando nel pomeriggio
il vescovo riprese il suo viaggio e tutta la brigata si di­
sperse, Fides sali in fretta con lei sulla barca per il
Wasserstelz bianco, sfuggendo così il conte che l’avrebbe
voluta a tutti i costi riaccompagnare a casa. Entrar nella
barca della vecchia strega nera gli parve infatti troppo
pericoloso, malgrado tutto il suo coraggio in terraferma.
Per quella volta, dunque, se ne partì e Fides ridiscese
soddisfatta il Reno, lasciandosi deporre ai piedi di quella
stessa scaletta dove aveva approdato, la sera innanzi,
Johannes. Mentre tirava energicamente la campana del­
la porticina cercò in tasca la chiave.

Una bella bambina del mulino passava quasi tutta la


giornata al castello: Fides la prese per mano mentre sa­
liva la torre per studiare la sorte del suo prigioniero ed
eventualmente per liberarlo. Intanto che apriva la ca­
meretta ansimava, non già per la fatica delle scale, ma
per l’emozione. Un bimbo che tenga chiuso in una sca­
toletta un ragno e ne sollevi un pochino il coperchio
non è più ansioso e preoccupato di quanto fosse Fides in
quel momento. Sedette su uno degli sgabelli e si pose
la bimba in grembo, circondandola con le braccia; que­
sta sbirciava curiosa e gentile il non meno inquieto
Johannes, che per ordine di Fides le si era seduto di
fronte, lontano quanto gli era possibile, data l’angustia
della stanza.
Dopo avergli lanciato uno sguardo severo ed aver
cercato per un po’ le parole che costituissero un’introdu­
zione non impegnativa, gli disse:
— Voi mi avete fatta oggetto dei vostri omaggi poetici,
dilettandovi ad un giuoco grazioso per il divertimento
dei nobili signori e persino dei miei troppo deboli geni­
tori, senza neppure chiedermi se ciò mi facesse piacere o
dolore ! Che cosa vi eravate immaginato con ciò?
HADLAUB 707

Johannes, che sino a quel momento non aveva fatto


che tenerle gli occhi addosso, li abbassò arrossendo e cer­
cò di raccogliere i suoi pensieri.
— Già, — disse alla fine — se me lo domando, io ho
sempre pensato a quello che è detto nelle poesie, o me­
glio in quelle che sole vi riguardano, perché voi sapete
bene che ve ne sono di due sorte: ve ne sono di quelle
sentite e vissute, che non si potrebbe tralasciar di scri­
vere o scrivere altrimenti, e ve ne sono altre che si com­
pongono invece per esercizio, per il piacere di cantare e,
in certo modo, anche per fame provvista! Voi sapete,
per esempio, per la prima, che io non ho nessuna ragione
per cantarvi delle albate, ma pure, nella mia follia, ne
canto !
— Le so pressappoco, queste cose ! — replicò Fides — e
ciò appunto mi porta all’argomento ! Se è sopportabile
che si canti una dama, la quale non l’ha potuto impedire,
bisognerebbe almeno in suo onore mantenere un tono
di nobiltà, non mettere accanto a quella donna le ragazze
sui pagliai e i piedi di porco lessato o i volgari balli con­
tadineschi. Non sapete quanto questo sia offensivo?
— Vi prego di perdonarmi queste offese al decoro ; — ri­
spose Johannes, sinceramente addolorato — me ne sono
già pentito, pur avendole commesse soltanto per il di­
spetto che veniva dal mio affetto disprezzato e dalla
vostra severità! Ma io ne fui già abbastanza punito,
quando a quei tempi ritrovai antiche canzoni che sin
troppo mi fecero arrossire delle mie povere opere!
— Come fu? — domandò Fides, e Johannes le riferì
fedelmente la vicenda del vecchio musico e la scoperta
delle poesie di von Kürenberg.
— Vi voglio recitare una sola sua breve canzone —
proseguì — che esprime tutto il desiderio e tutta la
melanconia che sono in me in modo mille volte migliore
e più bello dei miei canti, pur essendo una donna quella
che parla !
Fides lo invitò sorridendo a recitarle la poesia che ora
tutti conosciamo, ma che allora era dimenticata:
γο8 NOVELLE ZURIGHESI

Un bel falco ho allevato


per più d’un anno intero;
quando l’ebbi domato
proprio come volevo

e le sue belle piume


ebbi bene indorato,
salì alto nel cielo,
fuggendo poi lontano.

D’allora vidi il falco


maestoso librarsi,
sulle piume dorate
lo vidi poi cullarsi;

un bel nastro di seta


pendeva dal suo piede:
Dio congiunga gli amanti
che si serbano fede.

La bella signora del Wasserstelz nero, verso la fine di


quella semplice canzone, aveva serrato più stretta la
bambina che teneva in grembo e che si dimenava in­
quieta, baciandole le guancine, la bocca e la nuca, per
nascondere gli occhi che le si erano riempiti di la­
grime.
In quell’istante fu chiamata da una delle serventi che
dalla porta le annunciò l’improvviso ritorno del conte
Wernher, il quale stava davanti al mulino coi suoi ca­
valli, chiedendo di traghettare. Fides porse in fretta la
bimba al suo prigioniero, perché la tenesse un momento,
come gli disse, poi chiuse di nuovo la cameretta e, accom­
pagnata da due domestiche, si recò giù al portone del
suo castello in faccia al mulino, dove il conte era giunto
in barca e stava per balzare a riva.
Egli aveva raggiunto il vescovo, diretto col suo seguito
a Zurigo, in vicinanza del monte Läger, proprio mentre
il signor Leuthold di Regensberg, tornando a casa, pas­
sava di lì ; questi dopo un breve saluto gli chiese distratta­
HADLAUB 7θ9
mente se non si trovasse fra il seguito anche il giovane Had-
laub, poiché questi, da alcuni giorni, era scomparso e si
pensava che fosse rimasto presso il vescovo. Subito il con­
te fu preso da sospetti gelosi e li comunicò anche al vesco­
vo, il quale cominciava a temere che il cantore finisse per
diventare pericoloso e per intralciare i suoi piani. Con­
vennero dunque che il conte ritornasse a briglia sciolta
e riconducesse Fides all’abbazia di Zurigo, sotto la sor­
veglianza della signora madre.
Il conte era partito al galoppo con la sua gente ed ora,
come si disse, si trovava nella barca oscillante, pronto a
lasciarla, quando Fides alzò la mano, in cui teneva le
note chiavi e gli fece cenno di fermarsi. Con un grazioso
sorriso gli gridò che comunicasse dalla barca il suo desi­
derio o il suo incarico, poiché ella era in casa sola, e non
poteva, senza offesa alle buone costumanze, concedere
l’ingresso ad un cavaliere. Il conte però, un poco sven­
tatamente, invece di parlare tentò di salire sui gradini
dell’approdo, ma intanto il mugnaio, che remava, ad un
cenno di Fides volse la barca con un energico colpo,
dirigendola verso l’altra sponda. In quell’istante apparve
all’angolo della rocca un’altra imbarcazione in cui si
trovava la zia Mechthildis, venuta per sapere che cosa
accadesse, avendo veduto dall’alto del suo castello il
sopraggiungere di cavalieri. La sua barca urtò tanto
violentemente con quella del conte von Homberg, che
stava virando, che questi, ritto a prora, precipitò nel
Reno ed in pari tempo vi cadde la dama, strillando, e subi­
to si aggrappò con ambedue le braccia al cavaliere som­
merso. La coppia fu tratta dall’acqua non senza fatica
con l’aiuto dei garzoni del mugnaio e dei barcaioli, senza
che la strega si'staccasse dal cavaliere.
Questi vide mortificato che razza di leggiadra sirena
avesse pescato, se la staccò di dosso, e ancor grondante
balzò a cavallo, sdegnando ogni soccorso e gridando:
«Che il diavolo si prenda questi nidi sull’acqua coi
loro uccelli bianchi e neri ! », e cavalcò in un sol tratto
sino a Zurigo, benché fosse una strada di cinque ore.
Egli non molestò più la bella Fides; la zia invece
710 NOVELLE ZURIGHESI

venne asciugata, riscaldata e curata al mulino e volle


quella stessa notte ripassare il Reno.
Nel frattempo Fides, dopo aver ben chiuso il portone
d’ingresso, era risalita alla torre, dove stava Johannes
con la bambina. La teneva sulle ginocchia e la baciava
teneramente sulle guancine, sulla bocca, sulla nuca, pro­
prio come aveva fatto Fides. Essa sopraggiunse proprio
in quel momento e lo scorse al riflesso di una grande
dorata nube vespertina che spiccava ad oriente, sul Reno.
Mentre cercava di prendergli la bimba, questa ridendo
giocosamente si strinse sempre più a Johannes, e così lei
dovette ben avvicinarsi per scioglierle le braccine dal suo
collo ; la bimba le porse allora maliziosa la boccuccia per
un bacio e durante questo giuoco i due grandi, dimentichi
della bambina, si abbracciarono così stretti che quella,
sentendosi soffocare, sgattaiolò via impaurita e si rifugiò
in un cantuccio. Di là spalancò la bocca e scoppiò in un
forte pianto, credendo che quelle due belle creature, co­
strettevi da chissà quale potenza ostile, si causassero il più
gran dolore e si facessero del male.
Ma non era affatto così, benché essi, durante i loro
baci ineguali, ora brevi, ora lunghi, serbassero facce molto
serie. Anzi d’un tratto si alzarono, camminarono un poco
nell’angusta cameretta, per sedersi poi di nuovo su di
una panchetta in una rientranza del muro, così che le
loro teste spiccavano sullo sfondo dorato del cielo ve­
spertino, tanto vicine l’una all’altra che tra i due colli
filtrava appena uno spiraglio d’oro.
Solo ora Fides s’avvide della disperazione della pic­
cina. La chiamò perché tornasse nel suo grembo, e le
asciugò gli occhi, lasciandola poi subito per abbracciare
Johannes, e la bimba se ne stette libera sulle sue ginocchia,
battendo lietamente le manine.
Poi Fides appoggiò una mano sul cuore di lui e disse :
— Qui voglio accogliere il mio vero feudo dalla mano
di Dio, qui erigere la mia salda rocca e la mia patria,
qui dentro abitare con onore !
— È già tutto tuo, e tutto ha salde fondamenta e
mura, — gridò maestro Hadlaub — ma io starò sulla so-
HADLAUB 711

glia come una guardia armata e la proteggerò per te e


per me sino alla morte.
Fides ascoltò quelle parole con intensa attenzione; esse
risuonarono con voce piena e sicura, come se venissero
da un altro petto, come se davvero echeggiassero da co­
razza, scudo ed elmo, giù dai merli di una fortezza.
Nel frattempo, senza rendersene conto, avevano comin­
ciato a vezzeggiare insieme la bambina e durante questo
giuoco non esitarono più a lungo a decidere e a discutere
le loro nozze. Fides si appoggiò all’indietro alla finestra
aperta, un alito di vento le sollevò per un istante i lunghi
capelli scuri, facendoli svolazzare nell’aria dall’altissima
torre come una bandiera, quasi per dare l’annuncio che
ivi una bella donna gioiva nella beatitudine.
Mandarono messaggi in ogni direzione per preparare
un vero fidanzamento, ma fecero in modo che gli amici
non potessero capire di che si trattasse, ma dovessero anzi
credere urgente la loro venuta al castello per allontanare
un pericolo, o per portare-soccorso o largire consiglio.
Vennero infatti da ogni parte al terzo giorno. Giunse
la badessa Kunigunde in una pesante carrozza, con dame
e cappellani, e si incontrò stupita col vescovo Heinrich
il quale, un po’ indispettito, aveva rifatto il cammino
da poco percorso. Vennero anche il signor Rüdiger Ma­
nesse e il signor Leuthold von Regensberg, poi il castaido
di Röteln e il podestà di Kaiserstuhl, Heinrich von
Rheinsfelden e il cavaliere della Torre di Eglisau, quali
vicini e testimoni; giunse pure il padre di Johannes, il
vecchio Hadlaub, accompagnato dal figlio minore, che
era cresciuto come un querciolo, ed insieme a lui altri due
uomini della montagna sopra Zurigo, con armi ed elmetti.
La sala del castello era piena di ospiti, che tutti non com­
prendevano a qual fine fossero stati chiamati e si saluta­
vano e si interrogavano stupiti, senza che nessuno sapesse
dar spiegazioni.
Erano tutti in piedi lungo le pareti, solo il vescovo e
la badessa erano accomodati su due sedie. Finalmente
apparve nella sala Fides in una veste insolitamente ricca,
guidata per mano da Johannes Hadlaub, ed annunziò
712 NOVELLE ZURIGHESI

con voce commossa, ma insieme ben decisa ed armoniosa,


di volersi fidanzare con questo onesto uomo libero che
da anni le era stato devoto con fedele amore, il che non
poteva riuscire inatteso o discaro ai degni amici, non
esclusi i più intimi, che tutti tanto benignamente avevano
tali omaggi favorito.
Essa aveva dato a Johannes l’anello nuziale della pro­
pria nonna, donatole un giorno dalla madre, riceven­
done in cambio quello del vescovo, da lui portato. Ora
scambiarono solennemente gli anelli e i due nobili per­
sonaggi ecclesiastici si guardarono stupiti e addolorati.
Quando poi la coppia si avvicinò per rendere loro onore
• e per chiedere la benedizione, il vescovo Heinrich balzò
in piedi per fare opposizione. Tacque però un istante,
ben comprendendo di non avere il diritto di prendere la
parola come padre, giacché Fides non portava e non
poteva portare il suo nome. Parlò quindi quale principe
e signore del feudo, ma pronunciò solo poche parole,
giacché la badessa da parte sua gli andava sussurrando
parole placanti, mentre dall’altra parte Rüdiger Ma­
nesse si avanzava per dire con voce indulgente :
— Calmati, nobile signore e principe ! Il giovanotto
nostro amico, in questo caso, può assumere il feudo !
Poiché il nostro giuoco ha preso una piega così seria,
vogliamo accettare benignamente anche questo, quale
segno del tempo, e compiacerci se, pure fra il perenne
mutamento delle cose, l’amore fedele resiste e vince.
Tuttavia fra gli altri cavalieri corse un brontolio di
malcontento, poiché ad essi non garbava l’improvvisa
avventura. Ma a quel punto il vecchio Ruoff Hadlayb
si avanzò a lunghi passi, subito seguito dai suoi amici.
— Neanche a me — esclamò — questa faccenda non
è mai piaciuta, e non mi piacerebbe neppur ora, se non
considerassi Fides una moglie pregevole e ormai perfetta,
che merita ogni onore. Mio figlio non ha bisogno di ot­
tenere feudi da nessuno, perché proprio in questi giorni
ho avviato per lui l’acquisto di una buona casa di pietra,
posta accanto al mercato nuovo di Zurigo, dato che egli
vuole proprio far la vita da cittadino. Egli dunque abiterà
HADLAUB 713

sotto la protezione della città, e però anche di là sarà par­


tecipe ai miei possedimenti sulla montagna !
— Io consiglio — interloquì a questo punto con una
risata il signore di Regensberg — di lasciare agli uomini
di Zurigo questo leggiadro uccello che non vuol più
cantare le nostre canzoni; altrimenti costoro verranno a
sequestrarci più di quanto egli valga.
I vicini, ai quali s’era principalmente rivolto, si uni­
rono alle risa dichiarandosi soddisfatti, così il fidanza­
mento proseguì senza altri inciampi; anche il vescovo
mutò animo d’un tratto, vedendo dagli occhi di Fides
che essa rifioriva per vero amore, mentre a sua volta la
badessa si compiaceva che la fanciulla e lei medesima si
mettessero in pace.
Fides preparò un esemplare banchetto e, quando gli
ospiti partirono, Johannes, liberato dalla sua prigionia,
si recò sino al giorno delle nozze a casa sua, insieme ai
parenti ed agli amici di Zurigo.
Si dette poi il caso che un cugino piuttosto anziano dei
Wasserstelz, da tempo scomparso, ricomparisse reduce da
lontane terre e si sposasse con la signora del Wasserstelz
bianco, così che anche questa giunse in porto. I diritti
feudali di ambo le parti vennero con utili accordi riuniti
di nuovo nelle mani di questa coppia, mentre Fides si
trasferì, come donna borghese, nell’ambiziosa città. Essa
rimase sempre serena e saggia, e di tanto in tanto amava
fare una rapida gita sulla montagna vicina, dove i suo­
ceri ancora a lungo si compiacquero di lei.
Nessuno di quei signori che ne avevano visto gli inizi
potè assistere al compimento del codice Manesse: il si­
gnor Rüdiger Manesse riposava già da tempo nella cap­
pella degli agostiniani a Zurigo ed i genitori di Fides
nei mausolei delle loro due cattedrali, divisi dalla terra
e dall’acqua. Anche il conte von Homberg chiuse la sua
inquieta vita guerriera nell’anno 1320, combattendo da­
vanti a Genova. Hadlaub accolse nel suo libro i pochi
canti che di lui rimanevano e gli dedicò un quadro di
battaglia, poi, finalmente, chiuse la raccolta e scrisse
sotto l’indice: «Quelli che hanno cantato sono cxxxvni».
IL PAZZO DI MANEGG

Qualche tempo dopo la passeggiata compiuta dal si­


gnor Jacques col suo padrino, quest’ultimo volle sapere
come stesse il giovane entusiasta dell’originalità e quali
progressi avesse fatto in materia. In una bella giornata di
settembre si recò quindi nella casa dei suoi amici per
trovarvi il figlioccio ed invitarlo eventualmente a fare
quattro passi fuori porta. Fu accolto con cortesia agro­
dolce, giacché, malgrado i suoi capelli bianchi e l’impo­
nente davantino di pizzo, aveva fama di essere uno di quei
signori della fronda, i quali, freddi verso la Chiesa e
critici nei confronti delle autorità statali, si guardano
bensì dal partecipare realmente ad una qualsiasi attività
pratica, ma vengono tuttavia accusati di opinioni radi­
cali, se non frivole, di quelle idee cioè dal cui influsso
conviene anzitutto preservare la gioventù.
Il vecchio signore non rinunciò per questo ad andare
a raggiungere il figlioccio, che trovò all’ultimo piano
della casa, nel suo quartiere estivo: una grande camera
imbiancata i cui finestroni eran composti da innumerevo­
li dischetti di vetro. In quella stanza c’erano gli armadi
più vetusti della casa, non quelli di lusso, in noce, che
adomavano corridoi e anticamere dei piani inferiori, ma
brutti armadi sgangherati di legno di abete, decorati di
fiori e di uccelli. Dal soffitto pendevano ornamenti di­
susati: grandi sfere di vetro con appiccicate all’interno
figurine ritagliate di dame in crinolina, di cacciatori,
cervi e simili, e riempite poi di gesso, in modo da sem­
brare porcellane dipinte. Alle pareti facevan bella mo­
stra alcuni ritratti di famiglia banditi dalle sale perché
di troppo scadente esecuzione. I loro volti sorridevano
tutti solo per il motivo che i pittori dovevan foggiarne a
quel modo gli angoli della bocca, con l’abituale e rigida
curva. L’allegria non motivata di quella vecchia gente
produceva quasi un’impressione penosa. Evidentemen­
te gli antenati e i buoni pittori non eran sempre stati
contemporanei. V’erano poi anche strani quadretti di­
II. PAZZO DI MANEGG 715

pinti con colori resinosi direttamente a tergo di lastre


di vetro ed infine alcune incisioni ingiallite riprodu-
centi cerimonie pubbliche zurighesi e parate militari.
Per un caso singolare fra queste si celava anche una
comicetta dal vetro rotto da gran tempo, con il ritrat­
to inciso di Carlo I, e sopra stava scritto con inchiostro
sbiadito :
Al re Carlo d’Inghilterra
fu il reame tolto in terra.
Poiché il serto gli è vietato,
pur la testa gli han tagliato.

L’autore di quei versetti non figurava però tra gli avi


dal vacuo sorriso lì confinati in esilio; egli anzi, ritratto
da un buon artista, viveva in tutt’altra città, nella pina­
coteca di un conoscitore. Era un uomo austero, indossan­
te il costume del Seicento, e le sue folte sopracciglia
grigie e i lunghi mustacchi sembravano ondeggiare co­
me banderuole. Rimaneva memoria di lui non soltanto
come di uno zelante antipapista, ma in genere come di
un miscredente e ribelle, ripetutamente ammonito e mul­
tato; e poiché una segreta tradizione familiare affermava
che sarebbe stato meglio se non fosse mai scoppiata una
rivolta, mai fosse stato decapitato un re e mai neanche
avvenuto lo scisma religioso, quel ritratto era spiaciuto
a un pronipote che l’aveva venduto ad un ignoto cono­
scitore di buoni dipinti. Si sarebbe ben voluto allonta­
nare pure il quadretto coi versi irriverenti, ma correva
la leggenda superstiziosa che ad ogni tentativo di far ciò
si ripresentava di notte il fantasma del vecchio ribelle e
riappendeva la cornicetta alla parete con terribili mar­
tellate: lo spavento aveva anzi còlto una volta una per­
sona di casa a tal punto che ne era morta.
Al centro del pavimento di piastrelle rossastre c’era
il tavolo a cui svolgeva la sua attività il signor Jacques,
quando con la buona stagione si ritirava in quel locale
non riscaldabile, in attesa di un proprio studio privato,
che non gli poteva esser più a lungo negato. All’arrivo
del padrino, egli sedeva appunto davanti ad una tavoletta
716 NOVELLE ZURIGHESI

da disegno su cui era fissato un gran foglio di pergamena.


Su questo spiccava una figurazione a ghirlanda con
stemmi cantonali, bandiere, armi, strumenti musicali,
libri, papiri, mappamondi, civette di Minerva, fronde
d’alloro e di quercia e cose simili, il tutto disegnato da
una mano giovanile e inesperta. Specialmente due leoni
eran di fattura troppo incerta, sembrava che si fossero
irrigiditi, come si direbbe oggi, durante uno stadio in­
feriore di evoluzione e in piena lotta per l’esistenza, e
avevano lo stesso stupido sorriso degli antenati alle pareti.
Al centro stava appunto nascendo un’iscrizione a grandi
lettere: «Sacrario zurighese», ed il signor Jacques era
intento a stendere sulle lettere già tracciate l’oro che
attingeva da una conchiglia. Ma quanto più denso ve lo
applicava, tanto meno esso voleva scintillare.
«Non sempre giova l’abbondare, carissimo, bensì il
lucidare a modo ! » disse il padrino dopo averlo osser­
vato per un momento; poi prese una pallina d’agata
che gli pendeva con altri ciondoli dalla catena dell’oro­
logio, e gli mostrò come valendosi di quella la dicitura
dorata si faceva subito lucente.
«Ma cosa vuol mai rappresentare questo pasticcio
variopinto, e a che deve servire?» domandò al signor
Jacques.
Questi gli confidò che dal giorno di quella passeggiata
aveva meditato sulla perdita del manoscritto Manesse
ed aveva escogitato il modo di procurare un degno sur­
rogato alla sua città natale. Gli era venuta l’idea di
prodigare la propria vita per raccogliere e per redigere
un codice che non avesse uguali in altro luogo: quello
era appunto il frontespizio da cui aveva cominciato il
lavoro. Si proponeva di narrare in bei versi tutto quanto
tornasse ad ornamento e ad onore della città e della re­
pubblica di Zurigo sin dal suo sorgere, illustrandolo con
belle immagini, così che lo sviluppo da modesti inizi
sino alla perfezione finale procedesse parallelamente al­
l’oggetto dell’opera stessa. Pensava di istituire un tesoro,
un’insegna, un albo d’onore che confermasse l’antico mot­
to di Ottone di Frisinga: Nobile Turegum multarmi copia
IL PAZZO DI MANEGG 717

rerum! Quel motto era proprio il solo degno dell’elvetica


Atene, dell’Atene sulla Limmat !
A quest’ultima espressione il padrino, che aveva pri­
ma sorriso, fece una smorfia come se avesse inghiottito
un sorso di birra acida.
«Hai già imparato anche tu questo sciocco modo di
dire?» disse irritato «Potessi almeno non sentirlo più!
Non capite che una vanità, la quale si gonfia a spese al­
trui, e in questo caso a spese di confederati che furono
sempre non meno cólti ed intelligenti di noi, una tale va­
nità rimane pur sempre un vizio, sia essa rivolta alla
propria persona o alla comunità cui s’appartiene? Indivi­
dualmente si fa sfoggio di una certa rigida e frigida mo­
destia, ed ognuno bada all’altro perché non si dia troppe
arie, ma in compenso si celebrano orge di vanità collet­
tiva, tanto che ne grondano i musi, e non esiste immagine
forte abbastanza per confermare l’eccellenza di tutti!
Per questo si vedono girare attorno certi tipi debolucci,
quasi rovinati dalla boria collettiva, proprio perché la
loro personalità è insufficiente a reggere così inaudito
peso ! Ma tutto ciò lo sperimenterai tu stesso, e forse vi
parteciperai; per ora non perdiamo tempo, andiamo piut­
tosto insieme all’aperto, se non hai nulla in contrario!».
Jacques aveva ascoltato con aria intimorita, non sapen­
do ben valutare le esagerazioni del vecchio brontolone;
quel primo scontro con l’idea che anche un’illustrissima
città natale, anzi forse una patria intera, potesse, al pari
di una persona singola, offrire un lato debole, anzi per­
sino ridicolo, gli serrava il cuore, così che l’invito del
padrino gli fu grata liberazione. Si trovaron d’accordo
nel voler ripetere la visita alle rovine del castello Ma-
negg e ben presto si misero in cammino.
Dopo essersi ben ristorati nella fattoria ai piedi del ca­
stello con una merenda secondo gli usi locali, di cui an­
che i ricchi, per la loro vita semplice e parca, avevano
ad ogni ora desiderio e possibilità, risalirono il colle.
Sotto gli ampi ombrelli delle snelle conifere si misero
un poco in libertà. Il padrino accese la sua pipa di schiu­
ma ed offrì un sigaro al signor Jacques, per insegnargli
718 NOVELLE ZURIGHESI

a fumare. In passato il padrino aveva aspirato alla mano


di sua madre e, dacché la cosa era andata male, aveva
sempre condotto contro di lei una piccola perfida guerra.
Pur mostrando ogni interesse all’educazione ed ai pro­
gressi del rampollo, non sapeva mai rinunciare a far dei
piccoli dispetti alla severa genitrice, fedele al proverbio :
«Antico amore non fa ruggine». Così quel giorno gli
dava una soddisfazione particolare riaccompagnare a
casa Jacques allievo fumatore. Ma arrivava già in ritar­
do: Jacques sapeva ormai fumare, avendo appreso que­
st’arte subito dopo la festa dell’artiglieria, quando aveva
dovuto reggere le pipe. Andavano dunque fumando e
girellando in su e in giù per i terreni del castello, come se
fossero stati in uno studio, e Jacques si teneva con dignità
a fianco del vecchio padrino, interrogandolo sulle sorti
ulteriori della stirpe dei Manesse e del castello Manegg.

— Sui suoi diversi rami — raccontò il vecchio — sono


fiorite ancora per più di un secolo alte dignità ecclesia­
stiche e laiche, e meno illustri germogli. Uno solo tutta­
via s’è distinto quale pari per virtù all’amico della poe­
sia, cioè il suo pronipote Rüdiger, che fu per cinquant’an­
ni consigliere e capo del Governo di Zurigo. Anche que­
sti fu esemplare nell’azione e nella vita, saldo e sereno,
senza però mai darsi atteggiamenti da uomo singolare.
Dalla scuola e dalla storia delle nostre corporazioni tu
ben sai che nel terzo decennio del quattordicesimo secolo
anche a Zurigo lo Stato patrizio degli auctoctoni s’è tra­
sformato in un libero Stato borghese, secondo le condizio­
ni di quell’epoca, e che alcuni anni più tardi esso aderì
alla giovane Lega dei Confederati, per trovarvi protezione
contro le potenze straniere ostili. Durante questi trapassi,
la famiglia dei Manesse, che da oltre un secolo aveva par­
tecipato al reggimento della cosa pubblica, tenne le
parti della città e dei tempi nuovi, simpatizzando per i
borghesi e per la libertà.
Questo buon sangue si rivelò più che mai schietto nel
giovane Rüdiger, che nell’ora del pericolo raggiunse così
una originalità reale e classica.
IL PAZZO DI MANEGG 719

Anche la vicenda di Dätwil del Natale del 1351 ti è


nota. Il primo borgomastro del nuovo regime, Rudolf
Brun, mosse con la schiera dei combattenti zurighesi e
senza altri aiuti ad affrontare le forze absburgo-austriache
che avevano ripetutamente minacciato la città. Non le
trova al posto atteso, ma verso sera si vede d’un tratto
accerchiato in un fondo di valle dalle loro soldatesche in
soprannumero, le quali hanno occupato tutte le alture.
Ed ecco che il primo responsabile del nuovo stato di
cose, il saggio, astuto ed energico capopopolo, il quale
in nome del popolo ha accentrato ed esercitato ogni di­
gnità e potere, lui, sempre primo a parole, perde di colpo
ogni coraggio e fugge dal campo di battaglia cercando
riparo. Già una volta in un’ora decisiva, neH’imminenza
del pericolo, mentre la congiura dei proscritti infuriava
di notte per la città, aveva accettato il sacrificio della vita
di un suo devoto, scambiando con lui il mantello. Ciò era
stato considerato un evento fortunato e utile, ma ora per
la seconda volta egli si mostra capace bensì di versare il
sangue altrui, ma non disposto ad offrire il proprio. Il
cader della notte trova il piccolo esercito smarrito e mi­
nacciato dal disastro, quand’ecco che si fa avanti Ma­
nesse, il luogotenente di Brun, calmo come se nulla fosse
accaduto. Egli prospetta la fuga del capo come natura­
lissima e necessaria, come una misura prudenziale, e rac­
coglie poi, con voce tonante e con incitamenti entusia­
stici, tutti i cittadini per l’estrema difesa, resiste saldo e
impassibile fra il fragore e l’urlio della battaglia che
divampa e che si prolungherà poi nella notte nell’oscu­
rità, e alle prime luci dell’alba rientra vittorioso in città
con bandiere e bottino, portando con sé le salme dei fra­
telli caduti. Quando il favore popolare torna a volgersi
rapido al capo fuggiasco, e lo riaccompagna dal suo na­
scondiglio con il gonfalone della città, salutandolo con so­
lennità padre prudente, Manesse, senza batter ciglio, ca­
valca a lato dell’orgoglioso signore e conserva taciturno e
tranquillo il suo ufficio in sottordine, giacché è convinto
esser bene che un fondatore di libertà si conservi in onore
presso il popolo, sinché almeno è ancor valido e capace.
720 NOVELLE ZURIGHESI

Questo Manesse mori in tarda età, se non m’inganno


circa nel 1380, e con lui tramontò l’astro di quella di­
scendenza; i suoi figli vissero oscuri, poiché tutto è desti­
nato ad aver fine, e fu precisamente Ital, il minore, che
perdette poi questo castello.
Ital Manesse era al pari dei suoi avi uomo simpatico
ed intelligente, ma gli mancavano pazienza e fiducia;
pareva dovesse intuire ed affrettare il declino della sua
stirpe. Non seppe resistere in alcuna attività. Da ogni
occupazione lo faceva deviare una smania inquieta, e
sgusciava penosamente di mano a tutti coloro che gli
volevano bene, proprio quando credevano di tenerlo sal­
do. A quel modo le cose sue andaron di male in peggio;
dovette disfarsi l’un dopo l’altro di possessi, poderi e ter­
reni, indebitandosi sempre più. Dato il suo inquieto
modo di vivere, lo chiamavano tutti «il cavaliere Ital
che non è mai a casa».
Quando nel 1392 fu tenuto un gran torneo a Sciaffusa,
al quale accorsero centinaia di prìncipi, di conti e di no­
bili, vi partecipò anche Ital, trovandovi una buona oc­
casione per portar lontano da casa il suo cuore esagitato.
Data l’antichità della stirpe e la gloria del nome, venne a
trovarsi in buona compagnia e si acquistò il favore di
una ricca ereditiera del Cantone di Thurgau, la cui mano
avrebbe potuto liberarlo da ogni difficoltà. Conscio della
propria cattiva situazione, si mantenne timido e riservato
verso la benigna bellezza della indipendentissima dami­
gella, che in compenso, per dargli tempo e modo di pen­
sarvi, riuscì con gentile presenza di spirito a fargli sapere
durante una festa che di lì a non molto avrebbe fatto
visita ad una cugina ritirata nell’abbazia di Zurigo. Pieno
di speranza e di gioia, ma anche di nuova inquietudine,
il cavaliere lasciò il torneo col suo servitore e andò va­
gando per settimane di luogo in luogo, per passare il
tempo distraendosi con amici. Quando rientrò finalmente
in patria, aspettandosi di veder comparire la bella dama,
non la vide e apprese soltanto che essa aveva trascorso
sette giorni a Zurigo, ma ne era poi ripartita.
Visse ormai senza gioie, vedendo sempre più svanire il
IL PAZZO DI MANEGG 721

suo benessere. Passato circa un anno, al ritorno dell’e­


state, un bel giorno scese dal castello Manegg, dove vi­
veva in solitudine, per recarsi in città. Nei suoi dintorni
incontrò dame a passeggio e con gran sorpresa scorse tra
loro la signora di Thurgau. Questa non si attenne a fredde
formalità, ma accolse il suo saluto con palese favore, non
volendo perdere tempo in modo pericoloso. Ital Manesse
le stava fisso in mente e per lui soltanto era ritornata a
Zurigo, evitando invece altri aspiranti di ottima origine.
Le amiche che l’accompagnavano, intuendo bene l’a­
nimo di lei e volendo aiutarla, costrinsero l’inquieto ca­
valiere a sostare e a passeggiare un’ora con loro e cerca­
rono anche con abilità di stabilire ulteriori accordi per
impegnarlo ad una prossima visita. La bella impaziente
interruppe però quelle trattative, dichiarando che in uno
dei prossimi giorni intendeva recarsi in persona al ca­
stello del cavaliere, desiderosa di vederlo e fiduciosa che
egli le avrebbe accordato ospitalità per un quarto d’ora.
Naturalmente Ital Manesse accettò volentieri il compito
di impegnarla a mantenere tanto benigna promessa, poi
prese congedo dalle dame e si affrettò con gran letizia ver­
so la città, per andare a prendere nella casa paterna belle
porcellane, tappeti ed altri arredi che ancora vi si trova­
vano e portarli al castello Manegg.
Dedicò la giornata seguente ad adomare come meglio
potè la sua rocca, aiutato dal vecchio servitore, l’unico
rimastogli, che gli faceva ormai da maniscalco, da cop­
piere e da cuciniere. Questi apprestò le provviste ne­
cessarie ad ospitare degnamente la visita graziosa e si
tenne pronto a infornare in gran fretta, al momento giu­
sto, qualche dolce, del che era anche capace.
Il terzo giorno tutto era pronto ed in cielo splendeva
un magnifico sole; il vecchio scese alla fattoria ai piedi
della rocca, per assicurarsi che vi fossero eventualmente
dei piccioni o un paio di galletti e per disporre anche
che al primo cenno comparissero al castello una o due
donne decorosamente vestite pronte a dargli aiuto. Ma
all’improwiso corse indietro in gran fretta a raccontare
che un cinghiale sbucato dalle grandi foreste era entrato
722 NOVELLE ZURIGHESI

a devastare i campi della fattoria. Subito il signor Ital


prese armi e cani e ridiscese col servitore in cerca di
selvaggina. Giunto al portone, prima di metter piede
fuori, pensò per un attimo se non fosse meglio restare a
casa, dato che la bella visita avrebbe potuto giungere
proprio quel giorno. Ma gli parve improbabile che alla
donna sembrasse conveniente mostrare impazienza ve­
nendo tanto presto; e se ne andò quindi senz’altro. I due
appassionati cacciatori chiusero accuratamente il por­
tone, presero la chiave e risospinsero la selvaggina verso
le foreste, tornando al calar della sera con una discreta
preda, avendo aggiunto cioè ottimi arrosti alle loro prov­
viste.
Ma purtroppo tutto era ormai superfluo, perché la
nobile damigella era venuta proprio in quel giorno. Ac­
compagnata soltanto da una servente e da un garzone
del convento, era rimasta davanti alla porta chiusa senza
trovarvi accesso. Dopo aver lasciato che il suo uomo bat­
tesse e chiamasse invano e dopo aver sostato una mezz’o­
ra seduta su un sasso, si credette derisa e spregiata e ripre­
se la via del ritorno taciturna e mortificata, ma ben salda
e decisa. Ora arrossendo violentemente, ora impalli­
dendo, non staccò lo sguardo dal sentiero che percorreva,
e appena rientrata in città si apprestò alla partenza, che
ebbe luogo quel giorno stesso. Essa era ormai dunque già
perduta per il cavaliere «che non era mai a casa» quan­
do questi giunse al suo portone, ignaro che la dama
l’avesse inutilmente aspettato.
Inutilmente rimase a sua volta in attesa per parecchi
giorni e non vedendo nessuno si ritenne a sua volta scher­
nito. Fece portar via quanto aveva preparato e lasciò
che le cose andassero alla deriva.
Durante i suoi irrequieti viaggi incontrò bensì una
magra nobildonna dell’Aargau e se la sposò in gran furia.
Con questo affrettò però soltanto il suo declino, e si vide
presto costretto a vendere la casa di città nonché il pode­
re con il castello Manegg ad un ebreo, la cui vedova
più tardi cedette il castello alle monache cistercensi di
Seldenau, ovvero, come diciamo ora, Selnau. Verso il
IL PAZZO DI MANEGG 723

1409 il castello di quelle monache andò distrutto dal


fuoco per colpa di un pazzo, che aveva perduto la ragione
per la mania di voler essere e di voler rappresentare
qualcosa di diverso da quel che era.
Questo sciagurato passava per una specie di discen­
dente dei signori Manesse. Uno dei figli del cavalier
Rüdiger, il raccoglitore di canzoni, che era pur stato
canonico a Zurigo, aveva lasciato quattro creature, figlie
illegittime, come dicono gli antichi documenti, di tre
«donne notturne». Non staremo a descrivere qui di che
donne si trattasse, poiché non ne verrebbe nulla di buono ;
ma insomma da una di queste figlie illegittime nacque
un figlio, e a questi la madre seppe procurare i benefizi
ecclesiastici della Cappella di Sant’Egidio, posta ai piedi
del castello Manegg e fondata dalla famiglia dei Manesse.
Quel piccolo prete in solitudine cercò pure compagnie
notturne, e continuò così l’ardente stirpe che per un buon
secolo si fece qua rosolare dal sole, sempre legata al pen­
dio di questo colle. Essi avevan vaga coscienza del san­
gue che scorreva in parte nelle loro vene e ritornavano
quindi di continuo ai luoghi dove avevano vissuto le
loro oscure antenate.
Un ultimo rampollo della stirpe fu dunque il pazzo di
Manegg, chiamato anche Falätscher, Buz Falätscher, per­
ché viveva in una vecchia casupola di creta giù accanto al­
la Falätsche, la profonda spaccatura lasciata da una frana,
che possiamo di qui scorgere nella sua nudità spaventosa.
Dato che di tanto in tanto precipitano ancora lungo la
ripida parete ciottoli, pietre e masse di sabbia, quella ca­
panna sarebbe stata una pericolosa dimora senza un
incolto ammasso di cespugli alle sue spalle che veniva
formando con l’abituro una specie di isoletta fra il pie­
trame.
Buz Falätscher aveva un’aria non meno desolata della
sua casa. Alto e scarno, indossava una tunica messa in­
sieme da lui stesso con pelli di lontra ; in estate vi aggiun­
geva un cappellino di vimini intrecciati ed in inverno un
cappuccio fatto con la pelle di un vecchio cane lupo.
Il suo volto non rivelava se fosse vecchio o giovane, ma
NOVELLE ZURIGHESI

in esso v’erano molte piccole zone in eterna vibrazione,


come pozze d’acqua mosse dall’aria, e sempre pareva
che in esse lottassero impudenza e melanconia, mentre gli
occhi fissavano l’interlocutore con un balenio scrutatore,
curiosi del successo che gli riusciva di suscitare. Infatti,
fosse notte o giorno, avesse fame o fosse sazio, appena
incontrava un essere umano, si metteva a fargli la predi­
ca, cercando di abbindolarlo in qualche modo, di co­
stringerlo a qualche credenza e di strappargli un con­
senso.
Avrebbe dovuto avere da bambino la solita istruzione,
ma aveva a malapena imparato a leggere e a scrivere e
a distinguer poche parole latine, mancandogli vera intel­
ligenza, malgrado la sua parlantina. Girava il paese men­
dicando come un povero prete o un cappellano e tormen­
tando i contadini con la continua aifermazione che gli
sarebbe toccato un giorno far da canonico in un grande
monastero al pari dei suoi proavi, che era anzi destinato
ad esser prelato, sino a quando di colpo decise di voler
diventare uomo d’arme e capitano. Si trasformò allora in
soldato ed accorse ad ogni rissa e dovunque partisse una
piccola o grande schiera, sia nelle lotte intestine di quei
tempi, sia contro la Savoia, sia nella prima guerra mila­
nese e così via. Sentiva un impulso indomabile a segna­
larsi, a cercare dovunque il pericolo portandosi nelle pri­
missime file ; quando però il pericolo gli stava proprio di
fronte, involontariamente sempre se la svignava, per van­
tare però più tardi e con sguardi truci il coraggio dimo­
strato, il che era in fondo lecito, giacché in realtà egli
s’era sentito coraggioso. Questo divertiva a tal punto i
suoi baldi compagni d’arme, di solito insofferenti di ogni
codardia, che essi si portavano volentieri con sé Buz a
mo’ di buffone, mantenendolo generosamente. Lo obbli­
gavano però, quando la giornata era grave, a trattenersi
nella retroguardia, malgrado la sua impazienza; e Buz ne
deduceva la loro intenzione evidente di risparmiarlo per
un più serio frangente.
Un giorno però non resistette a quell’inazione. Si tro­
vava con truppe confederate in Lombardia, non lontano
IL PAZZO DI MANEGG 725

da un esercito di mercenari italiani. Correvano allora


trattative fra i Visconti e gli Svizzeri, e per questo la
lotta aveva subito una sosta : Buz approfittò di quel mo­
mento per mettersi finalmente in vista. Si fece avanti e
sfidò un capo delle truppe italiane a singoiar tenzone,
e lo fece con parole così audaci, che quello accettò la
sfida. Siccome però l’italiano dal canto suo era pure un
grasso e grosso fanfarone, gli Svizzeri, per prendersene
giuoco, permisero che l’avventura avesse il suo svolgi­
mento. Le due parti stavano accampate di fronte. Il capo
nemico, un Golia tutto in armi, avanzò con la gran lan­
cia, mettendosi in posa terrificante. Buz gli andò incon­
tro a passi decisi, armato dai suoi compagni di tutto
punto, come fosse egli pure un capo, gravato da elmo,
scudo, spada e lancia. Sbuffava eccitato, ma non esitava,
e procedette rumoroso pel tintinnare dell’armatura fin
che si trovò a due passi da quel leone minaccioso e ne
potè vedere il bianco degli occhi. Si mise in positura
marziale, abbassò la lancia fissando impaurito la faccia
dell’avversario, ma appena quegli alzò a sua volta l’asta,
Buz si rigirò perfettamente sul proprio osso sacro, come
fa una porta sui cardini, e si diede a correre con la rapi­
dità di un ragno attraverso i campi, a grandi balzi,
finché si sentì al riparo dietro le schiere dei suoi com­
patrioti.
Lo spettacolo era tanto divertente che una fragorosa
risata echeggiò da ambedue gli accampamenti e che i
mercenari italiani, considerando la scena uno spettacolo
loro gentilmente offerto, mandarono agli Svizzeri una
botte di vino, al che questi risposero con l’invio di un
maiale grasso.
Dal divertimento provocato, Buz Falätscher comprese
finalmente come stessero le cose circa le sue virtù mili­
tari: abbandonò di colpo il piccolo esercito e riprese,
per le montagne, la via del suo paese.
Mentre scendeva la valle della Reuss, le pareti roc­
ciose erano immerse nelle nuvole e pioveva in modo
tanto fastidioso che l’acqua gli entrava per il collo e gli
usciva dalle scarpe. Pianse allora amaramente, senten­
726 NOVELLE ZURIGHESI

dosi dovunque misconosciuto e maltrattato, e quanto


più cresceva il diluvio, tanto più il povero guerriero ge­
meva e singhiozzava, finché fu raggiunto da una don­
netta che camminava coraggiosamente in calze rosse,
tenendo appesa al braccio una cuffia bianca tutta gual­
cita e reggendo in bilico sul capo con grande abilità,
senza aiutarsi con la mano, un fagotto di tutta la sua
roba. Questa donnetta o ragazza, dopo essergli passata
innanzi di qualche passo, si voltò e gli chiese chi fosse e
perché mai piangesse a quel modo, pur avendo una lan­
cia tanto lunga per difendersi dai torti della vita. Lui
rispose che era un poveruomo malvoluto da tutti ed al
quale nessuno voleva prestar fede.
La donnetta allora rispose impietosita che lei gli avreb­
be voluto bene e avrebbe creduto a tutto quel che gli
piacesse. Era una povera creatura senza giudizio, la
quale, come Buz era assetato di stima, così aveva gran
smania di marito, e che appunto andava pellegrinando
in cerca di un uomo. Buz intanto, non sembrandogli la
donna affatto brutta, lasciò che le lagrime, per quel che
era possibile in quell’aria umida, si prosciugassero, poi
rivolse la sua faccia e i suoi pensieri alla mutata situazione.
Si rese subito conto che soltanto chi è capo di una fa­
miglia può anche divenire capo di molte cose. Quanti,
si disse, soltanto per il consiglio di una moglie saggia,
son diventati membri del coro o persino borgomastri !
E benché io sia pur sempre più intelligente di ogni donna,
questa ha l’aria furba, altrimenti non avrebbe ricono­
sciuto al primo sguardo chi io sia !
Continuarono così insieme il cammino e Buz, al posto
del grado di capitano, portò a casa una brava mogliet-
tina, o meglio la portò in quella capanna di creta di cui
si è parlato, già mezzo rovinata. «Non è una bella fatto­
ria?» domandò alla donna con voce seria, ed essa assi­
curò che era la dimora più splendida, che avrebbe potuto
desiderare. Cominciò senza indugio a riparare le pareti
ed il tetto di paglia, ed a rendere la casetta più abitabile,
giacché era robusta ed abile in molti lavori, cosi che per
parecchi anni mantenne il marito. Questi infatti non fa-
II. PAZZO DI MANEGG 727

ceva altro che bighellonare, immischiandosi nelle fac­


cende altrui ed aizzando le persone l’una contro l’altra
per darsi importanza, sino a che non lo scacciavano.
Allora tornava a casa, pretendeva i suoi pasti, ed insieme
le lodi per le sue imprese, da lui descritte ed esaltate senza
tregua, e se poi la mogliettina non gli credeva del tutto
e non lo lodava, la picchiava e la maltrattava terribil­
mente. La poverina buscava per ogni elogio ricusato ber­
noccoli e lividi, tanto che alla fine, se appena lo vedeva
arrivare da lontano, usciva davanti alla capanna ed al­
zando spaventata le mani inneggiava alle sue imprese
ancor prima di conoscerle.
La buona donna continuò così alla peggio, finché la
felicità di possedere un marito non fu superata dai di-
spiaceri che questi le procurava. Non avendo avuto da
lui bambini che le facessero passare il tempo e le allie­
tassero il cuore, perdette la pazienza e cominciò a mo­
strarsi recalcitrante nelle sue lodi.
Quando una sera Buz rientrò e concluse il racconto
del suo lavoro giornaliero proclamando che non si sa­
rebbe dato pace sinché non fosse tornato nello stato dei
suoi avi e proclamato cavaliere, essa imprudentemente
borbottò :
Calza e toglie gli stivali,
ma quel bel divertimento
nulla porta a compimento !
«Che cosa vorresti dire?» domandò il marito stupe­
fatto, guardandola con tanto d’occhi.
«Oh,» replicò lei «mi è solo venuto in mente un ta­
le del mio paese, che chiamavano Strascicastivali : aveva
fatto voto di cavalcare sino a Gerusalemme ed ogni mat­
tina calzava un paio di stivaloni, per toglierseli la sera,
senza mai però allontanarsi da casa, e perché gli stivali
non si consumassero da una parte sola e non perdessero
la forma, li alternava ogni giorno. Ciò malgrado, quelli
finirono e morì anche il cavallo senza che egli mai fosse
andato a Gerusalemme!».
L’uomo s’accorse allora che neppure sua moglie gli
728 NOVELLE ZURIGHESI

credeva e che anzi lo scherniva. Le si lanciò contro,


stringendole tanto la gola, che quella si fece livida in
volto e per un po’ di tempo rimase distesa a terra come
morta. Più tardi però, mentre il marito dormiva, si ri­
prese, si vestì da viaggio, raccolse le sue poche robe ed
abbandonò la capanna, non senza avergli prima pre­
parato la solita colazione. La povera donnetta s’allon­
tanò nella notte buia e sparì per sempre da quella re­
gione.
Il mattino seguente Buz fu stupito di trovarsi solo in
casa. Mangiò quel che c’era e per parecchi giorni aspettò
il ritorno della moglie che era stata per lui una vera fata.
Non vedendola riapparire, molto si addolorò e turbò; la
fame lo spinse tuttavia a procurarsi da mangiare, il che
fece istintivamente cercando nell’acqua e nelle terre in­
torno. Fece la posta ai tassi, acchiappò grossi topi di
campagna nei prati e lontre nei torrenti, nonché sva­
riati uccelli nella boscaglia, acquistando grande perizia
nel catturar tutti questi animali, non da vero cacciatore,
ma come una bestia rapace, e delle pelli si servì per
vestirsi.
In questo modo la sua pazzia assunse una forma re­
golata, e quando un giorno scoprì che il castello Manegg,
allora di proprietà delle monache, era del tutto disabi­
tato, andò a stabilirsi in quelle stanze abbandonate e
si proclamò cavaliere Manesse di Manegg. Nessuno pen­
sò di disturbarlo, anzi per compassione gli fu dato qual­
che soccorso, che egli accettava con aria di degnazione.
A poco a poco, mettendosi addosso sopra le sue pelli di
lontra qualche pezzo di armatura arrugginita ed infi­
lando una penna di gallo nel cappelluccio di vimini, si
attentò a scendere in città, dandosi le arie di cavaliere.
I discorsi sconclusionati che teneva, e specialmente le
strane smorfie di cui si dilettava, fecero di lui un grato
divertimento nelle osterie di quella gente piuttosto gros­
solana: venne trattato con generosità e spesso messo in
burla ferocemente, il che egli tutto subiva con la ben
nota furberia dei folli. Purché lo riconoscessero cavaliere
era soddisfatto, ma con segreta prudenza si guardava
IL PAZZO DI MANEGG 729

bene dallo scervellarsi circa la sincerità di quel ricono­


scimento.
Persino i nobili che convenivano in una stanza alla lo­
canda del «Mastino» non sdegnavano di accogliere quel
tipo bizzarro, ed i veri cavalieri finirono per abituarsi,
con profondo senso dell’umorismo, ad aver compagno dei
loro festini quel poveraccio dalle pelli di lontra, quasi a
simbolo ed emblema della vanità di tutte le cose umane.
In una di tali occasioni, era una festa autunnale, il
signor Ital Manesse «che non era mai a casa» aveva
portato con sé, del suo patrimonio ormai sfumato, la
grande raccolta di canzoni amorose, di cui poco tempo
prima e dopo lungo oblio si era tornato a discorrere.
Quel libro risaliva ormai, almeno per i suoi inizi, a più
di cent’anni avanti. Parecchi gruppi della brigata di
giovani cavalieri si compiacquero di osservare le imma­
gini e la bella scrittura, per vero dire ancora chiara e de­
cifrabile soltanto ai più esperti ed anziani, mentre spe­
cialmente alcuni ospiti forestieri mostravano interesse e
stupore nello scoprire in quei quadretti chiari e lucenti i
loro stemmi e i ritratti dei loro antenati amatori del can­
to. Un giovane barone di Sax vi scoprì persino due suoi
avi, il frate Eberhard ed il signore Heinrich von Sax e
ne lesse con commozione le poesie, già da gran tempo
sparite e dimenticate nella sua famiglia.
Anche quel giorno era presente il pazzo di Manegg e,
specialmente a tarda sera, serviva a divertire quei signori
coi suoi discorsi. Fosse però la voce ammonitrice del
passato o un senso di dolcezza emanante da quel libro,
certo si è che gli scherzi rivolti quel giorno al pazzo si
mantennero più bonari e discreti. Soltanto Ital Manesse
che, com’era comprensibile, sentiva più profondamente di
tutti l’avvicendarsi delle sorti terrene, si compiacque con
una certa impetuosità di spingere il pazzo, suo successore
nella rocca avita, a bere in abbondanza, senza rimanere
indietro a sua volta. Quello però non pareva diventar
più stolto per effetto del vino, mentre Ital andò a dor­
mire semiubriaco a tarda notte.
La mattina seguente si recò per tempo alla sede della
73« NOVELLE ZURIGHESI

corporazione per riprendersi il libro dimenticatovi la


sera, ma esso non fu più trovabile, malgrado ogni ricerca.
Generale fu la deplorazione per il caso sfortunato,
che Ital stesso accolse come un nuovo colpo della sua
triste sorte. Non cadde sospetto su Buz Falätscher, il quale
aveva carpito il codice portandoselo al castello, perché
quel mentecatto era ritenuto troppo zotico per aspirare
a quel tesoro letterario. Si tendeva piuttosto a supporre
che qualcuno degli ospiti non avesse saputo resistere alla
tentazione, dato che già a quei tempi esistevano i bi­
bliofili ladri. Ci si limitò quindi a vaghe ricerche.
Nel frattempo Buz nella sua rocca disabitata covava
per giornate intere quel libro che gli riusciva di leggere
solo in parte; giunse a farsi una pallida idea di quel che
conteneva e decise senz’altro di essere un antico cantore
d’amore. Buttò giù in pessima scrittura, senza nesso né
intelligenza, alcune pagine e vi aggiunse versetti di pro­
pria invenzione, versi dal tono tremendo che echeggia
soltanto nelle menti ottenebrate e che nessuno potrebbe
imitare. Quando girava per il paese, portava con sé
quegli elaborati e, incontrando per i sentieri di un bosco
o in una strada solitaria persone incólte, le affronta­
va con aria misteriosa e si accompagnava loro ostina­
tamente, cosicché gli prestavano orecchio e lo dichiara­
vano ottimo e dotto maestro cantore. Se qualcuno invece
si mostrava renitente o peggio rideva, il pazzo gli faceva
gli occhiacci e dava di piglio al lungo coltello di cui si
serviva per infilzare le lontre nuotanti sott’acqua quando
andava a caccia.
Divenne a quel modo pericoloso persino ad un caccia­
tore ben armato che incontrò nel fitto del bosco, giacché
la sua Ìndole appariva ormai mutata ed egli non indie­
treggiava più di fronte ad alcuna minaccia. Riuscì ad
attirare nella sua rocca di Malaparte altre persone, po­
nendole in tali frangenti, che solo a stento si sottrassero
a quelle mura e a quel pericolo. Teneva intanto accurata­
mente nascosto il codice rubato e non si lasciava più
vedere in città.
Il mercoledì delle Ceneri che seguì a quel festino au-
IL PAZZO DI MANEGG 731

tunnale, i cittadini erano adunati a banchetto in tutte le


sedi delle loro corporazioni, per chiudere degnamente le
gioie carnevalesche. Anche i cavalieri erano raccolti al
«Mastino» coi loro amici, senza però il pazzo, del quale
anzi notarono l’assenza. Si venne a discorrere delle sue
ultime follie e violenze, e cadde allora il velo dagli occhi
di quei signori, i quali si persuasero che il canzoniere
sparito non potesse essere che su, al castello Manegg.
Subito i più giovani della brigata, emozionati ed ecci­
tati dal vino, decisero di fare un’allegra spedizione contro
il pazzo, dando assedio ed assalto al castello per ricon­
quistare il libro. Circa venti giovanotti si provvidero di
torce e uscirono dalla città a suon di tamburi e di fischietti,
come per un allegro corteo. Lungo la via si unirono a
loro giovani di altre corporazioni, cosicché alla fine mar­
ciò nella notte al lume delle fiaccole una schiera di circa
cinquanta uomini risoluti, in parte ancora mezzo ma­
scherati, che non dimenticarono di portar con sé, su di
un carretto, una botte di vino, e di provvedersi larga­
mente di brocche e di calici.
Era già passata la mezzanotte quando la baldanzosa
compagnia giunse presso il castello. Rullio di tamburi e
chiasso di canti destarono il pazzo, che scorse il bosco
circostante tutto illuminato dalle torce. Si mise a correre
di gran furia per il castello con un lumicino in mano, co­
me si potè osservare dal riflesso che rapidamente guiz­
zava da una finestra all’altra, ora in questa ora in quella
sala, finché lo si scorse su, nella torre, mentre un gruppo
di uomini era giunto al ponte d’ingresso e batteva vio­
lentemente al portone. Buz scese e s’affacciò ad una fendi­
tura della muraglia sovrastante. Colui che picchiava per
entrare era ravvolto in una pelle di orso, o meglio indos­
sava il costume dell’orso che i macellai ogni anno usavano
portare attorno in quella giornata. Il pazzo si ritrasse
atterrito, credendo che l’inferno intero fosse venuto ad
assalirlo. Dopo che lo ebbero invano invitato alla resa
della fortezza e ad aprire il portone, questo fu sfondato
per mezzo di una trave strappata alla balaustrata del
ponte e l’orso entrò insieme ad alcuni compagni con
732 NOVELLE ZURIGHESI

variopinti berretti da giullari per scovare e catturare il


folle assediato.
Ma nello stesso tempo dall’altra parte del castello un
imprudente lanciò la sua torcia facendole compiere un
ampio arco al di sopra del fossato sin dentro una finestra,
piuttosto per dimostrare la propria forza che per far
danno. Sciaguratamente ebbe forza sufficiente a far ca­
dere la torcia nell’interno della stanza, dando fuoco al
giaciglio di fieno ancor caldo del pazzo. Soffiava in quel
risveglio di primavera un forte scirocco, così che ben pre­
sto il vecchio edificio cadente fu in fiamme, ed il povero
pazzo s’aggirava urlando pietosamente, preso in mezzo
tra le fiamme e l’orso. A questo punto il signore di Sax,
che aveva partecipato all’impresa anzitutto per amore
del libro, penetrò nel castello cercando di salvare il tesoro.
Ad onta del pericolo inseguì il pazzo, quando già l’orso
col pelo bruciacchiato si ritraeva insieme ai compagni:
gli riuscì di afferrarlo e s’accorse che quello per fortuna
aveva d’istinto portato con sé il libro e lo stringeva spa­
smodicamente. Con gran stento l’ardito ed abile giova­
notto trascinò fuor dalla rocca incendiata il pazzo insieme
al libro, ma il poveretto era ormai già spirato per la
paura o la debolezza.
Distesero il morto sul muschio verde, sotto gli alberi :
giaceva finalmente in pace, liberato dal tormento di
voler essere quello che non era e si addormentava final­
mente con lui una vita falsa, trascinatasi nell’ombra per
oltre cent’anni.
I cavalieri, fattisi taciturni, bevvero il loro vino seduti
in cerchio all’intorno, non però eccessivamente contriti,
ed osservarono il crollo del castello, il quale mandava le
sue ultime fiamme verso il cielo nel primo riflesso rosato
che sorgeva ad oriente. Alcuni alberi vetusti, testimoni dei
suoi giorni migliori, ardevano con la rocca, deponendo
ai piedi della vicina che si consumava le loro corone in
fiamme.
II signore di Sax precedette nel ritorno la brigata,
tenendo il libro ravvolto nel suo mantello, e trovò ancora
al «Mastino» Ital Manesse, ultimo ospite, seduto dietro
IL PAZZO DI MANEGG 733

all’ultimo bicchiere, pallido e gelido come la luce del


mattino che penetrava nella sala.
«Eccoti il libro!» esclamò gioiosamente. Ital lo sfo­
gliò per qualche momento : era intatto. Poi lo chiuse e lo
porse all’amico, dicendogli pacato:
«Prendilo e conservalo nella tua salda fortezza di
Forsteck; sarà là meglio custodito che in mano mia!».
Cosi il libro venne nelle mani dei signori di Sax e
rimase per due secoli a Forsteck. Allorché nel 1615 gli
Zurighesi comperarono i possedimenti dei Sax, il volume
era di nuovo sparito. Correva la leggenda che dallo
scoglio sul quale si ergeva sul Reno la rocca di Forsteck
sgorgassero in piena estate, quando c’era bel tempo,
se di lì passavano dei viandanti, gradevoli suoni, quasi
una musica di tante campanelle d’argento e di violini.
Il popolo la diceva musica degli gnomi della montagna,
il naturalista Scheuchzer al contrario la riteneva effetto
della formazione di stalattiti nelle viscere dei monti. Noi
sappiamo invece che erano gli spiritelli benigni del libro
di canzoni a risuonare armoniosi, quasi per gratitudine,
perché l’ultima signora di Hohensax si era indotta solo
a malincuore e dopo lunga esitazione a lasciarsi strappar
quel manoscritto dal principe Elettore del Palatinato e
dai suoi dotti.

Quando il racconto della fine del castello di Manegg


fu giunto a termine, anche il sole era sceso dietro la
vicina parete montuosa, e benché il paesaggio lontano
ne rimanesse ancora illuminato, il vecchio ed il giovane
zurighese presero la via del ritorno. Il signor Jacques era
però estremamente taciturno e pensieroso,, non chiedeva
ulteriori delucidazioni e commenti, come aveva fatto la
volta precedente, quando il padrino gli aveva narrato
la storia di Hadlaub. S’era accorto dell’insistenza con
cui il vecchio aveva sottolineato la malattia di voler
essere quello che non si è, e gli stava sullo stomaco anche
la faccenda della «Atene svizzera». Il suo protettore
notò l’imbarazzo dei suoi pensieri, ma si guardò dal di­
sturbarlo.
734 NOVELLE ZURIGHESI

Giunto alla casa paterna, Jacques salì senz’altro nella


sua stanza piena di cose bizzarre, dove si diede a consi­
derare nella penombra del crepuscolo il frontespizio del
«Sacrario zurighese». Meditò sospirando se egli fosse
proprio la persona adatta a condurre a buon fine così
grande opera e, poiché questo gli sembrò sempre più
dubbio, mentre l’infelice pazzo di Manegg gli aleggiava
davanti agli occhi come un fantasma notturno, finì per
prendere una tenaglietta e staccare con cura la perga­
mena dalla tavola. Così facendo rinunciò al lungimi­
rante progetto e si limitò a metterne la porta d’ingresso
in una vecchia cornice e ad appenderla ad una parete
accanto agli altri disegni.
Il padrino, ritornando in seguito a visitare il giovane
amico, s’accorse con compiacenza di quella rinuncia.
Per compensarlo, gli donò una cartella con grandi inci­
sioni in rame riproducenti i grandiosi affreschi della Cap­
pella Sistina e delle Stanze del Vaticano. Voleva che
avvezzasse l’occhio alla vera grandezza, al sublime, senza
pensar subito a se stesso. Accorgendosi però che l’adole­
scente, pur non proponendosi altre imprese eccezionali
inadeguate alla sua persona, era pur sempre assillato
dalla smania di originalità, gli affidò un giorno un mano­
scritto da lui stesso redatto.
«Mastro Jacques,» gli disse «voi avete un giorno de­
plorato la scomparsa di quei personaggi che si soglion de­
finire tipi originali. Questo rammarico è forse in parte le­
gittimo, in quanto le persone che noi nella vita quotidia­
na chiamiamo originali son rare davvero e lo sono anche
sempre state. Se però alla loro particolare indole vanno
unite capacità e gentilezza ed una certa intima arguzia
proveniente dal cuore, esse esercitano sul loro ambiente
contemporaneo, e spesso anche al di là di questo, un’effi­
cacia piena di luce e di calore, negata a tanti veri e
propri uomini geniali, e in tal caso le loro esperienze
tendono a diventare avventure ricche di forza o di gra­
zia. Una figura di questo genere, nel senso migliore,
fu il nostro Salomon Landolt, che ormai è entrato nel­
l’eternità da oltre dieci anni. Uno dei nostri dilettanti
IL PAZZO DI MANEGG 735

di ingegno ha descritto la sua vita e le sue vicende in un


ottimo libretto, dove però accenna appena alla condi­
zione di scapolo del defunto. Ciò mi ha indotto a redi­
gere un racconto integrativo, per far rivivere anche sotto
questo aspetto l’uomo singolare. Eccoti il mio lavoretto,
un manoscritto purtroppo tanto indecifrabile, che avrei
il desiderio di vederlo messo in bella da una nitida calli­
grafìa. Prendilo, Jacques, e a tempo perso preparamene
una bella copia ! ».
Il signor Jacques prese il manoscritto dal padrino ed
esegui infatti con gran cura e nitidezza una copia, la
quale segue qui non meno fedelmente stampata.
IL PODESTÀ DI GREIFENSEE

Il 13 luglio del 1783, giorno dell’imperatore Enrico che


ancor oggi spicca in rosso nel calendario di Zurigo,
molta gente di città e di campagna s’awiava in carroz­
za, a cavallo ed a piedi, verso il villaggio di Kloten,
sulla strada di Sciaffusa. Sui dolci pendìi di quella re­
gione il colonnello Salomon Landolt, allora podestà del
distretto di Greifensee, voleva infatti passare in rivista
il corpo da lui fondato dei tiratori zurighesi, facendolo
manovrare e mostrandolo ai signori del Consiglio di
guerra. Diceva d’aver scelto la giornata dell’imperatore
Enrico, perché la metà dei militi della rispettabile città
di Zurigo aveva nome Enrico e soleva celebrare il popo­
lare onomastico bevendo ed oziando, così che una rivi­
sta militare non avrebbe certo fatto danno.
Gli spettatori si compiacevano alla vista inusitata della
nuova truppa, fino allora ignota, formata di giovani e
vigorosi volontari in semplice uniforme verde, ammira­
vano i rapidi movimenti in ordine sparso, l’abile maneg­
gio dell’archibugio di mira sicura da parte dei singoli uo­
mini, e, soprattutto, i paterni rapporti che regnavano fra
l’ideatore e capo di tutto l’insieme e i suoi lieti camerati.
Ora si potevano vedere quei soldati disperdersi e sva­
nire lontani al margine del bosco, ora riapparire in un
punto remoto, raccolti in una scura colonna ad un suo
richiamo, mentre egli, sulla lucente cavalla saura, risali­
va rapido le colline, ora invece sfilare vicinissimi can­
tando allegre canzoni, per ricomparire subito dopo su
un colle rivestito di pinete, sul cui sfondo verde non si
distinguevano più. Tutto procedeva con tale rapidità e
letizia, che un profano non si faceva un’idea del lavoro e
della pena prodigati da quell’egregio uomo per appre­
stare alla patria il suo specialissimo dono.
Quando alla fine fece avvicinare a passo di corsa al
suono dei comi la schiera dei cacciatori, di circa cin­
quecento uomini, e ordinò poi all’improvviso di romper
le file, mandandoli a casa in riposo e balzando egli stesso
IL PODESTÀ DI GREIFENSEE 737
da cavallo, senza mostrar più stanchezza dei giovani,
ogni bocca fu piena di lodi per lui. Alcuni ufficiali pre­
senti dei reggimenti svizzeri di Francia e d’Olanda discu­
tevano l’importanza futura della nuova arma, compia­
cendosi che la loro patria l’andasse creando indipendente­
mente e per sé. Fu ricordato anche con soddisfazione che
persino Federico il Grande, una volta che Landolt assi­
steva alle manovre a Potsdam, aveva notato quell’uomo
solitario instancabilmente in moto e l’aveva mandato a
chiamare, tentando, in ripetuti colloqui, di guadagnarlo
al suo esercito. Landolt conservava ancora una lettera
autografa del grande sovrano e la teneva più cara di una
missiva d’amore.
Gli occhi di tutti si fissavano pieni di compiacenza sul
podestà, mentre questi s’awicinava ai signori ed ai con­
cittadini, scuotendo cordialmente la mano a tutti gli
amici. Indossava un abito verde scuro senza galloni,
guanti chiari da equitazione, e alti stivali a risvolti bian­
chi. Gli pendeva dal fianco una robusta spada, il cappello
era rialzato secondo la foggia dei berretti degli ufficiali.
Il citato biografo lo descrive del resto come segue: «Chi
lo avesse visto una volta sola, non lo poteva più dimenti­
care. L’alta fronte serena era convessa, il naso aquilino
sporgeva con dolce curva dal volto ; le labbra sottili for­
mavano linee graziose, e agli angoli della bocca, dietro
uno scherzoso sorriso appena avvertibile, si celava la
satira infallibile, ma non mai di proposito offensiva. I
luminosi occhi bruni si guardavano attorno franchi e
sicuri, denotando lo spirito che li animava, si posavano
con indescrivibile cordialità sugli oggetti gradevoli e,
quando lo sdegno gli faceva serrare le forti sopracciglia,
lampeggiavano penetranti, contro tutto quanto poteva
offendere i delicati sentimenti di quell’uomo d’onore.
Di media statura, il suo corpo era robusto e proporzio­
nato, il suo portamento militare».
Aggiungeremo alla descrizione che gli scendeva sulla
nuca una treccia piuttosto grossa e che in quel giorno
dell’imperatore Enrico egli entrava nel suo quarantadue-
simo anno.
738 NOVELLE ZURIGHESI

Gli occhi bruni trovarono imprevedutamente occasio­


ne di posarsi con indescrivibile cordialità su un oggetto
gradevole, quando s’accostò ad una berlina color rosa
per salutarne i passeggeri che gli tendevano le mani;
vi era infatti, inaspettata, anche una bellissima dama da
lui conosciuta un giorno, ma non più veduta da anni.
Poteva avere circa trentacinque anni; gli occhi erano
castani e ridenti, la bocca vermiglia, e i riccioli scuri
scendevano sui merletti che lasciavano in parte libero il
collo, arrampicandosi però anche in abbondanza sulla
bella testolina, ricoperta da un elegante cappello di pa­
glia inclinato in avanti. Indossava una veste estiva a
righe bianche e verdi e reggeva un parasole, che oggi-
giorno si crederebbe cinese o giapponese. Per tagliar corto
a previsioni infondate, osserveremo subito che la signora
era maritata da un pezzo e madre di parecchi figli, e che
non poteva quindi trattarsi, fra lei e l’ufficiale dei caccia­
tori, che di storie da lungo passate. Per dirla in breve,
essa era stata la prima fanciulla alla quale egli un giorno
avesse fatto offerta del suo cuore ottenendone in cambio
un grazioso rifiuto. Il suo nome deve rimaner celato,
perché vivono ancora, fra cariche ed onori, tutti i suoi
figlioli, e dobbiamo limitarci a designarla col nomignolo
che Landolt le serbò nella memoria. Egli infatti pensando
a lei la chiamava «cardellino».
Ambedue arrossirono lievemente porgendosi la mano,
e quando si trovarono al rinfresco con molta altra gente
nella locanda del «Leone» a Kloten, e Landolt venne a
sederle vicino, essa lo trattò con tanto calore, come se in
passato l’innamorata fosse stata lei. Egli si senti pervadere
da un senso di piacere come da anni non aveva provato
e si intrattenne ottimamente col cosiddetto cardellino,
che pareva rimasto immutabilmente giovane.
Alla fine però la lunga giornata estiva volse alla fine
e Landolt dovette disporsi al ritorno, giacché aveva circa
tre ore di cammino per raggiungere Greifensee, il cui di­
stretto reggeva da due anni con la funzione di podestà.
Mentre si accomiatava dalla compagnia, venne naturale
un invito e l’intesa che l’amica d’un tempo sarebbe an-
IL PODESTÀ DI GREIFENSEE 73g

data a fargli una sorpresa un giorno, accompagnata dal


marito e dai figlioli, al castello di Greifensee.
Cavalcò verso casa meditabondo, accompagnato sol­
tanto da un servitore, passando per Dietlikon. Già sulle
torbiere paludose scendeva l’ombra; a destra il crepuscolo
rossastro si spegneva sul dorso dei monti, mentre a sini­
stra la luna calante saliva dietro le catene dell’Oberland
zurighese; in quello stato d’animo e in quella situazione il
podestà di solito si sentiva rivivere, si trasformava tutto in
forza visiva, intento a spiare soltanto il silente operare della
natura. Quel giorno però le stelle lucenti e le lievi voci
vicine e remote lo pervasero d’un senso ancor più solenne
del solito, quasi di commozione, e ripensando all’acco­
glienza che avrebbe offerto alla gentile autrice del lon­
tano rifiuto, lo colse improvvisamente il desiderio di non
convocare nella sua dimora lei sola, ma tre o quattro
altre belle creature con le quali egli era stato un tempo in
analoghi rapporti. Insomma, mentre procedeva a ca­
vallo, nacque in lui una vera bramosia di vedere insieme
adunate tutte le buone ed amabili donne alle quali aveva
voluto bene e di trascorrere una giornata con loro. Bi­
sogna purtroppo aggiungere che quello scapolo ormai in­
durito non era stato un tempo inaccessibile, ma aveva
anzi troppo poco resistito al fascino femminile. Nel suo
elenco di soprannomi v’era un’amica che si chiamava
Pulcinella ed un’altra capinera, una capitano ed una
quarta merlo, il che, insieme al cardellino, faceva cin­
que. Alcune erano sposate, altre non ancora, ma tutte
potevano essere invitate, giacché egli non si sentiva in
colpa di fronte a nessuna, anzi, se non avesse dovuto reg­
gere le redini e il frustino, si sarebbe già fregato le mani
di piacere, appena cominciò a immaginarsi come avreb­
be messo in rapporto reciproco le sue belle, e come esse si
sarebbero comportate, ed insomma il delizioso spasso che
10 attendeva offrendo ospitalità a una così leggiadra fa­
miglia.
La difficoltà consisteva nel mettere a parte del suo
piano la governante, la signora Marianne, ottenendone
11 permesso e l’aiuto ; perché se essa non era consenziente
740 NOVELLE ZURIGHESI

e benevola in un affare tanto delicato, il graziosissimo


progetto doveva crollare.
Ma la signora Marianne era la più bizzarra donna del
mondo, né se ne sarebbe scovata una seconda in cambio
di un regno. Era figlia del civico stipettaio Kleissner di
Hall nel Tirolo ed aveva subito con una schiera di fratelli
la tirannia di una cattiva matrigna. Questa l’aveva fatta
entrare novizia in un monastero; Marianne aveva una
bella voce per il canto e parve adattarsi docilmente;
ma quando avrebbe dovuto pronunciare i voti sollevò
un’opposizione tanto impetuosa e tremenda che fu con­
gedata con sgomento. Dovette allora farsi strada da sola
nel mondo e trovò lavoro come cuoca in una locanda a
Friburgo nel Bresgau. Per la sua bella figura dovette
subire la corte insistente e insidiosa degli ufficiali austriaci
e degli studenti che frequentavano quel locale : essa però
respinse tutti con energia, tranne un grazioso studente
di buona famiglia di Donaueschingen, al quale donò il
suo affetto. Un ufficiale ingelosito la perseguitò con ca­
lunnie che giunsero al suo orecchio. Essa allora, armata
di un affilato coltello da cucina, entrò nella sala da pran­
zo dove erano radunati gli ufficiali ed affrontò il calun­
niatore e, quando questo tentò di liberarsi dall’energica
assalitrice, si fece così impetuosa da costringerlo a trarre
la spada per difendersi. Marianne disarmò l’ufficiale e
gli gettò ai piedi la spada spezzata, per il che quegli
fu poi espulso dal reggimento. In seguito l’ardita tirolese
sposò il bello studente, contro il volere della famiglia,
fuggendo con lui. Egli entrò a Königsberg in un reggi­
mento di cavalleria prussiano, al quale essa s’accodò
come vivandiera, partecipando a parecchie campagne.
Marianne si dimostrò immancabilmente attiva ed esperta
tanto in campo che nelle guarnigioni, come cuoca e
come pasticcera, e guadagnò denaro sufficiente per of­
frire al marito una comoda esistenza ed anche per metter
da parte qualche risparmio. Ebbero ben nove figlioli,
ed essa li amò sopra ogni cosa, con tutta la passione
dell’indole sua, ma tutti le morirono l’uno dopo l’altro,
e parve ogni volta che le si dovesse spezzare il cuore,
IL PODESTÀ DI GREIFENSEE 741

che fu però più forte di ogni triste destino. Quando


alla fine furono tramontate per lei bellezza e gioventù,
l’ussaro suo marito si rammentò della propria classe so­
ciale superiore e cominciò a disprezzare la moglie, forse
perché troppo bene aveva ricevuto dalle sue cure. Essa al­
lora col denaro risparmiato gli pagò il congedo dall’eser­
cito e lo lasciò andare a caccia di fortuna, mentre lei si
volgeva sola verso il mezzogiorno, di dove era venuta,
in cerca di una sistemazione.
Accadde che a San Biagio, nella Foresta Nera, fu rac­
comandata al podestà di Greifensee, il quale era in cerca
di una governante, e così era già da due anni al suo servi­
zio. Contava per lo meno quarantacinque anni ed assomi­
gliava piuttosto a un vecchio ussaro che ad una direttrice
di casa. Bestemmiava come un sergente prussiano e, quan­
do qualcosa suscitava il suo malcontento, si scatenava
tale violenta bufera che tutti fuggivano esterrefatti e
soltanto l’allegro podestà rimaneva imperterrito a go­
dersi lo spettacolo. Essa però dirigeva la sua casa in modo
impeccabile: comandava alla servitù e ai contadini con
rigida severità, teneva i conti con perfetta onestà, rispar­
miava dovunque le fosse possibile, quando la generosità
del padrone non l’ostacolava, ma d’altra parte appoggia­
va così volonterosamente ed abilmente le sue consuetu­
dini di ospitalità, che egli ben presto potè affidarle senza
riserve tutta la propria azienda domestica.
Accanto a tanta rozzezza faceva però spesso capolino
la profondità dei suoi sentimenti, quando per esempio
con la sua voce di contralto rimasta intatta cantava al
podestà, che l’ascoltava attento, una vecchia ballata, op­
pure un’ancor più antica canzone d’amore o di caccia,
e non era poco orgogliosa se il padrone, abile suonatore
di corno, ne imparava rapidamente la melanconica me­
lodia per farla subito echeggiare dalla finestra del ca­
stello sul lago inargentato dalla luna.
Quando una volta il bimbo decenne di un vicino fu
preda di una malattia inguaribile e né le esortazioni del
parroco, né quelle dei genitori riuscivano a liberarlo dal
suo dolore e dalla paura della morte, poiché egli avrebbe
742 NOVELLE ZURIGHESI

tanto volentieri vissuto, Landolt sedette, tranquillamente


fumando la pipa, accanto al suo letto e seppe parlar­
gli con parole così semplici ed efficaci del suo stato di­
sperato, della necessità di rassegnarsi e di soffrire per
breve tempo, ma anche della dolce liberazione da parte
della morte, della calma beata ed immutabile che era
riserbata a lui, bravo e paziente fanciullo, dell’amore e
della compassione che egli, pur essendogli estraneo, per
lui nutriva, che il piccolo infermo da quel momento mutò
sentimenti e sopportò le sue sofferenze con serena pa­
zienza, sino a quando non venne realmente la morte a
liberarlo.
Allora l’appassionata signora Marianne s’accostò al
catafalco, si inginocchiò presso la bara, pregò fervida­
mente ed a lungo, raccomandando a quel piccolo an­
gelo tutti X suoi bambini morti perché intercedesse
presso il Signore. Al podestà volle baciare la mano con
venerazione, quasi fosse stato un gran vescovo, finché
egli la ritrasse ridendo e protestando : « Che diavolo vi
piglia, vecchia pazza?».
Tale era dunque la governante del signor colonnello,
e con essa bisognava che egli si accordasse, se voleva rac­
cogliere attorno al suo focolare le cinque antiche fiam­
me per vederle splendere insieme.
Mentre entrava nel cortile del castello e scendeva da
cavallo, la udì tempestare in cucina perché i cani ulula­
vano nella scuderia ed una serva aveva dimenticato di
preparare loro la zuppa serale. “Non è un momento buo­
no!” pensò tra sé, lasciandosi cadere un po’ intimidito
nella sua poltrona e preparandosi a cenare, mentre la
governante, tra balenìi di bufera, gli riferiva le novità
del giorno. Le versò un bicchiere del vino di Borgogna
a lei caro, ma che beveva soltanto invitata dal padrone,
benché detenesse le chiavi della cantina. Questo valse
già a mitigare un poco la sua ira. Poi staccò dalla parete
il corno e suonò verso il lago una delle melodie da lei
predilette.
— Signora Marianne ! — le disse poi — Non vorreste
cantarmi quell’altra canzone che comincia così:
IL PODESTÀ DI GREIFENSEE 743
Chi mai lassù le ha scorte,
nel sole dei tramonti,
al giunger della morte
le cerca su pei monti !
Vergini amate, addio !
Qua sotto dormo anch’io!

Subito essa cantò l’intero componimento con tutte le


sue strofe, che passavano ai più svariati temi, ma espri­
mendo tutte un’eguale nostalgia di rivedere una certa
persona. Essa stessa si sentì commossa da quella semplice
musica e lo fu ancor più quando il podestà fece echeggia­
re nella notte le lunghe note del suo corno.
— Signora Marianne, — riprese il podestà rientrando
nella sala — dobbiamo prepararci a ricevere come si
deve una piccola ma eletta compagnia !
— Che compagnia, signor podestà? Chi dovrà venire?
— Verranno — replicò il padrone tossicchiando — il
cardellino, il Pulcinella, la capinera, il capitano e il
merlo !
La donna fece tanto d’occhi e chiese:
— Ma che gente sono? Siederanno in poltrona o sta­
ranno appollaiati?
Il podestà intanto era passato nell’altra camera a pren­
dere una pipa ed ora la stava accendendo.
— Il cardellino — disse, mandando la prima boccata
di fumo, — è una bella donnina !
— E l’altro?
— Il Pulcinella? Anche quello è una donna, e a modo
suo bella anche lei !
Così si arrivò fino al merlo. Siccome però la governan­
te non si mostrava soddisfatta di quelle spiegazioni laco­
niche, il signor podestà dovette decidersi a parlare diffu­
samente di cose che non gli erano mai uscite di bocca
prima.
— Per dirla in una parola — concluse — sono tutte
mie fiamme di un tempo, che vorrei vedere qui riunite !
— Ma, per tutti i santissimi fulmini ! — proruppe ur­
lando la signora Marianne balzando in piedi con gli
744 NOVELLE ZURIGHESI

occhi sbarrati e precipitandosi addirittura contro la pa­


rete — Ma signor podestà ! Stimatissimo signor podestà !
Lei allora ha avuto così tanti amori? Oh, santissimo Sa­
cramento ! E nemmeno il diavolo lo avrebbe sospettato,
e lei si è sempre dato l’aria di non poter sopportare le
donne ! E lei ha imbrogliato tutte queste povere ragazze
per poi piantarle?
— Ma no, — replicò lui con un sorriso imbarazzato
— sono state loro a non volermi !
— A non volerla? Neppure una?
— Neppure una !
— Maledette canaglie ! Ma è ottima l’idea del si­
gnor podestà ! Vengano pure, vogliamo attirarcele qui e
rimirarcele : sarà una strana brigata ! Le vogliamo met­
tere su nella torre, dove ci stanno i corvi, a farle patir la
fame? Ci penserò io ad attaccar lite !
— Niente di tutto questo ! — replicò ridendo il po­
destà — Al contrario, dovrete sfoggiare tutta la vostra
cortesia e buona accoglienza, perché voglio che sia per
me una bella giornata, come se ci fosse veramente quel
mese di maggio che notoriamente non esiste, e se fosse
ad un tempo il primo e l’ultimo di quel mese !
Marianne comprese, dallo splendore dei suoi occhi,
che voleva dire qualcosa di cordiale e di edificante : gli si
avvicinò d’un balzo, gli afferrò la mano e la baciò, mentre
mormorava piano, asciugandosi gli occhi:
— Sì, io comprendo il signor podestà ! Dovrà essere
una giornata, come se io riavessi all’improvviso con me
tutti i miei bambini perduti, quegli angioletti beati !
Ormai rotto il ghiaccio, egli le fece conoscere a poco
a poco, come si conveniva, i cinque oggetti e le espose le
diverse vicende, e nel far ciò il narratore, e l’ascoltatri-
ce passarono per diversi e contrastanti stati d’animo.
Noi vogliamo riesporre qui ancora una volta quelle sto­
rie, ma bene per ordine, tornendole bene e adattan­
dole alla nostra comprensione.
IL CARDELLINO

Il nome era stato suggerito a Landolt dallo stemma fa­


miliare della sua bella, dove spiccava un cardellino,
stemma dipinto in cima alla sua porta di casa. Simili
uccellini canori figurano nello stemma di più di una fa­
miglia, cosi che potremo rivelare il nome di battesimo
della giovinetta, che era Salome. Quando però la co­
nobbe Salomon, essa era ormai una bella e fiorente si­
gnorina.
V’erano allora, oltre ai balivati ed alle podesterie pub­
bliche, molte antiche sedi di signori con castelli, ter­
reni e giurisdizioni, o anche senza di essi, che passavano
di mano in mano come beni privati e venivano acquistati
e ceduti da cittadini a seconda delle loro possibilità fi­
nanziarie. Questa sino alla rivoluzione era la forma pre­
dominante di impiego di denaro e di esercizio dell’agri­
coltura e dava modo anche ai non nobili di adornare
con altisonanti titoli feudali la loro partecipazione ideale
al governo aristocratico del paese. In grazia di quest’isti­
tuzione, metà della popolazione agiata nella buona stagio­
ne dimorava in qualità di ospitante o di ospitata in quelle
residenze ufficiali e non ufficiali delle più belle regioni,
e ci viveva come gli antichi dèi e semidei del tempo feu­
dale, ma senza le loro faide e le loro fatiche guerresche,
nella più profonda pace.
In una di queste località, Salomon Landolt, all’incirca
nel suo venticinquesimo anno, s’incontrò con la giovane
Salome. Ambedue erano lontanamente imparentati con
la famiglia che li ospitava, ma per due parti opposte,
cosicché, pur non potendosi considerare parenti, prova­
vano però un delicato senso di affinità. Essi furono inoltre
oggetto di allegri commenti per l’assonanza del loro no­
me e si verificò più d’uno scherzo a loro non sgradito
quando accadeva che ad una chiamata si voltassero su­
bito ambedue, per accorgersi poi, arrossendo, che si al­
ludeva all’altro. Ambedue ugualmente belli, vivaci ed
entusiasti, parvero, ad amici benevoli, essere fatti l’un
746 NOVELLE ZURIGHESI

per l’altro, così che un’unione non sembrava senz’altró


impossibile.
È vero che Salomon non si trovava ancora in grado di
fondare una casa propria, anzi la navicella della sua vita
incrociava ancora indecisa davanti al porto, senza pe­
netrarvi né prendere il largo. Egli aveva a suo tempo fre­
quentato la scuola militare francese di Metz, per adde­
strarsi nell’ingegneria e nell’artiglieria, ma s’era poi de­
dicato piuttosto all’architettura civile, con la quale si
proponeva di servire un giorno la città natale. Era andato
a Parigi con la stessa intenzione, ma regolo e compasso
e quell’eterno misurare e far computi s’eran rivelati trop­
po noiosi per il suo spirito libero e per il suo animo gio­
vanilmente impetuoso, ed egli s’era dedicato all’innata
inclinazione a disegnare, abbozzare e dipingere, mentre,
vedendo ed ascoltando direttamente, s’era conquistato
molteplici cognizioni ed esperienze, specie quando pote­
va farlo dal dorso di un cavallo. Purtroppo però non era
ritornato a casa ingegnere o architetto e ciò poco acco­
modava a suoi genitori, le cui evidenti preoccupazioni lo
indussero ad assumere almeno un impiego nel Tribunale
civico, per esser così qualificato ad entrare nel governo.
Spensierato ma gentile e di buoni costumi, se ne viveva
così, lasciando che serietà ed energia rimanessero in lui
lievemente assopite.
Va da sé che la gente commentava l’incerta situazio­
ne del giovane nei riguardi di un eventuale matrimonio,
studiando da ogni lato la faccenda, ben più di quanto
egli pensasse; come i contadini ad ogni inizio d’annata,
quanto più è loro oscuro l’avvenire, tanto più rumorosa­
mente l’accompagnano di numerose massime paesane,
allo stesso modo le madri di figlie da marito rumorosa­
mente discutevano l’innocente mattino della vita di Sa­
lomon.
La graziosa Salome riuscì a sapere soltanto che non si
poteva parlare ancora di speranze sicure e di progetti di
nozze ma che d’altra parte era lecito avviare una rela­
zione anche abbastanza confidenziale. Essa era chiamata
mademoiselle ed era stata educata alla francese, con la sola
IL PODESTÀ DI GREIFENSEE 747

differenza di non esser cresciuta in un convento, bensì


in una libera società protestante, così che non vedeva
qualcosa di sconveniente in un tenue amoretto.
Salomon si lasciò andare ad una simpatia che era pre­
sto sbocciata nel suo cuore aperto, senza peraltro com­
portarsi con insistenza indiscreta. Fu così che, quando
l’uno dei due compariva nell’ospitale castello, l’altro non
ne restava a lungo lontano, e la conseguenza fu soltanto
il divertente gioco dell’indovinello per la gente, che si
chiese: «Si sposano? non si sposano?».
Ma un bel giorno parve che la decisione sbocciasse.
Salomon, che già nella prima giovinezza s’era acqui­
sito svariate cognizioni d’agricoltura e le aveva con pas­
sione ampliate nei suoi viaggi, indusse il padrone del po­
dere a piantare alberi di ciliegio in un prato, su un pen­
dio soleggiato. Portò egli stesso le esili pianticine e si di­
spose a piantarle di propria mano. Vi era fra esse una
qualità nuova di ciliegie bianche, che voleva disporre al­
ternandone le fila con quelle rosse, e poiché si trattava di
cinquanta piantine, era un lavoro da esigere, intera, una
di quelle brevi giornate primaverili.
Salome non volle dal canto suo rinunciare a esser pre­
sente ed anche, se possibile, a dare una mano, poiché,
come disse ridendo, avrebbe ben potuto sposare un agri­
coltore e le conveniva quindi imparare per tempo simili
cose. Si recò dunque, la testa riparata da un cappello ad
ampie tese, a quel prato piuttosto lontano e assistette al
lavoro, facendo con zelo da aiutante. Salomon misurò
le linee dritte per i filari, poi le distanze fra i singoli al­
berelli, mentre Salome l’aiutava a tendere le corde e a
fissare i piuoli. Scavò le buche nella terra molle proprio
come le voleva, e Salome tenne intanto ritti i teneri vir­
gulti, mentre egli tornava a riempir la buca, rassodando
ben bene il terreno all’intorno. Poi Salome attinse l’ele­
mento vivificante con l’annaffiatoio da una botte che
un garzone riempiva d’acqua andando e venendo, ed
annaffiò le piantine con l’abbondanza ordinatale da Sa­
lomon.
Verso mezzodì, quando l’ombra girò attorno agli al­
748 NOVELLE ZURIGHESI

berelli di nuova piantagione, i padroni del castello man­


darono per ischerzo alla coppia operosa uno spuntino
campestre, come si usa fare per i contadini; ed essi lo
trovarono gustosissimo, mangiandolo seduti sul verde
prato, anzi Salome affermò di poter ormai bere qualche
bicchiere di vino al pari di una villanella, dopo che aveva
tanto faticato. Per il vino e per il moto all’aperto conti­
nuato fin verso sera le si accese il sangue, e finì per velare
la luce della sua saggezza, che subì una temporanea
eclisse, come il sole al passaggio della luna.
Salomon continuò la sua opera con serietà e solerzia,
compì il suo lavoro con abilità e precisione, serbandosi di
umor sereno, confidenziale e divertente e mostrandosi
tanto felice, senza per questo lasciarsi mai andare nel­
l’intera giornata ad uno sguardo o ad una parola indiscre­
ta, sicché forse la fanciulla fu pervasa dalla convinzione
che sarebbe stato bello trascorrere insieme a quel com­
pagno, al pari di quella giornata, una vita intera. Una
calda simpatia s’impadronì di lei, e quando l’ultima delle
pianticine fu ben salda nel terreno e non vi fu più nulla
da fare, esclamò con un lieve sospiro: «Così tutto fi-
nisce ! ».
Salomon Landolt, colpito dal tono commosso di quelle
sue parole, la guardò estasiato; ma per il riflesso del sole
vespertino che le illuminava il bel volto, non potè capi­
re se arrossisse di quella luce o di tenerezza ; i suoi occhi
tuttavia superavano quello splendore e i giovani, quasi
senza volerlo, unirono le, quattro mani. Non accadde al­
tro, perché proprio in quel momento sopraggiunse un
garzone a ritirare il rastrello, la zappa, l’annaffiatoio e
gli altri attrezzi.
Se ne andarono sotto mutati auspici attraverso i gra­
ziosi filari di ciliegi da loro piantati. Non potendosi guar­
dare ormai se non con occhi innamorati, i loro incontri
in casa erano più rari e prudenti, e da ciò, ma ancor più
da una certa contentezza che pareva eccitarli e calmarli
ad un tempo, fu ben chiaro che doveva essere accaduto
qualcosa di nuovo.
Salomon non lasciò del resto passare molti giorni; le
IL PODESTÀ DI GREIFENSEE 749
sussurrò una breve allusione, da lei benignamente ac­
colta, e trottò verso Zurigo, col proposito di render possi­
bile presso le due famiglie un fidanzamento.
Sentì però anzitutto il bisogno di aprire il cuore alla
sua diletta in una lettera e, mentre la scriveva, appena
esposta la cosa più urgente, ebbe la bizzarra pensata di
mettere alla prova la saldezza dell’affetto di lei, traccian­
dole un quadro strano e misterioso della sua origine e
delle sue possibilità future.
Quanto alla prima, essa era in verità, per il lato ma­
terno, piuttosto curiosa.
Sua madre, Anna Margaretha, era figlia del generale
di fanteria olandese Salomon Hirzel, signore di Wülflin-
gen, il quale, coi suoi tre figli, riscuoteva una forte pensio­
ne dai Paesi Bassi e con quella conduceva la sua stramba,
ben nota esistenza nella suddetta giurisdizione, non lonta­
no da Winterthur. Un lupo tenuto a catena all’ingresso,
al posto di un cane da guardia, dava subito ululando e
abbaiando vigile un’idea di quello strano ambiente. Do­
po la morte prematura della padrona di casa e date le
assenze continue del padre, ognuno faceva quel che gli
garbava, e tanto i figli che le tre figliole si educavano da
soli, e naturalmente nel modo più indisciplinato possi­
bile. Solo quando c’era il vecchio generale si ristabiliva
un certo ordine, in ciò almeno, che il tamburo suonava la
mattina con puntualità la sveglia e la sera la ritirata.
Per il resto non c’era regola. La figlia maggiore, la madre
di Landolt, faceva da massaia, e questa mansione impo­
stale ebbe per effetto che essa riuscì la migliore e la più
assennata della famiglia. Però andava anch’essa a caccia
a cavallo con gli uomini, maneggiava la frusta e fischiava
con le dita sino a rompere i tìmpani. Quei signori ave­
vano l’uso di far dipingere sulle pareti delle loro dimore,
con aspetti umoristici, le loro consuetudini ed imprese.
Vi era così in un padiglione anche un affresco in cui il
vecchio generale passa al galoppo per la macchia con i
tre figli e la figlia maggiore già sposata, mentre il piccolo
Salomon Landolt cavalca a lato della bella madre, una
vera famiglia di centauri.
75« NOVELLE ZURIGHESI

Quelle spedizioni a cavallo inseguivano talvolta un


docile cervo addestrato a fuggire davanti ai cacciatori e
ai cani per poi lasciarsi prendere all’ultimo; ma ciò non
era in fondo che un esercizio equestre ; la vera caccia ve­
niva pure coltivata senza posa, alternandosi con ritrovi
conviviali e con innumerevoli giuochi scherzosi che si
estendevano persino all’esercizio della giurisdizione.
Malgrado la vita disordinata e selvatica, la madre di
Landolt si serbò, come si disse, saggia di mente, serena
di carattere e di buoni costumi e fu più tardi una sicura
e fedele amica dei suoi figlioli, mentre la sua casa pa­
terna andò in rovina.
Morto nel 1755 il vecchio generale e quando Anna
Margaretha dovette occuparsi della propria casa, i figli
s’abbandonarono ad una vita sempre più sregolata. Le
cacce degenerarono in risse coi padroni dei poderi limi­
trofi per questioni di bandite ed in maltrattamenti dei
sudditi. Assalirono, mentre passava a cavallo per il loro
bosco, un parroco che aveva predicato dal pulpito con­
tro di loro, lo costrinsero, inseguendolo a frustate, a
traversar le acque del fiume Toss, risalendo per la
campagna, finché crollò a terra col suo ronzino ed in­
vocò il perdono inginocchiato e tremante. Ed ai messi
della giustizia, venuti a farsi sborsare la forte multa lo­
ro imposta per quell’impresa, prepararono un’imboscata
di uomini travestiti che nel ritorno ritolsero loro il de­
naro.
Alle assurde dissipazioni s’accompagnò la mania del
giuoco, alla quale si dedicavano per intere settimane
ininterrottamente. Spogliavano d’ogni bene quanti vi si
lasciavano indurre e sedurre, ma poi concedevano la ri­
vincita sinché avevan perduto con quegli sciagurati più
del doppio, per conservare il proprio onore di cavalieri.
Tutto però ebbe una ben triste fine: l’uno dopo l’altro
dovettero abbandonare il castello e l’ultimo fu costretto
a cedere anche in rapida successione i diritti di signoria
e i tributi, i boschi e le campagne, la casa e la fattoria, per
poi fuggire. Uno dei fratelli decadde cosi miseramente
da dover essere ricoverato in una casa di correzione stra-
IL· PODESTÀ DI GREIFENSEE 75 1

niera; il secondo visse solitario per qualche tempo in


una capanna fra i boschi, ma poi, tormentato dai de­
biti e consumato dalle malattie, lasciò quel misero ri­
fugio per sparire misteriosamente lontano; il terzo cer­
cò salvezza arruolandosi mercenario, ma finì male egli
pure.
È vero che il loro naturale umorismo non abbandonò
mai quei signori sino all’ultimo istante. Prima di sacri­
ficare il castello fecero dipingere sulle pareti dal loro
rustico pittore tutte le scene del decadimento e le loro
sciagurate imprese, sino a quell’ultimo giudizio da loro
esercitato sul parroco. Dietro la stufa spiccavano tutti
i titoli di investitura e i privilegi ceduti, mentre su
una radura boschiva illuminata dalla luna volpi, lepri
e tassi giocavano con le insegne della perduta signoria.
Sopra la porta si fecero ritrarre essi stessi da tergo,
mentre escono buoni ultimi, coi cappelli sotto il braccio,
dai propri territori, passando dignitosamente oltre la
pietra di confine. In basso sta scritta, alla rovescia, la
parola « amen ! ».
Mentre Salomon Landolt esponeva queste singolari
avventure nella sua lettera a Salome, passava poi ad
esprimere la melanconica preoccupazione che il sangue
sciagurato e le sorti di quei tre zìi potessero rivivere in
lui, dopo aver saltato soltanto per una benigna stella la
sua nobile genitrice. Tanto più, ne deduceva, l’infausto
astro avrebbe dovuto quasi naturalmente risorgere con
lui. Era naturalmente suo fervido proposito lottare in
piena coscienza contro tutto questo, però era costretto a
confessarle d’aver già perduto al giuoco, durante i suoi
viaggi, notevoli somme, pagate poi soltanto col segreto
intervento della madre. Egli aveva pure tenuto cavalli
con mezzi non suoi e all’insaputa del padre, per più di
quel che comportasse il suo patrimonio e, quanto a de­
naro contante, era quasi certo che non l’avrebbe mai
saputo maneggiar come si conviene al capo di un’azien­
da domestica bene ordinata. Persino le doti piuttosto al­
legre degli zii, la smania di cavalcare e cacciare, di scher­
zare e di divertirsi, si ripetevano in lui, sino al capriccio di
752 NOVELLE ZURIGHESI

sporcar le pareti, tanto che già da fanciullo s’era compia­


ciuto ad illustrare, con cento figure di guerrieri a carbone
e a sanguigna, le pareti del castello Wellenberg, dove
suo padre era stato podestà.
Egli riteneva da uomo leale di non poter celare questi
gravi timori alla molto amata mademoiselle Salome, di
dover anzi darle occasione di maturamente riflettere l’im­
portante passo oltre la soglia di un avvenire ancor velato,
sia che volesse affrontare con lui il tentativo, con l’aiuto
della divina provvidenza, sia che volesse agire con giusta
e lodevole prudenza e sottrarsi con piena libertà della
sua degna persona ad un oscuro destino.
Appena la lettera fu spedita, Salomon Landolt deplo­
rò d’averla scritta, giacché man mano che la compilava
il suo contenuto si era fatto più grave e per così dire più
attendibile di quanto avesse da prima pensato : in fondo
le cose stavan proprio come le aveva esposte, benché egli
andasse incontro all’avvenire di buon animo. Ma ormai
era troppo tardi per un mutamento ed alla fine egli
senti il bisogno di misurare dall’esito la vera simpatia di
Salome.
Questo non si fece aspettare. La fanciulla aveva subito
confessato alla madre quel che era accaduto fra lei e
Salomon; la novità era stata discussa col signor padre e
le nozze dichiarate non desiderabili, anzi pericolose, date
le incerte possibilità del simpatico ma anche incompreso
giovanotto. Quando poi giunse la lettera, i genitori escla­
marono: «Ha ragione, più che ragione! Lode a lui per
la sua leale schiettezza!».
La buona Salome, per la quale un’esistenza tutta di
preoccupazioni o di infelicità era inconcepibile, pianse
per un giorno intero lagrime amare e scrisse poi all’im­
prudente scandagliatore del suo cuore una breve let­
terina: Era impossibile! era impossibile per molteplici
ed importanti ragioni ! Egli non doveva dar seguito alla
vicenda, ma conservarle però la sua amicizia, come ella
gli avrebbe dedicato sempre la sua con cordialissima
disposizione e fedeltà.
Dopo poche settimane si fidanzò con un ricco signore,
IL PODESTÀ DI GREIFENSEE 753

che per stato e per carattere non lasciava dubbi circa la


sicurezza di un ben fondato avvenire.
Landolt ne fu alquanto addolorato per una mezza
giornata, ma poi scosse da sé il rammarico e si persuase
anzi serenamente di essere sfuggito ad un pericolo.

IL PULCINELLA

Il nome dell’innamorata che egli tra sé chiamava Pul­


cinella può essere riferito senza abbreviazione, perché
la famiglia è ormai estinta. Essa portava il nome di bat­
tesimo piuttosto antiquato di Figura, ed era una nipote
del geniale consigliere Leu, membro del Consiglio della
Riforma: si chiamava dunque Figura Leu. Era una crea­
tura elementare, i cui capelli dorati e crespi si adattavano
solo con estremi sforzi alle acconciature di moda e face-
van guerra quotidiana al parrucchiere di casa. Figura
Leu viveva quasi soltanto delle danze e dei salti e degli
infiniti scherzi di cui si compiaceva con o senza spettatori.
Solo verso il tempo della luna nuova si faceva un po’
più taciturna; i suoi occhi, in cui s’annidava l’allegria,
assomigliavano allora ad un’acqua azzurrastra, nella
quale i pesciolini d’argento si tengono invisibili sul fondo,
balzando alla superficie una volta soltanto, quando per
esempio un moscerino sfiora troppo da vicino lo specchio
dell’acqua.
Di solito però il suo divertimento cominciava già la do­
menica mattina. A suo zio, quale membro del cosid­
detto Consiglio della Riforma, cioè di quell’autorità che
vigilava sul miglioramento della religione e dei costumi,
spettava il compito di concedere a coloro che intendessero
lasciar la città nel corso della domenica il permesso di
uscire, sotto forma di una marca da consegnarsi alle
guardie delle porte. A tutti gli altri, severi regolamenti
per la moralità vietavano di abbandonare la città nei
giorni di rito ecclesiastico. Il degno signore, di idee aper­
te, era il primo a ridere in segreto di quella sua funzione,
quand’essa non lo impacciava troppo, giacché in certe
754 NOVELLE ZURIGHESI

domeniche si presentavano fin cento persone a tentare


sotto mille pretesti di spingersi all’aperto. Ancor più ci si
divertiva madamigella Figura, la quale disponeva i postu­
lanti nell’ampia anticamera in gruppi distinti, a secon­
da delle motivazioni, per guidarli poi, a divisi per ca­
tegoria, nello studio del consigliere. Però le categorie non
le formava in base ai motivi da loro addotti, bensì a quelli
effettivi, che essa leggeva subito in volto alla gente. Riu­
niva per esempio infallibilmente i garzoni, gli appren­
disti e le domestiche che, smaniosi di recarsi ad una fiera
o ad un ballo per la mietitura in una località lontana,
adducevano di doversi recare da un medico forestiero
per i loro padroni malati. Questi eran tutti muniti, come
contrassegno, di un recipiente vuoto per medicine, un va­
setto da unguento, una scatola di pillole o addirittura
una bottiglietta piena d’acqua e, per ordine dell’allegra
giovinetta, dovevan tenere bene in mostra simili oggetti
al momento in cui eran ricevuti. Veniva poi la schiera
degli ometti modesti, che, fruendo dei loro privilegi civici,
desideravano andare a pescare su una riva tranquilla ed
avevano già in tasca le scatole piene di vermi per l’esca.
Questi sfoggiavano svariati affari, come battesimi, riscos­
sioni di eredità, visita ad un capo di bestiame e così via.
Seguivano tipi ambigui, noti per gli stravizi, che mira­
vano a raggiungere in qualche angolo remoto del paese
una banda di giocatori o quanto meno una partita di
birilli o una compagnia di beoni; venivano infine anche
gli innamorati, che davvero aspiravano a lasciare le mura
per cogliere fiorellini e guastare nei boschi coi loro tem­
perini la corteccia dei tronchi.
Essa ordinava con perizia queste categorie e lo zio le
trovava così ben suddivise, da poter poi sceglierne senza
perder molto tempo quelli che a suo criterio intendeva
lasciar uscire una volta tanto e respingere invece gli altri,
perché non corresse fuori porta troppo numerosa folla.
Salomon Landolt sentì parlare dell’allegra rivista te­
nuta ogni domenica mattina da Figura Leu. Gli venne
voglia di tentare l’avventura e, benché egli come uffi­
ciale potesse senz’altro entrare ed uscire liberamente,
IL PODESTÀ DI GREIFENSEE 755
una volta cavalcò sino alla casa Leu ed entrò poi, con
tanto di sproni e di stivali, nell’atrio, dove in realtà era
appena finito lo strano ordinamento degli aspiranti alla
passeggiata.
Figura se ne stava sulla scala, già pronta ad andare
in chiesa nell’obbligatorio costume, cioè in veste nera,
con in testa lo scialle monacale prescritto e col sottile
collo marmoreo cinto, come era permesso, da una cate­
nina d’oro. Sorpreso della sua fine e snella figura, Lan-
dolt indugiò un attimo prima di salutare, poi la pregò
con tutta cortesia e con un appena dissimulato sorriso di
indicargli il posto ove mettersi.
Essa gli fece un grazioso piccolo inchino, poi, avendo
compreso dalla su a domanda l’intenzione burlesca, replicò :
— Per quali affari vuol partire il signore?
— Vorrei prendere una lepre per mia madre, perché
ha ospiti questa sera e non ha arrosto ! — rispose Lan-
dolt ostentando disinvoltura.
— Il signore voglia allora mettersi da quella parte — ri­
prese lei non meno seriamente, e gli indicò il gruppo degli
innamorati, che egli subito riconobbe dall’aspetto timido
e tenero di cui già aveva udito le descrizioni. Figura si in­
chinò ancora una volta mentr’egli un poco sorpreso si
univa al gruppo, poi sparì lieve come un fantasma, pian­
tando tutti in asso, e si recò in chiesa. Dopo che se ne fu
andata, Landolt uscì di nuovo pian piano dal vestibolo,
risalì a cavallo e galoppò meditabondo sino alla porta
più vicina, che gli fu premurosamente aperta.
Almeno era fatta la conoscenza con quell’originale ra­
gazza, e questa sembrava pure accettarla; infatti ogni­
qualvolta incontrava Figura, ella riceveva benignamente
il suo saluto, ed anzi talvolta era la prima a fargli un cen­
no allegro, senza badare all’etichetta. Una volta gli com­
parve dinanzi all’improvviso per la strada, come por­
tata dal vento, e gli disse: «Adesso so chi è l’acchiap-
palepri ! Addio, signor Landolt ! ».
Quei modi riusciron particolarmente graditi alla sua
indole schietta ed aperta, e Figura pervase il suo cuore,
già un po’ beccato dal cardellino, di tenera simpatia.
75θ NOVELLE ZURIGHESI

Per avvicinarla cercò di frequentare il fratello, il quale


abitava pure presso lo zio, i due essendo orfani fin da
bambini. Salomon aveva saputo che Martin Leu soleva
prender parte ad un’associazione di uomini e di giovanotti
che si intitolava «Società per la storia patria» e teneva
le sue sedute in una casa al Mercato nuovo.
Erano le teste più ardenti e le menti più ambiziose
nella gioventù delle classi dominanti, che sotto questo
titolo cercavano un avvenire migliore e la liberazione
dal carcere oscuro dei cosiddetti due Stati, cioè del re­
gime ecclesiastico e di quello laico. Si discutevano i prin­
cìpi dell’Illuminismo, dell’educazione, della cultura e
della dignità umana, e soprattutto il tema pericoloso del­
la libertà civile in conversazioni libere ed in conferenze;
e lo si faceva tanto più appassionatamente, in quanto i
signori padri badavano ad evitare ogni realizzazione ec­
cessiva. Era d’altra parte fuor di discussione la sovranità
dell’antica città sul resto del paese: territori e sudditi era­
no stati acquisiti nel corso dei secoli con denaro sonante,
e le pergamene dello stato non erano di un filo diverse
dai contratti d’acquisto d’un privato.
Indagare invece se il diritto legislativo, il diritto di
mutare la costituzione, spettava all’intera cittadinanza
o solo alle autorità, era un divertimento prediletto, an­
che perché bisognava goderne in segreto, essendoci il
boia con la sua ben affilata penna sempre pronto a cor­
reggere. Quando la cittadinanza, designata dai signori
come una delle più difficili, si sollevava d’un tratto, quel­
lo veniva rapidamente messo da parte finché fosse pas­
sata la bufera, ma poi lo si ritrovava ritto, come l’omino
del barometro, e l’autorità tornava ad essere la stessa
belva mistico-astratta eletta solamente da Dio.
I giovani in lotta con tali idee avevano bisogno di uno
spirito tanto più ardente ed insieme austero, dal quale al­
cuni furono anzi trascinati a un rigido puritanesimo. Come
si picchia il sacco per mirare all’asino, così essi si scaglia­
vano contro il lusso e la smania di godimento, ma in un
senso del tutto diverso dai regolamenti per la moralità.
Non volevano la modestia del suddito cristiano, bensì la
IL PODESTÀ DI GREIFENSEE 757
virtù del rigido repubblicano. Sorsero così ben presto
due fazioni, l’una dei tolleranti spensierati, l’altra dei
foschi asceti che li sorvegliavano e li rimproveravano.
Già avevano espulso uno dei membri perché portava un
orologio d’oro e non aveva voluto disfarsene, altri furono
ammoniti e tenuti sotto osservazione per il loro modo di
vivere troppo sfarzoso. Il mentore supremo era il signor
professor Jakob Bodmer, già superato quale letterato e
purificatore del gusto, ma quale politico e moralista uo­
mo di tanta saggezza e di così illuminati e liberali sensi,
come pochi ce n’erano allora e nessuno ne esiste oggigior­
no. Egli sapeva bene di esser considerato dagli ortodossi e
dai reggenti un seduttore della gioventù, ma era tenuto
in troppa stima perché dovesse nutrir timori, mentre
d’altra parte gli facevan da guardia d’onore i giovani del
partito della rigida osservanza.
Un giorno Salomon Landolt si fece introdurre in quel­
la società e ancor prima che cominciassero le discussioni
fece la conoscenza del giovane Leu, che subito simpatizzò
con lui. Dovettero però tenersi tranquilli perché quella
sera stessa era intervenuto per una mezz’ora il professor
Bodmer in persona, per leggere ai giovani un suo saggio
di argomento etico e per assegnare loro un compito ana­
logo. Landolt non era molto attento, perché i suoi pen­
sieri andavano a passeggiare ben lontani. Guardava di
tanto in tanto il fratello di Figura Leu, che sembrava an­
noiarsi ancor più di lui ed ambedue si sentirono sollevati
quando la discussione vera e propria fu chiusa.
Venne però allora il momento critico. Gli austeri rite­
nevano questione d’onore rimanere uniti in vicendevoli
conversari almeno per una mezz’oretta, mentre i frivoli
erano smaniosi di svignarsela per tempo e di godersela
ancora un pochino in qualche locanda. La ritirata clan­
destina fu notata con occhiatacce di traverso, con di­
sprezzo o sdegno, a seconda del valore dei fuggiaschi.
Dopo che parecchi furono spariti così alla chetichella,
anche Martin Leu tirò per la manica il candido Landolt,
invitandolo sottovoce a bere con lui un buon bicchiere.
Landolt lo seguì tranquillamente, ma fu molto stupito
75« NOVELLE ZURIGHESI

quando d’un tratto il compagno attraversò diagonal­


mente la strada trascinandoselo dietro, risali a corsa la
via delle Pietre, poi, attraversando l’angusto e labirin­
tico quartiere dei miserabili, s’avviò verso il vicoletto
scuro del Leone e di qui passò all’altezza della Casa
Rossa sino alla stradetta degli Asini, come un cervo in­
seguito traversa una radura del bosco, girò attorno al ma­
cello e, percorrendo il Ponte Basso e la piazza del Vino,
seguì la via del Pane e quella della Chiave, all’Uomo
Rosso tagliò la Strada delle Cicogne, percorse quella del
Cammello e infine, raggiunta di nuovo la Limmat, voltò
a destra ed entrò nel bel palazzo nuovo della Corpora­
zione dei vignaioli.
Ansanti per la corsa e per le risa, i due giovanotti si
fermarono, reggendosi alla balaustrata di ferro battuto
che ancora oggi attira lo sguardo, quale superba traccia
dell’antica arte dei fabbri. Leu informò il nuovo amico
della situazione, spiegandogli come fosse stato necessario
con quella corsa a zig-zag sottrarsi agli sguardi curiosi.
Landolt, nemico di ogni genere di ipocrisia, molto si
rallegrò di quel tiro, specialmente perché veniva dal fra­
tello di colei che tanto gli piaceva. Essi entrarono quindi
lietamente nel salone centrale ben illuminato, alle cui
pareti pendevano numerosi tricorni e spade degli avven­
tori già seduti lungo le grandi tavole.
Salsiccette arrostite, pasticci di carne, vini moscati e di
malvasia, ecco quel che stava gustando una metà della
«Società per la storia patria» ivi ricongiunta. Così di­
chiaravano almeno le esatte indicazioni dell’informatore
del gruppo catoniano, il quale senza farsi scorgere aveva
seguito per tutte le straducole i due ultimi fuggiaschi ed
ora, col cappello calcato sulla fronte, stava sulla porta
non perdendo di vista neppure un piatto. E tutto questo
prima della cena che li aspettava a casa e dopo avere ascol­
tato un discorso del gran padre Bodmer « Sulla necessità
del dominio di sé quale lievito in un libero Stato bor­
ghese ! ».
I giovani epicurei non si lasciarono per nulla distur­
bare; l’amicizia, vera virtù virile, celebrò anche qui i
IL· PODESTÀ DI GREIFENSEE 759
suoi trionfi, giacché Martin Leu strinse con Salomon
Landolt un patto d’amicizia per tutta la vita, senza im­
maginare che quegli mirasse a sua sorella, e che fosse del
resto uomo piuttosto sobrio, il quale poco si curava di
simili piaceri per se stessi.
Le conseguenze dello stravizio non si fecero molto at­
tendere. I più austeri, senza informarne Bodmer, si mi­
sero all’opera e non sdegnarono di ricorrere ad una de­
nuncia segreta presso quei poteri statali, di cui pur vole­
vano attenuare i rigori. La faccenda arrivò così alla su­
prema autorità per i costumi, al Consiglio della Riforma,
quale argomento da trattarsi in via confidenziale. Fu
ritenuto peraltro opportuno, essendo i peccatori rampolli
di famiglie stimate ed anche giovanotti d’ingegno, chia­
marli ad un’ammonizione benignamente orale, così che a
ciascuno dei membri del Consiglio furono assegnate in
via riservata una o due persone per il riservato espleta­
mento della questione.
Al signor Leu senior toccò, come era giusto, il nipote
ed insieme il suo complice specifico Salomon. Quando
questi ricevette un invito a pranzo del signor Consigliere
per una domenica alle dodici in punto, era già stato in­
formato dal nipote di quanto lo aspettava. Percorse con
viva impazienza le strade deserte, di dove il popolo si
teneva lontano per rigida osservanza della festa, e vide
che per le strade, le piazze ed i pontili silenziosi s’incro­
ciavano soltanto numerosi cesti ben pieni di pasticcini
portati da servitori, simili a severi navigli olandesi da
guerra. Salomon tenne dietro da lontano, con crescente
eccitazione, ad una di quelle navi di cui conosceva il pi­
lota, giacché sperava di vedere Figura Leu, ma d’altra
parte correva pericolo di prendersi una lavata di capo
in sua presenza.
— Al signore tocca una predica ! — esclamò la ragazza
venendogli incontro in corridoio — Ma si consoli: ho
trasgredito anch’io i regolamenti: guardi un po’ qui! —
Gli si mise dinanzi con grazia ed egli vide che indossa­
va un abito di seta attillato, con dei bei merletti ed una
collana con gemme luccicanti.
760 NOVELLE ZURIGHESI

— L’ho fatto — aggiunse — perché i signori non ab­


biano a sentirsi mortificati davanti a me quando verran­
no a tavola dopo il predicozzo. Arrivederci ! — Così di­
cendo sparì rapida come era comparsa. In realtà i famo­
si regolamenti vietavano alle donne tutto quanto Figura
sfoggiava sulla sua snella persona.
Salomon Landolt venne accompagnato prima nello
studio del signor consigliere, dove trovò Martin Leu
che gli strinse la mano ridendo.
— Egregi signori ! — cominciò lo zio, dopo che i gio­
vanotti si furono rispettosamente accomodati di fronte a
lui — Due sono i punti di vista, partendo dai quali vorrei
sottoporvi la ben nota faccenda. In primo luogo non è
sano inghiottir prima della cena e ad ora insolita cibi e
bevande, specie se queste provengono dal meridione, av­
vezzando così il palato a frequenti ghiottonerie. Tanto
più poi dovrebbero astenersi da tali leccornie giovani
ufficiali, giacché esse rendono un uomo precocemente
corpulento ed inadatto al servizio. In secondo luogo poi,
se questo è necessario e se i signori hanno bisogno di uno
spuntino, è a parer mio indegno di giovani cittadini ed
ufficiali svignarsela alla chetichella e traversare a corsa
cento straducole oscure. Senza parole di scusa, senza
sotterfugi e senza pudori, i veri uomini fanno quello di
cui credono poter assumere la responsabilità di fronte
a se stessi ! Ma ora andiamo presto a tavola, altrimenti
la minestra si raffredda !
Figura Leu accolse i tre nella sala da pranzo, rappresen­
tando con scherzosa solennità la parte della padrona di
casa, poiché lo zio era vedovo. Questi osservò con stupore
il luccichio dei suoi ornamenti, ed essa gli spiegò senz’al­
tro di voler offendere intenzionalmente la legge per non
lasciare solo alla berlina il suo povero fratellino. Lo zio
rise cordialmente di quella trovata, mentre Figura col­
mava il piatto di Salomon Landolt a tal punto che questi
dovette protestare.
— La predica è già tanto efficace? — gli disse lei con
uno sguardo scherzoso.
Anche in lui si destò allora il buon umore e diventò
IL PODESTÀ DI GREIFENSEE 761

cosi allegro e divertente con mille trovate, che l’argentino


riso di Figura echeggiò quasi ininterrotto, mentre a lei
cosi intenta non rimase più tempo per escogitare altri
scherzi. Solo il consigliere gli diede talvolta il cambio,
rievocando dalla sua lunga esperienza farse bizzarre, spe­
cialmente casi caratteristici della vita d’ufficio e dell’at­
tività circoscritta ma pur sempre appassionante del clero.
Vennero alla luce anche con comici esempi i profondi
influssi delle brave massaie sul Consiglio e sulla Chiesa, e
ben si capiva che il signor consigliere non trascurava di
leggere il suo Voltaire.
— Signor Landolt, — esclamò quasi appassionatamen­
te Figura — noi due non ci sposeremo mai, perché non
ci tocchi simile vergogna! Datemene parola! — e così
dicendo gli porse la mano, che Salomon subito afferrò e
strinse.
— Siamo d’accordo ! — replicò ridendo, ma non senza
batticuore, poiché pensava il contrario, e vedeva nelle
parole della bella fanciulla una specie di mascherato
invito o incoraggiamento. Anche lo zio rise, ma diventò
subito melanconico quando si fecero udire le campane
della chiesa, col primo invito alla predica pomeridiana.
— Ci siamo di nuovo coi regolamenti ! — esclamò. Era
infatti proibito prolungare anche in famiglia il pranzo del
mezzodì oltre l’ora della chiesa, mentre già senza che se
ne avvedessero erano venute le due. Guardarono tutti
immelanconiti la tavola ancor colma; Martin, il nipote,
aprì svelto un’altra bottiglia, mentre il consigliere s’al­
lontanava per indossare la marsina per la chiesa, giacché
il suo grado gl’imponeva di recarsi alla cattedrale. Ri­
comparve tosto in talare nero, col gran collare inamidato
sotto il mento e il cappello a cono in testa. Voleva sol­
tanto vuotare il suo bicchierino, ma sentendo Landolt
raccontare un nuovo e allegro tiro, sedette un momento
e la conversazione riprese per interrompersi solo allorché
allo scampanìo della chiesa seguì un improvviso silenzio.
Il signor Leu, lo zio, disse sconcertato:
— Ormai è troppo tardi ! Martin, versa ! Ce ne stare­
mo qui nascosti finché è passata l’ora !
7θ2 NOVELLE ZURIGHESI

Figura Leu batté le mani esclamando allegra:


— Ora siamo tutti peccatori e di qualità ! Facciamoci
un brindisi!
Quando alzò sorridente il bicchierino di cristallo col
vino ambrato ed un raggio del sole pomeridiano fece bril­
lare per un attimo non solo il cristallo e gli anelli della
mano, ma anche i capelli dorati, le tenere rose delle
guance, la porpora della bocca e le gemme della collana,
ella apparve come in un’aureola, simile ad un angelo del
cielo che celebri un sacro rito.
Persino il fratello spensierato fu colpito da quella vi­
sta edificante, e avrebbe voluto abbracciare la radiosa
sorellina, se non avesse dovuto cosi distruggere la bella
visione. Anche lo zio guardò la fanciulla con compiacen­
za e soffocò un nascente sospiro di preoccupazione per
il suo destino.
Quando fu trascorsa un’altra oretta e scese la sera, il
consigliere propose ai due giovani di recarsi alla pas­
seggiata al campo di tiro, dove fra i due corsi d’acqua
che lo circondano si stendono bei viali alberati.
— A quest’ora — disse — vi passeggia il nobile Bod­
mer, circondato da amici e da scolari, e prodiga parole
eccellenti che s’ascoltan con profitto. Accompagnandoci
a lui, ristabiliremo la nostra buona reputazione ; nel frat­
tempo Figura potrà cercare le sue compagne della do­
menica, che sogliono aggirarsi negli stessi paraggi prima
di mangiare le ciliegie candite che innocentemente si
offrono l’una all’altra.
Obbedendo a quel consiglio, gli uomini si recarono a
quella passeggiata, dove gruppi diversi camminavano su
e giù come masse serrate. Fra di essi v’era realmente
Bodmer col suo seguito, che, ambulando, discuteva la
differenza fra ideale e reale, fra la repubblica di Platone
e una civica repubblica elvetica, e ciò facendo alludeva
a tutti gli eventi possibili e designava con inequivocabili
colpi di traverso molteplici stoltezze ed insufficienze.
I signori Leu e Landolt, dopo i doverosi saluti e com­
plimenti, s’unirono al gruppo bodmeriano procedendo
poi con esso. Salomon Landolt per la sua indole vivace,
IL PODESTÀ DI GREIFENSEE 7θ3
ed anche perché non pervaso da grande attenzione, li
precedette presto di alcuni passi, mentre Bodmer passava
al tema dell’educazione pubblica basata su determinati
criteri statali.
Ad un gruppo di giovani dame, che provenendo da un
viale secondario stava attraversando quello principale,
faceva da avanguardia con analoga impazienza Figura
Leu ; Landolt fece un profondissimo inchino e tutti i cava­
lieri alle sue spalle sollevarono i tricomi ed eseguirono
una riverenza facendo risalire a tergo gli spadini. Figura
si inchinò con austerità inimitabile e con grande cerimo­
niosità e tutte le damigelle che la seguivano, circa venti
compagne, imitarono il suo esempio.
Mentre Bodmer stava criticando un manuale di Base­
dow, il corteo delle signorine gli venne di nuovo incontro,
questa volta di fronte, e ne seguì un pari scambio di sa­
luti, che durò ancor di più, prima che fossero sfilate tutte.
Passando all’utilità del teatro, argomento trattato da
Bodmer non senza allusione ai propri tentativi dramma­
tici, fu interrotto dal medesimo cerimonioso incontro,
così che non ci fu fine alle scappellate ed agli inchini,
quasi con fastidio del degno vegliardo.
Per vero dire la colpa risaliva in parte a Salomon
Landolt, il quale, da buon cacciatore e soldato, sapeva
non perdere d’occhio i movimenti delle forze nemiche e
avviava i dotti signori, senza che essi se ne avvedessero,
per quelle vie che dovevano condurre ai rinnovati in­
contri. Figura d’altra parte interveniva ogni volta così
sicura e puntuale coi suoi sperticati inchini, che egli
non poteva pentirsene. E quella giornata, quando fu tra­
scorsa, gli parve la più bella che mai avesse vissuta.
L’allegra ragazza non gli usciva ormai più di mente,
ma la calma serena da lui serbata un tempo con Salome,
il cardellino, era ormai sparita, ed ogni volta che rima­
neva a lungo senza vederla, lo coglieva tristezza e timore
di dover trascorrere la vita senza Figura Leu. Anch’essa
sembrava cordialmente affezionata; gli facilitava i ten­
tativi di avvicinarla e lo trattava da buon camerata sem­
pre disposto agli scherzi ed accessibile ad ogni raggio di
764 NOVELLE ZURIGHESI

buon umore. Cento volte gli appoggiò una mano sulla


spalla e gli mise perfino il braccio intorno al collo; ma
appena egli tentava di prenderle confidenzialmente la
mano, essa la ritraeva quasi di furia, e se appena osava
una paroletta tenera o uno sguardo troppo eloquente,
essa lo lasciava passare senza curarsene. Talvolta si per­
metteva perfino contro di lui accenni di scherno per cose
di nessun conto, ed egli li tollerava in silenzio, non accor­
gendosi però nel suo imbarazzo che essa gli aveva in­
tanto lanciato un caldo sguardo pieno di simpatia.
Lo zio ed il fratello notavano bensì quei singolari rap­
porti, ma non si inframmettevano, accettando i modi
della ragazza come qualcosa di non modificabile e cono­
scendo d’altra parte l’indole assolutamente leale ed ono­
revole di Salomon.
Un giorno tuttavia quei rapporti vennero a chiarirsi.
Salomon Gessner, il poeta, al sopravvenir dell’estate ave­
va inaugurato la sua dimora di servizio nel bosco della
Sihl, di cui gli era stata affidata la custodia e la dire­
zione dai suoi concittadini. Se egli abbia veramente esple­
tato di persona la sua funzione di guardia forestale non
si può ormai più stabilire; certo si è che in quella dimora
estiva poetò e dipinse e allegramente se la spassò con
amici che spesso lo visitavano. Questo secondo Salomon
che compare nelle nostre storie era allora nel fiore della
sua vita e della sua fama già diffusa in tutti i paesi;
accettava con la modestia e la bonarietà propria soltanto
degli uomini veramente capaci quanto era meritato e
giusto di tale gloria. Gli idilli di Gessner non sono lavori
deboli e insignificanti, ma, nell’àmbito del proprio tem­
po, i cui limiti nessuno che non sia un eroe può trascen­
dere, essi sono piccole opere d’arte complete e di perfetto
stile. Noi ora non ce ne curiamo quasi più, senza pen­
sare a quello che fra mezzo secolo si dirà di tutto quanto
si scrive ora quotidianamente.
Ad ogni modo l’atmosfera che circondava quest’uomo
quando egli viveva nella sua casa fra i boschi, era vera­
mente poetica ed artistica, e la sua attività lieta e molte­
plice, unita alla sua schietta arguzia, suscitava sempre
IL PODESTÀ DI GREIFENSEE 7θ5
una beata serenità. Tanto le sue acqueforti come le inci­
sioni che Zingg e Kolbe trassero dai suoi quadri saranno
tra cento anni merce ricercata dai collezionisti, mentre
noi ora ce le svendiamo l’un l’altro per pochi soldi.
Essendo interessato ad una fabbrica di porcellane,
aveva cercato di essere tra i primi a dipingere con deli­
catezza quei recipienti, e dopo breve esercizio si era as­
sunto ed aveva felicemente portato a termine la decora­
zione di un bel servizio da tè. Il grazioso lavoro doveva
essere inaugurato appunto quel giorno nel bosco della
Sihl; amici ed amiche eran stati invitati alla piccola festa
e la tavola era apparecchiata sotto i più begli aceri in
riva al fiume, dietro cui saliva verso l’azzurro del cielo
estivo, albero dopo albero, il verde pendio della monta­
gna boscosa.
Sulla tovaglia candida e damascata si allineavano
bricchi, tazze, piatti e scodelle, decorati da centinaia di
vignette piccole e grandi, di cui ciascuna era un’inven­
zione, un idillio, un epigramma, ed il loro pregio stava
in ciò, che ogni cosa, ninfe, satiri, pastori, fanciulli, fiori
e paesaggi, era abbozzata con mano lieve e sicura, e che
essi apparivan tutti al giusto posto, non lavoro di un
pittore di fabbrica ma opera di vero artista.
La tavola così adorna era disseminata di chiazze di
sole filtranti attraverso le foglie dentate degli aceri e
danzanti al ritmo sommesso del leggero venticello che
muoveva i rami; pareva che quelle luci eseguissero un
tenero e solenne minuetto.
Il signor Gessner se ne stava già seduto, perso nella con­
templazione di quel giuoco leggiadro, quando giunse la
prima carrozza con gli ospiti attesi. Vi sedeva il saggio
Bodmer, il Cicerone zurighese, come soleva chiamarlo
Sulzer, ed insieme il canonico Breitinger, che nei suoi
giovani anni aveva combattuto con lui la guerra contro
Gottsched.1 I due però non sedevano al posto d’onore,
I. Lo scrittore Johann Christoph Gottsched (1700-1766), seguace
di Wolff e dell’Aufklärung, promosse una riforma della poesia,
dandole norme e regole fisse, per sottrarla alla secentesca Form­
losigkeit (assenza di forme). Dominò dal 1727 al 1740, ma contro
766 NOVELLE ZURIGHESI

perché avevano condotto con sé le loro rispettabili con­


sorti. Altre carrozze recarono altri amici ed eruditi che
tutti parlavano un loro gergo straordinariamente gaio ed
arguto, ravvivato da un miscuglio di preziosità letteraria
e di semplicità elvetica, ovvero, se si vuole, di soddisfatto
orgoglio borghese.
Un’ultima carrozza era affollata di fanciulle, fra cui
Figura Leu, ed accompagnata a cavallo da Martin Leu
e da Salomon Landolt.
Tutte quelle degne e belle persone si aggiravano poco
dopo sotto gli alberi in grande letizia; le porcellane di­
pinte furono ammirate e lodate, ma non passò molto
tempo che Salomon Gessner diede spettacolo insieme a
Figura Leu, rappresentando la scenetta di uno sciocco
pastore che viene istruito nella danza da una pastorella.
Lo fece con tanta spontanea allegria che il buon umore
divenne generale e la signora Gessner, la bella moglie
nata Heidegger, durò fatica a indurre finalmente la com­
pagnia a prender posto per fare onore a quel che aveva
preparato agli ospiti.
La tranquilla conversazione che andò man mano av­
viandosi fu alimentata da uno di quegli entusiasti che
non possono fare a meno di render pubblico ogni fatto
personale. Questi aveva già scovato le vicende più recenti
della biografia gessneriana, non forse senza il concorso
dell’eccellente consorte. Erano giunte da Parigi parecchie
lettere. Rousseau esprimeva lusinghieri giudizi su Gessner
al signor Huber, suo traduttore, ed assicurava di non po­
tersi più staccare dalle opere gessneriane. Diderot desi­
derava persino far pubblicare in un unico volume alcuni
suoi racconti ed i nuovissimi Idilli di Gessner. Che Rous­
seau si entusiasmasse per l’ideale stato di natura di quel
mondo idillico non era in fondo straordinario; ma che
proprio il grande realista ed enciclopedista aspirasse al
piacere di presentarsi sotto braccio all’ingenuo poeta
idilliaco, sembrava un completamento veramente essen-
di lui si levarono, fra gli altri, gli svizzeri Bodmer e Breitinger,
accusandolo d’insensibilità artistica e di ridurre la poesia ad eser­
citazione tecnica.
II, PODESTÀ DI GREIFENSEE 767

ziale alle sue lodi e diede occasione, con gran noia di


Gessner, ad ampi commenti.
Con ciò peraltro Bodmer, il Cicerone, perdette il suo
equilibrio, e quel tanto di stoltezza umana, che si na­
sconde anche nel più saggio, prese il sopravvento e ven­
ne a galla, facendo sì che egli vantasse senza posa e senza
riserbo il proprio valore poetico. Ricordò melanconica-
mente i tempi in cui aveva gareggiato in entusiastica ami­
cizia col giovane Wieland, egli, l’anziano già affermatosi,
con quell’astro nascente, abbozzando molti poemi sacri:
ma dove erano ormai finite quelle gioie sublimi?
Appoggiato all’indietro su una poltrona, con le gambe
magroline accavallate, pittorescamente ravvolto per la
fresca aria del bosco in un leggero mantello grigio estivo,
il vecchio s’abbandonava al ricordo melanconico di quel­
le tristi esperienze, quando, l’un dopo l’altro, i serafici
giovinetti Klopstock e Wieland, da lui chiamati a Zu­
rigo, avevano così perfidamente deluso e tradito la sua
amicizia paterna e la sua fraternità poetica, il primo
unendosi ad una brigata di compagni bevitori e dimo­
strando di avere uno spaventoso concetto della vita, in­
vece di lavorare al Messia·, l’altro intento sempre più a
stringer rapporti con donne d’ogni specie e finendo per
diventare il più frivolo e scostumato rimatore che a suo
parere fosse mai vissuto, tanto che Bodmer ebbe un gran
daffare a combattere la vergogna e il dolore con una
fiumana inesauribile di terrificanti esametri in veneran­
di poemi sui patriarchi.
Venne così a parlare delle Prove di Abramo, del Ritorno
di Giacobbe da Haran, della Noachide, del Diluvio e di tutti
i monumenti della sua instancabile attività, recitandone
numerosi passi. Fra l’uno e l’altro inseriva novità ammo­
nitrici provenienti dai suoi diffusissimi carteggi : che per
esempio il Consiglio di Danzica aveva vietato ai giovani
cittadini dilettanti di poesia di quella città l’uso dell’esa­
metro, quale veicolo di carattere rivoluzionario, scon­
veniente agli usi borghesi.
Narrò pure con un sorriso malizioso, quale esempio
caratteristico di amicizia moderna, la notizia confident
γ68 NOVELLE ZURIGHESI

ziale da lui trasmessa ad un amico parroco circa la pub­


blicazione di una satira ostile intitolata Bodmeriade e disse
che l’amico s’era sdegnato che si osasse turbare in modo
così perfido ed odioso il piacere suscitato dalle immortali
opere bodmeriane; si augurava che nessun galantuomo
leggesse mai tale robaccia; il prete curioso però aveva
concluso domandando se non gli avrebbe potuto far avere
per una giornata quella satira, giacché, superato il di­
spetto, la lettura delle sue degne poesie sarebbe senza
dubbio stata doppiamente piacevole.
I presenti sorrisero divertiti di quel parroco troppo cu­
rioso di cui subito indovinarono il nome. Bodmer intanto
per l’agitazione lasciò cadere il mantello sino ai fianchi e si
sporse in avanti, così da assomigliare ad un senatore ro­
mano, esclamando: «Ma in compenso egli perderà la
menzione che gli avevo destinato per la futura ristampa
della mia Noachide : non si è infatti dimostrato sufficiente­
mente degno di entrare nella posterità al mio fianco!».
Spiegò poi a quali amici provati egli avesse già dedi­
cato passi di omaggio nelle sue diverse epopee, e a quali
intendesse prodigare ancora simile favore, in opere mag­
giori o minori, con un numero più o meno grande di versi,
a seconda dell’importanza del personaggio.
Si guardò attorno con occhio scrutatore ed i presenti
abbassarono gli sguardi, gli uni arrossendo, gli altri im­
pallidendo, ma tutti comunque in silenzio, perché il
poeta sembrava passarli seriamente in rivista.
A poco a poco il suo umore s’addolcì; tornò ad ap­
poggiarsi all’indietro, rievocando i giorni lontani e mor­
morò con dolcezza, alzando lo sguardo verso il verde
pendio del monte: «Ah, dove è fuggita l’età dell’oro
in cui il mio giovane Wieland redasse la prefazione ai
nostri canti comuni, aggiungendovi le parole: “È da
ascriversi specialmente alla nostra divina religione, se per
il valore morale dei nostri poemi noi siamo qualcosa di
più che degli Omeri”?».
In quel momento, volgendo un poco lo sguardo, scorse
una strana scena che lo fece balzare in piedi esclamando
severamente :
IL PODESTÀ DI GREIFENSEE 7θ9
«Che cosa fa quella pazza?».
Durante tutto quel tempo Salomon Landolt s’era ag­
girato su e giù sotto le piante, un poco in disparte, medi­
tando le proprie faccende sentimentali e chiedendosi se
quella giornata non avrebbe potuto portare qualcosa di
decisivo.
Egli portava allora i capelli raccolti in una bella borsa,
trattenuta da larghi nastri. Figura Leu era andata a
prendere in casa uno specchietto da borsetta ed un altro
specchio tondo a manico; era riuscita a fissare il primo,
fingendo di accomodargli il nodo, alla borsa dei capelli,
mentre Salomon continuava a passeggiare tranquilla­
mente. La ragazza, che egli non poteva udire per il mor­
bido terreno muschioso, lo seguiva con scherzosi passi di
danza, eseguendo una specie di pantomima, chinandosi e
rialzandosi leggera e leggiadra come una Grazia. Sfog­
giava una mimica divertentissima, si rimirava di conti­
nuo or nello specchietto pendente dalla nuca di Landolt
ora in quello a mano, e girando nella danza lo specchio
tondo e la propria persona in modo da potersi rimirare
da tutte le parti ad un tempo.
Nel vegliardo dalla mente ancor ben agile e acuta era
sorto come un lampo il sospetto che quei giovani sfrontati
rappresentassero l’immagine di un vanitoso autocompia­
cimento, quasi per interpretare i discorsi che egli stava
tenendo. Tutti si volsero a guardare nella direzione indi­
cata dal suo indice ossuto e risero del quadretto grazioso,
sinché finalmente anche Landolt se ne accorse, si voltò
stupito, in tempo per cogliere Figura mentre gli toglieva
rapidamente dal dorso lo specchietto.
— Che cosa significa tutto ciò? — disse il vecchio pro­
fessore, che si era già ripreso, con voce dolce e tranquilla
— Forse la gioventù vuol schernire la vecchiaia chiac­
chierona?
Nessuno mai seppe a che cosa avesse in realtà mirato
Figura; certo si è che parve molto imbarazzata e còlta
da rimorso. Nella paura accennò a Landolt dicendo :
— Ma non vede che voglio soltanto scherzare con que­
sto signore?
ΊΊ° NOVELLE ZURIGHESI

Fu allora Salomon Landolt ad arrossire ed a impalli­


dire ritenendosi suo zimbello ; tutti i convenuti s’avvidero
del carattere ambiguo di quella scena e si diffuse un gran
silenzio ed un senso di disagio.
Allora intervenne Salomon Gessner, che afferrò lo
specchio esclamando: «Non si tratta affatto di uno
scherno ! La signorina ha voluto rappresentare la verità
al seguito della virtù, che certamente nessuno vorrà ne­
gare al nostro Landolt ! Tuttavia l’interprete ha commes­
so un errore, giacché la verità deve vivere per se sola e
non dipendere dalla virtù o dal vizio in modo alcuno.
Vediamo se non ci riesco meglio io ! ».
Così dicendo s’impadronì del velo della signora a lui
più vicina e se lo ravvolse attorno ai fianchi come se
fosse classicamente nudo, e, sempre con lo specchio in
mano, salì su un masso di pietra a modo di piedestallo,
atteggiandosi in una posa contorta e con espressione sen­
timentale a caricatura di una statua della verità, tanto
da fare ritornare il riso e l’allegria generale.
Soltanto Salomon Landolt restò turbato e si allontanò
solo per un sentiero appartato del bosco, volendo racco­
gliere i suoi pensieri e cavarsi da quella faccenda da
uomo coraggioso. Aveva però fatto pochi passi quando
già inaspettatamente Figura Leu gli si appese al braccio.
«È permesso passeggiare un poco col signore?» gli
sussurrò, e procedette leggera per un tratto accanto a lui,
che continuava a tacere pur non staccandosi dal suo
braccio. Quando furono giunti ad una certa altezza,
dove nessun occhio li poteva sorprendere, la fanciulla si
fermò e disse: «Bisogna che finalmente le parli, altri­
menti finisco male. Ma per prima cosa, eccole ...».
Così dicendo gli gettò le braccia al collo e gli diede un
bel bacio. Quand’egli però volle continuare, essa lo re­
spinse con energia.
«Questo vuol dire» proseguì «che io le voglio be­
ne e che so che lei me ne vuole. Ma con ciò siamo al­
l’amen ed è beffe finita ! Amen ! Lei deve sapere che ho
promesso a mia madre sul letto di morte, un istante pri­
ma che spirasse, di non sposarmi mai. E voglio e debbo
IL PODESTÀ DI GREIFENSEE 77 1

mantenere la promessa ! La mamma era malata di mente,


prima solo ipocondriaca, poi sempre più grave, e solo
nella sua ultima ora la mente tornò lucida ed essa mi
parlò. È un male di famiglia, ritorna di tempo in tempo ;
in passato saltava regolarmente una generazione, ma poi
sono state malate la nonna, la mamma, ed ora abbiam
paura che tocchi anche a me ! ».
Si lasciò cadere a terra, coperse il volto con le mani e
scoppiò in amaro pianto.
Landolt le s’inginocchiò accanto tutto scosso, tentò di
prenderle le mani e di calmarla. Cercava le parole per
esprimerle la sua gratitudine ed i suoi sentimenti, ma non
riusciva a dire altro che:
«Coraggio, lasci fare a noi! Ci mancherebbe altro!
Non ci pensi» e cose simili.
Ella invece ripetè con tremenda convinzione:
«No, no! Già ora io son tanto allegra e pazzerella
solo per tener lontana la melanconia che mi sta alle
spalle come un fantasma, lo capisco bene!».
A quei tempi nel nostro paese non vi erano ancora isti­
tuti per malati simili; i pazzi, quando non erano furiosi,
venivano tollerati in famiglia e sopravvivevano poi a
lungo nella memoria come sciagurati esseri demoniaci.
La fanciulla piangente si rialzò però più presto di quan­
to lui avesse sperato; asciugò con cura il volto col biso­
gno istintivo di sottrarsi al dolore ed esclamò:
«Basta per ora! Lei ormai lo sa! Lei dovrà sposare
una creatura buona e bella e più savia di me! Zitto,
taccia! Questo è il punto fermo!».
Landolt non seppe al momento dire altro, rimase com­
mosso e sconvolto da quel minaccioso destino, ma sentì
anche in sé una felicità sicura che non intendeva perdere.
Passeggiarono ancora per un poco insieme, sinché dal
bel volto di Figura furono sparite le tracce dell’eccita­
zione; i due rientrarono infine nel gruppo degli ospiti.
Ivi era già avviata fra i più giovani una festicciola da
ballo, poiché il signor Gessner aveva provveduto ad un
paio di rustici musicanti.
Quando ricomparve Figura, fu Bodmer in persona che
772 NOVELLE ZURIGHESI

la invitò a tentare un giro con lui, per dar prova della sua
giovanile baldanza. Più tardi essa ballò con Landolt
tutte le volte che potè senza dar troppo nell’occhio e gli
sussurrò che quello doveva essere l’ultimo giorno della
loro intimità, poiché essa non sapeva quando sarebbe
stata chiamata nel paese ignoto ove vagano gli spiriti.
Ritornando in città Salomon cavalcò a fianco della
carrozza in cui era la fanciulla. La sua linguetta non
stette ferma un momento; passando sotto il ciliegio ca­
rico di frutti il giovane colse svelto un ramoscello ricco
di ciliege coralline e glielo gettò in grembo.
«Mille grazie!» disse Figura, e conservò accurata­
mente per ben trent’anni il ramo con i frutti essiccati,
giacché essa rimase in buona salute senza che il fosco de­
stino temuto le si presentasse. Fu tuttavia irremovibile
nella sua decisione; anche il fratello Martin, dal quale
Salomon si recò il giorno seguente per consigliarsi, con­
fermò quel che essa aveva detto e come in famiglia si
considerasse certa la sventura alla quale sempre eran state
esposte di preferenza le donne. Non avrebbe potuto desi­
derare un cognato migliore di Landolt, gli assicurò Mar­
tin, ma era costretto a pregarlo, per la calma e la pace
della mente di lei rimasta sino ad allora abbastanza in
equilibrio, di rinunciare ad ogni altro tentativo.
Landolt non si rassegnò subito, sperò anzi in silenzio
per parecchi anni, senza che però intervenisse un muta­
mento nella situazione. Si serbò di buon animo soltanto
perché, ogni qualvolta a lunghi intervalli rivedeva Figura
Leu, poteva leggere negli occhi di lei che era rimasto il
suo amico più caro e diletto.

IL CAPITANO

Salomon visse ben sette anni senza curarsi più di donne,


avendo in cuore soltanto Pulcinella, come egli soleva chia­
mare Figura Leu. Alla fine però ci fu un’altra storia.
Viveva allora a Zurigo, reduce dal servizio militare
prestato in Olanda, un certo capitano Gimmel, il quale
IL PODESTÀ DI GREIFENSEE 773
aveva con sé una figliola, eredità della moglie morta
che era olandese. Egli viveva di un piccolo patrimonio,
nonché della sua pensione, in modo però da consumare
quasi tutto per sé solo.
Costui era un ubriacone litigioso, superbo soprattutto
della propria arte di schermitore e, pur non essendo affat­
to giovane, s’imbrancava sempre con i giovanotti, cer­
cando chiasso e scandali. Una volta Landolt ebbe occa­
sione di avvicinarlo, e, irritato dalle sue vanterie, ne ac­
cettò la sfida e si recò con tutta la brigata nella casa di
Gimmel, dove c’era una vera sala d’armi. Landolt si
riprometteva di appioppare al vecchio litigioso, malgrado
la sua corazza di cuoio, due buoni colpi nei fianchi,
poiché era ottimo schermitore e già da ragazzo s’era
esercitato nel castello di Wülflingen e più tardi alla scuola
di guerra di Metz nonché a Parigi.
Ben presto infatti la sala rintronò dei balzi e dei colpi
dei due duellanti e del fragore delle armi, e Landolt
incalzò con tanta energia il capitano, che questi cominciò
ad ansimare. D’un tratto però Landolt lasciò cadere la
spada per guardare come incantato la porta alla quale
s’era affacciata reggendo un vassoio con bicchierini da
liquore la figlia del capitano, la bella Wendelgard.
Essa era davvero una meravigliosa apparizione. Abbi­
gliata più riccamente di quanto comportasse il suo stato,
con l’alta persona frusciante di seta, faceva tuttavia di­
menticare quel lusso per la rara bellezza della figura.
Volto, collo, mani, braccia, tutto aveva lo stesso perfetto
candore di pelle, come fosse scolpito in marmo pario;
vi si aggiungeva una chioma opulenta dai riflessi ros­
sastri, la cui seta era mille volte ondulata; gli occhi
grandi, azzurro-scuro, ed anche la bocca parevano rive­
lare una serietà curiosa, anzi una lieve inquietudine, sia
pure non di origine spirituale.
Quando la splendida fanciulla si guardò attorno come
cercando ove posare il vassoio, il capitano, lieto dell’in­
terruzione, le indicò lo sporto della finestra. I giovani
presenti la salutarono con quella cortesia che è dovuta
in ogni circostanza a tanta bellezza. Essa s’allontanò con
ΊΊ\ NOVELLE ZURIGHESI

un inchino e con un grazioso sorriso che mitigò l’austerità


dei suoi tratti e lanciò anche un rapido e timido sguardo
allo stupefatto Salomon, che essa vedeva per la prima
volta in casa sua. Il padre offrì diversi fini liquori olan­
desi, facendo così dimenticare la prosecuzione della par­
tita d’armi.
Landolt pure non pensava più a fare del male al ca­
pitano Gimmel, giacché questi s’era trasformato per lui
di colpo in un mago possessore di fulgidi tesori, capace di
largire dalle sue mani la felicità o la sventura. Si unì
senza esitazione ad una gita in barca proposta da Gim­
mel ad una località celebre per i suoi vini e, per quanto
non avvezzo ai modi scomposti di quel vecchio fanfarone,
fu ora verso di lui la tolleranza e l’indulgenza in persona.
Quando il cuore è colmo, trabocca la parola, e ad una
novità s’aggiunge l’altra. Pur di sentire parlare comunque
della bella Wendelgard, egli da allora si diede a buttar fuo­
ri quel nome con astuzia, ma sempre in modo asciut­
to ed ostentando indifferenza; e nello stesso tempo essa,
prima ben poco conosciuta, cominciò a far parlare di sé
per la leggerezza con la quale pareva avesse contratto
una discreta quantità di debiti. Si verificò cioè il caso
inaudito di una ragazza, una figlia di famiglia, giunta
all’orlo di un vergognoso fallimento, giacché il padre,
si diceva, ricusava il pagamento dei debiti contratti a
sua insaputa, minacciava i creditori impazienti di atti di
violenza e voleva ripudiare la figlia.
La faccenda era a quanto pare cominciata così, che la
fanciulla, lasciata dal padre priva del necessario, per
provvedere ai bisogni della famiglia era ricorsa a pre­
stiti ed aveva usato poi sempre più spesso per se mede­
sima quel comodo espediente. Non erano rimasti senza
influsso su di lei la sua inesperienza, la mancanza della
madre ed una certa ingenuità spesso caratteristica di si­
mili figure eccezionali, senza contare che essa riteneva
molto agiato il padre fanfarone.
Comunque stessero le cose, la ragazza era ormai sulla
bocca di tutti; le donne gridavano allo scandalo e pro­
clamavano vicino il Giudizio universale per l’apparire di
IL PODESTÀ DI GREIFENSEE 775
simili fenomeni; gli uomini si accontentavano della fine
dello Stato; le giovani sussurravano in segreto, abban­
donandosi alle più misteriose fantasie circa la sciagurata ;
i giovanotti si permettevano scherzi sguaiati, ma si tene­
vano lontani con intimidita prudenza dalla casa del ca­
pitano, anzi dalla strada dove abitava; i commercianti
danneggiati, infine, accorrevano ai tribunali per presen­
tare le loro denunce.
Soltanto Salomon Landolt pensava con raddoppiata
passione a quella bellezza immersa nel cruccio per i
suoi debiti. Un’intensa pietà lo pervadeva d’invincibile
desiderio, come se la peccatrice, invece che nel purgato­
rio della sua miseria, se ne stesse in un roseto fiorito
chiuso da un cancello d’oro. Non resistette più a lungo
all’impulso di vederla e di aiutarla, e, quando una sera
scorse il capitano saldamente ancorato ad una tavola
d’osteria, s’awiò con rapida decisione verso la casa di
Wendelgard e diede un energico strappo di campana.
Alla domestica che s’era affacciata alla finestra chieden­
do che cosa desiderasse, replicò asciuttamente di essere
un funzionario del tribunale civico, incaricato di parlare
con la signorina, e scelse questa strana presentazione per
troncare ogni discorso inutile ed ogni curiosità d’altro
genere. A quel modo però spaventò non poco la poverina,
la quale infatti gli venne incontro pallidissima e si impor­
porò terribilmente appena lo riconobbe.
Imbarazzata, con la voce tremante che tradiva la pau­
ra, lo invitò ad accomodarsi; essa era tanto inesperta e ab­
bandonata da non avere alcuna idea del mondo degli affa­
ri e da supporre anzi che la venissero a portare in prigione.
Appena però Landolt ebbe preso posto, si scambia­
rono le parti, e fu lui a trovare a stento le parole per le sue
dichiarazioni, giacché quella bella disgraziata gli parve
più nobile e altolocata di un re di Francia, il quale do­
veva pur sempre chiamare gli Svizzeri suoi grands amis
mentre comprava il loro sangue. Alla fine, con l’atteggia­
mento di un supplicante, le espose le ragioni che l’aveva­
no guidato da lei: il crescente piacere che provava
guardandola fini per ispirargli coraggio sufficiente a spie­
776 NOVELLE ZURIGHESI

garle con calma come egli, quale membro del tribunale,


avesse avuto notizie della spiacevole storia e fosse ora
venuto per discutere con lei la situazione e trovare un
modo di regolare gli affari. Volesse ella dunque infor­
marlo con piena fiducia circa la misura e la natura degli
obblighi contratti.
Wendelgard, traendo un gran sospiro di sollievo e dopo
avergli gettato, come già al primo incontro, uno sguardo
indagatore, corse a prendere una scatola ove aveva ripo­
sto tutti i conti, le sollecitazioni e le citazioni già perve­
nutile e che non aveva più osato guardare. Con un se­
condo sospiro, abbassando gli occhi mentre avvampava
di vergogna, rovesciò sulla tavola tutte quelle carte, poi
s’appoggiò allo schienale della sedia, coprendosi la faccia
con la scatola vuota, dietro la quale cominciò a singhioz­
zare sommessamente volgendo il capo.
Commosso ed insieme felice di poter fungere da con­
solatore, Salomon le tolse la scatola e le strinse con deli­
catezza le mani incoraggiandola a star di buon animo.
Si diede poi a studiare le carte e, quando aveva bisogno
di informazioni, le rivolgeva delle domande con tale
bontà e ispirando tanta fiducia, che a lei era facile dargli
risposta. Trasse alla fine il piccolo album dal quale mai
si staccava, tutto colmo di rapidi schizzi di cavalli, di
cani, d’alberi e di nuvole e in quella compagnia, su una
pagina bianca, allineò i debiti della buona Wendelgard.
Si trattava per lo più di begli abiti e di ornamenti, ma
anche di alcuni graziosi mobiletti, né mancavano alcune
leccornie, benché in misura modesta, cosi che la somma
totale non raggiungeva neppure da lontano la cifra inau­
dita di cui si parlava in pubblico. Tuttavia si arrivava
quasi ai mille fiorini di moneta zurighese, somma che la
debitrice non era affatto in grado di procurarsi.
Landolt però era ammaliato al punto che, riponendo
nel taschino il libretto, l’elenco di debiti della bella ra­
gazza gli parve un possesso dolce, prezioso e incantevole
più che l’inventario patrimoniale d’una ricca fidanzata.
Tutto quanto figurava sulla nota gli piaceva: gli abiti, i
merletti, i cappelli, le piume, i ventagli ed i guanti, e per­
IL PODESTÀ DI GREIFENSEE 777
sino le ghiottonerie suscitavano in lui soltanto il desiderio
di poterne un giorno rimpinzare l’affascinante bambinona.
Quando prese congedo promettendo di dare presto no­
tizie di sé, la ragazza lo guardò un po’ incerta, non es­
sendo chiaro ciò che sarebbe seguito. Si era però già ras­
serenata e gli fece luce in persona, con un tratto di fidu­
ciosa riconoscenza, sino alla porta di casa, dove sussurrò
un grazioso « Buona notte ! » che completò la conquista
del giudice civico. Wendelgard risalì le scale lentamente
e, forse per la prima volta, pensosa; s’addormentò anche,
per la prima volta da parecchio tempo, in calma perfetta,
tanto da non udire rientrare il rumoroso capitano.
Landolt invece quella notte non dormì, meditando l’af­
fare sinché cantarono i galli in tutti i pollai della città.
Salomon Landolt, che viveva ancora presso i genitori
e da loro dipendeva, era in grado tutt’al più di mettere
insieme una parte della somma necessaria a liberare
Wendelgard, visto che il suo intervento doveva rimanere
segreto, per non rendere ancor più diffìcile ogni futura
relazione con quel fenomeno di spensieratezza. Egli pos­
sedeva però una nonna facoltosa di cui era il beniamino,
già avvezza ad assisterlo nelle sue difficoltà finanziarie
e che particolarmente si divertiva a farlo in segreto. Essa
aveva l’originalità di protestare vivamente contro ogni
matrimonio del nipote appena se ne faceva parola. A
suo avviso il nipote, che essa ben conosceva, sarebbe stato
sempre infelice e preoccupato, giacché lei conosceva pure
le donne e sapeva anche troppo quel che valessero. Ac­
compagnava così ogni volta i suoi sussidi segreti col mo­
nito confidenziale di non pensare a nozze e, quand’egli
ricorreva a lei nell’imbarazzo, bastava che cominciasse
con qualche allusione del genere per essere certo di un
pronto successo.
Ancor quella volta ricorse alla sua bizzarra nonnina
e le confidò con un sospiro ipocrita d’essere ormai co­
stretto ad uscire dalle strettezze e a raggiungere final­
mente una posizione indipendente accettando un buon
partito che gli si offriva. La nonna tolse spaventata gli
occhiali coi quali stava leggendo il suo libro dei conti e
778 NOVELLE ZURIGHESI

considerò lo sciagurato nipote come un pazzo in procinto


di appiccare di propria mano il fuoco alla casa.
— Ma lo sai che io ti diseredo se ti sposi? — esclamò
sconvolta ella medesima da tal pensiero — Ci manche­
rebbe proprio che una pollastrella senza testa venisse in
possesso di tutta la mia roba ! E tu? Come potresti soppor­
tare una moglie? Come tollerare, per esempio, una che
ti dice bugie tutta la giornata? Oppure una che sparla del
mondo intero, così che la tua tavola onorata diventa il
centro della maldicenza, oppure una che mangia senza
posa, dovunque si trova, e che fa rumore masticando?
E che figura farai se avrai una moglie la quale rubacchia
nelle botteghe o fa debiti come la Gimmel?
Il nipote soffocò una risatina all’ultimo esempio, col
quale la nonna lo colpiva così da vicino, e disse sforzando­
si di apparire serio:
— Se le cose stanno proprio così con le povere don­
nette, tanto meno si potrà abbandonarle a se stesse;
bisogna sposarle per salvare quel che ancora è salvabile !
Sempre più esasperata, la nemica del suo sesso gridò:
— Smettila, mostro ! Che cos’è accaduto, di quanto
hai bisogno?
— Ho perduto mille fiorini al giuoco e me ne man­
cano seicento!
La vecchia signora tornò ad inforcare gli occhiali, si
tolse la gran cuffia per potersi grattare i capelli grigi e
corti e s’avviò poi zoppicante verso uno scrittoio intar­
siato. Landolt con gran piacere vide dietro la ribalta
rientrante le meraviglie ivi custodite, che già erano state
la gioia della sua infanzia: una piccola sfera terrestre
d’argento; un cavaliere su un cavalluccio d’avorio inta­
gliato indossante una vera armatura argentata e dorata
che gli poteva essere tolta, con uno scudo ornato di una
pietra preziosa e con le piume dell’elmo smaltate; inoltre,
anch’esso finemente e artisticamente intagliato in avorio,
un minuscolo scheletro alto quattro pollici, con una falce
d’argento, detto la «piccola morte», ed al quale non
mancava neppure un solo ossicino.
La vecchia prese nella mano tremante quel grazioso
IL PODESTÀ DI GREIFENSEE 779

scheletro e, facendone lievemente sbattere le sottili ossa


d’avorio, aggiunse:
— Guarda un po’, così si riducono uomini e donne
quando il divertimento è finito ! Chi vorrà mai amare e
sposarsi !
Anche Salomon prese in mano la «piccola morte» e
si diede ad osservarla attento, còlto da un lieve brivido
all’immaginare la bella persona di Wendelgard che si
staccava a brandelli da una simile impalcatura. Mentre
pensava alla rapida fuga del tempo ed alla sua inesora­
bilità, il cuore gli batté tanto forte che lo scheletrino
tremò sempre più ed egli gettò uno sguardo cupido verso
la mano della nonna, che stava togliendo da un gruzzolo
sempre giacente in un cassetto un rotolo di bei luigi d’oro
e gli diceva:
— Eccoti i mille fiorini ! Ma ora non venirmi a seccare
con i tuoi progetti di matrimonio !
Per prima cosa Landolt andò in cerca del capitano
Gimmel, che trovò in un’osteria e prese in disparte. Gli
spiegò di esser stato incaricato da persona che desiderava
non essere nominata di regolare l’incresciosa faccenda
della figlia; si pretendeva però che il capitano vi prov­
vedesse a proprio nome, per riguardo alla figliola, in
modo che anche questa fosse ben persuasa che fosse stato
il padre a pagare tutti i debiti. A quel patto Landolt
avrebbe versato la somma come proveniente dal capi­
tano presso un ufficio curando che i creditori venissero poi
liquidati con tutta discrezione. In tal modo al padre e al­
la signorina sarebbe stata risparmiata ogni altra seccatura.
Il signor capitano squadrò il giovanotto con occhio
stupefatto, parlò a tutta prima di ingerenze illecite e di
rispetto dei suoi diritti e portò la mano alla spada;
quando però Landolt gli spiegò che qualcuno s’interes­
sava molto alla signorina e al suo bene futuro, il quale
avrebbe potuto dipendere da una pronta liquidazione
della faccenda, quando insomma il capitano cominciò
ad intuire la possibilità di collocar bene la figliola,
rinfoderò la spada del suo onore e si dichiarò d’accordo
con il proposto modus procedendo.
780 NOVELLE ZURIGHESI

Salomon Landolt condusse a termine la cosa con pru­


denza ed abilità cosicché i creditori vennero tutti pagati.
Ciascuno credette che il capitano Gimmel fosse sceso a
più miti consigli e Wendelgard medesima ne rimase per­
suasa. Di fronte a lei il padre si dava delle arie solenni, il
che la riconfermò nell’idea che dovesse essere uomo ricco.
Non fu quindi eccessivamente stupita o sconcertata,
quando Salomon, suo incaricato d’affari, le si ripresentò
una sera porgendole le fatture saldate di tutti i suoi
debiti piccoli e grandi. Egli se ne compiacque di tutto
cuore e fu lieto di ritrovarla di buon animo, mentre du­
rante la discussione sul numero e la natura dei debiti
erano pur sorte in lui preoccupazioni, sempre però col
solo risultato di accrescere la sua tenera pietà per la po­
vertà sprovveduta della fanciulla e di suscitare in lui
l’intenso desiderio di prendere per sempre nella sua salda
mano la sorte di lei. Wendelgard in quegli ultimi giorni,
in attesa della sua visita, si era vestita ed adornata con
maggiore cura del solito ed era molto lieta delle mi­
gliorate condizioni, soprattutto perché non appariva più
umiliata nel bisogno davanti al suo salvatore, e, com’essa
credeva, in grazia di mezzi propri.
Lo ringraziò tuttavia dei suoi soccorrevoli sforzi con pa­
role ingenue e cordiali ; così dicendo gli tese la mano con­
fidenzialmente, e parve a lui tanto bella, che senz’altra
esitazione le confessò la sua simpatia, spiegandole come
questa soltanto lo avesse indotto a intervenire così indi­
scretamente nelle sue faccende. Andò anzi tant’oltre nel­
la sua illimitata sincerità, da assicurarle che ella col ri­
cambiarlo e col concedergli la mano gli avrebbe recato
ben più grande aiuto, incoraggiandolo a dare finalmente
una meta alla sua vita inquieta e sregolata e a fare per
l’amore e per la bellezza quel che non si era mai indotto
a compiere per se medesimo.
Questa leale imprudenza od imprudente lealtà suscitò
però la prudenza della bella ragazza. Durante i suoi di­
scorsi abbandonò la mano fra quelle dell’entusiastico
Salomon e lo fissò con occhi benigni, che soavemente
splendevano nella gioia d’essere tanto rapidamente ri­
IL PODESTÀ DI GREIFENSEE 781

sorta dall’awilimento. Però, malgrado la dolcezza del­


l’ora, lei, di solito tanto spensierata, si preoccupò della
vita irregolare di cui l’innamorato andava accusandosi
e chiese un termine di sette giorni per decidere. Lo con­
gedò tuttavia molto benevolmente e quando fu di nuovo
sola aveva il respiro rapido ed ansimante di un coni­
glietto.
Nel frattempo il capitano aveva più a fondo meditato
le misteriose allusioni di Landolt, scoprendo che sua figlia
era ormai matura per la felicità e per essere offerta sul
mercato. Non aveva certo l’intenzione di farsi carpire
quella gemma da mano sconosciuta, ma voleva esser pre­
sente ad occhi aperti e soprattutto organizzare una con­
veniente messa in mostra. Per non perder tempo decise
di recarsi con la figlia ai bagni di Baden, in quel momento
molto affollati per le feste di Pentecoste. Le fece mettere
nei bauli gli abiti più belli, che a Zurigo non poteva nem­
meno sfoggiare a cagione dei regolamenti sul lusso, poi
si installarono insieme senza indugio nell’albergo Hin­
terhof di Baden, al pari degli altri pieno di forestieri.
Con ciò ebbe anche fine la sorveglianza paterna di Gim­
mel, giacché egli subito cercò ed anche trovò sufficiente
compagnia di vecchi soldati amici del vino ed abbandonò
la figlia Wendelgard totalmente a se stessa.
Per un caso fortunato, in quello stesso albergo allog­
giava Figura Leu, che accompagnava una signora an­
ziana venuta a curare i reumatismi. Essa era già ormai
un pochino avanti negli anni e faceva ancor più che in
passato il piacer suo. Quando conobbe la bella Wendel­
gard, resa celebre dai suoi debiti, e la vide imbarazzata
nel suo isolamento, la attrasse nella sua cerchia e si fece
un passatempo di studiare e conoscere quella strana e
singolare creatura, in cui pareva si fosse impersonata la
bellezza senza alcun altro attributo. Si guadagnò ben
presto la fiducia della fanciulla, che non aveva mai gu­
stato il beneficio di simile compagnia, e venne così già
il primo giorno ad apprendere la sua relazione con Sa­
lomon Landolf e la storia dei sette giorni d’attesa. Già
l’indomani Figura si persuase che all’imprudente inna­
782 NOVELLE ZURIGHESI

morato non sarebbe potuta capitare disgrazia peggiore


che la conquista di quella ragazza. Senza neppure saper­
ne il perché, aveva l’impressione che Wendelgard non
possedesse un’anima. Altre volte invece pensava che,
essendo essa una tela bianca, Salomon avrebbe potuto
dipingervi qualcosa di discreto, che insomma le cose
avrebbero potuto ancora finir bene. Turbata dalla sua
stessa incertezza, decise all’improvviso di affidare la so­
luzione ad una specie di giudizio di Dio o di prova del
fuoco, che le fu suggerita dall’insperato arrivo di suo
fratello Martin. Questi era già da cinque anni capitano
nel reggimento zurighese a Parigi ed era uomo esperto di
tutte le arti, e anzitutto eccellente attore nei teatrini
privati dell’alta società francese. Il capitano Gimmel e
sua figlia non l’avevano mai prima veduto ed egli del
resto sapeva rendersi irriconoscibile anche a coloro che
lo avevano familiare. Figura basò il suo piano su questa
circostanza e riuscì ad andare incontro segretamente al
fratello, quando questi, giunto improvvisamente in pa­
tria per una visita, era sulla strada tra Zurigo e Baden.
Lo informò rapidamente del suo disegno e subito lo gua­
dagnò ad esso, perché Martin non meno della sorel­
la s’interessava al bene del suo ottimo amico. Figura
aveva molta fretta, essendo già trascorsi quattro dei sette
giorni, ed essendo ben chiaro che Wendelgard non si
sarebbe indotta ad un rifiuto.
Martin Leu differì quindi il suo arrivo sino al calar
della sera, mentre Figura lo precedette in fretta come se
nulla fosse accaduto. Durante la notte egli fece i suoi pre­
parativi e il dì seguente si presentò come un forestiero
sconosciuto, dandosi però grandi e misteriose arie. Ap­
pena si fu un poco orientato, avvicinò come per caso il
capitano e, mentre beveva con lui una bottiglia, gli lasciò
vincere subito un paio di talleri al giuoco, senza impe­
gnarsi oltre. Più tardi andò a passeggiare nei viali pub­
blici e lungo la riva del fiume, dopo che Figura con sottile
astuzia ebbe diffuso la vaga notizia che lo straniero era
un cavaliere francese con mezzo milione di franchi di
rendita, il quale intendeva ad ogni costo sposare una
II. PODESTÀ DI GREIFENSEE 783

svizzera protestante perché apparteneva egli stesso a


quella confessione. Era già stato a Ginevra senza tro­
vare nulla, e ora voleva recarsi a Zurigo, ma inten­
deva guardarsi prima intorno a Baden, avendo saputo
che in quel periodo vi conveniva un’eletta schiera di
dame.
Il capitano tornò in gran fretta e contro le sue abitu­
dini a casa, o meglio all’albergo, già prima di pranzo, a
prendere la figliola, ordinandole di mettersi in fronzoli
per la passeggiata. Le offrì persino il braccio e col suo
naso lustro fece lo smargiasso ed il lezioso, così che le cen­
tinaia di villeggianti si dilettarono non meno alla sua
ridicolaggine che alla bellezza di Wendelgard.
L’incontro col ricco ugonotto provocò una scena so­
lenne, con grande scambio di complimenti e di presen­
tazioni. Martin Leu non ebbe bisogno di fingere stupore
di fronte alla bellezza di Wendelgard, giacché lo provò
davvero, ma subito anche si rese conto quanto fosse indi­
spensabile sottrarre l’amico Salomon a tale pericolo. Le
offrì il braccio e fu lui, invece del padre, ad accompa­
gnarla a tavola, mentre Figura fingeva di guardare inti­
midita ed ammirata le scenette graziose che si svolgevano
sotto i suoi occhi.
Wendelgard non le parlò che un paio di minuti dopo
pranzo, perché era in vista una gita a Schinznach, dove
era radunata una non meno distinta società. Insomma,
Martin già il primo giorno mandò avanti le cose così
bene che Wendelgard a tarda sera corse da Figura Leu e
le confidò ansante che stava per accadere qualcosa di
grande, poiché l’ugonotto le aveva appena chiesto se non
avrebbe preferito vivere in Francia invece che in Sviz­
zera. Le aveva pure domandato conversando quanti anni
avesse ed un’ora prima aveva dichiarato che, se mai si
fosse ammogliato, non avrebbe accettato un soldo dalla
sposa. Suo padre le aveva già dato ordine di rispondere
senz’altro con un sì, in caso di domanda.
— Ma, cara ragazza, — osservò Figura — tutto que­
sto non vuole ancora dir molto ! Sii prudente !
Wendelgard continuò:
784 NOVELLE ZURIGHESI

— Mentre passeggiavamo insieme da un’ora soli so­


letti, mi ha baciato la mano sospirando.
— E ti ha poi rivolto una domanda formale?
— No, ma ha sospirato e m’ha baciato la mano.
— Un baciamano francese ! Ma lo sai che cosa vale?
Proprio un bel nulla.
Ma lui è un austero protestante !
— Come si chiama?
— Ancora non lo so, o almeno mi pare di non saperlo
ancora, neppure ci ho badato.
·— Certamente ora le cose cambiano, — osservò medi­
tabonda Figura — ma che cosa sarà di Salomon Landolt?
— Già, me lo domando anch’io, — replicò Wendel-
gard sospirando e passandosi sulla candida fronte le
candide dita — ma pensa un po’ ! Mezzo milione di ren­
dita ! Allora sono finite tutte le preoccupazioni ! E Salo­
mon ha bisogno di una donna che lo aiuti ad affrontare
la vita e a trovar la sua strada ! Come l’aiuterei io, che
non capisco mai nulla?
— Ma no, non è questo che lui vuol dire, sciocchina !
Egli crede che, una volta che ti abbia conquistata, co-
mincerà per amor tuo a lavorare, ad agire ed a coman­
dare, mentre tu dovrai soltanto starlo a vedere senza
muòverti; e sarà capace di farlo, te lo assicuro!
— No, no ! La mia sventatezza gli sarebbe solo d’osta­
colo! Tornerò a far debiti o peggio, lo sento, se non di­
vento ricca, straordinariamente ricca!
—■ Questo muta davvero la situazione, — replicò Fi­
gura ·— se non hai il desiderio di lasciarti correggere e
modificare ! E Landolt è l’uomo che ci vuole per questo,
credimelo !
Vedendo però che Wendelgard si immergeva in penoso
imbarazzo, senza manifestare alcun sentimento per Salo­
mon, proseguì:
— Bada ad ogni modo di non finire seduta fra due
sedie. Se il francese domani ti chiede in sposa, devi po­
tergli rispondere liberamente. Posdomani è il settimo
giorno e devi prepararti a vedere capitare qui Landolt
per avere la tua decisione; ci potrebbero allora essere
IL PODESTÀ DI GREIFENSEE 785

scenate e spiegazioni, e tu corri pericolo che l’uno e l’al­


tro ti voltino le spalle!
— Dio mio ! È vero ! Ma che dovrei fare? Egli non è qui
ed io non posso raggiungerlo !
— Scrivigli, ma oggi stesso ! Bisognerà mandare do­
mani per espresso a Zurigo, altrimenti dopodomani egli,
per quel che lo conosco, piomba qui immancabilmente.
— Farò così; dammi carta e penna!
Si dispose a scrivere, ma, poiché non sapeva come co­
minciare, Figura Leu le dettò: «Dopo matura riflessio*
ne, mi persuado di essere animata verso di lei soltanto da
un sentimento di gratitudine, così che sarebbe menzogna
se diversamente lo definissi. Siccome inoltre la volontà
di mio padre mi addita un’altra via, la prego di accogliere
e di rispettare la mia ferma decisione di obbedirgli, quale
segno della fiducia e della rispettosa stima, che sempre
nutrirà per lei la Sua devotissima, ecc. ecc.».
— Punto fermo! — concluse Figura — Hai messo là
firma?
— Sì, però mi sembra che si dovrebbe aggiungere qual­
cosa; non mi pare vada bene a questo modo.
— È proprio quel che ci vuole ! È lo stile conforme
ad un rifiuto, in una situazione che non tollera spiega­
zioni; così tutto è troncato e gli intenditori capiscono
subito dal suono di avere bussato ad una botte vuotai
Quest’allusione, lievemente condita di gelosia, ilon fu
compresa dal cuore bonario di Wendelgard. Essa pregò
ancora Figura di provvedere al pronto invio della lette­
rina, perché non ci fossero sgradevoli incontri. Figura lo
promise e, per essere ben certa, sul far del giorno affidò
la missione a suo fratello, il quale immediatamente ga­
loppò sino a Zurigo, dove trovò Salomon Landolt che si
preparava a partire l’indomani per Baden.
Egli impallidì lievemente leggendo la letterina e tornò
ad arrossire accorgendosi che ne conosceva il contenuto
anche Martin Leu. Questi infatti gli fornì senza indugio
il commento orale, narrandogli tutta l’avventura. Lo
lasciò poi un’ora solo e al ritorno gli disse :
— Salomon ! Mia sorella Figura ti fa salutare e ti fa
786 NOVELLE ZURIGHESI

dire che se tu desideri ancora la bella Gimmel, non hai


che a dirlo a lei, cioè a mia sorella, perché tanto la ra­
gazza non la perdi.
— Io non la voglio più e riconosco la mia pazzia, —
disse Landolt — però è bella e cara e voi siete due bricconi !
Martin rimase senza travestimento a Zurigo, col che
necessariamente sparì da Baden di colpo il ricco ugonot­
to, come se la terra l’avesse inghiottito. Il capitano e
Wendelgard vi si trattennero ancora due settimane e poi
rientrarono in città. Il capitano era più assetato e litigioso
del solito, mentre la figlia, taciturna e depressa, si teneva
nascosta.
La storia però non finì così. Martin Leu, spinto dalla
curiosità e dall’impertinenza, volle vedere un po’ più da
vicino quella singolare bellezza. Lo fece con tutta pru­
denza, per non essere riconosciuto per il francese miste­
rioso di Baden, e si recò nella sala d’armi del capitano.
Ma la ruota della fortuna mutò quando egli vide la po­
veretta nella sua modesta e melanconica bellezza e, poi­
ché il violento genitore morì all’improvviso di un colpo,
egli s’innamorò così intensamente della derelitta da su­
perare ogni protesta, monito o ragione, e non si diede
pace se non quando essa divenne sua moglie.
Prima di sposarla aveva chiesto un’ultima volta a Sa­
lomon :
— La vuoi o non la vuoi? — Ma l’amico aveva rispo­
sto senza esitare:
— Io seguo il motto della Bibbia: «La vostra parola
sia sì, sì, o no, no». Per mio conto, non torno indietro!
Fra sé e sé aggiunse:
“È vero che mi costa mille fiorini, ma grazie a Dio
nessuno lo sa !”, poiché gli era ben noto che sua nonna,
per spirito di giustizia, annotava accuratamente tutte
le somme anticipate affinché potessero un giorno venir de­
dotte dalla sua quota di eredità nel confronto con i fratelli.
Martin Leu visse ancora due anni a Parigi con sua
moglie e diede poi le dimissioni. Al ritorno essa era dive­
nuta una signora ordinata ed esperta, che non faceva più
debiti. Sapeva la storia di Baden ed aveva riconosciuto
IL PODESTÀ DI GREIFENSEE 787

l’ugonotto ancor prima ch’egli lo immaginasse e venisse


a raccontargliela.
Quando però più tardi Figura Leu chiese a Salomon
Landolt se le serbava rancore per il suo intervento e se
non avrebbe preferito avere per sé la bella Wendelgard,
che aveva fatto una discreta riuscita ed aveva forse finto
da giovane di essere più sciocca di quello che fosse in
realtà, egli le strinse la mano assicurandole: «No, va
bene così ! ». A Wendelgard egli per far presto assegnò
il nome di capitano.

LA CAPINERA E IL MERLO

L’adorazione esclusiva della bellezza ebbe, subito dopo


il suo insuccesso, effetti così disastrosi su Landolt, che
egli perdette completamente l’equilibrio e restò in balìa
di ogni impressione. Come fanno le rondini in autunno
prima di partire, così tutte le divinità amorose gli svo­
lazzavano rumorose d’intorno e in quello stesso anno in
cui perdette Wendelgard gli toccarono due avventure le
quali, come spesso accade per i gemelli, erano tanto pic­
coline da trovar posto in una fascia sola.
Già da un paio d’anni Salomon, stando nella sua ca­
mera che era nella parte posteriore della casa, se il tem­
po era bello e l’aria mite, udiva ogni mattino da lontano,
oltre i giardini, una delicata voce di fanciulla che can­
tava un salmo. La voce, ch’era stata prima quella di una
bimba, si era poi rinvigorita, senza però mai raggiungere
grande robustezza. Egli udiva tuttavia con piacere il
canto regolare, che soleva ripetersi ogni giorno prima
della colazione, ed aveva dato all’invisibile cantante il
soprannome di capinera. Essa in realtà era la figlia del
signor segretario dei Proseliti1 ed ex parroco Elias
Thumeysen; il quale, in seguito ad una buona eredità,
I. Il termine di Proseliti designava i cattolici e gli ebrei convertiti
al protestantesimo, quello di Proscritti gli ugonotti e i valdesi pro­
fughi per motivi religiosi; Aspettanti erano i giovani pastori non
ancora provvisti di parrocchia.
788 NOVELLE ZURIGHESI

s’era liberato del peso delle sue funzioni pastorali, ma si ren­


deva ancora utile assolvendo altri compiti, come il segre­
tariato dei Proseliti e dei Proscritti. Dalla prima di queste
cariche, per desiderio della moglie, aveva assunto anche
il titolo. Egli era inoltre segretario del Consiglio della Ri­
forma e presidente degli Aspettanti nel ministero zurighe­
se ; per suo spasso infine dipingeva quelle carte geografiche
nelle quali ora vediamo il mondo alla rovescia, poiché l’o­
riente e l’occidente sono in alto e in basso ed il nord ed
il sud a sinistra e a destra.
La sua figlioletta, la capinera, più precisamente chia­
mata Barbara, si occupava di ben altre arti, nelle quali
era affaccendata da mattina a sera. Il signor segretario
dei Proseliti suo genitore preparava anche le immagini
di tutti gli uccelli possibili: incollava le penne naturali,
o anche soltanto piccoli frammenti di esse, sulla carta,
dipingendo poi il becco e le zampe. Uno dei suoi capola­
vori del genere era una bella upupa in grandezza natu­
rale, dal ricco piumaggio.
Barbara aveva sviluppato e nobilitato quest’arte, tra­
sferendo il procedimento all’umanità e confezionando
una serie di ritratti a figura intera, in cui soltanto il volto
e le mani eran dipinti, mentre tutto il rimanente era for­
mato da lembi di seta o di lana o di altra materia natu­
rale, abilmente ritagliati e messi insieme, né certamente
gli uccelli di Aristofane potevano esser più intelligenti
di quelli del signor segretario, giacché essi avevan gene­
rato una cosi bella stirpe di creature umane che popola­
vano la stanzetta da lavoro della piccola cantante. Vi
figurava anzitutto il signor zio per parte materna, l’an­
tistite1 in carica, in abito talare di raso nero, con calze
di seta ed un collare di finissima mussolina. La parrucca
era stata combinata con immensa pena e con molta gra­
zia usando peli di un gattino bianco; con essa armoniz­
zavano perfettamente gli occhi azzurro chiaro nel volto
di un roseo pallido; le scarpe eran ritagliate da pezzetti

I. Antistite era, dai templi di Zwingli, il titolo del capo della Chiesa
zurighese.
IL PODESTÀ DI GREIFENSEE 789

di cuoio lucido con fibbie argentate di stagnola, il taglio


del libro liturgico che teneva in mano era di carta
dorata.
Questo pontefice, appeso al posto d’onore sotto vetro
e cornice, era circondato dalle immagini di molti signori
e di molte dame di varia condizione ; la cosa più bella era
una giovane dama in una veste di pizzo bianco ritaglia­
to a giorno con carta velina; teneva appoggiato sulla
mano un pappagallo riprodotto a mosaico con le più
piccole piume di un colibrì. Le sedeva di fronte un signore
con le gambe accavallate, intento a suonare il flauto,
con una marsina di raso bluastro ed un elegante collare
di merletto : pareva che insegnasse il canto al pappagallo,
poiché questo volgeva la testa verso di lui come in ascolto.
I bottoni della sua veste erano fatti con pagliuzze luc­
cicanti color rosso.
Sfilava poi a piedi tutta una schiera di aitanti uomini
d’armi, le cui uniformi ricche di galloni, bottoni di me­
tallo, else di spada, guarnizioni di cuoio e piume ai cap­
pelli, facevan tutte testimonianza dello stesso infaticabile
zelo ; qui perù Barbara Thumeysen aveva toccato i limiti
dell’arte sua, giacché, quando volle passare ai grandi con­
dottieri a cavallo, riuscì bensì con le sue forbicine inglesi
a ritagliare ed a comporre finimenti, selle e redini in
materiale adatto, ma disegnare i cavalli superava le sue
forze, giacché sino ad allora non s’era esercitata che in
teste e in mani d’uomini, e già queste ultime le riuscivano
appena alla meglio. Si trattava dunque di trovare un
maestro o un collaboratore; s’informò e le fu detto che
Salomon Landolt era in quel momento, a Zurigo, il mi­
gliore disegnatore di cavalli.
Il signor segretario dei Proseliti venne quindi inaspet­
tatamente un giorno a rendere visita di cortesia al signor
giudice civico nonché capitano dei cacciatori, esponendo­
gli in un elaborato discorso la preghiera di voler beni­
gnamente concedere a sua figlia insegnamento e consiglio
sul come ben disporre un cavallo, così che l’animale ri­
sultasse dipinto sulla carta nella forma e nel colore na­
turale, con passo d’alta scuola, e potesse poi venire corno-
790 NOVELLE ZURIGHESI

damente sellato e bardato, pronto a ricevere un cavaliere


in arcioni in posa corretta.
Landolt si mostrò disposto a render quel servizio, an­
zitutto per mera cortesia, ma poi anche per la curiosità
di vedere la capinera che ogni mattina cantava così
amabilmente. Fu non poco stupito scorgendo il vario­
pinto mondo d’uccelli del signor segretario dei Proseliti e
Proscritti, l’upupa e tutti i cardellini, i fringuelli dorati,
le ghiandaie, i picchi e i pivieri, ma ancor più trovandosi
di fronte all’antistite, ai maestri delle corporazioni, ai
dodecarchi, alle consorti dei balivi, ai tenenti ed ai capi­
tani della signorina Barbara, nonché alla signorina stessa,
che, di figura minuta ma proporzionata, pareva scolpita
in avorio. Gli sembrò il capolavoro fra tutte le opere di
quel modesto museo di uccelli e di uomini, e cominciò
subito volentieri le sue lezioni. Le spiegò in primo luogo,
valendosi di modelli adatti, l’anatomia del cavallo, e le
insegnò poi a tracciarne con pochi tratti diritti le linee
fondamentali ed i principali rapporti, prima di passare
agli astrusi segreti formali di una testa di cavallo. L’inse­
gnamento si estese man mano al corpo intero dell’anima­
le, finché alla fine si poterono prendere i colori, passando
alla pittura dei cavalli bianchi, rossi o neri. Quanto alle
criniere ed alle code, Barbara se le riservava per confe­
zionarle con crini naturali.
Questa gradevole relazione durò parecchie settimane,
e sempre si rivelavano piccole imperfezioni o difetti che
conveniva superare. Landolt s’abituò a trascorrer da lei
un’ora o due ogni mattino ; gli preparavano un bicchiere
di Malaga con tre panini dolci, e presto lo lasciarono
anche solo con la scolara, giudicandolo il più mite e
tranquillo dei maestri che mai fosse esistito. La capinera
prese confidenza come un uccellino addomesticato e ben
presto imparò a beccargli di mano la metà dei panini
dolci e persino ad intingere il beccuccio nel suo calice di
Malaga. Un giorno essa lo sorprese col suo ritratto pre­
paratogli in segreto, in uniforme da cacciatore, in arcioni
sul suo bel cavallo pomellato ucraino. Era naturalmente
soltanto la sua parte sinistra, con la spada, una gamba so­
IL PODESTÀ DI GREIFENSEE 791

la ed un solo braccio, ma in compenso la ragazza aveva


fatto la criniera e la coda del leardo con i propri capelli
dal bel nero splendente, accuratamente tagliati ed incol­
lati, un sacrificio che, come del resto il ritratto intero,
dimostrava quanto essa lo tenesse in conto.
In realtà a lei pareva che i reciproci gusti e consuetu­
dini fossero così affini ed armonici da tener quasi per
certa, in caso di unione, una felice convivenza, ed a
questo pensava talvolta tra sé con tutta serietà arros­
sendo lievemente. Anche Salomon Landolt da parte sua
credeva di non poter augurarsi nulla di meglio dopo tante
tempeste che un approdo in quel calmo porticciuolo di
pace ed un’esistenza tranquilla nel museo della leggiadra
capinera.
Anche nelle famiglie la crescente intimità dei due ar­
tisti dilettanti era veduta con benevolenza, poiché un’u­
nione si presentava vantaggiosa e desiderabile per am­
bedue. La cosa progredì al punto che si combinò una
visita dei Thumeysen in casa Landolt, col pretesto diplo­
matico di permettere alla signorina Thumeysen di veder
le pitture di Salomon, a lei ancor del tutto sconosciute.
Benché egli possedesse una robusta e decisa vena arti­
stica, non aveva mai raggiunto il marchio dell’artista
maturo e completo, perché la vita non gliene dava il
tempo, ed anche perché nella sua modesta spensieratezza
egli non lo pretendeva. Come dilettante giungeva, co­
munque, ad un livello eccezionale d’indipendenza, d’ori­
ginale inventiva e d’intuito personale e diretto della na­
tura. A ciò si univa una tecnica fresca e gagliarda,
animata dalla fiamma d’un perenne con amore nel vero
senso della parola.
La sua «cappella pittorica», come la chiamava lui,
offriva quindi alle pareti e sui cavalletti uno spettacolo
eccezionalmente ricco e, per numerose che fossero le tele
esposte, da tutte irradiava la stessa personalità ad un
tempo audace e pacatamente armonica. L’alternarsi con­
tinuo di ombre e di luci, di echi e di silenzi in una natura
intimamente serena si manifestava solo come i mutevoli
accordi di una stessa sinfonia. I grigiori di un’alba in
792 NOVELLE ZURIGHESI

campagna, le ultime luci vespertine, le ombre dei boschi


con le ragnatele illuminate dalla luna e grevi di rugiada
sui cespugli di primo piano, la luna piena navigante
serena nell’azzurro sullo specchio d’un lago, il sole au­
tunnale in lotta con le nebbie d’un canneto, un barba­
glio rossastro d’incendio dietro i tronchi al margine d’una
foresta, un minuscolo villaggio dai comignoli fumanti in
mezzo ad una landa grigioverde, un cielo tempestoso
squarciato dai lampi, onde schiumanti sferzate dalla
pioggia: tutto questo sembrava una realtà unica, vi­
brante però di un afflato di vita. Tutto anzi pareva il
risultato di una visione, di un’esperienza propria, il frutto
di peregrinazioni notturne e di galoppate senza sosta ad
ogni ora del giorno, nella tempesta e nel vento.
Il tutto era intimamente unito ad una stirpe di crea­
ture ora impetuose e bellicose, ora solitarie e vaganti,
ora fugaci come le nubi rincorrentisi sul loro capo, ora
prossime a morir dissanguate silenziosamente sul terreno.
V’erano le pattuglie dei cavalieri della Guerra dei sette an­
ni, Chirghisi e Croati in fuga, Francesi all’assalto, ma poi
anche tranquilli cacciatori, contadini, una coppia di buoi
con l’aratro al ritorno, pastori su un pascolo autunnale, ed
anche uccelli acquatici o di bosco fatti alzare a volo
dalla guerra o dalla caccia, un capriolo brucante, una
volpe in agguato, e tutte queste creature erano sempre
nell’unico e giusto pezzetto di terra loro adatto. Spesso si
riconosceva in un ometto grigio in ombra, in lotta fati­
cosa contro una pioggia dirotta, un personaggio ben no­
to, messo qui evidentemente ad inzupparsi simbolica-
mente per punizione di qualche suo peccato; oppure si
scorgeva una donna dalla lingua malefica che, trasfor­
mata in strega notturna, si lavava i piedi in uno stagno
paludoso, il quale lambiva una forca, o finalmente si
scopriva il pittore in persona che cavalcava tranquilla­
mente lungo un’altura, incontro al tramonto, fumando
in pace la sua pipetta.
La visita venne preparata ed accolta con la massima
cortesia ; dopo il caffè, Salomon accompagnò la signorina,
vestita con gran cura e quasi da festa, nel suo studio,
IL PODESTÀ DI GREIFENSEE 793
mentre il resto della compagnia non li seguiva di pro­
posito e andava invece a vedere il giardino ed il resto
della casa all’interno e all’esterno. Salomon mostrò dun­
que ed illustrò alla fanciulla i quadri ed insieme anche
una quantità di altri oggetti: arnesi da caccia, armi,
scheletri d’animali da lui preparati e così via. Il manichi­
no, seduto in una poltrona con un costume rosso da us­
saro e in atto di osservare un quadro sul cavalletto, l’a­
veva spaventata già all’ingresso strappandole un debole
grido; ma poi la fanciulla ammutolì senza più dare alcun
segno di gioia e di consenso, e neppure di curiosità, giac­
ché tutto quel mondo era per lei estraneo ed incompren-
sibile. Salomon non vi badò; non se ne accorse neppure,
perché non cercava lode o meraviglia; nel suo zelo di
giungere alla meta, procedeva di quadro in quadro,
mentre nel petto di Barbara, serrato nella stoffa chiara
della veste, il respiro si faceva sempre più affannoso,
come oppresso da una grande angoscia. Davanti ad un
paesaggio fluviale in cui si scorgeva la lotta fra la prima
luce dell’alba e il riflesso della luna tramontante, Lan-
dolt le raccontò come avesse dovuto alzarsi presto per
cogliere quell’effetto, ma come anche non sarebbe mai
riuscito a fissarlo senza l’aiuto dell’armonica a bocca.
Le spiegò sorridendo l’efficacia della sua musica quando
si tratta della fusione di delicate tonalità di colori ed
afferrò il minuscolo strumento posto su una tavola carica
di mille oggetti, lo portò alla bocca e gli strappò alcune
note trepide, appena accennate, che ora quasi parevano
svanire ed ora, alzandosi delicatamente, venivano a
fondersi.
— Ecco, — esclamò — questo è il grigio azzurro che
sull’acqua trascolora in un rosso rame, mentre la stella
mattutina splende ancora con inconsueta grandezza!
Credo che oggi avremo pioggia su questo paesaggio !
Mentre si voltava a guardarla allegramente, s’accorse
che in realtà la pioggia luccicava già negli occhi di Bar­
bara. Essa era pallidissima ed esclamò con disperazione:
— No, no ! Noi non siam fatti per stare insieme, mai
e poi mai !
794 NOVELLE ZURIGHESI

Egli le prese la mano spaventato e stupito, domandan­


do che cosa mai avesse.
Ma la fanciulla gli sottrasse con impeto le mani e co­
minciò a spiegargli con parole confuse che lei non capiva
nulla di tutta quella roba, che non arrivava, né mai sa­
rebbe arrivata, ad intenderla, che tutto le sembrava quasi
ostile e spaventoso e che in tali condizioni non c’era da
pensare ad un’esistenza armoniosa, giacché ciascuna delle
parti era rivolta in una diversa direzione; Landolt del
resto non poteva aver stima per i suoi lavori pacifici ed
ingenui che sino ad allora l’avevano resa felice, tal quale
come lei non era in grado di seguire neppur con un mi­
nimo di comprensione l’attività di lui.
Landolt cominciò allora a comprendere il suo pensiero
e la sua inquietudine, e le rispose, rincorandola dolce­
mente, che le sue pitture non erano che uno spasso, pro­
prio come quelle di lei, qualcosa di secondario, senza al­
cuna importanza. Ma le sue parole peggioravano solo
la situazione e Barbara corse fuori dalla stanza eccitata,
cercò i suoi genitori invocando in lagrime d’essere riac­
compagnata a casa. Fu circondata dai presenti confusi e
desolati ; sopravvenne anche Landolt ed ella ripetè le sue
strane dichiarazioni. Fu sempre più chiaro che essa attri­
buiva a quel che la tormentava un’importanza ben mag­
giore di quanto si sarebbe potuto supporre data l’inno­
cente modestia di una cosi giovane e tenera creatura,
ma anche che l’incapacità di superare se stessa e di affron­
tare un elemento estraneo doveva in gran parte ascriversi
ad una certa angustia mentale in cui era stata educata.
A nulla giovarono le buone parole di Landolt e dei
suoi genitori; i parenti della ragazza disperata, d’altra
parte, sembravano condividerne Io spavento ed affret­
tarono la ritirata. Chiamarono una portantina e vi fic­
carono la figliola che subito abbassò la tenda dello
sportello, e la piccola carovana se ne partì quanto più
rapidamente fu possibile ai portatori, con viva irritazione
e mortificazione della famiglia Landolt.
L’indomani mattina, appena l’ora gli parve opportuna,
Salomon si recò alla casa del segretario ad informarsi
IL PODESTÀ DI GREIFENSEE 795
della salute di sua figlia e a vedere come si potesse rime­
diare. I genitori lo accolsero con molte scuse cortesi e gli
spiegarono che l’animo tenero della figliola era stato
spaventato non soltanto dall’intenso culto della natura
e dalla selvaggia passione per lo schizzo dei suoi quadri,
ma anche dal manichino, dagli scheletri d’animali e da
tutte le altre bizzarrie, ed aggiunsero che essi pure eran
costretti a riconoscere che simili evidenti capricci arti­
stici avrebbero minacciato la pace di una modesta casa
borghese. Mentre tenevano tali discorsi che sempre più
meravigliavano il buon Salomon, sopravvenne la figlia
con gli occhi sciupati dal pianto, ma ormai calma; gli
porse gentilmente la mano e gli disse con parole dolci ma
risolute che avrebbe potuto diventare sua moglie sol­
tanto alla precisa condizione che ambo le parti rinun­
ciassero per sempre a far quadri e dessero il bando a tutte
le cose estranee che si erano intromesse fra loro, facendo
ciascuno il suo sacrificio di buon animo.
Salomon Landolt esitò un istante, ma la sua presenza
di spirito gli fece tosto comprendere che questo, pur sotto
la veste d’ingenua limitatezza, era una forma di indiscre­
zione che non garantiva certo la futura pace domestica
e rendeva troppo caro il sacrificio richiesto. Senza osare
una parola di difesa per la sua «cappella pittorica» si
congedò da quei signori, cominciando dall’upupa sino
al signor antistite e a tutto il suo seguito.

Era da poco trascorso il consueto periodo di lutto che


segue alla morte di una speranza, nonché l’ira della non­
na per quella «bella macchinazione» da lei alla fine
scoperta, quando arrivò a volo il merlo, immediato se­
guace della precedente capinera.
In un sobborgo, fra bei giardini, c’era una casa metà
cittadina e metà campestre, in cui Landolt soleva venire
di frequente, avendovi amici che molto lo apprezzavano.
Come insegna di quella tenuta poteva servire il merlo
che in primavera si posava ogni sera sulla cima più alta
di un grande pino situato in un angolo del giardino,
di lì allietando l’intera regione col suo canto armonioso.
79θ NOVELLE ZURIGHESI

Col nome di quell’uccellino Ländolt, afferrando la carat­


teristica più vicina, chiamò la bella fanciulla Aglaja, che
non è un nome cristiano, ma un’altra designazione da
lui escogitata, perché riteneva erroneamente tal nome
di una delle tre Grazie identico a quello della pianta
Aglei, ovvero aquilegia vulgaris. Lo aveva indotto a tale er­
rore la vista graziosissima della pianticella d’aquilegia, le
cui campanule ora azzurre ed ora violacee gli parevano
ondeggiare e occhieggiare sugli alti steli con la stessa
grazia dei riccioli biondo cenere intorno alla nuca di
Aglaja, o merlo.
Passando una sera della primavera precedente da­
vanti a quella casa, aveva sostato un momento per
ascoltare il canto del merlo ed aveva scorto per la prima
volta la bella creatura in piedi sotto l’albero. Era una
figliola fatta ritornare dopo parecchi anni di soggiorno
all’estero. I suoi occhi l’avevano veduta benissimo, ma
essendo allora immerso nell’avventura wendelgardiana,
aveva proseguito per la sua strada dopo una scappellata.
Intanto era sopraggiunto l’autunno e un giorno che
Salomon, passeggiando al tiepido sole lungo il margine
d’un boschetto, aveva trovato una tardiva aquilegia in
fiore, l’aveva còlta ed osservata, gli rivenne di colpo alla
memoria la bella fanciulla sotto l’albero del merlo, alla
quale non aveva mai più pensato. Quel misterioso ed
immediato suggerimento del fiore parve al suo cuore
provato ed ancora nostalgico una stella che salisse tarda
ma limpidissima, un’ispirazione insomma non fallace e
di natura sublime. Rivide chiaramente la snella person­
cina dal capo ricciuto, che ad occhi chini ascoltava il
canto dell’uccellino per volgere poi i grandi occhi seri
al suo saluto.
La sera di quel giorno stesso tornò dopo lunga interru­
zione a far visita in quella casa e vi rimase quasi tre ore
in buona conversazione colla famiglia. Aglaja sedeva in
silenzio al tavolo, intenta a far la maglia, ma quando
Salomon parlava lo studiava con aperta attenzione e, se
poi un altro diceva qualcosa di notevole, di nuovo si
volgeva a Landolt quasi per spiarne il giudizio. Egli si
IL PODESTÀ DI GREIFENSEE 797
sentì molto soddisfatto, ed alla sua partenza la fanciulla
gli porse la mano con decisione e gli scosse ripetutamente
la sua, come ad un vecchio amico. Incontrandolo poco
tempo dopo per strada, rispose al suo saluto con un lieve
sorriso di gioia per l’insperato caso e non molto tempo do­
po inviò al nuovo amico persino una missiva, chieden­
dogli se non volesse assistere alla loro piccola vendem­
mia di quel giorno, che la sera sarebbe stata coronata
da una modesta festicciola casalinga. Egli accettò di
buon grado e all’ora indicatagli si recò, munito di fuochi
artificiali, nella dimora quasi campestre, dove era ac­
corsa una folla allegra di giovani e di fanciulle. Si rese
utile e simpatico presso quella vivace gioventù con i suoi
razzi ed i suoi fuochi. Aglaja, che tutto disponeva e diri­
geva, l’assicurò ripetutamente della gioia che provava
per la sua venuta e per quei fuochi e, quando poi ci si
sedette per il consueto pranzo dei vignaioli e la padrona di
casa, sua madre, dovette ritirarsi per un malessere im­
provviso, Aglaja lo fece sedere in fondo alla lunga tavola,
ma proprio accanto a lei.
Anche qui Salomon seppe rendersi utile trinciando
con mano sicura un’oca e due lepri, del che Aglaja lo
complimentò di nuovo lietamente. Essa lo fece come chi
sia felice di poterlo fare, benché l’occasione venisse dalla
circostanza che suo padre s’era scottato una mano e non
poteva quindi trinciare. Quando fu placata la fame del­
l’allegra compagnia e prevalsero chiasso, canti, musiche e
balli, Aglaja si abbandonò contenta sulla sedia, dicendo
di voler riposare della lunga fatica del giorno e le fu fa­
cile trattenersi accanto il vicino. Conversarono scambian­
dosi semplici frasi, con grande interesse e tranquilla
soddisfazione, non disturbati dalla chiassosa allegria au­
tunnale. Aglaja scrutava il volto di Salomon con viva
cordialità e, quand’essa invece guardava dinanzi a sé
meditabonda, era lui che tornava a contemplarne la leg­
giadra testolina e la bella persona. Insomma, in quelle
ore essi divennero decisamente amici ed al congedo l’a­
mabile fanciulla pregò formalmente il giovanotto di ripe­
ter con frequenza le sue visite e di mantenere con lei rap­
79« NOVELLE ZURIGHESI

porti confidenziali, ai quali le sarebbe doluto rinunciare.


In seguito trovò modo di mandargli continui messaggi,
per chieder qualcosa o per mantenere una promessa che
si era fatta carpire con abilità, e Salomon si diceva con
cuore commosso che aveva finalmente bussato alla giu­
sta porta. “Eccone una” pensava “che sa quel che vuole
e dirige il timone con aperta lealtà, senza far moine, verso
la sua meta; se questa meta sia poi assennata o stolta,
non sarò tanto pazzo da voler scrutare, visto che essa
riguarda me medesimo. Badi ognuno ad ottenere quel
che gli spetta!”.
A questo modo s’immergeva sempre più in un sogno
che gli appariva più dolce e leggiadro di tutti quelli pre­
cedenti, quasi una nuova vita, limpida e calma come il
cielo azzurro. Diffidava però per istintiva prudenza dal
turbare quella limpidezza e dall’affrettare le cose; go­
dette anzi per tutto l’inverno di quella mai provata calma
nella passione, compiacendosene con crescente sicurezza
ed intimità, anche perché Aglaja si mostrava d’umore
piuttosto serio che allegro e s’abbandonava sovente a
sognanti meditazioni, che interrompeva per alzare al­
l’improvviso gli occhi su di lui.
“Bene,” pensava “lasciamo che il pesciolino si dibatta un
pochino ! Questa razza ci ha già tormentati abbastanza !”.
In primavera però parve che Aglaja volesse prender
lei l’iniziativa. Manifestò inaspettatamente il desiderio
di riprendere le trascurate corse a cavallo e avviò la cosa
in modo che senza gran fatica Landolt fu prescelto come
suo accompagnatore e maestro. Percorsero così insieme
a cavallo le più belle strade della regione, lungo il lago
e nei boschi della collina, mentre Aglaja dava prova di
non aver assolutamente bisogno di ulteriori insegnamen­
ti. Tanto più confidenziali e svariate erano le loro con­
versazioni, in cui si confidavano tutto quanto li allietava
o li irritava nella bellezza del mondo e nelle asperità
della terra.
Probabilmente qualcuna delle svariate vicende amo­
rose di Salomon doveva essere in parte trapelata; certo
l’ultima avventura era arrivata al pubblico dal segre-
IL PODESTÀ DI GREIFENSEE 799
tario dei Proseliti, forse perché la tragica fine della visita
e la partenza solenne in portantina avevan reso neces­
saria una sufficiente spiegazione.
A questo Landolt attribuì le parole di Aglaja, che un
giorno, durante una sosta sotto i tigli già verdeggianti,
mentre lasciavano che i cavalli riprendessero fiato, gli
disse con voce sommessa, quasi compassionandolo:
— Amico carissimo, lei è certamente già stato molto
infelice !
Sorpreso dalla domanda improvvisa, replicò con un’oc­
chiata ridente:
— Oh, non la va male ! Posso quasi dire, come lo
shakespeariano amico Silence, che «sono stato un paio
di volte allegro e un paio di volte malinconico nella mia
vita!» — Intanto però disse a se stesso: “È arrivato il
momento! Ora bisogna decidersi!”. Ma, forse perché
gli parve che lo stare in arcioni poco si confacesse ad una
dichiarazione amorosa con le sue inerenti circostanze,
o forse perché lo trattenne un’estrema esitazione pruden­
ziale, mise i cavalli al trotto serrato, interrompendo il
colloquio. Aglaja al congedo gli strinse la mano con inso­
lito calore e Salomon appena giunto a casa le scrisse in
poche righe quanto le volesse bene. Essa gli rispose su­
bito che le sue care parole la commuovevano, la rallegra­
vano e la onoravano: volesse intanto andarla a prender
l’indomani per una lunga passeggiata, alla quale avreb­
bero trovato un pretesto conveniente. Di buon mattino
giunse un altro biglietto per fissare la forma ed il pre­
testo: coincidenza casuale di due visite nella stessa zo­
na, accompagnamento a piedi lungo sentieri, dato il bel
tempo, e così via.
Landolt si vestì con maggior cura del solito, quasi
come un lacedemone che andasse in battaglia ; infilò per­
sino bottoni di granata nei polsini e prese in mano una
canna sottile col pomo d’argento.
Anche Aglaja si presentò al suo arrivo in perfetta ele­
ganza estiva : indossava una veste bianca stampata a vio­
lette e portava guanti lunghi di pelle finissima. Ma l’or­
namento migliore erano i suoi occhi, coi quali rivolse a
8oo NOVELLE ZURIGHESI

Salomon, stringendogli la mano, uno sguardo luminoso.


Impaziente come chi, trovandosi in un grave frangente,
desidera compiere il passo decisivo, essa volle affrettare
la partenza.
Mentre guardava l’eletta personcina precederlo sullo
stretto sentiero, Landolt lodò nel suo cuore la snella pian­
ta d’aquilegia dalle corolle pendule che l’aveva guidato
per un così ameno cammino. Nella giovane faggeta che
stavano attraversando frusciava un lieve venticello che
sollevava i riccioli sulla nuca e sulle spalle di Aglaja.
“I proverbi hanno però sempre ragione!” disse Salo­
mon tra sé: “Ride bene chi ride ultimo, e tutto è bene
ciò che finisce bene !”.
Proprio in quel momento Aglaja si volse e, poiché il
sentiero si allargava, gli si pose al fianco. Tornò a tender­
gli la mano, un vago rossore le inondò il viso e gli disse
con occhi raggianti, che si riempirono però di lagrime:
— Io la ringrazio del suo nobile sentimento e della sua
fiducia ! Lei avrà certo più fortuna che se fossi io la pre­
scelta a renderla felice ! Deve sapere che io sono presa da
una passione beata e sciagurata ad un tempo, che un
uomo da me adorato mi riama : sì, a lei posso dire di esse­
re amata !
E gli raccontò con parole appassionate e commosse la
sua storia d’amore e di dolore svoltasi in Germania con
un pastore evangelico.
— Un prete ! — disse Landolt quasi senza voce, e pro­
prio in quel momento incespicò, malgrado il bastoncino
dal pomo d’argento e malgrado sulla strada non ci fosse
la più piccola pietra.
— Oh, non dica così ! — supplicò la fanciulla — È un
uomo meraviglioso ! Guardi, guardi la profondità di que­
sti occhi !
Così dicendo trasse dal seno un medaglione appeso ad
un cordoncino ben nascosto e gli mostrò il ritratto.
Era un giovane in veste nera, dai tratti regolari e con
quegli occhi grandi e scuri coi quali molti pittori si com­
piacciono di rappresentare Gesù Nazareno. Si sarebbe
potuto anche chiamarli occhi neri giunonici. Landolt
IL PODESTÀ DI GREIFENSEE 801
mentre osservava il ritratto con sentimenti amari ma
con sguardi impassibili, pensava: “Ha gli occhi di una
giovenca !”.
Dopo che la fanciulla se lo fu ricacciato nel candido
seno, gli parve di udirlo ridacchiare sottovoce secondo il
proverbio : « Ride bene chi ride ultimo ! ».
La vicenda che Aglaja si diede a raccontargli era a un
dipresso la seguente : Condotta ancora giovinetta da una
famiglia di parenti nella città tedesca di X per compiervi
la sua educazione, vi aveva conosciuto un giovane sacer­
dote che già era salito in gran fama per le sue doti di
predicatore. Era rigidamente ortodosso, pur con un velo
del fanatismo pietistico del suo tempo ; parlava della divi­
nità redentrice, degli inesauribili tesori d’amore e del­
la patria eterna con tanta intensità e persuasione, che
tutto sembrava realizzato e garantito nella sua perso­
na, e questo, unitamente ai suoi occhi affascinanti, su­
scitò nella fanciulla inesperta l’inestinguibile brama di
possedere quel cuore, brama resa più intensa dall’eccesso
della fantasia, che tutto indorava e trasfigurava, facendone
una passione ardente e soavemente dolorosa, la quale col
passar degli anni crebbe invece di calmarsi. Tale passione,
che naturalmente presto si tradisce, non poteva vivere
in un essere di tanta bellezza senza incontrare deciso ri­
cambio. Tanto i parenti di Germania che i genitori non
erano però inclini ad un’unione, per molteplici motivi,
e quanto più diventava serio lo stato d’animo della bella
Aglaja, tanto più aumentarono anche le difficoltà insorte
contro i suoi desideri, sin che la fanciulla fu violentemen­
te allontanata e ricondotta a casa.
La sua indole profonda la indusse tuttavia ad aggrap­
parsi ancor più alla sua passione: scambiò lettere con
l’amato, esteriormente calma, ma nell’intimo pervasa
dalla speranza non mai spenta, che riavvampò potente-
mente quando il giovane pastore, accompagnando un
gran signore durante un viaggio in Svizzera, ebbe occa­
sione di vederla e fu persino accolto nella sua casa. Per
quanto ormai la sua situazione ed il suo avvenire appa­
rissero assicurati, non mutarono i motivi di opposizione
8o2 NOVELLE ZURIGHESI

da parte dei genitori, che sempre avevan coltivato altre


mire nei riguardi della figliola e che, con calma dol­
cezza e tenerezza, ma con non minore tenacia e perseve­
ranza, rimanevan fedeli ai loro piani.
Le cose erano a questo punto quando Aglaja, sempre
in cerca di alleati, prendendo la surriferita via traversa,
invocò come amico ed alleato Salomon Landolt, che fu
pronto a diventarlo.
L’accompagnò fedelmente sino alla villa dove voleva
recarsi, andando poi a prenderla verso sera, e, quando
tornarono a casa, essa l’aveva del tutto guadagnato alla
sua causa. Salomon amava ed ammirava il suo amore,
di cui non aveva mai veduto un eguale, provò persino
simpatia per il felice oggetto e ritenne doveroso onore da
parte sua aiutare la bella Aglaja.
Cominciò col parlare in via confidenziale con persone
autorevoli, riuscendo a circuire i genitori con nuovi punti
di vista e nuovi consigli; poi parlò egli medesimo ripe­
tutamente col padre e con la madre e, avanti che fosse
trascorso un semestre, aveva appianato la via al punto
che il signor pastore potè venire a prendersi la bella
sposa. Essa dovette all’amico persino il titolo di «moglie
di un consigliere del concistoro e predicatore di corte»,
giacché Landolt, per sistemarla bene, aveva messo in
moto i più alti e i più dotti corrispondenti di Zurigo.
Le serbò cordiale interessamento anche quando, quat­
tro o cinque anni più tardi, essa tornò in patria vedova e
sola, poiché purtroppo la intensa luce degli sguardi di suo
marito era anche stata effetto di una tendenza all’etisia,
e di tale male era precocemente morto. L’aveva non meno
consumato l’ardente ambizione, la smania incessante di
prestigio, di promozioni e di redditi, né mai Aglaja do­
vette sentir tanto accanitamente far calcoli di decime,
introiti e prebende come nei brevi anni del suo matrimo­
nio. Tanto più pacata e rassegnata pareva trascorrere
ora i suoi giorni.

Tali erano le cinque donne, le antiche amiche che il


podestà di Greifensee sentiva il desiderio di raccogliere in
IL PODESTÀ DI GREIFENSEE 803

casa sua. Due o tre vivevano a Zurigo, le altre non lon­


tano, e si trattava soltanto di allettarle a venire, in modo
che nessuna sapesse delle altre, ma che tuttavia ciascuna
ci venisse sola, convinta di incontrarvi persone amiche.
Tutto questo Landolt discusse con la signora Marianne,
prendendo le opportune disposizioni. Fissò l’ultimo gior­
no di maggio per la grande festa e distribuì gli inviti,
che vennero tutti accettati senza sospetti, così che il
piano sembrava dover riuscire ottimamente.

Alle prime luci del 31 maggio Landolt salì sulla più


alta vedetta della torre per studiare il tempo. Il cielo era
tutt’attorno senza nubi, le stelle impallidivano mentre
l’oriente cominciava a colorarsi di rosa. Innalzò allora
sulla torretta la grande bandiera con il grifone rampante,
e dietro la muraglia di cinta preparò due cannoncini per
salutare con le loro salve l’arrivo delle sue belle. Per es­
ser tranquillo aveva disposto che ciascuna venisse accolta
ed accompagnata al castello da una carrozza diversa.
Tutta la servitù dovette vestirsi da festa: il personaggio
più grazioso era la scimmietta Cocco, che, particolar­
mente ammaestrata per quella giornata, con addosso un
costume da vecchierella, recava sull’ampio nastro della
cuffia la scritta : « Io sono il tempo ! ».
Entro la casa faceva da maggiordomo la signora Ma­
rianne in un ricco costume un po’ antiquato e di sfarzo
cattolico-tirolese; le era stato dato come aiuto un bel
fanciullo quattordicenne, che il podestà aveva apposita­
mente scelto e travestito da graziosa cameriera, desti­
nandolo al servizio delle dame.
Verso le nove echeggiò la prima salva; si vide avan­
zare senza fretta tra gli alberi e le siepi una carrozza in
cui sedeva Figura Leu. Quando la carrozza si fermò da­
vanti al portone, vi si arrampicò la scimmietta con un
gran mazzo di rose profumate e glielo mise in mano con
buffi gesti. Sciogliendo subito il rebus, Figura prese in
grembo Cocco insieme alle rose ed esclamò, intanto che
scendeva con gioiosa allegria e che il podestà, con lo spadi­
no al fianco ed il cappello in mano, le offriva il braccio sa­
804 NOVELLE ZURIGHESI

lutandola : « Ma che succede da lei, che significano la ban­


diera sul tetto, il cannone e il tempo che offre le rose?».
Poiché Figura era del tutto innocente e la sua predi­
letta, egli la iniziò al segreto, confidandole che quel gior­
no si sarebbero incontrate lì tutte le cinque famose donne.
Essa dapprima arrossì, ma dopo un momento di medita­
zione ebbe un arguto sorriso e disse : « Lei è un briccone ed
un burlone ! Stia in guardia, perché noi la crocifiggere­
mo e metteremo arrosto la sua scimmia insieme alle sue
rose, singe aux rosesi Non è vero Cocco, piccolo podestà?».
L’aveva appena accompagnata in casa, dove ebbe su­
bito i servigi della signora Marianne e della servetta-
paggetto, quando riecheggiò una salva ed avanzarono
due carrozze ad un tempo. Erano Wendelgarde e Salome,
il capitano e il cardellino, che arrivavano e che già per
via s’erano reciprocamente stupite, chiedendosi chi mai
potesse esserci nella carrozza poco lontana. Queste due
dame sapevano l’una dell’altra e dei loro passati rapporti
con il podestà, si squadrarono rapidamente con occhi
curiosi, ma vennero tosto distratte da Cocco, che arri­
vava saltellante con nuovi mazzi di rose, e da Landolt
che, prendendo ambedue insieme sotto braccio, le guidò
verso casa.
Ivi la signora Marianne aveva appena finito il suo
primo esame di Figura Leu, e, poiché la sapeva monda
d’ogni colpa, si comportò con benigna umanità nei suoi
riguardi, ma tanto più ardenti fiammeggiarono i suoi
occhi all’ingresso di Wendelgarde e di Salome. Le narici
del naso adunco e il labbro superiore velato da baffetti
neri vibrarono violentemente all’appressarsi delle due
belle donne che avevano un giorno rinnegato il podestà,
e ci volle un’occhiata severa del padrone per tenere a
freno la fida governante e costringerla ad un contegno
sufficientemente cortese.
Anche Aglaja, che sopraggiunse e venne accolta allo
stesso modo delle precedenti, dovette subire un esame
molto critico, non essendo ben stabilito se il suo modo di
trattare il podestà per conquistarsi un alleato nella ne­
cessità era perdonabile od imperdonabile. La vecchia
IL PODESTÀ DI GREIFENSEE 805

la lasciò tuttavia passare con un celato brontolio, consi­


derando che comunque Aglaja era stata capace di un
grande amore e si era sposata seguendo la sua prima
inclinazione.
Degnò invece appena d’uno sguardo la capinera, il cui
arrivo fu annunziato dagli ultimi colpi di cannone. Che
doveva farsene di quel moscerino che aveva osato aspi­
rare al signor podestà, ma che poi ne aveva avuto paura?
Il podestà s’accorse subito che la povera capinera,
già quasi tremante e incapace di muoversi accanto a
quelle imponenti matrone, era perduta di fronte alla
vecchia vivandiera degli ussari, e l’affidò quindi con al­
cune paroline in disparte alla protezione particolare di
Figura, che tosto s’occupò di lei. Cominciò a questo
punto un grande scambio di saluti e di presentazioni;
all’infuori di Figura Leu, le belle donne si guardavano
di traverso, non sapendo che atteggiamento prendere,
giacché tutte si conoscevan di vista o per sentito dire,
oltre al parentado fra Wendelgard e Figura. Quest’ulti-
ma però, alleandosi al buon umore del podestà, diffuse
subito un tono di serena allegria ; non si permise che su­
bentrasse un’inutile tensione, ma fu subito offerto un
primo spuntino di tè, vin dolce e pasticcini. La signora
Marianne provvedeva a mescere, la cameriera-paggio
distribuiva tazze e bicchierini, mentre le dame osservavan
tutto con curiosità, specialmente la giovane servente, che
pareva loro sospetta. Studiarono poi le pareti e l’arreda­
mento della stanza e si squadrarono reciprocamente,
mentre Landolt si rivolgeva ad ognuna con cortese con­
fidenza, considerandole e confrontandole con occhio sod­
disfatto, sin che alla fine esse si resero conto della loro
situazione e compresero d’esser cadute in un agguato.
Cominciarono ad arrossire e a sorridere, poi alla fine a
ridere apertamente, senza però che venisse spiegata la
ragione e l’ormai palese segreto; allora, impreveduta-
mente, il podestà spense quell’allegria, scusandosi con
solenne serietà di dover dedicarsi per un’ora alle sue fun­
zioni e trattare in giudizio alcuni casi. Erano soltanto
faccende non gravi e dispute matrimoniali, e pensava
8o6 NOVELLE ZURIGHESI

che, forse, le signore si sarebbero divertite ad assistere ai


dibattiti. Accettarono con gratitudine l’invito ed egli le
accompagnò quindi nella sala delle udienze, ove presero
posto come fossero giurati, ai due lati del suo seggio,
mentre il segretario sedeva al suo tavolino in faccia a loro.
L’usciere introdusse quindi una coppia di contadini
che viveva in gran discordia, senza che sino ad allora al
podestà fosse riuscito di stabilire da qual parte stesse la
colpa, dato che si coprivan reciprocamente di recrimi­
nazioni e di accuse e nessuno dei due esitava a ricambiar
la cattiva moneta dell’avversario con spiccioli abbon­
danti. Poco tempo prima la moglie aveva scagliato ad­
dosso al marito una scodella di zuppa bollente, tanto che
questi si presentava con la testa scottata, di dove già
si staccavano i capelli a ciocche, del che egli faceva conti­
nuamente la prova, pentendosene poi al vedersi in mano
nuovi ciuffetti. La donna però negava senz’altro il de­
litto e affermava che il marito, accecato dalla rabbia,
aveva scambiato la scodella per il suo berretto di pelo
e se lo era voluto ficcare sul capo. Il podestà, per trovare
una via d’uscita, fece allontanare la donna e disse poi
al marito: «Vedo bene, o Hans Jakob, che tu sei la
vittima, che sei un povero Giobbe, mentre il torto e la
perfidia stan dalla parte di tua moglie. La farò quindi
portare domenica prossima sulla piazza del mercato e tu
potrai farla girare nella berlina in presenza di tutta la
comunità, sin che il tuo cuore sarà pago e lei sarà do­
mata ! ». Ma il contadino rimase atterrito da quella sen­
tenza, e pregò insistentemente il podestà di rinunciarvi.
Benché sua moglie, disse, fosse perfida, era pur sempre
sua moglie, e sarebbe stato sconveniente esporla in tal
modo alla pubblica vergogna. Si permetteva di chiedere
che tutto si limitasse ad un’energica reprimenda. Dopo
di che il podestà fece uscire il vecchio e rientrare la mo­
glie e le disse: «Vostro marito, a quel che pare, è un
buono a nulla che si è bruciato la testa da solo, per met­
ter voi in questo stato. La sua raffinata perfidia merita
una degna punizione, che voi stessa potrete applicare.
Domenica metteremo quel briccone nella berlina e voi
IL PODESTÀ DI GREIFENSEE 807

girerete la gabbia in presenza di tutti fin che ne avrete


pago il cuore !». La donna al sentir questo fece un salto
di gioia, ringraziò il signor podestà della bella sentenza,
e giurò che avrebbe girato la gabbia senza stancarsi sino
a cavargli l’anima!
« Ecco scoperto dove sta ficcato il diavolo ! » disse al­
lora il podestà con voce severa, e condannò la perfida
donna a rimaner chiusa per tre giorni a pane ed acqua
nella torre. La strega si guardò attorno rabbiosa e, ve­
dendo sedute a destra e a sinistra del giudice le dame
con le rose che la osservavano intimidite, mostrò loro la
lingua in ambo le direzioni prima di lasciarsi condur via.
Si presentò poi una coppia mal ridotta, che non sa­
peva trovar pace senza capirne la ragione. La sorgente
della disgrazia stava in ciò, che marito e moglie sin dal
primo giorno non s’eran mai rivolti la parola con genti­
lezza, l’uno non tollerando che l’altra parlasse. E questo
derivava a sua volta dalla mancanza di ogni grazia este­
riore nei due individui, la quale avrebbe provocato una
tregua ed un punto di riconciliazione. Il marito era un
sarto persuaso di possedere un profondo senso di giusti­
zia e ci andava pensando incessantemente durante il
lavoro, quando altri sarti invece cantano una canzonetta
o inventano uno stupido scherzo; la moglie si occupava
esclusivamente del loro piccolo pezzo di terra e si pro­
poneva durante il lavoro di non cedere alla prossima sce­
nata ; e poiché erano ambedue dei buoni lavoratori, non
trovavan tempo per litigare che a tavola. Ma non sape­
vano far buon uso neppure di quel tempo, perché subito
al principio della disputa lanciavano acuti dardi che li
oltrepassavano, finendo entro ignote zone paludose, dove
non era possibile un regolare duello e dove la parola af­
fogava nella muta rabbia. Dato questo tenor di vita il
cibo non faceva loro buon pro ed essi avevan la faccia
della carestia e della miseria, benché, come si è detto,
fossero poveri soltanto di gentilezza, ma in questo, certo,
i più poveri tra i proletari. Il giorno avanti, l’ira del ma­
rito era giunta al sommo grado, tanto che era balzato in
piedi e scappato via da tavola. Essendogli rimasta però
8o8 NOVELLE ZURIGHESI

impigliata la tovaglia lacera ad un bottone del panciotto,


s’era tirato dietro la tovaglia ed insieme la zuppa d’avena,
la terrina dei cavoli, i piatti e tutto il resto, gettando
ogni cosa a terra. La moglie vide in ciò una violenza
voluta, ed il sarto, con improvvisa saggia illuminazione,
glielo lasciò credere, per rafforzare la sua autorità e di­
mostrare la sua energia. Ma la moglie non volle tollerare
simili scenate e lo denunciò al podestà.
Questi, dopo averli interrogati successivamente ed
aver ascoltato le loro misere dispute senza bussola né
timone, intuì la natura della faccenda e condannò la
coppia a quattro settimane di prigione ed all’uso del
«cucchiaio matrimoniale». Ad un suo cenno l’usciere
staccò questo utensile dalla parete, dove stava appeso ad
una catenina di ferro. Era un cucchiaio doppio, intaglia­
to finemente in legno di tiglio, con un manico solo e due
incavature, fatte in modo che l’una era volta all’insù e
l’altra all’ingiù.
«Guardate,» disse il podestà «questo cucchiaio è
tratto da un tiglio, dall’albero dell’amore, della pace
e della giustizia. Mangiando, quando vi porgete il cuc­
chiaio (poiché non ve ne sarà dato un altro) pensate ad
un bel tiglio verde tutto in fiore, sul quale cinguettano
gli uccellini mentre gli passan sopra le nuvole del cielo,
e sotto il quale siedono gli amanti, tengon giudizio i giu­
dici e si concludono trattati di pace ! ».
L’ometto dovette prendere il cucchiaio, la donna gli
tenne dietro coprendosi gli occhi col grembiule, e così
la coppia pallida e miserella s’awiò triste al luogo di
sua destinazione, di dove uscì dopo quattro settimane
riconciliata e concorde, e persino con un lieve inizio di
colorito sulle guance.
Dopo di loro venne introdotto, proveniente dal car­
cere, un grasso donnone iracondo, che si guardò attorno
brontolando con evidente malessere. Era la moglie di un
funzionario subalterno, che aveva indotto il marito a ten­
tar di corrompere il podestà con un quarto di vitello,
perché egli fosse loro benigno e lasciasse passare qualche
magagna. Il signor Landolt aveva allogato nella torre
IL PODESTÀ DI GREIFENSEE 809

la donna, che aveva portato in persona la carne offren­


dola con molte moine, e ce l’aveva lasciata sin che avesse
mangiato tutto il suo quarto di vitello, appositamente
cucinato per lei. Naturalmente lei s’era affrettata quanto
possibile e non poteva dissimulare un certo malessere.
Il podestà le dichiarò che la consumazione del quarto di
vitello era la pena per il suo tentativo di corruzione,
ma che l’aver indotto al male il proprio marito esigeva
una multa di venticinque fiorini, mentre la debolezza
del marito subiva pure la pena di altri venticinque fiorini,
del che l’usciere doveva prender nota. La grassona abboz­
zò un goffo inchino e se ne andò arrancando e tenendosi
il ventre con ambo le mani.
Due sorelle di bell’aspetto erano accusate di dar la
caccia ai mariti tranquilli ed ingenui, portando discordia
e sventura nelle famiglie, e di lasciar per di più patir
la fame alla propria vecchia madre malata. Chiamate
in giudizio davanti al podestà, si presentarono in vesti
seducenti, con i capelli acconciati in modo provocante
e ornati di fiori e si fecero avanti sorridendo dolcemente
e lanciando al podestà occhiate di fuoco. Questi, com­
prendendo le loro impudenti intenzioni, sbrigò presto
l’interrogatorio ed ordinò poi di condurle fuor della sala,
di tagliare loro i bei capelli, picchiarle con la verga e
mandarle poi a filare sino a che avessero guadagnato a
sufficienza per il mantenimento della madre.
Si presentarono poi in veste di accusatori due seguaci di
sètte religiose. Costoro avevan ricusato il giuramento dei
cittadini al podestà e si erano rifiutati ostinatamente di
adempiere ogni loro civico dovere, senza prestar ascolto
ai ripetuti e benevoli ammonimenti, e ciò sempre in nome
della loro fede e della loro intima missione. Ora venivano
a denunciare dei poveretti che si erano introdotti nei
loro boschi rifornendosi a piacimento di legna da ardere.
— Chi siete? — disse il podestà — Io non vi conosco !
— Come è mai possibile? — esclamaron quelli dicendo
i propri nomi — Già più volte ci avete citati a comparire
e ci avete mandato i messi con ordini scritti o orali!
— E tuttavia io non vi conosco ! — continuò Landolt
8ιο NOVELLE ZURIGHESI

impassibile — Poiché voi stessi ricordate di non aver rico­


nosciuto i vostri doveri di cittadini, io non posso ricono­
scere i vostri diritti : andate a cercarli dove li troverete !
Quelli se la svignarono mortificati e cercarono subito
di ottener giustizia ottemperando ai loro doveri.
Analogamente licenziò con le sue buone trovate altre
parti contendenti ed altri denuncianti ; conciliò discordie
e punì fannulloni, e fu degno, di nota il fatto che, ecce­
zion fatta per il funzionario desideroso di corrompere,
non impose alcuna multa in denaro, né incassò uno
scellino, mentre di solito i podestà eran costretti a valersi
di quella parte della giurisdizione quale sorgente dei
propri redditi e non di rado ne facevano abuso. Le sue
sentenze avevano quindi buona fama in alto ed in basso;
i suoi giudizi erano chiamati doppiamente salomonici, e
la seduta di quel giorno, per il profumo di rose che riem­
piva la sala, fu definita a lungo dalla gente l’udienza
delle rose del podestà Salomon.
Egli fu però contento di aver sbrigato gli affari che,
trattenuto dai preparativi per il solenne invito, era stato
costretto a rimandare sino a quel giorno. Invitò le donne
a passeggiare ancora un poco all’aperto, per respirare
aria fresca prima del pranzo che avevano ben meritato,
e quando esse infatti si trovarono sole in giardino lungo
la riva del lago, si sentirono davvero sollevate, poiché il
modo con cui quello scapolo aveva compreso e trattato
problemi matrimoniali le aveva molto intimidite. Qual­
cuna fra di esse, che forse sino ad allora non l’aveva
ritenuto molto intelligente, si chiedeva perplessa che tipo
d’uomo fosse egli mai. Vennero però tutte distolte dai
loro pensieri diffidenti quando videro avvicinarsi a balzi
la scimmia Cocco, che avevan dimenticato di spogliare
del suo incomodo costume. La cuffia era scivolata a co­
prirle il muso, senza che riuscisse a liberarsene, e le sot­
tane le legavano le gambe o le s’attaccavano alla coda,
mentre faceva mille sforzi per toglierle. Le donne pietose
svestirono la scimmietta da quegli impacci ed essa le
intrattenne coi più graziosi scherzi e smorfie, tanto che
ogni timore ed ogni melanconia fuggì dalle belle testoli-
IL PODESTÀ DI GREIFENSEE 8l 1

ne, e quando il podestà, seguito da due servitori, venne


a chiamarle per il pranzo, le trovò immerse in liete risate.
— Oh ! — esclamò — questo è un carillon che mi piace !
Quando le signore ridono in coro, sembra di udire il
concerto campanaro d’una chiesetta di Santa Cecilia.
Chi ha echeggiato così bene in tono di contralto? Lei,
Wendelgard? E qual era la campanella a stormo, come se
fosse scoppiato un incendio nel cuore? Lei, Aglaja? E
chi fa echeggiare la voce di mezzo, la serena campana del
vespro? Questa è sua, Salome ! E la campanella d’argento
della preghiera tintinna nella sua purpurea torre cam­
panaria, o Barbara Thumeysen ! E quella che risuona nella
dorata sera di festa, ben la conosciamo, è il mio Pulci­
nella, è Figura !
— Che sfacciato ! — esclamarono le altre quattro cam­
pane — chiamare una di noi Pulcinella! — Esse non
sapevano infatti d’aver tutte un nomignolo, mentre sol­
tanto Figura Leu conosceva ed aveva approvato il suo.
Il sottile e fragile strato di ghiaccio che serrava i cuori
era ormai infranto. La stanza in cui era apparecchiata
la tavola splendeva per il riflesso del cielo azzurro e del
lago ancora più azzurro che vi entrava attraverso gli ampi
finestroni, ma se l’occhio si perdeva fuori, subito trovava
riposo nella fresca verzura primaverile oltre il lago. Sulla
tavola rotonda al centro della sala occhieggiava una
tenera primavera di fiori e di luci, poiché essa era arric­
chita di tutti i tesori che il podestà aveva potuto attin­
gere così dal giardino come dai suoi vetusti armadi.
Sei seggiole ad alta spalliera circondavano la tavola,
abbastanza distanziate perché ciascuna si potesse muo­
vere con agio e libertà, vedendo il vicino e intrattenendosi
decorosamente con lui, a destra ed a sinistra: insomma,
era un servizio perfetto, come si fosse trattato di una
tavola rotonda per principi elettori, e ci mancava sol­
tanto la credenza particolare dietro ogni sedia. In com­
penso troneggiava solenne nello sfondo la grande cre­
denza del castello, col suo vasellame antico.
Presso quel mobile, appoggiandosi con una mano e
puntando l’altra sul fianco, si ergeva già, simile ad un
8i2 NOVELLE ZURIGHESI

gran maresciallo, la signora Marianne con una gonna


scarlatta ed una giacchetta di velluto nero. Sopra il col­
laretto a pieghe scendeva sino al petto un grande croci­
fisso d’argento ed anche il collo abbronzato era nascosto
da un’alta collana di filigrana. Sui capelli già grigi por­
tava un berretto di pelo di martora, il grembiule bianco
scendente dalla cintura designava le sue funzioni. Ma
sotto le sopracciglia nere mandava sguardi severi per la
sala, come fosse la padrona.
Però anche il rispetto da lei ispirato non valse a fugare
l’allegria ormai stabilitasi e le cinque dame presero i
posti loro indicati dal podestà con lieti sorrisi. Egli col­
locò alla sua destra Figura Leu, a sinistra Aglaja, dirim­
petto ebbe la più antica fra le sue fiamme, Salome, mentre
sulle altre due sedie c’erano Wendelgard e la capinera.
Egli le vedeva raccolte attorno alla sua tavola con un
profondo sentimento di felicità e si sforzava di tener viva
la conversazione con tutte, per poterle guardare, senza
offendere le buone maniere, l’una dopo l’altra, comin­
ciando dal principio o dalla fine oppure a salti, come me­
glio gli piacesse.
La signora Marianne distribuiva la minestra accanto
alla credenza, il paggio travestito, l’astuto e ben adde­
strato figlio di un pastore delle vicinanze, distribuiva poi
le scodelle. Assomigliava ad una giovane diciottenne ed
abbassava timidamente gli occhi ogni volta che gli rivol-
gevan la parola, ma obbediva anche al minimo cenno di
Marianne e appena finito un servizio si ritraeva silenzioso
verso la porta. Se però il podestà chiamava la presunta
cameriera e le dava un ordine con dolce confidenza,
e quella lo eseguiva con zelo, le antiche fiamme torna­
vano a meravigliarsi di quell’ignota servente di cui non
avevan mai sentito parlare e le scoccavano più di un’oc­
chiata. La conversazione però non ne soffriva, anzi si
fece sempre più vivace ed allegra, e il noto scampanio
echeggiava tanto rapido, armonioso e confuso che si sareb­
be detto dovesse far la sua entrata in città un pontefice.
E come se ci fosse davvero un papa, vi fu un momento
di silenzio, di cui approfittò Wendelgard per chiedere
IL PODESTÀ DI GREIFENSEE 8 lg

notizie sulla posizione e la grandezza di Greifensee, poi­


ché in segreto essa avrebbe desiderato conoscere la mi­
sura della fortuna che le sarebbe toccata come moglie
del podestà. Le altre signore si stupirono che una concit­
tadina non sapesse quelle cose, ma Landolt le raccontò
che la fortezza, la città e il castello di Greifensee, con i
terreni ed i sudditi eran stati dati in pegno agli Zurighesi
dall’ultimo conte di Toggenburg nel 1402 per seimila
fiorini, e che non eran stati più riscattati, ma che la po­
desteria era fra le più minuscole e comprendeva soltanto
ventuno località. Il castello e la cittadina attuali non
eran del resto più quelli originali, distrutti, come è noto,
dai confederati che facevan guerra a Zurigo nel 1444.
Rievocando i tempi di quella lunga e amara lotta civile,
il podestà si perdette a rievocare la fine dei sessantanove
uomini che avevano difeso la rocca per quasi tutto il
mese di maggio, contro le preponderanti forze degli asse­
diami. Date le tremende usanze delle lotte partigiane
di sterminare i vinti per mezzo di processi, di agire cioè
attraverso il terrore, ben sessanta di quegli uomini, dopo
che si erano arresi, erano stati giustiziati sulla piazza, pri­
mo tra essi il loro capo fedele Wildhans von Landenberg.
Ma indugiò soprattutto a illustrare i dibattiti delle comu­
nità in lotta allorché sul pascolo di Nänikon si decideva
della vita e della morte di quei fedeli. Ricordò la difesa
di uomini giusti che propugnarono impavidi una sen­
tenza di generosa mitezza, esaltando il senso del dovere
di quei prigionieri, ma anche le concioni violente dei
vendicativi che si opposero ai primi, intimidendoli con
insinuazioni; rievocò insomma l’appassionato dialogo
svoltosi in presenza delle vittime e conclusosi con la dura
e cruenta condanna generale. Descrisse con efficacia la
misteriosa crudeltà manifestatasi alla votazione, con tale
maggioranza da rendere inutile il computo, l’immediato
intervento del boia, che gli Svizzeri si portavan dietro
nelle loro guerre come ora si porta il medico o il cappel­
lano, l’accorrere dei vecchi, delle donne e dei figli im­
ploranti misericordia, la rigida inesorabilità della mag­
gioranza e del loro capo Itel Reding. Poi le donne udì-
814 NOVELLE ZURIGHESI

rono con tacito orrore il procedimento delle esecuzioni.


Il capitano degli Zurighesi, volendo precedere i suoi nel
mortale trapasso con esempio virile, chiese di essere il
primo a porre il capo sul ceppo, affinché nessuno potesse
credere che egli sperasse in un mutamento di idee o in
un evento imprevisto; il giustiziere sostò dapprima ad
ogni testa, poi soltanto ogni dieci uomini, sempre aspet­
tando la grazia, anzi invocandola egli stesso, ma otte­
nendo sempre la risposta: «Taci ed esegui!», sin che
sessanta innocenti giacquero nel loro sangue, gli ultimi
decapitati a sera, al lume delle fiaccole. Solo un paio di
ragazzi e di vecchi cadenti sfuggirono alla condanna
piuttosto per disattenzione o per stanchezza del popolo
giudicante che non per misericordia.
Le buone signore trassero un sospiro di sollievo quando
il racconto fu giunto al suo termine; avevano alla fine
ascoltato trattenendo il respiro, perché il podestà aveva
fatto una descrizione così vivace, che pareva loro di
vedere, invece della tavola coperta di fiori e di cristalli
e scintillante al sole primaverile, la prateria notturna con
la schiera dei guerrieri spietati, illuminati dal rosso ri­
flesso delle fiaccole.
— Era davvero una sinistra adunata un simile gruppo
di combattenti, — disse il podestà — sia che esso deci­
desse l’attacco o emanasse una condanna a morte. Ma
ora è tempo — proseguì con voce mutata — di lasciare
siffatti argomenti e di tornare a noi! O belle dame del
mio cuore ! Io vorrei invitarvi a costituire voi pure una
piccola comunità, di carattere però pacifico, di tener
concilio e pronunciar sentenza su un argomento che mi
tocca da vicino e che io subito vi esporrò, se non mi rifiu­
terete il vostro benigno ascolto, che ha sede in tante ben
formate orecchiette. Prima però converrà che il pubblico
si ritiri, trattandosi di procedura segreta !
Fece un cenno alla governante ed al suo aiuto, e am­
bedue s’allontanarono, mentre egli alzava la voce rotta
di tanto in tanto da una tossetta d’imbarazzo, e le dieci
orecchiette candide eran tese in perfetto silenzio.
— Elettissime, io vi ho accolto oggi con il rebus : « Il
IL PODESTÀ DI GREIFENSEE 815

tempo porta rose!» che era certamente adatto, poiché


il tempo mi ha tracciato davanti agli occhi un magico
pentagramma di cinque bellissime teste, ove la linea del­
l’incantesimo va misteriosa da una testa all’altra, incro­
ciandosi e tornando in ogni punto su se stessa per allon­
tanare da me ogni sventura !
Sì, il tempo ed il destino mi son stati benigni! Se
infatti la prima di voi mi avesse accettato, non avrei
incontrato la seconda e, se la seconda mi avesse concesso
la sua mano, mi sarebbe restata per sempre nascosta la
terza, e così via, ed io non avrei la fortuna di possedere
un quintuplice specchio del ricordo, non appannato dal­
l’alito dell’aspra realtà, e di abitare in una torre dell’ami­
cizia, le cui pietre quadrate sono state connesse dalle di­
vinità dell’amore ! È vero che il tempo mi ha recato le
rose della rinuncia, ma come son belle e durature! Come
vi vedo fiorire sotto i miei occhi con immutata giovinezza
e bellezza ! Sembra davvero che nessuna voglia indietreg­
giare anche di un sol passo di fronte alle bufere della
vita. Alziamo anzitutto i calici a questo fatto: possan
vivere a lungo i vostri cuori e i vostri occhi, o Salome, o
Figura, o Wendelgard, o Barbara, o Aglaja !
Esse si levarono insieme con le guance imporporate,
e gli sorrisero dolcemente mentre urtavano il suo bic­
chiere; soltanto Figura gli sussurrò:
— Dove volete andare a finire, burlone?
— Zitta, Pulcinella ! — disse il podestà e quando eb­
bero ripreso i loro posti continuò — Ma la rinuncia non
conosce sazietà; quando non trova più nulla cui rinun­
ciare finisce per rinunciare a se medesima. Questo sembre­
rebbe un brutto giuoco di parole, ma designa tuttavia la
complessa situazione in cui io son venuto a pormi. Il
fatto che ricopro alte cariche e dirigo una grande casa
non mi permette più di rimaner scapolo senza danno:
si insiste perché rinunci al mio celibato, per diventare^
alla testa di una signoria, quale giudice ed amministra­
tore, il modello d’un vero padre di famiglia, e mi si
dicono mille belle cose del genere per convincermi e per
spaventarmi. Insomma : non mi resta più altro che rinun­
8ι6 NOVELLE ZURIGHESI

ciare ai mei taciti ricordi e cedere alla necessità. Se ora


mi guardo attorno, non si potrà naturalmente parlare
di amore e di inclinazione, ormai privilegio del penta­
gramma incantato, ma è la fredda luce della necessità
e dell’utilità pubblica che deve illuminare le mie deci­
sioni. Son due le brave creature tra le quali oscilla la lan­
cetta della mia scelta, ed io ho destinato a voi la sentenza,
care amiche ! Un consigliere ecclesiastico esperto di mon­
do mi ha detto che io avrei dovuto prendere o una vecchia
con molta esperienza o una sposa giovanissima, non mai
una in età di mezzo. Ambedue sarebbero trovate e quella
che voi deciderete di destinarmi sarà irrevocabilmente
mia ! La vecchia è la mia buona governante, che presie­
dette sinora impeccabilmente alla mia azienda domestica :
è un poco aspra e rinsecchita, ma ammodo e virtuosa, ed
è anche stata bella, sia pure in un remoto passato: per
lei basta mutare il nome e tutto è a posto. L’altra è la
giovane che ci ha serviti a tavola, una lontana parente di
Marianne, che questa si era fatta venire per aiuto ; sem­
bra una ragazza docile e di buona indole, è povera, ma
sana, schietta e sincera. Non aggiungerò altro, a questo
proposito : voi mi comprenderete ! Ed ora meditate, con­
sigliatevi, scambiate i vostri pensieri, rendetemi questo
servigio affettuoso e venite poi ad una pacifica votazio­
ne: deciderà la maggioranza se non raggiungerete l’u­
nanimità. Io ora me ne vado; eccovi un campanello di
bronzo: quando avrete formulato la sentenza, sonatelo
il più forte che potete ed io verrò ad accogliere dalle vo­
stre candide mani la mia sorte !
Dopo queste parole da lui pronunciate in tono inu­
sitatamente serio, abbandonò la stanza con tale fretta
che nessuna delle signore ebbe tempo di interloquire.
Se ne rimasero dunque stupite e silenziose sulle loro se­
die, simili a cinque consiglieri di Stato, a guardarsi in
faccia. Eran tanto sorprese che nessuna ritrovava la pa­
rola, sin che Salome per prima si riprese esclamando:
— Non può andar cosi ! Se il podestà vuol prender
moglie, bisogna procurargli qualcosa che vada bene ! È
ormai un uomo arrivato, e io saprò presto trovare chi gli
IL PODESTÀ DI GREIFENSEE 817

si addice; ma non si può lasciargli commettere simile


stramberia !
—’ Questo è anche il mio parere, — disse Aglaja me­
ditabonda — bisogna guadagnar tempo.
. “Credo bene che finiresti per prendertelo tu stessa,”
pensò Salome “ma non ci riuscirai, ne ho già una per
lui!”. E ad alta voce disse:
— Sì, anzitutto dobbiamo guadagnar tempo ! Suo*
niamo e dichiariamogli che non prenderemo ora alcuna
decisione e che dobbiam rimandare il consiglio.
Già stendeva la mano verso il campanello, quando la
più’ giovane, Barbara Thumeysen, la trattenne, escla*
mando con vocetta piuttosto energica:
— Mi oppongo ad una proroga: è giusto e conveniente
che si sposi, ed io voto per la vecchia governante, giac­
ché sarebbe disdicevole che si prendesse ora in moglie
una ragazzina!
— Ma no! — disse Wendelgard — quella vecchia
borbottona ! Io voto per la giovane ! Quella almeno è
bellina e si lascerà educare come a lui piacerà, perché
è anche modesta. E se è povera, gli sarà tanto più rico­
noscente! j
Salome ed Aglaja replicarono irritate che per il mo*
mento si trattava di sapere se si votava o si rimandava.
Barbara ribattè ancor più stizzì ta. che lei votava per la
decisione immediata e per la vecchia; se però si fossé
venuti ad una proroga, si riservava di passare in rivista le
rispettabili e non più giovani zitelle della città; vi era
più di una meritevole figliola di decano da collocare,
le cui virtù ed i cui princìpi sarebbero stati di giovamento
al signor Landolt, ancor sempre un po’ troppo allegro
e fantasioso.
La discussione divenne confusa ed agitata; soltanto
Figura Leu non aveva ancora aperto bocca. Era impai*
lidita ed aveva il cuore così stretto da non poter parlare.
Benché capisse di solito tutti gli scherzi e le trovate del
podestà, quella volta, appunto perché lo amava, scam­
biò per cosa seria quest’ultima farsa : vedeva arrivare ciò
che sempre aveva desiderato per lui e temuto per se me*
8ι8 NOVELLE ZURIGHESI

desima. Però alla fine si dominò energicamente e do­


mandò la parola.
— Amiche mie, — disse — credo che con una proroga
non guadagneremmo nulla: ritengo anzi che egli sia già
ben deciso, e per la giovane, e che desideri aver da noi la
conferma soltanto per cavalleria e per amore di scherzo.
Che sposi poi la signora Marianne, non lo crederò mai,
e neppur lei mi ha l’aria di voler aderire a simile propo­
sito, perché la vecchia è troppo intelligente per farlo. Se
però noi non vogliamo decider nulla, oppure, il che è la
stessa cosa, se gli ricusiamo l’atteso e benevolo consenso,
son certa da parte mia che domani riceveremo la parte­
cipazione del passo già deciso.
La piccola assemblea si convinse della presumibile
esattezza di tale opinione. Salome soggiunse allora:
— Propongo dunque di passare ai voti; e che età ha
adesso il podestà? Non lo sa nessuno?
— Ha quasi quarantatré anni — rispose Figura.
— Quarantatré ! — esclamò Salome — Bene, io voto
per la giovane !
— Ed io per la vecchia ! — gridò la figlia del segre­
tario dei Proseliti, la tenera capinera che in questa fac­
cenda sembrava non meno inesorabile degli accusatori
del cruento tribunale di Greifensee.
— Ed io invece voto per la giovane ! — disse la bella
Wendelgard, battendo lievemente la palma sulla tavola.
— Io per la vecchia ! — aggiunse Aglaja con tono in­
certo, tenendo gli occhi fissi davanti a sé.
— Ora abbiam due voti giovani e due voti vecchi; —
esclamò Salome — sarai tu a decidere, Figura Leu!
— Io son per la giovane ! — disse questa, e subito
Salome afferrò il campanello scotendolo con energia.
Passarono alcuni minuti prima che Landolt comparisse,
e regnò un profondo silenzio, durante il quale sentimenti
diversi turbavano le cinque donne. Figura riusciva a
malapena a trattenere due grosse lagrime che le brilla­
vano sul ciglio, perché si era ormai avvezzata a pensare
che Landolt sarebbe rimasto celibe, mentre ora sapeva
che le sarebbe toccato sopportar da sola la solitudine:
IL PODESTÀ DI GREIFENSEE 8ig

L’aiutò a dominarsi un’idea venuta improvvisamente a


Wendelgard, la quale, rompendo il silenzio, propose che
il podestà, prima di ascoltare il verdetto, dovesse baciare
la vecchia: in quel modo avrebbe creduto la sentenza
favorevole a Marianne e dalla sua faccia si sarebbe capito
se aveva avuto la seria intenzione di sposarla. La propo­
sta fu accettata, malgrado l’opposizione di Figura, che
voleva risparmiare al podestà una scena spiacevole.
Ma in quel momento si spalancò la porta ed egli si
fece avanti con solennità, tenendo al braccio la signora
Marianne, che rivolgeva buffi inchini e complimenti in
tutte le direzioni, quasi volesse cattivarsi l’amicizia ge­
nerale. Mandava intanto occhiate scherzose all’una e al­
l’altra delle belle giudicanti, che se ne rimasero intimi­
dite e con l’animo inquieto. Ma il podestà disse:
— Prevedendo con certezza che le mie ausiliatrici mi
avrebbero avviato verso il cammino della pacifica ra­
gionevolezza e dell’età matura, io introduco addirittura
la prescelta, pronto a scambiare con lei gli anelli !
La signora Marianne ripetè a questo punto inchini
in ogni direzione, e le signore divennero sempre più scon­
certate e preoccupate. Nessuna osò pronunciar parola,
poiché persino Aglaja e Barbara, che pure avevan vo­
tato per lei, ne avevano ora paura. Soltanto Figura Leu,
piena di rammarico per la profonda caduta dell’amico,
disposto veramente a sposare un’incartapecorita vaga­
bonda che aveva avuto nove figli, si alzò e disse con voce
involontariamente commossa :
— Vi sbagliate, signor podestà ! Noi abbiam deciso che
dobbiate sposare la giovane parente di questa brava don­
na, e speriamo che voi renderete onore al nostro avviso
e non ci abbiate fatto un pesce d’aprile!
— Temo proprio di avervelo fatto ! — disse il podestà
con un sorriso, avvicinandosi alla tavola e suonando il
campanello, mentre la signora Marianne scoppiava in una
fragorosa risata quando il ragazzo che aveva sostenuto la
parte di cameriera riapparve nei suoi abiti consueti e
venne presentato alle dame quale figlio del signor pastore
di Fellanden.
820 NOVELLE ZURIGHESI

— Essendomi vietata la vecchia, la quale del resto, a


giudicare dalla sua risata, non se ne addolora, e poiché
nel frattempo la giovane si è trasformata in un bel gio­
vanotto, suppongo che il meglio sarà per noi restare come
siamo! Perdonatemi lo scherzo irriverente, ed accettate
i miei ringraziamenti per la buona volontà dimostratami,
non ritenendomi indegno di essere congiunto ancora
alla gioventù e alla bellezza ! Ma come poteva essere di­
versamente, dove le giudicanti stesse troneggiano in
eterna bellezza e gioventù?
Strinse la mano a ciascuna e poi le baciò l’una dopo
l’altra sulla bocca, senza che alcuna gliela ricusasse.
Figura diede il segnale ad una moderata allegria,
esclamando con gioia sincera:
— Ecco che ce l’ha proprio fatta !
I cinque graziosi uccelletti s’alzarono a volo cinguet­
tando e andarono a posarsi nel porticciuolo del lago
sotto il castello, dove le aspettava per una gita una im­
barcazione protetta da una pergola verde e tutta imban­
dierata. Remavano due giovani barcaioli ed il podestà
sedeva al timone : poco lontano procedeva un’altra barca
con un’orchestrina formata dal corpo dei cacciatori di
Landolt. Le semplici melodie suonate sui corni da caccia
s’alternavano con le canzoni delle dame, le quali si
compiacevano con gioia pacata di sentirsi ammirate dal
loro ospite al timone e ne dividevano la calma felicità.
La musica ed il canto femminile facevano di tanto in
tanto venire dai boschi del monte di Zurigo un’eco som­
messa e le vette candide delle Alpi di Glarona si spec­
chiavano nelle calme acque del lago. Quando l’avvicinarsi
della sera cominciò a velare col suo tenue riflesso dorato
tutto il paesaggio e l’azzurro si fece più cupo, il podestà
tornò a volger la prua verso il castello, ed approdò men­
tre si spiegava una canzone, tanto che le signore saltarono
a riva ancora cantando.
Nel castello le attendevano quattro vivaci giovanotti
che Landolt aveva invitati per la serata. Si tenne un
piccolo ballo e Salomon stesso fece un giro con ciascuna
delle sue fiamme e alla partenza diede ad ognuna uno
II. PODESTÀ DI GREIFENSEE 821
di quei giovani per cavaliere, riserbando a Figura Leu
il bravo ragazzo che aveva sostenuto la parte della
cameriera.
Durante il congedo fece riecheggiare il cannone e poco
dopo, mentre cresceva l’oscurità, si ammainò la ban­
diera.
— Ebbene, signora Marianne, — domandò alla go­
vernante quando essa gli portò il solito infuso sopori­
fero — le è piaciuto questo congresso dei miei antichi
amori?
— Per tutti i santi ! — esclamò lei — moltissimo mi
è piaciuto! Non avrei mai pensato che una storia cosi
buffa come cinque fiaschi potesse concludersi in modo
tanto edificante e grazioso. Lei è davvero inimitabile!
Ed ora avrà la pace in cuore, per quanto è possibile in
terra, poiché la vera pace eterna vien soltanto là dove
abitano i miei nove angioletti !
Così si svolse la notevole impresa. Più tardi il colon­
nello ottenne la podesteria di Eglisau sul Reno, ed ivi
rimase sin che tutte le podesterie ebbero fine, quando nel
1798 crollarono insieme alla antica Confederazione an­
che i poteri feudali. Vide allora gli eserciti stranieri in­
vadere la patria, le belle valli e le alture della sua gio­
vinezza: Francesi, Austriaci e Russi. Pur non occupando
più una carica pubblica, cooperò dovunque col consiglio
e con l’azione, sempre instancabilmente a cavallone, pur
nella sventura e nella stretta del tempo, il suo occhio
vigile coglieva ogni mutamento delle innumerevoli figure
che si succedevano come in un sogno febbrile. Persino
fra il tuonare delle grandi battaglie di cui fu scena la
sua piccola terra natale, non gli sfuggì alcun balenare di
bivacco notturno, alcun cosacco o panduro all’agguato
nelle nebbie dell’alba. Quando finalmente le onde burra­
scose si furon placate, egli, dipingendo, cacciando e caval­
cando mutò più volte luogo di soggiorno e morì nel 1818
nel castello di Andelfingen sulla Thur. Di quest’ultimo
periodo un suo biografo racconta: «Nei caldi meriggi
estivi rimaneva solo a riposare all’ombra dei platani,
specialmente al tempo delle messi, quando tutta la re­
822 NOVELLE ZURIGHESI

gione ricca di grano brulicava di mietitori. Gli piaceva


stare a guardarli dalla sua collina e, se lavorando canta­
vano, coglieva una foglia servendosene per accompagnare
con un fischiettar sommesso le allegre melodie che sali­
vano dalla valle, e talvolta intanto s’addormentava, co­
me un mietitore stanco sul suo covone».
Nel tardo autunno del suo settantasettesimo anno, do­
po che furon cadute le ultime foglie, vide avvicinarsi la
fine. «Quel tiratore ha mirato bene!» disse additando
la «piccola morte» d’avorio che aveva ereditato dalla
nonna. Figura Leu, che s’era spenta ancor prima del
finir del secolo, aveva avuto in prestito quella fine opera
d’arte, che, come soleva dire, molto la divertiva. Dopo
la sua morte egli se l’era ripresa, tenendola sullo scrittoio.
La signora Marianne se n’era andata nel 1808, molto
stanca del lavoro e dei doveri adempiuti, e la sua salma
fu seguita da un grande corteo funebre, come si trattas­
se di un uomo di gran conto.

Mentre trascriveva con gran cura la precedente storia


del podestà di Greifensee, il signor Jacques aveva veduto
svanire dal suo giovane cervello gli ultimi grilli e s’era
chiaramente persuaso di quante complicazioni ci voles­
sero per mettere insieme alla meglio un vero originale.
Disperando di conquistarsi tante e in parte così spiace­
voli avventure come cinque rifiuti consecutivi, rinunciò
spontaneamente e definitivamente a diventare un ge­
nio originale, cosicché il signor padrino potè considerare
espletato almeno il suo compito di educatore.
Il signor Jacques non tradì per questo gli ideali; pur
non aspirando a produrre qualcosa di suo, si preparò ad
esser zelante protettore delle arti e delle scienze, nonché
un fautore di giovani ingegni e un dirigente di artisti sov­
venzionati. Li sceglieva con l’occhialetto, il telescopio e il
cavo della mano, con tutta prudenza, ne sorvegliava gli
studi e la condotta morale, e la primissima sua esigenza,
alla quale non credeva poter rinunciare, era la modestia.
Dopo aver egli stesso rinunciato, si comportava tanto più
severamente verso i giovani bisognosi di appoggio; ogni
IL PODESTÀ DI GREIFENSEE 823

attestato da lui richiesto o da lui redatto doveva contenere


la parolina « modestia », altrimenti era una causa perduta,
giacché per lui esser modesti voleva già dire a metà saper
scolpire, dipingere, suonare e cantare !
Organizzando istituti d’arte, scuole ed esposizioni e
acquistando quadri e simili era alquanto rigido e la sua
efficacia giungeva anche lontano, poiché aveva sempre
nelle scuole d’arte straniere e nei centri di cultura qua un
incisore, qua un pittore, là un musicista o un astronomo
da lui dipendente, ai quali faceva pervenire gli oppor­
tuni sussidi da fondi pubblici o propri. Era per lui sor­
gente di massima soddisfazione intuire dallo stile episto­
lare dei giovani sorvegliati il loro grado di modestia o
di presunzione, di immatura spavalderia o di mite per­
severanza, e punire ogni peccato con una diminuzione
dei sussidi, con una proroga dell’invio, cioè con quattro
settimane di fame, dominando a tal punto vento e tem­
pesta, sole ed ombra, che i discepoli dovevano impa­
rare qualcosa e, con vantaggio per la formazione del
loro carattere, non viver troppo alla giornata.
Soltanto una volta stava per esser buttato fuori dalle
rotaie, quando cioè, dopo la dovuta maturazione di tutte
le circostanze, si unì solennemente in matrimonio con la
predestinata sposa, concludendo a quel modo l’opera
d’arte della prima metà di sua vita.
Dopo svariati e fruttuosi viaggi, si trovava, non più
nel fiore della gioventù, alla testa della casa commerciale
ereditata, che procedeva per dir così da sola. Il patrimo­
nio era sicuro, le presumibili eredità avvenire prenotate,
come pure quelle che non potevano mancare alla sposa,
così che, a giudizio mortale, sembrava ormai assicurata
l’agiatezza a un discreto numero di probabili discenden­
ti: allora si procedette alla richiesta da tempo attesa,
fu concluso il fidanzamento, furon preannunziate le nozze
che si celebrarono non senza una previa cura di otto
giorni di decotti depurativi e di ritiro in casa, e durante
tal periodo ribollì, simile a sacro vaso rituale, il pentolino
con le foglie di senna ed il solfato di soda.
Il viaggio di nozze li portò al di là delle Alpi, nei
824 NOVELLE ZURIGHESI

campi dorati d’Esperia, ed ebbe come meta Roma eterna.


Con un ampio cappello di paglia sul capo, vestito di tela
greggia gialla, con il collo della camicia rovesciato e i lembi
di un fazzoletto svolazzanti, egli condusse la novella spo«
sa per i sette colli, che a lui erano arcinoti e familiari.
Essa poi, ornata ancora di lunghi riccioli, vestiva o do­
veva vestire un abito candido con velo verde, poiché il
signor Jacques s’era sostituito alla madre nello scegliere
e dirigere da uomo di gusto il suo abbigliamento.
Proprio a quel tempo viveva a Roma un giovane scul­
tore, di cui egli dirigeva da lontano la vita e lo studio.
Tutte le relazioni e le suppliche del giovane eran re­
datte con la dovuta umile modestia, senza rivelare mai
traccia di presunzione o di condotta sconveniente; la
sua prima opera, un fauno assetato che solleva un otre,
doveva appunto esser prossima al compimento. Per que­
sto una visita a quel protetto avrebbe costituito uno dei
punti culminanti del soggiorno romano, e al signor Jac­
ques la spedizione sembrava rappresentare, in seno alle
scene classiche, una testimonianza degna, se pure mode­
sta, della sua attività particolare, ricollegando la sua
persona con il grande passato, ricompensando così nel
modo più adatto la sua rinuncia, mentre egli calcava,
al suo posto modesto ed in veste di mecenate, quel su­
blime scenario.
Egli si aspettava uno studio modesto ma ordinato e
solennemente silenzioso, ove un giovane dalle lunghe
chiome stesse meditabondo di fronte al suo marmo. S’ad­
dentrò coraggiosamente, con la consorte sotto braccio,
nel remoto quartiere lungo il Tevere, dove, come spiegò
alla compagna, giungono i barconi carichi di blocchi di
marmo di Carrara. Già vedeva con l’immaginazione il
futuro Thorwaldsen o Canova, sorpreso dalla visita, in
contenuta letizia, appoggiato con stupore all’impalca­
tura, accogliere con gesto di timidezza il suo invito a
pranzo; giacché si era proposto di offrire una giornata
di svago a quel bravo giovane, ben sapendo che egli vi­
veva parsimoniosamente, in obbedienza alle sue pre­
scrizioni. Certamente, benché avesse ricevuto di recente
IL PODESTÀ DI GREIFENSEE 825

la sua borsa semestrale, non aveva quel mattino ancora


fatto colazione, memore della regola inculcatagli, bastar
cioè per un giovane povero vivente all’estero un pasto
abbondante una volta al giorno, e preferibilmente la sera.
Alla fine trovò la dimora. Il propileo era costituito da
un confuso ammasso di muriccioli, di assiti, di vecchi
ulivi e di viti, da cui pendeva ad asciugare una quantità
di biancheria. Il quadro era molto pittoresco, ed il signor
mecenate procedette di buon animo, anche perché l’edi­
ficio di sfondo, che pareva dovesse contenere lo studio, fa­
ceva un’impressione non meno poetica sul suo senso artisti­
co. Esso era infatti messo insieme con frammenti di anti­
chissimi edifici e sculture, con capitelli e cornicioni scolpiti,
e tutti rivestiti di edera lussureggiante. Gli stipiti eran for­
mati da due colossali Atlanti barbuti, ficcati nel terreno
sino all’ombelico, che reggevano sul dorso obliquamente
una possente colonna. Per fortuna erano un poco sollevati
in quella fatica dalla frescura di un pino non alto ma di
ampia corona, che prolungava così la penombra dell’in­
terno oltre la porta. Man mano però che la coppia s’av­
vicinava a queste ombre, sempre più esse eran ravvivate
da suoni distinti, canti, melodie, musica di violini e rim­
bombo di tamburi, dominati a lor volta da richiami e da
grida isolate: pareva che nella pace appartata di quel
verde recesso si celebrasse un invisibile baccanale di an­
tichi spiriti. Il signor Jacques stette per un poco stupe­
fatto in ascolto, ma quando il fantastico rumore crebbe,
si decise finalmente ad entrare nel locale interno.
Esso somigliava ad una grande e fresca lavanderia;
ad una parete c’era il focolare con una grande caldaia,
mentre tutt’intorno si vedevano botti, secchie e tinozze;
alcune di esse reggevano delle assicelle e formavan così
una lunga tavola coperta di una tovaglia bianca e disse­
minata di fiaschi dal lungo collo, fra cui si vedevan
piatti coi resti di un pasto profumato d’olio fritto, con
teste di pesce, foglie d’insalata e frittelle brune.
Alla tavola sedevano parecchi gruppi di popolani in
costume romano, le donne dal volto abbronzato, con
fazzoletti bianchi in capo e grandi orecchini d’oro, gli
826 NOVELLE ZURIGHESI

uomini con anellini alle orecchie, giacche corte e cappelli


a cono sulle teste nere e ricciute. Tutti cantavano e suo­
navano la chitarra o il mandolino mentre due graziose
coppie, battendo il tamburello, eseguivano una danza.
La più bella delle ragazze sedeva a capotavola accanto
all’unico uomo biondo della compagnia ; essi si voltavano
il dorso, e la donna, appoggiandosi a lui e con le gambe
accavallate, cantava, e s’accompagnava con un tambu­
rello a sonaglietti, e lui invece giocava alla morra col
suo vicino, "tacciando continuamente fuori le dita e ur­
lando i numeri con voce irosa. Questi appunto era lo
scultore : non aveva però lunghi riccioli, ma anzi i capel­
li tagliati corti come una vecchia spazzola da scarpe;
in compenso la barba era folta e ispida ed il volto co­
sì rubicondo che il signor Jacques a malapena lo rico­
nobbe.
Per dirla in breve: lo scultore celebrava le sue nozze
e la romana che gli sedeva accanto era la sposa. Come il
marito era il solo biondo, così era anche il solo brillo
della brigata. Mentre gli altri alla radiosa apparizione
della coppia mecenatesca si eran fatti silenziosi, rima­
nendo ciascuno immobile al proprio posto, quello, semiu­
briaco, senza affatto tener conto delle circostanze, balzò
in piedi e disse al suo protettore e signore che era som­
mamente benvenuto in quel fausto giorno, di cui gli dava
intanto tardivo annuncio e chiarimento. Era riuscito a
celebrare queste nozze segrete, questo matrimonio misto,
proprio nella sede dell’intolleranza, con l’aiuto di un
clero smanioso di propaganda addetto ad un’ambasciata
protestante ed in relazione con società di nazioni diver­
se, che si occupavano di simili intrighi filantropici, non
già in previsione di una legislazione più liberale, quale
è propria ormai di tutti gli stati progrediti, ma per lega­
lizzare le conseguenze della immodestia di molta povera
gente, là dove questa si determinava, o per subordinar­
la almeno esteriormente ai buoni costumi.
Il signor Jacques almeno interpretò così la faccenda;
era impallidito di rabbia ed investì il novello Pigmalione,
dicendogli a mezza voce:
IL PODESTÀ DI GREIFENSEE 827

— E questo bel festino di nozze, reso possibile da ipocriti


e papisti senza coscienza, è naturalmente pagato dai sus­
sidi che vi ho spedito or non è molto?
— Non proprio direttamente ! — disse lo sposo dopo
una breve riflessione — Le cose stanno precisamente così:
dati i tempi difficili, ho creduto far bene associandomi
con la mia borsa di studio alla bella lavanderia di mia
suocera, in certo modo come socio in accomandita, e
l’affare si è dimostrato vantaggioso. Io fruisco di vitto ed
alloggio presso un’attiva lavandaia, il che è molto meglio
che vivere da studente con borsa, e risparmio l’affitto di
un atelier privato, giacché l’ampia lavanderia mi offre
spazio adatto per il mio lavoro, specialmente la domenica
e nelle molte feste cattoliche e anche per quasi la metà
della settimana. Basta che io apra quelle finestre lassù
all’angolo del tetto, perché si riversi un mare di luce sui
miei modelli !
— Dove sono questi modelli? Dov’è il fauno assetato
che deve già sbocciare dal marmo? — gridò quasi bal­
bettando per l’ira il mecenate che si riteneva indegna­
mente burlato, e percorreva le pareti con sguardi infuo­
cati, non vedendoci altro che pochi pezzi di gesso anne­
riti dal fumo, piedi, mani e braccia della ben fatta fi­
danzata, anzi ormai consorte dell’allegro studente.
Questi cominciò a sentirsi intimidito, non essendo per
nulla preparato a funger da protagonista di una delle
oggi tanto amate storielle di scultori, trovandosi anzi in
quello stadio di assoluta inerzia al quale del resto neppur
10 stesso Thorwaldsen è del tutto sfuggito da giovane.
Lanciò sguardi incerti verso un angolo oscuro e quando
11 signor Jacques tornò ad urlare: «Dov’è il fauno asse­
tato?» s’awiò a passi barcollanti in quella direzione,
constatando con dolore la rapidità con cui mutano le co­
se di questo mondo, e come era stato allegro pochi minuti
prima mentre gridava i suoi «cinque, due, sette, quat­
tro!». Ma non c’era rimedio, il signor Jacques gli stava
inesorabile alle calcagna, sempre tenendo al braccio la
dama bianca; la brigata lo seguì curiosa e ben presto
una corona di beila gente si strinse attorno ad una
828 NOVELLE ZURIGHESI

misteriosa figura tutta avviluppata in cenci ed issata su


un cavalletto.
Il mistero non era del tutto accessibile, a cagione di
un mucchio di patate e di altra verdura che gli giaceva ai
piedi. Dopo che lo scultore ebbe aperta una finestra, la
luce cadde su una figura di creta avviluppata in stracci
ormai asciutti ed egli si aprì un varco fra le patate per
liberarla dai paludamenti. Insieme ai panni, cadde an­
che l’orecchio caprino del fauno e si sbriciolò più d’un
dito delle sue mani protese. Alla fine comparve il bravo
uomo: il suo volto disperatamente assetato trovava una
mirabile motivazione nel corpo secco, arido e screpo­
lato come un campo senza pioggia, che certamente da
settimane non aveva goduto un’innaffiatura rinfrescante.
Mancava inoltre l’otre, per cui il poveretto assumeva l’a­
spetto di uno degli adoranti rinvenuti nel Tevere e sem­
brava invocare il ristoro di qualcosa di liquido.
Il tutto faceva lo stesso effetto di una miniera abbando­
nata da tempi immemorabili.
Tutti osservavano stupefatti quell’incompletezza ina­
ridita; ma lo scultore a quella vista si sentì venir sete e
si trasse in disparte, e quando l’irresoluto mecenate lo
cercò con lo sguardo, per rivolgergli parecchie domande,
lo scorse solo accanto alla tavola, che reggeva alto un
fiasco, lasciando cadere con mira perfetta uno zampillo
di vin rosso nella gola, senza farsi venire il singhiozzo
e senza perderne neppure una goccia.
Questo lo costrinse finalmente a ridere e gli fece anche
sorgere il vago sospetto che si trattasse di un allegro
aneddoto d’artisti, di una divertente esperienza naturale.
Appena la brigata, un poco perplessa, si rese conto del
suo migliorato umore, ritrovò l’allegria; i due nuovi ospi­
ti, marito e moglie, furon fatti immediatamente sedere a
capotavola, al posto d’onore, vennero ripresi canti, mu­
siche e danze, ed il signor Jacques era tutt’occhi e orecchi
per non perdere neppure un tratto del quadro e per
trarre almeno il più completo profitto estetico da quella
sua esperienza.
Proprio mentre la sua attenzione era al colmo, inter-
IL PODESTÀ DI GREIFENSEE 829

venne un fatto nuovo. La suocera del felice Pigmalione


comparve reggendo in braccio un bimbo in fasce tutto
fronzoli e tutti esclamarono : « Il bambino ! ». Era infatti
il piccino prematrimoniale che era stato movente alle
nozze e che ora lo scultore porse da ammirare con grande
letizia alla coppia viaggiatrice, mentre la bella sposa
abbassava vergognosa gli occhi. Sul volto del signor Jac­
ques s’addensarono le nubi di una più intensa collera,
di un più cupo sdegno, ma già intanto la sua dolce e
candida consorte aveva preso in braccio bimbo e cuscino
e lo stava cullando teneramente, poiché era davvero un
bel puttino ed essa già sentiva la brama di averne uno
simile.
Incoraggiato da tanta bontà e gentilezza, lo scultore
sussidiato confessò che la povera creatura non era ancora
battezzata e che in lui era sorto in quel momento il
rispettoso desiderio di invitare ad essergli padrino l’esi­
mio suo protettore. Non era necessario che egli presen­
ziasse per questo al battesimo, che avrebbe avuto luogo
di lì a poco, potendosi trovare un degno sostituto, purché
si potesse iscrivere quale padrino il signore.
Un tenero sguardo della moglie disarmò la sua cre­
scente ira : diede il suo assenso con un muto cenno, strap­
pò una pagina al suo libretto di appunti e vi ravvolse un
ducato, ficcandolo poi tra le fasce multicolori del pic­
cino. Dopo di che fuggì con la moglie da quel covo del­
l’immodestia, come ebbe a designare la pittoresca la­
vanderia.
E quando, giunto a casa, raccontò irritato al suo ormai
vecchissimo padrino che a Roma era diventato padrino
a sua volta, quello rise allegramente e gli augurò di trarre
altrettante soddisfazioni dal suo figlioccio, quante a lui
ne aveva procurate maestro Jacques in passato, e quante
ancora gliene procacciava al presente.
LA BANDIERA DEI SETTE IMPAVIDI

Il sarto Hediger di Zurigo era giunto all’età in cui un


artigiano laborioso già comincia a concedersi dopo i pa­
sti un’oretta di riposo. In una bella giornata di marzo
egli dunque non se ne stava nella sua vera e propria offici­
na, ma in quella spirituale, nella stanzetta che da anni
s’era riservata. Era contento di poterci di nuovo stare, pur
senza riscaldamento, giacché né le sue vecchie consuetu­
dini di artigiano, né i suoi redditi gli permettevano di
riscaldare d’inverno una stanza soltanto per starvi a leg­
gere. E questo in tempi nei quali già altri sarti vanno a
caccia o montano ogni giorno a cavallo, tanto si interse­
cano fra loro i vari gradi della civiltà!
Mastro Hediger non aveva però da vergognarsi della
sua ben rassettata stanzetta interna. Egli assomigliava
piuttosto ad un allevatore americano che ad un sarto;
una faccia energica ed intelligente, dalla folta barba a
collana dominata da un possente cranio calvo, era china
sul giornale «Il Repubblicano Svizzero» e ne leggeva
con espressione critica l’articolo di fondo. Della stessa
gazzetta s’allineavano almeno venticinque volumi in fo­
lio, tutti ben legati, in una piccola libreria di noce a vetri,
ed essi non contenevano quasi nulla che Hediger in quel
quarto di secolo non avesse veduto e vissuto. Nella libre­
ria v’era anche un «Rotteck»,1 una Storia della Svizzera
di Johannes Müller ed un gruppo di opuscoli politici e
simili; un atlante geografico, una cartella piena di cari­
cature e di libelli, documenti di giorni amari e appas­
sionati, stavano nello scomparto più basso. Le pareti
dello stanzino erano adomate dai ritratti di Colombo, di
Zwingli, di Hutten, di Washington e di Robespierre,
poiché il valentuomo non scherzava e dava la sua postu­
ma approvazione anche al Terrore. Oltre a quegli eroi
internazionali figuravano alle pareti alcuni campioni el-
I. Karl Wenzeslaus Rotteck (1775-1840), professore di storia a
Friburgo, fu autore di opere storiche che esercitarono grande in­
fluenza perché animate da sentimenti liberali.
LA BANDIERA DEI SETTE IMPAVIDI 831

vetici del progresso, con relativi manoscritti di massime


edificanti e prolisse tanto da allungarsi in piccoli saggi.
All’armadio dei libri s’appoggiava un fucile d’ordinanza
ben tenuto e lucente, con la baionetta ed una cartuccera
dove stavan sempre trenta cartucce a pallottola. Quello
era il suo fucile da caccia, col quale però non cacciava
lepri o fagiani, ma aristocratici e gesuiti, traditori della
Costituzione e del popolo. Fino allora una stella benigna
gli aveva risparmiato di versar sangue, per mancanza
d’occasioni, però già più d’una volta aveva dato di piglio
allo schioppo ed era corso in piazza; poiché era ancora
il tempo delle piccole rivolte. Comunque il fucile doveva
rimaner lì sempre pronto fra letto e libreria, giacché,
come egli soleva dire, non v’è governo né vi sono batta­
glioni capaci di proteggere il diritto e la libertà, là dove
il cittadino non sa uscire in persona davanti a casa sua
per vedere quel che succede.
Mentre il brav’uomo era immerso nel suo articolo,
ora annuendo soddisfatto ed ora scotendo il capo, entrò il
suo figlio minore, Karl, impiegato in un ufficio gover­
nativo.
— Che cosa c’è? — domandò brusco, non amando d’es-
ser disturbato nella sua stanzetta. Karl gli chiese, poco fi­
ducioso nel successo della preghiera, di poter avere a pre­
stito per quel pomeriggio il fucile e la cartuccera del pa­
dre, dovendo recarsi in piazza d’armi per le esercitazioni.
— Non se ne parla, niente da fare ! — rispose subito
Hediger.
— Ma perché no? Non guasterò niente ! — assicurò il
figlio, intimidito ma tenace, perché un fucile gli era indi­
spensabile se non voleva finire agli arresti. Ma il vec­
chio replicò ancor più brusco:
— Niente da fare ! Debbo solo stupirmi della ostina­
zione dei miei signori figli, che son peraltro tanto poco
ostinati in altri campi, così che non uno ha serbato la
professione che gli ho fatto imparare a sua libera scelta !
Sai benissimo che i tuoi fratelli maggiori, appena dovet­
tero cominciare l’istruzione militare, l’uno dopo l’altro
chiesero il fucile e che non uno l’ha ottenuto ! Ma ecco
832 NOVELLE ZURIGHESI

che tu arrivi egualmente quatto quatto a domandarlo.


Hai il tuo buono stipendio, non devi provvedere a nes­
suno ... comperati la tua arma come si conviene ad un
uomo d’onore ! Questo fucile non si muove di lì, a meno
che non me ne serva io !
— Ma non si tratta che di poche volte ! Non starò a
comprare un fucile di fanteria, quando più tardi dovrò
passare ai tiratori scelti e dovrò avere un moschetto !
— Tiratori scelti ! Questa ci mancava ! Come mi vuoi
spiegare la necessità che tu vada tra i tiratori, se non hai
ancora sparato un colpo? Ai miei tempi uno doveva aver­
ne sciupata della polvere prima di potersi arruolare fra
loro! Ma adesso si diventa tiratore a caso, e indossa la
giubba verde certa gente che non sa colpire un gatto su
un tetto, ma che in compenso fuma sigari e si dà arie
da signore ! Son cose che non mi riguardano !
— Oh, — riprese il giovinetto quasi piagnucolando
— datemelo almeno per una volta: domani me ne pro­
curerò un altro, ma oggi non ci arrivo più !
— Io non do la mia arma — riprese il sarto — a chi
non sa maneggiarla; se tu sai togliere secondo le regole
il meccanismo di questo fucile e lo sai scomporre, prendi­
lo pure, altrimenti resterà qui ! — Così dicendo trasse
dal cassetto un cacciavite, lo porse al figlio e gli additò
il fucile. Quello nella sua disperazione volle tentare e
cominciò ad allentare le viti. Il padre stette a guardarlo
con aria di scherno, ma poco dopo gli gridò:
— Non far scivolare a quel modo il cacciavite, ché mi
rovini tutto ! Allenta prima le viti a metà, l’una dopo l’al­
tra, poi del tutto e andrà meglio ! Ecco, così, finalmente !
Karl teneva ora in mano l’otturatore, ma non sapeva
da che parte cominciare e lo posò con un sospiro sulla
tavola, vedendosi già col pensiero in cella, agli arresti.
Ma il vecchio Hediger, ormai interessato, prese l’ottu­
ratore per dare lezione al figliolo e si accinse a smontar­
lo mentre spiegava :
— Vedi, — cominciò — prima di tutto si scarica la
molla del percussore per mezzo di questo moschettone,
così; poi viene la vite della molla della stanghetta, che si
LA BANDIERA DEI SETTE IMPAVIDI 833

svita solo a metà, quindi si dà un colpo alla molla della


stanghetta, in modo che questo dente esca dal foro; ora
liberi completamente la vite. Ora la molla della stan­
ghetta, poi la vite della stanghetta e la stanghetta; ora
la vite del castello della noce, ed ecco il castello ; quindi
la vite della noce, il cane e infine la noce : eccola ! Dammi
il grasso che è in quello stipetto ; voglio ingrassare un po’
le viti !
Aveva posto i singoli pezzi sul giornale e Karl lo
ascoltava ed aiutava con gran zelo e gli porse la botti­
glietta del grasso, illudendosi che il tempo si fosse mu­
tato a suo favore. Ma quando il padre ebbe ben ripulito
ed oliato i pezzi dell’otturatore, non li ricompose, ma li
gettò alla rinfusa nel coperchio d’una scatoletta, dicendo :
— Be’, questa sera lo rimetteremo insieme; adesso leg­
go il mio giornale !
Karl se ne andò, deluso e rabbioso, a raccontar la sua
disgrazia alla madre. Egli nutriva gran rispetto per l’au­
torità pubblica, alla quale stava per sottomettersi come
recluta. Da quando aveva finito gli studi, non aveva su­
bito punizioni, e neppure a scuola negli ultimi anni;
ora invece la cosa sarebbe ricominciata, e a più alto li­
vello, solo perché aveva contato sul fucile del babbo.
Sua madre gli disse:
— In fondo tuo padre ha tutte le ragioni ! Voi quattro
fate migliori guadagni di lui, e questo grazie all’educa­
zione che vi ha dato; ma non soltanto li consumate per
voi soli sino all’ultimo centesimo, ma venite poi sempre
a seccarlo per aver a prestito mille cose : la marsina nera,
il cannocchiale, il compasso, il rasoio, il cappello, il fu­
cile e la sciabola... tutto quanto lui tiene tanto in ordine,
voi glielo togliete per riportarglielo rovinato. Si direbbe
che tutto l’anno state a pensare che cosa potreste ancora
farvi prestare, mentre lui non vi chiede mai nulla, benché
gli dobbiate la vita e tutto il resto. Ma per oggi vedrò di
aiutarti ancora!
Salì da mastro Hediger e gli disse:
— Caro marito, ho dimenticato di dirti che Frymann
il carpentiere ha fatto sapere che la compagnia dei sette
834 NOVELLE ZURIGHESI

oggi si riunisce e che c’è qualcosa da trattare, credo si


tratti di politica !
— Davvero? — domandò Hediger gradevolmente in­
teressato, alzandosi e girando su e giù per la camera
— mi stupisce però che Frymann non sia venuto in per­
sona per cominciare a consultarsi con me ! — Dopo po­
chi minuti si vestì svelto, prese il cappello e s’allontanò
dicendo alla moglie:
— Io me ne vado, voglio sapere che cosa c’è! Questa
primavera del resto non ho fatto un passo all’aperto,
ed oggi il tempo è così bello ! Addio, dunque !
— Ecco ! Per oggi non torna prima delle dieci di se­
ra! — disse ridendo la signora Hediger ed esortò Karl
a prendere il fucile, badando però di riportarlo per
tempo.
— Come lo devo prendere? — brontolò il figliolo
— Il babbo l’ha smontato ed io non sono capace di ri­
metterlo insieme.
— Allora vengo io ! — esclamò la madre, dirigendosi
col figlio verso la stanzetta. Rovesciò il coperchio, ove
c’erano le parti del meccanismo, scelse le molle e le viti
e si accinse a rimetterlo assieme con gran destrezza.
— Ma dove diavolo avete imparato queste cose, mam­
ma? — domandò Karl sorpreso.
— Le ho imparate — rispose lei — nella mia casa
paterna. Il babbo e i miei sette fratelli mi avevano av­
vezzata a pulir loro tutte le armi dopo i tiri. Spesso lo
feci piangendo, ma alla fine sapevo maneggiar quella
roba meglio di un armaiolo. Non per nulla al villaggio
mi chiamavano la fuciliera, ed io avevo quasi sempre le
mani nere e la punta del naso sporca. I fratelli poi,
a furia di tiri e di divertimenti, si mangiarono casa e
terre, ed io povera ragazza potei chiamarmi fortunata
che il sarto, tuo padre, mi sposasse.
Durante il racconto l’abile donna aveva di fatto rico­
struito l’otturatore, tornandolo a fissare al calcio. Karl
si affibbiò la lucida cartuccera, prese il fucile e s’awiò di
corsa verso la piazza d’armi, dove giunse appena a tem­
po per non essere in ritardo. Dopo le sei riportò tutto a
LA BANDIERA DEI SETTE IMPAVIDI 835

casa, riuscì a smontare da solo l’arma e ne rimise i pezzi


in disordine nel coperchio di cartone.
Dopo cena, quando s’era fatto buio, scese all’approdo,
noleggiò una barchetta e costeggiò la riva sin che giunse
davanti a quei punti della spiaggia usati in parte dai
carpentieri e in parte dagli scalpellini. Era una serata
meravigliosa: un venticello tepido increspava lievemente
l’acqua, la luna piena ne illuminava le superfìci lontane
e faceva scintillare le brevi onde più vicine, mentre in
cielo spiccavano nitide le costellazioni; le montagne co­
perte di neve si specchiavano come ombre pallide nel la­
go e si poteva piuttosto intuirle che vederle; spariva
invece nell’ombra ogni sciocchezza industriosa, ogni
inquieta meschinità architettonica, assorbita in grandi
masse tranquille dalla luce lunare: insomma il paesaggio
era preparato a far da degno sfondo alla scena imminente.
Karl Hediger remò rapido sino ad un gran cantiere
ed ivi cantò un paio di volte a mezza voce il primo verso
di una canzoncina, avviandosi poi lentamente verso il
largo. Dalle tavole sulle quali era seduta s’alzò una fan­
ciulla snella, slegò una barchetta, vi entrò e remò poi,
adagio, con poche deviazioni, nella scia del barcaiolo
che cantava sommesso. Quando gli giunse a lato, i due
giovani si salutarono e proseguirono senza soste, barca
contro barca, nel liquido argento, sempre più al largo.
Con vigoria giovanile tracciarono un grande cerchio con
parecchie spirali che la ragazza accennava ed il giova­
notto assecondava premendo lievemente i suoi remi senza
allontanarsi da lei, tanto che si capiva subito come la
coppia fosse abituata a vogare insieme. Allorché furon
giunti nella zona del silenzio e della solitudine, la fanciulla
ritrasse i remi e si fermò. O meglio, depose soltanto uno
dei remi e tenne l’altro quasi giocando sul bordo della
barca, ma non fu senza intenzione, giacché quando Karl
le si volle avvicinare, anzi volle arrembare la sua navi­
cella, ella seppe molto abilmente fermarlo col remo, dan­
dogli di tanto in tanto un piccolo colpo. Anche questa
manovra non doveva esser nuova, poiché il giovane pre­
sto s’arrese, restando tranquillo nella sua imbarcazione.
836 NOVELLE ZURIGHESI

Cominciarono allora a chiacchierare e Karl disse:


— Cara Hermine ! Adesso potrò rovesciare il prover­
bio e proclamare : invano desidero in vecchiaia quel che
in gioventù avevo in abbondanza ! Quando io avevo dieci
anni e tu sette, ci siam baciati mille volte, ma ora che ne
ho venti, non mi concedi neppur la punta delle dita !
— Non voglio proprio più sentire simili impudenti
menzogne ! — rispose la ragazza mezzo ridendo e mezzo
in collera — son tutte invenzioni e frottole; io non ri­
cordo affatto intimità di quel genere !
— Purtroppo ! — esclamò Karl — Ma tanto più le
rammento io ! E allora eri tu la seduttrice !
— Karl, vergognati ! — lo interruppe Hermine ; ma
lui continuò inesorabile:
— Ma si, ricorda per esempio quante volte, quando
eravam stanchi di aiutare i bambini poveri a riempire
di trucioli i loro cesti rotti, con perenne rabbia dei vostri
operai, quante volte, dico, io dovetti fabbricare di nasco­
sto, con le tavole e i paletti, una capannuccia con il tetto
e la porta e dentro anche una panchina ! E quando poi
eravamo seduti sulla panchina con la porta chiusa, ed io
posavo le mani in grembo, chi mi saltava al collo e mi
dava tanti baci da non poterli contare?
Mentre così diceva, quasi cascava in acqua: parlando
aveva cercato di avvicinarsi di nuovo inavvertito e la
ragazza diede all’improvviso un colpo tanto forte alla
sua barchetta da fargli quasi far naufragio. Scoppiò in
una sonora risata vedendo che s’era bagnato il braccio
sinistro sino al gomito e che imprecava:
— Aspetta pure ! Verrà il momento che me la pagherai !
— C’è tempo ! — replicò lei — non stia ad affrettarsi,
caro signore ! —- Poi prosegui un poco più seria :
— Il babbo ha saputo della nostra faccenda ed io non
ho negato, per quel che è l’essenziale : ma lui non vuole
assolutamente saperne : proibito anche pensarci ! Ecco a
che punto siamo !
— E tu hai forse l’intenzione, come sembrerebbe, di
sottometterti irrevocabilmente e docilmente al volere del
genitore?
LA BANDIERA DEI SETTE IMPAVIDI 837

— Io non farò per lo meno mai il contrario dei suoi


desideri, né oserò entrare in ostilità con lui, perché tu sai
bene che serba a lungo rancore ed è capace di profondo
risentimento. Sai anche che, vedovo da cinque anni,
non si è riammogliato per amor mio ; credo che di questo
una figliola debba sempre tener conto ! E, visto che par­
liamo di noi, debbo anche dirti che, date tali circostanze,
ritengo ■ sconveniente che ci si veda così spesso. È già
abbastanza che una figlia disobbedisca interiormente,
col cuore: fare quotidianamente, con atti esterni, ciò che
i genitori vedrebbero di malocchio se lo sapessero, non
è simpatico: per questo desidero che noi ci si incontri
soli non più di una volta al mese, non come ora quasi
ogni giorno, e vorrei che in genere si lasciasse passare un
po’ di tempo sulle nostre faccende.
— Passare un po’ di tempo ! Ma tu puoi e vuoi lasciar
andare così le cose?
— Perché no? Sono tanto importanti? Se è possibile
che arriviamo ad unirci, è possibile anche che no ! E il
mondo non cascherà, forse noi ci dimenticheremo, giac­
ché siamo ancora giovani; ad ogni modo non mi pare
si debba farne gran caso !
La bella diciassettenne pronunciò questo discorso con
apparente aridità e freddezza, mentre riafferrava i remi
e s’avviava verso la riva ; Karl la seguì dappresso, preoc­
cupato e spaventato, ma anche irritato dalle parole di
Hermine. Essa da un lato si compiaceva di sapere in
affanno il ragazzaccio, ma dall’altro era anche preoccupa­
ta del loro colloquio e soprattutto del distacco di quattro
settimane che si era imposto.
Egli riuscì quindi alla fine a sorprenderla e ad accostare
di colpo la propria barca alla sua. In un attimo tenne fra
le braccia il suo busto snello e se la attirò sul petto, in
modo che ambedue rimasero a mezzo sospesi sull’acqua
profonda, mentre le due barche eran così inclinate che
ogni movimento avrebbe potuto provocarne il rovescia­
mento. La fanciulla si sentì appunto per questo indifesa
e dovette permettergli che premesse sette o otto baci
impetuosi sulle sue labbra. Poi egli la raddrizzò insieme
838 NOVELLE ZURIGHESI

alla imbarcazione con mite fermezza; essa ricacciò i ca­


pelli dal volto, afferrò i remi, respirò affannosamente ed
esclamò, irata e minacciosa, con le lagrime negli occhi:
— Aspetta briccone, che ti tenga sotto la ciabatta ! Dio
sa se non ti accorgerai di che cosa vuol dire aver moglie !
Dopo queste parole s’allontanò vogando, rapida e sen­
za voltarsi a guardarlo, in direzione della casa paterna.
Karl invece, trionfante e felice, le gridò :
— Buona notte signorina Hermine Frymann ! Me li
son proprio gustati !
La signora Hediger non aveva però dato una falsa in­
formazione al consorte inducendolo ad uscire. La noti­
zia era stata soltanto da lei tenuta in serbo per buon uso
e utilizzata al momento opportuno. Aveva luogo in real­
tà una riunione, quella della società dei sette uomini,
ovvero dei sette duri o dei sette impavidi, o anche degli
amici della libertà, come si compiacevano di chiamarsi
volta a volta. Questo era semplicemente un gruppo di
sette vecchi e fidi amici, tutti maestri artigiani, gran pa­
trioti, arrabbiati politicanti ed austeri tiranni domestici
sul modello di mastro Hediger. Nati tutti ancora nel se­
colo precedente, avevano assistito, bambini, al tramonto
del tempo antico e poi per molti anni alle tempeste e
alle doglie per la nascita del nuovo, sinché verso il 1850
tornò il sereno e la Svizzera s’avviò di nuovo verso la
concordia e la forza. Alcuni di loro provenivano dalle
signorie, cioè dai territori un tempo soggetti ai Confede­
rati, e rammentavano ancora che, quali bimbi di con­
tadini, avevano dovuto inginocchiarsi per la strada al
passaggio di una carrozza con i signori della Confedera­
zione accompagnati dall’usciere; altri erano invece in
rapporti di parentela con qualche rivoluzionario im­
prigionato o giustiziato: erano insomma tutti pervasi da
inestinguibile odio contro ogni aristocrazia, odio che do­
po il tramonto della medesima s’era trasformato in amaro
scherno. Quando essa poi più tardi riapparve in veste
democratica e in alleanza con i grandi locatori di potere,
i preti, scatenando una lunga lotta, all’odio per l’aristo­
crazia si unì quello per le tonache; ed anzi il loro spirito
LA BANDIERA DEI SETTE IMPAVIDI 839

polemico dovette volgersi non soltanto contro signori e


sacerdoti, ma contro dei loro pari, contro intere masse so­
vreccitate, il che impose loro, ed in tarda età, un’inattesa
e complessa prova di forza che seppero tuttavia superare
con valore.
I sette uomini erano tutt’altro che trascurabili; in ogni
assemblea popolare o associazione contribuivano al for­
marsi di un saldo nucleo, erano instancabilmente all’ope­
ra, pronti notte e giorno ad assumersi, per il partito, in­
carichi che non potevano essere affidati a persone pagate,
ma soltanto a fidatissimi. Spesso venivano consultati dai
capipartito e onorati della massima confidenza, e quando
si trattava di sacrifici i sette uomini erano i primi a dare
il loro obolo. In cambio di tutto questo non chiedevano
altra ricompensa che la vittoria della loro causa e l’ap­
provazione della loro coscienza; mai uno di loro si fece
avanti o aspirò ad un privilegio o ad una carica, ma con­
sideravano massimo onore dare una rapida stretta di ma­
no ad un «celebre confederato», che però doveva essere
di buona stoffa, «dalle reni provate», come solevan dire.
I sette galantuomini da decenni si erano abituati l’uno
all’altro, si chiamavano solo per nome e avevan finito
per formare una società ben chiusa, senza altro regola­
mento fuorché quello che essi recavano in cuore. Si in­
contravano due volte la settimana, e precisamente, dato
che nel piccolo gruppo v’erano due osti, alternatamente
dall’uno o dall’altro di questi. Si trovavano a proprio
agio e se la spassavano allegramente : se nelle grandi as­
semblee eran taciturni e seri, quando eran soli eran vispi
e rumorosi; nessuno si prendeva soggezione, nessuno si
faceva riguardi ; talvolta parlavan tutti assieme, tal altra
ascoltavano reverenti uno di loro, a seconda dell’umore.
Oggetto dei loro discorsi erano non soltanto la politica,
ma anche le loro sorti domestiche. Se uno aveva crucci
ed affanni, esponeva alla compagnia quel che lo agitava
e la faccenda veniva discussa, e trovarvi rimedio diven­
tava cura comune; se uno poi si sentiva offeso da un al­
tro, portava la cosa davanti ai sette uomini, si teneva
giudizio, e chi era riconosciuto in torto subiva un’ammo­
840 NOVELLE ZURIGHESI

nizione. Così facendo erano volta a volta molto appas­


sionati, o molto tranquilli e dignitosi, o anche ironici.
Già due volte s’erano insinuati fra loro dei traditori,
dei soggetti indegni, ma, scoperti, eran stati condannati
ed espulsi con solenne procedimento, cioè eran stati di
fatto energicamente presi a pugni dai bellicosi vecchietti.
Se una grave disgrazia colpiva il partito cui erano devoti,
ne eran commossi più che da una sventura domestica e
si rifugiavano nella solitudine a versare amare lagrime.
Il più facondo e il più agiato fra loro era Frymann,
il carpentiere, un vero Creso con una casa ben fornita.
Il meno abbiente era Hediger, il sarto, che però quanto
a eloquenza veniva subito dopo Frymann. Aveva perdu­
to già da un pezzo i migliori clienti per eccesso di passio­
nalità politica, ciò malgrado era riuscito ad educare
bene i suoi figli, ma non possedeva ormai più nulla. Gli
altri cinque eran persone a posto, che ascoltavano più
che non parlassero, quando si trattava di argomenti gravi,
ma che in compenso in casa loro e con i vicini lasciavano
udire tanto più pretenziosi discorsi.
Quel giorno c’eran davvero trattative importanti, sulle
quali Frymann e Hediger s’erano preventivamente con­
sultati. Il tempo dell’agitazione, della lotta e degli sforzi
politici era finito per quei galantuomini e le loro lunghe
esperienze sembravano definitivamente concluse con le
posizioni raggiunte. Tutto è bene quel che finisce bene,
potevan dire, ed essi si sentivano invero vittoriosi e sod­
disfatti. Volevano quindi concedersi, al loro tramonto
politico, un piacere finale, cioè partecipare tutti e sette
riuniti alle feste federali di tiro a segno che dovevano aver
luogo la seguente estate ad Aarau, la prima adunata del
genere dopo l’introduzione del nuovo Statuto federale del
1848. Eran quasi tutti già da tempo membri della Socie­
tà svizzera di tiro a segno e possedevano tutti, tranne
Hediger che si accontentava del suo fucile di vecchio
modello, una buona arma, colla quale anni prima s’eran
dilettati al tiro. Avevano pure già partecipato singolar­
mente, qualche domenica, a feste simili, così che la cosa
non aveva nulla di particolare. Ma alcuni eran stati
LA BANDIERA DEI SETTE IMPAVIDI 84I

còlti da un desiderio di pompa esteriore, e si trattava


nientemeno che di presentarsi ad Aarau con una propria
bandiera e di offrire anche un dono cospicuo.
Dopo che la piccola brigata ebbe tracannato alcuni
bicchieri e si fu così messa di buon umore, Frymann e
Hediger misero fuori la proposta, la quale a tutta prima
sorprese quegli uomini modesti, che per alcuni momenti
rimasero indecisi ed esitanti. Non sembrava loro neces­
sario far tanto sfoggio e partire in corteo con un vessillo.
Avevano però da un pezzo disimparato a ricusare il loro
consenso ad un nuovo slancio o a un’ardita impresa;
perciò non si opposero più a lungo quando gli oratori
spiegarono che la bandiera doveva essere un simbolo e
il corteo un trionfo della fedele amicizia, e che l’appari­
zione dei sette vecchi campioni con il vessillo dell’amici­
zia sarebbe certamente riuscito per tutti un grande spasso.
Bastava preparare una bandierina di seta verde, con lo
stemma elvetico ed una buona dicitura.
Esaurito l’argomento della bandiera, venne quello del
dono da offrire; il valore ne fu deciso abbastanza in
fretta : avrebbe dovuto costare duecento franchi di vecchia
moneta. Ma la scelta dell’oggetto provocò una discus­
sione prolungata e piuttosto complicata. Frymann aprì
l’inchiesta invitando Kuser, l’argentiere, a dire il suo pa­
rere quale uomo di buon gusto. Kuser sorbì pacatamente
un sorso, tossicchiò, ponderò e poi disse che aveva ap­
punto in bottega una bella coppa d’argento, che, se gli
amici credevano, poteva proprio raccomandare e cedere
al prezzo più ridotto. Seguì un silenzio generale, inter­
rotto soltanto da brevi osservazioni, come «Perché no?»,
oppure: «Ma sì!». Poi Hediger chiese se qualcuno vo­
leva presentare altra proposta, al che Syfrig, l’abilis­
simo fabbro, bevve pure un sorso, si fece animo e disse:
— Se gli amici non hanno nulla in contrario, voglio
dire anch’io il mio pensiero. Io ho forgiato un aratro
molto ingegnoso tutto di ferro, che, come ben sapete, fu
lodato all’esposizione agricola. Io sarei disposto a cedere
per duecento franchi quell’oggetto di fine fattura, ben­
ché la somma non compensi neppure il lavoro; ma a me
842 NOVELLE ZURIGHESI

pare che questo strumento, simbolo dell’agricoltura, co­


stituirebbe un premio davvero popolare. Non voglio pe­
rò con questo aver detto nulla contro l’altra proposta!
Nel frattempo anche Bürgi, l’astuto falegname, aveva
considerato la questione e, mentre si era ristabilito il si­
lenzio e già l’argentiere faceva la faccia lunga, sorse a
dire quanto segue:
— Anche a me, cari amici, è venuta un’idea che forse
riuscirebbe molto divertente. Parecchio tempo fa ho co­
struito, per ordinazione di una coppia di sposi forestieri,
un letto matrimoniale a baldacchino di splendido noce
ad intarsi; quei due venivano ogni giorno in bottega a
misurarlo per il lungo e per il largo, tubando in presenza
degli operai e dei garzoni, senza paura dei loro scherzi
e delle loro allusioni. Ma quando avrebbero dovuto giun­
ger le nozze, baruffarono all’improvviso come cane e
gatto, nessuno mai seppe perché, l’uno andò di qui e
l’altra di là ed il mio letto mi rimase sul gobbo. Il suo
prezzo da amici sarebbe di centottanta franchi, ma io
son pronto a perderne ottanta e darvelo per cento. Noi
vi aggiungiamo elastico e materassi e lo rizziamo poi nel
salone dei premi con la dicitura: «Ad un confederato
scapolo, per incoraggiamento!». Che ne dite?
Allegre risate coronarono la proposta: soltanto l’ar­
gentiere e il fabbro ebbero un sorriso freddo e agrodolce ;
ma subito s’alzò a parlare Pfister, l’oste, con la consueta
schiettezza e la sua voce forte :
— Se la cosa va così, che ognuno porta al mercato la
sua merce, io avrei un’idea che vale più di tutte le propo­
ste precedenti. Serbo in cantina, ben conservata, una botte
di vin rosso del ’34, cosiddetto «Sangue svizzero», com­
prato da me in persona a Basilea oltre dodici anni fa.
Data la vostra sobrietà e discrezione, non ho mai osato
spillarlo, però è un capitale morto di duecento franchi, il
prezzo che mi è costato, dato che son giusti cento boccali.
Io vi cedo il vino a prezzo d’acquisto e vi conteggio po­
chissimo la botticella, già contento di guadagnar spazio
in cantina per una merce più corrente, e non son più io
se con un regalo di questo genere non ci facciamo onore !
LA BANDIERA DEI SETTE IMPAVIDI 843

Non era ancor finito questo discorso, durante il quale


i tre altri proponenti già avevan borbottato, che Eris-
mann, il secondo oste, prese la parola e disse:
— Se le cose vanno così, non voglio stare indietro e
dichiaro di avere quel che mi pare il meglio per i nostri
scopi, e precisamente la mia giovane vaccherella da latte
di pura razza dell’Oberland, che vorrei appunto ven­
dere, se mi si presentasse un buon acquirente. Appen­
dete al collo di quella splendida bestia una campana,
legatele uno sgabello da mungitore fra le corna, adorna­
tela con dei fiori. ..
— E mettetela sotto una campana di vetro nel salone
dei premi ! — lo interruppe irritato Pfister, facendo scop­
piare uno di quei temporali che talvolta perturbavano
le sedute dei sette ostinati, per dar luogo però sempre ad
un sole anche più splendente. Tutti parlavano insieme,
ciascuno difendendo la propria proposta, attaccando le
proposte altrui ed accusandosi di sentimenti egoistici.
Essi erano infatti avvezzi a dirsi in faccia quel che pensa­
vano, e dominavano le situazioni con aperta verità in­
vece che con ipocrisia dissimulatrice, come suol fare certa
falsa educazione.
Essendo scoppiato un fracasso infernale, Hediger fece
tintinnare con grande energia il suo bicchiere e li apo­
strofò ad alta voce:
— Amici ! Non eccitatevi, ma vediamo piuttosto di
arrivare tranquillamente ad una meta ! Vengon dunque
proposti: una coppa, un aratro, un letto matrimoniale
con baldacchino già montato, una botte di vino ed una
mucca. Permettetemi di considerare più dappresso le vo­
stre proposte. La tua coppa, caro Ruedi, vecchio fondo
di bottega, la conosco benone, perché da anni sta dietro
la tua vetrina e credo persino che sia stato il tuo lavoro
per diventare mastro d’arte. Tuttavia la sua forma fuori
moda non ci permette di sceglierla e di farla passare
per un premio nuovo. Il tuo aratro, Chüeri Syfrig, non
mi pare debba essere un’invenzione molto indovinata,
altrimenti nel corso di tre anni lo avresti certo venduto;
e noi vogliamo invece che il vincitore possa sinceramente
844 NOVELLE ZURIGHESI

compiacersi del premio che gli toccherà. Il tuo letto a


baldacchino, Heinrich, è senz’altro una trovata nuova e
divertente, che certo darebbe luogo a non pochi motti
popolari. Ma per attuare convenientemente questo tuo
progetto, bisognerebbe aggiungervi coperte e lenzuola
molto fini, e con ciò si supererebbe di troppo la somma
stabilita per sole sette teste. Il tuo «Sangue svizzero»,
Lienert Pfister, è buono, e diventerà ancor migliore se
gli assegni un prezzo più basso, e lo spillerai per noi,
da bersi nelle nostre ricorrenze solenni ! Della tua mucca
non si può dir altro male, Felix Erismann, se non che
quando la mungono rovescia sempre la secchia. Per que­
sto vuoi venderla, essendo davvero quello un vizio spia­
cevole. Ma pensa, sarebbe bello che un bravo contadino
vincesse la bestia, la portasse felice a casa a sua moglie,
quella la mungesse felice, per veder poi sparso a terra il
buon latte spumante? Immaginati un po’ la rabbia, l’ir­
ritazione e la delusione della buona donna e l’imbarazzo
del buon tiratore scelto quando la scena si ripetesse due
o tre volte! Amici cari, non abbiatevela a male, ma la
verità va detta: tutte le nostre proposte hanno il difetto
comune di aver sconsideratamente e precipitosamente
fatto oggetto di guadagno e di calcolo l’onore della pa­
tria. Se anche questo accade mille e mille volte da parte
di grandi e di piccini, noi nel nostro gruppo sinora non
l’abbiamo mai fatto e continuiamo dunque così! Tutti
dunque versino il loro contributo, nella stessa misura,
per il premio d’onore, senza alcuna altra finalità, e al­
lora sarà davvero un premio onorevole !
I cinque aspiranti ad un guadagno, che avevano ab­
bassato il capo mortificati, gridarono all’unisono.·
— Ben detto ! Chäpper ha parlato bene ! — e lo invi­
tarono a far lui la sua proposta. Ma intervenne Frymann
dicendo :
— Quale premio, mi pare che la cosa più adatta sia
pur sempre una coppa d’argento. Essa conserva il suo
valore, non si sciupa e rimane nella famiglia un bel
ricordo di giorni lieti e di valorosi uomini. Una casa ove
si conservi un boccale d’argento non può mai andar del
LA BANDIERA DEI SETTE IMPAVIDI 845

tutto in rovina, e chi può dire se talvolta non si riesce a


salvare anche molte altre cose per amore di simile ricor­
do? E non si dà così occasione all’arte di portar varietà,
con forme sempre nuove e leggiadre, nella massa dei re­
cipienti, esercitando la propria inventiva e recando un
raggio di bellezza sin nella vallata più remota, mentre
a poco a poco si accumula nel paese un vero tesoro di
tali coppe d’onore, elette per forma e per metallo? E
come è giusto che tale tesoro, sparso per tutto il paese,
non possa venir adibito alla volgare utilità dell’uso quo­
tidiano, ma con le sue pure forme ci ponga di continuo
sott’occhio qualcosa di superiore, cercando di eternare
il pensiero della patria intera e il sole di giorni trascorsi
idealmente! Via dunque le cianfrusaglie da fiera che
cominciano ad accumularsi nei nostri saloni da premi,
preda delle tarme e dell’uso più basso ! Rimaniamo fede­
li alle antiche e spettabili coppe ! In verità, se io vivessi
in un’epoca in cui le sorti svizzere volgessero alla loro
fine, non saprei escogitare alcuna più edificante cerimo­
nia finale che radunare coppe e boccali di tutte le cor­
porazioni, delle società e dei singoli cittadini, di qualun­
que forma e natura, a migliaia e migliaia, con tutto il
loro splendore di tempi passati, per alzare l’ultimo brin­
disi alla patria morente ...
— Ma taci, ospite malaugurato ! Che orrendi pensieri
hai mai? — protestarono i duri ed impavidi rabbrivi­
dendo. Ma Frymann continuò:
— Come all’uomo si conviene in piena virilità volger
di tanto in tanto il pensiero alla morte, cosi egli dovreb­
be in ore di meditazione considerare la fine ineluttabile
della sua patria, per amarne tanto più fervidamente il
presente, giacché tutto su questa terra è perituro e sog­
getto a mutare. Non son forse perite nazioni ben più
grandi della nostra? O vorreste trascinare un giorno re­
sistenza dell’ebreo errante, che non riesce a morire, ser­
vo di tutti i popoli nati da poco, lui che ha seppellito
Egiziani, Greci e Romani? No! Un popolo conscio di
dovere un giorno sparire utilizza tanto più intensamente
i suoi giorni, vive tanto più a lungo e lascia dietro di sé
846 NOVELLE ZURIGHESI

gloriosa memoria ; poiché non si concederà tregua sinché


non avrà portato in luce e fatto valere tutte le facoltà
che in lui giacciono, proprio come un uomo instancabile
che prima di morire dispone delle cose sue. Quando
la missione di un popolo è assolta, non contano pochi
giorni di più o di meno nella sua durata: già alle porte
del tempo stanno in attesa altre realtà ! Così debbo con­
fessarvi che ogni anno in una notte insonne o durante
passeggiate solitarie io m’abbandono a simili pensieri e
cerco di immaginarmi qual sorta di popolo dominerà
un giorno fra queste montagne. Ed ogni volta tomo poi
al lavoro con raddoppiato zelo, quasi potessi con ciò af­
frettare il lavoro del mio paese, affinché quel popolo fu­
turo calchi un giorno con rispetto le nostre tombe! Ma
lasciamo questi pensieri e torniamo al nostro allegro og­
getto ! Io direi di dare ordinazione al nostro mastro ar­
gentiere di una nuova coppa, dalla quale egli ci promet­
terà di non trar profitto alcuno, e di volerla anzi fornire
quanto più pregevole possibile. Ci faremo disegnare da
un artista uno schizzo che si stacchi un pochino dalle
solite forme; ma, dati i mezzi limitati, egli dovrà badar
piuttosto alle proporzioni, alla bella linea e all’eleganza
dell’insieme che non a ricchi ornamenti, e mastro Kaiser
ci darà un lavoro solido e ben eseguito !
La proposta fu accettata e la discussione chiusa. Ma
Frymann riprese tosto la parola per dire:
— Ora che abbiam sbrigato la questione generale, egre­
gi amici, permettetemi di esporre una faccenda parti­
colare e di denunciare una cosa, che voi contribuirete
tutti, secondo la vecchia consuetudine, ad accomodare
amichevolmente. Sapete che il nostro caro compagno
Chäpper Hediger ha messo al mondo quattro bei pezzi
di giovanotti, i quali con la loro fretta di sposarsi costi­
tuiscono il pericolo del paese. Tre di essi hanno anche già
moglie e figli, benché il maggiore non abbia ancor com­
piuto i ventisette anni. Resta solo il minore, di appena
vent’anni, e che cosa va a combinare? Perseguita la mia
unica figliola e le fa girar la testa ! In tal modo i male­
detti demoni del matrimonio si sono insinuati nella cer­
LA BANDIERA DEI SETTE IMPAVIDI 847

chia dell’intima amicizia e minacciano di perturbarla!


Anche a prescindere dalla eccessiva giovinezza dei due
ragazzi, confesso apertamente che tali nozze van contro
i miei desideri e le mie intenzioni. Io ho un’azienda im­
portante e un cospicuo patrimonio; quando verrà il mo­
mento, cercherò quindi di avere un genero che sia uomo
d’affari, che abbia un adeguato capitale e lo apporti alla
ditta, continuando i grandi lavori edilizi da me proget­
tati, poiché ben sapete che ho comprato vasti lotti di
terreno nella convinzione che Zurigo si amplierà note­
volmente. Tuo figlio invece è uno scrivano governativo,
caro Chäpper, e non possiede altro che il suo modesto
stipendio, e, se anche farà carriera, esso non aumenterà
molto, e la sua situazione è determinata una volta per sem­
pre. Se resterà impiegato, non gli mancherà nulla, ma
una moglie ricca non fa per lui; un impiegato ricco è un
controsenso, uno che ruba il pan di bocca ad un altro:
ma io d’altra parte non spreco il mio denaro per mante­
nere uno in ozio e neppure per fare esperimenti con un
inesperto ! A ciò si aggiunga che contraddice al mio sen­
timento trasformare il mio antico e provato rapporto
d’amicizia con Chäpper in una parentela. Come? Do­
vremmo impicciarci con i fastidi familiari e con una re­
ciproca dipendenza? No, compagni: rimaniamo ben
stretti insieme sino alla morte, ma indipendenti, liberi e
spensierati nelle nostre azioni, senza che c’entrino pa­
rentadi fra noi! Io ti invito dunque, caro Chäpper, a
dichiarare qui in seno all’amicizia che mi appoggerai
nelle mie intenzioni e ti opporrai ai propositi di tuo figlio !
Senza rancore: noi ci conosciamo tutti!
— Ci conosciamo tutti, hai detto bene ! — ripetè He­
diger solennemente, dopo aver aspirato una buona presa
di tabacco — Voi tutti sapete come sia stato disgraziato
coi miei quattro figli, benché sian ragazzi svegli e labo­
riosi. Feci studiare loro tutto quello che avrei desiderato
imparare io stesso. Ciascuno sapeva un po’ di lingue,
scriveva buoni componimenti, faceva i conti a meraviglia
e possedeva nel resto cognizioni sufficienti a non ricader
mai più nella assoluta ignoranza. Sia ringraziato Iddio,
848 NOVELLE ZURIGHESI

mi dicevo, che oggigiorno siamo in grado di dare ai no­


stri figli una educazione da cittadini e che a loro non si
potranno più dare a bere tante storie. Feci poi appren­
dere a ciascuno il mestiere che si era prescelto. Ma che
cosa accadde? Appena ebbero in tasca il diploma di ar­
tigiano e si furon guardati un poco attorno, il martello
sembrò loro pesante: si credettero troppo intelligenti per
un lavoro manuale e cominciarono a correr dietro ai
posti da tavolino. Sa il diavolo come ci riuscirono, fatto
si è che andarono a ruba ! Insomma, pare che faccian
buona prova. Uno è alla posta, due sono impiegati nelle
società ferroviarie e il quarto sgobba in una cancelleria
e dichiara di essere impiegato amministrativo. A me in
fondo poco importa ! Chi non vuol esser maestro, rimanga
dipendente, e abbia padroni per tutta la sua vita! Ma,
dovendo maneggiar denaro, tutti i giovanotti furon co­
stretti a versar cauzioni; io non ho capitali, quindi siete
stati voi, l’un dopo l’altro, a rendervi garanti per i miei
ragazzi, con cifre che messe insieme arrivano ai quaran­
tamila franchi: per quello eran buoni i vecchi artigiani,
gli amici del padre ! Ma come credete che mi senta io?
Che figura farei di fronte a voi, se soltanto uno dei quat­
tro una volta commettesse una sciocchezza, una legge­
rezza, un’imprudenza?
— Smettila ! — lo interruppero i vecchi — togliti di
mente simili pazzie ! Se i ragazzi non fossero stati am­
modo, non avremmo fatto malleveria, credi pure !
— Lo so ! — rispose Hediger — ma l’anno è lungo, e
quando è passato ne segue un altro. Vi assicuro che ogni­
qualvolta un figliolo entra in casa mia fumando un sigaro
un po’ fine, prendo uno spavento e penso: “Non si darà
al lusso e alla smania di piaceri?”. Se arriva una delle
giovani mogli con un abito nuovo, temo che metta il
marito in difficoltà spingendolo a spese eccessive e a
debiti ; se vedo che uno parla per strada con una persona
indebitata, dico fra me: “Non lo indurrà a far qualche
imprudenza?”. Insomma, capite bene che mi sento già
abbastanza umiliato e dipendente e son ben lungi dal
volermi mettere in stato di schiavitù verso un ricco suo­
LA BANDIERA DEI SETTE IMPAVIDI 849

cero di mio figlio, dal voler scambiare un vecchio amico


con un padrone e protettore ! Perché mai del resto dovrei
desideraré che quello sbruffone di ragazzo si senta ricco
e sicuro e mi venga a girare sotto il naso con l’arroganza
di un arrivato, lui che non ha alcuna esperienza? Do­
vrei collaborare a chiudergli la scuola della vita, in modo
che diventi già nei suoi giovani anni un insensibile, un
tanghero e un villanaccio, che non sa neppure come cre­
sce il grano, ma si attribuisce chissà quali meriti? No,
no, sta’ tranquillo, amico ! Qua la mano ! Niente paren­
tado, niente matrimoni !
I due vecchi si strinsero la mano, mentre gli altri ride­
vano e Bürgi commentava:
— Chi crederebbe mai che voi due, dopo aver detto
in argomenti patriottici cose tanto sagge, ed averci data
una così giusta lavata di capo, ora di colpo possiate metter
fuori tante sciocchezze? Sia lodato Iddio! Cosi ho al­
meno la probabilità di vendere il mio letto matrimo­
niale, e propongo che noi se ne faccia dono alla giovane
coppia per le nozze !
— Accettato ! — esclamarono gli altri quattro, e l’oste
Pfister aggiunse:
— Ed io esigo che si beva la mia botte di «Sangue
svizzero» alla festa di nozze, alla quale tutti assisteremo !
— Ed io la pagherò, se faremo quella festa ! — gridò
Frymann arrabbiato — Ma se tutto va in fumo, come so
con certezza, pagherete voi la botte e la berremo durante
le nostre sedute sino a vuotarla !
— La scommessa è accettata ! — fecero eco gli altri,
ma Frymann e Hediger diedero pugni sulla tavola ri­
petendo :
— Niente parentado ! Vogliam restare buoni amici in­
dipendenti e non diventar consuoceri !
Con tale dichiarazione finalmente si chiuse la memora­
bile seduta e gli amici della libertà si avviarono ritti ed
intrepidi alle rispettive case.

II giorno seguente, subito dopo il pranzo, appena si


furono allontanati i lavoranti, Hediger comunicò a suo
850 NOVELLE ZURIGHESI

figlio e a sua moglie la solenne decisione presa il giorno


precedente di non tollerare per l’avvenire alcuna rela­
zione fra Karl e la figlia di Frymann. La signora Hedi-
ger, la «fuciliera», fu còlta a queste parole da tale sma­
nia di ridere che l’ultimo sorso di vino che stava appunto
bevendo le andò di traverso causandole una violenta tosse.
— Che c’è mai da ridere? — domandò irritato il ma­
rito, e sua moglie gli rispose:
— Mi vien da ridere pensando che il proverbio «A
ciascuno il suo mestiere ! » converrebbe anche alla vostra
società. Perché non restate nella politica, invece di intri­
garvi con le storie d’amore?
— Tu ridi come una donna e parli anche da donna ! —
replicò Hediger con molta serietà — ma è proprio nella
famiglia che comincia la vera politica. Sicuro che siamo
amici politici, ma per rimanerlo non vogliamo mettere
a soqquadro le famiglie e introdurre il comuniSmo con
la ricchezza di uno di noi. Io son povero e Frymann
è ricco e così deve restare ; tanto più ci dà gioia la nostra
eguaglianza interiore. Dovrei forse ora con un matrimo­
nio ficcare il naso in casa sua e nei suoi affari e far sor­
gere passioni e complicazioni? Dio me ne guardi !
— Che strani principi ! — ribatte la moglie — Bella
amicizia, se un amico non dà la figlia ad un figlio dell’a­
mico ! E da quando in qua è comuniSmo portare il be­
nessere in una famiglia con un buon matrimonio? È
forse politica riprovevole che un figlio fortunato riesca
a conquistarsi una ragazza bella e ricca, che arrivi così
ad essere agiato e stimato, ad aiutare i suoi vecchi genitori
ed i suoi fratelli in modo che anch’essi abbian fortuna?
Dove infatti è entrata una volta la buona sorte, facil­
mente si diffonde, e, senza che l’uno nulla ci rimetta,
anche gli altri, all’ombra di quel destino, posson gettare
i loro ami. Non che io aspiri ad una vita nel paese di
Bengodi ! Ma ci sono molti casi in cui un uomo diventato
ricco può venir consultato dignitosamente dai suoi pa­
renti poveri. Noi vecchi non ne avremo bisogno, ma po­
trebbe giungere il momento in cui l’uno o l’altro dei fra­
telli di Karl sentisse il desiderio di tentare una buona
LA BANDIERA DEI SETTE IMPAVIDI 85 1

impresa, un mutamento di carriera, se qualcuno ne for­


nisse loro i mezzi. L’uno o l’altro poi avranno un figlio
intelligente, in grado di salire, se gli si offrisse il modo
di studiare. Uno potrebbe forse diventare un medico
apprezzato, l’altro un avvocato stimato o un giudice, un
terzo un ingegnere o un artista, e a questi, una volta anda­
ti così avanti, sarebbe poi facile fare un buon matrimo­
nio e fondare una famiglia stimata, numerosa e felice.
E che cosa sarebbe più umano che l’aiuto di uno zio
ricco, pronto ad aprire, senza danneggiarsi, le vie del
mondo ai suoi svegli ma poveri parenti? Quante volte
accade che, in grazia di un solo fortunato, anche tutti gli
altri in una famiglia acchiappino un pezzetto di fortuna
e mettan senno? E a tutto questo voi volete mettere il
tappo, chiudendo subito la sorgente della felicità?
Hediger rise irritato ed esclamò:
— Castelli in aria ! Tu parli proprio come la contadina
che aveva il vaso di latte in testa ! Ma io vedo un ben al­
tro quadro dell’arricchito fra parenti poveri! Egli non
si lascia certo mancar nulla ed ha sempre mille idee e
desideri che lo inducono a nuove spese. Quando invece
vengon da lui i suoi genitori o fratelli, subito siede im­
bronciato e con aria d’importanza davanti al suo libro
mastro, ficca la penna in bocca di traverso e sospira:
«Ringraziate Iddio di non aver la noia ed il peso di
amministrare simile patrimonio ! Preferirei sorvegliare un
gregge di capre che un branco di debitori lenti e mali­
gni ! Mai che entrino incassi, tutti cercano di cavarsela e
di svignarsela ! Non si ha pace né giorno né notte se non
si vuol esser grossolanamente ingannati ! Se poi una volta
si prende per la collottola un briccone, quello leva tali
strida, che bisogna lasciarlo scappare in fretta per non
passare per strozzino o per mostro ! Bisogna leggere tutte
le gazzette ufficiali, tutti gli annunci dei giorni fissati per
le udienze, i bandi e le inserzioni, per non lasciarsi sfug­
gire un ricorso e non dimenticare un termine ! E mai v’è
denaro in cassa ! Se uno restituisce un prestito, va prima
a mostrar sul tavolo di tutte le osterie il suo sacchetto di
denaro, vantandosi del pagamento e, prima che quello
852 NOVELLE ZURIGHESI

sia uscito di casa, ne son già entrati tre a pretendere


quella somma, ed uno persino senza pegno ! E non par­
liamo delle pretese del comune, delle istituzioni benefiche,
delle imprese pubbliche, e delle sottoscrizioni d’ogni ge­
nere . . . impossibile ricusare, la posizione lo esige ; ma vi
assicuro che spesso c’è da perderci la testa ! Quest’anno
sono proprio in difficoltà: ho fatto abbellire il mio giar­
dino e ho costruito un balcone che mia moglie deside­
rava da un pezzo, ed ora piovono i conti ! A tenere un
cavallo da sella, come mi ha ripetutamente consigliato il
medico, non posso neppur pensare, perché sempre ven-
gon di mezzo nuove spese. Vedete per esempio: mi son
fatto costruire un nuovo piccolo torchio di fabbricazione
moderna per pigiare la mia uva moscata che coltivo a
spalliera ... ma che il diavolo mi pigli se lo potrò pagare
quest’anno! Per fortuna che ho ancora credito!». Così
parla e intimidisce, pur mischiandovi le sue crudeli van­
terie, i fratelli poveri ed il suo vecchio padre, tanto che
essi tacciono i loro desideri e se ne vanno dopo avere am­
mirato il giardino e il balcone e il torchio di nuovo tipo.
Se ne vanno da estranei a cercare un aiuto e preferiscon
pagare alti interessi pur di non udir più tante chiacchiere.
I suoi figli son vestiti con eleganza e con lusso, e cammi­
nano elastici per le strade; portano ai loro poveri cugi-
netti e cuginette dei piccoli regali e li invitano due volte
l’anno a pranzo, il che è gran divertimento per i bambini
ricchi; ma appena gli ospiti superano la timidezza e
diventan rumorosi, si riempion loro le tasche di mele e
li si rimandano a casa. E a casa essi raccontano quel che
hanno veduto ed hanno mangiato e tutto è ragion di
critica, perché la rabbia e l’invidia dominano le cognate
povere, che tuttavia fan la corte alla parente ricca e ne
lodano il lusso con grande eloquenza. Ma alla fine capita
una disgrazia al padre o ai fratelli, ed allora il ricco è pur
costretto, volente o nolente, per timor dei pettegolezzi, a
intervenire. Lo fa anche senza lasciarsi troppo pregare,
ma con ciò è per sempre rotto il vincolo dell’amore fra­
terno su un piano di parità. I fratelli ed i loro figli diven­
tano i servi e sudditi di un signore ; per anni e anni subi-
LA BANDIERA DEI SETTE IMPAVIDI 853

scon prediche e rimbrotti, debbon vestirsi di sacco e man­


giar pane nero per riparare a una piccola parte di quel
danno e i bambini vengono collocati in orfanotrofi o in
scuole dei poveri, e appena son forti abbastanza debbon
lavorare nella casa del ricco parente e sedere in fondo
alla sua tavola, senza mai aprir bocca.
— Ma che storie mi racconti ! — protestò la moglie
— E tu vuoi proprio credere che tuo figlio sia un simile
mascalzone? Ed è proprio detto che ai suoi fratelli tocchi
una tale disgrazia per cui diventino suoi servi? A loro
che sino ad oggi se la son sempre cavata bene? No dav­
vero, a onore del nostro sangue io penso che un matrimo­
nio ricco non ci farebbe impazzire a tal punto, ma che
anzi sarebbero confermate le mie buone previsioni !
— Io non voglio asserire — replicò Hediger — che le
cose si svolgerebbero esattamente così; però anche da noi
si introdurrebbe l’ineguaglianza prima esteriore e poi
interiore. Chi aspira alla ricchezza, tende a divenir di­
verso dai suoi simili.. .
— Storie ! — lo interruppe la donna, mentre toglieva
la tovaglia e la scuoteva fuor della finestra — forse che
Frymann, il padrone di tutti i beni di cui stiam discu­
tendo, è diventato diverso da voi? Non siete ancora un
cuore e un’anima sola e non siete sempre insieme?
— Quella è un’altra faccenda ! — esclamò il marito
— una cosa del tutto differente ! Lui non ha conquistato i
suoi beni con l’astuzia e non li ha vinti alla lotteria,
ma ha guadagnato con fatica, in quarant’anni, tallero
su tallero. E poi noi due non siamo fratelli, non siamo
legati, e così vogliamo anche restare per l’avvenire, qui
sta il punto ! E per di più lui non è come tutti gli altri,
è uno dei sette duri ed impavidi ! Ma non consideriamo
sempre soltanto questi meschini rapporti privati ! Per for­
tuna non ci sono tra noi persone di inaudita ricchezza
ed il benessere è abbastanza suddiviso; ma lascia che
spuntino uomini forniti di molti milioni e pieni di ambi­
zioni politiche, e vedrai che pasticci combineranno ! C’è
per esempio il noto re dei filatori, che ha già di fatto pa­
recchi milioni, e gli rimproverano di essere un cattivo
854 NOVELLE ZURIGHESI

cittadino ed uno spilorcio perché non si cura della cosa


pubblica. Al contrario : è un buon cittadino che lascia in
pace gli altri come sempre e pensa a se stesso e vive come
tutti gli altri. Fa’ però che questo bel tipo sia un genio po­
litico avido di dominio, supponi che abbia un poco di cor­
tesia, di compiacenza per il lusso e per la pompa teatrale,
fagli erigere palazzi e istituti di utilità pubblica, e vedrai
poi che danni cagionerà alla vita sociale, come rovinerà
il carattere del popolo ! Verrà tempo in cui nel nostro
paese, al pari che negli altri, si accumuleranno grandi
masse di denaro non conquistate attivamente col lavoro
e col risparmio; allora bisognerà mostrare i denti al dia­
volo; allora si vedrà se la nostra bandiera è di tessuto e
di colore resistente! Insomma, io non vedo perché uno
dei miei figli debba aspirare a beni altrui senza aver fatto
nulla per meritarseli. Questo è un imbroglio come un
altro !
— È un imbroglio vecchio come il mondo — disse ri­
dendo la moglie — che due voglian sposarsi perché si
piacciono ! E voi con tutte le vostre parole rigide e solenni
non cambierete nulla ! Del resto nel giuoco lo sciocco sei
tu solo, perché mastro Frymann cerca saggiamente di
impedire che i tuoi figlioli diventino eguali ai suoi. I
ragazzi però avranno pure la loro politica e l’attueranno,
se la faccenda è seria, il che io non so davvero.
— Facciano pure: questo è affar loro, — disse Hedi­
ger — affar mio rimane non favorirli e ricusare il mio
consenso sino a che Karl è minorenne.
Con tale dichiarazione diplomatica e con l’ultimo nu­
mero del «Repubblicano» si ritirò nel suo studiolo. La
signora Hediger da parte sua avrebbe voluto raggiungere
il figlio e soddisfare la propria curiosità, ma solo allora
s’avvide che quello se l’era svignata, sembrandogli super­
flua tutta la discussione e specialmente vergognandosi di
parlare delle sue faccende amorose coi genitori.
Quella sera salì invece più presto in barca e vogò verso
il luogo in cui era stato già tante sere. Cantò la sua can­
zonetta ben due volte e sino all’ultimo verso : ma nessuno
si mostrò, così che, dopo aver inutilmente incrociato più
LA BANDIERA DEI SETTE IMPAVIDI 855

di un’ora davanti al cantiere, tornò a casa pensoso e de­


presso, persuaso che la sua causa si mettesse male. La
stessa sorte gli toccò per quattro o cinque sere di seguito,
ed egli rinunciò a inseguire colei che giudicava infedele.
Ricordava bensì il proposito di Hermine di volerlo vedere
solo ogni quattro settimane, ma lo riteneva un primo
passo verso il congedo definitivo, il che lo fece cadere in
irosa melanconia. Fu quindi molto contento che comin­
ciasse il periodo delle esercitazioni di tiro per le reclute
e si recò prima con un conoscente buon tiratore per pa­
recchi pomeriggi ad un bersaglio, allo scopo di adde­
strarsi un pochino e poter raggiungere, prima di arruolar­
si, quel numero di centri che si esigeva per l’ammissione
ai tiratori. Suo padre osservava ironicamente i suoi sforzi
e un giorno capitò inaspettatamente al bersaglio per far
desistere a tempo il figliolo dalla sua stolta idea, qualora,
come supponeva, fosse del tutto inabile.
Arrivò per caso proprio nel momento in cui Karl,
avendo già mancato una mezza dozzina di colpi, stava
facendone invece una serie di buoni.
— Non vorrai darmi ad intendere — gli disse stupito
— che tu non hai mai sparato: certamente hai sciupato
di nascosto non pochi franchi, è chiaro !
— Di nascosto infatti ho già sparato, ma senza spese.
E lo sapete dove, padre?
— Lo dicevo bene !
— Già da ragazzo son stato spesso a veder tirare e ho
sempre ascoltato quel che vi si diceva e già da anni ne
avevo gran smania, tanto da sognarne, e quand’ero a let­
to per ore e ore tenevo il fucile e sparavo centinaia di
colpi bene aggiustati.
— Benissimo ! Allora in avvenire saran consegnate a
letto compagnie intere di tiratori scelti, con l’ordine di
simili esercitazioni mentali: un metodo che risparmia
polvere e scarpe !
— La cosa non è tanto ridicola come sembra; — inter­
loquì il tiratore esperto che insegnava a Karl — certo si
è che di due tiratori egualmente dotati per la vista e la
mano, diventerà maestro quello che è più avvezzo a
856 NOVEI.LE ZURIGHESI

pensare. Ci vuole un tatto innato anche per premere il


grilletto, ed anche in questo vi sono, come in tutte le
arti, cose singolari.
Quanto più frequenti si facevano i centri di Karl tanto
più il vecchio Hediger scoteva il capo ; il mondo gli sem­
brava sottosopra giacché egli per conto suo aveva otte­
nuto quel che sapeva ed era diventato quel che era solo
con l’assiduità e lo sforzo; persino i suoi princìpi, che la
gente solitamente era capace di imbottare con facilità e
sveltezza come fossero aringhe, li aveva conquistati stu­
diando tenacemente nella sua cameretta. Non osò però
fare alcuna opposizione e se ne andò, non senza l’intima
soddisfazione di aver fra i suoi figli un patriottico tira­
tore scelto, e prima di giungere a casa era arrivato anche
alla decisione di confezionargli una bella uniforme di
panno fino. “Si capisce che la dovrà pagare!” disse a
se stesso, ma avrebbe potuto già sapere che non riscoteva
mai compensi dai suoi figli e che questi mai aspiravano a
restituirgli qualcosa. Il che è molto sano per i genitori
e li fa giungere a tarda età, perché possano vedere i loro
rampolli sfruttati a loro volta allegramente dai nipoti,
come succede di padre in figlio, lasciando tutti in salute e
di buon appetito.
Karl fu ficcato in caserma per parecchie settimane e si
trasformò in un bel soldatino disinvolto che, per quanto
fosse innamorato e nulla sapesse della sua bella, atten­
deva attento e sereno al servizio sin che durava il giorno :
di notte poi le chiacchiere e gli scherzi dei compagni di
camerata non gli lasciavano la possibilità di abbando­
narsi solitario ai suoi pensieri. C’era una dozzina di re­
clute dei diversi distretti che, appena spente le luci e sin
verso la mezzanotte, facevano sfoggio e scambio delle
loro arti e dei loro scherzi locali. Della città ve ne era,
oltre a Karl, soltanto uno, da lui conosciuto solo indiret­
tamente. Era più anziano di alcuni anni e aveva già pre­
stato servizio come fuciliere. Legatore di libri di mestiere,
non lavorava più da anni, vivendo invece degli aumen­
tati affìtti di vecchie case, che egli riusciva a comprare
con grande abilità e senza capitali. Talvolta ne riven-
LA BANDIERA DEI SETTE IMPAVIDI 857

deva una ad un allocco a prezzo esagerato, poi, se il


cliente non stava ai termini, intascava la caparra e le
somme già versate e riprendeva la casa, tornando ad al­
zare gli affitti. Era anche molto pronto nell’aggiungere
con lievi modifiche costruttive ad un appartamento una
cameretta o un ripostiglio, esigendo poi un notevole rin­
caro di pigione. Tali modifiche non erano escogitate per
l’utile o la comodità, ma erano anzi arbitrarie e vane ; egli
conosceva pure i peggiori operai, quelli pronti a fare il
lavoro a minor prezzo e in pessimo modo e ne sapeva di­
sporre a suo capriccio. Quando non gli veniva in mente
nulla di meglio, faceva imbiancare esteriormente una
delle sue vecchie case e tornava a far salir gli affitti. In
questo modo godeva un ottimo reddito annuo senza
un’ora di lavoro effettivo. Le sue commissioni e i suoi ap­
puntamenti eran presto esauriti; soleva bighellonare, ol­
treché davanti alle sue case, davanti agli edifici altrui,
dandosi arie da competente, immischiandosi di tutto e
restando il più sciocco uomo del mondo. Per questo ap­
punto passava per un giovane agiato e intelligente, di
rapida carriera, e non si lasciava mancar nulla. Gli sem­
brava troppo misero restare soldato di fanteria e aveva
tentato di diventare ufficiale. Troppo pigro e ignorante,
era stato respinto, ma ora con la sua tenace ostinazione
era riuscito a insinuarsi fra i tiratori.
Ivi cercava di ottenere la considerazione di tutti, però
senza sforzi, in grazia solo del suo borsellino. Invitava
continuamente a bere gli istruttori subalterni ed i camera­
ti, sperando con tal goffa generosità di procurarsi libertà
e indulgenza. Ottenne però solamente di venir preso a
gabbo, sia pur godendo una certa indulgenza, perché
presto tutti rinunciarono a cavarne qualcosa di buono e
lo iasciaron fare, purché non disturbasse gli altri. Una
sola recluta strinse familiarità con lui, facendogli da or­
dinanza, pulendogli le armi e parlando in suo favore, e
questi era un giovane figlio di contadini, ricco ma avaro,
che moriva dalla voglia di bere e di mangiare appena
poteva farlo a spese altrui. Questi credeva di meritarsi il
paradiso se riusciva a portare a casa intatti i suoi talleri
858 NOVELLE ZURIGHESI

lucenti, potendo dire tuttavia di essersela spassata e di


aver bevuto durante il servizio militare al pari di ogni
vero tiratore; era del resto allegro e di buon carattere
e divertiva il suo men ricco mecenate, cantandogli da­
vanti a una bottiglia, in modo molto strano, con la sua
tenue voce in falsetto, le più note canzonette di campa­
gna; era insomma un tirchio di buon umore. A questo
modo i due, Ruckstuhl il fannullone e Spörri il contadino
avaro, vivevano in beata amicizia. Il primo aveva sem­
pre davanti carne e vino e faceva il comodo suo, l’altro
non lo lasciava quasi mai, cantava e gli puliva gli stivali,
e non disprezzava neppure i piccoli doni in denaro che
quello gli faceva.
Intanto gli altri se ne beffavano e stabilirono fra loro
che Ruckstuhl non dovesse essere sopportato in nessuna
compagnia. Questa decisione non valeva però per il suo
famulo, il quale, per quanto strana la cosa possa apparire,
era un ottimo tiratore; ora, nell’esercito, chiunque sap­
pia il fatto suo è il benvenuto, anche se poi è un filisteo
o uno scapestrato.
Karl era sempre il primo a prendersi giuoco di quella
coppia; ma una sera gliene passò la voglia, udendo, nella
camerata già immersa nel silenzio, Ruckstuhl che, av­
vinazzato, spiegava vanitosamente al proprio seguace
che lui era un signore, e che fior di signore!, e che pen­
sava di sposare presto una donna ricca, e cioè la figlia
del carpentiere Frymann, che non gli sarebbe certamente
sfuggita, dopo tutto quello che aveva notato.
La pace di Karl era finita. E il giorno appresso, non
appena ebbe un’ora libera, andò a casa dei suoi genitori
per spiare che cosa ci fosse di nuovo. Siccome non volle
esser lui a cominciare a parlare della faccenda, così non
riuscì a sapere nulla di Hermine finché, quando già egli
era sul punto di andarsene, la mamma non gli porse i
saluti della ragazza.
— Dove l’avete vista? — domandò Karl col massimo
sangue freddo possibile.
— Oh, adesso viene tutti i giorni al mercato con la
serva e impara a fare la spesa. Io devo insegnarle, quando
LA BANDIERA DEI SETTE IMPAVIDI 859

c’incontriamo ; e allora andiamo insieme per tutto il mer­


cato e facciamo un gran ridere, perché lei è sempre
allegra.
— Ah, sì? — fece il padre — allora è per questo che
qualche volta stai fuori tanto tempo? E anche ti metti a
fare la mezzana, ora? È una cosa che sta bene, a una ma­
dre, fare in codesto modo come fai tu e andare intorno
con persone che il figlio ha la proibizione di accostare?
E portare anche i loro saluti?
— Che persone proibite? Io la conosco fin da piccolina
quella brava ragazza, l’ho tenuta in braccio e adesso
non dovrei avere contatti con lei? E lei non dovrebbe sa­
lutare le persone di casa nostra? E una mamma non do­
vrebbe aiutare i suoi figlioli ad accasarsi? Secondo me
è proprio la mamma la persona che ci vuole! Ma non
parliamo affatto di cose simili: noi donne non andiamo
poi tanto matte per voi omacci maleducati, e, se Hermi­
ne volesse darmi ascolto, non prenderebbe nessuno !
Karl non sentì il discorso sino alla fine, ma se ne andò
per conto suo, soddisfatto di avere un saluto senza che si
parlasse di novità sospette. Ma si domandò perplesso
come mai Hermine fosse tanto allegra, mentre prima
non aveva mai riso troppo. Interpretò però la cosa a suo
favore, dicendosi ch’era lieta di incontrar sua madre.
Decise quindi di tenersi tranquillo, confidando nella ra­
gazza e lasciando che tutto andasse per la sua via.
Alcuni giorni dopo Hermine venne con il suo lavoro
a maglia a far visita alla signora Hediger e regnò grande
cordialità tra chiacchiere e risate, tanto che il sarto,
intento nel suo laboratorio a tagliare una redingote di
lusso, ne fu quasi disturbato e si chiese qual comare fosse
mai venuta. Non ci badò molto, sin che udì alla fine sua
moglie aprire l’armadio e far tintinnare le tazze azzurre
da caffè. La «fuciliera» infatti preparò un caffè, il mi­
gliore che mai avesse preparato, poi prese una bella man­
ciata di foglie di salvia, le immerse in una pasta d’uovo
e le fece poi friggere nel burro bollente, facendo i cosid­
detti sorcetti, perché i gambi delle foglie friggendo pren-
don l’aspetto di code di topo. Si gonfiarono meraviglio­
86ο NOVELLE ZURIGHESI

samente, così da colmare il vassoio, ed il loro profumo


commisto a quello del caffè salì sino al sarto. Quando
poi udì la moglie pestar lo zucchero, divenne enorme­
mente impaziente che lo chiamassero a bere, ma non sa­
rebbe mai sceso un momento prima, essendo del nume­
ro dei duri e degli impavidi. Entrando nel salotto vide
sua moglie e la graziosa persona proibita sedute in gran
confidenza davanti alla caffettiera, e precisamente alla
caffettiera a fiori azzurri, mentre sulla tavola c’erano non
soltanto i sorcetti ma anche del burro e il vaso del miele
a fiori azzurri, dove però non c’era miele d’api, ma solo
uno sciroppo di ciliege, del colore pressappoco degli occhi
di Hermine, e per colmo tutto questo accadeva un sa­
bato, nella giornata in cui tutte le massaie rispettabili
scopano e lavano, lustrano e fregano e non cucinano
buoni bocconi.
Hediger considerò la scena con occhio critico e salutò
con tono piuttosto austero, ma Hermine fu tanto dolce
ed insieme tanto energica che egli ne rimase come inton­
tito e finì per andare in persona a prendere un « bicchie­
re di vino» in cantina, e proprio di quello della piccola
botte. Hermine ricambiò la cortesia osservando che biso­
gnava metter da parte per Karl un piatto pieno di sorcetti,
poiché in caserma non aveva certo da scialare. Prese il
suo piatto e dal vassoio pescò per la coda, coi suoi ditini
affusolati, i topini meglio riusciti, e ne prese tanti che la
madre finì per gridare che erano abbastanza. Ma la fan­
ciulla si pose davanti il piatto, considerandolo di tanto
in tanto con compiacenza, da questo prese ancora qual­
che sorcetto che mangiò dicendo che era ospite di Karl,
e riparò coscienziosamente il furto ripescando nel vassoio.
Alla fine la scena divenne troppo sospetta per il buon
Hediger, che si grattò in testa e, benché avesse un lavoro
urgente, infilò in fretta la giacca e corse dal padre della
peccatrice.
— Dobbiamo star bene attenti! — gli disse — Tua
figlia è a casa mia, dalla mia vecchia, accolta con gran
pompa, e si fan delle moine che non mi piacciono, e tu
sai che le donne ne sanno più del diavolo.
LA BANDIERA DEI SETTE IMPAVIDI 861

— Perché non hai mandato via quella stupidella? —


disse Frymann irritato.
— Mandarla via? Me ne guarderò bene, quella è una
strega ! Vieni tu in persona a vedere !
— Sta bene, vengo subito con te e dirò alla ragazza
come deve comportarsi!
Ma, arrivati a casa, invece della signorina trovarono
il tiratore, che aveva slacciato il panciotto verde e gu­
stava con tanto maggior piacere i dolci e il vino dopo
che la madre fra altri discorsi gli aveva detto che Her­
mine quella sera sarebbe andata di nuovo a fare una
remata sul lago, visto che c’era una così bella luna e che
già da quattro settimane non era stata in barca.
Karl si recò per tempo sul lago, tanto più che al suono
della ritirata, che i trombettieri zurighesi nelle belle notti
primaverili ed estive fanno echeggiare con celesti melo­
die, doveva rientrare in caserma. Non era ancora del
tutto buio quando giunse davanti al cantiere, ma ahimè !,
la barchetta del signor Frymann non si cullava come al
solito sulle onde, ma stava capovolta su due cavalletti,
a ben dieci passi dalla riva.
Era uno scherzo oppure una mossa del padre? pensò,
e stava per ripartire dolente e sdegnato, quando dai bo­
schi del monte di Zurigo fece capolino la dorata luna pie­
na e nello stesso tempo da dietro un salice in fiore tutto
pieno di gattini gialli sbucò Hermine.
— Non sapevo che stavano verniciando la nostra bar­
ca, — sussurrò — bisogna che salga nella tua: portati
subito al largo ! — Con un lieve balzo fu da lui e sedette
all’altro capo della barca, lunga appena sette piedi.
Vogarono al largo, finché furono fuori dagli sguardi in­
discreti e Karl interpellò subito Hermine a proposito
di Ruckstuhl, riferendone le parole e le imprese.
— Lo so — rispose la fanciulla — che questo signore
mi desidera in moglie e che mio padre non è alieno dal
consentire; ne ha anzi già parlato.
— Ma è così matto da volerti dare a un simile briccone
buono a nulla? Dove vanno i suoi solenni princìpi?
Hermine alzò le spalle e replicò :
862 NOVELLE ZURIGHESI

— Mio padre s’è messo in mente di costruire un buon


numero di case e di specularvi : per questo gli piacerebbe
avere un genero che lo aiutasse specialmente per quel
che riguarda la speculazione e che, occupandosi dell’a­
zienda, sapesse di fare anche l’interesse proprio. Spera
in una collaborazione gradevole, come l’avrebbe sognata
con un figlio, e gli pare che questo messere sia il genio
adatto. Non gli manca niente, dice, fuorché un’attiva
vita d’affari per diventare perfetto nella pratica del
mestiere. Del suo sciocco modo di vivere mio padre non
sa nulla, perché lui non bada a quel che fa la gente e non
frequenta che i suoi vecchi amici. Insomma, Ruckstuhl
è invitato da noi a pranzo per domani che è domenica,
allo scopo di rafforzare la conoscenza, e temo che quello
si lancerà subito all’attacco. A quel che ho sentito, quan­
do vuol acchiappare una preda che gli preme sa essere
servile ed impudente insieme!
— Be’, penserai tu a rispondergli per le rime ! — disse
Karl.
— Certo che lo farò, ma sarebbe ancor meglio se non
venisse affatto, piantando in asso mio padre !
— Sarebbe meglio senza dubbio, ma è un pio deside­
rio: si guarderà bene dal mancare.
— Avrei escogitato un piano per vero dire alquanto
singolare. Non potresti indurlo oggi o domattina a com­
metter qualche sciocchezza, in modo da esser messo in­
sieme a te agli arresti per ventiquattro o per quaran-
tott’ore?
— Sei molto carina a volermi mandare in cella per
un paio di giorni, pur di risparmiarti un rifiuto ! Non
potresti farlo a miglior mercato?
— Perché la nostra coscienza non abbia troppo a sof­
frire, è necessario che tu divida le sue disgrazie ! Quan­
to al rifiuto, io non desidero affatto esser posta nella si­
tuazione di dover dire di no ad un simile individuo:
è già sin troppo che vada parlando di me nelle caserme,
Non voglio che arrivi più in là.
— Hai ragione, tesoro mio ! Tuttavia cercherò di man­
dare solo in gattabuia quel briccone: già mi balena un
LA BANDIERA DEI SETTE IMPAVIDI 86g

buon piano. Ma non parliamone oltre : è già un peccato


aver sciupato il tempo prezioso e la bella luna! Non ti
fa pensare a niente?
— A che cosa dovrei pensare?
— Che non ci siam veduti da quattro settimane e che
oggi difficilmente tornerai a riva senza esser baciata.
— Sei tu che mi vorresti baciare?
— Proprio io ! Ma non c’è fretta : io ti ho in mano
troppo bene! Voglio godermi questo pensiero almeno
qualche minuto, forse cinque, al massimo sei !
— Guarda, guarda ! Ecco la ricompensa per la mia
fiducia ... e fai proprio sul serio? Non si potrebbe venire
a patti?
— Neppure se mi parlerai con voce angelica, niente
da fare ! Ormai sei spacciata, cara ragazza !
— Le dirò una cosa, egregio signore. Se tu stasera mi
sfiori soltanto con la punta d’un dito contro la mia vo-
lontà, fra noi è finita ed io non ti rivedrò più : te lo giuro
in nome di Dio e del mio onore ! E non scherzo.
Gli occhi le sfavillavano mentre così parlava.
— La cosa avverrà certamente, — replicò Karl —
sta’ tranquilla che presto vengo !
— Fa’ come vuoi — disse Hermine seccamente, e si
chiuse nel silenzio. Tuttavia, sia che la ritenesse capace
di mantener la parola, sia che egli stesso non desiderasse
vederla rompere un giuramento, Karl se ne stette docile
a sedere al suo posto, guardandola con gli occhi lampeg­
gianti, cercando di distinguere al lume di luna se non le
guizzassero in un risolino di scherno gli angoli della
bocca.
— Bisognerà dunque che mi consoli col passato e mi
compensi con i ricordi? — riprese dopo una breve pau­
sa — Chi penserebbe che quella boccuccia austeramente
serrata già tanti anni or sono sapeva baciare ben dolce­
mente?
— Ricominci con le tue spudorate invenzioni? Bada
che non voglio ascoltar oltre le tue sciocchezze irritanti !
— Sta’ tranquilla ! Ma solo per questa volta rivolgia­
mo i nostri pensieri a quell’età dell’oro, e parliamo dell’ul­
864 NOVELLE ZURIGHESI

timo bacio che m’hai dato: io ne ricordo le circostanze


come se fosse oggi, con tutta chiarezza, e son persuaso
che le rammenti tu pure ! Io avevo già circa tredici anni,
tu dieci all’incirca ed eran già passati alcuni anni senza
scambi di baci, perché ci davamo già l’aria di grandi.
Ma doveva esserci però ancora un piacevole finale; o
fu piuttosto l’allodola mattiniera che annunciava l’alba?
Era un bel lunedì di Pentecoste ...
— No, era l’Ascensione ... — lo interruppe Hermine,
ma si tacque senza quasi finir la parola.
— Hai ragione, era una splendida festa dell’Ascen­
sione nel mese di maggio e noi ci eravamo avviati con
un gruppo di giovani: noi eravamo i soli ragazzini; tu ti
eri unita alle fanciulle già grandi ed io ai giovanotti e non
ci degnavamo di giocare tra noi, e neppure di discorrere.
Dopo lunghi giri ci accampammo nell’alta radura di un
bosco e cominciammo un giuoco con pegni; la sera non
era infatti lontana e la brigata non voleva tornare senza
sbaciucchiarsi un pochino. Due furono condannati a ba­
ciarsi tenendo fiori in bocca, senza lasciarli cadere.
Quando tanto la prima coppia che alcune venute dopo
fallirono quel gioco d’abilità, tu mi venisti incontro d’un
tratto con tutta disinvoltura, tenendo un mughetto in
bocca, me ne ficcasti un altro fra le labbra e mi dicesti:
«Proviamo!». Naturalmente i due fiorellini caddero a
terra insieme agli altri, ma tu eri infervorata e mi desti
ugualmente un bacino. Pareva che una bella farfalla
leggera mi si fosse posata sulla bocca, ed io istintivamente
feci per acchiapparla con due dita. Gli altri però credet­
tero che io volessi pulirmi le labbra e mi derisero.
— Eccoci arrivati ! — disse Hermine saltando a terra e,
rivolgendosi poi di nuovo gentilmente a Karl, aggiunse :
— Visto che sei stato tranquillo e hai dato alle mie
parole il peso che si meritavano, verrò in barca con te,
se sarà necessario, anche prima che sian trascorse quattro
settimane e te ne darò avviso con una letterina. Sarà il
primo foglio scritto che ti affido.
Così dicendo corse a casa. Karl invece remò svelto
verso il porto, per non mancare alla ritirata dei bravi
LA BANDIERA DEI SETTE IMPAVIDI 865
trombettieri che stavan lacerando la tepida aria della
sera come con un rasoio seghettato.
Già prima di arrivare s’incontrò con Ruckstuhl e
Spòrri, che erano lievemente alticci; salutandoli giovial­
mente prese il primo sotto braccio e cominciò a farne
le lodi dicendogli:
— Che cosa ha mai combinato ancora di bello? Che
tiri ha escogitato, briccone? Lei è proprio il tiratore più
straordinario di tutto il cantone, anzi, della Svizzera
intera !
— Per Bacco ! — esclamò Ruckstuhl, molto lusingato
che un camerata all’infuori di Spòrri venisse a cercarlo
e ad elogiarlo — Per Bacco ! Peccato dover già tornare a
cuccia! Non potremmo vuotarne ancora in fretta una
bottiglia di quel buono?
— Silenzio ... ci possiamo pensare in camerata ! Fra i
tiratori del resto è uso che almeno una volta durante il
servizio si giochi un tiro agli ufficiali bevendo una notte
intera in caserma. Noi da buone reclute vogliamo dar
prova di esser degni deH’arma scelta !
— Sarebbe proprio un bello scherzo ! Pago io il vino,
come è vero che mi chiamo Ruckstuhl ! Bisognerà però
esser furbi, astuti come i serpenti, altrimenti siamo per­
duti.
— Stia tranquillo che noi ci sappiamo fare ! Entreremo
calmi calmi, senza dar per nulla nell’occhio !
Quando giunsero alla caserma, i compagni di camerata
eran tutti nella cantina a bere un buon sorso per conci­
liarsi il sonno. Karl mise alcuni a parte del suo piano,
quelli fecero correre la voce, cosi che ognuno si armò
di un paio di bottiglie; poi le portaron fuori inosservati
l’un dopo l’altro, andando a nasconderle sotto i letti.
Quando batterono le dieci tutti in camerata si corica­
rono tranquillamente sin che venne l’ispezione a consta­
tare se i lumi erano spenti. Poi tutti tornarono ad alzarsi,
appesero i cappotti alle finestre per celar la luce e riac­
cesero le lampade, tiraron fuori le bottiglie cominciando
a bere allegramente, e a Ruckstuhl pareva di essere in
paradiso, perché tutti brindavano alla sua salute pro-
866 NOVELLE ZURIGHESI

clamandolo un grand’uomo. Il desiderio ardente di esser


tenuto in conto anche fra i soldati, senza però fare alcuno
sforzo, lo rendeva infatti più sciocco di quel che fosse in
realtà. Quando egli ed il suo satellite parvero brilli ab­
bastanza, si iniziarono alcuni giuochi da bevitori. Uno
per esempio dovette, reggendosi a gambe all’aria, bere
un ramaiolo di vino che un altro gli porgeva ; un secondo
fu costretto a sedere su una sedia e a vuotar tre bicchieri
prima che una palla di piombo pendente dal soffitto e
fatta girare in circolo intorno al capo lo sfiorasse; un
terzo ebbe un altro compito, e a tutti quelli che fallivan
la prova furono imposte comiche penitenze. Ogni giuoco
si svolgeva però nel massimo silenzio; chiunque alzasse
la voce subiva pure una penitenza e tutti erano in cami­
cia, per potersi infilare svelti nel letto in caso di sorpresa.
Quando s’avvicinò il momento in cui l’ufficiale d’ispe­
zione doveva passare per i corridoi, anche ai due amici
fu imposto un giuoco d’abilità. Dovevan bere insieme
due bicchieri colmi, porgendoseli l’un l’altro sulle lame
delle spade e senza versarne una goccia. Con grande
ostentazione sfoderarono le spade e incrociarono le lame
con sopra i bicchieri, ma tremavano in modo che questi
caddero senza che ne potessero sorbire una goccia. Ven­
nero condannati a far da sentinella alla porta per un
quarto d’ora in «piccola uniforme», e tale impresa fu
esaltata come la più audace che si fosse mai osata a me­
moria d’uomo in quella caserma. Affibbiaron loro diretta-
mente sulla camicia lo zaino e la spada, poi dovettero met­
tere il chepl e infilare i calzettoni neri, ma non le scarpe,
e così conciati, col fucile in mano, furono accompagnati
ai due lati della porta. Appena si furon piantati lì, gli al­
tri tirarono il catenaccio, fecero sparir le tracce del festino,
scopersero le finestre, spensero i lumi e si cacciarono
nei loro letti, fingendo di dormire già da ore. Intanto le
due sentinelle, alla luce della lanterna del corridoio,
andavano in su e in giù, con lo schioppo in spalla, get­
tando attorno sguardi arditi. Spòrri, che a causa della
sbornia gratuita era ai sette cieli, divenne temerario e
intonò di colpo una canzone, il che fece affrettare il passo
LA BANDIERA DEI SETTE IMPAVIDI 867

all’ufficiale di servizio, già avviato in quella direzione.


Quando fu loro vicino, i due cercarono di sgattaiolare
rapidi in camerata, ma la porta non si aprì e, prima che
potessero far qualcosa per salvarsi, il nemico fu loro ad­
dosso. Allora nella loro testa avvenne una gran confu­
sione. Si misero sull’attenti presentando le armi e gri­
darono: «Chi va là?».
— Per tutti i sacramenti, che cosa succede? Che cosa
fate voi qui? — urlò l’ufficiale d’ispezione, senza otte­
nere risposta, perché i due ubriachi non seppero metter
fuori una parola sensata. L’ufficiale aprì rapidamente la
porta e guardò dentro la camerata; Karl, infatti, che
stava ad orecchie tese, era a tempo balzato dal letto,
aveva riaperto il catenaccio tornando poi subito sotto le
coperte. Quando l’ufficiale vide tutto tranquillo e silen­
zioso e non udì che placido russare, gridò: «Uomini!
Sveglia ! ».
— Al diavolo ! — esclamò Karl — Andate una buo­
na volta a dormire, ubriaconi della malora! — Anche
gli altri finsero di esser stati allora svegliati ed escla­
marono :
— Ma quelle bestie non sono ancora a letto? Gettateli
fuori, chiamate il tenente d’ispezione !
— Sono io d’ispezione ! — disse l’ufficiale — Uno di
voi accenda, svelto ! — Così avvenne, e quando i due paz­
zi apparvero in piena luce, da tutte le brande s’alzò un
coro di risate, come se tutta la truppa fosse straordina­
riamente sorpresa da quello spettacolo. Ruckstuhl e Spör-
ri si unirono alle matte risate, marciarono per la camera
tenendosi la pancia, perché le loro menti ottenebrate
avevan già preso un’altra direzione. Ruckstuhl faceva
sberleffi sotto il naso dell’ufficiale e Sporri gli mostrava
la lingua. Quando lo schernito s’accorse che a quell’alle-
gra coppia non si poteva fare intendere ragione, trasse la
sua lavagnetta e vi segnò i due nomi. Per un caso malau­
gurato quell’ufficiale abitava in una delle case di Ruck­
stuhl e, benché la Pasqua fosse passata, non aveva an­
cora pagato l’affitto, sia che fosse un poco a corto di
quattrini o che fosse impedito dal servizio. Insomma,
868 NOVELLE ZURIGHESI

il genio di Ruckstuhl s’afferrò d’un tratto a quell’argo­


mento ed egli si mise a borbottare ridacchiando e acco­
standosi male in gambe all’ufficiale:
— Paghi, paghi prima . . . i suoi de ... r suoi debiti,
signor tenente .. . prima di . . . di. . . metter dentro uno !
Ha ca . .. capito? — E Sporri rise ancora più sguaiato,
traballando e rinculando, e dondolando la testa cante­
rellò in falsetto:
— Pa . . . pa . . . pagare i debiti, signor tenente, que...
questo è giusto, giustissimo !
— Quattro uomini si alzino, — disse il tenente calmo
— conducano i due al corpo di guardia, li mettan subito
dentro : fra tre giorni vedremo se hanno smaltito la sbor­
nia. Buttate loro sulle spalle il cappotto e date loro sul
braccio i calzoni. Marsch!
— I ca . . . ca . .. calzoni — urlò Ruckstuhl — ci vo­
gliono proprio ... Ne ca ... ne ca ... ca ... ne casche­
rà fuor qualcosa a scuoterli !
— Fuo . .. fuori qualcosa, signor tenente! — fece eco
Spòrri, ed ambedue intanto sventolarono i calzoni fa­
cendo tintinnare i talleri nelle tasche. Passarono così
ridendo e facendo chiasso, coi loro compagni che li
scortavano, per i corridoi, e scesero le scale sparendo in
una specie di cantina al pianterreno, dopo di che ritornò
il silenzio.
Il giorno seguente a mezzodì la tavola del signor
Frymann era stata apparecchiata con insolito lusso. Her­
mine riempì le caraffe di cristallo con vino del 1846,
dispose i bicchieri scintillanti accanto ai piatti, vi di­
spose sopra dei bei tovaglioli e affettò un pane fresco
del fornaio della Gallina, dove si sfornava per antica
tradizione una qualità di pagnotte che era la delizia di
tutti i bambini e di tutte le comari di Zurigo. Mandò
anche uno dei lavoranti, agghindato per la domenica, a
comprare un pasticcio di maccheroni e una torta per il
caffè, mentre su un tavolino, in disparte, disponeva le
leccornie di fin di tavola, focaccine e paste, bocche di
dama e pandoro. Frymann, piacevolmente animato dal­
l’aria della domenica, credette di poter dedurre dallo
LA BANDIERA DEI SETTE IMPAVIDI 869
zelo di sua figlia che essa non intendeva opporsi seria­
mente ai suoi piani, e si disse soddisfatto: “Son tutte
eguali ! Appena si presenta un’occasione accettabile e ben
definita, subito si decidono ad afferrarla per il ciuffo !”.
Secondo le vecchie usanze, il signor Ruckstuhl era
invitato per mezzogiorno in punto. Quando alle dodici
e un quarto non ci fu nessuno, Frymann disse:
«Cominciamo noi: bisogna abituar per tempo il si­
gnorino all’ordine !». E quando non arrivò neppure do­
po la minestra, il maestro chiamò gli apprendisti e la
domestica, che quel giorno avrebbero dovuto pranzare
per conto loro e che anzi avevan già quasi finito, e disse :
«Venite a mangiar con noi: non vorremo stare a
guardare questa roba. Mettetevi con energia e fatele
onore: chi tardi arriva male alloggia!».
Quelli non se lo fecero dire due volte e furon di ottimo
umore, mentre Hermine era la più vispa e si sentiva cre­
scer l’appetito man mano che il padre si imbronciava.
“Sembra che sia un vero screanzato!” brontolò tra sé,
ma la figlia lo udì e replicò:
— Certamente non gli han dato libera uscita, non
dobbiamo condannarlo troppo affrettatamente!
— Ma che libera uscita ! Lo difendi già? Da quando
in qua non ottiene libera uscita uno che ci tiene?
Finì il pasto di pessimo umore e si recò subito, contro
la sua abitudine, in un caffè, solo per non farsi trovare
eventualmente in casa, se fosse poi venuto, dall’aspirante
negligente. Verso le quattro, tuttavia, invece di recarsi
dalla sua solita compagnia dei sette amici, tornò di nuovo
a casa, spinto dalla curiosità di sentire se Ruckstuhl s’era
fatto vivo. Attraversando il giardino scorse la signora
Hediger insieme a Hermine, in un padiglione, essendo
una calda giornata di primavera, intente a bere il caffè
e a far onore al pandoro ed alle bocche di dama, con ma­
nifesto buon umore. Salutò la moglie del sarto e, benché
la sua presenza lo irritasse, le chiese subito se non avesse
notizie dalla caserma, se per caso i tiratori avessero
dovuto fare una gita collettiva.
— Non credo, — replicò la signora Hediger — sta-
870 NOVELLE ZURIGHESI

mane son stati in chiesa e più tardi Karl è venuto a pran­


zo; avevamo arrosto di montone e a quello Karl non
manca mai!
— Non ha detto nulla del signor Ruckstuhl e di dove
è andato?
— Del signor Ruckstuhl? Ma sì, è agli arresti di rigore
perché ha preso una sbornia solenne e si è ribellato ai
superiori: pare che sia stata una scena molto divertente.
— Che il diavolo se lo pigli ! — disse Frymann, e
uscì subito di casa. Mezz’ora dopo diceva a Hediger:
— Adesso è tua moglie che sta in giardino con mia
figlia e se la gode con lei perché mi è andato male un
progetto di matrimonio!
— Perché non la mandi via? Perché non le hai fatto
una partaccia?
— Come potrei farlo, se siamo vecchi amici? Vedi,
queste maledette storie vengono a confondere già i nostri
rapporti. Per questo teniam duro: niente matrimonio!
— Niente parentado ! — confermò Hediger stringendo
forte la mano all’amico.

Il luglio, e con esso la festa del tiro a segno per l’anno


1849, erano ormai imminenti: non mancavano che due
settimane. I sette uomini tennero un’altra seduta: la cop­
pa e il vessillo eran pronti, erano stati presentati ed aveva­
no ottenuto l’approvazione di tutti. La bandiera spiccava
ritta nella stanza ed alla sua ombra si svolse la più dif­
ficile discussione che mai avesse turbato i sette impavidi.
Si giunse cioè all’improvviso alla scoperta che la ban­
diera esigeva anche un oratore, se si voleva con essa pre­
sentarsi, e la scelta di tale oratore fu l’argomento che
minacciò di far naufragare il piccolo naviglio dai sette
piloti. Tre volte fu prescelto ogni membro dell’equipag­
gio e tre volte ciascuno di essi, l’uno dopo l’altro, oppose
un deciso rifiuto. Tutti erano furenti che nessuno volesse
assoggettarsi all’obbligo ed ogni singolo era indignato
che si imponesse proprio a lui quel peso e da lui si aspet­
tasse cosa tanto inaudita. Dove gli altri si fanno avanti
con tanta impazienza se appena v’è occasione di spa-
LA BANDIERA DEI SETTE IMPAVIDI 87 1

lançar la bocca e di farsi ascoltare, questi invece si ritrae­


vano intimiditi dall’eventualità di parlare in pubblico, ed
ognuno si scusava con la propria incapacità e col non
averlo mai fatto in vita, né volerlo mai tentare per il
presente o per l’avvenire. Essi consideravano ancora
l’oratoria un’arte veneranda, che esige non meno studio
che talento, e nutrivano una stima incondizionata per i
buoni oratori capaci di commuoverli, accettando per
sacrosanto tutto quello che uno di essi diceva. Separavano
nettamente tali oratori da se stessi e si attribuivano sol­
tanto il merito di ascoltare attentamente, di meditare
coscienziosamente, di approvare o respingere, il che sem­
brava loro costituire già un compito sufficientemente
degno.
Quando si vide che per via di votazione non si arri­
vava ad avere chi parlasse, sorse un rumoroso tumulto,
nel quale ciascuno cercò di convincer l’altro del suo dove­
re di sacrificarsi. Insistevano specialmente con Frymann e
Hediger, i due più quotati. Ma questi si difendevano con
energia, palleggiandosi il peso l’un l’altro, sin che Fry­
mann impose silenzio e disse:
— Amici ! Abbiamo commesso una sventataggine ed
ora dobbiam persuaderci che è meglio lasciare a casa la
bandiera: decidiamoci dunque a far così e rechiamoci
alla festa senza alcuna solennità.
Grande costernazione seguì a quelle parole.
— Hai ragione ! — disse Kuser l’argentiere.
— Non ci rimane altro da fare — consentì Syfrig, il
costruttore dell’aratro. Ma Bürgi protestò:
— Impossibile ! Le nostre intenzioni son già conosciute
e si sa che c’è la bandiera. Se rinunciamo, ne nascerà
uno scandalo !
— Anche questo è vero, — confermò Erismann, l’o­
ste — ed i codini, i nostri antichi avversari, ne trarranno
motivo di spasso con molta facilità.
A quella prospettiva passò un brivido per le vecchie
ossa dei sette impavidi e fu ripreso l’assalto contro i due
membri più geniali, ma questi tornarono a schermirsi
e alla fine minacciarono di ritirarsi.
872 NOVELLE ZURIGHESI

— Io sono soltanto un artigiano, un carpentiere, e mai


mi esporrò al ridicolo — dichiarò Frymann, al che He-
diger replicò:
— E come dovrei farlo io, povero sarto? Renderei ridi­
coli tutti voi e mi danneggerei senza scopo. Propongo che
venga delegato uno degli osti: quelli han più abitudine
a trattare la gente !
Ma i due ricusarono violentemente e Pfister propose
allora il falegname, che era un burlone.
— Io un burlone? — urlò Biirgi — E vi par forse una
burla apostrofare un presidente federale davanti a mi­
gliaia di persone? — Un sospiro generale fece eco a quelle
parole, che richiamavano alla memoria di tutti la diffi­
coltà del compito.
Si verificò allora un correr dentro e fuori, un confa­
bulare negli angoli, mentre Frymann e Hediger se ne
stavano seduti al tavolo con le facce fosche, ben compren­
dendo che si sarebbe rinnovato l’assalto. Finalmente,
riunitisi ancora tutti e sette, Biirgi si pose di fronte a
Frymann e a Hediger e disse:
— Sentite un po’ voi due, Chäpper e Daniel ! Avete
entrambi così spesso parlato per noi con nostra piena
soddisfazione, che ciascuno, se soltanto lo vuole, è anche
in grado di tenere un breve discorso pubblico ! La società
ha deciso che voi tiriate a sorte fra voi due, e con questo
sia finita! Dovete obbedire alla maggioranza di cinque
contro due!
Un nuovo tumulto coronò quelle parole: i due apo­
strofati si guardarono in faccia e finirono per adattarsi
docilmente al decreto, ciascuno sorretto dalla segreta
speranza che l’amara sorte sarebbe toccata all’altro. Toc­
cò a Frymann, che per la prima volta lasciò la compa­
gnia degli amici della libertà col cuore greve, mentre
Hediger si fregava le mani beato, tanto l’egoismo cancella
ogni riguardo anche fra i vecchi amici.
La gioiosa attesa della festa era già svanita per Fry­
mann e le sue giornate si fecero fosche. Ogni momento
pensava al suo discorso, senza che il minimo pensiero
volesse prender forma, perché andava a cercar lontano
LA BANDIERA DEI SETTE IMPAVIDI 873

le idee, invece di cogliere quanto gli era prossimo e par­


lare come se si trovasse coi suoi soliti amici. Le parole
che soleva pronunciare con loro gli parevano ciance vuote
ed andava escogitando qualcosa di originale e di altiso­
nante, un vero manifesto politico, e questo non certo per
vanità, bensì per aspro senso del dovere. Cominciò final­
mente a scarabocchiare un foglio di carta, non senza
molte interruzioni, imprecazioni e sospiri. Riuscì con du­
ra fatica a scriver due pagine, benché si fosse proposto di
limitarsi a poche righe, ma non sapeva trovar la fine, e le
frasi contorte si impigliavano l’una nell’altra come ram­
picanti intrecciati e non permettevano al povero scrittore
di liberarsi dai loro tenaci viluppi.
Attendeva preoccupato al suo lavoro con il foglietto
ripiegato nel taschino del panciotto e di tanto in tanto
si metteva dietro una palizzata e lo rileggeva scotendo
il capo. Alla fine si confidò con sua figlia e le lesse l’ab­
bozzo per osservarne l’effetto. Il discorso era un centone
d’invettive contro i gesuiti e gli aristocratici, tutto lar­
dellato di espressioni come libertà, diritti dell’uomo, schia­
vitù, istupidimento, eccetera; era insomma una aspra e
ampollosa dichiarazione di guerra, in cui non si parlava
affatto dei sette vecchi e della loro piccola bandiera;
per di più era confuso e goffo, mentre egli di solito sapeva
esprimersi con ordine e precisione.
Hermine disse che l’orazione era molto energica, ma
che le sembrava un poco in ritardo, visto che gesuiti e
aristocratici eran stati debellati da un pezzo, e a parer
suo un discorso sereno ed allegro sarebbe andato meglio
fra gente contenta e felice.
Frymann rimase un poco scosso e, benché la passione
in lui vecchio fosse ancora intensa, ammise, prendendosi
il naso fra le dita:
— Può darsi che tu abbia ragione, però non capisci
del tutto come stanno le cose. In pubblico bisogna essere
energici e tirar giù di grosso, come fan gli scenografi,
la cui pittura veduta da vicino è tutta uno sgorbio. Però
sarà forse possibile attenuare qualcosa.
— Farai bene, — proseguì Hermine — anche perché
874 NOVELLE ZURIGHESI

ci sono troppi «adunque». Dammi un momento! Ecco:


quasi una riga sì ed una no trovi un adunque !
— Ci si mette il diavolo, te lo dico ! — esclamò il padre
strappandole il foglietto di mano e lacerandolo in cento
pezzi — Basta ! — concluse — io non voglio far lo zim­
bello ! — Hermine però gli consigliò allora di non metter
nulla per iscritto, di rimettersi alla fortuna e di raccoglie­
re i pensieri un’ora prima del corteo, per parlar poi sem­
plicemente e sinceramente, come se fosse stato a casa.
— Sarà meglio far così — annuì il padre — e, se la va
male, non avrò almeno avuto pretese stolte.
Non potè tuttavia fare a meno di raccogliere i pensieri
già ad ogni ora, e dal rigirarli senza riuscire a svilupparli
mai : andava attorno preoccupato e distratto e Hermine
10 studiava con grande compiacenza.
La settimana delle feste era arrivata d’un tratto e
alla metà della medesima i sette amici partirono per
Aarau già prima dell’alba su un omnibus privato a quat­
tro cavalli. La bandiera nuova sventolava sgargiante a
cassetta: sulla seta verde scintillavano le parole «Amici­
zia nella Libertà ! » e tutti i vecchietti erano allegri e
felici, ora seri ed ora scherzosi, mentre solo Frymann
aveva un’aria abbattuta e sospetta.
Hermine lo aveva preceduto ad Aarau ed abitava
presso una famiglia amica, poiché suo padre soleva com­
pensarla della sua perfezione di massaia facendola parte­
cipare a tutti i suoi viaggi; e già più d’una volta quel
roseo fior di giacinto aveva adomato il gaio gruppo dei
sette vecchietti. Anche Karl era già ad Aarau: benché
11 suo tempo ed i suoi risparmi fossero già molto assorbiti
dalla scuola militare, su invito di Hermine ci era andato
a piedi e per strano caso aveva trovato alloggio proprio
vicino a lei ; essi invero avevan da pensare ai fatti propri
e non si poteva prevedere se la festa non avrebbe portato
occasioni favorevoli. Karl si proponeva di tirare anche
eventualmente al bersaglio: aveva con sé, in conformità
ai suoi mezzi modesti, venticinque cartucce: voleva ten­
tar quelle, né più né meno.
Seppe subito dell’arrivo dei sette impavidi e li seguì da
LA BANDIERA DEI SETTE IMPAVIDI 875

lontano mentre essi, in gruppo serrato con la loro piccola


bandiera, s’avviavano verso la piazza della festa. Era
il giorno della settimana in cui era convenuta più folla:
le strade brulicavano di gente vestita a festa, affluivano
con e senza musica piccole e grandi società di tiratori,
ma nessuna era così minuscola come quella dei sette.
Questi dovevano aprirsi un varco tra la folla, marciando
tuttavia a piccoli passi cadenzati, con le braccia tese e i
pugni chiusi. Frymann davanti a tutti reggeva la ban­
diera con la faccia di uno che venga condotto al patibolo.
Si guardava attorno di tanto in tanto, quasi in cerca di
scampo; ma i suoi compagni, contenti di non esser nei
suoi panni, lo incoraggiavano lanciandogli energiche apo­
strofi. Erano ormai vicini alla piazza della festa e già
rintronava agli orecchi il crepitio dei tiri, mentre alta
nell’aria, solitaria nel sole, ondeggiava la gran bandiera
federale dei tiratori, e la sua seta ora si tendeva vibrando
ai suoi quattro angoli, ora graziosamente scoppiettava
sulla folla, ora s’afflosciava per un istante con falsa mo­
destia lungo l’asta : faceva insomma tutti i giuochi di cui
si può dilettare una bandiera durante otto lunghi giorni
di feste, ma la sua vista per il vessillifero del piccolo
stendardo verde fu un colpo al cuore.
Karl, indugiatosi un momento ad osservare il bel-
l’ondeggiare della gran bandiera, aveva perso improvvi­
samente di vista il minuscolo corteo e, quando lo cercò
con gli occhi, non gli riuscì di scoprirlo da nessuna parte,
quasi la terra l’avesse ingoiato. Si avvicinò rapido all’in­
gresso del campo, di dove lo poteva veder tutto, ma nes­
suna bandieruola verde spuntava sulla folla. Tornò sui
suoi passi e, per camminar più spedito, prese una strada
parallela laterale. In essa c’era una piccola osteria, il cui
proprietario aveva disposto davanti all’ingresso pochi ma­
gri abeti, alcune tavole e panche, e teso poi sul tutto una
tenda, come fa un ragno che tesse la sua rete ben vicino ad
un vaso di miele per coglier molte mosche. Karl, per mero
caso, vide luccicare dietro i vetri appannati la punta do­
rata di una bandiera, entrò subito, e guarda un po’ che
cosa gli apparve? I sette vecchi eran sparsi per la stan­
8γ6 NOVELLE ZURIGHESI

zetta bassa, come abbattuti là da una tempesta, acca­


sciati su panche e su sedie, con le teste basse, e al centro
Frymann con il vessillo in mano dichiarava: «Basta!
Io non ce la faccio ! Io sono ormai vecchio e non voglio
guadagnarmi per il resto della vita la fama di pazzo ed
anche un soprannome ridicolo ! ».
Così dicendo posò con energia la bandiera in un an­
golo. Non seguì risposta alcuna sin che non comparve il
padrone ponendo davanti agli ospiti imprevisti un bot­
tiglione di vino che nessuno nella confusione aveva an­
cor pensato di ordinare. Allora Hediger ne versò un
bicchiere, lo porse a Frymann e gli disse:
— Vecchio amico! Fratello! Bevi un sorso e fatti co­
raggio !
Ma Frymann scosse il capo senza replicar motto. Se
ne stavan tutti lì disperati come non erano mai stati:
tutte le sommosse, le controrivoluzioni e le reazioni per
cui eran passati eran stati giochetti in confronto a quella
sconfitta proprio alla soglia del paradiso.
— Allora pazienza, torniamocene a casa ! — mormorò
Hediger, preoccupato che la sorte dovesse magari rivol­
gersi contro di lui. In quel momento Karl, che era ri­
masto fino allora dietro la porta, si fece avanti dicendo
allegramente :
— Signori ! Date a me la bandiera ! La porterò io e
parlerò in nome vostro, a me non fa nessuna paura!
Tutti alzarono gli sguardi stupiti e su tutti i volti
raggiò una luce di speranza e di gioia; soltanto il vecchio
Hediger chiese severamente:
— Tu? Come mai capiti qui? E vorresti tu sbarbatello
senza esperienza parlare per noi vecchi?
Ma intorno s’alzarono voci:
— Benissimo ! Avanti con coraggio ! Avanti il ragaz­
zo ! — E Frymann in persona gli consegnò la bandiera,
perché gli era caduto dal cuore un peso enorme ed era
felice di vedere i suoi vecchi amici salvati nel frangente
al quale egli stesso li aveva condotti. S’avviarono con
rinnovata gioia : Karl reggendo la bandiera li precedeva
alto e imponente e l’oste seguiva con occhio mesto lo
LA BANDIERA DEI SETTE IMPAVIDI 877

sparire del miraggio che l’aveva per un momento illuso.


Soltanto Hediger era cupo e scoraggiato, nella certezza
che il figlio avrebbe loro procurato una doppia mortifi­
cazione. Intanto avevano raggiunto il piazzale; erano
appena sfilati i Grigionesi, un lungo corteo di uomini bru­
ni, ed i vecchietti li oltrepassarono battendo bene il passo
sul ritmo della loro musica come prima quando avevano
attraversato la folla. Dovettero per un poco segnare il
passo, come si dice quando si accennano i movimenti
della marcia senza procedere, perché tre tiratori fortu­
nati che avevan vinto delle coppe traversavano la loro
via con trombe e seguito; ma tutto questo, insieme al­
l’ininterrotto crepitio dei colpi, non fece che accrescere
la loro solenne ebbrezza: quando poi furono in vista al
padiglione dei premi, scintillante di tutti i suoi tesori
e incoronato dalla fitta ghirlanda di mille bandiere nei
colori dei cantoni, delle città, dei paesi e delle comunità,
scoprirono il capo con rispetto. All’ombra degli stendardi
c’erano personaggi vestiti di nero: uno reggeva una cop­
pa d’argento colma, pronto a ricevere i sopravvenienti.
Le sette teste canute nuotavano sulla oscura marea
della folla come un banco di ghiaccio illuminato dal sole ;
i loro scarsi capelli bianchi tremavano al venticello gen­
tile di levante e ondeggiavano nella stessa direzione della
grande bandiera bianca e rossa su in alto. Eran notati
da tutti per la loro età, e per il piccolo numero si sorrise
non senza rispetto, e ognuno si fece attento quando il
giovane portabandiera avanzò e tenne con disinvoltura
e chiarezza il seguente discorso:

«Cari confederati! Siam qui, otto ometti ed una


piccola bandiera, sette vecchietti ed un giovane alfiere !
Come vedete, ciascuno di noi porta il suo fucile, senza
però aspirare ad essere un tiratore di merito; è vero che
nessuno manca il bersaglio e che talvolta uno azzecca
un centro, ma se anche uno ci arriva, potete star sicuri
che non è frutto di assiduità. E se fosse per l’argento che
riusciremo a portar via al vostro padiglione dei trofei,
avremmo potuto tranquillamente restare a casa !
878 NOVELLE ZURIGHESI

Tuttavia, anche se non siamo il fiore dei tiratori, non


abbiam saputo starcene imboscati. Siam venuti non per
aver doni, ma per offrirne: una coppa modesta ed un
cuore giubilante sin quasi all’immodestia ed una bandie­
rina nuova, che trema nella mia mano dalla smania di
sventolare lassù sulla rocca di tutti i vostri stendardi.
Ma il nostro piccolo vessillo lo riporteremo a casa, esso
chiede soltanto di aver qui la sua consacrazione. Guar­
date quel che vi sta scritto a lettere d’oro: “Amicizia
nella Libertà”. È per così dire l’amicizia personificata
che noi conduciamo qui alla festa, è l’amicizia in nome
della patria, l’amicizia per amore della libertà ! Fu essa
a radunare or son trenta o quarant’anni queste sette teste
pelate, che oggi qui splendono al sole, e che le ha tenute
unite in tempi buoni e cattivi, attraverso tutte le tempe­
ste! È un’associazione che non ha nome, né presidente
né statuto; i suoi membri non hanno né titoli né cariche,
son tronchi ancora non segnati nella foresta della nazio­
ne, che ora per un momento s’affacciano sul margine del
bosco, al sole della festa nazionale, per rientrarvi però
subito, confondendosi al frusciarne mormorio di mille
altre corone fronzute nella calda notte silvestre del po­
polo, dove pochi soltanto sanno darsi un nome, ma tutti
son l’uno all’altro fidi e familiari.
Guardateli questi vecchi peccatori! Nessuno certa­
mente è in odore di santità, ed è piuttosto raro che ne
incontriate uno in chiesa. Di cose ecclesiastiche è meglio
non parlare con loro ! Però, cari confederati, posso farvi
una singolare confidenza, qui sotto il Ubero cielo: tutte
le volte che la patria è in pericolo, essi comincian piano
piano a credere in Dio ; prima ciascuno per sé, poi sempre
più decisi, sin che l’uno lo confessa all’altro e che tutti
insieme si dànno ad una strana teologia, il cui primo
ed essenziale dogma insegna: aiutati che Dio t’aiuta!
Anche nei giorni della gioia, come oggi, quando è rac­
colta una folla di popolo cui sorride un cielo molto az­
zurro, essi ripiombano in quei pensieri teologici e son
convinti che il buon Dio esponga in cielo la bandiera
della Svizzera e abbia fatto il bel tempo espressamente
LA BANDIERA DEI SETTE IMPAVIDI 879

per noi ! Nell’ora del pericolo ed in quella della gioia


sono d’un tratto d’accordo con le prime parole della no­
stra Costituzione federale: “In nome di Dio onnipos­
sente!”. E sono allora pervasi da così mite tolleranza,
mentre pel solito son tanto scontrosi, che non stanno nep­
pure a chiedere se ci si voglia riferire al Dio degli eserciti
cattolico o riformato !
Insomma, un bambino al quale sia stata regalata una
piccola arca di Noè piena di bestioline d’ogni colore,
maschi e femmine, non potrebbe aver maggior felicità
di quella che attingono i nostri sette alla loro piccola
patria piena di mille buone cose, dal vecchio luccio mu­
schioso sul fondo dei laghi sino all’uccello rapace che
volteggia attorno alle vette nevose. Oh, quanta gente
svariata s’affolla nel suo angusto spazio, molteplice nelle
attività, nei costumi e nelle usanze, nelle vesti come nel
linguaggio ! Quante teste fine e quanti tonti si vedono at­
torno, quante piante di lusso e quante erbacce prosperano
allegramente alla rinfusa, e tutto è bello e buono, è splen­
dido ed è caro al nostro cuore, perché è nel nostro paese !
Allora, considerando e ponderando il valore delle cose
terrene, diventano dei filosofi; ma non sanno andar oltre
la realtà meravigliosa della patria. Nella loro giovinezza
han fatto viaggi, han veduto le terre di molti sovrani, e
senza superbia, anzi con rispetto per ogni paese ove tro­
vassero gente dabbene ; ma il loro motto rimase sempre :
«Abbi stima per la patria di tutti, ma amore per la tua ! ».
Ma come questa è costrutta con grazia e dovizia ! Più
dappresso la si osserva, più ci appare riccamente intes­
suta, bella e resistente, un vero lavoro a mano di prima
qualità !
Come è spassoso che non ci sia una sola monotona
qualità di Svizzeri, ma che ci siano Zurighesi e Bernesi,
gente di Unterwalden e di Neuchâtel, Grigionesi e Ba­
silesi ; anzi persino due qualità di Basilesi ! Che ci sia una
storia di Appenzell ed una storia di Ginevra, giacché
questa molteplicità nell’unità, che Dio voglia conservar­
cela, è la vera scuola dell’amicizia, e soltanto dove l’af­
finità politica diventa amicizia personale di un popolo
88ο NOVELLE ZURIGHESI

intero si conquista il più alto bene. Giacché là dove non


arriverebbe il civismo, giungerà l’amore per l’amico, ed
ambedue insieme si fonderanno in una sola virtù !
Questi anziani han trascorso la loro vita lavorando e
faticando; ora cominciano ad avvertire la caducità della
carne che tormenta l’uno qui l’altro là. Tuttavia, quando
viene l’estate, loro non vanno a far cure di bagni, ma
alla festa. Il vino della sagra federale è la sorgente di
giovinezza che ristora i loro cuori ; la vita estiva federale
è l’aria che ringiovanisce i loro vecchi nervi, le ondate di
popolo festante son la cura di bagni che rende elastiche
le loro membra irrigidite. Vedrete tra poco queste teste
canute immergersi in questo bagno! Porgeteci dunque,
cari confederati, il brindisi d’onore! Evviva l’amicizia
nella patria! Evviva l’amicizia nella libertà!».
«Evviva! Bravo!» si udì tutt’all’intorno, e l’oratore
ufficiale rispose all’allocuzione salutando la singolare ed
eloquente apparizione dei vecchi.
«Sì,» concluse «possano le nostre feste non scadere
mai e rimaner sempre una scuola di morale per i gio­
vani, la ricompensa di una coscienza pubblica pura do­
po gli adempiuti doveri civili e una fonte di giovinezza
per i vecchi ! Possano restare una celebrazione di amici­
zia indissolubile e viva in tutto il paese, da cantone a
cantone, da uomo a uomo ! Viva, o venerandi amici, la
vostra associazione senza nome e senza statuti ! ».
L’acclamazione fu ripetuta dagli astanti e la piccola
bandiera fu issata fra gli applausi generali accanto alle
altre sui pinnacoli del padiglione. Il gruppetto dei sette
fece allora dietro-front, dirigendosi verso il grandioso lo­
cale di ristoro, per riprender forze con una buona colazio­
ne e, appena giuntivi, tutti diedero gran strette di mano
al loro oratore gridando : « Ci hai proprio letto in Cuore !
Hediger, il tuo ragazzo è di legno buono, riuscirà bene,
non aver paura ! Dritto quanto noi, ma meno stupido, noi
siam dei vecchi asini ; resta ben saldo, coraggio, Karl ! » e
cose simili.
Frymann era addirittura sconcertato : il giovanotto ave­
LA BANDIERA DEI SETTE IMPAVIDI 881

va detto precisamente quel che avrebbe dovuto venire in


mente anche a lui, invece di andare a prendersela coi
gesuiti. Diede anche lui la mano cordialmente a Karl,
ringraziandolo d’averlo soccorso nel frangente. Alla fine
il vecchio Hediger s’avvicinò al figlio, gli prese la mano
e guardandolo fisso negli occhi gli disse:
«Figliolo ! Tu hai rivelato un dono bello, ma peri«
coloso! Coltivalo, educalo, con tenacia, con senso del
dovere, con modestia! Non darlo mai in prestito a quel
che è fittizio ed ingiusto, vano e vacuo; giacché esso po­
trebbe trasformarsi nella tua mano in una spada a doppio
taglio che si volge contro te medesimo o contro il bene
non meno che contro il male ! O potrebbe anche diven*
tare una spatola da buffone. Guarda dunque ben dritto
davanti a te, sii modesto e smanioso di imparare, ma
saldo ed impavido ! Come oggi hai fatto onore a noi, così
cerca sempre in avvenire di dar ragioni di compiacenza
ai tuoi concittadini e alla tua patria; pensa a questo e ti
salverai dalle false ambizioni! Persevera! Non credere
di dover sempre parlare ; lasciati sfuggire molte occasioni
e non parlar mai per amor di te stesso, ma soltanto per
una causa degna ! Studia gli uomini non per vincerli in
astuzia e sfruttarli, ma per ridestare in essi, ponendolo
in movimento, quel che han di buono, e credimi: molti
che ti ascoltano saranno sovente più intelligenti di te che
stai parlando. Non cercare l’effetto con sofismi e con
meschine arguzie, che colpiscono solo i superficiali ; al
cuore del popolo arrivi soltanto con tutto il peso della
verità. Non aspirar dunque al consenso dei rumorosi e
degli inquieti, ma ispirati, sempre impavido, ai saldi, agli
impassibili, e sempre coraggio!».
Aveva appena concluso il suo discorso e lasciato la
mano di Karl che subito l’afferrava Frymann per dirgli:
«Allarga con armonia le tue cognizioni e arricchisci
le tue basi, per non cader mai nelle parole vuote ! Dopo
questo primo tentativo, lascia trascorrere un bel po’ di
tempo senza pensare a nulla di simile. Se hai un pensiero
felice, non parlare soltanto per faine sfoggio, ma invece
mettilo in serbo: tornerà sempre l’occasióne in cui tu
882 NOVELLE ZURIGHESI

potrai farne uso più maturo e saggio. Se poi un altro ti


previene con lo stesso pensiero, siine contento invece di
arrabbiarti, perché è prova che tu hai avuto sentimenti e
pensieri di valore generale. Educa la tua mente, sorve­
glia la tua natura e studia negli altri oratori la differenza
fra un semplice fanfarone ed un uomo pieno di cuore e di
schiettezza. Non star sempre in viaggio e non correre
per tutte le strade, abituati piuttosto a comprender l’an­
dar del mondo dalla rocca della tua casa e nella cerchia
di amici provati: allora al momento dell’azione dimo­
strerai maggior saggezza che i cani da caccia e i vaga­
bondi. Quando parli, non parlare né come un servo astu­
to né come un attore tragico, cerca di serbar semplice la
tua buona indole e parla ispirato da essa. Non far moine,
non metterti in posa, non guardarti attorno come un ge­
neralissimo, prima di cominciare, spiando l’assemblea !
Non dire che sei impreparato quando non è vero; per­
ché riconosceranno la tua canzone e se ne avvedranno
subito! E dopo che hai parlato non guardarti attorno
per mietere applausi, non mostrarti raggiante di orgo­
glio, ma torna tranquillo al tuo posto e presta orecchio
attento all’oratore seguente. Tieni in serbo la villania
come fosse oro, così che se una volta con giusto sdegno la
tiri fuori, ciò sia un avvenimento e colpisca l’avversario
come un fulmine imprevisto ! Se però pensi che un giorno
vorrai collaborare col tuo oppositore, guàrdati bene dal
dirgli nell’ira estremi insulti, affinché la gente non escla­
mi: “I bricconi si mordono ma poi s’accordano!”».
Così parlò Frymann, e il povero Karl se ne stava lì,
sorpreso e intontito da tutti quei discorsi, incerto se doves­
se ridere o insuperbirsi. Intanto Syfrig il fabbro esclamò :
— Guarda un po’ questi due: per noi non volevano
aprir bocca, ed ora parlan come libri stampati!
— Proprio così — consentì Bürgi — ma in compenso
noi abbiamo fatto un nuovo acquisto, il nostro tronco ha
messo un nuovo e fresco pollone ! Propongo che il giova­
notto venga accolto fra noi vecchi e partecipi d’ora in
poi alle nostre sedute !
— Così sia ! — gridaron tutti e tutti brindarono con
LA BANDIERA DEI SETTE IMPAVIDI 883

Karl: questi vuotò un poco sventatamente il suo bic­


chiere pieno, il che però gli fu perdonato senza bronto­
lare dai vecchi, dato l’eccitamento dell’ora.
Dopo essersi bastantemente rimessa dall’avventura con
la colazione, la brigata si sciolse. Gli uni andarono a pro­
var qualche tiro, gli altri a visitare il padiglione dei doni
o gli altri luoghi di ritrovo e Frymann si recò a prendere
la sua figliuola e le signore di cui era ospite; per il mez­
zogiorno si diedero tutti ritrovo a quella stessa tavola
che era piuttosto al centro del capannone e vicina alla
tribuna degli oratori. Notarono il suo numero e se ne
andarono di ottimo umore e senza più crucci.
Alle dodici in punto parecchie migliaia di persone,
che ogni giorno mutavano, sedevano lungo le tavole im­
bandite. Campagnoli e cittadini, uomini e donne, vecchi
e giovani, dotti e ignoranti, tutti stavano insieme alle­
gramente, aspettando la minestra mentre stappavano le
bottiglie e tagliavano il pane. Non vi era un volto mali­
gno, non si udivano strida o risate scomposte: regnava
soltanto uniformemente diffuso e centuplicato il brusio
di un’allegra festa di nozze, il fruscio delle placide onde
di un mare sereno. Qui v’era una tavolata di tiratori, là
una duplice fila fiorita di contadinelle, alla terza tavola
un gruppo di cosiddetti vecchi goliardi, patriarchi di tut­
te le regioni del paese, che avevan finalmente superato
l’esame, e alla quarta una piccola città arrivata al com­
pleto, maschi e femmine alla rinfusa ! Le schiere sedute a
tavola non costituivano però che la metà dell’adunata;
un corteo ininterrotto e non meno numeroso di spettatori
si riversava per i passaggi e per ogni spazio libero, inghir­
landando, in continuo movimento, i banchettanti. Era­
no, ne sia lodato Iddio, le persone prudenti ed econome,
che avevano fatto i propri conti e s’eran sfamate a mi­
glior mercato altrove, era quella metà della nazione che
combina tutto più a buon prezzo e più parcamente,
mentre gli altri si abbandonano tanto pericolosamente
agli eccessi; vi erano inoltre i raffinati che diffidavan
della cucina o trovavan troppo brutte le posate, e v’erano
infine i bambini e i poveri spettatori involontari. Ma
884 NOVELLE ZURIGHESI

questi non facevano osservazioni cattive e quelli non mo­


stravano vesti lacere o sguardi invidiosi: anzi i prudenti
si compiacevano degli imprudenti; lo schizzinoso, che
trovava ridicoli i piatti colmi di piselli in luglio, andava
attorno benigno quanto il poverello che dal loro profumo
si sentiva stuzzicato. Qua e là si rivelava un caso di col­
pevole egoismo, quando per esempio un contadino mae­
stro d’avarizia riusciva a conquistare inavvertito un po­
sto libero ed a mangiare con gli altri senza aver pagato;
ma, cosa ancor peggiore per occhi amanti dell’ordine,
non ne nasceva neppure una disputa né un’espulsione
rumorosa.
Il direttore del gran banchetto stava davanti all’am­
pia porta delle cucine e, quando con una cornetta da
càccia dava i segnali per il servizio delle diverse portate,
sbucava una schiera di camerieri che si distribuiva con
movimenti ben esercitati a destra, a sinistra e dritto nella
sala. Uno di questi trovò la sua via sino alla tavola dove
sedevano i sette impavidi insieme a Karl, Hermine e le
relative amiche e parenti. I vecchi stavano in quel mo­
mento ascoltando con grande attenzione uno degli ora­
tori ufficiali che era salito sulla tribuna, preannunciato
da un vigoroso rullo di tamburo. Eran lì seri e compunti,
deposta la forchetta, rigidi e impettiti, con le sette teste
rivolte al palco. Ma arrossirono come verginelle guar­
dandosi di sottecchi allorché l’oratore esordì riferendosi
ad un passo del discorso di Karl e parlò della comparsa
dei sette vecchi e ad essa riannodò e ispirò il suo discorso.
Soltanto Karl, intento a scherzare gentilmente con le
donne, non ascoltava, sin che il padre non gli diede
una gomitata di disapprovazione. Quando l’oratore ebbe
finito fra grandi applausi, i vecchi tornarono a guardarsi:
avevano assistito insieme a molte assemblee, ma per la
prima volta eran stati essi medesimi oggetto di un di­
scorso, e non osavano guardarsi attorno, tanto erano
intimiditi, se pure pieni di beatitudine. Ma si sa come
va il mondo: i vicini che li circondavano non li conosce­
vano e non sospettavano di aver simili profeti nel loro
grembo, così che la loro modestia non ebbe modo di
LA BANDIERA DEI SETTE IMPAVIDI 885

essere ferita. Tanto più soddisfatti si strinsero le mani


l’un l’altro, dopo essersele ben fregate ognuno per suo
conto, e i loro occhi dicevano : Sempre impavidi ! Questa
è la dolce ricompensa alla virtù e alla perseverante
bravura !
Kuser aggiunse poi ad alta voce :
— Però questo diletto lo dobbiamo a mastro Karl ! Io
son persuaso che alla fine gli assegneremo il letto a bal­
dacchino di Bürgi e gli dovremo anche metter dentro
una certa bambola. Che ne dici tu, Daniel Frymann?
— Ho paura anch’io — interloquì intanto Pfister — che
debba comprarmi il mio «Sangue svizzero» e rassegnarsi
a perder la scommessa.
Ma Frymann d’un tratto corrugò la fronte e disse:
— Non si compensa solo una buona lingua con una
buona moglie ! In casa mia almeno ci vuol anche una
buona mano ! Cerchiamo, amici, che lo scherzo non va­
da a cacciarsi in argomenti sconvenienti !
Karl e Hermine arrossirono e guardarono imbarazzati
la folla. In quel momento echeggiò il cannone che indi­
cava la ripresa dei tiri e che era stato atteso da una lunga
fila di tiratori, già pronti col fucile in mano. Subito cre­
pitarono infatti i colpi da tutte le direzioni; Karl s’alzò
da tavola dicendo che voleva tentar la fortuna e s’avviò
verso i bersagli.
— Io voglio almeno stare a guardarlo, anche se non
potrò averlo! — esclamò ridendo Hermine e gli tenne
dietro, seguita dalle amiche.
Avvenne però che le donne nella folla si perdettero
di vista, così che alla fine Hermine restò sola con Karl
e fece fedelmente con lui il giro di bersaglio in bersaglio.
Egli cominciò ad una delle estremità del campo, dove
non c’era folla, e fece senza troppo impegnarsi due o tre
buoni colpi consecutivi. Volgendosi verso Hermine che
gli stava alle spalle, disse ridendo:
— Guarda come mi avvio bene !
Anch’essa rise, ma con gli occhi soltanto, mentre con
la bocca diceva tutta seria:
— Tu devi vincere una coppa !
886 NOVELLE ZURIGHESI

— Impossibile, — replicò Karl — per colpire venti­


cinque volte il bersaglio, dovrei tentare almeno cinquan­
ta colpi, mentre non ne ho con me che venticinque.
— Oh, non manca qui certo la polvere o il piombo
da comprare !
— Ma non intendo farlo, altrimenti la coppa mi di­
venta troppo costosa ! Lo so che molti sciupan più soldi
di quel che valga il premio, ma non voglio esser tanto
pazzo.
— Sei davvero un uomo economo ed assennato, —
commentò lei con un’intonazione di tenerezza — e que­
sto mi piace ! Ma va bene soltanto se con poco si raggiun­
gono gli stessi risultati di altri che vi dedicano vasti pre­
parativi e terribili sforzi! Sta’ dunque bene attento e
cerca di riuscirci con venticinque pallottole ! Se fossi un
tiratore io, la spunterei certamente !
— Ma è una cosa che non succede mai, sei matta !
— Si capisce che siete tiratori da strapazzo ! Ma co­
mincia una buona volta e prova !
Karl tirò un colpo e colse il bersaglio, e così una se­
conda volta. Tornò a guardare Hermine, la quale rideva
ancor più con gli occhi e diceva ancor più severamente
con la bocca:
— Vedi? Si può! Continua!
Egli continuava a fissarla, senza quasi poter staccare
gli sguardi dal suo volto, perché mai aveva veduto i suoi
occhi a quel modo: dentro la ridente dolcezza di quello
sguardo ardeva qualcosa di aspro e di imperioso e due
spiriti si rivelavano eloquenti nello splendore di esso:
la volontà dominatrice e, insieme, la promessa della
ricompensa; e dalla loro fusione sorgeva un essere
nuovo e misterioso. «Obbediscimi: ho per te un dono
maggiore che tu non supponga ! » dicevano gli occhi, e
Karl vi si immerse, interrogando curioso, sin che si com­
presero bene pur tra il chiasso della festa. Dopo essersi
saziato la vista di quella luce, si voltò di nuovo verso il
bersaglio, mirò calmo e tornò a centrare. Allora comin­
ciò egli stesso a ritenere possibile la vittoria; però, ve­
dendo che cominciava a formarglisi folla attorno, s’allon-
LA BANDIERA DEI SETTE IMPAVIDI 887

tanò, passando ad un altro bersaglio meno frequenta­


to e più tranquillo, e Hermine lo segui. Anche lì non
sciupò neppure un colpo, e cominciò allora a trattare i
suoi proiettili con prudenza, come fossero monete d’oro,
ed ognuno, prima di sparire nella canna, era accompa­
gnato dagli sguardi di Hermine, lucenti ed avidi; Karl
invece, prima di prender la mira, senza alcuna fretta o
inquietudine, tornava ogni volta a guardare in faccia la
bella fanciulla. Appena veniva notata la sua fortuna e
cominciava a raccogliersi folla attorno, passava ad un
altro bersaglio; non infilava neppure, come d’uso, i bi­
glietti ottenuti nel cappello, ma li consegnava da serbare
alla sua accompagnatrice: essa teneva stretto il fascio di
biglietti e un tiratore non ebbe mai custodia più bella.
Accontentò davvero il desiderio di lei e collocò cosi bene
tutti i suoi venticinque colpi, che neppure uno era an­
dato fuori del cerchio prescritto.
Riscontrarono i biglietti e videro confermata la rara
fortuna.
— Ci sono riuscito una volta, ma non saprò mai più
farlo in vita mia ! — disse Karl — e questo vuol dire che
sei stata tu a farmi riuscire, coi tuoi occhi! Vorrei sol­
tanto sapere a che cosa intendi ancora arrivare!
— Aspetta con pazienza ! — rispose lei, ridendo questa
volta anche con la bocca.
Karl le disse:
— Ora va’ dai vecchi e di’ loro di venirmi a prendere
nel salone dei doni, in modo che io abbia il mio accompa­
gnamento, altrimenti sarei solo . .. o vuoi sfilare tu al
mio fianco?
— Quasi quasi ne avrei voglia — disse la ragazza, ma
intanto corse via in fretta.
I vecchi erano immersi in discorsi lieti e profondi; il
pubblico nel gran locale si era intanto quasi compieta-
mente rinnovato, ma essi rimanevan fedeli alla loro ta­
vola e lasciavan che la vita fluisse loro attorno. Hermine
s’avvicinò esclamando allegramente:
— Dovete andare ad accompagnare Karl che ha vinto
una coppa !
888 NOVELLE ZURIGHESI

— Come? Che dici? — gridarono in coro con grande


giubilo — Davvero?
— Proprio, — disse un conoscente sopravvenendo — e
per di più ha vinto una coppa con venticinque colpi, il
che non capita tutti i giorni ! Li ho osservati io quei
due, come ci son riusciti insieme !
Frymann guardò stupefatto la figlia dicendo:
— Hai forse tirato anche tu? Spero di no, perché le
tiratrici scelte andranno bene come gruppo, ma non mi
piacciono singolarmente !
— Sta’ pur tranquillo, — replicò Hermine — io non
ho tirato, ma gli ho soltanto dato ordine di tirar bene.
Hediger impallidì di meraviglia e di compiacenza, ap­
prendendo di avere un figlio eloquente e celebre nel ma­
neggio delle armi, che usciva con le sue imprese da una
modesta dimora di sarto. Si fece umile e si disse che non
gli avrebbe mai più fatto la predica. Intanto i vecchi si
avviarono verso il padiglione dei premi, dove infatti in­
contrarono il giovane eroe che, già reggendo l’argenteo
trofeo, li aspettava insieme ai trombettieri. Sfilarono così
con lui al suono di un’allegra marcia, tornando nel ca­
pannone dove avevan mangiato, a «bagnare», come si
suol dire, la coppa. Marciavano di nuovo a passetti ener­
gici e a pugni chiusi, guardandosi attorno con aria di
trionfo. Arrivati al loro quartier generale, Karl riempì
il gran calice: lo pose in mezzo alla tavola e disse:
— Dedico questa coppa alla nostra compagnia, per­
ché rimanga sempre accanto alla sua bandiera !
— Accettato ! — fecero eco gli altri ; la coppa cominciò
a fare il giro ed una nuova letizia ringiovanì i vecchietti
che erano pur allegri sin dall’alba. Fra le travi innume­
revoli dell’immensa baracca entrava il sole al tramonto
gettando la sua luce d’oro su migliaia di volti trasfigurati
dalla gioia, mentre il fragore dell’orchestra riempiva
tutto il locale. Hermine sedeva all’ombra delle ampie
spalle di suo padre, tranquilla e silenziosa, come una
innocentina. Ma il sole che sfiorava la coppa posta di­
nanzi a lei, facendone scintillare la doratura interna ed
insieme il rosso del vino, mandava sul suo volto roseo
LA BANDIERA DEI SETTE IMPAVIDI 889

alcuni riflessi d’oro che guizzavano insieme al vino quan­


do i vecchi nel calor del discorso menavan colpi sulla ta·?
vola, e non si sapeva allora se fosse lei a sorridere o se
soltanto quelle luci balenassero. Era tanto bella in quel
momento che cominciò ad esser scoperta dai giovanotti
circostanti. Gruppi di passaggio si soffermavano d’un
tratto per guardarla meglio e si incrociavano le domande :
«Di dove è? Chi è il padre? Chi la conosce?». «È di San
Gallo, dicono che è di Turgau» rispondevano alcuni, e
da un’altra parte si diceva invece: «No, a quella tavola
son tutti Zurighesi». Dovunque essa volgeva gli occhi, su­
bito giovanotti allegri si levavano il cappello per rendere
il dovuto omaggio alla sua grazia, ed essa rideva con mo­
destia, ma senza far la smorfiosa. Quando però un lungo
corteo di giovani sfilò davanti alla tavola e tutti levarono
il cappello, dovette abbassar gli occhi, e ancor più quando
all’improvviso arrivò uno studente bernese, di bell’aspet­
to, col berretto in mano, e le disse con cortese schiettez­
za di esser mandato ambasciatore da trenta amici seduti
alla quarta tavola, con l’incarico di dichiararle, suo padre
permettendo, che lei era la più bella ragazza di tutto il
padiglione. Insomma, tutti le facevan la corte e le vele
dei vecchi amici tornarono a gonfiarsi al vento del nuovo
trionfo, poiché la gloria di Hermine stava per oscurare
quella di Karl. Ma a questi doveva toccare una nuova
vittoria.
Nel passaggio centrale sorse un certo scompiglio pro­
veniente da due pastori dell’Entlibuch che si facevan
largo tra la folla. Eran due veri orsi, con in bocca pipette
corte di legno, e portavano le giacche festive sotto le
braccia robuste, avevan cappellucci di paglia sulle grosse
teste e le camicie sul petto eran chiuse con fibbie d’ar­
gento. Il primo era un pezzo d’uomo di circa cinquant’an­
ni, piuttosto brillo e grossolano, che cercava infatti di
ingaggiar prove di forza con tutti e a tutti porgeva le
dita ad uncino, ammiccando or maliziosamente ora in
aria di sfida. Suscitava quindi da ogni parte un poco di
tumulto e di confusione, ma alle sue spalle procedeva
l’altro, un tipo ancor più rozzo, di circa ottant’anni,
890 NOVELLE ZURIGHESI

con una gran chioma di ricciolini giallastri, il genitore


del cinquantenne. Questi guidava il figlio senza lasciar
cascar di bocca la pipetta, con mano ferrea, dicendogli di
tempo in tempo : « Piccino, sta’ tranquillo ! Bimbo, fam­
mi il bravo!» e dandogli intanto le necessarie spinte e
manate. Arrivò così a pilotarlo con mano esperta in quel
mare tempestoso quando, appunto davanti alla tavola
dei sette amici, lo incagliò un pericoloso ingorgo provo­
cato da una schiera di contadini che volevan sfidare quel
litigioso e prenderlo in mezzo a loro. Preoccupato che il
suo «piccino» gli combinasse qualche grosso guaio, il
padre si guardò attorno in cerca di un rifugio e notò al­
lora il gruppo dei vecchi. “Fra queste teste bianche mi
starà tranquillo !” mormorò fra sé, afferrò il figlio alle re­
ni con una mano e lo spinse attraverso alle panche, men­
tre agitando l’altra mano all’indietro si liberava dolce­
mente di chi irritato gli si stringeva addosso, giacché nel
rapido passaggio più di uno era stato già pizzicato ener­
gicamente dal «piccino».
— Permettete, cari signori, — disse il vecchissimo ai
vecchietti — che sieda qui un momento e che dia un
altro bicchiere di vino al ragazzo? Quello allora prende
sonno ed è tranquillo come un agnellino! — Così di­
cendo s’incuneò senz’altro insieme al suo rampollo nella
brigata e difatti il figlio cominciò a guardarsi attorno
docile e rispettoso. Subito dopo però esclamò:
— Vorrei bere in quella bella coppa d’argento!
— Stammi tranquillo, altrimenti ti faccio sprofonda­
re tutto d’un pezzo dentro terra! — disse il vecchio; ma
quando Hediger gli spinse accanto il calice colmo, ag­
giunse :
— Bene ! Se i signori te lo permettono, bevi pure, ma
non bermelo tutto!
— Avete un ragazzo allegro, amico; — osservò Fry-
mann — che età ha? — Il vecchio rispose:
— Verso Capodanno dovrebbe aver su per giù cinquan-
tadue anni, perlomeno strillava già in cuna nel 1798,
quando vennero i Francesi a portarmi via le vacche e ad
incendiarmi la capanna. Siccome però io a due di loro
LA BANDIERA DEI SETTE IMPAVIDI 891

ho preso le teste e le ho sbattute l’una contro l’altra, ho


poi dovuto scappare e intanto la moglie mi è morta di
miseria. Per quello debbo allevare da solo il piccino.
— Non gli avete dato una moglie che avrebbe potuto
aiutarvi?
— No, per adesso è ancora troppo maldestro e troppo
violento ; non andrebbe : mette tutto a pezzi !
Nel frattempo quel discolo giovinetto aveva vuotato
la coppa profumata senza lasciarvi una goccia e stava
preparando la sua pipa ammiccando in giro soddisfatto
e pacifico. Scoperse cosi Hermine e la irradiazione di
bellezza femminile che essa emanava riaccese improv­
visamente nel suo cuore l’ambizione e la smania di far
sfoggio di forza. Poiché intanto il suo sguardo si posò su
Karl che gli sedeva di fronte, gli porse il dito medio
ricurvo al di là della tavola, invitandolo alla gara.
— Sta’ cheto, ragazzo ! Che diavolo ti piglia ancora? —
gridò il vecchio rabbioso tentando di afferrarlo per il
colletto ; ma Karl gli disse di lasciarlo pur fare e agganciò
il suo dito medio in quello dell’orso, ed ognuno dei due
cercò poi di trascinare dalla propria parte l’avversario.
— Se tu fai male al signorino e gli sloghi il dito — ri­
prese il vecchio — ti do una tirata d’orecchie che te ne
ricordi per tre settimane !
Le due mani rimasero per un bel poco sospese sul
centro della tavola; presto però a Karl passò la voglia di
ridere ed egli si fece di porpora in viso; alla fine tuttavia
attrasse gradatamente il braccio e il torso dell’avversario
dalla sua parte, col che la vittoria fu dichiarata.
Il tanghero rimase a tutta prima attonito e mortifi­
cato, ma non per molto tempo, perché il vecchio, iroso
della sconfitta, gli diede uno schiaffo. Il poveraccio allora
lanciò un’occhiata di vergogna a Hermine e scoppiò a
piangere e a gridar fra i singhiozzi:
— E io adesso voglio una moglie !
— Vieni, vieni ! — disse il padre — è arrivata l’ora di
andare a letto ! — E così dicendo lo prese sotto braccio
e si allontanò con lui.
Sparita la strana coppia regnò per un poco il silenzio
892 NOVELLE ZURIGHESI

tra i vecchi, poi tutti espressero il loro stupore sulle im­


prese ed i successi di Karl.
— Vien tutto dalla ginnastica — disse lui con mode­
stia — che ci dà esercizio, vigoria e vantaggi in simili
gare, e non v’è quasi nessuno che non possa arrivarvi,
se non ha avuto la natura matrigna.
— È proprio così — esclamò suo padre e, dopo aver
un poco meditato, aggiunse entusiasta — per questo lo­
diamo in eterno i nuovi tempi che riprendono a educare
l’uomo, facendone un uomo davvero, e imponendo non
soltanto al rampollo aristocratico o al pastore della
montagna, ma anche al figlio del sarto di esercitare le
sue membra e di affinare il proprio corpo in modo che
sappia muoversi !
— È proprio così ! — ripetè Frymann, che parve egli
pure destarsi da una meditazione — e anche noi abbiam
tutti collaborato a far sì che i tempi nuovi venissero. Ed
oggi, per quel che riguarda le nostre vecchie teste, noi
con la nostra piccola bandiera celebriamo la conclusione,
il « Cessate il fuoco ! » e affidiamo la continuazione ai
giovani. Di noi però non si è mai potuto dire che ci
ostinassimo in errori o malintesi per caparbietà ! Al con­
trario, ci siamo sempre sforzati di rimanere aperti a quan­
to era ragionevole, vero e- bello ; col che faccio aperta e
libera ritrattazione della mia sentenza nei riguardi dei
ragazzi e ti invito, amico Chäpper, a fare altrettanto!
Che cosa infatti di meglio potremmo istituire, piantare
o fondare a memoria di questa giornata, che un vivo vir­
gulto spuntato proprio dal grembo della nostra amicizia,
che una casa i cui figli serberanno e trasmetteranno i
princìpi e la fede inconcussa dei sette impavidi? Coraggio
dunque, Bürgi ci dia il suo letto a baldacchino e noi lo
completeremo ! Io vi porrò la grazia e la purezza fem­
minile, tu la forza, la risolutezza e la destrezza, e così
vadano avanti, poiché son giovani, reggendo il piccolo
vessillo verde ! Esso rimanga a loro, che lo conserveranno
quando noi saremo scomparsi ! Non fare dunque più op-
sizione, vecchio Hediger, e dammi la mano in segno di
parentado !
LA BANDIERA DEI SETTE IMPAVIDI 893

— Accettato ! — disse Hediger solennemente — ma a


patto che tu non conceda al ragazzo mezzi per far scioc­
chezze o per sfoggiare aride vanterie ! Perché il diavolo
gira sempre attorno cercando chi può inghiottire!
— Accettato! — ripetè Frymann, e Hediger riprese:
— Ti saluto allora parente, e che il «Sangue svizzero»
sia spillato per le nozze !
A questo punto s’alzarono tutti e sette e fra grandi
evviva le mani di Hermine e di Karl vennero congiunte.
— Auguri ! Ecco un fidanzamento, così dev’essere ! —
esclamarono alcuni seduti lì presso, e tosto sopraggiunse
una folla di persone che, munite dei loro bicchieri, volevan
brindare ai fidanzati. Anche la musica intervenne come
l’avessero ordinata; ma Hermine, senza lasciare la mano
di Karl, si sottrasse alla folla ed egli la guidò poi fuor dal
padiglione, verso la grande piazza della festa già im­
mersa nel silenzio notturno. Girarono attorno alla torre
imbandierata e, poiché non c’era nessuno vicino, si fer­
marono. Le bandiere ondeggiavano ancora vivaci e
chiacchierine, ma i due giovani non riuscirono a distin­
guere tra esse il minuscolo vessillo dell’amicizia, rav­
volto e ben custodito fra le pieghe di una venerabile
bandiera vicina. In alto però, al lume delle stelle, la
bandiera della Confederazione scoppiettava, sempre so­
litaria, e si distingueva benissimo il fruscio della sua seta.
Hermine mise le braccia al collo del fidanzato, lo baciò
deliberatamente e gli disse con tenera commozione:
— Ora però le cose da noi bisogna che vadan bene !
Ci sia concesso di vivere sin che saremo bravi ed attivi e
non un giorno di più!
— Spero allora di aver lunga vita, perché ho proprio
dei buoni propositi ! — rispose Karl rendendole il bacio
— ma come andrà il nostro regime? Vuoi davvero te­
nermi sotto la ciabatta?
— Per quanto mi sarà possibile ! Si verrà però for­
mando anche tra noi una legge e uno statuto, e sarà
un’ottima costituzione !
— Ed io garantirò lo statuto e chiedo intanto di essere
padrino del primo figliolo! — disse d’un tratto una ro­
«94 NOVELLE ZURIGHESI

busta voce di basso. Hermine alzò la testa afferrando la


mano di Karl, questi si mosse verso la voce e vide una
sentinella dei tiratori d’Aargau seminascosta dall’om­
bra di un pilastro.
Il metallo dell’uniforme luccicava nell’oscurità. I due
giovanotti si riconobbero: eran stati reclute insieme e
quello d’Aargau era un aitante contadino. I due fidan­
zati sedettero sui gradini ai suoi piedi e prima di tornare
alla loro brigata stettero a chiacchierare una mezz’ora
con lui di varie cose.
URSULA

Quando si mutano le religioni è come quando si squar­


ciano i monti : fra i grandi serpenti incantati, fra i draghi
dorati e gli spiritelli sotterranei delfanimo umano che
salgono alla luce, balzan fuori anche vermi mostruosi
e l’esercito dei ratti e dei topi. Cosi fu al tempo della prima
Riforma anche nelle regioni nord-orientali della Sviz­
zera, e specialmente nella zona dell’Oberland zurighese,
allorché tornò dalla guerra un uomo ivi residente, chia­
mato Hansli Gyr.
Ai primi dell’anno 1523, infatti, ripassò le Alpi quel
piccolo esercito zurighese che in singolari condizioni ave­
va difeso contro la Francia territori e sudditi del papato,
mentre già nella sua patria si predicava il Vangelo.
Questi Zurighesi avevano preso Parma, Piacenza ed altre
città: dopo la morte di Leone X avevano custodito il
Vaticano sino all’elezione di Adriano VI ed evitato inoltre
l’urto con gli altri confederati svizzeri alleati coi Francesi,
nel cui esercito combattevano. Quando, a lungo andare,
s’accorsero che, malgrado il movimento scismatico, era­
no bensì accarezzati e lusingati dai romani, ma in pari
tempo anche scherniti, senza mai poterne ottenere il
danaro loro spettante, finirono, richiamati dal Consiglio,
per risalire verso la patria, ed i loro capi giunsero a Zu­
rigo ancora in tempo per assistere, il 29 gennaio, alla
prima disputa di religione tenuta in quel municipio e
per unirsi al giudizio contro la Roma papale.
Dovette essere uno strano spettacolo vedere questi uo­
mini avvezzi alle armi, ornati di catene d’oro e di piume,
reduci da un lungo soggiorno nell’Italia cinquecentesca,
partecipare al processo logico di dispute, votazioni e der
cisioni basato esclusivamente sulla parola divina, alla
purificazione insomma della fede, dei costumi e dello
Stato, che si compiva in opposizione a tutto un mondo
e che si diffuse solo incompletamente a causa degli errori
che commise.
Allorché quell’esercito, che non doveva superare le
8g6 NOVELLE ZURIGHESI

venticinque centurie, provenendo con tutte le salmerie


dal lago Walen, giunse alla riva sinistra del lago di Zu­
rigo, dirimpetto alla città di Rapperswyl, Hansli Gyr,
col permesso dei suoi capi, deviò verso il ponte della città,
per raggiungere più presto sull’altra sponda il suo podere
sul monte Bachtel. Il nome di Hansli (Giovannino) non
indicava certo una figura minuscola; egli era anzi un
uomo di alta statura, un robusto caporale, malgrado i
suoi giovani anni, ma nel diminutivo si esprimevano le
confidenziali simpatie per lui e la fama di uomo leale di
cui godeva presso i compagni. Troviamo del resto so­
vente, negli elenchi militari o negli annuari, simili vez­
zeggiativi per nomi d’uomini d’armi da un pezzo de­
funti e del tutto sconosciuti, e ci dànno l’idea che essi
siano stati migliori e prediletti fra gli altri, forse per l’in­
dole più semplice e bonaria, o per la serena impassibili­
tà e l’umore benevolo o per qualche altra buona dote.
Hansli, col sacco di cuoio gettato sulle spalle, proce­
deva energicamente sul ponte di legno privo di balau­
strata e lungo circa cinquemila piedi, così che le assicelle
ne risuonavano e la neve gelata scricchiolava. Ben vestito
ed armato, non ostentava tuttavia la pompa sfacciata dei
mercenari di quell’epoca : la sua veste nei colori bianco
e azzurro del paese era di panno resistente e senza troppe
cincischiature, ma anche oggi la persona più modesta
non può impedire al suo sarto di accennare sul suo abito
questa o quella moda. La corazza, l’elmo e l’alabarda
erano però di buon lavoro milanese e la corazza risali­
va con fini scannellature a ventaglio dai fianchi snelli
verso le ampie spalle robuste; un certo lusso rivelavano
tuttavia i guanti lunghi di cuoio, senza i quali nessun
soldato svizzero che tenesse alla propria persona si la­
sciava vedere, come possiamo leggere del resto anche in
un canto di lanzichenecchi tedeschi:
Quel che lo svizzero sciupa pei guanti,
meglio in baldoria vogliamo scialare.
Per il resto lo sfarzo di cui brillava la sua persona pro­
veniva dal riflesso scintillante del sole invernale sulla
URSULA 897

sua lucidissima armatura, tanto che, sin ch’egli fu sul


ponte, giù nell’acqua lo accompagnò una duplice luce,
sparendo soltanto quando egli fu entrato nell’ingresso
oscuro del porto della cittadina di Rapperswyl.
Avendo da percorrere ancora circa tre ore di cammino
e non essendo inoltre sicuro di trovare da mangiare nella
sua casa abbandonata, entrò in una taverna e si fe­
ce portare una pietanza calda ed una caraffa di vino.
La stanza era affollata di barcaioli, di mercanti e di
contadini, tutti buoni cattolici della regione di Schwyz,
e, quantunque Hansli Gyr avesse già avuto notizia degli
avvenimenti del suo paese, non si era immaginato la
passione e l’eccitamento già profondi che si rivelavano
ora nei discorsi di quella gente all’osteria. Udì stupito i
già diffusi nomignoli e gli insulti contro gli Zurighesi,
che in tempi simili costituiscono sempre la prima arma
contro i rinnovatori da parte dell’irritata angustia men­
tale. Riconobbe fra gli avventori un vecchio mercenario
e gli chiese il significato di quelle parole; quegli spiegò,
biasimandoli, la provenienza e il senso degli epiteti, ma
proruppe poi egli medesimo in aspro rimprovero:
«I tuoi signori di Zurigo» esclamò «vogliono pren­
dersela coi preti, ma poi si fanno sopraffare dal nuovo
stato di cose e predicano contro noi, poveri uomini d’ar­
mi, in modo che è proprio una vergogna ! Ci vorrebbero
proibire di guadagnare la vita come possiamo e di meri­
tarci un soldo con tutto onore a prezzo di sangue o di
staccare un dente a una corona d’oro. Dovremmo diven­
tare tutti degli ipocriti e stare bravi bravi attaccati alle
sottane della mamma, ma noi non abbiamo salvato il
paese e la libertà leggendo libri e facendo chiacchiere,
bensì con buone lance e lunghe spade ! Continuino pure
così; alla fine diventeranno degli abili maestrucoli ed
avvocati, ma non sapranno certo vincere una lotta in
campo aperto e neppure difendere le mura della città!».
Hansli Gyr non si lasciò molto turbare da quel di­
scorso; benché giovane d’anni, era stanco della guerra ed
aspirava soltanto alla pace ed al lavoro tranquillo. Gli
parve anche che il vecchio soldato, ad osservarlo più da
8g8 NOVELLE ZURIGHESI

vicino, non avesse molta ragione di compiacersi del suo


passato. Era infatti visibilmente esausto dalle fatiche e
dalla vita disordinata, tormentato dalla gotta e precoce­
mente vecchio. Le macchie di sudore, di polvere e di
ruggine sulla giubba di seta stinta non permettevano
più di distinguerne il colore e i calzoni di gala a sbuffi che
avrebbero dovuto accompagnarla eran da tempo scom­
parsi e sostituiti da un modesto indumento di pelle di
capra. Fra la giubba e le brache sbucava ancora la cami­
cia, ma non era più ornamento e bandiera di baldanza,
bensì un grigio e grossolano sacco di miseria. La testa
era ricoperta soltanto da un berretto di velluto rosso
sbiadito, portato un giorno sotto il gran cappello piu­
mato e calato ora invece sulle orecchie intirizzite, mentre
invece della spada c’era una stampella. Accettò avida­
mente il boccale che Hansli fece riempire di vino ed av­
volse con cura in un lembo di stoffa un rimasuglio di pa­
ne e di formaggio.
Tuttavia continuò a dire irato: «I tuoi signori si so­
no però dati la zappa sui piedi! La plebaglia li supe­
ra in pazzia, come la scimmia supera il buffone,e i con­
tadini non vogliono più stare sotto i padroni! Vattene
pure sulla tua montagna, che brulica, come un cane pieno
di pulci, di fanatici e di profeti, che predicano, ballano
e fanno sconcezze per i boschi. E le donne sono più pazze
degli uomini!».
Il giovane guerriero si spaventò e si fece attento e chie­
se notizie più precise su tali avventure : al che il vecchio
rispose narrando a modo suo quel che sapeva del movi­
mento anabattista, che si era diffuso specialmente nel di­
stretto di Grüningen e nella regione del Monte Bachtel.
Concluse il racconto, ritornando alla sua mania, esor­
tando il giovane a non cacciarsi in quella confusione in
patria, ed a partire invece entrando nell’esercito di re
Francesco, dove c’era da pigliarsi una rivincita e da con­
quistare nuova fortuna.
: Gli sguardi del vecchio scintillavan sotto le folte so­
pracciglia bianche: egli sognava in quel momento le
truppe all’assalto, le bandiere al vento, i nemici abbattuti,
ursula 8gg

le fattorie in fiamme, i quartieri lussuosi, le donne stra­


niere e la borsa gonfia d’argento.
Al ridestarsi dai suoi bei sogni non si trovò più vicino il
camerata, perché questi, spinto dalla curiosità e dalla
preoccupazione, s’era lasciato alle spalle la città, avvian­
dosi a passi frettolosi verso il paese nativo.
Ivi, negli ultimi anni, mentre egli era alle armi, erano
morti il padre e la madre l’uno dopo l’altro, ma il suo po-
deretto, col terreno annesso, era stato curato da un colono
che aveva la casa poco lontana, sullo stesso pendio della
montagna. Non era tanto la preoccupazione per i suoi
averi che gli faceva affrettare il passo, quanto la paura
di non trovare le cose come le aveva lasciate. Anche in
mezzo alla pompa ed alla magnificenza dell’Italia, pur
vivendo tra le belle donne romane, aveva pensato sempre
soltanto alla giovane Ursula, la figlia del vicino, con la
quale era cresciuto da fanciullo. Quella personcina sem­
plice e tranquilla, senza apparenza, non bella né brutta,
buona come il pane, fresca come l’acqua di sorgente,
pura come l’aria della montagna, faceva impallidire ai
suoi occhi ogni splendore prepotente e straniero e la con­
vivenza con lei gli appariva indispensabile quanto la
terra natale, che ci guarda con gli occhi ingenui dei suoi
fiorellini di prato.
S’era congedato dall’adolescente con una mezza pro­
messa, ed ora cercava di rappresentarsi quale sarebbe sta­
to il suo aspetto, ma non poteva formarsi altra immagine
che quella dell’acerba ragazzina. Tanto più aveva fretta di
arrivare, turbato dai discorsi del vecchio soldato, e non si
lasciò trattenere che molto brevemente dai conoscenti in­
contrati lungo il cammino. Gli parve tuttavia di accor­
gersi che le loro facce volessero dirgli: «Avrai di che
stupirti arrivando a casa!» e che altri lo squadrassero
come per scrutarne i sentimenti. Finalmente scorse la sua
casa ergersi sulla cima fra due alti noci, che in estate l’om­
breggiavano e che in quel momento stendevano i grandi
rami scuri e muschiati, al pari del tetto di paglia sotto­
stante, gocciando la neve scioltasi nella giornata. Non
soltanto quelle stille cadenti, ma anche i piccoli vetri
goo NOVELLE ZURIGHESI

delle finestre, che egli si aspettava chiusi dietro le impo­


ste, luccicavano al sole occiduo, come lavati di fresco,
dal tetto s’alzava un fumo ospitale, la porta s’aperse e ne
uscì una figura femminile non ordinaria, vestita piutto­
sto come una cittadina che come una contadina di quel
tempo. Una lunga veste scura, stretta sotto il petto, le
ravvolgeva fino al collo la persona snella, lasciando usci­
re dalle spalle le maniche fittamente pieghettate di una
camicia bianca. Una cuffietta semitrasparente copriva
la fronte sin quasi ai grandi occhi oscuri e su di essa un
fine drappo bianco girava più volte attorno alla nuca ed
al mento, non lasciando scorgere affatto i capelli ed in­
corniciando completamente il volto.
Hansli Gyr fino a quel momento aveva pensato soltanto
ad Ursula, ma forse appunto per questo non la riconobbe
subito quando quella fiorente figura femminile gli si fece
incontro spalancando le braccia, e gli saltò al collo. Sol­
tanto allorché il morbido petto di lei si appoggiò sulla
corazza insensibile, la riconobbe al taglio della bocca
severa che essa gli porgeva da baciare e, solo quando l’eb­
be istintivamente stretta e baciata, si rese conto dell’inat­
tesa fortuna, che non aveva osato pensare tanto vicina.
La trattenne confuso ed incerto fra le braccia, poi se ne
staccò a poco a poco, credendo di troppo ardire, ma la
strinse ancora una volta, più forte, sinché alla fine, sco­
standola decisamente ed osservandola, esclamò:
— Ma sei proprio Ursula? E ti sei fatta tanto grande e
bella?
— Volesse Dio che io fossi bella, — replicò lei, con
uno sguardo affettuoso — ne sarei tanto contenta per te !
Quanto ti ho aspettato! Ma sapevamo che oggi arriva­
vate, abbiamo veduto da lontano luccicare le vostre armi
e avevamo persin creduto di udire il suono dei tamburi
nell’aria tranquilla. Allora sono venuta qui, ho dato aria
alla tua casa, l’ho riscaldata ed ho acceso il focolare. Le
tue bestie sono nella nostra stalla, ma domani possiamo
riportarle qui e allora tutto sarà a posto. Ma entra,
dunque !
Condusse il giovane stupefatto in casa, l’aiutò a toglier­
URSULA gol

si l’armatura, gli portò dell’acqua calda perché dopo la


lunga marcia faticosa potesse lavarsi i piedi e lo curò in
ogni modo. Più tardi apparecchiò la tavola e vi dispose
i cibi che aveva preparati. Poi gli sedette accanto sulla
panca presso la finestra, come sogliono fare le giovani
coppie, prima che sia sopravvenuta la numerosa servitù
a dividere un poco il marito dalla moglie.
Nessuno dei due aveva grande appetito, perché la gioia
di rivedersi si univa ad una singolare eccitazione prove­
niente dagli inusitati atteggiamenti della donna. Hansli
Gyr considerava la compagna della sua gioventù con
crescente compiacenza, però anche con nuovo stupore e
con una tal quale incertezza, e stava appunto chiedendole
come mai portasse l’acconciatura, lo scialle e la cuffia di
donna maritata, quand’essa gli additò con un tenero sor­
riso la brocca del vino, il pane bianco e la scatola delle
droghe disposti su una mensola ed aggiunse, arrossendo,
che lì stavan già pronti gli ingredienti per la zuppa di
vino del mattino seguente. Era infatti allora usanza che
quando un guerriero tornava dopo lunga assenza dal
campo, la moglie, il mattino seguente la prima notte
trascorsa sotto il suo tetto, gli preparasse, in segno di
gioia, e quanto meglio sapeva, un vino caldo e drogato,
con fette di pane abbrustolito.
Egli disse allora, ancor più meravigliato ed incerto:
— Ma noi non siamo ancora sposati, nulla è stato di­
scusso e preparato !
— Perché mi hai baciata allora, se non mi vuoi? — re­
plicò Ursula, e le sue guance si fecero d’un tratto pallide.
— Chi dice che io non ti voglia? — protestò Hansli
stringendosi accanto la giovane donna — se tu vuoi me,
anch’io ti voglio, ma con questo non siamo che fidanzati,
sempre che i tuoi ci diano il loro consenso !
— Ma non sai ancora che noi qui apparteniamo ai
santi ed ai senza peccato della nuova fede, non più sotto­
posti ad alcuna autorità laica o ecclesiastica? In noi è lo
Spirito di Dio, noi siamo il suo corpo, e noi non facciamo
null’altro che la sua volontà ! Così dicono i nostri profeti,
e tu dovrai entrare certamente nella nostra comunità,
902 NOVELLE ZURIGHESI

ed allora saremo marito e moglie in grazia dello Spirito


Santo e della Sua volontà che regna in noi !
Ursula pronunciò questo discorso precipitosamente, ed
ora fu Hansli ad impallidire un poco, mentre l’abbrac­
ciava più stretta e ne scrutava lo sguardo, giacché non
l’aveva mai sentita parlare tanto in una volta. Mentre
Ursula, cingendogli il collo, alzava gli occhi verso di lui,
egli vide ardere in essi una dolce fiamma sensuale, ma
in pari tempo anche la fiamma di quel fuoco fatuo che
aveva arso la modestia di quell’anima e s’accorse che la
fanciulla era presa dal morbo della follia, come un dolce
grappolo è intaccato dalla ruggine.
A malincuore e lentamente si sciolse da quell’abbrac­
cio, da quel petto che gli offriva così grato riposo, e cercò
di staccarsi dolcemente dal collo le mani di lei che di con­
tinuo si intrecciavano, finché si liberò d’un balzo e le si
pose ritto di fronte.
— Le cose non possono andare così, — disse molto se­
riamente — voglio entrare nel matrimonio secondo la
legge e le usanze, e possedere ben saldo quel che è mio !
Vieni, cara Ursel, ti riaccompagnerò a casa e parlerò coi
tuoi, così andrà tutto in ordine e ci uniremo tanto più
serenamente ! Dei tuoi santi e dei tuoi profeti non sento
dir nulla di bene; non li conosco né penso di fare amici­
zia con loro !
Ursula non gli rispose, ma lasciò cadere le braccia
inerti, guardando smarrita nel vuoto, sopraffatta dalla
vergogna e dall’irritazione al pari di una donna che veda
respinta la sua offerta, ed ora non sapeva che fare, al
trovarsi di fronte il suo diletto quasi come un giudice.
La sua facondia era d’un tratto sparita, senza che tor­
nasse l’antica placidità modesta, e per uno strano giuoco
della vita accadeva che il guerriero, sbattuto da tante
avventure, avesse però serbato il suo buon senso, mentre
la sventura aveva raggiunto quella donna serena, lassù
nell’appartata solitudine alpestre.
Hansli cinse di nuovo la spada e porse la mano alla
fanciulla ammutolita, poi, vedendo che non si muoveva,
la fece alzare lentamente dicendole:
URSULA 9°3

— Vieni, Ursel, metteremo tutto subito a posto !


Essa si lasciò guidare passiva sino alla porta, ma poi
s’aggrappò allo stipite, supplicando:
— Oh ! lasciami qui, lasciami qui ! — Il giovane tut­
tavia la fece scostare ed allora essa lo precedette, di colpo
risoluta, nell’oscurità, senza aspettarlo. Gli fu facile rag­
giungerla in pochi passi e così proseguirono in silenzio
l’uno accanto all’altra, e ben presto videro spiccare sul
cielo notturho i grandi aceri, presso i quali v’era la casa
colonica di Enoch Schnurrenberg, il padre di Ursula.
Questo cognome proviene da una località molto lon­
tana del Settentrione, chiamata Schnurrenberg, il che,
al tempo della suddivisione delle terre, significava « Mon­
tagna dello Snurro», cioè del burlone, del pagliaccio.
Benché padre Enoch difficilmente potesse essere un di­
scendente di quei vecchi giullari, era a suo modo un
acre buffone, che si riteneva anche la testa più furba del
paese, il che non voleva dir poco, perché in quella zona
montana non mancavano certo le teste furbe e sveglie,
fra le quali ad ogni occasione spuntavano anche profeti
e fanatici, chiacchieroni e imbroglioni di ogni specie.
Nella casa di Enoch proprio quella notte s’era rac­
colto un gruppo di simili profeti, sia pure di qualità
inferiore, senza che vi fosse tra di essi alcuno di quei
grandi predicatori che, apertamente o in segreto, per­
correvano il paese. Erano al contrario degli intermediari
di vario genere, i quali fraintendevano anche nei par­
ticolari la pazzia generale, mescolandovi tradizioni mi­
stiche, e che, commossi dalle sofferenze del popolo, dif­
fondevano il crescente fermento e in esso sguazzavano.
Quattro o cinque di quei visionari, generati e covati
dal calore dell’epoca, tenevano un edificante convegno
in casa dello Schnurrenberg. Perché però non godessero
gratuitamente la luce e la stanza, l’astuto padre aveva
messo loro dinanzi un mucchio di mele destinate all’es­
siccazione, e le faceva da loro tagliare a pezzi mentre essi
si comunicavano le loro visioni e meditazioni. Quelli
però, restii in fondo ad un lavoro assiduo e per di più
ammoniti dalla moglie del loro ospite perché levassero me­
9°4 NOVELLE ZURIGHESI

glio i torsoli, se ne stavano immusoniti attorno alla tavola,


senza che lo Spirito scendesse su di loro. Furono quindi
gradevolmente sollevati quando Hansli Gyr entrò con
passo tranquillo, si guardò attorno e si diresse con un
saluto alla volta di padre Enoch, che gli sbarrò in volto
le pupille stranamente luccicanti, quasi volesse trapas­
sarlo. Anche gli altri profeti, lasciando in pace le mele,
fecero la stessa cosa, fissando per ogni verso con gli oc­
chietti oziosi, a seconda delle loro personali energie, qua­
le ammiccando e quale sfolgorando, il tranquillo soldato.
Si consideravano tutti dei cosiddetti «scrutatori», e si
abbandonavano al cattivo vezzo di tali occhiate insistenti,
che rivelano sempre l’uomo stolto o presuntuoso e riesco­
no incomprensibili o odiose alle persone dabbene e leali,
suscitando in esse l’impressione di chi sente un insetto
immondo arrampicarglisi sul corpo.
Mentre essi si comportavano come se il sopravvenuto
fosse di vetro e lo potessero trapassare con lo sguardo,
Hansli interruppe improvvisamente la sua breve traver­
sata della grande stanza per osservare a sua volta con
stupore l’uno dopo l’altro quegli uomini. Pensò che erano
forse i nuovi santi che gli avevano rovinato la sua bella,
e per questo, appena finito di esaminare incuriosito l’ul­
timo, ripigliava da capo col primo, con occhi impassibili
e pacati, senza mostrare alcuna fretta. Quelli comincia­
rono a sbattere le ciglia sempre più inquieti, non volendo
mostrarsi da meno nell’arte dello scrutare, sinché tro­
varono la faccenda noiosa ed il padrone prese la parola
per dire:
— Che cosa vien qui a fare questo portatore di spa­
da e grande eroe di guerra? Con chi vuol combattere?
— Ma io non sono che Gyr, — replicò Hansli — buona
sera a padre Enoch e a tutta la compagnia !
Così dicendo, cercò con lo sguardo Ursula, che gli era
sfuggita già davanti alla porta, scomparendo.
Lì in casa tutti sapevano che essa era andata a ricevere
il reduce ; si conosceva anche la loro antica simpatia e non
si opponevano ostacoli ai loro piani; tuttavia il bizzarro
genitore finse di non saper nulla, non chiese dove Hansli
URSULA 905

avesse lasciato la ragazza e gli indicò uno sgabello per


sedersi, dicendo:
— Guarda un po’, ecco il nostro vicino ed amico, ma
quasi irriconoscibile, diventato ancor più grande, un ve­
ro Hans ormai !
Ma appena Hansli ebbe preso posto, l’altro riprese,
con litigiosa impazienza contadinesca :
— Che c’entrano ormai più la spada e la corazza? Non
sapete ancora che è prossimo l’avvento del regno mille­
nario, e che i nostri soldati sono gli angeli del cielo, con
spada rilucente e scudo di diamante? Ma voi venite dal
papa e andate a Zurigo da quell’altro papa o papuccio,
e cosa ne volete mai saper voi dello Spirito e del regno
millenario, voi smargiassi e fanfaroni? Vi ritenete forse
grandi ed importanti pei vostri tamburi e i vostri stendar­
di? Ahimè, che povera e caduca creatura acquosa è mai
l’uomo ! Basta pungerlo un momento perché si svuoti tutto,
e se prendi anche il più forte guerriero, che sembra scolpi­
to nel marmo, e gli fai cadere addosso un pezzo di roccia,
grande come un cammello, ti par di vedere un povero
ragno schiacciato, non ne resta in terra che una macchia
umida e sporca.
A quel tentativo scortese di umiliarlo, Hansli replicò
con una risata bonaria:
— E che cosa resta invece in terra, se quel cammello
di sasso arriva addosso ad un santo o ad un profeta?
Ma la replica non piacque per nulla ad Enoch, che
invece di ribattere esclamò:
— Dai loro frutti li riconoscerai ! Vuole forse l’uovo
saperne più della gallina? E non hai ancora visto nes­
suno dei dotti preti e neppure sentito predicare il loro
capitano, quel pazzo di Zwingli?
— Sicuro che l’ho veduto e udito, — replicò Hansli
— ma è passato molto tempo e poco ancora ne capivo.
È stato otto anni fa, allorché, ragazzo sedicenne, sono
corso con gli altri in Lombardia, ai tempi della disgrazia
di Marignano, quando abbiamo perduto la battaglia.
Allora Zwingli ci venne a predicare in campo; era un
uomo simpatico e coraggioso, con gli occhi belli come
906 NOVELLE ZURIGHESI

quelli di un cervo : ricordo ancora che lo fissavo pieno di


rispetto! Sicuro che lo voglio sentir predicare! Si dice
infatti che egli si appoggi soltanto alla parola di Dio,
come sta nella Scrittura !
— La Scrittura ! La Scrittura ! Che ne sai tu della
Scrittura, e che ne sa quello stupido maestrucolo? —
Queste ultime parole furono gridate all’improvviso con
voce stridula da uno dei profeti presenti, un uomo piut­
tosto alto e magro, un certo Wirtz von Gossau, sopranno­
minato «il freddo» perché aveva sempre le mani umide
e gelate. Indossava una stretta giubba grigia che pareva
un sacco, era affatto imberbe e soltanto le sopracciglia
rossicce si disegnavano come due piccoli archi a sesto
acuto sulla fronte angusta.
— Cos’è la Scrittura? — gridò — Una pelle, una canna
vuota, se non ci soffia dentro lo Spirito Santo! È un
gatto morto, se io non lo faccio correre immettendovi
l’afflato di Dio ! È una canna d’organo muta, un violino
senza voce, se io non ci suono ! Io sono la Rivelazione ed
il Verbo, la Scrittura non è che il suono e l’alito che muo­
ve l’aria! Io l’accendo al pari di una lanterna per dar
luce e la spengo quando mi pare ! Io me la infilo sulla
testa come una cappa magica, faccio br . .. br ... sco-
tendo la testa, ed ecco che subito sono ravvolto nel mi­
stero e da me parte un’ombra terribile, che vi fa tutti rab­
brividire ! Poi soffio dal naso ed ecco che la nebbia sva­
nisce, che il libro giace sulla tavola di Dio e le sue lettere
risplendono come mille stelle, e a voi pare di assistere alla
fondazione del regno celeste, ma poi lo prendo e lo getto
in un canto, e non è più che un volume stampato, un
mucchietto di carta straccia come tanti altri libri !
Tutti istintivamente mossero gli occhi verso l’angolo
della stufa, come se davvero quello ci avesse scagliata
una Bibbia. La padrona di casa mandò un grido di paura
e di ammirazione per tanta energia e magnificenza. Anche
Hansli Gyr guardò in quella direzione, stupito e spaven­
tato da quei modi inauditi, ma il freddo Wirtz continuò:
— Sfoghi pure le sue arti da questo brulicame di let­
tere morte il tuo vanitoso maestro! Egli potrebbe con
URSULA 9°7
egual successo scavare la sabbia nel deserto : non ne sgor­
gherà mai una viva sorgente ! Ma ecco che io lo raccatto
ed esso diventa una verga di Mosè, un aratro, uno scudo
e una spada, una brocca ed una coppa, una botte e una
vigna, una foresta verde ed il cane con cui io vado a cac­
cia, il mare profondo e la nave sulla quale io navigo !
10 vi leggo la Scrittura ed intanto la scrivo, la penso,
la parlo, l’apro, la richiudo, vi seggo sopra, l’appiccico
alla coda del diavolo, facendolo poi scappare come un
gatto a cui è appeso il campanello !
— «Giacché sono io colui che ha il Verbo», cosi dice
11 Signore, ed egli l’ha scritto, ed egli solo lo può leg­
gere e comprendere entro la sua dimora, la creatura !
Queste parole echeggiarono da una voce nuova ed
ancora più impetuosa, benché fossero pronunciate più
lente e distinte. Il soldato si volse a guardare il nuovo
oratore e scorse una figura tozza, dagli occhi rotanti e dal
grosso labbro inferiore sporgente in un volto oscuro. Que­
sti era chiamato dalla gente Schneck von Agasul, randagio
ciabattino e maestro per professione di ricambio. Del suo
labbro inferiore un prete suo nemico aveva detto che sem­
brava lo sgabello da riposo per il diavolo, dal quale l’an­
gelo caduto faceva penzolare le gambe pelose ogni volta
che lo Schneck discorreva. Non aveva nulla di singolare
nella persona, se non che sembrava amare i gioielli, por­
tando alle dita parecchi anelli dorati con pietruzze rosse
e verdi. Si diceva che in tempi passati solesse portare
scarpe tagliate e mostrar simili anelli falsi anche alle dita
dei piedi.
— Sono io, sono io, che ho il Verbo ! — gridò trapas­
sando con lo sguardo Hansli Gyr, che lo fissava curioso,
ed eccitandosi sempre più, sinché d’un tratto parve cal­
marsi ed intonò un canto cui si unirono uomini e donne,
ed anche la voce di Ursula si fece inaspettatamente udire :

In Giudea ben noto è Dio,


suona il nome in Israello,
a Salèm è la sua sede,
e lo canta a Sion la rocca !
go8 NOVELLE ZURIGHESI

Ivi ei spezza dardo e lancia


scudo e spada in ogni lotta;
i superbi fa crollare
ed abbatte ogni soldato !

Egli insorge alla sua ora


per sanare ogni tormento;
a chi in terra è sventurato
Zebaoth porge conforto !
Lode a lui, nostro Signore !
Dura ed aspra è la sua mano,
dei sovrani spegne l’astro
poi gl’insegue come un branco !

Il canto si spense più melanconico che minaccioso,


piuttosto lamento che voce di vittoria, ma Schneck von
Agasul balzò in piedi, gridando :
— Voi certo credete che Dio stia in realtà su un carro di
fuoco, oppure nella rocca di Sion, al di sopra delle nubi,
con una lunga barba, la corona e lo scettro, e che venga a
cacciarvi via il papa e i prìncipi, i signori ed i reucci borghe­
si di Zurigo, mentre voi ve ne state qui comodi a bocca
aperta, perché vi caschino gli uccelli arrostiti ! E credete
che egli porti alla cintura un calamaio e annoti tutti i vo­
stri nomi in un registro, ciascuno col suo credito ed i suoi
desideri, coll’altezza e col peso della sua pancia, che egli
possa concedere o sottrarre a seconda di ciò che esige il be­
ne, e che il buon uomo ne abbia tutte le dita sporche d’in­
chiostro?
Vi sbagliate di grosso, poveri e ciechi pagani, che ado­
rate dei simulacri e non avvertite il Signore quando vi
sta alle spalle! Egli è qui, è là, è in ogni luogo, Egli è
nella polvere di questo pavimento e nel sale dell’acqua
marina! Egli si scioglie come la neve del tetto e noi lo
vediamo gocciolare! Splende nello sterco della strada,
guizza coi pesciolini nelle profondità delle onde e scruta
con occhi di nibbio librato nell’aria. Come potrebbe
sembrar tanto buono il vino se non vi fosse dentro Lui,
come ci sazierebbe il pane, se Egli non vi avesse dimora?
URSULA 9°9

Ma Egli è anche dentro di noi e, come noi possiamo ri­


mirarci soltanto se abbiamo uno specchio, così possiamo
scorgere Lui che in noi abita solo nel volto del prossimo e
del fratello : per questo bisogna che di continuo ci specchia­
mo l’un nell’altro, che scopriamo e riveliamo Colui che
sin dal primo inizio è dentro di noi ! Come potremmo, in­
fatti, essere tanto santi, innocenti, intelligenti ed arguti,
se non fossimo noi medesimi di natura divina, e come po­
trebbe Egli sussistere, se noi non gli offrissimo dimora?
Perciò Egli dipende da noi, come noi da Lui, e dobbia­
mo domarlo se non fa bene, e ricoprirlo di preghiere e di
parole ardite finché si mortifichi e si induca a rivelarcisi
con i miracoli ed i segni, facendo il voler nostro !
Prese una mela dalla tavola, se la tenne di fronte e si
mise a parlare quasi fosse viva:
— Ebbene, o mio bel piccolo Dio: ti sei rifugiato qui,
stai dentro a questa mela e credi che io non ti trovi?
Ma io ti scaccerò di qui, come ima volta tu hai fatto
uscire Adamo dal cespuglio, dopo che ebbe mangiato il
pomo! In nome del Santo Sangue del Figlio dell’Uomo,
vieni subito fuori! Guardate, fratelli e sorelle, come la
mia mela comincia a risplendere dall’interno, come mi
si gonfia in mano e diventa un mondo! Vedete che il
picciolo cresce e si trasforma nel grande crocefisso che si
erge sul Golgota ! Vedete gli omiciattoli che brulicano su
quell’altura, le tombe che si schiudono, i morti che risor­
gono ! Egli è santo, è santo, è santo ! Chiamatelo ed esal­
tatelo, Egli ci ha redenti!
— Santo ! Santo ! — fecero coro tutti gli altri, ad ecce­
zione del soldato, che fissava di continuo il profeta,
finché questi, d’un tratto, gli scagliò il frutto contro la
testa, gridandogli con mutato accento :
— Eccoti la mela, mangiatela !
Ma Hansli, che era riuscito ad afferrarla in aria, la con­
siderò per un poco, poi la depose tranquillamente sulla
tavola.
— Non provartici una seconda volta, buffone ! — disse
a Schneck, guardandolo impassibile, ed il profeta si di­
menò inquieto dietro la tavola, dove si sentiva sicuro a
gio NOVELLE ZURIGHESI

mezzo, e fece un paio di volte per rimettersi in piedi,


senza ben sapere come comportarsi col soldato. Tutto
questo era il malo arbitrio che da un millennio aveva
imperato sugli altari e che, penetrato ora fra quella po­
vera gente, si manifestava in modo così sciagurato, rima­
nendo però subito incerto all’apparire di una resistenza.
Vicino a quel santo inquieto ne sedeva uno più tran­
quillo: Jakob Rosenstil, soprannominato «il largo», che
ora cercava di calmarlo. Era questi un uomo corpulento,
dalla lunga barba, che era rimasto sempre seduto comodo
e silenzioso, con le mani incrociate sul ventre. Egli col­
tivava una impassibilità spirituale, una calma, un’im­
mobilità dell’animo che annullava ogni dolore, e, senza
mai commuoversi, si lasciava ricolmare dalle cose di­
vine e anche da tutte le altre buone cose. Per anni aveva
peregrinato attraverso la Germania, s’era pure ricove­
rato in un convento per poi di nuovo uscirne; ora passava
lentamente di capanna in capanna, perché la miseria
lo costringeva a muoversi ed a cercare la compagnia di
visionari più agili ed energici, al cui seguito ci fosse qual­
che cosa da mettere sotto i denti.
— Non essere tanto impaziente, sii dolce invece ! —
disse a Schneck von Agasul, premendogli la mano sulla
spalla — Guarda quello là, è tranquillo, malgrado la sua
spada ! Lasciagli il tempo necessario perché accolga in
sé ed elabori il vero verbo di Dio e vedrai allora che bel
santo potrà diventare!
— Non voglio più tagliar mele ! — replicò Schneck
con ira, respingendo con la mano quelle che gli stavano
dinanzi.
— Moglie, libera la tavola ! — esclamò il padrone di
casa — vogliamo concederci una piccola gioia mondana e
berci un goccio di vino ! Hai con te, Wirtz, le carte nuove?
La tavola fu ripulita e Wirtz «il freddo» trasse dalla
sua giubba grigia un mazzo di carte, deponendolo sulla
tavola. Il vecchio Enoch portò una grande caraffa di
vino che cominciò a mescere per buon denaro ai suoi
ospiti, pur non possedendo la licenza, e la compagnia
si diede per la maggior parte della notte a giocare in si-
URSULA DU

letizio con quelle strane carte, le cui figure rappresenta­


vano animali mostruosi, scimmie, gatti e demoni, in parte
di aspetto osceno, senza che del resto fossero attentamente
osservate dai giocatori.
Solo verso il mattino smisero quella monotona occupa­
zione e si dispersero, tornando ai loro vari rifugi o alloggi.
Hansli Gyr, che si rifiutò di giocare con quegli zotici
compagni, e che non era ancor riuscito a scambiare una
parola con le donne nel frattempo sparite, aveva già pri­
ma fatto ritorno alla sua casa solitaria, ed era andato a
riposare scrollando il capo di cattivo umore.

Dormì tuttavia bene e profondamente sino al mattino


alto, poiché il letto accuratamente rifatto, l’ampio talamo
dei suoi defunti genitori, accolse ospitalmente la sua stan­
chezza. Appena desto dovette pensare alla mano fem­
minile che gli aveva preparato tanto bene quel giaciglio,
e, nello scorgere la colazione a lui destinata, si domandò
se non avesse agito stoltamente respingendo quella tenera
felicità che gli era stata così vicina. Si preparò alla me­
glio la bevanda calda e drogata, e meditò poi tra sé,
mentre la beveva, come aggiustare la faccenda ed otte­
nere in giusto modo quel che gli spettava.
In quel momento s’aprì la porta ed entrò il vecchio
Schnurrenberg con i guanti a manopola e la scure sotto
il braccio, come chi, avviato a spaccar legna, volesse dire
una parola di passaggio. Diede con i suoi occhi sfuggenti
un rapido sguardo alla colazione, alla quale Hansli in­
tanto lo invitava, e non esitò ad accettare.
— Metterò questo vino, questo pane e le droghe — co­
minciò poi lentamente — sul nostro conto, e precisamen­
te sul mio dare; poiché hai ripudiato e scacciato la ra­
gazza è ben giusto che le spese tocchino a te solo !
— Ma chi parla di cacciare o di disprezzare? Io la
voglio più che mai, — replicò Hansli — ma sono stupito
che voi, padre e madre, vogliate dare vostra figlia a quel
modo, e mi meraviglio che vi circondiate di simili buf­
foni, che vi mettono tali cose in testa, come ho veduto
ieri sera !
912 NOVELLE ZURIGHESI

— Questi poveri pazzi saranno i padroni tuoi e dei


tuoi signori, giacché noi, il popolo, li faremo grandi, per
diventare noi stessi grandi e potenti, secondo il decreto
di Dio che sta per venire a noi ! Quanto alla figliola, ad
Ursula, non vogliamo più sottometterci alle antiche usan­
ze pagane, ma darla secondo la divina libertà, e solo chi
l’accetta con pari libertà potrà averla. Tu invece sei
tornato come un pervicace ed altezzoso complice del
passato, lo vediamo bene, e non contiamo più su di te !
Hansli Gyr guardava dinanzi a sé addolorato; egli
era una di quelle indoli semplici che rimangono inconta­
minate dalle epidemie di follia senza fare alcuno sfor­
zo, cosi come vi è gente che pare attraversi senza peri­
colo ogni male contagioso senza esserne colpita. Capiva
bene di non poter accostarsi al confuso disordine che gli
si opponeva. Ma, mentre verso Ursula non sentiva ama­
rezza, ma solo tenera compassione, il contegno del padre
lo riempiva di disagio e di antipatia. Lo aveva sempre
conosciuto come uomo furbo e facondo, ritenendolo più
saggio di quel che non fosse, non sapendo nel suo candore
giudicare quei furbacchioni che, mossi da mali istinti,
sono i primi a cadere preda di quelle storture che essi si
illudono di dominare. Tanto più misterioso gli appariva
lo strano morbo insinuatosi così fatalmente proprio nel
luogo della sua culla e del suo sognato avvenire.
Dopo breve meditazione si riprese e disse:
— Andrò a Zurigo dove comunque devo presentar­
mi e dove ho qualche cosa da sbrigare. Mi guarderò at­
torno e cercherò di sapere il meglio possibile quel che
accade in paese e quello che i superiori davvero voglio­
no e insegnano. Mi sarebbe caro se tu volessi nel frat­
tempo occuparti ancora delle mie cose; appena ritorno
ti libererò di tutto senza che tu ne abbia danno !
Ma questa notizia non piacque affatto a Enoch Schnur­
renberg, che cioè il giovanotto andasse a chiedere con­
siglio nella città dai vecchi reggenti, invece di credere
a lui.
— Tu non ritornerai più; — disse con rapida decisio­
ne — per l’antica amicizia e per farti del bene io ti voglio
URSULA 913

facilitare la via della tua cosiddetta felicità, sinché lo


Spirito di Dio non scenda su di te. Ascoltami bene:
tutto quello che si chiama ora proprietà, cesserà appena
giungerà il Regno millenario, e ciò può accadere da un
giorno all’altro ! In primo luogo saranno abolite le deci­
me ed il censo, i diritti e le servitù e tutti gli ingiusti gra­
vami; poco dopo sarà requisita anche la terra e tolta
anche l’ultima pietra di confine, e chi non ci starà, po­
trà pulirsi la bocca ed andarsene. Perché tu te ne possa
andare subito senza perdere quello che hai, per compas­
sione rileverò il tuo poderetto a buon mercato e lo am­
ministrerò come mio finché durino le antiche condizioni.
Ma, poiché parteciperò al nuovo Regno, io non soffrirò
miseria e dovrò ugualmente cedere ad esso tutto quello
che posseggo. Tu invece, a questo modo, puoi andartene
dove ti piace, portandoti una buona sommetta per il
viaggio !
Dopo un momento di simulata riflessione, Enoch enun­
ciò un minimo prezzo di acquisto sul quale avrebbe vo­
luto subito accordarsi con Hansli.
— Altrettanto posseggo già coi risparmi sulla paga e
con un poco di bottino — replicò Hansli traendo up
sacchetto di cuoio di monete d’oro e mostrandole al
vecchio, i cui occhi curiosi parvero scintillare più per cu­
pidigia terrena che per il regno di Dio.
— Inoltre, — proseguì Hansli — il poderetto per ora
mi sembra abbastanza solido. Potrebbe ben capitare che
le decime e i censi venissero aboliti, non però la proprietà
fondiaria, ed allora il podere acquisterebbe maggior va­
lore, ed io rimarrei ingannato, al che tu certo non hai
pensato. Lasciamo le cose come sono, ed io ti ringrazio
per le tue buone intenzioni.
— Come vuoi, — disse Enoch, i cui pensieri erano stati
ben interpretati da Hansli, che non era poi uno stupido
— ma dovrai trovar altri che provvedano al podere,
perché io non voglio occuparmene più !
Così dicendo, prese l’accetta e lasciò senz’altro la casa
dove Hansli Gyr rimase solo soletto. Il contegno di Enoch
lo addolorava non poco, perché ben comprendeva che
9H NOVELLE ZURIGHESI

voleva disfarsi di lui e tenerlo lontano. Dopo essere rima­


sto per un poco nella stanza silenziosa, che gli era apparsa
il giorno avanti così calda ed ospitale ed era invece ora
tanto fredda ed ostile, balzò d’un tratto in piedi per porsi
in cammino. Invece di andare a prendere i vecchi abiti
da contadino, rimase nell’armatura ed anzi la pulì e la
riassettò accuratamente insieme alle armi. Infilò anche i
guantoni color cuoio ad alti polsini, quasi volesse con ciò
orgogliosamente isolarsi e distinguersi dal fuorviato paese
nativo. Dopo che ebbe chiuso le imposte, dando dalla
soglia un’occhiata alla casa buia, gli parve che l’inva­
lido di Rapperswyl avesse ragione, e che sarebbe stato
meglio per lui ripartire, non fosse altro che per trovare
una tomba su di un verde campo.
Tuttavia prese la chiave e s’awiò verso la casa di
Enoch, con l’intenzione di consegnarvela, quasi a prova
che egli intendeva tornare e non rinunciare ad ogni spe­
ranza. Quando s’accostò alla casa, la madre di Ursula,
tutta imbacuccata per il freddo, stava sulla porta aperta
del granaio, intenta a sminuzzare il mangime per le
bestie, dal che si comprendeva che il lavoro quotidiano
proseguiva ancora come in passato.
— Bisogna tagliare erbe e rape anche nel Regno mille­
nario? — domandò con tono di scherzo conciliante — Che
Dio vi conceda una buona giornata ! Lavorate tanto anche
con le dita gelate?
— Dio ti rimeriti, Hansli, e conceda anche a te una
buona giornata ! — replicò la donna — Bisognerà sempre
far qualcosa, altrimenti sarebbe troppo noioso ! Dove sei
avviato così, in armi? Volevo venire fra poco a prepararti
un po’ di pranzo, perché non si può lasciarti in asso così
d’un tratto ! Ma, a quanto pare, tu hai già l’intenzione
di scappare!
— Devo andare a Zurigo, dove congedano le truppe.
Eccovi la mia chiave, se la volete custodire ancora. E
ditemi un po’, che ne è di Ursula? Siete anche voi del
parere che debba diventar moglie senza parroco né au­
torità?
— Sì, sono anch’io di questo parere, perché tale è
URSULA 915

la volontà di Dio e quella di mio marito. Egli di queste


cose se ne intende molto più di me, ed ha sempre imposto
la sua volontà. Pensa di diventare lui stesso un capo nel­
l’epoca nuova; dice che una buona volta bisogna pure
incominciare, e proprio con le cose a noi più prossime.
Ha una testa fina, capisce tutto ed ha grandi qualità.
Faresti quindi meglio a sottometterti, perché contro di
lui non la spunterai mai. La povera Ursula questa notte
non ha chiuso occhio, ora è là, seduta in tinello a filare;
non vuoi vederla un momento?
Egli acconsentì a vederla. Ursula al suo entrare si co­
perse di rossore; abbassò lo sguardo sul fuso, senza ac­
corgersi di arruffare intanto il filo. Non rispose al suo
saluto e, anche quando egli le prese la mano, non alzò
gli occhi, ma anzi volse il capo dall’altra parte.
— Ieri non sono neppure riuscito a darti Γ anellino che
t’avevo portato; — disse infilando un anello d’oro di
fine lavoro, da lui comperato in Italia, a un dito della
mano che le aveva afferrato — vuoi affidarti un’altra
volta a me, e promettere di aspettare sin che tornerò?
— Solo se tu rinunci al tuo mondo perduto e ti unisci
a noi porterò l’anello, — disse alla fine Ursula, sempre
senza guardare — del resto ti aspetterò sinché tu ti sarai
abituato alle grandi cose!
— Io non rinuncerò a nessun mondo e non mi unirò
a nessuno, — esclamò Hansli — ma tu, in ogni caso,
devi staccarti da quei profeti che ho veduto ieri sera,
perché non mi piacciono affatto !
Ursula allora sfilò l’anello dal dito e lo lasciò rotolare
a terra, alzandosi in piedi e passando, sempre senza
guardare Hansli Gyr, dal tinello alla sua camera, dove
si abbandonò ad un gran fiume di lagrime ardenti.
Essa si inchinava alla follia ed allo sguardo tagliente
di suo padre, che da un lato temeva quanto una spada
e dall’altro venerava come un santo infallibile. Dove in­
fatti tali spiriti avrebbero potuto trovare seguito e fede,
se non in primo luogo presso i loro familiari, ai quali con­
tinuavano a predicare la dottrina mettendo se stessi nella
miglior luce?
916 NOVELLE ZURIGHESI

Hansli si trattenne ancora qualche minuto nella stanza,


ma poi uscì senza raccogliere l’anello né voltarsi indie­
tro, e si pose in cammino con un profondo sospiro. Attra­
versando il villaggio più vicino, incontrò parecchia strana
gente e strani sguardi, e si accorse che facevano capannel­
li, parlottando fra loro. Più oltre, però, man mano che
avanzava, gli parve che l’aria si schiarisse: rivide il vec­
chio popolo a lui familiare, che, intento con savia sag­
gezza ai suoi traffici, andava serenamente per la sua stra­
da. Eppure anche lì non c’era più il mondo di prima;
pareva che un lavorio mentale più intenso ed energico
compenetrasse la limpida atmosfera, vivificando la gente.
Senza rendersene ben ragione, il giovane ed energico
viandante si sentì più lieto e soddisfatto.
Trovò la soldatesca ancora accampata a Zurigo, ec­
citata e piena di contrasti; il rigido divieto di accettare
ulteriori servizi militari o pensioni da stranieri colpiva
duramente gli antichi mercenari ed i loro caporioni, im­
pedendo ogni nuova impresa, ed essi, sobillati dagli av­
versari segreti o aperti della Riforma, davan libero corso
al loro malumore, mentre d’altra parte i fanatici profeti
si mescolavano alle truppe cercando di cattivarsele.
Hansli Gyr, dopo essersi dato d’attorno ed essersi pre­
sentato ai superiori, quando venne la sera si recò nel­
l’osteria dell’«Alsaziano», dove le autorità cittadine face­
vano distribuire da un proprio oste il vino d’Alsazia, e
dove già si affollavano, seduti o in piedi, i sottufficiali
ed i veterani delle milizie rimpatriate. Già all’ingresso,
sul quale era dipinto lo stemma della città, e nell’atrio
i soldati si erano radunati in gruppi e camminavano
avanti e indietro, ritti e decisi, come gente che da anni
non ha mai piegato la schiena e non ha mai più maneggia­
to la zappa e la scure. Hansli si aprì un varco e conquistò
un ultimo posto nello stanzone affollatissimo che echeg­
giava di voci aspre ed eccitate, quanto lo permetteva il
bassissimo soffitto. S’incrociavano motti e discorsi feroci,
e le voci più acute e rimbombanti, che appartenevano
agli uomini più alti e robusti, suonavano tanto più ta­
glienti e minacciose. Si discuteva ovunque se convenisse
URSULA 917

obbedire al divieto di arruolarsi o apertamente sfidarlo,


oppure se si dovesse semplicemente lasciare il paese affi­
dando il resto all’avvenire e andandosene dove più
piacesse.
Guardandosi meglio attorno, Hansli scorse Wirtz von
Gossau, «il freddo», seduto in un angolo fra un gruppo
di soldati, addossato alla parete, con accanto un’altra
strana figura di non combattente, un monaco o un papi­
sta incappucciato, a tutti sconosciuto, che però incitava a
resistere e a conservare l’antica libertà di combattere.
D’un tratto Wirtz inarcò le sopracciglia sino all’altezza del
cappello e cominciò ad urlare che non dovevano prestar
fede a quel tirapiedi del diavolo venuto da Roma, ma
neppure ai reggenti ed ai consiglieri, bensì fare una gran
catasta di tutte le lance in mezzo alla città e bruciarle
solennemente, giacché stava per giungere la nuova Geru­
salemme con i suoi soldati, legioni di angeli dalle spade
di fuoco, contro le quali nessun ferro terreno avrebbe mai
vinto. Questo era ormai destinato soltanto a scavare con
lieve fatica la docile terra, schiudendola alla più mite
stagione. Ad ognuno inoltre sarebbe toccata una nuova
moglie giovane e avrebbe potuto liberarsi in quell’occa­
sione della vecchia se l’aveva, poiché si stava riparando
ad ogni male.
Una gran risata interruppe il discorso di Wirtz, che
aveva dapprima suscitato una certa attenzione; soltanto
tre o quattro dei vecchi lanzichenecchi, che forse si
preoccupavano del ritorno a casa, parvero meditare un
poco quell’idea, finché ne compresero l’inverosimiglianza
e non degnarono più il profeta di uno sguardo. Hansli
Gyr però, pieno di stizza che quel buffone già incontrato
gli tornasse sotto gli occhi ricordandogli la mala riuscita
del suo incontro con Ursula, l’interruppe gridando ad al­
ta voce che non erano venuti 11 per perdere il tempo con
quelle teste d’asino piovute su tutto il paese; avevano più
serie questioni da risolvere e conveniva tenersi concordi.
Quando lo ebbero salutato e gli chiesero come la pen­
sasse, rispose:
— Cari fratelli, sono arrivato da poche ore ed ho però
gi8 NOVELLE ZURIGHESI

già saputo che i consiglieri ed i cittadini, i duecento e il


popolo della campagna, nella maggioranza son d’accordo
e detengono il potere come prima ! Perciò son d’opinione
che non ci convenga e che non ci tomi utile suscitare
contese o allontanarci dalla via dell’ordine.
— Ecco un buon discorso di un giovane guerriero ! —
disse accanto a lui una bella voce sonora, ed una mano
gli si posò energica e calda sulla spalla. Si volse stupito,
e riconobbe il Maestro Ulrich Zwingli, il quale era in
compagnia di uno stimato presidente di corporazioni e
di un giovane umanista: sbrigati gli affari di stato, aveva
voluto recarsi in quel ritrovo per conoscere di persona
quale fosse l’animo dei mercenari.
— Se fra i soldati — proseguì Zwingli — ci sono cosi
giuste idee, e se rimane un posticino per noi, berrei vo­
lentieri un bicchiere di quel vino d’Alsazia che farà pro­
fitto ad un ecclesiastico, il quale ama i soldati, non meno
che a questi medesimi!
I presenti si scostarono per fargli posto, in parte vo­
lonterosi e gentili, in parte a malincuore e brontolando;
però quanto più a lungo l’occhio luminoso del riformatore
si posava sull’adunata, tanto più rapidi essi si scostavano,
cosi che ben prèsto vi fu posto sufficiente per i sopravve­
nuti, a spese però del monaco romano e di Wirtz «il fred­
do». Questi infatti, che soli non si erano mossi, vennero
tanto stretti e compressi dalle due parti che non poteva­
no più muoversi fra quei pezzi di uomini grandi e grossi
e dovevano sprecare fatica per tener lontano l’un dall’al­
tro i loro due volti nemici.
Tanto più a suo agio Zwingli, che aveva allegramen­
te osservato e riconosciuto i due presi in trappola, potè
intrattenersi coi soldati. Ben presto gli uomini d’arme
prestarono orecchio con visibile piacere ai suoi discorsi,
il cui chiaro dialetto di Toggenburg si distingueva grade­
volmente dal vocalismo degli Zurighesi, ora cupo e chiu­
so, ora troppo aperto, e difficile talvolta persino a chi
ben lo possiede, sinché la fiumana della loquela, raffor­
zandosi, non riesce a vincere ogni ostacolo ed a prorom­
pere come un torrente montano che trascina pietre e
URSULA 9!9

detriti. La vivace lingua del Maestro Ulrich era anche


il fiore di quello schietto e disinvolto figlio della monta­
gna, nato fra le grandi vette rocciose e nevose, balzato
nella vita con agile forza, che sembrava serbare nello
sguardo il luminoso riflesso della terra natale e sentire
sulle guance il fresco alito dei monti.
Non fu difficile a quell’uomo, che più tardi scrisse la
singolare Istruzione per un capitano, persuadere i soldati
che egli non era affatto nemico e spregiatore dei bravi
combattenti, bensì loro amico e fratello. Essi ascoltarono
con attenzione le sue parole quando diede l’idea di una
più alta forma di popolo in armi, che non sciupa il suo
sangue per denaro e per contese straniere, ma sa difen­
dere con le sue armi onorate l’indipendenza della patria,
le leggi da essa create, i buoni costumi e la libertà di
coscienza.
Si fece in ultimo un gran silenzio, tanto che si potè
udire d’un tratto la campana annunciante la chiusura
di tutte le mescite e le osterie. Subito Zwingli s’alzò con
i suoi accompagnatori per rientrare in casa, ponendo fine
all’inusitata avventura. Anche i soldati, però, ai quali,
in considerazione delle lunghe campagne di guerra e del
loro particolare umore, nessuno osava imporre la par­
tenza, s’alzarono per la maggior parte spontaneamente.
Alcuni accompagnarono il Maestro sino alla sua dimora
parrocchiale, non lontana dal duomo, ed ivi giunti gli
strinsero confidenzialmente la mano; fra questi vi era
anche Hans Gyr, che con grande piacere gli era stato
seduto ben vicino e, sin dove la discrezione l’aveva per­
messo, l’aveva ben fissato in faccia. Zwingli vegliò ancora
buona parte della notte, scrivendo lettere in latino ai suoi
dotti contemporanei e compagni di lotta, trattando degli
eventi che stavano a cuore a lui come a loro.
I mercenari nei giorni seguenti si sciolsero pacifica­
mente per il paese, tornando ciascuno alla propria casa.
Soltanto Hansli Gyr, con un gruppo di gente fidata che
non aveva alloggio, rimase in città per essere pronto ad
ogni evento e prestare intanto molto servigi di fiducia.
Egli assistette pure, alla fine del mese, alla prima grande
920 NOVELLE ZURIGHESI

disputa, in cui fu stabilita la supremazia dello Stato e


l’indipendenza della comunità, ed il testo biblico ritenuto
vero venne dichiarato base unica della fede. Frequentò
anche zelantemente le prediche del riformatore e, secon­
do le possibilità della sua semplice intelligenza, fu testi­
monio di un vero lavoro di riforma, che ebbe ancora
la buona fortuna di costruire in modo radicale. Sulla
salda base della terra si ergevano i pilastri e i pinnacoli
dell’opera, salendo all’altezza del mondo soprasensibile,
sino ad immergersi come puro cristallo nell’etere cri­
stallino, senza però perdere le linee di contorno; né gli
edificatori stavano quali artefici arbitrari, celati in una
sagrestia spirituale o corporea, bensì in mezzo al tempio,
essi pure soffrendo, sperando e confidando, vincendo o
soccombendo, con lo sguardo fisso verso quell’altezza
purificata, per quanto l’epoca lo permetteva, dalla neb­
bia del paganesimo sacerdotale. Ma la religione rimase
quella antica e non si trasformò in una letteratura mito­
logica che, esposta in forma filosofica, può essere maneg­
giata con maggiore o minore abilità, al pari di qualsiasi
strumento.
Perciò i riformatori erano, insieme al loro popolo,
ingenuamente pii e, malgrado la libertà dello spirito,
concordi tra loro: fu così possibile anche al semplice
soldato Hansli Gyr percorrere le nuove vie con occhio
vigile e con piena coscienza.

La Pentecoste del 1524 non fu una festa gradita per


tutto il mondo dei quadri e delle immagini raccolti nelle
chiese di campagna e di città: in seguito ad un’ulteriore
disputa ed alla conseguente decisione del Consiglio, col
consenso del popolo, fu strappato dagli altari, dalle pa­
reti, dai pilastri e dalle nicchie tutto quanto fosse dipinto,
intagliato o scolpito, dorato o colorato, e venne distrutto,
così che il lavoro artistico di molti secoli, per modesto
che fosse in quel cantuccio della terra, dovette perire di
fronte alla tranquilla logica della parola. Ma le vere reli­
gioni non sopportano surrogati : o muoiono con essi, op­
pure li distruggono, come la fiamma distrugge la polvere.
URSULA 921

Malgrado le esitazioni e i riguardi, scoppiò la bufera e,


fra le grida di «via gli idoli» si cominciò a martellare,
a strappare e graffiare, a imbiancare, spezzare ed in­
frangere, tanto che in breve lasso di tempo tutto il piccolo
mondo di colori e di forme era sparito dalla luce del gior­
no, come l’appannatura del fiato dal vetro d’una finestra.
Un anno più tardi, in una bella giornata autunnale,
si ebbe la continuazione dello spettacolo, quando nella
cattedrale di Zurigo venne sequestrato e preso in con­
segna da parte dello Stato il tesoro della Chiesa. I custodi
ecclesiastici delle reliquie d’oro e d’argento non se ne se­
pararono tanto facilmente, ma cedettero solo al preciso
ordine, quando i deputati del consiglio invasero la sagre­
stia. Hansli Gyr dovette fare la guardia e, mentre trat­
teneva la folla impaziente, stupì egli stesso di quelle an­
tiche cose preziose, portate attraverso le navate deserte
alla luce del sole e consegnate per ora nell’edificio di
fronte, nel Kaufhaus, che era un’antica e grigia torre
nobiliare.
Passarono per prime, oscillando, le immagini in ar­
gento dei patroni di Zurigo, i martiri Felix, Regula e
Exuperantius, che ancor oggi, malgrado ogni riforma,
figurano con la testa in mano sul sigillo civico zurighese.
Seguiva poi una statua della Madonna, di puro oro,
del peso di sessanta libbre, e quindi una serie di crocefis­
si d’oro e d’argento, di pesanti ostensori gotici, simili a
piccole cattedrali, e tutto uno sciame di calici e di reci­
pienti d’oro, dalle forme bizantine antichissime a quelle
gotiche fino a quelle più recenti per foggia e per stile, del
Rinascimento. Incensieri e cose simili accompagnavano
i cofani delle reliquie, e gli altri svariati reliquiari, i
messali, il libro di preghiere d’oro di Carlo il Calvo e si­
mili cimeli disseminati di gemme e di perle; tutto du­
rante il breve passaggio scintillava all’ultima luce del
sole, prima di sparire nelle cupe ombre della torre.
A questo seguì uno spettacolo ancor più smagliante di
colori, accompagnato da più di un allegro fruscio, quan­
do apparve la massa immensa dei paramenti da messa,
degli stendardi, delle tovaglie d’altare, dei tappeti e delle
922 NOVELLE ZURIGHESI

stoffe colorate di ogni tipo, portati e sventolati lietamen­


te da scolaretti e da altri giovani. Questo corteo non en­
trò nella torre del Kaufhaus ma rifluì, simile ad una cate­
ratta di seta, di fili d’oro e d’argento, di lini e di candidi
fini merletti, giù dalla scala del duomo verso lo Helmhaus
in riva al fiume, un’aperta loggia dove si raccoglievano
mercanti e rivenduglioli per i loro svariati commerci.
Ivi si fece mercato di tutte le stoffe e tessuti, in parte di
remotissima origine e di artistica fattura. Una folla di
donne e di ragazze vanitose o leggere sbucò fuori dai
vicoli in cui il tempo antico permaneva tenace, prima di
sparire del tutto, e cominciò a mercanteggiare le stoffe
lucenti. Non soltanto le donne andavano frugando fra
quei mucchi di roba per trovarvi pezze adatte ad ornar
la persona e da acquistare con pochi soldi, ma vi era
anche qua e là un soldato incorreggibilmente vanitoso,
che sceglieva un tappeto o un paramento, forse di tessi­
tura saracena, nell’intenzione di farsene tagliare una bel­
la giacca.
Hansli Gyr guardava con stupore quello spettacolo
disordinato e scorse persino Schneck von Agasul, il biz­
zarro profeta, intento a strappar dal mucchio un’anti­
chissima dalmatica, ricamata a leoni ed aquile, di seta
rossa e gialla, che gli pareva adatta a trasformarsi in
uniforme da ufficiale della nuova Gerusalemme. Hansli
vide pure come quello, nella furia, gettava da parte un
tappeto piuttosto lungo, di bella fattura; lo prese, lo
distese e gli apparve un grazioso disegno. In un bosco,
accennato da alcuni alberelli di sorbo su sfondo azzur­
rastro, un tordo seduto su un ramo cercava di beccare
i mazzetti di bacche rosso sangue. Una volpe spiava cu­
pida l’uccellino innocente, senza accorgersi a sua volta
che alle sue spalle un giovane cacciatore tendeva l’arco
contro di lei, mentre già la Morte stava per afferrare alla
nuca il cacciatore: ma da ultimo passava per il bosco
il Salvatore, che prendeva la Morte per quel po’ di
ciuffo che le pendeva ancora dietro al teschio. Poiché
quel tappeto o arazzo non era utilizzabile per trasfor­
marsi in abito, nessuno ci badava, e Hansli Gyr, cui
URSULA 923

piacque, lo comprò e lo ripiegò con tutta cura. Vedendo


il profeta, gli era ritornata improvvisa alla memoria la
sua Ursula e si era destato intanto in lui il desiderio di
regalarle quell’arazzo per la casa, che sperava pur sem­
pre di dividere un giorno con lei; eran già quasi tre anni
da che era rimpatriato, senza però vivere nella terra
nativa da cui lo teneva lontano la pazzia della gente.
Proprio in quei giorni, in un pascolo di montagna di
sua proprietà, doveva aver luogo un’adunata di quei fana­
tici, ora apertamente divenuti anabattisti. Ursula du­
rante l’estate aveva falciato il fieno, raccogliendolo con
molta fatica in un mucchio, perché nessun altro se ne cu­
rava, ed essa, malgrado l’ottenebrazione dell’animo, in­
consciamente non poteva tralasciare di fare quanto gio­
vasse a Hansli. Suo padre invece, pur essendo il primo a
trarne vantaggio, provava un maligno compiacimento a
lasciar andare in rovina i beni di Hansli, ed inoltre lo di­
straevano spesso dal lavoro le discussioni e le pratiche del
fanatismo. Già da un anno non trovava braccianti, per­
ché ognuno voleva essergli pari e gli rifiutava obbedienza.
Ursula temeva che il gran mucchio, da lei preparato
con tanta pena sul pascolo, venisse calpestato e distrutto
dalla folla; andò quindi all’alba del giorno fissato, con la
forca ed il rastrello, per cercare di salvare il fieno, senza
parlare a nessuno del suo intento. Il pascolo era circon­
dato da tre parti dal bosco ed aperto dalla quarta, ma
visibile soltanto da lontano: soltanto con cannocchiali si
sarebbe potuto scorgere quello che vi accadeva, sempre-
ché a quei tempi ce ne fossero stati.
Mentre lavorava al sole mattutino nella solitudine dei
monti, il suo volto pallido e triste si arrossò lievemente
e si ravvivò di buon umore. Le nebbie autunnali copri­
vano le valli, ma lassù c’era caldo come in maggio o in
giugno. Si tolse quindi, affannata, la cuffia e lo scialle e
sbocciò fuori come una rosa fresca, mentre lavorava per
Hansli Gyr, e alla mano le scintillava il suo anellino
d’oro. Tutte le volte infatti che andava a letto, o che di
giorno era sola, tornava ad infilarsi l’anello. Di tanto in
tanto girava attorno gli occhi splendenti, ora verso l’o­
924 NOVELLE ZURIGHESI

rizzonte sfumato ove si allineavano, simili ad ombre az­


zurrastre, le vette alpine, ora verso i margini vicini dei
boschi che la circondavano con le loro tinte dorate e pur­
puree, misteriosi, quasi ad ogni istante ne dovesse sbucar
fuori il suo diletto.
D’un tratto un ciuffo del fogliame rossastro parve di­
ventasse vivo e si avvicinasse; era Schneck von Agasul,
che aveva trasformato la preziosa dalmatica in una spe­
cie di talare munito di maniche e se l’era infilata per pre­
sentarsi così al popolo in attesa, ed assumere un’alta
carica. Portava in testa un vecchio cappello di velluto
azzurro, di cui aveva rialzato la tesa, legandola con
cordoni d’oro e deformandola totalmente; le sue dita
erano cariche di gemme di vetro, che al sole d’ottobre
mandavano deboli riflessi, come false parole.
Con grata sorpresa scorse Ursula sola e affrettò il passo
per raggiungerla, abbagliato dalle sue grazie incustodite.
«Ti trovo al momento giusto, 0 figlioletta di Sionne!»
esclamò «È tempo che ti si faccia onore e da un pezzo
10 ti ho prescelta perché tu segga al mio fianco sul seg­
gio del tribunale e giaccia accanto a me sul letto del­
l’eterna magnificenza ! Oggi è un gran giorno, e prima che
11 sole torni ad alzarsi dovranno compiersi molte cose ! ».
Volle senz’altro attirarla a sé, ma la ragazza, strappata
ai suoi dolci sogni, si difese dall’importuno con la forca
e tanto energicamente che le punte s’impigliarono nel suo
travestimento, e, quando il profeta tentò di liberarsi, il
talare mal messo insieme andò a pezzi, lasciandolo nelle
sue vesti povere e sporche. Sentendo in quel mentre av­
vicinarsi dei passi, raccolse imprecando i suoi cenci e si
rifugiò nel bosco per coprirsi e racconciare alla meglio
il suo manto di dominatore.
Ursula, appoggiata alla propria arma, sospirando di
sollievo e ancora spaventata, lo seguì con lo sguardo,
quasi fosse un orrido fantasma venuto a destarla dal so­
gno, ma subito mandò un grido con ancor maggior spa­
vento al sentirsi afferrata da due braccia. Si voltò e vide
il campione della pacatezza, Jakob Rosenstil, di solito
assai calmo, ma in quel momento molto svelto nel cercare
URSULA 925

di cogliere un pochino di fortuna. Questi cercava di rag­


giungere con ambo le mani e con grande prontezza la
ragazza che si difendeva, il che facendo assomigliava non
poco ad un cane quando nuota; ma Ursula lo respinse
senz’altro con una sola mano, mentre osservava con nuo­
vo stupore lo strano individuo, che non aveva mai rite­
nuto così pericoloso.
— Hai ragione — disse lui ansimando — di non voler
quello là che scappa ! È troppo aspro ed impetuoso per
la tua indole dolce e mite, malgrado il forcone! Dividi
con me la calma serena dell’animo, la pace sotto i palmi-
zi; là avremo piena contentezza e sicuro riposo, sin che
verrà il Signore e dirà: «Ecco, quei due non sono stati
sciocchi, hanno già prima goduto il Paradiso ! ».
— Vattene, non ti voglio, — gridò Ursula — cono­
sco già il mio angelo e il mio signore, che debbo aspet­
tare: è agile e bello, chiaro e pulito in volto, non brutto
e sciatto come te! Puah, vattene presto, o sacco di ce­
nere ! Vattene e bada che vien gente !
In realtà già si avvicinavano alcuni gruppi di donne e
di uomini, cominciando a radunarsi. In pari tempo so­
praggiunse il vecchio Enoch, gridando: «Scappate, scap­
pate ! Il balivo di Grüningen è avviato per di qui con
le lance e le spade! Siamo traditi!».
Tutti fuggirono come il vento nei boschi; il prato ri­
mase deserto e tranquillo e soltanto Ursula ritornò poi
dall’angolo dove si era già prima ritirata inosservata
per riprendere tranquilla il proprio lavoro, giacché non
aveva messo al riparo che una metà del fieno. I suoi pen­
sieri, però, turbati dall’avventura e dalla calma succe­
dutavi, andavano lontano: senza quasi accorgersene se­
dette sul mucchio di fieno ridotto a mezzo, appoggiò la
testa sulle mani e si immerse in profonda meditazione.
Nel frattempo il balivo di Grüningen, che Enoch aveva
visto da lontano ma che nulla sapeva dell’intenzione
degli anabattisti e si recava tranquillamente a caccia
col suo seguito, aveva preso un’altra strada sparendo da
quei dintorni. Quello che aveva conferito al suo piccolo
corteo l’aspetto di una spedizione ufficiale o militare,
926 NOVELLE ZURIGHESI

era stata la casuale avanguardia di Hansli Gyr. Secondo


gli usi e le circostanze del tempo, questi andava sempre
armato e in uniforme, anche per scopi pacifici come ora,
in cerca di Ursula, con l’arazzo appena comprato. Ma
quando, trovando le case deserte, s’era avviato verso la
montagna in cerca dei loro abitatori, era potuto sem­
brare un’avanguardia in esplorazione.
Mentre dunque gli anabattisti si acquattavano nel bo­
sco, egli arrivò al suo prato, percorrendolo lentamente
dopo che per molti anni non vi aveva posto piede. “Così”
pensava tra sé “si diventa stranieri nella propria terra
e non se ne sa neppur bene il perché !”.
“Ma chi si occupa ancora del fieno?” si disse poi os­
servando il mucchio e la figura su di esso seduta, con
accanto il rastrello e la forca. S’accostò· senza rumore a
quell’inattesa apparizione e si trovò così in tutta la sua
altezza di fronte a Ursula che, ripiegata su se stessa,
aveva finito per appisolarsi. Ritto in piedi contro il sole,
la mise in ombra, così che un lieve brivido le scosse le
spalle nude. Ma soltanto quando la chiamò per nome
essa si svegliò del tutto e scorse la sua alta figura spicca­
re scura sull’orizzonte luminoso, mentre solo le spalle
rilucevano di ferro. Per quanto egli fosse bello, tutta la
sua magnificenza soldatesca impallidì di fronte alla ra­
diosa bellezza che pervase il volto della fanciulla quando
d’un tratto lo riconobbe. Una bellezza accesasi, per così
dire, in assenza del pensiero, come un raggio di sole che
passi su un’acqua immota. La povera ragazza balzò in
piedi tremante e porse sorridendo le mani all’uomo ; ma
le ginocchia le si piegarono ed essa ricadde a sedere;
si accorse però di avere il petto semiscoperto, lo riparò
con le mani ed abbassò gli occhi, arrossendo.
— Ursula, che fai qui? — disse Hans Gyr — vieni,
dammi la mano e non stare a ricoprirti con tanta paura !
— Ma no, non sta bene ! — mormorò lei — io non
sono così scostumata!
Hansli vide il fazzoletto e lo scialle a terra, andò a
prenderli e le si sedette vicino, aiutandola a rimetterseli;
poi l’abbracciò e la baciò.
URSULA 927

— E cosa fai qui sul fieno? — tornò a domandare alla


ragazza.
Essa, appoggiando il capo sul braccio di Hans, alzò lo
sguardo su di lui prima di rispondere. Poi parve ricor­
dare : i
— Già, cosa volevo fare? Pensavo al vostro fieno, come
è mio dovere, o bellissimo signor angelo Gabriele ! Non
sapete di avere quassù un pascolo che non è dei peggiori?
— Come mi chiami, Gabriele?
— Signor Gabriele, sicuro, signore, signore, signore, vi
dico, non soltanto Gabriele !
— E non conosci più Hansli Gyr?
— Hansli? E dov’è mai? Ahimè, quello l’ho proprio
dimenticato! Che tristezza il mondo! E gli ho voluto
tanto bene, ma ormai non gli giova più, e neppure a me :
ora sono la sposa di un angelico signore e di un barone
celeste, e Hansli, poveretto, rimane a bocca asciutta !
Certo che mi fa compassione, se penso alla sua disgrazia !
Baciami dunque, o signor Gabriele, ma fa’ piano, che
egli non possa udire !
Essa disse tutto questo con tanta grazia che Hansli
non potè trattenersi dal baciarla di nuovo, e così dicendo
la guardò negli occhi, studiandola profondamente. Non
si rendeva affatto conto se essa scherzasse o vaneggiasse
più che in passato. Non potè però scoprire in quegli
occhi che una insondabile intensità d’amore, di melan­
conia, di gioia e di spensieratezza che non riusciva a di­
stricare. Purtuttavia gli parve di essere là solo con se
stesso, senza una seconda persona vicina; eppure ella gli
stava tiepida fra le braccia; giocherellando poi con la
sua mano, riconobbe anche il proprio anello.
— Chi ti ha dato l’anellino? — le domandò — Forse
l’angelo Gabriele?
— Che domanda sciocca mi fai, — replicò lei — me
l’hai dato tu ! Ma cos’è quel rotolo che porti con te?
— È una stoffa ricamata che ti ho portato per la tua
casa; guarda che belle figure ci sono!
Stese il tessuto come potè perché essa non lo lasciava
libero, ma gli si stringeva addosso. La ragazza osservò
928 NOVELLE ZURIGHESI

l’arazzo senza muoversi, però con attenzione e compe­


tenza, dicendo poi meditabonda:
— È una bellissima stoffa, come mai ne ho vedute : si
capisce subito che è stata intessuta in cielo e che me l’hai
portata come una lettera. Ci si può leggere tutto il cor­
so della vita: l’uno insegue l’altro ed alla fine arriva il
Salvatore che vince la morte e ogni male.
— Sarà una bellissima coperta per la culla di casa
nostra!
— Zitto ! taci, uccello selvatico dalle ali fruscianti, dal­
le penne sonore ! Quando sarà giunto il suo tempo, ve­
drai bene a che cosa è destinato questo drappo!
Hans Gyr non resistette più a lungo a quel giuoco la
cui dolcezza era mista per lui ad amaro fiele. Non riusciva
a capire se i discorsi di Ursula facevan parte dei deliri
comuni ai suoi compagni fanatici o se la sua anima era
singolarmente e inguaribilmente malata. Balzò in piedi
di colpo, la scosse facendo tintinnare l’armatura, e con
le guance smorte le gridò :
— Vieni, Ursula, scendiamo giù alle case !
Essa gli rispose intimidita ed umile :
— Subito, o dilettissimo signor angelo Gabriele, io vi
seguirò ! Posso tornare qui più tardi a finire il lavoro.
— Lascia che l’erba secca voli dove vuole, come il no­
stro povero senno. Vieni !
Raccolse il rastrello e la forca, mentre essa piegava
senza indugio il tappeto, se lo stringeva addosso e, si­
lenziosa e rapida, scendeva al suo fiancò per la monta­
gna. Di tanto in tanto lo guardava come intimorita, ma,
poiché egli ricambiava lo sguardo con occhi pieni di
dolore e di affetto, si fece animo e, mentre il paesaggio
ed il cielo diventavano sempre più luminosi e sereni,
ritornarono anche nella povera fanciulla la confidenza ed
il senso di felicità. Essa cominciò a chiacchierare e a
raccontare l’una e l’altra cosa, rispondendo a tono alle
domande rivoltele da Hansli, suggerite dal cammino
percorso.
La sua casa chiusa e silenziosa, la prima che raggiun­
sero, somigliava alla dimora di trapassati: il terreno da­
URSULA 929

vanti alla porta era ricoperto di foglie secche, che nessu-


no toglieva; Hansli sostò con un profondo sospiro, e
Ursula allora gli sussurrò all’orecchio:
— Che cosa cerchi qui? Qui abita il mio innamorato
d’un tempo ; andiamocene subito !
— Ma è in casa e sta lì al buio?
— Sarà benissimo! Ha occhi azzurri, così chiari che
può lavorare alla loro luce anche quando sono chiuse le
imposte. Lo senti? Mi pare che stia martellando qualche
cosa ! Oh, mi vengono i brividi !
— Vogliamo vedere se c’è? — disse Hansli, avvian­
dosi alla porta. Ursula lo precedette, andando ad ori­
gliare alla serratura e sussurrò:
— Ora tutto è silenzio ! — Poi batté gentilmente con
le nocche alla porta, chiamando un po’ timida e un po’
birichina — Hänslein?
— Non c’è proprio ! — disse vivacemente, quando tut­
to rimase in silenzio e non s’udl che il gocciolio della fon­
tana che sotto gli alberi riversava incessantemente la sua
acqua nella conca, ove era andato a sedere melanconica-
mente Hansli. Egli si sentiva come diviso in due parti ed
era geloso di se stesso, non riuscendo con la sua mente
semplice a seguire i meandri del pensiero di Ursula,
ma intuendo una misteriosa sventura. In quel frangente
ricordò il Vangelo e Dio onnipotente e misericordioso, che
lo avrebbe potuto vedere ed ascoltare, e mormorò una taci­
ta preghiera per Ursula, facendola seguire dal Pater Noster.
Subito si sentì sollevato, vedendo Ursula prendere il
rastrello e spazzare energicamente il fogliame secco da­
vanti alla porta e da tutto lo spiazzo, riunendolo in un
mucchio a parte. Così facendo sembrava proprio sana e
ragionevole e, dopo aver finito, esclamò:
— Ecco, ora se arriva camminerà comodo, quel bi­
richino, e non occorrerà cantargli:

Hänslein arriva al trotto !


Ha sparato a una colomba,
ma un arbusto di finocchio
fa inciampare il suo cavallo!
93° NOVELLE ZURIGHESI

Ah, non è facile da sradicare un cosi vecchio amore ! —


proseguì pensierosa, venendo a sedere accanto a Hansli
— Anche l’infedeltà non è niente di bello, niente di buo­
no, si dica quel che si vuole . . . Ma pure io sto tanto
bene così, mi sento leggera come un uccellino nell’aria,
come la più Eeve piuma che quello ha perduto e che resta
sospesa fra cielo e terra e non sa se debba salire o posarsi !
In quel momento caddero dall’albero alcune noci.
— Andiamo ! — esclamò, e fuggì tanto in fretta che
Hansli ebbe pena a raggiungerla.
— È lui? L’hai veduto? — domandò la ragazza appena
le fu vicino.
— Chi?
— Quello che abita là !
— Dimenticalo ora, sono qui io con te !
— Già, è vero, e non mi può far nulla!
Hansli s’avviò con lei verso la casa di suo padre e vide
stupito che anche lì regnava lo stesso abbandono come
in casa sua. La madre stava sulla soglia, corrucciata,
con lo sguardo cupo e selvatico, e pareva molto invec­
chiata. Stava tagliando delle carote con un coltello, ma
aveva lasciato cadere le mani, nascondendovi piegata in
avanti la testa grigia.
— Mamma, guarda chi c’è ! Arriva lo splendore ! — le
gridò Ursula con le guance arrossate — Apri, alzati, vo­
glio entrare e preparargli una dolce pappa di miglio!
Quella vi piace, newero signor Gabriele? Pensate che,
se volete stare con noi, bisogna che vi accontentiate !
— Si affrettò ad entrare e si mise in faccende.
La vecchia aveva alzato lo sguardo stupita, e, ricono­
scendo il soldato, disse un po’ spaventata:
— Mio marito non c’è, se vuoi forse fare i conti ; e poi
ora è senza denaro ; dovrai avere pazienza: presto le cose
andranno meglio !
— Non voglio denaro e posso aspettare ! — replicò
Hansli — Ma avrei altri conti da fare e vorrei chiedervi
che cosa avete fatto della vostra figliola Ursula!
— Perché, cosa sai di lei?
— L’ho incontrata su al pascolo e sono stato con lei
URSULA 931

quasi due ore : dice che io sono l’angelo Gabriele e parla


come una pazza. Io non posso credere che si burli di
me, non è indole sua !
— Queste sono cose che a te rimangono celate e che
anche alla piccina riescono ancora oscure, ma essa ne ha
il presagio e ne è tutta presa. Accadono molte cose e si
verificherà il miracolo prima che tu te ne accorga!
— Ma esse finiranno sciaguratamente, prima che voi
ve ne accorgiate ! Temo che Enoch stia per portarvi tutti
alla rovina, con le sue astruse idee !
— Al contrario, io conto solo su di lui e mi tengo e
mi appoggio ben salda a lui e al suo spirito ! — disse la
povera donna in un tono da cui ben si intuiva che voleva
soffocare dubbi segreti a stento ricacciati quando era sola.
Con inconscia prudenza non manifestò alcuna ostilità
contro Hansli, né usò dure parole, né pensò di vietargli
ulteriori rapporti con la ragazza, benché sapesse di fare
con ciò cosa contraria alla volontà del marito.
— Non posso far altro — disse Hansli, dopo qualche
minuto di muta meditazione — che avere pazienza ed
aspettare che il tempo sciolga questo groviglio. Ma è un
peccato per questi begli anni, per la povera gioventù!
Voi vecchi avreste potuto cavarvi il gusto delle pazzie
durante la vostra primavera, se era proprio necessario;
allora i giovani potrebbero adesso godere il loro tempo !
Solo Ursula era di buon umore; preparò da mangiare
e venne poi a chiamare Hansli e la madre.
— Mangiano anche gli angeli la pappa di miglio? —
domandò il primo con melanconico sorriso, pur osser­
vandola con compiacenza mentre sfaccendava per lui.
— Mangiano almeno le frittelle e la carne di vitello; —
replicò Ursula allegramente — si sono messi a tavola in
tre dal patriarca Abramo nel boschetto di Mamre e
hanno dato fondo a tutto !
Egli si decise, col cuore serrato, a congedarsi anche
per questa volta; si alzò all’improvviso e, salutando, si
pose in cammino. Ursula lo accompagnò per un tratto,
poi lo seguì con lo sguardo finché egli non scomparve
dietro un rialzo dèi terreno; se ne tornò quindi a casa
932 NOVELLE ZURIGHESI

col volto sfiorito e pallido, quasi privato dell’anima.


“Sono pur contenta che sia stato qui, per la ragazza !”
pensava la madre “Almeno ha avuto un’ora buona e
si sarà rimessa un poco !”. Quando però vide Ursula di
ritorno, esclamò:
« In nome di Gesù Cristo ! Che faccia hai ! Come sei
ridotta ! ».
Il vecchio Enoch rientrò solo verso sera, ma non di buon
umore. Il movimento si era diffuso e assumeva vaste
proporzioni ; però era passato dalla mano dei profetucoli
di campagna in quelle dei capi più o meno conosciuti e
dotti, i quali impedivano le più grossolane pazzie, perse­
guendo mete precise. Per quanto Enoch dovunque si
facesse avanti con grida e scenate, non riusciva a portarsi
in su, anzi continuava solo ad aumentare la confusione
ed il pericolo, gli odii e le passioni.
In tutti gli assembramenti e le manifestazioni minac­
ciose egli era uno dei primi: girava vestito di sacco,
cospargendosi la testa di cenere, gridando : « Sionne !
Sionne ! Sionne ! ».
Intanto teneva però gli occhi ben aperti, spiando quali
cose avrebbe potuto desiderare ed appropriarsi dopo il ri­
volgimento generale. La massa dei fanatici, come è sem­
pre stato nell’indole di questo popolo, assomigliava invece
ad un uomo esasperato da un accanito lavoro di zappa
e di scure, dal troppo portare e trascinare, arrovellarsi
e preoccuparsi, il quale, tutto ad un tratto, si ribella, si
irrita della propria pena e della propria fatica, e getta
l’arnese, per raccoglierlo però di nuovo appena sparito
il fantasma ingannevole che l’ha allettato.
Governo e maggioranza serbavano tuttavia autorità su
tanta confusione; si ricorse di nuovo alla parola viva ed
alla Bibbia: gli anabattisti vennero invitati ad una di­
sputa pubblica, dichiarati vinti e condannati, vale a dire,
se persistevano nei loro errori, banditi, perseguitati e
puniti nella vita e nella libertà.
Enoch Schnurrenberg era fra quelli che non volevano
assoggettarsi o che erano di continuo recidivi ; ora si dava
alla fuga, nascondendosi nei distretti vicini, ora ritornava
URSULA 933

di nascosto, cercando di provocare nuove riunioni o di


parteciparvi. Durante quei viaggi si appropriava di sem­
pre nuovi atteggiamenti ed istrionerie; sapeva, per esem­
pio, mangiare il fuoco, parlare con Dio attraverso il
tetto, morire e risuscitare tutte le volte che gli piacesse,
benché tali giuochi col passar degli anni gli diventassero
sempre più disagevoli, specialmente quello del morire,
nel quale gli toccava gettarsi violentemente a terra e ca­
dere in convulsioni.
Un giorno, però, mentre in un bosco partecipava a
cerimonie battesimali, venne catturato insieme alla mo­
glie e alla figlia, che egli sciaguratamente si trascinava
dietro, e fu portato a Zurigo con tutto un gruppo di fana­
tici. Eran circa venti persone e furono prima alloggiate
all’ospedale, poi portate sulla piazza davanti al munici­
pio ed infine allogate in un’alta torre lungo le mura
orientali della città, che da allora ebbe il nome di « torre
degli eretici», dove, giacendo sulla paglia e con cibi
ridottissimi, avrebbero dovuto languire, sino a che non si
decidessero all’abiura. Nel piccolo corteo figuravano an­
che Schneck von Agasul e il pacifico Rosenstil, che si era
appiccicato una volta per sempre a quel gruppo, perché,
con la sua impassibilità, evitava così di provvedere al
proprio alloggio. Procedeva primo, in atteggiamento da
dominatore, Enoch, e ultime venivano alcune donne.
Ursula sorreggeva sua madre e portava un fagotto con
poche vesti per lei e per sé, ravvolte nell’arazzo di Hansli
Gyr. Si guardava attorno con occhi intimiditi ed ansiosi,
ma quando il popolo, lungo la via, osservò il corteo con
disapprovazione e dispregio, essa non osò più alzare lo
sguardo, mentre gli uomini prepotentemente cantavano
e gridavano: «Viva Gerusalemme! Viva Sionne!».
Anche Hansli Gyr era per la strada a guardare ; il cuore
gli batteva da far pietà, ma non si mosse. Così come sa­
peva vivere soltanto nella ragione, nell’ordine e nell’aria
pura, così anche la rispettabilità civile gli era indispensa­
bile per respirare. Ora però che quei fanatici, per il mu­
tamento degli avvenimenti, si presentavano come delin­
quenti e condannati e sfilavano in buona parte disono-
934 NOVELLE ZURIGHESI

rati, i suoi pensieri si staccarono con lotta dolorosa dal


suo affetto e da Ursula, ed egli la lasciò passare senza
farsi vedere.
I prigionieri giunsero alla torre e nel silenzio della notte
cominciarono a fare un chiasso inaudito di grida e di
canti, che talvolta degeneravano in urla ed in orrende
maledizioni e imprecazioni, con parole di angoscia e dolo­
re, di tuoni e lampi, di morte e diavoli, di giudizio e di ro­
vina, ritornando poi d’un tratto ad un canto di vittoria.
A questo Hansli non resistette più a lungo: decise di
strappare Ursula dalla torre, se appena fosse possibile,
ed aspettò alcuni giorni l’occasione. L’ingresso alla torre
si trovava entro una rozza baracca di legno appoggiata
ad essa, e non era sorvegliato, perché il capoguardiano,
che se ne stava nella cameretta più alta sotto il tetto,
toglieva dall’interno la chiave e la portava con sé, mentre
gli anabattisti erano custoditi pressappoco al centro della
torre. Non vi erano serrature particolari, giacché quell’e­
dificio in origine non era destinato a prigione.
In una notte buia, Hansli prese gli strumenti necessari
ed anche un lanternino e si recò sul posto. Apri con faci­
lità un paio di porte e sali per le ripide scale, dopo aver
acceso il lume. Per caso i prigionieri giacevano a un piano
che era chiuso soltanto da un cancelletto di legno. Quella
notte gli anabattisti dormivano o almeno erano tranquilli.
Uomini e donne giacevano alla rinfusa, pallidi e sudici;
Hansli ne illuminò tutte le facce senza però trovare Ur­
sula. Alla fine la scorse staccata dagli altri in un angolo,
buttata su un mucchio di paglia, sulla quale aveva di­
steso l’arazzo con la Morte e il Salvatore. Dormiva il
sonno profondo di chi, dopo una lunga veglia, ha trovato
un’ora di pace. Per evitare ogni rumore, egli non la
chiamò, ma le sfiorò il mento, e, poiché essa non si de­
stava, le prese la mano, ove alla pallida luce della lanter­
na splendeva il suo anellino. Colpito da quella vista,
esitò un attimo, domandandosi se non dovesse sfilarglielo
dal dito e prenderselo, ma in quel momento Ursula aprì
gli occhi stanchi e, dalla loro espressione indescrivibile,
egli fu trattenuto da quel malo proposito.
URSULA 935

Ella, come immersa in un sogno, si alzò senz’altro in


silenzio, raccolse il tappeto e, tenuta per la mano dal suo
salvatore, lasciò quell’orribile luogo con il passo sicuro di
ima sonnambula; ma davanti e dietro di loro striscia­
rono, taciti al pari di grigie larve notturne, gli altri pri­
gionieri ormai desti, che scesero insieme le lunghe scale,
fuggendo. Scivolarono lungo le mura di cinta come un
velo di nebbia portato dal vento notturno e uscirono dal­
la non lontana porta della Corona, che in tempo di pace
era sempre aperta, scomparendo nella notte. Anche Ur­
sula era sfuggita di mano a Hansli Gyr, senza che egli
sapesse come; essa riprese coscienza solo allo spuntar
del giorno e fu comprensibile che i fuggiaschi, dietro le
sue parole, credessero ad un miracolo e diffondessero
per la campagna la novella che l’angelo del Signore li
aveva guidati fuori dal carcere. Due o tre di loro furono
di nuovo recidivi, vennero imprigionati e condannati a
morte; Enoch Schnurrenberg pellegrinò coi suoi nella
regione di San Gallo e ritornò più tardi al suo paese,
dove si tenne tranquillo e fu lasciato in pace.
Hansli Gyr, che era rimasto solo sulla soglia della pri­
gione vuota, aveva rinchiuso alla meglio le porte, spento
la lanterna, e se n’era andato in silenzio. Lo sguardo a lui
rivolto da Ursula nel destarsi, e proprio mentre egli stava
chiedendo a se stesso se dovesse toglierle l’anello, aveva
fatto tanta impressione su di lui che visse molte giornate
di amaro rimorso. Poteva ben credere che Ursula gli
fosse sfuggita di proposito, mentre egli aveva sperato di
tenerla in città, affidandola a buone cure, però d’altra
parte era tentato di attribuire la sparizione a forze male­
fiche, soprattutto considerando come anche la vecchia
madre era riuscita a scappare con rapidità da strega. Il
giovane in realtà non aveva e non poteva avere cogni­
zioni degli effetti di stati d’animo simili a quelli in cui si
trovavano i fuggiaschi.
Le notizie sulle azioni degli anabattisti nei luoghi do­
ve erano andati a rifugiarsi, e sulle loro orrende follie,
erano tanto ripugnanti che Hansli perdette la speranza
in una svolta felice degli eventi e approfittò di un’occa­
93θ NOVELLE ZURIGHESI

sione offertasi per liberarsi del suo modesto podere sul


monte Bachtel.
Detratti i gravami, ne ebbe un modico guadagno, con
il quale però rimase per così dire staccato dalla sua
terra nativa.

Non vide e non seppe quindi nulla per molto tempo


di quegli strani vicini e li dimenticò quasi in mezzo a tutti
gli eventi di cui, pur nella sua modesta posizione, fu testi­
monio e zelante collaboratore. L’opera di Zwingli e dei
suoi amici si era diffusa nel frattempo in tutta la Svizzera
aperta, venendo a contatto con la Riforma tedesca; vi ave­
va aderito la potente Berna, recandovi un diverso tempe­
ramento ed un’altra concezione politica; si aggiunsero
molteplici esponenti, contrasti ed esigenze nuove, così che
venne a muoversi una notevole massa di uomini, ora
spingendosi innanzi, ora più prudentemente trattenen­
dosi, mentre altre parti ondeggiavano e cercavano di far
opera di mediazione. Tutto questo fluiva e premeva at­
torno al nocciolo saldo dei Cantoni cattolici, che immu­
tabili, astuti e decisi, resistevano come un’isola all’inon­
dazione, contando sulla loro forza antica e infiammati
dalle potenze del passato predominanti in altri paesi.
La navicella degli Zurighesi con Zwingli come pilota
procedeva senza sosta su queste acque tempestose. Con
perfetto candore, con piena fiducia nell’immediata e per­
sonale provvidenza di Dio, e con pari vigilanza e cogni­
zione delle cose e degli uomini, Zwingli lottava instanca­
bilmente contro la perfidia e la violenza del mondo av­
versario ; egli era l’anima del Consiglio pubblico e segre­
to, era maestro, predicatore, uomo di stato, diplomatico,
e redigeva con la stessa penna trattati teologici, norme di
costume, scritti politici e piani di guerra.
La questione era infatti giunta ad una crisi bellica;
il riformatore viveva nella sacra fede che bastasse co­
stringere questo mondo dell’opposizione ad ascoltare la
parola di Dio, perché esso si arrendesse. Invece dei trat­
tati di diritto internazionale, teneva in mano soltanto il
Vangelo, il che era insopportabile ai suoi avversari, né
URSULA 937

egli sapeva ehe un popolo può respingere un mutamento


di religione o, di regime per lo stesso motivo per cui
una donna respinge definitivamente un innamorato.
Ora però governo e popolo sorreggevano incrollabil­
mente il Maestro, nel che l’armonia e il buon accordo
erano anche frutto di continue relazioni ed inchieste
presso i comuni. Anche a Hans Gyr, il quale poteva
rappresentare un’incarnazione dello spirito popolare di
quel tempo, tali cose erano ben chiare e, quando fu il
momento di prendere le armi, lo si potè impiegare per
un’utile attività.
I due accampamenti nella prima guerra di Kappel
stavano l’uno di fronte all’altro al di là dei monti di
Albis, in modo però che i cattolici non erano sufficiente­
mente numerosi e preparati, mentre gli Zurighesi erano
in vantaggio, tanto per potenza militare che per situa­
zione politica. I loro alleati erano in gran parte già con
loro in campo, mentre il re Ferdinando d’Austria, col
quale i cinque paesi cattolici avevano stretto alleanza,
non pareva voler accorrere in loro aiuto.
Dato che i cinque Cantoni in simili condizioni erano
piuttosto sgomenti ed avevano con sé buon numero di
mediatori e di arbitri, si venne a quella pace che doveva
essere di breve durata, ma che privò gli Zurighesi e l’im­
presa da questi guidata del loro vantaggio. Il campo zu­
righese intanto, durante il periodo delle trattative, offri
l’aspetto inusitato di un accampamento di guerra pro­
testante, quale più tardi si ripetè soltanto col re di Svezia,
o con i puritani inglesi, ed in quel campo modello Hansli
Gyr fu un vero, esemplare soldato.
II tamburo chiamava ogni giorno alla predica e alla
preghiera, tutti avevano da mangiare e da bere bene,
ma non si tollerava ubriachezza né bestemmia o discorsi
depravati. A nessuno era lecito far danno ad una pianta
nei campi o strappare un palo da un recinto, ed era co­
mune a tutti un contegno cortese fra i soldati stessi e verso
gli estranei, persino verso i nemici in campo. I giovani
passavano il loro tempo cantando liete canzoni o dan­
dosi ad esercizi vantaggiosi al corpo, come lancio di pie­
938 NOVELLE ZURIGHESI

tre o salto in lunghezza. Tutte le donne di mala vita del


paese venivano allontanate non appena comparissero.
Hansli Gyr era uno dei più ferventi nell’osservare quel­
l’ordine. Per un giovane soldato (è vero che fra breve
non sarebbe stato più tanto giovane) pregava forse troppo
volentieri e a voce troppo alta, con un volto troppo so­
lenne, quasi stesse ad ascoltarsi soddisfatto, il che non
succedeva ancora, ma avrebbe potuto verificarsi se le
cose fossero continuate a lungo così. Comunque provava
una certa compiacenza a parlare, mentre prima era sem­
pre stato di poche parole. Ma ciò proveniva dai tempi e
dall’appassionata partecipazione dei singoli alle vicende
comuni.
Se appena scorgeva da lontano un soldato discorrere o
scherzare con una contadinella, mandava subito una
guardia a vedere che cosa succedesse, e se mai una don­
naccia dalle gonnelle corte si lasciava vedere, avrebbe
voluto addirittura puntarle contro Mercurio e Venere,
due cannoni zurighesi da campo, ed essa faceva bene a
ritornare in fretta nei campi dei cattolici, di dove era
venuta. Là, infatti, c’erano donne in abbondanza, giuo­
chi di carte e di dadi, benché fossero cari i cibi e le be­
vande.
Dopo che i mediatori e gli arbitri presenti ebbero
portato gli umori al punto da potersi trattare una pace,
fu deciso che essa venisse proposta alle comunità schierate
in campo : per primo fu l’esercito zurighese a disporsi in
campo aperto in un ampio cerchio attorno ad un alto
palco su cui era stato eretto il gonfalone, circondato dalle
altre bandiere, secondo il motto: «Dov’è il gonfalone,
ivi è Zurigo». Vi stavano accanto i capitani coi porta-
bandiere, mentre i capisquadra eran sullo spiazzo libero
insieme ai loro uomini e fra essi Hansli Gyr. Questi
avevano l’incarico di ascoltare attentamente i discorsi, e
Hansli infatti se ne stette lì serio e muto come una statua
appena i trenta rappresentanti dell’esercito cattolico, in­
trodotti da un trombettiere, apparvero a cavallo e si
fermarono davanti alla tribuna.
Salirono primi gli arbitri, esortando alla pace, dopo di
URSULA 939

che i cattolici, fatti scendere da cavallo i propri oratori,


li mandarono sulla tribuna ad esporre le loro proteste,
dopo di che essi partirono ed i capi zurighesi, con alla
testa Zwingli, si fecero avanti per discutere e consultarsi
circa quanto avevano udito.
Dopo due giorni i deputati della Riforma, una sessan­
tina d’uomini, si recarono a cavallo nel campo dei cin­
que Cantoni coi risultati di quel consulto. Ivi trovarono
l’esercito radunato allo stesso modo e toccò agli Zuri­
ghesi sfoggiare la propria eloquenza di fronte ai cat­
tolici.
Purtroppo in questo punto stavano male. Il riforma­
tore stesso, dato l’odio che regnava contro di lui, non
avrebbe mai potuto presenziare ; i primi capitani d’altra
parte non avevano mai simpatizzato per la Riforma ed
erano troppo favorevoli alla pace, così che non si sperava
grande efficacia dall’opera loro. Non c’era quindi altra
scelta che far parlare un avvocato di professione ; il quale
assolse il suo compito solo mediocremente di fronte al­
l’attento esercito cattolico dei Cantoni, già avvezzo a
simili adunate.
Regnava un’atmosfera di freddezza e di sottile inquie­
tudine durante tutta la scena, quando Hansli Gyr si
fece a fianco di quei signori e prese la parola, parlando
col proprio sentimento di popolano a quello dei suoi
avversari, come meglio non avrebbe potuto deside­
rare il Maestro Zwingli. Con disinvoltura e chiarezza
espose loro ciò che avevano in cuore i riformati e come si
fossero messi per quella via, quel che ritenevano giu­
sto ed equo, e la loro fedeltà ai capi fino alla morte,
senza che peraltro fossero contrari ad una giusta pace,
che anzi aspiravano con gioia a ritornare insieme ai loro
antichi confederati, appena questi ne offrissero la possi­
bilità con articoli di pace giusti e necessari.
A lui tennero dietro senza esitare altri combattenti
delle comunità zurighesi, difendendo con energici di­
scorsi la causa propria e dei propri signori. L’esercito
cattolico da questo atteggiamento trasse il convincimento
che la popolazione riformata fosse concorde e conoscesse
94° NOVELLE ZURIGHESI

bene la sua meta, tanto che, allorquando l’adunata si


sciolse, tutti andarono a casa meditabondi per le cose
udite.
Gli arbitri, cittadini di Strasburgo, di Costanza, di
Basilea, di Berna e così via, preoccupati di impedire la
guerra e la scissione manifesta della Confederazione, si
allogarono fra i due accampamenti nel villaggio di Stein-
hausen, dove ridussero o ampliarono gli articoli del pat­
to, che poi, presentati alle due parti dopo nuove con­
sultazioni e nuovi indugi, finirono per essere accolti.
Nessuna delle due parti era veramente soddisfatta : co­
munque, qualche cosa di importante era stato raggiunto
da parte dei protestanti, e cioè i cinque Cantoni rinun­
ciavano all’Unione Ferdinandea e consegnavano la let­
tera di alleanza. Il podestà di Glarona, che con le lagrime
agli occhi aveva prima impedito i fatti d’arme e reso poi
possibili le trattative, lacerò col suo pugnale la perga­
mena in faccia al popolo radunato, con quel compiaci­
mento che i pacieri ben intenzionati ma non lungimiranti
provano in simili momenti.
L’esercito dei cinque Cantoni ritornò scontento e de­
presso sulle sue montagne; gli Zurighesi tornarono nelle
loro città quasi da vincitori, con le bandiere al vento e a
suon di musica.
L’interpretazione e l’applicazione del trattato di pace
suscitarono ben presto nuove difficoltà e turbamenti di
ogni genere, per quanto l’istrumento, sia pure nato sul
campo di battaglia, fosse stato redatto con buoni intenti
e con abilità dal punto di vista giuridico e federale.
Quando infatti due epoche diverse vengono a confluire
e sulle loro acque burrascose passa il vento delle passioni,
pure ed impure, i giuristi sono ben deboli custodi degli
argini. Quale sintomo di nuovo peggioramento, si mani­
festò la risorgente tendenza bellicosa dei cinque Cantoni
a riprendere i legami con l’austriaco, e la sempre vigile
volontà del fratello di Carlo V di scindere gli Svizzeri
con i suoi astuti influssi, senza peraltro arrischiare nep­
pure un uomo. Simile perfidia determinò la cosiddetta
guerra di Musso, per la quale Hansli Gyr tornò a com-
URSULA 94I

battere. Il famigerato condottiero Giacomo Medici, crea­


to da Carlo V margravio e castellano di Musso, una for­
tezza sul lago di Como, invase la valle di Chiavenna e la
Valtellina, appartenenti ai Grigioni, dopo aver già osato
altre aggressioni del genere ed aver fatto assalire e rapire
ambasciatori inviati dalla Confederazione a Milano. Il
suo parente Marco Sittico di Hohenems pareva volesse
accorrere in suo aiuto con forze austriache, e il piano
riuscì in quanto almeno fu richiamata l’attenzione degli
stessi evangelici su questo punto. Zurigo esortò Berna e
gli altri ad aiutare i Grigioni e portò forze sufficienti sul
posto, cacciò gli intrusi dal paese, ottenendo dal governo
di Innsbruck scuse cortesi per lo spiacevole incidente ed
affidando, d’accordo coi Grigioni, la prosecuzione della
guerra contro il castellano di Musso al duca di Milano,
cedendogli poi le terre conquistate appartenenti a quello.
Circa duemila uomini rimasero all’assedio del castello,
alla cui distruzione volevano provvedere gli Svizzeri
stessi. Quelle truppe vennero poste al comando del signor
Stephan Zeller di Zurigo, il quale indusse Hansli Gyr
a rimanere con lui invece di rimpatriare con gli altri.
Detto Stephan Zeller era un uomo zelante e pio,
campione della Riforma, che intendeva introdurre fra
quelle truppe il buon ordine del campo di Kappel,
avendo con suo dolore dovuto constatare che nella pre­
sente campagna militare poco era rimasto di quella di­
sciplina cristiana, in parte perché vi partecipavano mol­
ti combattenti dell’antica osservanza, in parte perché
si era fuor di patria e si trattava di battere un nemico
straniero. Invece delle pie canzoncine redatte e musicate
da Zwingli nel suo vecchio dialetto di Toggenburg, i lanzi
cantavano «Su la sottana, Margheritina ! », oppure «Co­
raggio compagni, andiamocene ! » facendo seguire spesso
alle parole i fatti, il che per nulla piaceva al degno capi­
tano. Questi volle tener presso di sé Hansli appunto quale
appoggio e strumento contro l’imbarbarimento dei co­
stumi, quasi come soldato modello. Egli corrispose con
grande zelo all’aspettativa di lui : cercava con immutabile
serietà di mantenere l’ordine e la disciplina, dava esem­
942 NOVELLE ZURIGHESI

pio di Sobrietà e di buon costume ed aiutava il capitano,


che giorno e notte in persona vigilava pattuglie e sen­
tinelle.
Il tiranno assediato era ben fornito di armi e di gente
e in un nido ben saldo; per quanto violentemente lo
bombardassero gli Svizzeri, con l’aiuto di un loro ottimo
cannoniere mandato alla città di Zurigo dal langravio
Filippo d’Assia, esso ricambiava con abbondanza il fuoco
ed occorreva molta prudenza per evitare i danni nelle
posizioni aperte.
Nel frattempo però i lanzichenecchi, aizzati da vecchi
mercenari, si irritavano della disciplina troppo rigida lo­
ro imposta e giocavano ovunque, appena lo potevano,
brutti tiri al capitano. Ben presto la situazione degenerò
in veri atti ostili e in denunce che alcuni seppero far per­
venire a Zurigo, così che di là ne fu chiesta relazione,
con nuova ira ed offesa da parte del capitano.
Il malumore di molti fra quei cattivi soldati si rivolse
naturalmente anche contro Hansli, fedele al suo capitano
e chiamato dai soldati «il virtuoso sagrestano da campo» :
dove gli potevano tendere una trappola, ci rinunciavano
malvolentieri. Egli sopportava tali ingiustizie non senza
una sfumatura di compiacente orgoglio, continuando so­
lennemente per la sua via, sempre più incorruttibile.
In una bella giornata di settembre, mentre l’artiglie­
ria dava tregua, egli superò i confini del campo, passeg­
giando sotto il cielo paradisiaco che si stende sull’azzurro
lago di Como. Giunse finalmente ad una casa dove un
oste milanese, approfittando della guerra e della presen­
za di tanta soldatesca, s’era stabilito, per vendere, oltre al
buon vino, articoli di genere vario ricercati da soldati in
campo. Un paio di nipotine di bell’aspetto lo aiutavano
negli affari e costituivano per i soldati milanesi e svizzeri
un’attrattiva non meno forte del vino.
Anche quel giorno dieci o dodici confederati baldan­
zosi sedevano e trincavano sotto un portico di pietra, a
cui si giungeva per una lunga scalinata mezzo distrutta.
— Guarda che arriva il sagrestano virtuoso ! — disse
uno, vedendo passare in basso Hansli.
URSULA 943

— Chiamalo su ! — gridò un altro — lo vogliamo met­


tere in conserva!
Subito il primo gridò a Hansli:
— Caposquadra, qui ci sono dei buoni compagni e del
buon vino, accettane un sorso !
Hansli Gyr pensò che forse unendosi a loro per un’o-
retta avrebbe potuto favorirne il tempestivo ritorno al
campo, quindi salì nel regno dell’allegria e si accomodò
fra i bevitori. Il vino scuro era così frizzante e buono da
scaldare il suo cuore intirizzito e Hansli cedette ai brim
disi dei compagni più di quanto gli giovasse, mentre la
bellezza del tempo e l’allegria in apparenza innocente
della brigata affermavano i loro diritti, scacciando dalla
sua testa ogni triste pensiero. Solo le belle ragazze ser­
venti gli davano qualche sospetto, ma non le degnò di
uno sguardo e si contenne come chi a certe cose è del
tutto estraneo.
Ma ecco che d’un tratto apparve, recando una brocca
di vino da lui stesso offerta ai compagni, la donna più
bella che avesse mai veduto, alta, fine, con le trecce scure
e gli occhi ancor più scuri, riccamente vestita di seta
verde, con il petto e le braccia ravvolte in mussola bian­
ca a pieghe. «Questa è la bella Freschina di Bergamo!»
mormorarono i soldati (cioè una Francesca o Franceschi-
na) ; ma Hansli non li udì, costretto a guardare la crea­
tura eccezionale, che si muoveva non certo sfacciatamen­
te, ma con sorridente sicurezza, e che senz’altro gli si
sedette accanto appena egli trasse il borsellino ben gonfio
solo per indugiare qualche momento con lei, giacché le
parole gli vennero meno, malgrado il vino l’avesse già
reso, senza che lui se ne accorgesse, di un insolito buo­
numore. Non poteva staccare lo sguardo dal volto di
nobile forma, dall’agile figura, dall’ampio petto, dalla ro­
busta persona che sembrava destinata piuttosto ad un
principe che a poveri lanzi : per quante belle donne aves­
se già veduto in Italia, non gliene era mai capitata sotto
gli occhi una simile.
Spesso ella si alzava e s’allontanava, ma per tornare
sempre a lui, evitando, pur senza scortesia, ogni dime­
944 NOVELLE ZURIGHESI

stichezza coi soldati. L’austero Caposquadra non vide e


non udì altro che quella bella donna, la quale chiacchie­
rava con lui con calma confidenza, fissandolo negli occhi
non come farebbe una donna equivoca, ma una bella e
buona amica, informandosi del suo paese, delle sue vi­
cende, dei suoi casi e dei suoi gusti.
Scese la sera, venne la notte, le stelle scintillarono in
cielo e sullo specchio del lago e Hansli non s’accorse che
l’uno dopo l’altro i compagni se l’erano svignata, che
era sparito persino l’oste coi suoi uomini, sinché la bella
Freschina non gli disse con la sua voce armoniosa:
«Qui fa ora troppo freddo, bisognerà entrare, se vo­
lete berne ancora un bicchiere ! ».
Entrarono nella stanza attigua, anch’essa vuota e si­
lenziosa, debolmente illuminata da una lampada ap­
pesa al soffitto. Egli era ormai innamorato cotto, il cuore
gli batteva con un’improvvisa pienezza di vita, ridestan­
dosi dopo lungo sonno e, poiché il vino bevuto in abbon­
danza gli aveva annebbiato la ragione, ma tuttavia si
serbava un uomo onesto, quando essa, seria e silenziosa,
fu tra le sue braccia, sorse in lui il progetto di portare
con sé e di sposare quella meravigliosa creatura che gli
pareva rappresentare la felicità e valere un gran tesoro,
sempre, si capisce, se lei lo avesse voluto. Questo però
non gli pareva affatto sicuro, ma d’altra parte meritava
il tentativo di salvare l’anima di quel corpo mirabile,
strappandola al papismo.
Mentre agitava nella sua testa infiammata simili pen­
sieri, giocherellava con la candida mano della donna e
le sfilò l’anello d’oro che portava al dito. S’accorse di
colpo che esso assomigliava esattamente a quello da lui
donato un giorno ad Ursula; doveva essere suo fratello
gemello, lavorato dallo stesso orefice.
Hansli sbiancò, giacché si presentò alla sua mente
la pallida e cara immagine della povera Ursula e gettò
un riflesso sul suo volto.
— Che anello è mai? — domandò con voce soffocata.
— È l’anello del mio innamorato, che mi sposerà ! —
rispose tranquillamente la bella Freschina.
URSULA 945

— Dove sta e cosa fa?


— Veramente è oste e fornaio, ma in questi ultimi
anni è diventato un bandito, perché gli andava male.
Ora è dovuto fuggire a Napoli, perché ha ammazzato
un conte per incarico di un grande signore ed è stato sco­
perto. Appena avrò guadagnato i soldi sufficienti, lo rag­
giungerò, ed allora insieme apriremo in un paese meri­
dionale una locanda con forno. Fra poco andrò a Roma
da una mia sorella che vive presso un cardinale.
— E tu vuoi davvero tenerti legata ad un fidanzato
che è un assassino ed un delinquente?
— E perché no? Non è uno scellerato, ma un povero
disgraziato che ha bisogno di qualcuno che l’aiuti; noi
ci siamo promessi fin da bambini e non ci divideremo !
“Ecco che questa anima perduta serba fedeltà a un
bandito e non lo lascia,” pensò tra sé Hansli “mentre tu,
disgraziato, hai abbandonato l’anima innocente di Ur­
sula e la volevi ora tradire !”.
Erano spariti i fumi del vino; la fronte gli si imperlò
di sudore, si staccò da quella strana donna, sentendo ri­
brezzo di fronte a queirimpassibile miscela di tranquillo
senso pratico, di basso opportunismo, di amore, di coe­
renza e d’impudenza che si rivelava in così nobile aspetto.
— Buona notte ! — disse — fatemi luce un momento !
— Dove volete andare? — replicò lei stupita ma calma
— passate per la cucina e raggiungerete la strada mi­
gliore.
Egli però non l’ascoltava, passò per il portico da cui
era venuto, cominciò a scendere al buio la scala perico­
losa, giacché la bella, invece di fargli lume, gli aveva
sbattuto in silenzio la porta alle spalle. Ben presto fece
uno scivolone sui gradini sbrecciati e precipitò in un fitto
cespuglio d’alloro che per fortuna lo salvò da maggiori
danni; ebbe però una certa pena a rimettersi in piedi
e a raggiungere il suo quartiere.
“È possibile? È possibile?” ripeteva tra sé, senza ren­
dersi conto nel suo turbamento se alludesse a se stesso o
alla bella Freschina, giacché era bensì più alto e più
saldo della bella donna, ma tuttavia era caduto.
94θ NOVELLE ZURIGHESI

L’indomani mostrò un volto rabbuiato incontrando i


compagni della vigilia che lo guardavano ammiccando
e lo inseguivano con allusioni a mezza voce.
— Avete ragione, eppure avete torto, — disse vol­
gendosi a loro — mi avete ad ogni modo fatto più bene
che male!
• — Ma era quello il nostro fine, signor caposquadra! —
gridarono quelli con una risata — chi vi augurava qual­
che cosa di male? Oggi poi avete tempo per ripigliare
e proseguire le vostre opere di virtù !
Un messaggio ed un incarico col quale fu inaspettata­
mente mandato a Zurigo dai suoi superiori non gli tor­
nò discaro, e si pose subito in cammino.
In patria riprendeva la guerra interna e ci si avviava
a quella soluzione che con l’infelice battaglia di Kappel
tornò a sfavore di Zurigo, fermando la Riforma al pun­
to in cui era giunta.
La città di Zurigo era in quel momento ben popolata
di eruditi e di teologi, pervasa di uno spirito di saggezza
e di superiorità; ognuno aveva in mano la Sacra Scrit­
tura ed i trattati, e la generale sapienza offendeva ed
irritava non soltanto gli avversari cattolici, ma anche gli
amici. La forte Berna, dove la saggezza politica laica pre­
valeva su quella ecclesiastica, trovava cosi sgradevole quel
tono di pedantesca tutela, che, allorché Zurigo col suo
zelo si mise in una situazione pericolosa per violente in­
frazioni giuridiche ed atti arbitrari, un reggente bernese
fece comprendere a quello zurighese venuto a chiedere
appoggio e intervento, che certo i seguaci di Zwingli
avrebbero saputo cavarsela da soli, dato che erano tutti
cosi saggi.

Enoch Schnurrenberg negli ultimi tempi era ritornato


a casa con i suoi, dopo che nella regione limitrofa la fac­
cenda era stata spazzata via per le eccessive follie. Qui
i fanatici erano da un pezzo ridotti al silenzio, le loro
storie mezzo dimenticate, i capi o morti o banditi o
imprigionati.
Soltanto Enoch non si rassegnava del tutto alla calma;
URSULA 947

quanto meno gli badavano e l’osservavano, tanto meno


lo lasciava la smania di dare spettacolo e di trovare un
nuovo aspetto in cui attendere la giusta ora e il Regno
Millenario, nel quale egli avrebbe dovuto diventare sen­
z’altro presidente o quanto meno esattore.
Da ultimo soleva spiegare alla lettera e attuare il mot­
to: «Chi si farà piccolo come questo bimbo sarà il più
grande nel regno dei cieli!». Così,un mattino del mese di
ottobre del 1531, invece di accudire al lavoro, se ne
stava, con il gruppetto rimastogli fedele e che in segreto
lo seguiva, nel suo podere, intento a fare il bambino.
Era ormai un vecchio curvo e macilento, con lunga barba
bianca che gli scendeva fin quasi all’ombelico. Con le
gambe nude e con indosso una vecchia sottana rossa,
che voleva sembrare un gonnellino di bimba, stava ac­
coccolato in terra, intento a costruire con listelli di legno
un carrettino che poi caricava di crusca, farfugliando
con voce infantile: «Lo, lo, lo! Da, da, da!» il che,
per l’asma, gli faceva fatica. Schneck von Agasul si era
costruito con dei pali una specie di girello, nel quale
ballonzolava con un succhione in bocca. Ogni tanto se lo
toglieva gridando: «Schneck mi chiamo, sono una lu­
maca, ma raggiungo egualmente la velocità del Signore
che cavalca col vento !». Wirtz von Gossau aveva legato
una corda ai piedi di una stufa e le menava frustate con
un frustino da bimbo, ora accoccolato a terra, ora seduto
su di essa, come a cavallo. La parte migliore se l’era scelta
Jakob Rosenstil che, seduto in un angolo su di un sacco
di paglia, si fingeva un bimbo in culla, tentando di
portare il pollice del piede destro alla bocca, il che però,
data la sua corporatura, non gli riusciva. Alcune donne
forestiere si trascinavano dietro per la stanza pigne legate
a cordicelle, non avendo saputo trovare altri giuochi o
avendo appreso quelli dai loro bambini.
Di tanto in tanto tutti quei vecchietti formavano cer­
chio e ballavano il girotondo, cantando canzoncine pue­
rili, battendo le mani e saltellando.
La vecchia moglie di Enoch se ne stava in cucina ac­
canto al focolare, tenendo in braccio un bambolotto fatto
948 NOVELLE ZURIGHESI

di stracci, e aveva fissato alla meglio sui suoi capelli grigi,


in modo però che le cadeva storta sull’orecchio sinistro,
la cuffietta azzurra con cui un giorno era stata battez­
zata sua figlia Ursula. Questo faceva un effetto terribile,
data l’espressione di sconsolato dolore dominante sul suo
volto rugoso, giacché essa cominciava a persuadersi che
non avrebbe mai più goduto i vantaggi dell’ingegno di
suo marito e che neppur lui avrebbe assistito alla pro­
pria vittoria. Preparava una pappa d’avena per tutta la
compagnia. Ursula sedeva sola davanti alla casa, sotto
gli aceri, le cui belle foglie puntute, dai colori autunnali,
stendevano su di lei un cielo dorato intessuto di aria az­
zurra. Lei però non aveva un aspetto né luminoso né
azzurro, ma era fosca e triste, vestita da capo a piedi di
vecchi cenci grigi e bruni chissà dove raccolti; i piedi
erano calzati di grosse scarpe da contadina e accanto a
lei, sulla panca, vi era un fagottino ben legato ad un
bastone; ella infatti da settimane andava dicendo che
sarebbe partita con l’angelo Gabriele, appena questi fos­
se guarito. Credeva di tenere in braccio l’angelo Gabriele:
una statuetta di legno di san Sebastiano, alta circa un
piede e mezzo, che il padre un giorno aveva strappato
da un altare nel saccheggio d’una cappella portando­
la a casa per giocarci. Ma Ursula l’aveva presa e na­
scosta, sembrandole che assomigliasse a Hansli Gyr, o
meglio all’angelo dai capelli biondi e dagli occhi azzurri.
La statuetta conservava ancora i colori ed essa aveva
tolto le frecce infitte nel corpo del santo e ne medicava
ogni giorno le ferite dipinte in rosso, con bianche stri­
scioline di tela, e fasciava poi con grande amore il suo
piccolo Gabriele, dopo aver ogni volta invano cercato
di sciogliergli le manine legate sul dorso.
Contemplava il suo sposo angelico solo quando si ri­
teneva indisturbata, e in quel momento appunto stava
ravvolgendolo in fasce e pannolini, girando la figurina
con grande sveltezza.
Nella casa continuavano a giocare a modo loro. Di
tanto in tanto uno teneva una breve predica in tono
bambinesco; poi mangiavano quello che si erano in qual­
URSULA 949

che modo procurato, bisticciandosi come bambini per i


bocconi migliori. Ursula invece venne a prendersi un po’
di cibo e si ritirò poi col suo tesoro fasciato. Quando scese
la sera, Enoch però s’alzò d’improvviso e disse con la sua
voce normale:
«Per oggi basta, ragazzi! Ora vogliamo far festa e sta­
re ancora un poco insieme!».
Immediatamente tutti si rizzarono in piedi con un
senso di sollievo, più o meno svelti a seconda dell’età,
stirarono le membra, si grattarono le gambe, e tornarono
a disporsi attorno alla tavola, dove ripresero, proprio co­
me in passato, a giocare a carte con impassibile serietà.
Avevan giocato seri seri una mezz’ora, sbattendo le
carte sulla tavola, quando le porte si spalancarono e due
uomini armati irruppero con tale impeto nella stanza,
che i giocatori balzarono in piedi spaventati, credendo
che la forza pubblica li assalisse. Era invece soltanto un
vicino, l’acquirente del podere di Hansli, insieme a suo
figlio.
«Non sapete quello che capita nel mondo?» grida­
rono i due uomini «Aprite le finestre ! Il caposquadra
Hansli Gyr passa a cavallo per i paesi come una furia e
raduna gente. I cinque Cantoni sono insorti e premono
ai confini ; bisogna andare tutti a Zurigo ; non sapete che
c’è la leva in massa? Lasciate le vostre scempiaggini, prov­
vedete come potete alla casa e ai campi e chiunque ha
forza sufficiente venga con noi ! Si tratta proprio per noi
di vita o di morte !».
Detto questo, corsero via, giù per la montagna. Gli
altri, atterriti, uscirono dinanzi alla casa e udirono in­
fatti le campane a stormo e il rullio dei tamburi e scorsero
i fuochi di segnalazione lontani, su tutte le alture.
Osservarono ed ascoltarono attoniti, ma avevano per­
duto ormai ogni comprensione per l’importanza del mo­
mento; non che avessero voglia di ridere o di scherzare,
perché tutto sembrava loro preoccupante e ne erano spa­
ventati, ma guardavano nell’oscurità della notte con aria
ebete e smarrita.
Ursula invece, dall’angolo accanto alla stufa ove stava
95° NOVELLE ZURIGHESI

sognando ad occhi aperti, alle parole del vicino aveva


alzato la testa e, sentendo il nome di Hansli, aveva la­
sciato cadere di colpo la statuetta di legno, aveva affer­
rato il fagottino e il bastone e si era allontanata silenzio­
samente dalla casa. Per un poco stette scrutando ed ascol­
tando nella cupa notte, vide i fuochi e udì le campane
a stormo, poi si avviò senz’altro in direzione della pia­
nura, dove erano scesi i due armati. Nel villaggio vicino
scorse una piccola schiera di uomini che si era già radu­
nata; essi poi proseguirono, unendosi lungo il cammino
ad altri, e così fu per tutta la notte, sinché gli accorsi
raggiunsero la città, e sempre la bruna figura di Ursula
tenne dietro, non vista, a quella schiera, riuscendo a pas­
sare indisturbata per la porta della città.
Tutte le strade erano illuminate, si udivano grida,
ordini e preparativi. L’avanguardia era già partita il po­
meriggio per Kappel; stava ora radunandosi il popolo
sorpreso. Queste truppe vennero irreggimentate e con­
tate, poi si dette loro da mangiare e da bere; Ursula ri­
mase fra l’ondeggiare della folla e vide ben chiaramente
Hansli Gyr che, al lume delle fiaccole, non più a cavallo,
andava su e giù, perfettamente tranquillo, aiutando a
metter ordine in quelle schiere. Per la prima volta tornò
a riconoscerlo, come più tardi ricordò, nella sua vera per­
sonalità, ma si guardò tanto dal farsi vedere che dal per­
derlo di vista. Soltanto quando egli all’alba entrò in una
casa, ella sedette non lontano su un paracarro, nascon­
dendosi il capo in uno scialle. Allorché verso mezzogiorno
finalmente la schiera armata si mosse col gonfalone, Ur­
sula l’aveva già preceduta lungo la strada che conduce al
monte Albis e continuò a seguirne la marcia, nasconden­
dosi al margine dei boschi.
A mezza via fece una sosta e attraverso gli alberi
scorse l’esercito incompleto e disordinato. Cavalieri, ar­
tiglieri e fanti erano confusi insieme, ma la profonda se­
rietà che li dominava ed il loro aspetto, bello ed insolito
per Ursula, la rincoravano come un’aria pura. Fra gli
uomini aitanti che cavalcavano accanto al gonfalone c’e­
ra Ulrich Zwingli in persona, ed il suo aspetto simpatico
URSULA 951

illuminò l’anima della donna che non cessava di guar­


darsi attorno. Sopra la lunga veste da erudito o da predi­
catore l’aitante uomo indossava una buona corazza d’ac­
ciaio, mentre la testa era protetta da un curioso elmetto
rotondo a larghe tese, e alla spalla si appoggiava un’ala­
barda di ferro di media lunghezza, o meglio un’accetta
leggera di bella forma, e dal fianco sinistro gli pendeva la
spada. Malgrado tutte queste armi, il suo volto, dai linea­
menti ben marcati, serbava un’espressione melanconica e
presaga, fervida e rassegnata; le labbra mormoravano
lievemente una preghiera, con così evidente sincerità e
intensità, che dal suo aspetto irradiò un raggio luminoso
di salute e di conforto sino al petto tormentato della
donna, la quale quasi non s’accorse di Hansli Gyr, che
alla testa della sua truppa seguiva a poca distanza il
grande riformatore.
Essa non si mosse e riprese il cammino solo quando la
schiera ebbe superato l’altura, incominciando a racco­
gliersi. La figura incolore di Ursula, che quasi non si
distingueva dal terreno bruno, seguiva con ampi archi
tutti i movimenti del piccolo esercito ancora in attesa
del suo nucleo più forte, mentre le grandi masse alleate
stavano accampate inerti ad occidente ed i fratelli nemici
invece s’avvicinavano forti di ben ottomila uomini.
Ella si trovò a sinistra delle posizioni zurighesi, davanti
ad un bosco che avevano trascurato di occupare, e scorse
ambedue gli eserciti, ma il duello delle artiglierie, già
iniziatosi da tempo, la indusse a ritirarsi al riparo delle
piante. Trovò un vecchio faggio le cui forti radici for­
mavano una rientranza e circondavano per di più una
specie di grotta. Si insinuò in quel rifugio e credette di
esser ben al sicuro. Aprì rapida il suo fagotto, essendo
giunto il momento di riprendere forza, e ne trasse una
bottiglietta di vino ed un po’ di carne secca con del pane;
mangiò e bevve abbastanza di buon animo, perché respi­
rava l’aria dell’uomo che seguiva.
Ma ad un tratto si udirono crepitìi e scoppi fra gli
alberi e alle sue spalle; i pochi artiglieri di Uri, accortisi
di quella posizione e della possibilità di accerchiare gli
952 NOVELLE ZURIGHESI

Zurighesi, avevano occupato il boschetto e da esso spara­


vano, per il che gli Zurighesi a loro volta vi diressero una
parte delle loro artiglierie, e le cannonate andarono a
finire negli alberi al di sopra di Ursula.
Essa si teneva immobile e nessuno poteva scorgere in
quel mucchietto grigio-bruno una povera vita umana.
Poi tornò il silenzio attorno a lei; gli artiglieri avevano
abbandonato il bosco per incitare all’assalto il grosso
delle forze cattoliche ancora indeciso. Poco dopo la bu­
fera si avvicinò nuovamente alle spalle di Ursula: la
massa violenta dei cinque Cantoni irruppe a migliaia
fra piante e cespugli, passando oltre, come dice il croni­
sta, con tanto violento fragore e rimbombo, che ne tremò
la terra e ne rintronò la foresta. Ursula si curvò giun­
gendo le mani, ma pareva che quell’inferno non volesse
cessare: a destra e a sinistra la oltrepassavano sempre
nuove schiere di uomini infuriati, ma essa ne scorgeva
quasi soltanto i grossi piedi, sotto i quali erba e cespugli
si trasformarono presto in una strada militare sconvolta
e calpestata. Per fortuna il vecchio faggio, fra le cui radici
essa si celava, costringeva la fiumana del violento eser­
cito a scindersi alle sue spalle; tanto più assordanti le
echeggiavano alle orecchie i corni, le trombe, i tamburi,
così che alla fine si lasciò cadere a terra semisvenuta sulla
buona e sicura base dell’albero.
Finalmente si ristabilì il silenzio attorno a lei. Erano
ormai passati anche gli ultimi; l’intera truppa armata
si trovava ora fra lei e lo schieramento dei riformati,
il quale in quel momento stava compiendo un muta­
mento di fronte.
Ursula udì l’aria lacerata dall’urlo dell’attacco. La
vendetta per un’offesa religiosa supposta o realmente sof­
ferta si iniziò con un torrente di improperi e quel saluto
terrificante venne ricambiato con insulti non meno aspri
e feroci.
Udì poi il cozzare violento delle armi, che non durò
però a lungo, perché subito la battaglia prese per gli
Zurighesi quello sciagurato andamento che stava scritto
in cielo.
URSULA 953

Il sole si avviava al tramonto: fra i caduti sul campo


vi erano quasi tutti i più insigni Zurighesi. Circa trenta
membri del Consiglio, altrettanti sacerdoti riformati,
spesso padre e figlio e fratello l’uno accanto all’altro,
uomini di campagna e di città. Zwingli giaceva isolato
sotto un albero. Egli non aveva inferto colpi : era rimasto
soltanto coraggiosamente nelle file dei suoi, per accet­
tare quanto gli fosse destinato. Più volte, durante la fuga,
era caduto, rialzandosi però sempre, sinché un colpo,
attraversandogli l’elmo, lo aveva premuto sulla madre
terra.
Il sole calante gli illuminava il volto ancora energico
e pacato; pareva quasi volergli attestare che aveva agito
rettamente e assolto il suo compito da eroe. L’astro sola­
re si librò un ultimo istante al di sopra della terra, simi­
le alla grande ostia dorata di un Cenacolo universale e
purificato, attirando verso il cielo l’occhio del caduto.
Dal monte Righi sino al Pilato, e di là sin lontano,
verso i monti del Giura nel crepuscolo, si stendeva una
grigia distesa di nubi dal margine purpureo, simile ad
una infinita dimora divina, e da essa si ergevano nel
roseo riflesso lievi formazioni di nubi allineate, come un
corteo di spiriti che indugiasse per un istante. Erano
certo i beati i quali chiamavano l’eroe ad unirsi a loro,
e non erano soltanto, com’egli aveva scritto un giorno a
Francesco I, i santi dell’Antico e del Nuovo Testamento e
della Chiesa Cristiana, bensì pure gli onesti pagani: Er­
cole, Teseo, Socrate, Aristide, Antigono, Numa, Camillo,
i Catoni, gli Scipioni; c’era anche Pindaro con la splen­
dente cetra, al quale il moribondo aveva un giorno dedi­
cato una prefazione entusiasta.
Anche l’uomo che Ursula aveva seguito nel suo presa­
go impulso giaceva immoto a circa cinquanta passi dal
punto dove il degno gonfaloniere era morto dopo il sal­
vataggio del gonfalone. Hansli Gyr si era battuto da va­
loroso, continuando a respingere i primi attacchi. Al
sopravvenire della confusione e della fuga, quando fu
calato lo stendardo, egli, trascinato nel vortice, udì il
richiamo a soccorrere quella insegna. Resistendo ad
954 NOVELLE ZURIGHESI

alcuni nemici incalzanti, s’aprì a colpi una via, ma fu


costretto a cedere passo per passo, finché, non potendosi
guardare alle spalle, cadde supino in quel fossato che era
stato così fatale per la battaglia. Per la greve armatura
la caduta era stata pesante, ed egli era rimasto privo di
sensi, coi piedi in alto.
Quando la notte fu scesa ed Ursula potè rendersi conto
che la battaglia era ormai finita, uscì dal bosco. Vide il
campo cosparso dai numerosi fuochi di bivacco dei vin­
citori e ne udì le grida di giubilo; comprese ben presto
chi avesse vinto, ma non esitò un istante a proseguire la
via, attraversando l’accampamento; nessuno badò a lei
che passava come un fantasma, giacché alle schiere vit­
toriose si frammischiavano altre donne. Dovunque scor­
geva morti e feriti; si avvicinava, senza però trovare ciò
che temeva, e tentò piena di speranze di uscire poco alla
volta dalla massa dei cattolici per raggiungere i pochi
residui degli Zurighesi. Senza farsi scorgere aveva sot­
tratto ad un fuoco di bivacco un tizzone ardente, e con
esso cercava di illuminare impavida quello strano mondo
notturno pieno di orgoglio, di giubilo, di sciagura e di
terrore della morte. Già erano più intensi il silenzio e la
tenebra quando giunse ad un ponticello che attraversava
il fossato del mulino. Guardò per caso da un lato e vide
un barbaglio della sua torcia riflesso da un’armatura
giacente sul fondo. Senza indugiare tornò sui suoi passi
e scese sino alla riva cespugliosa, dove sotto gli ontani
giaceva un morto. Non era però Hansli, ma essa proce­
dette sul fondo del fossato ove fluiva poca acqua e trovò
un altro uomo tacito per sempre, che non era però il suo.
Ma il prossimo che incontrò era proprio lui. Lo riconobbe
al primo sguardo. Immediatamente si diede a tirargli
giù le gambe alzate dalla sponda del ruscello, sollevan­
dogli invece con gran fatica la testa, e solo dopo aver
fatto questo gli si gettò addosso con l’orecchio sulla sua
bocca. Respirava ancora, ma non dava altro segno di
vita, e neppure si vedeva traccia di sangue su di lui né
attorno a lui. Cercò ansiosamente, senza riuscirvi, di li­
berarlo dall’elmo e dalla corazza e così facendo mandò
URSULA 955

alti sospiri, specialmente quando le cascò nel ruscelletto,


spegnendosi, la torcia.
Apparvero intanto sull’alto del fossato due uomini con
una fiaccola, che fecero luce, mentre l’uno esclamava:
— Lì ce n’è uno che sta morendo — e l’altro replicò :
— Proviamo a scendere, forse è dei nostri ! — Ma quan­
do furono arrivati, esclamarono insieme:
— Meraviglia di Dio, ma questa è una bella coppia !
— Costui l’ho già visto ! — riprese il primo, dopo aver
illuminato il volto del caduto.
— Anch’io, ma non saprei dove — replicò l’altro sol­
dato, il quale, al pari del compagno, aveva un’aria mi­
te e umana.
— Chi è questo caduto, chi sei tu, ombra notturna? —
chiesero a Ursula.
— Questi è il caposquadra Hänslein Gyr ed è un bravo
uomo ! — rispose Ursula supplichevole — Abbiate com­
passione o signori, aiutatelo, perché è ancora in vita.
— Come è vero Dio, è proprio Hansli ! Un vecchio e
caro camerata ! Come passano gli anni ! — esclamarono
i due stupiti — E chi sei tu, e come mai sei finita in
questo fossato?
— Io sono la sua vicina, la sua compagna d’infanzia,
la sua fidanzata di un tempo, e l’ho seguito senza che lui
10 sapesse — replicò Ursula.
— Ebbene, non si può lasciar perire un uomo al quale
11 buon Dio ha donato una persona tanto fedele ! Vieni
qua, o fantasma, che ti aiuteremo !
I comandanti dei cattolici avevano emanato a suon di
tromba l’ordine che non si dovessero più uccidere feriti
o prigionieri, e non vi fu quindi difficoltà per i due came­
rati, che erano di Schwyz, a trascinare fuori dal fossato
Hansli e a portarlo nel monastero di Kappel, già zeppo
di feriti, il cui abate protestante giaceva pure morto sul
campo di battaglia.
Con l’aiuto di quei bravi uomini, Hansli trovò una
piccola cella ed un buon letto e Ursula non si staccò dal
suo fianco, ascoltandone ogni respiro. Solo al terzo gior­
no egli ritornò in sé; dopo otto potè lasciare il letto,
95θ NOVELLE ZURIGHESI

e, non manifestandosi alcuna ferita interna, riacquistò


piena conoscenza, e si ritrovò vicina, secondo i suoi
desideri, Ursula, non meno miracolosamente guarita gra­
zie agli avvenimenti.
Essa non seppe spiegare come fosse partita da casa,
ma del resto i suoi pensieri ed il suo sguardo erano or­
mai perfettamente sicuri e limpidi. La felicità le fece ben
presto ritornare le guance floride, poiché essa era come un
terreno benedetto, che rinverdisce appena vi cade un
raggio di sole e un po’ di rugiada.
Passate le prime conseguenze della battaglia ed anche
i nuovi perturbamenti guerreschi, Hansli Gyr prese in
moglie Ursula, secondo le prescrizioni degli ordini vi­
genti, ai quali essa non si oppose più, e si stabilì nel po­
dere di lei, dove il vecchio Enoch era morto e la curva
e rinsecchita sua moglie lo aveva docilmente seguito nella
nuova Gerusalemme. Essa però, sia pure all’insaputa del
marito, aveva ancora potuto godere la consolazione di
veder sua figlia protetta e felice.
Il caposquadra e la sua consorte vissero da degni mem­
bri di quel popolo che, dopo la battaglia, invece di cari­
care di rimproveri e di tormentare con malcontento i capi,
li incoraggiò alla perseveranza e li assicurò del proprio
spirito di sacrificio, non senza peraltro aggiungere il sin­
cero parere sull’una o sull’altra cosa che si sarebbe forse
potuto far meglio. Hansli era nel numero della gente di
campagna che alzava la propria voce con benevola sin­
cerità, ma che in pari tempo si prodigava con ferrea fe­
deltà per il bene comune. I suoi successori rimasero per
circa due secoli in quel podere ben condotto che ebbe
nome Gyrenhof. La buona coppia offriva un bicchiere di
vino o di buon sidro ad ognuno dei piccoli profeti che
ancora si presentasse al podere con qualche divertimento.
Essi infatti si compiacevano ancora di cose bizzarre, ma
non predicavano ormai più. Tuttavia, di tanto in tanto,
attorno a quelle montagne, rispunta la loro stramberia.
L’EPIGRAMMA
CAPITOLO PRIMO

Un naturalista scopre un procedimento


e cavalca le terre per saggiarne la validità

Un venticinque anni or sono, quando le scienze fisiche,


pur non essendo ancora nota la legge della selezione na­
turale, erano nuovamente in auge, il signor Reinhart
spalancò un mattino i battenti delle finestre e lasciò en­
trare nel suo studio il fulgore del giorno che spuntava
dietro i monti; e con l’oro del primo sole giunse una
fresca brezzolina estiva che mosse con forza i pesanti
tendoni e i capelli ombreggiati dell’uomo.
La luce del giorno appena sorto illuminò lo studio di
un dottor Faust, tradotto però in termini moderni, co­
modi e graziosi. Invece della pittoresca cappa del ca­
mino, degli enormi alambicchi e calderoni, c’erano sol­
tanto leggeri fornelli a spirito e fragili tubi di vetro, calici
di porcellana e boccette con tappi smerigliati, pieni di
liquidi e di polveri d’ogni sorta, di acidi, sali e cristalli.
I tavoli erano coperti di carte geognostiche, di minerali
e di modelli lignei di feldspato ; mucchi di annuari scien­
tifici in tutte le lingue ingombravano sedie e divani,
e sulle mensole delle specchiere scintillavano strumenti
di lucido ottone. Non v’erano mostri impagliati appesi al
soffitto annerito dal fumo, però un ranocchio vivo era
rannicchiato modestamente in un barattolo di vetro e
aspettava la sua sorte; e mancava perfino il solito sche­
letro nell’angolo buio, ma in compenso una fila di te­
schi d’uomini e d’animali biancheggiava così allettante
da sembrare piuttosto la chincaglieria di un bellimbusto
che il lugubre armamentario di un antico sperimentatore.
Invece di erbari polverosi si vedevano fini disegni di tes­
suti vegetali, invece di pergamene in folio, splendide edi­
zioni inglesi con rilegature di tela.
Chi avesse sfogliato un libro o un quaderno si sarebbe
trovato sott’occhio solo testi scientifici latini, colonne di
numeri e logaritmi. Non uno di quei volumi trattava di
argomenti morali o umanistici, ossia, come si sarebbe
960 L’EPIGRAMMA

detto cent’anni fa, delie cose del cuore e del buon gusto.
Dunque Reinhart stava per accingersi anche quel gior­
no a un lavoro quieto e sottile che lo occupava da setti­
mane. Nel centro della stanza v’era un apparecchio inge­
gnoso, che captava un raggio di sole e lo faceva passare
attraverso un cristallo, permettendo di osservare come si
comportava dentro di esso e possibilmente di scoprire l’in­
timo segreto di quelle trasparenti strutture. Già molti
giorni Reinhart aveva trascorso davanti al congegno, a
guardare nell’interno attraverso un tubo, col regolo cal­
colatore in mano, scrivendo poi cifre su cifre.
Quando il sole fu salito di qualche spanna, richiuse la
finestra sul vago mondo con tutto ciò che viveva e s’agi­
tava al di fuori, e lasciò entrare nella stanza oscurata un
unico raggio di luce attraverso un forellino che aveva
praticato nell’imposta. Appena quel raggio fu accura­
tamente teso sullo strumento di tortura, Reinhart volle
intraprendere senza indugio la sua opera quotidiana;
prese carta e matita e applicò l’occhio al tubo per con­
tinuare dal punto in cui era rimasto.
Ma in quella sentì nell’occhio un dolore leggero e pun­
gente; lo soffregò con la punta del dito e guardò con l’al­
tro nel tubo, e anche quest’occhio doleva; giacché egli
aveva già cominciato a rovinarsi la vista con lo sforzo
diuturno, e particolarmente con il passaggio continuo dal
cristallo luminoso all’oscurità nella quale annotava i suoi
numeri.
Lo capì ora e arretrò impensierito; se gli occhi gli si
ammalavano, era finita per le ricerche sperimentali, e
Reinhart sarebbe stato ridotto a riflettere e meditare su
ciò che aveva visto fino a quel momento. Turbato andò a
sedersi su una soffice poltrona, e poiché intorno a lui era
buio, silenzio e solitudine, lo assalsero strani pensieri.
Dopo avere trascorso in gioconda agitazione la mag­
gior parte della giovinezza e osservato l’umanità con
attenzione sufficiente per convincersi della razionalità e
della coerenza del mondo morale, notando come non
cada mai una parola che non sia nel contempo causa ed
effetto, anche se di poco rilievo come il dondolio d’un
UN NATURALISTA SCOPRE UN PROCEDIMENTO 961

filo d’erba in un prato, l’investigazione della materia e


del mondo sensibile era diventata il suo fine unico é
universale.
Da anni ormai aveva quasi dimenticato la vita degli
uomini, e non ricordava più che una volta anch’egli era
stato contento e adirato, stolto e prudente, gaio e triste.
Adesso rideva soltanto quando fra le sue sostanze chimi­
che si svolgevano drammi e commedie, e intrighi inattesi ;
s’irritava unicamente se commetteva un errore di cal­
colo, se sbagliava un esperimento o se rompeva un vetro ;
si sentiva lieto e soddisfatto esclusivamente quando nel
suo lavoro si godeva il grande spettacolo che sembra ri­
condurre l’infinita ricchezza dei fenomeni ad un’unità
semplicissima, che pare dire: «in principio era l’energia»,
o qualcosa di simile.
Le cose morali, soleva dire, svolazzano nell’aria come
farfalle scolorite e sciupate; ma il filo che le tiene è
saldamente legato ed esse non ci sfuggiranno, anche se
dimostrano perennemente una grandissima voglia di ren­
dersi invisibili.
Come s’è detto, adesso era in preda a sensazioni spia­
cevoli; preoccupato per la sua vista, immaginava tutte
le cose che essa permette di godere, e fra di esse s’insinuò
inavvertitamente la figura umana, non già nelle sue sin­
gole parti, ma come un tutto : quando è bella e gradevole a
contemplarsi e pronuncia parole armoniose. Provò il bi­
sogno di udire Subito delle belle parole e di darvi risposta, e
desiderò improvvisamente di uscire fuori a navigare sul ma­
re translucido della vita, guidando la sua navicella in deli­
ziose ricerche di libertà, lungo questa e quella rotta dove
10 attirassero oggetti leggiadri : ma non gli venne in mente
11 minimo appiglio, il più vago pretesto per riprendere l’u­
sanza dei contatti umani; si era isolato, incarcerato, tutto
intorno a lui restava silenzioso e oscuro. A un tratto ebbe
l’impressione intollerabile di soffocare, corse alla finestra
e la spalancò nuovamente per avere luce e respiro. Poi
salì nel solaio, dove aveva riposto in armadi una quan­
tità di libri abbandonati che trattavano di quelle cose
umane che egli aveva mezzo dimenticate. Trasse fuori un
9θ2 L’EPIGRAMMA

volume, ne soffiò via la polvere, vi batté sopra con forza e


disse: «Vieni, mio bravo Lessing! è vero, sei sulla bocca
di tutte le lavandaie, ma senza ch’esse abbiano un bar­
lume della tua vera essenza, che è l’eterna gioventù e la
destrezza in tutte le cose, la buona volontà incondizionata,
verace, inaurata nel fuoco!».
Era un volume delle opere di Lessing nell’edizione
Lachmann, e precisamente quello dove sono raccolti
gli epigrammi di Friedrich von Logau1; quando Reinhart
l’aperse, gli cadde sott’occhio questo distico :
Vuoi tu il candido giglio in rosa rossa mutare?
Bacia una Galatea bianca : la vedrai sorridente avvampare.
Subito gettò via il libro, esclamando: «Grazie, o ec­
celso, che mi dài per bocca del poeta tanto più antico di
te un eccellente consiglio ! Oh, lo sapevo che basta inter­
rogarti per ottenere una saggia risposta!».
E ripreso il libro, dopo avere riletto ancora una volta il
passo ad alta voce, soggiunse: «Che esperimento squi­
sito! Cosi semplice, profondo, chiaro e persuasivo, così
delicatamente misurato e pesato ! Cosi, proprio, dev’es­
sere: sorridente avvampare! Bacia una Galatea bian­
ca : la vedrai sorridente avvampare ! ».
Seguitava a mormorarlo tra sé mentre cercava vestiti
da viaggio e chiamava il vecchio servitore perché lo
aiutasse in fretta a preparare la valigia e gli procurasse
una cavalcatura qualsiasi per parecchi giorni. Affidò al
vecchio la custodia della casa, e un’ora dopo usciva a ca­
vallo dal portone, risoluto a non ritornare prima che gli
fosse riuscita l’allettante esperienza.
Aveva scritto l’amabile prescrizione su un foglietto,
come una ricetta, e se l’era riposta nel portafogli.

I. Friedrich Freiherr von Logau (1604-1655): poeta tedesco, noto an­


che con lo pseudonimo di Solomon von Golaiv, autore di numero­
sissimi epigrammi, di contenuto satirico, religioso e morale.
CAPITOLO SECONDO

Dove Γesperimento riesce a metà

Dopo avere cavalcato, nel mattino rugiadoso, fra l’am­


miccare di falci al sole e le fresche mietitrici che allarga­
vano i manipoli sui prati, Reinhart giunse a un ponte
lungo e largo, assai bello, che per l’ora mattutina era
ancora deserto e si stendeva al sole come una sala vuota.
In capo al ponte v’era la casetta del gabelliere, una gra­
ziosa costruzione di legno coperta di tralci fioriti, e ac­
canto alla casetta gorgogliava una chiara fontana, alla
quale la figlia del gabelliere aveva appena finito di la­
varsi il viso, e ora si pettinava i capelli. Quando essa si
accostò al cavaliere per riscuotere il pedaggio, questi vide
che era una fanciulla pallida e bella, di figura slanciata,
con un volto fine e allegro, e occhi arditi. I bruni capelli
sciolti le coprivano le spalle e la schiena e, come la fac­
cia e le mani, erano ancora umidi di fresca acqua sor­
giva.
— In verità, bimba mia! — disse Reinhart — siete la
più bella gabelliera che io abbia mai visto, e non vi pa­
gherò il pedaggio se prima non discorrete un pochino
con me!
La bella rispose:
— Vi siete alzato presto, signore, e già di primo mat­
tino siete di umore lieto. Ma se volete ancora ripetermi
alcune volte che sono bella, volentieri discorrerò con voi
finché vi piacerà, e vi risponderò sempre che siete il ca­
valiere più saggio che abbia mai incontrato !
— Lo torno a dire: chi ha costruito questo bel ponte
e l’ha ornato di questa artistica casetta deve gioire di
vedervi dinanzi una gabelliera come voi !
— Non è così, egli mi odia !
— Perché vi odia?
— Perché a volte, quando di notte passa sul ponte con i
suoi due morelli, lo faccio aspettare un poco prima di
uscire ad alzare la barriera; specialmente se piove e fa
freddo, egli s’infuria nel suo calesse scoperto.
9θ4 L’EPIGRAMMA

— E perché tardate a sollevare la barriera?


— Perché non lo posso soffrire !
— To’, e perché non lo possiamo soffrire?
— Perché è innamorato di me e tuttavia non mi guar­
da, sebbene siamo cresciuti insieme. Prima che fosse co­
struito il ponte, mio padre faceva il traghettatore in que­
sto luogo; l’architetto era figlio d’un pescatore laggiù, e
stavamo sempre insieme sulla barca quando v’era gente
da tragittare. Ora è diventato un grande architetto e fìn­
ge di non conoscermi ; ma si vergogna davanti a me che
sono bella, perché ha sempre a fianco nella carrozza una
moglie guercia e gibbosa.
— E come mai l’uomo che sa concepire opere così belle
ha una moglie tanto brutta?
— Perché essa è la figlia di un consigliere il quale gli
procurò l’incarico della costruzione del ponte che l’ha
reso grande e famoso. Colui gli disse che, se non sposava
sua figlia, non gli avrebbe procurato l’incarico.
— E lui accettò?
— Sì, senza pensarci due volte; da allora mi viene da
ridere quando passa sul ponte, giacché fa una trista figura
accanto alla sua gobbetta, mentre non ha in mente che
agili pilastri e alti campanili.
— E come sai che è innamorato di te?
— Perché passa sempre di qui, anche a costo di allun­
gare la strada, e poi non mi guarda mai !
— Non avete un po’ di compassione per lui; o magari
non ne siete anche voi innamorata?
— In tal caso non vi avrei detto niente ! Chi prende in
moglie una che non gli piace e poi vagheggia altre sulle
quali non osa alzare gli occhi è un vigliacco da cui c’è
poco da ricavare, non vi sembra?
— Sicuro ! Tanto più che l’architetto sa assai bene
ciò che è bello; infatti più contemplo e voi e il ponte, e
più son costretto a proclamare che sono due belle cose !
Eppure egli si prese la brutta per poter costruire il ponte !
— Ma avrebbe ben potuto lasciar correre il ponte e
prendere me; anche così avrebbe avuto qualcosa di
bello, come voi dite !
DOVE L’ESPERIMENTO RIESCE A METÀ 965

— Quest’è certo ! Ebbene, egli ha scelto per sé l’utile,


e a voi rimane la vostra bellezza. Qui siete nel luogo
adatto per voi; molti occhi vi possono ammirare e ralle­
grarsi di una tal vista !
— Anche a me ciò è ben caro ; è il mio maggior pia­
cere. Cent’anni vorrei restare davanti alla mia casetta
e rimanere sempre giovane e bella ! I barcaioli mi salutano
passando sotto il ponte, e chi vi passa sopra si torce il collo
per girarsi a guardarmi. Io lo sento, anche se sono voltata,
e di più non chiedo. Solo il signor architetto è l’unico che
non mi guarda mai, eppure non vorrebbe fare altro ! Ma
ora pagatemi una buona volta il pedaggio e andateveneper
la vostra strada, v’ho detto abbastanza di me per le buo­
ne parole che m’avete rivolto!
— Non ti pago il pedaggio, bella bambina, se tu non
mi dài un bacio !
— Allora dovrei riscattare la mia gabella e pagar tri­
buto per la mia bellezza!
— Certo che lo dovete, e come no? Non c’è onore senza
onere !
— Andate con Dio, non se ne fa nulla.
— Ma lo dovreste far volentieri, bellezza ! Su, con un
po’ di cuore.
— Pagate il pedaggio e andate !
— Neanch’io di solito lo richiedo; giacché non bacio
certo la prima venuta ! Se tu lo farai con buona grazia,
canterò le lodi della tua bellezza e ti glorificherò dovunque
vada ; e devi sapere che andrò molto lontano !
— Non è necessario, le buone opere si lodano da sole !
— Ebbene, parlerò di voi anche se non mi baciate, o
bella cattiva! Giacché siete troppo bella perché se ne
possa tacere. Ecco il pedaggio !
E le pose in mano il denaro; allora ella mise il piede
nella staffa, egli l’aiutò, ed ella balzò accanto a lui, gli
cinse il collo con le braccia e lo baciò ridendo. Ma non di­
ventò rossa, benché il viso bianco offrisse al rossore il
luogo più grazioso e più appropriato. Rideva ancora
quando Reinhart aveva già traversato il ponte e si volse
ancora una volta a guardarla.
g66 L’EPIGRAMMA

“Il primo esperimento” pensò il cavaliere “non è riu­


scito; mancava qualcuno degli elementi necessari. Ma se
già il problema è bello e attraente, come dev’essere gra­
devole la soluzione!”.
CAPITOLO TERZO

Dove riesce l'altra metà

Dopo di che, egli cavalcò per varie contrade, finché


venne mezzogiorno senza che gli si fosse offerta un’altra
buona occasione. Ora però la fame lo ammonì ch’era
tempo di sostare, e mentre stava per guidare il cavallo
verso una locanda, gli venne in mente che il pastore del
paese doveva essere una sua vecchia conoscenza, e si di­
resse verso il presbiterio. Il suo arrivo suscitò grande sor­
presa e gioia sincera, che tosto si disperse in cerca di piatti
e scodelle, di boccali e bicchieri, di dolci e conserve per
arricchire il pasto quotidiano. Prima comparve una flo­
rida figliola, di cui Reinhart con gli anni aveva dimen­
ticato l’esistenza; ma tosto ricordò la garbata ragazzetta
ora trasformata in una fanciulla con le guance delicata­
mente soffuse di rosa, e col naso un tantino lungo che ad­
ditava la terra come un indice ammonitore, obbediente­
mente seguito dallo sguardo modesto. Ella salutò l’ospite
senza alzare gli occhi, e subito tornò a scomparire in
cucina.
Il padre e la madre l’intrattennero esclusivamente sulle
sorti della loro famiglia, e a questo proposito tradirono
uno strano amore dell’ordine; giacché avevano raggrup­
pato e disposto con estrema esattezza tutte le loro piccole
vicende ed esperienze, dividendo le piacevoli dalle spia­
cevoli, e ponendo ciascuna nella giusta luce e in chiara
dipendenza l’una dall’altra. Il padrone di casa sanzionò
poi il tutto e lo mise nella luce migliore lasciando inten­
dere che la sua maestria professionale nella fiducia in Dio
gli era tornata ben utile per la guida di un così magni­
fico pellegrinaggio terreno. La moglie lo sosteneva con
zelo, chiudendo tanto le lamentele quanto i compiaci­
menti con l’elogio del marito, senza dimenticare di ren­
dere grazie a Dio, che in quella piccola famiglia pacifica­
mente agitata pareva voler conservare uno speciale ca­
polavoro della propria potestà in terra, preciso, traspa­
rente e netto come vetro in ogni sua parte, e dove non po­
g68 L’EPIGRAMMA

teva insinuarsi nemmeno un piccolo sentimento oscuro.


A quei discorsi ben s’addicevano le numerose campane
di vetro che proteggevano dalla polvere i ricordi di famiglia,
e così pure le cornicette racchiudenti silhouettes, auguri,
massime, versetti, epitaffi, ghirlande e paesaggi fatti di
capelli, il tutto appeso con simmetria alle pareti e co­
perto di vetri tersissimi. Nelle vetrine brillavano tazze
di porcellana con cifre, bicchieri sfaccettati con iscrizioni,
fiori di cera e libri da messa con fermagli dorati.
Anche la figlia del pastore, quando ritornò tutta ador­
na, pareva uscire da una vetrina odorosa di spezie. Porta­
va un abito di seta celeste, ben teso sul seno rotondo, verso
il quale inclinava quel caro, serio nasetto. Aveva anche
sciolto dalla crocchia due boccoli d’oro e s’era legato alla
vita un grembiule da cucina candido come la neve;
e posò uno sformato sul tavolo con tanto riguardo come
se stesse maneggiando il globo terrestre. Inoltre odorava
piacevolmente di una certa torta che aveva appena
sfornato.
I genitori però furono con lei così solenni e compassati
che ella arrossì di frequente e colse presto l’occasione per
andarsene. Si diede da fare in cortile, dov’era legato il
cavallo di Reinhart, e piena di sollecitudine diede da man­
giare all’animale. Gli spinse sotto il muso un tavolo da
giardino e vi mise su il suo cestino da lavoro pieno di tozzi
di pane casalingo, mezzi panini e biscotti, con l’aggiunta
di un bel pugno d’insalata; lì accanto mise un annaffia­
toio verde pieno d’acqua, accarezzò il cavallo con mano
timida e gli fece mille moine. Poi andò nella sua came­
retta, a registrare nel suo diario gli avvenimenti insperati;
e scrisse pure, svelta svelta, una lettera.
Intanto anche Reinhart scese in cortile per preparare
il cavallo. Questo aveva il muso conficcato nell’annaffia­
toio, e all’annaffiatoio s’era attaccato il paniere, e dei due
oggetti l’animale cercava innervosito di liberarsi, ma non ci
riusciva. Reinhart rise così forte che la damigella udì e
s’affacciò alla finestra. Visto l’accaduto venne giù subito,
si fece coraggio e quasi tremando pregò Reinhart di non
raccontare né ai genitori né ad alcun altro un incidente
DOVE RIESCE L’ALTRA METÀ 969

che l’avrebbe per lungo tempo esposta ai commenti e al


ridicolo. Egli la tranquillizzò gentilmente come meglio
poteva, e la fanciulla fuggì come una cerbiatta con pa­
niere e secchiello per andarli a nascondere. Ma ricom­
parve tosto dietro un cespuglio di lilla ed era evidente
che una grossa richiesta le pesava sul cuore. Reinhart la
raggiunse dietro il cespuglio; ella trasse di tasca una let­
tera ben sigillata, con un magnifico indirizzo, e gliela
porse con la preghiera mormorata a fior di labbro di voler
consegnare immancabilmente la lettera, che conteneva un
saluto e un incarico importante, a una sua amica che abi­
tava poco lontano.
In modo altrettanto sommesso e significativo Reinhart
le comunicò che per via di un sacro voto doveva irremissi­
bilmente baciarla. Ella fece per fuggire; ma Reinhart la
tenne salda e le bisbigliò che se faceva resistenza lui
avrebbe narrato in giro la storia dell’annaffiatoio, e al­
lora tutti si sarebbero divertiti alle sue spalle. Tutta tre­
mante la fanciulla restò dov’era e quando egli l’abbracciò
s’alzò persino sulla punta dei piedi e lo baciò ad occhi
chiusi, col viso inondato di rossore ma senza l’accenno di
un sorriso, anzi così grave e raccolta come se facesse la co­
munione. Reinhart pensò che era troppo spaventata e la
trattenne per un po’ fra le braccia, baciandola una se­
conda volta. Ma seria come prima essa gli rese il bacio,
arrossendo ancor più; poi corse via come un fulmine.
Quando Reinhart rientrò in casa, il pastore gli venne
incontro ridente e gli mostrò il proprio diario, dove la
visita era già annotata con edificanti parole, e la moglie
del pastore disse : «Anch’io le ho dedicato qualche riga nel
mio giornale, caro Reinhart, per serbare viva memoria
del nostro incontro ! ».
Egli si congedò nel modo più cordiale dai genitori,
senza che la figlia si facesse più vedere.
“Un altro tentativo fallito!” egli pensò dopo aver
lasciato il presbiterio; “ma l’impresa diventa sempre più
seducente quanto più appare difficile!”.
CAPITOLO QUARTO

Dove si evita una sconfitta

Poiché il cavallo doveva ancora aver fame, Reinhart


smontò di nuovo di sella a poca distanza dal villaggio,
davanti a una locanda solitaria che sorgeva al limitare
di una grande foresta e portava per insegna un corno da
caccia dorato.
Sotto il portico ombroso della locanda era seduta a
cucire una dorma maestosa. Non era meno bella della
figlia del pastore e della figlia del gabelliere, ma assai più
solida. Indossava un abito nero a piegoline finissime, or­
lato di rosso, e le maniche ampie della camicetta erano di
un bianco abbagliante con larghe liste ricamate che le
coprivano i polsi. Nelle trecce scintillava un ornamento
d’argento, di forma intermedia tra un cucchiaio e una
freccia.
La donna salutò il viaggiatore con un sorriso e gli chiese
in che cosa poteva servirlo.
— Vorrei un sacchetto d’avena per il cavallo, — egli
disse — e poiché questo mi pare un soggiorno fresco e
gradevole, anche un bicchiere di vino per me, se volete
usarmi una cortesia!
— Avete ragione, — disse ella — qui si sta bene, v’è
pace e aria buona. Sicché godetevela e accomodatevi.
Mentre la donna andava a prendere il vino e ritornava
con una limpida bottiglia, Reinhart ammirò le sue belle
forme e l’andatura salda ; e quando ella setacciò con ener­
gia una misura di avena e la sparse davanti al cavallo sen­
za perdere la grazia, si disse: “Com’è popolato il mondo
di belle creature, e nessuna che sia uguale all’altra!”.
La bella sedette al suo tavolo e riprese in mano il
lavoro.
— A quel che vedo — disse Reinhart — siete sola in
casa.
— Tutta sola; — rispose piena di cortesia mostrando
una fila di denti candidi — la nostra gente è tutta nei
prati a falciare il fieno.
DOVE SI EVITA UNA SCONFITTA 971

— C’è molto fieno quest’anno? Ed è buono?


— Così così. Se la primavera non fosse stata tanto
asciutta ve ne sarebbe di più; bisogna prendere le cose
come sono, non può sempre andar bene!
— Così è ! La bella primavera ha giovato ad altri rac­
colti ; per esempio agli alberi da frutta, che hanno potuto
fiorire ottimamente.
— E l’hanno fatto davvero, senza risparmio 1
— Dunque vi sarà molta frutta quest’autunno?
— Speriamo, se il tempo non diventa troppo brutto.
— Tornando al fieno, quanto vale adesso?
— Sinora, prima che la nuova fienagione sia terminata,
il prezzo è rimasto alto, perché l’anno passato non fu ri­
munerativo; credo che la settimana scorsa costasse an­
cora più di un tallero. Ma ora dovrà calare.
— Lo vendete il vostro fieno, o lo tenete per voi, o
dovete acquistarne dell’altro, poiché tenete locanda?
— Per la locanda non occorre fieno, ma quasi unica­
mente avena ; per il nostro bestiame però il fieno ci vuole,
e allora si va a seconda delle annate ; un anno ci basta giu­
sto giusto, un altro ne dobbiamo comprare, il terzo ne
avanza un po’ da portare al mercato; dipende da tante
cose, e specialmente dalla riuscita degli altri prodotti.
— Lo immagino ! Lo immagino ! E dunque otto giorni
fa si pagava ancora un tallero per mezzo quintale?
— Caro signore, la smetta di tormentarsi — disse la
bella ridendo — e mi dica pure senza tante ambagi le
frasi scherzose che ha sulla punta della lingua. Sono ca­
pace di sostenere una celia e mi so difendere !
— Che intende dire?
— Eh, glielo leggo negli occhi che preferirebbe parlar
d’altro che di fieno, e vorrebbe farmi la corte mentre il
cavallo si sazia ! Poiché io rappresento qui la parte della
locandiera solitaria, non continuiamo a tacere le belle co­
se che si dicono in tali circostanze, e lasciamo che il mon­
do segua il suo corso ! Incominci, signore ! E sia arguto e
intraprendente, io farò la svenevole e la ritrosa!
— Comincio subito, ma lei mi ha còlto di sorpresa !
— Avanti, sentiamo !
972 L’EPIGRAMMA

— Ebbene ... oh Dio, è stato così inatteso che non so


più dir nulla!
— È un po’ poco ! Vuole che giochiamo al mondo alla
rovescia, e che sia io a corteggiarla e a farle complimenti
mentre lei fa lo smorfioso? Ma sì ! In verità lei è il più bel­
l’uomo che da molto tempo sia passato da queste parti a
piedi, in carrozza o a cavallo !
— Crede forse che mi dispiaccia sentirmelo dire dalla
sua bocca?
— No, non ho questo timore. Quando poc’anzi l’ho
visto arrivare, mi son detta: “Dio sia lodato, ecco final­
mente un uomo di bell’aspetto che non ha l’aria di curar­
sene troppo. Costui cavalca ardito per il mondo e certo
non porta in tasca uno specchietto come fanno i signori
di città, che appena gli si volta la schiena cavan fuori lo
specchio e si contemplano di nascosto”. Però, mentre mi
serviva quella chiacchierata sul fieno facendo gli occhi
come il gatto quando gira intorno alla polenta calda, ho
pensato: “Ma questo è del tipo del maestro di scuola!”.
— Ora esce dalla sua parte e mi dice delle scortesie !
— Aspetti, andrà subito meglio. Lei ha il piglio del­
l’uomo di polso, e si è lieti di prenderla così com’è, giac­
ché noi poveretti dobbiamo contentarci tutta la vita delle
apparenze, e non ci è consentito andare a cercare il noc­
ciolo. Così io considero anche lei come una bella apparenza
che passa di qui e beve il suo gotto; e ben volentieri ap­
profitto dello scherzo per dirle con tutta serietà che lei mi
piace molto. Perché così mi aggrada.
— Che io le piaccia?
— No, di poterglielo dire !
— Ma lei è il demonio in gonnella ! Uno spirito forte
con i capelli lunghi?
— Lei non credeva di trovare anche qui delle lingue
affilate?
— Eh, poco fa quando setacciava l’avena ho capito che
lei è una dama gagliarda e nello stesso tempo graziosa ! Il
suo modo di esprimersi però non lo so combinare con le
vesti campagnole, che d’altronde le stanno d’incanto!
— Be’, forse non ho sempre portato abiti di questa sor-
DOVE SI EVITA UNA SCONFITTA 973

ta ... e forse sì ! Ognuno ha la sua storia, ma io non co­


glierò l’occasione per snocciolarle la mia. Invece m’ag­
grada di dirle che lei mi piace senza rivelarle chi sono né
perché glielo dico, e senza che lei ne tragga vantaggio.
Così prosegua il suo cammino e s’accontenti d’essere stato
per me una sembianza, com’io rimarrò una sembianza
per lei.
Tali rudezze miste a rare lusinghe la dama le aveva
pronunciate in modo per nulla spiacevole, anzi con molta
grazia e un sorriso costante delle labbra rosse, sicché
Reinhart alla fine non potè trattenersi dal proporre:
— Vorrei che ora Ella restasse in argomento e che le
piacesse attestarmi anche con un bacio la sua lusinghiera
benevolenza !
— Chi sa? — disse lei — considerato che sarei io a ba­
ciare lei di mia volontà, e non lei me, potrei forse risol­
vermi, affinché lei in ringraziamento per la gradevole
conversazione se ne vada via coperto dell’ignominia di
esser stato baciato come una ragazzetta !
— M’infligga quest’ignominia !
— Vuole star fermo?
-Vedrà!
La donna fece un gesto come per avvicinarglisi; ma in
quell’istante un’ombra fredda passò sul viso di lui, gli
occhi lampeggiarono incerti fra il desiderio e la collera, in­
torno alla bocca guizzò un sorriso un po’ ironico, così che
ella con confusione quasi impercettibile sviò verso il ca­
vallo il movimento appena abbozzato, e s’accinse ad ab­
beverarlo. Reinhart le corse dietro esclamando che ormai
non poteva più permetterle di servire il suo cavallo. Ma lei
non si lasciò smuovere e disse che non l’avrebbe fatto se
non avesse voluto, e che il signore se ne stesse tranquillo.
Era però un po’ impacciata perché le cose s’erano
messe in modo che lei ora doveva aspettare finché Rein­
hart le offrisse di nuovo l’occasione di baciarlo, epperò
si sentiva offesa se ciò non accadeva. Anch’egli ne aveva
ima grandissima voglia ; ma mentre la guardava compia­
ciuto, temette che ella ridesse sì, ma senza diventare rossa,
e poiché quell’esperienza l’aveva già compiuta, da ricer­
974 L’EPIGRAMMA

catore coscienzioso non la voleva ripetere; meglio segui­


tare a inseguire il suo scopo. Questo gli pareva ormai
così attraente che sentiva già in certo modo il dovere di
non più tentare esperimenti inutili e rendersi degno fin
d’ora del dolce successo.
Quindi, per uscirne in buona maniera, finse di sentire
per la signora un altissimo rispetto, e di essere stato còlto
dal timore di dispiacerle spingendo troppo oltre lo scher­
zo. In quell’atteggiamento pagò la consumazione, s’in­
chinò cortesemente alla locandiera ed essa fece altrettan­
to, senza che accadesse più nulla. La donna prese la cosa
con buona grazia e congedò amabilmente il cavaliere.
“In questo corno da caccia non ci voglio soffiare;” pen­
sò egli fra sé mentre passava davanti all’insegna dorata
“forse l’incarico che mi diede la figlia del pastore mi
porterà sulla buona strada, così come il bene porta sem­
pre al meglio. Cerchiamo dunque il sentierino malizioso
che conduce alla villa o al castello dove dimora l’amica
sconosciuta”.
CAPITOLO QUINTO

Il signor Reinhart comincia a intuire


la portata della sua intrapresa

Trovò presto il sentiero; ma era davvero un sentiero


birbone; perché appena entratovi si perse in una rete di
viottoli per il trasporto della legna e di letti di ruscelli
prosciugati, qua in salita e là in discesa, ora nel buio fitto
degli abeti ora nel folto dei cespugli. Giunse sempre più
in alto, e alla fine s’accorse d’errare sul versante setten­
trionale della vasta montagna. Per ore si aprì la strada
nella foresta selvaggia e spesso fu costretto a condurre il
cavallo per la briglia.
“Ciò che mi sboccerà in questa selva selvaggia” pensò
di malumore “sarà piuttosto un cardo spinoso che una
bianca Galatea!”.
Ma inaspettatamente il groviglio si sciolse in un cam­
mino certo, tracciato ad arte, che conduceva verso il
fianco occidentale del monte. Era sempre una strada at­
traverso il bosco, ma ben spianata e tenuta sgombra
dai rami ; continuava a salire e scendere, ora più larga ora
più stretta; qui permetteva allo sguardo di spaziare lon­
tano, là conduceva attraverso tenebrosi corridoi di faggi.
Il disegno del parco diventava però sempre più chiaro,
e tradiva una mano raffinata ed esperta; ma poiché egli
non sapeva dov’era e non riusciva ad avere una vista
sull’insieme, temeva di doversi presentare come un in­
truso e un devastatore. Il cavallo guastava spietatamente
con gli zoccoli il suolo rastrellato, calpestava l’erba e i
fiori ben curati del sottobosco e distruggeva i gradini di
muschio che portavano su piccole colline. Reinhart, men­
tre era impaziente di sfuggire a quel chimerico imbroglio,
ne temeva allo stesso tempo la fine e malediceva l’ora che
l’aveva messo in un simile frangente.
D’improvviso tronchi e fronde si diradarono, il viottolo
sboccò bruscamente in un giardino fiorito che solo una
leggera cancellata dorata separava dallo spiazzo davanti
97θ L’EPIGRAMMA

alla casa. Egli avrebbe voluto varcare d’un balzo il giar­


dino e il cancello, ma giacché non era possibile andò avan­
ti protervo col coraggio della disperazione, senza scendere
di sella, e seguì fra le aiuole i sentieri tortuosi, di cui il
cavallo sollevava allegramente la rena bianca.
Alla fine giunse presso l’ariosa cancellata del giardino
e trattenendo il cavallo incominciò a osservare i luoghi,
senza curarsi d’essere sorpreso in sì barbaro atteggia­
mento, poiché nascondersi non appariva possibile. Si tro­
vava in una grande terrazza sulle pendici del monte, dove
sorgeva una bella casa ; davanti alla casa c’era un vasto
spiazzo quadrato, che balaustri di pietra proteggevano dal
ripido declivio. Nel riquadro crescevano alcuni platani
enormi, che vi allargavano sopra l’ombra dei nobili rami.
Sotto i platani e dalla balaustrata si vedeva un largo fiume
serpeggiare in un paesaggio vasto, inondato dal fulgore
del sole cadente. Gli altri due lati erano delimitati da
tappeti di fiori, presso uno dei quali sostava l’impaccia­
tissimo Reinhart. Solo allora s’accorse con stizza che sul
davanti della balaustrata due maestose rampe salivano
alla corte.
Sotto gli alberi poi egli scorse una fontana di candido
marmo che s’ergeva nel mezzo dello spiazzo come un mo­
numento quadrato e da ciascuno dei quattro lati riversava
i suoi zampilli in una vasca piatta, pur essa quadrata, so­
stenuta da delfini. Parte sull’orlo di una delle vasche,
parte sull’acqua limpida che copriva il marmo per non
più di un palmo d’altezza, giaceva e galleggiava un gran
mucchio di rose che una figura femminea era tranquilla­
mente intenta a ripulire e ordinare; era una dama snella
vestita di un bianco abito estivo, col viso ombreggiato da
un gran cappello di paglia.
Il sole al tramonto sfiorava ancora lo spiazzo con
la fontana e la figura serena, su cui i platani con le loro
masse di fogliame d’un verde iridato stendevano un chia­
roscuro trasparente eppure intenso.
Più inconsueta era quella vista, che sembrava piut­
tosto l’invenzione ideale di un esteta ozioso che un qua­
dro di vita reale, e più il prigioniero Reinhart, che stava
REINHART COMINCIA A INTUIRE 977

sul suo cavallo attonito come una statua, si sentiva sgo­


mento; finché l’animale, fiutando un comodo asilo, non
diede repentinamente un nitrito. La dama snella sussultò,
si guardò tutt’intorno, e scoperse infine il confuso cavaliere
dietro le grate auree della cancellata. Egli non si mosse,
ed ella dopo averlo guardato per qualche istante piena di
meraviglia, s’affrettò verso di lui per rendersi conto se
sognava ö era desta. Quando vide che tutto era assolu­
tamente reale, aprì con gesto riluttante il cancello e gli
volse uno sguardo interrogativo, che diceva: «Non sa­
rebbe tempo di far uscire le quattro zampe di quel cavallo
dal mio povero giardino maltrattato?». Nell’attesa si ri­
tirò rapida presso la sua fontana, prese una manciata di
rose e si apprestò ad affrontare i prossimi eventi.
Finalmente Reinhart smontò di sella e, traendosi die­
tro umilmente la sua cavalcatura d’affitto, con un bel­
l’inchino porse alla deliziosa apparizione, contemplan­
dola senza parlare, la lettera che la figlia del pastore gli
aveva affidato.
Ma non era la lettera, era invece il foglietto sul quale
aveva trascritto l’epigramma:
Vuoi tu il candido giglio in rosa rossa mutare?
Bacia una Galatea bianca : la vedrai sorridente avvampare.
La lettera con il portafogli gli era rimasta in mano,
ed egli scopri il proprio errore quando la dama aveva già
preso e letto il foglio.
Tenendolo fra le mani ella guardò con occhi sgranati
il turbato e arrossente Reinhart, e non si capiva se il fre­
mito che le torceva le labbra fosse di riso o di collera. Mu­
ta restituì il foglio e prese la lettera che il cavaliere le
tendeva in cambio balbettando parole di scusa. Quando
vide il grosso sigillo, un’aria di letizia le si diffuse sul volto,
che ora da vicino appariva la sede di tutte le cose belle.
Saettò Reinhart con gli occhi neri e intelligenti, poi, dopo
aver letto rapidamente il messaggio, rise e disse con ac­
cento vivace e malizioso:
«Confesso, signore, che questo è per me un avveni­
mento dei più bizzarri ! Uno sconosciuto a cavallo cade
978 L’EPIGRAMMA

dal cielo e s’impiglia come un tordo nella fragile cancel­


lata del mio giardino, scompigliando le aiuole e i sentieri !
Mi porta uno scritto munito del sigillo ufficiale di un re­
verendo ecclesiastico, con tanto di Bibbia, calice e croce,
e nel quale la mia amica che abita nella vallata, la figlia
del pastore, mi scongiura con le espressioni più fervide di
non dimenticare d’inviarle anche quest’anno i semi di ra­
vanelli ! Se lei è in grado di difendersi e di spiegare la sua
misteriosa provenienza, sarà il benvenuto in questa di­
mora montana, e io che le parlo, poiché mio zio, malato
di gotta, è confinato in camera sua, discuterò insieme a lei
con serietà e saggezza i prossimi sviluppi del suo strano
pellegrinaggio!».
Non soltanto il raggio del sole all’occaso, ma anche
una chiara luce interiore illuminava la graziosa dama in
tal modo che lo stupefatto Reinhart ricuperò la sua sicu­
rezza. Ma mentre pensava tra sé che o lì o in nessun altro
luogo avrebbe desiderato sperimentare il consiglio del
vecchio Logau, e solo ora ne intendeva il significato pro­
fondo, si rese anche conto a quali lunghi preliminari e
gravi difficoltà sarebbe stato legato il tentativo.
CAPITOLO SESTO

Dove si pone un quesito

Egli s’inchinò nuovamente con profondo rispetto e disse:


— Non sono meno stupito di lei per la mia sorte, ma­
damigella ! senonché io mi trovo, poco galantemente, in
vantaggio, cioè sorpreso nel modo più piacevole, mentre
finora non ho arrecato in casa sua che danni e malanni.
In viaggio da stamattina presto per compiere delle os­
servazioni naturalistiche, ho trascorso la giornata a por­
tare da una dama a un’altra dama una lettera che, com’el-
la mi dice, contiene un’urgente richiesta di sementi di
ravanelli ; mi sono smarrito sulla montagna, ho devastato
giardini per poi trovarmi prigioniero là dove dovevo an­
dare liberamente! Quale maestro ha progettato questo
parco così bello e spiritoso?
— Io stessa l’ho ideato e fatto eseguire; non sono che le
fantasie di una fanciulla !
— Allora plaudo al suo buon gusto ! Ma poiché ella
tende reti tanto ingegnose, deve prendersela con se stessa
se questa volta ha acciuffato un uccellacelo che non s’a­
spettava !
— Eh, accettiamo quel che Dio ci manda ! D’altronde
mi rallegro che il disegno del mio parco serva a qualche
cosa; perché se lei non vi si fosse smarrito sarebbe giunto
molto prima e probabilmente già ripartito; ma giacché
è tardi, e la prossima locanda parecchio distante, ho il
piacere di offrirle ospitalità. La mia amica la racco­
manda alle mie attenzioni e la descrive come un viaggia­
tore molto ragguardevole e assennato, che ha fatto con i
suoi genitori i discorsi più edificanti !
— Ciò mi stupisce ! Ho preso la parola non più di due
o tre volte, e per pochi minuti.
— Allora il poco che ha detto dev’essere stato tanto più
ammirevole, e io spero modestamente di ricavarne altret­
tanto piacere.
— Oh signorina mia, furono al contrario tali sciocchez­
ze quelle che dissi, specialmente alla sua amica, che certo
980 L’EPIGRAMMA

non avrebbe più scritto una così gentile presentazione se


non l’avesse già fatto prima !
— Sicché pare che con lei bisogna fare tutto alla ro­
vescia ! Se voglio ottenere il mio scopo di trattenerla qui
dovrò dunque fare il contrario e cacciarla di casa per es­
sere sicura che lei vi ritorni dall’altra parte !
— No, bellissima damigella, con il suo aiuto io vorrei
invece tentare di ridiventare padrone degli avvenimenti.
Mi dica dove devo andare e io marcerò diritto al luogo
che lei mi assegna e vi rimarrò attaccato come una mi­
gnatta !
— Lo farò. Ma allora sia coraggioso e non si lasci svia­
re né a sinistra né a destra, e se non si sentirà sicuro resti
seduto su una seggiola finché non la faccio chiamare ! Per
nessun motivo s’allontani di casa, e se le dovesse tuttavia
accadere qualcosa di strampalato o di spaventevole, mi
chiami subito in suo aiuto ! Se invece tutto si svolge felice­
mente e lei si mantiene à galla, ci rivedremo presto.
Con queste parole salutò l’ospite e s’affrettò verso casa
con il suo cesto di rose a chiamare gente. Comparve poco
dopo un vecchio servitore canuto, che, visto il cavallo,
fece venire uno stalliere dalla fattoria posta alquanto più
indietro rispetto alla casa. Poi vennero due ragazze in
pittoreschi abiti paesani, come quello che portava l’ostes­
sa del «Corno da caccia», e lo condussero in casa. Nella
camera a lui assegnata Reinhart si mise in ordine e aspettò
un poco, finché ritornò una delle ragazze con una gran
coppa di rose, mandata dai padroni di casa per rendere
più ridente la sua dimora, e l’altra seguì subito dopo con
una bella caraffa di cristallo a metà piena di un rosso vino
meridionale, un bicchiere e alcuni biscotti, il tutto su un
vassoio di peltro dalla forma antiquata.
Colpito alla vista del gruppo, e imbaldanzito dai nu­
merosi gradevoli eventi della giornata, Reinhart impedì
alle ragazze di deporre i doni sul tavolo e con solennità
le condusse davanti a un grande specchio che rivestiva
dal pavimento al soffitto il pilastro tra le due finestre.
Là le collocò con le spalle rivolte allo specchio e le fan­
ciulle lasciarono fare, non comprendendo le sue inten-
DOVE SI PONE UN QUESITO g81

zioni. Egli ammirò con diletto la scena; ora vedeva quat­


tro figure invece di due, poiché lo specchio rifletteva la
nuca e il dorso delle belle portatrici. Per trattenerle chie­
se loro il nome della padrona, sebbene lo conoscesse già,
ed entrambe dissero: «Si chiama Lucia!». Tosto però
capirono la malizia, deposero le offerte sul tavolo e cor­
sero via rosse in volto ; fuori diedero libero corso alle loro
risate birichine che squillarono allegramente sotto le volte
dei corridoi. Ma quasi subito i loro visetti ricomparvero a
un’altra porta della camera, e una delle due notificò con
parole assai contegnose, come se non avesse appena finito
di ridere forte, che il signore poteva andare in giro tran­
quillamente per le altre stanze, se non sapeva che fare:
vi avrebbe trovato libri e altri passatempi. Poi sparirono
lasciando semiaperto un battente della porta.
Reinhart lo aperse del tutto ed entrò nella stanza atti­
gua, che però non conteneva nulla tranne il mobilio
usuale; aperse quindi un’altra porta, anche quella sol­
tanto accostata, e trovò una sala spaziosa, che doveva
essere una specie di studio-museo di madamigella Lucia.
Una libreria con sportelli di vetro conteneva una con­
siderevole biblioteca, che però dimostrava all’aspetto di
essere stata raccolta in tempi più remoti. Molti quadri
tappezzavano le pareti, altri erano sparsi sul pavimento
per poter essere più comodamente osservati. Per lo più
si trattava di paesaggi ben concepiti e ben dipinti, ma
v’era anche qualche bel ritratto ; non erano però opere di
maestri famosi, ma di pittori il cui astro non rifulge per
ampi spazi, o è già stato dimenticato. Sovente si trovano
nelle vecchie case simili acquisti di generazioni passate;
capifamiglia amanti dell’arte che protessero talenti locali
o riportarono dai loro viaggi qualche dipinto apprez­
zabile, degno di lode, del cui autore non s’udì mai
notizia. Poiché, come molti muoiono giovani, molti
rimangono per tutta la vita ignorati e innominati no­
nostante l’applicazione e l’ingegno. Tanto più notevo­
le quindi appariva la cultura della signorina che senza
nomi gloriosi sapeva apprezzare quelle opere ignote e le
raccoglieva così appassionatamente. “Costei, a quanto
982 L’EPIGRAMMA

pare, sa tenersi alla sostanza”, pensò Reinhart osser­


vando che tutte le raffigurazioni o per il soggetto o per la
fattura erano adatte a soddisfare il gusto d’uno spirito ele­
vato. Alcune grandi incisioni da Poussin e da Claude
Lorrain sovrastavano una scrivania, in semplici cornici di
legno; sulla scrivania v’era un mucchio di ottime acque­
forti di noti maestri olandesi, accanto a un mucchio di
libri che Reinhart non esitò a sfogliare. Non uno trattava
argomenti inutili, buoni solo a far bella figura, e non
v’era neanche traccia di quei soliti libri per signore;
in compenso alcune opere importanti di epoche diverse,
non però quelle di cui è disseminata la strada del lettore
convenzionale ; vicino a nobili capolavori anche rispetta­
bili frivolezze e semplici relazioni di fatti, ai quali mada­
migella Lucia portava interesse come segno d’un’anima
libera e generosa.
Ma quello che più di tutto gli fece meraviglia, fu
una piccola collezione di volumi speciali, schierata a por­
tata di mano su una scansia al di sopra del tavolo, e messa
insieme dalla proprietaria stessa; infatti in ogni libro era
segnato sul frontespizio il suo nome e la data dell’acquisto.
I volumi contenevano esclusivamente autobiografie e
carteggi di persone di grande eccellenza ed esperienza.
Quantunque la fila di libri colmasse soltanto il ripiano
corrispondente alla lunghezza della scrivania, compren­
deva però molti secoli e, sempre, soltanto la parola diretta
dei maestri di vita o dei discepoli del dolore. Dalle pagine
di sant’Agostino fino a Goethe e a Rousseau non man­
cava nessuno degli essenziali libri di confessioni, e accanto
al selvaggio, borioso Benvenuto Cellini se ne stava mo­
destamente il pio libriccino giovanile di Jung-Stilling.1 A
braccetto frusciavano e scoppiettavano Madame de
Sévigné e Plinio il giovane, dietro venivano insieme i due
poveri caprai svizzeri Thomas Platter e Ulrich Bracker2
(il “Pover’uomo di Toggenburg”) ; passava con tintinnio
I. Johann Heinrich Jung-Stilling (1740-1817) : scrittore tedesco, noto
soprattutto per la sua autobiografia. 2. Thomas Platter (1499-1527) :
scrittore ed educatore svizzero la cui autobiografia, redatta in
dialetto alemanno, è un importante documento per la storia della
DOVE SI PONE UN QUESITO 9 83

d’armi il ferreo Götz, Dante avanzava col passo silente di


un’ombra reggendo in mano il volume della Vita nuova.
Ma nelle note del teologo luterano Johannes Valentin
Andrea bruciava e infuriava la Guerra dei Trent’anni.
Le miserie e i dolori, l’alta sapienza e la fiducia in Dio,
insieme con lo zelo dell’oppositore lo avevano a tal punto
plasmato e perfezionato che giunto infine alle massime
cariche ecclesiastiche egli condusse una vita degna d’es­
sere descritta solo in latino. La sua casa fu frequentata da
duchi, conti e principesse; egli accrebbe e adornò la già
ricca dimora, nonostante la perfidia con cui un’ammini­
strazione ostile tentò sempre di ridurre i suoi introiti. Fece
acquisto di due orologi preziosi «costruiti dall’artista
Habrecht» e di uno splendido boccale d’argento che l’im­
peratore Massimiliano II aveva donato al suo avo paterno
in segno del suo favore, e che l’inclemenza dei tempi aveva
rubato alla famiglia. Ma l’agiatezza permise all’eminente
prelato di riacquistare quel segno della benevolenza im­
periale. Quando venne a morte, raccomandò la sua anima
a Dio in presenza di sette religiosi sapientissimi e saldi
nella fede. Poco tempo prima aveva concluso l’ultima
parte della sua autobiografia con queste parole: «Ciò
che io d’altronde soffersi per colpa di quelle volpi ma­
ligne, progenie di vipere, che furono i miei sleali compa­
gni, sarà narrato nel diario dell’anno prossimo, se Dio lo
vorrà». Pare che Dio non l’abbia voluto.
Quella frase spassosa doveva essere piaciuta alla pro­
prietaria del libro, perché vi aveva dipinto a lato un
grazioso nontiscordardimé. Da tutti i volumi sporge­
vano striscioime di carta, e dimostravano che erano letti
e riletti coscienziosamente.
Su un altro tavolo erano i progetti del parco dove
Reinhart s’era smarrito, e altri da poco incominciati.
Quei progetti non erano schizzati modestamente su
piccoli lembi di carta, ma disegnati con mano ferma su
grandi fogli spessi, e da tutto quel che vedeva Reinhart
cultura; Ulrich Bricker (1735-1797) soprannominatosi il Pover’uomo
di Toggenburg: povero pastore, fu arruolato nell’esercito prussia­
no, da cui poi disertò; è celebre per la sua autobiografia.
984 L’EPIGRAMMA

fu indotto a involontaria ammirazione e sorpresa. Ancor


più dovette stupire quando scoperse nella nicchia d’una
finestra un tavolino più piccolo, coperto anch’esso di libri
e di scritti, e più precisamente di grammatiche, vocabo­
lari e quaderni diligentemente riempiti di vocaboli e
tentativi di traduzioni in diverse lingue. Tra queste non
soltanto il tedesco e il francese antico, ma anche l’olande­
se, il portoghese e lo spagnolo, roba che Reinhart capiva
solo in piccola parte e imperfettamente: e la cosa gli
parve tanto più strana poiché in quella opulenta solitudi­
ne non poteva trattarsi della diligenza di una intellettua­
le pedante.
Mentre se ne stava in mezzo alla sala, quasi geloso
di quegli studi fuor del comune e tuttavia in fondo senza
pretese, incerto sull’atteggiamento da prendere, entrò
Lucia e si scusò di averlo lasciato solo per tanto tempo.
Disse che aveva avvertito della sua presenza lo zio in­
disposto, il quale era spiacente di non poterlo ricevere
per il momento, ma sperava di rimediare in seguito alla
mancanza. Rivedendo la fresca e bella apparizione, a
Reinhart salì suo malgrado alle labbra la domanda che
gli muoveva l’animo a una viva curiosità, ed egli esclamò
senza riflettere, guardandosi intorno : « Perché si occupa
di simili cose?».
La domanda non sembrava del tutto immotivata, anche
se non gli fruttò alcuna risposta. La bella signorina lo
guardò facendo gli occhioni e arrossì visibilmente, dopo
di che lo invitò con cortesia un po’ più severa ad accom­
pagnarla. Reinhart obbedì, non senza confusione, e anche
lui con un certo rossore sul volto.
CAPITOLO SETTIMO

Di una vergine folle

Ora infatti, mentre camminava tenendola al braccio,


sentiva che la sua domanda non voleva dir altro che:
«Bellissima, non hai di meglio da fare?». O ancor più
chiaramente: «Quali sono le tue esperienze di vita?».
Perciò la coppia dei due che erano sconosciuti l’uno al­
l’altro procedette con uguale perplessità verso la sala da
pranzo, e ognuno desiderava di essere mille miglia lon­
tano, ben consapevole di essersi messo incautamente
scherzando in una posizione critica.
Ma l’impaccio si sciolse quando entrarono nella sala
già illuminata dove le due fantesche erano intente a
mettere in tavola la cena. Reinhart e Lucia presero posto
e le ragazze dopo averli serviti sedettero esse pure al de­
sco, si riempirono il piatto di cibo e mangiarono con ap­
petito e con garbo.
— Vede, — disse Lucia all’ospite — noi viviamo qui
una vita patriarcale, e spero che lei non si sentirà offeso
dalla presenza delle mie brave ancelle.
— Al contrario, — replicò Reinhart — esse contri­
buiscono ad accelerare la mia cura !
— Quale cura? — chiese Lucia, ed egli rispose:
— La cura della mia vista. Per il troppo lavoro mi sono
stancato gli occhi, e in un buon vecchio libro di me­
dicina ho letto: gli occhi malati si rafforzano e si risa­
nano ammirando leggiadre figure di donne, e anche
vuotando una borsa di denaro e contemplando lucenti
monete d’oro nuove di zecca. Quest’ultimo rimedio non
credo sia molto efficace per me; il primo invece mi sem­
bra seriamente raccomandabile; perché già gli occhi
non mi dolgono quasi più, mentre stamattina mi andava
assai male!
Reinhart pronunciò queste parole con molta gravità
e con la stessa innocenza con la quale il vecchio libro di
medicina impartiva il consiglio. Perciò, sebbene egli non
se lo proponesse affatto, la frase suonò come un’adulazio­
986 L’EPIGRAMMA

ne, e tanto efficace che le donne non pensarono nemmeno


a rispondere con ironia. La signorina Lucia rimase di
nuovo sconcertata e non sapeva come giudicare il suo
strano ospite, e le servette lo occhieggiavano di nascosto,
come una gradita distrazione nella loro vita quasi mo­
nastica. In verità egli era così poco portato all’adulazione
volgare, che già rimpiangeva le sue parole, e per atte­
nuarle e distorglieme l’attenzione aggiunse che aveva
trascorso una giornata felice e già goduto altri spettacoli
di bellezza. Così narrò anche della bella ostessa del
«Corno da caccia» e chiese qual era la storia di quella
bizzarra creatura.
Poi però, con l’imprudente sincerità che fin dal suo
arrivo alla villa l’aveva messo in pericolo, raccontò tutto
l’andamento e il carattere del suo pellegrinaggio, la sco­
perta del saggio epigramma, l’incontro con la guardiana
del ponte e quello con la signorina del presbiterio, non­
ché, alla fine, la conversazione con la locandiera. In pre­
senza della sua ospite egli si sentiva infatti spinto come
per magia alla sincerità, e anche se avesse commesso le
peggiori diavolerie, la confessione delle medesime gli sa­
rebbe balzata da sola alle labbra.
Eppure, anche se quell’influsso non poteva che fare
onore a Lucia, pareva che questa non ne fosse affatto
compiaciuta. Ricordando il foglietto che Reinhart le ave­
va consegnato a tutta prima invece della lettera, ella av­
vampò graziosamente di collera e disse con un sorriso
ambiguo :
— Dunque lei si propone di continuare in questa casa
le sue eleganti avventure, ed è venuto qui unicamente
con sì lusinghiera intenzione?
Dopo di che si mise a passeggiare concitatamente su e
giù per la sala, mentre le due ragazze, come indignate
caudatarie della sua ira, s’alzavano in piedi anch’esse e
dardeggiavano l’infelice ospite troppo sincero con oc­
chiate sarcastiche. Reinhart non mancò di levarsi da
tavola a sua volta e dopo aver assistito per un poco, co-
stematissimo, alla passeggiata della damigella, disse:
— Signorina, se me lo comanda lascerò senza indugio
DI UNA VERGINE FOLLE 987

questa casa, coi più sentiti ringraziamenti per il breve ma


memorabile soggiorno, e riprenderò il mio cammino !
Senza arrestarsi, la bella rispose :
— È notte, e nelle vicinanze non può trovare un al­
loggio confacente; ma così come stanno le cose non è
possibile che lei rimanga fra noi, lo dico senza alcun ran­
core ! Del resto il viaggio notturno non può che allettare
il suo spirito intraprendente, e le darò un accompagnatore
munito di lanterna.
Non gli restava altro che prendere congedo; andò umil­
mente incontro alla dama, ma, mentre era in procinto di
inchinarsi con rispetto, mutò idea, si raddrizzò e disse
gentilmente :
— Ho riflettuto e ritengo che sia meglio per lei e per
me se non mi lascio scacciare così ignominiosamente dalla
sua casa. Infatti, mentre rimanendo conservo la mia di­
gnità, le do l’occasione di affermare nel modo più splen­
dido la sua gloria femminile. Giacché anche se fosse vero
che io macchinassi uno scherzo disdicevole quantunque
innocente, la punizione sarebbe davvero troppo severa se
dovessi andarmene, pur in tutta amicizia, umile come uno
scolaretto e senza aver lontanamente tentato quell’esperi­
mento indiscreto ! Ma sia lungi da me ogni pensiero irri­
verente! E da lei pure, mia gentile ospite, la sospetta
apparenza di volersi proteggere con palese violenza e
con una brusca espulsione contro un avventuriero ben
poco pericoloso!
Così dicendo le porse il braccio e la ricondusse al suo
posto, che ella riprese in silenzio. Sedettero nuovamente
di fronte; poi la signorina gli tese la mano al di sopra del
tavolo e disse:
— Ha ragione lei, facciamo dunque la pace ! E in se­
gno di riconciliazione le racconterò la storia della locan-
diera del bosco. Ma prima, come prova delle sue oneste
intenzioni, mi dia quel famigerato versetto che porta con
sé. E voi, ragazze, prendete i vostri filatoi e filate la vo­
stra benedizione serale !
Le fantesche andarono a prendere due leggeri filatoi
e sedettero a lavorare; Reinhart trasse fuori l’epigramma
988 L’EPIGRAMMA

e lo diede a Lucia; questa mostrò il foglio alle ragazze e


disse :
— Guardate un po’ quali sciocchezze si reca in tasca
un autorevole scienziato ! — E fra gli scrosci di risa delle
ragazze accostò il povero foglietto a una delle candele, lo
bruciò e ne soffiò in aria la cenere. Poi, mentre il dolce ron­
zio delle ruote accarezzava l’orecchio di Reinhart come
un accompagnamento nuovo eppur familiare, incominciò
il suo racconto.

— La bella ostessa del «Corno da caccia» — ella disse


— è davvero una figura bizzarra. Fin da bambina si di­
stinse tanto per la bellezza e la salute quanto per una sua
particolare intelligenza, prontezza di lingua o di spirito, o
come la si vuol chiamare; e più cresceva, più splendida­
mente parevano svilupparsi le sue doti interiori ed este­
riori. Quanto alla bellezza, anzi, non «pareva», ma era
realmente cosi; giacché per graziosa che ella si possa de­
finire ancor oggi, quelli che l’hanno vista prima dicono
che è soltanto un’ombra di ciò che era qualche anno fa.
La bellezza interiore invece, o la supposta saggezza della
fanciulla, si dimostrò soltanto un’apparenza ingannevole ;
è vero che ha ancor sempre la lingua più lesta che si possa
immaginare, ma dietro non v’è che buio e stoltezza. Non
soltanto i genitori - tavernieri e contadini rozzi e indif­
ferenti - non la sollecitarono mai a imparare qualcosa,
ad arricchire la sua anima, ma lei stessa non ne provò
mai il minimo impulso, e rimase così ignorante anche
delle cose essenziali, che scrive con grande fatica e dicono
che la lettura stessa le sia abbastanza difficile. Ma anche
per ciò che riguarda l’intelligenza naturale, la com­
prensione di ciò che è più importante e più valido nella
vita umana, era così manchevole, che rimase un’oca per­
fetta, immersa spiritualmente in tenebre profonde, men­
tre la sua agilità di lingua applicata a cose ridicole e pue­
rili le conservava tuttavia la fama di creatura intelligente
e astuta. Si sosteneva però soltanto in compagnia nume­
rosa, dove la gente andava e veniva, e dove non occorreva
reggere a lungo ; appena era sola con una persona un po’
DI UNA VERGINE FOLLE 989

perspicace, la gloria non durava nemmeno un’ora e la


ragazza si trovava in secca. In tal caso dichiarava che
quella persona era noiosa e sempliciotta e che non c’era
da cavarne nulla. Ma quando si trovava a tu per tu con
gente del suo stampo, a furia di stupidaggini nascevano i
più insulsi punzecchiamenti e litigi.
Tuttavia lei si considerava un portento, e aspirava a
grandi cose, fra le quali, ben s’intende, l’accalappiamento
di un giovane signore che fosse illustre e magnifico. Ma
poiché, come ho detto, era forte soltanto in un gruppo
numeroso, non era mai riuscita a isolare una singola
relazione e ad avvolgerla sul suo arcolaio.
Quando i miei nonni erano ancora in vita, venivano qui
molti giovanotti, che si divertivano a più non posso e ren­
devano pericolosa la regione. I giovani signori si diletta­
vano particolarmente di riunirsi all’osteria del bosco con
i proprietari e gli ospiti delle ville dei dintorni, per battute
di caccia e scorribande ; sostavano là giorni e notti e face­
vano la corte alla bella figlia dell’oste. Costei sapeva
destreggiarsi a meraviglia in mezzo a loro, e i suoi geni­
tori erano fuori di sé per l’ammirazione.
Sovente veniva da noi un giovane cittadino, che era un
bel ragazzo ma non valeva nulla e, a parte un po’ d’istru­
zione e le buone maniere, era quasi tanto sciocco quanto
la fanciulla del «Corno da caccia». Ricco, scapestrato e
viziato, dava tanto più baldanzosamente il tono a ogni
sorta di pazzie in quanto il suo cervello era interamente
vuoto di buoni pensieri; ed era nell’osteria del bosco
sempre il primo e l’ultimo. Ne faceva addirittura una
questione d’onore, e se non era stato lui ad architettare un
tiro, o se nelle riunioni non sosteneva la parte principale,
si chiudeva nel silenzio e fingeva di non vedere e di non
sentire nulla invece di ridere con gli altri. Si dava special-
mente da fare con Salome, la stringeva di un assedio con­
tinuo, andava dicendo che lei lo amava, e che lui medi­
tava di chiederla in isposa, il che naturalmente era inteso
come uno scherzo. La ragazza lo contraddiceva di con­
tinuo con motteggi pungenti, più grossolani che estrosi,
assicurava di non poterlo soffrire ; e invece era ansiosa di
99° L’EPIGRAMMA

legarlo a sé, e non dubitava di riuscirvi: non sapeva au­


gurarsi un partito più splendido. Ma per molto tempo
non fece progressi, perché mastro Drogo (era lo strano
nome che gli avevano dato i genitori) recitava solo la com­
media, e così faceva lei pure, non sapendo che altro intra­
prendere, finché la sua stessa follia la spinse improvvisa­
mente a un passo disperato.
Nel giardino dietro la locanda c’era una pergola folta,
circondata per di più da cespugli. Fu là che una sera,
quando già le stelle splendevano in cielo, Drogo attirò la
brigata maliziosa fingendo di seguire furtivamente la Sa­
lome e di avere con lei un convegno segreto. Egli era per­
suaso che se ne fosse andata a dormire imbronciata per­
ché si erano punzecchiati tutta la sera, e fece le cose così
bene che la compagnia cadde nell’inganno e credette sul
serio che egli volesse scivolare inosservato dentro la per­
gola. Si scambiarono cenni d’intesa e gli sgattaiolarono
dietro, quatti come lui che li precedeva, e quando Drogo
s’infilò sotto la pergola buia circondarono pian piano il
verde riparo per spiare la coppia e per sorprenderla;
giacché i loro procedimenti non erano troppo delicati.
Quando il giovane Drogo fu al suo posto e s’accorse
che gli spioni s’erano schierati secondo il suo desiderio, in­
cominciò a prendersi gioco di loro e a provocarne l’invi­
dia imitando i confidenziali sussurri di due innamorati
che s’incontrano di nascosto ; ripetè parecchie volte som­
messamente il nome di lei, e poi il proprio alterando la
voce; s’udirono le paroline più dolci, i sospiri, e final­
mente il rumore di un bacio, seguito da un secondo e poi
da parecchi, che si persero infine in una vera pioggia di
baci, interrotta da espressioni di tenerezza, mentre gli
ascoltatori un po’ si davano gomitate, un po’ soffocavano
dalle risa, e poi si rimettevano all’agguato come sparvieri.
Ora, il buon signor Drogo con la sua farsa non era
affatto solo sotto la pergola ; e chi c’era con lui se non la
Salome, acquattata in un angolo? Essa infatti, invece di
andare a letto, s’era rifugiata lì a desolarsi un po’ perché
la balorda incertezza della sua sorte incominciava ad an­
gustiarla, e stava anzi piangendo silenziosamente all’ar­
DI UNA VERGINE FOLLE 991

rivo del buontempone. Sulle prime non riuscì a capire chi


era e rimase immobile nel suo cantuccio per non tradirsi.
Però, quando incominciò la commedia, essa riconobbe il
suo antagonista, e udì gli altri avvicinarsi pian piano;
in breve, poiché si trattava di uno scherzo indegno, colse
subito il senso di tutta la scena, mentre non avrebbe mai
saputo indovinare qualcosa di serio, e di colpo le balenò
l’idea di catturare il motteggiatore nella sua rete, questa
volta o mai più !
Mentre lui era occupatissimo a baciar l’aria con molta
arte, come se baciasse le labbra rosse di Salome, si sentì
improvvisamente cinto da due braccia, e i suoi baci in­
contrarono quelli di una bocca viva e vera. S’arrestò spa­
ventato e fece per fuggir via ; ma Salome lo tenne stretto,
10 soffocò di baci e disse forte: «Ecco, tesoro, quanti baci
ti do ora, tanti i fulmini che ti debbon colpire se tu non mi
resti fedele!».
In quel momento la brigata che li spiava si scatenò, le
luci tenute pronte furono accese di colpo e così venne illu­
minata la pergola, e scoperta e circondata la coppia fra
grandi scrosci di risa e sonori rallegramenti. Ma soprag­
giunsero anche i genitori della ragazza e un fratello dal
fiero cipiglio, appena tornato dalla lunga ferma militare,
garzoni, braccianti e clienti dell’osteria. Questi avevano
un’aria per nulla rassicurante; la coppia in testa a tutti fu
accompagnata in casa, dove i genitori pretesero una spie­
gazione. Salome piangeva di nuovo ed era molto ango­
sciata; Drogo volle togliersi d’impiccio e cercò di svignar­
sela, ma gli amici gli sbarrarono la strada e un po’ per
malignità, un po’ per invidia non gli permisero di sottrarsi
al destino; lo esortarono a dichiararsi, non meno seria­
mente dei genitori di Salome, mentre questa, come’Jdo-
mata, se ne stava lì mesta e soave, e il giovane sentiva
ancora il fresco ardore delle sue carezze. Così si fidanzò
solennemente con lei e le promise le nozze davanti a tutti i
testimoni.
Non gli fu difficile ottenere il consenso dei suoi, che ave­
vano sempre fatto tutto quel che il ragazzo voleva, e così
11 matrimonio male assortito, ma in fondo tale solo in ap­
992 L’EPIGRAMMA

parenza, fu ufficialmente deciso. Ma, cielo ! sarebbe stato


dieci volte meglio se invece il matrimonio fosse stato ma­
le assortito in sostanza, e i due sposi non si fossero cosi
perfettamente pareggiati nella stoltezza ! La sposa venne
rivestita alla moda e sei mesi prima del matrimonio fu
condotta in città, per imparare le cosiddette maniere raf­
finate e il governo di una casa di alta classe. Ma così venne
a navigare su un oceano dove le sfuggì di mano il timone
della sua navicella. Una famiglia amica dei suoi futuri
suoceri l’accolse per cortesia presso di sé. Era gente che
conduceva una vita piena di tranquillità e di decoro, e
che non sprecava molte parole; i discorsi imprudenti e
sconsiderati non erano graditi in casa loro; al contrario,
tutto quel che si diceva doveva apparire solido e ben fon­
dato; ma sotto sotto i giudizi aspri fioccavano abbastan­
za fitti. Da principio Salome cercò di far del suo meglio;
ma siccome la sua intelligenza era assolutamente immo­
bile, non ebbe successo. I suoi gesti e maniere, che nella
locanda non stavano male, erano troppo larghi e bruschi
nelle case di città, e i suoi motti di spirito apparvero a un
tratto goffi e scipiti. La poveretta s’arrabattava, secondo
la sua abitudine voleva parlare continuamente, ma non
sapeva serbare il tono giusto, ora era fin troppo umile e
gentile, ora alzava la cresta e non la cedeva a nessuno,
in breve si scavò da sola il terreno sotto i piedi, sinché
le persone distinte che l’avevano guardata di traverso fin
dal primo giorno non incominciarono a chiamarla «il
cammello», nome che si diffuse rapidamente, soprattutto
nelle case dove c’erano ragazze che avevano mirato al
suo sposo. Giacché anche se Drogo non era un luminare,
come partito costituiva un’ambita occasione che con
dispetto avevano visto sottrarre ai loro calcoli per opera di
quella contadina. La società femminile non mancò di
ostentare il disprezzo in cui era tenuta la poveretta, e si
fece premura di far giungere l’onorifico appellativo al­
l’orecchio del fidanzato, per il quale prese a dimostrare
una pietà delicata e ipocrita, come se egli, il più prezioso
gioiello del mondo, fosse deplorevolmente caduto nelle
mani di un’indegna. Anche gli uomini che in campagna
DI UNA VERGINE FOLLE 993

non avevano disdegnato di vagheggiare e di corteggiare


la ragazza, adesso avevano paura di compromettersi e la
piantarono vergognosamente in asso.
Così andò a finire che il fidanzato, quando la fidan­
zata non era presente, si considerava un povero infelice che
aveva rovinato per leggerezza il proprio avvenire, e non
la finiva di compiangere se stesso ; ma appena lei compa­
riva, la sua bellezza scacciava tali pensieri, perché Drogo
con la sua testa vuota viveva solo alla giornata. Salome,
da parte sua, che si vedeva da ogni parte venduta e tra­
dita e non presagiva nulla di buono, cercava d’attaccarsi
tanto più paurosamente all’essenziale, cioè al fidanzato,
e di legarlo a sé raddoppiando le tenerezze; giacché non
aveva più altra moneta da spendere, e, appena cessavano
di sbaciucchiarsi, la conversazione taceva fra quei due
che una volta si punzecchiavano così gagliardamente.
Salome non sospettava neppure che fossero in questio­
ne la natura del suo spirito, la sua intelligenza ; imputava
la sfortuna che la perseguitava alla propria origine con­
tadina, al malvolere della gente di città. Perciò si chiuse
nella sua presunzione, pensò che quando si sarebbe ma­
ritata avrebbe ricominciato a giocar le sue carte, e nel
frattempo non si spiccicava dall’amato per essere sicura
del suo attaccamento.
Un bel pomeriggio erano seduti su un divano o sofà di
damasco : Salome vestita d’un abito di seta rossa che ave­
va comprato lei stessa, con pesanti bracciali d’oro donati
dallo sposo e trine autentiche che provenivano dalla fu­
tura suocera ; Drogo azzimato come un arbitro della mo­
da. Così si tenevano abbracciati e offrivano, in apparenza,
un perfetto spettacolo d’amore terreno; perché giovani,
belli e ben vestiti com’erano, e per di più fidanzati ai quali
arrideva una lunga vita spensierata, chiusi in una bella
sala tranquilla a godersi l’ozio più dilettevole, che cosa
poteva mancare loro per credersi in paradiso? Dopo lo
scambio di carezze s’erano dolcemente addormentati, ed
ora si svegliarono pian piano, l’uno dopo l’altra; il fi­
danzato sbadigliò un poco, con misura, tenendosi la ma­
no davanti alla bocca; la fidanzata invece, vedendo lui,
994 L’EPIGRAMMA

fu irresistibilmente attratta a imitarlo e spalancò la bocca


al massimo come usava fare in campagna quando non
c’era nessuno ; e accompagnò l’enorme sbadiglio con quel
sospiro o gemito da giudizio universale, sciagurato e irri­
guardoso, col quale certa gente, con le migliori intenzioni
del mondo, riesce a sconvolgere i nervi più saldi e a ro­
vinare gli umori più lieti.

Non deve stupirsi — s’interruppe Lucia — se io co­


nosco con tanta esattezza tutti i particolari: ho sentito
raccontare la storia a sazietà dai due interessati; e sembra,
del resto, che queirinfelice duetto di sbadigli abbia muta­
to la piega delle cose, come un’involontaria, fatale con­
fessione. Almeno, tutti e due insistono stranamente su
questo punto.

Il fidanzato a un tratto s’infastidì ed esclamò: «Oh


Santo Gielo! è tutto quello che mi sai dire?».
Salome voleva baciarlo; ma egli la fermò e disse: «No,
lasciami stare, e dimmi piuttosto qualcosa di carino!».
La fidanzata respinta si coperse di rossore, ma disse in
fretta: «Se lanci un appello nel bosco, l’eco ti rimanda il
suono ! Dimmi tu qualcosa di amabile, io ti risponderò !».
«Oh, i cammelli non parlano !» replicò Drogo con un
sospiro, senza pensarci. Lei divenne pallida, s’appoggiò
allo schienale e domandò: «Chi è il cammello, tesoro?».
«Amor mio,» diss’egli «tutta la città ti chiama così!»«
«E anche tu mi giudichi tale?» chiese Salome, ed egli
rispose cercando di attirarla a sé: «Certo, il più grazio­
so di tutti i cammelli!».
Fu allora che Salome si sentì trafitta dallo strale più
aguzzo che la potesse colpire; infatti l’intelligenza che
credeva di possedere era il suo massimo vanto, il suo pal­
ladio, la sua dote più eminente. Ma fu un bene per lei,
perché ne ricavò la forza di ribellarsi e di farla finita;
così si salvò dalla rovina e riparò alle sue debolezze.
Senza più pronunziare una parola si strappò dall’ab­
braccio, sciolse i bracciali dai polsi, le trine dal collo, li
gettò ai piedi del barbaro fidanzato e abbandonò a pre-
DI UNA VERGINE FOLLE 995

cipizio la casa, sputando sulla soglia come usano i conta­


dini; e cosi com’era, senza cappello e senza guanti, corse
fuori della città. Solo quando fu in aperta campagna
ruppe in lacrime, e continuò la sua strada fra pianti e
singhiozzi, asciugandosi gli occhi al bellissimo abito di
seta (non aveva con sé neppure un fazzoletto), per campi
e foreste, finché arrivò a notte fonda alla casa paterna,
più simile a una zingara che a una fidanzata fuggiasca. Ai
genitori costernati non diede risposta, e andò a rinserrarsi
in camera sua. Vi rimase parecchi giorni, e quando ne
uscì indossava di nuovo le antiche vesti paesane. Che cosa
fece dell’abito di seta rossa non si seppe mai. Qualcuno
disse che l’aveva bruciato, altri che l’aveva seppellito, altri
ancora che l’aveva venduto a un rigattiere.
Dopo un certo periodo la famiglia cittadina presso la
quale aveva abitato le mandò la sua roba senza notizie o
domande; altro tempo trascorse, né mai il fidanzato o
altri si informarono di lei. I genitori volevano fare causa
a Drogo, ma ella s’oppose con sdegno, e così il fidanza­
mento della bella Salome svanì nel nulla e la ragazza è
ancora lì come lei l’ha vista, da un lato più savia e mi­
gliore di prima, dall’altro ancora più folle. Il suo nuovo
capriccio è di disprezzare gli uomini e prendersi gioco di
essi, o almeno così crede, mentre invece preferisce la loro
compagnia a ogni altra cosa. Ma non credo che s’invi­
schierà mai in un altro fidanzamento.
CAPITOLO OTTAVO

Regine

Quando Lucia tacque, Reinhart non seppe subito che


cosa dire, poiché una certa perplessità Io tenne per un
poco pensieroso e sospeso. Da principio l’eloquenza pre­
cisa e un po’ aspra della signorina nel descrivere le debo­
lezze di una creatura della sua età e del suo sesso lo aveva
stupito e gli aveva fatto temere una natura critica e poco
femminile. Ma ricordando i libri da lei prediletti, veduti
poco prima, credette di riconoscere in quell’esposizione
piuttosto l’abitudine di giudicare i fatti con libertà, di
comprendere i destini e di chiamare le cose col loro no­
me. Se poi rifletteva alla solitudine della narratrice, lo
riprendeva il caldo e incuriosito interesse che lo aveva
già istigato a una domanda inopportuna. In seguito però,
quando Lucia raccontò di quegli imprudenti baci e carezze
in tono gaio e superiore e con un’ombra di scherno, si
sentì propenso a interpretare ciò come un’allusione e un
rimprovero alla sciocca impresa per la quale s’era messo
in cammino. Per ripararsi da quell’attacco passò al con­
traddittorio e a una specie di difesa della sventurata Sa­
lome, incominciando così:
— L’orgogliosa rassegnazione alla quale la fanciulla è
giunta così inaspettatamente mi sembra dimostrare che
anche le buone qualità esistenti soltanto nell’immagina­
zione, quando vengono offese o messe in dubbio, produco­
no gli stessi effetti delle virtù reali, cosicché la follia, ad
esempio, se viene attaccata la sua presunta saggezza, nel
dolore di tale offesa può veramente divenire riservata e
prudente. Del resto è un peccato che la povera bella
Salome non abbia preso marito !
— È caduta fra due seggiole — replicò Lucia — per­
ché con i signori non è riuscita, e con i contadini non vuo­
le abbassarsi ; eppure avrebbe ancora potuto render felice
un uomo della sua condizione, che con facoltà mentali
della stessa forza e preso da un duro lavoro quotidiano
REGINE 997

non si sarebbe reso conto della sua irragionevolezza e


l’avrebbe forse considerata un raro gioiello.
— Certamente — disse Reinhart — doveva pur esserci
per lei un uomo capace di apprezzarla anche con i suoi
difetti ; tuttavia l’uguaglianza di ceto e d’intelligenza non
mi sembra così assolutamente necessaria. Credo piuttosto
che una creatura di quel genere starebbe bene accanto a
un uomo veramente superiore e comprensivo, e anzi che
un tal uomo, avendone agio, potrebbe ricavare molta
gioia a legare al palo con pazienza e abilità il tralcio di
una vite così bella, e a farlo crescer diritto.
— Nobile giardiniere ! — esclamò Lucia — ma dun­
que lei rinuncia più volentieri all’intelligenza che alla
bellezza?
— La bellezza? — disse lui — Non è la parola giusta,
non quella che qui ci occorre. Nell’argomento in que­
stione, la cosa prima e principale è il reciproco grandissi­
mo diletto, cioè che l’aspetto dell’uno piaccia all’altra in
modo straordinario. Se il fenomeno accade, si possono
smuovere le montagne, e ogni rapporto diventa possibile.
— Questa scoperta — replicò Lucia — non è cattiva,
però non è del tutto nuova, e mi sembra voler poi dire al-
l’incirca che nel contrarre un matrimonio non è male es­
sere un po’ innamorati!
La canzonatura aizzò di nuovo Reinhart alla polemica,
cosicché egli riprese:
— La sua supposizione è più giusta di quanto lei sem­
bra credere, eppure non giunge fino al fondo del mio
pensiero. Per innamorarsi basta sovente l’effetto unilate­
rale della fantasia, un’illusione qualsiasi, e v’è stata per­
sino gente che s’è innamorata senza aver mai visto l’og­
getto del proprio amore. Ciò che io intendo, invece, si
deve vedere direttamente, e non dev’essere abbellito dal­
l’immaginazione, bensì deve superarla a ogni incontro.
Anche se la persona amata si vede per anni, ogni giorno
e ogni ora, deve apparire nuova tutte le volte; in breve,
il volto è l’insegna della creatura sia fisica sia spirituale;
non può ingannare alla lunga, finirà per piacere sempre
e terrà insieme la coppia, sia pure fra tempeste e pericoli.
998 L’EPIGRAMMA

— Non so che farci — obiettò Lucia — ma mi sembra


che continuiamo a girare intorno allo stesso punto !
. —Ebbene, balziamo fuori dal cerchio e consideriamo
la cosa da un altro lato. Non vi furono in ogni tempo don­
ne assennate, graziose e anche esigenti che si legarono per
libera scelta a un uomo, il quale di tutte le qualità pareva
possedere solo le opposte; e non vissero queste donne in
pace e tenerezza coi loro mariti, tanto da farsene un’au­
reola davanti al mondo? E con ragione ! Perché anche se
un tratto ignoto agli altri suscitò la loro simpatia e nutrì
il loro affetto, questa si deve chiamare una forza e non
una debolezza ! Ora io non posso ammettere che gli uo­
mini debbano stare più in basso delle donne. Al contrario,
sostengo : proprio un uomo intelligente e veramente cólto
può sposare una donna e volerle bene senza guardare di
dove essa viene e com’è; il campo della sua scelta com­
prende tutti i ceti e tutti i modi di vivere, tutti i tempera-
menti e tutte le disposizioni; solo una cosa egli non può
trascurare senza commettere errore: l’aspetto gli deve
piacere ora e sempre. In tal caso tutto è nelle sue mani ed
egli potrà fare di lei ciò che vuole!
— A quanto pare lei continua a non dire nulla di straor­
dinario, — ribatte Lucia — però incomincio ad accor­
germi che si tratta di una certa obiettività d’intenditore ;
l’aspetto che piace diventa il punto di partenza del­
l’acquirente che va al mercato delle schiave ed esamina
le possibilità di raffinamento della merce, non è così?
— Un granellino di questa maligna interpretazione
potrebbe coincidere con la verità; e quale danno può
derivarne all’una o all’altra parte, se la felicità auspicata
promette una durata tanto più lunga?
— La durata del visetto giovane e liscio, che il signor
conoscitore s’è scelto con tanta cautela?
— Non mi fraintenda il problema, mia crudele signora
e ospite ! Di cautela non si può mai parlare in simili fac­
cende.
— In verità non lo credo neanch’io, tanto più se lei,
come c’è da aspettarsi, s’andrà a scegliere una sguattera
in cucina.
REGINE 999

t— Quello che m’è destinato non lo so ancora: aspetto


umilmente la mia sorte. Ma ho visto il caso in cui un gio­
vane stimato e molto istruito tolse per davvero una serva
dal focolare e visse felice con lei finché non ne fece una
dama pari suo, e solo allora avvenne la catastrofe.
— Ma il fatto non testimonia appunto contro le sue
concezioni orientali?
— Parrebbe, in realtà, ma non fu cosi ; tralasciando
l’orribile nome di cui ella gratifica la mia innocente filo­
sofia.
— E la sua storia è un segreto, oppure la si potrebbe
udire?
— Come meglio posso, la estrarrò volentieri dai miei
ricordi, con tutte le circostanze che mi sono ancora pre­
senti; ma la devo pregare di giudicare con fiduciosa in­
dulgenza le eventuali integrazioni, insite nei fatti stessi
quando vengono riferiti.
Siccome le due ancelle avevano fermato le ruote e
fissavano curiose i loro quattro occhietti sul narratore,
Lucia disse loro:
— Continuate a filare, ragazze, affinché il signore, sol­
lecitato e accompagnato dal ronzio, non perda il filo del
suo racconto. Anche lavorando potrete cogliere e tenere a
mente l’insegnamento che ne risulterà, e imparare a evi­
tare il pericolo quando i terribili cacciatori di donne ten­
dono le loro reti fin nelle cucine.
Mentre le ruote ricominciavano a ronzare, Reinhart
prese a narrare quanto segue:

— Viveva a Boston una famiglia di origine tedesca, i


cui avi erano emigrati nell’America settentrionale più di
cent’anni prima. I discendenti costituivano una casata che
godeva di una stima, che a pochi è dato conservare nel
perenne susseguirsi delle migrazioni; e anche la dimora
in senso stretto, l’abitazione e le suppellettili, avevano già
un carattere di anticà tradizione, per quanta se ne può
formare nel breve corso di un secolo. La lingua tedesca
non si spense mai fra i componenti della famiglia ; in par­
ticolare uno dei figli minori, Erwin Altenauer, era così
lOOO L’EPIGRAMMA

fervidamente attaccato a tutti i retaggi spirituali di cui


poteva impossessarsi, che non resistette al desiderio di co­
noscere la patria d’origine, e ciò al tempo in cui s’andava
già avvicinando al trentesimo anno di età.
Decise dunque di recarsi per un lungo soggiorno nel
vecchio mondo e in Germania; ma poiché con un certo
amor proprio voleva presentarsi in qualità ben definita e
in ogni caso come americano, si adoperò a Washington
per ottenere il posto di primo segretario d’ambasciata in
una delle maggiori capitali tedesche. Vi giunse con non
poche aspettazioni, bramoso soprattutto di avvicinare il
bel sesso degli Stati confederati germanici ; giacché se noi
uomini tedeschi ci siamo conquistati con zelo una fama
di superiore integrità, abbiamo conferito anche alle no­
stre donne la fama di una straordinaria profondità d’ani­
mo e di ricchezza e finezza di cuore, cose che brillano di
lontano e destano nostalgici desideri come i tesori della
saga dei Nibelunghi. Attratto dallo splendore di que-
st’Oro del Reno, Erwin era anche stato scherzosamente
esortato dai suoi parenti a riportarsi al di qua dell’oceano
una moglie tedesca veramente assennata ed esemplare.
Si sentì presto perfettamente a casa sua, come se il
padre fosse stato uno studente di Jena; ma ciò accadeva
soltanto in compagnia maschile, e appena la società era
costituita da membri dei due sessi la faccenda s’incagliava.
Sia che - come vi sono anche nei vigneti più belli dei
posti all’ombra dove i grappoli non maturano dolci co­
me al sole - egli fosse capitato in una contrada sfavo­
revole, sia che il difetto stesse in lui (un’ignoranza forse
del mestiere del vignaiuolo), fatto sta che egli non si sen­
tiva animato a districare il groviglio delle usanze. Erwin,
come gli altri membri dell’ambasciata, era di costumi
semplici, chiaro e preciso nelle parole e senza giri di frasi.
Essi rappresentavano ancora il vecchio autentico tipo
americano e andavano dritti per la loro strada senza cu­
rarsi delle cento piccole imboscate e intenzioni nascoste,
anzi senza neppure accorgersene ; per essi il sì era sì e il no
era no, e non ripetevano mai una cosa due volte.
Ora, Erwin era stupefatto di vedersi improvvisamente
REGINE lOOl

voltare le spalle da questa o quella dama, quando a una


domanda o affermazione di lei egli aveva risposto un
semplice sì o no, secondo il proprio schietto parere; ancor
meno riusciva a spiegarsi perché un’altra troncava dopo
due minuti il dialogo che aveva intavolato lei stessa, ap­
pena lui con una onesta obiezione aveva portato il di­
scorso su un terreno più saldo ; incomprensibile gli appa­
riva una terza che aveva insistito per conoscerlo, poi gli
aveva rivolto qualche domanda sul clima del suo paese
e senza aspettare la risposta s’era voltata a parlare con un
altro. Tale albagia non era in fondo che l’ammanto di
un’interiore mancanza di libertà, come pure il riserbo con
cui erano trattati lui e i suoi colleghi dovunque andassero,
mentre a volte scoprivano per caso d’essere oggetto, in
loro assenza, di studi e analisi approfondite. Se in quei
giardini fioriva ogni tanto una pianta d’apparenza più
gentile e disinvolta, anche essa era sorvegliata e si guar­
dava timorosa dal traboccare fuor della siepe.
Perciò Erwin rinunciò a navigare in un oceano di fron­
zoli dal quale emergeva così scarsa personalità femminile,
e per riposarsi delle fatiche sostenute si diede a fare lunghe
escursioni. A volte si recava in qualcuna delle graziose cit­
tadine universitarie, per conoscere i più celebri scienziati e
seguire qualche buon corso di studi ; altre volte visitava luo­
ghi dove venivano praticate le arti, ed educava la mente
e l’anima a contatto con la festosa natura degli artisti. In
tutti quei viaggi era trasferito in un mondo borghese no­
bilitato, che coltivando i beni migliori della vita gioiva
di tale vita con non simulata serietà. Lì la conoscenza
e la capacità venivano esercitate con onore e diligenza, e
le donne ardevano di vero entusiasmo per ciò che rite­
nevano buono e bello, ogni fanciulla si dedicava alle sue
tendenze preferite e costruiva all’ideale un suo piccolo
santuario privato ; e ben lontane dal rifiutare un colloquio
sincero non si stancavano di udir parlare di tutto ciò che
è buono e giusto. L’alternarsi delle stagioni offriva poi
una varietà di feste gioconde la cui semplicità era vivi­
ficata dall’antico incanto della poesia. Le belle vallate, le
montagne, le foreste offrivano un’ospitalità che era go-
1002 L’EPIGRAMMA

duta con gioia e gratitudine, e le donne si movevano


tutto il giorno all’aria aperta, con buon umore; il profu­
mo dei boschi aveva dato loro benessere fin dai tempi
delle avole e bisavole, e perfino la più modesta non si pe­
ritava d’intrecciare una verde ghirlanda e di porsela in
capo.
Tutto ciò piacque infinitamente di più al nostro bravo
Erwin. “Questa vita” egli pensò “è assai più vicina all’idea
che m’ero fatto in America; non è possibile che queste
creature gaie e assennate siano di dentro vili e filistee”. Un
paio di volte fu anche sul punto di contrarre un legame,
come si dice comunemente. Ma ahimè ! Anche qui ap­
parve inopinatamente una specie di rovescio della meda­
glia. Per particolare sventura, ovunque egli capitava v’era
una tale pubblicità e sorveglianza generale in quel campo,
che era impossibile anche soltanto comunicarsi i primi sen­
timenti e scambiarsi le prime occhiate senza che tutti lo
sapessero; non parliamo poi di giungere a una dichia­
razione che potesse rimanere per qualche tempo il dolce
segreto di una coppia d’innamorati. Sembrava che si po­
tesse amare e corteggiare solo in mezzo a un gran pub­
blico, ed essere incoraggiati a ciò proprio dalla folla de­
gli spettatori. Appena un giovane aveva scambiato qual­
che parola di più con la stessa ragazza, si prendeva atto
della relazione e la si spingeva di forza verso un fidanza­
mento ufficiale. Ma un simile sistema era per Erwin come
un veleno. Quel che secondo il suo sentimento doveva
essere l’intesa segreta di due cuori, era dato in pasto fin
da principio alla compartecipazione generale, e i diritti
dell’anima, le prime estasi dell’aurea primavera d’amore,
andavano perduti. Così egli era intimorito e trattenuto
fin dal primo capitolo dei suoi romanzi, e non gliene re­
stava nulla, se non l’irritazione di qualche pettegolezzo.
Ciò dimostra, è vero, che non aveva provato alcuna vera
passione; altrimenti non si sarebbe lasciato spaventare
dalle debolezze di cui sono sovente affetti i bravi borghesi.
Tuttavia l’irritazione rimase, e scacciando dalla mente
ogni altro pensiero egli si rivolse esclusivamente alla com­
pagnia degli uomini, ridotti a starsene fra loro.
REGINE IOO3

In quel periodo, circa dodici anni or sono, incontrai


Erwin Altenauer nella mia città di allora, se così si può
chiamare la sede dell’università dove mio padre, chia­
mato a insegnare, aveva comprato una casa e s’era spo­
sato con la figlia del banchiere locale. Io avevo appena
vent’anni, sebbene fossi già studente da due anni, e sia nella
casa patema sia altrove mi accadde sovente di gustare la
compagnia del giovane tedesco-americano. Era un uomo
solido, non piccolo, dalla testa bionda, e portava soltanto
cappelli nuovi ma come se fossero vecchi. Voleva pas­
sare nella nostra città solo un paio di mesi in estate,
specialmente per seguire un corso di storia antica tenuto
da uno storico famoso, e studiare i documenti sotto la
sua guida.
In una casa signorile, abitata allora da due sole fami­
glie, aveva preso in affitto presso una di esse alcune
stanze dove non mancava di ricevere ogni tanto, al modo
degli scapoli, i suoi conoscenti ; altrimenti amava trascor­
rere le serate in liete riunioni con giovani intelligenti di
diverse nazionalità, dove s’incontravano anche giovani
borghesi di buona famiglia, che era facile distinguere dai
goliardi, anche se non sdegnavano affatto di mescolarsi
con loro.
In quella sua casa, che aveva vasti scaloni e corridoi,
l’aveva colpito da un certo tempo, nell’andare e venire,
una domestica di così splendida statura e movenze che il
suo abituccio povero ma pulito sembrava il manto di una
reginetta delle fiabe. Sia che portasse sul capo una brocca
d’acqua o un paniere di legna, sempre le membra e l’an­
datura rivelavano la stessa agile forza, la stessa serena
bellezza; il tutto poi era dominato e armonizzato da un
viso la cui tranquilla regolarità era nobilitata da un’espres­
sione di sommessa inconscia melanconia, qualcosa di leg­
gero e di puro come l’ombra di un limpido cristallo. Er­
win non incontrava sovente la bella persona, ma, quando
essa passava con gli occhi modestamente rivolti a terra,
l’apparizione gli restava in mente per ore e ore senza che
lui se ne rendesse particolarmente conto. Un giorno però,
ch’ella era inginocchiata a lavare i gradini della scala, ed
1004 L’EPIGRAMMA

egli stava appunto per scendere, la ragazza si alzò e s’ap­


poggiò alla balaustrata per lasciarlo passare; e lui non
potè impedirsi di augurarle il buongiorno e di scusarsi
fuggevolmente, senza sostare. Ma in quel momento ella
alzò gli occhi, tanto grandi e belli, e un mezzo sorriso così
soave aleggiò meravigliato sulle sue labbra serie, che l’im­
magine della povera fantesca non uscì più dai suoi pen­
sieri; però solo come quando uno conosce qualcosa di
buono a cui i pensieri ritornano sempre sereni, appena
non sono distratti o occupati. Null’altro accadde e niente
mutò, se non ch’egli le chiese alla prima occasione il suo
nome, che era Regine.
Dopo una bella domenica passata all’aperto, Erwin
ritornava verso il suo alloggio a notte tarda, camminando
adagio e godendo con piacere l’aria estiva. Qua e là
gruppi di studenti sciamavano cantando per le strade ri­
schiarate dalla luna piena; davanti alla casa, quando egli
vi giunse, v’era tutta una truppa di quei perdigiorno e
circondava una donna sola che si serrava contro il muro.
Posso descrivere la scena perché mi trovavo lì anch’io.
Era Regine che stava sul terzo o quarto gradino della sca­
linata esterna, e, addossata alla porta di casa, guardava
muta la schiera esilarata e schiamazzante. Aveva avuto
dai padroni il permesso di visitare i genitori nel paese
natio distante parecchie ore; al ritorno però aveva per­
duto un mezzo di trasporto e le era toccato di farsi la
strada a piedi ch’era già notte. Ma i signori erano in gita
e ancora non erano tornati, e poiché Regine non aveva
la chiave di casa e nessuno all’interno pareva sentire il
campanello che lei aveva tirato più volte, si trovava chiu­
sa fuori e non le restava che aspettare l’arrivo di altri
inquilini. La sua bella figura aveva dato nell’occhio a quei
giovani scioperati, che non mancarono di circondarla e di
rivolgerle complimenti più o meno fini. L’uno la chiamava
amore, l’altro tesoruccio, questo Margheritina, quell’al-
tro Mariù; poi le fecero una serenata a mezza voce,
e non so quali altre bambinate; ma quando uno corse
su per arrischiare una carezza, lei respinse l’attacco con
un movimento tranquillo del braccio libero: perché con
REGINE IOO5
l’altra mano stringeva il picchiotto della porta, da lei
stessa lucidato. Vedendo l’uno dopo l’altro inciampare a
ritroso sui gradini, tutta la brigata rideva con fragore,
senza che l’assediata ne provasse il minimo divertimento;
anzi a un certo punto scese anche lei e cercò di riparare
altrove. Ma gli studenti gridarono: «La leonessa vuol
sfuggirci ! Non lasciatela passare ! ». E si strinsero ancor
più intorno a lei.
In quel momento Erwin, che aveva osservato con stu­
pore la scena, si fece largo fra la piccola folla, prese per
mano la ragazza tremante e la condusse in casa, dopo aver
aperto la porta con un rapido giro di chiave e poi richiuso
con altrettanta rapidità. Tutto ciò era accaduto così in
fretta che i nottambuli rimasero con un palmo di naso e
non poterono fare altro che andarsene per i fatti loro.
Nel vestibolo, dove di notte le lampade erano sempre
pronte, Erwin accese il suo lume e divise la fiammella
con la ragazza, che respirava di sollievo, felice di essere al
sicuro e di potersene andare in cucina ad aspettare i si­
gnori, com’era suo dovere. E, ben comprensibilmente,
s’incrinò la ritrosia che l’aveva sorretta sinora ed ella
permise che Erwin, più timido che intraprendente, le ac­
carezzasse la mano e la guancia, ma per un attimo solo;
giacché anche se il suo vestito della domenica era quasi
altrettanto misero quanto quello di tutti i giorni, di stoffa
di poco prezzo e di fattura meschina, tuttavia i lineamen­
ti e l’espressione del viso vietavano un gesto irrispettoso a
chiunque non facesse parte di un gruppo di studenti av­
vinazzati; e sì che il volto di Regine era l’immagine
stessa dell’umiltà.
Da quella sera la quieta apparizione occupò ancor più
sovente i pensieri di Erwin, e invece di servir loro sol­
tanto da luogo di riposo, li attrasse anche quando avreb­
bero dovuto indugiare su altri argomenti. Lo sentì po­
chi giorni dopo, vedendole accanto, ai piedi della
scala, un altissimo capor; e di cavalleria, che, le mani
puntate sul pesante spadone, parlava con Regine, mentre
ella s’appoggiava al piedistallo della balaustrata. Erwin,
passando, osservò che il viso di lei era leggermente arros­
ιοο6 L’EPIGRAMMA

sato, e ne dedusse che i due erano legati da un sentimento


amoroso. Ma questo turbò a tal segno la sua pace che
mezz’ora dopo usci di nuovo, sebbene nell’atrio non ci fos­
se più nessuno, e passò tutto il giorno in continua agita­
zione. Inutilmente si ripeteva che doveva rallegrarsi di
vedere l’ottima fanciulla in teneri rapporti con un uomo
così prestante, e anche posato, per quel poco che ne aveva
potuto vedere. Il fatto che nella città non v’era guarni­
gione, e dunque il militare doveva esser venuto di fuori,
faceva apparire ancora più certa l’esistenza di un serio
legame sentimentale. Ma egli invece si sentiva sempre più
triste. Invano si chiese se poteva esservi un avvenire mi­
gliore per la ragazza, se l’avrebbe impalmata lui stesso:
non sapeva rispondere. Alla luce di un’inclinazione amo­
rosa, ch’egli immaginava profonda e intensa, proprio
nel tono di certe canzoni popolari tedesche, la fanciulla
gli apparve circonfusa di un alone romantico che rendeva
ancora più buia la crescente tristezza della sua esclusione.
Infatti l’uomo passa indifferente davanti al cancello aper­
to di un giardino paradisiaco, e diventa melanconico solo
quando il cancello è chiuso.
La sera abbandonò la compagnia più prèsto del solito
e s’affrettò verso casa. Davanti alla porta che immetteva
nelle sue stanze raggiunse inopinatamente Regine, che
saliva al suo stanzino sotto i tetti. Essa portava insieme
alla lampada un foglio di carta da lettere. Questo le era
caduto per terra e s’era leggermente sciupato e impol­
verato, ed ella stava osservando il danno, ma vi aggiunse
tosto una macchia d’olio della lucernetta di cucina che le
era concessa dai padroni.
«C’è qualcosa che la angustia, mia buona Regine?»
domandò Erwin mentre apriva la porta.
«Oh mio Dio !» disse lei «Dovevo scrivere una lettera
e ho chiesto un foglio di carta, e adesso l’ho già rovinato,
ancor prima di arrivare di sopra!».
«Venga con me, gliene darò un altro !» replicò Erwin,
ed ella entrò da lui con piena fiducia, ma si fermò mode­
stamente sull’uscio, mentre egli preparava un pacchetto
della sua carta più bella «Ha anche penna e calamaio?».
REGINE IOO7

«Un po’ d’inchiostro ce l’ho in una boccetta, però


mezzo secco, e anche una penna di ferro col pennino che
gratta» rispose lei.
«Allora eccole una di queste penne, e si prenda anche
un po’ d’inchiostro, o meglio porti via tutta la bottiglia,
me la renderà poi. Ha un tavolino per scrivere?».
«Eh no, purtroppo, solo il cassettone!».
«Allora scriva su questo tavolo. Io non la disturberò,
non stia in soggezione! O se preferisce scrivere sul leg­
gio, è di statura abbastanza alta per usarlo».
Accese intanto una lampada che diffondeva molta luce,
poi si rivolse di nuovo alla muta Regine che aveva ora,
come al mattino, le guance soffuse di rossore, e le chiese :
«Mi dica, Regine, il bel dragone che ho visto oggi con lei
è certamente il suo innamorato. Devo farle i miei sinceri
rallegramenti ! ». Queste parole egli le pronunciò con voce
diversa, un po’ malsicura, come se le rivolgesse a una da­
ma del gran mondo.
Il rossore di Regine divenne più intenso e si rispec­
chiò nel volto di lui, che nonostante i suoi ventotto o ven­
tinove anni si colorò lievemente. Ma gli occhi della ra­
gazza scintillarono di un’innocente malizia mentre ri­
spondeva: «Era mio fratello!». Però dimenticò di dire
se aveva o no un innamorato. Del resto Erwin non chiese
altro, anzi fu così contento che si trattasse d’un fratello,
che la sua allegria si manifestò in modo chiarissimo e al­
leggerì il cuore anche alla giovane. Prima d’awedersene
ella si trovò davanti al leggio intenta a scrivere la sua
lettera. Scrisse poi senza fermarsi a riflettere tutta una
pagina in belle righe diritte, e piegò il foglio senza rileg­
gerlo. Durò quindi poco per Erwin il piacere di osservarla
con agio dal sofà dov’era seduto. Le diede una busta, e
standole vicino vide che essa scriveva in caratteri regolari
e puliti l’indirizzo della propria madre.
«Vuole suggellarla subito?» chiese lui, ed ella rispose
di sì con riconoscenza.
Erwin le porse una coppa di agata, con dentro un anel­
lo a sigillo e parecchi stampigli con stemmi finemente in­
cisi, cifre e gemme antiche, e l’invitò a sceglierne uno.
ιοο8 L’EPIGRAMMA

Molti anni dopo, quando il futuro era ormai passato, egli


ricordava ancora con melanconia la delicatezza della
giovane donna ignara, che non osava servirsi dei suggelli
preziosi e propose di andare a prendere un bottone di
stagno che serbava a quello scopo. Disse che v’era impres­
sa una piccola stella. «Allora posso servirla anch’io!»
esclamò Erwin, e trasse di tasca la sua matita d’oro;
l’estremità superiore era formata d’una piccola piastra
con una stella e si poteva adoperare per sigillare una let­
tera. Regine accettò contenta. Il giovane scaldò la cera­
lacca scarlatta e l’applicò sulla lettera; Regine vi pre­
mette sopra la stella e quando la difficile impresa fu com­
piuta diede un piccolo respiro di sollievo e guardò Erwin
con un franco sorriso. Con la lettera in mano, adesso
avrebbe potuto ragionevolmente andar via; ma il giova­
notto seppe trattenerla con una domanda alla quale ne
seguì una seconda e una terza, e così Regine rimase
dov’era per un’ora buona a chiacchierare con lui, ch’era
appoggiato al suo tavolo di lavoro. Erwin la interrogò
sul suo paese e sui suoi, ed ella rispose senza riserve, anzi
raccontò spontaneamente certi particolari, giacché nes­
suno ancora, da quando essa si guadagnava il pane in ca­
sa d’estranei, s’era informato con tanto interesse delle
cose sue. Era figlia di poveri contadini, costretti a lavo­
rare a giornata una parte dell’anno. Non solo gli otto fi­
gli, maschi e femmine, ma anche i genitori erano tutti
alti e ben fatti, una razza la cui inalterata bellezza risaliva
ad antichissime origini. Non era così però, per l’indole, la
versatilità, la resistenza morale, la disposizione alla feli­
cità di quella famiglia di così bella corporatura. Nel la­
voro e nel commercio non sapevano fermarsi e manovrare
a tempo, preparare e assicurare il guadagno, e invece di
evitare con calma le calamità se le lasciavano capitare
addosso e poi le guardavano in faccia costernati. Il padre
era rimasto storpiato nell’abbattere un albero, la madre era
piena di parole amare e di progetti inutili; due figli fa­
cevano il servizio militare, il terzo aiutava in campagna
e le cinque femmine vivevano disperse, facendo le do­
mestiche, con destini differenti che non erano tutti lieti o
REGINE IOO9

scevri di preoccupazioni per loro e per la famiglia. Questo


all’incirca fu il quadro che Erwin ricavò dalle parole
della fantesca, quasi un’immagine di passata grandezza,
di una stirpe abbandonata dalia buona stella, che nel
corso dei secoli aveva perduto e riconquistato la libertà
almeno tre volte, ma che alla fine non sapeva più che
farsene perché le sofferenze della lotta avevano distrutto
la sua forza di resistenza. O forse si poteva paragonare a
una nobile progenie decaduta, che non sa adattarsi al
modo di vivere dei tempi nuovi? Da tutte quelle infor­
mazioni slegate egli concluse anche che Regine, sebbene
la più giovane, era anche la migliore : in un certo modo
il quieto sostegno della famiglia, senza pretese per sé,
colei alla quale tutti si rivolgevano e che andava così
poveramente vestita perché dava ai suoi tutto quel che
poteva mettere insieme, mentre le altre sorelle badavano
soltanto a ornarsi del loro meglio.
Anche quel giorno era stato richiesto di nuovo il suo
aiuto. Da poco tempo aveva mandato ai suoi quasi tutto il
suo salario di tre mesi, perché una delle sorelle era tor­
nata a casa in brutte condizioni. Adesso il padre era as­
sillato da un debito non molto grosso ma urgente, e aveva
fatto scrivere dalla madre al dragone perché cercasse lui
stesso di racimolare denaro, oppure andasse a chieder
soccorso a Regine. Naturalmente il soldato non aveva po­
tuto far nulla, gli era già abbastanza difficile integrare il
suo soldo con piccoli prestiti. Perciò era venuto dalla so­
rella, sicché questa, oltre al cruccio di non potere in quel
momento accontentare la richiesta, ebbe anche il rim­
pianto per le inutili spese di viaggio del fratello. Aveva
quindi scritto alla madre che era assolutamente necessario
ottenere una proroga di qualche settimana; non poteva
subito chiedere altro denaro ai suoi padroni. Fin dal
mattino, perciò, aveva deciso di rinunciare all’audace
progetto di farsi fare quell’autunno un vestito di lana, da
portare nei mesi freddi, come fanno tutte le ragazze pre­
videnti.
Quando Erwin per la prima volta la udì parlare così
a lungo, fu piacevolmente colpito dalla morbida mobilità
ÌOIO L’EPIGRAMMA

della sua voce; infatti il discorso confidenziale, quanto


più facilmente fluiva, tanto più prendeva un suono me­
lodioso, che forse nessuno in casa aveva mai udito, e che
era in perfetta armonia con la bella figura. Ma ancor più
lo commosse il pensiero che era assai facile rimediare ai
guai della buona creatura; però per non spaventarla
subito o metterla in sospetto tralasciò per il momento ogni
offerta di aiuto e s’accontentò di qualche parola di con­
forto : le cose non sono sempre così gravi come sembrano,
si troverà una via d’uscita, badi soltanto a conservarsi
così buona e brava, eccetera. Il viso contristato di Regine
si rischiarò a poco a poco, tanto l’insolito incoraggiamento
era gradito alla sua anima solitaria, e certo dieci volte più
benefico che se egli avesse subito tirato fuori la borsa e
chiesto quanto le occorreva.
L’incontro non si concluse tuttavia senza difficoltà;
poiché quando la giovane, avvedendosi con sgomento
dell’ora volata via, volle allontanarsi e aperse la porta,
s’udì dalla scala un cicaleccio di voci femminili. Erano
le altre serve di casa che andavano a dormire, e non parve
consigliabile che Regine uscisse proprio in quel momento
dalla camera dell’inquilino forestiero. Spaventata ella
richiuse la porta e guardò il signor Altenauer sbiancan­
dosi un po’ in faccia, pressappoco come in una sera pri­
maverile il cielo è solcato da lievi baleni, ed Erwin senza
parole ascoltò con lei il dileguare delle voci. In quel mo­
mento si guardarono e si accorsero di essere soli e di avere
un segreto, sia pure innocente. Quando tacque ogni ru­
more, Erwin aprì piano piano e fece uscire l’alta e bella
fanciulla con la sua lucernetta. Ella gli accennò un saluto
guardandolo con occhi intelligenti e dolci, un po’ melan­
conici come sempre; c’era nel suo sguardo qualcosa di
nuovo, di cui lei stessa era inconsapevole; ma la fiam­
mella della lampada avvampò chiara e intrepida nel ri­
scontro d’aria che soffiava sullo scalone, perché le ragazze
passate poco prima avevano probabilmente lasciato
aperto l’uscio delle soffitte.
Non trascorsero molti giorni prima che Erwin riuscis­
se ad attirare di nuovo nelle sue stanze la fantesca con la
REGINE ΙΟΙ 1

sua lampadetta, e presto si stabilì l’abitudine che Regine


ogni sera entrasse da lui per mezz’ora o un’ora, a volte
prima che salissero le altre domestiche, e altre volte dopo;
forse la clandestinità, il segreto condiviso, erano la mag­
giore attrattiva, che dava alla buona amicizia dei due
giovani e alla gioia di stare insieme il carattere di un
idillio. Regine poi aveva tanta fiducia nell’uomo sempre
discreto e padrone di sé, che abbandonò ogni timore
e si diede senza riserve al piacere di godere le brevi ore
di una vita migliore. Essa era, se è lecito dirlo, abbastanza
donna per essere cosciente del proprio aspetto leggiadro ;
ma con tanto maggiore letizia accoglieva l’omaggio che
un uomo costumato rendeva alla sua bellezza senza che
lei fosse costretta a difendersi come una gatta spaventata.
Quanto a Erwin, le tributava onore e rispetto, perché
già coltivava il pensiero di prendersela in sposa toglien­
dola dall’oscurità e dal bisogno.
Così vivevano in una pura aura umana, tanto felici
quanto possono solo esserlo due creature di pari condi­
zione avvolte nel silenzio, nel segreto e nella solitudine.
Regine godeva soltanto il presente, senza speranza per il
futuro, Erwin era anche commosso dai lieti presagi di ciò
che ancora gli era serbato. Quando, una sera, egli colse
l’occasione per indurla a pensare solo ai genitori e all’aiu­
to da loro desiderato, e la costrinse a scrivere accludendo
la somma necessaria, che per lui era un’inezia, ella obbedì
con una segreta tenerezza nel cuore, non per interesse,
ma perché il beneficio veniva da lui e non da un altro.
Questa volta egli lesse la lettera, e vide che le frasi erano
brevi e scarne, come usa scrivere la gente del popolo; ma
non trovò un solo errore d’ortografia o di grammatica, e
nemmeno contro il buon senso e lo stile.
«Ma lei scrive come un attuario !» esclamò mentre un
raggio di gioia gli rischiarava gli occhi.
«Oh, abbiamo avuto un bravo maestro!» disse lei,
lieta della sua lode «ma questo è niente, ho una sorella
che scrive in un batter d’occhio lunghe lettere piene di
sciocchezze ma senza il minimo sbaglio; magari facesse
così bene nel resto ! » concluse con un sospiro. Erwin seppe
ΙΟΙ 2 L’EPIGRAMMA

più tardi che la sorella passava da un amore all’altro e non


teneva la sua bellezza sotto il moggio. Anzi una volta era
già tornata a casa con un bambino.
Questa volta Regine s’era seduta per scrivere, cosa che
nella stanza di Erwin non aveva mai fatto. Prese in mano
un giornale americano che era sul tavolino e si provò a
leggere. «Quello è inglese,» disse Erwin «lo vuole im­
parare? Poi potrà venire in America con me e sposare
un uomo ricco ! ».
Ella arrossì intensamente: «Impararlo mi piacerebbe»
disse poi «e forse andrei anche in America, una volta o
l’altra, se qui si starà troppo male».
Erwin pronunziò qualche vocabolo; la fanciulla rise,
ma si sforzò di cogliere quei suoni strani, e la sera stessa
riuscì a ripetere esattamente una serie di parole e a impa­
rare l’alfabeto inglese. Allora egli le offrì di darle ogni
sera una lezione in piena regola. Essa vi si applicò con
diligenza non inferiore alla bravura; dopo due settimane
appena, Erwin si rese conto che quella notevolissima ra­
gazza ignara di sé era in grado di imparare qualunque
cosa senza perdere per un attimo la sua tranquilla umiltà.
Chiuse di colpo il libro che leggevano insieme, le prese la
mano e disse:
« Cara Regine, non posso aspettare più a lungo. Vuole
esser mia moglie e venire in America con me?».
La fanciulla sussultò, impallidì e lo fissò come una
morta.
«Ora è finita,» disse poi, sorreggendosi il capo con le
mani «ed ero così felice!».
« Ma perché? Che cosa significa, cara bambina? Forse
non ti piaccio, o vi è qualche ostacolo, qualche impedi­
mento?» esclamò Erwin, e involontariamente la cinse col
braccio come per aiutarla e sorreggerla. Ma lei lo respin­
se risoluta e dolente, e si mise a piangere. Sia che la sua
conoscenza del mondo, attinta a fonti volgari e torbide, le
dicesse che era venuto il momento in cui l’uomo amato
promette il matrimonio con cattive intenzioni, senza so­
gnarsi di mantenere la promessa; sia che stimasse suo
dovere resistere a una proposta seria, non giudicandosi
REGINE 1θ13

adatta a sposare un distinto signore; o sia infine che le


condizioni della sua famiglia, forse peggiori di quanto ave­
va rivelato finora, la trattenessero dal legare a sé un uomo
che viveva tranquillo e felice: essa comunque appariva
smarrita, e scuoteva soltanto la testa.
«Credevo che tu avessi un po’ d’affetto per me !» disse
Erwin mortificato e stupito.
«Ho fatto male,» esclamò lei singhiozzando «volevo
per una volta avere un po’ di gioia e starmene qualche
ora in pace con una persona che mi è tanto cara ! Non
chiedevo di più. Adesso è finita, e me ne devo andare per
sempre ! ».
Si alzò di scatto, accese la lucerna e senza lasciarsi
trattenere corse fuori e salì le scale così a precipizio che la
fiammella si spense ed ella scomparve nel buio. Il giorno
dopo, quando Erwin cercò d’incontrarla, era sparita an­
che dalla casa. Con una prudente indagine, egli venne a
sapere che era partita alì’improwiso per il suo paese, e,
poiché dopo parecchi giorni non era ancora tornata, prese
una carrozza e l’andò a cercare. La trovò nella misera
casa dei suoi, immersa in una profonda tristezza. Gli
adulti, uomini e donne, lo guardarono a bocca aperta,
come se fosse un turco ; ma egli si dichiarò subito e chiese
Regine in sposa. E per dimostrare che faceva sul serio,
volle sapere qual era la condizione della famiglia, e pro­
mise di soccorrerla senza indugio. Dopo aver capito le
sue intenzioni ed essersi un poco ripresi dallo stupore,
tutti s’affrettarono a spiegargli le loro faccende, sicché il
vecchio dovette mandar fuori le donne, tranne Regine,
perché facevano una gran confusione. Anche il figlio, ac­
canto al vecchio mutilato, si comportò assennatamente,
e non sembrava una persona senza speranza. Risultò
che il piccolo podere era gravato di ipoteche; per libe­
rarlo occorreva una somma che Erwin considerò trascu­
rabile; si trattava di affarucci di poco conto. Se egli dava
loro per di più un capitaletto eguale o anche inferiore, la
famiglia dei giganti avrebbe acquistato un insperato, mo­
desto benessere, e poteva sempre contare su altri aiuti da
parte di Erwin. Questi promise inoltre di adoperarsi affin-
1014 L’EPIGRAMMA

ché i due figli sotto le armi, il cui congedo era imminente,


trovassero un buon collocamento, in attesa che egli
potesse meglio provvedere a essi; e quanto alle figlie,
non s’immischiò nei loro affari, ma le raccomandò fra sé
e sé alla divina provvidenza. Insomma tutto fu calcolato
per il meglio, nell’àmbito delle possibilità umane. Regine
assisteva in silenzio, e non parlò neanche quando Erwin
l’aiutò a salire in carrozza e se la portò via fra le benedi­
zioni dei genitori. Solo quando i cavalli galoppavano già
sullo stradone ella gli gettò le braccia al collo, e dopo tutte
le pene sofferte godette della gioia che Erwin dimostrava
per averla conquistata.
Egli però non volle tornare nella nostra città, si fece
portare alla stazione più vicina, e salì in treno con la
fanciulla. Conosceva, in una delle città tedesche dove già
era vissuto, una signora degna e intelligente, vedova di
uno scienziato, costretta dalla necessità a dar vitto e al­
loggio a estranei. Anch’egli aveva abitato in casa sua. Si
confidò con l’ottima donna, e decise di lasciare Regine
per sei mesi presso di lei, affinché imparasse a vestir bene
e le si sbiancassero le mani sciupate dal lavoro. Poi si se­
parò, a malincuore, dalla fidanzata, che pareva vivesse
in un sogno, e ritornò nella nostra piccola città universi­
taria per terminare gli studi iniziati ; e così il tempo tra­
scorse finché, dopo meno di sette mesi, la bella e buona
Regine si trovò seduta accanto a Erwin in una carrozza
da viaggio, come sua legittima consorte.

Appena mandata felicemente in viaggio di nozze l’an­


tica fantesca, Reinhart s’arrestò un momento, e solo al­
lora s’accorse che non si sentiva più il ronzare dei filatoi;
le due ancelle difatti, ascoltando le liete vicende di Regine,
s’erano dimenticate di filare, e con gli occhi fissi sul narra­
tore tenevano il pollice e l’indice sospesi in aria senza far
scorrere il filo. Forse l’una si stava figurando il bell’abito
da viaggio della fortunata ragazza, l’altra ammirava col
pensiero l’orologio d’oro appeso senza dubbio a una
lunga catena. Quella pensava al meraviglioso momento
in cui fosse capitato anche a lei di assumere la propria
REGINE 1θ15

servitù, e si vedeva seduta su un sofà, occupata a scegliere


fra un gran numero di aspiranti servette. Questa invece si
riprometteva, trovandosi al posto di Regine, di acquistare
subito sei paia di stivaletti, di materiale e cuoio finissimi,
e con un brivido delizioso immaginava il giovane calzo­
laio scapolo venuto in casa a misurarle gli stivaletti, spe­
cialmente quel certo paio; e gli tendeva graziosamente il
piede, pronta a donargli anche la mano appena quello
sciocco si fosse deciso a chiederla. Ma no, com’era possi­
bile? Sarebbe stata già maritata, e allora come poteva
sposare il giovane calzolaio? Eh già, lei non è Regine
impalmata dal ricco americano, bensì la Bärbchen, po­
vera e zitella. Non è ricca e non può ordinare gli stiva­
letti ... insomma, è tutta impigliata nel filo delle sue
fantasie, mentre Ännchen, la sua compagna, ha già as­
sunto tre cuoche e ne ha già licenziate due.
Lucia disse allora:
— Se siete stanche, figliole, mettete via i filatoi e andate
a dormire. La straordinaria Regine s’è ormai messa a
posto e probabilmente non le tocca levarsi di buon’ora
come voi.
Le graziose cameriere, svegliate dai loro sogni, s’alza­
rono subito e portarono via obbedienti i loro filatoi.
Rivolta a Reinhart, Lucia riprese:
— Non volevo che le buone ragazze udissero la fine
o il rovescio della sua storia; giacché, da quanto posso
supporre, ora lei darà addosso alla cultura, che avrà la col­
pa della catastrofe preannunziata, e io non desidero che le
mie ancelle vengano aizzate contro la condizione della
donna cólta.
— Stavo proprio riflettendo — ribattè Reinhart con un
sorriso — che agisco irragionevolmente e seppellisco i miei
propri princìpi in materia, se termino il mio racconto e ne
traggo le conclusioni. Forse lei dirà che non era la cultura
giusta quella che cagionò il naufragio. La cosa migliore
sarà che io le risparmi l’epilogo!
— No, continui, è sempre istruttivo sapere che cosa i
signori uomini ritengono auspicabile ed edificante per il
nostro sesso; ho paura che non sia molto più profondo
ιοι6 L’EPIGRAMMA

dell’ideale vagheggiato dalle nostre scrittrici di romanzi


quando descrivono la figura dell’eroe o del primo amo­
roso, e per cui si fanno tanto spesso ridere dietro.
— Lei dimentica che la mia storia non l’ho inventata
io; non faccio che riferire una vicenda umana, la quale
personalmente non mi tocca da vicino.
— E allora s’attenga tanto più fedelmente alla verità,
affinché possiamo poi esaminare il caso e discuterlo a
fondo! — disse Lucia, e Reinhart riprese a narrare:

— Erwin Altenauer aveva celebrato le nozze così in se­


greto, che nella nostra città nessuno venne a saperlo; per­
fino gli antichi padroni di Regine e gli altri inquilini della
casa non sospettarono nulla, e si credette che egli avesse
terminato il soggiorno fra noi e fosse partito, come tanti
altri forestieri. Circa un anno e mezzo dopo, io andai a
vivere nella capitale, dove aveva sede l’ambasciata ame­
ricana. Mi servivo degli istituti locali per continuare i
miei studi alquanto arbitrari e disordinati; d’altronde mi
consideravo già superiore agli studenti comuni e frequen­
tavo solo gente di qualche anno maggiore di me.
Ed ecco un giorno rispuntare il signor Erwin. Lo in­
contrai non so dove ed egli mi invitò a fargli visita. Aveva
una casa ben arredata, addirittura splendente di buon
gusto, e viveva in una pace silenziosa e profonda. Con mia
sorpresa fui presentato alla consorte, una dama molto
elegantemente vestita, e di magnifico aspetto. La ricca
capigliatura era acconciata alla moda, la mano non
troppo piccola ma ben modellata era bianchissima e
adorna di antichi anelli di vario colore, monili di famiglia
donati dai parenti di Boston. Avevo incontrato Regine
una volta sola, quella notte in cui era assediata dagli stu­
denti sulla porta di casa; non l’avevo quasi veduta in
faccia, né mai avrei potuto supporre di trovarmi davanti
la povera serva, tanto più che il piccolo incidente m’era
interamente uscito dalla memoria. Un’ombra d’impaccio
nei movimenti, che era comparsa solo quando aveva in­
cominciato a vestirsi da signora, stava già scomparendo
e sembrava più che altro il segno di una natura singolare.
REGINE IOI7

La giovane donna parlava inglese abbastanza corrente-


mente, e anche un po’ di francese, quest’ultima lingua,
anzi, meglio delle altre signore americane dell’amba­
sciata. Quando senti di dove venivo, gettò una rapida
occhiata al marito, come per chiedergli in che modo do­
vesse comportarsi; ma lui non batté ciglio, e aneli’essa
allora rimase impassibile. Erwin non si vergognava af­
fatto delle origini di sua moglie, ma voleva soltanto te­
nerle celate finché lei non fosse giunta a una perfetta sicu­
rezza e disinvoltura, così da potersi difendere contro le
umiliazioni.
Siccome però egli non poteva reprimere il bisogno di
aprire l’animo con qualcuno, e anche per togliere al se­
greto ogni carattere sospetto, ben presto mi scelse per con­
fidente, e io rimasi non poco meravigliato di scoprire nel­
la singolare moglie del diplomatico la povera fantesca che
a poco a poco riviveva nel mio ricordo mentre teneva si­
lenziosamente a distanza gli assalitori. Anche la signora
ne fu contenta, perché ora aveva un’altra persona, oltre il
marito, con la quale parlare di sé senza ritegno.
Appresi anche lo strano metodo seguito sin qui da
Erwin per integrare l’educazione della consorte. Innanzi­
tutto l’aveva portata a Londra, perché teneva special­
mente all’apprendimento dell’inglese. E per impedirle di
compiere anche il più piccolo lavoro domestico, abita­
rono, come più tardi a Parigi, sempre in albergo ; ma an­
che lì egli doveva stare attento e impedire che riordinasse
le stanze da sé o rifacesse i letti, o addirittura andasse dal­
le cameriere e dai cuochi a offrire il suo aiuto. Gli costò
parimenti una certa fatica avvezzarla a trattare con mag­
gior riserbo i servi e gli inferiori, in modo che essa, senza
offendere la dignità umana, imparasse a evitare l’ecces­
siva familiarità per potere un giorno più facilmente co­
mandare. Questo punto fu superato da entrambi non
senza tribolazioni, perché, mentre Regine dimenticava
sovente, e stentava a capire perché non le era lecito par­
lare coi suoi eguali di quello che li rallegrava o li afflig­
geva, Erwin pensava continuamente al tono compassato
che s’usava in casa sua, e al posto che Regine era chiamata
ιοι8 L’EPIGRAMMA

a occuparvi. Il rimpatrio imminente dominava tutti i suoi


pensieri; in Regine egli sperava di portare oltre oceano
una gloriosa immagine di femminilità germanica, che
doveva piacere a tutti, e che un miracoloso destino
aveva reso ancor più ideale. Se per tale buon successo
voleva dir grazie non soltanto a un incontro fortunato,
ma anche alla propria mano formatrice e amorosa, gli
stava tanto più a cuore che anche nelle piccole cose l’ope­
ra riuscisse perfetta, e il proprio trionfo non fosse guastato
nemmeno dal più trascurabile inconveniente. Si può
dire, anzi, che, con tutto lo spirito di umanità e di libertà
che lo animava, egli si mostrava tanto più gretto e timo­
roso nei particolari quanto più si sentiva sicuro nelle cose
importanti ed essenziali.
Un indubitabile frutto della propria abilità educativa
egli lo colse inaspettatamente in tutt’altro campo. Du­
rante il loro soggiorno in Inghilterra teneva quivi con­
certi con immenso successo un famoso coro maschile ve­
nuto dalla Germania. Erwin, che non trascurava alcuna
occasione di offrire alla moglie uno svago formativo,
condusse Regine nella grande sala dove erano radunate
migliaia di ascoltatori. Ella quasi non osava muoversi,
seduta in mezzo alla folla di gente ricca e adorna, e non
afferrò molto delle singole canzoni. Ma a un bel mo­
mento i novanta o cento cantori intonarono come un sol
uomo, con meravigliosa chiarezza ed espressione, il motivo
di un’antica canzone popolare tedesca, di cui Regine
riconobbe ogni parola e ogni nota perché l’aveva cantata
anche lei da ragazzetta e solo gli anni di servitù e le dif­
ficoltà della vita gliel’avevano fatta dimenticare. Ascol­
tando sospesa guardava il gruppo di uomini nerovestiti
che emergeva come una scogliera oscura dal mare silen­
zioso e sfolgorante dell’uditorio, e quello che udiva era
e restava la canzone della sua adolescenza, melanconica
come la canzone stessa. L’applauso scrosciante che se­
guì l’ultima nota la svegliò da un raccoglimento simile al
sogno, e solo allora ella guardò sorpresa il marito, come
chiedendogli una spiegazione. Egli le indicò il testo del
programma che Regine teneva in mano senza averlo
REGINE IOI9

guardato fino allora, e, davvero, la canzone era 11 stam­


pata parola per parola.
Mentre tornavano all’albergo ella incominciò a can­
tarla nell’oscurità della carrozza e, quando Erwin, lieto di
quell’impulso gentile, le prese la mano, ella domandò
come mai una semplice canzone di poveri contadini ve­
niva cantata così lontano dalla patria ed era applaudita
da un pubblico tanto elegante. Ancora più soddisfatto
di quella domanda egli rispose che la ragione del feno­
meno era la stessa per cui anche lei, figlia del popolo, gli
piaceva tanto ed aveva conquistato il suo amore. Poi le
spiegò alla svelta i punti essenziali della questione; ma
il giorno dopo andò in cerca di un libraio tedesco che,
gli avevano detto, comprava e vendeva anche opere
antiche, e 11 trovò la nota raccolta intitolata Des Knaben
Wunderhorn.1 Le insegnò a cercare la canzoncina nei vo­
lumi ben rilegati, ed ella la trovò e la lesse con un certo
orgoglio fra le centinaia di canzoni simili e ancora più
belle. Lesse anche quelle e non posò il libro prima di aver­
lo finito, ritornando a certe canzoni anche due o tre volte.
Cosi accadde questo fatto bizzarro, che un’ignorante fi­
glia del popolo leggesse con attenzione e godimento una
grossa raccolta di canzoni in un’epoca nella quale neppure
le persone cólte son capaci di tanto. Poiché era innamora­
ta senti come mai prima il bell’ardore della passione,
qual era espresso in quei canti, e ne godette con tutta la
beatitudine di chi riposa sicuro fra braccia amorose.
Erwin colse il momento buono e andò a prendere le li­
riche giovanili di Goethe. Prima le mostrò quelle che il
poeta aveva raccolto dalla viva voce del popolo e rican­
tato a suo modo; poi lesse con lei una dopo l’altra quelle
che erano uscite dal suo sangue, e raccontò alla donna,
a lui teneramente stretta, le storie relative. Come sul
ponte aereo d’un arcobaleno ella passò dal Wunderhorn
al boschetto luminoso di verdi aceri primaverili, e anzi
non passò molto tempo che ella si fece la sua lettura da sé,
I. Des Knaben Wunderhom·. titolo della celebre raccolta dei canti
popolari tedeschi pubblicata da Achim von Amim e Clemens
Brentano fra il 1806 e il 1808.
1020 L’EPIGRAMMA

e il libro rimase sempre sul suo tavolo, come se lei fosse


una dama del passato, raffinata e ricca di ricordi ; eppure
viveva tutto quel che leggeva con il sangue caldo della
giovinezza, ed Erwin le baciava sugli occhi e sulla bocca i
segni nascenti di uno spirito nuovo.
Non è possibile annotare ogni sentiero e ogni ponticello
sul quale Altenauer conduceva verso la conoscenza la
soave sua donna, non come un precettore, ma come un at­
tento e grato scopritore di tante piccole, fortunate com­
binazioni. A Parigi, dove la condusse in seguito, si tratta­
va soprattutto d’imparare con gli occhi, e giacché egli
stesso vedeva molte cose per la prima volta, apprese in­
sieme con lei e le spiegò con tutto l’agio ciò che man ma­
no scopriva. Ella assorbiva avidamente da lui ogni novità,
e la serbava con cura, come una giovinetta i fiori dell’in­
namorato. E le piccole cose che questa giovinetta avreb­
be dovuto imparare a scuola, per esempio capire una
carta geografica, e così via, venivano da sé, casualmente,
senza perdita di tempo. Per il momento, però, non era
possibile stabilire un’ordinata connessione fra le varie
materie; e talvolta Erwin si preoccupava perché Regine
era pronta, sì, a udire qualunque ammaestramento dalla
sua bocca, ma non voleva mai imparare da sola. Non
riusciva a studiare per conto suo neanche poche pagine
di storia o di filosofia, e i libri di quel genere li lasciava
ben presto cadere. Tuttavia, dal momento che le cose
finora erano andate a gonfie vele, egli sperava di giun­
gere ai risultati essenziali finché vivevano ancora in
Germania, e, diventando nella sua felicità sempre più de­
sideroso di compiere splendidamente la propria opera
educativa, accampò pretese molto più audaci di quanto
aveva osato prima. Fu a quel punto che incontrai la
strana coppia e quando ne seppi l’innocente segreto presi
il più vivo interesse al suo destino e alla sua riuscita. La
giovane sposa, nonostante gli straordinari eventi della sua
vita e la fortuna che le aveva arriso, era la modestia in
persona, semplice, amabile e in pari tempo schietta come
un cucciolo.
Come un fulmine a ciel sereno giunse da Boston una
REGINE 1021

notizia in seguito alla quale Erwin, senza perdere un


giorno, dovette partire per l’America, essendo necessaria
la sua presenza per definire certi affari da cui dipendeva
l’avvenire di tutta la famiglia. Si accinse subito al viag­
gio, ma dopo qualche esitazione stabili che Regine do­
veva rimanere in Germania per i due mesi della sua as­
senza. Erano appena incominciate le bufere autunnali, e
già aveva avuto notizia di disastri accaduti in mare e di
navi affondate. Per nulla al mondo avrebbe esposto la
vita e la salute di sua moglie ai pericoli di una traversata ;
invano ella gli cadde ai piedi e pianse come una bambina
scongiurandolo di portarla con sé, di non lasciarla sola;
appena egli contemplava il viso e la figura di lei, rabbri­
vidiva immaginando la bella creatura fra gli orrori di un
naufragio, e, per quanto gli fosse amara la temporanea
separazione, preferiva subirla che lasciar correre un ri­
schio evidente alla creatura diletta.
«Vedi, bimba mia,» le disse accarezzandole dolce­
mente la gota «fa parte della vita imparare ad accettare
una dura necessità e a nutrirsi di speranza. Ci accadrà
molte altre volte, e dunque facciamoci coraggio e affron­
tiamo la prima prova ! ».
Lo confortava, nascostamente, il pensiero di poter dare
l’ultimo tocco alla sua opera prima di portare a casa la
sposa; la vanità umana spesso si mescola ai pensieri più
nobili e conferisce loro un’ostinazione che altrimenti non
avrebbero.
Erwin partì dunque senza indugio per imbarcarsi sul
primo vapore diretto in America, e se ne andò tanto più
tranquillo in quanto era persuaso di lasciare la moglie fra
buoni conoscenti, in una casa provvista di domestici bravi
ed esperti. Giunse in patria sano e salvo ; ma gli affari non
si districarono così in fretta com’egli aveva sperato, e pas­
sarono tre quarti dell’anno prima che potesse ritornare
in Europa. Durante quel periodo Regine aveva però go­
duto più che bastevole compagnia. C’erano innanzitutto
tre signore, che il marito le aveva permesso di frequentare
perché godevano fama di bella e vasta cultura; infatti
dovunque vi fosse qualcosa da vedere o da sentire esse si
1022 L’EPIGRAMMA
REGINE 1023
trovavano in prima fila; e onoravano e proteggevano
la leggenda medioevale dell’imperatore Nerone. Le pazzie
chiunque facesse parlare di sé. Solo più tardi venni a sa­
veramente compiute da costui non sembrando abbastanza
pere che in certi circoli le chiamavano, già allora, le tre
scellerate, per aggiungere il tratto più esecrabile che si po­
Parche, perché finivano per tagliare il filo della vita a
tesse immaginare la leggenda inventò la storia della sua
tutto ciò che si prendevano a cuore. Erano sempre in
smania di cambiare sesso. Nerone s’era fitto in capo di
mezzo al rumore, al movimento, all’agitazione; tutt’e tre
restare gravido e partorire un bimbo, e sotto pena di
avevano mariti indifferenti e autonomi che non si cura­
morte aveva comandato a settantadue medici di fargli
vano di loro. Sebbene le tre signore non fossero più
conseguire lo scopo. Costoro non trovarono altro espe­
molto giovani, s’abbracciavano a ogni incontro con tra­
diente che prescrivere al mostro una pozione magica. E
volgente entusiasmo, si baciavano appassionatamente e si
poiché il diavolo non può creare nulla di reale, ma sol­
chiamavano l’un l’altra «bimba cara» e «angelo mio»;
tanto vuoti inganni, Nerone era, sì, diventato gravido
avevano anche inventato per sé graziosi nomignoli, e una
con sua grande gioia, però aveva partorito dalla bocca
si chiamava la Gazzella di Velluto, l’altra Cappuccetto
nient’altro che un grosso rospo. Anche della bestiola era
Rosso, la terza la Piccola Ape; la prima perché aveva lo
rimasto soddisfatto, e pieno di vanità esigeva d’esser chia­
sguardo vellutato dell’animale in questione, la seconda
mato «Domina» e «Madre». Poi fece preparare un gran­
perche aveva sostenuto quella parte in un quadro vivente,
l’ultima perché non poteva vedere un fiore di giardino o’ de attendamento per celebrare nei tripudi la nascita. La
nutrice, vestita di seta verde ricamata d’uccelli d’oro,
di serra senza toccarlo o farselo dare. Nonostante quelle
venne messa col piccolo in grembo su una carrozza d’ar­
innocenti romanticherie, v’erano persone maligne se­
gento che cento re di lontani paesi furono costretti a se­
condo le quali le tre Parche parlavano fra loro un lin­
guire, oltre a innumerevoli dignitari, sacerdoti e guerrieri.
guaggio volpino e demoniaco, un po’ come i vecchi stu­
E così il corteo aveva incominciato a snodarsi verso l’ac­
denti, soprattutto da quando a dimostrare la loro intel­
campamento, fra echeggiare di trombe, flauti e tamburi.
ligenza avevano accolto nel loro consorzio una giovane
Ma, mentre la carrozza attraversava un ponte gettato su
pittrice che era già stata di tutte le scuole. Anzi si doveva
dire un giovane pittore, perché scalciava come un asino acque limacciose, il rospo fiutò la bella palude e saltò
giù dal grembo della nutrice, scomparendo per sempre.
se la si chiamava pittrice. L’armonioso suffisso col quale
la nostra lingua tedesca definisce la donna in ogni classe, In tal modo la leggenda intendeva marchiare d’infamia
l’imperatore Nerone, e alla favoletta seguiva immedia­
professione e condizione di vita, conferendo al concetto
tamente la rovina del tiranno.
un suo afflato e un suo splendore poetico, le era odioso
In realtà la mania di appropriarsi gli attributi dell’altro
come il veleno, e avrebbe voluto distruggere le due lettere
sesso ha sempre qualcosa di neroniano; voglia il cielo che
esecrate.1 Se invece si anteponeva al nome della sua pro­
fessione gli articoli maschili «il» e «un», lei se ne beava ogni volta il rospo scompaia nella palude !
La pittrice possedeva più abiti maschili che femminili;
come di una musica. Portava sempre un cappelluccio di
e, se i primi non li poteva portare di giorno, tanto più
feltro spelacchiato e faceva applicare su tutti i vestiti due
spesso li indossava per gironzolare di notte, e si diceva che
grandi tasche dove affondava le mani come un monello
ora la Gazzella, ora Cappuccetto Rosso, ora la Piccola
di strada. Tale specie di pervertimento mi ricorda sempre
Ape, a dispetto della crescente corpulenza, si compri­
i. Molti sostantivi maschili tedeschi formano il femminile con messero a volte in simile abbigliamento per compiere
1 aggiunta del suffisso «in». Per esempio il femminile di «Maler» scorribande notturne e come uomini liberi mescolarsi col
(pittore) e «Malerin» (pittrice).
popolo e accontentare la loro insaziabile curiosità.
1024 L’EPIGRAMMA

Un giorno Erwin aveva condotto la moglie in una sala


pubblica, dove un giovane scienziato teneva una serie di
interessanti conferenze, nella speranza che ella potesse
raccogliere qualche briciolo di saggezza e che le porte
della cultura scientifica le si schiudessero un tantino di
più, almeno tanto da gettarvi uno sguardo. Entrati nella
sala non trovarono un posto tra il pubblico più modesto
e furono costretti ad avanzare verso la cattedra, dove
siedono sempre quelle stesse persone che amano mostrarsi
ih prima fila. Lì infatti brillavano e si sbracciavano pro­
prio sotto gli occhi dell’oratore le tre vanesie, che però
si strinsero premurose e amabili per far posto fra loro
alla bella forestiera, ed Erwin, lieto di aver ben collocato
Regine, si ritirò nel vano di una finestra. Già da molto
tempo le tre Parche avevano adocchiato la dama miste­
riosa e profittarono dell’occasione per far conoscenza, anzi
amicizia con lei, giacché uno dei modi in cui s’esprimeva
la loro vanagloria era di entusiasmarsi per donne belle o
in altro modo interessanti, e circondarle davanti a tutti
dei loro omaggi senza invidia. Dal suo posto Erwin ve­
deva con soddisfazione la moglie in così buona compa­
gnia, e, quando andò a riprendersela dopo la conferenza,
accettò riconoscente l’invito delle signore per un pros­
simo incontro. Quando, poco tempo dopo, fu decisa la
sua partenza, egli considerò, come ho già detto, un caso
fortunato che Regine avesse fatto conoscenze così stimo­
lanti nel campo della cultura, e la esortò a coltivarle con
zelo : ella ubbidì con ingenua fiducia, sebbene tutta quella
loquacità e agitazione, e quel modo di vivere, l’avessero
messa, almeno in principio, alquanto a disagio.
Intanto l’avevo perduta di vista, o almeno non mi ero
più incontrato con lei. Secondo la promessa fatta a Erwin
ero andato due o tre volte a trovarla, per offrirle i miei
servizi in caso di bisogno. Fin dalla prima visita incontrai
là due delle tre vanesie; dovetti starle a sentire mentre
cercavano di affidare a Regine un banco di vendita nel
prossimo bazar di beneficenza e già discutevano sull’abito
da farle indossare. Ma per quella volta non riuscirono a
vincere la sua modestia. In seguito non la trovai più in
REGINE 1025

casa. L’anziana cameriera si lamentò che le signore ve­


nivano a portarla via sempre più spesso, eppure bisognava
in certo qual modo rallegrarsi di ogni distrazione, perché
quando era sola la signora invocava il ritorno del marito
e piangeva come se l’avesse perduto.
Un giorno capitai per caso in una cosiddetta esposi­
zione permanente di quadri. Che cosa vedo appena en­
trato? Il ritratto a mezzo busto di Regine, di grandezza
maggiore del naturale, in atteggiamento fantasioso, con
chiome attorte da una grossa fila di perle e acconciate
in modo teatrale, la nuca scoperta e un gran manto di
ermellino e velluto rosso, cioè pelle di gatto e peluche da
mobili; il tutto dipinto con apparente arditezza, come
la ottengono spesso o almeno la simulano certi imbratta­
tele, a prezzo d’infinita fatica, facendo e disfacendo con
pavida mano.
Naturalmente lo «Studio di figura» era opera della
pittrice, e le Parche a furia di chiacchiere avevano indotto
Regine a posare per lei nel suo studio. Non posso dire se
sapessero già che l’artista avrebbe esposto e venduto il
quadro; Regine a ogni modo non lo sapeva, come mi
assicurò la cameriera quando andai per parlarle e trovai
solo quest’ultima. Avevo saputo, infatti, che il ritratto
era stato acquistato da un mercante per essere inviato in
America. La storia non mi piacque affatto, e rimasi in
dubbio se scrivere a Erwin Altenauer oppure no. Il fatto
era che le tre vanesie nonostante il loro bizzarro contegno
avevano fama di signore per bene, e probabilmente lo
erano; e menavano gran casa. Il marito della Gazzella
era commerciante all’ingrosso di alcool combustibile,
quello di Cappuccetto Rosso era consigliere della corte
di giustizia e aveva ben quattordici scrivani sotto di lui,
e il consorte della Piccola Ape sopraintendeva alle qua­
ranta scuole femminili della regione, per di più pubbli­
cava una gigantesca crestomazia poliglotta ; tutto ciò era
garanzia di onorabilità, mentre io non ero che uno stu­
dente sconosciuto e inesperto.
Sicché non vidi più la buona Regine, se non ogni tanto
in un palco di teatro con le sue protettrici, che raggiavano
1026 L’EPIGRAMMA

di piacere quando per mezzo della bella amica potevano


attirar su di loro l’attenzione di tutto un pubblico. Rice­
vevano anche parecchie visite maschili. La prima volta
Regine mi parve triste e abbattuta ; la seconda, però, sem­
brava che cominciasse a sciogliersi, a dimostrare una cre­
scente serenità e sicurezza di contegno. Forse, pensai, è
proprio quello che Erwin desidera, e le tre oche non com­
bineranno alla fine niente di male.
Un’ultima volta, prima del ritorno di Erwin, parlai in
confidenza con sua moglie e anzi la vidi per tutta una gior­
nata. Era venuto il mese di giugno con la più splendida
temperatura estiva. Un giorno ella mi pregò con una gra­
ziosa letterina di andarla a trovare, e quando giunsi mi
informò che le sue amiche con i loro amici avevano combi­
nato una lunga gita in campagna, da farsi con la carrozza.
Ora, la cosa non le piaceva troppo, e desiderava almeno
che vi partecipasse un buon conoscente e amico di suo
marito e della sua casa, perché con alcuni della compa­
gnia era poco in confidenza, né le erano particolarmente
graditi. Le sembrava di agire come sarebbe piaciuto ad
Altenauer, poiché sapeva che egli mi stimava molto, ec­
cetera, eccetera. Perciò aveva annunziato senz’altro che
io sarei stato il suo accompagnatore e ora mi pregava, se
volevo usarle la cortesia, di ordinare una carrozza e di
andare a prenderla all’ora fissata per recarci insieme al
luogo di riunione. In parte però avevano contrariato il
suo desiderio eleggendomi a cavaliere della giovane pit­
trice, al che mi consideravano straordinariamente adat­
to; ma lei, Regine, sperava che ogni tanto mi sarei libe­
rato per chiacchierare un momentino con lei.
Io accettai con gioia, risoluto a togliermi immediata­
mente dai piedi quella pittrice da strapazzo e a starmene
con la signora Altenauer. Quando passai a prenderla, mi
sentii molto orgoglioso di sedere in carrozza al suo fianco;
aveva un abito d’estate chiaro e vaporoso, ed era accon­
ciata semplicemente ma irreprensibilmente in ogni par­
ticolare. Non stava rincantucciata nell’angolo della vet­
tura, bensì sedeva diritta in atteggiamento pieno di gra­
zia reggendo il parasole, mentre la pittrice che più tardi
REGINE IO27

ci appiopparono si arrovesciò subito indietro accavallando


le gambe. Anche le altre signore, quando giungemmo al
luogo del raduno, portavano allegri vestiti estivi, bianchi
o colorati; e gli uomini pure, con l’aiuto della moda,
s’erano dati l’aspetto più pastorale ch’era possibile. Solo
la pittrice sembrava una cornacchia; aveva messo un
vestito sconsolatamente scuro, meschino e sciatto, nel­
l’irritante intenzione di respingere da sé la grazia femmi­
nile e la gioia della primavera. Invece del solito feltro,
però, portava un copricapo di paglia, ma tinto di nero,
in stridente contrasto con i bei cappelli di paglia di Fi­
renze che adornavano le altre signore. Non si vedeva né
un ricciolo né un’onda; i capelli tagliati circondavano
le orecchie e la nuca come una ghirlanda di porri. Saranno
tempi ben melanconici, se accadrà mai che con le vesti
chiare e i boccoli leggeri di donne e fanciulle la letizia
primaverile scompaia dal mondo !
La compagnia mi accolse cortesemente, ma, poiché nel­
la mia carrozza c’era più posto del necessario, ci appiop­
parono, come ho già detto, la pittrice, informandomi che
era affidata alle mie cure. Quando partimmo e le car­
rozze rotolarono sulle strade campestri, il pittore senza
indugio tirò fuori di tasca un pezzo di pane e due mele
e cominciò a rosicchiare; perché, ci disse, non aveva
ancora fatto colazione, e la mattina mangiava sempre
pane e frutta, cioè il cibo che costava meno. Non lo
faceva per povertà ma per avarizia ; infatti era molto abile
nel guadagnar denaro, e da quando i soldi affluivano non
si curava più di studiare. Ma per concludere affari s’in­
sinuava dappertutto con molta sfacciataggine, e tornava
a pretendere il riguardo dovuto al suo sesso. Quel pasto
di mele crude, durante il quale essa sputava tranquilla­
mente torsoli e semi fuori della carrozza, m’irritò a tal
punto che risolsi di levarmela al più presto di torno. Co­
minciai un discorso sulle pittrici in generale e su qualche
bizzarra figura in particolare, e lodai segnatamente coloro
che accanto alla fama nell’esercizio delle belle arti ave­
vano anche saputo procacciarsi la gloria imperitura di
rappresentare un’ideale immagine femminile, sia nella
1028 L’EPIGRAMMA

sorte lieta sia in quella tragica. Alla fine descrissi la deli­


ziosa impressione che mi aveva procurato l’autoritratto
di Angelika Kauffmann, quel viso fiorente con i bei ric­
cioli folti cinti da una ghirlanda d’edera, il corpo avvolto
in una veste bianca, e compii entusiasticamente la figura
mettendola all’armonica di vetro, gli occhi rivolti al cielo,
e raggruppandole intorno il fiore della nobiltà romana,
intenta a ascoltare i suoni patetici.1
«Quelli sono tempi passati»* m’interruppe la pittrice
«adesso noi artisti abbiamo altro da fare che percuotere
vetri e civettare con ghirlande d’edera in testa!».
«Lo vedo bene,» dissi io con un sospiro «ma erano
tempi più belli!».
Appena la carrozza fece la prima sosta, quel mostro
snaturato (per adoperare un bel termine maschile) saltò
giù e si mescolò agli altri gitanti senza più degnarmi di
un’occhiata. Ma la faccenda non era per nulla risolta.
Proprio mentre Regine si rallegrava di esser stata liberata
della pittrice, per la quale aveva un’irresistibile avversio­
ne, arrivarono le Parche e le presentarono il cavaliere che
le avevano destinato, un giovanotto dell’ambasciata bra­
siliana, con un lungo tìtolo di conte fatto di una filza di
parolette; egli stesso era lungo e sottile come un’antica
lancia da cavaliere, nero come la pece e pallido, con un
bellissimo naso diritto e occhi di fuoco. Era l’ultima pas­
sione delle tre Parche e, poiché aveva chiesto di essere
presentato alla bella Regine, esse s’erano affrettate a por­
tarlo lì, nella speranza di potersi pavoneggiare insieme a
due esemplari così interessanti.
Come padrone della carrozza dovetti naturalmente ce­
dere all’ospite il posto accanto alla mia dama, che ormai
diventò la sua. Del resto egli si comportò con la massima
proprietà, perfino troppo seriamente a mio parere, perché
se ne potevano dedurre intenzioni audaci e lungimiranti.
Regine, per conto suo, era silenziosa; rispondeva però
I. Angelika Kauffmann (1741-1807) : pittrice svizzera; visse a lungo
a Londra, poi si stabilì a Roma, dove il suo salotto fu frequen­
tato dai più noti personaggi dell’epoca, fra cui anche Goethe,
a. In italiano nel testo.
REGINE IO29

ai suoi discorsi con. tranquillità e correttezza, e poiché


il brasiliano non sapeva affatto il tedesco, e non meglio
di lei l’inglese e il francese, la conversazione rimase per
forza entro limiti modesti. La meta della passeggiata era
la fattoria annessa a un castello principesco, dove si fa­
ceva un’ottima cucina per i gitanti cittadini, e i prati, i
viali, i boschetti del giardino contiguo erano a disposi­
zione della clientela. Dopo la colazione, che facemmo
tutti insieme, la brigata si sciolse per il resto della mat­
tina, sciamando qua e là e disperdendosi nei meravigliosi
giardini. Ma Regine non mi permise di muovermi dal suo
fianco ; trovava sempre modo di chiamarmi e di tenermi
occupato, e poiché era manifesta la sua volontà che non
il brasiliano ma io dovessi essere il suo cavalier servente,
il conte si tirò un poco indietro con la maggior buona
grazia del mondo, senza dare nell’occhio; si unì ad altri
gruppi che incontrava, ogni tanto ritornava per scam­
biare qualche parola garbata, poi s’allontanava di nuovo
come se gli premesse di trovarsi anche altrove. D’al­
tronde ebbe il suo bel da fare ; ad esempio gli toccò rab­
bonire un giardiniere che gridava perché la Piccola Ape
aveva già còlto senza complimenti in una serra due o tre
splendidi fiori, sebbene l’aria fosse carica di profumi, e il
suolo splendente di colori.
Improvvisamente Regine mi afferrò il braccio e con pas­
so rapido mi condusse in disparte, finché giungemmo su
viottoli ombrosi e più solitari. Lì ella mi aperse tutto il
suo cuore : aveva atteso con impazienza quel giorno per
poter parlare di Erwin fino a saziarsene. Le altre signore,
disse, non accennavano mai ai loro mariti, e anche di Er­
win non s’occupavano se non per fare ogni sorta di do­
mande e soddisfare la loro curiosità intorno a cose di cui
non avrebbero dovuto impicciarsi. Sicché lei preferiva
tacere. Con me invece, suo buon amico e compatriota,
voleva sfogare tutto quello che aveva nell’anima. Co­
minciò dunque a parlare di lui, mi disse che anelava al
suo prossimo ritorno, e quanto era buono e caro, anche
nelle lettere che le scriveva; descrisse le sue peculiarità,
di cui non sapeva se fossero comuni anche ad altri signori
ιοβο L’EPIGRAMMA

ricchi e istruiti, ma che ella non avrebbe cambiato per


tutto l’oro del mondo ; e volle sapere se io conoscevo bene
Erwin, anche prima che loro due s’incontrassero. Non
credevo che allora egli fosse più felice di adesso? e mille
altre cose. A forza di parlare si agitò tanto che affrettò
il passo, e quasi correva, come se lo cercasse e sperasse di
trovarlo, e così giungemmo senza avvedercene a uno
spiazzo assolato che aveva al centro una fontana. Nel
mezzo c’era una vasca piatta, dorata, dalla quale l’acqua
si riversava su un gran mazzo di fiori freschi, così dolce e
regolare e silenziosa che i bei fiori sembravano posti sotto
una campana di vetro quietamente fluente, accarezzata
dai raggi di sole. Regine non aveva mai visto quei giochi
d’acqua. «Quant’è bello!» esclamò arrestando il passo;
«come si può mai produrre quest’illusione?».
Meccanicamente si sedette su una panca di fronte al
gentile miracolo, e lo contemplò assorta. Un sorriso beato
le scherzava sul labbro, così lieve come l’acqua sui fiori, e
si vedeva bene che la viva campana di cristallo che pro­
teggeva così fedelmente le rose aveva riportato i suoi pen­
sieri al marito lontano. Mentre le stavo accanto e la os­
servavo pieno di simpatia senza che ella badasse a me, mi
sentivo profondamente commosso. Non avrei mai creduto
che vi potesse essere una gioia così pura come quella di
ammirare l’amore di una donna gentile per un altro uomo
e augurarle la più piena felicità.
Ma impercettibilmente m’avvidi che la serena con­
templazione si trasformava pian piano, per dar luogo a una
melanconia sempre più cupa. Le labbra rimanevano
dischiuse, com’erano state nel sorriso, ma l’espressione era
afflitta. Il capo s’abbassò un poco, come in profonda me­
ditazione, e alla fine grosse lacrime le caddero dagli occhi.
Perplesso la svegliai da quello stato permettendomi
di toccarle leggermente la spalla e di chiedere quali tristi
pensieri le passavano per la mente. Ella trasalì spaventata,
cercò di riprendersi, e dalle poche parole che balbettò
compresi che prima l’aveva còlta la nostalgia del marito e
poi il dubbio sulla saldezza e la durata della sua felicità.
Mi sforzai di toglierla con qualche parola scherzosa e
REGINE IO31

incoraggiante dalla sua strana mestizia. Infatti ella ridi­


venne naturale e tranquilla e quando, ripreso il cammino,
incontrammo il brasiliano che ci cercava per accompa­
gnarci alle mense già apparecchiate sotto gli alberi,
trattò amichevolmente anche lui. Trascinata dal conte­
gno premuroso e modesto del bel cavaliere, parve desi­
derosa di riparare alla durezza di prima e accettò il suo
braccio per il breve tratto che dovemmo percorrere fino
al luogo dove si pranzava, anzi gradì la sua compagnia e i
suoi servigi a tavola, favore del quale egli si valse con irre­
prensibile discrezione. Regine non volle invece prendere
parte ai giochi, ai salti, alle corse, a tutti i divertimenti ru­
morosi che ebbero inizio dopo mangiato, e di nuovo mi
sequestrò apertamente, il che, con tutta l’amicizia e la
simpatia che sentivo per lei, cominciava però a umiliarmi
un poco, giacché mi pareva d’essere il giovane cugino
insignificante che un’altera fanciulla si porta dietro come
schermo. Alla merenda, che fu servita più tardi tra la rin­
novata allegria, ella partecipò e offrì con le sue mani caf­
fè e torte al solito sudamericano. Quando poi venne l’ora
della partenza fui costretto a invitare di nuovo il signore
nella nostra carrozza, tanto più che fra gli altri gruppi
erano sorte varie tensioni. Specialmente le vanesie erano
imbronciate tutte e tre, per quale motivo non saprei di
preciso; udii soltanto uno dei signori osservare a mezza
voce che quella era la conclusione inevitabile di tutte le gite
organizzate da loro. Ad ogni modo m’era sembrato di no­
tare più di una volta, nel corso della giornata, una certa
agitazione e scontentezza che venava l’allegria, così come
un soffio di vento trema e stormisce tra le foglie appassite,
oppure come dice la canzone della brigata di uomini e
donne che naviga in gondola sulle acque tranquille:
Il cuore batte inquieto e greve
L’occhio non guarda là dove deve!
e la sola Regine, fra tutti, appariva serena.
Del sole calante, che così bene vedevamo dalla car­
rozza, e del suo lento crepuscolo che fa lieti e loquaci i
fanciulli e le donne del popolo, ella godette intensamente ;
1032 L’EPIGRAMMA

chiacchierava fitto, e disse in un’ora più che non avesse


detto in tutto il giorno; solo quando fu buio e le stelle
si accesero a una a una, divenne silenziosa e finì col tacere
del tutto.
Il conte mi bisbigliò in francese che forse Madame
s’era addormentata; ma lei esclamò allegra: «No, no, che
non dormo!». E quando ci fermammo infine davanti a
casa sua, dopo che la compagnia si era sciolta senza molti
convenevoli, e la consegnammo al gruppetto dei suoi do­
mestici che l’aspettavano nell’androne coi lumi, ella
strinse a entrambi cordialmente la mano, con l’aria di
avere ripreso fiducia nella vita e nel mondo.
Il brasiliano e io eravamo non meno soddisfatti, da
gente assennata e perbene che si porta seco una buona
impressione, e decidemmo di sostare insieme in un’osteria
famosa per godere ancora di un buon bicchiere e di un
buon sigaro. Bevemmo alla salute della bella signora con
espressioni d’elogio ; il conte era un conoscitore tranquillo
e corretto, e io l’imitai magnificamente, dopo di che cam­
biammo argomento e ci demmo alla contemplazione della
spensierata vita notturna. Ma il sudamericano, poco abi­
tuato al vino, non faceva molto onore alla bottiglia; io do­
vetti fare la parte più grossa, e così, terminato il sigaro,
ci separammo che non erano ancora le dieci. Il conte
dagli occhi neri se ne andò a casa; io invece, lo confesso a
disdoro dei miei anni giovanili, mi affrettai verso una bir­
reria dalla volta bassa e fumosa dove giovani tedeschi che
avevano finito l’università si svezzavano con lentezza e
prudenza dal bruno latte degli studenti.
Il giorno dopo mi parve opportuno fare una visita alla
signora Regine. Quando sonai alla sua porta mi aprì
l’anziana cameriera o governante, o come si voglia chia­
mare colei che adempiva ai due uffici. Ella mi osservò
con un viso serio che mi stupì e mi mise a disagio, e al
tempo stesso sembrava divorata dalla curiosità. Mi scrutò
dalla testa ai piedi e dai piedi alla testa e alzò gli occhi
anche più in alto come se cercasse qualcosa lassù nel­
l’aria. Senza rendersene conto crollò il capo, ma inghiot­
tì le parole che stava per dirmi e m’indicò seccamente la
REGINE IO33

stanza dove stava la signora. Lì il mio stupore crebbe,


anzi divenne spavento. In pieno contrasto con l’aspetto
fiorente che le avevo veduto il giorno prima, ella sedeva
alla finestra come annichilita, e a stento riuscì ad alzarsi
quando entrai; ricadde poi subito sulla seggiola. Il suo
volto era livido, sciupato dalla veglia e spaventato, quasi
atterrito ; gli occhi guardavano incerti e spauriti, ed ella
trovò appena la voce per rispondere al mio saluto. An­
sioso e quasi altrettanto afono le chiesi come stava.
«Veramente non molto bene» rispose con un sorriso
stanco e sforzato che veniva da un’autentica disperazione.
Ma non cercò di aggiungere una parola di spiegazione,
e dopo una breve conversazione disordinata, durante la
quale ella sorvegliò timorosamente sé e me, mi accomiatai
e ritornai a casa nella più strana disposizione d’animo
che si potesse immaginare. Mi sentivo infatti sconcertato e
a disagio, senza potermi spiegare perché preferivo stare
solo. Ma non avevo ancora passato un’ora sui libri, che
udii bussare alla porta, e la governante di casa Altenauer
entrò, posò accanto alla porta la cesta della spesa e, chie­
dendo brevemente licenza, si sedette su una seggiola
poco lontana, contro il muro.
«Lei è ancora molto giovane,» prese a dire «ma co­
nosce i miei signori da molto tempo, e so che il padrone
la stima. Perciò non ho potuto trattenermi, e vengo a con­
fidarmi con lei, nella speranza che possa darmi consiglio
per risolvere il dubbio che mi opprime».
Sempre più stupefatto e turbato le chiesi di che cosa
mai si trattava.
Dopo aver ripreso fiato, ancora esitante e circospetta,
ella disse: «Ieri sera, mentre ero nella mia camera, che
è fuori dell’appartamento, su un altro pianerottolo, e ram­
mendavo un grembiule, saranno state le dieci passate,
udii suonare piano piano all’uscio di casa, così che la cam­
pana rintoccò una sola volta. Tesi l’orecchio; poi udii
girare la chiave dall’interno e aprirsi la porta, ma nello
stesso tempo intesi un grido, o un’esclamazione, mezzo
soffocato. Allora uscii dalla mia stanza per vedere cosa
succedeva a così tarda ora. Ma in quel momento un ri-
1034 L’EPIGRAMMA

flesso di luce sparì, la porta fu chiusa e la chiave girata


due volte. Mi avvicinai ancora per ascoltare, poiché ero
un po’ impensierita. Sentii solo un leggero scalpicciare
di passi, un’altra porta che si chiudeva nell’alloggio, poi
più nulla. Finii col pensare che doveva essere la cuoca o
la cameriera più giovane, con qualche ambasciata o ri­
chiesta. Ritornai dunque in camera mia e poco dopo mi
coricai. Prima dell’alba mi svegliò il breve latrato di un
grosso cane che i signori del piano di sopra tengono in an­
ticamera. Udii di nuovo una porta che s’apriva ; vivamente
inquieta mi alzai in fretta, dischiusi un po’ il mio uscio e
guardai fuori. Un uomo alto, più alto di lei, signor
Reinhart, andava verso la scala con passo pesante, ben­
ché cercasse di camminare in punta di piedi. Non potei
vederlo chiaramente, era solo un’ombra gigantesca, per­
ché la mia signora che, mi parve, tremava tutta, lo pre­
cedeva con una piccola lampada e copriva la luce con la
mano, in modo che non un raggio ne cadesse all’indietro.
Così scesero, il portone venne aperto e richiuso, la signora
risalì, davanti alla sua porta sostò un attimo e fece un
profondo sospiro; poi scomparve, e ritornò il silenzio.
Poco dopo i campanili suonarono le due. La signora, per
quel che ne vidi, era in abito da notte.
Naturalmente non riuscii più a prender sonno. Il lam­
padario del nostro scalone viene spento alle dieci in
punto, e il portone chiuso; quell’individuo dev’essersi in­
sinuato dentro prima delle dieci, oppure possedeva una
chiave di casa. Quando suonai alla porta, verso le cinque,
la signora mi aprì, secondo l’ordine introdotto durante
l’assenza del padrone; giacché quando c’è lui non si gira
la chiave daìl’interno, in modo che al mattino io possa
aprire da me senza bisogno di suonare. La signora si ri­
tirò subito in camera sua come uno spettro. Nelle stanze
rischiarate dal sole notai poco disordine. Solo nella sala
da pranzo la credenza era aperta ; una caraffa, nella quale
da settimane una mezza bottiglia di vino siciliano rima­
neva quasi intatta, era vuota, il cestello del pane era stato
interamente vuotato e così pure un piatto di biscotti.
Sul tavolo vidi l’anello umido lasciato da un bicchiere
REGINE 1O35

troppo pieno, sul pavimento qualche briciola. Il tappeto


davanti al sofà era stato spostato da piedi irrequieti, mac­
chiato da scarpe infangate.
Quando la signora comparve, più tardi, era un’altra,
come ha visto lei stesso. Non disse una parola, e finora io
non ho chiesto nulla, e non so che cosa debbo fare. So che
un estraneo è penetrato in casa stanotte e che se n’è anda­
to via di nascosto. Non posso svelare il segreto, e neppure
esser complice e manutengola di un delitto contro quel­
l’ottimo uomo che è il mio padrone ! D’altra parte come
rovinare così senz’altro quella povera e bella creatura?
Che cosa ne pensa lei, signor Reinhart, che cosa mi con­
siglia di fare?».
Ero come agghiacciato. Dolore e indignazione per
Erwin Altenauer, ma nel contempo profonda pietà per la
donna, se era veramente colpevole, mi assalirono quando
mi fui un po’ ripreso. Pensavo involontariamente al bra­
siliano e domandai alla costernata governante com’era
vestito lo sconosciuto, se da gran signore o da uomo co­
mune. Ma lei ripetè che non aveva visto nulla, se non un
gran cappello floscio con la falda calata sul viso.
Tacqui per un po’, rimuginando, mentre la buona
creatura gemeva ripetutamente, e dalla sua angoscia
compresi quant’era affezionata alla povera signora, ades­
so tanto infelice. Ciò rafforzò la mia partecipazione. Fi­
nalmente dissi: «Noi dobbiamo comportarci, secondo me,
come se in una casa di persone civili fosse stato visto un
fantasma, o ricorressero storie di misteri e di spiriti. Gli
avvenimenti paurosi, le apparizioni, i rumori non si pos­
sono mettere in dubbio, perché persone giudiziose e obiet­
tive ne sono state testimoni e ne fanno fede. Ma siccome
non esiste una spiegazione naturale, un’interpretazione
del mistero, non rimane altro da fare che attenersi ai pre­
cetti della ragione, e confidare che presto o tardi la sempli­
ce verità venga a galla, e tutti rimangano soddisfatti.
Così anche noi dobbiamo lasciar trascorrere qualche
giorno sull’inesplicabile avvenimento, nella convinzione,
o almeno nella speranza che l’onestà della signora abbia
a rifulgere indiscutibilmente come una legge di natura».
1036 L’EPIGRAMMA

La buona donna, che doveva credere più ai fantasmi


che alle leggi di natura, non parve sollevata dalle mie pa­
role; tuttavia giurò dietro mia richiesta di serbare il se­
greto con chiunque, scrupolosamente, e di aspettare in
silenzio le prossime mosse della signora.
Per conto mio non ero affatto tranquillo. Mi tornava
sempre in mente il lungo brasiliano, come una pugnala­
ta. V’era stato ieri un rapido accordo, come conclusio­
ne di una prolungata resistenza e di una sottile opera
di seduzione? E se il seduttore è per davvero penetra­
to in casa, ciò significa inevitabilmente che ha vinto?
Ma da quando i bei signorini che s’accingono a simili
avventure bevono bottiglie di vino dolce, da quando un
raffinato Don Giovanni divora un intero cestello di pane?
E perché no, se ha fame? lui più d’un altro !
Insomma non mi raccapezzavo. Dopo pranzo pensai di
cercare il nero conte in un caffè all’aperto, frequentato da
giovani della sua classe sociale. Mi ripromettevo di osser­
vare, almeno, ciò che poteva rivelarmi il suo viso. Ma
poi abbandonai il progetto; mi ripugnava, e poi che co­
sa c’entravo io? Invece lo incontrai per caso mentre pas­
seggiava con altri signori. Mi salutò tranquillo, sereno e
disinvolto come m’aveva lasciato il giorno prima.
Quanto a Regine, per il momento non osai andarla a
cercare. “Sono cose di cui non t’intendi, non è il fatto
tuo !” mi dicevo. Qualche giorno dopo andai a teatro e
vidi Regine nel palchetto delle tre Parche, e dietro di lei
v’era il conte. Le Parche sfolgoravano per la gioia di ve­
der tutti gli occhi rivolti verso di loro. Il conte sedeva
tranquillo e conversava cortesemente con le signore ; Re­
gine era pallida e indubbiamente aveva più l’aria di essere
stata trascinata per forza che di esser venuta di volontà
propria. Si dava la Maria Stuarda di Schiller. Verso la fine
della tragedia io dal mio angolo buio osservai il palco
col binocolo, mentre tutti gli spettatori guardavano so­
spesi la scena in cui Leicester assiste alla decapitazione di
Maria, che si svolge dietro le quinte. L’attore era uno
stupido zerbinotto vestito di raso bianco che recitava in
modo stentato e ridicolo, e per questo avevo smesso di
REGINE ιθ37

guardarlo. Ma Regine, che fino allora — l’avevo ben vi­


sto - aveva seguito l’azione con estrema fatica, ora fis­
sava il palcoscenico con vera angoscia, e quando l’attore
annunziò l’avvenuta esecuzione con una specie di goffa
capriola, ella sussultò così atterrita che il conte dovette
sostenerla per un momento. Probabilmente fui il solo ad
accorgermene.
Giunse finalmente la notizia che Erwin aveva intra­
preso il viaggio di ritorno. Racconterò il resto in parte
così come si svolse per lui, in parte come egli me lo rac­
contò più tardi. Gli affari l’avevano condotto infine a
New York, ove doveva imbarcarsi. Là egli era entrato nel
negozio di un mercante di oggetti d’arte, che teneva an­
che raffinati prodotti dell’artigianato americano; Erwin
cercava qualcosa che potesse piacere a Regine. Mentre
esaminava i gingilli esposti su un tavolo, il suo sguardo fu
attirato da un quadro sgargiante appeso a una parete fra
altri dipinti, che recavano tutti l’indicazione «nuova
scuola tedesca». Gli parve subito che ritraesse sua moglie.
L’artista non aveva saputo coglierne l’anima e la perso­
nalità, e il bizzarro camuffamento rendeva ancor più pro­
blematica la somiglianza; poteva trattarsi di un tipo di
donna in generale, di uno scherzo del caso. Ma Regine
gli aveva scritto di aver posato per un’artista piena di ta­
lento; qui il cognome della pittrice stava scritto a grandi
lettere sul quadro, anche se il nome era abbreviato e po­
teva indicare sia un uomo sia una donna ; la città e l’anno
però concidevano. Nonostante la rapidissima impressione
di piacere che la vista inattesa gli aveva procurato, egli ri­
senti subito dopo un senso di disgusto. Non solo che il ri­
tratto di sua moglie fosse lì esposto in vendita, ma anche
l’abbigliamento teatrale e il titolo «Studio di figura»,
come si fosse trattato di una modella a pagamento, in
breve, tutta la faccenda gli causò una vieppiù crescente
irritazione. Ma bene o male inghiottì la collera, e trattò
l’acquisto del quadro sforzandosi di apparire indifferente e
di non lasciar capire quanto gli stesse a cuore l’originale.
Fece poi imballare il suo acquisto e lo mandò a Boston
prima d’imbarcarsi, non senza aver formato il propo­
IO38 L’EPIGRAMMA

sito di scoprire chi aveva colpa di quella mancanza di


decoro. Egli infatti non l’attribuiva a Regine, sebbene si
fosse chiesto con un piccolo sospiro se quell’importante
problema di tatto e di cultura (o comunque avesse espres­
so il proprio pensiero) si sarebbe potuto risolvere prima
che egli, com’era sempre più imminente, rimpatriasse con
la moglie.
Dunque, egli giunse una bella mattina di luglio. Aveva
viaggiato tutta la notte per arrivare prima. Quando entrò
nel portone vide la servitù radunata in cortile intorno al
lattaio, e si rallegrò di poter cogliere Regine di sorpresa.
L’appartamento era aperto e silenzioso, ed egli attraversò
le stanze senza far rumore. Nella sala da ricevimento trovò
con sorpresa una grande novità: una riproduzione in
gesso della Venere di Milo, alta più di tre piedi e issata
su un piedistallo; era un regalo delle tre Parche per l’ono­
mastico di Regine : ciascuna di esse possedeva una ripro­
duzione uguale. Se ne facevano venire da Parigi a doz­
zine, poiché nel culto di quella seria immagine di bellezza
s’era insinuata una strana ipocrisia: l’ammirazione per
l’opera d’arte copriva intenzioni lascive, e parecchie si­
gnore ponendola sui loro altari domestici intendevano
celebrare sfacciatamente la propria bellezza.
Erwin contemplò per qualche istante la nobile figura,
che d’altronde con l’arido biancore del gesso distruggeva
nella sala l’armonia dei colori. Ma una sorpresa maggiore
lo attendeva quando un attimo dopo apri la camera da
letto e vide un’apparizione assai simile, però colorata e
pulsante di vita. Nudo lo splendido torso, con un damasco
di seta gialla drappeggiato intorno ai fianchi e cadente
sino a terra in ricche masse di pieghe, Regine stava da­
vanti allo specchio e con un’espressione melanconica s’ap­
puntava i capelli che sembravano appena lavati. «Quale
spettacolo!» egli mi disse più tardi. Certo però meno
greco che veneziano, per dirla con un luogo comune.
Ma anche quali abitudini ! Come può venire in mente
a un’anima semplice di specchiare in tal modo la propria
bellezza e scimmiottare la Venere di là in salotto? Chi
glielo ha insegnato? Di dove viene quella grossa pezza di
REGINE 1θ39

damasco? La sua educazione è già tanto progredita che


ella fa acquisti così sontuosi, come quel drappo di seta, so­
lo per metterselo intorno ai fianchi il mattino durante
un bagno d’aria? E quelle arti le ha imparate ed eserci­
tate per lui solo?
Questi pensieri semicoscienti s’inseguivano nella sua
mente come grigi grovigli di ombre; ma subito dilegua­
rono quand’egli vide nello specchio l’espressione mesta del
volto; e chiamò immediatamente la moglie per nome, per
scacciare la sua tristezza : ebbe subito quest’impulso amo­
roso. Adesso ella giaceva felice nelle sue braccia, e tutto
andò bene nelle prime due ore, anche il piccolo interroga­
torio sullo strano travestimento in cui l’aveva sorpresa.
Arrossendo e con occhi incupiti ella raccontò che non
l’avevano lasciata in pace finché non aveva posato a scopo
di studio per la famigerata pittrice ; avevano detto che era
un dovere, un caso di coscienza, che non v’era nulla di
male e la cosa sarebbe rimasta tra loro, cioè fra le amiche,
una delle quali era presente durante l’ora di posa. E al­
lora, poiché avevano tanto elogiato la sua figura, e il
damasco era ormai comprato e pagato, lei s’era detto che
il primo ad aver diritto di vederla così, se si trattava ve­
ramente di qualcosa di bello, era suo marito, e perciò da
un paio di giorni cercava di abituarsi a drappeggiare e
appuntare la stoffa senza l’aiuto della pittrice. Del resto
se ne era fatto soltanto un quadretto.
«E dov’è?» aveva chiesto il marito arrossendo a sua
volta. Regine rispose imbarazzata che la pittrice se l’era
portato via. Tanto era una donna, e poi una delle tre
amiche voleva comprarlo per ricordo. Allora Erwin ri­
conobbe l’inesperienza e l’innocenza della buona Regine,
o almeno se ne persuase, però risolse di visitare quelle
donne bizzarre e di procurarsi il dipinto. Il primo giorno
rimase in casa; prima che si facesse sera, Regine aveva
avuto più di un accesso d’angoscia e di melanconia, però
si era sempre dominata, o forse la presenza del marito le
ridava un po’ di serenità. Insomma, Erwin sentì che non
era più quella di prima, che doveva essere accaduto qual­
cosa. Trascorse la notte senza il riposo sperato, mentre la
1040 L’EPIGRAMMA

moglie dormiva; ma egli si chiedeva se ella aveva ritro­


vato il sonno per la prima volta o se aveva dormito sempre.
Due giorni dopo il suo arrivo andò all’ambasciata per
affari di cui era stato incaricato a Washington, da trattare
in colloqui diretti. Fra l’altro v’erano certe questioni di
diritto marittimo, per le quali occorreva conferire con i
diplomatici brasiliani, prima di procedere con gli Stati
europei ; del resto non si era a uno stadio decisivo, né la
questione era molto importante. Erwin riferì al suo am­
basciatore per ciò che riguardava la Germania. L’amba­
sciatore aveva mal di denti e lo pregò di andare lui stesso
dai Brasiliani e di svolgere i negoziati a nome suo.
Erwin vi si recò, ma non trovò che un segretario. L’am­
basciatore del Brasile era a Karlsbad, disse il segretario;
però l’addetto, il conte Tal dei Tali, aveva preso l’in­
cartamento e lo stava studiando; certamente era in grado
di dare e ricevere schiarimenti, e di prendere temporanee
disposizioni. Per non perdere altro tempo, Erwin si recò
subito dal conte, che era appunto il nostro uomo. I due
diplomatici non si erano mai visti, perché il brasiliano
era stato nominato a quel posto durante l’assenza di Er­
win. Il sudamericano salutò disinvolto il collega del nord,
disse che aveva avuto il piacere di conoscere la sua con­
sorte e ne chiese notizie. Poi incominciò il colloquio d’af­
fari che durò circa mezz’ora. Erwin non era quello che si
chiama genericamente un geloso; perciò la conoscenza
del conte con sua moglie non lo impensierì, malgrado
l’aria romantica e gli occhi ardenti ; durante il colloquio
aveva dimenticato i suoi problemi domestici, e alla fine
si mosse tranquillamente a lato del conte, che lo accom­
pagnava. Ma di nuovo, come a New York, lo folgorò un
quadro che prima non aveva visto. Presso la porta della
stanza, alla quale aveva fino allora voltato le spalle, c’era
un tavolino, e su quello, appoggiato al muro, un piccolo
dipinto a olio in una larga cornice intagliata. Era la mo­
glie di Erwin, così com’egli l’aveva veduta entrando in
camera da letto al suo ritorno. L’artista però aveva preso
la precauzione di rendere il volto irriconoscibile, cioè di
sostituirlo con quello di un’altra modella; ma Erwin ri-
REGINE IO4I

conobbe a prima vista la stoffa di seta e tutta la figura.


Per giunta la diabolica pittrice le aveva intrecciato le
mani sulla nuca, così come Erwin l’aveva vista quando
si acconciava i capelli.
S’avvicinò d’un passo al tavolino e fissò il quadretto,
che gli appariva e scompariva davanti agli occhi in una
nebbia, come, per così dire, Afrodite emergente dal va­
pore e dalla spuma del mare. Non osava distogliere lo
sguardo né posarlo sul conte, eppure si sentiva come chi
sta per affogare. Ma per fortuna le idee s’inseguivano,
come suole accadere in simili casi, l’una scacciando l’al­
tra. V’era sempre una possibilità che il conte ignorasse
chi raffigurava il dipinto; perché dunque tradire inop­
portunamente se stesso e la moglie? Se era necessario
poteva sempre ritornare e uccidere davanti al quadro il
nemico del suo onore. Ma prima non doveva essere giu­
dicata la donna, e forse condannata? Infatti appariva
sempre più indubbia qualche orribile concatenazione di
eventi; come poteva spiegarsi, se no, la tristezza che pe­
sava sulla casa? Ma intanto che cosa si ottiene con una
condanna; e chi è il giudice? Io, che ho lasciato sola per
quasi un anno una creatura giovane e sprovveduta?
Così era passato forse un minuto, uno degli innume­
revoli in apparenza, eppure così pochi, che abbiamo da
vivere. D’improvviso egli si riprese con sforzo, gettò un’oc­
chiata al conte e disse senza batter ciglio: «Un bel qua·*
dretto quello che ha lì, conte!».
«L’ho comprato nello studio d’un pittore;» rispose
l’altro «m’ha garantito che è dipinto dal vero!».
Si strinsero la mano con la cordialità prescritta fra di­
plomatici, ed Erwin se ne andò per la sua strada. Ma
non ritornò a casa, né si mise in cerca delle Parche o della
pittrice, come aveva pensato prima, e neppure venne da
me o da altri, bensì corse per un’ora sulla soleggiata strada
maestra, dalla porta della città alla prima pietra miliare e
viceversa. Voleva prendere una decisione e poi non sco­
starsene più di uno iota; nessun estraneo doveva saperne
nulla né dare un parere.
Nell’afa del mezzogiorno, nella polvere della strada,
1042 L’EPIGRAMMA

sotto le nuvole del cielo, nell’incontro con stanchi vian­


danti, con lente bestie da soma, con contadini che s’af­
frettavano verso casa, egli si traeva a fianco, invisibile, la
povera Regine, facendole il processo, per così dire, alla
vista di tutti. Gli pareva che ella gli si trascinasse accanto
cercando le risposte alle sue domande; e l’amarezza che
egli portava nel cuore era avvolta, ma non raddolcita, dal­
la pietà.
Quando ritornò alla porta della città, la sua risoluzione,
se non addirittura il verdetto, era presa. Voleva risolvere
non soltanto l’episodio ma tutta la storia, condurre la
donna al di là del mare e lasciare che il tempo apportasse
la spiegazione del disastro avvenuto. Anche con Regine
intendeva tacere, e aspettare che trovasse da sé la forza di
parlare liberamente ; il resto si sarebbe visto poi. Intanto
la tacita separazione che v’era ormai fra di loro doveva
esserle ben chiara, ed ella non poteva non sentire che il
giudizio era soltanto rinviato.
Con tale risoluzione tornò a casa, dove non trovò Re­
gine. Dopo che Erwin era uscito, essa aveva compreso la
scabrosità e l’inammissibilità di quel che aveva fatto;
sguardi e parole di Erwin l’avevano duramente colpita,
illuminando improvvisamente le intuizioni della sua co­
scienza. Incalzata dal terrore era corsa innanzitutto dalla
pittrice, per farsi dare il quadro. Costei cercò scuse, pro­
mise di mandarlo, di portarlo lei stessa, e infine, premuta
dalle disperate preghiere, disse che il dipinto doveva es­
sere da una delle tre signore (cioè le Parche), ad ogni
modo ben collocato e in mani sicure. Regine si precipitò
dalla cosiddetta Piccola Ape, dalla Gazzella, da Cappuc­
cetto Rosso; dapprima nessuna sembrava saper nulla del
dipinto, sorridevano meravigliate, e poi si misero tutte in
sciocco subbuglio, insistendo per accompagnare subito
l’infelice a caccia del suo ritratto.
Senza aver nulla ottenuto, ma prostrata sotto una dop­
pia oppressione, Regine tornò a casa e trovò il marito a
colloquio con un agente, al quale impartiva l’ordine - co­
me Regine, sebbene estenuata, capì a poco a poco — di
vendere tutto l’arredamento, d’imballare e spedire gli
REGINE IO43

oggetti personali e da portar via. Quando l’agente se ne


fu andato, Erwin disse a Regine, che sedeva pallida e
muta in un angolo: «Giungi a buon punto per pagare e
licenziare la servitù; è un compito più adatto alla pa­
drona di casa. Devi sapere che partiamo stasera e fra due
giorni saremo in mare; andiamo dai miei genitori».
Non le disse una parola di più, ed ella non osò fiatare.
Egli la udì soltanto emettere un profondo respiro, come
se l’idea di attraversare l’oceano le desse sollievo.
Lo stesso giorno, dunque, vennero fatti i bagagli, pagati
i conti, e presi tutti i provvedimenti necessari per una
improvvisa partenza. Erwin passò ancora una mezz’ora
all’ambasciata, ma non s’accomiatò da nessuno. Di tutto
ciò ebbi la prima notizia dalla governante licenziata, la
quale venne da me qualche giorno dopo a scaricarsi la
coscienza confessandomi come nel trambusto dell’ultimo
pomeriggio aveva profittato di un momento di sosta per
confidare in poche parole a Erwin che una notte v’era stata
la visita di uno sconosciuto e che da allora era entrata in
casa la disperazione. Aveva aggiunto di non sapere di chi
e di che cosa si fosse trattato, ma di ritener suo dovere
informarlo, affinché egli nel suo corruccio non vedesse
né troppo né troppo poco. Erwin l’aveva allora guardata
con occhi cupi e, sebbene lei avesse notato quanto era ri­
masto scosso da quella comunicazione, aveva detto di
essere già a conoscenza di tutto; si trattava d’un segreto
che la pregava di non divulgare, ma l’uomo l’aveva
mandato lui stesso.
Subito dopo il breve colloquio aveva scambiato con Re­
gine le poche parole necessarie, nello stesso tono gentile e
tranquillo di prima; e abbandonando la casa per l’ultima
volta aveva offerto il braccio alla donna fittamente ve­
lata. E adesso lei, la governante, non sapeva se aveva
fatto bene o se aveva peggiorato la sventura.
Le chiesi se s’era mai lasciato sfuggire qualcosa con i
domestici, gli abitanti della casa, o altri. Ella mi assicurò
di non aver mai fiatato e promise ancora una volta di se­
guitare a tacere ; sono convinto che ha mantenuto la pro­
messa. Intanto la rassicurai sull’accaduto. Se nella miste-
1044 L’EPIGRAMMA

riosa visita v’era qualcosa di male, opinai, non si poteva


guastare gran che ; se invece era una cosa innocente, l’o­
scuro episodio si sarebbe un giorno o l’altro chiarito.
Stentavo a credere che la faccenda fosse proprio vera.
La repentina partenza non aveva fatto molto rumore,
perché il ritorno di Erwin era a conoscenza di pochi, e le
Parche, caso strano, si mantennero tranquille. Qualche
giorno dopo passai con una specie di nostalgia per la strada
dove avevano abitato gli Altenauer e mi fermai a guar­
dare la casa. Stava uscendo dal portone un carretto basso
a quattro ruote, e sopra c’era la Venere di Milo che oscil­
lava un po’, benché fosse legata con le funi. Un facchino
la teneva ritta con grandi risate e gridò «via!» mentre
l’altro tirava il carretto. La seguii a lungo con lo sguardo
e pensai: “Ecco com’è quando la bellezza capita fra la
plebaglia!”. Mi sembrava che fosse Regine quella che
vedevo andarsene così fra risate e scossoni.
Tre anni dopo, quando Regine era già morta da lungo
tempo, incontrai di nuovo nella stessa città Erwin Alte­
nauer, ora incaricato d’affari dell’ambasciata ameri­
cana. Aveva scelto appositamente quella sede per ono­
rare con la sua presenza la memoria della morta; e da lui
appresi la fine della storia; egli amava infatti parlarne
con me perché ne conoscevo l’inizio.
Già il viaggio in mare verso occidente doveva essersi
svolto in una particolare condizione d’infelicità. Due ani­
me divise, eppure legate nell’intimo, prigioniere per set­
timane in uno spazio ristretto, la vita silenziosa, monosil­
labica - senza intenzione di ferire - le cento reciproche
attenzioni usate con gli occhi bassi, l’errare di quegli oc­
chi sulla superficie sterminata, lungo l’orizzonte evane­
scente dell’oceano, nelle solitudini del cielo, forse per
trovare un comune punto d’equilibrio che non potevano
cercare vicino, tutto doveva contribuire a rendere il
viaggio simile a quello di due ombre perdute sulle acque
degli inferi, come descrivono le fantasie di antichi poeti.
Anche la convivenza forzata con una folla d’estranei im­
pediva naturalmente il risolversi del doloroso processo;
ma ad ogni modo Regine non disse mai motto; si sarebbe
REGINE IO45

detto che temesse qualche orribile crollo e ogni parola che


potesse provocarlo. Così come sorvegliava la sua lingua
ella ricacciava anche paurosamente ogni sorriso che per
antica abitudine volesse fiorirle sul labbro quando, in­
sperato, lo sguardo di Erwin incontrava il suo. Egli vede­
va il fremito della bocca, che tosto si ricomponeva in una
melanconica quiete, ed era sicuro che in tal modo ella
voleva respingere anche il più lieve sospetto di civetteria;
cioè, non tanto voleva quanto doveva. Straordinaria
contraddizione quella conoscenza della natura di lei,
quella fiducia, e l’oscura maledizione del fato !
Ma Erwin temeva con altrettanta angoscia il princi­
pio della fine; secondo l’antico detto, poteva compren­
dere e perdonare, ma non poteva cancellare, e lo sapeva.
Figurarsi poi l’ingresso nella casa paterna di Boston !
Non la gioia vittoriosa dell’approvazione, della lode, ma
un afflitto, dissimulato riserbo, una riguardosa cautela, e
alla fine un gran silenzio in tutta la casa, come conse­
guenza di una finzione mezzo vera: un improvviso dis­
sidio, un umore malato della giovane donna. Solo alla
madre Erwin confidò una parte della verità, una versione
che fosse non troppo dura, non troppo crudele per Regine
e abbastanza sopportabile per la madre. La vista della
giovane nuora le aveva procurato a tutta prima alta
soddisfazione, e tutto il suo comportamento una doloro­
sa pietà ma anche la più profonda angustia, sicché
ella fu subito d’accordo per un trattamento di prudente
sollecitudine, e cercò di dare lei stessa l’esempio, rivolgen­
dosi all’esclusa con una dolcezza grave, come si fa con
persone malate e sconvolte. Tutti i familiari, gli impiegati,
i domestici della casa adottarono spontaneamente lo stes­
so tono ; Regine in mezzo alla schiera dei nuovi parenti e
dipendenti si trovò sola, ma non fece domande né la­
gnanze. Ben presto visse nelle stanze appartate di un’ala
laterale come una prigioniera volontaria, mentre Erwin
intraprese subito un viaggio di tre settimane, perché la
separazione desse meno nell’occhio. Ma dovunque an­
dasse sentiva il peso della sciagurata situazione in cui era
incappato con Regine, la nostalgia di lei e dei giorni lon-
1046 L’EPIGRAMMA

tard, e insieme l’orrore dell’abisso ehe aveva troppo mo­


tivo di intuire e temere. E più riconosceva di averla ine­
vitabilmente perduta, più l’infelice alla quale aveva de­
dicato tutto il suo amore e le sue premure gli appariva
unica e insostituibile. Alla fine il desiderio di rivederla
prevalse, tanto che il diciottesimo giorno della sua assenza
egli prese la via del ritorno nell’intento di arrivare a una
risoluzione, e di vedere ancora una volta la donna, anche
a rischio di perderla subito e per sempre.
Durante la sua assenza, la madre aveva visitato tutti i
giorni la solitaria Regine, trascorrendo da lei un’oretta con
un lavoro, o portandole qualcosa da fare, e aveva conver­
sato con lei benevolmente, sostenendo, s’intende, quasi tut­
to il peso della conversazione. Però aveva evitato con scru­
polo d’incalzare con interrogatori e domande la giovane
donna, che nonostante la taciturna melanconia dimostra­
va umiltà e gratitudine, giacché un’anima nobile dà segno
della sua bontà anche quando lo spirito è turbato. Un
giorno, quando Erwin era già in viaggio per tornare, la
madre trovò Regine intenta a scrivere con ardore. La cosa
destò la sua attenzione e non le piacque affatto; c’erano
già molti fogli scritti, e Regine li radunò tranquilla senza
timore e senza tentare di nasconderli. La madre, del resto,
aveva già notato che ella non celava mai nulla e teneva la
sua stanza sempre in perfetto ordine e aperta a chiunque.
Tormentato da un’angosciosa impazienza Erwin tornò
con un treno della notte e alle sei del mattino giunse a
casa. In gran fretta si recò nella sua camera per ripulirsi
e cambiarsi d’abito. Ma appena la madre seppe del suo
arrivo andò da lui e gli riferì di Regine. Visibilmente in­
tenerita, dopo avergli detto che in quel periodo il conte­
gno della nuora le aveva fatto una tale impressione che,
se tutto ciò era inganno, costei avrebbe dovuto essere una
commediante e un’ipocrita consumata, raccontò che
quella notte, o meglio poco prima dell’alba, aveva fatto
una scoperta strana e commovente. Disturbata dall’inson­
nia, s’era alzata ed era andata, a tastoni nel buio, fino al
salottino posto di fronte all’ala dove abitava Regine. Là,
su un tavolino, doveva essere rimasta una boccetta di es-
REGINE IO47

senza rinfrescante, che da tempo non aveva più usato.


Mentre la cercava, aveva notato al di là del cortile un
fioco barlume di luce, quando tutto il resto invece era
ancora immerso nel riposo notturno. Guardando meglio,
aveva capito che la luce veniva dalla finestra di Regine,
e tosto l’aveva veduta in ginocchio davanti a una seggiola,
con le mani giunte. Sulla seggiola c’era un libriccino, evi­
dentemente un libro di preghiere, illuminato dalla lam­
pada posata accanto.
Il volto della donna non si poteva vedere, era reclinato
sul petto, e così ella era rimasta immobile un quarto
d’ora, poi un secondo e forse anche un terzo. La madre
aveva contemplato a lungo la scena; due o tre volte Re­
gine aveva voltato la pagina, ma poi era tornata indietro,
infine aveva dimenticato di sfogliare il libro e pregato a
lungo da sola o pensato chi sa quali gravi pensieri ; sem­
brava che avesse letto un’unica orazione, o quel che altro
fosse, ad ogni modo sempre la stessa cosa. Era una vi­
sione da far fremere di pietà, quella povera creatura ab­
bandonata, nel silenzio notturno. Alla fine la madre, pre­
sa dal freddo, non s’era sentita di restare più a lungo, e
pensando che Regine era lì tranquilla col suo libro di
preghiere era tornata a letto, però senza potersi riaddor­
mentare. «Oh figlio mio!» ella esclamò con occhi traboc­
canti di lacrime «sarebbe una grande fortuna se questa
creatura si potesse ancora salvare! Non ho mai visto
nulla di più bello su questa terra ! Perché siamo dunque
cristiani, se disprezziamo la parola del Signore la prima
volta che si rivolge a noi?».
Turbato, in lotta con se stesso, Erwin, che ne sapeva
più della madre, esclamò: «Oh mamma, Nostro Signor
Gesù Cristo ha salvato l’adultera dalla morte e dalla pu­
nizione; ma non ha detto che vivrebbe con lei, se Egli
fosse Erwin Altenauer!».
Tosto però, in contraddizione con le sue parole, abban­
donò la madre e così com’era, in abito da viaggio, anne­
rito dalla fuliggine del treno, corse alle stanze di Regine e
bussò dolcemente. Nessuna risposta; allora egli aperse la
porta ed entrò. La camera era vuota; egli si guardò at-
IO48 L’EPIGRAMMA

torno col cuore in tumulto. Sul cassettone c’era il vecchio


libro delle canzoni a lui ben noto, con le poesie popolari
e una piccola raccolta di preghiere per la chiesa e la casa.
Era chiuso e messo ordinatamente al suo posto.
Il letto di Regine era in un’alcova le cui tende pesanti
erano semiscostate. Egli s’awicinò e vide che era vuoto;
solo una delle fini camicie ricamate del corredo che lui
stesso aveva comprato alla moglie giaceva sulle coperte,
usata, ma ben ripiegata; sgomento e sempre più perplesso
egli si voltò, si guardò intorno, per vedere se non gli si
trovasse dietro le spalle; ma la stanza era deserta come
prima. Ritornando presso il letto toccò una delle tende e
urtò contro qualcosa di solido al di là di essa, come se
una persona vi stesse nascosta dietro. Ratto volle tirare
la spessa stoffa di lana, ma non potè, perché gli anelli
che avrebbero dovuto scorrere sulla stanga erano come
impediti. Alzando la tenda per quel poco che poteva,
entrò sotto l’alcova e trovò il cadavere di Regine, impic­
cato. S’era avvolta al collo uno dei solidi cordoni di seta
terminati da un fiocco. Nello stesso attimo in cui scorse
il bel corpo appeso, Erwin tirò fuori il coltello che portava
sempre in viaggio, balzò sul letto e tagliò il cordone; un
attimo dopo era seduto sul giaciglio con la bella creatura
fra le braccia, appesantita dalla morte, poi subito volle
metterla in una posizione migliore e la depose delicata­
mente sul letto. Ma era fredda e senza vita, mentre egli
smarrito, fuori di sé, la fissava con occhi sbarrati. Lo
riportò alla conoscenza, colpendogli lo sguardo, l’insolito
abbigliamento della morta. Regine aveva indossato l’ul­
timo abituccio domenicale di quando era serva, una ve­
ste di brutto colore bruno con un disegno scolorito. Erwin
sapeva che ella aveva sempre portato seco una cassettina
con qualcuno dei suoi vecchi indumenti, e gli era piaciuto
quel tratto che ora raddoppiava il suo dolore. Finalmente
pensò a un tentativo di salvataggio; slacciò il misero ve­
stito che, come usava allora per le ragazze del popolo,
era abbottonato sul petto. Sotto il vestito c’era una rozza
camicia di quand’era fanciulla, e fra la camicia e il seno
una lettera alquanto spessa indirizzata a Erwin. Egli ba-
REGINE IO49

ciò in fretta la busta, la posò sul letto e si provò a soffre-


gare il seno di Regine, poi si rialzò, la sollevò come se
fosse stata una bambola leggera e se la strinse al cuore
gemendo e sorreggendole il capo; tornò infine a deporla
e si precipitò fuori in cerca d’aiuto. Accorsero tutti i fami­
liari, e un medico arrivò quasi subito ; ma la povera Regine
rimase senza vita, e il medico non potè far altro se non
riscontrare la morte, che dopo una breve felicità ave­
va rapito la melanconica giovane tedesca. Finalmente
Erwin rimase solo accanto alla salma, e lesse la lettera.
Il luogo in cui avrebbe trovato la lettera doveva dimo­
strare che ella lo amava fin nella morte. Cosi cominciava
lo scritto. Altre frasi analoghe Erwin non me le volle ripe­
tere perché, com’egli si espresse, erano un sacro segreto
d’amore coniugale. Come Regine avesse potuto trovare
simili accenti era un mistero della natura eterna, dove
ogni cosa nasce innumerevoli volte eppure esiste una vol­
ta sola.
Seguiva quindi la rivelazione di ciò che l’aveva op­
pressa e le aveva rovinato la vita, senza che ella stessa
avesse immaginato a qual punto. Era davvero triste e
abbastanza semplice l’arcano di quella visita notturna,
che ella non supponeva neppure fosse mai stata vista. Le
condizioni della sua famiglia erano andate via via peggio­
rando e l’avevano costretta a intervenire e soccorrere più
di una volta. La povera Regine, ormai più attaccata al
marito che ai genitori e ai fratelli, se n’era profonda­
mente accorata. Specialmente uno dei fratelli, dopo aver
fatto il soldato, non era riuscito a trovare un lavoro sta­
bile ; cupo e scontento mutava continuamente luogo e me­
stiere, persuaso che dappertutto gli facessero dei torti,
come poi infatti accadde : giacché la gente che maltratta
se stessa finisce per essere maltrattata dagli altri, per una
specie di impulso all’imitazione. Così da un buon posto
di macchinista delle ferrovie, che gli avevano procurato
all’inizio, era precipitato giù giù fino a diventare aiu­
tante o piuttosto garzone di un mercante di cavalli, il
quale se ne giovava perché era stato in cavalleria, ma
nondimeno lo trattava male. Mentre attraversavano un
1050 L’EPIGRAMMA

bosco, conducendo un branco di cavalli, avevano avuto


un litigio violento; il padrone gli aveva menato una
scudisciata sul viso, e lui senza esitazione aveva risposto
stendendolo morto, poi su uno dei cavalli s’era dato alla
fuga. A qualche miglio dal luogo dell’assassinio aveva ven­
duto il cavallo e col ricavato s’era messo a girovagare per
il paese senza trovare una via d’uscita. Il mercante era
stato derubato del suo denaro da un secondo malfattore,
rimasto sconosciuto, ma anche questa colpa, naturalmen­
te, era stata messa sul conto dell’uccisore, il quale era
quindi imputato di omicidio con rapina; così almeno egli
aveva dichiarato, e non si discostava dalla sua versione.
Questo fratello dunque, e nessun altro, era l’uomo che
quella tal notte aveva cercato asilo e aiuto presso Regine
dopo essersi nascosto qua e là, viaggiando solo quando
era buio, mezzo affamato e sempre braccato dagli sbirri.
Era già arrivato in un porto di mare e con il rimanente
della vendita del cavallo aveva comprato un posto su un
vapore, ma all’ultimo momento era stato di nuovo co­
stretto alla fuga da altri ordini di cattura, ed era ritornato
nell’interno del paese. Spinto dall’estrema necessità s’era
aggirato intorno all’abitazione della sorella ed era riu­
scito a penetrarvi ; Regine gli aveva dato denaro e qual­
che indumento del marito perché egli potesse di nuovo ten­
tare la traversata. Ma da allora non aveva più avuto pace;
perché era ormai posseduta dall’idea fissa che come so­
rella di un ladro e assassino aveva coinvolto il marito in
una condizione vergognosa, rendendolo partecipe della
abiezione di una famiglia corrotta. La tormentava inoltre
il cruccio per i suoi e anche per il disgraziato fratello.
Ma come dovette crescere la pena segreta, quando in
una gazzetta, comprata più per i domestici che per lei, ave­
va trovato la tremenda notizia che l’omicida era stato
finalmente arrestato ! Nessuno in città, all’infuori di me,
conosceva il suo cognome, e quindi la cosa passò inosser­
vata. Io poi non leggevo mai fatti di tal genere, e così restai
anch’io nell’ignoranza. Il prigioniero non fece motto del­
la visita alla sorella, mentre avrebbe potuto avvalersene
per giustificare la somma di cui era in possesso: nobile
REGINE IO5I

tratto di uno che era caduto tanto in basso! Così ella


visse per settimane in sconsolata afflizione, finché un
giorno lesse che il colpevole era stato giustiziato, e piombò
nei più profondi abissi della disperazione. Come avrebbe
potuto Erwin vivere ormai con la sorella di un assassino
che aveva subito la pena capitale? Si era aggrappata al­
l’unico pensiero di cui era capace, come chi annega s’ag­
grappa a un filo d’erba : tacere, tacere per sempre !
Dopo di ciò, la sua fiducia in sé era stata ancora scossa
dall’episodio con la pittrice. Regine non sapeva neppure
che il quadretto fosse finito nelle mani di un uomo, del
brasiliano, ma s’accusava di aver posato per l’artista
come di una colpa grave. Ne aveva tratto la convinzione
di non possedere la sicurezza e la conoscenza della vita che
erano necessarie a salvaguardare l’onore e la fiducia.
Certo la misera doveva aver creduto che la storia del
quadro fosse bastata da sola a distruggere la fiducia di
Erwin; se avesse potuto immaginare che la visita del
fratello era stata vista e come il marito l’aveva interpre­
tata, a ogni costo ella si sarebbe purificata dal sospetto, e
tutto sarebbe andato diversamente. Ma il destino aveva
voluto che i due sposi, ciascuno col suo segreto che in­
tendeva nascondere per delicatezza e riguardo, si pas­
sassero per così dire accanto e non imboccassero quindi
quella che sarebbe stata l’unica via di salvezza. Per tor­
nare alla lettera, Regine chiudeva con la preghiera di sep­
pellirla nell’abito con cui aveva servito da povera fan­
tesca. E se Erwin voleva aver la bontà di ripiegare la
veste in cui ella gli era più piaciuta ai tempi felici e met­
tergliela sotto il capo dentro alla bara, allora ella vi
avrebbe riposato sopra in pace e riconoscenza.
Dopo le esequie, la prima cosa che egli fece fu di prov­
vedere nuovamente alla sciagurata famiglia. Seppe in
tale occasione che realmente il fratello morto sul patibolo
non aveva depredato il padrone dopo averlo ucciso; il
vero colpevole, arrestato per altri delitti, aveva sponta­
neamente confessato anche quello. Finora Erwin Alte-
nauer non ha voluto riprendere moglie.
Quando Reinhart tacque, per un poco Lucia rimase in
1052 L’EPIGRAMMA

silenzio, poi disse pensierosa: «Potrei obiettare che la sua


storia è più una questione di destino che di cultura, ma
voglio ammettere che una brutta sottospecie di quest’ul-
tima abbia influito sulla sorte della povera Regine attra­
verso le tre Parche, come lei ha chiamato le rappresen­
tanti di quella degenerazione. Ad ogni modo appare
certo che il bravo signor Altenauer non era in grado di
dare alla formazione della sua sposa l’impalcatura che
ci voleva. Se il suo amore non fosse stato offuscato dalla
vanità mondana, avrebbe subito portato Regine in Ame­
rica e affidato l’opera educativa alla propria madre; al­
lora il risultato sarebbe stato diverso! Ma è l’ora di so­
spendere la nostra memorabile riunione; mi permetta
quindi di ritirarmi, sebbene io tema di vedere in sogno
la bella creatura appesa al cordone di seta come una eroi­
na mitica; perché nonostante la sua incapacità a difen­
dersi v’è qualcosa di eroico nella figura di Regine. Il
signore ed arbitro aveva saputo davvero scegliersela di
buona razza ! ».
Augurò all’ospite la buona notte e gli mandò poco
dopo l’annoso servitore che Reinhart aveva visto all’ar­
rivo. Il buon vecchio lo condusse alla sua camera da letto,
e gli disse che il padrone sperava di poter desinare l’in­
domani con lui, giacché da certi segni pareva che l’at­
tacco di gotta accennasse a passare.
Reinhart si coricò con sentimenti stranamente turbati
nella casa ignota, sotto lo stesso tetto con la più deliziosa
donna del mondo. Come vi sono persone il cui fisico, se
si viene per caso a contatto, si manifesta subito saldo e
simpatico attraverso i vestiti, così ve ne sono altre il cui
spirito attraverso l’involucro della voce suona immedia­
tamente familiare e fraterno; e se addirittura tutt’edue
le condizioni s’adempiono, una buona amicizia è già ben
avviata. A ciò si deve aggiungere che Reinhart quel gior­
no aveva parlato di cose umane, come sono le vicende
d’amore, più che non avesse fatto in anni e anni di vita.
CAPITOLO ΝΟΝΌ

La povera baronessa

Si era addormentato presto e profondamente ; ma il nuo­


vo contenuto, l’accresciuto tesoro dei suoi pensieri lo sve­
gliò prima dell’alba, come se una persona ritta accanto a
lui gli avesse toccato gentilmente la spalla. Ci mise un po’
di tempo a raccapezzarsi dov’era, e solo contemplando
con attenzione il rettangolo della finestra rischiarato dalle
prime luci del mattino ricordò gli avvenimenti del giorno
prima. L’animo gli si colmò di un piacere quasi solenne,
e mentre si crogiolava in quel sentimento tornò ad asso­
pirsi e si svegliò soltanto quando il bel paesaggio che gli
si stendeva davanti era già in pieno sole, e il fiume luc­
cicava lontano. Nelle chiome dei platani gli uccelli da­
vano concerto, uno stormo di quei piccoli musicanti svo­
lazzava e si posava sulle vasche marmoree della fontana,
presso cui era apparecchiata la tavola per la colazione.
«Lux, Lucetta mia, dove sei?» udì chiamare da una
voce vecchia ma ancora robusta, e vide subito spuntare
di dietro l’angolo della casa colui che doveva essere lo zio,
appoggiato su una gruccia e sostenuto da un servitore. Il
richiamo era rivolto, s’intende, a Lucia, il cui nome egli
aveva abbreviato in quel modo. Aveva l’aspetto di un ex
ufficiale, poiché portava lunghi mustacchi grigi, una
giubba di taglio militare, e un nastrino scolorito all’oc­
chiello. Comparve poi nel fresco scenario mattutino an­
che la damigella, sicché Reinhart s’affrettò a prepararsi
e a scendere in giardino, dove trovò i padroni di casa già
seduti a tavola, accanto alla fontana con le sue sonanti
acque cristalline. Prontamente impedì al vecchio signore
di alzarsi mentre Lucia faceva le presentazioni.
Lo zio lo fissò attentamente, con la schiettezza dei sol­
dati o degli originali, e dichiarò poi, senza fretta, che il
suo nome gli era ben noto ; si trattava soltanto di sapere
se egli era figlio di un certo professore di X.; poiché, se
ricordava bene, un suo amico di gioventù era andato a
stabilirsi colà, diventandovi un famoso azzeccagarbugli.
1054 L’EPIGRAMMA

Reinhart confermò sorridendo la sua supposizione, e


Lucia osservò che la coincidenza era assai piacevole, ed
ella si lusingava di avervi contribuito in parte. Lo zio
intanto continuava a studiare la fisionomia del giovane
ospite e a scavare sempre più nei ricordi, mentre la sua
faccia prendeva un’espressione tra l’agro e il dolce, pas­
sando da un sorriso un po’ ironico a un’affettuosa se­
rietà, finché fu rischiarata da uno schietto scoppio di risa.
Afferrò la mano del giovane Reinhart, la strinse energi­
camente, e gli chiese:
— I suoi genitori non le hanno mai parlato di me?
Reinhart ci pensò su e scosse la testa, ma poi disse, dopo
un altro momento di riflessione:
— Sì, se, com’è probabile, lei è stato tenente prima di
diventare il signor colonnello. Ricordo vagamente che
quand’ero bambino i miei genitori, ora il babbo ora la
mamma, ma più spesso quest’ultima, accennavano a un
tenente, e cioè dicevano scherzando: «Questo il tenente
non l’avrebbe mai fatto», oppure: «Che cosa ne direbbe
il tenente?» e cosi via. Poi l’abitudine, se era tale, si
perse, e io avevo dimenticato la cosa.
— Vede, è proprio così ! — esclamò il colonnello — E
il tenente ero io. Nei suoi piacevoli lineamenti ho ritro­
vato quelli dei suoi ottimi genitori, tanto del signor padre
quanto della signora madre; e mi si apre il cuore, come
quando la diletta Lux spunta sul ristretto orizzonte di
questo povero vecchio, di cui è l’aurora quotidiana ! Sia
il benvenuto fra noi, e ci tenga compagnia per qualche
giorno almeno, o, meglio ancora, finisca il suo viaggio
e poi ritorni per fermarsi più a lungo! Sa giocare a
scacchi?
— Purtroppo no, non conosco alcun gioco.
— Oh che peccato, e perché mai? — esclamò il vecchio.
— Perché non sono abbastanza intelligente ! — rispo­
se Reinhart, che in realtà non possedeva né il potere
di concentrazione né la preveggenza necessari per certi
giochi difficili. Lucia senza volerlo gli gettò un’occhiata
di gratitudine, lieta di trovare un compagno in quella
incapacità.
LA POVERA BARONESSA 1O55
Già, — disse il vecchio signore — finché si è gio­
vani non si conosce la noia e non s’ha bisogno di giochi
per passare il tempo. Così è anche per questa giovane
dama. Più tardi imparerà a giocare anche lei, poiché
spero che diventerà una graziosa vecchia zitella, resterà
sempre con me e poi sulla mia tomba coltiverà e innesterà
piamente le rose del ricordo.
— È molto probabile, — disse la nipote — special-
mente se verranno in voga opinioni sul matrimonio come
quelle che ho dovuto udire dalla bocca del signor Ludwig
Reinhart ! Figurati, zio, che ieri ci siamo raccontati fino a
mezzanotte storie di matrimoni infelici ! Gli uomini cólti
oggi sposano soltanto cameriere, contadine e simili, e noi
ragazze istruite dovremmo, per render la pariglia, mari­
tarci con servitori e cocchieri; c’è da esitare non poco,
ti sembra? Mi dica, signor Reinhart, non ha un altro ma­
trimonio bizzarro da raccontare?
— Certo che l’ho ; — ripose Reinhart — una storia
magnifica, un matrimonio per pura pietà.
— Oh cielo ! — esclamò Lucia — che bella cosa ! Vuoi
sentirla anche tu, caro zio?
— Giacché voi due pigroni non sapete giocare e volete
soltanto chiacchierare, non mi rimane che sentire queste
storie strabilianti !
La tavola fu sparecchiata. Lucia si fece portare un ce­
stino da lavoro e Reinhart cercò il modo di cominciare il
suo racconto.
— Vedete, — disse — i personaggi di cui vi voglio nar­
rare navigano oggi in piena felicità, e per non disturbarli
è necessario mascherare la loro identità in modo da ren­
derli irriconoscibili. La cosa migliore sarà quindi raccon­
tare la storia così come un novelliere ricercato mette in
scena il suo raccontino. In tal modo potrò sforzarmi di
fare progressi nella mia arte di narratore, che m’è caduta
sul capo come una tegola; non si sa mai, potrebbe riuscire
utile. Dunque comincerei all’incirca così:

— Brandolf, un giovane giurista, saliva di corsa la scala


di una casa dove abitava una famiglia amica, ed essendo
1056 L’EPIGRAMMA

assorto nei suoi pensieri, per poco non travolse una crea­
tura di sesso femminile che stava seduta sui gradini a
lucidare coltelli. Gli parve che una delle lame l’avesse
colpito al tallone; guardò giù e vide sotto di sé la faccia
rossa di collera di una donna ancora giovane, per quel
po’ che se ne poteva scorgere sotto lo scialletto andato di
sghimbescio, che egli prese per una dorma di servizio.
Rabbiosa, anzi furente, colei riabbassò il capo sul suo
lavoro, e Brandolf, spiacevolmente colpito, entrò nella
casa dei suoi amici. Lì esaminò il tacco del suo stivale e
trovò che nel cuoio lucente v’era infatti un piccolo taglio.
«Sciagurati che siamo, noi esseri umani!» esclamò
«parliamo tutti i giorni di amore e di carità, e tutti i gior­
ni offendiamo un nostro simile, per strade, viottoli e scale !
Senza volerlo, s’intende; ma devo pur confessare a me
stesso che, se su quei gradini avessi visto una dama vestita
di raso, certo sarei stato meno sbadato ! Onore a quell’u­
mile persona che ha saputo difendersi e almeno m’ha
piantato nel tacco il suo aculeo vendicatore, e buon per
me che non era un tallone d’Achille ! ».
Raccontò il piccolo incidente. Tutti esclamarono : «È la
baronessa!» e il padrone di casa disse: «Caro Brandolf,
questa volta le sue sottigliezze umanitarie non hanno
assolutamente còlto nel segno ! La signora sulla scala è
un’autentica baronessa, che per pura cattiveria, per osta­
colare il passaggio e per avarizia, invece di usare il suo ap­
partamento, insudicia la scala comune sbrigandovi delle
faccende domestiche, e intanto per aristocratica alba­
gia non saluta, né degna di uno sguardo noi altri bor­
ghesi ! ».
Stupito di quello strano chiarimento, Brandolf volle
saperne di più. La baronessa era venuta a stabilirsi nella
casa da poche settimane; occupava l’altra metà, più pic­
cola, del piano, aveva subito inchiodato alla porta una
targa col suo nome altisonante, però appeso nello stesso
tempo alla finestra un cartellino con l’offerta di una ca­
mera mobiliata. C’erano già stati alcuni forestieri, ma
nessuno aveva resistito più di due giorni, tutti erano fug­
giti dopo aver pagato un conto esorbitante. Chi cadeva
LA POVERA BARONESSA 1057

nella trappola di quella locazione non poteva fumare


in camera sua, né sedersi sul sontuoso divano, né cammi­
nare facendo rumore; doveva togliersi gli stivali per non
sciupare il tappeto; non gli era permesso mostrarsi alla
finestra in veste da camera o, peggio ancora, in maniche
di camicia, per non offendere il decoro della casa patrizia,
e per di più veniva a trovarsi come un povero prigioniero,
perché la baronessa non teneva servitù, faceva tutto da
sé, e quindi rifiutava di prestare ogni servizio che non
fosse compreso nello stretto limite dei suoi doveri. Al
mattino cambiava l’acqua nella bottiglia e alla sera riem­
piva la brocca del lavabo, ma poi non avrebbe più por­
tato un bicchier d’acqua, neppure se il pigionale fosse
stato in punto di morte. Tutto ciò era accompagnato da
parole brusche, o per lo più da mutismo assoluto. Non si
conosceva la sua condizione né la sua provenienza; ella
non frequentava nessuno, e quando i lavori domestici la
portavano al pozzo, in cortile, fra servitori e fantesche,
s’aggirava muta in mezzo a loro come uno spirito maligno.
Insomma, tutti erano d’accordo a giudicarla un vero
diavolo, una strega, che sfogava a modo suo un carattere
misantropico e brigantesco, e in particolare aveva conce­
pito il progetto di ottenere col suo contegno un continuo
cambiamento di locatari, per presentar loro una quan­
tità di conti piccoli ma esosi, e incassare un sovrappiù
di pigione quando i disgraziati andavano via prima del
tempo. E questo sistema, se veramente l’aveva ideato,
non era poco redditizio, perché la casa era situata in una
bella strada di molto traffico, che attirava forestieri di­
stinti e benestanti, i quali viceversa erano poi ben lieti di
liberarsi e di lasciare il posto ad altri.
Al termine di quella descrizione, intessuta di molti al­
tri curiosi particolari, Brandolf concepì, più che sdegno e
disprezzo, una segreta pietà per la malefica baronessa,
e quando gli amici scherzando gli chiesero se non voleva
diventare loro casigliano e stabilirsi presso la stramba
vicina, rispose seriamente: «Perché no? Si tratterebbe
infine di prendere la signora per il collo, secondo i suoi
stessi metodi, e di rimetterle la testa a posto ! ».
IO58 L’EPIGRAMMA

Ma, vedendo che la padrona di casa non era incline a


continuare su quel tono scherzoso, tacque; e tornò a ri­
muginare il pensiero per conto suo quando si ritrovò fuori
e vide che il cartellino col «si loca» era di nuovo esposto
alla finestra,
Brandolf non capiva come ci si potesse sentire impac­
ciati e battere in ritirata di fronte a gente maligna, in­
giusta o un po’ pazza. Per quanto in fondo bonario e
pacifico, aveva sempre una vera smania di litigare con i
cattivi e i bisbetici e convincerli della loro follia. Quando
udiva parlare di un torto sofferto, s’arrabbiava ancor più
con quelli che lo subivano che con i colpevoli, perché ce­
dendo eternamente ai loro capricci non si traggono mai si­
mili disgraziati dal loro accecamento. Solo non lottava mai
contro l’aperta violenza, perché essa si stigmatizza da sé,
non ha bisogno di altra dimostrazione per essere condan­
nata all’eterna miseria e a distruggersi da sé sola. Egli
aveva una profonda sensibilità per le condizioni umane,
e confidava talmente in quel tanto d’umanità che v’è in
ciascun uomo, da presumersi capace di far riscaturire in
ogni malvagio quella polla originaria, o almeno di por­
tare il peccatore alla coscienza che la sua cattiveria era
svelata e ormai esposta alla forza dello scherno. Tuttavia,
sia che i birboni subodorassero da lontano la sua vitto­
riosa sicurezza, sia che il destino terreno raramente ci
permette d’ottenere ciò che più desideriamo, Brandolf
non riusciva mai ad attaccare contese abbastanza ben
motivate, e, dove fioriva una vita squisitamente cattiva,
egli arrivava sempre troppo tardi per spezzarne il fiore.
Perciò passò davanti alla porta della baronessa come
davanti a un paradiso precluso, dove si struggeva di pe­
netrare per combattere il drago.
In settembre, quando i suoi amici con bambini e do­
mestici, con valigie e bauli furono accomodati nelle car­
rozze per intraprendere un viaggio in Italia, dove dove­
vano passare l’inverno, e il pesante veicolo si mise final­
mente in moto fra i sospiri della padrona di casa o, in
questo caso, della capo convoglio, Brandolf, che aveva
chiuso gli sportelli, non aveva più niente da fare in quei
LA POVERA BARONESSA 1059

paraggi, e quindi avrebbe potuto tornarsene a casa sua.


Invece tornò di sopra, suonò all’uscio della baronessa e
chiese di vedere le sue stanze. Ella lo riconobbe come
l’uomo che l’aveva urtata sulla scala e come il quotidiano
visitatore dei vicini di casa. Diffidente e con occhi sgra­
nati lo fissò senza aprir bocca, e teneva la porta come se
fosse lì lì per sbattergliela sul naso; ma non osò tanto, e
con parole arcigne gli disse d’entrare.
Sempre con brusca correttezza gli mostrò le camere;
erano arredate con signorilità e decoro, e Brandolf dopo
un esame superficiale, fatto più che altro per l’apparenza,
disse che le prendeva e che sarebbe venuto a occuparle il
giorno dopo. Senza il minimo segno di piacere la baro­
nessa s’inchinò lievemente ; del resto egli riuscì a vederla
ben poco, perché un gran scialle, simile a un cappuccio,
le avviluppava le spalle e il capo; indossava poi una spe­
cie di palandrana grigia che poteva essere tanto un cap­
potto quanto una veste da camera.
Brandolf si affrettò a comunicare il cambiamento ai
suoi presenti locatari, i quali ne furono molto spiacenti,
perché non avevano mai avuto un inquilino così buono e
gentile; e, poiché erano anch’essi persone molto per bene,
la decisione di Brandolf appariva doppiamente incom­
prensibile. Non seppero spiegarsela altrimenti se non col
fatto che il giovane studioso, essendo scapolo e ricco,
aveva i suoi ghiribizzi e nessun cruccio, ed era padrone di
darsi, se voleva, la zappa sui piedi.
Solo quando Brandolf ebbe trasportato le sue cose nella
nuova residenza e vi si fu stabilito, osservò meglio l’ar­
redamento davvero insolito per camere d’affitto. V’erano
solo tre stanze che davano sulla strada ; ma sembrava che
contenessero le masserizie di un’intera famiglia e tutti i
mobili erano fatti di legni e di stoffe di pregio. Il pavi­
mento era coperto di tappeti d’ogni colore, qua e là in
strato doppio; dappertutto v’erano stipi, scrivanie, arma­
di, tavolini da gioco, specchiere, soffici divani e sedie im­
bottite a profusione; splendidi cortinaggi rivestivano le
finestre, e sulle pareti s’affollava ogni specie di dipinti
a olio, acqueforti, incisioni e pastelli, come se tutti i qua­

I
ιο6ο L’EPIGRAMMA

dri di una grande casa vi fossero esposti per esser venduti


all’asta. Se lo spazio nelle stanze pur abbastanza vaste
risultava ridotto, la cosa era ancora aggravata da parec­
chi scaffali ad angolo i cui ripiani traballanti sostenevano
una miriade di porcellane dipinte e dorate, di sottilissimi
vetri che tremavano come foglie di betulle a ogni passo
pesante. Su tutti quei fragili oggetti era dipinto o inciso
il medesimo stemma, che si vedeva sulla targa della porta
sopra il nome della baronessa Hedwig von Lohausen.
Più tardi, quando andò a dormire, Brandolf notò che la
corona baronale era ugualmente ricamata sulla tela del
sontuoso letto, che sembrava uno dei due pezzi principali
di un antico fornimento di sposa. Pur con quell’eccesso
di suppellettili le stanze erano tenute in ordine perfetto,
senza un granello di polvere, e Brandolf si chiese se il lo­
catario, anche pagando profumatamente, non era posto
11 a guardia di quelle meraviglie, e se magari non gli
avrebbero messo in mano stracci e piumini per spolve­
rare. Giacché, se qualcun altro faceva quel lavoro, questo
qualcuno doveva trattenersi nelle stanze per tutta la gior­
nata. Bisogna però dire subito che non accadeva né l’una
né l’altra cosa ; tutto veniva fatto in assenza dell’inquilino
come da uno spirito invisibile, e neanche i ninnoli di
vetro e di porcellana sembravano mai spostati e mai
tocchi, eppure non si vedeva traccia di polvere né di ap­
pannatura.
Brandolf era dunque in attesa di cominciare la sua
guerra umanitaria contro le cattive azioni e abitudini della
baronessa. Ma la sua antica sfortuna si manifestò anche
questa volta; il nemico si teneva appiattato, forse so­
spettando la forza del nuovo avversario. Brandolf non
poteva stanarlo col fumo del tabacco, perché non fumava,
e quando, allo scopo preciso di stuzzicare la baronessa,
portò a casa e accese una pipetta come quelle che usano
i muratori mentre lavorano, con pessimo tabacco, dopo
tre o quattro boccate dovette buttarla dalla finestra, tan­
to si sentì male. D’insudiciare tappeti e cuscini non se la
sentiva perché non c’era avvezzo; così per il momento
non gli restava altro da fare che spalancare le finestre
LA POVERA BARONESSA io6l

e provocare una corrente d’aria. Indossò quindi una


giacca di flanella, si pose in capo una berretta di seta ne­
ra, e si mise alla finestra facendosi il più largo possibile.
Infatti non passò molto tempo che la baronessa von Lo­
hausen si affacciò alla porta aperta e alzando la voce
per sovrastare il fracasso della strada chiamò il suo pigio­
nale ; quando questi si volse, ella additò un grosso tafano
che svolazzava per la stanza. C’era una stalla nelle vi­
cinanze, osservò in tono asciutto. Subito egli si tolse la
berretta dal capo, cacciò via il tafano e chiuse la finestra.
Poi si rimise la berretta, ma la tolse di nuovo perché la
dama era ancora nella stanza e lo contemplava non con
sdegno ma con un’ombra di approvazione per il suo abbi­
gliamento, almeno così gli parve. Anzi, su quel poco che
si poteva scorgere del viso grave e macilento guizzò un
lievissimo sorriso, che scomparve subito, e del resto anche
la signora si ritirò.
A tutta prima Brandolf non seppe escogitare altro;
s’awolse nella sua bella vestaglia, ripose giacca e ber­
retto, e s’accomodò su un divano. Mentre era lì seduto
vide il nastro del campanello, fatto di perle verdi e oro,
e lo tirò con forza. Come l’omino del barometro la ba­
ronessa comparve sull’uscio, sempre incappucciata e ve­
stita da ombra. Brandolf disse che desiderava mandare
un messaggio al suo sarto, che abitava abbastanza di­
stante. La baronessa arrossì ; le toccava andare lei stessa,
perché non aveva nessuno. C’era molta urgenza o si po­
teva aspettare il pomeriggio? chiese dopo un minuto di
riflessione. Brandolf disse che sì, c’era urgenza, bisognava
attaccare un bottone alla giubba che intendeva indossare
quel giorno. Ella lo guardò di sghembo e stava per sbattere
la porta, ma poi si voltò e chiese se non poteva attaccare
il bottone lei stessa. «Certamente, se volesse essere così
gentile;» rispose Brandolf «è ancora appeso per un filo;
ma come potrei pretendere tanto?».
«È sempre meno che farmi correre fino a mezz’ora di
qui» ella rispose, e andò a prendere un vecchio cestino da
lavoro, con dentro un agoraio e qualche gomitoletto di
filo. Brandolf portò la giubba e l’aristocratica locatrice
1OÔ2 L’EPIGRAMMA

cuci il bottone coi ditini affusolati. Per far quel lavoro


aveva dovuto mettersi un poco più in luce, e Brandolf
vide per la prima volta più chiaramente una parte del suo
viso, il mento fine e rotondo, la bocca piccola ma severa
e ben fatta, e il naso un tantino appuntito ; ma gli occhi
abbassati sul lavoro si perdevano nell’ombra dello scialle.
Tutto ciò che rimaneva visibile era d’un candore quasi
trasparente e ricordava il ritratto di monaca d’un vecchio
quadro tedesco, al quale era servita da modella una don­
na abbastanza vissuta ma provata dal dolore.
Ma non gli rimase molto tempo per le sue considera­
zioni : in un batter d’occhi la signora aveva finito e scom­
parve di nuovo.
Per il primo giorno Brandolf non poteva far altro,
e anzi passarono parecchie settimane senza che gli si of­
frisse altra occasione d’intervenire. Dovette quindi rasse­
gnarsi ad aspettare, osservare e cercare d’indovinare il
mistero; giacché un mistero c’era, senza dubbio, benché
la signora fosse famosa per la sua malvagità. Prima di
tutto lo colpì il fatto che la parte dell’alloggio dov’essa
abitava era sempre chiusa e inaccessibile ; del resto consi­
steva soltanto di una cucina, una stanza piccola con una
sola finestra, e un bugigattolo. Là doveva passare il gior­
no e la notte sola come un cane, perché tranne il garzone
del fornaio non si sentiva mai venire nessuno. Un’unica
volta Brandolf riuscì a gettare un’occhiata nella cucina,
che sembrava provvista di tutto il necessario; ma non
v’era segno che vi si accendesse il fuoco e vi si cucinasse.
Non si sentiva mai brontolare una pentola, né scoppiet­
tare la legna, né tritare carne o verdure, né il canto di
salsicce rosolate, o anche soltanto di frittelle sfrigolanti
nel burro caldo. Di che cosa si nutriva la baronessa?
Il pigionante curioso cominciava a veder chiaro: Pro­
babilmente di nulla ! Soffrirà la fame . . . perché cercare
altrove la causa della sua scontrosità? È in miseria, la
povera baronessa, e sola al mondo, chi sa per quale de­
stino !
In casa egli non prendeva che il caffè e latte al mattino,
con un paio di panini freschi, ma per lo più ne lasciava uno
LA POVERA BARONESSA 1θθ3

intatto. Un giorno gli parve di notare ehe Hedwig von


Lohausen, venuta a prendere il vassoio, guardasse con
avidità non vigilata se era avanzato un panino; poi corse
via di gran furia. Gli occhi le si erano illuminati come
stelle. Brandolf dovette mettersi alla finestra per padro­
neggiare i suoi pensieri. “Che cos’è la creatura umana,”
egli si diceva “che cosa sono l’uomo e la donna ! Con oc­
chi ardenti devono guatare il cibo, come le belve della
foresta !”.
Uno sguardo simile non l’aveva mai visto. Ma tuttavia
com’erano belli quegli occhi scintillanti !
Continuò le sue osservazioni con una certa crudeltà:
una volta si mise in tasca il panino rimasto e se lo portò
via ; un altro giorno lasciò mezzo panino e la terza volta
tutti e due, e sempre gli parve di coglierne l’effetto nello
sbattere delle palpebre, nell’andatura più lenta o più
rapida, sicché finì per convincersi che la povera donna
non doveva quasi mangiare altro che gli avanzi della sua
colazione, qualche tazzina di latte e un mezzo o un intero
panino.
Ora le cose apparivano diverse : doveva cercare di ali­
mentare suo malgrado, perciò pian piano e con cautela,
la gatta selvatica, come la chiamavano per la sua intrat­
tabilità. Disse che non aveva più voglia d’uscire per la
seconda colazione e ordinò tutti i giorni un pasto mat­
tutino in piena regola, con uova, prosciutto, burro e molti
panini. E ne lasciava intatta la maggior parte, nella
speranza che il povero topolino affamato ne rosicchiasse
un pochino. Ciò dovette succedere per alcuni giorni ; ma
poi ella fiutò la manovra, diventò diffidente e una mat­
tina gli disse che doveva ordinar meno roba o disporre in
qualche modo degli avanzi; e alla fine non prese più
neanche i panini rimasti. Perciò Brandolf restò di nuovo
lì senza sapere che pesci pigliare.
Un giorno, rientrando da una passeggiata, la trovò
nell’androne con un’erbivendola che aveva sul carrettino
una magnifica pianta di garofani, ancora coperta di fiori
scarlatti nonostante la stagione avanzata. La baronessa
prese il vaso tra le mani e affondò la faccia nei fiori, còlta
1064 L’EPIGRAMMA

evidentemente da un grande nostalgico desiderio di si­


mili cose; chiese timidamente il prezzo, scosse il capo,
rimise a posto la pianta e corse via. Brandolf acquistò
subito il vaso, sperando di raggiungerla per la scala e di
offrirglielo; ma lei era già sparita nella sua tana, ed
egli portò i garofani in camera e li mise presso la finestra
su un tavolino, che con una poltrona formava il suo an­
golo di lettura. Per non sciupare il tavolino ebbe cura di
mettere sotto il vaso un volume in quarto. Più tardi uscì
di nuovo per andare a pranzo e poiché pioveva si infilò
ai piedi le galosce. Perciò il suo passo era silenzioso,
quando tornò dopo alcune ore ed entrò nella stanza.
Fermo sulla soglia vide la signora seduta davanti alla
pianta, col piumino in mano. Stanca, s’era appoggiata
all’indietro e s’era addormentata, le mani che reggevano
il piumino abbandonate in grembo. Pian piano egli chiu­
se la porta, andò a sedersi sul sofà e di lì, incrociate le
braccia, osservò con attenzione la donna immersa nel son­
no. Non si poteva dire che fosse un vero cordoglio, quello
che le si vedeva nel volto; pareva piuttosto l’assenza d’o-
gni gioia di vivere e d’ogni speranza, il rimpianto di pas­
sati splendori. Sulle ciglia abbassate c’erano due lacrime,
ma senza commozione, come due perle incurantemente
perdute.
Tanto più s’intenerì Brandolf a quella vista; più guar­
dava, e più gli si serrava il cuore; si struggeva di poter
chiamare sua quell’ignota sventura, come se si fosse trat­
tato del più bel ramo di melo fiorito o d’un altro prezioso
gioiello. Era sempre stato un po’ matto, e pare che lo sia
ancora, se si può chiamar pazzia ciò che non tutti fanno.
D’improvviso la dormiente fu scossa come da un sogno
sgradevole o pauroso, e si destò. Confusa si guardò in­
torno e, quando vide l’uomo che la guardava con espres­
sione di simpatia, si riscosse e in tono più mite del con­
sueto lo pregò di scusarla. Fece anzi di più, e aggiunse
a mo’ di spiegazione che i garofani erano i suoi fiori
prediletti, e non aveva potuto resistere al desiderio di
riposare un momento vicino alla bella pianta, ma di­
sgraziatamente la stanchezza l’aveva vinta. Un tempo
LA POVERA BARONESSA I065

aveva coltivato centinaia di piante simili, l’una più bella


dell’altra, e di tutti i colori.
«Posso offrirle questa, baronessa?» chiese Brandolf,
che si era subito alzato in piedi «l’ho comprata qui sotto,
vedendo che lei l’aveva in mano e la guardava con pia­
cere».
Ma la schiarita era già passata. Coperta di rossore ella
scosse la testa. «Di là c’è troppo poca luce,» disse «qui
starà molto meglio!». Come se rimpiangesse d’aver par­
lato tanto salutò brevemente, uscì e nei giorni seguenti
non si lasciò quasi vedere.
Un bel giorno portò il conto del primo mese, scritto su
un lembo di carta grigia. Con intenzione egli non lo
guardò ; augurandosi che fosse molto alto pagò l’ammon­
tare, ma esso non superava affatto la spesa che egli era
solito mettere in preventivo. Mentre lui contava il denaro,
la strana padrona di casa gli stava davanti, almeno così
gli parve, in atteggiamento più timoroso che arrogante,
come in attesa della solita disdetta. Ma, sempre più riso­
luto a rischiarare le tenebre del mistero, egli la lasciò usci­
re senza manifestare la minima intenzione di cambiar ca­
sa. Curioso di riscontrare le sue abilità calcolatone studiò
subito il conto e non lo trovò aggravato nemmeno di un
centesimo; anzi, tutte le volte che a colazione aveva
mangiato un panino solo, il secondo non era segnato. Di
tutta la faccenda egli non capiva più nulla, tanto più che
uscendo verso sera udì per la prima volta provenire dalla
cucina un leggero scoppiettio come di legna accesa e
l’odore di un’appetitosa minestra, che avrebbe avuto una
strana voglia di condividere. Dunque la baronessa si con­
cedeva finalmente di mangiare qualcosa di caldo. “Sta a
vedere” pensò “che lo fa soltanto una volta al mese, quan­
do le viene pagato il conto, proprio come gli operai vanno
all’osteria quando riscuotono la paga!”.
E infatti il giorno dopo non si ebbe più segno di pranzi
succulenti.
A metà del mese d’ottobre vi fu un colloquio quasi al­
trettanto lungo quanto quello dei garofani. La baronessa
gli fece osservare che l’inverno era alle porte e che occor­
ιο66 L’EPIGRAMMA

reva combustibile per le stufe; desiderava ordinare legna,


e quanta? E gli parve di capire che lei aspettava con una
certa ansia la risposta per poterne dedurre se si sarebbe
fermato fino alla primavera. Egli suggerì una quantità
bastante ad accendere le stufe di tutta la casa e mantenere
un bel fuoco in cucina sino alla fine di maggio. Nel tempo
stesso le diede un biglietto di banca pregandola di prov­
vedere a tutto, all’acquisto e allo spezzettamento della
legna; ella prese il biglietto e sbrigò la faccenda con cura
e competenza. Infatti passarono appena otto giorni, che
incominciò a nevicare, e allora l’ospite solitaria fu costret­
ta a mostrarsi più spesso, perché era lei che accendeva le
tre stufe del suo pigionale, e aveva un bel da fare a por­
tare legna e badare al fuoco. Spesso aveva le mani nere
e il viso fuligginoso e sembrava proprio una cenerentola.
Ma se Brandolf aveva sperato che ella non facesse la
sciocca e ne approfittasse per riscaldare anche dalla sua
parte, s’era ingannato; perché, tal quale come d’estate,
non s’accorse che di là ardesse mai il più piccolo fuoco. Ep­
pure il freddo era aumentato, e ormai era divenuto stabi­
le; quando la baronessa aveva terminato di sfaccendare
doveva ritirarsi nella sua camera fredda, e solo Dio sape­
va che cosa facesse là dentro. Del resto diventava sempre
più pallida, più angolosa e più stanca, e gli sembrava
che ogni giorno trascinasse le ceste di legna con maggior
fatica, così che lui, da uomo premuroso e galante, ne era
sinceramente accorato. Però ogni tentativo di farla par­
lare per poter proporre un aiuto era risolutamente re­
spinto, come se ella volesse di proposito rovinarsi la salute.
Ma Brandolf era altrettanto cocciuto e spiava l’occasione
propizia, che non poteva mancare.
Tuttavia la cosa andava un po’ troppo per le lunghe,
date le circostanze. Suo padre, vedovo, era un gran pro­
prietario di terre e un uomo molto ricco; e non vedeva
l’ora che l’unico figlio andasse a vivere con lui e assu­
messe l’amministrazione dei beni. D’altra parte il figlio
possedeva uno spiccato talento giuridico e ottime racco­
mandazioni, sicché veniva urgentemente spinto e solle­
citato a entrare al servizio dello Stato. Infatti era venuto
LA POVERA BARONESSA 1067

nella capitale per considerare le proposte da vicino e pren­


dere una risoluzione temporanea, se non definitiva.
Lavorava tutti i giorni per qualche ora al ministero
come volontario; ed essendo d’altronde un ricco e difficile
figlio di mamma non s’era mai affrettato a far la sua scel­
ta. Da qualche tempo però gli facevano di nuovo pre­
mura, perché avevano messo gli occhi su di lui per una
funzione da esercitarsi in una regione lontana. Egli non
intendeva rinunziare a concludere la sua avventura casa­
linga, il padre dal canto suo insisteva perché fosse esaudito
il proprio desiderio, e così una mattina Brandolf indugiò
a letto più a lungo del solito meditando sulla strada da
prendere. Finalmente giunse alla conclusione che poteva
a buon diritto servirsi delle sue nozioni giuridiche e delle
sue conoscenze d’ufficio per indagare con la massima di­
screzione sul passato e sul presente della derelitta baro­
nessa, e procurarle secondo il risultato e le circostanze
una posizione migliore oppure togliersela dalla testa e di­
menticare un’impresa fallita.
Formato tale proposito si vestì e si preparò a consu­
mare la prima colazione per poter subito uscire. Ma nono­
stante l’ora avanzata, il vassoio del caffè e latte non era
al solito posto; le camere erano fredde e nelle stufe non
ardeva il fuoco. Stupito aprì la porta e tese l’orecchio;
non si vedeva e non si udiva nulla di nulla. Tirò il famoso
cordone del campanello, ma nell’appartamento continuò
a regnare un silenzio di morte. Percorse il corridoio in
preda all’inquietudine e giunto alla porta della cucina
bussò, prima piano e poi più forte, senza provocare un
segno di vita; aprì la porta, attraversò la cucina deserta
fino all’altro uscio che doveva mettere nella camera della
baronessa. Anche lì bussò discretamente, e ascoltò, e in­
fine udì un respiro affannoso interrotto da gemiti. Allora
si decise ed entrò nella stanza buia, le cui pareti spoglie
erano umide per il freddo, fino a stillare; la finestra che
guardava in cortile era velata da una semplice tenda
bianca e dal ricamo fitto dei fiori di ghiaccio. Su un
misero giaciglio fatto di un sacco di paglia, un lenzuolo
grossolano e una coperta pietosamente sottile giaceva la
ιο68 L’EPIGRAMMA

baronessa. La figura fine e minuta si disegnava sotto la


coltre; la testa posava su un piccolo cuscino e capelli ca­
stani erano sparsi in ciocche umide e scarmigliate intorno
al pallido volto; gli occhi spalancati fissavano il soffitto.
Aveva addosso una giacchettina di flanella ; le braccia e le
mani, abbandonate sulla coperta, erano scosse dal freddo
e dalla febbre a un tempo, e anche il resto del corpo tre­
mava visibilmente. Brandolf, atterrito, si avvicinò al letto
e chiamò l’ammalata; ella volse gli occhi ma non parve
riconoscerlo, però con debole voce implorò che le si desse
da bere. Egli tornò precipitosamente in cucina, trovò
dell’acqua e ne riempì un bicchiere. Per portarglielo alla
bocca dovette sostenerle il capo mentre lei gli si aggrap­
pava con tutte e due le mani. Poi lasciò ricadere la testa,
guardò per un attimo l’estraneo e chiuse gli occhi.
«Non mi riconosce? Come si sente?» disse Brandolf,
e cercò sul polso bianco e sottile i battiti del cuore, che
avevano il ritmo d’un furioso galoppo. Poiché la baro­
nessa non rispondeva né apriva gli occhi, egli corse giù
dalla portinaia, che abitava al piano terreno, e le ingiunse
di stare presso la malata mentre lui andava in cerca di un
medico. Si mise subito in cammino; conosceva il celebre
primario di un ospedale e lo cercò nel luogo dove svolge­
va il suo lavoro mattutino. II medico terminò in tutta
fretta quello che aveva ancora da fare e, fatto salire l’ami­
co nella propria carrozza, partì senza perdere tempo
alla volta della sua casa. «Ti sei scelto una bella locatri-
ce;» disse scherzando «se muore, avrai da pagare le
cure, le esequie e la pietra tombale, e per giunta dovrai
fare trasloco!».
«No, no!» esclamò Brandolf «non voglio che muoia!
Mi sono preso a cuore questa sventurata e il suo segreto,
e ora mi sento come una debole donna che ha un bam­
bino ammalato!».
Per tutta la strada raccontò al medico la strana vita
della baronessa. Quegli scuoteva il capo sempre più stu­
pito. «Lohausen!» disse poi «Se mi ricordassi dove ho
già sentito questo nome ! non importa, vediamo che cosa
si può fare».
LA POVERA BARONESSA io6g
«Ma che maledetto buco!» esclamò entrando nello
stambugio buio, umido e freddo dove giaceva la baro­
nessa. Ella era ormai senza conoscenza e la portinaia disse
che dopo la partenza di Brandolf non s’era mai mossa.
Fatta una breve visita, il medico dichiarò che si trattava
del manifestarsi di una malattia da un pezzo latente, e
che l’inferma era in pericolo di vita. «Prima di tutto
bisogna toglierla di qui» disse «e metterla in un vero
letto, in luogo arioso. Nelle mie corsie possiamo trovarle
un posto; però le camere a un letto in questo momento
sono tutte occupate».
«Non è possibile esporre questa timida creatura al
momento in cui ritornerà in sé in un luogo sconosciuto,
fra visi estranei;» obiettò Brandolf, che non voleva la­
sciarsi portar via il prezioso oggetto della sua compas­
sione «e inoltre» soggiunse «siamo davanti a una miseria
nascosta e vereconda, e dobbiamo stare attenti a non pro­
curarle emozioni. Io posso fare a meno della mia ultima
stanza; la mettiamo là con un’infermiera fidata e chiu­
diamo la porta dalla mia parte, così non ci sarà disturbo
né per l’uno né per l’altra. Se avessimo un letto, però ! ».
«Ho guardato nella camera accanto» informò la por­
tinaia «e ho visto che ci sono tutti i pezzi di un bellissimo
letto. Sa il cielo perché questa bizzarra signora dorma su
un giaciglio da condannato a morte, quando ha di là
tutto quel che ci vuole!».
«Glielo dirò io, signora portinaia!» replicò Brandolf
«Vuole tenere in serbo il letto buono per potere alloggiare,
in caso di bisogno, due pigionali. Da quanto ho potuto ve­
dere, dev’essersi avvezzata a cominciare con le privazioni
sempre da se stessa, forse non per bontà ma perché lo
ritiene necessario. Perché quella piccola, sottile figurina
di donna che giace lì sotto le coperte è di una diabolica
inesorabilità verso sé e verso gli altri».
Il medico intervenne: «Dunque vado subito a cercare
un’infermiera esperta, che conosco, e te la mando qui».
E se ne andò nella sua carrozza, dopo avere aggiunto
che avrebbe dato istruzioni e ordini direttamente all’in­
fermiera. Anche la portinaia dovette ritirarsi per tornare
1070 L’EPIGRAMMA

alle proprie faccende e Brandolf rimase solo al letto di


dolore della baronessa, finché arrivò l’infermiera con le
sue cose, accompagnata dalla portinaia. Prima di tutto
fu preparata la stanza e montato il letto, quindi si passò
al trasporto dell’ammalata. Poiché le due donne non
sapevano come fare, Brandolf prese senz’altro in braccio
la cenerentola avvolta in una coperta e la portò di là
con la stessa cura che se fosse stata la fragile coppa chia­
mata «La fortuna di Edenhall»,1 poi venne via lasciando
le donne alle loro incombenze. Le rifornì entrambe del
denaro necessario e raccomandò loro le cure più sollecite.
Per se stesso si procurò una domestica, che veniva al
mattino e si fermava tutto il giorno, cosicché ora c’era
vita nella cucina di solito tanto silenziosa.
La malata rimase fuor di conoscenza per più di due
settimane, e il medico diceva che doveva esserci nel fra­
gile corpo una natura molto robusta perché la guarigione
fosse possibile. Eppure fu così: la febbre scese, e un bel
giorno Hedwig von Lohausen si guardò intorno muta e
tranquilla. Vide la bella stanza con le sue suppellettili,
1’infermiera premurosa e il dottore grassoccio che le stava
accanto con viso e parole piene di gentilezza; ma non
chiese spiegazioni e s’abbandonò a quella pace silenziosa,
come se temesse di venirne strappata. Solo il terzo o quar­
to giorno incominciò a domandare che cosa le era acca­
duto e chi s’era preso cura di lei. Quando seppe che era
stato il suo locatario tacque di nuovo e rimase a lungo so­
pra pensiero ; ma il suo orgoglio sembrava spezzato e la no­
tizia, piuttosto che inquietarla, parve animarla un poco.
Quando udì che la malattia s’era vòlta al meglio,
Brandolf fu molto contento e sentì qualcosa che era come
il piacere d’un bimbo quando in casa è giunto un ospite
caro e v’è da aspettarsi ogni sorta di avvenimenti curiosi
e gradevoli. “Come ci vuol poco” pensò fra di sé “per pro­
curarsi un’immensa soddisfazione e quante belle possi­
bilità sono lì a portata di mano, pur di saperle vedere !”.
Intanto s’era propalata la notizia della malattia e delle

I. Allusione ad una ballata di Uhland.


LA POVERA BARONESSA IO71

premure che egli aveva per la sua nobile locataria, e nei


circoli che frequentava non gli risparmiarono i commenti,
di cui egli non s’ebbe a male per nulla. Scherzava egli
stesso sul fatto che s’era stabilito in quella casa per do­
mare un drago e invece gli era toccata la parte di be­
nefattore di una creatura povera e inferma. Attraverso
le chiacchiere venne fuori qualche scarsa notizia sui pre­
cedenti della sua protetta. Figlia di un defunto barone
von Lohausen che aveva la residenza nello Stato vicino,
era stata sposata con un certo capitano von Schwendtner,
ma dopo tre anni di matrimonio infelice aveva ottenuto il
divorzio, e il detto Schwendtner era poi sparito in cattive
circostanze. Brandolf provò subito una strana gelosia per
10 sconosciuto, e un rabbioso desiderio di punirlo, senza
pensare che alla fine poteva toccargli di curare anche lui,
se riusciva a scovarlo.
Dopo un’altra settimana la baronessa era sulla via della
guarigione, purché nulla venisse a turbare il normale de­
corso. Brandolf era molto impaziente di rivedere la crea­
tura che aveva salvato, e fece chiedere dall’infermiera se
la signora baronessa lo voleva ricevere. Intendeva infatti
contribuire al consolidamento della sua salute anche con
le attenzioni cortesi e compensarla di quanto aveva dovuto
soffrire quando imbacuccata da cenerentola era stata co­
stretta ai più umili servizi. Insomma, finché dipendeva da
lui, ella doveva essere circondata da bontà e gentilezza.
Quando gli fu risposto che la baronessa attendeva la
sua visita egli indossò un abito da passeggio, infilò i
guanti e si presentò nella stanza vicina.
Fu un poco sorpreso di vederla nel suo letto ben pre­
parato, e quasi non l’avrebbe riconosciuta abbigliata
com’era di una candida veste e con il pallido viso trasfi­
gurato nella cornice dei capelli disposti con arte. Mentre
egli prendeva posto sulla seggiola che l’infermiera aveva
avvicinato al letto, ella alzò su di lui i grandi occhi gravi.
11 suo sguardo posava attento e pensoso sulla faccia di
Brandolf e lo esaminava con curiosità mentre egli le chie­
deva come si sentiva ed esprimeva la propria contentezza
per la sua guarigione.
1072 I.’EPIGRAMMA

«Il suo amico, il buon dottore» ella disse piano «pen­


sa che mi sia ristabilita del tutto».
«Anzi ne è convinto, e io pure, perché egli se ne intende »
dichiarò Brandolf, ed ella continuò:
«Lei non ha avuto fortuna in questa casa! Invece di
essere servito e curato come si deve ha dovuto far curare e
servire la sua locataria, che non la concerne in nulla!».
«Al contrario, non avrei potuto essere più fortunato !»
rispose Brandolf con gioia schietta «Però ella deve far­
mi il favore di continuare pazientemente a lasciarsi cu­
rare, senza opporre resistenza. Me lo promette, vero?».
Le porse la mano con spigliata cordialità ed ella vi pose
sopra la sua, esangue e immateriale, senz’altro peso che
quello della debolezza. E intanto si formò sulla bocca
seria un sorriso insolito, infinitamente commovente,
come in un bimbo che impara quell’arte per la prima
volta ; e sembrò volersi trasformare in un guizzo di pianto.
Brandolf divorò il piccolo fugace spettacolo con occhi bra­
mosi; ma ricordando di non dover troppo stancare e agi­
tare la malata le strinse dolcemente la mano e si congedò.
Ma fuggì anche per sé, perché gli urgeva di correre al­
l’aperto e di fischiettare una canzoncina di gioia, che in­
cominciò già mentre si metteva il cappello e il pastrano
per andare a pranzo. Salutò allegramente i compagni
di mensa e li sedusse a un allegro simposio ordinando una
bottiglia di profumato vino del Reno. Uno dopo l’altro
seguirono il suo esempio; ne nacque una notevole gaiezza,
senza che nessuno sapesse qual era il motivo. Infine fu in­
terrogato Brandolf, come promotore.
«Eh!» diss’egli «la mia gatta ha fatto i piccoli e oggi
mentre ne tenevo uno fra le mani gli si sono aperti im­
provvisamente gli occhietti e con lui ho visto il mondo
per la prima volta».
I commensali crollarono la testa ridendo di quell’as­
surdità ; invece Brandolf cominciò da quel giorno a essere
molto più perspicace; infatti quando andò pieno di fer­
vore al suo ufficio, dove doveva esaminare l’incartamento
di un alto funzionario di giustizia residente in provincia,
lavorò con spirito così alacre e lucido che ne venne fuori

(
I .A POVERA BARONESSA IO73

un ottimo giudizio critico, in seguito al quale il cattivo


impiegato ebbe dei rimproveri, delle sanzioni, e fini per
essere trasferito. Tutto per via del micino di cui Brandolf
diceva d’aver festeggiato il primo sguardo sul mondo.
Il giorno dopo ripetè la sua visita e portò alla baronessa
alcune rose appena sbocciate, di delicato colore, che
aveva scelto lui stesso nella serra d’un giardiniere. Ella
le tenne nella mano che posava sulla coperta. Mai aveva
ricevuto simili cortesie, né mai, probabilmente, le aveva
pretese. Era quindi come una prima esperienza nella sua
nuova vita, e per i palpiti del cuore non ancora tornato
in forze un leggero incarnato simile a quello delle rose si
sparse sulle pallide guance; e insieme con quel riflesso
rosato un sorriso schietto, forse anch’esso il primo di
quel genere su quella bocca. Ricordava quasi il testo di un
vecchio epigramma, che dice :
Vuoi tu il candido giglio in rosa rossa mutare?
Bacia una Gala tea bianca : la vedrai sorridendo avvampare.
D’un bacio però non era il momento di discorrere.
Brandolf ora le provvedeva ogni giorno qualche godi­
mento per gli occhi o per la bocca, per quel che il medico
permetteva, e la convalescente accettava tutto, dicendosi
che tanto era cosa transitoria. Dopo un’altra settimana
l’infermiera lo informò che la baronessa s’era alzata dal
letto e che l’avrebbe trovata seduta in poltrona. Così era
infatti. Ella portava un vecchio modesto vestito di taf­
fettà e un merletto nero sul capo ; tuttavia si vedeva che
desiderava fare onore all’ospite. Lo guardò con dolcezza
grave, quando egli entrò augurandole ogni bene e si se­
dette al suo cenno. «Quel giorno che le tagliai il tacco
con un coltello» ella disse «non pensavo che le sarei mai
stata seduta di fronte come oggi!».
«Io benedico quel taglio; perché fu la causa della no­
stra buona amicizia, e senza di esso non sarei divenuto
suo ospite; infatti lo divenni col proposito di punirla».
«Lei mi ha confusa con la sua bontà» ella disse triste­
mente «e mi ha certo salvato la vita, ma s’è anche in­
tromesso in questa vita salvata, e ora io la devo mutare.
1074 L’EPIGRAMMA

Vedo che non potrò più vivere indipendente come finora,


e tenterò di trovarmi un posto di governante di casa, o
qualcosa di simile. L’infermiera e la portinaia mi hanno
fatto, come potevano, una nota delle spese; e per pagare
i debiti e mettere insieme il necessario per il prossimo fu­
turo penso di vendere, appena sarò perfettamente rista­
bilita, l’arredamento della mia casa, l’ultima cosa che mi
rimane. Devo dunque darle la disdetta e la prego di non
aversene a male. Ma lei certo capirà, perché è il primo
uomo buono che io abbia mai incontrato, e mi addolora
doverla perdere così presto ! ».
«È una perdita che non le riuscirà tanto facile» escla­
mò Brandolf prendendole la mano e tenendola stretta
«perché le sue risoluzioni s’accordano perfettamente col
progetto che io avevo fatto per lei. Credeva forse che
l’avrei lasciata andare così, tutta sola verso l’ignoto?».
«Oh Dio!» disse lei e incominciò a piangere «non
sono abituata alle parole buone, mi spezzano il cuore ! ».
«No, no, anzi glielo faranno guarire !» replicò lui, e se­
guitò «Dunque ascolti. Mio padre è vedovo e vive nelle
sue terre, mentre io devo restare lontano ancora per un
po’ di tempo. La nostra vecchia direttrice di casa è morta
sei mesi fa, e mio padre anela di affidare di nuovo la no­
stra dimora al governo femminile. Dunque vada da lui,
appena sarà ben guarita, e si renda utile finché le piace e
finché si troverà qualcosa di meglio. Che lei ci sarà d’aiu­
to prezioso non ne dubito; perché il regime di ferree pri­
vazioni che lei s’era imposto qui secondo me era soltanto
la forma morbosa di un senso originariamente sano del
governo domestico, e so che lei darà volentieri ai suoi
sottoposti tutto ciò che spetta loro, quando ci sarà l’abbon­
danza. Non ho ragione?».
La mano della convalescente tremava lieve nella sua
mentre ella diceva piano: «Fa bene sentirsi descrivere
così, e grazie a Dio non posso dire che non sia vero!».
Lo guardava intanto con occhi così colmi d’affettuosa
riconoscenza, che a Brandolf si allargò il petto davanti al
nuovo grazioso fenomeno.
«Allora siamo d’accordo che lei verrà da noi?» egli
LA POVERA BARONESSA 1075

chiese impaziente, ed ella rispose: «Non trovo la forza


di rifiutare, ma prima deve sapere chi sono e donde
vengo ! ».
«Non c’è fretta, ne parleremo domani» esclamò
Brandolf con premuroso riguardo, e s’alzò risoluto, quan­
tunque spiacente di lasciarle la mano, vedendo che ella
era commossa, stanca e di nuovo agitata.
Ma il giorno dopo la trovò relativamente meglio. Ella
s’alzò dalla poltrona e gli andò incontro di qualche passo.
Brandolf però la fece subito sedere.
«Ho dormito tranquilla tutta la notte,» disse Hedwig
«ed è Strano, ma anche nel sonno sentivo il bene che lei
mi ha fatto come se fossi cosciente».
«Brava, sono contento di lei!» disse Brandolf con la
soddisfazione di un giardiniere che vede una stenta pian­
ticella di mirto riprendere forze e metter fuori freschi ger­
mogli verdolini. Infatti stava osservando con meraviglia
di quale aggraziata espressione fosse capace quel volto in
stato di contentezza e di tranquillità. Prese uno specchio
che era lì vicino e lo porse alla signora dicendo: «Guardi
un po’ qui ! ».
«Che cosa?» diss’ella leggermente spaventata guar­
dando nello specchio ma non scoprendo nulla.
«Intendevo soltanto, guardi com’è bella!».
« Io? Non sono mai stata una bellezza, e lo sono ancor
meno ora, appena sfuggita alla tomba ! ».
«No, una bellezza no, ma qualcosa di meglio!».
La bandierina rossa del suo sangue svolazzava già un
po’ più gagliarda sulle guance pallide. Ma lei non osò
chiedergli che cosa voleva dire, e gli tolse in silenzio lo
specchio di mano; eppure abbassò gli occhi, domandan­
dosi piena di curiosità che cosa poteva essere meglio di
una bellezza e tuttavia visibile nello specchio. Brandolf
indovinò la perplessità sotto le palpebre calate; capì che
di nuovo le era stato detto qualcosa d’insolito, e poiché
non sembrava che le facesse male lasciò che l’assapo­
rasse per un poco in silenzio, finché alzò gli occhi ella
stessa. Un angelo passò nella stanza, come si suol dire.
Per trarsi d’impaccio la baronessa prese la parola: «Sono
1076 L’EPIGRAMMA

così calma, ora, che credo di poterle senza danno raccon­


tare la mia storia; non è lunga.
Lei vede in me la discendente di un casato che da
cent’anni sussiste solo consumando i beni che gli pro­
vengono dalle donne, senza altro lavoro o guadagno,
finché il filo è venuto a mancare. Ogni donna entrata
per matrimonio nella famiglia vide sperperare la sua dote,
e sempre ne veniva un’altra e riempiva la brocca vuota.
10 conobbi ancora mia nonna, al cui patrimonio il nonno
diede fondo tranquillamente, intanto che il figlio cresceva
e giungeva all’età di prender moglie. Spinta dall’istinto di
conservazione la nonna gli procurò una ricca ereditiera,
alla quale doveva toccare nel corso del tempo più di un
patrimonio, sicché secondo le previsioni umane sarebbe
finalmente dovuto avanzare qualcosa. Ma essa morì in
ancor giovane età, dopo aver messo al mondo due maschi,
e poiché era già manifesto che sarebbero stati anche quelli
due fannulloni, la nonna non ebbe pace finché non riuscì
a conquistare per il figlio - mio padre - una seconda ere­
ditiera, che mi diede i natali. Ma la nonna, prima di mo­
rire, dovette ancor maledire la sua previdenza, con la
quale aveva procurato la sventura a due giovani donne.
Mio padre dilapidò il denaro in continui viaggi, per­
ché non gli piaceva restare a casa. Con gli anni fu preso
da un’altra pazzia: s’attaccò a donne false e cattive, alle
quali dava tutto il denaro e i valori che poteva racimolare.
Perfino granaglie e vino, legname e torba sottraeva alla
tenuta per darli a esse, e quelle arraffavano a più non
posso. I figli lo disprezzavano, ma lo imitavano e sac­
cheggiavano la casa come meglio potevano per i loro
minuti piaceri. Nessuno potè mai costringerli a impa­
rare qualcosa, e giunti all’età del servizio militare schiva­
rono anche quello benché fossero sani e robusti. Il padre
11 odiava e spiava le eredità che spettavano ancora a
loro da parte materna, ansioso di averle in mano almeno
per qualche anno, come tutore naturale. Ma essi diventa­
rono maggiorenni prima che le eredità cominciassero a
fioccare fitte, l’una dopo l’altra; allora essi raccolsero le
loro ricchezze e se ne andarono per il mondo a fare i loro
LA POVERA BARONESSA IO77

comodi, senza lasciarsi dietro un soldo. Erano appiccicati


l’uno all’altro come mignatte, con la solidarietà dei bir­
boni, e probabilmente è ancora sempre così, se vivono
ancora; giacché non si sa dove siano.
Mio padre s’ammalò e morì, e la mamma rimase sola
con me nell’ormai spoglia residenza avita dei Lohausen,
che ella desiderava non aver mai veduto. Da anni cer­
cava di salvare il salvabile, e ora lottò come un soldato
contro la rovina. Da lei imparai a vivere quasi di nulla, e
a risparmiare ancora sul nulla. Abitavamo con pochi fa­
migli nella casa già ipotecata. Dal mattino alla sera la
mamma perseguiva il suo scopo; il patrimonio che aveva
portato in dote era sfumato, ma ella doveva ancora ere­
ditare, e solo quella speranza la sosteneva. Sventurata­
mente non visse abbastanza a lungo ; in una giornata d’au­
tunno umida e fredda, mentre stava nei campi a sorvegliare
il raccolto della frutta, si buscò una malattia che la rapì
in pochi giorni.
Adesso ero sola, ma non lo rimasi a lungo. L’ultima
eredità che giunse nella casa sciagurata spettava a me;
ammontava a più di duecentomila talleri. E subito ri­
comparvero i fratelli, apparentemente in buona posi­
zione, sebbene sempre dediti ai loro rozzi piaceri. Por­
tarono con sé un certo capitano von Schwendtner, uomo
posato e di bell’aspetto, che pareva esercitare su di loro
un influsso benefico e tenerli a freno quando oltrepassa­
vano i limiti. Era sempre pronto col consiglio e con l’ope­
ra, e pieno di discrete attenzioni, senza offendere i diritti
dei padroni di casa. I servi erano contenti di sentire
parlare un uomo esperto, giacché essi ormai non erano
dei più scelti e sapevano far poco. Tuttavia c’era qualcosa
che non mi persuadeva, e io mi sentivo angosciata e
oppressa. E forse solo perché avevo paura e mi sentivo
derelitta fui vittima della corte che il capitano mi fa­
ceva; profondamente cieca, senza un sentimento più te­
nero, che non conoscevo, sposai quell’uomo, e fu allora
che incominciarono le mie sofferenze.
Perché era stata tutta una commedia ordita dai tre.
Il mio patrimonio mi fu abilmente tolto di mano, non
1078 L’EPIGRAMMA

saprei dire come, col pretesto di depositarlo al sicuro in


una banca della capitale. I fratelli scomparvero di nuovo
dopo aver probabilmente riscosso il prezzo della vendita
di un’anima ed essersi riserbati di seguitare a spartirsi la
preda. Passai tre anni fra i maltrattamenti e le umiliazio­
ni. Non vidi più i miei fratelli. Mio marito era sovente,
anzi quasi sempre, lontano, finché un giorno arrivò con
tutta una compagnia di uomini mezzo ubriachi, a ca­
vallo e in carrozza, e mi ordinò di provvedere a loro nel
modo più ospitale. Io feci tutto quel che potevo, mentre
gli uomini si divertivano a tirare con le pistole. Avevo
nella culla un bambino ammalato, e andai a vederlo
per un attimo; dopo aver pianto a lungo s’era un poco
assopito. Giunse Schwendtner con la pistola in pugno e
pretese che io mostrassi alla compagnia “il suo ragazzo”.
Gli feci osservare che il povero piccino dormiva, ma lui
gridò: “Adesso t’insegno come si fa a svegliare il figlio
d’un soldato!” e sparò un colpo così rasente al visetto,
che la palla andò a infiggersi nel muro vicino. Il bimbo si
spaventò orribilmente e cadde in convulsioni mortali;
morì infatti dopo tre giorni. Quella sera il malvagio mi ob­
bligò a sedermi a tavola con gli altri. Per amor di pace
obbedii, ma subito egli m’insultò davanti alla sua banda
con parole infami, che solo uno scellerato può usare verso
sua moglie. Mi alzai e ritornai barcollando presso il mio
bambino agonizzante.
Nel frattempo, la masnada se ne andò com’era ve­
nuta. Poco dopo, come dissi, il bimbo morì; lo seppellii
chetamente, senza avvertire quell’individuo, e poi ab­
bandonai il castello in rovina, di cui purtroppo m’è ri­
masto il nome. Dalla vendita dei gioielli di mia madre
ricavai i mezzi per assumere un avvocato che mi liberò
da mio marito e mi ottenne il divorzio, ma alla fine non
riebbi del mio nemmeno un tallero. Tutto era sparito,
sebbene difficilmente potesse essere stato consumato in
così pochi anni. Non molto tempo appresso Schwendtner
fu espulso dall’esercito per un’altra azione abietta, e pare
che per un po’ abbia frequentato coi miei fratelli bettole
e bische, finché vennero tutti e tre incarcerati. Il podere di
LA POVERA BARONESSA IO79

Lohausen fu venduto e io non conservai che l’arreda­


mento di casa, grazie al quale, come lei sa, ho cercato di
andare avanti affittando stanze, però con poca fortuna.
Son due anni che passo da un appartamento all’altro, in
questa città dove nessuno mi può soffrire, sempre incalza­
ta dalla paura di non riuscire a mettere insieme di che
pagare la pigione. Così, alla luce del giorno, è stato com­
piuto il colpo di mano per cui una debole donna ha do­
vuto quasi morire di fame mentre tre uomini grandi e
grossi si mangiavano, chissà dove, il legittimo patrimonio
di lei. Certamente ne hanno messo una parte al sicuro,
come sogliono i ladri che sanno nascondere bene il bot­
tino e poi vanno tranquillamente a riprenderselo quando
escono dalla galera».
Non solo perché aveva terminato il racconto, ma anche
perché Brandolf dava segni d’agitazione e i suoi occhi lan­
ciavano fiamme, ella cessò di parlare. Ma prima che la
baronessa si fosse ben resa conto della sua eccitazione, egli
aveva già padroneggiato la collera che ribolliva in lui e
inghiottito con sforzo il furore che lo agitava contro i tre
malfattori, affinché la convalescente non ne fosse turbata,
dopo che aveva raccontato la sua pietosa vicenda con la
stessa serenità con cui si riferisce un sogno tormentoso
dal quale ci si è infine svegliati.
« Ormai è passato e non tornerà più ! » disse Brandolf
in tono rasserenante, e le prese la mano che accarezzò
con dolcezza; cominciava ormai a trattarla come un og­
getto ben meritato, o un bene a lui affidato, del quale si
sentiva responsabile e che quindi non perdeva d’occhio.
Così la nuova vita trascorse placida e cheta, finché, nel
marzo solatio, il medico dichiarò che la baronessa era ri­
sanata e in condizione d’intraprendere il viaggio senza
pericolo alcuno.
Furono vendute tutte le suppellettili, e in primo luogo
i vetri e le porcellane con gli innumerevoli stemmi ; la si­
gnora conservò soltanto le cose che potevano ricordarle
la madre, il resto desiderava cancellarlo, se era possibile,
dalla memoria.
Fece anche rimodernare il suo modesto guardaroba,
ιο8ο L’EPIGRAMMA

cercò, pregata da Brandolf, una brava cameriera di cui


a casa v’era bisogno, e in compagnia di questa partì final­
mente, seguita dai saluti e omaggi del suo protettore, per
la provincia dove viveva il vecchio Brandolf e dove tutto
era pronto per riceverla.
Brandolf invece si recò in un’altra parte del paese,
avendo accettato l’incarico di occupare per qualche mese
un posto di fiducia, e di riorganizzare un ufficio molto
trascurato. L’intenzione dei superiori era di provare le
sue forze e di prepararlo ad altre funzioni; ma egli si ri­
serbava di ritornare libero una volta eseguito il suo la­
voro.
Non passarono molte settimane e giunsero lettere del
vecchio signore che traboccavano di elogi per la baronessa
Hedwig e per il nuovo ordine che regnava in casa. Pareva
che ella avesse a disposizione una schiera di folletti tanto
le cose filavano lisce sotto la sua direzione, davvero bene­
detta era l’opera delle sue mani, e commovente vedere
la sua gioia silenziosa per la sicurezza e l’abbondanza in
cui poteva lavorare e governare nel modo migliore. Dal
mattino alla sera era in moto, lietamente ma tranquilla­
mente, solo ogni tanto si concedeva con grazia un’ora di
sosta, quasi più per non farsi notare e dare respiro agli al­
tri che per riposare ella stessa. Anche la cameriera aveva
ottime maniere, e la cucina era squisita : in breve, il signor
padre si trovava come in paradiso e gli sembrava di rin­
giovanire. Quasi quasi avrebbe commesso la pazzia di
riprender moglie per non perdere quell’eccellente pa­
drona di casa.
Infine arrivò una lettera in cui il signor Brandolf scri­
veva di aver riflettuto a lungo sul progetto di matrimonio,
e trovato che toccava al figlio di metterlo in esecuzione.
Perché, anche se la signora von Lohausen era piena di
amorevoli premure per il padre, il cuore l’aveva dato
evidentemente al figlio; il giovane Brandolf, non v’era
dubbio, l’aveva ammaliata. Hedwig non parlava mai di
lui; ma se si pronunziava il suo nome arrossiva lieve­
mente, come una fanciulla, alla quale del resto somigliava
nella figura snella e nella vita sottile. Perciò il padre de­
LA POVERA BARONESSA io8l

siderava che Brandolf si decidesse ad arrischiare il salto;


non poteva augurarsi per parte sua una nuora migliore.
Brandolf rispose che era contento. Come sua protetta,
Hedwig gli era diventata cara come una figlia; ma si sen­
tiva di amarla anche come sua mogliettina e l’avrebbe
legata con un filo di seta alla caviglia sottile per non la­
sciarsela scappare mai più. Però doveva essere il babbo a
chiedere per Brandolf la mano di Hedwig, e incassare,
se mai, l’eventuale rifiuto.
A volta di corriere il vecchio annunziò che aveva fatto
la domanda e ottenuto un si immediato. Era successo sul
sentiero dell’orto, da lei così magnificamente rimesso in
ordine. Hedwig era così onesta e sincera che non aveva
potuto farsi pregare nemmeno per un momento, ma gli
aveva subito teso tutte e due le mani tremando, con
un’espressione straordinariamente devota e patetica sul
viso affilato. Già, già, la piccola strega non era soltanto
utile ma anche molto graziosa, eccetera, eccetera.
Dopo di che Brandolf cominciò a inviare all’eletta pic­
cole lettere e grossi regali. Anch’essa rispondeva breve­
mente; ma ogni parola riluceva dei sentimenti che vi
erano contenuti. Il giorno del fidanzamento fu stabilito
per il mese di maggio, e vennero diramati inviti a parenti e
amici. Come direttrice della casa, Hedwig aveva il do­
vere e la gioia di fare i preparativi, e la sposa era lei stessa.
All’arrivo di Brandolf gli era andata incontro da sola,
com’era stato inteso fra loro. Egli era sceso dalla carrozza
e s’erano avviati insieme per un sentiero tra i prati, soli­
tario e fiorito, a metà del quale egli l’aveva stretta a sé
ed ella gli aveva gettato le braccia al collo, sotto i penduli
rami dei meli in fiore. Sull’argomento non v’è altro da
dire, se non che anche quella volta venne almeno pa­
reggiato uno di quei lunghissimi conti sull’attivo e sul
passivo della vita che i nostri moderni Shylock si fanno
tanta premura di compilare e presentare al Cielo.
Poiché Brandolf era occupato fino all’autunno con la
sua missione speciale e non intendeva restare in servizio
dopo le nozze, venne scelto per il rito il tempo della
vendemmia, in modo da celebrarlo insieme con una sagra
1082 L’EPIGRAMMA

della natura e farne in un certo senso una festa simbolica


per la sposa massaia che aveva sofferto tante privazioni
e tanti dolori. E non era il caso di pensare a un viaggio
di nozze : la vita coniugale doveva fin da principio con­
fondersi con il fervore di lavoro e il tumulto dionisiaco
dell’autunno.
Al tempo della mietitura Brandolf tornò a casa per
qualche giorno ; dopo avere conosciuto la sposa nel crudo
inverno, essersi fidanzato con lei in primavera, voleva
vederla nel fulgore dell’estate, prima che l’autunno re­
casse il coronamento. Ormai Hedwig era forte ed ener­
gica, ma sempre riflessiva e silenziosa, e la schietta gioia
d’amore che fioriva in lei era moderata e attutita dalla
stessa mano invisibile che frenava l’esuberanza delle spi­
ghe d’oro radunate sui campi in mille covoni. Fra due
vaste distese di frumento biondo cresceva una striscia
di antiche querce, la cui ombra interrompeva la luce
abbagliante dei campi e delle nuvole estive; per di più un
limpido rivo scorreva sotto quell’ombra. Era il luogo pre­
scelto da Hedwig per il ristoro dei mietitori, e pranza­
rono lì tutti insieme ; anche il vecchio signore aveva vo­
luto venire. E quantunque la presenza della baronessa
fosse gradevolmente sentita da tutti, era tuttavia come
s’ella non ci fosse. Terminato il pranzo restò sola nella
boscaglia rada di dove tra i tronchi si poteva sorvegliare
tutta la campagna. S’era preso l’incarico d’intrecciare le
ghirlande per la festa della mietitura, e Brandolf le tenne
compagnia. Nel semplicissimo abitino d’estate, con una
sottile catena d’oro al collo ella sembrava una libera figlia
dell’aria, lieta di godere l’attimo fuggente e ignara del
passato e del futuro.
«Sei mai già stata così come in questo momento?»
chiese confidenzialmente Brandolf mentre la guardava
lavorare.
«No!» ella rispose «io non ho di questi ricordi! Tut­
to per me è nuovo, e perciò allegro e divertente. Mi
sembra addirittura di avere appena cominciato a vi­
vere».
Nel viaggio di ritorno al luogo della sua transitoria atti­
IΛ POVERA BARONESSA 1083

vità, Brandolf fu sorpreso dal cattivo tempo e quindi


costretto a ripararsi più sovente del solito nelle locande
lungo la strada. Così, quando aveva già percorso molte
miglia, capitò in una stazione di posta la cui ampia sala
era affollata di viaggiatori d’ogni specie. Fra gli altri
v’erano tre tipi allampanati e inselvatichiti, con barbe
incólte e vesti logore, che portavano strumenti musicali
assai malconci. Brandolf osservò che al sopraggiungere
di nuovi avventori i tre venivano cacciati da un tavolo
all’altro coi loro bicchierini d’acquavite, e alla fine ven­
nero addirittura espulsi dalla sala. Brontolando ma senza
opporre resistenza andarono fuori, in cortile, si ripararono
sotto il tetto sporgente d’una legnaia e, probabilmente per
vendicarsi, presero in mano i loro strumenti. Ne venne
fuori una musica così atroce che il pubblico nella mescita
si mise a protestare imprecando e li fece smettere. Un mer­
cante di buon cuore raccolse qualche spicciolo per i po­
veracci e portò loro il piccolo modesto ricavato, dopo di
che essi cessarono il fastidioso fracasso e restarono acco­
vacciati in un angolo ad aspettare che spiovesse. Brandolf
chiese a uno dei garzoni chi erano quei miserabili musi­
canti. Il ragazzo rispose che erano gente di dubbia fama
e piuttosto malvista. I due meno alti eran chiamati quelli
di Lohausen, e il più lungo il cattivo Schwendtner. Si
sussurrava che fossero tre gentiluomini di campagna,
un tempo molto ricchi, e poi finiti in prigione.
In realtà Hedwig sbagliava credendo che il patrimonio
di cui era stata derubata esistesse ancora, almeno in parte,
e che i tre bricconi se lo stessero godendo. Certo ne ave­
vano avuto l’intenzione e per fare fruttare il denaro s’era-
no rivolti a maneggioni di borsa; ma erano capitati male e
in meno di sei settimane ci avevano rimesso anche le pen­
ne. Furibondi vollero vendicarsi, rifare fortuna con un
grosso imbroglio di cambiali e poi scomparire. Ma non
riuscirono a farla franca; scoperti, dovettero indossare
la casacca a righe e restare un anno in carcere. Quando
vennero fuori erano poveri in canna; anche i loro begli
abiti e le vestaglie di seta erano stati messi all’asta, e
dovettero accontentarsi dei modesti indumenti forniti
1084 L’EPIGRAMMA

dalla carità pubblica. Così non poterono più risalire al­


l’onorifico grado di giocatori di professione e, poiché non
misero la testa a partito, divennero vagabondi di strada.
Caduti così in basso, men che mai poterono fare a meno
gli uni degli altri. Quando si separavano nella speranza
di cavarsela meglio, dopo un paio di settimane erano di
nuovo insieme; solo un arresto occasionale poteva divi­
derli. Negli anni giovanili il lungo capitano Schwendtner
aveva imparato a strimpellare il violino, e sapeva più o
meno tendere una corda e suonarvi sopra. I due di Lohau­
sen da ragazzi avevano preso qualche lezione di corno e
di clarinetto, ma s’erano presto stancati. Nella sfortuna
quelle antiche velleità si dimostrarono utili e fornirono
loro il pretesto di formare una lega durevole per correre il
paese in cerca di pane e d’avventure.
Ora Brandolf, seduto a una finestra della locanda,
guardava attraverso la pioggia scorrente sui vetri i tre
grigi messeri, e non poteva aver dubbi sulla loro identità.
Sgomento e paura per la sua sposa furono il primo effetto
di quella vista sgradevole. Ella non immaginava che il
loro squallido destino passasse così vicino a lei. Poi Bran­
dolf fu assalito da una collera potente, ed ebbe voglia di
prendere la frusta del suo cocchiere, andar fuori e darne
un fracco a quei malviventi. Ma quanto più li guardava,
tanto più si ammansiva il suo impulso violento, e si tra­
mutò alla fine in una allegra soddisfazione nel riscontrare
quanto si trovavano a mal partito. Il perfido Schwendtner
non cessava di asciugarsi gli occhi arrossati e armeggiava
intorno alle scarpe rotte, cercando di infilarvi un pez­
zetto di scorza di betulla che aveva trovato presso la le­
gnaia, mentre i Lohausen tiravano fuori dal sacco qual­
che crosta di pane e la rosicchiavano; poi raccolsero nel
fango un mozzicone di sigaro, lo pulirono e ne trassero
a turno qualche boccata; giacché la loro solidarietà di
furfanti era inalterabile.
Dopo circa mezz’ora, mentre la pioggia continuava a
scrosciare, era maturato nei pensieri di Brandolf un pro­
getto di vendetta, e contemporaneamente di liberazione,
più scherzoso che feroce, per il quale occorreva invitare
LA POVERA BARONESSA 1085

in un certo modo il terzetto alle nozze. E si accinse subito


a tradurlo in realtà.
Aveva con sé un fedele e ingegnoso domestico della casa
patema, che si chiamava Jochel; erano cresciuti insieme
e negli anni passati avevano combinato più d’un tiro
birbone. Si confidò dunque con Jochel e gli insegnò co­
me doveva osservare i tre musicanti e seguirne i passi,
per poi avvicinarli opportunamente travestito e attirarli
nelle vicinanze di casa Brandolf con la promessa di un
buon guadagno e di qualche giorno di vita beata. Si
trattava infatti di averli sottomano nel giorno della festa
per le nozze e per la vendemmia, senza che sospettassero
di nulla.
L’astuzia del buon Jochel riuscì perfettamente, co­
sicché al tempo stabilito egli li condusse sul posto, cioè in
prossimità non pericolosa, impazienti di godersela un po’
e con un’acquolina in bocca che egli alimentava ogni
tanto con una brocca di mosto, alternata a bicchierini
d’acquavite. Intanto i tre s’esercitavano volonterosa­
mente nei loro spaventosi concerti, ben convinti di dover
sostenere una parte importante presso qualche imbecille
di proprietario, e i suoni diabolici giungevano sinistri dal
boschetto dove Jochel li aveva nascosti. La vendemmia
era già incominciata da alcuni giorni e stava per finire.
Oltre i molti contadini del podere erano venuti numerosi
aiutanti, allegri giovanotti e ragazze, cuochi e cuoche,
camerieri e altri domestici presi a prestito da case signorili
in città, e anche una parte degli invitati alle nozze era
già arrivata, mentre si aspettava ancora una buona or­
chestra da ballo.
Così venne il gran giorno, accompagnato dal più mite
e aurato sole d’ottobre, che traeva dal terreno un velo di
nebbia dopo l’altro e poi Io disperdeva finché tutta la
campagna con alberi e colline risplendette adorna di
caldi colori, e le lontananze all’intorno simboleggiavano
col loro misterioso azzurro un promettente avvenire di
felicità. Nella casa padronale furono celebrate al mattino
le nozze, mentre una musica gentile fluiva dalle finestre
aperte. Poi seguì il pranzo degli sposi e degli amici, e in-
ιο86 L’EPIGRAMMA

tanto i vendemmiatori e la gente del contado banchet­


tavano all’aperto e ballavano già al suono di una ga­
gliarda orchestrina villereccia. Verso sera poi, quando il
sole sempre più dolcemente cominciava a declinare, si
svolse il grande corteo dei vendemmiatori, al quale i
tre farabutti erano chiamati a prender parte. Era, questa
cerimonia, piuttosto semplice, cioè i vendemmiatori e i
pigiatori, camuffati in tutti i modi possibili, facendo
fracasso sui loro arnesi e preceduti dalla loro musica,
dovevano sfilare davanti ai signori, i quali assistevano da
un podio eretto all’ingresso del parco, con un tempietto
inghirlandato d’edera nel centro, che incorniciava la spo­
sa e lo sposo.
Il corteo si snodò abbastanza pittoresco sotto i grandi
alberi, e Brandolf aveva provveduto affinché ogni sorta
di panni colorati, dozzine di tirsi, tamburelli a sonagli,
maschere di satiri e specialmente una quantità di graziosi
travestimenti per bambini, raffiguranti la fioritura delle
viti, portassero varietà e colore nella sfilata. La parte
principale doveva rappresentare la gioia di una buona
annata vinicola; il finale invece era riservato al disprezzo
dovuto in tutte le circostanze a un’annata cattiva. I tre
diavoli che ne avevano colpa: quello dell’acidità, quello
dell’insipidità e quello della corruttibilità, dovevano pro­
cedere tirati a strattoni per la coda e con la loro musica
infernale esprimere la velenosità e la schifezza di un vino
ignobile.
La parte era riservata appunto ai nostri tre malfattori.
Per rimuovere ogni diffidenza, gli si era chiaramente
spiegato quel che dovevano rappresentare. Sapevano an­
che che si celebrava un matrimonio; ma Jochel aveva
storpiato con tanta disinvoltura il nome della sposa, al
quale d’altronde non s’interessarono affatto, che quelli
non sospettarono fino all’ultimo la loro vera posizione.
Tuttavia il sangue e la tradizione patrizia ispirarono loro
un moto di rivolta mentre venivano camuffati e imbri­
gliati. Furono avvolti in pelli caprine chiazzate di grigio
e di nero, tinti di fuliggine in faccia, e forniti di lunghe
corna sul capo. Code di vacca vennero loro saldamente
LA POVERA BARONESSA 1087

legate in fondo alla schiena, e le tre code unite insieme e


attaccate a una lunga fune ; questa era tenuta a destra e a
sinistra da venti robusti giovanotti vestiti da bottai, con
corone di pampini in testa, che la tiravano per trascinare
in trionfo i tre diavoli lungo il percorso, facendoli cam­
minare all’indietro. Come s’è detto, i tre compari da
principio si mostrarono riluttanti; ma il compenso di cin­
que talleri promesso a ciascuno vinse ogni resistenza.
Così vennero avanti, inciampando e saltellando a ri­
troso, senza mai un attimo di sosta; alle loro spalle udi­
vano la musica che precedeva il corteo, canti, grida
d’esultanza e i tamburelli di vignaioli e baccanti, ma non
potevano vedere dove andavano; sentivano gli schia­
mazzi e le risa della folla schierata lungo la strada, e
finalmente videro le prime file degli invitati alle nozze,
che battevano le mani e gridavano evviva. Con gocce di
sudore sulla fronte fuligginosa il capitano von Schwendt-
ner grattava miserevolmente il violino e i due Lohausen
soffiavano nelle trombe rotte, finché si trovarono d’im­
provviso davanti al tempietto d’edera dove stava la sposa,
incantevole fra i veli fluttuanti, nello splendore del sole
al tramonto che faceva brillare le gemme di cui era ador­
na. Jochel, che guidava i giovanotti alla fune, ordinò dì
mollarla un poco, affinché i cornuti potessero sostare.
Tutti e tre riconobbero immediatamente la sorella e la
ex moglie ; ma credettero di sognare. Lasciarono cadere gli
strumenti e come mentecatti guardarono il palco di dove
ella faceva loro cenni e sorrisi: giacché non sapeva chi
fossero, e credeva che anche quei figuri si sforzassero di
renderle onore con i loro scherzi sguaiati. Brandolf in­
tanto batteva forte le mani gridando: «Bravi, bravi quei
tre ! ». Come in sogno coloro si toccarono le corna, poi le
code che avevano dietro, dove si sentivano legati; poi
guardarono di nuovo la magica apparizione della moglie,
della sorella tradita; ma la cattiva coscienza non permise
loro di aprir bocca e, prima che potessero raccogliere le
idee, Jochel fece di nuovo tirare la corda, e dovettero ri­
prendere, incespicando, la processione. Il corteo girò in­
torno alla casa, e fu salutato dalla banda cittadina scliie
ιο88 L’EPIGRAMMA

rata sul terrazzo posteriore. Poi sboccò nel parco, e passò


ancora una volta davanti ai signori. Di nuovo i tre scelle­
rati dovettero sostare alquanto dinanzi alla sposa, prima
di proseguire balzelloni, e sempre più forti e assordanti
diventarono il giubilo e il frastuono. Ma Brandolf fece
un cenno e per la terza volta si ripetè la scena. I poveri
diavoli capirono di dover sfilare nuovamente, e cercarono
a forza di scappare. Quantunque profondamente dege­
nerati, si ribellavano con l’orgoglio dei tempi lontani
all’inganno e allo scherno di cui erano vittime. Ma la
forza inesorabile della fune li tenne fermi, e stettero per
la terza volta al cospetto della sposa, e per la terza volta
la guardarono, con occhi sgranati, digrignando i denti,
stringendo i pugni e imprecando. Allora Brandolf gettò
loro tre luigi d’oro, ciascuno avvolto in un pezzo di carta,
e i tre li ghermirono ratti come tre scimmie alle quali si
gettano noci. Ormai propendevano a credere di non esser
stati riconosciuti.
Brandolf intanto fece un segno, Jochel tirò la corda e
la visione spettrale finalmente sparì. Ma i tre non vennero
ancora lasciati liberi, né riuniti al popolo che ritornava
al ballo e al banchetto; Jochel li condusse invece coi venti
bottai in una lontana osteria, dove il gruppo dei demoni
sarebbe stato rifocillato a parte. Questa volta però i tre
andarono avanti sonando, e i bottai li seguirono reggendo
la corda. Intanto era scesa l’oscurità e, quando la stra­
na compagnia arrivò alla taverna, si vide laggiù do­
ve si teneva la festa salire verso il cielo un fuoco d’ar­
tificio stupendo. I diavoli vennero finalmente sciolti,
ma rimasero sempre in mezzo ai gagliardi giovanotti,
e Jochel non li perdeva d’occhio, sicché non poterono
scambiare fra loro neanche una parola. Dimenticarono
l’interno turbamento ristorandosi coi cibi e con le bevande
che vennero serviti a profusione, finché qualcuno aprì la
finestra e additò la casa padronale, che sfolgorava tutta
di luce, mentre una bellissima musica da ballo giungeva
chiara ma attutita attraverso la cheta aura notturna.
Sopra la casa brillavano le più fulgide stelle, della
qual cosa i diavoli non si commossero affatto; giacché
LA POVERA BARONESSA IO89

se fossero stati capaci di simili sentimenti non si sarebbero


trovati dov’erano. Solo il suono morbido e raffinato dei
violini li colpì al cuore, perché ricordava loro tempi mi­
gliori e li costringeva a immaginare la moglie e la sorella
che in quel momento si librava leggera nel vortice delle
danze.
Per annegare il cordoglio si abbandonarono avida­
mente alle libagioni, che Jochel fornì loro senza risparmio.
Quando gli parvero abbastanza ubriachi incominciò a
stuzzicarli, a provocarne la collera, gli altri lo imitarono
e li tirarono per le code e quelli immediatamente comin­
ciarono a menar le mani, sicché ne nacque una bella
zuffa.
Subito comparvero due gendarmi che stavano aspet­
tando il momento d’intervenire, e nel giro di un quarto
d’ora i tre vagabondi, ben legati, erano su un carro che li
depositò due ore dopo, nel cuor della notte, davanti alla
torre carceraria della capitale. Ma non ebbero un cattivo
trattamento. Anzi, al mattino furono chiamati e si chiese
loro se accettavano di emigrare nel Nuovo Mondo, sotto
sorveglianza della polizia e sufficientemente riforniti di
vestiario, biancheria, denaro e documenti ; tre giorni do­
po infatti partirono per un porto di mare accompagnati
da un agente che portava denaro e passaporti, e che li
lasciò solo al momento in cui la nave levava le ancore.
Hedwig fu informata di tutto ciò che era avvenuto solo
il giorno in cui, con un bel maschietto di un anno sulle
ginocchia, espresse il timore che il bambino potesse una
volta o l’altra imbattersi nei suoi sciagurati zii o addirit­
tura fare la conoscenza del perfido Schwendtner. Allora
il marito le raccontò la dura beffa che si era permesso con
quei signori. Ella sussultò spaventata, stringendo a sé il
figlioletto come per proteggerlo contro ignoti pericoli;
ma Brandolf la rassicurò e la consolò insieme con la no­
tizia che secondo informazioni ricevute i tre compari, dopo
l’arrivo in America, come trasformati, si erano subito di­
visi. Tale risoluzione, anzi, aveva avuto un effetto straor­
dinario; presi nel turbine della vita americana ciascuno
dei tre era riuscito a mantenersi a galla per approdare poi
logo L’EPIGRAMMA

a UÎîa r?Va SÌCUra’ dove s’era stabilito. Uno era un tran­ CAPITOLO DECIMO
quillo birraio nei dintorni di New York, l’altro aveva
una scuola privata nel Texas, il terzo faceva il predicatore Il visionario
benTa SCtta reli8icsa» e tutti e tre campavano
— Il suo signor Brandolf è il modello di un nobile e
Il padre di Brandolf visse fino a ottantun anno e diceva benintenzionato conoscitore di donne ! — disse Lucia
di doverlo soltanto alla gioia che la salute e la serenità quando Reinhart nel suo racconto ebbe portato la baro­
della nuora diffondevano tutt’intorno. Così varia il rac­ nessa decaduta alla felicità e al matrimonio — ma è ben
colto secondo la natura del terreno dove un’anima viene certo che scegliendosi la sposa non sia stato un poco il
trapiantata.
trastullo del fato, o che alla fin fine sia stato scelto egli
stesso mentre credeva di scegliere?
— In che modo? — domandò Reinhart.
— È solo un’idea ! — rispose Lucia — È sicuro d’avere
descritto e reso bene tutte le circostanze, senza omettere
nulla che facesse sospettare un modesto intervento, una
piccola manovra della buona baronessa von Lohausen?
— Conosce le persone, oppure ha già udito la storia?
— Io? Per nulla affatto ! È la prima volta che, ne
sento parlare.
— Ebbene, se non conosce altra fonte, deve attenersi
alla mia redazione, che ho elaborato secondo sapere e co­
scienza. Io riaffermo che non si può scoprire fra le righe
la minima traccia di astuzia e di civetteria, e la prego, illu­
strissima signorina, di non volervi mettere nulla di quel
che io non intendevo mettervi !
— E io chiedo mille volte perdono all’illustrissimo si­
gnore se è stata offensiva la mia supposizione che alla
povera signora Hedwig potesse essere concesso un resto
di volontà propria in fatto di matrimonio !
— Oh, inclemente signorina, perché questo sdegno?
Io mi limitavo a difendere una figura femminile alla quale
l’abbandono e lo smarrimento non fanno che conferire
grazia, e servire d’ornamento al sesso!
— Naturalmente ! Così l’intendo anch’io ! — disse Lu­
cia con un’allegra risata che mosse graziosamente i suoi
riccioli — una mite agnelletta di più sul mercato ! Que­
sta volta poi si tratta anche dell’utilità di una brava mas­
saia, e bisogna confessare che lei ha esaltato il tema, quasi
come in un racconto di fate !
1092 L’EPIGRAMMA

— Via, cara Lux, — esclamò il colonnello — non es­


sere così litigiosa ! Grazie a Dio non hai bisogno di scal­
darti per queste cose, giacché hai deciso di non maritarti
e di allietare invece la mia vecchiaia ! In tale speranza,
voglio tuttavia darti man forte. La nostra libertà di scelta
e la nostra prosopopea, amico caro, non ci portano lon­
tano, e non è davvero il caso di vantarsene troppo. Io,
almeno, ho l’onore di presentarmi a lei come un vecchio
scapolo che molti anni fa fu oggetto delle meditazioni elet­
tive di una donna, e quando credette che gli bastasse al­
lungar la mano subì una così ignominiosa sconfitta che
gli passò per sempre la voglia di sposarsi. Se la volete sen­
tire, vi racconterò l’avventura, così come posso; mi sor­
ride e mi diverte narrare il fatto per la prima volta a
qualcuno avanti di morire; o meglio di redigerlo, chiac­
chierando, come s’è espresso il nostro amico Reinhart.
I giovani, ben s’intende, manifestarono una curiosità
che infatti provavano, e pregarono lo zio di procedere su­
bito alla narrazione.
II colonnello gettò ancora a Reinhart un’occhiata at­
tenta e indagatrice, poi fissò pensoso il pavimento e fa­
cendosi scorrere fra le dita i morbidi baffi d’argento in­
cominciò il suo discorso.

— Si fa presto a diventar vecchi, — egli disse — così


presto che guardando indietro alla strada percorsa si può
soltanto ricordare qualche episodio isolato, e non certo
indugiare con pentite considerazioni sulle sciocchezze
commesse. Queste infatti, nello scorcio della prospettiva,
sembrano poste così fitte una dietro l’altra come le pietre
miliari che il cavaliere della leggenda scambiò per le la­
pidi di un cimitero, passandovi accanto a precipizio sul
suo cavallo fatato. V’è tuttavia una specie di errori, falli
o mancanze in apparenza innocui e insignificanti, che
per le loro conseguenze ci rimangono dieci volte più pro­
fondamente impressi dei più gravi peccati di omissione
o di opere, e mentre questi ultimi nel nostro spirito li
abbiamo già da tempo deplorati e scontati, siamo sempre
còlti da rimorso e rovello quando i primi ci rivivono nella
II. VISIONARIO 1θ93

memoria. Si rinvia la visita a un malato, ed esso muore


senza averci detto l’ultima parola di cui avevamo biso­
gno. Con un buon amico ci siamo sempre dimostrati
servizievoli e pronti al sacrificio; ma poi gli neghiamo
un piccolo favore sul quale contava; giudichiamo in­
gratitudine l’allontanamento che ne risulta, e abbando­
niamo vigliaccamente l’uomo alla sua cattiva sorte, per
poi rimproverarcelo tutta la vita. Invece di restarcene al
tavolo di lavoro, come c’eravamo proposti, una mattina
ci precipitiamo fuori di casa, rimaniamo via tutto il giorno
e perdiamo una visita decisiva che non si ripeterà più.
Amiamo la verità, e la nascondiamo per stupido or­
goglio o anche per un accesso di scoraggiamento l’unica
volta che per noi era necessario dirla. Contro il nostro
gusto e la nostra volontà ci mostriamo un giorno pubbli­
camente a passeggio con gente di cattiva fama, e siamo
visti da una persona cara che ci toglie il suo favore ; e altre
simili calamità. S’è già parlato della città universitaria
della Germania Occidentale dove lei nacque, signor
Reinhart. Là vissi anch’io da studente, quando regnava
ancora Napoleone I e le donne portavano la cintura
all’altezza delle ascelle. Avrei dovuto studiare legge, ma
non vi dedicavo molto tempo, perché ero uno dei capo­
rioni fra gli studenti beoni e attaccabrighe, e avevo da
combinare ogni altra sorta di birbonate. Addolorato per
le sventure politiche della patria, cercavo sollievo in po­
sizioni estreme e violente, in una vita disperata ed eroica,
che alternava una romanticheria cattolicheggiante alle
più gelide elucubrazioni mentali. Un po’ ero un mistico
illuminista, un po’ un libero pensatore credente, il tutto,
beninteso, senza coltivare le cognizioni che allora si col­
legavano a tali tendenze. Di nulla m’intendevo a fondo
se non di esercizi fisici, di tirar di scherma, di cavalcare
e di bere, quest’ultimo vizio in modo non eccessivo ma
bastante a intenerirmi talvolta e rendermi più sensibile
alle sofferenze morali dell’epoca. Avevo quindi bisogno
d’un amico che senza presunzione né ironia aprisse il
cuore alle mie confidenze e mi desse il desiderato con­
forto di ragionamenti obiettivi e assennati.
1094 L’EPIGRAMMA

Lo trovai in uno studente al quale avevamo dato l’an­


tico soprannome tedesco di Mannelin,1 che gli lasceremo
per ora. In un seminario giuridico mi avevano assegnato
il posto accanto a lui e m’ero sentito attratto forse proprio
perché pareva il mio contrario, sotto ogni riguardo. Sem­
pre tranquillo, piuttosto laborioso, non era tuttavia un
guastafeste, e quantunque non tirasse di scherma, non an­
dasse a cavallo e non bevesse molto, partecipava a quasi
tutte le riunioni, considerava il mondo già da giovane fat­
to, con atteggiamento fine e cólto, ed era benvisto da tutti.
Più stretta conoscenza facemmo nell’istituto bancario
dove io ero stato presentato e dove anch’egli riscuoteva
le sue rimesse. Ogni domenica il banchiere invitava a pran­
zo qualche studente, e lì c’incontrammo una volta e con­
versammo così bene che dopo facemmo insieme una lunga
passeggiata e anche in seguito ci vedemmo spesso.
Presto diventò per me una necessità interrompere
sempre più sovente i divertimenti e le esercitazioni d’ar­
mi per andare in cerca del tranquillo compagno, che
disponeva sempre di un’ora o più, perché aveva già fatto
qualcosa prima e contava di lavorare di nuovo dopo, se
era necessario, sia che fosse giorno sia che fosse notte.
Egli sopportava con molta tolleranza la mia predile­
zione per l’inesplicabile e il soprannaturale, che io tiravo
fuori e invocavo in ogni circostanza, e difendeva senza
infervorarsi il suo modo di vedere, quello della ragione,
come uno che conosce la propria superiorità ma non vuol
farla sentire. Sotto la guida del padre era divenuto un
kantiano molto ferrato, e su quel punto non si poteva
tenergli testa. Cosa abbastanza assurda, io me ne ralle­
gravo, ed ero orgoglioso delle sue opinioni e del suo
sapere mentre li combattevo con discorsi fantastici. Ero
come chi attraversa una foresta pericolosa e si vanta
di non aver paura, ma in segreto fa assegnamento sul
buon fucile che un compagno porta con sé. Qualche volta
mi sembrava, in verità, di servire a Mannelin per uno
studio silenzioso e forse divertente: negli atenei vi sono

I Mannelin: ometto, in senso scherzosamente ammirativo.


IL VISIONARIO 1O95

sempre certi pedanti che per il denaro speso dai loro


genitori credono di dover fare tesor di tutto e s’immagi­
nano sul serio di poter insegnare a se stessi la conoscenza
della natura umana per un adeguato numero di mone­
tine da dieci. Le monetine da dieci le spendono cioè in
alcune bottiglie di vino o di birra, che è necessario ar­
rischiare, e poi le mettono in conto ai genitori nella ru­
brica: «Spese generali per la conoscenza del mondo».
Mannelin però non era uno di quei pedanti. In me gli
piaceva veramente il suo contrapposto e l’individuo in­
nocuo che ero in fondo; e se impiegava una piccola ma­
lizia, era l’arte con la quale, senza condividerle, si ri­
creava al racconto delle mie molte ricreazioni.
Quando in casa del banchiere si accorsero della no­
stra amicizia, c’invitarono sempre insieme, e presto di­
ventammo frequentatori abituali la cui comparsa, attesa
o inattesa, era sempre gradita. La diversità dei nostri
caratteri procurava anche agli altri un certo divertimento,
e più di tutti sembrava ritrarne piacere l’unica figlia,
Hildeburg. Senza approvare risolutamente il modo di
pensare dell’uno o dell’altro, ci aizzava sempre alla di­
scussione, e se non c’era un ospite di particolare riguardo
che avesse diritto alla compagnia della padroncina di
casa, ella sedeva immancabilmente a tavola fra noi due,
o almeno nelle immediate vicinanze. Quando ciò diede
lo spunto a commenti burleschi, dichiarò esplicitamente
che eravamo i suoi cari e fedeli servitori, nominò me
suo maresciallo e Mannelin suo cancelliere, e altri simili
scherzi. Una ricca ereditiera molto ricercata e intelli­
gente, o, secondo il gergo degli studenti, una ragazza
svelta, un tipo in gamba, com’era lei, non s’esponeva per
tali libertà a nessuna cattiva interpretazione.
Ciò non impediva che fossimo entrambi innamorati di
lei e che lo sapessimo l’uno dell’altro. Però non soltanto
rimanemmo in pace e buon accordo, ma la comune ammi­
razione contribuì anzi a consolidare la nostra amicizia
e ad animare piacevolmente i nostri rapporti, poiché ad
ogni modo per anni noi non potevamo pensare a pren­
dere impegni seri, e d’altronde Hildeburg ci trattava con
1096 L’EPIGRAMMA

così perfetta imparzialità che nessuno dei due veniva in­


coraggiato o disdegnato di fronte all’altro. Che cosa pen­
sasse Mannelin nel suo intimo, in verità non lo so; per
conto mio non posso negare che segretamente mi rite­
nevo predestinato, giacché la bella era bruna come me, e
Mannelin invece apparteneva al tipo biondo. Le soprac­
ciglia diritte di Hildeburg erano scure e vellutate come i
neri zibellini araldici degli antichi blasoni, e sopra la
fronte declinava la notte ricciuta di una testa alla Tito.
Be’, non voglio propinarvi una descrizione, ma debbo
aggiungere che nei giorni di festa due stelline di brillanti
scintillavano come lucciole in quella selva notturna. E
tuttavia lo sguardo attirato dal luccichio scivolava subito
giù verso il caldo splendore degli occhi neri che per lo più
lo accoglievano benignamente. Ma vatti a fidare!
Un incendio più vasto divampò proprio allora: di­
strusse la città di Mosca e bruciò a Napoleone le suole
degli stivali. Fra la gioventù studiosa corse subito la pa­
rola d’ordine: «all’armi!». Per me era disponibile un
posto in un reggimento dei dragoni imperiali; Mannelin
voleva arruolarsi modestamente nella fanteria prussiana,
ed entrambi ci preparammo alla partenza. Ma prima
pranzammo ancora una volta in casa del banchiere e
fummo trattati con la più affettuosa amicizia. La gravità
del momento non impedì che sotto il sole della speranza
fiorissero anche la giocondità e la celia, e così, mentre si
beveva alla salute dei giovani guerrieri partenti, la Hil­
deburg venne un poco burlata e le chiesero chi perdeva,
di noi due, con maggior dispiacere.
«Davvero non lo so neppur io!» ella esclamò «In
principio preferivo il cancelliere; ma da quando lo sca­
pestrato maresciallo, per opera di Mannelin, è divenuto
così costumato e amabile, vedo partire anche lui con ram­
marico ! E tuttavia non è giusto che l’altro, l’autore della
trasformazione, debba rimetterci. Che il cielo dunque mi
assista!».
Nascondeva nel modo più garbato la melanconia del­
l’addio sotto la maschera di una buffa perplessità, e alla
fine prese un dolce in forma di cuore, lo spezzò e ne diede
IL VISIONARIO ιθ97

metà a ciascuno. Io intinsi la mia nel bicchiere di vino e


la divorai subito in segno della mia fame d’amore; Man­
nelin invece serbò in mano la sua, giocherellando, finché
riuscì ad intascarla non visto.
Levata la mensa si fece una passeggiata in giardino,
per quanto lo permettevano i sentieri nella stagione in­
vernale; erano infatti i primi mesi dell’anno 1813. Non
so come accadde, ma noi due con la fanciulla ci allon­
tanammo ben presto dagli altri invitati e procedemmo
tenendola in mezzo. Ora ci sentivamo più seri e al tempo
stesso più appassionati di prima, mentre acquistavamo
più chiara coscienza della nostra profonda inclinazione
per la bella creatura; solo l’incertezza del futuro, la
probabile durata e i pericoli della guerra imminente, o
piuttosto già incominciata, impedivano che si offuscasse
la serena amicizia che ci aveva uniti finora.
Hildeburg dovette capire dal nostro silenzio e dal no­
stro respiro affannoso che eravamo commossi, e anch’essa
divenne sensibilmente più agitata. Quando ci trovammo
all’improvviso davanti a un padiglione ella spinse la por­
ta, entrò e aprì le finestre che erano rimaste chiuse tutto
l’inverno, mentre ci lanciava una rapida occhiata. La se­
guimmo nel salottino, ed ella si volse verso di noi.
«Mi trovo veramente nella condizione più triste che
mai sia toccata a una fanciulla ; perché vi amo entrambi
e non posso sciogliervi l’uno dall’altro. Tu, maresciallo,
hai inghiottito la metà del mio cuore: è una follia, ma
m’incanta; e tu, cancelliere, hai conservato l’altra metà,
anche questo è assurdo, ma è un sentimento di fedeltà
e mi rende felice. Non sarò mai moglie se non d’uno di
voi ; ma allora bisognerebbe che cadesse uno dei due !
Se cadete entrambi, o entrambi ritornate, rimarrò zi­
tella, vittima di un fatale inesorabile gioco della natura,
di un fenomeno irrazionale che devo celare al mondo per
non coprirmi di vergogna ! Ma poiché non voglio e non
posso immaginare morto nessuno di voi, vi dico addio
per sempre, miei cari fratelli!».
Dopo queste parole ci gettò le braccia al collo e ci baciò
forte sulla bocca, prima me e poi Mannelin, e di nuovo
1098 L’EPIGRAMMA

Mannelin e ancora me per ultimo. Noi stemmo lì come


caduti dal cielo, incapaci di muovere un dito. La nostra
posizione era veramente maledetta, e mai, né in pace né
in guerra, mi ritrovai in un così dannato imbroglio.
Giacché se una fanciulla onesta può, com’era accaduto
or ora, baciare in un impeto di passione due uomini
l’uno dopo l’altro, costoro invece, se amano la donna,
non saranno mai capaci di agguantarla in comune e
renderle il bacio. Del resto non avemmo tempo di riflet­
tere perché ella fuggì via, passando ci pose la mano sulla
bocca ed esclamò : « Il vostro onore v’impegna a tacere ! ».
Non era possibile fermarci più a lungo; prendemmo
congedo, e Hildeburg, come tutti gli altri, ci strinse la
mano senza nascondere le lacrime. Ce ne andammo di­
visi tra felicità e infelicità, e dopo aver presto rinunziato ai
sorrisi sforzati non pronunciammo più una parola per
un’ora almeno, pur rimanendo insieme. Non potevamo
sentirci molto su di morale; perché un conte von Glei­
chen, con due mogli, poteva essere tuttavia un buon ca­
valiere e crociato; ma due bravi compagni che sono
oggetto della comune tenerezza di una fanciulla debbono
pur sentirsi un po’ troppo bipartiti, un po’ troppo dimez­
zati, e non è da tutti essere fratelli siamesi. Tuttavia la
strana confessione di Hildeburg e il suo appassionato ab­
braccio ci avevano imprigionato il cuore e la mente, e
seguitavamo ad amare non meno di prima lo snello e leg­
giadro fenomeno di natura, tanto più che esso era in posi­
zione ancor più tragica della nostra, se le cose stavano dav­
vero come diceva.
Quel senso di tragedia ci aiutò a superare il reciproco
impaccio. Quando giungemmo al luogo di riunione, dove
un centinaio di giovani che il giorno dopo sarebbero an­
dati sotto le armi volevano ancora passare una serata in­
sieme, il nostro spirito toccò le vette del più fervido e
inebriante patriottismo e ardore guerresco. Sedevamo vi­
cini nella calca serrata; e quando verso mezzanotte si
levarono i bicchieri al grido tonante di «Morte o li­
bertà ! » Mannelin avvicinò il suo al mio bicchiere e disse :
«Se deve accadere che uno di noi resti ucciso e che l’altro
IL VISIONARIO 1O99

ottenga la donna, ebbene, alla sua salute ! Che egli viva a


lungo e che sia felice ! ».
Non meno patetico, brindai anch’io facendo tintinna­
re i cristalli, ed esclamai : «E pace al morto ! ».
Così ci separammo da valorosi amici e poche ore dopo
partimmo in direzioni diverse, senza aver preso accordi
per l’avvenire. Come le fortune della guerra, volevamo
abbandonare al destino anche la nostra bizzarra storia
d’amore.
Mannelin ebbe miglior sorte della mia; mentre io do­
vetti indugiare sotto le titubanti bandiere austriache, il
biondo flemmatico si scagliava già col suo moschetto di
battaglia in battaglia; solo sui campi di Lipsia io entrai
nel ballo, e respirammo lo stesso odore di polvere, ma
senza incontrarci né sapere nulla l’uno dell’altro.
Non posso ora descrivere tutto il corso della poderosa
campagna. Neanche a Parigi ritrovai l’amico, sebbene vi
avessimo fatto il nostro ingresso quasi allo stesso tempo.
Già promosso tenente, egli era stato gravemente ferito,
si può dire sul selciato della città; e quando ne cercai le
tracce era ricoverato, irraggiungibile, in un lontano ospe­
dale da campo. Quando continuai le ricerche, mi disse­
ro perfino che doveva essere già morto, e allora mi ripu­
gnò accertarmi della sua morte, per non lasciare prevale­
re in me il nudo egoismo nei luoghi sacri della lotta e della
vittoria. Infatti, da quando erano cessati i conflitti e sven­
tolavano le palme della pace, il pensiero di quell’amore
stregato aveva ripreso forza, e io volli di proposito re­
stare nell’ignoranza del destino di Mannelin per non
esser tentato di presentarmi subito in veste di creditore
davanti alla bella fanciulla, alla cui promessa di sposare
il superstite credevo fermamente.
Nel mese di maggio dell’anno 1814, mentre la lunga
vallata del Reno fioriva come un solo cespuglio di lilla, il
nostro reggimento attraversò il fiume, diretto verso orien­
te; ma ricevette l’ordine di arrestarsi nella regione renana
per aspettare gli eventi; e infatti più tardi fummo man­
dati in Lombardia. 11 mio squadrone sostò per l’appunto
nella nostra buona vecchia città universitaria. Con «piali
1 lOO L’EPIGRAMMA

pensieri vidi collocare i cavalli nella scuderia e nel ma­


neggio dove lo studente aveva così spesso caracollato ! E
quando occupai il mio quartiere nella locanda dove venti
mesi prima avevo vuotato tante bottiglie, l’oste e la ser­
vitù si meravigliarono molto della mia gravità soldatesca.
Ma anch’io ebbi la mia sorpresa quando, avendo chie­
sto informazioni, seppi che la famiglia del banchiere non
si trovava in città, bensì in una villa distante un miglio
all’incirca. Un emigrante francese, che aveva comprato
quella villa vent’anni prima, l’aveva messa in vendita ap­
pena in Francia era stato rovesciato l’ordine delle cose;
e il banchiere aveva còlto l’occasione di un acquisto cosìfa-
cile e a buon mercato, come capita in tempo di guerra e
di rivolgimenti a chi dispone di denaro liquido.
Perciò non mi fu possibile presentarmi il giorno stesso
dell’arrivo, ma il mattino seguente partii tanto più di
buon’ora a cavallo, accompagnato dal mio palafreniere.
Cadeva una pioggia leggera, perciò alzai il bavero del
bianco mantello da cavaliere e mi calai un po’ più sugli
occhi il berretto con la visiera, mentre cavalcavo per un
lungo viale verso il vecchio edificio a mo’ di castello, che
sembrava abbastanza malconcio. Dovettero credermi uno
dei soliti ufficiali con biglietto d’alloggio, tanto più che la
cavalleria austriaca era già apparsa nei dintorni.
Perciò un solo domestico uscì sulla porta ad accoglier­
mi e mi chiese che cosa desideravo. Invece di rispondergli
saltai giù da cavallo, diedi la briglia all’attendente ed
entrai nel vestibolo della casa, una sala solenne, adesso
un po’ deteriorata. Solo quando gli diedi il mantello il
servo mi riconobbe nonostante l’aspetto diverso che la
guerra mi aveva dato, e con lieta sorpresa m’introdusse
in un salone dove il padrone e la padrona di casa legge­
vano i giornali. Anch’essi non mi riconobbero subito, ma
appena ciò avvenne, s’alzarono con viva gioia e mi die­
dero il benvenuto. «Che cosa dirà Hildeburg» esclama­
rono «quando saprà che il maresciallo è tornato? E dov’è
il cancelliere? Non ne sa nulla? Quante volte abbiamo
parlato dei nostri due amici ! ».
Prima che potessi rispondere entrò Hildeburg, l’unica
IL VISIONARIO 1 1 01

che, stando alla finestra, mi aveva subito riconosciuto ap­


pena, lasciato lo stradone, ero svoltato nel viale.
Non dimenticherò mai la visione che mi venne incon­
tro. Come un panno lavato era bianco il suo volto, gli
occhi atterriti e trasognati e sulla bocca tuttavia un sor­
riso di saluto che veniva dal cuore; pallida angoscia e
gioioso rossore che s’alternarono per qualche minuto;
non v’era dubbio, ella riteneva morto il povero Mannelin
e pensava che io fossi venuto per far valere il mio diritto !
Per fortuna i genitori erano avvezzi agli umori più
strani, se no avrebbero dovuto capire la sua vera disposi­
zione d’animo, specialmente quando fui costretto a dire
tutto quel che sapevo di Mannelin, poco cioè, e abba­
stanza inquietante. Il padre osservò che c’era da sperare
che fosse vivo, altrimenti l’uno o l’altro dei giovani vo­
lontari tornati alle aule nelle ultime settimane avrebbero
portato la notizia precisa della sua morte. Anche negli
elenchi dei caduti, ch’egli aveva guardato abbastanza
attentamente, non aveva visto il suo nome come non
aveva visto il mio.
Ma Hildeburg, un quarto d’ora dopo, accompagnan­
domi attraverso una fuga di stanze per mostrarmi la casa
che doveva essere restaurata e ammobiliata a nuovo, s’ar­
restò di colpo e disse in tono di sommesso lamento: «È
vero, è fin troppo vero ! Il mio caro, intelligente Mannelin
è sepolto in Francia sotto l’erba verde; gli hanno sparato
nel petto, hanno spento i suoi fedeli occhi azzurri ! E tu,
maresciallo, sei venuto apposta per dirmelo ! ».
Mi guardava intanto con occhi profondi, fiammeggian­
ti, che potevano ardere tanto di odio quanto d’amore.
Perché sulle labbra esangui non v’era adesso che amaro
dolore. Non osai ricambiare il «tu» che m’aveva rivolto:
era cosi imperioso, quasi come quando il padrone parla
col servo o l’ufficiale col soldato.
«No, signorina Hildeburg!» dissi facendo un passo
indietro, ma con timido rispetto, perché appariva così
strana, quasi come invasata «Io non so nulla, e spero
ch’egli sia vivo!».
«Al diavolo, che non lo speri affatto!» gridò lei con
1102 L’EPIGRAMMA

occhi che gettavano lampi, e ruppe in una risata stridula,


mentre la coscienza mi rimordeva. Poiché in quel mo­
mento mi sembrò di non aver fatto abbastanza per cono­
scere il destino di Mannelin e al tempo stesso mi sentivo
lacerare da una gelosia infocata verso l’assente che era
pianto con tanta passione. Evidentemente Hildeburg lo
amava più di me, anzi ormai non amava che lui. In quel­
l’angoscia trassi involontariamente un profondo sospiro,
e allora Hildeburg mi prese la mano e disse con voce di­
versa: «Venga, e non parliamone più, per ora!».
Placata ritornò con me nella sala, dove venne servito
un rinfresco, e quando verso sera ritornai in città mi porse
la mano cordialmente e disse che sperava di vedermi spes­
so, finché il reggimento restava nella regione. Poiché il
tempo era per lo più buono, trovai pretesto quasi ogni
giorno per ripetere la cavalcata e, se non mi facevo vedere,
Hildebürg mi chiedeva subito, il giorno dopo: «Perché
non è venuto ieri?». Sembrava di nuovo portarmi affetto,
e un giorno mi avvolgeva in una tenera occhiata, un altro
giorno mi sfiorava con una breve carezza, insomma mi
beava con i piccoli segni per cui un innamorato s’abitua
al pensiero di una futura vita in comune. Ma poi restava
chiusa in sé per intere giornate, e indugiava visibilmente
lontana coi suoi cupi pensieri. La mia condizione quindi
era sospesa fra la luce e le tenebre, tanto che io desideravo
con impazienza una soluzione. In fin dei conti non s’ad­
diceva molto a un giovane dragone, che viveva da un pez­
zo con la spada in mano e che era passato attraverso laghi
di sangue, languire per una donna non più grossa di
una conocchia, anche se altrettanto ben tornita.
In un bel pomeriggio, mentre cavalcavo verso la villa,
e nel lungo viale di olmi, preso da improvviso malumore,
avevo spinto senza accorgermene il cavallo a un galoppo
impetuoso, mi si affrettò incontro una coppia giuliva:
Hildeburg che teneva per mano un ufficiale prussiano di
fanteria, oppure il mio amico Mannelin che conduceva
per mano la signorina Hildeburg : nella sorpresa non po­
tei accertare quale dei due conducesse l’altro. Il mio pri­
mo sentimento fu di gioia per l’insperato ritorno, il se­
IL· VISIONARIO IIO3

condo di soddisfazione per il ristabilimento delle rela­


zioni di prima fra noi tre, che, almeno per il momento,
fugavano i dubbi tormentosi. Anche Hildeburg provava
qualcosa di simile, perché esclamò : «Adesso va tutto bene,
eccoci di nuovo riuniti ! ».
Mannelin poi era manifestamente felice della condi­
zione in cui ci aveva trovati, perché, sapendo di essere
stato dato erroneamente per morto, aveva avuto paura di
arrivare troppo tardi. La ferita che l’aveva colpito non
era insanabile, e ormai era discretamente rimarginata ; gli
avevano dato però una licenza di sei mesi perché potesse
guarire del tutto. Già rifornito di libri, era in viaggio per
un luogo dove si facevano cure termali, e s’era concesso
una breve sosta nella nostra città universitaria. Solo
quella mattina, in casa del banchiere, aveva saputo che
anch’io ero nel paese. Il servizio di guerra aveva molto
migliorato l’aspetto di Mannelin. Senza essere proprio
marziale, aveva ora un portamento più saldo. La peluria
bionda e leggera sulle guance e sul labbro aveva ora, per
la gravità che i casi e gli eventi gli avevano impresso
sugli occhi e intorno alla bocca, un risalto maggiore di
prima; e le esperienze militari di cui s’era arricchito si
combinavano splendidamente con il suo spirito scientifico'.
Ma sebbene avesse partecipato a importantissimi fatti di
guerra e affrontato più battaglie e più pericoli di me, non
ne parlava mai e, se non lo si fosse attirato senza suo vo­
lere nei discorsi del giorno, si sarebbe potuto credere che
non avesse mai messo il naso fuori del suo studio.
Questo modo di fare conferiva all’amabile taciturno
una nuova aureola, e fu utile anche a me; un giorno in­
fatti, dopo avere animatamente parlato di bòtte e spara­
torie, nel silenzio che seguì mi accorsi d’improvviso come
dovevo essere sembrato vanesio di fronte a lui; cercai,
umiliato, di correggermi e di tanto in tanto riuscivo a
essere più modesto. Ma poi, essendo rimasto soldato di
professione, dovetti di nuovo abituarmi a urlare.
Così passammo ancora una serie di giornate piacevoli
e serene, finché giunse, previsto ma indesiderato, l’ordine
di partenza per il mio reggimento; anzi bisognava met-
1104 L’EPIGRAMMA

tersi in marcia dopo soli sei giorni. Da quell’istante il con­


tegno di Hildeburg mutò. Ora inquieta e distratta, ora
chiusa in sé e oppressa da meditazioni angosciose, cam­
biava a ogni istante d’umore e, come se lo sapesse anche
troppo, sfuggiva per lo più la compagnia, la quale diven­
tava sempre più numerosa, man mano che il giardino
invitava a più gradevoli soggiorni all’aperto. Riflettendo
al nuovo strano comportamento della fanciulla, mi sen­
tivo portato a interpretarlo a mio favore e a credere che
forse il turno di brillare ed essere rimpianto come assente
o addirittura perduto toccava adesso alla mia riverita
persona. Mi chiesi come mi conveniva agire : lasciare con
dignità che le cose si svolgessero secondo l’accordo e sgom­
brare fiduciosamente il campo al rivale, oppure sfruttare il
vantaggio e con il peso della nuova situazione dare all’ago
della bilancia un colpo leggero ma improvviso?
Hildeburg stessa parve venirmi incontro ; indusse i ge­
nitori a offrirmi un pranzo d’addio, e nell’invitarmi mi
chiese di passare la notte alla villa. Anche se l’arreda­
mento era manchevole ci sarebbe stato un letto per me,
ella disse, e dei fantasmi certo non mi sarei dato pensiero.
Si diceva infatti che nell’ala più antica della casa vi fosse
qualcosa di misterioso.
Infatti la servitù aveva sentito i racconti di un vec­
chio giardiniere e li aveva integrati con osservazioni che
credeva di aver fatto per conto proprio. Durante il pran­
zo, ricco e animato, il discorso cadde anche su quell’ar­
gomento. La vecchia signora si lamentò di voci inquietan­
ti che non potevano avere un fondamento ragionevole; e
il banchiere era dell’opinione che l’aria e la luce e gli in­
tonachi freschi dei lavori in programma avrebbero scac­
ciato gli spettri. Io invece fui punto dal capriccio di di­
fendere nuovamente le manifestazioni occulte e i segreti
dell’aldilà, e recitai la parte del grave guerriero che sui
campi di battaglia notturni e nell’alternativa fra la vita e
la morte ha imparato a non farsi più gioco dell’inespli­
cabile.
Mannelin, che fino allora non aveva trovato il discorso
degno del suo interessamento, mi guardò meravigliato e
IL VISIONARIO IIO5

ridendo di cuore mi chiese se volevo entrare in comunica­


zione con gli spiriti. Irritato, risposi recisamente di si, che
avrei reputato una fortuna poter scorgere già in questo un
pezzetto dell’altro mondo; nel contempo affermai però,
non senza protervia, di voler guardare le cose in faccia
e scoprir quel che c’era sotto, se si presentavano diverse.
«E di che cosa si tratta precisamente nel nostro caso?»
chiesi per concludere le mie vanterie.
«A quanto pare, di uno spirito folletto chiamato la
vecchia Kratt» disse Hildeburg, un po’ intimidita dal mio
discorso, come temendo che in fondo potesse esserci qual­
cosa di vero. Ottant’anni prima la tenuta apparteneva ai
baroni Kratt, e ciò era documentato; ma altro non risul­
tava, se non che solo di rado e in determinate notti «ci
si sentiva».
Poiché la madre di Hildeburg cominciava a fare un viso
spaventato, e soprattutto indispettito per la macchia che
ne veniva al suo possedimento, e l’amico Mannelin si mo­
strava di nuovo indifferente al discorso, lo lasciammo ca­
dere e non ci ritornammo più. Io avevo portato con me
due camerati, allegri danubiani che assaporavano con
gusto la bella vita in circoli privati dopo i lunghi pati­
menti, e il resto della giornata passò molto allegramente.
A sera, quando anche gli altri invitati andarono via, e i
due austriaci fecero chiamare la carrozza nella quale
eravamo venuti tutti e tre, mi chiesi per un momento se
non era meglio tornare in città con loro, giacché ero
molto occupato per la prossima partenza e volevo fare i
miei preparativi a puntino. Bastava prendere sciabola ed
elmo e congedarsi in fretta, fino al giorno seguente. Ma
Hildeburg era con noi sulla gradinata e disse tranquilla :
« Credevo che domattina avrebbe fatto ancora colazione
con noi in giardino ; ma non voglio trattenerla, se non è
possibile. Ad ogni modo la sua camera è già preparata».
Naturalmente rimasi; i due austriaci baciarono la mano
alla signorina, balzarono in carrozza e partirono come
sparati da un cannone, mentre io e Hildeburg ritorna­
vamo in casa seguendo il domestico che portava la lam­
pada; io con un gran batticuore per la dolce decisione che
1 ιο6 L’EPIGRAMMA

mi credevo in diritto di sperare. Ma Hildeburg si ritirò


presto e io finii la serata bevendo in compagnia di Man-
nelin e del padre di Hildeburg parecchi bicchieri di un
punch molto forte che le signore avevano fatto preparare.
Poi chiacchierai ancora un quarto d’ora con Mannelin
in camera sua, e finalmente seguii parecchio assonnato il
servitore che mi accompagnò alla stanza dov’era pronto
il mio letto. Avevo dimenticato quasi tutti i discorsi in­
quietanti di qualche ora prima, e volsi appena un’oc­
chiata distratta alla camera dove mi trovavo. Mi parve
molto ampia ma bassa, pareti e soffitto rivestiti di tavole
e listelli di legno. Qua e là lungo i muri un vecchio seg­
giolone imbottito, e in un angolo un antico letto a bal­
dacchino con tende scure ai quattro lati. Vicino al letto
c’era un tavolo con la bottiglia dell’acqua, e il servo vi
depose sopra il doppiere prima di ritirarsi ; non si vedeva
altro, tranne un’antica scrivania con alzata nell’angolo
diagonalmente opposto al letto. Accanto alla scrivania
una delle finestre lasciava entrare un fioco chiarore di
luna, e ne scorsi ancora il pallido riflesso sulla vernice
opaca dei vecchi mobili. Quando posai l’orologio sul ta­
volo vidi che erano le undici e mezzo. Ciò mi ricondusse
alla mente la storia dei fantasmi; ma poiché in quel
momento preferivo il sonno alle avventure, mi affidai
senza pensieri al buon senso di Mannelin, spensi le candele
e senza svestirmi del tutto mi coricai nel letto, che era
eccellente. Dopo tre minuti dormivo sodo ; credo che non
rivolsi neanche più un pensiero all’amata Hildeburg, ma
non lo posso garantire. La mia leggerezza quella volta
mi mandò a finir male.
Avevo dormito forse mezz’ora quando fui svegliato
da un colpo o tonfo terribile, che doveva venire dal centro
della camera. Spalancai gli occhi, e un po’ stordito da­
gli spiriti bruscamente riscossi del liquore bevuto, dal
sonno e dalla sorpresa cercai di capire che cosa potessi
aver udito. Pensai che un oggetto pesante fosse precipitato
fuori o dentro la stanza, oppure che nella casa malandata
si fosse rotto qualcosa, di sopra o di sotto. Prevalse, però,
l’impressione che il colpo fosse avvenuto vicino. Guardai
IL VISIONARIO 1107

e ascoltai, ma non s’udiva e non si vedeva nulla, solo quel


sinistro raggio di luna sulla scrivania scura. A un tratto
qualcosa fruscia e gratta dietro i pannelli di legno, proprio
vicino al mio letto. Mi giro di botto, con gli occhi sbar­
rati : lo scherzo va un po’ troppo oltre ! E mentre cerco di
vedere, una corrente d’aria gelida mi colpisce in faccia,
le tende del letto svolazzano in qua e in là, e improvvi­
samente la coperta mi viene strappata di dosso.
« Poffarbacco ! » esclamo costernato, e mi alzo a se­
dere, ormai perfettamente sveglio «Ci sono davvero gli
spiriti». Calai le gambe dal letto e vi rimasi seduto; di
più non potevo fare, perché l’ignoto, pur manifestandosi
in modo scherzoso, mi paralizzava le membra. Appunto
il carattere burlesco mi spaventava, col suo umorismo in­
fernale. All’improvviso le tende s’agitano di nuovo, il
soffio gelato mi percuote il lato sinistro del viso e la nuca.
E mentre sono scosso da brividi odo dietro di me, come
attraverso la parete, uno strascicare di passi, una voce
sottile e tremula di donna geme qualcosa d’incomprensi-
bile, io tendo l’orecchio con nuova paura ed ecco a un
passo da me sta una grigia figura femminile, curva, e
con una incolore mantiglia di velo in capo. Dev’essere sbu­
cata fuori dalla parete, dietro il mio letto. Si ferma solo
un attimo a prender fiato; perché boccheggia come una
vecchia asmatica che sia andata a lungo su e giù per scale
e corridoi. Poi si trascina ciabattando dall’altra parte
della stanza e si ferma davanti alla scrivania. Con mano
cadaverica tasta il vecchio mobile, pare che cerchi la ser­
ratura; vedo agitarsi le dita ossute, divaricate. SI, tira
fuori un mazzo di piccole chiavi, ne sceglie una, la infila
nella serratura e apre la ribalta. Subito toglie con piglio
sicuro uno dei molti cassettini dell’interno, guarda nell’a­
pertura vuota, v’introduce la mano. Sento girare un’al­
tra chiave, e la figura estrae un secondo cassettino se­
greto, dal quale prende ratta un pacchetto, lo slega e spie­
ga una carta che ne contiene un’altra e spiega anche
quella. Tutto questo lo scorgo nella mezza luce lunare,
che entra dalla finestra. E poi vedo chiaramente la vec­
chia aprire un altro cassetto e trarne qualcosa che dev’es­
1 ιο8 L’EPIGRAMMA

sere un raschietto per cancellare; perché ella si curva più


ancora sul foglio spiegato, che è un grande in sesto, e leg­
ge, legge, dopo aver inforcato gli occhiali, un autentico
stringinaso ! Adesso il fantasma punta il dito su un passo
e incomincia a cancellare. Sebbene mi volti la schiena, ri­
conosco ogni movimento. Il lavoro la fa ansimare più
forte, in respiri affannosi che sembrano grattare e incal­
zarsi nella sua gola come spiriti maligni; soffia via ciò
che ha raschiato, tossisce come un vecchio notaro tisico,
passa il dito sul punto cancellato e ricomincia a raschiare.
Finalmente il lavoro sembra compiuto; una risata breve,
roca, abietta, «hi, hi, hi», mi entra nel midollo delle os­
sa, e senza potermi muovere, penso tuttavia: “Qui in
tempi remoti è stato falsificato un contratto, calpestato
un diritto di nascita, carpita un’eredità, distrutta la fe­
licità di una vita !”.
Il raschietto viene rimesso nel posto dov’è stato preso,
con la storica naturalezza di quelle diaboliche appari­
zioni, la carta o documento accuratamente piegato, rifat­
to il pacco, i cassetti richiusi l’uno dopo l’altro, ab­
bassata la ribalta e serrata con la chiave. Improvvisa­
mente la figura si volta e strascicando i piedi arriva dove
io seggo immobile, si ferma davanti a me e mi guarda.
Mai dimenticherò quell’infame volto di strega, anche se
la luna lo sfiorava soltanto di scorcio, e la maggior parte
era in ombra. Naso, mento, bocca, era tutto un ghigno,
quasi impresso in una cera molle da maschera mortuaria,
pieno di sarcasmo e di rancore, come la fiamma cupa
degli occhi, che pure non si distinguevano bene. M’ero
trovato sotto il fuoco a mitraglia dei combattimenti, ma
era uno zefiro primaverile in confronto al raccapriccio che
mi correva per le ossa. Che cosa avevo da spartire con
quella maledetta creatura alla quale non avevo fatto
nulla? Dove andava a finire la ragione in questo mondo,
se un ragazzo onesto e coraggioso doveva star lì senza for­
za e senza difesa davanti a quel mostro incorporeo e al
minimo gesto perdere forse per lo spavento la salute e la
vita? Tali confusi pensieri mi balenavano alla mente
mentre lo spettro mi guardava; sentivo che i capelli mi
IL VISIONARIO Ilog

stavano ritti sul capo, il respiro mi mancava, e, come op­


presso da un incubo potei solo gridare: «La vecchia
Kratt !» prima di perdere per un momento la vista e la
coscienza. Un minuto dopo la strega era sparita. Natural­
mente, per coronare la sinistra visione, l’orologio di un
campanile lontano batté la prima ora dopo mezzanotte.
Svanita l’eco di quel rintocco benefico osai finalmente
muovermi e volli accendere la luce. Il doppiere era lì,
ma non trovai l’acciarino; non mi rimase che rimettermi
a letto, e nel far cosi ritrovai la coperta che era caduta a
terra. Me la rimisi sopra e, appena ritrovatomi in posi­
zione orizzontale, e visto che non accadeva più nulla
di sospetto, mi addormentai per svegliarmi quand’era
ormai giorno fatto. Solo allora feci qualche ricerca. La
porta, l’unica che metteva nella camera, era ancora chiu­
sa dall’interno, e per di più era tirato il chiavistello di
foggia antiquata posto al disopra della serratura. Di
giorno la scrivania sembrava un mobile assolutamente
innocuo. Sulla ribalta un intarsio di legni variopinti rap­
presentava un paesaggio. Da un lago emergeva un’isola
con un castello, e sull’acqua due signori in barca con lun­
ghe parrucche e pìccoli tricomi sparavano alle anitre. In
primo piano c’erano i ruderi di un tempietto, e un terzo
signore con un bastone che passeggiava meditabondo; il
tutto era idillico e innocente al massimo grado, ma quello
che mi stupì più di ogni altra cosa fu la chiave tranquilla­
mente infilata nella serratura, mentre io avevo udito be­
nissimo il tintinnio del mazzo, e lo spettro che girava la
chiave e poi la ritirava. Sollevai la ribalta ed esaminai
i cassetti l’uno dopo l’altro, ma erano tutti vuoti, non
c’erano raschietti né nulla. Anche il cassetto segreto era
munito della sua chiave, ed era vuoto pur esso; eppure
io avevo visto il plico e i documenti.
Non mi restavano più da esplorare che le vicinanze del
letto. La testiera era scostata di una buona spanna dal
muro, così che fra la tenda e la parete qualcuno che non
fosse troppo grasso poteva sforzarsi di passare. Ma quan­
do ebbi spostato con fatica la pesante lettiera trovai gli
stessi pannelli che rivestivano dappertutto le pareti e
1 no L’EPIGRAMMA

anche il soffitto. Neppure del tonfo che m’aveva svegliato


potei scoprire la causa.
Tanto più profondamente permaneva in me l’impres-
sione di ciò che avevo veduto; la parte comica e repellente
della visione impallidiva davanti al pensiero dell’irrequie­
tezza senza fine d’una sostanza psichica la quale, quando
la villa fosse già stata da un pezzo cancellata dalla faccia
della terra, avrebbe continuato a ricostruirla con l’antica
stanza e con la scrivania dov’eran riposte le carte delit­
tuose, e ci sarebbero sempre state le chiavi e il raschietto,
sebbene ormai distrutti dalla ruggine. Meditai a lungo su
quella terribile esistenza e sopravvivenza unicamente
immaginaria, la cui reale natura sarebbe divenuta un
giorno a ognuno di noi spaventosamente chiara, e poiché
in tutta la guerra la morte m’era stata per così dire a
fianco, meditai anche su me stesso, sulla mia spensie­
ratezza e sugli errori che potevo aver commesso. Solo
ora, che non avevo più scelta, calò su di me l’ombra cupa
del soprannaturale e dell’altra vita, e sentii come il biso­
gno di una guida spirituale, mentre cingevo la sciabola
e scendevo in cerca della compagnia, riunita sotto una
pergola a far colazione.
Stavano parlando appunto del tonfo notturno che si
era udito in tutta la casa, e poiché io m’avvicinai con aria
aggrondata e sulle prime non aprii bocca, crebbero la sor­
presa e la perplessità. Richiesto se non avevo sentito
anch’io, risposi di sì senza aggiungere altro, giacché non
volevo spaventare la famiglia e preferivo lasciare al tempo
c ai fantasmi stessi di rendere note ai padroni le strane
cose che avvenivano nella loro casa. Solo mentre pas­
seggiavo ancora un po’ su e giù con Hildeburg e Mannelin
prima di andar via, ed ella mi chiese:
«Che cos’ha? Perché è così serio e taciturno?» risposi
mio malgrado:
« Che cosa vuole che abbia? Ho visto la vecchia Kratt ! ».
«E le ha parlato?».
Lo disse con una risata schietta, come quando si in­
terpreta una frase come uno scherzo. Però mi osservava
con profonda attenzione. Tanto più che Mannelin mi
IL VISIONARIO 1111

guardava stupito e io non mi sentivo disposto a discutere


con lui. Il cocchiere era pronto a condurmi in città, e io
mi congedai con la promessa di ritornare l’indomani
per l’ultima volta ; partii col cuore niente affatto leggero.
La visita del fantasma, la separazione dalla deliziosa fan­
ciulla, l’incertezza del futuro, e anche il fatto che Man­
nelin restava solo con Hildeburg, tutto contribuiva a
rendere cupi i miei pensieri.
E ora terminerò il racconto nel suo ordine cronologico.
Dopo la mia partenza Hildeburg e Mannelin continua­
rono la passeggiata in giardino, e solo allora l’amico
espresse la sua inquietudine mista a contrarietà per lo
stato della mia salute fisica e mentale, giacché gli ero par­
so tormentato non soltanto da angoscia ma da autentiche
allucinazioni. Sarebbe stato un peccato se avessi conti­
nuato o addirittura progredito in quella condizione mor­
bosa ed egli si chiedeva se non dovesse spingermi a chie­
dere una licenza e ad accompagnarlo a passare le acque.
Probabilmente le vicende di guerra non avevano giovato
al mio carattere instabile, e altre considerazioni analoghe.
Hildeburg gli chiese, pensosa, se era così sicuro che
fosse soltanto illusione quello che io affermavo di aver
veduto. Da parte sua ella temeva, pur contro ogni ragio­
nevolezza, che certe cose fossero possibili, e nel caso pre­
sente era preoccupata soprattutto per i genitori, come
pure per gli altri parenti e per gii amici, ai quali il vivere
in un edificio con quella cattiva fama non avrebbe più
procurato alcun piacere. In tali circostanze, non pareva
neanche più consigliabile intraprendere i restauri pro­
gettati, eccetera, eccetera. Mannelin guardò allora l’in-
terlocutrice con aria tanto allarmata quanto affettuosa.
Era addolorato che fosse capace di credere a simili as­
surdità. Ella gli lesse la pena negli occhi e forse lo rin­
graziò con lo sguardo; ma insistè nel suo dubbio e disse
dopo aver riflettuto:
«Devo almeno sapere se ad altri può toccare nella
vecchia stanza un’eguale avventura, o se è solo il nostro
amico che ha delle allucinazioni. Dirò a Johann di pas­
sarvi una notte».
1112 L’EPIGRAMMA

«Il vecchio Johann» disse Mannelin «vedrà natural­


mente tutti gli spiriti possibili e immaginabili ! Se vuole
un ragguaglio sicuro, faccia preparare la camera per me.
Mi sottoporrò in nome di Dio a questa bizzarra espe­
rienza, se davvero deve succedere qualche cosa».
«Lei?» esclamò Hildeburg «No, non glielo permet­
to. Le voglio troppo bene. Se nella faccenda vi fosse qual­
cosa di vero, l’impressione su di lei potrebbe essere ancora
più forte che sul nostro amico, e nuocerle gravemente ! ».
Mannelin però non cedette, e verso le undici, quando
tutti andarono a dormire, si fece accompagnare alla ca­
mera dove io avevo passato l’ultima notte.
«Non vuole tenersi almeno la daga e le pistole?» chiese
il servitore che aveva trasportato il necessario dall’altra
stanza, e che era informato dell’esperimento.
«No!» rispose Mannelin «contro gli spiriti le armi
non servirebbero a niente, e se qualche persona viva si
permette uno scherzo non è il caso di spargere sangue ! ».
Basta, il mio Mannelin si trovò infine, come me, nella
lugubre stanza. Andò in giro illuminandone ogni angolo,
mise il chiavistello alla porta e si coricò mezzo vestito,
dopo avere avvicinato il tavolino al letto. Poi lesse per
un’ora o più, finché al campanile scoccò la mezzanotte.
Allora chiuse il libro e stette ancora un po’ in ascolto, con
gli occhi aperti. Ma tutto rimaneva cheto, ed egli comin­
ciava ad annoiarsi : spense la luce, si mise su un fianco e
si addormentò. Dormiva da pochi minuti quando vi fu,
non un tonfo come la notte prima, ma un picchiare fitto
alla parete dietro il suo capo e una voce di vecchia disse
chiaramente: «Ehi, ehi!», la corrente d’aria fredda lo
investi, le tende volarono, la coltre gli fu strappata. E
mentre Mannelin almanaccava, restando però coricato e
tranquillo come se non gli fosse accaduto niente, ecco
già in mezzo alla camera la vecchia Kratt, che arrancava
verso la finestra, dove stava la scrivania e la luna brillava
come ieri. Adesso egli era abbastanza stupito, e il cuore
gli batteva notevolmente, perché ignorava il carattere e la
portata dell’avventura. Ma come il cacciatore che sor­
preso da un animale prepara subito il fucile, Mannelin
IL VISIONARIO m3

ordinò rapidamente i suoi pensieri in una piccola fila,


come se fossero agenti di polizia, e si mise alla loro testa.
Senza muoversi seguì attentamente con gli occhi l’appa­
rizione e la vide tastare la scrivania e aprire la ribalta, in
breve fare tutto ciò che avevo veduto io. Mentre la strega
cancellava lo scritto, Mannelin si alzò piano piano, le
andò accanto, scalzo, senza far rumore, e si fermò alle
sue spalle. L’orribile donnetta gobba grattava, cancellava,
ansimava, tossiva, soffiava via la polvere, insomma si
dava da fare più del diavolo, e Mannelin in silenzio guar­
dava al di sopra delle sue spalle, finché la vecchia ebbe
finito e ruppe nella sua roca, beffarda risata. Allora egli
disse improvvisamente:
«Ebbene, Nonnina, che cosa combiniamo?».
Come un serpente la strega si rivoltò e gli stette di
fronte, di tutta la testa più alta di prima. Lo fissò con quel
suo spaventevole volto; ma già egli le aveva messo la ma­
no sulla spalla e di colpo la prese alla cintola, per averla
in suo potere e tirarle via la mantiglia. Sentì un corpo
serpentino, ma molto caldo di vita, e poiché ella si torceva
nelle sue braccia e avvicinava quel suo mostruoso volto
cadaverico, egli afferrò impavido il naso che riluceva al
chiaro di luna, e gli rimase in mano una maschera di cera
mentre il visetto fine di Hildeburg lo guardava sorridendo.
Ahimè, egli la baciò subito parecchie volte e in parecchi
punti, finalmente si concentrò sulla bocca, la quale aveva
appena mormorato un ruvido: «Caro ragazzo!». Infine
sedettero su un seggiolone, vale a dire Mannelin vi si
sedette, e Hildeburg sulle sue ginocchia. Non voglio in­
dagare se non sarebbe stato più corretto tirare avanti un
altro sedile; la bizzarria dell’avventura e la quiete not­
turna possono servire di scusa; intendo solamente aggra­
vare il fatto del mio supplizio : tutto ciò sarebbe stato mio
se la notte prima avessi posseduto il semplice buon senso
di quel maledetto posapiano. Perché annidata fra le sue
braccia Hildeburg gli spiegò i propri maneggi. Da quan­
do le eravamo di nuovo ambedue vicini, ella non sop­
portava più la sua condizione, né voleva ritornare senz’al­
tro alla rinunzia di prima, e, poiché aveva riconosciuto
1114 L’EPIGRAMMA

nel suo disgraziato amore simultaneo una malattia inde­


gna, era risoluta a guarirne con una scelta forzata. L’idea
dell’attuazione le era venuta improvvisa dalle chiacchiere
intorno ai fantasmi. A quello di noi che avrebbe dimo­
strato maggior coraggio davanti all’apparizione inten­
deva arrendersi, e lasciar libero l’altro; poiché d’averci
conquistati entrambi era ben sicura.
Ormai l’imbroglio s’era risolto come noi tutti non po­
tevamo desiderare meglio. Io, il dragone, avevo mancato,
nel momento giusto, del divino raziocinio, Mannelin gli
era rimasto fedele senza titubare, e perciò ella offriva a
lui il cuore e la mano ; lasciatemi dire di nuovo eccetera
eccetera per abbreviare, anche dopo tanti anni, l’insop­
portabile tormento. Nella notte stessa s’accordarono di
fidanzarsi segretamente finché non giungesse per Man­
nelin il momento di chiederla in sposa ai genitori.
Queste belle novità mi vennero solennemente spiegate
il giorno dopo durante la mia ultima visita, in una riu­
nione riservata di noi tre. Con un presentimento nel cuore
avevo scelto il cavallo più veloce, così potei, al ritorno,
galopparmene via come il vento. Ma prima dovetti rifare
con la coppia tutta la via percorsa da Hildeburg in veste
di spettro. Non starò a descrivere minuziosamente con
quanta astuzia aveva architettato il tiro, come aveva
semplicemente provocato il tonfo rovesciando con una
leva un vecchio armadio sgangherato che stava in soffitta
proprio al di sopra della camera da letto, e dopo non ave­
va più potuto tirarlo su, motivo per cui la seconda notte
la detonazione non c’era stata; come aveva scoperto in
uno stanzino nascosto la bocca d’una antica stufa che
dava nella famosa camera, ed era coperta da un pannello
spostabile, sicché il fantasma aveva potuto entrare di lì e
scivolare dietro le tende del baldacchino; come aveva
strappato via la coperta per mezzo di un cappio na­
scosto fra le pieghe dei cortinaggi; come aveva provo­
cato il soffio gelido spalancando nello stanzino della stufa
una finestra a nord, e lasciando aperto nella camera da
letto il battente superiore d’una finestra a ovest, cosicché
nel momento in cui la bocca della stufa era rimasta sco-
IL VISIONARIO HIS

perta s’era formata una corrente d’aria; come aveva stu­


diato la sua parte con ragguardevole fantasia e in un limi­
tatissimo spazio di tempo: tutto ciò ella ci spiegò punto
per punto, così da non lasciarci il minimo dubbio; e du­
rante quella Via Crucis, a ogni stazione seguitò ad ammo­
nirmi di non essere mai più così credulone. E intanto s’at­
taccava familiarmente al mio braccio, per cui non mi ri­
mase altra via che prendere un’aria da perfetto somaro e
cercare di far buon viso a cattivo gioco.
Per giunta la cosa più triste che ci sia al mondo, cioè
il caso, aveva impresso su tutto ciò il suo suggello. Volendo
procedere nel modo più imparziale, la buona fanciulla
aveva tirato a sorte quale dei due innamorati dovesse
sottoporre per primo alla prova; giacché, ella disse, molte
circostanze fortuite potevano influire sul risultato; il
tempo, il chiaro di luna, le condizioni fisiche e psichiche
potevano motivare una diversa capacità di giudizio, co­
me infatti era accaduto che io quella sera avessi alzato il
gomito più di quanto non avesse fatto Mannelin la sera
dopo per mancanza di compagnia, giacché io non c’ero.
Dunque proprio come nelle corse di cavalli, dove si mi­
surano e si tengono nel conto dovuto i minimi particolari !
Che la vittoria del mio rivale, nonostante l’irrepren­
sibile procedimento tecnico, corrispondesse ai voti se­
greti di Hildeburg, fu per me indubbio fin da allora. Di
colpo infatti apparve liberata da ogni peso, e visse con
cuore leggero e indiviso, il cuore di chi ha quanto desidera.

— Questa è la storia di come Hildeburg si scelse il


marito, e della mia sconfitta — concluse il colonnello, e ri­
volgendosi subito a Reinhart disse:
— Sa come si chiamava, in realtà? Perché Hildeburg
era il nome che le davamo Mannelin e io quando parla­
vamo di lei in sua assenza. Il suo vero nome era Else
Moorland, maritata poi al professor Reinhart, e quindi
deve trattarsi della sua signora madre. È ancora viva?
E come sta?
I giovani provano sempre un certo impaccio a sentir
parlare delle storie d’amore che hanno preceduto il ma-
1116 L’EPIGRAMMA

trimonio dei loro genitori. Essi pongono così in alto chi li


ha generati, che non hanno piacere d’immaginarli erranti
per gli stessi sentieri umani dove essi stanno vagando.
Anche Reinhart si sentiva a disagio ed era tutto rosso in
volto, giacché la disposizione d’animo in cui si trovava da
due giorni pareva rivoltarsi contro lui stesso. Un paio di
volte durante il racconto del vecchio signore gli era sem­
brato che si trattasse di una cosa nota o intuita; ma l’im­
pressione era svanita, come accade sovente di non osser­
vare o di non riconoscere le cose che ci toccano più da vi­
cino. Alla strana scoperta si mescolò un ancor più strano
moto di egoismo, quando pensò al pericolo scansato per
un filo che la mamma fosse toccata a un altro e non a suo
padre; e allora che cosa sarebbe stato di lui, del figlio?
E che cosa era adesso, se non il frutto della scelta più che
arbitraria d’una fanciulla petulante? Be’, grazie a Dio
almeno erano suo padre e sua madre! Avrebbe potuto
andar peggio ! Ma come peggio, testa di cavolo? Se andava
diverso, lui non sarebbe esistito !
Quei pensieri gli sfilarono in mente in rapida succes­
sione, finché alzò il capo e vide Lucia comodamente
seduta nella sua poltrona da giardino, con le braccia in­
crociate, e gli occhi ridenti posati su di lui. Tutto il suo
viso era sereno come il cielo quando è interamente
sgombro di nuvole.
— Si consoli col Vangelo, — ella lo esortò — là dove
dice: «Non voi avete scelto me, bensì io ho scelto voi !».
— Mille grazie per il consiglio ! — rispose Reinhart,
trascinato al sorriso dal sole che ella aveva negli occhi —
io capisco e apprezzo la soddisfazione che le procura il rac­
conto del signor colonnello ! Certo non mi sarei mai aspet­
tato d’essere battuto nella persona del mio proprio padre !
— Che ingrato ! Sia orgoglioso di un padre che ha vin­
to il mio ottimo zio! Dev’essere un uomo meraviglioso!
Sono davvero un po’ innamorata di lui solo a sentirne
parlare! È ancora così bello e biondo?
— E ormai grigio da un pezzo, però gli dona !
— E la mamma? — intervenne il colonnello — È già
grigia anche lei o è ancora bruna e agile come allora?
IL VISIONARIO 1117

— Ha ancora i capelli scuri, ed è agile ma solo di spi­


rito ; non credo che le sarebbe possibile adesso sgattaiolare
attraverso la bocca della stufa, e passare fra il letto e la
parete !
— Mi piacerebbe rivederla, e anche il buon Mannelin;
— disse lo zio di Lucia con voce commossa — mi sento
rappacificato ormai, e dolce come uno zuccherino !
— E vorrà porgere i miei omaggi a sua madre quando
le scrive? — disse la signorina con una graziosa riverenza —
oppure non le farà il racconto del suo viaggio e delle sue
avventure?
— Non tacerò nulla, se non altro perché debbo fare
del mio meglio per allettare il signor colonnello e forse
anche la nipote a visitare i miei genitori.
— Lo faccia pure! Un giorno o l’altro sentirà si­
curamente dire che la cosa è avvenuta, non è vero,
caro zio?
— Appena sarò di nuovo saldo sulle gambe — esclamò
il colonnello — faremo il viaggio da tanto tempo stabilito
e visiteremo i vecchi amici passando per la loro città.
— Ora che ci penso, — disse Reinhart — la nostra villa
ricostruita da più di trent’anni deve esser sorta al posto
del vecchio edificio comprato dai nonni Moorland ! Cosi
potrà fare anche lei il fantasma quando ci verrà, signorina
Lucia !
— Se m’innamoro di due uomini contemporanea­
mente, mi trarrò anch’io d’impaccio in quel modo! —
rispose ella in tono evasivo, e subito Reinhart rimpianse
le sue parole incaute; quando un’anima sensibile per­
corre in stato di sonnambulismo il sentiero di un nuovo
destino, non è lecito spaventarla con goffi suggerimenti.
La splendente letizia del viso di Lucia era in parte spen­
ta quando la piccola riunione si sciolse. Reinhart parlò
della propria partenza, sia per riguardo, sia in un accesso
di depressione, e chiese licenza di ritirarsi per i necessari
preparativi. Ma il vecchio signore s’oppose.
— Deve fermarsi un’altra giornata almeno ! — esclamò
— non mi bastano le due o tre ore che ho passato con lei,
e del futuro parleremo in seguito. Il piacere insperato di
ιιι8 L’EPIGRAMMA

rituffarmi nella mia giovinezza non me lo lascio sciupare


tanto facilmente!
— Il signor Reinhart non potrà partire così all’im­
provviso — intervenne Lucia — perché il suo cavallo sta­
mattina è stato portato al pascolo con i nostri ed è lassù
che salta e se la gode. Sicché oggi non si può andare né a
cavallo né in carrozza, a meno di mandare l’ordine tas­
sativo di far rientrare il bestiame.
— Niente da fare ! — ribattè il colonnello — quella po­
vera bestia ha pure il diritto di passare una buona gior­
nata. Adesso me ne andrò in camera per un’oretta, e vedrò
se sono arrivati i miei giornali. Vuole che gliene mandi un
paio, signor figlio di Hildeburg?
— I giornali non sono adatti per i suoi occhi affaticati;
— disse Lucia — se vuole leggere, prenda piuttosto qual­
che vecchio libro stampato a grossi caratteri, lei sa già do­
ve, e rimanga là al fresco, oppure se lo porti fuori in giar­
dino. Io purtroppo devo dare un’occhiata alle faccende
di casa!
La sollecitudine di Lucia per la sua vista, della quale
egli aveva quasi dimenticato le condizioni precarie, gli
fece così piacere che s’arrese senza resistere, e quando
si separarono si recò nella biblioteca di lei. Prese in uno
scaffale il primo libro che gli capitò in mano, senza guar­
darlo, e, pensando che non era conveniente fermarsi lì, se
ne andò nel bosco a labirinto donde era venuto. Là cadde
in un abbattimento sempre più profondo, che si sfogò al­
fine in un gran sospiro : “Oh fossi rimasto fra i miei quattro
muri!”. Non soltanto l’aver appreso le straordinarie im­
prese giovanili di sua madre, e l’esistenza di un rivale di
suo padre, ma anche l’impressione che Lucia gli aveva
fatto, e che cresceva sempre più, turbavano e rabbuiavano
l’animo suo. Erano cose veramente diaboliche ! La minac­
ciata perdita della sua preziosa libertà, della sua indi-
pendenza, quasi gli spezzava il cuore. Si vede bene, egli
pensava, quanto preme alle donne avere sempre il soprav­
vento ! Molto meglio scegliersi tranquillamente una don­
nina mite, silenziosa, arrendevole, che non ci privi della
ragione. Ma certo queste per lo più arrossiscono quando
IL VISIONARIO Illg

sono baciate, però non ridono ! Per ridere ci vuole sempre


un po’ di spirito; le bestie non ridono!
Così trascorse il tempo, e quando ritornò in casa trovò
per soprammercato la famiglia del pastore venuta a con­
templare di nuovo il fenomeno della sua apparizione e a
osservare gli effetti da lui prodotti sotto i grandi platani
della villa montana. La figlia del pastore, vestita di seta
azzurra, diventò di fuoco quando Reinhart le diede la
mano, e Lucia, alla quale egli aveva raccontato la storia,
lo guardò con vivace malizia, che però negli occhi di lei
era benevola e graziosa come in altri occhi l’affetto più
caldo. Con quella visita, la giornata passò in trambusto
ininterrotto e in fitte chiacchiere; gli ospiti non tollera­
vano che si lasciasse cadere un minuto il discorso 0 ci si
abbandonasse a un attimo di distrazione. Ma, poiché il
colonnello, con la scusa della sua indisposizione, scom­
parve abbastanza presto, e Lucia rapì più volte l’amica
per mostrarle le sue piantagioni, Reinhart finì per rimaner
solo a tener testa ai genitori, e quando, verso sera, la fa­
miglia fu partita nella sua carrozza, sembrò che si fosse
fermata la ruota di un mulino.
— Ammiro la pazienza con la quale ha ascoltato e dato
risposta a quella brava gente — disse Lucia quando ri­
masero soli.
— Avevo davvero l’aria così rassegnata? — chiese
Reinhart con stupore ; non si sentiva la coscienza a posto,
perché dentro di sé non aveva fatto altro che mandare a
quel paese tutta l’ottima famiglia.
— L’apparenza era perfetta ! Mi creda, si è sempre un
po’ migliori di quanto non si voglia ammettere. In com­
penso le offrirò una buona tazza di tè e vedrà di nuovo le
mie cameriere al filatoio. Vino non gliene do più; perché a
tavola, nella sua irritazione segreta, ne ha già bevuto più
di quel che sia bene per i suoi occhi.
— Allora s’è accorta che ero arrabbiato?
— S’intende ! Tanto più lodevole il dominio di sé e la
pazienza che si è imposta !
Dopo il tè, quando fu buio, le fantesche presero i loro
filatoi e filarono per un’oretta. Il ronzio delle ruote e il
1 1 20 L’EPIGRAMMA

dialogo sciolto e tranquillo, che ogni tanto lasciavano


spegnere come per scherzo e riprendevano poi agevol­
mente, calmarono gli spiriti agitati nel petto di Reinhart,
sicché alla fine egli si occupava nel modo più casalingo
della lampada che bruciava male, e chiacchierava sereno
mentre Lucia lo guardava contenta.
Quando tutti andarono a letto egli si congedò di buon
umore e forse per sbaglio portò con sé il libro che aveva
preso nello studio di Lucia e che non aveva ancora aperto.
Solo in camera lo sfogliò e vide che era una storia di viaggi
e conquiste del diciassettesimo secolo. Il libro doveva esser
stato a suo tempo letto e riletto, poiché aveva avuto bi­
sogno di una seconda rilegatura. Molti fogli infatti erano
rimasti appiccicati insieme dalla coloritura variopinta,
e quando Reinhart ne staccò due, c’era in mezzo un fo­
glio ingiallito, coperto di una scrittura sbiadita. In un
mattino di giugno dell’anno 1732 una dama aveva
scritto a un’altra in lingua francese: «Cara Amica!
Legga il grazioso racconto che ho qui segnato. Buon gior­
no ! La sua fedele amica J. Ore 9 del mattino». Il legatore
non doveva essersi accorto della letterina e l’aveva rilegata
insieme col resto; da allora nessuno probabilmente l’ave­
va più veduta. Mezza pagina del testo era segnata di
rosso, e il colore s’era impresso sulla pagina di fronte, così
che Reinhart non capì subito di quale brano si trattasse.
Tuttavia era curioso di apprendere che cosa avesse po­
tuto colpire la dama, in quel mattino di giugno di cen­
toventi anni prima, tanto da farle inviare il libro all’a­
mica. Lesse perciò ambedue le pagine e trovò un aned­
doto matrimoniale veramente curioso, senza dubbio quel­
lo che aveva interessato le due signore. La storiella piacque
anche a Reinhart, e, poiché non aveva ancora sonno, egli
vi lavorò e vi ricamò sopra, con l’idea di raccontarla se
gli si presentava di nuovo l’occasione. Gli sembrava in­
fatti magnificamente adatta alla difesa contro la presun­
zione dell’egualitario sesso femminile.
CAPITOLO UNDICESIMO

Don Correa

Come se avesse conosciuto l’intenzione e i preparativi di


Reinhart, la mattina dopo Lucia, quando furono seduti
tutti e tre sotto i platani accanto alla fontana, disse :
— Oggi purtroppo dovremo passare il tempo senza nar­
rarci storie, a meno che lo zio non abbia in riserva un’altra
Hildeburg, o il signor Ludwig Reinhart qualche altro
caso di matrimonio che ebbe origine su per le scale.
— Dio mi guardi — rise e protestò insieme lo zio —
da un secondo smacco di quella specie. Ne ho avuto abba­
stanza una volta per tutte!
— Quanto a me, — incominciò Reinhart — non cono­
sco un terzo amore nato per le scale, ma in compenso
conosco un caso nel quale un uomo di grande fama e
distinzione raccolse la futura moglie letteralmente da
terra, e visse con lei felice e contento!
— Magnifico ! — esclamò Lucia sorridendo allegra,
non tanto per malizia, quanto per curiosità e piacere di
sentire il nuovo racconto — Alla fine — aggiunse — giun­
gerà alla storia di san Francesco d’Assisi e delle sue nozze
con la povertà! Oppure lei è una specie di predicatore
ambulante che gira il mondo per esortare al matrimonio
con ragazze indigenti? Su, incominci!
— Sono pronto ! — disse Reinhart, si schiarì la voce e
incominciò :

— La mia storia narra di un eroe marinaro e uomo di


Stato, il portoghese Don Salvador Correa de Sa Bena­
vides, che in giovine età aveva già compiuto tali gesta da
attirarsi l’odio degli invidiosi, mentre la gioventù è soli­
tamente immune da tale malanno. Gli uomini già adulti
infatti devono essere ben tristi messeri, se sono capaci
d’invidiare i giovani o le donne per i loro buoni successi.
Al giovane stesso poi quel peccato è per lo più ancora sco­
nosciuto, o almeno prende l’aspetto più nobile di una
fruttuosa emulazione.
1122 L’EPIGRAMMA

In uno di quei periodi d’invidiósa persecuzione Don


Correa depose il bastone del comando, ancora rivestito
di verdi fronde, e rimise la spada nel fodero ; e per appro­
fittare in qualche modo del suo ozio forzato pensò per la
prima volta alle gioie d’amore e fu del parere che, doven­
do arrivarci una volta o l’altra, era meglio cercare subito
la compagna della sua vita, prima che ritornassero i giorni
del lavoro e della lotta. Così sarebbe stata una cosa fatta.
Ma la consapevolezza del proprio valore, forse anche
per l’offesa sofferta, e la speranza di trovare una sposa
molto fedele e molto sottomessa, lo spinsero a fare le sue
ricerche sotto le spoglie di un uomo ignoto e abbastanza
povero, così che nascondendo il proprio nome, ceto e pa­
trimonio, egli potesse conquistare la donna grazie, per
così dire, alla propria persona nuda e cruda. Accompa­
gnato da un solo valletto, s’imbarcò dunque in tutta se­
gretezza a Rio de Janeiro, dov’era stato governatore,
e parti per Lisbona. Lì giunto, abitò inosservato una
stanza remota del proprio palazzo, e usciva solo varia­
mente camuffato per recarsi nei teatri, nelle chiese e alle
pubbliche passeggiate, dove si potevano vedere le belle
dame della capitale e della provincia. Per molto tempo
non ne incontrò nessuna che attraesse particolarmente i
suoi sguardi, finché una sera, a non so quale spettacolo,
vide una giovine donna che lo colpì per bellezza e con­
tegno. Non si poteva dirla né alta né bassa, ed era tutta
vestita di nero da capo a piedi, tolta la candida gorgiera
inamidata che presentava come su un vassoio non sol­
tanto il viso severo e ben formato col mento d’una bian­
chezza di fiore, ma anche i folti ammassi di boccoli ai due
lati del capo. Un paio di volte, quando la signora si
mosse, le sfolgorò sul petto la luce rosso cupa di un rubino ;
il seno attestava una corporatura sana e normale, e così
pure la regolarità delle mani e dei piedi.
La dama occupava una poltrona in prima fila ; alla
sua destra e alla sua sinistra sedevano su seggiolini a tre
gambe uno scudiero e un religioso, dietro la poltrona stava
ritto un paggio, e infine c’era anche una damigella di
compagnia accoccolata su uno sgabello. Tutte queste
DON CORREA 1123

persone stavano rigide e silenziose come statue, e non


osavano scambiare una parola fra di loro né con la pa­
drona, a meno che questa non facesse un lievissimo cenno.
Il più singolare era lo scudiero che tenendo sulle ginoc­
chia l’alto cappello a punta sedeva impettito e terribil­
mente serio. Benché il suo cranio vasto e grigio fosse scar­
samente fornito di capelli, i lunghi fili d’argento bastavano
a formare in mezzo alla fronte una specie di conchiglia
saldamente arrotolata che nessuna bufera avrebbe potuto
sciogliere, nonché a rivestire le guance di due ben petti­
nate fedine, che ogni sera dovevano venir avvolte con
cura e puntate dietro le orecchie. In compenso i baffetti
incurvati all’insù erano autentici e induriti dalla ceretta.
L’aspetto poteva esser definito stravagante ; ma Don Cor­
rea sapeva per esperienza che simili buffe pedanterie ne­
gli impiegati, nei dipendenti e nei servi denotano per lo
più senso dell’ordine e puntuale adempimento dei propri
doveri; giacché, per accomodarsi tutti i giorni il capo ca­
nuto con simile ricercatezza, un povero diavolo che non
ha servitù propria deve alzarsi presto e abituarsi a una
vita metodica; e tutte le sue occupazioni ne traggono
vantaggio. Del resto correva voce che il giustacuore attil­
lato dello scudiero fosse stato tagliato in un vecchio stra­
scico di moerro della signora.
Quanto al religioso, non aveva per nulla l’aspetto di un
confessore viziato o dispotico, ma piuttosto di un pic­
colo maggiordomo intimorito e comandato a bacchetta;
e mentre con occhi semibassi percepiva le mondanità dello
spettacolo, teneva in grembo con mani malsicure il cap­
pello appiattito, come se fosse una terrina piena d’acqua.
Del piccolo paggio sbucava dietro la spalliera del seggio­
lone solo la faccetta bianca ed aguzza, nonché la manica
scarlatta della giubba; e solo quando la damigella si alzò
in piedi si potè vedere che anche lei portava una veste co­
lor rosso vivo, un’acconciatura rossa in capo e una collana
di coralli. Sembrava dunque che alla signora piacessero
soltanto il nero e il rosso.
Mentre ella assisteva immobile e mezzo annoiata allo
spettacolo, e raramente qualcosa le strappava un sorriso,
1 1 24 L’EPIGRAMMA

ogni tanto un cavaliere, solo o con altri, cercando posto le


passava accanto e la salutava cortesemente o magari
scambiava qualche parola con lei, tenendo il cappello in
mano. Ella però non guardava nessuno mentre s’awi-
cinava né lo seguiva con lo sguardo quando s’allontanava,
ma salutava con uno squisito cenno del capo e una va­
ghissima mossa delle labbra, che sedusse misteriosamente
Don Salvador, anche se la bocca ritornava subito seria,
anzi addirittura severa.
Nascosto fra la folla dei bassi borghesi egli chiese ad
alcuni vicini il nome dell’illustre signora; ma nessuno gli
seppe dare informazioni, perché probabilmente si trat­
tava d’una forestiera. Di minuto in minuto maggiormente
preso dalla bella e strana visione, e risoluto a sapere chi
era, Don Correa non ebbe altra scelta che aspettare la
fine e vedere dove sarebbe andata la dama con il suo se­
guito. Si appostò quindi subito vicino all’uscita dei si­
gnori e attese paziente finché la sconosciuta apparve,
nel lento corteo in cui si muoveva la «grandezza» per
salire sulle carrozze, sui cavalli e sui muli in attesa.
Per la forestiera erano pronti tre muli magnificamente
bardati. Sul primo montò ella stessa aiutata dallo scu­
diero, sul secondo lo scudiero con dietro il paggio, sul
terzo il giovane prete con dietro la damigella che gli si
teneva strettamente aggrappata, così che vedendo ridere
la gente il pretino arrossì di vergogna. Precedeva un
lacchè con una torcia a vento, poi venivano i tre muli
l’uno dopo l’altro, e a qualche distanza Don Correa for­
mava la retroguardia. La piccola processione s’inoltrò per
vie e piazze finché svoltò nel cortile dell’albergo «Nave
del re» dove scendevano soltanto viaggiatori ricchi o
d’alto ceto. Quando la forestiera con la sua gente fu smon­
tata e scomparsa su per le scale che portavano ai piani
superiori, Don Correa entrò in una sala terrena affollata
di mercanti e di gente di mare d’ogni parte del mondo. In
un angolo presso il banco di mescita si fece servire una pic­
cola cena e avviò con la sorvegliante che stava alla cas­
sa e riscuoteva il denaro un dialogo intermittente, cer­
cando di ottenerne la confidenza, che infatti non si fece
DON CORREA 1125

aspettare; giacché Don Salvador aveva qualcosa nella


faccia e nei modi che piaceva senza indugio alle donne,
quantunque egli fino allora si fosse poco giovato di tale
vantaggio.
Seppe quindi tutto ciò che desiderava sapere: che la
bella sconosciuta era una giovane vedova e si chiamava
Donna Fehiza Mayor de Cercai. Possedeva nel Portogal­
lo sudoccidentale una piccola città e grandi ricchezze,
e abitava quasi sempre in un solitario castello rupestre a
picco sul mare; lì viveva così ritirata che null’altro di lei
si poteva riferire, e se non fosse venuta una volta all’anno
nella capitale per curare i suoi interessi e concedere qual­
che svago ai dipendenti, si sarebbe ignorata perfino la sua
esistenza. A Lisbona faceva poche visite e nei suoi posse­
dimenti non aveva mai invitato nessuno. Del resto era di
una devozione esemplare e la mattina non mancava mai
alla Santa Messa; perciò non poteva essere che perfida ca­
lunnia se qua e là si bucinava che fosse una strega e la sua
servitù un manipolo di spiriti maligni.
Quando Don Correa fu informato a sufficienza, lasciò
l’albergo, per esser pronto tanto più presto il giorno dopo.
Si trasformò in un marinaio mauritano, quasi negro, e
assediò la «Nave del re» finché il piccolo gruppo uscì e si
mise in sella. Nello stesso ordine del giorno prima, un
mulo che sfiorava col muso la coda dell’altro, il corteo
della dama partì per la Cattedrale e Correa lo segui. Ve­
dendo che presso il portale non c’era nessuno per badare
ai muli si fece avanti e s’offerse di rendere il servizio, che
lo scudiero infatti gli affidò. Il giovane guerriero era,
come s’addiceva alla sua nascita e al suo secolo, un buon
cattolico; perciò gli piacque molto che la signora de
Cercai conducesse tutta la sua servitù ad ascoltare la
messa e partecipare alle benedizioni della fede; in tali
circostanze la taccia di stregoneria invece di spaventarlo
accrebbe la sua inclinazione. Terminata la messa, potè
osservare meglio la dama, e tanto più indisturbato in
quanto ella non posò lo sguardo su di lui né sugli altri
presenti. Vista da vicino e alla luce del giorno gli sembrò
ancor più bella e perfetta della sera prima. Nella premura
1 12Ö L’EPIGRAMMA

non ebbe neanche la presenza di spirito di accettare con


un’acconcia espressione di povero diavolo riconoscente la
piccola mancia che il paggio gli porgeva. Tutto si svolse
di nuovo con tanta quiete e solennità, che certo l’autorità
della bella signora doveva aver imposto il più pacifico e
ordinato governo domestico, il più decente costume di
vita. Per ultima salì la damigella, simile a un bastone di
ceralacca rossa; e il marinaio negro che la sollevò pre­
murosamente dietro la schiena del sacerdote, guardando
partire quel corteo un po’ grottesco, attribuì le strane abi­
tudini all’isolamento in cui la gentildonna viveva.
Finché la dama rimase a Lisbona, egli continuò a gi­
rarle intorno in sempre nuovi travestimenti, ma il sog­
giorno non durò più a lungo. Ogni volta che la vedeva,
si rafforzava nella decisione di prendere in sposa lei o
nessun’altra. Perciò, appena ella fu partita, riprese il pro­
prio aspetto, però sotto le spoglie di un gentiluomo pove­
ro e oscuro. Scovò un logoro mantello bruno e un cap­
pello di feltro altrettanto frusto, cinse una spada con l’el­
sa arrugginita e la lama che usciva di un pollice dal fo­
dero privo da un pezzo del puntale di metallo. Così con­
ciato lasciò prima dell’alba il suo palazzo e la città di
Lisbona e con pochi servi s’imbarcò su una sua navicella
che teneva sempre apparecchiata; costeggiando la riva
discese verso il sud finché giunse nella regione abitata
dalla signora de Cercai.
II paese del quale ella portava il nome era situato die­
tro i monti della costa, ma il castello sorgeva su una sco­
gliera ripida sovrastante il mare. Don Correa incrociò sul
mare aperto finché si fu accertato che Donna Feniza era
ritornata, e parecchie volte passò tanto vicino a riva da
poter studiare col suo sguardo acuto la posizione e la co­
struzione del castello. Poi si portò di nuovo al largo e
aspettò un vento forte o addirittura un fortunale, e quan­
do esso giunse navigò sul mare in burrasca a vele spiegate,
le ammainò poi come temendo un naufragio, e dopo aver
lasciato che il battello fosse sballottato a lungo dalle onde
si fece buttare, con la sua spada e il mantello arrotolato,
sulla scogliera, così aspra che faticò non poco a uscire
DON CORREA 1127

dai frangenti e a toccare terra. Ai suoi marinai aveva


dato l’ordine rigoroso di tornare al largo e veleggiare
verso casa appena si fossero assicurati che egli era giunto
a riva. Essi obbedirono e con audacia non minore all’a­
bilità seppero raddrizzare la nave già prossima al nau­
fragio, e da terra già giudicata perduta, per tornare in
alto mare e ben presto scomparire alla vista.
Don Salvador Correa s’arrampicò sulla scogliera e co­
minciò a salire un ripido sentiero a gradini che mezzo
nascosto fra rocce e cespugli conduceva verso l’alto. Fatti
dieci o dodici scalini, gli venne incontro un ragazzo, nel
quale riconobbe il paggio della bella castellana. Di lassù
avevano assistito alla lotta della nave contro la tempesta,
ma non avevano potuto vedere quel che era accaduto più
presso a terra, perciò la signora aveva mandato il paggio
in perlustrazione. Don Correa gli chiese come si chiama­
va il paese e a chi apparteneva, e gli spiegò in poche
parole che aveva fatto naufragio ed era senza asilo, al che
il fanciullo gli disse di aspettare, mentre egli correva su e
ritornava con gli ordini della signora. Intanto condusse il
forestiero in una grotta naturale che s’addentrava nella
roccia per un piccolo tratto e conteneva una panca scavata
nel sasso; la caverna era anche munita di un cancello.
Poiché il sole erompeva già fra le nuvole lacerate, men­
tre il mare seguitava a infuriare rombando, Don Correa
appese al cancello la sua cappa sgocciolante per farla
asciugare, e si sedette sulla panca, giacché era sfinito
dall’avventura tal quale come se il naufragio fosse stato
involontario. Osservò allora con un sorriso i molti fori fatti
dalle tarme nel mantello scuro: adesso, col sole dietro,
brillavano come un cielo stellato. Tre di quei buchi erano
così bene allineati che riproducevano magnificamente
la cintura d’Orione, altri erano disposti come la costel­
lazione di Cassiopea, due si fronteggiavano come le stelle
della Bilancia, e una quantità di singoli forellini avrebbe­
ro potuto essere variamente denominati da un esperto
secondo la posizione e la distanza reciproca. Ma poiché
alcuni erano ancora chiusi da gocce d’acqua simili a
piccole sfere di vetro, splendevano rossastri o azzurrini
1128 L’EPIGRAMMA

sotto i raggi del sole, e Don Correa, conoscitore di stelle e


astrologo, osservò attentamente il fenomeno come un
significativo gioco della sorte. Tosto mise insieme una
costellazione nella quale il pianeta Venere pareva sfol­
gorare come una promessa di felicità.
Era così sprofondato in quella contemplazione e in
pensieri attinenti, da non udire i passi leggeri che si avvi­
cinavano, e fu quindi altamente stupito quando il man­
tello venne spinto da una parte e invece del pianeta
Venere apparve l’intera figura di Donna Feniza Mayor
de Cercai, col piccolo paggio alle spalle.
Correa si alzò subito e col comportamento più caval­
leresco chiese perdono se non poteva togliersi il cappello
perché il mare gliel’aveva portato via. Ma ancor più do­
vette stupire quando la dama che a Lisbona s’era mostra­
ta così ritrosa e taciturna lo guardò con grandi occhi e vi­
sibile compiacimento e con voce ferma e armoniosa gli
chiese chi era e di dove veniva.
Di nuovo incantato della sua bellezza, fu appena ca­
pace di raccontare con un po’ di coerenza la storiella che
aveva preparato; un povero gentiluomo perseguitato dalla
sorte avversa che, costretto a cercar fortuna in lontani
paesi, era miseramente naufragato su quelle sponde. Ma
di tanto migliore fu l’impressione che riuscì a produrre.
La dama si sedette sulla panca di pietra, e quando nel
corso della conversazione si fu accertata che il forestiero
era un giovane di buon casato e di modi raffinati, pieno
di spirito e di risolutezza, lo invitò cortesemente a pren­
dere posto e a riposarsi accanto a lei, e terminò offrendo­
gli l’aiuto e l’asilo desiderato nel suo castello. Anche un
copricapo si poteva trovare, ella aggiunse, mentre già
lo precedeva su per il sentiero; il cavaliere seguiva col
suo mantello, e il paggio scalava i gradini per ultimo.
Qualche giorno dopo il fortunato gentiluomo portava
non soltanto un cappello nuovo, ma diversi altri eleganti
capi di vestiario che la dama gli aveva donato; però era
ancora avvolto nel vecchio mantello pieno di stelle, quan­
do scese con lei l’erto sentiero per andare a passeggio sulla
riva deserta. Ma il sole era così caldo che la bellissima
DON CORREA 1 129

coppia cercò tosto un riparo, ed entrò nella grotta. Te­


nendosi per mano sedettero sulla panca di pietra e, quan­
do il sole scendendo all’orizzonte penetrò anche lì dentro,
appesero per scherzo la cappa al cancello e osservarono
le costellazioni prodotte dalle tarme.
«Mai le stelle della povertà illuminarono una felicità
più bella!» sussurrò Correa e circondò col braccio la
flessuosa figura di Feniza. Ella indicò col dito un foro
più grosso, che anzi pareva un piccolo strappo.
«Qui v’è addirittura fra le stelle una falce lunare: il
pastore fra le pecore, come dicono i poeti ! ».
«Non è opera delle tarme, si tratta di una vecchia scia­
bolata ! » rispose Correa. Ella volle conoscere il fatto, ed
egli le raccontò come da giovane studente aveva dovuto
difendere la propria vita, una notte che, passandogli
accanto, aveva gridato «chiudi quel becco!» a un tale
che faceva la serenata sotto il balcone d’una bella. Allora
ne sapeva poco dell’amore, e quei miagolii stonati a tutti
gli angoli delle strade lo infastidivano assai. Solo il man­
tello, tenuto innanzi con il braccio sinistro, aveva potuto
attutire la stoccata del furibondo strimpellatore di chi­
tarra. Tuttavia il sangue era sgorgato abbastanza copioso.
Feniza Mayor gli chiese se adesso aveva imparato ad
amare veramente, e lo baciò prima che potesse rispondere.
Così trascorse un giorno dopo l’altro, finché la riser­
vata e orgogliosa signora de Cercai fu tutta travolta e
perduta nella passione, e Don Correa non trovava più
né il tempo né i pensieri per meravigliarsi del prodigio,
poiché anche lui era ardentemente innamorato; in bre­
ve, non sarebbe stato facile dire quale dei due avesse più
rapidamente sedotto e trasformato l’altro. Poiché non
v’erano ostacoli, naturalmente si fidanzarono e prepara­
rono le nozze che dovevano farsi molto presto, Donna
Feniza non lo interrogò quasi sulle sue origini, e rimase
contenta della favoletta che egli le aveva imbandito ri­
servandosi di rivelarle un giorno la sua vera identità. E
così Don Salvador s’abbandonò senza scrupoli al piacere
d’essere vestito, nutrito, alloggiato e vezzeggiato dall’a­
more di lei, poiché tutto ciò lo rinsaldava nella convin­
ii3° L’EPIGRAMMA

zione di dovere tanto favore unicamente a se stesso.


Gli sponsali furono celebrati nel palazzo della piccola
città di Cercai, al di là delle montagne. Il corteo nuziale
che si snodava a cavallo su per i monti risplendeva da
lontano e annunziava che la bella Feniza Mayor prende­
va marito per la seconda volta; ma in verità nessuno era
lieto, tranne la sposa e lo sposo. Quest’ultimo non s’accor­
geva di nulla, e solo gioiva degli splendori con i quali
avrebbe un giorno stupefatto la sposa, quando sarebbe
ritornato il tempo della fortuna e della potenza. Però
nell’antica chiesa, concluso il rito, lo sorprese uno strano
spettacolo. Al sepolcro del primo marito di Donna Fe­
niza, eretto contro una colonna, era appoggiata la secca
e giallastra damigella, nell’abito rosso della festa, e fissava
sul gagliardo Don Correa il cupo sguardo fiammeggiante.
La gente la sospettava di aver fatto morire nel sonno quel
primo marito vecchio e brutto dal quale provenivano in
massima parte le ricchezze di Feniza, e di aver commesso
altri misfatti per ordine della bella padrona. Ma Correa,
che non ne sapeva nulla, dimenticò rapidamente quello
sguardo sinistro.
Per circa sei mesi vissero come sull’isola di Calipso,
finché il bisogno d’azione si risvegliò in Salvador Correa
e non gli permise più di limitarsi a sognare fra agi e mol­
lezze. Aveva già ricevuto segreti cenni che il governo de­
siderava valersi di lui e a dispetto dei suoi nemici confe­
rirgli maggiore autorità, per cui gli parve giunta l’ora di
recarsi a Lisbona e di rioccupare il suo posto. Ma la mo­
glie non doveva ancora sapere nulla, e solo a cose fatte
sarebbe entrata con lui nel suo palazzo. Egli si limitò
quindi ad annunziarle che doveva mettersi in viaggio per
affari importanti, e benché ella fosse divenuta rossa in fac­
cia come il fuoco non vi pose attenzione, le accarezzò le
guance accese e andò nelle scuderie a scegliere i cavalli
per sé e per un palafreniere. Accorse il vecchio scudiero e
chiese in che cosa lo poteva servire, e quando Don Correa
indicò i due cavalli da sellare, si tolse ossequiosamente il
berretto di cuoio, fece un inchino rigido ma profondo e
disse con cortesia che i cavalli appartenevano alla padro­
DON CORREA 1131

na e che sarebbe andato subito a chiedere il suo consenso.


Si raddrizzò poi dall’inchino, al che Don Correa, dopo
averlo acutamente fissato, gli menò un ceffone e lo buttò
fuori della stalla, non tanto per violenza quanto per un’in­
nata politica matrimoniale che in quel primo incidente
gli venne spontanea, anche se in tal campo egli aveva ben
poca esperienza. Ordinò quindi a un garzone, con voce
dura e sguardo severo, di sellare i cavalli e di prepararsi
alla partenza ; poi ritornò nella sala, con stivali e speroni
e con indosso il vecchio mantello.
Quando entrò, la castellana era pallida come un cada­
vere e fuori di sé, totalmente impreparata a fare o a dire
qualcosa. Accanto a lei stavano lo scudiero, che cercava
di coprire con la mano la spettinata conchiglia in cima al
cranio, e la damigella di compagnia. Correa, che aveva
sempre l’animo ben disposto e l’umore sereno e schietto,
salutò la consorte con un abbraccio e per incidenza l’in­
formò di aver cacciato via lo scudiero che aveva rifiutato
di obbedirgli ; e giacché c’era intendeva licenziare anche
la damigella rossovestita, che gli era antipatica. Al suo
ritorno desiderava non trovarli più né l’uno né l’altro, e
avrebbe pensato lui a procurare persone dabbene e di
suo gradimento.
Nessuno si mosse o pronunziò una parola. Mentre scen­
deva le scale vide il paggio rincantucciato in un angolo con
faccia ostile.
«Va’ su dalla tua padrona» gridò Don Salvador «e
dille che ho scacciato anche te ! Se ti trovo ancora qui
quando torno, ti butto dalla finestra!». Il paggio, come
un grosso ragno, scappò di corsa su per i gradini.
Sul portone attendevano i cavalli sellati e il palafre­
niere vestito da viaggio. Ma costui aveva un fare cosi ti­
tubante e stizzoso, che il padrone s’accorse subito della
svogliatezza con la quale anche questo servo eseguiva i
suoi ordini. Infatti non aveva ancora fatto cento passi sul
fianco della montagna che un fischio acuto risonò dalla
finestra della torre ; il palafreniere si fermò per un attimo,
poi voltò la cavalcatura e ripartì a briglia sciolta verso
il castello.
1132 L’EPIGRAMMA

“Dunque siamo a questo punto?” si domandò Don


Correa osservando la fuga dello stalliere; ma invece d’in-
seguirlo seguitò la sua strada, preferendo arrangiarsi da
solo che affidarsi a servitori di quella sorta. Del resto l’in­
cidente, più che irritarlo, lo fece ridere, e quasi gli parve
più stuzzicante avere una mogliettina salata e pepata
invece di una tutta miele.
A Lisbona ogni cosa si svolse secondo i suoi desideri.
Fu nominato vice ammiraglio e, poiché adesso aveva una
carica pubblica, ciascuno faceva a gara nel professarglisi
amico. Tosto egli cominciò i preparativi per un’immedia­
ta partenza, giacché il governo lo mandava in Brasile con
tre grosse navi da guerra e gli affidava provvisoriamente
gli affari di laggiù. *
Ordinò che la nave ammiraglia fosse arredata in modo
degno d’accogliere una gran dama, suppellettili portate
dal suo palazzo la fornirono d’ogni pompa e d’ogni co­
modità. Acquistò anche un’infinità di doni preziosi, che
intendeva offrire alla sposa quando sarebbe salita sulla
nave, per compensarla a dovizia di tutto ciò che aveva
avuto da lei. Voleva portare la squadra fino all’altezza di
Cercai, e là mettersi all’àncora e condurre a bordo Fe-
niza ; solo allora ella doveva apprendere chi era l’uomo che
aveva sposato.
In una notte senza luna, un’ora circa dopo il tramonto,
le tre grandi navi s’avvicinarono a terra e si fermarono a
giusta distanza dal castello, di cui l’ammiraglio poteva
riconoscere la posizione non soltanto dalle forme oscure
della montagna, ma anche dalle finestre illuminate della
sala nella torre maggiore. Per rendere più perfetta la sor­
presa, egli ordinò che si lasciassero accese sul ponte solo
le lanterne indispensabili, e anche quelle le fece velare dal
lato verso terra. Tanto più sontuoso e splendente era l’in­
terno della nave ammiraglia e particolarmente il quadrato
di poppa, che sembrava un salone principesco. La mensa
era apparecchiata con seta scarlatta al di sotto, e sopra
candido damasco di lino; carica di pesante vasellame
d’argento e di candelabri dalle molte braccia alternati a
vasi dorati pieni di fiori esotici e olezzanti, si vedeva
DON CORREA USS

che era destinata a rendere qualche altissima manifesta­


zione d’omaggio. Davanti a ogni coperto un seggiolone
dall’alto schienale stemmato attendeva un ospite illustre;
lungo le pareti rivestite di ricche tappezzerie una società
numerosa s’intratteneva in discorsi sommessi, e fra i
gruppi circolavano abili servitori in belle livree, mentre
in una stanza più piccola due cameriere attendevano la
padrona. Non soltanto tutti gli ufficiali delle tre navi
da guerra, ma anche un buon numero di alti funzionari
dello Stato con mogli e figlie partecipanti al viaggio co­
stituivano la scelta compagnia che attendeva incuriosita
la soluzione del mistero.
Alle nove e mezzo Don Correa scese in un’imbarca­
zione e si fece condurre a riva, dopo avere ordinato che
a mezzanotte precisa, cioè al momento del suo ritorno,
tutti i ponti s’illuminassero, si lanciassero i razzi, e i can­
noni sparassero dalle fiancate. S’era avvolto nella vecchia
cappa bruna e aveva in capo un semplice cappello di fel­
tro. Sbarcato a terra, disse ai rematori di aspettarlo senza
far rumore, e sali il sentiero fra le rocce, che seppe trovare
anche nell’oscurità. Il portone del castello era chiuso;
ma attraverso le feritoie egli vide muoversi una luce, e con
l’impugnatura della spada picchiò due volte al battente.
Con una lanterna in mano, il palafreniere infedele aperse
il portone e sgranò in faccia al veniente due occhi spaven­
tati come se avesse visto il diavolo.
«Va’ avanti e fammi luce!» disse seccamente Don
Correa senza guardarlo una seconda volta. Questa volta
il servo obbedì al comando; ma corse su così in fretta
che Don Salvador rimase indietro a brancolare nel buio.
Arrivato di sopra, il palafreniere spalancò una porta e
con la gola stretta gridò nella sala illuminata: «È arri­
vato il signore!».
«Chi è arrivato?» chiese Donna Feniza che era seduta
a tavola e pranzava.
«Quello che distribuisce schiaffi e che ci ha scacciato o
sta per scacciarci ! ».
« O sciocco ! » esclamò la dama, splendente in tutta la
sua bellezza; e diede in una breve risata scorgendo l’am-
1134 L’EPIGRAMMA

miraglio che compariva dietro il servo, lo prendeva per


le spalle e lo spingeva da parte.
Don Correa guardava la scena con vero sgomento, se si
può adoperare tale parola per un uomo come lui e non
sostituirla piuttosto con l’espressione «estremo stupore».
Al tavolo rotondo, dove sedendole di fronte aveva pas­
sato tante ore belle, c’erano oltre alla castellana lo scu­
diero, la damigella, il giovane confessore, e accanto a
Feniza uno sconosciuto, un pezzo d’uomo d’aspetto sol­
datesco, con larghe spalle e una lunga cicatrice sul naso e
su mezza faccia, che tagliava in due anche i baffi, cosi
che un ciuffo di peli restava al di là del solco paonazzo.
Quello sfregio però non pareva spiacere affatto alla bella
padrona di casa; difatti nel momento in cui s’era affac­
ciato alla soglia Don Salvador aveva còlto in un lampo,
insieme a tutto il resto, lo sguardo che ella, mentre rideva,
aveva scoccato al vicino.
Tuttavia nella sua mente turbata i primi pensieri non
si volsero a tali sospetti ma alla splendida accolta a bordo
della nave ammiraglia. Come fare a sgombrare la casa
senza perder tempo e senza ricorrere alla violenza; e in­
durre Feniza a mettersi in gala, o almeno a ornarsi un
poco, e ad accompagnarlo, pur continuando a celarle il
segreto? Nonostante la cattiva impressione che gli aveva
fatto la scena, egli infatti non dubitava ancora di ripren­
dere la colomba ribelle e di addomesticarla di nuovo; e
il modo migliore era la splendida sorpresa che le aveva
preparato con tanta fatica e con tanta cura.
Da quei pensieri, durante i quali egli non aveva nem­
meno osservato che Feniza non accennava affatto ad al­
zarsi e a farglisi incontro, lo svegliò di colpo la voce di lei
che in mezzo a un silenzio mortale diceva :
« Ma guarda ! È proprio mio marito ! Lui in persona !
Nobile signore, avete così presto consumato nei vostri va­
gabondaggi il denaro e gli abiti di cui vi ho fornito, che
tornate a presentarvi davanti a me con quel mantello
tarlato da mendicante?».
Egli pesò per un attimo quelle parole, che non gli par­
vero né belle né amabili. Volgendo lo sguardo sulla pie-
DON CORREA 1 135

cola tavolata rispose, più che altro per trarsi d’impaccio,


in tono asciutto e non molto cordiale:
«Vorrei sapere piuttosto, cara padrona di casa, come
mai trovo ancora qui la gente che ho mandato via, com­
preso quel merlo che sta dietro la tua seggiola? Non ti ha
detto che l’avevo scacciato? E chi è il signore comoda­
mente seduto alla mia tavola senza che io l’abbia mai
visto né conosciuto?».
I servi guardavano la signora, mezzo ironici mezzo
spaventati ; il forestiero gettò un’occhiata alla sua sciabola
che pendeva nel vano della finestra da un’alta cintura di
cuoio giallo con grosse fibbie d’ottone.
Ma Feniza in tono mordace e sprezzante replicò :
«Questa tavola, per quel che so io, è la mia tavola, e
vi siede chi è invitato da me. Invece di litigare, occupate
il posto che è ancora libero e rifocillatevi, se avete fame.
Ma comportatevi come si addice a un ospite tolle­
rato».
La prima eco di questo discorso fu lo scoppio di risa
degli astanti. Perfino il paggio dal naso aguzzo fece sen­
tire una risata penetrante, come accade quando i ra­
gazzetti s’intromettono nei discorsi degli adulti e ne co­
prono la voce.
Ma subito dopo vi fu un rumore molto più forte. Don
Salvador cambiando colore s’era avvicinato alla tavola;
la prese per il bordo e dicendo : «Ah sì? io sarei un ospite
tollerato?» la rovesciò con tutto quel che c’era sopra, sto­
viglie, brocche, bicchieri e candelabri, e ciò con tanta vio­
lenza che anche i commensali con le loro seggiole precipi­
tarono a terra, tranne la castellana. Costei, spaventata
dal viso stravolto del marito e dal suo avvicinarsi, s’era
alzata a precipizio e rifugiata in un angolo, di dove guar­
dava sgomenta e curiosa.
II primo a rimettersi in piedi in mezzo a tanta rovina
fu il forestiero, e quando fu ritto e si gettò su Correa
con la spada sguainata questi vide che aveva da fare con
un uomo straordinariamente alto e forte. Ma non perse
tempo ; benché più sottile e più delicato dell’altro, afferrò
un pesante seggiolone di quercia, lo vibrò sul capo del gi­
II36 L’EPIGRAMMA

gante e gli spezzò non solo l’arma ma anche la spalla de­


stra, così radicalmente che quello rimase di colpo paraliz­
zato e per il dolore perse quasi i sensi e ogni forza di resi­
stenza. Da quel gaglioffo che era fuggì dalla sala, e il resto
della compagnia lo seguì, man mano che si rialzavano tra
i cocci. Svanirono come ombre cinesi ; alle spalle di Don
Correa la damigella fece ancora un segno alla padrona,
che rispose con un quasi impercettibile cenno del capo.
Solo il paggio era ancora lì e mise fuori il naso di dietro
la schiena di Feniza. Correa fece un passo, prese il ragazzo
per i riccioli e come un leprotto lo gettò appresso agli altri
fuori della porta che chiuse a doppia mandata.
Poi, appoggiandosi sulla spada snudata, si piantò da­
vanti alla donna che stava lì con ginocchia termanti e
mani protese, e dopo averla guardata severamente per
un certo tempo disse:
«Ma che razza di femmina sei?».
«E che uomo sei tu?» domandò essa a sua volta, ango­
sciata, seguitando a tremare.
« Io? Sono Salvador Correa, ammiraglio e governatore
di Rio! Mi obbedirai adesso?».
A una menzogna così madornale la donna s’illuse di
aver riacquistato moralmente il sopravvento. Poiché in­
fatti credeva soltanto in se stessa, nelle sue ricchezze e
nell’autorità della Chiesa, e in nessun’altra cosa al mondo,
giudicava impossibile che quell’uomo da lei considerato
per tanto tempo come un trastullo potesse davvero essere
un gran personaggio.
Ruppe in una risata cattiva, esclamando :
«Ora vedo che fanfarone sei! Un poveraccio raccolto
per carità e il grande, ricco, famoso Don Correa ! ».
«Poiché mi confronti soltanto con me stesso e il para­
gone fa da contrappeso alla tua malignità, posso passarvi
sopra ! ».
Con quelle parole — pronunziate con una calma im­
posta dall’estrema necessità, poiché il tempo fuggiva inar­
restabile ed egli nel suo sconvolgimento pensava solo
allo scandalo e alla sua dignità in pericolo se ritornava
sulla nave a mani vuote come uno sciocco - con quelle
DON CORREA 11 37

parole dunque egli prese la donna per il braccio e la con­


dusse a una finestra che guardava sull’oceano.
«Là sono all’àncora le mie navi;» egli disse «fra mez­
z’ora saremo a bordo, dove ci attendono dame e gentiluo­
mini in gran numero, e ti saluteranno mia sposa. Domat­
tina ritorneremo qui per fare i bagagli e stabilire un’am­
ministrazione provvisoria, poiché tu mi accompagnerai
in Brasile. Ora affrettati a indossare un abito da ceri­
monia, e se indugi metterò fine ai tuoi indegni capricci
trafiggendo con questo ferro la tua gola bianca!». E
vibrò in alto la lunga lama. Distogliendo gli occhi dal
mare, dove non aveva potuto scorgere che un pallido luc­
cichio, ella fissò la spada splendente. D’improvviso gli
gettò le braccia al collo e gli coperse la bocca dei baci più
ardenti che gli avesse mai dato.
«Perché non dovrei obbedirti, ora che so quanto mi
ami?» gli sussurrò con teneri accenti «tutto è passato, e
verrò con te sino ai confini del mondo. Ma non posso ve­
stirmi da sola, e la cameriera me l’hai cacciata via, dunque
toccherà a te d’aiutarmi ! ». Con un dolce sorriso lo prese
per mano ed egli la seguì nella sua camera senza opporre
resistenza, sperando di salvare almeno il suo onore da­
vanti agli occhi del mondo. Ma poiché la minaccia aveva
agito così fulmineamente, tenne in mano la spada sguai­
nata.
Ella incominciò allora a sciupare il tempo prezioso,
cercando con finta irresolutezza un abito di gala e chie­
dendo consiglio a lui con graziose ciarle, poi si fece slac­
ciare la veste che portava, andò a prendere mille cianfru­
saglie, e intanto si dava da fare con moine e carezze,
finché l’orologio alla parete battè un quarto alla mez­
zanotte.
«Se non sei subito pronta» disse Correa «ti porto giù
a forza, così come ti trovi».
«Vado solo a prendere la collana più bella» esclamò
lei «e il rubino che sta così bene sul vestito nero. E le mie
gorgiere bianche oggi le aveva in mano la mia damigella.
Torno fra un attimo».
E scivolò fuori prima che Correa risolvesse se doveva o
II38 L’EPIGRAMMA

no lasciarla andare. Di fuori ella chiuse la porta senza far


rumore e reggendo la lampada corse per le altre stanze,
finché al piano di sotto trovò i suoi compagni che si spia­
vano attorno, stretti l’uno all’altro.
«Appiccate il fuoco! Appiccate il fuoco!» sibilò rauca
«è un pirata, ha una nave sul mare ! Bruciate tutto, non
ve ne pentirete ! Su, presto ! La libertà e la vita valgono
più di una vecchia torre ! ».
Come una furia li precedette e avvicinò la lampada a
un mucchio di sterpi su una scala di legno, mentre gli
altri davano fuoco a una montagna di paglia che tappava
lo scalone principale. Poi in cucina incendiarono un gros­
so cumulo di materiale combustibile e le fiamme si pro­
pagarono al pavimento di legno; quei demoni si disper­
sero quindi al piano terreno, nelle scuderie, nei granai,
nelle legnaie, in cortile, mettendo fuoco dappertutto, e si
raccolsero infine davanti al portone del castello, che ser­
rarono dall’esterno, portandosi via la chiave. I cavalli
erano già fuori, essi vi salirono sopra, anche l’uomo con la
spalla spezzata fu issato in sella; la dama di compagnia
teneva in grembo uno scrigno con denaro, gioielli e docu­
menti, e così tutto il gruppo, una decina di persone, senza
emettere un suono partì verso le montagne e scomparve
nell’oscurità. In quel momento tuonarono i cannoni delle
navi da guerra e il monte ne rimbombò, e quando gli
scellerati si guardarono dietro atterriti videro sull’oceano
i bastimenti illuminati a giorno, le girandole di fuochi
artificiali che sfavillavano in cielo, mentre una fanfara
di trombe risonava fra il rullar dei tamburi.
«Quello non è un pirata, è un gran capitano o addirit­
tura un ammiraglio!» gemette l’uomo con la spalla rotta
battendo i denti per la febbre.
«Via! Via! È il diavolo in persona!» gridò Donna
Feniza ricominciando anch’essa a tremare; e la cavalcata
degli assassini incendiari fuggì, senza più voltarsi, al di là
dei monti.
Ma l’ammiraglio non era perduto. Poiché la donna do­
po qualche minuto non era ancora tornata, volle andare a
vedere, e trovando tutte le porte chiuse dal di fuori scoprì
DON CORREA • >49

il tradimento. Sfondata che n’ebbe una, vide· tutti gli ac­


cessi pieni di fuoco divampante che non era più possibile
attraversare, e finalmente ritrovò la tranquilla e chiara
ponderatezza dell’uomo d’azione; invece di cercare in
basso l’uscita, che era sbarrata dall’incendio, salì fino
all’ultimo ripiano della torre maggiore, dove già si tro­
vava. Là v’era una campana in un vano del muro, e la
fune pendeva all’esterno fin giù nel cortile, dove usavano
tirarla. Don Correa aveva provvisto lui stesso una fune
nuova, che non era spessa ma abbastanza forte per un’im­
presa temeraria, purché la cima, annodata alla campana
stessa, fosse bene assicurata. Egli dunque salì cautamente,
con una lampada in mano che per poco non fu spenta
dalle ondate di fumo e di calore che provenivano dal
basso. Sull’ultima rampa della torre tagliò una corda
che serviva da appoggiatoio, e con quella legò la fune così
fortemente da potere arrischiare la discesa. Gli fu utile
anche la vecchia cappa stellata, che attorcigliò intorno
alle mani prima di scivolar giù dall’alta torre. Giunto
nel cortile, dovette attraversare di corsa i vari edifici in
fiamme per giungere a un’uscita alla quale gli incendiari
non avevano pensato.
Salito sull’imbarcazione e occupato il suo posto, diede
l’ordine d’immediata partenza, e quando furono abba­
stanza lontani dalla riva vide il castello avvolto in fiamme
purpuree, mentre dalle navi rombavano i cannoni e tutto
sfolgorava di luci. Non si era mai trovato in una posizione
più strana, così fra due fuochi, e con un amaro sorriso
ne assaporò l’ironia e l’ammaestramento : cioè, che in fac­
cende di matrimonio non bisogna intraprendere, neanche
con le migliori intenzioni, nulla d’artificioso, bensì la­
sciare che tutto Si svolga secondo il decorso normale.
Il senso di liberazione da un futuro ignoto e disono­
revole e dall’immediato pericolo di vita gli rischiarò
tuttavia alquanto l’umore cupo, cosicché salito sulla nave
ammiraglia potè far sedere a tavola la splendida accolta
e rivolgerle con padronanza di sé alcune parole. Disse che
aveva creduto di poter presentare ai nobili signori una
consorte leale e una buona compagna di viaggio ; ma la
1 140 L’EPIGRAMMA

volontà imperscrutabile della Provvidenza aveva decre­


tato che divampasse un rogo d’iniquità e di rovina, e ap­
parisse necessario un processo che avrebbe svelato agli
amici il triste segreto.
Infatti, al termine del pranzo e ancor prima dell’alba,
si tenne un consiglio di guerra che ordinò la cattura e la
istruzione di un processo contro i criminali incendiari. La
circostanza che il delitto fosse stato compiuto al cospetto
di una squadra navale, e che l’ammiraglio per poco non
ne fosse rimasto vittima conferiva al consiglio di guerra il
diritto di giudicare. Subito Don Correa fece sbarcare ven­
ti cavalieri e quaranta fanti, che marciarono su Cercai,
secondo le sue indicazioni; poiché egli supponeva, e con
ragione, che i malfattori si fossero rifugiati là. Difatti
erano nel palazzo di Feniza Mayor, immersi in un sonno
profondo, quando i soldati vi giunsero dopo lo spuntar del
sole; furono svegliati, incatenati e condotti in preda al
terrore sul luogo dei loro misfatti; nella città di Cercai
furono anche reclutati parecchi scrivani. Faceva già parte
della spedizione un giudice istruttore, che diresse sul po­
sto le indagini e condusse gli interrogatòri. Poi i prigio­
nieri furono trasportati sulla nave ammiraglia, davanti al
tribunale che sedeva sotto una tenda, e accanto c’era
l’ammiraglio con la sciarpa del comando e l’ordine del
Toson d’Oro. Al suo cospetto dovette comparire la signora
de Cercai in mezzo ai suoi complici ; aveva il viso disfatto
e fissava ora lui, ora i giudici, ora gli ufficiali e soldati che
facevano corona.
Quanto era stata solidale finora la strana combriccola,
e fedeli i servi alla padrona, tanto adesso erano tutti disu­
niti e anzi ostili ; l’uno accusava l’altro, uno contro tutti e
tutti contro uno. Risultò che la damigella aveva strango­
lato nel sonno il primo marito di Feniza, per desiderio
di questa, dopo averne preso il posto nel talamo. Poi
l’assassina, della quale la signora de Cercai era ormai
divenuta mancipia, aveva fatto venire suo fratello, lo
sfregiato, che campava la vita facendo ora il soldato di
ventura ora il bandito. A costui s’era attaccata la dama,
finché egli, poco prima della comparsa di Don Correa,
DON CORREA 1141

s’era stancato di lei e se n’era andato con una forte somma


di denaro, per conquistarsi, come egli diceva, un grado
elevato mediante le fortune della guerra. Durante l’as­
senza di Correa era ritornato e la signora, nei suoi incom­
prensibili atteggiamenti morali e mentali, lo aveva accol­
to e accettato col solo pensiero di mandar via Correa per
mezzo suo, o di eliminarlo. Piena di un odio implacabile,
proprio il giorno prima del suo ritorno s’era consigliata
sul da farsi con la sua congrega, e avevano deciso, se non
c’era altro modo per sottomettere Don Correa, di chiu­
derlo nel castello e di dar fuoco a tutto. Appena cacciati
dalla sala, la damigella, lo scudiero e i servi avevano pre­
parato l’incendio ; perché tutti quelli di casa odiavano co­
me la peste il supposto mendicante e intruso : un altro cat­
tivo frutto della trovata di Don Salvador per sposarsi
felicemente, e che per poco non gli era costato la vita.
Tutto ciò non rischiarava meglio dei fatti stessi il ca­
rattere e l’anima di Feniza. Il paragone con la bella
pelle morbida di un’agile tigre o con la superficie cheta e
azzurra di un’acqua profonda che sotto pullula di vermi
schifosi non avrebbe condotto a nulla. La sua indole in­
somma non era diversa dal suo destino. Se le fosse stato
possibile credere nell’ultima ora alle parole dell’uomo
col quale non aveva pur esitato a legarsi, senza dubbio lo
avrebbe seguito e si sarebbe salvata. Ma per una volta
sola; perché in seguito non sarebbe riuscita a reprimere
l’egoismo, la prepotenza, l’amore per il vizio e l’arte
consumata dell’ipocrisia che formavano per lei l’essenza
della vita.
Ora però era ancor più spezzata che non l’omero del
suo complice e drudo. Don Correa, durante la propria
deposizione, non la guardò; e tuttavia egli le apparve,
sul suo scranno, come un giudice infernale. Il mento
bianco e grazioso che posava con tanta distinzione sulla
gorgiera, adesso tremava livido e floscio, mentre gli occhi
atterriti erano fissi sulla bocca dell’ammiraglio, e i denti
di perla quasi si sentivano sbattere. Tutto ciò faceva sof­
frire Don Salvador forse non meno di lei. Infatti era ella
più biasimevole, per non aver riconosciuto in lui il vero
1 142 L’EPIGRAMMA

uomo, di lui che non aveva scoperto in lei la belva?


Quando, dopo brevi consultazioni, tutti gli accusati
furono dichiarati colpevoli e condannati a morte, egli
fece compire il giudizio da un paio di canonici che era­
no a bordo e sciogliere solennemente il suo matrimonio
con l’adultera. La validità di quest’ultimo decreto era
ormai incontestabile, perché subito dopo Feniza Mayor
de Cercai fu condotta a terra con i suoi complici e impic­
cata alle mura annerite della torre, dopo di che l’ammi­
raglio fece levare le ancore e si rimise in viaggio verso
occidente. Solo dieci anni più tardi riprese moglie, in
modo altrettanto insolito ma più fortunato.
Fu allora che l’ammiraglio Correa con una grande flot­
ta partì dal Brasile per la costa occidentale dell’Africa,
con l’incarico di ritogliere quei possedimenti agli Olandesi,
che vi si erano stabiliti nel periodo di decadenza del Porto­
gallo. Egli apparve inaspettatamente davanti a San Paolo
di Loanda, assediò e conquistò quello e altri capisaldi, e
costrinse dappertutto gli Olandesi alla resa e alla ritirata,
così che in due mesi restituì alle sue bandiere e alla sua
patria le regioni di Benguela e di Loanda, insomma la
costa sudoccidentale dell’Africa, e coprì il suo nome di
nuova gloria. Inoltre sottomise una ventina di reucci
negri, ma poi fu costretto a fermarsi, e per una maggior
sicurezza ed espansione del dominio portoghese piuttosto
che riprendere le armi sceke la via delle trattative.
Nei territori dell’interno, infatti, s’allargava il regno
sconosciuto del cosiddetto re dell’Angola la cui forza ef­
fettiva non era facile calcolare, tanto più che egli si teneva
a misteriosa distanza e si circondava d’un nimbo di terrore
e potenza, il quale poteva ugualmente fondarsi sulla realtà
come su un astuto calcolo, illusione o vanteria.
Correa si fortificò quindi in un luogo adatto, e da
un’ambasceria di capi prigionieri fece invitare il sovrano
negro ritenuto terribile a presentarsi a lui per riconoscere
il proprio obbligo di tributo e la supremazia portoghese
su tutto il regno dell’Angola; e in segno di buona volontà
gli ingiunse di portare, tanto per cominciare, una certa
quantità di polvere d’oro e d’avorio. Al re dell’Angola
DON CORREA II43

quel messaggio giunse poco gradito, e con strana saggezza


politica egli risolse la questione facendo ammazzare gli
sfortunati ambasciatori appena gli ebbero riferito l’ordine
di Correa, affinché non potessero mai più ripetere un si­
mile oltraggio. Per contro inviò subito all’accampamento
portoghese un messaggio proprio, con grandi zanne d’ele­
fante e un sacchetto di polvere d’oro, e fece presentare
quegli oggetti come un dono generoso e amichevole, an­
nunziando in pari tempo l’arrivo della sua regale sorella,
fornita di pieni poteri per i negoziati necessari.
Il tremendo tiranno e leone del deserto seguiva la po­
litica di certi timidi borghesucci europei, che mandano
sempre la moglie dove occorre coraggio e intelligente elo­
quenza; ma poiché possedeva un centinaio di mogli, di
cui egli stesso non aveva paura, dovette ricorrere alla so­
rella, che era scaltra e politicona e già una volta, si diceva,
aveva tentato di far deporre e giustiziare il re suo fratello.
Don Correa non sapeva che i suoi ambasciatori fossero
stati trucidati; perciò prese il gesto del re negro per un
segno di mezza obbedienza e di prossima sottomissione;
ma quando seppe dai suoi spioni che Annachinga, la prin­
cipessa d’Angola, si avvicinava con un seguito che pareva
piuttosto un esercito, schierò le sue truppe in un ordine
che poteva servire tanto per una battaglia quanto per una
parata d’onore. E infatti si vide arrivare un formicolio
di orde nere, nugoli che si allargavano sempre di più
e partorivano un frastuono ora sordo ora lacerante di
voci umane, grida animalesche e strumenti di guerra.
I Portoghesi pensarono bene di ricambiare il saluto sca­
ricando le loro artiglierie pesanti, il cui metallo riluceva
sotto il sole africano; allora il nero esercito, spaventato
dal rombo riecheggiato dalle montagne, s’arrestò dal
primo all’ultimo uomo e si conformò agli ordini dei ca­
valieri accorsi. Questi disposero che solo la principessa
avanzasse col suo seguito personale, e che il grosso rima­
nesse dov’era. Così uscì fuori dalla massa un corteo più
piccolo, che era ancor sempre abbastanza considerevole
nella sua pompa barbarica, e serbava tutti i segni della
•rozza inciviltà di quei popoli primitivi.
1144 L’EPIGRAMMA

Precedeva, come dono del re, un branco di animali


selvaggi, elefanti, giraffe, leoni, tigri e simili, condotti
a catena da uomini che con l’alta statura e l’aspetto su­
perbo dovevano testimoniare la forza e la superiorità del
loro popolo. Venivano poi una dozzina di vassalli perso­
nali di Annachinga, montati su buoi dai finimenti colo­
rati, ciascuno accompagnato da un guerriero che gli por­
tava lo scudo o la lancia, probabilmente un vassallo mi­
nore, poiché anche questi camminavano agili come abeti,
ed elastici come persone che hanno ancora altri inferiori
sotto di sé. Su un carro di forma goffa e greve, tirato da
buoi e coperto di tappeti apparve finalmente la princi­
pessa, vestita di stoffe preziose ed evidentemente molto
antiche, collo e braccia adorni da un gran peso di cerchi e
catene. Sedeva sul suo seggio secondo il costume occi­
dentale, ostentando una fredda impassibilità che avrebbe
potuto servire di modello a molte grandi signore dei paesi
civili. Al suo carro ne seguivano altri due con dame di
corte e schiave, e dopo di questi veniva a piedi una guar­
dia del corpo, con buone armi centenarie d’acciaio, ala­
barde e spadoni, certamente foggiati in Europa. Chiu­
devano il corteo una dozzina di portatori di feticci, con ne­
gromanti di corte e maghi della pioggia, i cui gesti e salti
evocatori e minacciosi divertirono assai i soldati porto­
ghesi. Gli stregoni neri rivolsero le loro maledizioni par­
ticolarmente contro un gruppo di gesuiti venuti a vedere
lo spettacolo, poiché li consideravano i loro principali ne­
mici e rivali; ma i gesuiti li osservarono con la curiosità
scientifica di uomini civili, imparando tranquilli da quei
folli pagani quel che c’era da imparare.
Dentro l’accampamento la principessa fu accolta da
più forti clamori di tamburi e di trombe, e invitata a scen­
dere dal carro. Ufficiali ben vestiti, ma non di grado su­
periore, la condussero sotto una lunga tenda di elegante
struttura, divisa in varie parti da tappezzerie. Nella prima
erano radunati dignitari e ufficiali superiori che scam­
biarono con la principessa le necessarie credenziali e i
discorsi preliminari finché ella non apprese con meraviglia
che il capo supremo non si trovava 11 ma nel comparti­
DON CORREA II45

mento più interno dove avrebbe ricevuto lei sola, cioè in


presenza, s’intende, delle sue donne e degli interpreti.
Poiché ormai era in ballo, andò avanti in silenzio, ma
impaziente e sdegnata, e finalmente si trovò, sempre più
sbalordita, davanti all’ammiraglio, che sedeva, solo, su
un trono elevato, con un unico paggio accanto. Egli in­
dossava la scintillante corazza di gala, sovrastata da una
finissima gorgiera di pizzo e da grosse catene di ordini
cavallereschi, e in capo portava un cappello piumato con
cordoni d’oro e fibbia di diamanti. La sala era rivestita,
soffitto e pareti, di tappezzerie di seta, e il suolo era coperto
di tappeti ; ma eccettuato il trono non si vedeva alcun altro
sedile, se non un cuscino rosso posato in terra a una certa
distanza dal soglio di Don Correa.
Due signori che l’avevano introdotta e poi le si erano
posti al fianco le indicarono muti il cuscino quando An-
nachinga si guardò intorno in cerca di un seggio. Ella si
volse, non scorse null’altro che il gruppetto delle sue
donne e con un cenno ne chiamò una. Costei s’inginoc­
chiò immediatamente dietro il cuscino, puntò le braccia
sul terreno e così nell’atteggiamento d’una sfinge egizia
formò una specie di seggiola. Su di essa si accomodò
dignitosamente la principessa, coi piedi sul cuscino da­
vanti a lei, e attese, sempre silenziosa e altera, gli avve­
nimenti.
«L’uomo chiamato re dell’Angola» pronunciò infine
l’ammiraglio «ha fatto bene ad ascoltare i miei amba­
sciatori e a rispettare la volontà del mio paese e del mio
sovrano, anche se avrei preferito che si fosse presentato
lui stesso!».
Dopo che i due interpreti ebbero comunicato quel di­
scorso prima l’uno all’altro e quindi alla principessa,
questa ripose:
«Tu sbagli, signore, e non sei sulla strada giusta, giac­
ché i tuoi ambasciatori non furono ascoltati bensì ster­
minati appena apersero bocca!».
Quando anche quelle parole furono tradotte e Don
Correa ne intese il senso tacque per qualche minuto, fis­
sando la nera principessa con occhi che mandavano lampi.
1 146 L’EPIGRAMMA

Poi fece chiedere perché erano stati uccisi gli ambasciatori


e quale risultato si aspettassero i suoi da quell’azione.
«Furono uccisi» ella rispose «perché erano sudditi e
servitori del re e ciononostante proferirono parole in­
degne al suo cospetto. Col loro sangue fu lavato il suo
onore, e a te non ne venne alcun danno, poiché ora puoi
esporre ciò che da noi desideri».
«Io non desidero, bensì comando, ed esigo soddisfa­
zione !» disse l’ammiraglio in tono severo «Modera dun­
que il tuo linguaggio se non vuoi che ti faccia legare e
condurre via ! ».
Ma Annachinga, senza mostrarsi impressionata da
quella minaccia, senza un tremito delle palpebre o delle
labbra, rispose:
«Dovresti pensare ai sessanta o settanta bianchi che
sono nelle nostre mani. Di essi, più di metà appartengono
al tuo paese ! ».
Sembrava dunque confermata la diceria che un buon
numero d’Europei fossero prigionieri nell’Angola; del
resto, dei mercanti olandesi e portoghesi erano scomparsi
da anni, e anche negli ultimi tempi alcuni soldati che si
erano smarriti dovevano essere stati catturati. Sebbene
la dama negra probabilmente esagerasse, qualcosa di
vero doveva esserci e Don Correa rifletté per un attimo
alla sua posizione scabrosa e alla risposta che gli conveniva
dare. Ma la principessa, da diplomatica consumata, non
lasciò durare o crescere l’imbarazzo e proseguì senza in­
dugio, tornando alla questione principale:
«Noi non sappiamo quale vantaggio ti riprometta,
trattandoci come sudditi e considerandoci schiavi prima
di aver provato la nostra forza, tentato un attacco, e tan­
to meno averci sottomessi. E anche se tu ci avessi vera­
mente sconfitti i vantaggi sarebbero minori di quelli che
ti potrebbero offrire i rapporti amichevoli. Se tu concludi
con noi un trattato di amicizia, che io ho il pieno potere
di proporti, otterrai un solido baluardo e un aiuto potente
contro tutti gli altri avversari pronti ad assalirti ; e invece
di essere rivolti contro di te, i nostri archi innumerevoli
scatteranno contro i tuoi nemici e ti apriranno la strada.
DON CORREA II47

In luogo di un tributo estorto, un commercio libero e re­


golare assicurerà al tuo paese maggior guadagno di quan­
to potrebbe mai portare uno sfruttamento per noi igno­
minioso. Questo ti prego di ponderare, prima di ricorrere
alle armi ; poiché ciò che tu chiedi non l’avrai senza una
dura lotta!».
Se Don Correa aveva già capito da quella parata so­
lenne di avere a che fare con una certa potenza che era
rischioso disprezzare, adesso dovette riconoscere che co­
stei sapeva anche quel che voleva ed era capace di discu­
tere con argomenti ragionevoli. Con pronta risoluzione
mutò dunque il suo disegno e disse :
«Poiché ci vengono fatte proposte chiare e precise
che dimostrano un leale spirito di conciliazione, vedo
motivi sufficienti di considerare l’offerta. Sono pronto a
libere trattative in condizione di parità, riservandomi se­
condo le circostanze la decisione finale. E ora puoi sce­
gliere se vuoi accettare l’ospitalità fra di noi o se preferisci
ritirarti nel tuo campo in attesa di un secondo colloquio».
La principessa dichiarò di attenersi alla seconda alter­
nativa e s’alzò dal suo seggio con la superba dignità
con la quale vi si era assisa. Allo stesso tempo s’alzò anche
l’ammiraglio per trattarla da pari, come aveva promesso,
e accompagnarla cortesemente alla porta. Mentre proce­
devano così verso l’uscita, Don Correa s’accorse che la
schiava inginocchiata era rimasta immobile e fece osser­
vare sorridendo alla principessa che aveva dimenticato di
portarsi via il suo sedile vivente.
«Non seggo mai due volte sulla stessa seggiola ! » rispo­
se Annachinga senza voltarsi indietro «Rimanga pure
nella casa dove me ne sono servita. Ti faccio dono di
quella schiava ! ».
Anche se non era che magniloquenza, quella frase gli
diede di nuovo da pensare, e non senza soldatesca galan­
teria egli accompagnò la principessa all’uscita del campo.
Quando poi ritornò nella grande tenda per riflettere in
solitudine sul da farsi, Don Correa trovò con una certa
sorpresa che la giovane donna era sempre là immobile
sulle ginocchia e sui gomiti.
1148 L’EPIGRAMMA

S’avvicinò, fece un giro intorno alla bella scultura,


giacché la fanciulla, o quel che altro fosse, somigliava più
a una statua che a un essere umano, e la considerò con
meraviglia e anche con perplessità, non sapendo che cosa
farne. Era vestita di cotone bianco che le scendeva dalle
spalle ai piedi, e di sotto le ascelle fin verso i fianchi rav­
volgevano nastri dello stesso colore. Solo le spalle e le
braccia di un bruno chiaro erano scoperte, e avevano
forme di perfetta bellezza e armonia. Sebbene neri come
l’ebano i capelli non erano lanosi come quelli dei negri,
bensì fluivano in larghe, morbide onde da una specie di
panierino a corona, fatto di rami di salice, che era pun­
tato sul capo. La faccia Don Correa non la poteva vedere
perché era rivolta a terra e velata dai capelli sciolti.
Quantunque egli fosse indifferente e anzi duro con gli
schiavi e con la gente di colore, come tutti gli uomini di
pelle bianca, si chinò alquanto e disse con voce compas­
sionevole : « Fino a quando vuoi restar lì? Su, alzati ! ».
La povera donna indovinò il significato di quell’or­
dine e si tirò su; ma la posizione innaturale le aveva irri­
gidito le membra e impedito il respiro, sicché alzandosi
barcollò e non riuscì a stare in piedi, e Don Correa do­
vette porgerle la mano e sorreggerla per un momento
affinché non cadesse a terra. Finalmente ella gli stette
davanti, con gli occhi bassi per la vergogna, e un’onda
di rossore le coprì visibilmente le guance brune. Del
resto il volto aveva nobili tratti, ricordando il taglio
di visi femminili dell’Antico Egitto o di altri antichis­
simi popoli scomparsi. Colpito dalla grazia aristocrati­
ca di tutta la figura egli le mise la mano sotto il pic­
colo mento e glielo sollevò con garbo, finché lei dovette
piegare indietro la testa e guardarlo con i grandi occhi a
mandorla. Allora egli scoprì in quegli occhi scuri come
sulla bocca purpurea il dolore e il rimprovero muto della
natura che soffre, la quale sempre commuove il cuore
umano, mentre i suoi trionfanti terrori non lo possono
soggiogare. L’uomo che da dieci anni passava accanto
alle donne più belle e più splendide senza vederle, insen­
sibile ai loro sguardi, fu ora percosso repentinamente
DON CORREA H49

come da un incantesimo o da una rivelazione; nemmeno


per un istante seppe resistere al desiderio di prendere fra
le braccia la silenziosa, strana creatura e baciarla dolce­
mente sulle due guance. Cosi la consacrava con delica­
tezza sua proprietà, e giurò a se stesso di non abbando­
narla mai più; perché a dispetto della cattiva esperienza
fatta, ora credeva, come ispirato, che questa donna non
l’avrebbe deluso.
Immediatamente risolse di dare alla schiava idolatra
la libertà religiosa e umana e la coscienza di sé; a questo
scopo chiamò il suo paggio e fece condurre subito la fan­
ciulla a Loanda, nella casa di uno dei suoi ufficiali che
viveva con la famiglia. Un carro di vettovaglie che tor­
nava indietro vuoto, sotto la guida di un anziano soldato,
servì per il non lungo viaggio.
Quando i colloqui con la sorella del re dell’Angola
ebbero condotto a buoni risultati, ed ella fu ripartita con
il suo seguito, Don Correa si recò subito a San Paolo di
Loanda. Trovò la schiava in buona custodia nella fami­
glia dell’ufficiale, e già vestita alla foggia cristiana, i ca­
pelli neri modestamente intrecciati e appuntati come usa­
vano le fanciulle portoghesi. A prima vista gli parve che
con la semplice corona di salice e la bianca veste attillata
avesse perduto una parte del suo fascino misterioso, e
quasi rimpianse la metamorfosi, ma presto s’avvide che
l’innocente primordiale umiltà del suo volto, unita al
nobile portamento che le era naturale, trionfavano di
ogni vestito che potesse esserle imposto. Durante i col­
loqui con Annachinga le aveva chiesto una volta, casual­
mente, così come per cortesia si chiede al donatore qual­
che particolarità sull’oggetto donato, di quale razza fosse
la schiava e di dove l’aveva avuta. Per precauzione aveva
usato il tono col quale un giovane del bel mondo s’informa
del vitto d’un uccello raro che gli è stato regalato, se occor­
ra nutrirlo di vermi o di grani e così via. Annachinga gli
disse che la ragazza veniva dai paesi del levante, forse
da una nazione che era stata distrutta; e che per via di
conquiste e di commerci aveva traversato tutta l’Africa
con la madre fino alle coste d’Occidente. Alla principessa
ii5° L’EPIGRAMMA

era stata venduta quando aveva dieci anni, ora poteva


averne diciassette; sapeva tessere stoffe bianche e colo­
rate, ma per tutto il resto era rozza e ignorante, essendo
sempre rimasta in mano alle donne. Il meglio per Don
Correa era di donarla alla propria consorte o sovrana;
ad ogni modo, ella apparteneva a una razza che si an­
dava facendo rara. Se invece voleva tenerla per sé, oc­
correva domarla con la frusta ogni volta che si mostrava
indocile. Ancora non le era stato apportato nessuno degli
abbellimenti di moda ; non le avevano spezzato i denti pre­
scritti, né tatuato le guance, né infilato un anello nel
naso; ormai però aveva l’età giusta per farlo.
Gentilmente ma con noncuranza, come voleva la futili­
tà dell’argomento, Don Correa ringraziò Annachinga per
i disinteressati consigli, e riportò il discorso sui più im­
portanti affari di stato.
Ora, a Loanda, trovò le informazioni della principessa
confermate dalle domande che erano state rivolte nel frat­
tempo alla schiava. Essa ricordava vagamente di aver
visto, piccolissima, case di pietra lungo l’acqua, poi c’era
stato molto frastuono e molto fumo, e in braccio alla
madre o tenuta per mano aveva percorso infiniti paesi,
finché la principessa dell’Angola aveva comprato la ma­
dre e la figlia. Più tardi s’era resa conto di altro: che la
principessa aveva trattato duramente sua madre, e che
questa era morta anzi tempo. Oltre a ciò non sapeva nul­
la, se non che il suo nome era Zambo.
L’atto successivo dell’ammiraglio fu di farla battezza­
re, e per l’occasione preparò una piccola festa, senza però
rivelarne il motivo. La chiesa fu decorata di fiori e di rami
di palma, sotto il pretesto di celebrare quella prima vit­
toria sul regno ancora da conquistare, e l’altare maggiore
sfolgorava di luci. Una dozzina di gesuiti cantarono e
suonarono come mille usignoli durante la messa solenne,
e il tredicesimo fece la predica, nella quale sostenne l’edi­
ficante ipotesi che Zambo fosse l’ultima discendente della
saggia regina di Saba, e finalmente avesse ottenuto la sa­
lute dell’anima che la sua memorabile progenitrice del-
l’AnticoTestamento aveva cercato invano presso i Giudei.
DON CORREA II5I

Don Correa stesso era il padrino, e la più distinta si­


gnora di Loanda era la madrina; la cerimonia fu com­
piuta e Zambo fu battezzata col nome di Maria. Ella ac­
cettò ogni cosa con mite sommissione, senza battere ciglio;
solo dopo il rito, quando fu condotta all’altare per pre­
sentarsi ancora particolarmente davanti alla grande pa­
trona e renderle omaggio, ella levò timidamente gli occhi
verso l’immagine lignea di Maria, che dopo la cacciata
degli Olandesi eretici era stata restituita al primitivo
splendore, la corona dorata di fresco, la faccia coperta
di una vernice spessa che brillava come uno specchio;
anzi la guancia sinistra rifletteva davvero il nasetto di
Gesù Bambino che vi poggiava contro. Ma poiché la
guancia era tondeggiante, il naso di Gesù appariva così
grosso che Zambo-Maria credette di vedere un uomo den­
tro la trasparente Madonna, un uomo col naso che spor­
geva fuori, e non avendo mai visto, d’altronde, una scul­
tura come quella, la prese per una magia vivente e fu
còlta da una tremenda paura. Si mise a tremare come una
foglia e cercò di fuggire. Ma la calca era tale che non le
era possibile fenderla; allora si rifugiò a lato di Don
Correa, nel quale vedeva il suo protettore, e additò con la
mano la donna lucente e dorata che conteneva uno spi­
rito più grande di lei. Tutti si pigiarono per vedere e
sentire che cosa succedeva alla nuova cristiana, e cerca­
rono di ripetersi l’un l’altro ciò che ella diceva.
A un tratto risonò la voce alta di un prete che gridava :
«Al miracolo ! Al miracolo ! È accaduto un prodigio ! Il
Signore è rientrato nella sua dimora terrena, nel suo pa­
diglione estivo, nella sua villa amena ! Egli vuole vedere
la prima pagana che ha ricevuto da noi il battesimo!».
Tutti fissarono la figura sull’altare, indicata da Zambo,
e fra la folla ora l’uno ora l’altro incominciò a esclamare :
«Vedo anch’io! Vedo anch’io!» senza che nessuno sa­
pesse che cosa insomma c’era da vedere. I Gesuiti, imme­
diatamente decisi a ghermire la buona occasione, soffo­
carono ogni altro esame con un potente Te Deum, che
essi intonarono e al quale il popolo fece coro. Poi presero
la neofita e con croce e vessilli la portarono in processione
1152 L’EPIGRAMMA

nella chiesa e fuori della chiesa, agitando gl’incensieri e


recitando le loro litanie. Accorse sempre più gente e in un
momento ella fu strappata al suo protettore e scomparve ;
la trascinarono infatti per strade e strade, e in parecchie
case per elevare le anime con la vista di una miracolata.
Finalmente Don Correa si mise a cercarla e la tirò
fuori da una fittissima ressa di gente che ella guardava con
visibile angoscia e paura, giacché non capiva affatto che
cosa stesse accadendo e incominciava a temere che
l’avrebbero sacrificata a quella piccola donna luccicante,
vale a dire ammazzata; nel regno nero infatti aveva visto
portare in giro allo .stesso modo le persone destinate a es­
sere immolate. Perciò s’aggrappò al braccio di Don Sal­
vador, appena quegli la raggiunse e la prese per mano. I
Gesuiti però non erano disposti a rinunziare tanto facil­
mente alla loro conquista, e sostenevano che Zambo-Maria
doveva essere consacrata al cielo e rimanere sotto la sal­
vaguardia della Chiesa. Il potente ammiraglio rispose che
ci avrebbe pensato lui; per il momento la ragazza era
ancora sua proprietà e sua figlioccia, e adesso doveva as­
sistere al banchetto del battesimo e ricevere alcuni regali.
La folla tuttavia protestava e non voleva privarsi del mi­
racolo, e ci volle l’autorità e la risolutezza di Correa per
liberare l’atterrita fanciulla. La fece andare avanti, ac­
compagnata dal suo paggio, e la seguì con parecchi dei
suoi soldati. Così giunsero a una piccola casa di campa­
gna che egli abitava a Loanda; la madrina, sottrattasi
fin dal principio alla calca, era già lì con i suoi accompa­
gnatori, e la non numerosa compagnia prese posto alla
tavola pronta dopo che le donne presenti ebbero riasset­
tato le vesti scomposte della festeggiata.
Zambo sedeva fra la madrina e la signora che aveva
avuto fino allora cura di lei. Portava un velo bianco e una
corona di mirto intrecciata con rose rosse, per cui il viso
bruno e il collo adorno di una collanina d’oro risaltavano
con un effetto straordinariamente grazioso.
Don Correa, che le stava di fronte, doveva fare uno sfor­
zo per non guardarla troppo sovente, in presenza non
soltanto delle signore, ma anche del sacerdote che l’aveva
DON CORREA II53

battezzata. Quantunque la bruna Maria fosse già, fino a


un certo punto, abituata alle mense occidentali, non riu­
scì a mangiare; perché l’avvicendarsi di tante impres­
sioni in così poco tempo le opprimeva il cuore. Si era
convinta di non correre più alcun pericolo e sentiva, pur
non comprendendo una parola, che parlavano affettuosa­
mente di lei; tuttavia la nuova posizione, l’ambiente, l’av­
venire le parevano così ignoti ed estranei, che l’inquietu­
dine della sua anima pareva piuttosto aumentare che di­
minuire. Solo quando Don Correa con le sue mani riem­
pì un piatto di bei frutti e di dolci portoghesi, e glielo
porse, ella si mise a rosicchiare docile e rispettosa, e
mangiò tutto tranquillamente. «Guardate» dissero le si­
gnore «come è sottomessa con il suo buon protettore!
Davvero Sua Signoria l’ha conquistata».
Intanto si faceva sera, e levate le mense la compagnia
si trattenne ancora per un poco all’aperto, godendo la
benefica aura notturna che spirava balsamica e rinfre­
scante sul mare e sulla terra. Fra i discorsi degli invitati
che passeggiavano su e giù occupandosi d’altro, Zambo
(o Maria) rimase inosservata, come succede dopo che una
persona ha riscosso la sua modesta parte d’attenzione. Ella
se ne rimase in disparte sotto un gruppo di alti palmizi,
appoggiata a un tronco, e guardava immota verso occi­
dente, dove la falce della luna calante scintillava sul mare,
così luminosa che le palme gettavano ombra. L’estremo
margine del grande astro argenteo rifletteva ancora la
lontana luce del sole come un sottile anello rutilante,
mentre la vista acuta di Zambo scorgeva già i disegni
sfumanti verso l’interno, meno illuminati ma a lei ben
familiari. L’occhio tuttavia era sempre riattratto dall’orlo
corrusco. Era l’ultima eco di un culto probabilmente
tramontato da millenni, che ancora sopravviveva nella
fanciulla come un vago ricordo dell’antica patria o della
madre morta ; forse, senza saperlo, ella si volgeva ancora
una volta verso la spenta Selene prima di seguire la dea
dorata al cui altare s’era accostata quel giorno; comunque
fosse, ella tese le braccia verso la luna, come per implo­
rare soccorso.
1154 L’EPIGRAMMA

In quel momento qualcuno le prese dolcemente la ma­


no; era Don Correa, che si era avvicinato guardingo e le
pose quella stessa mano sulle labbra, in segno che doveva
tacere. Poi le infilò al dito un anello splendente e la baciò
rapido sulla bocca, dopo di che scivolò via non visto,
com’era venuto. Poco più tardi il piccolo gruppo si se­
parò, e Zambo tornò a casa con la sua protettrice.
Il giorno dopo l’ammiraglio fece spiegare le vele a due
navi non indispensabili al servizio locale e le inviò con
dispacci l’una in Brasile, l’altra in Portogallo. Sulla prima
aveva già fatto imbarcare all’alba Zambo con un’ancella
e l’aveva raccomandata caldamente al capitano. La so­
rella della madre di Don Correa, morta da gran tem­
po, viveva a Rio de Janeiro, dov’era badessa di un con­
vento di domenicane. A questa zia don Salvador affidò
la ragazza con una lettera d’accompagnamento in cui
pregava l’autorevole religiosa di accogliere la catecumena
nel suo monastero, d’insegnarle il costume cristiano e le
buone regole di vita, preparandola però a ritornare nel
mondo; il tutto con assicurazioni di profonda gratitudine
e speranza di contraccambiare.
La partenza delle navi era già nota da prima ; ma l’im­
barco di Zambo avvenne in modo rapido e improvviso,
sicché quando i Gesuiti vollero continuare le loro specu­
lazioni sulla miracolata e innanzitutto metterla al sicuro,
le navi erano già fuori vista; e la futura meta di pellegri­
naggio sulla costa occidentale del continente si tramutò
in un castello in aria e tale è rimasta finora.
Zambo-Maria era la meno informata di tutti sul pro­
prio destino. Quando l’ammiraglio, dati gli ultimi ordini,
lasciò la nave, non si trattenne con lei, nel prendere com­
miato, più che coh altre persone secondarie; strinse nel­
la sua, per un attimo, la sottile e bruna mano di lei di­
cendo alla sua brava figlioccia, in modo che ciascuno po­
tesse udire, qualche comune parola d’incoraggiamento,
poi si voltò e non si guardò più indietro. La figlia della
natura, però, ne aveva già capito abbastanza da tenere
accuratamente per sé tanto le discrete carezze che aveva
ricevuto da lui quanto il dono dell’anello, anche se imparò
DON CORREA 11 55

presto a scambiare qualche parola in portoghese con le


donne a bordo.
Intanto anche i negoziati col regno d’Angola vennero
a conclusione e la principessa, come già detto, ripartì con
la sua gente. La scaltrezza e lo scilinguagnolo della di­
plomatica mora non poterono impedire che suo fratello
fosse considerato vassallo della corona portoghese, e in­
fine Don Correa fu nominato reggente dell’Angola. Resse
poi il paese per parecchi anni.
Al termine del primo anno però si recò a Rio de Ja­
neiro per riprendersi il gioiello colà conservato e conclu­
dere le nozze. In premio delle sue gesta il sovrano porto­
ghese fra altri riconoscimenti aveva aggiunto come sup­
porti al suo blasone due re negri con la corona d’oro.
Queste figure egli le dedicò alla futura sposa e le fece im­
primere dappertutto su suppellettili, ornamenti e tappez­
zerie fatti eseguire nelle fabbriche europee. Ancora sul
bastimento, mentre stava per entrare nella rada di Rio,
immaginò un quadro che voleva far dipingere dove Zam-
bo-Maria riceveva il battesimo nelle vesti della Regina di
Saba e due re mori reggevano il fonte battesimale. Ma
quando giunse al convento delle domenicane e in parla­
torio chiese alla zia badessa della giovane donna, la mo­
naca gli rispose, dopo averlo salutato con asciutte parole,
che pochi giorni prima la ragazza negra era fuggita e non
se n’era più saputo nulla.
Don Correa impallidì e rimase come percosso dal ful­
mine. Il suo primo pensiero non fu di maledire la fuggia­
sca bensì la propria follia. “Perché non hai tenuto con te
la povera creatura e non l’hai sposata così com’era?”
pensò “Adesso per lei sarà la rovina!”.
Chiese alla badessa se non sospettava il motivo che
poteva averla indotta alla fuga, e dove immaginava che
si fosse rivolta. Ma quella negò tutto e disse che l’ammi-
raglio, se s’interessava alla donna, aveva più poteri e più
mezzi di lei per farne ricerca. Don Correa andò alla sua
casa di Rio, che aveva divisato di preparare per le nozze.
Vi trovò parecchie casse già arrivate; ma invece di aprirle
mandò gente in tutte le direzioni a cercare tracce della
h56 L’EPIGRAMMA

scomparsa, e si diede da fare anche lui, pieno di pietà


per la sconsigliatezza della povera Zambo. Il capriccio
amoroso che l’aveva colto a prima vista dopo così lunga
interruzione era diventato nel frattempo una fervida te­
nerezza, un profondo bisogno di dedicarsi a quell’anima
fuori del tumulto mondano, e mentre la cercava inutil­
mente si chiese se con i suoi preparativi esteriori e lus­
suosi non aveva peccato contro la semplicità di quella
creatura innocente e per un giusto castigo l’aveva perduta.
Ricordò con dolore, se questa parola s’addice a un così
grande signore e guerriero, la pomposa accoglienza che
aveva preparato molti anni prima alla perfida femmina
di Cercai, e il triste epilogo di quegli splendidi festeggia­
menti. Spinto dall’ansia di saperne di più sulla vita e l’a­
nimo di Zambo nel monastero, vi ritornò a precipizio,
interrogò la superiora con insistenza e addirittura con
una certa veemenza che sembrava eccedere l’importanza
del fatto, e anche il ceto e la dignità dell’uomo. La vec­
chia dama con la croce d’oro sul petto, attentamente sog­
guardandolo di sotto le palpebre gonfie, con molta tran­
quillità fece gli elogi della negra, com’essa si ostinava a
chiamare Maria benché evidentemente non fosse affatto
tale. Riferì che aveva imparato a esprimersi abbastanza
bene in portoghese, che era silenziosa e ubbidiente, e che
le piaceva dedicarsi ai lavori femminili.
«Quali lavori?» chiese Don Correa, il quale sapeva
che le dame di quell’istituto lavoravano altrettanto poco
di quelle di fuori. Temette quindi che la ragazza fosse
stata adibita a basse incombenze, se non a fatiche da
schiava, e magari fosse fuggita per quello. Ma la madre
superiora, schivando una risposta, continuò a dire un gran
bene della fanciulla scomparsa, e don Correa ascoltandola
divenne sempre più amareggiato e più triste. La vecchia
terminò con le parole: «Item, non l’avremmo mai cre­
duta così ingrata da fuggire via ! ».
Con la mente a soqquadro egli ritornò a casa per rac­
cogliersi e riflettere. Questa volta, infatti, lui che non esi­
tava mai nel risolversi e agire, di fronte al mistero si sen­
tiva perplesso e indeciso. Il servizio non gli consentiva di
DON CORREA "δ?

trattenersi a Rio per molto tempo ; ma se lasciava la città


e il paese, perdeva ogni speranza di ritrovare Zambo, e
l’uomo abituato a conquistare popoli e terre non sarebbe
più stato in grado di attuare il suo innocente e modesto
progetto di matrimonio.
Era appena rientrato in casa rivolgendo fra sé quelle
cupe meditazioni, e stava gettando spada e guanti sul
tavolo del suo studio, quando entrò di corsa Luis, il suo
paggio, un ragazzo di quattordici anni, così sveglio e fe­
dele che il padrone si fidava di lui più che di tutti gli altri
servi, e inoltre gli era sinceramente affezionato per la sua
natura amabilissima. Luis dunque gli riferì che, mentre
bighellonava per la strada, gli aveva fatto cenno la moglie
del vicino, un vecchio armatore francese, la quale era ri­
tenuta in segreto una protestante, e dietro la porta di casa
gli aveva bisbigliato di dire al suo padrone che ella cono­
sceva il luogo dove Sua Eccellenza poteva trovare quel
che cercava; venisse dunque un momento, appena era
buio, sulla veranda dietro la casa di lei. Don Correa non
se lo fece ripetere due volte, e apprese dall’arzilla vec­
chietta - dopo averle promesso protezione e segreto - che
Zambo da non molto tempo era stata portata in un con­
vento di Cadice su un bastimento dell’armatore suo ma­
rito, diretto a Marsiglia. La signora sapeva anche che si
voleva fare della fanciulla una specie di martire e di tau-
maturga, ma che essa aveva ricusato di farsi dipingere
piaghe sanguinose sulle mani e sulla fronte allo scopo di
essere spacciata per una santa che sudava sangue; la
vecchia era persino informata che le avevano strappato
dal dito una specie di anello di fidanzamento. Una parte
di questi fatti li aveva uditi da una fiamminga che faceva
la panettiera in convento e ogni tanto veniva a trovarla.
Don Correa riconobbe subito l’autenticità delle infor­
mazioni e ringraziò la signora pregandola a sua volta di
mantenere il segreto. Nonostante la sua fede cattolica un
muto furore lo divorava contro i Gesuiti, che evidente­
mente fin dall’Africa avevano macchinato insidie dietro
le sue spalle, e non meno sdegnato era contro l’ipocrita
badessa sua zia. Costei, non senza ragione, sospettava
nò» L’EPIGRAMMA

che il nipote avesse di nuovo in mente un bizzarro pro­


getto di matrimonio, e aveva tanto maggior motivo di
opporvisi in quanto era già interessata a un connubio
più glorioso per lui, e spiava solo il momento di pro­
porglielo.
L’ammiraglio e reggente o viceré dell’Angola quella
notte stessa si preparò un pretesto per estendere il suo viag­
gio all’Europa e riferire personalmente alla corte di
Lisbona sulle condizioni e l’avvenire della regione afri­
cana, e il giorno dopo salpò con due navi verso oriente
senza informare nessuno della sua rotta. Con grande im­
pazienza vedeva passare i giorni e le settimane, sebbene
veleggiasse con vento e tempo propizi, e quando potè
finalmente avvicinarsi al golfo di Cadice trovò la baia e
il porto chiusi da vascelli di guardia perché la peste re­
gnava nella città.
La nuova fatalità accrebbe al massimo grado il suo
abbattimento e la sua ansia per la povera Zambo, ma per
fortuna anche la sua circospezione. Poiché la responsa­
bilità che pesava su di lui e la sicura inutilità d’ogni mossa
gli vietavano di esporre la sua persona in terra di Spagna,
risolse di terminare innanzitutto il viaggio a Lisbona e di
mandare in perlustrazione solo il ragazzo Luis. Confidò
a lui, che conosceva Zambo e ne era conosciuto, l’intero
segreto, gli fece indossare gli abiti stracciati di un piccolo
pescatore, lo fornì abbondantemente di denaro e a notte
fonda lo sbarcò sul promontorio di San Pietro, a sud della
baia. Con la temerità e l’entusiasmo di un adolescente
romantico, e lieto della libertà, l’intelligente ragazzo s’al­
lontanò verso il retroterra, mentre Don Correa dirigeva
il timone verso il Capo San Vincenzo per giungere al
più presto a Lisbona. Di là contava poi di procedere
nelle ricerche, con o senza notizie di Luis.
Non era passato neanche un giorno, e Luis già girel­
lava per Cadice con una cassettina piena di carabattole
indiane, offrendole in vendita qua e là; ma dappertutto
lo mandavano via, questi col corruccio di chi aveva in ca­
sa malati di peste o già addirittura dei morti, quelli con le
risa e le blasfeme della plebaglia rimasta sana che can-
DON CORREA II59

tando ballando e trincando affollava le bettole e le piazze.


Ma Luis non si scoraggiava e continuò a percorrere la
città in tutte le direzioni, finché trovò un monastero fem­
minile appartenente all’ordine domenicano. Era un cu­
mulo di vecchi edifici e di alte muraglie, forato qua e là
da strette finestre saracene. Naturalmente l’ingresso gli
era vietato, come a ogni altro uomo ; solo in chiesa potè
entrare, e vide che le funzioni religiose erano celebrate
alla bell’e meglio, e che l’interno del convento era sotto­
sopra come il resto della città.
Nella locanda dove alloggiava, comprò dalla figlia di
un contadino morto improvvisamente un asinelio, e da un
rigattiere un vestito da donna e uno scialle stracciato; poi
caricò sull’asino una bella cesta di arance fresche e camuf­
fato da povera contadinella salì sull’animale e cavalcò
tranquillo verso il monastero. Grazie al travestimento
riuscì a penetrare in un cortile di cui avevano aperto la
porta per fare entrare un medico; e siccome dentro re­
gnavano confusione e smarrimento perché la superiora
era stata colpita proprio allora dalla pestilenza, la falsa
venditrice d’arance potè spingere il suo asinelio fino a
un giardino ove alcune monache s’aggiravano spaven­
tate. Cominciò allora a offrire la sua merce, facendo un
gran fracasso e strillando come una vera ragazza di cam­
pagna, cosicché molte suore accorsero e circondarono
l’asino col suo carico. Prima una e poi altre comprarono
qualche arancia^ che lo scaltro ragazzo dava quasi per
nulla con la scusa dei tempi brutti e infausti, e il basso
prezzo allettava le buone donne a profittare dell’occa­
sione e concedersi un piccolo ristoro. Alcune si scelsero
fra le sfere dorate, soppesandole e annusandole, una pic­
cola provvista, e intanto Luis si guardava intorno furti­
vamente, se non scorgesse Zambo da qualche parte. E la
fortuna gli fu benigna. Da una finestra posta abbastanza
in alto due visi di donna guardavano giù dietro una grata
di legno, e una delle due, ancora senza velo e in abito se­
colare, non era altri che la bruna Zambo.
Appena Luis l’ebbe riconosciuta, spinse l’asino, senza
parere, finché la bestiola grigia si trovò sotto la finestra ;
1 ι6ο L’EPIGRAMMA

e allora incominciò a gridare con tutto il fiato che aveva


in gola: «Comprate, reverende madri! Comprate arance
fresche per la sete ! Sono salutari, lo dicono i medici, e a
buon mercato! Per un mezzo baiocco ve ne posso dare
tre pezzi ! Comprate, signore mie, e gustatele, così dimen­
ticherete il pericolo ! L’ultimo provvedimento è che nes­
suna nave proveniente di fuori può entrare nel porto di
Cadice. Prendete le arance, sono regalate, reverende ma­
dri ! Ieri il viceré dell’Angola, il magnifico e glorioso Don
Salvador Correa, l’eroico conquistatore di tante fortezze,
ha dovuto ritirarsi dalle nostre acque senza poter scen­
dere a terra. Ho visto i suoi vascelli; dicono che sia ri­
partito per Lisbona e che vi si tratterrà per qualche tem­
po. Pare che sia un gran bell’uomo, splendido e fiero;
ma i signori come lui sono sovente i più affabili, con quelli
che vanno loro a genio ! Compratemi le arance, ch’io
possa tornarmene a casa!».
Tutto questo l’ardito ragazzo lo gridava il più chiara­
mente possibile, alzando il viso in modo che Zambo do­
veva per forza vederlo e sentirlo. Quando egli ebbe sca­
gliato in aria il nome di Don Correa, ella si fece attenta e
non staccò più gli occhi da lui, finché d’improvviso lo ri­
conobbe e un raggio di gioia le illuminò lo sguardo.
Ma in quel momento sopraggiunse una lunga priora, o
maestra del coro, o qualcosa di simile, e disse: «Perché fa
tanto fracasso quella contadinotta? Come mai è entrata
nel giardino, e cos’ha da chiacchierare d’un viceré?». E
avvicinatasi ancora di più tese la mano secca dalla quale
pendeva un rosario verso il braccio del paggio travestito,
il quale però sveltamente seppe fare in modo che l’asino
si mettesse a scalciare, il corbello cadesse a terra e le aran­
ce rotolassero da ogni parte. Mentre alcune suore corre­
vano a raccogliere i frutti e altre inseguivano l’asino che
seguitava a sparare calci, Luis si tirò su le sottane, scappò
fuori dal convento e a lunghi passi di corsa se la svignò
per le viuzze adiacenti. Arrivato alla locanda senza farsi
scorgere, mutò d’abito, pagò il locandiere, dopo aver finto
di mercanteggiare, con le monetine ricavate dalla vendita
delle arance, uscì subito dalla città e camminò finché
DON CORREA ll6l

giunse a un’altra città di mare dove potè imbarcarsi per


Lisbona.
Felice come se avesse preso nella rete il più bell’uccelli­
no del mondo portò al suo padrone la notizia del ritro­
vamento di Zambo-Maria, e la sua faccia raggiante ri­
schiarò subito il viso cupo del signore. Don Correa si
sentì sollevato d’una parte dei suoi crucci. Non v’era
dubbio che le monache dovevano restituirgli ciò che era
sua proprietà indiscutibile ; ma perché non vi potesse es­
sere un altro rapimento occorreva sorprenderle con un
ordine dell’autorità che non lasciasse tempo per nuovi
sotterfugi. Correa non avrebbe avuto difficoltà a ottenere
quell’ordine; però non era possibile averlo immediata­
mente, e intanto Zambo poteva dieci volte cader vittima
della peste. D’altra parte era probabile che il terrore del
morbo mortale impedisse a preti e monache di tosare il
capo alla derelitta fanciulla, costringerla a prendere il
velo e insomma porre in opera tutto l’imbroglio ideato,
giacché prima di tutto avevano da pensare a se stessi.
In breve, tali considerazioni contraddittorie risvegliarono
i tormenti in tutta la loro gravità, e Don Correa si sarebbe
dato dei pugni in testa per la rabbia di non aver preso in
moglie Maria il giorno stesso del battesimo ed essersela
sempre tenuta accanto. Tuttavia s’affrettò a fare i passi
necessari presso le massime autorità spagnole per remis­
sione di un ordine chiaro e preciso, e il suo governo lo so­
stenne debitamente. Ma passava una settimana dopo
l’altra, e il decreto non usciva ; e intanto, pur con tutta la
considerazione di cui egli godeva, s’avviava a termine
anche il tempo che gli era concesso rimanere in Europa.
Una sera passeggiava pensieroso nel suo studio e si
chiedeva se era degno di lui pigliarsi tanta pena per una
donna e sopportare tante contrarietà; e addirittura se il
desiderio e il disegno di prepararsi un quieto e morbido
nido di riposo nella vita familiare fosse giustificabile da­
vanti a una volontà superiore. Il paggio Luis sedeva a un
tavolo nel centro della sala, chino su una grande mappa
marina e mezzo addormentato; l’ammiraglio infatti gli
dava personalmente lezioni di arte nautica, e lo interroga­
1 1Ö2 L’EPIGRAMMA

va sovente, come aveva fatto anche quella sera prima che


il pensiero dominante da cui era oppresso lo distraesse e
gli facesse dimenticare l’allievo. I ceri del candelabro
d’argento che illuminava i rozzi tracciati della carta nau­
tica erano già consunti a metà e l’orologio sul caminetto
segnava le dieci e mezzo.
“Ormai ho trentasei anni” egli ragionava tra sé “e
dovrei saggiamente spegnere la face di Eros! Chi ha da
guerreggiare e da comandare, deve mantenere il cuore
sgombro e il sangue tranquillo. M’occorre una governante
per la casa, si sa ; ma forse sarebbe meglio piegarsi al vo­
lere della signora zia e prendere in moglie una donna
indifferente che faccia bella figura e non ci metta il
sangue sossopra! E forse anche per la povera Zambo
non sarebbe preferibile essere al riparo dalle tempeste
della vita e diventare una pia monacella?”.
A quel punto il silenzio notturno fu rotto da un timido
segno della campana di casa, che pendeva nel vasto atrio
terreno del palazzo. Si udì un solo rintocco, seguito da una
debole eco che fu troncata a mezzo e si spense. Don Correa
non vi badò e continuò il suo andirivieni. Ma poiché
nulla gli sfuggiva di quanto accadeva, dopo un paio di
minuti si rese conto che il portone non era stato aperto e
tutto rimaneva silenzioso, e dunque il guardaportone
doveva essere addormentato o assente. Rimase per qual­
che attimo fermo ad ascoltare, poi s’avvicinò al ragazzo
addormentato, lo svegliò, e gli disse: «Qualcuno ha so­
nato al portone : va’ giù e di’ al portiere che guardi chi è».
Il paggio balzò in piedi e stava per correr via, quando
il padrone aggiunse: «Prendi il candelabro e torna su­
bito, intanto resterò al buio».
Però gli parve che l’assenza durasse un po’ a lungo;
udì dopo poco tempo aprirsi e richiudersi il pesante bat­
tente, ma passarono minuti prima che si riudissero i passi
di Luis, ed egli dischiuse impaziente la porta della stanza
per rivedere la luce di cui aveva dovuto privarsi, e dire al
ragazzo di far presto. Tenendo alto il candelabro con la
sinistra, così che il suo bel visetto era illuminato in pieno,
Luis conduceva per mano Zambo, o Maria, la quale era
DON CORREA 1 163

coperta di polvere dalla testa ai piedi e lo seguiva vacil­


lando per la stanchezza.
«Eccola, è venuta da sé!» esclamò il ragazzo con
gioia trionfante per la meravigliosa avventura. Zambo in­
vece, per lo sfinimento e la commozione, cadde davanti al­
l’ammiraglio e gli cinse i piedi con le braccia, mentre
dagli occhi sollevati verso di lui sgorgavano grosse la­
crime. Lietamente sorpreso egli per la seconda volta l’aiu­
tò a rialzarsi da terra, e la sua veste da camera di velluto
scuro diventò bianca di polvere. Come il padre del fi-
gliuol prodigo corse egli stesso a svegliare le fantesche di
casa per affidare e raccomandare a tutte le cure necessarie
la visitatrice notturna.
Solo più tardi si fece spiegare dal paggio dove aveva tro­
vato la fanciulla. Luis raccontò con fervore beato che sen­
za svegliare il guardaportone egli aveva aperto solo lo
sportello dello spioncino e guardato fuori. C’era una
figura femminile che stentava a reggersi in piedi, e rivol­
gendo la luce su di lei attraverso l’inferriata egli aveva
riconosciuta la buona Zambo. Allora aveva tolto il chia­
vistello e spalancato il battente e, subito presa per mano
la donna tremante, l’aveva fatta entrare, con gioia immen­
sa; perché ella l’aveva riconosciuto e subito era apparsa
ravvivata. Non avevano scambiato neanche una parola,
mentre egli rinchiudeva il portone e raccoglieva il cande­
labro da terra dove l’aveva deposto; e anche guidandola
su per le scale s’era soltanto voltato un paio di volte a sor­
riderle, come per darle il benvenuto in nome di Sua
Signoria. Don Correa compensò immediatamente il pag­
gio con un sorriso di benevola contentezza, e gli rialzò
dalla fronte i folti lunghi capelli, che nella commozione
e nella premura l’avevano invasa. Rimase ancora con lui
finché vennero a dirgli che la forestiera aveva avuto tutti i
ristori necessari, era stata messa a letto ed era già spro­
fondata nel sonno. Poi andò a dormire anche Don Sal­
vador, mentre il paggio folleggiava ancora nelle cuci­
ne, e alle donne che gli stavano attorno a bocca aperta
e tenendosi i fianchi faceva dell’avventura le relazioni
più buffonesche.
1 164 L’EPIGRAMMA

La mattina dopo Zambo si era così ben ristabilita in


salute che potè mostrarsi al padrone di casa e raccontargli
il suo straordinario viaggio. La peste, che del resto oltre a
Cadice s’era estesa a un’altra sola città, aveva colpito in
rapida successione due o tre suore e ucciso la madre su­
periora, per cui il convento era caduto in preda a tale
smarrimento e confusione che per alcuni giorni non si
erano osservate le regole né dell’ordine né della casa, le
porte s’aprivano e richiudevano e ognuno faceva quel che
voleva. L’africana fu dunque irresistibilmente attratta a
cercare la libertà per ritrovare l’amata schiavitù pres­
so il suo legittimo padrone. Aveva capito perfetta­
mente le grida del paggio travestito, e le aveva inter­
pretate come un invito a raggiungere il suo signore. Per­
ciò una sera, trovata una porta aperta, abbandonò sem­
plicemente il monastero e camminò tutta la notte girando
intorno alla baia di Cadice e puntando verso settentrione,
finché era giunta a Siviglia. Aveva ancora un po’ di de­
naro nascosto indosso, che le fu assai utile ma finì abba­
stanza presto, perché molti disonesti avvedendosi della sua
ignoranza e inesperienza la ingannarono e la deruba­
rono. Quando rimase senza niente, mendicò per l’amor
di Dio quel poco che bastasse a saziarle la fame. Partita
da Siviglia, aveva incominciato a chiedere dove era la
città di Lisbona ed era sempre andata avanti nella dire­
zione che le indicavano man mano, attraverso pianure e
fiumane e rivi, per molti giorni e molte settimane, perché
i frequenti sbagli avevano raddoppiato la lunghezza del
cammino. Nonostante la fatica una stella benigna aveva
guidato i suoi passi, e Don Correa lo capì facilmente con­
siderando con rinnovata compiacenza la sua grazia inno­
cente e i suoi lineamenti severi. Finalmente ella giunse,
all’ora del tramonto, nei pressi della capitale portoghese;
ma prima che si fosse accertata di essere proprio a
Lisbona era già calata la notte; ella chiese dov’era la
casa dell’ammiraglio ed ebbe la buona ispirazione di dire
che faceva parte della sua servitù. Una pattuglia la con­
segnò all’altra senza recarle offesa, quantunque ai soldati
di ronda il caso apparisse insolito. Così la condussero di
DON CORREA 1165
rione in rione e finalmente l’affidarono a un vecchio guar­
diano notturno che la portò fino al palazzo dell’ammira­
glio dopo essersi convinto della verità di quanto affer­
mava. Tirasse quella campana, le disse indicandole quella
maniglia di ferro; e poi la lasciò lì.
S’intende che il racconto non le fluì così facilmente
dalle labbra; le fu tirato fuori a forza di domande;
tuttavia Don Correa fu felice di sentire Zambo parlare
per la prima volta correntemente nella sua lingua, e di
percepire non soltanto nelle parole di lei, ma anche nei
lineamenti del viso bruno animati dal racconto, la luce
di una bella intelligenza, simile alla luce dell’aurora che
promette una bella giornata. Certo quei lineamenti erano
più animati del solito dalla gioia di fare udire per la prima
volta al suo protettore il linguaggio imparato, come da
tanto tempo sperava e sognava.
«Dov’è l’anello che ti avevo dato?» egli chiese pren­
dendole la mano e fingendo di cercarlo.
«Perdona, signore, me l’hanno portato via!» rispose
ella chinando il capo.
Don Salvador andò verso un grande armadio e ne tolse
un luccicante scrigno d’acciaio intarsiato d’argento, che
aperse. Frugò tra i gioielli e le gemme che lo riempivano,
finché trovò un anello da donna, lo alzò per un attimo
verso la luce come se riflettesse un’ultima volta al passo
che era ancora libero di compiere o di tralasciare, a sua
scelta. Dodici anni avanti, quando era partito per con­
quistare la prima moglie, nella fretta aveva dimenticato
di portar seco l’anello nuziale di sua madre, come s’era
prefisso. Per un momento gli si presentarono alla mente
quegli oscuri eventi con i loro orribili inganni ; ma il fatto
che l’anello non profanato fosse ancora in sua mano nel­
l’istante decisivo gli parve un segno favorevole, e lo infilò
nel dito di Zambo al posto dell’altro.
Il rito nuziale, che egli volle far celebrare senza indu­
gio, nonostante la relativa semplicità destò un interesse
enorme, benché non indiscreto come accadrebbe oggidì.
Perfino il re e la regina mandarono rappresentanti con i
loro auguri, e la riunione fu splendida anche se non

Ï
ιι66 L’EPIGRAMMA

troppo numerosa. Certo la sposa era degna d’esser veduta.


Zambo indossava un abito di pesante seta bianca, con
sottili strisce di galloni d’oro. La larga gorgiera di pizzo,
il velo trapunto d’argento e i fili di perle intrecciati ai ca­
pelli, la croce di diamanti poggiata sulla parte scoperta del
petto facevano risaltare la sua pelle scura, o piuttosto
bruno chiara, come un colorito naturale, anzi l’unico
possibile, e il portamento innato del corpo snello era così
regale che Don Correa, quando un sapiente prelato che
era fra gli invitati gli offrì di costruire un albero genealo­
gico che riconducesse la sua origine alla regina di Saba,
gli indicò con orgoglio l’incedere della sposa dicendo che
non ve n’era bisogno.
Il fascino esotico della bella figura era ancora au­
mentato dall’uiniltà naturale che l’avvolgeva tutta e dal
luccichio sognante degli occhi, i quali tradivano che ella
non conosceva bene la propria sorte, giacché le mo­
nache non l’avevano in alcun modo preparata alle cose
mondane.
Don Correa se ne avvide soltanto sulla bella nave am­
miraglia che subito dopo le nozze lo riportava in Africa
con la sposa. Donna Maria Correa seguitava a compor­
tarsi come la sua schiava, pronta ad adattarsi a muta­
menti di condizione ma sempre destinata a servire.
Sulle prime gli dispiacque che l’anno passato nei conventi
e fra gente di chiesa fosse stato sotto quell’aspetto inte­
ramente perduto, ma poi si fece lui stesso suo maestro,
per quanto s’accordava con la sua natura marinara.
Molto presto le ore che passava solo in cabina con la
consorte a impartirle i suoi insegnamenti divennero quelle
della più consolante soddisfazione. Infatti - mentre la
rendeva consapevole a poco a poco della sua libertà di
corpo e d’anima, le illustrava l’onore e i diritti di una
moglie cristiana, e le faceva intendere il dovere della vo­
lontà e della responsabilità personale, e come tutto que­
sto aveva da essere tenuto assieme e trasfigurato dall’amo­
re - dovette davvero godere infinitamente nel vedere di
giorno in giorno la comprensione della giovine donna
farsi più chiara e accendersi in lei la luce della coscienza
I DON CORREA 1167

umana. Ella udiva inoltre parole finora sconosciute, e ri­


petendole e appropriandosene il significato arricchiva nel
I senso più alto il suo nuovo linguaggio.
Un giorno, mentre la squadra si stava avvicinando
alla meta del viaggio, Don Correa sali con la consorte sul
ponte più alto e la condusse nel padiglione sospeso che
stava sopra il centro della nave. Le tende li proteggevano
dai raggi del sole e dalla vista dell’equipaggio. Guardaro­
no in silenzio l’immenso oceano le cui onde regolari e lu­
centi s’incalzavano mormorando in mille legioni e tran­
quillamente spingevano avanti il vascello. «Anche il
mare ha un’anima ed è libero?» domandò la giovane
donna.
«No !» rispose Don Correa «il mare obbedisce soltanto
al creatore e ai venti, che sono il suo respiro. Ma dimmi,
Maria, se tu avessi già conosciuto la libertà, mi avresti
egualmente concesso la tua mano?».
«È troppo tardi per chiederlo,» replicò ella sorridendo,
non senza finezza «adesso sono tua e come il mare non
posso essere diversa!».
Ma poiché vide che la risposta non lo soddisfaceva e
non corrispondeva alla sua speranza, lo guardò seria, di­
ritto negli occhi, e con gesto libero e sicuro gli porse la
mano destra.
CAPITOLO DODICESIMO

Le «breloques»

— Bravissimo ! — disse Lucia — terremo bene a mente


che l’umiltà può tornar molto utile e che chi s’abbassa
verrà innalzato ! Ma durante il suo racconto mi è venuta
alla memoria una piccola gemma delle mie letture che
tratta anch’essa di una persona di colore, di una selvag­
gia. Forse abbiamo ancora tempo di narrare la nostra
storiella, mentre passeggiamo un poco per il bosco?
— Mi sembra di essere capitato in mezzo a una specie
di duello ; — osservò lo zio — il signor Reinhart ha riporta­
to più vicino alla terra e alla posizione che secondo lui gli
compete il gentil sesso di cui tu fai parte. Senza dubbio tu
vuoi parare il colpo e risollevarti con le tue sole forze dal
terreno sul quale la bruna africana è stata prostrata due
volte. Incomincia dunque, cara Lux, e bada di non restare
sconfìtta ! Ma se devo ascoltare anch’io, ti prego di non
lasciare questo luogo, giacché come sai non posso ancora
camminare molto.
— Perdona, caro zio, — disse Lux — se nel fervore
della lotta l’avevo dimenticato! S’intende che faremo
come desideri. Io volevo soltanto prevenire l’impazienza
del nostro ospite, che mi pare un po’ agitato e forse cam­
bierebbe volentieri posto!
— Non si preoccupi ! — rispose Reinhart — come po­
trei non essere inquieto vedendo puntata contro di me
un’arma di cui non conosco ancora né l’efficacia né la
carica? Dunque incominci, da brava, e non sia troppo
crudele !
Lucia scherzosamente si schiarì la voce e disse:
— Incominciare ! Non avevo pensato che occorresse
incominciare. Perché devo affannarmi a soffiare su qual­
cosa che non mi brucia? Preferisco entrar subito in mé­
dias res.

— Al tempo in cui Maria Antonietta era andata sposa


al Delfino di Francia c’era in Turenna un giovane buono
LE BRELOQUES ll6g

bello che non aveva ancora messo le penne e mai aveva


torto un capello a nessuno. Si chiamava Thibaut de
Vallormes ed era portabandiera nella compagnia d’un
reggimento di fanti che non saprei meglio designare per­
ché il nome nel libro non era indicato. Nonostante la sua
condizione di soldato era, come già dissi, ancora quasi
bambino, e quando non era in servizio se ne restava sem­
pre fra zie, madrine e altre degne matrone a frugare nelle
loro cassettine di nastri, fra le loro chincaglierie e cofanetti
dipinti, oppure si faceva raccontare storie da quelle buone
signore, mentre divorava torte di crema, biancomangiare
e focaccine dolci. Ma anche per il giovinetto innocente
scoccò l’ora del destino, in cui le cose mutarono ed egli
incominciò a diventare un individuo adulto e un uomo
pericoloso.
Per le cerimonie delle nozze regali si scelse nell’esercito
un buon numero di adolescenti di bell’aspetto che fu­
rono mandati a Parigi a fare da paggi, e anche il giovane
e grazioso Thibaut ebbe tale fortuna. Alla fine dei festeg­
giamenti tutti i paggi furono radunati in una sala del pa­
lazzo di Versailles, dove banchettarono e ricevettero doni
prima di ritornare ai luoghi di provenienza. Dopo che un
ciambellano ebbe distribuito a ciascuno il suo pacchet­
tino, venne loro comunicato inaspettatamente che la Del­
fina desiderava ancora vedere i giovani gentiluomini.
Dovettero dunque sfilare nella sala dove ella si trovava
con alcune dame di corte; le furono presentati a uno a
uno, e oltre a benigne parole di ringraziamento per il
servizio prestato ella porse loro con le proprie mani un
regalo che un gentiluomo di corte le consegnava. Così
Thibaut ricevette un bell’orologio d’oro, ma senza na­
stro o catena, con il commento che le breloques doveva con­
quistarsele da solo, col tempo.
Rosso di piacere Thibaut osservò l’orologio mentre con
gli altri ragazzi tornava a Parigi in un grosso carrozzone
a cavalli, e tutti si mostravano l’un l’altro i regali. Sulla
calotta era inciso, in una cornice di rocaille, un piccolo
porto di mare, col sole che si levava sullo sfondo e allar­
gava da ogni parte i suoi raggi fini e regolari. L’interno
1 ιγο L’EPIGRAMMA

del coperchio invece, in una variopinta pittura a smalto,


mostrava una minuscola Anfìtrite che nel suo carro tirato
da cavalli marini solcava le onde verdi cinta da un velo
rosato, e nel cielo azzurro navigava una nuvoletta bianca.
In primo piano c’erano ancora tritoni e nereidi.
Quando tutte le meraviglie furono sufficientemente
ammirate, e commentate le cortesi parole della futura
regina, anche Thibaut ripete ciò che ella gli aveva detto,
e soggiunse: «Vorrei proprio sapere che cosa intendeva
Sua Altezza Reale con quella frase che le breloques me le
dovrò conquistare da me ! ».
« Oh ! » esclamò un portastendardo della cavalleria « ma
è chiarissimo, vuol dire che le breloques dovranno essere i
ricordi di dame alle quali lei avrà rubato il cuore! E
più ne metterà assieme meglio sarà ! ».
« Io non credo che fosse quello il pensiero di Madame
la Dauphine,» obiettò timidamente un altro giovane
«forse intendeva dire piuttosto che Monsieur de Vallor­
mes poteva farsi regalare i ciondoli necessari dalla mam­
ma, dalle signore zie e dalle numerose cugine, perché
non toccava a Sua Altezza Reale occuparsi di cercare e
mettere insieme tanti piccoli oggetti».
«Ma che idea!» protestò l’alfiere «sarebbero ciondoli
ben noiosi ! Devono essere trofei conquistati ! Tutti i
gentiluomini ne portano!».
Thibaut propendeva per quest’ultima interpretazione,
e tornato nella sua città di Tours si diede subito a cer­
car l’occasione di incominciare le sue terribili rapine.
Fuggì i salottini delle vecchie zie e spiò attentamente le
ragazze che portavano qualcosa di luccicante al collo, alle
dita o alle orecchie. Ma poiché non si intendeva ancora
del fatto principale, cioè della conquista dei cuori, e dopo
qualche sciocco frascheggiamento voleva subito afferrare
quegli oggetti, ogni volta si prendeva dei colpi sulle mani,
e non ne ricavava nulla per il suo orologio.
Nei giorni festivi di Pasqua si recò a Beaugency sulla
Loira, presso certi parenti, e lì parve delinearsi un inizio
promettente per le sue imprese. V’era cioè in visita una
bellissima ragazza della vicina Orléans, la quale aveva
LE BRELOQUES 1171

già un ventidue anni, e quindi, oltre a essere alta di per se


stessa, portava la testa un palmo più in su dell’appena
diciassettenne Thibaut. Ma sebbene il giovane alfiere do­
vesse alzarsi in punta di piedi per guardarla negli occhi, si
risolse tuttavia a farle la corte, tanto più dopo averle vi­
sto al collo un cuore di corallo rosso che aveva straordi­
nariamente attirato la sua attenzione. Era grosso all’in-
circa quanto un ducato olandese, e si poteva aprire.
Dentro c’era un piccolo ragno verde, composto con molta
arte di un piccolo smeraldo, occhietti di brillanti e lunghe
zampe d’oro fino. Il ragno si moveva e tremolava con­
tinuamente con le sue otto zampine, perché era assicurato
ad ima piccola spirale invisibile, e le articolazioni erano
lavorate con estrema delicatezza. Alla bella Guillemette
il cuoricino era stato donato dal promesso sposo; infatti
ella aveva scambiato promessa di matrimonio con un uf­
ficiale superiore, il quale era di presidio nei possedimenti
francesi in America e aveva rinviato le nozze fin dopo il
suo ritorno. Quando le aveva donato il ciondolo, prima
di partire, disse come per scherzo che voleva vedere se
avrebbe avuto cura di serbare intero il piccolo ragno irre­
quieto; a condizione, s’intende, di portare sempre al collo
il gioiello e non già di riporlo al sicuro. Forse voleva
con questo esprimere la speranza che mentre egli era
lontano la fidanzata si tenesse ben imperturbata e tran­
quilla, e che insieme al cuore di corallo anche il cuore di
lei rimanesse fuor di pericolo.
Quando il giovane Thibaut prese a farle la corte, Guil­
lemette commise l’errore d’accettare per un po’ le sue pre­
mure come un piccolo svago, che anche per la giovinezza
di lui le sembrò innocuo. Lasciò che egli le portasse i guan­
ti e il ventaglio, giocò e rise con lui come se fosse ancora
una bambina, e se Thibaut non veniva spontaneamente
era lei a chiamarlo e attirarlo. Ogni volta che gli era pos­
sibile egli si precipitava a Beaugency, dove lei si fermò a
lungo, e le correva dietro per sale e giardini. Ma un gior­
no, quando le cadde improvvisamente ai piedi e le cinse le
ginocchia, ecco che lei si schermì ridendo ed egli dovette
rendersi conto d’essere più lontano che mai dalla meta
1 172 L’EPIGRAMMA

di conquistare il suo cuore. Con giovanile frivolezza con­


cepì allora il disegno di rubarle almeno il cuore di coral­
lo, e lo portò a compimento. In un pomeriggio estivo
Guillemette s’era chiusa in una stanza fresca per fare un
pisolino, ma disgraziatamente non aveva badato alla
finestra aperta. Da quella finestra Thibaut scorse la si­
gnorina addormentata su una poltrona, ed entrò leggero
come un gatto. Il cuore le stava al collo appeso a un na­
strino di velluto, ed egli riuscì a scioglierlo e a metterselo
in tasca, nonché a svignarsela di nuovo dalla finestra
senza svegliare Guillemette e senza esser visto da nessuno.
Il ragno verde ebbe un bel saltare e tremolare nella sua
capsula oscura, non potè giovare né a sé né alla bella ad­
dormentata ; dovette andare col ladro e portarsi via la feli­
cità della povera Guillemette. Quando ella si destò e
poco dopo scoperse la perdita, cercò il cuore dappertutto
e non trovandolo si sgomentò e si domandò angosciata do­
ve poteva averlo smarrito. Chiese anche a Thibaut se
non l’aveva trovato, e quand’egli rispose di no, le parve
di capire che invece ne sapeva qualcosa. Lo pregò calda­
mente di dirglielo; egli negò ridendo, ed ella lo guardò
dubitosa e fu presa da una grande paura perché le pa­
reva di scorgere un ammiccare nei suoi occhi. Alla fine
gli si buttò ai piedi e lo scongiurò di restituirle il gioiello o
di dirle dov’era; e più che mai Thibaut considerò il suo
furto come un bottino glorioso vedendo la fanciulla così
disperata e prossima al pianto. Come per esercitarsi nei
falsi giuramenti l’ipocrita protestò alto e forte la propria
innocenza, ma fu svelto ad andarsene e non si fece mai
più vedere. Quando il fidanzato ritornò dalle colonie,
l’anno dopo, e non vedendo il ciondolo ne chiese notizia,
la promessa sposa disse veracemente che l’aveva perduto
o gliel’avevano rubato, non sapeva come ; ma parlò con
tanto impaccio, con tanto spavento, che il fidanzato non
potè fare a meno di concepire sospetti. E poiché chiedeva
insistentemente in quali circostanze avesse potuto per­
dere un simile pegno d’amore, ella diede una risposta
infelice, nella quale il dolore era nascosto dietro l’orgoglio
offeso. Il fidanzamento si ruppe; il fidanzato sposò un’al-
LE BRELOQUES 1 1 73
I .
tra fanciulla, e Guillemette rimase lì povera e derelitta.
Thibaut, che intanto era stato promosso tenente, appese
il cuore alla catena dell’orologio, e si guardò subito
attorno in cerca di un ciondolo da accompagnare a quello.
Così incontrò un giorno la piccola Denise, la figlioletta
del defunto notaio Jacob Martin, che era appena uscita
da un collegio religioso e viveva ora con la madre. Fu
sorpreso di vedere la ragazza così carina e cresciuta, con
le scarpette rosse e i tacchi alti. Sul petto portava un cuo­
ricino molto semplice di cristallo di rocca, legato d’oro ;
anche questo si poteva aprire, ma dentro non c’era nulla,
era perfettamente trasparente. Tuttavia, mentre s’era
fermato a guardare la ragazza che correva via rossa come
un papavero, risolse subito di conquistare il suo modesto
ornamento. Passava tutti i giorni sotto le finestre di De­
nise, le mandava poesie d’amore che copiava dai volumi di
versi di Monsieur Dorât, della marchesa d’Antremont o
del marchese de Pezai e altri poeti del tempo, e che la­
sciava senza firma. Riuscì con quelle manovre a far
girare la testa alla giovane Denise e in pari tempo a sua
madre, cosicché ottenne libero accesso in casa loro ed era
accolto con gioia schietta quando si presentava con un
mazzolino di fiori o un ventaglio di carta da poco prezzo,
sul quale erano stampati due fili d’erba e un garofano.
L’onesto figliolo d’un mercante che era stato amico del
defunto notaio dovette ritirarsi davanti al signor de Val­
lonnés per il quale la piccola Denise perse prima il suo
cuore naturale e poi quello di cristallo. Ma appena le
ebbe tolto dal collo, col tenero consenso di lei, il piccolo
ciondolo e se lo fu attaccato all’orologio, la piantò in
asso e non ritornò più. Sebbene molto agiata, la madre
durò non poca fatica a ripescar col tempo il giovane
commerciante, che fece poi della Denise così fiorente e
briosa una borghesuccia depressa, una insipida mine­
strina riscaldata.
Passò un periodo abbastanza lungo prima che Thibaut
ritrovasse una traccia, che poi perse di nuovo, come può
accadere anche al cacciatore più provetto, e una dome­
nica pomeriggio in cui non sapeva che cosa fare, dopo aver
1174 L’EPIGRAMMA

contemplato a sazietà le sue breloques, gli venne in mente


di fare una visita ad Angelica, la più giovane delle sue
zie, che non aveva ancora cinquant’anni ed era una sman­
cerosa zitella. Poiché la trovò seduta alla scrivania, si mise
a rovistare come una volta nei cassettini e nei cofanetti a
lui già ben noti. Trovò una scatolina che non aveva mai
visto e quando l’aprì c’era dentro, su un bioccolo di
bambagia, un cuore latteo d’opale, che, sciolto dal nastro
chi sa da quanto tempo, dormiva sonni solitari. Alla luce
del giorno il cuore brillò in un delicato gioco di colori co­
me il riflesso di una giovinezza passata.
«Che bel gioiello !» esclamò Thibaut «non me lo vuo­
le regalare?».
«Che cosa ti viene in mente, caro nipote?» esclamò
la zia stupita togliendogli il cuore di mano e contem­
plandolo con occhi lucenti «e poi, che cosa ne faresti?
Lo regaleresti a un’altra donna!».
«Oh no!» rispose Thibaut «lo attaccherei alla catena
dell’orologio e ricorderei continuamente la mia cara zia
Angelica !».
«Eppure non te lo posso dare,» replicò la donna con
voce raddolcita «è il mio ricordo più caro, me lo ha dato
il diletto fidanzato della mia gioventù!».
Alle sue richieste insistenti ella raccontò al nipote con
molte parole l’annosa vicenda d’amore con un meravi­
glioso giovane gentiluomo che l’aveva amata in circo­
stanze avverse con rara fedeltà e devozione, s’era battuto
per lei, e nel fiore degli anni era caduto da eroe nella
gloriosa battaglia di Fontenay, più di trent’anni prima.
La descrizione di tutte le premure, della virile bellezza,
della giovanile prestanza dell’amato perduto cinse la
narratrice in un tale alone di nostalgie e di ricordi che,
nonostante i capelli grigi sfuggenti di sotto la cuffia pie­
ghettata (era in négligé) e ricadenti sulle spalle e sul collo,
una nuova giovinezza parve animarle il viso e colorarlo
di rosa.
Pieno d’entusiasmo Thibaut cadde in ginocchio come
se fosse lui stesso l’innamorato perduto ed esclamò con le
mani sul cuore: «Le giuro, carissima zia, che io l’avrei
LE BRELOQUES II75

amata altrettanto se la mia gioventù avesse coinciso con


la sua ! Anzi, l’amo anche adesso, come soltanto un’anima
giovane può amare un’anima altrettanto giovane! Oh,
la prego, mi regali il suo bel cuoricino, io lo conserverò
e me lo terrò caro, così non sarà più solo ! ».
Era davvero così stoltamente in estasi, che non sapeva
più se desiderava il piccolo gioiello o il cuore innamorato
[
della donna; la zia Angelica d’altronde nella sua roman­
ticheria confuse il momento presente con il passato e il
giovane ginocchioni davanti a lei con l’amato da tanti
anni scomparso. In un dolce oblio gettò le braccia intorno
al collo del bel bricconcello e gli impresse parecchi baci
sulle labbra, e il ragazzaccio non si vergognò di fare lo
stesso alla degna ma dimentica signora, come se ella
fosse ancora ventenne. Ella si riscosse piena di sgomento
dalla dolce illusione che pure non sapeva rimpiangere;
si liberò in fretta dalle sue braccia e, mentre lo guardava
ancora una volta con occhi umidi, gli mise in mano tre­
mando il cuore d’opale e lo pregò di lasciarla subito sola.
Poi si stese a mani giunte sulla poltrona per riaversi dalla
straordinaria avventura.
Quando Thibaut ebbe agganciato all’orologio il nuovo
trofeo, la catena con tre cuori gli sembrò abbastanza ar­
ricchita da poterla finalmente mettere in mostra ; e giunse
in buon punto il suo trasferimento alla guarnigione di
Parigi, giacché solo quella città era il teatro adatto alle
sue future gesta. Non gli mancarono d’altronde imprese
felici e protezioni, per cui ottenne presto la promozione a
capitano e il comando di una compagnia. Ma quanto
più nobili erano le dame sulle quali riportava vittoria, e
più preziosi i gioielli da appendere alla catena, tanto più
lo assaliva il dubbio se era proprio lui che abbandonava
le belle o se le belle abbandonavano lui. Ad ogni modo la
sua raccolta di ciondoli tintinnava e brillava come si
deve, ed egli era considerato il più pericoloso conquista­
tore dell’esercito, quando nella cerchia dei commilitoni
raccontava le storie dei singoli gingilli e accarezzava le
pietre e le perle di cui erano ornati. E andava a letto con
le breloques, e con le breloques si alzava.
1176 L’EPIGRAMMA

Alla fine la sua gloria gli venne a noia, tanto più che
non rimaneva un posticino per nuovi bottini d’amore sul
suo panciotto. Ma poiché lo si poteva ben chiamare un
beniamino della fortuna, giunto a quel punto gli si aprì
una nuova strada di vita e di successo, che egli si sentì
invogliato a prendere, da uomo ormai sperimentato e
accorto.
Proprio allóra l’entusiasmo della Francia per la guerra
di liberazione dei Nordamericani era giunto al culmine,
e dopo che molti Francesi avevano combattuto come
volontari per la fondazione della grande repubblica, il
marchese di Lafayette, come tutti sanno, aveva ottenuto
l’invio di un vero esercito ausiliario. Il capitano Thibaut
de Vallormes partì con la spedizione e si trovò fra i sei­
mila uomini che il conte di Rochambeau portò di là
dell’Oceano e che nel giugno del 1780 toccarono terra nel
Rhode Island. Thibaut era un soldato non privo di zelo e
di valore, e così le vicende della difficile guerra, le avan­
zate e le ritirate lo condussero ora in prima linea, ora in
altri punti pericolosi. Il fresco afflato del Nuovo Mondo,
il potente soffio di libertà che ne emanava, il continuo
impegno del servizio fra mille insidie resero a poco a poco
l’ufficiale molto più serio e posato; anche nell’àmbito
della sua persona limitata, il trapasso dal gioco a ciò che
viene dopo fu ben visibile. Quando la sua divisione giunse
a un largo fiume sulla cui opposta riva era accampata una
grossa tribù d’indiani, egli con gli altri Francesi arse d’en­
tusiasmo nel trovarsi davanti alla vera natura, alla libera
umanità; ciascuno di loro infatti portava in cuore la sua
porzioncina di Jean-Jacques Rousseau. Si trattava di
entrare in rapporto con gli Indiani, ottenerne con le buo­
ne maniere l’amicizia o almeno la neutralità, e a questo
scopo si attendevano i comandanti supremi, mentre an­
che fra gli Indiani, sull’altra sponda, si radunavano a
tener consiglio molti grandi capi.
Ma i militari francesi erano impazienti di soddisfare
la curiosità e l’attrazione per l’ideale stato di natura;
già prima dell’incontro ufficiale chiamarono di qua i miti
pellirosse o si fecero traghettare da loro, e ciascuno cercò
LE BRELOQUES II77

nel suo bagaglio oggetti da donare o da scambiare con le


loro rarità. Thibaut fu tra i primi a traversare il fiume, e
non una sola volta, ma due o tre al giorno, e presto si tro­
vò fra i wigwam come a casa sua. Difatto, una delle fan­
ciulle indiane lo attirava irresistibilmente, così da fargli
dimenticare tutto il suo passato vittorioso per seguire
come un novellino i passi di una selvaggia.
Non posso arrischiarmi a tentare una descrizione della
meravigliosa creatura, e devo lasciar liberi questi signori
di figurarsi secondo i propri gusti quanto di più bello si
potesse immaginare allora a proposito di una figlia au­
toctona dell’America, tanto per corporatura e colorito
quanto per abbigliamento e fronzoli. Un’alta acconcia­
tura di penne sarà inevitabile, e consiglierei un abito va­
riopinto da Papagena ; ma, come ho detto, non me ne vo­
glio immischiare, e aggiungerò soltanto che si chiamava
nella sua lingua Quonesci, vale a dire libellula.
Fatto sta che era maestra nel frullargli ora davanti
come una libellula, ora rendersi invisibile; prima scagliar­
gli un’occhiata invitante, poi sfuggirlo fredda e ritrosa;
ma Thibaut non si stancava di mostrarsi sollecito e pa­
ziente, e di seguirla almeno con occhi languidi quando
non c’era verso di andarle vicino. Quanto gli era stato
indifferente in Francia il sesso gentile, tanto s’innamorò
adesso della rossa figlia della natura, e meditava persino
il proposito di farne la sua legittima consorte. Come sa­
rebbe rimasta di stucco tutta la Parigi filosofeggiante,
egli pensava, di vederlo tornare a braccetto di quel pro­
totipo di naturalezza e primitività, e fare il suo ingresso
con lei nei salotti della capitale.
La sua costanza parve davvero addomesticare poco per
volta la graziosa libellula e indurla a una mezza fami­
liarità; i signori colleghi, che finora avevano sorriso del
fatto che il suo potere sui cuori femminili non pareva
estendersi fino allo Hudson e al Delaware, ricomincia­
rono ad ammirarlo, e a lodarlo di non essersi dato per
vinto, da vero francese; in breve aveva già ottenuto fra
il lusco e il brusco più di un breve appuntamento con biz­
zarri dialoghi di gesti e di parole rotte, durante i quali
1178 L’EPIGRAMMA

nessuno dei due capiva l’altro né riusciva a esprimere quel


che voleva. Solo una cosa parve a Thibaut di notare,
cioè che Quonesci era mossa da un tenero pensiero, che
la occupava tutta e che le faceva sovente rivolgere gli oc­
chi neri su di lui, in angosciosa o dubbiosa speranza.
Finalmente le autorità furono tutte radunate sulle due
sponde del fiume e i negoziati per il momento ben con­
clusi ; i capi indiani erano stati ricevuti con ogni riguardo
nell’attendamento francese, e non rimaneva che la visita
ufficiale dei signori francesi ai selvaggi, desiderosi anch’es-
si di sfoggiare le loro magnificenze. La sera prima venne
ancora un gran barcone di donne che prima della parten­
za dei Francesi volevano rifilar loro tutto il vendibile,
come frutti, ornamenti selvaggi, conchiglie, cuoio rica­
mato e cosi via. Ne nacque a un tratto una vivace scena
di mercato, e i Francesi profittarono facilmente dell’oc­
casione per corteggiare le donne, secondo la loro abitudine
inveterata. Ma Thibaut seppe allettare nella sua tenda di
capitano la bella Quonesci o libellula, che aveva da
vendere un panierino di fragole, e lì la strinse d’assedio
con raddoppiata insistenza giacché il tempo stringeva.
Focoso e impaziente cercò di farle capire che voleva por­
tarsela in Europa, e perciò trattare onestamente e seria­
mente con i genitori di lei, per la sua felicità e il suo bene.
Che ella capisse gran che è da mettere in dubbio; certo,
invece, che ella seppe esprimersi più chiaramente del so­
lito. Mentre con le piccole mani rossicce gli accarezzava
il mento e le guance, indicò i ciondoli del suo orologio,
che desiderava in dono e che da molto tempo le occupa­
vano la mente. Intanto ripeteva in inglese: «Domani!
domani ! ». E con gesti graziosi e ingenui spiegava che al­
l’indomani sarebbe stato esaudito ogni desiderio, con si­
cura soddisfazione di tutti.
Il nostro buon Thibaut rimase allibito nel sentirsi chie­
dere in dono così esplicitamente le sue breloques e rifletté
per un poco, con faccia melanconica; tanta impudenza
10 sorprendeva; e poteva spiegarsela soltanto pensando
che la creatura primitiva non capiva né il significato né
11 valore di ciò che pretendeva. Ma quando la ragazza
LE BRELOQUES II79

chinò il capo tutta triste, portandosi una mano al cuore,


e anche con altri segni diede a vedere che aveva ardente­
mente sperato di essere accontentata, egli interpretò i
segni a proprio favore e cambiò idea. “In fondo,” pensò
“è giusto che io deponga questi ricordi ai piedi di colei
alla quale voglio legarmi per la vita. Anzi, è un bellissimo
simbolo sacrificare i trofei di un mondo superato e deca­
dente alla personificazione della giovane natura che deve
dare origine a un mondo nuovo. E alla fin fine la brava
fanciulla mi restituirà fedelmente il tesoro che per tanto
tempo ha ballonzolato sul mio gilè, e sarà spassoso quan­
do la figlia della foresta vergine farà scintillare a volta a
volta i gioielli sotto gli occhi delle dame parigine !”.
Con pronta risoluzione sganciò l’anello che univa il
pendente all’orologio e lo consegnò a Quonesci in tutto il
suo splendore. La libellula accolse il tesoro con una gioia
infantile che aumentò ancora, se possibile, il rossore della
sua pelle, sovraccaricò il donatore con le manifestazioni
della più deliziosa riconoscenza, poi fuggi via lesta ripe­
tendo ancora con occhi raggianti: «Domani ! domani !».
Thibaut invece aveva la sensazione che gli avessero ta­
gliato il bel codino che cadeva maestosamente sul dorso
della sua giubba scarlatta, e la notte fece un sogno ango­
scioso. Sognò che apriva il cuore di corallo della bella Guil-
lemette, e il ragno verde sgusciava fuori e gli mordeva il
naso, facendolo gonfiare come una barbabietola.
Al mattino però, quando vide il giorno limpido e lumi­
noso sorgere sull’ampio paesaggio fluviale, il suo umore
migliorò e con cuore lieto egli salì su una barca della
flottiglia sempre pronta al traghetto, pensando che final­
mente andava incontro al vero amore e alla felicità.
I pellirosse erano raccolti in vasto cerchio intorno a un
fuoco sul quale arrostivano cervi e altra selvaggina e bol­
livano pesci del fiume. Donne e ragazze facevano le cuo­
che e recavano ogni sorta di leccornie. Gli uomini assiste­
vano gravi, seduti all’intorno, in prima fila i capi, tutti
in gran gala con gli ornamenti più belli. Per i signori
francesi avevano lasciato libero uno spazio d’onore, che
quelli occuparono godendo dell’originale spettacolo; e

J
1 ι8ο L’EPIGRAMMA

incominciò un pranzo che a dire il vero fu gustato più


dagli Indiani che dagli Europei, anche se a questi ultimi
fu offerto e servito dalle donne stesse. Solo Thibaut era
pienamente soddisfatto: perché la bella Quonesci l’ave­
va subito scovato e aveva servito lui solo; e docilmente gli
rimase accanto, quand’egli la trattenne, facendo segni
scherzosi alle sorelle, come per dire: «Convoi non ci tor­
no più ! ». Familiarmente e non senza grazia gli sedeva ai
piedi, e Thibaut, accarezzando lieve e indolente la rossa
schiena vellutata, come forse s’esprimerebbero lor signori,
immaginava di essere Cristoforo Colombo, al quale il
continente scoperto si prostra sotto forma di una tenera
donna.
Il banchetto ebbe termine, lo spazio intorno al fuoco fu
sgomberato e il cerchio allargato; dopo di che sfilò un
corteo di giovani guerrieri che in onore della potenza
amica dovevano eseguire una danza di guerra. Urla ed
esclamazioni dei vecchi e dei capi salutarono la schiera
che era guidata dal più alto e più robusto dei giovani,
un pezzo d’uomo forte come una quercia.
Se prima ho modestamente rinunciato a descrivere la
leggiadra libellula, mi riservavo però di ritrarre tanto più
minutamente il giovane guerriero, nel limite delle mie
deboli forze ; perché qui entrano in funzione l’occhio e il
giudizio femminile. Figuratevi dunque un complesso di
membra gigantesche, splendidamente sviluppate, del più
intenso rosso ramato, dipinto dalla testa ai piedi di strisce
azzurre e gialle, con raffigurate su ogni lato del petto due
mani colossali con le dita allargate, e avrete appena un
assaggio di quel che segue. Perché la faccia era un mondo
pittorico per se stesso, metà della fronte, delle palpebre,
del naso e della mandibola fino all’orecchio colorata di
cinabro, e l’altra metà di turchino, e nel mezzo una
quantità di lineette tatuate in tutte le tinte. I padiglioni
degli orecchi erano rivestiti di fiocchi di perle, i capelli
lunghi, neri come la pece, erano fittamente intrecciati a
fili di piccole conchiglie, bacche, dischetti di metallo e
altre cose simili, e sopra era infilato un elmo di penne di
struzzo bianche ; un coltello da scotennatore con una ca­
LE BRELOQUES ll8l

pigliatura bionda era piantato in quel caos a mo’ di spil­


lone, per non parlare di altre chincaglierie più difficili da
distìnguere. Ma su tutto quanto torreggiava una gran
cresta di imponenti penne d’avvoltoio, bianche e nere,
che scendeva giù, lungo la spina dorsale, come l’ala di un
drago, ed era fatta delle più lunghe penne maestre. C’era
poi la cintura wampum riccamente ricamata, le scarpe e i
mocassini pure ricamati, sicché bisognava ammettere che
nel giovanotto era adunato un tesoro di bellezza e di forza
virile. Ma soltanto lo sguardo ardente e terribile inte­
grava il quadro, e quando il valoroso, che si chiamava
Orso Tonante, incominciò scalpitando la danza e con un
canto spaventoso vibrò alta sul capo l’ascia dipinta di
rosso, mentre appoggiava l’altro pugno sul fianco snello,
gli ospiti europei si sentirono quasi crepitare i capelli in­
cipriati, non trovando di proprio gusto specialmente il
coltello da scotennatore.
Ma Quonesci, la libellula, accovacciata ai piedi di
Thibaut, trasse un profondo sospiro e poi lanciò un lace­
rante grido di giubilo ; scosse il braccio dell’ufficiale e con
occhi di fuoco gli additò il ballerino, pronunciando come
in estasi parole indiane che Thibaut non capiva, finché
un americano che gli stava vicino disse: «Questa fem­
mina seguita a strillare che è il suo fidanzato, il suo inna­
morato, e che si sposeranno oggi stesso!».
Agghiacciato dallo stupore Thibaut guardò il danza­
tore la cui faccia tremenda pareva lampeggiare in tutti i
colori dell’arcobaleno, sicché sconvolto com’era non riu­
scì a distinguere nulla. L’Orso Tonante veniva sempre
più vicino con la sua banda; finché alcuni ufficiali fra
risate omeriche esclamarono tutti insieme:
«Parbleu! Ma quello s’è appeso al naso le breloques di
Monsieur de Vallormes ! ».
Thibaut dovette riconoscere costernato la verità di
quell’osservazione: erano proprio lì, i suoi ciondoli. Il
selvaggio danzava ora a poca distanza da lui e sotto il na­
so dipinto di rosso e di blu con l’osso segnato da una riga
bianca ed arcuata ballonzolavano di qua e di là, lucci­
cando, il cuore di corallo dell’abbandonata Guillemette,
1 i82 L’EPIGRAMMA

il cuore di cristallo della piccola Denise, il cuore d’opale


della zia Angelica, e tutti gli altri oggetti, le croci, i meda­
glioni, gli anelli in una gran confusione gettavano barba­
gli e frustavano il naso dell’eroe.
Questi danzò per un poco senza cambiar posto, quieto
come l’aria prima della burrasca, saltellando appena ora
su un piede ora sull’altro; a un tratto gettò un rugghio
terribile, da vero orso, afferrò Quonesci per le braccia,
se la gettò in spalla come una cerbiatta ammazzata, e
seguito dai suoi compagni che roteavano le scuri e dalle
acclamazioni della rossa tribù, si precipitò fuori del
cerchio.
Il signor de Vallonnés non vide mai più né l’indiana
né i trofei delle sue conquiste.
CAPITOLO TREDICESIMO

Dove l'epigramma riceve conferma

-Mi sembra di vedere laggiù il falegname che ho fatto


chiamare; chiedo licenza a questi signori, devo andare a
parlargli — disse Lucia appena finito il racconto, s’inchi­
nò e s’allontanò leggera, trattenendo il sorriso. Reinhart
la seguì con lo sguardo, poi si rivolse al colonnello.
— Com’è in collera la sua deliziosa nipote — egli disse
— con le mie povere protette, per scagliarmi dardi così
satirici ! Quasi quasi va al di là del bersaglio !
— Evvia, — replicò ridendo lo zio — in fondo non fa
che difendere la propria pelle, che del resto è fine e deli­
cata. E non s’accorge, signor Reinhart, che sarebbe meno
lusinghiero per lei se Lux si mostrasse indifferente alla
sua passione per le creature ignoranti e sprovvedute, alle
quali essa ha la fortuna o il merito di non appartenere?
Sia che Reinhart come scienziato mancasse di pratica,
sia che come uomo giovane fosse ancora cieco e ignaro,
certo è che non aveva considerato la cosa da quel lato, e
alle parole del vecchio arrossì notevolmente per il calore
interno che gli provocarono.
— Così accade; — disse nascondendo l’agitazione —
quando si parla sempre per immagini e allegorie si finisce
per non intendere più la realtà e si diventa scortesi. Ep­
pure io non pensavo affatto né alla signorina né a me
stesso, allo stesso modo che non si pensa mai di agire
come si predica. È ora che io mi rimetta in viaggio, altri­
menti con le mie chiacchiere mi aggroviglio in sciocchezze
e contraddizioni come un fringuello nella rete.
— Va bene, parta pure, — rispose il vecchio signore —
ma ritorni presto ! Venga sovente la domenica, e invece
di quel vecchio ippopotamo prenda un giovine cocchiere
con due buoni trottatori, così viaggerà più in fretta e avrà
meno da preoccuparsi delle intemperie. Mi fa piacere che
la Lux abbia di tanto in tanto un compagno giovane e
allegro come lei; essa è libera, gaia e indipendente e
1 184 L’EPIGRAMMA

non commette sciocchezze. Quanto a me, da buon senti­


mentale godo di ritrovare per merito suo, caro Reinhart,
alla sera della vita gli amici della giovinezza, e gioisco al
pensiero di presentare mia nipote alla signora Else
Moorland, sua madre, affinché veda che anche noi qui
non siamo teste di rapa.
Dopo ch’ebbero conversato ancora un po’ - Reinhart
con impaziente batticuore - il giovane andò in casa a pre­
parare la sua sacca da viaggio, e in scuderia per far sel­
lare il cavallo che lassù al pascolo s’era riempito ben bene
la pancia. Aveva tanta premura perché credeva di affret­
tare così il tempo e il destino, qualunque cosa gli potes­
sero recare.
— Vorrà bene mangiare con noi prima di partire ! —
disse Lucia, delusa, quand’egli tornò sotto i platani e la
trovò là.
— Non è possibile; — rispose Reinhart — se voglio ar­
rivare a casa entro oggi, devo partire prima di pranzo !
— Ma come, il suo viaggio è già finito? L’aveva ap­
pena incominciato ! Non vuol mica riprendere subito quel
lavoro che le stanca gli occhi?
— Certo no, madamigella, intendo risparmiare più
che mai la mia vista, poiché la famosa cura mi ha tan­
to giovato che sarebbe ingratitudine rimetterla in pe­
ricolo.
— Naturalmente tornerà a far sosta in tutte le ben
note stazioni dove s’è fermato venendo?
— Allora non farei molta strada ! No, penso di pren­
dere invece l’altra via, la più breve, che passa per il ponte
di Althäusern.
Lucia parve soddisfatta di quel dialogo insignificante ;
si congedò cordialmente dal cavaliere-scienziato, ed egli
iniziò il viaggio di ritorno serio come un esploratore del­
l’Africa, mentre s’era messo in cammino così lietamente
qualche giorno prima. Quella sera in realtà s’addormentò
assai sereno, dopo avere assistito a una riunione di amici
dove, come anonimo partecipante, aveva lasciato con­
fluire nella gaiezza generale il pensiero di Lucia. Ma il
mattino dopo si sentì solo e si rese conto di essere preso.
DOVE L’EPIGRAMMA RICEVE CONFERMA 1185

Le cose peggiorarono: ignote pene cominciarono ad


agitarsi nel suo cuore, cosicché dovette riprendere in esa­
me, con riluttanza, la natura di questo muscolo, e non
ricavandone nulla gli toccò abituarsi a dimenticare le
perturbazioni nel lavoro accanito per non cadere in un
deplorevole stato di sogno e fantasticheria. Tuttavia non
ripetè per il momento la visita alla villa alpestre, affinché
la separazione gli permettesse di scrutare la serietà dei suoi
sentimenti e di venire in chiaro del proprio stato. Scrisse
soltanto qualche lettera senza indiscrete allusioni e rice­
vette risposte dello stesso tenore. Tanto maggior piacere gli
recò una missiva di sua madre, la quale gli scrisse, nel cor­
so dell’estate, che il colonnello e la nipote erano andati
a trovarli in occasione d’un viaggio, e ch’era stata una
piacevole rievocazione e una bella giornata; inoltre ave­
vano combinato di restituire la visita nell’autunno. Lu­
cia, ella diceva, era una personcina seria e intelligente con
il temperamento di una bimba, e papà Reinhart, solito a
inviare alla gente soltanto laconici bigliettini, le scrive­
va già lettere più lunghe di quelle che mai avesse rice­
vuto lei, mamma Else, perfino nei primi tempi. Ma glielo
concedeva volontieri e già si rallegrava di leggere le mis­
sive del marito a Lucia quando sarebbero andati a trovare
gli amici.
In settembre giunse una letterina di Lucia; ella scri­
veva : « I suoi genitori sono qui da noi. Non vuol venire
anche Lei? Ci dispiacerebbe non potere far godere ai cari
ospiti la compagnia del figlio, e restar li derelitti dopo
esserci vantati della sua amicizia ! Ma lasci a casa l’ip­
popotamo e porti con sé un baule! Lo zio maresciallo
vuole bere a fratellanza con lei e scambiare il tu, cosa
che purtroppo, essendo donna, mi è vietata!1».
Quantunque Reinhart, che aveva improvvisato così
particolareggiate storie di donne e d’amore, fosse incline
a interpretare le ultime parole come primo accenno a un

I. Nei paesi di lingua tedesca, prima di darsi del tu si usa bere


con le braccia intrecciate {Bruderschaft trinken·, bere alla fraterni­
tà). Una volta le donne non lo facevano.
1186 L’EPIGRAMMA

rifiuto, nel caso che egli avesse fatto una richiesta, riempì
una valigia di tutti gli indumenti che più gli donavano, e
partì. Trovò la compagnia radunata sotto il platano e
di ottimo umore; Else Moorland, senza scapito della sua
dignità matronale, vestiva come Lucia un abito bianco
come la neve, poiché splendeva un caldo sole estivo, e i
capelli neri erano liberi e senza cuffia. Il colonnello aveva
lasciato in casa la gruccia e portava speroni agli stivali.
Reinhart padre sembrava un libero docente di trentacin-
que anni che dovesse ancora produrre e ottenere tutto
ciò che aveva già prodotto e ottenuto, e Lucia era silen­
ziosa e modesta come una ragazzina, nonostante i suoi
venticinque o ventisei anni ; insomma nessuno voleva ap­
parire vecchio o in procinto di diventarlo, perché tutti
erano felici e contenti ; solo Lucia e Reinhart sembrava­
no a vicenda più taciturni o più pensosi, secondo che
l’uno o l’altra vedeva sopra di sé un cielo rannuvolato.
Così passarono alcuni giorni in grande festevolezza. Final­
mente si parlò di fare una visita al noto presbiterio, il cui
titolare era stato compagno di studi di Reinhart padre,
donde la conoscenza col figlio.
— Ci va volentieri? — chiese Lucia preoccupata al
giovane Reinhart, desiderando che ogni giornata trascor­
resse per lui lieta e gradevole e ricordando che la famiglia
del pastore lo annoiava un poco.
— Per esser sincero — replicò lui — non ho una gran
voglia di passare là tutto un giorno.
— E allora rimani qui ; — consigliò la madre — tanto
la visita interessa piuttosto noi vecchi; se il maresciallo ci
accompagna, la carrozza sarà già piena: vuole portarci
nel suo leggero calessino da caccia, o come diavolo si
chiama, quel mangiapiombo ! Sta’ buono, maresciallo ! —
aggiunse rivolta al colonnello che ritto alle spalle le tirava
la cocca d’un nastro come protesta per l’epiteto.
— E tu che cosa fai, Lux? — chiese egli alla nipote.
— Io? Io devo badare alla casa, come tutte le povere
massaie, e provvedere per la cena!
— Va bene, allora provvedi anche a un beveraggio se­
condo le regole. Perché dobbiamo bere alla fratellanza
DOVE L’EPIGRAMMA RICEVE CONFERMA 1 1 87

con questo giovane scansafastidi, che ci si possa dare del


tu una buona volta. E anche tu ci puoi stare.
I due giovani arrossirono come cresimandi davanti al
sacramento. Nessuno avrebbe creduto che già mesi in­
nanzi si fossero raccontati ogni sorta di cose.
Quando i vecchi se ne furono andati, e calò a un tratto
un grande silenzio, i giovani rimasero lì imbarazzati, e
ancora esitanti a turbare l’equilibrio di quel momento,
finché Reinhart trovò una via d’uscita chiedendo un li­
bro a Lucia. Ella lo invitò a scegliersi da sé quel che
gli occorreva. Così tornarono lentamente in casa, salirono
le scale e penetrarono nel modesto museo dove la signo­
rina trascorreva i suoi anni. L’aria entrava liberamente
dalla finestra aperta mentre l’oro opaco del sole di set­
tembre, filtrato dalla seta verde delle tende, riempiva la
stanza di una mite luce crepuscolare.
— Che cosa desidera leggere? — chiese Lucia.
— Mi vuol dare uno dei suoi libri autobiografici? —
propose Reinhart — Ho osservato che ha scritto in mar­
gine qualche osservazione e mi piacerebbe seguirne le
tracce e cogliere i suoi buoni pensieri. Forse, se mi è per­
messo, scoprirò addirittura il mistero che l’attira in quelle
confessioni.
— Il mistero è molto semplice, — ribattè Lucia — ep­
pure è veramente un mistero. Io cerco di capire il lin­
guaggio degli uomini quando parlano di sé; ma sovente
mi sembra di camminare in un bosco e di sentire il cin­
guettio degli uccelli senza conoscerne la lingua. Si direbbe
a volte che ciascuno parli diversamente da come pensa,
o almeno non riesca bene a esprimerlo, e che così voglia
il suo destino. Ciò che l’uno manifesta con sonoro cinguet­
tare, l’altro lo nasconde accuratamente, e viceversa. Que­
sto confessa tutti e sette i peccati mortali, ma tace di avere
quattro dita alla mano sinistra. Quello elenca e descrive
servendosi di due specchi tutti i nèi e le voglie della sua
schiena; ma è muto come una tomba sul fatto che la sua
coscienza è oppressa perché ha reso una volta una falsa
testimonianza, sia per debolezza di carattere sia per parti­
gianeria. Ora, se li metto tutti a confronto nella loro sin­
ιι88 L’EPIGRAMMA

cerità che essi considerano cristallina, mi domando : esi­


ste davvero una vita umana in cui non vi sia nulla da
nascondere, cioè in tutte le circostanze e in tutti i periodi?
C’è una persona interamente sincera, ed è possibile che
ci sia?
— Molte persone sono del tutto veritiere, — disse
Reinhart — però non in una sola volta, bensì a frammenti,
a poco a poco ; e la natura stessa, perfino la Sacra Scrittu­
ra, non procedono diversamente !
— Quello che mi consola — seguitò Lucia — è che si
nasconde più il bene che il male. Quasi tutti, se ne aves­
sero l’occasione e la disposizione, ci metterebbero in ta­
vola il peggio di sé che sapessero raccontare ; ma molti
muoiono senza aver mai accennato con una sillaba alle
belle e buone azioni che hanno compiuto. Costoro parla­
no tuttavia il linguaggio più amabile; è come se violette,
primule e pratoline fiorissero tra le loro righe, senza che
quegli scrittori e scrittrici, nella loro modestia, lo sappiano
e lo vogliano.
Reinhart s’era seduto sulla seggiola che stava davanti
alla scrivania, ed ella era appoggiata negligentemente al
tavolo. Intanto egli tirò giù un volume dallo scaffale delle
biografie e mentre lo sfogliava ne cadde una strana imma­
gine o segnalibro. La figura era ricamata sulla carta con
seta non ritorta e ago finissimo, in modo da risultare egua­
le su tutte e due le facce. Su un verde terreno c’era un
minuscolo abete e un piccolo arbusto con due rose rosse ;
allineato fra i due cresceva dallo stesso suolo un cuore
dal quale sventolava un nastro azzurro tagliato a metà, e
l’altro lembo era attaccato a un secondo cuore il quale,
provvisto di ali, s’era evidentemente sciolto dal primo ed
emettendo una fiammata d’oro volava in su, certo verso
il cielo.
A tutta prima Reinhart guardò quell’immagine di­
strattamente, poi con maggiore attenzione, giacché men­
tre stava per riporla nel libro ne aveva còlto il sog­
getto.
— Che cos’è questa storiellina di cuori? — egli chiese
— sembra che qui si sguazzi nella passione ! L’uno è in-
DOVE L’EPIGRAMMA RICEVE CONFERMA I 189

fisso nel terreno come una barbabietola, mentre l’altro si


libra verso il cielo, alato e sputando fuoco !
Lucia prese in mano l’ingenuo quadretto, l’osservò
e disse:
— Dunque era finita lì questa sciocchezzuola? Da anni
gira dentro i miei libri, e non m’era mai più capitata
sott’occhio. Del resto è un lavoro che feci io stessa quan-
d’ero in un convento di monache.
Reinhart guardò l’interlocutrice con un certo stupore,
ed ella spiegò arrossendo:
— Deve sapere che io sono cattolica !
— Non v’è motivo d’arrossire ! — opinò Reinhart, più
divertito che turbato dalla differenza di religione. Lucia
capì la sua larghezza di vedute, ma diventò ancora più
rossa e abbassando gli occhi suo malgrado disse :
— Ma non sono nata cattolica, lo sono diventata !
La cosa era certo diversa. Un cambiamento di reli­
gione era accaduto in quella vita apparentemente tran­
quilla. “Che cosa può significare?” egli si chiese subito
interiormente, e guardò la fanciulla non lontana da lui
con la stessa meraviglia di chi guarda un abisso che s’è
aperto improvvisamente. Anzi la sua faccia aveva preso
un’espressione alquanto preoccupata ; vi si rispecchiavano
la compassione t la sollecitudine di un’anima non certo
indifferente a ciò che era avvenuto a sua insaputa, come
se non lo riguardasse.
Alzando gli occhi ad un tratto, Lucia disse con un sor­
riso melanconico:
— Vede, ecco qui una di quelle storie che non si sa se
confessare o tacere. Pochissimi ne sono informati, e anche
mio zio la ignora, sebbene sia cattolico anche lui.
— Ma a me — ribattè Reinhart — ha già rivelato trop­
po per non confidarmi il resto.
— In fondo non è che una fanciullaggine, e le dirò
tutto; — rispose Lucia — anzi mi è caro che lei lo sap­
pia, perché non le accada di ferire inconsapevolmente
una buona amica quale io mi considero, o di cagionarmi
quanto meno piccole contrarietà.
Mio padre era protestante, come tutti in questa re-
ii9° L’EPIGRAMMA

gione, la mamma invece cattolica. Ma egli aveva tanta


autorità su di essa da indurla senza difficoltà ad assistere
alle funzioni protestanti e da lasciare che io fossi battez­
zata e allevata in quel culto. Sembravamo dunque, e tutti
lo credevano, una pura famiglia protestante. Non già
che mio padre fosse un luterano ardente; ma il suo prin­
cipio era che, pervenuti alla religione riformata, non sia
più lecito guardare indietro, e chi si faceva cattolico s’at­
tirava il suo sdegno e il suo disprezzo. In tutto il resto era
tollerante e pacifico, e infatti non impedì mai alla mamma
di frequentare la sua migliore amica, una tranquilla reli­
giosa, e di andarla a visitare una o due volte all’anno nel
suo monastero. Quando vivevano i miei genitori, abita­
vamo in quella città sul fiume di cui nelle giornate lim­
pide si possono scorgere di qui le torri. La terrazza a giar­
dino s’affacciava sull’acqua e ai piedi di una scaletta di
pietra un leggero battello si dondolava alla catena, ed era
usato per gite sulla placida corrente. Quasi tutti gli abi­
tanti della casa erano capaci di dirigere a valle la barca, e
quando si faceva un viaggio più lungo si tornava in su
con un vaporetto, e la piccola imbarcazione veniva ri­
morchiata.
Un miglio e mezzo circa più a valle della nostra città
sorgeva sulla riva opposta, dove la popolazione è cattoli­
ca, il convento di cui ho detto, in un idillico paesaggio flu­
viale, e attorniato soltanto dai suoi frutteti, prati e campi.
Le visite di mia madre coincidevano con una delle liete
festività religiose della bella stagione, ad esempio il Corpus
Domini, giorno in cui le suore si concedevano una certa
allegria, qualche semplice svago, e allora la mamma dava
maggior risalto alla festa facendosi portare in barca sul
luminoso fiume azzurro e conducendomi con sé, fin dalla
mia più tenera infanzia. In quelle occasioni mi faceva in­
dossare graziosi abitini chiari, perché le buone sorelle soli­
tarie e vestite di nero potessero giocare con me come con
una bambola viva, e godeva di vedermi passare di mano
in mano, di grembo in grembo. Quando diventai un po’
più grande mi comportavo invece con la serietà e la
tranquillità di una monachina, ed ero orgogliosa di non

I
DOVE L’EPIGRAMMA RICEVE CONFERMA ligi

allontanarmi dalle sue amiche quando stavano affacciate


alla finestra della cella in confidenziali conversazioni e ri­
cordi, o quando passeggiavano nei campi e nei giardini
fioriti. Alla mensa festiva però dovevo sedere accanto alla
madre priora, che ogni tanto mi accarezzava benevol­
mente e non mi lasciava mai andar via senza regalarmi
un cestino di dolci con bei fiocchi di seta, o una crocetta
d’argento, o una medaglia della Madonna. Quando ri­
tornavamo a casa, il povero babbo ci paragonava burle­
scamente agli Indiani aztechi che ancor oggi in certe
stagioni navigano sui grandi fiumi dell’interno per recarsi
in luoghi misteriosi e sacrificare agli antichi dèi.
Ahimè, nonostante quelle gioie conventuali ero già una
piccola pagana, e ciò per il poco senno degli adulti. Fre­
quentava la nostra casa un giovane di bell’aspetto che,
appena mi vedeva, mi prendeva sulle ginocchia, mi ba­
ciava e mi chiamava la sua sposina. Quando ebbi com­
piuto i quattro o cinque anni, non ne volevo più sapere;
puntavo i piedi, mi dibattevo e fuggivo. Ma lui ogni volta
mi riacciuffava, e così il gioco continuò finché io ebbi otto
o dieci anni. Facevo sempre la selvaggia e la ritrosa, ma a
poco a poco cominciai a sentirmi scontenta e addirittura
infelice se egli dimenticava di chiamarmi la sua fidanzata
o la sua mogliettina, e di assicurare che mi avrebbe
certamente sposata. Ormai però lo vedevo di rado, per­
ché si tratteneva lontano per lunghi periodi; e quando
ricompariva, aveva sempre mutato figura : ora giungeva
in veste di studente sbarazzino, poi da militare in splen­
dida uniforme, o ancora da uomo mondano di ritorno da
lunghi viaggi, e tutto ciò ai miei occhi infantili gli con­
feriva un fascino misterioso.
Finalmente scomparve per lunghissimo tempo, e io a
poco a poco lo dimenticai. Adesso avevo dodici anni, e la
mamma ci aveva lasciati per sempre. Un’istitutrice sba­
data e alcuni insegnanti privati provvedevano alla mia
educazione, mentre il babbo coltivava varie passioni di­
lettantesche e spesso era in viaggio. In quel periodo lessi
il Wallenstein di Schiller e mi innamorai di colpo di Max
Piccolomini, la cui morte mi recò certamente tanto do-
1192 L’EPIGRAMMA

lore quanto alla buona Thekla. Di notte lo sognavo, e di


giorno egli riempiva tutto il mio mondo, anche se non
riuscivo a veder chiaramente la sua figura, il suo volto.
In mezzo alla brughiera, poco fuori della città, c’era un
monticello di terra ombreggiato da due o tre sambuchi.
Io lo chiamai la tomba di Piccolomini e vi piantai di
nascosto delle pervinche, che avevo portato dai boschi nel
mio vascolo per erborizzare. Vi passavo spesso ore soli­
tarie, lasciando tranquillamente che lo spirito di Thekla
condividesse la mia punto spiacevole melanconia. Ma
una volta, mentre cercavo con particolare fervore d’imma­
ginare l’aspetto del giovane amante e guerriero, vidi da­
vanti a me i lineamenti di Leodegar, lo sposo per burla dei
miei anni infantili. Subito divenni infedele al morto bi­
centenario, e il mio lutto silenzioso per lui si trasformò in
altrettanto silenziosa nostalgia per il vivo, né dubitai del
suo ritorno ; giacché mi resi conto che era Leodegar quello
che il mio cuore aveva sempre continuato ad amare.
Una profonda serietà mi dominò da allora in tutto ciò che
facevo, negli studi e nel lavoro, poiché ogni cosa ricondu-
cevo a lui e alla sua approvazione, e posso ben dire che
quell’essere strano e grave mi fu in quel tempo padre e
madre, guida e maestro, o almeno ne tenne il luogo per
una buona parte.
Ed io celai scrupolosamente la molla segreta della mia
virtù giovanile; mai vi feci allusione, nemmeno con una
parola, non una volta nominai quel nome, come se egli
non esistesse al mondo. Ma se si parlava di Leodegar
ascoltavo sospesa e non mi muovevo finché non cambia­
vano argomento. Un giorno lo sentii definire fantastico,
violento, autoritario e vanaglorioso, insieme con l’ammis­
sione che era uomo di molte doti. Ma un po’ non cono­
scendo bene il senso di quelle parole, un po’ per partito
preso, interpretai «fantastico» come ricco di fantasia,
«violento» come energico, «autoritario» come dotato di
autorità e «vanaglorioso» come amante della gloria, tutte
qualità assai lodevoli. La sua immagine divenne sempre
più bella e più ideale nel mio cuore ; con ansioso fervore
mi sforzavo di migliorare e di non mostrarmi del tutto in­
DOVE L’EPIGRAMMA RICEVE CONFERMA 1 1 93

degna di lui, e se commettevo errori non avevo pace


finché non mi sembrava di averli espiati con il penti­
mento e le buone azioni.
Così giunsi al compimento del mio quindicesimo anno
di vita, che cadde all’inizio dell’estate, mentre mio padre
si trovava in viaggio, assente per mesi. Proprio allora Leo-
degar fece ritorno in patria, ma solo per un paio di setti­
mane, durante le quali venne qualche volta a casa nostra,
dove io vivevo solitaria sotto la custodia di una governante
di casa e della mia istitutrice. La prima apparteneva a
una setta religiosa con dottrine e usanze molto caratte­
ristiche, e passava tutto il tempo che aveva libero a fre­
quentare congregazioni e leggere trattati. Mio padre la
lasciava fare, anzi la incoraggiava, per divertirsi a fare
su di lei certi suoi studi di psicologia religiosa, e la brava
donna naturalmente non s’accorgeva che ogni suo di­
scorso veniva analizzato e suddiviso nelle varie voci di
una tavola sinottica. L’istitutrice invece passava le gior­
nate a ordinare e arricchire una raccolta di coleotteri.
Era in corrispondenza con scienziati e collezionisti e spe­
diva continuamente scatolette di qua e di là. Durante le
passeggiate era abilissima nello scovare insetti dai loro
nascondigli, e aveva venduto quasi fino all’esaurimento
della merce una rara varietà scoperta in un boschetto
della nostra regione. Non ricordo più il nome di quella
specie ormai quasi estinta. Il più addolorato era un mae­
stro che aveva rivelato il luogo all’intraprendente mercan­
tessa, e ora si sentiva corresponsabile di un brigantaggio
scientifico, com’egli diceva. La signorina si chiamava
Hansa. Essa amava e ammirava sopra ogni cosa il nome
Hans e perciò senza badare alla logica l’aveva adornato
di una a e se l’era appropriato.
In tali circostanze e con tali guardiane, io facevo quel
che volevo, vale a dire che nessuno mi sorvegliava. Ma
quando seppi dell’arrivo di Leodegar, fu come se di colpo
a quell’indipendenza s’aggiungessero due o tre anni d’età.
Lo aspettai con cuore tremante e tuttavia, vergognosa e
solenne, lo accolsi nell’atteggiamento di una signorina
fatta.
1194 L’EPIGRAMMA

«Perbacco !» esclamò sbalordito quando mi vide «qua


non posso più parlare della mia sposina; questa fra po­
co è una sposa grande!».
Io lo guardai quasi con spavento, e i suoi lineamenti
regolari ma marcati, i ricci neri ricadenti sulla fronte, i
grandi occhi che mandavano fiamme fredde, tutto mi
rimase poi a lungo davanti come un ritratto dipinto; al­
lora però mi sgomentò e m’abbagliò quel personaggio ar­
rivato alla sua piena espressione, e il timore servì sol­
tanto a spingere all’estremo la mia fanciullaggine. Tut­
tavia mi padroneggiai ; dopo una breve conversazione, con
la massima naturalezza invitai a pranzo per un certo
giorno l’amico del mio cuore. La governante e non
meno l’istitutrice, benché abitualmente distratte, si stu­
pirono dei miei ordini, e il mio contegno le sconcertò
tanto che non fecero opposizione né difficoltà mentre io
aggiungevo alla lista del pranzo sempre nuove portate
che gli sapevo gradite.
Apparecchiai io stessa la tavola di buon mattino, con il
vasellame migliore che la mamma adoperava solo in rare
occasioni; con nuova meraviglia la signora Lise, la go­
vernante, dovette tirar fuori anche l’argenteria. Quando
la tavola fu pronta e splendente in tutta la sua magni­
ficenza, indossai il mio vestito più bello e non mancai di
adomarmi con i piccoli tesori concessi alla mia giovi­
nezza. Anche la signorina Hansa, pregata da me, s’ab­
bigliò con gran pompa; mise una veste di seta nera
frusciante, prodotto del suo commercio d’insetti, e vi ap­
puntò sopra un grosso scarabeo egiziano che mio padre
le aveva donato. Era intagliato in una pietra preziosa, le­
gato in oro e montato a spilla.
Fin lì tutto era andato bene e secondo la mia volontà.
Ma poi le cose mutarono. Quando sedemmo a tavola noi
tre, e incominciammo a servirci sotto la direzione della
signora Lise, mi vidi improvvisamente respinta alla mia
vera età e alla mia esistenza puerile. Non trovavo niente
da dire e troneggiavo muta e rigida nel mio splendore,
mentre l’istitutrice conduceva la conversazione e Leo-
degar aveva il suo bel da fare a risponderle. Quando egli
DOVE L’EPIGRAMMA RICEVE CONFERMA 1 1 95

fece un commento sullo scarabeo, ed essa si tolse la spilla


e gliela diede in mano per lasciargliela meglio osservare,
credetti che il cuore mi si spezzasse ; piena di gelosia af­
ferrai una bottiglia, tanto per far qualcosa anch’io, e nel
mio turbamento riempii il bicchiere dell’ospite fino a
farlo traboccare, sicché il vino rosso macchiò la tovaglia.
La signorina Hansa non mi fece grazia di una piccola os­
servazione molto corretta; più esplicita fu la governante,
che dimenticando la sua spirituale placidità si precipitò
con un tovagliolo bianco a coprire il disastro e mi scoccò
un’occhiata di rimprovero. Le lacrime mi punsero gli
occhi; non sapevo dove guardare, ma poi di sottecchi get­
tai uno sguardo a Leodegar che mi ammiccò ridendo
affettuosamente, e ripetè il solito scherzo. «Ehi, piccola
Lucia,» disse «se rimani così maldestra non ci potremo
sposare ! ».
Le due donne più anziane forse non giudicavano ormai
più opportuna la frase burlesca che già conoscevano, e
infatti sorrisero alquanto acidamente. Io invece arrossii,
e tuttavia mi sentii più tranquilla, perché la parola in­
sperata rafforzava la mia antica fede infantile nella serietà
e sincerità del pretendente.
Finito il pranzo e dopo aver preso il caffè, il convitato
propose di fare una passeggiata in campagna. Disse che
sarebbe ripartito all’indomani e che non credeva di tor­
nare molto presto.
Udii la notizia con terribile angoscia; non potevo im­
maginare una sventura più grande di una nuova impre­
vista separazione. Ma mezz’ora dopo ero ancora dieci
volte più disperata. Stavamo attraversando un piccolo
parco inselvatichito, i cui sentieri stretti e sdrucciolevoli
si perdevano su una collina nella foresta comunale. Leo­
degar aveva offerto il braccio all’istitutrice, la quale non
lo lasciava più, e io ero obbligata a seguire la coppia
come un cagnolino. I due non se ne accorgevano nean­
che, e io nella mia quindicenne inettitudine mi sentii
così desolata che mi misi a piangere e dovetti tapparmi
la bocca col fazzoletto per soffocare i gemiti e i singhiozzi.
Quel contegno stonava col mio vestito alla moda, che
II96 L’EPIGRAMMA

avevo voluto il più somigliante possibile a quelli delle


signore.
A un tratto vi fu una nuova svolta degli avvenimenti.
La signorina Hansa tirò fuori di tasca la boccetta d’al­
cool che si portava sempre dietro, e balzò in mezzo agli
alberi, dove si vedevano muovere su una corteccia mu­
scosa le lunghe antenne di un coleottero. Subito dopo il
povero abitante dei boschi precipitò nell’inferno della boc­
cetta e tremò orribilmente prima di rimanere immobile.
Io non lo vidi, ma conoscevo a sazietà lo spettacolo. La
signorina ci gridò di andare pure avanti, lei doveva esplo­
rare meglio il luogo e ci avrebbe raggiunti.
Allora Leodegar si volse verso di me e s’avvide del
mio stato di sconforto, che a me pareva altrettanto orri­
bile quanto la posizione dell’insetto moribondo. Sor­
preso afferrò la mia mano, se la mise sotto il braccio e
mi sostenne come prima aveva guidato i passi dell’istitu­
trice, dicendo: «Che cosa c’è? Perché questo pianto?
Una fidanzata, una sposina che piange, ma che cosa vuol
dire?».
Anche se era un discorso da bambini, il consueto ap­
pellativo mi consolò, come pure il posto a fianco dell’uo­
mo, il cui braccio mi faceva più paura che piacere. Non
risposi nulla, m’asciugai le lacrime e spianai il volto. Dopo
un centinaio di passi giungemmo al margine del boschetto
e uscimmo nella brughiera, dove trovammo subito la tom­
ba di Piccolomini. Le pervinche piantate da me in sette
anni avevano fittamente rivestito la montagnola; i sam­
buchi, cresciuti e allargati, erano coperti di bianchi om­
brelli di fiori, e qualcuno a cui il luogo piaceva aveva
fatto mettere sotto gli alberi una panchina di legno.
« Riposiamoci qui e aspettiamo la signorina ; » disse Leo­
degar «che cos’è questo posticino tranquillo, che non
avevo mai visto?».
«Credo che sia una tomba» risposi distratta e agitata,
ma m’interruppi subito. Mi pareva di avere almeno tren-
t’anni e di ripensare a lontani sogni di giovinezza. Ben­
ché solo l’ombra di una fantasia poetica fosse 11 sepolta,
mi sentivo come sgomenta dalla rivalità dei due uomini;
DOVE L’EPIGRAMMA RICEVE CONFERMA 1 ig7

poiché il vivo appariva tanto bello e forte come una volta


m’immaginavo il morto. Le fronde dei sambuchi mormo­
ravano parole inquietanti al mio orecchio. E un giorno
avevo sentito la mia istitutrice affermare in mezzo a un
gruppo di signore che gli uomini detestano sentir raccon­
tare dalle donne amate le loro precedenti storie d’amore.
Nonostante la mia tendenza alla sincerità, era un motivo
sufficiente per restare muta come un pesce quando Leode­
gar chiese chi v’era sepolto. Tremavo leggermente per
l’affanno. Egli se ne accorse, mi prese fraternamente fra le
braccia, m’accarezzò le guance e chiese che cos’era suc­
cesso e perché avevo pianto.
Allora ruppi di nuovo in lacrime; sentivo un bisogno
struggente di confidenza, d’amicizia e d’amore, di un
soggiorno più gradito; e tutta quella nostalgia, senza
ch’io potessi impedirlo, si sfogò nella strana invocazione :
«Cugino Leodegar! Quando mi sposerai?».
Egli tacque per qualche istante, come in cerca di una
risposta. Poi mi sollevò il mento con due dita, per vedermi
in faccia, e la sua era china verso di me con occhi affettuo­
si, mentre la bocca sorrìdeva stranamente. Alla fine disse:
«Mia buona fanciulla, quando sarai cattolica si celebre­
ranno le nozze!».
«Ma anche la mia mamma non era protestante» diss’io
«e il babbo l’ha sposata lo stesso».
«Su questo punto tuo padre e io la pensiamo diversa-
mente ! » replicò lui pensieroso, mentre m’attirava a sé
più teneramente ed era in procinto d’imprimermi un
bacio sulla fronte. In quel momento udimmo fra gli alberi
i passi e la voce dell’istitutrice, e Leodegar involontaria­
mente mi lasciò andare. Da quella stramba che ero, me ne
rallegrai, perché al bacio tutto il mio essere si ribellava.
Però ciò diede all’avventura come la vedevo io la consa­
crazione del mistero; sapevo ormai che la gente non
doveva apprendere nulla dell’accaduto e lo considerai
tanto più fiduciosamente un fidanzamento segreto. La
passeggiata continuò su strade più larghe; però dopo
qualche minuto Leodegar rise a mezza voce per conto
suo, ma solo un attimo, come se gli fosse venuto in mente
II98 L’EPIGRAMMA

qualcosa di buffo. Non avvenne nient’altro di memora­


bile. Egli ci riaccompagnò fino alla porta di casa e prese
commiato, poiché ripartiva al mattino presto. Mi strinse
la mano con affettuosa serietà, e mi esortò a rimanere così
cara e buona e a studiare di lena. Io lo seguii con gli occhi
finché la sua alta figura svanì nella penombra della sera.
Poi entrai in casa, mentre la signorina Hansa era già di
sopra a esaminare la sua preda.
Andai a letto presto per poter piangere indisturbata e
riflettere alla svolta importante della mia vita, alle parole
di Leodegar. Pian piano però mi addormentai, ma mi de­
stai poco dopo la 'mezzanotte. Allora mi levai dal letto,
mi vestii da viaggio, riempii un cestino delle cose più ne­
cessarie, e infine scrissi una lettera alle mie guardiane,
avvertendole che mi era venuto un gran desiderio di ve­
dere la monaca amica della mamma e che me ne andavo
al convento dove sarei rimasta fino al ritorno del babbo.
Punto e basta.
Presi poi il mio candeliere e la cesta da viaggio o
meglio da mercato, e con passi silenziosi scesi a pianter­
reno, apersi la porta di dietro che metteva in giardino, e
salii in barca posando la cesta sul fondo. Poi sciolsi l’im­
barcazione, infilai negli scalmi i remi che ero andata a
prendere, e mi diressi verso il centro della corrente che
brillava nel mite chiaro di luna; perché l’astro splendeva
alto nel cielo, e la notte di giugno era bellissima. Dalle
rive giungeva a tratti il canto di un usignuolo, e mai l’a­
zione sconsiderata di una ragazzetta acerba si svolse in
simili condizioni. Mi bastava muovere ogni tanto il remo
per mantener diritta la navicella; ma il viaggio era abba­
stanza pericoloso, poiché dovevo passare sotto due ponti
e potevo sbattere contro un pilone se non infilavo bene
l’arcata.
Trasognata e temeraria viaggiai tuttavia senza inci­
denti e alle prime luci dell’alba entrai nella piccola inse­
natura dove i battelli da pesca del mulinaro del con­
vento si dondolavano sotto gli alti salici.
Suonava in quel momento la campanella della messa,
nel coro le monache cantavano il mattutino, mentre fuori
DOVE L’EPIGRAMMA RICEVE CONFERMA 1199

fringuelli, merli e altri uccelli salutavano il giorno e


pareva che l’aria fosse viva. Ma anche i cani accorsero
abbaiando, perché io accostai con fracasso, urtando i
battelli e impigliandomi con la mia catena. Fortunata­
mente arrivò un servo del monastero che mi riconobbe e
ammansì i cani. Legò la barca e portò la mia cesta alla
porta del convento. Pallida per la frescura del mattino
e per la veglia notturna tirai la campana, ma dovetti
aspettare a lungo che la suora portinaia mi aprisse e mi
lasciasse entrare dopo un breve interrogatorio. Mi disse di
sedermi su una panca nell’atrio e, non meno stupita del
servo per la mia comparsa, andò in cerca di sorella Klara
che usciva per l’appunto dalla cappella. La buona zia
Klara, come io chiamavo l’amica della mamma, s’ac­
cingeva dopo l’Ora Prima a tornare in cella per il solito
sonnellino ; e arrivò, tutta affannata nel vedermi, a chie­
dermi che cos’era successo, perché e in qual modo ero
venuta, e via discorrendo. Innanzitutto però mi condusse
nella sua stanzetta, e non senza commozione apprese che
mi sentivo sola e che desideravo restare per qualche giorno
con lei. All’udire del mio audace viaggio sul fiume si fece
il segno della croce. «Povera bimba !» esclamò «ma nes­
suno veglia su di te?».
Subito prese nell’armadietto a muro una bottiglia di
profumato rosolio fatto in convento e mi costrinse a bere
un bicchierino di quel liquor i corroborante, e a mangiare
un biscotto. Dopo di che non ebbe pace finché non mi ste­
si sul suo letto e m’addormentai, mentre ella col suo libro
di preghiere si sedeva su un panchettino ad aspettare
l’aurora.
Quando suonò la campana della prima refezione venne
a svegliarmi, perché intanto aveva parlato con la madre
priora, la quale aveva dato ordine di tenermi lì tranquilla
finché la faccenda non si fosse chiarita. Feci quindi cola­
zione con le suore, che erano quasi tutte le stesse di una
volta. Subito dopo fu annunziato l’arrivo del nostro do­
mestico, che la signorina Hansa e la signora Lise, scoperta
la mia fuga e tenuto consiglio, m’avevano mandato dietro
su un vaporetto. Il fedele servitore, quello che è ancora
1 200 L’EPIGRAMMA

con noi, conosceva sorella Klara e la sua amicizia con la


povera mamma; perciò quando mi vide dietro la grata del
parlatorio in compagnia della religiosa, e sentì che tutto
era andato bene e che mi trovavo in buone mani, si con­
gedò e dopo avere accettato lo spuntino che gli offrivano
riportò via remando gagliardamente contro corrente la
barca di cui m’ero servita per venire.
Così rimasi in convento, insieme col proposito che
andavo volgendo in mente. Verso sera sorella Klara mi
portò a passeggiare nei campi, come faceva una volta in­
sieme alla mamma, e con dolce insistenza mi fece dire il
motivo della mia visita inaspettata.
Io manifestai senza esitazione il mio desiderio di ab­
bracciare con il suo aiuto e sotto il patrocinio di quel
monastero la religione cattolica.
Per la.seconda volta suor Klara sussultò e scosse il capo.
Ma avvezza all’abnegazione e all’obbedienza non osò
rispondere da sé alla mia richiesta; andò immediata­
mente dalla superiora e le comunicò l’importante notizia.
La madre priora scosse anch’ella la testa, e poi si recò
alla prepositura, che sorgeva di fronte al monastero, per
informare della cosa il signor prevosto. Ma questi era
andato a passeggiare col breviario sul suo sentiero predi­
letto lungo il fiume, e per non perder tempo l’impensierita
badessa gli rancheggiò dietro finché lo trovò. Il prevosto
non crollò affatto il capo, anzi si mise subito a considerare
seriamente la cosa, e finì per risolvere che io restassi per
qualche giorno sotto esame e osservazione mentre egli
andava a prendere consiglio dal suo abate.
Quanto a me rimasi salda nel mio proposito; in alto
loco ragionarono che io ero l’unica erede, presumibil­
mente, di un bel patrimonio, figlia d’una cattolica che,
sottratta dal coniuge eretico alla vera fede, era morta
senza i conforti della religione, e che la mia aspirazione
era evidentemente un decreto della Provvidenza i cui frut­
ti possibili per il monastero e per la Chiesa non si po­
tevano negligere prendendoli alla leggera.
Secondo le leggi del paese, quando fossi diventata di un
anno più vecchia avrei acquistato il diritto di convertirmi
DOVE L’EPIGRAMMA RICEVE CONFERMA 1201

liberamente, anche contro la volontà di mio padre. Il


problema era dunque: lasciar passare questo anno pro­
curando di non perdermi d’occhio, ma con il pericolo che
io recedessi dalla mia determinazione, oppure acconten­
tarmi subito a patto ch’io mantenessi segreto il passo com­
piuto fino al giorno della mia maggiore età confessionale?
E ci si poteva fidare della mia promessa? Tuttavia fu
scelta la seconda soluzione. Per il caso di una scoperta
prematura si pensava di richiamare l’attenzione sull’ab­
bandono e sulla mancanza di guida in cui ero lasciata,
condizione che agli antichi correligionari della madre
aveva imposto l’elementare dovere di prendere la figlia
sotto la loro protezione.
Così infatti venni trattata. Per due mesi il signor pre­
vosto in persona m’impartì l’istruzione religiosa, poi,
nella cappella del monastero, ricevetti il battesimo. Due
Minori conventuali della lontana Casa Madre a cui ap­
parteneva il prevosto, e due sorelle, l’una delle quali era
suor Klara, mi furono padrini e madrine. Poi vennero
stesi e firmati i documenti necessari, e il prevosto provvi­
soriamente li conservò nel suo archivio. Il nome Lucia
mi fu lasciato. Non sarebbe facile per me descrivere la
mia disposizione d’animo durante l’addottrinamento e la
cerimonia. Ad ogni modo la coscienza mi rimordeva, e
sentivo ben chiaro di agir male verso mio padre. Inoltre
avevo in cuore un freddo agghiacciante, e anche ciò mi
opprimeva ; solò il pensiero di essere ormai unita indisso­
lubilmente con Leodegar, e di aver rimosso tutti gli osta­
coli alla mia felicità scioglieva il gelo Iella mia anima e
restituiva un po’ di vita al mio sangue. La gente scambia­
va tutto ciò per commozione religiosa; solo sorella Klara,
che partecipava con interesse più profondo, non era né
tranquilla né persuasa del mio contegno, e un pomerig­
gio che mi trovavo sola nella sua cella provò di nuovo a
indagare con parole guardinghe sulla natura e sul gene­
re del motivo fondamentale che mi spingeva. All’amica
materna non potei nasconderlo a lungo, e nel giro d’un
quarto d’ora ella conobbe il mio infelice romanzetto
puerile.
1202 L’EPIGRAMMA

Mi guardò con grandi occhi spauriti, poi coprendosi


di un cupo rossore li riabbassò sul lavoro, e poco dopo vi
cadde sopra una lacrima lucente. Pensai che la pia, si­
lenziosa donna si vergognasse per me, poiché io non mi
vergognavo; al colmo della desolazione m’inginocchiai
ai suoi piedi e le piansi in grembo. Ma era piuttosto il ri­
cordo dell’antico dolore che l’aveva condotta nel chio­
stro, quello che ora l’angosciava. Mi rialzò dolcemente
e mi disse:
«Non parliamone più ! Taci e dimentica, o se no Iddio
e i suoi santi ti possano aiutare ! ».
Naturalmente ne riparlammo, anni dopo, poiché ella
vive ancora. In quei giorni che rimasi ancora presso di lei,
per distrarmi m’insegnò a ricamare quadretti come quello
che vede qui, che era di sua invenzione. Dovrebbe rap­
presentare l’amore sacro e l’amore profano, certo espresso
con minore arte che nel famoso quadro del Tiziano. Io
compresi il muto ammonimento e con la seta rossa rica­
mai sul cartoncino i due cuori; ma parteggiavo per quello
rimasto sull’erba fra l’abete e il rosaio. Per portare al col­
mo le contraddizioni del mio stato, non sospirai neanche
una volta, giacché i bambini piangono, si, ma non sanno
ancora sospirare.
Eppure non tardai ad aver motivi d’inquietudine e
d’angoscia. Il vaporetto che faceva servizio regolare sul
fiume attraccò un giorno alla banchina del convento; ac­
canto a suor Klara io guardavo curiosa dalla finestra
della cella; ma invece di una religiosa dell’ordine o di un
prelato in giro d’ispezione o di un commerciante laico,
vidi scendere a terra mio padre. Col suo apparire un nuo­
vo peso mi cadde sul cuore, e la coscienza inquieta si
trasformò in uno sgomento che non conoscevo ancora.
Egli era tornato dal suo viaggio improvvisamente e prima
del previsto, e quando seppe che da mesi vivevo in con­
vento lo prese una collera profonda per il mio arbitrio
e per la negligenza della governante e dell’istitutrice. Le
licenziò sui due piedi, ed entrambe dovettero lasciare
da un’ora all’altra la casa. Verso le buone suore perdette
la tolleranza di prima, nello sdegnato timore che potessero
DOVE L’EPIGRAMMA RICEVE CONFERMA 1 2O3

avermi attirata e trattenuta in convento con cattive in­


tenzioni. Appena arrivato mi fece chiamare, non sprecò
parole, e m’ingiunse soltanto di raccogliere la mia roba
per tornare a casa con lui. L’invito di pranzare alla pre­
positura lo rifiutò seccamente. Sulla via del ritorno mi
chiese se avevano tentato d’indurmi alla conversione;
secondo verità e tuttavia ambiguamente risposi di no;
giacché per la promessa data, ma anche per paura del­
l’umore tanto mutato del babbo, non osai confessare ciò
che era accaduto. Così imparai di colpo a sospirare, poi­
ché avevo da tener celato, se non un delitto, però un passo
illegale, grave e di gran conseguenza. Quando entrai nella
casa patema e non vidi più le due donne scacciate per
causa mia, sospirai di nuovo profondamente e capii per la
prima volta quanto poteva essere amara la vita.
Ma non ebbi molto tempo per chiedere notizie delle
scomparse. Mio padre aveva visitato in Turingia un isti­
tuto di educazione o di perfezionamento per ragazze già
grandicelle. Esso era organizzato con spirito nettamente
protestante, a uso di una certa classe sociale. E poiché
il babbo era sempre incline a esperimenti religiosi, che
compiva sugli altri come i naturalisti sulle rane, pensò
che fosse il modo migliore per espellere il cattolicesimo
da me respirato nel monastero. Perciò mi portò in quel
collegio senza altri indugi, e mi collocò lì per due anni.
Ma la severa ortodossia luterana che egli teneva per
sicura non andava poi molto lontano. Si trattava piut­
tosto della volontà di evitare per mezzo di un corpo inse­
gnante serio e adeguatamente addestrato certe ingerenze
indebite, certe pratiche e stoltezze indelicate e incongrue,
che maestri dei due sessi mal sorvegliati, con una prepa­
razione scarsa o unilaterale, talvolta oggidì si permettono.
Il vero scopo si poteva addirittura definire spiccatamente
mondano. Curando un’educazione migliore della media
s’intendeva preservare le allieve dall’immodestia, dalla
saccenteria, dall’affettazione e dal malgarbo, per non ro­
vinar loro a priori l’avvenire e il destino, bensì conservarle
semplici di cuore per più mature esperienze, e sane d’in­
telligenza per formarsi nel mondo stesso le proprie opi­
I 204 L’EPIGRAMMA

nioni e i propri giudizi. In questo senso lo spirito cristiano


che vi dominava poteva essere paragonato unicamente a
un vaso di vetro trasparente che tratteneva la polvere e
lasciava passare la luce, ed esso stesso era esposto a rot­
ture. Nulla è perfetto in questo mondo.
Del resto ebbi una quantità di compagne beneducate,
di buona indole, tutti cuori lieti e innocenti, fra le quali
la scelta delle amiche più intime sarebbe stata difficile se
non l’avessero determinata impressioni esteriori del tutto
indifferenti. Succedeva persino che certe coppie d’amiche,
alle quali veniva chiesto scherzosamente che cosa le at­
tirasse l’una verso l’altra, rispondevano ridendo che non
10 sapevano e che erano pronte a cambiare, se qualcun’al-
tra era disposta. Fu poi una fortuna per me che quasi
tutte le convittrici avessero madri di mente elevata e cólta,
e che io potessi goderne l’affettuosa amicizia quando ero
invitata per le vacanze in casa di qualche condiscepola,
ora in una grande città ora in campagna. Quei soggiorni
nel seno di famiglie sane e numerose, in ambiente armo­
nioso e lieto, integrarono nel modo più benefico i miei
anni di scuola, e tutto sarebbe stato buono e bello senza
11 segreto che mi pesava sulla coscienza.
Infatti via via che diventavo più adulta riconoscevo
più chiaramente che non mi potevo scoprire, se in quelle
cerehie tranquille, dove nulla si faceva con precipitazione
o arbitrio, non volevo apparire come una creatura peri­
colosa e stravagante. Quel dover sempre tacere lo stesso
segreto, cioè d’esser cattolica e come lo ero diventata, mi
separava dal mondo piccolo e grande in cui vivevo.
Ma nella stessa misura nella quale il segreto chiuso in
me cresceva di peso, esso mi diventava anche più caro.
Non ebbi mai notizie di Leodegar, e non sapevo dove vi­
vesse. Né mio padre né suor Klara, coi quali ero in corri­
spondenza, lo nominarono una sola volta. Ma io ero fer­
mamente convinta che un giorno, quando fosse venuto il
tempo, egli sarebbe tornato e avrebbe liberato me e il
mio segreto. Quanto più la sua presenza fisica s’allonta­
nava nel mio ricordo, tanto più egli risplendeva nell’ani­
ma mia, come una stella. Il secondo anno volgeva al ter-
DOVE L’EPIGRAMMA RICEVE CONFERMA 1 2O5

mine ; ero molto cresciuta, e assorta nel mio segreto e nei


miei pensieri potevo talvolta somigliare a una persona
seria e adulta. Alla fine stavo soltanto con le compagne
più vecchie, che s’avvicinavano ai vent’anni, ma non
osavo partecipare alle confidenze che le grandi si scam­
biavano, e in silenzio mi struggevo di tornare a casa. Sem­
pre più salda era in me la fede che Leodegar non avrebbe
tardato a venire. Quella speranza era anche per me
un’amara necessità: che cosa mai avrei dovuto fare della
mia conversione senza colui per il quale unicamente
l’avevo intrapresa?
Mio padre era in Italia e mi scrisse che sarebbe venuto a
prendermi in autunno; e poiché riceveva ottimi rapporti
sul mio conto, m’avrebbe condotta per premio nel paese
dell’arte classica, dove intendeva ritornare per trascor­
rervi l’inverno e la primavera. Là le ultime idee mona­
stiche, se ancora ne avevo, sarebbero certamente svanite.
«A proposito,» finiva la lettera «ho incontrato a
Roma, proprio per caso, nostro cugino Leodegar. È en­
trato nell’ordine dei redentoristi e va attorno in tonaca
nera con un buffo cappello e la corona del rosario. Dicono
che voglia fare carriera e diventare cardinale ; e ci credo,
perché fece una faccia molto scaltra quando gliene parlai.
In un certo modo era sempre il solito Leodegar, eppure
v’era in lui qualcosa di nuovo, come se i suoi occhi di­
cessero : Caro mio, se tu fossi dei nostri, guai a non vene­
rarmi ! ».
La notizia era purtroppo autentica. Quasi lo stesso
giorno, a tavola, il capo dell’istituto leggendo il giornale
mi disse : « Qui si parla di un giovane redentorista tedesco
che s’è acquistato gran fama a Roma con le sue prediche.
È del suo paese, signorina Lucia, e ha anche lo stesso co­
gnome. Lo conosce? Lei però non è cattolica !». Con voce
spenta dichiarai di non saperne nulla, e mi versai da bere
sforzandomi di apparire indifferente.
Il mio povero babbo non venne più a prendermi. Nei
caldi mesi dell’estate, viaggiando senza prudenza, si bu­
scò certe febbri di cui non guarì.
Orfana ormai di entrambi i genitori, ritornai nella mia
12o6 L’EPIGRAMMA

vuota dimora. Poiché avevo ancora bisogno di un tutore


per amministrare i miei beni, offersi l’incarico a uno zio,
fratello di mia madre, che stava per farsi collocare a ri­
poso e m’aveva annunziato la sua visita. Egli s’assunse con
fedele sollecitudine l’affettuosa missione. Da allora vivia­
mo insieme e sette anni fa comprammo questo podere e
venimmo ad abitarlo. Avevo cercato assiduamente la
signorina Hansa e la governante per riparare al torto che
avevano subito. Ma non potei soddisfare questo mio de­
siderio. L’istitutrice aveva sposato un fornitore di natu­
ralisti ed era partita con lui per l’America del Sud. Gli
teneva i conti e s’occupava in particolare dell’acquisto di
insetti. La signora Lise dirigeva le cucine di un grande
ospedale e non aveva più bisogno di me.
Della mia precoce e insensata infatuazione e del suo
oggetto guarii rapidamente; fu come se mi cadessero le
bende dagli occhi. Ma con quella scappata m’ero tagliata
per sempre la strada della vita, della giovinezza, della fe­
licità o di quel che si considera tale. Non potevo annullare
la mia conversione, se non volevo essere considerata una
bizzarra volubile che cambia e ricambia di religione. Nel
frattempo imparai a consolarmi con l’idea che la mia sto­
ria mi aveva preservata da altre disgrazie, disavventure e
diavolerie che senza quell’esperienza avrei potuto subire
o cagionare più tardi. Vi sono pur malattie che s’inoculano
ai bambini perché poi ne rimangano immuni ! Ma ora lei
mi promette il segreto, newero? E non ponga la mia sto­
ria fra gli esempi che magari le verrà voglia di raccontare
garbatamente altrove, come ha fatto qui da noi !
— In quanto a questo può stare tranquilla; — rispose
Reinhart — quasi mi ritengo indegno io stesso della sua
cosi amichevole confidenza. Ma il confronto con la vacci­
nazione dei bambini non glielo posso ammettere. Ciò
che lei ha provato è molto diverso dalla sconveniente avi­
dità d’amore dei bambini viziati, e colpisce soltanto poche
creature elette la cui nobile, innata generosità di cuore
precorre il tempo con inconsapevole, innocente impazien­
za. La candida fede infantile nelle parole spensierata­
mente scherzose del signor cardinale, da lei così a lungo
DOVE L’EPIGRAMMA RICEVE CONFERMA 1 207

serbata, fa parte di questa generosità, come l’ala di una


colomba è connessa con l’altra ala ; e con ali simili vola­
no gli angeli in mezzo agli uomini. Un tale esempio di
bontà mi fa considerare con vergogna quanto la mia vita
sia stata finora vuota, indifferente, e con quale sventatez­
za io mi sia presentato anche al suo cospetto !
— Finalmente diviene per davvero gentile con noi don­
ne; — disse Lucia — le sono grata per il giudizio bene­
volo.
Respirò leggermente e soggiunse:
— Vede, ora mi sento interamente liberata da quel ma­
laugurato segreto. Gom’è difficile trovare un confessore
come si desidera !... Ma lei non voleva leggere?
— Ora non più, — rispose Reinhart — come potrei?
Mi piacerebbe invece andare fuori all’aperto per tutto il
giorno, e dimenticare ogni cruccio ; vale a dire, vuol veni­
re con me?
— Ha ben ragione ! — rise Lucia amabilmente — per­
ché non concederci una buona giornata? L’abbiamo in
noi, non è vero?
— Che cosa?
— Quel po’ di follia infantile con le ali di colomba,
anche se siamo più grandi e adulti ! Senta, andiamo per i
boschi fino ad Althäusern sul fiume ; là potremo fare una
discreta colazione alla «Locanda della Posta», e osservare
i viaggiatori e i postiglioni. Anzi, mi viene in mente che
devo passare dal calzolaio, a vedere se mi ha fatto le scar­
pe per camminare nei boschi e nei campi quest’autunno,
e se mi calzano bene. Sa, il maestro calzolaio è fidanzato
con la nostra Bärbchen, perciò bisogna proteggerlo e
fargli onore.
Tirò una delle tende verdi e gridò fuori:
— Bärbchen, hai qualche ambasciata? Andiamo a pas­
seggio e passeremo da colui che ti fa le scarpe e la corte !
La donzella chiamata giunse di corsa, chiese prima se
la prossima domenica poteva uscire, e ottenuto il permesso
pregò di informare il fidanzato e dirgli di restare in casa
ad attenderla. Gli avrebbe anche portato le calze nuove
per l’inverno.
12o8 L’EPIGRAMMA

— Ecco, ora abbiamo anche un mandato da adempie­


re, — esclamò Lucia — non ci presentiamo mica male
come messaggeri d’amore !
Si misero in cammino bene equipaggiati e osservarono
con attenzione tutte le cose che li colpivano : un cervo vo­
lante ai piedi di un albero, che macinava di lena e aveva
già tirato fuori un bel mucchietto di segatura ; un rovere
che teneva fra le braccia nodose un’agile betulla: le
fronde mescolate delle loro chiome sussurravano e fre­
mevano insieme, e con la stessa tenerezza il tronco liscio
della betulla si stringeva a quello più scabro del rovere.
In un limpido rivo che scorreva lungo il fianco boscoso
del monte nuotava una bella e grossa biscia, e non lontano
dai due viandanti si gettò sulla terra asciutta: un gam­
bero robusto le stava attaccato al collo, certo per divorar­
la. Reinhart afferrò la biscia con mano pronta e la sollevò.
— Mi regga la povera bestia, — disse a Lucia — che
io possa staccare il persecutore ! Tenga forte con tutte e
due le mani, non è velenosa !
Lucia lo guardò un po’ sgomenta: ma credette alle
sue parole e resse saldamente la biscia che non si dibatte­
va troppo. Reinhart strinse il gambero fino a fargli aprire
le chele e lo ributtò nel ruscello. La biscia sanguinava un
poco e guardava tranquilla la bella signorina; questa a
sua volta fissava con visibile commozione gli occhi vicini
del misterioso abitatore dei boschi. Vincendo del tutto il
suo timore, Lucia posò dolcemente il rettile sul terreno e
lo lasciò strisciar via tranquillo.
— Che bel disegno ! — esclamò seguendolo con lo
sguardo finché scomparve fra le felci — e come sono con­
tenta d’aver imparato a tener fra le mani quest’opera del
Creatore ! La piccola avventura salvatrice è davvero edi­
ficante !
— Sì, — replicò Reinhart — dà gioia, nell’universale
guerra di distruzione, poter proteggere per un istante un
singolo individuo, secondo il nostro potere e il nostro
capriccio, mentre però divoriamo avidamente anche noi
la nostra parte. Ma guardi, la bestiola sembra volerci
dimostrare la sua riconoscenza e farci da scorta !
DOVE L’EPIGRAMMA RICEVE CONFERMA 1 2Og

Additò un lato del sentiero, dove la biscia era riap­


parsa e strisciando loro a fianco, ora visibile, ora sotto i ce­
spugli, accompagnò per un tratto la coppia. Alla fine
si fermò, si levò su diritta e volse pianamente di qua e di là
la testolina piatta.
Lucia guardava senza parola, ma col petto ansante,
e solo quando la persero di vista esclamò :
— Oh, vorrei sognare quella bella biscia, se dovessi
attraversare dei giorni tristi ! Certo quel sogno mi ren­
derebbe felice.
Senza affrettarsi, giunsero in paese a mezzogiorno, en­
trarono nella «Locanda della Posta» e si fecero portare la
minestra e le altre semplici vivande locali. Come modesti
viaggiatori o ambulanti, che debbono badare a quel che
fanno, a ogni piatto s’informarono prima del prezzo, e si
presero altri spassi dello stesso genere. Poi si ricordarono
del calzolaio e andarono a cercarlo. Trovarono la casetta,
un po’ discosta, sotto un noce, e la parete esposta al sole
era coperta da una fila di peri, ma solo in parte; dall’altra
c’era una pianta di vite, e così tutto il muro era rivestito
di pere mature e di grappoli che stavano diventando az­
zurri.
— Mica male ! — dissero — la Bärbchen s’è scelto un
nido molto gradevole!
Ma ciò che piacque loro ancora di più, fu il canto di
una bella voce virile che sgorgava dalla finestra aperta
in uno stranissimo ritmo. Poiché dalla parte opposta v’era
un’altra finestra, l’interno della stanza era rischiarato e
visibile, ed essi rimasero per un po’ fermi sotto l’albero a
guardare dentro. Il giovane artigiano, che lavorava an­
cora da solo, stava preparando una buona scorta di spago
impeciato. A un gancio sopra la finestra opposta aveva
attaccato i lunghi fili di canapa che s’irraggiavano per
tutta la camera, e camminava su e giù con un pezzo di pe­
ce in una mano e un pezzo di cuoio nell’altra, spalmando
lo spago, lisciandolo o attorcigliandolo energicamente sul
ginocchio in posizione acrobatica per renderlo resistente ;
e intanto cantava. Era, niente di meno, la nota canzone
giovanile di Goethe Su un nastro dipinto, che in quei tempi
1210 L’EPIGRAMMA

si trovava ancora in vecchi libriccini stampati su carta


sugante, a uso di garzoni e lavoranti di bottega, invece
delle Marsigliesi e degli inni operai che usano adesso ; il
giovanotto l’aveva imparata quando faceva il ciabattino
ambulante. La cantava su un’antica melodia piena di
sentimento, con fiorettature di gusto popolaresco, la quale
doveva naturalmente adattarsi al ritmo dei suoi andiri­
vieni, e quindi veniva ora rallentata ora precipitata secon­
do i movimenti del lavoro. Per di più egli cantava in un
dialetto corrotto che rendeva ancor più bizzarra l’ese­
cuzione. Ma l’anima indistruttibile della poesia e la fre­
sca voce, la quiete pomeridiana e il cuore innamorato
dell’artigiano che lavorava soletto conseguivano il con­
trario di un risultato ridicolo.
Quando, camminando a passi leggeri, incominciò:
Fior di rosa, foglioline ... ine-ine
sopra un nastro vaporoso
spargon Dei primaverili -ili -ili
giovani e di cuor pietoso,
e al «pietoso» fu trattenuto da un nodo dello spago, do­
vette quindi prolungare la parola di tutta una nota e alla
fine addirittura ripeterla, lo schietto inconsapevole can­
dore con cui lo fece fu più commovente che buffo. La
strofa
ma tu, Zefiro benigno,
recalo alla mia diletta
che specchiandosi si miri
lieta amabile e perfetta,
riuscì senza intoppi, e così pure la seguente:
veda sé, rosa tra rose,
fresca come il vago fior,
e uno sguardo, o vita mia !
mi ripaghi del mio amor.
Solo l’ultima nota gli parve sbagliata, perciò la cor­
resse:
DOVE L’EPIGRAMMA RICEVE CONFERMA 1211

E uno sguardo, o vita mia !


mi rimpaghi del mio amor.
Reinhart e Lucia si guardarono involontariamente.
Il cantore nella casetta sembrava cantare anche per loro,
anche se con una pronuncia spaventosa. Quanta pace e
quanta sincera fiducia o speranza nella vita pulsavano
nell’onda di quel canto ! Alla finestra di fronte c’era una
gabbietta di canarini ornata di fronde verdi. Ed ecco
l’ultima strofa:
Senta ciò che il mio cuor sente . . . ente -ente;
la sua man mi porgerà,
ed il nastro che ci lega. . . ega -ega
nulla mai spezzar potrà !
Poiché lo spago non era tutto impeciato egli ricantò
la strofa parecchie volte, con accenti sempre più limpidi
e belli, volgendo la schiena ai due che l’ascoltavano di
fuori; nella certezza della prossima felicità ripetè con
particolare espressione
la sua man mi porgerà
e poi, al culmine del sentimento, spiegò alta la voce
sulle note rallentate:
ed il nastro che ci lega
nulla mai spezzar potrà !
I canarini si erano uniti al canto con un cinguettio
sempre più sonoro, sicché vi fu nella stanza un vero tu­
multo, per cui, travolti, Lucia e Reinhart si baciarono. Lu­
cia aveva gli occhi pieni di lacrime eppure rideva mentre
un sentimento da troppo tempo disprezzato e represso le
imporporava il viso, e Reinhart vide chiaramente quel
bel fuoco spargersi sulla pelle bianca.
Ormai non potevano più entrare nella casetta; non
visti, com’erano venuti, si allontanarono e solo mentre
camminavano di nuovo lungo i sentieri del bosco Lucia
si fermò e disse:
— Oh Dio, adesso abbiamo davvero sperimentato quel­
1212 L’EPIGRAMMA

la sua malvagia ricetta del vecchio Logau! Perché so


che mi è venuto da sorridere, e spero anche di essere di­
ventata rossa. Mi sento ancora ardere il viso!
— Certo che sei diventata rossa, diletta Lux, — rispose
Reinhart — come un’aurora d’estate ! Ma io non pen­
savo davvero a quell’epigramma, eppure s’è avverato!
E ora mi vuoi dare la tua mano?
Così fu che verso sera, quando i vecchi tornarono a ca­
sa, Lucia dava già del tu a Reinhart, prima dello zio.
Tutti furono contenti del fidanzamento, e Lucia era tanto
contenta del calzolaio, che il giorno dopo volle mandare
Bärbchen in persona a portargli il messaggio dimenticato.
In seguito Reinhart, come lo zio, chiamò sempre «Lux»
la sua bella sposa, e il tempo in cui non la conosceva an­
cora era da lui definito — continuando il gioco di parole -
ante lucem, prima dell’alba.
DUE STORIE D’ALMANACCO
DUE DIVERSI CAMPIONI DELLA LIBERTÀ
RACCONTO

Si dice che la leonessa, quando i maschi combattono per


lei, assista tranquillamente alla lotta per poi andare con
quello che riesce vincitore. Non so se tale particolarità sia
da attribuirsi al leone o piuttosto alla bestia che è in
lui; fatto sta che anche nella razza umana ne sono af­
fette a volte molte donne, e ciò nei più diversi paesi,
nel nord come nel sud, dalla servetta in cucina alla pa­
drona in sala. Vale a dire che, quando un esercito nemico
vittorioso, un popolo straniero ha occupato un paese,
e i maschi indigeni sono o in fuga o dispersi o soggiogati,
non passa molto che le ragazze vanno per le strade a
braccetto con gli invasori, e sotto i portoni e a tutte le
fontane c’è un civettare e un armeggiare che fa pietà.
Eppure tale spettacolo si osserva solo quando gli uomini
non si sono difesi a dovere, quando insomma non si è
verificata la giusta resistenza.
Allorché nella primavera del 1798 la cinquecentenaria
Confederazione Elvetica cadde per la colpevole legge­
rezza dei vecchi governanti, per lo sconsiderato ritardo
con cui si fecero le concessioni, per l’ignoranza e l’irra-
gionevolezza dei rivoluzionari e la loro innata mancanza
di fierezza nazionale, infine per l’insolente irruzione di
un cosiddetto esercito di liberazione francese - irruzione
resa possibile solo da tutto il resto - l’umor leonino si tra­
sferì anche in molte donne svizzere. Non certo nei luoghi
in cui l’antico senso dell’onore aveva affrontato una lotta
disperata; lì di donne e fanciulle uccise ce ne furono in
numero sufficiente a testimoniare di un’immutabile fe­
deltà ai loro uomini e all’onore del paese; ma dove gli
uomini, invece di aiutarsi da sé, avevano chiamato i
Francesi, e li stavano a guardare pieni di servile ammira­
zione; oppure dove li odiavano bensì, ma insieme li te­
mevano, là le donne si lasciarono volentieri corteggiare
da loro. Per amaro che fosse lo spettacolo, era però com­
prensibile là dove gli uomini, accusando i cacciati oligar-
12i6 DUE STORIE D’ALMANACCO

chi, incolpavano se stessi di ignoranza e di goffaggine


politica e salutavano e onoravano come maestra di libertà
la nuova grande nazione francese, che pure stava allora
dilettantescamente rovinando la sua stessa repubblica.
È triste quando i figli rimproverano ai genitori l’edu­
cazione manchevole e l’incuria. È ancor più triste quando
i governanti mandati a spasso si sentono amaramente
schernire dai figli della patria indignati: «Gi avete te­
nuti nell’ignoranza e nella rozzezza, eppure vi abbiamo
vinti». Ma quelli che così si dichiarano ignoranti e rozzi
non diventano per ciò più grandi agli occhi delle donne.
D’altronde è una cattiva scusa, quella che si adduce della
propria incapacità, per giustificarsi di avere chiamato lo
straniero; perché chi non sa aiutarsi da sé non merita
appunto ancora d’esser libero.
Anche la signorina Babette Zulauf, una fanciulla non
più giovanissima, abitante in un’antica cittadina della
Svizzera tedesca che qui non vogliamo nominare, un bel
giorno di primavera dell’anno 1798 si sentì presa da
quell’umore leonino; nel pomeriggio doveva infatti ar­
rivare un battaglione di una mezza brigata francese che
chiamavano la legione nera o la legione terribile. La cit­
tadina era vissuta per secoli sotto la sovranità di due Can­
toni confederati, ma non senza una sua propria anti­
chissima Costituzione e certe sue libertà, sancite dagli
imperatori tedeschi e anche dai diversi signori che l’ave­
vano posseduta prima della conquista effettuata in co­
mune dai due Cantoni. Per parte sua la città, mentre era
essa stessa soggetta, aveva come suoi sudditi due cospicui
villaggi; ma solo sopra uno di essi esercitava l’alta giurisdi­
zione, mentre la bassa apparteneva a un lontano con­
vento di suore, al quale l’aveva pignorata un tempo per
pochi soldi, dimenticandosi poi di riscattarla, un nobile
ormai cacciato da un pezzo. L’alta giurisdizione sull’altro
villaggio la possedeva la popolazione di una valle, suddita
a sua volta, che, avendolo conquistato un tempo, dopo
averlo posseduto per cent’anni l’aveva di nuovo ceduto, a
esclusione di quel resto di signoria per cui non si trovava
più un «detentore regolare». Del resto le comunità dei
DUE DIVERSI CAMPIONI DELLA LIBERTÀ 1217

due villaggi si amministravano da sé in base ad antiche


franchigie zeppe di disposizioni caratteristiche e fanta­
siose, di cui i contadini interpretavano a meraviglia la
nascosta saggezza e la cui veste simbolica trattavano con
ogni cura. Inoltre nemmeno quei villaggi erano del tutto
senza privilegi, perché riscuotevano insieme alcuni diritti
da una solitaria masseria, carpiti anticamente a una fa­
miglia di giovanniti in difficoltà. Gli abitanti della mas­
seria infine erano a loro volta uomini liberi e appartene­
vano a una comunità democratica che stava sul piede di
parità con i Cantoni sovrani e con alcuni di essi reggeva
qualche piccolo territorio soggetto.
Così il diritto e la libertà degli uomini si erano cristal­
lizzati come un fiore di ghiaccio sul vetro gelido di una
finestra, fiore che l’antica ma ancor affilata spada che si
chiamava «amichevole controllo confederale» protegge­
va come un prezioso gioiello. Ma a un tratto la spada si
spezzò, e il fiore di ghiaccio si strusse all’alito caldo che
soffiava ancora dal cratere già semicrollato della rivolu­
zione francese. Allora i confederati diedero la libertà alla
cittadina, la cittadina la diede ai villaggi, i villaggi alla
masseria, e i contadini di questa votarono nella loro as­
semblea per l’emancipazione da tutte le sovranità.
Così eran tutti liberi, ma in paese non c’era altro pa­
drone che i Francesi, i quali stavano in quel momento en­
trando attraverso l’antica porta della cittadina in file
spezzate, che però appena dentro si ricomposero in tutta
la loro larghezza, affinché l’elastico passo ritmato, l’on­
deggiante ballonzolare e il moto cadenzato delle spalle dei
granatieri non mancassero di produrre tutto il loro effet­
to. E infatti gli abitanti, con le donne e i bambini, spalan­
carono la bocca per l’ammirazione in modo tale che den­
tro le fauci di ognuno avrebbe potuto marciare in file
ordinate l’intero battaglione. Con gli enormi cappelli ben
inclinati sull’occhio destro, lo sparato bianco, le svolaz­
zanti falde azzurre delle divise e il fucile in braccio, i
granatieri, e dietro di loro i fucilieri e i cacciatori, attra­
verso le bocche spalancate dei cittadini della Nuova
Elvezia entrarono danzando nei loro cuori.
12i8 DUE STORIE D’ALMANACCO

Il più bello dei cacciatori e ultimo della schiera, Pietro


Diimanet di Parigi, marciò diritto in cuore a Babette Zu­
lauf, davanti alla quale era venuto a fermarsi. Snello e fles­
sibile come una serpe bruna, non faceva che voltarsi e don­
dolarsi nella sua divisa azzurro-cupo, le cui falde appun­
tite gli battevano sui calcagni. Sotto l’elmo di pelle nera
dalla strana forma a cupola e guarnito d’una spazzola, i
suoi occhi scuri lampeggiavano inquieti guardandosi in­
torno ora ridenti ora minacciosi, mentre altrettanto pronti
e irrequieti tremavano e brillavano gli orecchini d’oro che
gli spuntavano di sotto i capelli unti e incipriati con cu­
ra. Sulla schiena portava, negligentemente penzolante, il
sacco di pelle di capra a chiazze bianche e nere, e sul
sacco stava una girandola di carta che, quando tirava
un po’ di vento o quando l’uomo era in marcia, metteva in
moto un monaco e una suora che eseguivano una danza
sconveniente. L’oggettino sporgeva obliquo dal sacco ed
era il contrassegno del soldato Diimanet. Infatti, uscendo
sempre incolume e allegramente girevole dagli scontri,
esso proclamava l’abilità, la sicurezza e la grazia batta­
gliera di chi lo portava. Dovesse nelle scaramucce salire
o scendere il monte, o slanciarsi in un impetuoso assalto,
tenendosi ben dritto egli sapeva sempre portare in salvo
il giochetto attraverso il parapiglia. Solo quando lo
guastava la pioggia se ne fabbricava un altro alla tappa
seguente.
Così aveva già avuto un Luigi XVI e una Maria An­
tonietta, i quali al girare del bindolo s’inchinavano l’uno
di fronte all’altra togliendosi e rimettendosi la testa; poi
un calzolaio seduto che bastonava col tirante il Delfino
e intanto metteva dentro e fuori la lingua. Ma ancor più
notevole della girandola sempre in moto era la faccia
del guerriero, che malgrado la giovinezza appariva sol­
cata e sbiancata dalle fatiche, dalle passioni, dal liberti­
naggio e dalla patriottica avidità di gloria, e poi nuova­
mente brunita dal sole delle campagne di guerra. Ancor
ragazzetto era corso a Parigi dietro quel dissoluto sangui­
nario di Marat e ne aveva condiviso tutte le atrocità:
dalla sua bocca, ove brillavano denti di una bianchezza
DUE DIVERSI CAMPIONI DELLA LIBERTÀ 1 2 ig

accecante, non ci si accorgeva certo, specialmente quando


sorrideva con grazia, che in quei terribili giorni di set­
tembre egli aveva letteralmente vuotato un bicchiere col­
mo di sangue umano. Solo intorno agli occhi, a onta del­
l’impudenza che vi regnava, guizzavano a volte titubanza
« paura, quando le orrende scene di assassinio gli si risve­
gliavano nella memoria. Ma di solito la coscienza di ap­
partenere a una grande nazione, e di andare portando
sulla baionetta la libertà che fondava le repubbliche, inon­
dava di allegria il suo volto espressivo.
Quel volto dunque rimirò la giovane Babette con me­
raviglia e batticuore, come chi vede per la prima volta il
mare. Fino allora essa aveva visto solo facce semplici,
non complicate, e del pane casalingo e della sua patria
era, per amor di libertà (diceva), malcontenta.
Suo padre era un esperto laccatore di metalli, che con
polso instancabile e mignolo proteso in aria dipingeva
templi greci su vassoi da tè, cinque colonne con quattro
tocchi. Di li aveva tratto anche, e trasmesso alla figlia,
l’aspirazione all’alto, ed era adesso il portavoce della li­
bertà nella cittadina. Siccome la prima preoccupazione
era stata per il tricolore (perché tintori, laccatori e fabbri­
canti di passamanerie erano i Licurghi e i Soloni delle nuo­
ve repubbliche che la Francia seminava come ravanelli),
il cittadino Zulauf nuotava nel suo elemento, vedendo
l’arte sua tornare in patriottismo. Dipingeva innumerevoli
coccarde di latta in verde, rosso e oro, i colori scelti per
l’Elvezia, e andava a negoziarle per l’indivisibile repub­
blica contro pagamento in contanti o garanzia sufficiente.
Tutti i davanzali della sua casetta erano occupati da coc­
carde dipinte e laccate di fresco messe in fila ad asciugare.
Anche il cappellone di latta sull’albero della libertà ave­
va laccato, insieme alle tre piume che vi spiccavano, ri­
tagliate anche quelle nella latta. L’albero infatti era già
allestito da mesi, dacché l’ultima dieta di Aarau, rinno­
vato invano l’antico giuramento confederale, si era
sciolta. Avrebbe dovuto tenersi allora attorno all’albero
una danza di festeggiamento; ma proprio mentre il rap­
presentante francese, che dirigeva la festa, prendendo
1220 DUE STORIE D’ALMANACCO

per mano il cittadino Zulauf e sua figlia, cominciava a


formare la fila, s’era abbattuta sulla cittadina un’ingrata
raffica di vento con un turbine fitto di neve, e in quello
stesso momento dalla porta della città era entrato a pre­
cipizio un lungo cavaliere dal mantello rosso e dallo
sguardo ironico e truce, il battistrada di Schwyz, che ca­
valcava innanzi all’antiquata carrozza della legazione.
Poi passò al trotto, con dietro la sua carrozza, uno dal
lungo mantello giallo e nero, il messo di Uri ; e da ultimo,
in bianco e rosso, quello di Unterwalden. Erano gli am­
basciatori dei tre più antichi Cantoni, che cupi e risoluti
s’affrettavano a tornare fra i loro concittadini e guardava­
no dalle carrozze con fredda alterigia. In breve il corteo
scomparve come un sogno per l’altra porta, ma quei cit­
tadini tanto vogliosi di ballare, prendendo a pretesto il ne­
vischio, si dileguarono egualmente, mentre l’avito rispetto
per i severi signori confederati insinuava loro in corpo
un improvviso spavento.
Così l’albero della libertà era rimasto da inaugurare si­
no a quel giorno, quando l’arrivo dei liberatori, dei nuovi
Franchi, aveva offerto la più bella occasione per rifarsi.
Perciò Babette, ripudiato l’antico costume paesano che
s’indossa di solito in quella cittadina, s’era vestita per la
prima volta alla francese in onore dei liberatori : portava
una veste bianca trasparente che le lasciava tutto il collo
libero, e una sciarpa rossa, oltre alle scarpe rosse che pa­
revano quasi sandali, assicurate da nastri rossi incrocian-
tisi sui piedi. La chioma era sciolta in riccioli crespi che
le scendevano sulla fronte e sulle spalle, e poiché aveva
un bel viso e in esso due occhi piuttosto espressivi, appa­
riva pressoché simile a una Musa. Certo non immaginava,
ferma così al sole sulla porta di casa, che dalla stradetta
sul retro un vecchio contadino la stava guardando per il
vestibolo scuro e, vedendone attraverso la veste in contro­
luce tutti i contorni del corpo, s’affrettò a uscire di città
scuotendo il capo scandalizzato per andare a narrare
nei villaggi, tra accuse e maledizioni, l’abominio pagano
che s’era riversato sul paese. Ma Babette teneva in mano
un antiquato canestrello ornato di fiocchi di nastro stinto
DUE DIVERSI CAMPIONI DELLA LIBERTÀ 12 21

risalente all’età pastorale, ed esso era pieno di biglietti


d’acquartieramento legati con nastri a tre colori in fasci­
coli, uno per compagnia. Così aveva escogitato con suo
padre : dopo aver tenuto a nome della città liberata il di­
scorso di benvenuto ai Francesi, egli avrebbe presentato
sua figlia, e lei avrebbe di propria mano distribuito ai
soldati, o almeno ai furieri, i foglietti dell’ospitalità.
Così il cittadino tenne il suo infiammato discorso in
piedi sull’orlo della fontana, spesso accennando a un
Winkelried1 marmoreo che di cima alla sua colonna guar­
dava sulla folla con gli occhi senza sguardo. Ma non se ne
capì nulla, perché i soldati ciarlavano e scherzavano senza
badarci. Solo il comandante stava a sentire con tranquilla
superbia come si esaltava il suo esercito vittorioso e a lui
umilmente si prometteva di voler ridiventare, grazie a così
buon esempio e così alto ammaestramento, valorosi e
amanti della libertà, tanto che i discendenti di Winkel­
ried e di Teli sarebbero forse in breve arrivati a superare
i loro gloriosi predecessori.
Così dicendo il cittadino Zulauf saltò giù dalla vasca,
e lo seguì con gran fracasso la lunga guaina d’ottone della
sciabola, mentre il ciuffo di piume tricolori gli tremava
sul maestoso cappello rotondo; egli infatti aveva indosso
un costume suppergiù da senatore, benché non sedesse
ancora in Consiglio. Tirandosi fin sul mento il cravattone
e continuando a tenere stretta al fianco la sciabola,
egli andò a prendere la sua figliola, le porse il braccio e
la condusse anzitutto davanti al comandante, mentre al
cenno del più vicino ufficiale il soldato Diimanet le si
accodava come compagnia d’onore. Quando con un altro
discorsino Babette fu presentata al sorridente comandante
come genio dell’ospitalità, tutta rossa d’entusiasmo essa
percorse al braccio di suo padre quelle file di uomini
abbronzati (fra cui si trovavano parecchi delinquenti ed
ex detenuti) che la guardavano sfacciatamente, e porse

I. Arnold Winkelried: eroe dell’indipendenza svizzera, morto nella


battaglia di Sempach (1386), con cui fu abbattuto il predominio
absburgico in Svizzera.
1222 DUE STORIE D’ALMANACCO

loro i graziosi fascetti del suo canestrello. Dietro le veniva


tranquillo Pietro Dümanet col fucile in braccio, e sul suo
dorso, poiché tirava un’arietta fresca, il monaco danzava
allegramente con la sua monaca, tanto che il battaglione
e la popolazione sbalordita scoppiarono insieme in un’al­
legra risata.
Ma Babette non s’accorse di niente; perché tutta la
sua attenzione si concentrava su un pensiero: quale
francese scegliere da prendersi in casa? In precedenza
aveva vagheggiato uno o due cavallereschi ufficiali, del
che però suo padre non volle nemmeno sentir parlare,
intendendo piuttosto assegnare tutti gli ufficiali, insieme a
un bel po’ di truppa, a certi aristocratici, e riservare per
sé un semplice soldato. Perciò lei teneva ben distinto e
nascosto in mano il biglietto di suo padre per porgerlo a
quel guerriero che le fosse piaciuto di più.
Appena aveva scorto lo strambo Pietro, l’aspetto demo­
niaco di lui aveva determinato la sua scelta, e, giunta
in fondo alla fila di soldati, là donde era partita, cercò
irresoluta con gli occhi il bel francese senza trovarlo.
Si volse di qua e di là, ed eccolo lì subito dietro a lei, con
lo sguardo fisso sulla sua bella figurina, e, un po’ per scher­
zo e un po’ per galanteria, le presentò l’arma allorché lei,
guardando timidamente a terra, gli offrì l’ospitale tal­
loncino. «C’«Z ça Dümanet! Vive la citoyenne!» esclamarono
i soldati frammezzo a nuove risate; e mentre l’intera
squadra si scioglieva lasciandosi condurre agli acquartie­
ramenti dai bambini e dai curiosi, Babette si avviò dan­
zando beata a casa sua al braccio del suo nuovo cavaliere,
seguita dal papà che si tergeva dalla fronte il sudore della
fatica e, tenendo il cappello in mano, spazzava intanto il
terreno col suo elvetico ciuffo di piume. Chiudeva il pic­
colo corteo il buon segretario dell’orfanotrofio, Beni Schä-
delein, il quale da cinque anni era fidanzato di Babette
senza che lei si fosse mai decisa a sposarlo o a lasciarlo li­
bero. Egli poteva ormai registrare il proprio stato di de­
relitto, strisciando furtivo lungo le pareti di quella stanza
a lui ben nota senza che alcuno si curasse di lui.
Ora infatti si doveva innanzitutto sfamare, dissetare,
DUE DIVERSI CAMPIONI DELLA LIBERTÀ 1223

custodire e curare l’uomo di Francia: tutto ciò che la voce


pubblica indicava come da lui preferito fu affannosa­
mente cercato e apprestato. Lo si fece, contenti di averlo
saputo in anticipo, con tanto maggior zelo e malizia, in
quanto non erano richiesti piatti costosi: una piccola
omelette saporita, un’insalatina, una chicchera di caffè,
un bicchierino di kirsch: roba facile da mettere insieme e
che figurava più del suo valore, se era presentata in vasel­
lame lindo. Nondimeno il soldato si unì premuroso e cor­
diale ai preparativi, chiedendo se non sarebbero venuti a
proposito anche un pezzetto di carne ben stufata e un bic-
chierotto di vino; e, quando vi fu aggiunto anche quello,
invitò gli ospiti a tavola da amico e li intrattenne magni­
ficamente sino a che fu l’ora di celebrare il ballo intorno
all’albero della libertà.
I clangori della musica, il rinnovato accorrere in strada
annunciavano la grande ora; sicché, quando Dümanet
s’affacciò alla finestra con la sua ospite, si vedevano già
una dozzina di soldati incamminarsi verso la piazza,
ciascuno con due ragazze a braccetto. Quelle signorine,
sorprese dall’abbigliamento di Babette, avevano cercato
in fretta e furia di imitarlo : una portava con l’antico co­
stume paesano un cappello francese, un’altra recava al
braccio un vecchio pompadour, una terza aveva sulle spal­
le una mantiglia sbiadita, tanto che pareva imminente
una sfilata carnevalesca. Alcuni altri soldati giungevano
per mano a cittadini entusiastici con un’espressione piena
di tedio: quella danza insulsa l’avevano già eseguita ab­
bastanza spesso per ordine dei superiori. Di ufficiali nem­
meno l’ombra, ché avevano cominciato già sui campi di
battaglia la danza per il bastone di maresciallo, e l’arida
pertica col cappello di latta, una volta innalzata a signi­
ficare la resa, la mandavano al diavolo.
Ma Pietro Dümanet, che arrivava giusto con Babette,
ci stava ancora con tutta l’anima, e si riteneva sul serio
un campione dell’unica e vera libertà dei popoli, perché il
sangue, che aveva contribuito a versare a Parigi nei gior­
ni di settembre, la notte disturbava la sua pace e gli
opprimeva la coscienza, costringendolo, se non voleva
1224 DUE STORIE D’ALMANACCO

aborrire se stesso (il che non era da lui), a rimaner fedele


al suo passato. Il ballo ebbe dunque inizio: tutti quanti
si presero per mano, formarono un cerchio intorno al­
l’albero e in quella guisa girarono in tondo un po’ in un
senso e un po’ nell’altro, donne, soldati, uomini e ragazzi,
ogni donna tra due Francesi; anche il segretario dell’or­
fanotrofio, che avrebbe voluto afferrare la mano di Ba­
bette, fu gentilmente respinto e infilato tra due bambini,
sopra i quali emergeva indispettito con la sua lunga figura
nella zimarra grigia. II cittadino Zulauf impennacchiato
ballava tra l’ambizioso e rivoluzionario diacono e la guar­
dia notturna.
Soltanto i Francesi sapevano fare qualche salto e qual­
che passo aggraziato; gli indigeni invece, uomini e donne,
si limitavano a gettare i piedi all’indietro come puledri
al pascolo, sì da mostrare tutta la suola delle scarpe, e
intanto ciondolavano le falde delle divise, le borsette, i co­
dini, e la guaina della sciabola che Zulauf non abbando­
nava un istante, come tanti matti, mentre si cantava
la Carmagnola e il Ça ira. Ma solo i soldati cantavano in
modo comprensibile, perché gli Svizzeri, sinché non co­
glievano una parola dai liberatori, vociavano in suoni
inarticolati. Alla fine tutti si abbracciarono a vicenda e si
scambiarono il bacio della fraternità; ma stranamente
i bravi borghesi non fecero che baciarsi tra loro, senza
riuscir mai a impadronirsi né di un francese né di una
concittadina. Schadelein,il derelitto segretario, baciò tutto
triste i suoi due ragazzini e s’appartò con loro per com­
prargli un dolcino, giacché erano poveri fanciulli di
strada.
Intanto che si solennizzava in tal modo la nuova li­
bertà, il comandante e alcuni ufficiali si erano introdotti
nel municipio e nell’antica torre del castello che sovra­
stava le case del mercato. Dopo che gli undici cannoni
della città furono sequestrati e pronti da portare via, i
suddetti signori si trasformarono, a onta della loro igno­
ranza, in abilissimi archeologi : fecero man bassa in quei
vecchi edifici di tutti gli oggetti in cui subodorarono un
qualche pregio o significato ragguardevole, e li imballa-
DUE DIVERSI CAMPIONI DELLA LIBERTÀ 1225

rono in robuste casse da spedire in fretta a Parigi. Pur


non sapendo leggere né il tedesco moderno né l’antico,
seppero subito trovare le pergamene che recavan scritti gli
antichi privilegi e gli ordinamenti della città, insieme a
vetusti documenti legali ; e così pure una grossa « Crona­
ca» plurisecolare e una cassa piena di titoli d’acquisto
e di donazione in latino, che per ogni evenienza fecero
partire col resto. Un modesto bastone tarlato venne im­
mantinente riconosciuto per una mazza da giudice, che
da otto secoli si conservava nella torre insieme alla sua
compagna, una spada comitale tedesca. Alcune dozzine
di antichi gladi da combattimento, di corazze e di ala­
barde furono dichiarate buona preda e sono ancor oggi
appese al Musée d'artillerie di Parigi; mentre invece è
dubbio dove siano finiti gli argentei boccali d’onore del­
la città, il cui pregevole lavoro artistico venne a colpo
d’occhio apprezzato da quegli indaffarati messeri.
Quando fu avvolto l’antico vessillo del Comune che
s’era visto sventolare in tutte le battaglie dei confederati,
all’ultimo portabandiera della città, ch’era presente,
vennero le lacrime agli occhi ; tuttavia egli si contenne
e non ne tradì il pregio con alcun movimento. A notte
fonda tornò furtivo alla cassa, col pericolo che la vicina
sentinella francese gli sparasse addosso, ne tirò fuori pian
piano lo stendardo, con fatica e circospezione, e lo strap­
pò via dall’asta, che poi rimise sotto le altre armi, le quali
per fortuna non furono più smosse. Così nel bel mezzo
della confusione e dello smarrimento quel logoro panno
animò dell’antico senso d’onore colui che per ultimo
l’aveva portato.
In fondo non era che anticaglia, quella che i Francesi
imballavano e spedivano via, e non tutto può durare in
eterno. Come uno a volte elimina per proprio comodo
una farragine di vecchie carte che gli dà fastidio, così non
è una gran disgrazia per una comunità se qua o là il fuo­
co distrugge un archivio polveroso : luce e spazio sono in
fondo essenziali per un sano movimento. C’è però diffe­
renza tra il liberarsi da sé di una barba troppo lunga
e il sentirsela strappare da un altro con perfida violenza.
1 226 DUE STORIE D’ALMANACCO

Poco tempo dopo il battaglione se ne ripartì, tranne la


compagnia a cui Pietro Diimanet apparteneva. Egli fami­
liarizzò con quella città, che aiutò a governare alla brava.
Poiché nel suo battaglione era un politico, un esperto agi­
tatore e un gran parlatore, dai commissari parigini veniva
spesso utilizzato come uomo di punta e attivista quando
gli asserviti compagni di libertà si facevano perplessi e
difficili a causa della miseria dilagante e del predominio
delle sciabole straniere; e tanto migliori servizi egli ren­
deva, in quanto credeva sinceramente alla missione della
Francia, e per la repubblica francese aveva impegnato
fin da principio la sua esistenza ed era pronto a impe­
gnarla ancora. Con lo stesso entusiasmo l’arrischiava per
le repubbliche che con la sua baionetta aveva contribuito
a trapiantare altrove sul modello romano-gallico. Per­
seguiva tutti i restii con impeto selvaggio. Non mirava
al grado e alla distinzione, voleva restare un semplice
soldato della repubblica; nel che certo non l’ostacolavano,
trovandolo anzi tanto più utile così. Esperto e versato
com’era nella storia della rivoluzione, almeno finché si
svolgeva nelle strade, egli era maestro e guida all’esor­
diente senatore Zulauf, che da scolaro attento e devoto si
esercitava a recitare tutta una serie di frasi e locuzioni
terribili, del cui suono si pavoneggiava, facendo tintin­
nare la sciabola.
In compenso il francese divenne allievo di Babette, che
gli dovette spiegare la fondazione della Lega svizzera e
la storia dei suoi eroi; infatti i nomi dell’antica Roma
ch’egli aveva udito alla Convenzione a Parigi (Bruto
maggiore e minore, i Gracchi, Regolo, Cincinnato e altri)
in Svizzera, per poter ammaestrare e aizzare gli uomini
del contado e della città, andavano sostituiti con la ter­
minologia libertaria locale. Babette gli narrò dunque
dei balivi tiranni, dei tre del Gnidi,1 di Teli, di Winkel-

I. Griitli (o Rütli) : località svizzera sul lago dei Quattro Canto­


ni, dove, secondo la tradizione, i rappresentanti di Niedwalden,
Schwyz e Uri strinsero la prima alleanza (1291), che viene con­
siderata l’atto costitutivo della Confederazione Svizzera.
DUE DIVERSI CAMPIONI DELLA LIBERTÀ 1227

ried e delle grandi battaglie per la libertà, così come si


riflettevano nella sua testolina. Quest’immagine riflessa
fu a sua volta emendata da varie obiezioni e ammaestra­
menti di Diimanet, sì che dal pastoral-romantico cervel­
lino di lei e dalla fantasia politica del francese nacque
una serie di bizzarri campioni, avvolti di sciarpe e di
piume, che avevano figure prestanti di pastori e vistose
teste di masnadieri. Quelle ore di lezione parvero all’en­
tusiasta borghesuccia il culmine della vita tanto arden­
temente desiderata, e la godette con la beata soddisfa­
zione di poter unire, come si conviene a donna libera, il
debole per l’avvenenza maschile all’amore di libertà e
alla «vena politica». Quando Diimanet sosteneva, con
gli occhi pieni di cupo ardore e la voce tremante d’in­
dignazione, che il germe del successivo asservimento de­
gli Svizzeri già aveva covato nel fatto eh’essi non ave­
vano ucciso i balivi espulsi con tutta la loro consorteria,
essa levava gli occhi con stupita ammirazione su quel
bello e interessante tipo di fanatico.
Ma la sua felicità non era senza moti di passioni al­
terne ; se infatti subito dopo il diabolico guerriero si faceva
dare una vecchia cortina da letto a scacchi rossi e, com’e­
ra consuetudine di quegli abili soldati, in un batter d’oc­
chio se ne tagliava e cuciva un paio di ampie brache per
l’uso quotidiano, lei ne provava come un’improvvisa
doccia fredda, credendo di scoprire in lui un volgare sarto,
un millantatore; tanto che ebbe appena il coraggio di
bandire per qualche giorno dalla sua presenza il segretario
Schädelein che aveva osato ridacchiare di nascosto. In­
fatti per cacciarlo definitivamente non aveva ancora tro­
vato il momento opportuno, tanto più che il francese lo
trattava sempre con amicizia e senza gelosia; e anche in
ciò Babette scopriva un segno di grandezza morale, og­
getto per lei d’intima riconoscenza. E appena Diimanet
si metteva a descrivere con veridicità inconfondibile per
esempio la presa della Bastiglia, cui a sedici anni aveva
preso parte, o quando le mostrava le tracce delle pallot­
tole sulle armi, sui vestiti o sulle braccia, ch’erano per di
più ricoperte di tatuaggi di pugnali, di berretti giacobini,
1228 DUE STORIE D’ALMANACCO

di cuori trafitti e simili simboli... allora, mentre posava


il dito tremante sulle cicatrici o su quegli strani segni, per
Babette le nebbie del dubbio si dissolvevano e il sole tor­
nava a brillare in tutto il suo splendore. Quando infine
Dümanet si fece da lei punteggiare sul braccio anche una
mela trapassata dalla freccia, e le graffiò in cambio sul
suo, bianco e grazioso, un berretto frigio, spalmando
poi ambedue i capolavori di polvere di cartuccia, allora
nessuna usanza inconsueta ebbe più alcun potere di
scuotere quel vincolo politico, e l’onesto Schädelein venne
esortato a far tesoro di tutte quelle lezioni per poter an­
che lui imparare qualcosa e formarsi il carattere.
Avvicinandosi l’autunno, il romanzetto politico in casa
Zulauf ebbe momentanea fine perché la compagnia, e
con lei Pietro Dümanet, dovette ritornare in campo:
gli ultimi resti dei montanari che non volevano abban­
donare l’antica libertà e i tradizionali diritti svizzeri, anda­
vano soggiogati e costretti a giurare fedeltà alla costi­
tuzione unitaria romano-gallica, fatta a Parigi da stran­
golatori politicanti e imposta con la forza agli Elvetici.
Là dove delle comunità democratiche erano vissute feli­
cemente secondo l’antichissima legge da loro stesse fog­
giata, la popolazione, aborrendo dal dominio di scribac­
chini stranieri e despoti repubblicani di nuovo conio,
sbarrava loro la strada come a un contagio nauseante.
Come in un sogno disperato prodotto da un incubo, di
contrada in contrada cercavano di accorrere l’uno in aiu­
to dell’altro; ma, una valle dopo l’altra, vennero irretiti
con l’astuzia, con la persuasione, con la minaccia di ca­
stighi e di miseria, sinché non fu prestato l’odioso giura­
mento, qui con triste rassegnazione e faticosamente pon­
derata acquiescenza, là con risa disperate, tra ironiche
beffe e storture, al che diede occasione soprattutto il fatto
che il nome di Dio era escluso dalla formula del giura­
mento; giacché i despoti, mentre adattavano alle nuove
circostanze l’antica formula, con vile pseudofilosofia ne
avevano cancellato il richiamo che ne costituiva la parte
essenziale, cioè l’appello a una onnisciente Provvidenza,
cosicché il popolo doveva solo gridare: «Noi lo giu-
DUE DIVERSI CAMPIONI DELIA LIBERTÀ 1 22g

riamo !», senza aggiungere: «In fe’ di Dio!». Ma il po­


polo, meglio conoscendo e sentendo forma e contenuto
di quella venerabile disposizione, si senti mortificato e
offeso da quella stupida via di mezzo. Per niente o solo
in parte convinto, esso, per allontanare il fuoco dalle sue
case, cedette al consiglio e alle insistenze dei più pratici
notabili, e alla forza delle armi straniere.
Solo la verde e ombrosa Nidwalden sul profondo lago
dei Quattro Cantoni tenne duro sino alla fine, da sola,
abbandonata anche dalla gemella Obwalden. Quella
piccola comunità di neppur diecimila anime non potè né
volle credere di dover abbandonare la propria indipen­
denza, vecchia di mezzo millennio, senza un estremo in­
condizionato sacrificio, e cadere in mano altrui senza esser
stata prima gettata a terra nel senso letterale della parola.
Disdegnando ogni cautela, ogni motivo ragionevole per la
materiale sopravvivenza, si pose sul terreno originario
della pura e grande passione, non per un’idea passeggera,
bensì per l’eredità dei padri, per l’umana dignità del
singolo, da uomo a uomo. Tre motivi soprattutto ven­
gono accampati da quanti condannano quella sollevazio­
ne di duemila uomini atti alle armi contro non solo il resto
della Svizzera, ma anche la «grande nazione» che aveva
appena sconfìtto l’Europa : primo, la speranza nell’aiuto
austriaco; secondo, l’influsso dei preti e il loro fanatismo
religioso ; terzo, la totale assenza di prospettive della som­
mossa. Ma per quanto riguarda il primo punto, condan­
nabile non è colui che vuole tirarsi in casa il secondo stra­
niero, bensì colui che vi ha chiamato il primo. Riguardo
al secondo motivo, i Francesi promotori della nuova co­
stituzione avevano davvero chiuso le chiese e cacciato i
preti, motivo sufficiente, a voler essere imparziali, per
temere qualcosa di simile in avvenire. Quel piccolo po­
polo nella sua disperata decisione univa tutto, l’esistenza
spirituale e la terrena, ambedue per esso questione d’ono­
re. Il più bell’esempio di quel sentimento sono le fanciulle
di Nidwalden, che scelsero le armi e la morte per salvare
tutt’insieme : religione, patria, libertà e onore verginale.
Di fronte a tale intima risolutezza non contano i pochi
1230 DUE STORIE D’ALMANACCO

parroci fanatici, né il solito modo di esprimersi dei cat­


tolici ; l’alto clero tentava piuttosto di metter pace, e i pre­
ti, che erano di origine popolana, col dissolversi dell’or-
dinamento statale, sostituivano la classe dirigente. Quan­
to infine all’assenza di prospettive, ciò che contraddistin­
gue la passione più alta, e ne è un diritto, è proprio che si
combatta per essa come si farebbe per la più sicura delle
garanzie. Gli abitanti di Nidwalden con la loro impresa
salvarono il puro fuoco di Vesta, conservandolo a migliore
fortuna per tutti gli Svizzeri.
Quando Pietro Dümanet indossò l’equipaggiamento da
campo e imbracciò il fucile per marciare contro quel po­
polo che assolutamente non voleva saperne di accettare
la felicità ch’egli aveva portato, non parlava in modo
tenero di quella gente, di cui in casa del cittadino Zulauf
non aveva certo udito nulla di buono. Ma lo confortava
la coscienza di recare ancora una volta, a rischio della
propria pace e della propria vita, la libertà e il diritto fin
nelle più remote valli e nei più angusti recessi dell’età
gotica. Si ripropose di trattare quei poveri illusi in modo
sostenuto e severo ma anche umano e persuasivo. Se però
avesse fatto ritorno da quell’ultima battaglia, avrebbe
considerato assolto il suo dovere di cittadino del mondo
in quanto combattente ; ormai provava nostalgia di pace
e di attività borghese, tanto che, nelle sue parole d’addio,
lasciò trasparire il desiderio di stabilirsi, fondandovi una
nuova patria (giacché a Parigi non aveva più nessuno
che gli fosse caro), in quella patriottica cittadina della
repubblica elvetica affiliata. In realtà sua madre era
caduta al Campo di Marte davanti ai cannoni della Guar­
dia Nazionale, e suo padre, un fanatico copriletti, sullo
scalone delle «Tuileries», sotto il fuoco del plotone di
Svizzeri che le presidiavano. Dacché si trovava in Sviz­
zera, un tratto di magnanimità conciliante lo faceva di
tali circostanze parlare poco e senza desiderio di ven­
detta ; ma esse, unite al ricordo delle proprie folli imprese
sanguinarie, gli rendevano davvero ripugnante il ritorno a
Parigi. Doveva essersi già accordato con Babette per un
legame durevole, perché questa si fece rossa come un po-
DUE DIVERSI CAMPIONI DELLA LIBERTÀ 1 23 1

inodoro all’allusione di lui, e subì in silenzio affettuoso il


bacio della fraternità repubblicana ch’egli diede a lei co­
me a suo padre; versò anzi calde lagrime quand’egli,
infine, al suono del tamburo partì, senza mulino a vento
sullo zaino, giacché pareva diventato un po’ più serio.
Tuttavia essa si contenne, e propose al segretario di con­
durla per un pezzo di strada a fianco dei soldati; era la
prima volta che Beni Schädelein tornava a impadronirsi
del braccio della sua fidanzata, ragion per cui felice e con­
tento marciò per un bel tratto con Babette a suon di
tamburo.
In aperta campagna Dümanet uscì dalla fila per affian­
carsi ancora una volta agli amici. Ma quando domandò
al segretario se non avesse voglia di marciare anche lui
contro quelli di Nidwalden e combattere per la libertà,
Schädelein replicò con grande ardire che, dovendo bat­
tersi, si sarebbe battuto piuttosto contro i Francesi; e,
dopo questo fiero discorso, fece, sempre a passo di marcia,
un’improvvisa voltata insieme alla sua bella, e, fattosi
per una volta coraggioso, la tenne ben stretta per co­
stringerla a marciare con lui. Il soldato lo fissò con di­
sprezzo, poi tornò in fila, animato di curiosità per ciò che
lo aspettava sulla montagna che vedeva emergere davanti
a sé, argentea e scintillante, da un’azzurra foschia.
Era giunto sulla riva del lago dei Quattro Cantoni.
Dalla sua superficie sorgevano nel profumato splendore
d’autunno i monti di Unterwalden, silenti come un gior­
no di festa, eppur pieni allora di ribellione e di preparativi
per l’ultima lotta. Due o tre volte soltanto il vento portò
un suono in un crescendo sinistro : era il Landhelmi, l’antico
corno di guerra di quelli di Nidwalden che chiamava a
raccolta l’antica vigoria e il senso d’onore patrio, e che
stava salutando un piccolo reparto di uomini di Schwyz
giunti a marce forzate da Brunnen.
Come quel paesino di poche migliaia di anime, sessan­
tanni prima della scoperta napoleonica del plebiscito
circa la forma di governo, diviso e abbandonato dal resto
del mondo e dalla sua patria più grande, abbia combat­
tuto la sua battaglia per l’autodeterminazione ; come,
1232 DUE STORIE D’ALMANACCO

contro i sedicimila Francesi del generale Schauenburg,


abbia appostato i suoi duemila combattenti in gruppi
commoventemente piccoli intorno alle sue fortificazioni
che piede nemico non aveva mai calpestato ; con quanta
parsimonia, ben conoscendo la propria povertà come la
propria ricchezza, abbia distribuito i suoi uomini, ripar­
tizione che seppe mantenere anche in una serie di eroici
combattimenti isolati ; come infine le sue belle donne ab­
biano sofferto in piena coscienza la loro parte di lotta e di
dolori: tutto questo ce lo racconta la storia.
Qui si vuol solo seguire il destino che, in quella batta­
glia a senso doppio per la libertà, aspettava il libertario
Diimanet sui pendìi rocciosi del monte Bürgen che in­
nalza per primo i suoi boschi dal lago profondo.
Alta sul Bürgen c’era una casetta di legno rossastro,
priva di ornamenti, ma di graziose, anzi nobili propor­
zioni sul suo zoccolo bianco al par della neve, coi vetri
lucidi delle finestrelle tonde che guardavano quieti e ri­
denti giù nella valle. Vi risiedeva allora, da soli tre giorni,
Aloisi Allweger con sua moglie, la bella Klara, sposata
nell’affanno della sommossa dopo ben nove anni di amore
e di attesa, per quanto lui ne avesse appena ventisette e
lei ventiquattro.
Nove anni prima, in giorni d’autunno come quelli, a
una festa alpigiana l’ardito giovanotto aveva recitato la
parte del cosiddetto «uomo selvatico», facendo salti,
tutto avvolto in ramoscelli d’abete, con una donna sel­
vatica al par di lui, e con lei dialogando in antichi versetti
in rima, occasionalmente arricchiti d’improvvisazioni, nei
quali si rinfacciavano a vicenda i vizi e le debolezze d’am­
bo i sessi. Ora, sia che l’antagonista, la donna selvatica,
o meglio il compagno che la rappresentava, fosse di tem­
peramento più calmo, sia che non avesse abbastanza vo­
glia di avvilire il proprio sesso, fatto sta che nella grosso­
lana contesa ebbe piena vittoria l’uomo selvatico, il quale,
con sommo diletto dei robusti alpigiani che stavano pia­
cevolmente a sentire, fumando, sotto l’insegna del loro
san Wendelin, diffamò le donne orribilmente; brutalità
stranamente in contrasto col suo volto ingenuo e coi chiari
DUE DIVERSI CAMPIONI DELLA LIBERTÀ 1 233

occhi celesti che trasparivano piuttosto infantili di sotto


la frasca di abete.
Tratto dagli applausi degli uomini a un’imprevista bal­
danza, anziché attenersi alla sua donna selvatica, egli
finì col volgersi a quelle circostanti, e nella sua inesperien­
za le gratificò d’ogni sorta di altre scherzose accuse,
finché all’improvviso venne a trovarsi davanti a una fan­
ciulla di quindici anni, che scuoteva con gesto minaccioso
l’acconciatura intrecciata di nastri bianchi e rossi e tra­
fitta da un ricco spillone d’argento. Lì c’era infatti, adi­
rata e stupefatta di tanta ingiustizia, la giovane Klara
von Bürgen, che involontariamente alzava la mano a ripa­
ro dal giovane malfattore, e insieme lo fissava con i gran­
di occhi umidi e spalancati, tanto che l’uomo selvatico,
subito dimenticando il suo ruolo, guardò la ragazza pieno
di timore e di mansuetudine, mogio mogio, senza saper
più a che santo votarsi. Cercò di perdersi in mezzo agli
spettatori, ma, respinto da ogni parte fra grandi risate,
dovette tenersi in mezzo al cerchio, inseguito dalla mali­
ziosa donna selvatica che, alfine rianimata, quanto più
egli perdeva la testa tanto più duramente gliela lavava.
Al colmo della confusione, egli non poteva fare a meno
di cercare di tanto in tanto con gli occhi la ragazzetta, e
la bella seguitava a sua volta a guardarlo, sempre adirata,
ma con una profonda soddisfazione, che infine parve
mutarsi in una specie di pietà, quando con un mezzo
sorriso si volse e se ne andò.
Dopo d’allora Aloisi Allweger seppe evidentemente
rintracciare l’indignata fanciulla e presentarlesi meglio,
perché cominciò da quel giorno un’attesa fedele di nove
anni, durante i quali Klara, che era un’orfana affidata
alla protezione di un vecchio montanaro suo cugino, ben­
ché ambita da molti, visse in fiduciosa attesa nel suo po-
deretto sul Bürgen, mentre Aloisi, che, non essendo nativo
del posto, era considerato, secondo la severa legge di
quelli di Nidwalden, rigidamente conservatori, solo un re­
sidente e un povero diavolo, tentava di guadagnarsi un
piccolo possedimento lavorando indefesso sui monti in
mezzo a mille pericoli.
1234 DUE STORIE D’ALMANACCO

Proprio nei giorni in cui avevano inizio i fatti narrati


Klara divenne maggiorenne, e il gruzzoletto del suo inna­
morato bastò per metter su modestamente famiglia. Men­
tre echeggiavano le campane a stormo, essi vennero uniti
in matrimonio da un prete in armi, in mezzo al fragore
dei tamburi e dei corni; gli invitati portavano schiop­
pi e fucili, ma non spararono un colpo, volendo rispar­
miare la polvere per l’imminente battaglia. Il corteo,
composto di soli uomini, giunto davanti alla casa di Kla­
ra, ormai residenza di Allweger, s’affrettò a ridiscendere il
monte ; anche lo sposo entrò in casa sua come il soldato
che non sa se potrà trascorrere un’altra notte nello stesso
rifugio. I colpi di giubilo sparati in onore della coppia
furono le granate e le palle ardenti che i Francesi co­
minciavano a lanciare come per prova d’oltre il lago e che
venivano a morire ai piedi delle rocce.
Finalmente sorse il 9 settembre, il giorno della fine.
Era domenica. Klara destò il suo uomo ancora sonnec-
chiante e, poiché egli voleva correre a valle in abito da
lavoro, gli disse invece di ornarsi a festa per il viaggio
che forse sarebbe stato l’ultimo. Gli legò lei le giarrettiere
ricamate a vivi colori intorno alle lunghe calze bianche
che ricoprivano gli esigui calzoni giungenti appena ai
fianchi snelli, gli annodò sul petto il fazzoletto scarlatto e
gli recò una bianchissima camicia da pastore, l’indumento
preferito di quella gente, che lo porta persino in chiesa, e
che lei, la figlia dei monti, gli aveva confezionato a fatica
ma con cura e garbo. Gli pettinò la lunga chioma che gli
scendeva liscia sulla nuca, e davanti, sulla fronte, dov’era
tagliata corta e di sbieco, gliela corresse, fra allegri scherzi,
con le forbici, allungandosi tutta, benché non fosse di sta­
tura piccola, per arrivare all’altezza del compagno che a
nessun costo voleva piegarsi. Poi indossò anche lei l’abito
migliore e mise tutti i suoi gioielli paesani, per vivere e
per patire quel giorno decisivo vestita a festa. Come pe­
culio per il viaggio gli contò inoltre, sollecita, le lucenti
pallottole appena fuse e gli riempì il corno di polvere.
Avanzarono così davanti alla loro capanna, belli co­
me la natura circostante, in cui proprio allora nel crepu-
DUE DIVERSI CAMPIONI DELLA LIBERTÀ 1235

scolo mattutino il Rigi e il Pilatus riverberavano il primo


oro. Andarono per mano sinché lo permisero il tempo e la
strada, sereni come tutti quelli che incontravano e che
facevano la stessa via, perché il dado era tratto e in tutto
il territorio le campane chiamavano al combattimento.
Ma quando tuonarono i primi colpi di cannone, vicini,
sopra al lago, lontani, di là dal monte, si separarono in
fretta. Aloisi s’awiò spedito giù per il ripido pendio verso
Kehrsiten, dove gli era assegnato un posto sulla riva del
lago. Klara restò a mangiarselo con gli occhi, sinché
non vide scomparire sotto di sé tra le cime degli alberi le
piume e i nastri ondeggianti del suo cappello di paglia;
poi tese l’orecchio al tumulto che si levava dal basso e
tornò a precipizio in casa, piangendo forte, per fare la
guardia al focolare. Che il nemico potesse raggiungere le
alture allora non si pensava.
Scendendo a valle Aloisi si fece serio, e a tratti sospi­
rava; ecco che dopo tanti secoli l’occhio del nemico pe­
netrava infine nel nido di quella gente che tanti uomini
aveva inviato su lontani campi di battaglia, là dove essi
nulla avevano daffare; ecco che la tirannide mascherata
da libertà bussava con mano di ferro alla porta di roccia
di quel popolo di pastori, che si era a sua volta conquistato
dei sudditi e aveva loro imposto a «libera maggioranza»
dei podestà che vendevano la giustizia per denaro.
È vero che Aloisi scendeva in campo innocente: né
aveva militato in guerre straniere, né dato mai nell’as­
semblea il suo voto a un governatore ingiusto; neppure
era un grande politico, che in quel momento si sareb­
be dato a pensieri oziosi; era piuttosto un sentimento
generale di umana colpevolezza a sorprendere in quel
giorno fatale chiunque si trovasse a tu per tu con se stesso,
e il più innocente e coscienzioso forse più degli altri. I
colpevoli impenitenti di quegli antichi peccati nazionali
se ne sentivano meno di tutti responsabili davanti al tribu­
nale delle nazioni, e narcotizzavano come sempre la loro
coscienza coi soliti miti. Dicevano per esempio che la Re­
gina del Cielo fosse passata in una stella sopra Unter­
walden, fortificandola contro ogni sopraffazione nemica.
1236 DUE STORIE D’ALMANACCO

Su tutti i campi di battaglia, in Svizzera, in Italia e


altrove, dove gli abitanti di Nidwalden avevano mandato
per secoli i loro guerrieri, fino a quel momento essi non
avevano ancor perso mille uomini, e quasi tutti i caduti
erano stati noti a uno a uno e registrati negli annali del
Comune. Quel mattino ne persero il numero maggiore,
e si compì il migliaio; ma i Francesi caduti furono due­
mila, più della totalità dei combattenti di Unterwalden.
Verso mezzogiorno la battaglia era finita. I montanari
si aprivano il varco a forza, e i Francesi, furibondi per
quella resistenza, cominciarono come al solito ad assassi­
nare donne, vecchi, malati e bambini, riempiendo quella
verde terra ombrosa di cenere e di macerie, visibili ancora
dopo sei anni.
La trincea di Kehrsiten, dove Aloisi, solo con pochi al­
tri, si difendeva virilmente, fu attaccata infine dal lago
e dalla terra. I difensori si ritirarono passo passo sul Bür­
gen, colpendo con le loro pallottole i Francesi che monta­
vano all’assalto o facendo rotolar loro addosso grosse ra­
dici e frammenti di roccia. Allweger rimase tra gli ultimi
ad azzuffarsi ora con l’uno ora con l’altro dei nemici, poi
fu respinto nei boschi lì a fianco, separato dai suoi. Anche
da altre parti c’erano dei Francesi che salivano il monte
cacciando avanti a sé donne e bambini, sinché non incap­
pavano in avversari isolati, i cui colpi mortali tornavano
a raddoppiare la loro furia. Aloisi aveva esaurito le pal­
lottole e fracassato lo schioppo, di cui in mano non aveva
più che la canna, mentre sanguinava da parecchie ferite.
Sprofondò stremato in un cespuglio, ma subito si risollevò
sentendo l’aria piena di invocazioni di aiuto e cercò la
via per raggiungere la sua donna e la sua casa, e morirle
vicino o insieme. Presto riconobbe il sentiero che ve lo
doveva condurre, e lungo quello avanzò barcollando e
appoggiandosi alla canna dello schioppo.
Ed ecco arrivare di corsa a un crocicchio un francese,
solo, il quale altri non era che il nostro Pietro Dümanet,
quasi ebbro, e acconciato più bizzarramente che mai.
Era arrivato in quella terra pieno di buone intenzioni,
disposto a guidarne coi dovuti modi i caparbi e ignoranti
DUE DIVERSI CAMPIONI DELLA LIBERTÀ 1 2ß7

abitatori verso la libertà. Ma ben presto, quando si vide


respinto con migliaia di compagni da pochi uomini e solo
a prezzo di gravi perdite potè avanzare di nuovo, quando
dovettero in sei o sette cedere dinanzi a uno solo, quando
vide tutte in fila sulle loro falci insanguinate le venti fan­
ciulle di Winkelried, morte, gli diede di volta il cervello :
cominciò a correre in preda allo smarrimento per monti
e per valli, fino a perdersi e a finire sul monte Bürgen.
Aveva il copricapo guarnito dagli spilloni d’argento rapiti
alle chiome delle donne di Nidwalden, lo zaino ornato di
trecce recise, con i loro nastri rossi o bianchi, e intorno al
collo una quantità di collane d’argento a sbalzo.
Con un salto si precipitò sul barcollante Aloisi, gli
puntò la baionetta sul cuore e lo dichiarò suo prigioniero,
ordinandogli d’indicargli la via per salire il monte. Gli
diede anche da portare un sacchetto alquanto greve,
che aveva appeso all’elsa della sciabola. Aloisi obbedì
pazientemente e, quando il francese gli ebbe preso e
gettato via la canna dello schioppo, procedette innanzi a
lui; capiva infatti che sarebbe stato il modo migliore per
raggiungere la propria casa contemporaneamente al ne­
mico. Fece perciò ogni sforzo per stargli davanti, mentre
Dümanet di tempo in tempo lo pungolava col calcio. In
una gola che si apriva in mezzo a magnifici faggi s’imbatte­
rono in un francese morto. Con una bestemmia Dümanet
spinse la sua guida oltre il cadavere, quando, non lontano
di lì, attraverso il verde dei faggi che gli ultimi raggi del
sole indoravano, videro brillare qualcosa di purpureo.
Adagiata sul verde velluto del musco che ricopriva tutto
il sentiero, nella luce del sole al tramonto giaceva, col
volto sbiancato, la moglie di Allweger. La gonna rossa,
le calze rosse ne disegnavano la figura snella; il corpetto
dal ricco ricamo a fiori di seta era lacero e trapunto di
colpi di baionetta come un giardinetto di rose che è stato
bene arato. Ma su di esso pendevano ancora le collane
e i fermagli fitti di pietre azzurre e rosse, la chioma era
ancor bene intrecciata e come appena stretta nel nodo, e
la trapassava ancora lo spillone, nei cui grani di vetro
parimenti si rifletteva il sole al tramonto ; segno che non
1238 DUE STORIE D’ALMANACCO

era stata depredata, e che s’era probabilmente difesa con­


tro parecchi, tra cui il morto rinvenuto poco prima.
Aloisi riconobbe sua moglie nel momento stesso in cui la
vide giacere al limite del bosco, a picco sul lago che balu­
ginava laggiù, in faccia alle silenziose montagne. Egli
tremò fin nel midollo, però, senza dar segno d’aver visto
la salma, volle procedere barcollando. Ma il francese
gridò: «Alt!». Aveva scoperto un genere di trofeo che
non possedeva ancora : le scarpe domenicali di Klara, che,
piuttosto fini nel resto, eran fornite, secondo l’uso di al­
lora, di alti tacchi di ferro, i cosiddetti tötzeli. Le tolse su­
bito alla morta e le diede in fretta da tenere al povero
Aloisi per prenderle anche il resto dei vezzi.
Ma appena Aloisi Allweger ebbe in mano le care scarpe
lo inondò un ultimo resto di forza. D’un tratto prese il
francese per il colletto e lo percosse sul capo con le scarpe
dal tacco di ferro, con tanto vigore da farlo crollare di
colpo, poi lo spinse immediatamente oltre il dirupo, di
modo che quello, e insieme a lui tutte le sue cianfrusaglie,
cadde come dall’alto di una torre nel lago profondo, do­
ve affondò senza un suono. Subito dopo Aloisi cadde sve­
nuto sul corpo della moglie ; fu ritrovato il giorno successi­
vo, e creduto morto, quando con l’arrivo di Schauenburg
tornò a regnare un po’ d’umanità. Tuttavia egli scampò,
e dopo molteplici vicende visse ancora lunghi anni triste
e chiuso in sé.
Quando, qualche tempo dopo questi avvenimenti, bat­
telli ornati a festa portarono da Lucerna i consiglieri elve­
tici insieme ai consigliatori francesi, loro padroni, a fe­
steggiare sul vecchio Rütli il giorno della libertà, in uno
di essi sedeva anche Babette Zulauf (il cui padre intanto
era divenuto senatore) a fianco del segretario Schädelein
col quale si era nuovamente legata, dacché Pietro Düma-
net non aveva più fatto ritorno. Era splendidamente ac­
conciata, e, commossa dalla bellezza della natura e dalla
magnificenza della festa, strinse la mano al compagno
proprio nel punto in cui dormiva sul fondo Pietro, mentre
un sottocommissario francese le appuntava sorridendo un
mazzolino di rododendri sul petto.
IL GIORNO DELLE ELEZIONI
UNA STORIA CONFEDERALE

Una bella prima domenica di maggio l’ottantenne giu­


dice conciliatore Berghansli sedeva, lungo e svelto com’era
ancora, a tavolino in una stanza tranquilla e studiava
una carta. Aveva già fatto un bel po’ di strada sui suoi
alti prati alpini, teneva perciò in mano un pezzo di pane
e ci beveva su un bicchiere del suo buon vino, ch’era po­
sato e fresco come lui. Si era mantenuto così snello e vi­
vace perché non gli accadeva certo, come agli odierni
speculatori e crapuloni,-'di non trovar mai vino abba­
stanza dolce e fervido, né piacere troppo costoso, né
giorno sufficientemente movimentato.
Ciò che il vecchio Berghansli leggeva era il proclama
con cui il governo scongiurava gli elettori indifferenti af­
finché, usufruendo del diritto civile, assolvessero il loro
dovere di cittadini e partecipassero alle nuove elezioni,
da cui doveva uscire un’altra volta un Gran Consiglio
ed essere nominato un governo nuovo; e ciò al pomeriggio
di quella stessa domenica. Egli leggeva sempre tutte quel­
le notifiche da capo a fondo, attentissimo e critico:
dov’erano troppo sentimentali, pompose o affettate, stor­
ceva la bocca; ma se eran troppo asciutte, troppo uffi­
ciose, rigide e scipite, ugualmente se ne inquietava, e
arguiva che non c’era da stupirsi se dalla vita pubblica
sparivano ogni calore e ogni luce. In breve, era diffi­
cile da contentare.
Perché quelle cose Berghansli le sentiva con tanta so­
lennità come se vi parlasse la coscienza stessa del paese,
e perciò non gli pareva indifferente quale linguaggio essa
tenesse. Quel giorno tuttavia non sembrava malcon­
tento; e quando arrivarono entrando per la finestra tre
artigianelli pellegrini, cioè una farfalla bianca nuova
nuova, un vago fiore di melo e una foglia rinsecchita del­
l’anno scorso, e si posarono tutti e tre sul proclama, egli
ne fu quasi commosso. Quei messaggeri di vita e di morte
gli ricordarono l’eterno mutare e passare delle cose ter­
1240 DUE STORIE D’ALMANACCO

rene. Provò meraviglia al pensiero che, in tutto quel


trasmutarsi, la repubblica emanante il proclama sussi­
stesse già da tanto tempo, quasi cinquecent’anni, con i
suoi duecento consiglieri; e considerando che anche quei
cinquecent’anni, dovessero pure raddoppiarsi, non erano
che un attimo in confronto all’eternità, si propose di an­
dare anche quel giorno, forse per l’ultima volta, alle urne,
contribuendo per quanto stava in lui a far fruttare il sud­
detto attimo e compiendo comunque il suo dovere.
Il vecchio Berghansli aveva in casa tre nipoti, nati da
un suo figlio defunto, bei ragazzi vigorosi che accudivano
con diligenza al suo abbastanza grande podere, ed erano
inoltre sempre pronti a ogni sorta di imprese utili e inu­
tili; solo che non si lasciavano mai condurre alle riunioni
comunali e distrettuali e trovavano sempre altro da fare
quando ce n’era in aria qualcuna. Ma quel giorno il ve­
gliardo voleva, prima di morire, prenderli per il colletto
e condurveli a forza. Come un vecchio falco aguzzò
quindi gli occhi fuori dalla finestra sui suoi terreni e giù
nella valle per scoprirvi i ragazzi, quand’essi entrarono
nella stanza alle sue spalle ed esclamarono:
— Nonno ! Andiamo via tutti, e a mezzogiorno non
veniamo a pranzo!
— Ah, sì? — disse il vecchio — Tanto zelo per andare
a votare? Mi vorrete pur prendere insieme, e partendo
alle dodici arriveremo ancora in tempo!
Ma alla parola votare scossero tutti e tre il capo, come
tre asini cui si offra una salsiccia arrosto quando pre­
ferirebbero mangiare del fieno.
— A Thorlikon si gioca ai birilli una pecora, — disse
Heiri, il più vecchio — e io ho promesso d’esserci; c’è
una gara importante tra quelli di Thorlikon e quelli di
Narrlikon.1
— Io voglio andare alla fiera di Bublikon e dare un’oc-
chiatina a una ragazza di cui mi hanno parlato. È con-
I. «Thor» e «Narr» significano pressappoco «matto» e «pazzo»;
donde l’effetto comico dell’accostamento, impossibile a rendere
in italiano. Lo stesso dicasi per Bublikon, da «Bube», bamboccio,
ragazzo.
IL GIORNO DELLE ELEZIONI 1 2., I

venuto, no, che debbo sposarmi — disse Jakobli, il se­


condo.
— E io — aggiunse Peterli, il più giovane — voglio
un po’ vedere se trovo l’oste del Cervo a Bücheliberg per
comprare la sua carabina. Se ne starà pure a casa, oggi
che ci sono le elezioni.
— Bene, bene ! — disse il vecchio — Vedo che avete
tutti da fare, come la sposa il mattino delle nozze ! Ma
sentitemi ancora un momento, prima di andarvene per i
fatti vostri.
Così dicendo, andò a prendere dall’armadietto a muro,
in cui conservava le sue carte, un fascetto di stampe in­
giallite, legato in croce con una vecchia cordicella bianca
e azzurra e pieno di orecchie e di spiegazzature. Erano
tutte le costituzioni cui il vecchio aveva giurato obbe­
dienza dal 1798 in poi, in un certo senso le edizioni
originali, così com’eran state successivamente distribuite,
fresche fresche, al popolo. Mentre le scomponeva, gli
sembrarono come tante foglie secche dell’albero della
vita, ed egli ricordò quasi con un sospiro la sua lontana
giovinezza tempestosa, il popolo straniero che aveva visto
sulla sua terra, le aberrazioni in preda a cui erano caduti
i suoi stessi connazionali; ma anche i giorni lieti della
pacificazione pur sempre seguita agli eccessi, e la nuova
vita succeduta pur sempre alla morte.
— Guardate, — disse, mettendo da parte la costitu­
zione della Repubblica Elvetica — quest’è la prima co­
stituzione cui ho giurato obbedienza; ma è a Parigi che
l’hanno fatta e non ci ha portato fortuna. Quelli che l’han­
no imbastita non sapevano che cosa fossero gli Svizzeri;
e se l’avessero indovinato, noi non saremmo più stati
Svizzeri. Ma andiamo avanti. Ce n’è anche oggi abba­
stanza, di gente che porta sempre un rododendro in bocca
e non ha mai capito che cosa siano veramente il diritto sviz­
zero e la libertà svizzera. Credono che, quando non abbia­
no sopra di sé un re, per gli Svizzeri tutto sia a posto, men­
tre questo non è che il lato più grossolano della faccenda.
Ecco quella del 1802, il cosiddetto atto di media­
zione. Era già un’opera migliore, la più ragguardevole
1242 DUE STORIE D’AI.MANACCO

che abbiamo avuto sino all’epoca più recente. L’ha fatta


e ce l’ha data il Bonaparte; perciò è stato sempre fonte di
amarezza per un antico popolo libero e guerriero il fatto
che un imperatore e un militare straniero abbia dovuto
dargli la legge eh’esso da sé non sapeva più esprimere.
Ecco quella del 1814, ed ecco la costituzione con­
federale del 1815; è roba di signori, e precisamente di
piccoli signori, che fan sempre più fatica dei grossi a
vedere oltre la punta del loro naso. Segue quella dell’an­
no 1831, quella che propriamente cercavo. È la prima che
sia pianta del nostro ceppo, e per questo ha resistito per
ormai quasi trent’anni. Ma non crediate che sia, o sia
stata, un’opera arditissima e perfetta, perché ha avuto
invece un inizio assai modesto. Guardate quello che ho
cancellato con la matita: qui la città di Zurigo aveva
ancora il diritto di inserire settantun membri nel Gran
Consiglio senz’altro fondamento che quello della sua an­
tica signoria. Dopo aver mantenuto per sette anni quella
modesta forma d’indipendenza, nel 1837 abbiamo final­
mente osato uscir del tutto dal nostro guscio ed estendere
il diritto di voto a tutte le persone oneste. Ma che suc­
cede ora? A votare va un cittadino su dieci, come se tutti
gli altri fossero dei falliti o dei pregiudicati, e così quest’u­
no su dieci fa la legge per tutti; e ciò significa assogget­
tarsi volontariamente a una tirannide. Con tutto ciò
voi, quando ne avete in corpo un bicchiere, continuate
sempre a cantare, con la voce in falsetto oggi di moda, le
più belle canzoni sulla libertà ! Non avete mai osservato
come nell’uomo indifferente, il quale di null’altro al
mondo si cura che di ciò che riguarda la sua pancia,
quella mancanza di interesse conduca sempre al disprezzo
di sé? Infatti, per scusare, come crede, i suoi vizi, egli
finisce per dire: «Niente conta, e neppur io non conto
nulla ! ». Allo stesso modo l’inerzia passiva di un popolo
termina sempre col disprezzo delle proprie istituzioni e
con la perdita della libertà. Lasciate che per soli cinquan-
t’anni decidano del vostro destino quei pochi ometti di­
ligenti che non sono troppo pigri per correre in municipio,
e vedrete ch’essi vi prepareranno una costituzione tale da
IL GIORNO DELLE ELEZIONI 1243

esonerarvi dalla dura fatica di vivere, voi, polentine,


che recalcitrate ad andarvi come se in chiesa volessero
tagliarvi il naso !’
— Ohibò ! — disse Heiri — prima dovranno fare i con­
ti con noi ! Ma finché sono contento di come vanno le co­
se, non vedo perché io debba sempre correre a ogni fischio
del vicario; se un giorno non mi garbassero più, allora ci
andrei, eccome !
— Ah sì? Credi? — ribattè il vecchio — È certo un
modo un po’ speciale di mostrare la propria soddisfazione,
nascondersi e starsene zitti come topi spaventati. Come
possono i dirigenti capire che ti accontentano? E non de­
vi forse, quando sei contento di qualche cosa, darti da
fare perché essa duri e si basi sopra solide fondamenta?
Ma le più solide fondamenta di un regime sono l’attiva
partecipazione del popolo ! A un consigliere che sia stato
eletto da una chiesa piena di cittadini batte in petto ben
altro cuore che a uno voluto da poche dozzine di indivi­
dui. Per costoro egli non ha alcun vero rispetto, è irritato
per la loro scarsità, anziché esser loro riconoscente. Tu
coltivi pure il tuo campo in ogni epoca dell’anno, sia
grande o piccola la speranza di raccolto, affinché non sia
colpa tua se esso dovesse fallire ! E sei troppo pigro per
dare il tuo contributo, una volta ogni quattro anni, a col­
tivare il terreno della patria, affinché non manchi un hu­
mus vigoroso se qualcosa vuol crescere? Rifiuti di recarti
in chiesa per un’ora perché vuoi giocare ai birilli una pe­
cora? Non credi che debbano finire col perdere ogni
nerbo, i consiglieri che da simili cuorcontenti non tanto
sono eletti quanto son lasciati eleggere?
Tu ari e semini il tuo campo senza sapere cosa rac­
coglierai, eppure non ti dà fastidio il farlo; qui invece,
dove sai che cosa raccogli, dove hai nelle mani il tuo
destino, ti pèriti di seminare, e credi che il raccolto ven­
ga lo stesso. Ma finirà col non crescere più, o almeno
non quel che ti piace.

I. Fino al secolo scorso, in Svizzera le elezioni e varie adunate


pubbliche si svolgevano nelle chiese.
1244 DUE STORIE D’ALMANACCO

Sarebbe tutto giusto, — disse Heiri — se dipendesse


da me solo e se fosse il singolo a fare le elezioni !
Il vecchio Berghansli alzò le spalle e ribattè:
— Questo è il solito discorso dei pari tuoi, ed è una
falsa modestia, sorella gemella della tua non genuina
acquiescenza. Quando il nemico arriva, quando il fuoco
prorompe, quando l’acqua straripa, ciascuno accorre sen­
za essere chiamato, e nessuno dice che non dipende dal sin­
golo. È mancanza di intelligenza, affermare che non è la
stessa cosa il tranquillo esercizio dei doveri di cittadino,
come nel caso delle votazioni. Al contrario, con l’a­
stenersi ogni singolo contribuisce, benché in maniera
lenta e impercettibile, alla graduale disgregazione della
comunità; e in ogni caso non vorrei essere io sempre
quello che non importa che ci sia, dal quale non dipen­
de nulla !
E tu che ne dici, mastro Peterli, tu vuoi comprare
una carabina? Sembra già meglio che giocare ai birilli
una pecora. Ma è proprio questa la tua scusa, oppure
hai anche tu un motivo più elevato, o più profondo, come
il tuo bravo fratello pacioccone?
— Senza dubbio, — rispose, un po’ caparbio e aggron­
dato, il minore — potrei comprare la carabina un altro
giorno, benché io non gironzoli volentieri lungo la setti­
mana. Ma voglio ammettere che a me le elezioni non in­
teressano molto!
— E perché? — domandò il vecchio.
— Perché — disse Peterli — io non la penso come mio
fratello, al contrario sono malcontento perché tutto viene
tirato con una cordicella, come la culla legata alla coda
della mucca dalla furba contadina perché il bimbo s’ad­
dormenti mentre lei pianta i fagioli!
— Ebbene, — esclamò il vecchio — allora vacci, casca­
morto, e taglia la cordicella !
— E come devo tagliarla?
— Va’ alle elezioni, grida: «Ohi ! Ehi !». Fa’ baccano e
di’: «Qui si è sbagliato, là pure, quello non mi piace,
questi ha fatto (oppure non ha fatto) questo e quello,
vogliamo eleggere quello e quell’altro ! ». Tieni duro per
IL GIORNO DELLE ELEZIONI 1 245

il tuo candidato, e se non passa ti rassegni fino alla pros­


sima volta, e hai fatto il tuo dovere.
— Proprio questo è il guaio, — disse Peterli — non
conosco nessuno per cui votare. Non c’è nessuno in vista,
nulla succede che attiri l’attenzione su qualcuno, non
emerge neanche una faccia nuova . . .
— La Camera del Consiglio — lo interruppe severo il
vecchio — non è un negozio di sartoria dove occorra
esporre merce sempre nuova; le facce nuove dimostrano
talvolta di essere pure e semplici facce, sulle quali non
riesce mai a far presa la veneranda muffa del tempo e
dell’esperienza. Se non conosci nessuno cui tu possa dare
il tuo voto . . . ma come vuoi giungere a conoscere qual­
cuno, se diserti tutti i pubblici dibattiti, sia nelle faccende
del Comune, che in quelle del Cantone, che in quelle della
Confederazione? Solo lì puoi effettivamente vedere come
si comportano questo e quello; e saresti un tipo davvero
incontentabile, se col passare del tempo qualcuno non ti
facesse pensare: vorrei vedere in Consiglio piuttosto lui
che un altro. Perché dovrai pure finire con lo scegliere
uno dei disponibili, se vuoi essere rappresentato ! Non
vorrai attendere finché non sorga proprio nel tuo collegio
elettorale il profeta che ti sei rimuginato tu nella tua
mente! Hai ragione in questo, che vorresti conoscere il
meglio possibile quello per cui devi votare ; ma a tal fine
è necessario possedere un po’ di conoscenza degli uomini,
e saper anche render conto a se stessi di ciò che è impor­
tante.
Tu frequenti i corsi di addestramento al tiro; tanto
più allora bada a che il consigliere cui dài il tuo voto sia
anche lui un bravo tiratore, capace, dal posto cui lo
eleggono, di sparare a qualsiasi distanza e senza laboriosi
preparativi ; cioè ch’egli porti in mano libera e franca la
propria coscienza come tu la tua carabina, e sappia usarla
di fronte agli avvenimenti ; in breve, ch’egli stesso carichi
il suo colpo e lo spari, saldo nella sua coscienza d’uomo,
e non dietro il paravento della cosiddetta coscienza col­
lettiva, dove tutti si nascondono uno dietro l’altro e si
devono far coraggio a vicenda con discorsi terribili.
1246 DUE STORIE D’ALMANACCO

Osserva se egli ha un’opinione sulle cose, sia pur


semplice e dimessa, prima d’aver letto il giornale, o se
ce l’ha sempre e solo dopo.
Osserva anche s’egli in tutte le occasioni ha una sua
idea già bell’e pronta prima di avere ascoltato gli altri;
e se va in Consiglio col proposito di non stare a sentire
nulla e di non lasciarsi per nessun motivo influenzare;
perché allora al suo posto si potrebbe mettere altrettanto
bene un fantoccio di legno.
A colui che non vedi mai solo, che non ha mai un’o­
ra libera per sé, per vivere e per pensare, perché trascorre
ogni momento d’ozio dietro le carte, non dare il tuo voto,
a meno che non sia un uomo molto intelligente; perché
ce n’è di quelli che per nulla al mondo saprebbero mai
stare soli un momento e devono sempre fare qualcosa.
A colui che in ogni occasione dà fiato a tutte le sue
trombe, e nel Gran Consiglio spregia e ridicolizza gli av­
versari per poi stringere loro la mano ridendo, non dare
il tuo voto a nessun costo, perché nelle faccende impor­
tanti un tipo simile non combinerà mai niente !
Non votare per uno che ti gira intorno come fa il
gatto con la pappa bollente, o che ti guarda come se vo­
lesse mangiarti se non gli dài il tuo voto; e neanche per
uno che possa temerti dopo che tu l’abbia scelto !
A chi mentisce, foss’anche per la buona causa, non
dare mai il tuo voto, e infine non darlo nemmeno a chi
adultera il vino o distilla l’alcool dalle patate !
— Bene, — disse Peterli — allora non mi resta che
mettermi subito in cammino per poter fare tutte queste
osservazioni prima delle due.
— Veramente per oggi non potrai più vedere molto, —
replicò il nonno — ma tanto più necessario è che tu in­
cominci ad assistere sin da oggi all’adunanza. Già il mo­
do con cui parlano i candidati eminenti, con tono più o
meno aperto, e il modo con cui atteggiano il loro viso, ti
faranno un’impressione favorevole o sfavorevole, che
potrai completare in seguito in altre riunioni e faccende.
Se per esempio ne vedrai uno che se ne sta al suo posto
con tranquillo raccoglimento ed espone ciò che ha da dire
IL GIORNO DELLE ELEZIONI 1247

senza esitazioni e con sicurezza ma con occhi benevoli, ti


piacerà forse più di un altro che corre di continuo da que­
sto a quello mostrandosi indaffarato, spia l’adunanza con
avidi occhi di falco e pare come consunto da un maligno
fuoco interno; per quanto non sia detto che costui non
possa essere un uomo d’onore, magari ambizioso, e colui
un patrono astuto e scaltrito. Ma la tua istintiva preferenza
per il primo sarà probabilmente giusta, giacché in un
consigliere il dominio di sé è una virtù primaria e non
manca mai di buoni frutti.
E tu che ne pensi, mastro Jakob? Mi sembra che tu
abbia, per astenerti, il motivo più serio, volendo cercar
moglie. Ma non si potrebbe forse dire che ne avresti mag­
gior diritto se assolvessi prima il tuo dovere di cittadino?
Perché, se diventerai padre di famiglia, sarai doppia­
mente legato alla cosa pubblica, che consiste unicamente
nel complesso delle famiglie del paese, di cui difende la
stabilità.
— Ebbene, — disse l’aspirante marito — credo che
una moglie potrei trovarmela anche domani o dopo­
domani. Ma, per dirla apertamente, ho anche un altro
motivo per non preoccuparmi troppo delle elezioni quan­
do ho di meglio da fare.
— E sarebbe?
— Oh, — proseguì il giovane Jakob — mi hanno detto,
e mi sembra giusto, che il nostro Cantone col suo Gran
Consiglio non significa più molto, che tutto ora tende a
unificarsi, e i Cantoni a risolversi in un tutto, e il piccolo
a dissolversi nel grande; e devo confessare che non mi dà
nessun piacere mettermi a trebbiare della semplice paglia !
— Ah sì? — esclamò il vecchio scattando quasi con
violenza — sei anche tu della cricca? Che vuoi dire con
la tua Svizzera senza i suoi vecchi e nuovi Cantoni?
Un piatto divorato, una botte vuota, sarebbe, un alveare
senza favo e gettato via ! Un giardino mutato in un campo
d’avena su cui pascolano i cavalli, sarebbe! No, è pur
bella la rossa giacca svizzera con le armi confederali, ma
è politicamente un sudicione chi non ci porta sotto la lin­
da camicia tessuta in casa di una rispettabile vita civile;
1248 DUE STORIE D’ALMANACCO

è imponente, la rossa veste d’onore dell’Elvezia con la


croce sul petto ; ma venerabili soprattutto, e testimoni di
onesta provenienza, le ventidue camiciole bianche come
neve che ha nella cassapanca, quella zurighese con uno
scudetto bianco e azzurro sul cuore. Senza confedera­
zione non ci sono confederati, senza Cantoni non c’è Con­
federazione, senza gara di grandezza e bontà non ci sono
Cantoni: ecco la chiave di volta della nostra terra.
Ma che il nostro Cantone in tale gara gloriosa-
mente vinca dipende dal Gran Consiglio che oggi dob­
biamo eleggere. Fra i Cantoni il nostro ha da essere un
modello nell’assolvere il dovere confederale, come nell’am-
ministrare e perfezionar se stesso deve conservare la frut­
tuosa varietà della nostra terra svizzera ; e speriamo venga
presto il tempo in cui i Cantoni, risollevandosi dal primo
stordimento che li ha sorpresi con l’allegro trambusto
dell’ordine nuovo, facciano uso del loro diritto di mozione
e rivaleggino tra loro in vivace movimento confederale.
E adesso, partenza tutti insieme, chi è buon confe­
derato è un buono zurighese ! Nessuno senza l’altro, non
si accetta la metà !

I tre elettori restii non osarono sottrarsi oltre al vecchio


e volonterosamente discesero il monte con lui.
II bel giorno di maggio e l’animo ardito del vegliardo
risvegliarono anche i loro cuori zurighesi, e avvenne che
lungo il cammino essi, al modo di tutti i neofiti, s’accen­
dessero di tanto zelo, che stabilirono di inventare, per quel
Comune da cui fossero venuti in proporzione meno uo­
mini, un appropriato nomignolo da appioppargli per i
successivi quattro anni, sinché non gliene subentrasse
un altro.
Il risultato finale delle votazioni in quel distretto fu
come una mercanzia di media qualità, alla buona e tipica
dei tempi tranquilli, nonostante alcuni mutamenti avve­
nuti in seguito al naturale «congedo» di qualche consi­
gliere. In tempi simili ricresce sempre un’erba buona,
che non manca di vigoreggiare e di venire a fioritura.
Venne eletto un cosiddetto arrampicatore, uno cioè
IL GIORNO DELLE ELEZIONI 1249

in cui il popolo non incapperebbe spontaneamente, che


non scorgerebbe nemmeno, s’egli a ogni nuova elezione
non s’allungasse ogni volta sulle punte dei piedi e non le­
vasse le mani strillando e implorando come i bambini
sotto l’albero carico di ciliegie. Gli elettori, dopo averlo
per decenni dapprima neppur notato, poi considerato con
un po’ di stupore, finiscono col prestargli attenzione e pro­
vano a dargli, sorridendo, il posto agognato. Perché col
suo eterno concorrere egli è divenuto un compare scaltri­
to, che si è creato intorno una atmosfera di attività ap­
parentemente sostanziale. Un milione di progettucci e
di proposte, ha fatto, che rimette in giro a ogni nuova
elezione. Ha escogitato un canaletto per mettere in moto
il macinino del Comune, ha scoperto come ottenere una
capra con cinque tette, e tant’altre mai cose di questo
genere, che non portano a nulla, è vero, ma ch’egli ha
discusso in cento adunanze e convegni e fatto artificio­
samente attaccare sui giornali per poterle poi difendere.
Egli regola i finti attacchi contro di sé come un maestro
e la propaganda come un artista.
Siccome ha un solo principio, che suona: «chi non è
per me è contro di me», è sempre amico o nemico di ognu­
no a seconda delle circostanze; atteggiamento ch’egli sa
poi sempre far passare per una direttiva di partito, ben­
ché politicamente sia vuoto come una noce fessa.
Un simile arrampicatore fu dunque scelto; perché il
popolo talora vuole avere anche di questi tipi ; esso prov­
vede sempre alla varietà e alla completezza delle figure
sulla sua scacchiera.
Fu pure eletto, anche lui tardi, un vecchio che da
trent’anni, contro il partito di volta in volta dominante,
si autodefiniva la «giovane scuola», benché sul cranio sti­
pato di vecchi pregiudizi non avesse più un capello. Que­
sti fu eletto perché combinava ogni sorta di guai e di follie
tra i minorenni e gli adolescenti, e aveva segretamente
promesso di chiudere ormai l’età scolastica per entrare
in quella della maturità virile, per cui si trovava allora
negli anni migliori.
Fu eletto anche un cosiddetto pubblico benefattore
1250 DUE STORIE D’ALMANACCO

precoce, cioè uno che aveva appartenuto fin da prima


dei vent’anni alle associazioni benefiche del Comune,
del Distretto, del Cantone e della Confederazione, e che
ora, dopo altri vent’anni, aveva acquisito attraverso le sue
molteplici opere e missioni un considerevole patrimonio
di nozioni e di esperienze, ed era su ogni argomento un
utile oratore, che ben conveniva al paese.
Elessero inoltre un tipo silenzioso che aveva improvvi­
samente ereditato un milione, perché, pensando di salas­
sarlo a dovere con tasse e regali, volevano metterlo di
buonumore. Egli aveva già donato una nuova pompa,
una vetrata per la chiesa, un organo, tre tamburi per i
cadetti e una bandiera, e ancor di più aveva dovuto pro­
mettere.
Infine un tipo ancor più silenzioso, un uomo politico
navigatissimo, venne scelto a capeggiare l’intera nidiata,
che egli con poche parole doveva tenere in ordine e adi­
bire all’utile dell’onorevole elettorato.
Terminate le operazioni di voto, i tre fratelli sedevano
insieme in una stanzetta sul retro dell’osteria ad accertare
in base alle informazioni raccolte quale fosse il Comune
peggio rappresentato per affibbiargli il suddetto nomi­
gnolo e diffonderlo tra la gente. Quanto a loro, la man­
canza di esperienza li aveva condotti chissà perché
a un eccesso di precipitazione nel votare, e la punta
aguzza e storta della matita che avevano in comune,
animata da un suo proprio folletto elettorale, si era mossa
quasi contro la volontà degli scriventi. Ciascuno nascon­
deva agli altri due l’assenza in lui di ogni, legittima con­
tentezza per il voto dato e l’impressione d’essere stato
minchionato.
Forse proprio per l’inquietudine che ne provavano, il
loro zelo ora era assai grande, mentre sedevano solenne­
mente a consiglio.
Avvenne che i peggio rappresentati risultassero i citta­
dini di Nebenheim, di cui si era fatto vivo soltanto un
vecchio contadino semisordo. Dopo che i tre inventori
di nomi ebbero covato un pezzo senza frutto, Jakob,
quello che cercava moglie, e ora era il più rabbioso, ma­
IL GIORNO DELLE ELEZIONI 1251

nifestò l’opinioneche «Nebenheimer» potesse diventare di


per sé un buon nomignolo per quanti hanno in ogni occa­
sione il vizio di venire a sproposito1 ; che a dir vero il nome
stesso del vecchio, Ehegäumer2, unico comparso, darebbe
anche una definizione ironica per quanti trascurano così
la difesa dei loro diritti; che infine proprio l’attribuire a
tutti i cittadini pigri l’appellattivo degli abitanti di Ne­
benheim sarebbe il più sentito e il più scoraggiante dei
castighi, visto che in futuro ogni località certo si guarde­
rebbe dall’esporre il proprio nome onorato a un simile
pericolo.
I due assistenti di Jakob, addirittura sfiniti dalle in­
numerevoli discussioni di quella giornata, si dichiararono
d’accordo con la sua proposta e lo incaricarono anche di
proclamare in pubblico «nella maniera che a lui paresse
più opportuna» il nomignolo scelto; dopodiché si re­
carono difilato in mezzo ai giovani.
Intanto papà Berghansli sedeva sotto una pergola da­
vanti all’osteria, accanto alla finestra aperta della stan­
zetta in cui i suoi nipoti tenevano consiglio, lontano dal
frastuono della folla, e guardava la campagna in fiore.
Mentre così ammiccava nel sole tenendo in bocca un
rametto giovane, rossastro, di pruno, scorse il vecchio di
Nebenheim che avanzava dignitosamente, reggendo in
mano come uno statista la tuba nera di paglia laccata, con
a fianco una snella figura di ragazza. Il modo con cui essa
regolava la naturale prestezza, e accanto al vecchio di
lenta andatura elasticamente frenava i passi spiccantisi
con straordinario slancio, costituiva uno spettacolo gra­
ziosissimo, quasi solenne.
Berghansli alzandosi fece cenno alla coppia, che tosto
s’awicinò alla pergola, mentre la ragazza circospetta lan­
ciava sul posto una svelta occhiata coi seri occhi bruni.
Siccome del vecchio di Nebenheim si diceva volesse ri­
tirarsi presso una figlia sposata, e desiderasse perciò siste­
mare la presente fanciulla, figlia di un’altra figlia defunta,

I. Giuoco di parole intraducibile. 2. Altro giuoco di parole in­


traducibile.
1252 DUE STORIE D’ALMANACCO

che sino allora era vissuta presso di lui, e siccome era non
meno noto che il Berghansli spingeva uno dei suoi nipoti,
e precisamente Jakob, a un onesto matrimonio, per poter
ancora, prima di andarsene, vedere continuata la sua di­
scendenza, ecco che quest’incontro aveva tutta l’aria di
una cosa combinata.
Lo fosse o no, accadde ora che Jakob, venuto a comu­
nicare al nonno la decisione finale riguardo al nomignolo
e alla sua diffusione, girò l’angolo proprio mentre giunge­
vano il vecchio di Nebenheim con la fanciulla, che come
un sindaco portava la catena d’oro delle sue antenate sopra
i pizzi e i ricami dell’abito da festa, e reggeva in mano un
verde stelo aguzzo di segale come uno scettro severo.
Jakob tenne così a lungo aperta la bocca da cui avrebbe
voluto far risuonare il suo comunicato politico, che la fo­
restiera ebbe tutto il tempo di rimettersi dal suo rossore
e di assumere quel contegno che in tali cosiddetti primi
incontri appare più vantaggioso, e che non guasta né
compromette nulla.
Era davvero un incontro combinato, come trapelava
sempre meglio. Jakob aveva voluto cercarsi una moglie
in un posto che al vecchio non garbava, e questi a sua
insaputa aveva preordinato la cosa per il giorno delle ele­
zioni.
— Vedi, — egli disse scherzando — oggi volevi vedere
delle ragazze, ed ecco che insperatamente ti si mostra la
più bella di tutte !
— È davvero bella! — rispose imparziale Jakob, che
continuava a stupirsi di non avere fatto prima quella
scoperta.
Ma la fanciulla dondolava il suo stelo di segale facen­
done scorrere innocentemente le reste tra le dita. La vi­
cenda per quel giorno si concluse in modo che, quando
la piccola compagnia ebbe preso un rinfresco, Berghansli
e suo nipote accompagnarono verso casa per un buon trat­
to il vecchio di Nebenheim con la sua nipotina.
Sulla via del ritorno Berghansli, ridacchiando non vi­
sto alla luce delle stelle, disse:
— Che ne è stato del soprannome per quelli di Neben-
IL GIORNO DELLE ELEZIONI 1253

heim che vi siete rinchiusi a escogitare? Hai poi risolto


la faccenda?
Il giovanotto sbalordito rispose:
— Diamine, avevo completamente scordato quella dia­
voleria ! Ma .. . ora abbiamo fatto amicizia con quelle
brave persone; credo che mi spiacerebbe per la ragazza;
e poi, suo nonno è stato in fondo l’unico a venire !
— Per me va bene, — disse il vecchio più seriamente —
se la ragazza ti piace e potete mettervi d’accordo. Ma se
la faccenda del soprannome non fosse stata una sciocchez­
za, giacché son cose che non servono a nulla, ti direi che
dev’essere la prima e l’ultima volta che a causa di una
femmina muti o trascuri un’azione politica ! Vedi, mastro
Jakob, così succede quando si passa dal freddo al caldo.
Mantenersi uguale e sempre ponderato, ecco quello che
fa l’uomo!

t
NOTIZIE SULL’AUTORE

Gottfried Keller nasce a Zurigo il 19 luglio 1819. Il padre, Hans


Rudolf, originario di Glattfelden (villaggio nei dintorni di Zurigo)
è di famiglia contadina e di professione tornitore. La madre, Eli­
sabeth Scheuchzer, di quattro anni maggiore del marito, è figlia di
un medico condotto. L’acquisto di una casa obbliga il padre a un
lavoro più intenso che nuoce alla sua salute : a soli trentatré anni,
affetto da tubercolosi, egli cessa di vivere lasciando in precarie
condizioni finanziarie la moglie, il piccolo Gottfried, di cinque
anni, e una bambina, Regula, di due. Keller trascorre l’infanzia
entro le mura della nuova casa e sotto la rigorosa vigilanza della
madre. I suoi inizi scolastici non sono brillanti; terminata l’Armen-
schule (la scuola elementare pubblica), frequenta, dal 1831 al 1833,
una scuola privata, il Landknabeninstitut, dove apprende le ma­
terie letterarie, poi alla sezione industriale della scuola cantonale,
dove frequenta assiduamente i corsi, con speciale predilezione per
gli studi linguistici e letterari. Alla scuola però avviene una sorta
di ammutinamento in cui gli allievi del corso superiore coinvolgo­
no il giovane Keller, il quale ne fa più degli altri le spese. Egli
viene espulso e, sconfortato, si rinchiude in casa o trascorre giorna­
te intere a vagabondare per la città. Poco tempo dopo si rifugia a
Glattfelden, presso lo zio, dove incomincia ad interessarsi al di­
segno e a copiare oggetti dal vero. Fin dal 1832, ispirato dalle
letture dei romantici, aveva provato a scrivere drammi e disqui­
sizioni filosofico-religiose; ora preferisce disegnare e dipingere, e
vi si mette con impegno. La madre, dapprima riluttante, finisce
con l’assecondare l’inclinazione del figlio. Superate le difficoltà
finanziarie, gli viene trovato un maestro, Peter Steiger. La scelta
si rivela infelice perché il pittore si limita a costringerlo a umilianti
lavori di copiatura. Un secondo maestro, Rudolf Meyer, lo indiriz­
zerà più tardi sia al vero studio della pittura, sia all’amore per i
classici letterari, tra cui Ariosto e Tasso. Ma i risultati non sod­
disfano Keller. «Se tra due anni non riesco, mando l’arte al
diavolo e divento calzolaio», egli scrive nel suo diario il ig luglio
1837; ma esattamente due anni dopo scriveva: «Compio oggi i
vent’anni, ma non sono ancora niente e sono fermo sempre allo
stesso punto, mentre altri miei coetanei hanno già preso una loro
strada».
Decide allora di cambiare città. Lo attira particolarmente Mo-
ISS» NOTIZIE SULL’AUTORE

naco, con la sua Accademia di Belle Arti. Mancano i mezzi, ma lo


zio si muove a compassione: il 26 aprile 1840 egli si può mettere in
viaggio. Sebbene non regolarmente iscritto per la mancanza di
un titolo di studio, egli frequenta l’Accademia, ma ciò lo lascia del
tutto insoddisfatto. In compenso stringe salde amicizie, entra a
fare parte di gruppi studenteschi, è nominato redattore prima
della «Wochenzeitung» poi della «Kneipzeitung», organi della
gioventù goliardica. Ma dopo poco più di due anni, deluso e in
grande miseria, Keller abbandona Monaco.
Il suo ritorno a Zurigo segna il passaggio dalla pittura alla
poesia. L’ii luglio 1843 annota nel diario: «Provo un vivissimo
desiderio di scrivere versi. Perché non dovrei tentare e vedere
che cosa c’è di positivo?». È preso da grande ammirazione per
Jean Paul e sotto il fascino dello Hesperus compone sonetti. Nel
febbraio 1844, su «Die Freie Schweiz», appare il suo primo sag­
gio poetico. Egli alterna giornate produttive con periodi d’indolen­
za; decide di comporre «un piccolo romanzo veramente triste, per
narrare le dolorose vicende di un giovane artista, che deve infine
miseramente soccombere insieme con la madre», e intanto si de­
stano i suoi primi interessi politici («Qualche cosa si agita e fer­
menta in me come in un vulcano. Voglio anch’io precipitarmi nel­
la lotta per l’assoluta indipendenza e libertà di pensiero e di reli­
gione. Sento però che il passato si stacca sanguinante dal mio
cuore»).
Ritornando in Svizzera, Keller piomba infatti in piena agita­
zione politica. A poco a poco Zurigo è diventata il centro di rac­
colta dei liberali tedeschi che in patria subiscono persecuzioni e
limitazioni della libertà: è il clima infuocato che prelude alla ri­
voluzione del 1848. Keller entra in contatto con alcuni di loro:
August Adolf Folien, ricco mecenate, Wilhelm Schulz, Julius
Frobel, fondatore del «Literarische Comptoir» (dove vengono
pubblicate le opere vietate in Germania), e più tardi Ferdinand
Freiligrath. Egli aderisce infine al partito liberale. Intanto anche
la situazione politica svizzera è diventata grave. Le lotte tra li­
berali e conservatori hanno portato a una scissione della Confe­
derazione e al costituirsi di una vera e propria federazione separa­
tista (Sonderbund') conservatrice. I liberali ne esigono lo scioglimen­
to e organizzano spedizioni armate di volontari, alla più impegna­
tiva delle quali, quella su Lucerna, partecipa anche Keller. Alla
NOTIZIE SULL’AUTORE 1259

fine viene decisa una massiccia azione annata che, nel novem­
bre 1847, porta alla sconfitta del Sonderbund e a un nuovo ordina­
mento costituzionale.
Keller continua l’attività poetica: nel 1846 sono pubblicati, a
cura del Folien, i suoi Canti di un autodidatta; il suo diario intanto
si era trasformato in Libro dei sogni. In casa Freiligrath egli incon­
tra una giovane ospite, Marie Melos, che gli ispira una grande
passione, tuttavia non corrisposta. Stringe nuove amicizie, con il
musicista Wilhelm Baumgartner, l’incisore Johannes Ruff, il ma­
gistrato Eduard Dosseckel. Per un breve periodo di tempo si
trasferisce in casa di Schulz per confortarlo della morte della
moglie; e là incontra Luise Rieter, di cui s’innamora ardentemen­
te. Ma è di nuovo respinto. «Io avevo inconsciamente raccolto
tutti i miei pensieri, i miei desideri, le mie aspirazioni nelle sem­
bianze di Luise, avevo costretto e compresso tutto il mio essere
nella sua incantevole figura ; quando mi sfuggì, credetti di perdere
ogni mio bene, tutto me stesso. Chiunque sia ferito si rifugia pres­
so i propri simili; così ora preferisco frequentare gli uomini, non
per chiacchierare con loro o per lamentarmi, ma per temprarmi
nella loro asprezza e al loro contatto ritrovare me stesso», scrive
in una lettera subito dopo la rottura.
Gli viene concessa una borsa di studio perché frequenti una
università straniera. Keller sceglie Heidelberg e lascia Zurigo
nell’estate del 1848. Dovrebbe seguire le lezioni di storia, invece
frequenta i corsi di Hermann Hettner (di cui sarà amico per tutta
la vita) su Spinoza, l’estetica e la letteratura, quelli di Jacob
Henle sull’antropologia e l’anatomia, e un corso libero (dal di­
cembre 1848 al marzo 1849) di Ludwig Feuerbach. Se la poesia
liberale tedesca del ’40, la narrativa svizzera, specialmente quella
di Jeremias Gotthelf, le opere giovanili di Friedrich Hebbel, hanno
avuto molta influenza sul giovane Keller, la filosofia e la grande
personalità di Feuerbach sono per lui di importanza umana e mo­
rale decisiva.
« Il mondo è ora diventato per me infinitamente più bello e più
significativo e la vita più intensa e preziosa; la morte, più seria
e grave, m’invita doppiamente a compiere la mia opera, a purifi­
care e soddisfare la mia coscienza, poiché non ho più la speranza
di poter riguadagnare il tempo perduto in un angolo qualsiasi del
mondo», scrive nel diario. In quei mesi del 1848 partecipa attiva­
12ÔO NOTIZIE SULL’AUTORE

mente ai movimenti rivoluzionari e frequenta con particolare as­


siduità il consigliere Christian Kapp, infiammandosi d’amore per
sua figlia Johanna a cui fa leggere il Libro dei sogni, ma la ragazza,
turbata da quella passione, gli confessa di essere già innamorata
di Feuerbach.
Ottenuta una nuova borsa di studio, Keller parte per Berlino
dove trascorrerà il periodo più importante della sua attività crea­
tiva. Con un lento lavoro quasi d’orchestrazione, incominciando
con dei tentativi drammatici e ispirandosi al teatro popolare più
che alla tragedia classica, egli riesce infine a trovare il proprio stile.
A Berlino saranno ideate e portate a compimento quasi tutte le sue
raccolte di novelle. Nonostante viva abbastanza appartato, egli fre­
quenta alcuni circoli d’intellettuali, conosce il grande critico let­
terario Vamhagen von Ense, viene presentato all’editore Franz
Duncker e si innamora della cognata di lui, Betty Tendering, con
cui s’incontra dall’inverno del 1854 al maggio 1855. Ma la loro
relazione finisce col procurare a Keller, ancora una volta, atroci
tormenti: «La mia fede e ortodossia circa le donne si è capovolta.
Non ammetto ormai altro che le loro qualità di madri, e di ciò
non hanno neppure merito, dal momento che se ne incarica ma­
dre natura». Ma il suo lavoro progredisce: «Vivo in un isolamen­
to assoluto, muto, sobrio come una tartaruga; “un po’ d’acqua”,
“il menu”, “non ho più candele”, sono quasi le uniche parole che
per settimane intere io pronunzi. Mi limito a riflessioni interiori e
rido sotto i baffi pensando a quanto i miei protettori mi credano
sciocco. Sarà un risveglio tremendo per costoro quando le mie ope­
re nefande vedranno la luce ! Intanto Enrico il Verde è sotto i tor­
chi!». Finalmente, negli ultimi giorni del 1855, Keller rientra in
patria, carico di manoscritti e con tre libri pubblicati : Nuove poesie e
la satira II farmacista di Chamounix nel 1851, il romanzo autobio­
grafico Enrico il Verde nel 1855.
Zurigo, nuovamente prospera sotto la spinta di un notevole
progresso economico e dominata dalla presenza di studiosi come
Jacob Burckhardt e Friedrich Theodor Vischer, da ospiti come
Richard Wagner e Paul Heyse, offre finalmente a Keller la pos­
sibilità di una esistenza concentrata, attiva, ricca di incontri e
sempre nuovi contatti. La pubblicazione della prima parte di
La gente di Seldwyla aumenta ancora quella notorietà che Keller
aveva conquistato con Enrico il Verde. Gli vengono offerti alcuni
NOTIZIE SULL’AUTORE 1261

impieghi che rifiuta, finché, resasi vacante l’elevata carica di


Staatschreiber (segretario cantonale), egli viene prescelto a ricoprirla
dalle autorità cittadine. Nel 1864 muore la madre. Due anni dopo
conosce Luise Scheidegger, ventitreenne, e si fidanza con lei;
ma in un momento di estremo sconforto Luise si annega, lasciando
Keller senza pace. Gli anni trascorrono poi senza grandi avveni­
menti: pubblici festeggiamenti e la laurea honoris causa nel 1869,
una gita rievocativa a Monaco nell’autunno del 187a, un breve
soggiorno sulle montagne di Salisburgo nel 1873, un viaggio a
Vienna nel 1874. All’età di cinquantasette anni egli lascia l’impie­
go e si trasferisce in un nuovo alloggio dove riprende a scrivere.
Dopo il 1856 aveva dato alla stampa solo le Sette leggende (nel
1872) e la seconda parte di La gente di Selduyla (nel 1874).
A queste opere faranno seguito le Novelle zurighesi nel 1877, una
nuova edizione quasi completamente riscritta di Enrico il Verde
nel 1880, L’epigramma nel 1881 e, nel 1886, il romanzo Marlin
Salander che dà un quadro complessivo della trasformazione della
società svizzera durante la rivoluzione industriale, seguita attra­
verso la triste storia di una famiglia. Nella nuova abitazione solo
pochi intimi vengono ricevuti: lo scrittore Conrad Ferdinand
Meyer, il pittore Arnold Böklin e il Vischer. Egli mantiene invece
importanti relazioni epistolari con Paul Heyse e Theodor Storm
(con quest’ultimo, fino alla pubblicazione del Martin Salander,
poiché, in seguito, il legame tra loro si rompe a causa dell’acco­
glienza poco favorevole che Storm fa al romanzo). Trascorre mol­
te ore nella birreria «Zur Meise», che considera quasi una seconda
casa e dove è attratto dall’ambiente e dalla compagnia dei fre­
quentatori abituali. Nel 1888 muore la sorella Regula, con cui
egli è sempre vissuto per tutti quegli anni. Dopo avere curata
l'edizione completa delle sue opere, che offre l’occasione, nel 1889,
a celebrazioni entusiastiche, egli incomincia a soffrire di febbri
influenzali che gli fanno perdere le forze fino a ridurlo a pura vita
vegetativa. Muore il 15 luglio 1890, pochi giorni prima del suo
settantunesimo compleanno.
NOTIZIE SUI TESTI

La gente di Seldwyla
L’idea di comporre una serie di novelle, unite da un tenue ma
persistente filo conduttore, nacque in Keller nel 1851, durante il
soggiorno a Berlino. Solo più tardi, nel 1853, dopo avere iniziato
il romanzo Enrico il Verde e impostato e realizzato alcune novelle
isolate, egli intrawide la possibilità di dare loro una fisionomia
unitaria e tracciò uno schema, al quale, grosso modo, corrispose la
struttura di La gente di Seldwyla. Il grande successo in Germania
di raccolte di storie contadine (soprattutto ad opera di Berthold
Auerbach) lo frenò molto e lo spinse ad ancor maggiore riflessione.
In una lettera al critico Hermann Hettner del giugno 1854 egli
parla del compito ingrato che si è assunto e delle immense diffi­
coltà incontrate per dare alle sue novelle un fondo unitario.
Nel gennaio del 1855, però, fissa un titolo: La gente di Seldwyla.
Il primo volume, di cinque novelle, pronto nel luglio del 1855,
uscì nel gennaio dell’anno dopo, quando Keller era già definitiva­
mente rientrato in patria. Il libro fu accolto in modo discorde,
trovò un pubblico perplesso e incerto, presso il quale non si impose
subito ; la critica, tuttavia, cominciò a dedicargli sempre maggiore
attenzione. Il secondo volume, con le rimanenti cinque novelle,
vide la luce a grande distanza di tempo dal primo, nel 1874. Si
componeva di tre novelle scritte a Berlino e di due, Dietegen e II
sorriso perduto, terminate di scrivere pochi mesi prima della com­
parsa del libro. Questa volta sia il pubblico che la critica furono
interamente conquistati. La ristampa immediatamente succes­
siva delle due parti (quella del 1856 e quella del 1874) fu accolta
con unanime favore e rappresentò forse il più clamoroso successo
di Keller.

Sette leggende
Anch’esse concepite fin dal 1851 e scritte a Berlino negli anni
immediatamente successivi, dovevano figurare, alternate ad altre
novelle di argomento profano, in una raccolta dal titolo La Gala­
tea. Le storie non erano completamente inventate; Keller aveva
trovato i soggetti nelle Legenden di Ludwig Theobul Kosegarten
pubblicate nel 1816, ma come egli stesso disse in una lette­
ra: «Ripresi i racconti con le parole sante e sdolcinate del vez­
NOTIZIE SUI TESTI 1263

zoso Kosegarten e ne feci delle storie erotico-mondane, dove la


Vergine Maria è la patrona di coloro che hanno voglia di mari­
tarsi». La Galatea però non venne mai data alle stampe. Solo al­
cuni anni dopo, nel 1860, in una lettera di risposta a pressanti
domande circa le sue prossime opere, Keller lasciò scorgere la
possibilità di rinunciare all’insieme delle novelle e di pubblicare
le leggende separatamente. A questo scopo compì una lentissima
revisione del testo e negli ultimi mesi del 1871 consegnò il mano­
scritto all’editore. Le Sette leggende uscirono all’inizio del 1872,
mentre il materiale sacrificato, completamente rielaborato, entrò
più tardi nella raccolta L’Epigramma.
Il libro ottenne immediatamente un vasto consenso di pubblico
e fu accolto anche dai critici con molto calore, in particolare dallo
scrittore svizzero Conrad Ferdinand Meyer e da Eduard Mörike in
Germania. Erano trascorsi sedici anni circa dalla pubblicazione
dell’ultimo libro di Keller, e l’attesa era indubbiamente grande.
A un solo mese di distanza il volume fu tradotto in francese, e in
pochi anni se ne fecero parecchie ristampe.

Novelle zurighesi
Keller ebbe la prima vaga idea di un ciclo di novelle ambienta­
te a Zurigo durante la febbrile attività berlinese, nel 1853, ma
tale progetto rimase inattuato. Tuttavia egli non lo abbandonò:
scriveva infatti nel i860 a Berthold Auerbach di avere in mente la
composizione di una serie di novelle che, al contrario di La gente
di Selduiyla, presentassero una maggiore concretezza di fatti e di
riferimenti storici. E in quell’anno, appunto, scrisse La bandiera
dei sette impavidi che pubblicò in una rivista nel 1861. Una dozzina
d’anni più tardi, trovandosi, con la rinuncia alla carica statale,
ad avere maggiore libertà di tempo, egli riprese il vecchio progetto,
e finalmente, dietro le pressioni sempre più insistenti di Julius
Rodenberg, editore della «Deutsche Rundschau», si decise a ulti­
mare il libro, che chiamò Novelle zurighesi, e a farlo stampare nel
1878. Benché le singole novelle fossero scritte a molti anni di
distanza l’una dall’altra, Keller seppe imprimere loro un carat­
tere veramente unitario grazie all’assoluta padronanza di ogni
argomento, alla minuziosa e profonda conoscenza dell’ambiente
e delle fonti storiche. Fu appunto il criterio dell’aderenza storica
che permise a Keller di vincere alcune esitazioni nella inclusione
nel libro delle singole novelle {Ursula, ad esempio, doveva iniziai-
1264 NOTIZIE SUI TESTI

mente figurare nel secondo volume di La gente di Seldwyla) e lo in­


dusse a ordinarle, nel volume, secondo l’epoca in cui le storie si
svolgono.
Stranamente Keller giudicò sempre con poco favore le cinque
novelle. I maggiori critici e scrittori del tempo ebbero, invece,
parole di grandissima lode per il libro, in cui ravvisavano soprat­
tutto elementi atti a influire beneficamente sul gusto del pubblico.
Conrad Ferdinand Meyer, grande maestro nel genere storico, pur
biasimando una certa unilateralità in quel loro persistere e insi­
stere sulla rassegnazione e sull’essere sempre se stessi, ne segnalò
l’enorme importanza, mentre Theodor Storm divenne da allora
uno dei massimi sostenitori dell’arte di Keller.

L'epigramma
Anche la stesura del ciclo di novelle L’epigramma fu irta di osta­
coli. Fin dal 1851, all’inizio del suo soggiorno berlinese, Keller
aveva l’idea di scrivere una serie di storie d’amore concepite come
un tutto organico, insieme a brevi storie d’argomento religioso. Nel
1855, scrivendone all’editore Duncker, definisce le novelle «gaie,
trasparenti e incapsulate in una narrazione a cornice», annuncia
che i primi sette capitoli sono pronti e accenna al possibile titolo
di Galatea. Senonché l’editore non ricevette mai queste novelle,
avendo Keller interrotto il lavoro, quasi sicuramente a causa della
rottura della relazione con Betty Tendering. Soltanto una gene­
razione più tardi, nel 1881, le novelle, definitivamente separate
dalle storie religiose (già pubblicate con il titolo di Sette leggende e
completamente rielaborate) vennero a formare L’epigramma.
Fin dal suo apparire nella «Deutsche Rundschau» tra il maggio
1881 eil gennaio 1882, L’epigramma riportò un cosi autentico e clamo­
roso successo che, in poche settimane, se ne fecero ben tre edizioni.

Due storie d’almanacco


Intorno al i860 Gottfried Keller incominciò a scrivere alcuni
racconti brevi che pubblicò negli anni successivi, con La bandiera
dei sette impavidi (una delle Novelle zurighesi), nel «Volkskalender»
(«Almanacco popolare») edito in Germania e diretto dallo scrit­
tore Berthold Auerbach. Due diversi campioni della libertà e 11 giorno
delle elezioni videro così la luce nel corso del 1866. Keller non
raccolse questi piccoli testi nelle Opere complete, ordinate poco pri­
ma della morte, forse ritenendoli poco impegnativi, o perché,
NOTIZIE SUI TESTI 1265

nelle sue intenzioni, erano primi abbozzi di novelle più impor­


tanti. Tuttavia le due «storie» qui tradotte, per la loro compiu­
tezza e originalità, sono solitamente incluse nelle edizioni moderne
delle opere dello scrittore svizzero.

La fortuna di kellbr

Già in vita Gottfried Keller godette di eccezionale celebrità,


e forse mai vi fu in Svizzera un autore meglio accolto di lui. Nep­
pure scrittori della statura di Jeremias Gotthelf e di Conrad Fer­
dinand Meyer, che del resto ebbe spesso parole di grande lode per
Keller, uguagliarono la sua fama. I maggiori studiosi di lettera­
tura, Hermann Hettner e Wilhelm Scherer tra gli altri, i più
grandi scrittori tedeschi del tempo, Paul Heyse, Berthold Auer­
bach, Eduard Mörike, Theodor Storm, furono suoi amici, ebbero
con lui importanti rapporti epistolari e spesso recensirono i suoi
libri. Perfino Nietzsche lo ebbe in grande considerazione. Prima
ancora del suo affermarsi, all’apparire del primo volume di La
gente di Seldwyla, ecco con quanto entusiasmo scrisse di lui Otto
Ludwig: «Il Keller possiede un meraviglioso dominio dei colori.
Quei colori ardenti li ebbero solo Giorgione c Tiziano! È ro­
manticismo il suo, al quale il temperamento svizzero conferisce
la corposità che manca al romanticismo tedesco e che potremmo
chiamare verità poetica». Né il successo diminuì dopo la sua
morte : i suoi libri continuarono ad avere uno sterminato numero
di lettori. Solo nel primo Novecento vi fu un certo indebolimento
d’interesse. Non mancarono comunque corsi universitari, mono­
grafie e studi, di Fernand Baldensperger e soprattutto di Albert
Kösel, mentre una certa notorietà riscosse una biografia, forse trop­
po entusiastica, di Ricarda Huch. Fu invece Hugo von Hofmann­
sthal a scrivere nel 1907 uno splendido piccolo saggio, in cui quat­
tro amici si intrattengono su Keller e «il suo mondo singolare,
mezzo piccolo borghese e mezzo fantastico». Hofmannsthal disse
di ammirare soprattutto, in lui, la «forza che dà a tutto, anche al­
l’elemento più insipido, più misto, ancora una forma, in grazia
della quale per un momento vive e brilla» e rilevò che non appena
ci si immerge nella lettura «si ridesta il senso per incredibili pas­
saggi, dal ridicolo al commovente, dall’insolente, insulso, al do­
loroso», aggiungendo poi che «nessuno ha dipinto come lui l’im­
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paccio in tutti i suoi toni, anche quelli ultravioletti, che di solito


non si arriva a vedere». Intorno al 1920 l’opera di Keller ricomin­
ciò ad attrarre l’attenzione del grande pubblico e godette nuova­
mente di una grande fama. Carl Spitteler, in una conferenza data
poi alle stampe e molto diffusa, definì l’arte di Keller «l’apogeo
della letteratura svizzera» e il particolare umorismo delle novelle
«il grande mezzo della sua prosa per elevarsi a stile», mentre disse
dell’intera opera che veniva a essere «la soluzione della tensione
tra animo poetico e visione realistica». Più tardi, nel 1927, il
desiderio di misurare e approfondire l’arte di Keller fece scrivere
a Walter Benjamin un articolo sulla rivista «Literarische Welt»,
in cui si mettevano in luce le più nascoste qualità dell’autore sviz­
zero e i meccanismi creativi più misteriosi di «quel maestro alla cui
scuola tutti devono passare per lasciarsi avvolgere da una fiam­
ma che custodisce un segreto: quello della vita». Finché il mas­
simo riconoscimento dell’universalismo di Keller si ebbe nel 1936
con un lungo saggio di Georg Lukàcs (ripubblicato poi, nel 1953, nel
volume Deutsche Realisten des XIX Jahrhunderts) in cui l’autore svizze­
ro venne definito «uno dei massimi scrittori epici del XIX secolo»
e in cui, affermando che era ormai «venuto il momento di con­
siderare da questo punto di vista la carriera di Keller e di assegnar­
gli il giusto posto tra le reali grandezze della letteratura mondiale»,
si concludeva che «Keller è grande perché nelle condizioni del
suo tempo, sfavorevoli dal punto di vista politico sociale e artistico,
ha creato nonostante tutto un’arte cosi alta, un’arte non ristret­
tamente provinciale».

In Italia il merito di far conoscere le opere di Keller va in modo


particolare a due dei nostri più noti germanisti, il compianto Lio­
nello Vincenti e Lavinia Mazzucchetti. Del primo ricordiamo
l’edizione di Enrico il Verde, pubblicata presso Einaudi (Torino,
1944), mentre a cura di Lavinia Mazzucchetti è l’edizione, pub­
blicata presso Hoepli (Racconti, Milano, 1947), dei due gruppi fon­
damentali delle novelle (La gente di Seldwyla e Novelle zurighesi), le
cui versioni sono state riprodotte nella presente edizione. Degna
di nota è pure la scelta dalle novelle a cura di Ervino Pocar (Sette
leggende e altre novelle, pubblicata presso la U.T.E.T., Torino, 1931,
e più volte ristampata) e quella, dalle opere, di Ferruccio Amo­
roso, pubblicata presso Garzanti, Milano, 1944, nella collana «Il
fiore delle varie letterature».
BIBLIOGRAFIA

Edizioni delle opere

Gesammelte Werke, Zürich, 1889 (io voll.), a cura dell’autore.


Sämtliche Werke, Bern und Leipzig, 1926-1948 (22 voll.), a cura di
Jonas Fränkel e Karl Helbling.
Werke und ausgewählte Briefe, Hanser Verlag, München, 1958 (3 voll.).
Werke, Birkhäuser Verlag, Basel, 1959 (8 voll.), a cura di Gustav
Steiner.

Biografia fondamentale

Emil Ermatinger, Gottfried Kellers Leben, Stuttgart (ultima ed.


»950)·

Studi generali più importanti


Albert Köster, Gottfried Keller. Sieben Vorlesungen, Leipzig, 1900.
Max Hochdorf, £am geistigen Bilde Gottfried Kellers, Zürich, 1919.
Thomas Roffler, Gottfried Keller, Leipzig, 1931.
Georg Lukàcs, Deutsche Realisten des XIX Jahrhunderts, Berlin,
1953 (trad, italiana Realisti tedeschi del XIXsecolo, Milano, 1963).
Alfred Zach, Gottfried Keller im Spiegel seiner Ze'l> Zürich, 1952.

Alcuni studi particolari


Max Kriesi, Gottfried Keller als Politiker, Leipzig, 1918.
P. Schaffner, Gottfried Keller als Maler, Stuttgart, 1929.
Kurt Ehrlich, Gottfried Keller und das Recht, Zürich, 1945.

Contributi italiani
Matilde Accolti-Egg, Gottfried Keller, Roma, 1931.
Ferruccio Amoroso, Introduzione a Keller, Milano, 1944.
Nello Saito, Interpretazione del Keller, Roma, 1956.
FINITO DI STAMPARE NEL SETTEMBRE 2013
DA ELCOGRAF STABILIMENTO DI CLES

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GLI ADELPHI
Periodico mensile: N. 444/2013
Registr. Trib. di Milano N. 284 del 17.4.1989
Direttore responsabile: Roberto Calasso

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