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Tutte Le Novelle: Gottfried Keller
Tutte Le Novelle: Gottfried Keller
Gottfried Keller
Tutte le novelle
«Più ancora che nei romanzi, Keller si rivelò arti
sta di prima grandezza nei racconti, che ora han
no visto la luce in Italia in una splendida e com
pleta raccolta pubblicata dalla casa editrice Adel
phi. Novelle ricche di humour, di invenzione fan
tastica, di grazia fiabesca e di acutezza realistica...
In queste novelle, magnificamente tradotte e pre
sentate, palpita la dimensione più alta, più aperta
della narrativa tedesca di quegli anni».
CLAUDIO MAORIS
Tutte le novelle
LA GENTE DI SELDWYLA
SETTE LEGGENDE
NOVELLE ZURIGHESI
L’EPIGRAMMA
DUE STORIE D’ALMANACCO
ADELPHI EDIZIONI
titoli originali:
Die Leute von Seldwyla
Siebend Legenden
Züricher Novellen
Das Sinngedicht
Zwei Kalendergeschichten
ISBN 978-88-459-2835-2
INDICE
Prefazione xvii
LA GENTE DI SELDWYLA
PARTE PRIMA 3
Introduzione 5
Pankraz l’imbronciato 9
Romeo e Giulietta del villaggio 57
Regula Amrain e il suo figlio minore 130
I tre pettinai amanti della giustizia 175
Specchietto il gattino 216
PARTE SECONDA 253
Introduzione 255
L’abito fa il monaco 258
II fabbro della sua fortuna 301
Lettere d’amore smarrite 330
Dietegen 400
Il sorriso perduto 459
SETTE LEGGENDE
Prefazione 549
Eugenia 550
La Vergine e il Demonio 564
La Vergine al torneo 572
La Vergine e la monaca 582
Fra Vitalis, santo a modo suo 589
Dorothea e il canestro di rose 608
La breve leggenda della danza 615
NOVELLE ZURIGHESI
Novelle zurighesi 623
Hadlaub 637
Il pazzo di Manegg 714
Il podestà di Greifensee 736
La bandiera dei sette impavidi 830
Ursula 895
L’EPIGRAMMA
1. Un naturalista scopre un procedimento
e cavalca le terre per saggiarne la validità 959
2. Dove l’esperimento riesce a metà 963
3. Dove riesce l’altra metà 967
4. Dove si evita una sconfitta 970
5. Il signor Reinhart comincia a intuire
la portata della sua intrapresa 975
6. Dove si pone un quesito 979
7. Di una vergine folle 985
8. Regine 996
9. La povera baronessa 1053
10. Il visionario 1091
11. Don Correa 1121
12. Le « breloques » 1168
13. Dove l’epigramma riceve conferma 1183
DUE STORIE D’ALMANACCO
Due diversi campioni della libertà 1215
Il giorno delle elezioni 1239
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ELENA CROCE
LA GENTE DI SELDWYLA
VERSIONE DI LAVINIA MAZZUCCHETTI
SETTE LEGGENDE
VERSIONE DI ERVINO POCAR
NOVELLE ZURIGHESI
VERSIONE DI LAVINIA MAZZUCCHETTI
L’EPIGRAMMA
VERSIONE DI ANITA RHO
persona, nel mio intimo avevo per lei una grande simpa
tia e per amor suo mutai la cattiva opinione che avevo
sulle dorme, pensando che in realtà non dovessero essere
poi tanto male o che, almeno in avvenire, in grazia di
quell’unico esemplare, avrebbero trovato in me maggior
indulgenza. Ero molto lieto quando Lydia era presente o
quando io trovavo occasione di recarmi da lei; ma non
facevo per questo neppure un passo che non fòsse giusti
ficato dalla situazione; anzi, se mi trovavo nella mede
sima stanza, non guardavo nemmeno dalla sua parte sen
za un preciso ragionevole motivo, ma mi sentivo pervaso
da un’immensa calma, come l’acqua del mare quando non
v’è un alito di vento e per di più vi splende sopra il sole.
Così andarono le cose per circa un semestre, un anno
e forse più, non so esattamente, giacché ho perduto la
nozione di quel tempo che mi appare come una sola
afosa giornata d’estate attraversata da sogni. Durante
quel periodo iniziale di cui ignoro la durata, tutto pro
cedette bene e tranquillamente. La signorina, quantun
que mi dovesse veder sovente, non aveva molto da dire o
da trattare con me, ma quando lo faceva, mostrava la
massima cordialità e non tralasciava mai di atteggiare
il suo bel volto a un sorriso puerilmente ingenuo, che io
ricambiavo riconoscente, prendendo un’aria molto rispet
tosa e senza una piega nel mio viso, mentre le rispondevo :
«Benissimo, signorina», o anche, mentre la contraddicevo
con disinvoltura nei rari casi in cui si sbagliava. Quando
però essa non c’era o io mi trovavo solo, pensavo molto a
lei, ma per nulla da innamorato, bensì soltanto come un
buon amico o un parente sinceramente affezionato che
le augurasse ogni bene ed escogitasse di continuo buone
cose per lei. Vi fu per me, se ben ricordo, soltanto un lieve
mutamento in ciò : che nei miei rapporti col governatore
osservai un maggiore riserbo, ostentando un po’ di più
le mie doti di soldato dedito esclusivamente al proprio do
vere, e serbando meglio nelle mie altre prestazioni le
forme dell’indipendenza. Io non ero infatti da lui stipen
diato e, quando avevo sbrigato il lavoro d’ufficio per cui
mi si pagava, collaboravo al resto da uomo di fiducia, e
32 I.A GENTE DI SELDWYLA
Con tale grado tenni per due anni, insieme a circa cen
tocinquanta uomini, una piccola zona di confine che era
stata conquistata per arrotondare i nostri domìni, e per
tutto quel tempo ebbi il potere supremo in quel lembo
di mondo selvaggio e pagano. Ero così solo quanto non
lo ero mai stato in vita mia, diffidente verso tutti e abba
stanza severo nel mio servizio, senza però diventar
cattivo o ingiusto. La mia attività principale consisteva
nell’introdurre una polizia cristiana e nel dar protezione
efficace ai nostri missionari, in modo che potessero lavo
rare senza pericoli. Ma soprattutto avevo da impedire il
rogo delle donne indiane rimaste vedove, e siccome quella
gente aveva una vera mania di trasgredire il nostro divieto
inglese e di arrostirsi viva reciprocamente, in onore della
fedeltà coniugale, dovevamo esser sempre in movimento
per sventare simili cerimonie. Gli indigeni si mostravano
allora scontenti e infastiditi, come quando da noi la polizia
disturba un divertimento illecito. Una volta, in un vil
laggio remoto, avevano preparato la faccenda con molta
furberia e segretezza, tanto che il rogo ardeva già divam
pando quando io arrivai trafelato al galoppo e dispersi
l’assembramento. Sul fùoco giaceva la salma di un de
crepito vecchietto rinsecchito, che già emanava un certo
odore d’arsiccio. Ma gli stava accanto una graziosissima
mogliettina di sedici anni al più, che cantava le sue pre
ghiere con la bocca sorridente e con voce argentina. Per
fortuna la poveretta non aveva ancora preso fuoco e io
ebbi giusto tempo di balzare da cavallo, di afferrarla per
i piedini e tirarla giù dal rogo. Ma lei si comportò come
un’ossessa : voleva a tutti i costi esser bruciata insieme al
suo vecchio guastafeste, così che ebbi gran difficoltà a
domarla e calmarla. È vero che quelle povere vedove non
ci guadagnavano molto ad esser salvate, perché cade
vano poi fra la loro gente in uno stato di vergogna e di
estremo abbandono, senza che il governatorato facesse
nulla per render facile la vita loro salvata. Per quella
piccina trovai però un collocamento, procurandole un
corredo e facendola poi sposare a un indù battezzato al
nostro servizio, di cui essa divenne affezionata compagna.
PANKRAZ L’IMBRONCIATO 49
Solo questi singolari eventi occupavano i miei pensieri e
finirono per destare in me il desiderio di godere una simile
incondizionata fedeltà, ma, non avendo alcuna donna a
mia disposizione per quel capriccio, caddi nella senti
mentale nostalgia di essere io stesso fedele a quella ma
niera, e insieme nel cocente rimpianto di Lydia. Dato
il grado raggiunto e le mie buone prospettive per l’av
venire, non mi parve impossibile, agendo con accortezza,
di conquistare la bella donna, nel caso fosse stata ancora
libera. In quell’idea pazza mi rafforzò proprio la circo
stanza che essa si era tanto seriamente preoccupata di
farmi girar la testa. “Bisogna pure che tu abbia avuto
un certo valore ai suoi occhi,” mi dicevo “altrimenti non
ci si sarebbe messa a quel modo”. Detto fatto mi immersi
nell’idea fissa di sposare Lydia, se mi avesse voluto, così
com’era, di esser devotamente fedele, senza limiti, a lei e
alla sua bella personalità che non aveva eguale, conside
rando anche la sua perversità e le sue qualità cattive come
virtù e sopportandole come fossero dolcissimo marzapane.
Mi persi in tali fantasie al punto che i suoi difetti, e per
sino la sua parziale stupidaggine, divennero per me i più
desiderabili fra i beni terreni: me li ripensavo in mille
variazioni e mi dipingevo un’esistenza nella quale un
marito saggio ed accorto trasforma ogni giorno e ogni
ora le perversità e i difetti della sua gentile consorte in
avventure graziose e gradevoli, ed è capace, in grazia del
la sua immaginazione sorretta dall’amore e dalla fedeltà,
di conferire alle sue stupidaggini un aureo valore, tanto
che essa avrebbe potuto poi, ridendo, menar vanto di
quelle sue doti. Dio sa di dove io attingevo tanta feconda
fantasia, probabilmente ancora sempre dallo sciagurato
Shakespeare datomi da quella strega, col quale essa mi
aveva doppiamente avvelenato. Mi stupirebbe però che
lei lo avesse mai letto con devozione !
Insomma, dopo che mi fui sufficientemente ubriacato
dei miei sogni, quando fui richiamato da quella guarnigio
ne remota, chiesi una licenza e mi recai di gran furia dal
governatore. Egli viveva ancora allo stesso modo e mi ri
cevette bene, e la figlia, che ancora viveva con lui, mi ac-
5° LA GENTE DI SELDWYLA
— Perbacco ! È un incanto !
— Un angelo ! — aggiungeva un altro — Accidenti !
Val la pena di venire qui, una come questa non l’abbia
mo vista da un pezzo !
Il marito con sguardi torvi si accorse di tutto e le diede
una gomitata nelle costole, sussurrandole :
— Vecchia pazza ! Che cosa fai?
— Non seccarmi, — disse lei impaziente — brutto im
becille ! Non vedi come mi do pena e come so trattar la
gente? Ma questi non sono che degli straccioni del tuo
genere! Lascia fare a me e avremo presto una clientela
distinta !
La scena era illuminata da un paio di moccoli di sego;
Sali, il figliolo, preferì andare nella cucina scura, dove
sedette accanto al focolare piangendo per il padre e per
la madre.
I clienti però furono presto sazi del divertimento offerto
dalla buona signora Manz e tornarono alle loro bettole
abituali, dove si sentivano meglio e potevano ridere di quel
nuovo bizzarro locale; solo di tanto in tanto compariva
un isolato a bere un bicchiere e sbadigliare annoiato,
oppure per eccezione c’era l’invasione di una brigata, ve
nuta ad ingannare quei poveracci con un fugace disordine
e chiasso. Si sentivano sempre più angosciati fra quelle
strette mura, dove appena giungeva il sole, e Manz, ben
ché abituato a starsene per giornate intere in città, trovava
ora insopportabile quella prigione. Se ripensava alla li
bera ampiezza dei suoi campi, si metteva a fissare cupo il
soffitto o il pavimento, poi s’affacciava alla porta angusta,
ma ne rientrava subito, vedendosi contemplato con cu
riosità dai vicini, che già gli avevano messo il nomignolo
di «oste cattivo». Non passò molto tempo che si ridussero
alla più completa miseria, e non avevano più nulla;
per mangiare un boccone dovevano aspettare che venisse
un cliente a bere un po’ del vino rimasto e, se chiedeva una
salsiccia o qualcos’altro, riuscivano a stento e con grande
ansia a procurarla. Ben presto furono costretti a custodire
il vino in un bottiglione che facevano riempire nascosta-
mente in un’altra bettola, ridotti ormai a tenere osteria
ROMEO E GIULIETTA DEL VILLAGGIO 77
senza vino e senza pane, e a mostrarsi gioviali a stomaco
vuoto. Erano quasi contenti se non arrivava nessuno e
stavano rintanati nella loro bettola, senza riuscire né a vi
vere né a morire. Quando la donna ebbe fatto così tristi
esperienze, si spogliò della giacca verde e subì una nuova
metamorfosi, mettendo fuori, come prima i difetti, così,
ora, alcune virtù femminili, dato che il bisogno era or
mai acuto. Dimostrò molta sopportazione, cercando di
sorreggere il vecchio e di avviare al bene il ragazzo; si
sacrificò in mille cose, esercitò insomma a modo suo una
specie di benefico influsso, che non valse per vero dire a
molto, né molto potè mutare, ma che era sempre meglio
di nulla o meglio del contrario, ed aiutò quanto meno a
ritardare la crisi, che altrimenti avrebbe dovuto scoppiare
molto prima. Sapeva suggerire espedienti in cose minute,
col suo buon senso, e se anche i suggerimenti poco vale
vano e non avevano successo, sopportava paziente l’ira dei
due uomini ; insomma faceva ora, diventata vecchia, quel
che sarebbe stato tanto più utile se fatto prima.
Per procurarsi almeno qualcosa da mangiare e per far
passare il tempo, padre e figlio si diedero a pescare al
l’amo, lanciandolo nel fiume là dove era lecito a tutti.
Era anche questa una delle occupazioni predilette dei
Seldwylesi falliti. Col tempo favorevole, quando i pesci
abboccavano volentieri, si poteva vederli avviarsi a doz
zine, con la canna e il secchiello; e lungo le rive del fiu
me si scorgeva ad ogni tratto un pescatore, l’uno con una
lunga giacca scura a falde e i piedi nudi nell’acqua, l’altro
ritto in piedi, in marsina azzurra, su un vecchio tronco
di salice, col vecchio cappello messo di traverso ; più in
là ce n’era uno addirittura in vestaglia sdruscita, a fiora
mi, non possedendo altra veste, con una lunga pipa in una
mano e la canna nell’altra ; se poi si girava oltre un’ansa
del fiume, appariva un grassone tutto calvo e nudo come
un verme seduto su un sasso e intento a pescare: questi
però, pur essendo tanto vicino all’acqua, aveva i piedi così
sporchi che pareva tenesse ancora gli stivali. Ognuno
aveva accanto un vasetto o una scatoletta dove brulica
vano i lombrichi, che in altre ore era andato a dissotter
78 LA GENTE Dl SELDWYLA
E se meglio ci ripenso
Son venuta qui per questo!
Entra allora presto, presto,
Da’ al bel rito il tuo consenso !
e dall’altro:
I
120 LA GENTE DI SELDWYLA
Quando alla fine gli parve che il gattino nella stia fosse
pingue abbastanza, non indugiò oltre, ma predispose sotto
gli occhi del gatto molto attento le diverse pentole e at
tizzò un bel fuoco sul focolare per mettere a cuocere il
premio così a lungo agognato. Affilò poi un coltellaccio,
aprì la stia, ne trasse Specchietto dopo aver ben richiuso
la porta della cucina, e gli disse di ottimo umore:
— Vieni qua, briccone, vogliamo anzitutto tagliarti la
testa, poi ti scorticheremo ! La pelliccia mi darà un bel
berretto caldo, al che io scioccamente non avevo pensato !
O sarà meglio che prima ti levi la pelle e poi ti tagli la
testa?
— No, se vi piace — disse umilmente il gattino — pre
ferirei che tagliaste prima la testa !
— Hai ragione, poverino ! — disse il signor Pineis —
Non stiamo a torturarti inutilmente ! Quel che è giusto è
giusto !
— Avete detto una verità ! — disse Specchietto con un
sospiro straziante, piegando il capo con rassegnazione —
Oh, avessi sempre fatto quel che è giusto, non trascurando
una così importante faccenda, ora potrei morire con la
coscienza più leggera ! Io muoio volentieri, ma vi è un’in
giustizia che mi amareggia la morte del resto desiderata,
dato che ormai cosa mi può offrire la vita? Soltanto
paura, affanni e miseria, e quale diversivo una tempesta
di passione deleteria, ancor peggiore della tacita e trepida
paura !
— Di quale torto e di quale importante faccenda vai
parlando? — domandò Pineis incuriosito.
— Che giova ormai il parlare? — sospirò Specchietto —
Quel che è fatto è fatto, e il pentimento è tardivo!
— Vedi, o briccone, che razza di peccatore sei mai? —
disse Pineis — Vedi come meriti di morire? Ma che cosa
diavolo hai combinato? Mi hai forse rubato, sottratto
o guastato qualcosa? Hai forse commesso a mio danno un
orribile torto di cui nulla ancora io so, intuisco o suppon
go, Satana? Belle storie mi fai ! Fortuna che ti ho scoper
to ! Confessa immediatamente, altrimenti ti scortico e ti
metto a cuocere bell’e vivo ! Parlerai o no?
SPECCHIETTO IL GATTINO 22g
viò con passi severi verso la sua casa. Lungo la strada gli
passò accanto di corsa il maestrino, che evidentemente
tornava a cercare le sue lettere. Viggi finse di non vederlo
e proseguì.
Attraversando la città stupì i suoi concittadini coll’at
teggiamento rigido e col non salutare nessuno. « È tornato
Viggi Störteler!» si disse «se ne va tutto d’un pezzo!
Perbacco, che arie ! ». Egli s’affrettava senza soste verso
casa. Vide che la porticina della cantina era aperta, entrò
e scorse sua moglie con un candeliere in mano intenta a
scegliere alcune mele. Le si parò dinanzi così inaspettato,
che essa si spaventò un poco e si fece ancor più pallida.
Ben se ne avvide Viggi e la osservò un momento: essa
pure lo fissò e nessuno dei due pronunciò parola. D’un
tratto egli le tolse il lume di mano, le strappò il mazzo di
chiavi dalla cintura, uscì, chiuse la porta della cantina e si
ficcò in tasca la chiave. Poi salì nel salotto dove era lo
scrittoio della moglie, un mobiletto grazioso e leggero
donatole per il suo onomastico e non certo adatto a celare
pericolosi segreti. Non ebbe neppur bisogno del mazzo
di chiavi : i cassetti si aprirono da soli al giusto tocco. In
un cassettino c’erano infatti le sue lettere, ma con nuova
meraviglia rinvenne in un altro gli originali delle lettere
della moglie, di mano estranea, anzi con la firma del
maestro. Le guardò ad una ad una, le aprì, le ripiegò,
tornò ad aprirle, le gettò infine tutte sulla tavola rotonda
al centro della stanza. Poi trasse dalla valigetta le lettere
del maestrino, tornò a osservarle e finì per gettarle esse
pure sulla tavola: facevano insieme un bel mucchio!
Infine si mise a girare con sguardo stravolto attorno
alla tavola, battendo di tanto in tanto gran bastonate sul
mucchio di carte e facendone volar via alquante. Alla
fine riprese fiato e mormorò: “Corralwino, Corralwino!
Addio, o bel sogno svanito !”.
Dopo alcuni altri giri attorno alla tavola, si fermò, tese
il braccio munito di bastone e proseguì: “Una perfida
druda dalle guance morbide e dalla testa vuota, troppo
sciocca per mettere in parole la propria onta, troppo igno
rante per eccitare il suo ganzo con una qualunque epistola
LETTERE D’AMORE SMARRITE 357
d’amore, ma pur astuta abbastanza per il più inaudito
intrigo che mai il sole abbia mirato! Essa prende gli
sfoghi sinceri e fedeli, le lettere del consorte, deforma i
sessi e sposta i nomi e di tutto fa dono, adornandosi di
penne trafugate, al sedotto complice del suo peccato!
Così gli estorce analoghe effusioni, ardenti di peccami
nosa fiamma, vi gozzoviglia, nutrendosi come vampiro,
nella sua povertà, di quella estranea ricchezza ; e non ba
sta! Essa ancora una volta inverte il sesso, ancora una
volta scambia i nomi e inganna con anima perfida l’igna
ro consorte, inviandogli le nuove carpite missive amorose,
ancora una volta ornando la propria testa vuota, e pur
astutissima, di penne altrui ! Così due uomini, senza
conoscersi, il legittimo marito e il drudo sedotto, si bef
fano l’un l’altro, schermendo a vuoto con il sangue del
loro cuore divenuto inchiostro: l’uno supera l’altro, ma
viene a sua volta superato in amore e in passione; ognun
d’essi crede di rivolgersi a una donna soave, mentre que
sto demonio ignorante e pur lussurioso se ne sta invisibile
nel mezzo, compiacendosi del proprio giuoco infernale !
Oh ! Ben lo capisco, ma pur non so concepirlo !... Chi
potesse ora, da estraneo disinteressato, considerare questa
bella storia, potrebbe in verità dire di aver trovato un
buon argomento per . . .”.
A questo punto s’interruppe e si scosse, avendo final
mente intuito di essere diventato egli stesso soggetto di
una vera storia, il che non gli accomodava, giacché a lui
piaceva condurre una vita tranquilla e indisturbata.
“Dove è finita la mia calma, la mia allegria,” si disse
“turbata appena da lievi preoccupazioni d’affari da
me facilmente superate? Questa donna mi distrugge resi
stenza, ora come prima ! La credevo un’oca; ed essa ben
lo è, ma un’oca con artigli da avvoltoio!”.
Rise e continuò : “Un’oca con artigli da avvoltoio ! Ben
detto ! Perché cosette simili non mi vengono alla penna
quando scrivo? Ma io diventerò pazzo: bisogna finirla !”.
Così dicendo uscì, chiuse il salotto e lasciò la casa. Per
le scale urtò la domestica che cercava stupita e sconcer
tata la sua padrona.
358 LA GENTE DI SELDWYLA
«Nobile signore!
Vi sono situazioni che ci fanno dimenticare i riguardi
dell’angusta vita quotidiana e che ispirano anche alla
più timida delle donne il coraggio, anzi le impongono
11 dovere, di uscire da se stessa e rivolgere apertamente la
sua più elevata partecipazione là dove si consuma fra
immeritato cordoglio un’incompresa e maltrattata gran
3θ2 LA GENTE DI SELDWYLA
CAPITOLO I
CAPITOLO II
CAPITOLO III
CAPITOLO IV
oltre misura, a prova che ormai essa del tutto gli appar
teneva.
— Amen ! — disse Jukundi — ho paura che comincio
anch’io a predicare !
— Non dire amen ! — esclamò Justine — continua
a parlare ! Pensa che questo vivaio di alberelli sia la tua
comunità e predicale come quei santi che predicarono
alle pietre o ai pesci !
— No, il rito è finito ! Non senti il segnale? — rispose
Jukundi ridendo, poiché in realtà in quel momento le
campane di lontano annunciavano la fine del culto do
menicale.
S’alzarono e s’avviarono lentamente verso la casa dei
nonni, alla quale giunsero a mezzodì. I vecchi avevano
fatto salire da Schwanau l’intera famiglia per celebrare
una bella festa di riconciliazione e preparato un pasto
semplice e succulento, secondo l’uso campestre. Quando
giunse la bella coppia rappacificata erano tutti riuniti.
Regnò da principio una certa imbarazzata tensione, ma
quando si vide che il sorriso perduto era tornato sui due
volti, la luce dell’antica letizia si diffuse su tutta la casa.
La Stauffacherin era radiosa come una stella e riprese il
timone per guidare di nuovo la rotta della nave ormai
riparata.
Justine andò a vivere con suo marito in città, dove i
suoi affari prosperarono ed egli perdette la sua eccessiva
credulità ottimistica, senza peraltro diventare falso e in
gannatore.
Ebbero un figlio e una figlia, cui diedero il nome di
Justus e di Jukunde, e che continuarono l’eredità della
loro fiorente e sorridente bellezza.
Andavano spesso a trovare le pie donne Ursula e
Agathchen, non lasciandole mancare di nulla. La strega
aveva mutato alloggio, non riuscendo a sopportare vicina
quella perfetta innocenza.
Il pastore, di cui Justine aveva sorpreso un’ora di de
bolezza, si recava talvolta da loro e si confidava volentieri
ai due coniugi. Continuò ancora per un certo tempo la
sua ambigua danza sulla corda, ma fu felice quando,
II. SORRISO PERDUTO 545
per mediazione di Jukundi, potè entrare in un’azienda
commerciale nella quale si dimostrò ben più pratico e
furbo di quanto avesse fatto Jukundi stesso a Seldwyla e
a Schwanau, poiché a lui, al parroco, non la si dava fa
cilmente a intendere.
SETTE LEGGENDE
PREFAZIONE
mento buono non gli usciva una parola che gli avrebbe
potuto portar fortuna. La sua fantasia non precedeva
però soltanto la sua lingua, ma anche la mano, tanto
che, battendosi coi nemici, fu più volte lì lì per essere
sconfìtto, perché esitava a menar l’ultimo colpo, vedendo
in anticipo l’avversario ai suoi piedi. La sua tattica de
stava quindi grande meraviglia in tutti i tornei, poiché
dapprima non si moveva nemmeno, e alla fine vinceva,
riscuotendosi solo quand’era alle strette.
Ora Zendelwald, tutto immerso nel pensiero della
bella Bertrade, se ne cavalcava verso il castello avito
che sorgeva su un’altura in mezzo a un bosco. Egli non
aveva altri sudditi che alcuni carbonai e spaccalegna, e
sua madre aspettava ogni suo ritorno con amara impa
zienza, per vedere se una buona volta portasse a casa la
fortuna.
E quanto Zendelwald era neghittoso, altrettanto era
operosa e decisa la madre, senza che perciò gliene venisse
molto vantaggio, perché a sua volta aveva esagerato fa
cendo valer troppo quelle sue qualità e riducendole quin
di a cosa vana. Da giovane aveva cercato di pigliar ma
rito al più presto ed era andata con tanta fretta e solleci
tudine a caccia di occasioni, che aveva fatto proprio la
scelta peggiore, prendendo un individuo incauto e teme
rario che diede fondo all’eredità, trovò la morte prema
turamente e non le lasciò altro che una lunga vedovanza,
la povertà e un figliolo incapace di muoversi per acchiap
pare la buona ventura.
La famiglia si nutriva soltanto del latte di alcune ca
pre, di frutta silvestri e di selvaggina. La madre di Zen
delwald era una perfetta cacciatrice e con la sua bale
stra uccideva a volontà colombe selvatiche e pernici;
pescava anche le trote nei torrenti, e dove il lastrico del
castello mostrava qualche falla lo aggiustava da sé con
calce e pietra. Era appunto ritornata a casa con una
lepre uccisa e, mentre la stava appendendo alla finestra
della cucina, guardò giù per la valle e vide il suo figliolo
che cavalcava verso casa; allora calò il ponte con gioia,
perché egli ritornava dopo molti mesi.
574 SETTE LEGGENDE
Sulla riva del Ponto Eusino, non lungi dal fiume Ha-
lys, sorgeva nella luce della più bella mattinata di prima
vera una villa romana. Dalle acque del Ponto il grecale
portava un’amena frescura nei giardini e ne godevano i
pagani e i cristiani clandestini altrettanto quanto le fron
de tremolanti degli alberi.
Sotto un loggiato in riva al mare, lontano dal mondo,
c’era una giovane coppia, un bel giovane davanti alla
più tenera fanciulla. Questa teneva alta una grande cop
pa, di una pietra rossiccia translucida intagliata con arte,
per farla vedere al giovane, e i raggi del mattino vi
giocavano con garbo mentre il riflesso rosso sul viso della
fanciulla dissimulava il suo rossore.
Era Dorothea, la figlia d’un nobile che Fabricius, il
governatore della Cappadocia, desiderava ardentemente
in sposa. Siccome però era un ostinato persecutore dei
cristiani, i genitori di Dorothea, che si sentivano attratti
dalla nuova fede e facevano di tutto per approfondirla,
cercarono di opporre resistenza alle pressioni del potente
magistrato. Non che volessero coinvolgere i loro figlioli
nelle lotte religiose o accaparrare i loro cuori alla fede;
erano troppo nobili e liberali per farlo. Ma pensavano
che, a chi tortura gli uomini per le loro credenze, non è
bene affidargli il cuore.
Dorothea non aveva bisogno di queste considerazioni
perché aveva trovato un altro modo di difendersi dalle
istanze del governatore, cioè l’affetto per il suo segretario
Theophilus che ora stava appunto vicino a lei e guarda
va nella coppa rossa.
Theophilus era un uomo cólto e fine d’origine ellenica,
che aveva superato mólte avversità e godeva la stima di
tutti. Ma in seguito agli stenti della sua giovinezza aveva
DOROTHEA E IL CANESTRO DI ROSE 609
muro della sala, di dove era stata tolta parte dei manoscrit
ti giacenti sulla tavola, ma nel quale stavano ancora alli
neati e sovrapposti moltissimi libri e rotoli di pergamena.
Vi erano, oltre al Parzival, aXPErec, all’Iwein e al Povero
Enrico, al Tristano, alla Gara alla Wartburg e ad altre
opere poetiche, diversi volumi di natura descrittiva e
storica, così come si redigevano e scrivevano a quel tempo ;
ma si vedevano soprattutto copie di importanti testi e
documenti giuridici, quali solo un personaggio influente
e di alto rango era in grado di raccogliere. Il signor
Rüdiger trasse un libro accuratamente ricoperto, e lo mo
strò al giovane. Era il manoscritto dello Specchio Svevo.
— Specialmente questo libro vorrei possedere, giac
ché questa copia non appartiene a me, bensì ai signori del
Duomo; — disse — se tu volessi di quando in quando
venire qui, potresti copiarlo ed intanto lo leggeremo in
sieme, giacché sarà un po’ difficile, essendo scritto in for
ma antica e particolare. Quando avremo finito la copia vi
metteremo pure il motto finale, che questo scrittore ha
posto alla fine del diritto feudale e che pare anche a
me sia ben formulato : «Nessuno è tanto ingiusto, che non
riconosca l’ingiustizia quando si fa torto a lui. Perciò oc
corrono saggi discorsi e buone arti per applicarle nel
giure. Chi in ogni tempo parla secondo il diritto si crea
non pochi nemici. A ciò l’uomo onesto deve di buon grado
assoggettarsi per amor di Dio e per il suo onore e per la
salvezza dell’anima sua. Il buon Dio ci consenta di amare
in questo mondo il giusto e di indebolire l’ingiustizia a
tal punto, da poterne trar godimento poi là, dove il corpo
e l’anima si separano ! ».
— Questa è proprio una bella sentenza — disse d’un
tratto una voce giovanile di donna proprio alle spalle di
Johannes. Questi si volse di colpo e si trovò di fronte ad
una giovinetta sedicenne di rara e particolare bellezza e
dalla figura insolitamente snella. La grazia dei suoi tratti
era quasi velata, ma pure nel contempo illuminata, resa
più intensa, dalla profonda serietà. Era Fides, che sino a
quel momento si era tenuta in disparte dalla compagnia.
Johannes non aveva riveduto la fanciulla per tutti
656 NOVELLE ZURIGHESI
IL PULCINELLA
la invitò a tentare un giro con lui, per dar prova della sua
giovanile baldanza. Più tardi essa ballò con Landolt
tutte le volte che potè senza dar troppo nell’occhio e gli
sussurrò che quello doveva essere l’ultimo giorno della
loro intimità, poiché essa non sapeva quando sarebbe
stata chiamata nel paese ignoto ove vagano gli spiriti.
Ritornando in città Salomon cavalcò a fianco della
carrozza in cui era la fanciulla. La sua linguetta non
stette ferma un momento; passando sotto il ciliegio ca
rico di frutti il giovane colse svelto un ramoscello ricco
di ciliege coralline e glielo gettò in grembo.
«Mille grazie!» disse Figura, e conservò accurata
mente per ben trent’anni il ramo con i frutti essiccati,
giacché essa rimase in buona salute senza che il fosco de
stino temuto le si presentasse. Fu tuttavia irremovibile
nella sua decisione; anche il fratello Martin, dal quale
Salomon si recò il giorno seguente per consigliarsi, con
fermò quel che essa aveva detto e come in famiglia si
considerasse certa la sventura alla quale sempre eran state
esposte di preferenza le donne. Non avrebbe potuto desi
derare un cognato migliore di Landolt, gli assicurò Mar
tin, ma era costretto a pregarlo, per la calma e la pace
della mente di lei rimasta sino ad allora abbastanza in
equilibrio, di rinunciare ad ogni altro tentativo.
Landolt non si rassegnò subito, sperò anzi in silenzio
per parecchi anni, senza che però intervenisse un muta
mento nella situazione. Si serbò di buon animo soltanto
perché, ogni qualvolta a lunghi intervalli rivedeva Figura
Leu, poteva leggere negli occhi di lei che era rimasto il
suo amico più caro e diletto.
IL CAPITANO
LA CAPINERA E IL MERLO
I. Antistite era, dai templi di Zwingli, il titolo del capo della Chiesa
zurighese.
IL PODESTÀ DI GREIFENSEE 789
detto cent’anni fa, delie cose del cuore e del buon gusto.
Dunque Reinhart stava per accingersi anche quel gior
no a un lavoro quieto e sottile che lo occupava da setti
mane. Nel centro della stanza v’era un apparecchio inge
gnoso, che captava un raggio di sole e lo faceva passare
attraverso un cristallo, permettendo di osservare come si
comportava dentro di esso e possibilmente di scoprire l’in
timo segreto di quelle trasparenti strutture. Già molti
giorni Reinhart aveva trascorso davanti al congegno, a
guardare nell’interno attraverso un tubo, col regolo cal
colatore in mano, scrivendo poi cifre su cifre.
Quando il sole fu salito di qualche spanna, richiuse la
finestra sul vago mondo con tutto ciò che viveva e s’agi
tava al di fuori, e lasciò entrare nella stanza oscurata un
unico raggio di luce attraverso un forellino che aveva
praticato nell’imposta. Appena quel raggio fu accura
tamente teso sullo strumento di tortura, Reinhart volle
intraprendere senza indugio la sua opera quotidiana;
prese carta e matita e applicò l’occhio al tubo per con
tinuare dal punto in cui era rimasto.
Ma in quella sentì nell’occhio un dolore leggero e pun
gente; lo soffregò con la punta del dito e guardò con l’al
tro nel tubo, e anche quest’occhio doleva; giacché egli
aveva già cominciato a rovinarsi la vista con lo sforzo
diuturno, e particolarmente con il passaggio continuo dal
cristallo luminoso all’oscurità nella quale annotava i suoi
numeri.
Lo capì ora e arretrò impensierito; se gli occhi gli si
ammalavano, era finita per le ricerche sperimentali, e
Reinhart sarebbe stato ridotto a riflettere e meditare su
ciò che aveva visto fino a quel momento. Turbato andò a
sedersi su una soffice poltrona, e poiché intorno a lui era
buio, silenzio e solitudine, lo assalsero strani pensieri.
Dopo avere trascorso in gioconda agitazione la mag
gior parte della giovinezza e osservato l’umanità con
attenzione sufficiente per convincersi della razionalità e
della coerenza del mondo morale, notando come non
cada mai una parola che non sia nel contempo causa ed
effetto, anche se di poco rilievo come il dondolio d’un
UN NATURALISTA SCOPRE UN PROCEDIMENTO 961
Regine
La povera baronessa
assorto nei suoi pensieri, per poco non travolse una crea
tura di sesso femminile che stava seduta sui gradini a
lucidare coltelli. Gli parve che una delle lame l’avesse
colpito al tallone; guardò giù e vide sotto di sé la faccia
rossa di collera di una donna ancora giovane, per quel
po’ che se ne poteva scorgere sotto lo scialletto andato di
sghimbescio, che egli prese per una dorma di servizio.
Rabbiosa, anzi furente, colei riabbassò il capo sul suo
lavoro, e Brandolf, spiacevolmente colpito, entrò nella
casa dei suoi amici. Lì esaminò il tacco del suo stivale e
trovò che nel cuoio lucente v’era infatti un piccolo taglio.
«Sciagurati che siamo, noi esseri umani!» esclamò
«parliamo tutti i giorni di amore e di carità, e tutti i gior
ni offendiamo un nostro simile, per strade, viottoli e scale !
Senza volerlo, s’intende; ma devo pur confessare a me
stesso che, se su quei gradini avessi visto una dama vestita
di raso, certo sarei stato meno sbadato ! Onore a quell’u
mile persona che ha saputo difendersi e almeno m’ha
piantato nel tacco il suo aculeo vendicatore, e buon per
me che non era un tallone d’Achille ! ».
Raccontò il piccolo incidente. Tutti esclamarono : «È la
baronessa!» e il padrone di casa disse: «Caro Brandolf,
questa volta le sue sottigliezze umanitarie non hanno
assolutamente còlto nel segno ! La signora sulla scala è
un’autentica baronessa, che per pura cattiveria, per osta
colare il passaggio e per avarizia, invece di usare il suo ap
partamento, insudicia la scala comune sbrigandovi delle
faccende domestiche, e intanto per aristocratica alba
gia non saluta, né degna di uno sguardo noi altri bor
ghesi ! ».
Stupito di quello strano chiarimento, Brandolf volle
saperne di più. La baronessa era venuta a stabilirsi nella
casa da poche settimane; occupava l’altra metà, più pic
cola, del piano, aveva subito inchiodato alla porta una
targa col suo nome altisonante, però appeso nello stesso
tempo alla finestra un cartellino con l’offerta di una ca
mera mobiliata. C’erano già stati alcuni forestieri, ma
nessuno aveva resistito più di due giorni, tutti erano fug
giti dopo aver pagato un conto esorbitante. Chi cadeva
LA POVERA BARONESSA 1057
I
ιο6ο L’EPIGRAMMA
(
I .A POVERA BARONESSA IO73
a UÎîa r?Va SÌCUra’ dove s’era stabilito. Uno era un tran CAPITOLO DECIMO
quillo birraio nei dintorni di New York, l’altro aveva
una scuola privata nel Texas, il terzo faceva il predicatore Il visionario
benTa SCtta reli8icsa» e tutti e tre campavano
— Il suo signor Brandolf è il modello di un nobile e
Il padre di Brandolf visse fino a ottantun anno e diceva benintenzionato conoscitore di donne ! — disse Lucia
di doverlo soltanto alla gioia che la salute e la serenità quando Reinhart nel suo racconto ebbe portato la baro
della nuora diffondevano tutt’intorno. Così varia il rac nessa decaduta alla felicità e al matrimonio — ma è ben
colto secondo la natura del terreno dove un’anima viene certo che scegliendosi la sposa non sia stato un poco il
trapiantata.
trastullo del fato, o che alla fin fine sia stato scelto egli
stesso mentre credeva di scegliere?
— In che modo? — domandò Reinhart.
— È solo un’idea ! — rispose Lucia — È sicuro d’avere
descritto e reso bene tutte le circostanze, senza omettere
nulla che facesse sospettare un modesto intervento, una
piccola manovra della buona baronessa von Lohausen?
— Conosce le persone, oppure ha già udito la storia?
— Io? Per nulla affatto ! È la prima volta che, ne
sento parlare.
— Ebbene, se non conosce altra fonte, deve attenersi
alla mia redazione, che ho elaborato secondo sapere e co
scienza. Io riaffermo che non si può scoprire fra le righe
la minima traccia di astuzia e di civetteria, e la prego, illu
strissima signorina, di non volervi mettere nulla di quel
che io non intendevo mettervi !
— E io chiedo mille volte perdono all’illustrissimo si
gnore se è stata offensiva la mia supposizione che alla
povera signora Hedwig potesse essere concesso un resto
di volontà propria in fatto di matrimonio !
— Oh, inclemente signorina, perché questo sdegno?
Io mi limitavo a difendere una figura femminile alla quale
l’abbandono e lo smarrimento non fanno che conferire
grazia, e servire d’ornamento al sesso!
— Naturalmente ! Così l’intendo anch’io ! — disse Lu
cia con un’allegra risata che mosse graziosamente i suoi
riccioli — una mite agnelletta di più sul mercato ! Que
sta volta poi si tratta anche dell’utilità di una brava mas
saia, e bisogna confessare che lei ha esaltato il tema, quasi
come in un racconto di fate !
1092 L’EPIGRAMMA
Don Correa
Ï
ιι66 L’EPIGRAMMA
Le «breloques»
Alla fine la sua gloria gli venne a noia, tanto più che
non rimaneva un posticino per nuovi bottini d’amore sul
suo panciotto. Ma poiché lo si poteva ben chiamare un
beniamino della fortuna, giunto a quel punto gli si aprì
una nuova strada di vita e di successo, che egli si sentì
invogliato a prendere, da uomo ormai sperimentato e
accorto.
Proprio allóra l’entusiasmo della Francia per la guerra
di liberazione dei Nordamericani era giunto al culmine,
e dopo che molti Francesi avevano combattuto come
volontari per la fondazione della grande repubblica, il
marchese di Lafayette, come tutti sanno, aveva ottenuto
l’invio di un vero esercito ausiliario. Il capitano Thibaut
de Vallormes partì con la spedizione e si trovò fra i sei
mila uomini che il conte di Rochambeau portò di là
dell’Oceano e che nel giugno del 1780 toccarono terra nel
Rhode Island. Thibaut era un soldato non privo di zelo e
di valore, e così le vicende della difficile guerra, le avan
zate e le ritirate lo condussero ora in prima linea, ora in
altri punti pericolosi. Il fresco afflato del Nuovo Mondo,
il potente soffio di libertà che ne emanava, il continuo
impegno del servizio fra mille insidie resero a poco a poco
l’ufficiale molto più serio e posato; anche nell’àmbito
della sua persona limitata, il trapasso dal gioco a ciò che
viene dopo fu ben visibile. Quando la sua divisione giunse
a un largo fiume sulla cui opposta riva era accampata una
grossa tribù d’indiani, egli con gli altri Francesi arse d’en
tusiasmo nel trovarsi davanti alla vera natura, alla libera
umanità; ciascuno di loro infatti portava in cuore la sua
porzioncina di Jean-Jacques Rousseau. Si trattava di
entrare in rapporto con gli Indiani, ottenerne con le buo
ne maniere l’amicizia o almeno la neutralità, e a questo
scopo si attendevano i comandanti supremi, mentre an
che fra gli Indiani, sull’altra sponda, si radunavano a
tener consiglio molti grandi capi.
Ma i militari francesi erano impazienti di soddisfare
la curiosità e l’attrazione per l’ideale stato di natura;
già prima dell’incontro ufficiale chiamarono di qua i miti
pellirosse o si fecero traghettare da loro, e ciascuno cercò
LE BRELOQUES II77
J
1 ι8ο L’EPIGRAMMA
rifiuto, nel caso che egli avesse fatto una richiesta, riempì
una valigia di tutti gli indumenti che più gli donavano, e
partì. Trovò la compagnia radunata sotto il platano e
di ottimo umore; Else Moorland, senza scapito della sua
dignità matronale, vestiva come Lucia un abito bianco
come la neve, poiché splendeva un caldo sole estivo, e i
capelli neri erano liberi e senza cuffia. Il colonnello aveva
lasciato in casa la gruccia e portava speroni agli stivali.
Reinhart padre sembrava un libero docente di trentacin-
que anni che dovesse ancora produrre e ottenere tutto
ciò che aveva già prodotto e ottenuto, e Lucia era silen
ziosa e modesta come una ragazzina, nonostante i suoi
venticinque o ventisei anni ; insomma nessuno voleva ap
parire vecchio o in procinto di diventarlo, perché tutti
erano felici e contenti ; solo Lucia e Reinhart sembrava
no a vicenda più taciturni o più pensosi, secondo che
l’uno o l’altra vedeva sopra di sé un cielo rannuvolato.
Così passarono alcuni giorni in grande festevolezza. Final
mente si parlò di fare una visita al noto presbiterio, il cui
titolare era stato compagno di studi di Reinhart padre,
donde la conoscenza col figlio.
— Ci va volentieri? — chiese Lucia preoccupata al
giovane Reinhart, desiderando che ogni giornata trascor
resse per lui lieta e gradevole e ricordando che la famiglia
del pastore lo annoiava un poco.
— Per esser sincero — replicò lui — non ho una gran
voglia di passare là tutto un giorno.
— E allora rimani qui ; — consigliò la madre — tanto
la visita interessa piuttosto noi vecchi; se il maresciallo ci
accompagna, la carrozza sarà già piena: vuole portarci
nel suo leggero calessino da caccia, o come diavolo si
chiama, quel mangiapiombo ! Sta’ buono, maresciallo ! —
aggiunse rivolta al colonnello che ritto alle spalle le tirava
la cocca d’un nastro come protesta per l’epiteto.
— E tu che cosa fai, Lux? — chiese egli alla nipote.
— Io? Io devo badare alla casa, come tutte le povere
massaie, e provvedere per la cena!
— Va bene, allora provvedi anche a un beveraggio se
condo le regole. Perché dobbiamo bere alla fratellanza
DOVE L’EPIGRAMMA RICEVE CONFERMA 1 1 87
I
DOVE L’EPIGRAMMA RICEVE CONFERMA ligi
che sino allora era vissuta presso di lui, e siccome era non
meno noto che il Berghansli spingeva uno dei suoi nipoti,
e precisamente Jakob, a un onesto matrimonio, per poter
ancora, prima di andarsene, vedere continuata la sua di
scendenza, ecco che quest’incontro aveva tutta l’aria di
una cosa combinata.
Lo fosse o no, accadde ora che Jakob, venuto a comu
nicare al nonno la decisione finale riguardo al nomignolo
e alla sua diffusione, girò l’angolo proprio mentre giunge
vano il vecchio di Nebenheim con la fanciulla, che come
un sindaco portava la catena d’oro delle sue antenate sopra
i pizzi e i ricami dell’abito da festa, e reggeva in mano un
verde stelo aguzzo di segale come uno scettro severo.
Jakob tenne così a lungo aperta la bocca da cui avrebbe
voluto far risuonare il suo comunicato politico, che la fo
restiera ebbe tutto il tempo di rimettersi dal suo rossore
e di assumere quel contegno che in tali cosiddetti primi
incontri appare più vantaggioso, e che non guasta né
compromette nulla.
Era davvero un incontro combinato, come trapelava
sempre meglio. Jakob aveva voluto cercarsi una moglie
in un posto che al vecchio non garbava, e questi a sua
insaputa aveva preordinato la cosa per il giorno delle ele
zioni.
— Vedi, — egli disse scherzando — oggi volevi vedere
delle ragazze, ed ecco che insperatamente ti si mostra la
più bella di tutte !
— È davvero bella! — rispose imparziale Jakob, che
continuava a stupirsi di non avere fatto prima quella
scoperta.
Ma la fanciulla dondolava il suo stelo di segale facen
done scorrere innocentemente le reste tra le dita. La vi
cenda per quel giorno si concluse in modo che, quando
la piccola compagnia ebbe preso un rinfresco, Berghansli
e suo nipote accompagnarono verso casa per un buon trat
to il vecchio di Nebenheim con la sua nipotina.
Sulla via del ritorno Berghansli, ridacchiando non vi
sto alla luce delle stelle, disse:
— Che ne è stato del soprannome per quelli di Neben-
IL GIORNO DELLE ELEZIONI 1253
t
NOTIZIE SULL’AUTORE
fine viene decisa una massiccia azione annata che, nel novem
bre 1847, porta alla sconfitta del Sonderbund e a un nuovo ordina
mento costituzionale.
Keller continua l’attività poetica: nel 1846 sono pubblicati, a
cura del Folien, i suoi Canti di un autodidatta; il suo diario intanto
si era trasformato in Libro dei sogni. In casa Freiligrath egli incon
tra una giovane ospite, Marie Melos, che gli ispira una grande
passione, tuttavia non corrisposta. Stringe nuove amicizie, con il
musicista Wilhelm Baumgartner, l’incisore Johannes Ruff, il ma
gistrato Eduard Dosseckel. Per un breve periodo di tempo si
trasferisce in casa di Schulz per confortarlo della morte della
moglie; e là incontra Luise Rieter, di cui s’innamora ardentemen
te. Ma è di nuovo respinto. «Io avevo inconsciamente raccolto
tutti i miei pensieri, i miei desideri, le mie aspirazioni nelle sem
bianze di Luise, avevo costretto e compresso tutto il mio essere
nella sua incantevole figura ; quando mi sfuggì, credetti di perdere
ogni mio bene, tutto me stesso. Chiunque sia ferito si rifugia pres
so i propri simili; così ora preferisco frequentare gli uomini, non
per chiacchierare con loro o per lamentarmi, ma per temprarmi
nella loro asprezza e al loro contatto ritrovare me stesso», scrive
in una lettera subito dopo la rottura.
Gli viene concessa una borsa di studio perché frequenti una
università straniera. Keller sceglie Heidelberg e lascia Zurigo
nell’estate del 1848. Dovrebbe seguire le lezioni di storia, invece
frequenta i corsi di Hermann Hettner (di cui sarà amico per tutta
la vita) su Spinoza, l’estetica e la letteratura, quelli di Jacob
Henle sull’antropologia e l’anatomia, e un corso libero (dal di
cembre 1848 al marzo 1849) di Ludwig Feuerbach. Se la poesia
liberale tedesca del ’40, la narrativa svizzera, specialmente quella
di Jeremias Gotthelf, le opere giovanili di Friedrich Hebbel, hanno
avuto molta influenza sul giovane Keller, la filosofia e la grande
personalità di Feuerbach sono per lui di importanza umana e mo
rale decisiva.
« Il mondo è ora diventato per me infinitamente più bello e più
significativo e la vita più intensa e preziosa; la morte, più seria
e grave, m’invita doppiamente a compiere la mia opera, a purifi
care e soddisfare la mia coscienza, poiché non ho più la speranza
di poter riguadagnare il tempo perduto in un angolo qualsiasi del
mondo», scrive nel diario. In quei mesi del 1848 partecipa attiva
12ÔO NOTIZIE SULL’AUTORE
La gente di Seldwyla
L’idea di comporre una serie di novelle, unite da un tenue ma
persistente filo conduttore, nacque in Keller nel 1851, durante il
soggiorno a Berlino. Solo più tardi, nel 1853, dopo avere iniziato
il romanzo Enrico il Verde e impostato e realizzato alcune novelle
isolate, egli intrawide la possibilità di dare loro una fisionomia
unitaria e tracciò uno schema, al quale, grosso modo, corrispose la
struttura di La gente di Seldwyla. Il grande successo in Germania
di raccolte di storie contadine (soprattutto ad opera di Berthold
Auerbach) lo frenò molto e lo spinse ad ancor maggiore riflessione.
In una lettera al critico Hermann Hettner del giugno 1854 egli
parla del compito ingrato che si è assunto e delle immense diffi
coltà incontrate per dare alle sue novelle un fondo unitario.
Nel gennaio del 1855, però, fissa un titolo: La gente di Seldwyla.
Il primo volume, di cinque novelle, pronto nel luglio del 1855,
uscì nel gennaio dell’anno dopo, quando Keller era già definitiva
mente rientrato in patria. Il libro fu accolto in modo discorde,
trovò un pubblico perplesso e incerto, presso il quale non si impose
subito ; la critica, tuttavia, cominciò a dedicargli sempre maggiore
attenzione. Il secondo volume, con le rimanenti cinque novelle,
vide la luce a grande distanza di tempo dal primo, nel 1874. Si
componeva di tre novelle scritte a Berlino e di due, Dietegen e II
sorriso perduto, terminate di scrivere pochi mesi prima della com
parsa del libro. Questa volta sia il pubblico che la critica furono
interamente conquistati. La ristampa immediatamente succes
siva delle due parti (quella del 1856 e quella del 1874) fu accolta
con unanime favore e rappresentò forse il più clamoroso successo
di Keller.
Sette leggende
Anch’esse concepite fin dal 1851 e scritte a Berlino negli anni
immediatamente successivi, dovevano figurare, alternate ad altre
novelle di argomento profano, in una raccolta dal titolo La Gala
tea. Le storie non erano completamente inventate; Keller aveva
trovato i soggetti nelle Legenden di Ludwig Theobul Kosegarten
pubblicate nel 1816, ma come egli stesso disse in una lette
ra: «Ripresi i racconti con le parole sante e sdolcinate del vez
NOTIZIE SUI TESTI 1263
Novelle zurighesi
Keller ebbe la prima vaga idea di un ciclo di novelle ambienta
te a Zurigo durante la febbrile attività berlinese, nel 1853, ma
tale progetto rimase inattuato. Tuttavia egli non lo abbandonò:
scriveva infatti nel i860 a Berthold Auerbach di avere in mente la
composizione di una serie di novelle che, al contrario di La gente
di Selduiyla, presentassero una maggiore concretezza di fatti e di
riferimenti storici. E in quell’anno, appunto, scrisse La bandiera
dei sette impavidi che pubblicò in una rivista nel 1861. Una dozzina
d’anni più tardi, trovandosi, con la rinuncia alla carica statale,
ad avere maggiore libertà di tempo, egli riprese il vecchio progetto,
e finalmente, dietro le pressioni sempre più insistenti di Julius
Rodenberg, editore della «Deutsche Rundschau», si decise a ulti
mare il libro, che chiamò Novelle zurighesi, e a farlo stampare nel
1878. Benché le singole novelle fossero scritte a molti anni di
distanza l’una dall’altra, Keller seppe imprimere loro un carat
tere veramente unitario grazie all’assoluta padronanza di ogni
argomento, alla minuziosa e profonda conoscenza dell’ambiente
e delle fonti storiche. Fu appunto il criterio dell’aderenza storica
che permise a Keller di vincere alcune esitazioni nella inclusione
nel libro delle singole novelle {Ursula, ad esempio, doveva iniziai-
1264 NOTIZIE SUI TESTI
L'epigramma
Anche la stesura del ciclo di novelle L’epigramma fu irta di osta
coli. Fin dal 1851, all’inizio del suo soggiorno berlinese, Keller
aveva l’idea di scrivere una serie di storie d’amore concepite come
un tutto organico, insieme a brevi storie d’argomento religioso. Nel
1855, scrivendone all’editore Duncker, definisce le novelle «gaie,
trasparenti e incapsulate in una narrazione a cornice», annuncia
che i primi sette capitoli sono pronti e accenna al possibile titolo
di Galatea. Senonché l’editore non ricevette mai queste novelle,
avendo Keller interrotto il lavoro, quasi sicuramente a causa della
rottura della relazione con Betty Tendering. Soltanto una gene
razione più tardi, nel 1881, le novelle, definitivamente separate
dalle storie religiose (già pubblicate con il titolo di Sette leggende e
completamente rielaborate) vennero a formare L’epigramma.
Fin dal suo apparire nella «Deutsche Rundschau» tra il maggio
1881 eil gennaio 1882, L’epigramma riportò un cosi autentico e clamo
roso successo che, in poche settimane, se ne fecero ben tre edizioni.
La fortuna di kellbr
Biografia fondamentale
Contributi italiani
Matilde Accolti-Egg, Gottfried Keller, Roma, 1931.
Ferruccio Amoroso, Introduzione a Keller, Milano, 1944.
Nello Saito, Interpretazione del Keller, Roma, 1956.
FINITO DI STAMPARE NEL SETTEMBRE 2013
DA ELCOGRAF STABILIMENTO DI CLES
Printed in Italy
GLI ADELPHI
Periodico mensile: N. 444/2013
Registr. Trib. di Milano N. 284 del 17.4.1989
Direttore responsabile: Roberto Calasso