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Uno storico, un mugnaio, un libro.

Carlo Ginzburg, «Il formaggio e i vermi»,


1976-2002, a cura di A. Colonnello e A. Del Col, Edizioni Università di
Trieste, 2003, («Istituzioni e società. Studi, 3»), pp. 199.

«Pochi libri di storia diventano capolavori, e meno ancora restano


punti di riferimento culturale per il grande pubblico e continuano ad es-
sere discussi dagli specialisti per molto tempo»: con queste parole i due
curatori, Aldo Colonnello e Andrea Del Col, aprono l’introduzione di un
volume davvero inconsueto, per genesi e struttura, nel panorama storio-
grafico italiano. Un volume con una sua originalità e con una sua etero-
genea storia interna: originalità e variabilità strutturale che sono in qual-
che modo figlie dell’eccezionalità del loro stesso oggetto e cioè i venticin-
que anni dalla pubblicazione de Il formaggio e i vermi. Il cosmo di un mugnaio
del ‘500 di Carlo Ginzburg.
L’originalità della struttura rimanda, come si diceva, alla straordi-
narietà dell’evento critico che si andava a celebrare: un’iniziativa del tutto
inconsueta come del tutto inconsueto è stato il ruolo che le vicende di
Domenico Scandella, mugnaio friulano del ‘500, hanno avuto nella sto-
riografia internazionale di questo ultimo quarto di secolo. Sono stati così
riuniti materiali molto diversi che costituivano il risultato di una conver-
genza di interessi e di una riflessione a distanza di tempo sull’importanza
di quell’operazione storiografica: dalle relazioni presentate durante la riu-
nione annuale dell’American Historical Association nel gennaio del 2001,
ad alcune «letture diverse» che di quel libro hanno fatto Pietro Citati,
Piero Camporesi, Carlo Bernardini e Marcello Cini, fino ai profili che di
quel mugnaio e del suo storico hanno tracciato, attraverso saggi e intervi-
ste, storici giovani e meno giovani. Tra questi spicca quello letto, in occa-
sione dell’attribuzione della cittadinanza onoraria monterealina il 10 gen-
naio 1998, dal collega e amico di sempre Adriano Prosperi. E questo non
è tutto: vi sono, infatti, anche pagine di Ginzburg stesso, i ricordi del bi-
blioteciario di Montereale Valcellina e quelli di un allievo bolognese, un
dialogo con Vittorio Foa. Un assemblaggio di testi, dunque, che non se-
guono un canone saggistico ben definito: né la struttura della ricerca uni-
taria, né quella degli atti di convegno e neppure quella della miscellanea,
ma un «impasto di differenze» che, per certi aspetti, tutte queste tocca e
tiene insieme.
E saremmo tentati di dire che non poteva essere altrimenti. Alla
proteiforme fisionomia dell’intellettuale Carlo Ginzburg non si poteva
che dedicare un volume così eterodosso: storico, filologo, studioso di arte
e di letteratura, interessato alle culture dominanti e a quelle marginali,
lui che da tutto è stato incuriosito, lui che – come ricordava proprio
Adriano Prosperi nel suo nitido ritratto scientifico – è stato ed è inse-
gnante, ricercatore, caposcuola dell’avventura «microstorica», prima e più

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di ogni altra cosa è «uno specialista di differenze; differenze di cultura,
differenze di stile pittorico, differenze umane in genere e in specie».
Il risulato di questo volume che porta nel titolo stesso i segni di
un percorso molteplice Uno storico, un mugnaio, un libro è, dunque, stret-
tamente legato al suo soggetto, al suo ingombrante e indefinibile sogget-
to: è così che quegli elementi di originalità strutturale possono dare adito
anche a qualche disorganicità contenutistica. Ma questo si sa fa parte di
quell’imprevisto fisiologico presente in qualsiasi viaggio. E parlo di viag-
gio perché a quella metafora deve essere accostata la variegata storia intel-
letturale e scientifica di Carlo Ginzburg: se lo studioso è per sua defini-
zione un sedentario lo diventa ancor di più quando si muove – e si sa che i
curricula accademici richiedono coerenza nella ricerca – entro i confini
serrati di tematiche ben delineate. Ecco allora che Ginzburg non rientra
in quella definizione essendo lui un viaggiatore, un vagabondo della ri-
cerca che dai culti agrari è passato alla stregoneria, ai miti della fertilità,
per arrivare a Piero della Francesca, alle credenze di un mugnaio cinque-
centesco e, quindi, ai saggi fondamentali sul metodo indiziario e alle ri-
flessioni sul rapporto tra l’indagine giudiziaria e quella storica, con una
forte ricaduta sull’attualità politica, non senza intenti polemici e gravi
motivazioni morali e civili. Tratto unificante di questo viaggio il piacere
della ricerca, l’attenzione agli uomini nella singola ed irripetibile espe-
rienza terrena, alle loro mentalità, ai loro modi di pensare,
all’interpretazione che davano del mondo in cui si trovavano e si trovano a
vivere.
Carlo Ginzburg ermeneuta, dunque, inteso come interprete
dell’uomo e del suo rapporto con le cose e con le idee: ermeneuta attento
ai dettagli, agli indizi, ai segni minimi, quasi impercettibili lasciati dalle
tracce di voci lontane di secoli, di credenze, di miti e di riti che si sono
sedimentati nelle parole dei potenti, nelle parole del potere. Di qui
l’attenzione e lo scavo costante sulle parole del passato: quelle parole che
sole hanno la possibilità di coniugare, tenere insieme e aprire squarci sulla
storia degli Stati, sulla storia dei ceti dominanti, ma anche sulla storia
della gente comune, dei contadini, dei marginali. Quest’ultimo, tra i
molti, è forse il debito maggiore che la storiografia più recente deve paga-
re a Carlo Ginzburg.
Un volume di facile e utile lettura, nella sua variegata fisionomia,
che espone, tuttavia, il recensore o il presentatore al rischio di cadere nel
banale e nel risaputo: una banalità tanto più scontata quanto più sono
«universalmente» noti i temi e i problemi che offre alla discussione. Un
dato è sufficiente a confermare e sostenere questa convinzione: basti ri-
chiamare qualche cifra relativa alle lingue in cui sono tradotte alcune del-
le opere più significative dello studioso torinese di origine ebraica: I be-
nandanti in otto lingue, incluso il giapponese e il ceco; Il formaggio e i ver-
mi in venti lingue, incluso il coreano, il russo e l’estone; Miti, emblemi, spie
in dieci lingue e Storia notturna. Una decifrazione del sabba in nove lingue.

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Di questo ricco percorso storiografico e di ricerca il contributo
puntuale e problematico di Pavel Himl (Domenico Scandella e Carlo Ginz-
burg: la carriera di un mugnaio e del suo storico) offre un affresco che partendo
dall’opera maggiore arriva a disegnare l’importanza di Ginzburg nello
studio della cultura popolare, dei gruppi sociali, degli individui margina-
li e della circolazione culturale nell’ambito di una più vasta temperie sto-
riografica i cui modelli di confronto e di discussione erano rappresentati
dalle opere di Bachtin e di Le Roy Ladurie. L’approccio morfologico alla
storia e il costante riferimento alle fonti giudiziarie e inquisitoriali – i
verbali degli interrogatori – sono gli snodi nevralgici a parere di Himl
più originali della cifra storiografica ginzburghiana, con l’obiettivo di
mostrare il livello di reciproca incomprensione, le fratture e le profonde
differenze tra la cultura popolare autonoma dei benandanti e degli accusa-
ti di stregoneria e quella degli inquirenti, del cosiddetto potere costituito.
Non è stata sottaciuta, poi, la reazione critica suscitata dai lavori sulla
magia e sulla cultura popolare quali momenti di riflessione metodologica
che condussero Ginzburg, nel corso degli anni Ottanta, a focalizzare la
sua attenzione sui metodi della ricerca storica, sulla interpretazione delle
fonti e sul rapporto tra lo storico e il suo pubblico.
Lo storico e il suo pubblico, lo stile, la cura per una scrittura che
fosse leggibile sia dagli specialisti, sia da un più ampio bacino di lettori,
l’interesse per la corretta comprensione del significato di un testo sono al-
cuni degli elementi più qualificanti della militanza critica e storiografica
del nostro studioso. Su questi aspetti si sono soffermati nei loro saggi An-
ne Jacobson Schutte (Lo stile ne Il formaggio e i vermi) e Tony Molho (Ri-
flessioni sull’epistemologia di Ginzburg). La studiosa americana ha sottolinea-
to l’importanza della costruzione retorica e stilistica de Il formaggio e i ver-
mi per la creazione di un nuovo paradigma nella scrittura della storia, se-
condo quel modello che Lawrence Stone aveva definito «ritorno al raccon-
to»: una lingua che rispondeva, nello stesso tempo, al registro informale e
colloquiale, senza perdere la forza euristica ed espositiva delle monografie
scientifiche, una lingua fatta di una costruzione del periodo semplice e
lineare, con frasi brevi e interrogative. Una scelta stilistica innovativa e
dirompente che aveva il suo modello primitivo in quel capolavoro di me-
todo che era stato il libro Giochi di pazienza. Un seminario sul benificio di
Cristo del 1975, nel quale, con Adriano Prosperi, anziché ricorrere
all’esposizione canonica delle loro acquisizioni erano ricorsi al racconto
dei passi compiuti, insieme ai loro studenti, nel seguire una traccia di ri-
cerca, con le relative battute d’arresto e le successive ripartenze. Una gui-
da al lavoro dello storico, con le sue difficoltà, le sue soddisfazioni, il suo
farsi come work in progress sempre nuovo e imprevedibile. La strategia ul-
tima della scrittura e dello stile di Ginzburg è quella di far partecipare
attivamente il lettore al cammino stesso con cui la ricerca e il racconto
della ricerca si sono compiute, una scrittura, dunque, aperta e democrati-
ca.

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Tony Molho ha identificato, invece, il senso del lavoro di ricerca
dello storico di Menocchio con tre termini che rispondono ad altrettante
categorie interpretative di un’avventura intellettuale e dei suoi risultati:
epistemologia, etica, gioco. Si è poi soffermato sull’aspetto epistemologi-
co rilevando il rapporto a doppio filo, indistinguibile che ha legato Carlo
Ginzburg alla microstoria, non senza rilevare la ristrettezza di questo ac-
costamento per comprendere appieno la portata di un’esperienza storio-
grafica che da sola è riuscita ad affrontare questioni cruciali e difficili co-
me quelle relative alla conoscenza e alla posizione della scrittura storica
nella interpretazione delle vicende umane. A parere di Molho la posta in
gioco e gli obiettivi di Ginzburg non sono stati né la microstoria, se non
come mezzo per ottenere un fine, né le relazioni tra cultura alta e bassa,
ma semmai quelli di ridiscutere la dimensione narrativa e le sue possibili-
tà conoscitive in storiografia, attraverso un’attenta declinazione delle cop-
pie concettuali di «realtà/possibilità, vero/verosimile, prove/possibilità,
storici/metodologi»; il suo rovello, in altre parole, sarebbe stato quello di
sciogliere un nodo culturale e metodologico dalle vaste implicazioni teo-
riche e pratiche, quello di arrivare a concepire modelli che potessero con-
sentire agli storici di trovare un via più sicura nella ricerca della loro veri-
tà e che non fosse sostanziata dall’inveterata antitesi tra razionalismo e an-
tirazionalismo, tra positivismo e il relativismo del linguistic turn. Da que-
ste esigenze l’allargamento dei confini disciplinari, dell’attenzione per
soggetti apparentemente irrilevanti, dell’uso di strumenti di osservazione
e di scale d’indagine diverse da quelle consuete. Di qui gli accostamenti
antinomici e paralleli, operati da Molho, tra Ginzburg e Braudel e tra
Ginzburg e Benjamin.
Al rapporto con le fonti e alle molteplici possibilità di lettura of-
ferte da Il formaggio e i vermi sono rivolti gli interventi di John Tedeschi
(Carlo Ginzburg e le fonti) e di Edward Muir (Modi diversi di leggere Il for-
maggio e i vermi). Un libro quello dedicato a Menocchio a detta di Muir
che, incentrato sulle modalità con cui questi leggeva e interpretava i testi,
ha avuto la capacità straordinaria di divenire, celebrando Bachtin e Rabe-
lais, un paradigma della mancanza di regole all’incrocio fra cultura alta e
cultura bassa; un libro, allo stesso tempo, sull’amore per la lettura; un li-
bro che ha avuto il pregio di rendere la cosmologia di un mugnaio presen-
te nelle discussioni accademiche al pari della teologia di Martin Lutero;
un libro che, infine, ha avuto la capacità di conquistare spazi molto più
ampi di quelli generalmente riservati alla produzione saggistica accade-
mica, fino a porsi come un vero e proprio oggetto di culto in ambiti an-
che molto diversi come la letteratura, il teatro, la riscoperta folclorica del-
la cultura e della mentalità contadine.
Interventi congressuali, ricordi, commemorazioni, interviste sono
le parti anche molto diverse di un volume che ha il pregio importante,
pur tra qualche caduta strutturale, di presentare a tutto tondo uno storico
complesso come Carlo Ginzburg e la sua opera se non maggiore, almeno

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più nota. L’accosatamento di storici italiani e statunitensi, oltre a rivelare
il ponte accademico che ha segnato la carriera universitaria dello studioso,
sono la conferma più evidente della «globalità» scientifica di un metodo
che non ha ancora esaurito la sua forza innovativa, la sua portata critica e
la sua spinta propulsiva per nuove acquisizioni e nuove ricerche: storici,
antrolopologi, sociologi della cultura non potranno che continuare a con-
frontarsi con chi come Ginzburg ha insegnato che anche una sola testi-
monianza può essere determinante per scoprire culture cancellate, cesure
repentine, abissi mutevoli in quella superficie ingannevole che è il passa-
to.

Giampaolo Francesconi

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