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Gelido Calore
Gelido Calore
Lì, sul ciglio della strada, giaceva un ragazzo in un caldo silenzio; una leggera brezza muoveva il
tanfo che aleggiava nell'aria da pochi minuti.
La pelle olivastra andava via via assumendo nuove sfumature.
Le iridi, un tempo radiose e di un verde pallido, stavano subendo una metamorfosi verso le tipiche
modificazioni oculari.
Gli occhi sbarrati riecheggiavano l'espressione dello spavento, misto a stupore.
I capelli annodati, secchi e privi di ogni traccia di lucentezza ricadevano sconnessamente,
solleticandogli la mascella.
Ormai non aveva più quel cipiglio tra le sopracciglia nere e folte. Le lunghe ciglia si incurvavano,
sfiorando le palpebre, come onde che si infrangono contro lo scafo delle navi.
La giacca di velluto era aperta, scoprendo così un maglione a collo alto bruno, di lana, scucito in
vari punti.
I pantaloni logori contrastavano con le scarpe: lustrate e lucide, anche se un attento osservatore
avrebbe notato le suole consunte.
Alcune delle foglie su cui era adagiato il ragazzo si stavano tingendo di un rosso carminio, mentre
le labbra raggiungevano una tonalità purpurea.
Alcuni necrofagi stavano già puntando la loro preda.
Un forte stridore si faceva strada tra i cumuli di foglie, un paio di passi sguazzanti nel naviglio e lo
scricchiolio prodotto dalla pressione dei piedi sui rametti secchi, gracili e spezzati.
L'oggetto trainato calò sul viso del ragazzo.
Si udì appena il fruscio del cadavere trascinato verso un'ignota destinazione.
Però era questo l'importante.
Gli occhi e il viso della vittima sono il punto debole del carnefice; egli non riesce a uccidere, dunque,
un qualcosa di vivo, o di simile a lui. Ogni punto debole, però, è un punto di forza.
Un silenzio assordante regnava sulla grande prateria al sorgere del sole.
Prese un libro dallo zaino, cercando di cogliere qualche nozione qua e là. Mancavano due ore alla
verifica.
Osservò per qualche istante quello spettacolo che si teneva fuori dal finestrino alla sua destra.
Erano le 6:43 di un lunedì che si prospettava gelido e coperto da una coltre di nebbia.
Riportò lo sguardo sul libro, memorizzando alcuni termini già ripetuti in classe.
I suoi occhi vagarono per qualche minuto-o almeno, così le era sembrato - sulle persone e incrociò
lo sguardo con uno sconosciuto, spaventandosi dall'intensità con cui la fissava.
Ruppe immediatamente il contatto visivo rimuginando sui sogni recenti.
Appoggiò la guancia sulla mano chiusa a pugno e premette il dorso di quest'ultima sull'orecchio.
- FAI ATTENZIONE - quella voce non aveva detto proprio questo, ma in qualche modo lei aveva
dedotto che esso fosse il messaggio.
Quel suono lo percepí acquattato, come una zattera galleggiante, sfiorata da piccole onde che si
increspavano contro il legno bagnato, mescolando l'odore della salsedine a quello di terriccio
umido.
Una volta fuori dal veicolo, attraversò la strada, e attese al semaforo, rimirando quella luce rossa e
vivida.
Per un attimo le balenò per la mente l'idea di sdraiarsi lì, sull'asfalto nero, permettendo alla
pioggia di penetrare nella sua fragile barriera.
Erano le 7:30 e lei stava varcando la soglia della classe.
Abbracciò e scambiò i saluti con qualche compagna e tentò di ripassare.
Desiderò con grande fervore di non essere interrogata e, per una volta, fu ascoltata.
Gli rivolse un'occhiata che significava solo una cosa : "Muoviti e arriva al punto."
Lui colse l'ammonimento e proseguì: - Che è successo l'altro giorno?-
- Quale giorno?- chiese con falso stupore ben celato.
- Sai a cosa mi riferisco...-
- No, non lo so. Ora devo andare.- disse, uscendo dalla stanza e pensando alla solita scenetta in cui
la ragazza viene bloccata per il polso.
Non sarebbe mai accaduto.
Sorrise genuinamente e sparì nel corridoio senza voltarsi indietro.
Passarono altre due ore e la ragazza percorse il tragitto che portava alla stazione.
I suoi gesti erano più lenti e sciolti.
Posava lo sguardo sulle persone che attendevano l'autobus, inspirava l'odore di tabacco e storceva
il naso quando qualcuno accendeva una canna.
Che merda.
Incurvò leggermente le labbra in un sorriso sghembo, ironico.
Risate, accordi, dissapori e canzoni riempivano l'aria.
Si sentiva quasi soffocata.
Lei sembrava sempre inadeguata, ovunque si trovasse.
Non riusciva a capire più quelli che dicevano che quella era la loro ancora di salvezza.
Un tempo era stato così anche per lei, ma faticava così tanto a ricordarlo, da convincersi che fosse
solo un'illusione.
Era avida e sazia di vita. Un ossimoro vivente.
A casa si affrettò a cambiarsi e lavarsi per pregare.
Passò tre volte l'acqua sulle mani e si girò l'acqua per altre tre volte nella bocca, e così anche per
naso, viso, gomiti, orecchie, capelli e piedi.
Sì tamponò la pelle con l'asciugamano e indossò il velo, cominciando a pregare.
L'orologio segnava le 15:52 e lei aveva la febbre.
Rosso. Nero. Bianco.
Rosso,come follia.
No, no.
Bianco, come follia.
Come si può curare la follia se non si sa nemmeno quale sia il suo significato.
La follia è una visione differente del mondo, una visione metaforica, allegorica e piena di simboli.
Indossava dei larghi pantaloni neri a zampa d'elefante, un po' anni Settanta, che ricoprivano poco e
niente le calze nere e gialle a pois. Le scarpe erano di un turchese sbiadito, tanto erano consunte.
La camicia verde era infilata nei pantaloni, i suoi polsini erano sbottonati mentre le maniche erano
arrotolate fino al gomito.
Le braccia ricadevano senza forza propria lungo i fianchi e oscillavano per il vento che entrava dalla
finestra, lasciata maldestramente aperta.
La luce illuminava i suoi capelli arruffati e castano rossicci che ricadevano sulla fronte ampia e
leggermente sporgente.
Le sopracciglia quasi rade sovrastavano gli occhi trasparenti, un dettaglio utile ai medici nell'esame
post-mortem per capire da quanto tempo era avvenuto il decesso.
I bulbi oculari avevano alcune chiazze giallognole e nere. Tra gli occhi faceva capolino una piccola
gobba, dovuta alla rottura del setto nasale pochi anni prima.
La lingua bluastra si sporgeva stretta tra i suoi denti, mentre la cintura continuava a cingere il suo collo
rigonfio.
Avrebbe voluto stringere a sé quell'uomo, che, però, aveva sempre scelto di fingere.
Avrebbero trovato anche questo giovane.
Perché ?
Quelle calde braccia, che numerose volte l'avevano accolta, quei teneri sorrisi che facevano incurvare
le sue morbide labbra screpolate...
Non pianse, non ci riuscì.
D'un tratto quel macigno di consapevolezza si fece più pesante e lei non poté più sopportarlo.
Si accasciò a terra, le rotule che si toccavano, i piedi in direzioni differenti, e le mani in grembo,
congiunte in un silenzioso
grido grigio.
Non riusciva a realizzare il fatto che fosse morto, non riusciva ad accettarlo.
Si rimise in piedi, come se una forza repentina l'avesse colpita, e corse fuori dall'edificio.
Non aveva lasciato tracce nell'appartamento avendo usato i guanti di stoffa, spesso sostituiti da quelli
in lattice, che sono più rintracciabili.
Si ricompose e, pensando alla barba rossiccia e incolta del giovane, sorrise lievemente.
Il Sole irradiava ogni cosa e lei storse il naso, assumendo un'espressione corrucciata.
Traumi
- Questo cappello è il mio, quello è il tuo. - sentenzió Alberto.
Parlava come uno di quei stupidi personaggi nei libri di grammatica; era ciò che aveva appreso nel
reparto di psichiatria infantile all'ospedale Diego Arcella.
Aveva dieci anni da tre mesi.
Era un bambino loquace e divertente; qualche volta faceva ridere gli altri bimbi e il personale
disegnando buffe espressioni sulla pancia prominente.
Era fin troppo simpatico.
Sospettavano tutti che fosse una tecnica di difesa del subconscio, per autoconservazione.
Ma era così realistico, sembrava ridere sempre sinceramente.
Era un mimetico, si confondeva e si adattava ad ogni situazione, piangeva quando doveva, e sorrideva
nei momenti opportuni.
Faceva parte di quella piccola percentuale di pazienti che trattenevano inconsciamente il proprio
dolore, anche per decenni, e che un giorno avrebbero spezzato il filo della loro stabilità mentale,
commettendo delitti.
Per questo doveva stare lì, sotto la loro supervisione.
Quel suo insolito modo di parlare... è tutto ciò che ha potuto imparare dai libri. L'unico mondo con
cui è entrato in contatto.
La televisione era permessa solo due volte la settimana, anche se quella sarebbe dovuta essere una
clinica moderna, essendo edificata da appena tre anni.
Eppure sembrava di essere tornati indietro nel tempo; non c'era niente che differenziasse questa
struttura da qualsiasi altra associazione di sostegno pubblico.
Alberto trascorreva il giorno chino sui libri, avido di sapienza.
Era giunto il momento delle medicine.
Prese la pillola dalla mano delicata dell'infermiera e la mandò giù con l'acqua sotto lo sguardo severo
della donna, mostrandole poi la bocca per dimostrare che aveva ingoiato.
Salì sul letto e strinse il lapislazzulo sotto il cuscino. Lo manteneva in vita. Quella era la speranza della
vita fuori dall'istituto.
La frattura di un osso è un trauma osseo: la zona colpita mostra effettivamente una reazione
ritardataria al dolore.
Accade lo stesso fenomeno con i pazienti che hanno subito una forte rottura dell'equilibrio; essi,
infatti, reagiscono all'avvenimento dopo mesi, o anche anni.
Incredibile come si possa fingere così bene da non potersi riconoscere, sperando allo stesso tempo
che qualcuno riesca a ritrovare la propria essenza.
Ma è una speranza vana, idilliaca, come le storielle nei libri.
Pregiudizi
- Guardami, per favore.- ripeté dolcemente al bambino che gli stava di fronte.
- Dove sono la tua mamma e il tuo papà?-
Il piccolo sembrava piuttosto sconcertato da quella domanda: continuava a guardarsi intorno con aria
disperata.
Stava annaspando. Sudava freddo.
Tante fitte lancinavano quel corpo indifeso mentre si contorceva sotto lo sguardo dell'uomo.
Roberto chiamò un'ambulanza e il 112.
Si sedette sulla poltrona alla fioca luce della candela...no, lui non possiede alcun oggetto del genere;
era la sua fantasia...
Forse sognava troppo... Immaginazione da scrittore.
Come se lavorare dodici ore il giorno gli concedesse del tempo da dedicare alla scrittura.
Altro che stacanovismo.
Produrre gomme da masticare dal grano è una delle prime cose che si apprendono alla Brancovini.
Come si può credere che tutti gli scrittori scrivano fino all'alba, fumando sigarette e inalando più
caffeina che acqua?
È questo che manipola i pensieri delle persone.
Scrittori che bevono fino a diventare esageratamente sbronzi.
Scrittori coinvolti in avventure realistiche quanto un drago volante.
È tutto così confuso.
Roberto. Che razza di nome mi hanno dato?
Ah già, i miei non sono scrittori: il nome non rispecchia e non è indice del mio carattere.
Cazzo.
Nessuna cosa gli andava per il giusto verso.
Eppure era lì, immobile. Non si teneva la testa tra le mani, né spaccava oggetti, come in quei dannati
libri.
Non usciva nel mezzo della notte.
Non correva come un forsennato ogni mattina, prima del lavoro.
Si sentiva inadeguato, ovunque egli andasse.
Questa sensazione sembrava scaturire dalla sua anima.
E la cosa più terribile era non poter lottare contro il suo tormentatore.
Si può sconfiggere il vuoto?
Indifferenza
Ogni volta che ci si apre con qualcuno si devono tenere in considerazione le varie conseguenze.
Le persone non si rendono conto delle difficoltà che si hanno quando bisogna confidarsi.
Circondarsi di individui tossici non farà altro che incrementare la quantità di veleno scorrente nei
meandri della mente.
Perché ognuno ha un lato cattivo; come dice Wulf Dorn ne "Il mio cuore cattivo".
Ma cosa porta all'indifferenza?
Cosa rende la vita così vuota?
Perché ci si stanca delle persone?
Il suo sguardo diventava sempre più vacuo, lasciando trasparire una nota stonata.
Mancavano 38 minuti all'intervallo. Gli avrebbe scritto. Voleva essere sincera; era passata una
settimana dall'ultima volta in cui si erano parlati.
C'era qualcosa che la bloccava ogni volta che una questione diventava più concreta del previsto.
Eppure lei si impegnava sempre per contrastarlo.
Perché doveva reagire così il suo inconscio?
"Scusami, sono solo un'apatica del cazzo"
False Ambizioni
Sono strana. Rovino sempre tutto. Non riesco ad essere costante in qualsiasi cosa io faccia.
A che serve essere così acculturata se poi non riesci a sentirti come una persona realizzata?
Perché si stava facendo questi dilemmi?
Sì grattò il cuoio capelluto ritrovandosi alcune tracce di forfora sotto le unghie; le raschiò via, e
persistette nello sgraffignare finché non vide la forfora diventare rosea, intrisa di sangue.
Altro che mordersi le labbra fino a farle sanguinare; questo era meglio e meno cliché.
Si distese sul divano impolverato, e con i cuscinetti sparsi sul pavimento.
Ah, il tempo in cui leggeva ancora su wattpad e scriveva poesie.
Le medie...che periodo di merda.
I bambini ricevevano 0,50€ ogni volta che compievano una buona azione o eseguivano gli ordini.
Si può dunque immaginare quanti soldi avesse tesaurizzato Alberto.
Lui era gentile con tutti, ed era riuscito a strappare un sorriso anche a Melania, la ragazza bulimica.
Il suo insistere l'aveva infastidita all'inizio, ma, una volta, mentre guardavano la televisione in sala
comune, il piccolo le si era avvicinato e aveva posato un bacio sui suoi zigomi paffuti, dicendole che
anche lui non riusciva a parlare con gli altri.
Nonostante questo, nessuno dei due raccontò all'altro di ciò che gli era accaduto, al contrario di
quanto ci si aspettasse.
Arrivato davanti ad una bancarella acquistò una fisarmonica a fiato dal metallo ingiallito e con incisa la
scritta "Fabiani".
Questa era un'altra speranza di una vita nel mondo esterno.
Quello strumento era usato, lo sapeva.
Ogni oggetto ha una propria storia.
La storia delle mani che lo hanno sfiorato, delle voci che lo hanno avvolto, degli eventi a cui ha
assistito.
Ogni oggetto ha una vita propria.
Gli utensili sono come le persone che vivono a vuoto.
Registrano suoni, sensazioni, odori, ma non riescono a riprodurli.
Berto incrociò le gambe sul letto e, dopo aver sciacquato in un primo momento la fisarmonica, provò
a soffiare dolcemente; uscirono solo strani stramazzi.
Si sorprese a ridere da solo e nascose il suo nuovo souvenir sotto al cuscino.
Scese dal letto, incuriosito da quella situazione insolita, e si appiattì contro il legno freddo,
appoggiando l'orecchio alla serratura.
- … presto. La maggior parte dei bambini finirà all'orfanotrofio. E chi se ne prenderà...-
Cos'è un orfanotrofio?
Le due persone si allontanarono a passi felpati, lasciando il piccolo Berto in subbuglio per quel
termine sconosciuto.
Doveva cercarla sul dizionario.
"Una struttura di accoglienza dove vengono allevati i bambini orfani e i minori senza famiglia"
Un'altra casa, quindi?
Alberto non aveva tempo per cercarla ora; doveva andare dallo psichiatra.
- Alberto, ciao. -
- Salve, dottor Schenagli. -
- Hai riflettuto su quello che abbiamo detto la scorsa volta? -
Il capo, il signor Marco Brancovini, era un uomo tozzo, brutale, ma con un grande cuore.
Aveva fondato l'azienda diciotto anni prima, nel '99, insieme al padre, Vincenzo, deceduto l'anno
precedente.
L'idea era nata quasi per caso, durante una riunione di famiglia.
Marco e Paola, la sorella maggiore, lavoravano in una pasticceria ed erano amanti dei dolci sin da
bambini.
Vincenzo, infatti, era proprietario di un negozio di dolciumi e, negli anni a seguire, aveva progettato di
estendere la sua proprietà acquistando il magazzino mal ridotto nella via opposta.
Non aveva tantissimi soldi e concluse l'affare per diecimila euro, con tutto l'entusiasmo da neofita per
la nuova valuta.
Cominciò a ristrutturare e a reclutare nuovi operai.
I macchinari costarono parecchio, e furono fatti diversi sacrifici per permettere all'attività di crescere.
Ed essa crebbe davvero, sfruttando loro ingenti somme di denaro e divenendo un marchio di fama
nazionale.
Il figlio aveva ereditato l'autorevolezza e l'umiltà del padre; non rimaneva in ufficio per più di
mezz'ora, tempo di regolare i conti, gli incassi e il costo delle materie.
Aveva bisogno di controllare il lavoro da vicino, sentendo la passione dei suoi dipendenti mentre
modellano i dolciumi... Vedere gli occhi dei bambini illuminarsi alla vista di quelle caramelle, come
accadeva a lui.
Roberto stava stendendo la pasta con un mattarello in legno di faggio quando venne colpito da una
fitta al ginocchio.
Trattenne il fiato, sfogando la sua sofferenza su ciò che aveva tra le mani.
Il dolore si dissolse lentamente, agonizzandolo per quasi un'ora.
Staccò dal lavoro alle 19 e attese l'autobus.
Timbrò l'abbonamento e si sedette su un sedile malconcio.
Entrò in cucina e trafficò un po' con padelle e pentole per cucinare un piatto di bucatini al sugo.
Attese che la portata fosse completamente fredda per poi cenare, ripensando all'arto dolente.
Si era fratturato la rotula in un incidente.
Nessuno chiedeva di lui, nessuno lo cercava.
Le uniche chiamate che riceveva erano quelle del gestore telefonico o dei venditori di Mediaset.
Si sentì così solo, pur essendo consapevole di essere lui l'unica ragione di questa solitudine.
Il bisogno d'affetto si faceva sentire di tanto in tanto, ma egli, come era solito fare, lo soffocava con la
sua razionalità.
Non era orgoglio.
Si trattava di una sua scelta.
Doveva allontanarsi per non danneggiare gli altri.
Nonostante ciò non si era vietato di avere qualche contatto umano; scambiava qualche parola con i
colleghi, pur non incrociandoli fuori dal lavoro.
Isolarsi completamente sarebbe stato un atteggiamento da idioti e ipocriti.
Aveva la netta sensazione che qualcosa sarebbe andato storto.
Temeva che quella cosa si sarebbe realizzata.
Non lo voleva.
No. No. NO!
- È incinta?-
- Dovrebbe esserlo... È trascorso abbastanza tempo... -
Il soggetto di quella conversazione stava origliando, nascosta in un luogo deforme, indefinito.
Uscì allo scoperto farfugliando qualcosa a proposito di un malore alla pancia.
L'uomo era scomparso.
La madre le annunciò che era incinta.
Mille espressioni attraversarono il viso della ragazza.
- Incinta? Tu... Lui l'ha fatto ancora? Tu lo sapevi? Lo sapevi? E non hai fatto niente? Mi avete
rovinato la vita! Incinta? Io? Cosa avete fatto?!- reagì, sputando le parole con disprezzo.
La madre rimase impassibile e si disperse in un dolce oblio.
Aprì gli occhi e rimase immobile, cercando di realizzare quanto era avvenuto.
Era uno di quei sogni intensi e difficili da comprendere.
L'angoscia si espandeva nel suo animo divorando ogni piccola parte razionale.
Quella visione onirica era così reale...
Perchè?
Era passato un anno e mezzo.
Perché stava ancora pensando al passato?
In fondo, sua madre le aveva consigliato di dimenticare.
Certo, come no.
Era autolesionismo psicologico. Perché?
Perché tutte a lei?
Era davvero una persona così orribile?
Non riusciva nemmeno a morire.
Ci aveva provato a dodici anni.
Quella che credeva sua amica aveva messo in giro la voce che lei stesse facendo la Blue Whale
Challenge, una sfida di tendenza in quel periodo.
Cominciarono tutti a chiamarla la " balena spiaggiata" e a insultarla per i taglietti.
Ci furono anche gli ipocriti che si preoccuparono per lei.
E lei, la più ipocrita di tutte, lo riferí alla preside e al coordinatore.
Essi lo comunicarono ai suoi genitori.
E cos'è successo?
Ne è uscita da sola: niente psicologo e nemmeno una parola da parte dei suoi.
Ed era cambiata da sola.
Finito l'ultimo anno delle medie lei cantò vittoria troppo presto.
La sua agonia cominciò il giorno del suo esame orale.
Le sue visite diventavano sempre più frequenti e lei non dormiva.
Solo quattro mesi dopo riuscì a porre fine a quella situazione.
Era alle superiori e aveva, finalmente, incontrato dei buoni compagni; non voleva rovinare niente.
Avrebbe finto che fosse tutto normale, e loro avrebbero abboccato.
Ciò che lei ignorava, nel frattempo, era la sua anima che perdeva frammenti ogni minuto.
Non era diventata una stronza acida come quelle merde stereotipate online.
Era rimasta la Yumna vivace, dolce, gentile e simpatica.
La ragazza piena di vita che aveva tentato il suicidio più volte.
La ragazza che coglieva le battute e sdrammatizzava sempre.
Nessuno aveva mai notato il macigno che si trascinava dietro.
Come sempre. Vuota.
- Credi sia facile vederti così e non poter fare niente, eh?-
Distolse lo sguardo dal ragazzo, mordicchiandosi le unghie.
- Ma a te che importa? Te l'avevo detto che non sono una brava persona.-
- Sì, lo sei. Smettila di contrastarmi solo per sentirti dire che sei fantastica.-
- Ah sì? Credi che io lo faccia per questo? Che io sia così… ipocrita? Ma tu cosa ne sai,
eh, cosa ne sai?-
- Cosa ne so… ahah… Me lo chiedi pure? Dopo tutto quanto?-
- La smetti di prendermi in giro? Non te l’ho mica chiesto io di starmi vicino. E sai
perché l’ho fatto? Proprio per questo; perché sapevo che me l’avresti rinfacciato!-
- Sono così spregevole per te? Cosa ti costa sfogarti eh? Per una volta smettila di
tenerti tutto dentro e parla, porca puttana!-
- Mi costa tutto! Non voglio che la gente pensi che io sia solo un problema! Anche
se… in effetti… lo sono. Però non si tratta solo di questo! E poi cosa dovrei dire?
Fammi capire.-
- Yumna…-
- Sì, grazie. Lo so come mi chiamo.-
- In verità avresti dovuto dire “Franco…” con tono esausto.-
La ragazza sorrise, involontariamente.
- Lo sai anche tu che non sono prevedibile.-
- Già… beh… allora?-
- Allora cosa?-
- Non mi dici niente?- disse accompagnando le parole con un’alzata di spalle, come per
incoraggiarla.
- Che ti devo dire? Sai praticamente tutto… -
- Non fare così…-
- Così come, scusa?-
- L’indifferente-
- Io? Indifferente? Ma quando mai!-
- Ma perché? Perché continui a insistere? Lo sai che non me ne andrò!-
- Senti, non mi va di parlare. Punto e basta.-
- Come vuoi... Però ricorda che quando tutti ti hanno lasciata io sono rimasto!-
- Me lo stai rinfacciando? Lo sai anche tu che posso stare benissimo anche da sola, se voglio.
Ciao.-
Perché?
Non ho paura della morte.
Perché era così difficile esprimersi con le persone?
Non riusciva a spiegare quello che stava prendendo posto dentro alla sua mente. I suoi sforzi erano
vani e, sinceramente, era anche stanca di parlare.
C’erano, però, quei momenti pieni di brio in cui lei amava dissolversi e la presenza di qualcuno al suo
fianco non le sarebbe stata sgradita.
Sapeva che era impossibile.
Nessuna persona, neanche quella più paziente del mondo, avrebbe sopportato i suoi cambiamenti, le
sue riflessioni e i suoi silenzi.
Perciò si limitava a simulare una falsa felicità… o una sorta di gaiezza leggera.
Il fatto è che era piena di pensieri contrastanti, un ossimoro vivente, incoerenza pura.
E se fosse successo adesso?
Come avrebbe potuto gestirlo?
Di cosa sarebbe stata capace?
Era in subbuglio per questi timori-purtroppo- fondati.
Ma era così irrazionale! Come potevano pretendere che lei gestisse una così grande cosa da sola?
A lei non dispiaceva fare le cose da sola; per niente.
Si fortificava con i commenti spregevoli che le rivolgevano, e con i loro rifiuti alle sue richieste.
Ora sapeva di poter riuscire qualunque cosa da sola.
Al suono della campana uscì dalla scuola e percorse i quindici minuti che la separavano dalla
stazione.
- Yumna ! – la chiamò l’amica.
- Aida! Come stai?-
- Bene, dai. Tu? Hai visto che questo sabato c’è la liberazione?-
- Sì, ma tipo…credo che passeranno alle nove da noi, se partono dal centro.-
- Credo di sì, al massimo ti scrivo e ti dico appena ci liberano.-
- Apposto, allora. Mm... novità?-
- Niente gita a Londra quest’anno.-
A Yumna non sfuggì il lieve sorriso che si era formato sul viso dell’amica. Decise di non approfondire
la questione, pur morendo dalla curiosità di saperne di più.
- Avevamo una versione di latino stamane.-
- E com’è andata? Era lunga?-
- Era di sedici fottutissime righe. Ah, e ce l’ha fatta fare in un’ora e mezza, con dieci gradi.-
- Ma è illegale! Dovevate uscire.-
- Esatto, dovevamo. Ma siamo al classico, non all’ Ipsia.-
Le due ragazze continuarono a scambiare due chiacchere anche sull’autobus finché Aida non fu
arrivata alla sua fermata.
Che bella giornata… Ci manca solo sta squintilinata di compiti di greco e matematica
Incertezza
Confusione. Indecisione.
Impossibilità di scelta.
Non sapeva cosa fare, cosa dire, come agire. Non sapeva più niente, cazzo. Perché la confondevano
così? Perché tutto questo?
Gli occhi le si illuminarono come quelli di un bambino davanti a un giocattolo.
La pioggia, il vento sferzante, le nubi che avvolgevano il cielo, rendendolo meno solo.
Erano gli unici elementi che riuscivano a strapparle un sorriso o una risata sonora.
Tutto il resto era vuoto. Banale. Superfluo. Inutile, come lei.
Anche esprimersi diventava uno sforzo immane in quei periodi.
E lei non capiva più niente. Aveva bisogno di parlare ma, allo stesso tempo, desiderava solo fuggire e
liberarsi dai pensieri.
Prese un tiro dalla cicca, bruciava. Sembrava che una ragnatela infuocata avesse trovato posto nella
sua trachea.
Faceva figo fumare? Non lo faceva per sentirsi superiore. In quel momento lei era solo indifferente e
gelida.
la peggior prigione è la mente umana.
Quanto era vera quella frase.
Ultimamente rispondeva solo a monosillabi; non sapeva cosa dire. O forse non voleva dire niente,
non aveva più voglia di distinguersi, di offrire spiegazioni e di prendere delle decisioni.
Non era meglio diventare come gli altri?
Vuota, vivace, spensierata.
Una breccia si apriva nel suo Io, presentando così la netta scissione fra le sue opinioni divergenti.
Colori spenti fluivano nelle sue vene, inondando il sangue con pensieri di veleno.
Si diresse verso la pista ciclabile, le cui strisce erano pressoché inesistenti.
I pensieri rimanevano intrappolati e a stento riuscivano a delinearsi.
Ma cosa la rendeva così?
Cos’aveva di sbagliato?
Tutti la vedevano come quella moderata, quando lei, invece, esagerava sempre.
Non le piaceva nulla; dai semplici oggetti alle persone.
Tutte le persone sembravano così gentili adesso... così tanto gentili da apparire falsi.
Quanta confusione!
CdghfbdsfjoAKOPFOOHOIS
CAAAAZZO
A che serve essere diversi se la gente vede sempre solo ciò che sceglie di vedere? Tanto vale
omologarsi e soddisfare gli altri.
Cosa la tratteneva dal farlo? La sua fottuta umanità, non riusciva ad essere un’ipocrita, falsa, con solo
aspetti positivi. Il suo problema era l’esser fin troppo sé stessa.
ANIMALE
Vorrei urlare. Potermi sfogare in qualche modo.
Non riesco a piangere