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| 2019
Alessandro Pizzorno, classico contemporaneo tra Hobbes e Durkheim
teoria e ricerca / Alessandro Pizzorno, classico contemporaneo tra Hobbes e
Durkheim

Introduzione allo studio della partecipazione politica


(1966)
An introduction to the study of political participation [1966]
Alessandro Pizzorno
p. 17-60
https://doi.org/10.4000/qds.2487
Abstract | Piano | Testo | Note | Citazione | Autore
Abstract

The indicators currently employed in research on politicai participation show that this concept is
usually restricted to a certain kind of participation. This is probably due to the fact that these
studies are framed as answers to the problem of consensus. But participation does necessarily
identify with consensus or dissent. On the contrary the modern problem of participation originates
with the autonomous rise of the civil society and the transposition on the political plane of its own
conflicts. Participation may become then the product of the effort to overthrow or maintain the
system of inequalities of the civil society. These premises lead us to take into consideration a non
govenwnental dimension of political participation. The American political science has been the first
to get rid of the excessively narrow concept of state. Now, however, the notion of political system
appears to impose again to the political activity limits that do not allow to account for the
universalistic elements it contains.
It seems therefore more convenient to view the political acrion – in the modern world – as specific
of the two kinds of solidarity grown from the formation of the Nation-state and from the class
struggle. This subdivision corresponds also to the two major models with which the conditions of
political participation have been explaned: namely the model of class consciusness and the one
definable as «center-periphery». Each of these models accounts for certain facts only. If we
analyse them, however, they seem to contain a common principle, that we could express with the
proposition that participation is possible only within certain «areas of equality». More specific
propositions can in turn be formulated, when different types of participation are taken into
consideration. By crossclassifying the two dimensions of (1) statual-extra statual, and (2)
prevailing private or political solidarity, four types are proposed: political professionalism, civic
participation, social movements and subcultures. Finally the data from recent reserches are
examined, with a particular effort to delineate some peculiarities of the Italian situation. Notable in
it the relevance of subcultural participation and of the residual social movements and the lesser
importance of civic participation.
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Piano

1. Lo sviluppo storico del problema della partecipazione politica


2. La disputa sui limiti della politica
3. Una definizione sistematica
4. Le «aree di uguaglianza»
5. Il modello della coscienza di classe
6. Il modello della «centralità»
7. Movimenti sociali e partecipazione subculturale
8. Conclusioni e tipologia
9. I dati italiani
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1Consideriamo un insieme di comportamenti, indicante ognuno un certo grado di partecipazione
politica, o di coinvolgimento nella vita politica, in un ordine che approssimativamente va da un
grado minimo a un grado massimo di partecipazione:

1. Esporsi a sollecitazioni politiche


2. Votare
3. Avviare una discussione politica
4. Cercar di convincere un altro a votare in un certo modo
5. Portare un distintivo politico
6. Avere contatti con un funzionario o con un dirigente politico
7. Versare offerte in denaro a un partito o a un candidato
8. Partecipare a un comizio o a un’assemblea politica
9. Contribuire con il proprio tempo a una campagna politica
10. Diventare membro attivo di un partito politico
11. Partecipare a riunioni in cui si prendano decisioni politiche
12. Sollecitare contributi in denaro per cause politiche
13. Diventare candidato a una carica elettiva
14. Occupare cariche pubbliche o di partito.
 1 L. W. MILBRATH, Political Participation, Chicago, 1965, p. 18. Questo libro è un utilissimo invent (...)

2L’elenco è stato composto da Lester Milbrath 1 e riassume gli indicatori di partecipazione politica
usati in quasi tutte le ricerche compiute finora su questo tema. È quindi una buona piattaforma di
osservazione per orientarci su cosa si intende per partecipazione politica nel lavoro concreto di
ricerca. Si tratta naturalmente di un elenco di comportamenti che hanno in buona parte un
significato particolare nella cultura politica americana, anche quando esistono altrove (per esempio:
portare un distintivo o bottone elettorale; dare o sollecitare un contributo in denaro per un
candidato). In effetti le ricerche sulla partecipazione politica sono state finora in gran parte
americane. Date le caratteristiche della vita politica americana, poi, quasi tutti quegli indicatori
possono ritenersi attinenti al processo elettorale. Uno solo, «aver contatti con un funzionario o un
dirigente politico», sta a rappresentare, piuttosto genericamente, quella attività politica che è forse
la prevalente in tempi normali sia negli Stati Uniti che altrove, cioè la manifestazione di bisogni,
della domanda, delle pressioni della società nei confronti della organizzazione politica; e che include
a sua volta una gamma di fenomeni che vanno dal sistema clientelistico di un piccolo paese,
all’azione di gruppi di pressione a livello burocratico e ministeriale o parlamentare; all’azione
sull’opinione pubblica e sulla classe politica delle grandi associazioni funzionali di portata nazionale
o internazionale, e simili.

3Poniamoci ora tre problemi: (a) Come fare per compilare una lista di indicatori valida per
condizioni politiche e sociali differenti da quelle cui si riferisce la lista di Milbrath? (b) Supponiamo
di trovarci di fronte, nella situazione americana o in altre diverse, a fenomeni non compresi nella
lista, ma, per qualche ragione, affini a quelli, o aventi un certo sapore politico; per esempio, la
partecipazione a uno sciopero; a una manifestazione di piazza per protestare contro le cattive
condizioni di uno slum; una telefonata del presidente di una grande industria automobilistica al
Ministro del bilancio (è vero: «contatto con un uomo politico»!) per dissuaderlo dall’alzare il prezzo
della benzina; la partecipazione a una riunione di industriali per decidere se trasferire all’estero
alcune centinaia di miliardi, o piuttosto chiudere alcuni stabilimenti, allo scopo di ostacolare una
certa linea di politica economica governativa: come decidere se includerli o no tra i fatti di
partecipazione politica? (c) Il problema precedente, cioè se includere o no certi fatti fra quelli di
partecipazione politica, e la stessa necessità di una lista di indicatori di questo termine, non
sorgerebbero se non fosse implicito che chiamare con uno stesso termine una serie di fatti significa
assumere che essi hanno qualche proprietà in comune, e, implicitamente, che esistono dei fattori
(o condizioni) che agiscono su di essi nel loro insieme. Ne deriva il terzo problema che è: come
andare alla scoperta delle condizioni che influiscono sui modi di partecipazione politica?

 2 È interessante notare che Milbrath classifica in tre gruppi i fattori con cui finora si è cercato (...)

4La risposta ai tre problemi può essere data costruendo un concetto di partecipazione politica che
indichi con quale sistema di variabili va messo in rapporto il fenomeno che interessa. Per formarsi
questo concetto occorre anzitutto sapere perché e come ci si è posti il problema della
partecipazione politica. Perché, infatti, la lista di Milbrath dà tanta importanza al processo
elettorale? E perché, inoltre, quasi tutti i fenomeni da osservare sono indicati in modo da
permettere una misurazione della intensità di impegno, di coinvolgimento, della personalità
(«avviare una discussione...», «contribuire con il proprio tempo...», «esporsi a stimoli...», «portare
un distintivo...» ecc.), a scapito del peso degli effetti oggettivi, di un certo atto di partecipazione?
Perché al di sotto del lavoro di ricerca che ha usato questi indicatori, stavano essenzialmente il
problema del consenso al sistema politico, e il problema della funzione che ha l’attività pubblica per
l’integrazione della personalità (o per la definizione di una «personalità democratica»). L’uno e
l’altro sono problemi di integrazione a livello della società e a livello della personalità, e si collocano
a quel punto critico di giuntura tra sistema politico e sistema della personalità in cui certi processi
del primo diventano funzionali all’integrazione del secondo e viceversa 2.

5Ma il problema del consenso e quello dell’integrazione della personalità non sono i soli problemi
che muovono allo studio della partecipazione politica. Come primo compito di questo articolo mi
propongo appunto di mostrare che esiste almeno un’altra dimensione essenziale da prendere in
considerazione. Allo stesso tempo spero di mostrare che la consapevolezza dei termini storici del
sorgere e svilupparsi di un certo problema è indispensabile alla costruzione degli strumenti
concettuali (definizioni, tipologie, ipotesi) per risolverlo empiricamente.

1. Lo sviluppo storico del problema della


partecipazione politica
6Il problema della partecipazione politica è legato al sorgere dell’idea di sovranità popolare. Più
tecnicamente possiamo dire che esso va riportato al passaggio da rappresentanza di mandato a
rappresentanza libera. Nello Stato pre-rivoluzionario, parlare di partecipazione politica non ha
ancora un reale significato; infatti, come aveva ben notato Tocqueville, la corrispondenza fra
posizione sociale e posizione politica è praticamente perfetta. I gruppi sociali, i «corpi»,
sono rappresentati presso lo Stato, i loro membri non vi partecipano. Soli partecipano, ed è una
partecipazione automatica, i pari del Regno. All’interno di ogni gruppo, poi, un certo numero di
notabili si può dire che partecipi al governo di esso (così, per esempio, in una città), e sempre in
maniera praticamente automatica, cioè in funzione diretta della posizione goduta nella società
civile; mentre corpi inferiori (compagnie, comunità, corporazioni) a loro volta sono presenti per
rappresentanza, che è sempre di mandato. E così via.

 3 Cfr. S. ROKKAN, «Mass Suffrage, Secret Voting and Political Participation», Archives Européennes d  (...)

7Il punto da ricordare è la corrispondenza, tendenzialmente totale, fra posizione sociale e posizione
politica; e quindi la partecipazione automatica, a diversi livelli, dai pari del Regno ai borghesi di
provincia, che appare come una componente dei diritti attribuiti a un certo status sociale. La
partecipazione politica diventa fenomeno significativo e incomincia a «fare problema» quando tale
corrispondenza automatica cessa. Ciò avviene per due processi di origine opposta, ma convergenti:
per una rivendicazione dal basso, popolare, di allargamento dei diritti politici, da una parte;
dall’altra, perché i gruppi che sono al potere nello Stato cercano di rafforzarsi acquisendo alleanze
con le nuove parti popolari e rivestendosi di nuovi fondamenti di legittimità 3. Queste due
componenti del processo di allargamento della partecipazione vanno tenute presenti, non solo
perché esse continuano a caratterizzarla in diverse fasi – dall’alleanza della monarchia con la
borghesia per abbassare i privilegi della nobiltà, fino all’allargamento del suffragio ad opera di
governi conservatori – ma anche perché in esse hanno radici due elementi importanti della
partecipazione politica contemporanea. Una di queste è la formazione di una classe politica
professionale. Weber ha mostrato come il sorgere dei politici di professione – di volta in volta
letterati, cortigiani, gentry, giuristi o avvocati – sia stato voluto dai principi per avere uno
strumento stabile di lotta contro i ceti. Al limite, questa classe si stacca da ogni responsabilità di
rappresentanza e appare responsabile solo di fronte al sovrano. Le monarchie costituzionali, in cui
il Governo, a differenza che nelle monarchie parlamentari, non è responsabile di fronte al
Parlamento, offrono un esempio quasi puro dell’esistenza visibile e istituzionalizzata di una classe
politica separata di questo tipo.

 4 Tale rivendicazione era implicita da sempre nell’atteggiamento del Terzo Stato di fronte alla poli (...)

8L’altra caratteristica, connessa all’allargamento delle rivendicazioni dal basso, appare più
complessa, e in un certo modo contraddittoria. Rivendicare un allargamento della partecipazione
significa rivendicare un diritto dei privati cittadini ad accedere, in quanto tali, alla sfera politica, a
partecipare cioè al formarsi delle decisioni che vincolano la comunità nazionale. Ciò comporta che il
privato cittadino partecipi alla politica con la sua identità privata, cioè con il peso di proprietà,
prestigio, capacità di mobilitare risorse, e, insomma, con la forza che gli compete in virtù di una
certa sua posizione privata 4. Ogni individuo viene a partecipare, almeno potenzialmente, con il
coefficiente di differenziazione e di disuguaglianza (per non usare la parola «privilegio», che
avrebbe troppo sapore di ancien régime) che caratterizza la sua posizione nel sistema di interessi
privati.
 5 L’attribuzione di progressista alla lotta per la costituzione e l’allargamento del civil service ( (...)

9L’allargamento della partecipazione voluta dall’alto aveva in qualche modo conseguenze


ugualitarie; anche se naturalmente l’uguaglianza che supponeva era fra «sudditi», e la
disuguaglianza strutturale implicita restava quella fra l’élite politica e i sudditi. La
rivendicazione ugualitaria dal basso comportava paradossalmente conseguenze discriminanti nella
misura in cui favoriva il cittadino che partecipava alla politica con gli attributi e le risorse della sua
posizione di forza privata. L’avventura jacksoniana nella politica americana può essere presa come
emblema di simile contraddizione. Il «sistema delle spoglie» esprime infatti, all’inizio, una logica
autenticamente democratica: tutti i cittadini hanno diritto e capacità di governare la comunità;
quindi non ha ragione di esistere nessun professionista della politica, nessun professionista del
«governo sugli altri», quindi nessuna classe politica, nessuna burocrazia, nessuna carriera
pubblica: ogni volta che un partito diverso dal precedente vince le elezioni, tutte le cariche
pubbliche debbono cambiare di titolare. Nella monarchia costituzionale il caso è opposto: ivi la
classe politica è separata, autogenerantesi e potenzialmente permanente. Qui la rivendicazione dei
progressisti continuerà a proporre l’aumento delle cariche elettive e l’allargamento del loro potere;
negli Stati Uniti la lotta dei progressisti sarà per la costituzione di una carriera pubblica
permanente, indipendente dall’arbitrio dei titolari delle cariche elettive 5.

 6 Che ci fosse una logica «espansiva» presente sin dai primi allargamenti del suffragio è dimostrato (...)

 7 Art. cit., p. 133.

10Come viene risolta questa contraddizione? Vediamo innanzitutto cosa comportava la logica
ugualitaria implicita nell’allargamento del suffragio 6. L’esercizio del voto uguale per tutti svincolava
ogni individuo dalla struttura di disuguaglianze proprie della società civile. Si costituiva, in tal
modo, dice Rokkan, il ruolo del cittadino come unità, in rapporto diretto con lo Stato 7. A ciò del
resto contribuiva non soltanto l’uguaglianza del suffragio, ma anche l’adozione del voto segreto,
che permetteva di votare al riparo da ogni controllo sociale e dalle obbligazioni della società civile.
Bastava questo a mettere in scacco il principio dell’intervento del «privato» nella politica, cioè la
possibilità apertasi per la borghesia di fare politica con tutta la forza delle sue posizioni acquisite
nel sistema civile di disuguaglianze? La risposta vien data con l’aprirsi o rafforzarsi di un nuovo
canale di penetrazione del «privato» nella politica, col formarsi di un nuovo strumento di presenza,
di pressione, di imposizione degli interessi privati: è quello che possiamo chiamare sinteticamente
lo strumento associativo-organizzativo, cioè l’insieme di gruppi, di associazioni, di organizzazioni
che aggregano gli interessi privati e li esprimono politicamente. Questo fenomeno permette che
sulla scena politica si ristabilisca il peso delle forze, quindi delle disuguaglianze della struttura
sociale. Ma gli effetti non sono a senso unico: acquisendo un modo di espressione politica, gli
interessi privati adottano anche una nuova dimensione aggregativa, un nuovo terreno di confronto,
quindi nuovi criteri di valutazione reciproca delle posizioni relative (e ciò vuole dire nuovi valori), e
naturalmente nuove possibilità di modificare le posizioni di forza precostituite, cioè così di
sormontare svantaggi come di ribadire e radicare privilegi.

11I movimenti sociali e i partiti sono l’espressione maggiore di questo affermarsi


dell’organizzazione privata nella politica e della sua ambivalenza.

12I movimenti sociali sono caratterizzati dall’essere, almeno all’inizio, del tutto esterni alla società
politica esistente, e fuori quindi dallo stesso gioco parlamentare. Essi si propongono come
riformatori della stessa società civile, e non solo dello Stato, che spesso, almeno nella forma
vigente, tendono a negare. Nella loro specificità essi sono instabili; un «movimento» è veramente
tale solo agli inizi, o per poco. Quando hanno scopi specifici si estinguono dopo averli raggiunti (si
pensi al movimento femminista, a quello proibizionista, ecc.). Nei casi più rilevanti (movimenti
religioso-civili e movimenti di classe) si trasformano in un tipo speciale di partito, quello che il
Duverger chiama «esterno» (esterno cioè alla società politica), o di «movimento», il quale appare
verso la fine del secolo scorso e contribuisce a formare i moderni partiti di massa.

 8 Sono d’accordo con G. SARTORI (Partiti e sistemi di partito, Corso di Scienza politica, Firenze, 1 (...)
13I partiti hanno una lunga storia che li porta dalla loro prima forma di partiti di notabili a quella di
partiti organizzati di massa8. Come partiti di notabili essi non sono altro che la «corte» politica dei
notabili borghesi che hanno avuto accesso allo Stato. Sono partiti «interni» alla società politica, e
hanno solo saltuari rapporti con la società civile (in genere al momento delle elezioni). Riflettono
una situazione in cui gli interessi e le posizioni private sono presenti in quanto tali, più o meno
direttamente, con le loro risorse particolari, sulla scena politica, e il partito (solo genericamente del
resto lo si può chiamare tale, esso è piuttosto clientela) non fa che accodarsi e essere al servizio di
questa o quella posizione privata. Quando incominciano a organizzare delle masse (in occasione dei
successivi allargamenti del suffragio nel secolo scorso) essi riflettono allargamenti potenziali della
partecipazione, e insieme riflettono una situazione in cui l’organizzazione privata in vista della lotta
politica diventa permanente e – in quanto organizzazione – costitutiva della società politica stessa,
non più mera appendice di preesistenti posizioni private. Alla classe politica permanente ma
dilettante (che viveva per la politica ma non di politica, come diceva Weber), selezionata per
cooptazione statale o grazie a vocazioni personali che erano possibili in virtù delle risorse di ceto,
ma svincolata, almeno in linea di principio, da ogni posizione extrapolitica, si sovrappone la classe
politica professionale, che fonda le sue radici e la sua legittimità nella rappresentanza di
posizioni civili, ma che assume una sua specializzazione astratta da ogni rappresentanza (in ciò
ripetendo quanto era vero per la classe politica di origine assolutistica). Questa specializzazione è
fondata essenzialmente sul fatto organizzativo, sull’esperienza che se ne acquisisce, sulla selezione
che grazie ad esso si realizza, e soprattutto sulla costituzione di «capitali di fiducia» che nei
rapporti organizzativi si accumulano. Queste sono le basi della nuova classe politica, della sua
relativa autonomia e della sua legittimazione tecnica: si dimostra di essere capaci a governare lo
Stato nel successo che si ha organizzando una parte politica.

14Ma oltre a fare emergere una nuova classe politica professionale, l’organizzazione di massa –
partito o movimento – comporta un’altra conseguenza permanente: essa tende a diventare una
struttura fine a sé stessa; non solo, quindi, strumento di partecipazione, ma oggetto, fine, della
partecipazione stessa. La partecipazione all’organizzazione (prima ancora
che attraverso  l’organizzazione) si pone come una qualità distinta dell’azione politica e diventa, al
limite, concretamente separabile e isolabile come «tipo» distinto. Si trovano qui le radici di due
fenomeni importanti oggi: quello della burocratizzazione, cioè quello dell’azione politica che ha per
solo fine la sopravvivenza dell’apparato organizzativo in quanto tale, anche nell’abdicazione dei fini
politici originari; e quello della subcultura politica, cioè della partecipazione associativa in organismi
politici di base, che diventa ripetizione di relazioni sociali chiuse (nel senso weberiano), espressione
di un sentimento di appartenenza e non di una prospettiva di intervento sulle strutture politiche.
Ma di questo riprenderò l’analisi più avanti.

15Riassumendo la vicenda di questo alternarsi di processi potenzialmente ugualitari, e di processi


di ristrutturazione delle disuguaglianze, diremo: alla potenzialità ugualitaria degli allargamenti del
suffragio elettorale risponde l’organizzarsi politico degli interessi privati e quindi il riaffermarsi nella
società politica del sistema di disuguaglianza della società civile; ma questo stesso momento
contiene a sua volta una componente ugualitaria, presente sia nell’azione delle organizzazioni che
mirano a correggere con strumenti politici la struttura delle disuguaglianze, sia nel fatto stesso
dell’organizzarsi che è, agli inizi, un associarsi tra eguali. Da una parte burocratizzandosi e dall’altra
relegando gli strati di base in isole subculturali, il fatto organizzativo a sua volta fissa e cristallizza
nuove disuguaglianze.

16Portando il sistema degli interessi privati nella sfera dello Stato, la rivoluzione borghese vi aveva
portato la lotta di classe. La lotta di classe nasce fuori dallo Stato contrapponendo gruppi che si
identificano in base a categorie della società civile: proprietari, capitalisti, operai, contadini, ecc.
Essa inoltre contiene in sé alla sua origine l’aspirazione a un conflitto rivoluzionario universale quasi
non influenzato dalla realtà degli stati nazionali. È bene tenere presente questa origine e questa
qualità extra-statale (extra-nazionale, extra-territoriale) della lotta di classe, perché è essenziale
nel nostro discorso. Essa è in parte contingente, legata cioè a precise circostanze storiche; in parte
costituisce una caratteristica permanente, che sopravvive all’attenuazione e all’istituzionalizzazione
della lotta di classe all’interno degli ordinamenti statali, e che permea di sé, in misura maggiore o
minore, tutta la lotta politica.

17Un elemento storicamente contingente era la particolare debolezza dello Stato nel momento in
cui sorgono i contrasti di classe moderni fra capitalisti e proletari; non ancora del tutto organizzato,
legato a un’istituzione in via di ritirarsi come la monarchia, esso aveva di fronte a sé una borghesia
vigorosa, ancora giovane ma in espansione su scala mondiale, e più internazionale (perché legata
ancora in buona parte al commercio mondiale) di quanto sarà poi l’egemonica classe borghese
fondata sull’industria. L’espansione dell’industria aiuterà infatti a nazionalizzare sia la borghesia che
il proletariato. Questo agli inizi era internazionale perché non aveva nazione, era fuori dello Stato,
moralmente e, in un certo senso, istituzionalmente (suffragio, ecc.). È solo quando le borghesie
nazionali si scontrano, nella loro espansione, con le altre borghesie nazionali (e, sostanzialmente,
quando le borghesie britannica e francese si trovano di fronte i nuovi capitalismi americani e
tedesco, nei primi decenni della seconda metà del secolo scorso, e ne nasce l’imperialismo), che
ognuna di esse si preoccupa di acquisire i servizi, non meramente polizieschi, dello Stato; e che si
preoccupa, dato l’aumento di forza degli operai, e il maggior bisogno di collaborazione che essa ne
prova, di attenuare e istituzionalizzare in canali normativi, e quindi di nazionalizzare, la lotta di
classe. La definitiva nazionalizzazione avverrà poi con la prima guerra mondiale.

 9 Solo del sistema economico capitalista o anche di quello socialista? Secondo la teoria tradizional (...)

18Ma la lotta di classe ha apportato alla lotta politica moderna un elemento universalistico che
tuttora la caratterizza. Riprendiamo il discorso al punto in cui avevamo visto che l’allargamento
della partecipazione si presentava come contraddittorio, perché conteneva una potenzialità
ugualitaria e insieme una riaffermazione di privilegi privati: la lotta di classe costituisce una delle
alternative suscitate da questa potenziale ma contraddetta uguaglianza implicita nell’allargamento
della partecipazione. Infatti, di fronte all’uguaglianza formale costitutiva dello Stato a sovranità
popolare, e alla disuguaglianza di fatto per la penetrazione delle strutture civili in quelle politiche, si
proponevano, a chi non aveva accesso al potere, due vie d’azione: o giocare entro le regole
politiche per estrarre le conseguenze della loro potenzialità egualitaria (così la lotta politica
parlamentare); o agire all’interno della struttura di disuguaglianza per rovesciarla e infrangerla: e
questa è l’alternativa della lotta di classe. Ma un sistema di disuguaglianze si fonda su certi valori
condivisi che permettono di misurare e dare un prezzo a ciò che è più  e ciò che è meno, cioè alle
posizioni disuguali. Questi valori non sono specifici di uno Stato, di un territorio o di una nazione:
nel mondo moderno essi sono costitutivi del sistema economico e si pongono come universali 9.
Proporsi con la lotta politica di rovesciare questo sistema significa dare alla lotta politica significato
universale.

19L’universalità della lotta di classe è quindi attribuibile fondamentalmente al fatto che essa si
svolge tra gruppi che vengono definiti da categorie inerenti a un sistema extra-statale, e che quindi
si misurano su valori non propri a una certa cultura nazionalmente o territorialmente definita, bensì
di portata universale. Questo corrisponde al legato storico che la lotta di classe aveva ricevuto
dall’ideologia della borghesia rivoluzionaria e dalla concezione illuministica dell’uomo, e in nome
della quale la borghesia aveva reclamato il potere. Questo legato storico, del resto, conteneva una
contraddizione analoga a quella che abbiamo rilevato nel fenomeno dell’estensione della
cittadinanza: esso comportava un sistema di valori cui spettava il compito sia di presupporre una
potenzialità di uguaglianza universale, sia di misurare le disuguaglianze delle posizioni particolari,
le disuguaglianze «private». L’ideologia di classe sorge da questa contraddizione per negarla.

 10 Cfr. T. H. MARSHALL, Class, Citizenship, and Social Development,  New York, 1965, e R. BENDIX, Nati  (...)

 11 Cfr. R. BENDIX, op. cit., pp. 66-67.

20Quanto ho detto finora dà forse al fenomeno e al termine di lotta di classe un significato più
ampio di quanto spesso si sia disposti a attribuirgli. La tendenza recente vede piuttosto nella lotta
di classe un’impresa sin dagli inizi iscritta in un quadro nazionale, volta essenzialmente al solo
obiettivo di ottenere, per la classe operaia, diritto di cittadinanza nella comunità nazionale. Dalle
affermazioni semplificatrici di un Croce alle raffinate analisi di un T. H. Marshall o di un Bendix 10,
tutta una serie di interpretazioni sono state proposte, che hanno il vantaggio, nel riesaminare certi
sviluppi storici, di essere in grado di prevedere ex-post la caduta o la istituzionalizzazione della
lotta di classe nelle società industrialmente avanzate, dandone le ragioni. In realtà, tali
interpretazioni non mi sembrano soddisfacenti né per spiegare certi aspetti delle prime fasi della
lotta di classe, né per prevedere certe componenti essenziali della politica contemporanea.
L’alternativa si può formulare così: è stata la lotta di classe semplicemente una fase nella
progressiva acquisizione della cittadinanza e nel progressivo allargamento della partecipazione
politica; o essa è stata anche una lotta fra gruppi fondati su categorie universali – non limitate e
definite da ordinamenti territoriali – e portatori quindi di valori che si proponevano universali? La
prima ipotesi è vera se è vero che le rivendicazioni operaie concernevano il «riconoscimento» da
parte degli altri (della borghesia e dello Stato) di certi diritti «naturali», come il diritto alla
sussistenza, il diritto del lavoro al godimento dell’intero prodotto, e il diritto al lavoro per ogni
individuo abile11. Una volta ottenuto il riconoscimento di questi diritti – o di equivalenti –, una
volta cioè ottenuta piena cittadinanza civile, politica e sociale nello stato, le rivendicazioni
generalizzate cessano. La seconda ipotesi è vera, solo se la lotta di classe non
concerneva soltanto la necessità di «riconoscimenti» giuridici, politici o sociali per la classe operaia,
bensì la sempre ricostituentesi contraddizione di un sistema che può funzionare soltanto
affermando l’uguaglianza e valorizzando la discriminazione. Lavorando sulla letteratura ideologica,
cioè sulle dichiarazioni di intenzioni, l’una e l’altra posizione sono riccamente documentabili. Ma
l’argomento dirimente può condursi sulla coerenza interna delle ipotesi, e sulla loro capacità a
interpretare il maggior numero di conseguenze.

21Quanto alla coerenza, la prima ipotesi non spiega da dove venissero, su che cosa si fondassero,
quelle esigenze di riconoscimento di diritti «naturali». Non venivano forse da una concezione
universalistica dell’uomo, e non era questa un effetto del nuovo sistema di valori borghese? E non
sono inerenti, quindi, queste rivendicazioni, avanzate da classi «interne» alla nazione, o da classi di
popoli, al sistema di valori borghesi in quanto tale, in quanto cioè universalistico?

22Quanto alle conseguenze: come mai le nazioni tendono a identificarsi oggi con categorie di
contrapposizione universalistica (sviluppate e sottosviluppate, povere e ricche, ecc.) e certune
addirittura, anche se per ragioni scopertamente propagandistiche, tendono a riprodurre le
identificazioni di classe? Come mai si formano e si riformano (se sono meno numerosi di una volta,
non va anticipata la loro fine) movimenti a solidarietà internazionale? Come mai c’è chi si
interessa politicamente della crescente disuguaglianza fra le nazioni? o dell’apartheid nel Sud Africa
o della lotta dei negri negli Stati Uniti, o della fame nel mondo o della guerra nel Vietnam? Non è
questo il riflesso di quella virtualità universalistica che non possiamo eradicare dalla nostra
immagine della partecipazione politica, che coinvolge ogni condizione la quale impedisca a certi
uomini il pari accesso a ciò cui altri hanno diritto? Questa è l’eredità, pur se quasi irriconoscibile, di
quelle lotte, prima borghesi e poi proletarie, contro certi sistemi di disuguaglianza; per questo mi
sembra appropriato considerare tutto ciò un momento della partecipazione politica che si riferisce
al principio extra-statuale della lotta di classe, che non risponde a nessun problema di consenso a
certe istituzioni, ma a un problema di uguaglianza.

23La domanda era: in che condizioni sorge il problema della partecipazione politica? La risposta è
che esso si collega storicamente sia a un modo di fondare la legittimità e quindi di verificare il
consenso, del nuovo Stato nazionale a sovranità popolare; sia a un modo di lottare, con mezzi che
ora possiamo chiamare politici, contro le condizioni di disuguaglianza proprie della società civile.
Il problema della partecipazione politica è quindi insieme problema di consenso e problema di
uguaglianza. Ciò significa che esso è il problema dei modi in cui si attua concretamente il consenso
consapevole di una popolazione nelle istituzioni statuali che la reggono; ed è il problema dei modi
di organizzazione collettiva che consentono di agire su una struttura di disuguaglianze mettendo in
questione, positivamente o negativamente, i valori che la reggono.

24Ma l’analisi storica ha permesso anche di acquisire, mi sembra, altri due punti. In primo luogo
che dobbiamo tener conto di diversi tipi di partecipazione politica, con origini e caratteristiche
differenti: – l’attività politica professionale; – la partecipazione politica come espressione di
posizioni della società civile; – la partecipazione politica come fatto associativo chiuso, più o meno
isolato dalle strutture dominanti, e che può essere o movimento organizzato, o – e vedremo cosa
vuol dire esattamente – subcultura.

25In secondo luogo, che se la partecipazione politica riflette non solo un problema di consenso, ma
anche di azione collettiva sulla struttura delle disuguaglianze, per politica dobbiamo intendere
qualche cosa di più ampio di ciò che si riferisce normalmente al processo elettorale, e in qualche
modo di più ampio anche di ciò che si riflette nell’attività dello Stato.

26Come definire allora più esattamente ciò che è politica e ciò che non è? Se abbiamo indicato che
nella concezione della politica debbono convergere tanto la lotta per il potere nello Stato, quanto
un’azione a carattere più universalistico che chiamiamo lotta di classe, non è stato soltanto in base
a una certa ricostruzione storica, ma anche implicitamente considerando che nel pensiero politico
moderno si sono distinti due filoni a lungo irriducibili, uno che ha pensato la politica come un
particolare sistema di rapporti nell’ambito dello Stato, l’altro che l’ha pensata come espressione dei
rapporti di classe. Analizziamo ora esplicitamente, anche se in brevissime linee, questa vicenda
dottrinale.

2. La disputa sui limiti della politica


 12 Cfr. C. H. TITUS, «A Nomenclature in Political Science», American Politicai Science Review, XXV, 1 (...)

 13 Op. cit., p. 112.

 14 Ibidem.

 15 La definizione classica è quella di M. WEBER in Il lavoro intellettuale come professione (trad. it (...)

27Anche se già nel 1931 un autore riusciva a raccogliere 145 diverse definizioni del termine
Stato12, e anche se Easton aggiunge che è difficile capire come un simile concetto potesse mai
venir considerato fruttuoso per il lavoro scientifico 13, non è difficile invece capire il senso che ha
avuto, per una fase del pensiero politico, assumere questo termine come oggetto definitorio
dell’indagine. «I governi territoriali nazionali avevano bisogno di un concetto normativamente
pregnante» da contrapporre a quello della Chiesa, e lo trovarono fortunatamente nel concetto di
Stato, dice lo stesso Easton 14. Ma non è solo questo; è che limitandosi a considerare come attività
politica soltanto ciò che aveva attinenza con il «monopolio dell’uso della forza in un determinato
territorio»15 – in altre parole, ciò che restava entro l’ambito dell’ordinamento normativo dello Stato
– si era in grado di escludere dall’oggetto della politica la lotta fra i gruppi della società civile, e in
particolare la lotta di classe. La scienza politica diventava quindi una scienza giuridica.

28All’estremo opposto, la concezione classista della politica, che considerava lo Stato e l’attività
politica istituzionalizzata, come meri riflessi della struttura sociale, tendeva a far coincidere lo
studio della politica con l’«anatomia della società civile», quindi con l’economia.

 16 Naturalmente si tratta di dottrine espresse da correnti e frazioni ben differenti l’una dall’altra (...)

29Ma nella misura in cui la lotta di classe si iscriveva, in una forma o nell’altra, nelle regole dello
stato e veniva da esso riconosciuta e istituzionalizzata; e nella misura d’altra parte in cui lo Stato
sempre più si impregnava di contenuto di classe; la scena politica andava talmente modificandosi
da mettere in crisi sia la teoria strettamente statalista della politica (e ciò a opera soprattutto dei
vari tipi di teorie pluraliste) sia la teoria classista (a opera, prima del revisionismo riformista, poi
delle teorie delle vie nazionali al socialismo, del socialismo in un solo paese, ecc.) 16.

 17 Si pensi alle milizie private degli industriali, alle azioni punitive dei razzisti negli Stati del (...)

 18 Si ricordi inoltre quanto già detto precedentemente sull’inesistenza, alle origini della storia am (...)

 19 A. F. BENTLEY, The Process of Government, Chicago, 1908. Naturalmente, proprio in quegli anni e pe (...)

 20 Dopo Bentley, la teoria dei gruppi politici fu ripresa in numerosi studi ed elaborazioni teoriche. (...)

30La scienza politica americana si trovava di fronte a una situazione di fatto diversa: la lotta di
classe, se non inesistente (poiché essa fu anzi per un certo periodo più intensa che in molti paesi
europei; ma era circoscritta geograficamente e incapace di generalizzarsi all’intera nazione), era
pur sempre meno rilevante che non la presenza di una pluralità di gruppi eterogenei, i quali
lottavano fra di loro, in parte usando la strumentazione giuridica statale, ma in parte anche
direttamente gli uni contro gli altri 17, in ciò favoriti da un decentratissimo e ambiguo monopolio
pubblico dell’uso della forza18. In questa situazione la nozione di Stato (e quella stessa di governo)
diventava più astratta che mai e inadatta a descrivere una realtà politica così poco sistemabile. Con
Bentley19 come precursore, e poi in maniera sempre più diffusa a partire dalla fine degli anni ‘20,
si sviluppa allora la teoria politica che considera il «gruppo» come unità elementare della lotta
politica e suo protagonista20.

31Lo Stato stesso viene considerato un gruppo, o associazione, soltanto più grande e più potente
degli altri; i rapporti fra i gruppi sono rapporti di potere; azione politica è ogni azione in vista del
potere; l’atto politicò elementare e l’atto di esercizio di un potere.

 21 E. LATHAM, «The Group Basis of Politics: Notes for a Theory», American Political Science Review, X (...)

 22 Vedi soprattutto H. D. LASSWELL, e A. KAPLAN, Power and Society,  New Haven, 1961.

32Dà una risposta questa teoria alla nostra esigenza di allargare, ma in maniera definita, l’insieme
dei fenomeni da comprendere come partecipazione politica? No, nella misura in cui essa rende
estremamente difficile distinguere fra azioni politiche e no, fra gruppi e solidarietà politiche, e
gruppi e solidarietà d’altro genere, e di isolare i rapporti politici dagli altri rapporti di potere. Simile
difficoltà del resto è avvertita all’interno stesso della dottrina. Earl Latham 21 propone il concetto di
officialità per designare quel tipo di rapporti asimmetrici, per chiamarli così, nei quali «succede che
un uomo con un’uniforme può dare ordini ad un uomo senza uniforme, mentre non si dà la
relazione inversa». Fra i teorici del potere, Lasswell cerca di distinguere l’uso del potere politico
dall’uso del potere che caratterizza ogni relazione sociale, attribuendogli la proprietà di influire sulla
distribuzione e assegnazione dei valori in una società 22. Infine proprio come superamento delle
teorie politiche dei gruppi e del potere, viene elaborato il concetto di sistema politico, che
esplicitamente risponde come prima esigenza a quella di distinguere la sfera dell’azione politica da
quelle delle altre azioni sociali, senza far ricorso al concetto ambiguo di Stato.

 23 D. EASTON, op. cit., p. 121 e sgg.

 24 G. A. ALMOND, «Introduction: A Functional Approach to Comparative Politics», in The Politics of th  (...)

33Ma se Easton dice che c’è sistema politico quando c’è una autorità che assegna i valori in modo
vincolante per una comunità, e che c’è autorità quando prevale il sentimento che certe decisioni
vanno obbedite23, Almorici gli obietta che così definita l’autorità non è sufficiente a distinguere il
sistema politico da altri come la Chiesa, una impresa economica, etc. 24 E propone di sostituire il
concetto di autorità con quello di coercizione fisica legittima. Così, e Almond ne è cosciente,
ritorniamo ben vicini a Max Weber e il vantaggio, rispetto a Weber, di essere in grado di includere i
sistemi politici primitivi, non è molto rilevante. È invece rilevante che ritornando a fondare la
specificità della politica sui criteri della forza legittima e del territorio, si perde il senso di quella
componente extra-statale ed extra-territoriale dell’azione politica che vi era penetrata con
l’affermarsi dell’azione di classe – borghese o proletaria – e dei suoi valori, e senza prendere in
considerazione la quale resta monca ogni spiegazione e previsione dei fatti politici contemporanei.

34Ma è possibile ora trattare sistematicamente di questo allargamento del concetto di


partecipazione politica, di cui finora abbiamo scorso l’esigenza solo in sede storica?

3. Una definizione sistematica


 25 Nel senso che C. G. Hempel dà a questa operazione (che chiama anche, sulla traccia di Carnap, «esp (...)

35Cosa dobbiamo intendere, per esempio, con i termini di sistema privato, società civile, valori e
simili, che ci è capitato spesso di adoperare? Se la ricostruzione storica può averci convinto che la
concezione della politica deve comprendere effettivamente sia l’azione in vista del potere nello
Stato che l’azione di classe in vista dell’affermazione di valori universalistici, essa non ci dice
ancora cosa hanno in comune questi due termini, classe e Stato, sì da chiamarli a comporre
l’ambito della politica; né cosa li distingue, d’altra parte, l’uno dall’altro. Non miriamo, è chiaro, a
definizioni formalizzate, (queste sono utili a un livello di generalizzazione minore quando si
preparano le singole ricerche empiriche) ma a una ricostruzione razionale del termine 25 che
contenga implicitamente le indicazioni delle variabili cui rivolgersi per formulare un sistema di
ipotesi.
 26 Economia e società, cit., vol. 1, p. 45.

 27 Zibaldone, 893.

36L’uno e l’altro, Stato, e classe, sono sistemi di solidarietà.  Ciò vuol dire che in loro nome si può
chiedere e attuare una azione individuale che identifichi i suoi fini con quelli degli altri individui. O,
come direbbe Weber, essi costituiscono un tipo di relazione sociale in cui determinate forme di
agire di ogni partecipante sono imputate a tutti i partecipanti (che si pongono come consociati
solidali)26. O, come direbbe Leopardi, con più eleganza, sono stati in cui «l’amor proprio dilata
quanto può il suo oggetto» e «l’individuo trova una comunione e medesimezza di interesse con
quelli che lo circondano»27. Che la solidarietà sia spontanea, entusiastica, o invece ottenuta con
l’organizzazione, o per mezzo dell’ordinamento normativo coercitivo dello Stato, non sono
distinzioni che ci interessano per il momento.

37I sistemi di solidarietà si contrappongono ai sistemi d’interesse. Questa è una distinzione che


possiamo trarre utilizzando – ai nostri fini di studio della partecipazione politica – la lunga storia
delle «dicotomie fondamentali» conosciute dal pensiero sociologico: società civile e Stato, società e
comunità, solidarietà organica e solidarietà meccanica, agire in vista dello scopo e agire in vista del
valore, società profane e società sacre.

38La distinzione esattamente va fatta tra un sistema d’azione in vista dell’interesse dell’attore e un
sistema d’azione in vista della solidarietà fra gli attori. Per interesse di un individuo o di un gruppo
(che chiameremo attore, in quanto soggetto dell’azione), convenzionalmente intenderemo il
suo distinguersi da altri attori migliorando la sua posizione relativa nei confronti di essi. Ogni azione
volta a questo fine di distinzione e miglioramento relativo, è un’azione in vista dell’interesse.
Perché essa sia possibile è necessario che i suoi risultati siano misurabili – cioè valutabili
in meglio o peggio, in più o meno – e che questa misura sia comune all’attore e a coloro nei cui
confronti l’attore vuole migliorare la sua posizione. È grazie a questo sistema di valutazioni comuni
che l’azione dell’attore viene riconosciuta – apprezzata o meno (riceve un prezzo, riceve un
giudizio) e l’attore si sente riconosciuto nel risultato dell’azione attribuitagli. Un sistema d’interessi
comporta quindi un sistema di valutazioni comuni che servono a un insieme di attori per valutare i
risultati delle reciproche azioni in vista di vantaggi comparati. Che questi criteri di valutazione, che
questi valori, cioè, siano anche intimamente accettati dal singolo attore, non ha qui importanza; ciò
che importa è che sapendo che egli agisce in funzione di questi criteri di valutazione, ci mettiamo in
grado, sia come osservatori, sia come altri attori membri del sistema, di prevedere con probabilità
la sua azione.

39Un esempio di sistema di interessi è il sistema economico. Sapendo che l’attore economico tende
a massimizzare il suo vantaggio (reddito, utilità, o che altro lo si voglia chiamare) noi osservatori,
così come gli altri attori del sistema, siamo in grado di prevedere la sua azione in circostanze date.
Altro esempio può essere la carriera in un’organizzazione, in cui i vantaggi che si vogliono
massimizzare sono di natura monetaria e/o di prestigio, e/o di potere; in cui cioè i criteri di
valutazione del successo della carriera sono costituiti o dagli aumenti di stipendio, o
dall’acquisizione di prestigio o di potere, o da tutti questi elementi insieme. Altri esempi ancora, i
concorsi o le gare sportive, o il sistema di votazioni scolastiche o qualsiasi altro sistema di onori,
ecc.

40Caratteristica di un sistema di interessi è che i criteri di valutazione dell’azione sono condivisi


obiettivamente, funzionalmente, dai membri. Che esista un complesso di valutazioni comune non
comporta però un sentimento di appartenenza a questo sistema in contrapposizione a eventuali
appartenenze ad altri. Un sistema d’interessi cioè, per sua natura non si contrappone ad altri. Esso
non genera quindi un’identificazione specifica al sistema, con conseguenti fenomeni di
contrapposizione o conflitto; la situazione normale è invece quella della competizione fra i membri
del sistema stesso; e naturalmente un continuo appianarsi e rinnovarsi delle disuguaglianze.

41Queste caratteristiche di appartenenza al sistema, di identificazione ad esso – del membro con il


tutto – e di separazione, e eventuale contrapposizione e conflitto nei confronti di altri sistemi, sono
proprie invece dei sistemi di solidarietà. L’azione specifica a questi è quella che mira a rendere
eguale per tutti l’appartenenza a una determinata collettività (gruppo, classe, comunità, ecc.), non
quella che mira a render massima la distinzione di un attore dall’altro, e massimo il vantaggio di
una posizione relativa. Si vuol essere riconosciuti simili ad altri simili, e diversi da chi appartiene ad
altre collettività; si deriva la propria identità dall’identificazione alla collettività. L’azione all’interno
dell’unità di appartenenza, non mirando più alla distinzione, si realizza in un ambito di  eguaglianza
di partecipazione. Questo è il sistema puro di solidarietà, come il primo era il sistema puro di
interessi.

 28 Questa concezione del rapporto fra sistemi di interesse, cioè economia e ambito della politica, mi (...)

42Nella società moderna, sistemi di solidarietà sono le famiglie, i gruppi di amici, le associazioni
volontarie e simili. In che cosa si distinguono le classi e lo stato nazionale, e perché li
chiamiamo politici? Perché sono costitutivi del sistema di interessi: cioè perché fondano gli specifici
valori che reggono un sistema di interessi storicamente determinato. Non è concepibile, ad
esempio, il sistema economico funzionante senza la normazione di uno Stato. A loro volta le classi
si formano ed entrano in conflitto proprio in riferimento alla conservazione o al rovesciamento dei
valori – e quindi della particolare struttura di dominio o di subordinazione – di un determinato
sistema di interessi. In altre parole, Stato e classe sono sistemi di solidarietà mobilitati in un’azione
che ha come oggetto i valori del sistema di interessi; d’altra parte, nella misura in cui si esprimono
in azioni fondate sulla solidarietà, fanno tacere gli interessi particolari 28.

43Questo per quanto riguarda ciò che è comune ai due sistemi di solidarietà dello Stato e delle
classi. Quanto alle differenze, le abbiamo già accennate, e non ci sarebbe bisogno di insistere, se a
questo punto non rischiasse di inserirsi la vecchia polemica sullo Stato che è esclusivamente
espressione di una classe, ecc. In questa polemica non abbiamo bisogno di entrare: per il nostro
argomento è sufficiente constatare che l’azione è specifica dello e nello Stato quando è limitata dai
condizionamenti territoriali e dalla presenza di altri Stati; mentre l’azione di classe, lo ripetiamo, è
una categoria potenzialmente universale. Che concretamente, storicamente, si intersechino, non
annulla la loro distinzione analitica. La stessa osservazione comune che la presenza di fini di classe
nell’azione dello Stato può essere più o meno forte, conferma la necessità di distinguere
analiticamente i due principi di solidarietà. Ciò del resto è implicito anche nella storia dell’ideologia
classista, la quale passa da una visione della lotta di classe in cui lo Stato nazionale non ha
praticamente da offrire altro che una resistenza tecnica, a una visione della lotta di classe che ha di
mira proprio la conquista e, in un certo senso, la realizzazione dello Stato nazionale.

44Riassumendo: la partecipazione politica è un’azione in solidarietà con altri, nell’ambito di uno


Stato o di una classe, in vista di conservare o modificare la struttura (e quindi i valori) del sistema
di interessi dominante. Che si tratti di un’azione che si svolge entro rapporti di potere – come si
preoccupano di sottolineare le definizioni della scienza politica contemporanea – è implicito nel
fatto che i rapporti di un sistema di interessi sono sempre rapporti di potere. Cosa significa d’altra
parte «potere» se non la capacità di assegnare a sé o agli altri, o di privare di, certi valori? I valori
sono la misura che permette di valutare i risultati delle azioni in vista degli interessi. Il rapporto fra
potere, valori e interesse è quindi diretto e necessario. In questo senso, e solo in questo senso, il
termine di valore si reintroduce nella definizione della politica. Ma, sarà chiaro, in un’accezione
differente, anche se probabilmente risponde a esigenza analoga (cioè di dare conto della ideologia
nella politica), di quella in cui lo usano Easton, Lasswell, Almond e altri. Ai nostri scopi il termine di
valore non è usato per designare gli ideali, le aspirazioni, la concezione di una società da realizzare,
l’idea di ciò che è bene nella vita associata, e simili (benché possa essere all’origine di tutto ciò): gli
ideali possono benissimo non esserci, nell’azione politica; quello che invece essa contiene sempre è
una solidarietà che intende avere conseguenze sui criteri di valutazione degli interessi, cioè sui
valori in quanto misura dei risultati dell’azione di ognuno e quindi in quanto strumento necessario
di orientamento e di previsione nei rapporti sociali.

4. Le «aree di uguaglianza»
45Questo lavoro definitorio non ci è utile tanto per le sue conclusioni, quanto per le indicazioni che
ha fornito nel suo processo. Indirettamente esso ci ha suggerito i termini e le variabili con cui
costruire le ipotesi specifiche per la ricerca.

46Quando un sistema di solidarietà opera sulla struttura e sui valori di un sistema di interessi, ne
consegue un processo che potremmo chiamare di formazione di aree di uguaglianza. Infatti, coloro
che partecipano a una collettività solidale, in quanto tali, si pongono come uguali di fronte ai valori
di un determinato sistema di interessi. Ciò non è che la traduzione, in terminologia più specifica,
dell’affermazione diventata comune dopo Rousseau, che si dà società nella misura in cui i
partecipanti sanno che esiste qualche regola uguale per tutti loro. In altre parole, poiché il sistema
di interessi è un sistema di disuguaglianze, si può formare un sistema di solidarietà che agisce su di
esso nella misura in cui, in un’area anche minima d’azione, le disuguaglianze vengono negate.

47L’esempio più facile da fare è quello della cittadinanza nello Stato nazionale: essa può
considerarsi come livello minimo di uguaglianza, una specie di grado zero della partecipazione allo
Stato, ed è alla base dei processi di parificazione che abbiamo ricordato nelle pagine precedenti. In
una scala di intensità della solidarietà, sempre per quanto riguarda il sistema dello Stato nazionale,
al polo opposto potremmo porre il caso dello stato di guerra. In questa situazione lo Stato
nazionale richiede il massimo di solidarietà fra tutti i suoi cittadini; tacciono le divergenze di
interessi, e le disuguaglianze si coprono, o diventano irrilevanti di fronte all’uguaglianza in cui
ognuno, quanto ai valori prebellici, viene posto, poiché l’unica misura che conta è la capacità di
contribuire allo sforzo di sopravvivenza della nazione. Questa almeno è la situazione di principio; in
realtà poi le disuguaglianze vecchie persistono e nuove anzi se ne formano, ma ufficialmente
devono essere negate o considerate illegittime: infatti in simile situazione conservano legittimità
solo quei rapporti di potere e di disuguaglianza che sono strettamente funzionali all’azione
collettiva. Questo spiega per esempio perché le guerre vengono spesso desiderate da chi governa
uno Stato: infatti permettono di soffocare i contrasti interni che lo svilupparsi del sistema di
interessi può aver portato a una fase dirompente, e quindi di realizzare l’integrazione e l’unità
considerate indispensabili al mantenimento del sistema. Spiega anche perché esse siano
desiderate, spesso, da una parte degli stessi cittadini: perché molti sono gratificati dall’ammorzarsi,
almeno apparente, delle disuguaglianze misurate secondo i valori del sistema di interessi, e dal
riconoscimento generalizzato del contributo di ognuno, che i nuovi valori di solidarietà rendono
possibile. E infine spiega perché dopo le guerre siano in genere più frequenti i movimenti
rivoluzionari e di partecipazione generalizzata, sia di natura nazionalistica che di classe; per due
ragioni: per l’abitudine all’esercizio di condotte solidali, che è abitudine a far tacere interessi
personali, e che finisce per comportare sfiducia nel funzionamento di qualsiasi sistema di interessi,
oltre che impreparazione a immettervisi; e per la reazione contro il riaffermarsi, alla fine della
guerra, o lo svelarsi, di vecchie e nuove strutture di interesse.

48Per quanto riguarda il sistema di solidarietà di classe, il dato di uguaglianza di base, il grado
zero, diciamo, di partecipazione, è nella stessa posizione lavorativa: una classe è anzitutto, come
diceva Marx, «classe in sé», cioè, in senso lato, categoria professionale, definita con uno o altro
criterio in classificazione. Naturalmente l’uguale posizione nell’occupazione non ha molto maggior
valore sostanziale, per il sistema di solidarietà di classe, di quanto l’attributo della cittadinanza ne
abbia per il sistema di solidarietà statuale; la solidarietà diventa concreta e stretta solo con
l’organizzazione (sindacato, movimento, partito, ecc.). Anche in questo caso opera il fenomeno
delle «aree di uguaglianza» come condizione della partecipazione; infatti ogni organizzazione di
questo tipo, all’inizio, non può che costituirsi come associazione tra uguali: i suoi membri sono
uguali tra loro di fronte ai fini comuni che essi si pongono; e poiché tali fini coinvolgono il sistema
di interessi, che è la fonte della disuguaglianza, la comunanza di fini annulla, in linea di principio, la
valorizzazione delle disuguaglianze e pone tutti i partecipanti, logicamente, e a volte anche
psicologicamente, su di un uguale livello nello specifico agire organizzato.

49Questa osservazione parrà inoppugnabile finché essa si riferisce a un partito classista,


rivoluzionario o riformista: è chiaro che in esso si raccolgono, per la gran parte, persone che già
nella società civile vivono in condizioni simili, mentre quanto a coloro che si uniscono venendo da
posizioni sociali diverse (borghesi, intellettuali) la scelta ideologica afferma e sanziona la comune
volontà di uguaglianza. Ma è ciò altrettanto vero per un partito conservatore o borghese che accetti
e difenda la struttura sociale e i suoi valori quali essi vigono? Formalmente si potrebbe rispondere
che già il semplice fatto dell’iscrizione, del pari diritto a votare ed eleggere i dirigenti, e a essere
eletti, etc. costituisce di per sé una «area di uguaglianza». Ma si può rispondere affermativamente
anche con casi specifici.

 29 Per i dati sulla National Union cfr. R. T. MCKENZIE, British Political Parties, New York, 1963, p. (...)

50Per i partiti borghesi tradizionali il problema della partecipazione praticamente non si poneva,
presentandosi essi, come abbiamo già visto, come corti di clienti non organizzate stabilmente; di
organizzazione tutt’al più poteva parlarsi, e non sempre, a livello dei gruppi parlamentari: e qui
l’area di uguaglianza andava da sé. Quando poi i partiti conservatori diventano partiti di massa essi
tendono a costituire al loro interno aree sociali omogenee, che evitano la percezione ravvicinata
delle disuguaglianze e il suo effetto scoraggiante sulla partecipazione. Così, quando dopo la riforma
del 1867 il partito conservatore britannico fondò la sua organizzazione di massa, la National Union
formò in essa i working men’s clubs, collegati in una specie di organizzazione classista nazionale,
che consentiva di sfuggire al contatto e al confronto, su piede di parità formale, all’interno del
partito, tra gentiluomini e operai. Qualche cosa di molto simile – anche se con più elaborate
giustificazioni ideologiche – è avvenuto con i vari partiti cristiano-sociali (tipico soprattutto quello
belga) organizzati su basi di ceto29.

51Per quanto riguarda i partiti borghesi nazionalisti, l’area di uguaglianza è conseguenza del
primato ideologico del principio di solidarietà nazionale sopra qualsiasi sistema di interessi. Il
partito o movimento unisce appunto coloro che accettano questo primato e quindi accettano di far
tacere le disuguaglianze che deriverebbero dalla loro posizione rispettiva nel sistema di interessi.

52I partiti conservatore, nazionalista, socialista o comunista, condividono dunque questa esigenza
di fondare la partecipazione su di una certa area di uguaglianza; e tanto più la sentono quanto più
sono organizzati e quanto più sono di massa. Ma si tratta di un’esigenza che è imperiosa solo al
momento della formazione, quando la partecipazione, fondata su di un riconoscimento di
uguaglianza, è la principale forza del partito. Poi l’organizzazione deve rafforzarsi grazie ad altre
risorse; cioè reintroduce un sistema di interessi privati e quindi di disuguaglianze: l’organizzazione
deve allacciare rapporti con la società esterna, adoperarne le risorse sottostando ai vincoli di
proprietà, agli incentivi degli interessi, e deve quindi differenziarsi in funzione delle differenziazioni
della struttura esterna; e inoltre all’interno si costituiscono le specializzazioni, la carriera e quindi
gli interessi e le differenze a essa legati.

53Legge tendenziale delle organizzazioni politiche è quindi l’assottigliarsi progressivo delle aree di
uguaglianza iniziale su cui si era fondata la partecipazione, con conseguente caduta di questa. Ciò
non esclude che nella vita di un’associazione la partecipazione possa riaccendersi in determinati
momenti: ma molto probabilmente sarà grazie alla formazione di nuove aree di uguaglianza. La
conoscenza implicita di questa legge regola in numerose organizzazioni il cerimoniale celebrativo,
che permette di ricostituire periodicamente le aree di uguaglianza in maniera formale e
istituzionalizzata. Il rito elettorale negli stati democratici (liberali o popolari) rappresenta anche
questo: un riaffermare periodico che tutti i cittadini sono uguali di fronte a un atto fondamentale
dello Stato. Infatti la scelta rappresenta soltanto uno dei significati dell’atto elettorale, l’altro è
quello della conferma della solidarietà. Se no non si spiegherebbe altro che come un’assurda
ipocrisia la persistenza delle elezioni nei sistemi a partito unico. Diffusissimi poi sono i rituali e altre
manifestazioni del folclore dell’uguaglianza in tutte le organizzazioni gerarchiche: celebrazioni,
feste, anniversari e simili. Il darsi del tu nei partiti socialisti è un altro importante simbolo che
ribadisce un’originaria uguaglianza e solidarietà. Tutte queste cose non sono affatto sempre
ipocrisia: si può dire che esiste una curva crescente dell’ipocrisia a misura che ci si allontana
dall’atto costitutivo originario di solidarietà tra uguali. A misura che ci si allontana da quest’atto,
inoltre, scende la curva della partecipazione. Non si tratta, abbiamo visto, di una curva che
semplicemente riflette l’usura dell’allontanarsi da un punto di origine, quasi per un invecchiare
fisiologico: la condizione più importante è invece l’abbandono dell’isolamento iniziale costitutivo del
fatto associato. Infatti, per definizione, si può dire che alla fondazione l’associazione è in rapporto
diretto e ideale con i suoi fini e non ha rapporti con altro; poi viene coinvolta nelle procedure e
negli incatenati fini quotidiani e diventa una maglia fra altre della struttura sociale. Per ristabilire i
momenti di partecipazione intensa le tecniche, consapevoli o no, sono numerose: grandi
riorganizzazioni, lotte di corrente, scissioni, rappresentano tutte possibili condizioni di
partecipazione. Le lotte di corrente per esempio creano sub-aree di uguaglianza e quindi attirano
nuova e più intensa partecipazione. Nello stesso tempo esse si propongono come fine la
riorganizzazione e il cambiamento del personale dirigente dell’intera organizzazione; ciò accresce le
prospettive di ascesa interna di un certo numero di persone (naturalmente molto più numerose di
quelle che realmente potranno occupare nuovi posti) e quindi riattiva gli incentivi a partecipare. Un
caso limite, ma proprio per questo utile per illuminare la natura del fenomeno generale, è quello
del terrore e delle purghe. Le grandi purghe organizzative allargano le aree di uguaglianza fra i
membri: esse permettono anzitutto di pensare che i privilegi non sono poi così sicuri e definitivi e
che i valori su cui si erano fondate le disuguaglianze interne sono superati; dall’altro creano
disponibilità nuove nelle cariche di potere, quindi speranze di avanzamento; nello stesso tempo
queste speranze sono abbastanza incerte perché i membri si sentano parificati e portati a
partecipare più intensamente, anche se, è il caso di dirlo, più precariamente.

54Ma la tecnica principe di ricostituzione dell’uguaglianza, della solidarietà e della partecipazione –


lo abbiamo già visto a proposito dello Stato nazionale – è la creazione di tensioni con l’ambiente
esterno: la solidarietà allora non si rafforza soltanto per la minaccia di perdere certi valori comuni,
ma anche perché si ravvivano fini collettivi, (se non altro quello della sopravvivenza del gruppo) di
fronte ai quali gli individui membri, per definizioni, si pongono come pari.

55La proposizione generale che scaturisce da tutte queste osservazioni è che si partecipa soltanto
quando si è tra pari. Quali siano, cioè, gli attributi che di volta in volta vanno inclusi nell’area di
uguaglianza, è poi la ricerca empirica che lo deve stabilire.

5. Il modello della coscienza di classe


56Della ragione per la quale, come riferimento per lo studio della partecipazione politica, vanno
assunti il sistema di solidarietà dello Stato nazionale, e quello extra statale della classe, ho
esaminato, nella prima parte dell’articolo, i fondamenti storici e quelli impliciti nella insufficienza
delle teorie finora formulate. Ma sin dall’inizio avevo tenuto conto dell’utilità che, oltre al resto,
avrebbero avuto questi due termini per raggruppare in due modelli maggiori le ipotesi avanzate
finora sul nostro tema.

 30 Alludiamo a quelle ricerche che misurano l’«auto-identificazione di classe», il sentimento di appa (...)

57La proposizione generale relativa al primo modello di ipotesi si potrebbe formulare così: la
partecipazione politica è maggiore quanto maggiore (più intensa, più chiara, più precisa) è la
coscienza di classe. Se quest’ultimo termine va preso come una variabile, dobbiamo conoscerne gli
indicatori empirici che la rendono osservabile: che cosa è quindi concretamente la coscienza di
classe? Anzitutto è bene precisare che il termine di coscienza di classe, quale ci è stato tramandato
dalla tradizione marxista e quale è stato fatto oggetto di mille interpretazioni, esegesi e dispute,
non è riducibile a dati psicologici: non si tratta cioè di uno stato di coscienza che possa cogliersi
indipendentemente dall’azione che «obbiettivamente» gli corrisponde. Non possiamo venire a
sapere, cioè, se una persona possiede coscienza di classe, chiedendoglielo. Ed è inutile anche
chiedergli a che classe egli sente o crede di appartenere, con che classe si identifichi o simili 30:
ogni elaborazione verbale che siamo in grado di ricavare da una certa persona non ci informerà su
una realtà che si attua, e quindi si può conoscere, soltanto al momento dell’azione di classe: se c’è
la quale, c’è coscienza di classe, se non c’è la quale, coscienza non c’è. Ma se, per definizione,
coscienza di classe c’è solo quando c’è azione di classe, e se, com’è ovvio, l’azione di classe è un
fatto di partecipazione politica, l’ipotesi più in alto formulata diventa una tautologia. E così è, in
sede rigorosa; ma ciò non toglie che essa conservi una certa utilità sia a fini scientifici sia a fini di
azione (e sono stati fini di azione che hanno condotto a formularla). Infatti, dirigendo l’attenzione
(e l’azione) sul concetto di coscienza di classe, si tende implicitamente a indicare che la fase che
analiticamente, ma anche temporalmente, precede la partecipazione politica, è la fase in cui si
forma una certa coscienza di appartenere a una classe sociale, e che quindi la questione: «in che
modo si forma la coscienza di classe» diventa la più importante per individuare le azioni che
avranno effetti sulla partecipazione politica.

58Ma prima c’è da osservare una connessione singolare, che ben conoscono tutti gli organizzatori
di partiti e di movimenti politici collettivi in genere, ed è quella che si può esprimere così: la
coscienza di classe promuove la partecipazione politica e a sua volta la partecipazione politica
accresce la coscienza di classe. Con ciò si afferma che quanto più una persona partecipa insieme
con altri all’azione in vista di certi fini collettivi, tanto più essa prende coscienza di questi fini, e più
quindi sarà ancora portata a partecipare. Si constata cioè una qualità cumulativa della
partecipazione politica, la quale, per dir così, nutre se stessa; e ciò grazie a questa variabile
interveniente della coscienza di interessi comuni in tutti coloro che partecipano.

59Adoperando la terminologia usata in precedenza si potrebbe dire che chi partecipa vede
confermato che anche per altri, in maniera uguale che per sé, i valori del sistema di interessi
tacciono, e operano soltanto i valori della solidarietà; questo lo porta a partecipare più
intensamente e così via.

 31 Cfr. V. I. LENIN, Che fare?, in Opere scelte, Roma, 1965. Che alle origini l’idea del rivoluzionar (...)

60Continua però a proporsi il quesito: cosa fa sorgere questa «coscienza-partecipazione» di classe.


Si sa che le risposte della tradizione marxista si sono mosse fra due estremi: a uno stava
l’affermazione che i fattori del sorgere della coscienza di classe erano «obiettivi»; che cioè la
coscienza di classe sarebbe emersa spontaneamente, in modo parallelo allo svilupparsi dei rapporti
di produzione verso una polarizzazione fra pochi capitalisti, da una parte, e tutti i prestatori
d’opera, parificati sulla stessa posizione essenziale nei rapporti di produzione, dall’altra. Fra costoro
– in quest’immensa area d’uguaglianza così formatasi – si sarebbe intensificata la consapevolezza
della contraddizione, quindi la coscienza di classe, quindi la partecipazione rivoluzionaria. All’altro
estremo era chi proclamava che la coscienza rivoluzionaria poteva venir inculcata alla classe
operaia solo dall’esterno, cioè dagli intellettuali, da chi possedeva la scienza della società e non
soltanto la coscienza di una posizione particolare come quella operaia. Questi intellettuali, insieme
con gli operai che arrivavano a porsi al loro livello di consapevolezza, si sarebbero costituiti in un
partito fraterno di rivoluzionari professionali, uguali fra loro in tutto, grazie a questa comune
«scienza- coscienza» e a questa comune professione rivoluzionaria31.

61Pur rappresentando un ampio ventaglio, le posizioni fra questi due estremi, contenevano degli
elementi comuni quanto a ipotesi su ciò che favorisce la partecipazione politica – anche se
naturalmente il tipo di partecipazione politica che in diversi casi si avesse in mente poteva essere
abbastanza diverso. È possibile tradurre questi elementi in tre ipotesi, che chiameremo: 1)
dell’organizzazione; 2) della lotta di classe; 3) degli stati rivoluzionari. Non si tratta di teorie
attribuibili a questa o quella corrente o pensatore, bensì di elementi presenti anche all’interno di
una stessa posizione dottrinale, e differenziabili per analisi.

62La prima ipotesi dice che solo l’organizzazione può permettere di acquisire coscienza di classe e
solo essa quindi può intensificare la partecipazione politica. Da essa va dedotto che se
l’organizzazione è una condizione necessaria per partecipare, vuol dire che non basta un carattere
obiettivo e in qualche modo attribuito da altri, quale è la posizione nei rapporti di produzione, per
esprimere una volontà politica; occorre invece passare da posizioni attribuite e naturali a posizioni
scelte, da liens de necessité a liens de volonté, come diceva, assai sociologicamente, il socialista
Lagardelle; questo elemento della scelta diventa una delle componenti necessarie della
partecipazione politica. In altre parole l’organizzazione non solo, e non tanto, traduce dei bisogni
obiettivi di una categoria o di un insieme di persone, ma li trasforma in fini, che sono, rispetto ai
bisogni obiettivi, qualche cosa di nuovo e di diverso.

 32 Naturalmente fanno eccezione le organizzazioni clandestine o semiclandestine. Questa è la ragione (...)

63D’altra parte se nell’organizzazione l’individuo compie un sacrificio dei propri fini individuali, e li
differisce o annulla grazie a un processo che al limite glieli fa identificare con i fini
dell’organizzazione, la stessa organizzazione nel suo svolgersi chiede ai membri di assumere
impegni pubblici, condotte prevedibili e ruoli civili specializzati 32; essa riporta cioè l’individuo a
essere elemento di una divisione del lavoro, con la sua stratificazione e quindi con il riapparire di
un sistema di interessi differenziati.

64Questa prima ipotesi quindi, indica l’organizzazione come condizione della partecipazione senza
rendersi conto che essa è tale solo nel suo momento formativo. Infatti, se i bisogni non vengono
semplicemente tradotti ma trasformati, se l’organizzazione comporta implicitamente stratificazione
e quindi burocratizzazione e disuguaglianze, essa, che si offre come condizione di solidarietà e di
partecipazione, contiene in sé anche i germi che la portano a sclerotizzare la partecipazione stessa.

65La seconda ipotesi è quella della lotta di classe: la coscienza di classe e quindi la solidarietà e
quindi la partecipazione, sono più forti quanto più forte è la lotta o la tensione in cui la classe, o
una organizzazione di classe, si trova nei confronti del suo avversario. Questa ipotesi è analoga a
quella che abbiamo già indicato a proposito dello Stato, e corrisponde all’osservazione comune che
quanto più un gruppo si trova in opposizione ad altri, o all’ambiente dove vive, tanto maggior
solidarietà, coesione e quindi partecipazione all’azione comune, regnerà tra i suoi membri. È quindi
vera anche per la classe, e per i rapporti che una classe ha con le altre. Essa però non è in grado di
dar conto del fenomeno che abbiamo chiamato di «nazionalizzazione» della classe. Se si desse il
caso di due o più classi in rapporto unicamente fra di loro, in un universo che non contiene, ai fini
rilevanti della lotta, altro che queste classi e i loro rapporti, allora sarebbe indubbiamente vero che
quanto più intensa la lotta – o quanto più soggetta una classe nei confronti di un’altra – tanto più
forte la coesione di classe e la partecipazione all’azione comune. Ma poiché, come abbiamo visto
finora, nei rapporti di classe – e più esattamente: nella costituzione dei valori che servono come
criterio per la valutazione degli interessi e quindi dei contrasti di classe – interviene lo Stato
nazionale, con le sue specifiche richieste di solidarietà, l’ipotesi di una lotta di classe determinante
il grado di solidarietà e quindi di partecipazione, si riferisce a casi limite. Vi è in essa uno strumento
concettuale per spiegare certe situazioni eccezionali; ma sfuggono le variazioni più frequenti.
 33 A questo fenomeno si riferivano i partiti socialisti quando si difendevano dai pericoli di «trade- (...)

66La terza ipotesi è quella che potremmo chiamare degli entusiasmi collettivi, o della funzione della
rivoluzione. Il primo termine è, come si sa, di origine durkheimiana, il secondo viene dalla
tradizione ideologica democratica e socialista. Ma nel nostro discorso è possibile qui
temporaneamente congiungerli. Durkheim indicava con quel termine le situazioni in cui la coscienza
collettiva (e quindi, nella specie, anche se lui non ne parlava, la coscienza di classe) era più
intensamente presente in tutti i membri di un gruppo; in cui gli individui annullavano o coprivano le
proprie differenze e distinzioni individuali per identificarsi tendenzialmente con la collettività. In
esse inoltre, grazie a questo stato di effervescenza collettiva, venivano fondati i nuovi valori del
gruppo, quindi i nuovi principi su cui si fondava la solidarietà; il gruppo praticamente moriva e
rinasceva diverso in questi momenti. Per Marx il momento rivoluzionario appariva quando massima
era la contraddizione tra i bisogni del più gran numero e il sistema istituzionale che li comprimeva;
quando massima quindi era l’ostilità del più gran numero, diventato una sola classe, contro il
sistema, e quindi massima la potenzialità di coesione e di partecipazione a un fine comune.
Entrambi i modelli avevano bisogno di far riferimento a un intervento esterno per spiegare il
verificarsi di questi stati. Durkheim lo individuava in processi demografici, come l’addensarsi della
popolazione, le migrazioni, ecc., che creavano quella densità di rapporti e quindi di comunicazioni
che conduceva all’effervescenza collettiva; in un secondo momento in Durkheim la spiegazione si fa
più sottile, egli parla di densità «morale»; ma a questo punto la densità morale e la densità di
comunicazioni tendono a essere definite con gli stessi termini con cui si definiscono gli stati di
intensità di coscienza collettiva che si dovevano spiegare, e quindi la spiegazione si approssima alla
tautologia. Anche Marx tiene conto di fattori demografici, di agglomerazione, come
l’urbanizzazione, la concentrazione degli operai in grandi fabbriche, e simili; ma, a monte di tutto
ciò, stava lo sviluppo del sistema tecnologico, che d’altra parte assumeva un valore condizionante
solo nella misura in cui si manifestava in rapporti di produzione determinata. Questi rapporti di
produzione operavano in senso rivoluzionario nella misura in cui essi davano luogo alla lotta di
classe. Ma la lotta di classe di per sé non comportava – e non ha comportato – conseguenze
rivoluzionarie né crescente frequenza di stati di entusiasmo collettivo. Paradossalmente, poteva
essere il contrario: proprio lo svilupparsi della lotta di classe che forzava la sua istituzionalizzazione
nell’ordinamento dello Stato, conteneva le antitossine contro la rivoluzione, che veniva assorbita,
per dir così, in piccole dosi, controllate e quotidiane 33.

67L’ipotesi degli entusiasmi collettivi è quindi utile, ma solo in parte. Essa converge con altre a dirci
che trasformazioni rapide e concentrate nella struttura dei rapporti sociali vanno insieme con
intensa partecipazione; che il formarsi di nuovi sistemi di solidarietà è connesso con il disfacimento
del dominante sistema di interessi e della struttura di disuguaglianza che lo caratterizza. Questa è
infatti la condizione più generale che precede gli stati di entusiasmo collettivo, anche se essa può
essere ricollegata a fenomeni demografici e/o di ordine tecnologico. Ma si tratta di una condizione
rara.

68Nel complesso queste tre ipotesi sono tutte parzialmente verificabili. La loro parzialità è nel fatto
che esse indicano, esplicitamente o implicitamente, condizioni instabili (le fasi iniziali associative
dell’organizzarsi; o le tensioni di classe), o addirittura momentanee (entusiasmi rivoluzionari), per
la partecipazione politica. Come spiegare le variazioni del fenomeno negli altri momenti? Inoltre
esse, implicitamente, si limitano a certi tipi di partecipazione politica (essenzialmente alla
partecipazione attraverso un movimento collettivo; e, solo di sbieco, alla partecipazione politica
professionale). Come spiegare la partecipazione politica «civile», e quella «subculturale»? È di
queste che dobbiamo trattare ora.

6. Il modello della «centralità»


 34 Per esempio in G. A. ALMOND e S. VERBA, The Civic Culture, Princeton, 1963. E anche, in modo un po (...)

69Il secondo modello di ipotesi si può riassumere in questa proposizione generale: la


partecipazione politica è maggiore quanto più alta è la posizione sociale di un individuo. Nelle
ricerche che confermano questa proposizione, la «posizione sociale» è misurata in vari modi: dal
reddito; dalla posizione professionale (secondo una qualche scala di prestigio); dal grado
d’istruzione (scolarità, titolo di studio); dal livello di consumi; o da qualche indice composto da due
o più di questi indici semplici. Il grado di partecipazione politica è misurato in genere dagli
indicatori che abbiamo elencato all’inizio traendoli dal libro di Milbrath. Altre volte 34 si assumono
anche indicatori che soltanto in senso lato possono considerarsi di partecipazione, come: la
conoscenza di problemi o di personaggi politici; l’interesse per la politica, e simili. In genere questi
indicatori di atteggiamento sono correlati con la posizione sociale in modo anche più alto che gli
indicatori di comportamento.

 35 Cfr. R. E. LANE, Political Life, New York, 1965, p. 195 e sgg.; L. W. MILBRATH, op. cit., p. 110 e (...)

 36 È soprattutto interessante a questo proposito lo studio di S. ROKKAN e H. VALEN, «The Mobilization (...)

 37 Per un bilancio dei risultati ottenuti con questo concetto operativo da circa una trentina di rice (...)

70Recentemente35 i risultati che hanno portato a queste proposizioni sono stati cumulati con altri e
sussunti in un’ipotesi più generale e comprensiva che fa uso della dimensione «centralità-
perifericità». Essa si riferisce alla posizione di cui un individuo gode in un gruppo, e assume che di
essa si possa misurare la maggiore o minore vicinanza a un «centro» del gruppo stesso. E assume
inoltre che si possano stabilire diverse categorie di indicatori (quindi diverse variabili), ognuna
situabile in un diverso «raggio» graduabile dal centro alla periferia. Gli indici tradizionali di
posizione sociale sono tutti situabili in tale dimensione: tanto più alto il titolo di studio di una
persona, tanto più essa è vicina al centro; tanto maggiore il prestigio della professione, tanto più
vicina al centro; tanto più ricca, tanto più vicina al centro, etc. Ma oltre a questi indici tradizionali
se ne possono assumere altri, che apparentemente non dovrebbero avere rapporti con essi: la
durata di tempo di residenza in una certa località; la posizione sociometrica (cioè l’attrazione che si
esercita misurata dal numero di preferenze di cui si gode rispetto agli altri membri) in un gruppo di
amici o di soci; la posizione gerarchica; e persino la posizione territoriale 36. Ora, il fatto che tutte
queste variabili si comportino nello stesso senso nei confronti di una serie di fenomeni, fra i quali il
più importante quello della partecipazione politica, le rende sistemabili in una più generale
dimensione, quella appunto della «centralità-perifericità», la quale viene così ad avere un valore
predittivo molto più alto che le singole variabili componenti 37.

 38 L. W. MILBRATH, op. cit., p. 111.

71L’interesse e l’utilità di questo termine sono inoltre accresciuti dalla particolare corrispondenza
psicologica che esso suggerisce. Essere al centro o al margine delle società non è soltanto un dato
misurabile obiettivamente con degli indici convenzionalmente costruiti; c’è anche «un sentimento
psicologico di star vicino al centro delle cose o di esserne invece fuori, alla periferia» 38. Dal punto
di vista metodologico ciò permette di costruire indici di atteggiamento (di consapevolezza di
posizione soggettiva), che possono eventualmente confermare, o specificare, le correlazioni trovate
fra gli indici obiettivi.

72Cosa sta alla base di questo modello della «centralità», così ricco di conferme empiriche? Come
si spiega tale struttura di relazioni tra fenomeni apparentemente molto diversi?

73Per rispondere, converrà anzitutto distinguere tra diversi tipi di gruppi o collettività a cui tale
modello può venir applicato; una cosa è la posizione di centralità in un gruppo intermedio (etnico,
religioso, associativo, e simili), altra cosa la posizione di centralità nella società nazionale.

74Proviamo allora a applicare il modello alla società nazionale: raffiguriamola come un circolo i cui
raggi rappresentano i canali di accesso al centro, graduabili secondo determinati attributi (livello
d’istruzione; ricchezza; posizione nella professione, etc.), sì da poter misurare a che distanza dal
centro stia una certa posizione individuale. I risultati delle ricerche ci dicono che la correlazione fra
le varie posizioni è in genere molto alta. Fra questi «canali» si può includere quello rappresentato
dalla gerarchia delle posizioni di partecipazione politica (presenza in certe decisioni, grado di
influenza, cariche ufficiali, etc.). Anche esso sarà fortemente correlato con tutti gli altri. La
partecipazione politica appare cioè come un attributo fra gli altri, soggetto alla stessa regola,
prevedibile secondo lo stesso modello, espressione quindi della stessa struttura fondamentale. La
spiegazione di tutto il fenomeno non può allora che andar cercata nella definizione di un certo tipo
di struttura sociale, e di una certa funzione in essa della partecipazione politica.

 39 Questo fenomeno corrisponde a quello dell’accumulazione di esperienza nella carriera, per il quale (...)
75Esaminiamo prima, però, un’apparente eccezione a questo modello di struttura di correlazioni,
che sembra verificabile soltanto fino a un certo livello di questa graduazione da una periferia a un
centro: la cerchia delle posizioni più importanti, quelle prossime al centro, sfugge, almeno
apparentemente, alla regola che le vorrebbe strettamente correlate. Per esempio, gli individui che
stanno più in alto nella gerarchia politica non sono anche i più ricchi né hanno i più alti titoli di
studio; così i più ricchi non sono i più potenti politicamente, etc. In certi casi e in certi periodi,
simili correlazioni sembreranno anche verificarsi, ma è certo, per esempio, che negli attuali paesi a
regime democratico liberale esse non sono significative. Il fatto è che quando si penetra in questa
cerchia centrale, il concetto stesso di ruoli distinti e isolabili non è più adeguato, e così cade ogni
problema di correlazione o meno tra di essi. Più esattamente, i ruoli che potevamo distinguere
secondo una certa classificazione strutturale ai livelli non altissimi della divisione dei compiti sociali
tendono a congiungersi, e come a far corpo unico, quando ci si avvicina al centro, e le
classificazioni usuali – fra cui anche quella che distingue fra attività private e attività politiche –
tendono a diventar inadeguate sia per l’osservatore che per il soggetto stesso che organizza i
propri ruoli. In simili situazioni di vicinanza al centro, l’esperienza che si fa in una certa attività si
cumula integralmente con quella dell’attività successiva 39; il potere che si realizza in un certo
ambito di rapporti sociali si riversa automaticamente in tutti gli altri ambiti. I ruoli (se se ne
eccettuano alcuni minori, come quelli familiari: ma a volte anche questi diventano funzionali al
ruolo principale, come è dimostrato dall’importanza che la famiglia assume per la figura dell’uomo
politico) tendono a fondersi in un solo ruolo onnicomprensivo, che si esprime, fra l’altro, nella
figura privata pubblicizzata. La stessa distinzione fra ruoli pubblici e ruoli privati, cioè, si offusca. Il
grande amministratore privato, nell’esercizio di questo suo ruolo, svolge attività che sono della
stessa natura di quelle che svolge l’uomo politico di governo, e viceversa; e della stessa natura
sono i loro poteri. L’uomo di governo può essere quasi povero, e l’amministratore privato non avere
nessuna posizione politica, e, al limite, non essere neppure mai presente a decisioni politiche; ma
l’uno e l’altro, nell’esercizio dei loro ruoli, governano universi dai confini ben poco segnati – e che
tendenzialmente si sovrappongono.

76Questi due andamenti della partecipazione politica, che appare fino a un certo livello correlata
con la posizione sociale, mentre non lo è più avvicinandosi alle posizioni centrali (o superiori,
o dominanti, che dir si voglia) della società, sono quindi contraddittori soltanto in apparenza.
Entrambi dipendono dalla stessa condizione sistematica: lo speciale rapporto che esiste fra sistema
d’interessi dominante (società civile) e la società politica. Questo rapporto vuole che la
partecipazione politica dei cittadini sia funzione (in senso statistico come in senso funzionalistico)
della struttura d’interessi della società civile. Più esattamente, la posizione politica è uno dei tanti
attributi possibili delle appartenenze civili (private) di un individuo. Così si spiega che tanto più alta
la posizione sociale di un individuo, tanto maggiore la probabilità che partecipi a decisioni politiche;
egli infatti avrà sia maggiori capacità che maggior interesse a parteciparvi. Maggiori capacità,
perché il tipo di esperienza cui la sua posizione privata lo ha abituato gli permette di intervenire in
decisioni politiche, e inoltre perché le persone e gli ambienti che la sua esperienza privata gli ha
permesso di conoscere gli rendono più facile e più efficace il passaggio all’attività politica. Maggior
interesse, perché le decisioni politiche cui può partecipare sono legate in maniera specifica ai
problemi della sua personale posizione nel sistema d’interessi privato.

 40 Questa considerazione non toglie certamente valore a quegli studi che, fra le altre informazioni, (...)

77Ma, secondo la medesima logica, questo stesso rapporto funzionale vuole che quanto più le
decisioni private investono una parte rilevante della collettività nazionale, tanto più esse diventino
indissolubili e indifferenziabili dalle decisioni politiche. A questo punto non si può più parlare di
partecipazione politica; la politica è fatta dai politici di professione, è cioè una «professione», cioè
una specie di compiti nella divisione del lavoro che caratterizza quel dato livello di struttura sociale.
L’origine sociale dei politici, e quindi la correlazione fra posizioni sociali e grado di partecipazione a
cariche politiche, non sono più informazioni utili per comprendere la natura del fenomeno 40.

78Riassumendo, e organizzando l’insieme delle osservazioni secondo tre livelli (pur ricordando che
si tratta di una realtà continua), diremo che:

a) al livello più basso, l’attività politica ha poco significato perché poca capacità si ha di partecipare
a decisioni politiche, e in ogni caso queste non avrebbero una relazione specifica con la posizione
dell’individuo nel sistema d’interessi;
b) al livello medio, le posizioni private sono tali sia da rendere relativamente facile il partecipare a
decisioni politiche, sia da essere abbastanza specificamente interessate da questa o da quella
alternativa politica;

c) a livello più alto e centrale, ogni posizione privata è suscettibile di essere coinvolta in
un’alternativa politica; ed è a sua volta in grado di produrre decisioni di portata politica, cioè
vincolanti per una parte rilevante della collettività. Non si può più parlare in senso proprio di
partecipazione politica, ma di professione politica e di rilevanza politica delle decisioni private.

 41 Prima che il concetto di centralità venisse formulato esplicitamente, gli studi del gruppo di Laza (...)

79Ma il modello della centralità ci permette di illuminare anche un altro fenomeno, diverso, ma
concordante con la spiegazione generale precedente. Finora abbiamo applicato il modello alla
società nazionale nel suo complesso, con la sua divisione del lavoro e la sua gerarchia di posizioni.
Esso, però, si sa, è fruttuoso anche quando lo si applica ai singoli gruppi intermedi 41.

 42 Sul concetto di pressioni contrastanti, cfr. l’articolo già citato di G. SIVINI, in questo fascico (...)

 43 Una situazione di questo genere finora è stata studiata solo in Norvegia, grazie alle ricerche com (...)

80Quanto più un individuo è inserito in un gruppo omogeneo, tanto maggiore, a parità di


condizioni, sarà la sua partecipazione politica. Quanto più esso si troverà ai margini di un gruppo, e
quanto più, di conseguenza, esso sarà sottoposto a pressioni contrastanti riguardanti la lealtà a
quel gruppo,42 tanto minore sarà la sua partecipazione politica. Così, negli Stati Uniti, è molto più
probabile che partecipi a attività politica il polacco cattolico, che vive in un quartiere polacco, che
non il polacco ateo che vive isolato dal suo gruppo etnico. Il significato di queste osservazioni
concorda con le interpretazioni precedenti: la partecipazione politica è espressione
dell’appartenenza a un certo gruppo sociale; quanto più sicura l’appartenenza tanto maggiore la
partecipazione politica. In una società dove i gruppi intermedi siano forti, com’è la società
americana, la correlazione fra posizioni sociali misurate unicamente sulla scala della centralità
nazionale, va corretta nel senso che gruppi intermedi forti possono costituire isole di partecipazione
politica intensa. Questo tipo di partecipazione politica viene spesso indicato come «partecipazione
subculturale». Se la sua base è un’intera classe sociale (operaia, o contadina, in genere) esso può
rovesciare la correlazione fra le posizioni misurate secondo la centralità nazionale e la
partecipazione politica; e dà luogo a una nuova funzione della partecipazione 43. Se questa
partecipazione è organizzata e si afferma con un sistema di valori che si oppone a quelli della
società nazionale, abbiamo un «movimento sociale», e le proposizioni che ci permettono di
prevedere l’andamento della partecipazione diventano quelle che abbiamo esaminato sotto il
modello della coscienza di classe.

7. Movimenti sociali e partecipazione


subculturale
 44 Il concetto di subcultura finora non è mai stato definito in maniera sistematica. Alcuni spunti so (...)

 45 Cfr. A. K. COHEN e H. M. HODGES, «Characteristics of the Lower-Blue Collar-Class», Social Problems(...)

81Possiamo dire allora che la partecipazione subculturale è dello stesso genere, ma si differenzia in
maniera specifica dalla partecipazione a un movimento sociale 44. Entrambe hanno in comune di
essere fuori dalla struttura di canali convergenti che conducono allo Stato come normatore del
sistema d’interessi dominante, allo Stato funzionario della società civile. Entrambe cioè rispondono
a valori diversi, e, in qualche misura, autonomi, rispetto a quelli del sistema; ma mentre il
movimento sociale propone valori alternativi, la subcultura accetta, o subisce, i valori della società
globale, solo elaborandone marginalmente altri, che le permettono di isolare i suoi membri, almeno
parzialmente, dalle conseguenze di rapporti che sono loro sfavorevoli. Una subcultura infatti
raggruppa individui che secondo i valori prevalenti si sentono in condizioni d’inferiorità e che quindi
ritengono più conveniente limitare i loro rapporti all’interno di un’area omogenea – un’area di
uguaglianza – delimitata appunto sulla base del comune attributo che determina la reale o
presunta inferiorità. Varia può essere la natura di quell’attributo: linguistica, etnica, di occupazione,
politica, a volte semplicemente di generazione (nel caso delle subculture giovanili), e simili. Il
raggrupparsi fra chi lo ha in comune permette di sentirsi fra uguali, e grazie a esso di identificarsi e
creare una solidarietà. Entro una piccola cerchia d’incontri, per una parte dei comportamenti
quotidiani, si annullano allora gli effetti del sistema di disuguaglianze imperante. I contatti esterni
vengono evitati per un calcolo del tutto razionale: la probabilità, in ogni contatto esterno, di
trovarsi in posizione d’inferiorità (in situazione, per esempio, di disprezzo culturale, o di soggezione
sociale) è maggiore della probabilità di trovarsi in posizione di superiorità o di uguaglianza. Si
verifica allora quello che da alcuni studiosi della classe operaia è stato chiamato il modello culturale
della «preferenza per il familiare»45: si preferisce ciò che si sente come familiare, ciò che si
conosce già, i vecchi amici, il vicinato, si rifugge dalle innovazioni: perché appunto si sa che il
nuovo può portare sorprese spiacevoli. Si pensi inoltre che la situazione lavorativa è sempre
occasione di esperienze di subordinazione; nessuna sorpresa quindi che almeno nei rapporti non
determinati dall’organizzazione del lavoro, si preferisca restare insieme con persone che possono
ritenersi propri pari.

 46 È questo uno dei temi dominanti di W. F. WHYTE, op. cit., passim.

82Queste le basi della subcultura. La quale poi si forma perché l’uomo non accetta di giudicare la
propria condotta come obbligata; ha bisogno di giustificarla, di potersela proporre come una scelta,
come una preferenza, di poterne essere in qualche modo orgoglioso. Da qui nasce tutta
quell’elaborazione subculturale che permette di fondare i criteri di giudizio che valorizzeranno
l’isolamento dalla società dominante, che trasformeranno la sconfitta personale in preferenza,
l’inferiorità in orgoglio. Che costruisce immagini e miti e folkways per attutire gli urti e spuntare i
valori che possono ferire. Così, quando la cultura esterna, in omaggio alle esigenze del sistema
d’interessi, incoraggia l’ascesa sociale, la subcultura la disprezza e deride: l’«uomo che si fa da sé»
diventa l’«arrivista», il climber, e gli amici, che non si sentono più suoi «pari», se sono in possesso
di questa strumentazione subculturale, saranno in grado di respingerlo senza esserne feriti 46.

 47 Il recente movimento del Black Power è un tentativo di esaltare una situazione subculturale e di o (...)

83Ma i valori della subcultura sono limitati; essa non è mai in grado, né lo pretende, di proporre
valori validi anche per gli altri. In fondo, il membro della subcultura accetta di essere membro
anche della società globale (della società nazionale), accetta le sentenze che il gioco degli interessi
dominanti emana; cerca soltanto di annullarne alcuni effetti negativi per sé e per alcuni altri
intorno a sé. Quando la subcultura «fa politica», non avendo da contrapporre un sistema di valori
che neghi la fonte stessa della sua inferiorità, se ne farà una forza nel gioco politico. L’operaio
dei working men’s clubs del partito conservatore, l’italiano del North End o il negro di Harlem,
quando utilizzano la loro solidarietà subculturale per «far numero» nelle competizioni elettorali o
nelle partecipazioni organizzative, sfruttano il peso politico dei loro attributi d’inferiorità civile. Ne
ricevono vantaggi nella misura in cui quegli attributi d’inferiorità vengono perpetuati. La differenza
fra la clientela negra di Tammany Hall e il movimento dei civil rights è che la prima fa politica per
l’attributo, inferiorizzante, dell’esser negro, la seconda rivendica l’abolizione di quell’attributo.
Concretamente, i due atteggiamenti si possono sovrapporre, integrare l’un l’altro, succedere l’uno
all’altro nella stessa persona o nello stesso gruppo. Tatticamente, la clientela subculturale può
essere a volte preferibile e più efficace del «movimento» 47. Ma è chiaro che, come tipi ideali, essi
rispecchiano una differenza fondamentale: quella fra partecipazione a fini particolaristici e
partecipazione a fini universalistici.

84La qualità universalistica del movimento sociale è connaturata alla sua azione mirante a
sostituire certi valori ad altri della cultura dominante. Infatti, se si propongono valori nuovi, vuol
dire che si è in grado di valutarne la superiorità rispetto ai vecchi, che si presume cioè di possedere
un sistema di valori che comprende e supera il precedente come l’universale fa del particolare.
Anche quando una rivendicazione riguarda una sola categoria di persone, come per i movimenti
femministi all’inizio del secolo, i valori che fondano la rivendicazione vengono affermati come
universalistici di fronte al particolarismo dei valori da superare. Il caso classico è poi naturalmente
quello del movimento socialista tradizionale, che rivendica una nuova società e un nuovo sistema di
valori in nome dell’universalità di cui è portatrice la classe operaia in quanto classe sfruttata e
classe creatrice di valori.
 48 Cfr. J. M. YINGER, «Subcultures and Contracultures», American Sociological Review, XXV, 1960, pp. (...)

85A volte il movimento crea la sua propria subcultura. Ma il rapporto fra movimento e subcultura è
complesso. Il movimento nasce con dei fini di trasformazione in momenti in cui già lo stato della
società tende a esprimere le premesse della trasformazione; i suoi fini sono quindi una risposta a
queste esigenze di trasformazione. Se i fini non vengono raggiunti in un tempo relativamente
breve, il movimento deve cercare di organizzarsi e stabilizzarsi. Nel caso che si tratti di un
movimento che si propone dei fini di trasformazione globale della società, e che quindi avanza un
nuovo sistema di valori, esso sarà portato a organizzarsi applicando per quanto possibile quei
valori, anticipandone così «in nuce» la realizzazione. I membri del movimento, i militanti, cioè,
valuteranno le proprie azioni in base a quei valori la cui realizzazione universale è il fine dichiarato
del movimento. In questo senso il movimento costruisce una sua subcultura, che però
si contrappone, non si sottopone, alla cultura dominante: una «controcultura», si potrebbe dire
(ma questo termine è stato adoperato per un fenomeno differente) 48; o una «controsocietà», o
una società «in nuce»; o, come diceva la tradizione socialista, uno Stato «in nuce».

86Ma pure questa è una forma instabile. La «controsocietà» è in realtà obbligata a vivere nella
società, quindi a farsi accettare e a conformarsi, in maggiore o minor grado, alle norme dominanti.
Oppure dovrà isolarsi, ripararsi dagli effetti negativi di queste norme, ma allora rinuncerà a ogni
efficacia della sua azione nel raggiungimento degli obiettivi.

 49 I partiti di massa in Italia attualmente si stanno conformando a questa situazione: sono subcultur (...)

 50 Un celebre studio di come la subcultura social-democratica si sia stabilizzata nella Germania impe (...)

87Al movimento che non riesce a raggiungere in un tempo breve i suoi obiettivi, sono aperte quindi
soltanto due vie d’uscita: o inserirsi nel sistema dei fini privati della società civile, o rinchiudersi
nella subcultura. A volte, una medesima organizzazione, un’unità sociale che porta lo stesso nome,
comprenderà in sé entrambi i momenti: sarà organizzazione inserita e sostanzialmente conforme
alle norme del sistema, nella sua «parte alta»; sarà subcultura chiusa in tante isole localistiche, alla
base49. In questi casi, però, l’esistenza unitaria del movimento è precaria; essa sarà favorita da
qualche contingente incapacità di completo inserimento (come per i socialdemocratici della
Germania imperiale)50, ma appena o un completo inserimento sia possibile, o ai singoli membri
delle unità subculturali si offra un’alternativa di appartenenza, il movimento si scioglierà.

88La subcultura, e, ovviamente, il movimento sociale, sono quindi entrambi condizioni favorevoli
alla partecipazione politica, ma a tipi diversi. Possono entrambi, però, assumere forme in cui la
partecipazione politica resta del tutto esclusa; forme religiose, per esempio, il movimento; apatia o
comportamento deviante, la subcultura.

8. Conclusioni e tipologia
89Muovendosi fra la letteratura specializzata nella trattazione del problema della partecipazione
politica, non si può non provare ben presto un certo disagio per l’insufficienza o la dispersione degli
strumenti concettuali che vengono adoperati. La ristrettezza della nozione stessa è la prima causa
di insoddisfazione. Di fronte all’abitudine culturale europea di concepire come politicizzata gran
parte della vita sociale, la ricerca empirica, di ispirazione nordamericana, si è mossa finora secondo
esigenze opposte, cercando un terreno fermo ma limitato. Le due esigenze sono legittime: quella di
limitare il campo, ma anche quella di cogliere tutta la ricchezza di motivi che viene alla vita politica
dalle sue potenzialità universalistiche e dalle sue radici nella lotta per superare le strutture di
disuguaglianza della società civile.

90Un altro disagio proviene dall’inesistenza di un’analisi storica del problema della partecipazione


politica. Certo, non si può dire che studiosi specializzati nel nostro tema, come Robert Dahl, Robert
Lane, Seymour Lipset, Stein Rokkan, e altri, manchino di retroterra storico. Ma ciò che ancora non
è stato chiarito è il modo di formarsi e di modificarsi dei termini con cui, sia il pensiero politico e
l’ideologia, sia la scienza politica e la sociologia, hanno posto il problema della partecipazione.
Questa mi sembra una analisi indispensabile allo scopo di precisare quali sono i diversi tipi di
partecipazione che vengono considerati da differenti trattazioni e ricerche. A parte qualche accenno
in articoli di Stein Rokkan, si tratta di un lavoro tutto da fare.
91Se il lavoro di ricostruzione storica dei termini non è stato fatto per nulla, quello di ricostruzione
razionale non è molto più avanzato. Come riallacciare il concetto di partecipazione politica a
concetti più generali? Come stabilire quindi un principio che possa unificare le proposizioni
particolari da porre alla prova della ricerca? E che permetta, inoltre, di dar conto della divergenza
fra modelli come quello della coscienza di classe e quello della centralità? La proposizione che,
tendenzialmente, «si partecipa solo quando ci si trova tra pari», con quelle che ne derivano,
riguardanti le condizioni della solidarietà, e il diverso peso delle fasi di entusiasmi collettivi e delle
fasi di organizzazione, è una proposta in questa direzione.

92Il riallacciarsi a una dicotomia fondamentale dell’azione sociale, e il distinguere tra radici statuali
e radici classiste della lotta politica, aveva lo scopo di far emergere e di fondare sistematicamente
una tipologia della partecipazione politica. Avendola descritta finora in diversi punti, la raccolgo e
preciso qui. I tipi sono quattro e sono fondati sul comporsi delle variazioni del rapporto «azione
d’interessi - azione politica» (statuale o di classe) e del rapporto «azione statuale (inserita nei fini
dello Stato) - azione extrastatuale (estranea, almeno originariamente, ai fini dello Stato)». La
figura 1 mostra la posizione rispettiva dei quattro tipi.

Fig. 1. I tipi di partecipazione politica

la solidarietà politica è la solidarietà privata è


prevalente prevalente

azione inserita nel sistema professionismo politico a partecipazione civile alla


statuale politica b

azione extra statuale c movimento sociale d subcultura

a) La partecipazione professionale alla politica è definita dal fatto di vivere di politica. Essa implica
quindi che esista un sistema di divisione del lavoro in cui la funzione politica è riconosciuta
specificamente come tale; inoltre è considerata come una fra le altre specializzazioni della divisione
del lavoro, e quindi facente parte, almeno per un verso, della struttura della società civile. Poiché
per altro verso essa fa parte dell’organizzazione dello Stato, la sua semplice presenza,
indipendentemente dalle variazioni che assume, implica un certo rapporto organico tra Stato e
società civile. Sia storicamente che logicamente, del resto, essa può essere considerata
un’imposizione dello Stato alla società civile.

93Per il professionista della politica c’è tendenziale coincidenza fra i valori che misurano le azioni in
vista del suo interesse privato (in quanto definito all’interno della sua «professione») e i valori che
misurano le azioni in vista di questa o quella solidarietà politica (a diversi livelli: di gruppo, di
partito, di classe, di nazione). Il sistema d’interessi di un politico, in quanto politico, però, è definito
dalle forme di solidarietà politica operanti in un certo momento, non dal sistema d’interessi della
società civile.

94Se esiste una professionalizzazione del far politica, non può non formarsi anche un’etica
professionale corrispondente. Come per il medico o per l’avvocato, che, pur perfettamente
giustificati a perseguire il loro interesse individuale nell’esercizio della loro professione, non
possono non conformarsi a certe norme etiche professionali specifiche, così per la professione del
politico, esistono, implicite o esplicite, delle norme etiche. Esse derivano dalla sua situazione
(potenzialmente contraddittoria, ma non più che per le altre professioni) di essere sia
rappresentante di interessi privati (della sua organizzazione o dei suoi mandatari), sia di interessi
dell’intera collettività nazionale; sia funzionario privato, sia funzionario dello Stato (nel senso lato
del termine).

 51 Non occorrerà ricordare che al termine «civile» non si dà qui alcun valore positivo o negativo. Pe (...)

b) La partecipazione civile 51 alla politica è quella che abbiamo analizzato più a lungo in questo
articolo. Anch’essa è integrata nel sistema di rapporti che legano la società civile allo Stato, ma è
espressione della domanda e delle imposizioni che l’una rivolge all’altro. Essa è cioè funzione delle
solidarietà che si formano nella lotta degli interessi privati. Si distingue dalla partecipazione
subculturale perché gli interessi di cui è espressione sono quelli che ricevono apprezzamento
positivo nel sistema dominante. Inoltre, per le ragioni che abbiamo visto, l’intensità di questo tipo
di partecipazione è funzione della posizione sociale, è cioè maggiore quanto più alta è la posizione
sociale; mentre opposto è il caso della partecipazione subculturale.

95Essenzialmente la partecipazione civile è attuata in vista di una conferma della struttura sociale
esistente; questo non esclude l’azione di modifica e correzione del funzionamento del sistema – né
implica necessariamente la lotta contro i movimenti riformistici. Gli indicatori più caratteristici di
questo tipo di partecipazione sono: l’adesione a partiti d’opinione (elettorali); l’appartenenza ad
associazioni volontarie integratrici del sistema; i rapporti d’affari, di amicizia, di consulenza con gli
uomini politici professionali; l’appartenenza a gruppi corporativi, d’interesse, e altri simili.

96Una larga diffusione di questo tipo di partecipazione indica un alto grado d’integrazione fra
società civile e Stato; assenza di polarizzazione sociale della politica (le divisioni fra le parti
politiche non corrispondono alle divisioni di classe, o ad altre divisioni radicali – per esempio
religiose o etniche – nella società); una debole incidenza dei partiti di massa.

c) La partecipazione a movimenti sociali si pone fini, ampi o limitati, di riforma della società, e può
essere considerata come «un’impresa collettiva per stabilire un nuovo ordine di vita» (Blumer). Lo
Stato quindi, se viene preso in considerazione dal movimento, è in vista della sua possibile qualità
di agente mobilitatore del potere necessario per trasformare la società, e non come normatore
dell’ordine civile esistente; non può aver di mira, quindi, che di modificare i fini stessi dello Stato,
almeno quali l’ideologia del movimento li interpreta. Essendo «un’impresa collettiva», esso si
distingue dalla subcultura. Inoltre esso pone i principi stessi dell’identificarsi e del raggrupparsi
degli individui membri, mentre la subcultura nasce su un’identificazione già data, «naturale»,
attribuita da altri. Nella misura in cui è politico, quindi, il movimento fa prevalere una
identificazione e solidarietà politica sulle identificazioni e solidarietà private dei membri.

97Benché sia molto più facile che i membri di un movimento siano reclutati fra gli strati bassi e le
classi subalterne di una società, è assai probabile che, dato il suo carattere potenzialmente
universalistico, esso sia anche in grado di reclutare membri da diverse classi. Così il movimento
operaio ha reclutato borghesi e intellettuali; e anzi si può accettare l’affermazione leniniana che
quanto più rilevante è stato il ruolo degli intellettuali, tanto più accentuato è stato il carattere
universalistico dei fini che il movimento si è proposto.

 52 Il concetto di «mobilitazione sociale», ora usato soprattutto nello studio delle trasformazioni po (...)

98Il movimento sociale non è una forma stabile di partecipazione: o raggiunge i suoi scopi o si
trasforma. Le condizioni che lo fanno sorgere possono riassumersi in quelle delle situazioni di
«mobilitazione sociale»,52 che generalmente conseguono a mutamenti nella struttura della società
civile; o a mutamenti nei rapporti tra gli Stati, e quindi essenzialmente a formazioni di nuovi stati e
a guerre.

 53 Cfr. E. ALLARDT, «Social Sources of Finnish Communism», International Journal of Comparative Socio  (...)

d) La subcultura è alla base di una partecipazione che esprime posizioni e solidarietà private
precedenti l’eventuale azione politica; ma, a differenza della partecipazione civile, essa è esclusa
dai normali canali che accedono alle istituzioni statali, ed è in comunicazione con essi solo
attraverso intermediari (il boss, l’organizzatore del partito di massa che non è più «movimento»,
etc.). Una linea di demarcazione esatta dalla partecipazione di tipo civile è difficile a segnare; in un
certo senso, la partecipazione politica di una subcultura, è anch’essa un tipo instabile, perché o
cade nell’apatia o si trasforma in partecipazione civile (la quale del resto è una condotta che
permette, in genere, di uscire dalla subcultura). Ma l’isolamento politicizzato può durare a lungo.
Chi ponga mente a situazioni come quelle dei «circoli familiari» dell’alto Milanese, con la loro rete
associativa o cooperativa; ai clubs democratici di immigrati a New York fino a qualche tempo fa;
alle comunità social-democratiche tedesche descritte da G. Roth o al «comunismo industriale»
finlandese, descritto da E. Allardt 53, può facilmente ricostruire i connotati di questo tipo e le ragioni
della sua persistenza.

9. I dati italiani
99I fenomeni di partecipazione politica di tipo «civile» sono certamente quelli sui quali esistono
maggiori dati quantitativi e analitici. Gli studiosi nordamericani hanno finito per identificare questo
tipo con la partecipazione politica tout-court, rinunciando a distinzioni fra tipi diversi, anche per
quanto riguarda la classificazione di indicatori che permettano esami comparativi. Le ricerche sui
movimenti sociali, sulle subculture e sulla professione politica, pur molto ricche, non sono state
finora connesse sistematicamente con lo studio della partecipazione.

100Una visione unitaria del fenomeno, e studi che tengano conto delle relazioni tra i vari tipi di
partecipazione, sono quindi il compito più urgente.

 54 Benché molti studi in Italia abbiano toccato indirettamente il fenomeno che c’interessa, quasi nes (...)

101I dati italiani di cui disponiamo non corrispondono ancora a questa esigenza 54. Ma una parte di
essi già suggerisce ripensamenti di natura tecnica. Riassumo qui in alcuni punti ciò che mi sembra
significativo in questo senso.

 55 I dati disaggregati saranno analizzati prossimamente.

1. - In Italia in molti casi la correlazione fra posizione sociale e grado di partecipazione politica non
si verifica. I dati esposti da G. Martinotti nel suo articolo («Caratteristiche dell’apatia politica») sono
tratti dall’intero campione della ricerca milanese e sono una chiara indicazione in questo senso.
Vero è che essi cumulano l’iscrizione ai partiti politici con quella ai sindacati 55 e che quindi
sopravvalutano la partecipazione operaia; ma È vero anche che in Italia (meno forse oggi che
qualche anno fa) l’iscrizione al sindacato ha carattere politico. Che questa correlazione, almeno in
certi casi, non si verifichi, è ovviamente dovuto alla azione organizzativa dei partiti di massa a base
classista, e quindi alla formazione di subculture fortemente radicate – in genere operaie (come nel
caso milanese), ma a volte anche piccolo-borghesi o contadine.

Le ricerche di L. Cavalli a Genova, già alcuni anni fa, purtroppo non continuate, avevano cominciato
a mettere in luce dei tipici esempi di subculture operate. In successive analisi dei dati della nostra
ricerca milanese, ci proponiamo di mostrare in che modo e in che misura un ambiente subculturale
esercita sull’individuo una pressione politicizzante, di natura localistica e «chiusa» (nel senso
weberiano).

 56 Cfr. la presentazione di questo fascicolo [NdR: vol. XV, n. 3-4, 1966. Nella presentazione del fas (...)

 57 Cfr. J. LA PALOMBARA, op. cit., p. 134 sgg.

2. - La situazione precedente È legata a un altro fenomeno, che è  probabilmente abbastanza tipico


della situazione italiana postbellica (esso non appare negli articoli pubblicati in questo fascicolo, ma
è rilevabile sia dal materiale inedito, sia in parte dalle monografie I.L.S.E.S. di L. Fioretti e G.
Pellicciari, incluse nella relazione di ricerca) 56: la vita associativa è  quasi interamente inserita in
qualche matrice politica (partitica); e ciò è  più forte per gli strati subalterni che per gli strati alti
della scala sociale. La grande maggioranza delle sedi di vita associativa che abbiamo incontrato
nella nostra ricerca (dalle bocciofile alla Croce Verde, dai circoli alle cooperative di consumo), o
appartenevano a organismi politici, o erano più o meno scopertamente influenzate o controllate da
essi. Il paradosso di simile situazione è  dato dal fatto che essa si accompagna con diffuse
dichiarazioni di apoliticità e di sfiducia nelle istituzioni e nell’azione politica, da parte della
popolazione che dovrebbe essere potenzialmente interessata da queste occasioni associative. Molto
spesso, poi, i legami politici sono negati dai partecipanti stessi 57.

Tutto ciò ha fondamenti storici e strutturali abbastanza noti.


 

102Dopo la guerra, la vita associata in Italia rinacque da zero, e qualsiasi raggruppamento si


formasse era in nome di identificazioni politiche. I partiti non solo erano le prime e maggiori
organizzazioni collettive, ma erano alla radice praticamente di tutte le altre. Gli entusiasmi collettivi
in vista di una possibile trasformazione radicale della società, e il porsi dei partiti come unici
possibili agenti di questa trasformazione, non solo rendevano diffusa e intensa la partecipazione
politica, ma selezionavano all’attività partitica le persone più disposte all’iniziativa sociale e più
dotate per l’organizzazione collettiva. Per molto tempo, e in parte tuttora, dovendo far sorgere
un’iniziativa collettiva, il ricorso al partito, o alla persona di partito, è stato di regola. Ne nascevano
forme di incrostazioni associative, per chiamarle così; cioè di organizzazioni collegate e parallele,
quindi di appartenenza plurime degli stessi gruppi di individui alle stesse associazioni (partito,
sindacato, cooperativa, circolo familiare o vinicolo o parrocchiale, bocciofila, etc.). Queste sono le
condizioni che, unite a quelle di continuità residenziale, conducono a forme di subcultura.

3. - Se le sedi di vita associativa e i possibili criteri di «appartenenza civile» hanno una matrice
politica, e se quindi i gruppi principali della società civile hanno identificazioni politiche, la scelta
politica dovrebbe essere prevalente rispetto alle appartenenze civili, e non espressione di queste,
come nella situazione di tipo nordamericano. I dati analizzati nell’articolo di G. Sivini in questo
fascicolo, pur nella loro incertezza quanto a significatività statistica, e turbati da circostanze
contingenti, confermano questa ipotesi. Sottoposto a pressioni contrastanti, e quindi in situazioni di
incertezza quanto al comportamento politico che debba corrispondere alle sue appartenze civili,
l’elettore americano rinuncia alla scelta politica; l’elettore italiano invece accresce il suo interesse
per le informazioni che gli permettono di discriminare differenti alternative e quindi giustificare la
scelta. Se questa ipotesi verrà confermata da altre ricerche – che dovranno essere più specifiche
soprattutto per quanto riguarda il meccanismo della scelta – ci troveremo di fronte a
un’interessante sfida teorica.

4. - Un altro tipo di dati che le elaborazioni della nostra ricerca ci forniscono ripetutamente, in
maniera abbastanza compatta, è difficilmente riconducibile a particolarità della situazione italiana,
e va probabilmente interpretato specificando il modello «centro-periferia». Si tratta di questo: i
ruoli periferici (cioè quelli che, per varie ragioni, sono meno integrati nella società; e esattamente,
tra quelli esaminati finora, i giovani, le donne, gli immigrati) manifestano una partecipazione media
molto bassa, ma mostrano punte molto alte in corrispondenza di certi caratteri (soprattutto
dell’alta istruzione). Così, gli immigrati in media partecipano meno degli urbani, ma se hanno
un’alta posizione sociale e soprattutto un’alta istruzione, partecipano più dei loro corrispondenti
urbani (come appare dall’analisi dell’articolo di M. Paci in questo fascicolo). Qualcosa di analogo
accade per le donne (secondo elaborazioni non ancora pubblicate) e, pur se solo in certi livelli di
partecipazione, per i giovani (come dall’articolo di G. Martinotti in questo fascicolo). Come spiegare
questo fatto?

Se consideriamo che è soprattutto in corrispondenza dell’alto grado di istruzione che si verificano le


punte di alta partecipazione tra i periferici, potremmo pensare che l’istruzione – già di per sé
fattore di partecipazione – agisce tanto più fortemente quanto più è concentrata (= distribuita
inegualmente). In altre parole, nelle categorie dove l’alta istruzione è più rara (ciò vale per le
donne e per gli immigrati) la sua influenza positiva sulla partecipazione sarebbe maggiore.

 58 Per i fondamenti di questi concetti, cfr. il mio articolo sulle «incongruenze di status», in quest (...)

Ciò va interpretato però in funzione di un altro fatto. I ruoli periferici che abbiamo analizzato, sono
tutti ruoli attribuiti (ascribed ); l’individuo cioè se li trova attribuiti senza esserseli scelti. (Questo
vale, contro ogni apparenza, anche per il ruolo dell’immigrato, il quale è tale non perché ha scelto
di migrare, ma perché porta con sé un carattere distintivo – attribuitogli dagli altri – che lo fa
percepire differente dagli altri). Chi, pur svantaggiato da questi attributi, consegue posizioni sociali
alte, alto grado d’istruzione, etc., si troverà a agire in un sistema di valori che valuta
negativamente le qualità attribuitegli, e positivamente le qualità conseguite 58. È possibile che la
partecipazione politica sia intesa come strumento per forzare una valutazione positiva delle qualità
attribuite, in quanto strumento di modificazione, almeno parziale, dei criteri di valore. La donna
altamente  istruita, in grado di far politica, userà questa sua capacità per annullare lo svantaggio
originario in cui un certo sistema di valori pone la donna in generale; così l’immigrato; etc.
Agirebbe cioè in questi casi una specie di solidarietà generalizzata di appartenenza a certe
categorie periferiche, la quale stimolerebbe a partecipare chi ne è in grado tra quelli che vi
appartengono.

In complesso si può dire che nei ruoli periferici si partecipa eccezionalmente, ma che proprio le
condizioni di eccezionalità stimolano punte molto alte di partecipazione.

Questo è in genere, quando anche altre circostanze favorevoli si manifestano, un terreno fertile al
sorgere di movimenti sociali specifici. In Italia questi impulsi – forse anche non molto forti – sono
stati assorbiti dai partiti di massa, che li hanno incanalati (casi U.D.I., C.I.F., Movimenti giovanili
vari, etc.) e li hanno tradotti nel gioco governativo o partitico.

5. - I dati analizzati da M. Paci (soprattutto quelli tratti dalla ricerca di G. Almond e G. Verba)
suggeriscono spunti per l’approfondimento di un altro aspetto della perifericità in Italia: quello
geografico (o «provinciale»).

Le élites sociali di provincia mostrano più alta partecipazione politica delle élites sociali delle grandi
città. Perché? Due spiegazioni sono possibili: a) partecipano molto per la loro posizione di centralità
locale (secondo il modello «centro-periferia»); b) partecipano molto per lo squilibrio in cui si
trovano, tra posizione centrale localmente e posizione periferica nazionalmente. La prima ipotesi
sembrerebbe confermata dal fatto che gli interessi che manifestano sono soprattutto locali. La
seconda dal fatto che i membri delle élites che emigrano conservano l’alta partecipazione anche
nella grande città; dove chiaramente si trovano in situazioni di squilibrio.

Nei casi in cui la seconda ipotesi è vera, è interessante notare che ci sarebbero ragioni per
orientare la partecipazione politica sia in senso reazionario che in senso progressista. Reazionario,
se si fonda sulla considerazione che la qualità che il sistema di valori imperante sottovaluta è una
qualità attribuita, cioè i loro privilegi sociali (in genere fondati sulla proprietà terriera). Progressista,
se si fonda sulla considerazione che il sistema imperante sottovaluta una posizione da loro
conseguita, quale l’alto vano in situazione di squilibrio.

Tutti questi dati non permettono ancora conclusioni; sono il punto per prossime ricerche.

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Note

1 L. W. MILBRATH, Political Participation, Chicago, 1965, p. 18. Questo libro è un utilissimo inventario in
forma elementare di tutte le ricerche condotte finora sulla partecipazione politica, con una classificazione
dei loro risultati. Malgrado i suoi limiti di manuale destinato agli studenti, lo prendo come punto di
riferimento perché rappresenta una ricapitolazione delle conoscenze sul nostro tema.

Nel 1950 J. L. WOODWARD e E. ROPER, «Political Activity of American Citizens», American Political Science


Review, XLIV, 1950, pp. 872-885 (list, in Political Behavior, a cura di H. EULAU, S. J. ELDERSVELD e
M. JANOWITZ, Glencoe, 1956, pp. 133-137), ai fini di una delle prime grosse ricerche empiriche sulla
partecipazione politica, stabilivano una lista di indicatori che essi stessi raggruppavano in cinque «canali»
di possibile influenza sui legislatori e sui funzionari di governo. Essi erano: 1) votare; 2) sostenere gruppi
di pressione diventandone membri; 3) comunicare personalmente con legislatori; 4) partecipare in
attività di partito; 5) impegnarsi regolarmente nella diffusione di opinioni politiche per via verbale con
altri cittadini. Quindici anni dopo, la lista riassuntiva di Milbrath mostra poche variazioni, che vanno nel
senso di dare più importanza al processo elettorale e meno alla pressione politica diretta. Molto
probabilmente non sono dovute a motivi concettuali, ma soltanto tecnici, relativi alla situazione di
intervista, e alla discriminanza statistica di certi indicatori.

2 È interessante notare che Milbrath classifica in tre gruppi i fattori con cui finora si è cercato di spiegare
la partecipazione politica: fattori personali; ambiente politico; posizione sociale (esposti rispettivamente
nei capitoli III, IV e V, op. cit.).
3 Cfr. S. ROKKAN, «Mass Suffrage, Secret Voting and Political Participation», Archives Européennes de
Sociologie, II, 1961, p. 138.

4 Tale rivendicazione era implicita da sempre nell’atteggiamento del Terzo Stato di fronte alla politica.
Nello Stato pre-revoluzionario ciò corrispondeva all’atteggiamento anche degli altri ceti, e si opponeva
alla concezione della politica che avevano la monarchia e il gruppo di politici con i quali essa cercava di
governare. Nello Stato di sovranità popolare, la borghesia conserva, a questo proposito, l’atteggiamento
che aveva prima della rivoluzione e che resta costante caratteristica del suo stile politico.
Paradossalmente, la visione marxiana originaria della politica, tutta risolta nei rapporti strutturali della
società civile, trova le sue radici proprio in questo «stile» borghese pre e post-rivoluzionario.

5 L’attribuzione di progressista alla lotta per la costituzione e l’allargamento del civil service (la prima


legge costitutiva è del 1883) è tradizionale. In realtà, si sa che essa è contestata e che spesso si
considera che la funzione del bossismo, del clientelismo e favoritismo nella politica americana, sia stata
positiva in senso democratico e popolare, soprattutto perché ha permesso l’accesso degli immigrati alle
istituzioni democratiche. Cfr. principalmente R. HOFSTADTER, L’età delle riforme (trad. it.), Bologna, 1962.

6 Che ci fosse una logica «espansiva» presente sin dai primi allargamenti del suffragio è dimostrato, se
non altro, dal fatto che Tocqueville aveva puntualmente previsto il suo esito e le sue conseguenze.

7 Art. cit., p. 133.

8 Sono d’accordo con G. SARTORI (Partiti e sistemi di partito, Corso di Scienza politica, Firenze, 1964-
1965, p. 38 sgg.) sulla necessità di articolare in modo più complesso la tipologia classica affermatasi col
Duverger. Per i nostri scopi qui, però, essa è sufficiente.

9 Solo del sistema economico capitalista o anche di quello socialista? Secondo la teoria tradizionale, solo
del primo. Ma secondo i dati storici, che del resto si stanno accumulando sotto i nostri occhi, il discorso è
da fare.

10 Cfr. T. H. MARSHALL, Class, Citizenship, and Social Development, New York, 1965, e R. BENDIX, Nation


Building and Citizenship, New York, 1964 e soprattutto il capitolo III.

11 Cfr. R. BENDIX, op. cit., pp. 66-67.

12 Cfr. C. H. TITUS, «A Nomenclature in Political Science», American Politicai Science Review, XXV, 1931,


p. 45, citato in D. EASTON, The Politicai System, New York, 1960, p. 107.

13 Op. cit., p. 112.

14 Ibidem.

15 La definizione classica è quella di M. WEBER in Il lavoro intellettuale come professione (trad. it. di A.
Giolitti), Torino, 1966, p. 48. Cfr. anche Economia e società (trad. it. di T. Biagiotti et al.), Milano, 1961,
vol. 2, pp. 203-204.

16 Naturalmente si tratta di dottrine espresse da correnti e frazioni ben differenti l’una dall’altra e,
quando contemporanee, in lotta fra loro. Ma è difficilmente contestabile che tutte esse, come altre
minori, costituissero un tentativo di interpretare, da un punto di vista marxista, il fenomeno
contemporaneo delle solidarietà nazionali.

17 Si pensi alle milizie private degli industriali, alle azioni punitive dei razzisti negli Stati del Sud e
numerosi altri casi analoghi.
18 Si ricordi inoltre quanto già detto precedentemente sull’inesistenza, alle origini della storia americana,
di uno Stato staccato dalla società civile, con personale proprio e alla ricerca di una legittimazione
popolare da acquisire.

19 A. F. BENTLEY, The Process of Government, Chicago, 1908. Naturalmente, proprio in quegli anni e per
tutto il decennio precedente, dominavano in Europa, soprattutto nelle scienze giuridiche, le varie dottrine
pluraliste e istituzionaliste che certo influenzarono la teoria dei gruppi politici. Si pensi a Gierke e alla sua
influenza sul mondo anglosassone attraverso Maitland. Da noi si pensi all’influenza di Santi Romano. Ma
Bentley ebbe il merito di orientare la sua opera a fini di studio empirico di fenomeni politici.

20 Dopo Bentley, la teoria dei gruppi politici fu ripresa in numerosi studi ed elaborazioni teoriche. Alcuni
fra i nomi più importanti di questa scuola, in America, sono: E. E. Schattschneider, Donald C. Blaisdell, E.
Latham e soprattutto D. TRUMAN, per la sua sistemazione teorica in The Governmental Process, New York,
1951.

21 E. LATHAM, «The Group Basis of Politics: Notes for a Theory», American Political Science Review, XLVI,
1952, pp. 376-397, rist. in Political Parties and Pressure Groups, a cura di F. MUNGER e D. PRICE, New
York, 1964, pp. 32-57.

22 Vedi soprattutto H. D. LASSWELL, e A. KAPLAN, Power and Society, New Haven, 1961.

23 D. EASTON, op. cit., p. 121 e sgg.

24 G. A. ALMOND, «Introduction: A Functional Approach to Comparative Politics», in The Politics of the


Developing Areas, a cura di G. A. ALMOND e J. S. COLEMAN, Princeton, 1960, p. 6 e sgg.

25 Nel senso che C. G. Hempel dà a questa operazione (che chiama anche, sulla traccia di Carnap,
«esplicazione») in La formazione dei concetti e delle teorie nella scienza empirica (trad. it.), Milano,
1961, p. 14.

26 Economia e società, cit., vol. 1, p. 45.

27 Zibaldone, 893.

28 Questa concezione del rapporto fra sistemi di interesse, cioè economia e ambito della politica, mi
sembra del tutto equivalente a quella che A. GRAMSCI esprimeva scrivendo: «La politica è azione
permanente e dà nascita a organizzazioni permanenti in quanto appunto si identifica con l’economia. Ma
essa anche se ne distingue, e perciò può parlarsi separatamente di economia e di politica e può parlarsi
di «passione politica» come di impulso immediato all’azione che nasce sul terreno «permanente e
organico» della vita economica, ma lo supera, facendo entrare in giuoco sentimenti e aspirazioni nella cui
atmosfera incandescente lo stesso calcolo della vita umana individuale ubbidisce a leggi diverse da quelle
del tornaconto individuale, ecc.» in Note sul Machiavelli, sulla politica e sullo Stato moderno, Torino,
1964, p. 13.

29 Per i dati sulla National Union cfr. R. T. MCKENZIE, British Political Parties, New York, 1963, p. 146 e
sgg. Per i partiti cristiano-sociali e altri partiti di questo tipo, cfr. M. DUVERGER, I partiti politici, Milano,
1961, cap. I, passim.

30 Alludiamo a quelle ricerche che misurano l’«auto-identificazione di classe», il sentimento di


appartenenza, e simili, con domande di questionario. Esse hanno la loro utilità nella misura in cui
dimostrano che queste variabili sono significativamente correlate con comportamenti di voto, ecc. (cfr.
l’articolo di G. SIVINI, «I mutamenti di voto e l’interesse politico», in questo fascicolo [NdR: vol. XV, n. 3-
4, 1966]). Ma il fenomeno che misurano è altra cosa da ciò che viene tradizionalmente inteso con il
concetto di coscienza di classe.
31 Cfr. V. I. LENIN, Che fare?, in Opere scelte, Roma, 1965. Che alle origini l’idea del rivoluzionario di
professione fosse esplicitamente collegata con la situazione di clandestinità del partito in Russia, non ha
impedito che essa assurgesse a definizione di un «tipo ideale» di partecipazione politica.

32 Naturalmente fanno eccezione le organizzazioni clandestine o semiclandestine. Questa è la ragione


della preferenza che molti capi rivoluzionari hanno per le forme clandestine di organizzazione.

33 A questo fenomeno si riferivano i partiti socialisti quando si difendevano dai pericoli di «trade-
unionizzazione»; e Lenin quando citava e approvava Kautsky che affermava che la lotta di classe era una
cosa e il socialismo un’altra: «nascono uno accanto all’altra e non uno dall’altra; essi sorgono da
premesse diverse» in Che fare?, cit., p. 113.

34 Per esempio in G. A. ALMOND e S. VERBA, The Civic Culture, Princeton, 1963. E anche, in modo un po’
diverso, nella nostra ricerca milanese. Cfr. G. MARTINOTTI, «Caratteristiche dell’apatia politica», in questo
stesso fascicolo [NdR: vol. XV, n. 3-4, 1966], pp. 288-309.

35 Cfr. R. E. LANE, Political Life, New York, 1965, p. 195 e sgg.; L. W. MILBRATH, op. cit., p. 110 e sgg.

36 È soprattutto interessante a questo proposito lo studio di S. ROKKAN e H. VALEN, «The Mobilization of


the Periphery: Data on Turnout, Party and Membership and Candidate Recruitment in Norway», Acta
Sociologica, VI, 1961 (fasc. 1-2), pp. 111-158.

37 Per un bilancio dei risultati ottenuti con questo concetto operativo da circa una trentina di ricerche,
cfr. L. W. MILBRATH, op. cit.,  ibidem.

38 L. W. MILBRATH, op. cit., p. 111.

39 Questo fenomeno corrisponde a quello dell’accumulazione di esperienza nella carriera, per il quale via
via che procediamo verso i gradi più alti sempre più troviamo «coloro per i quali la situazione a un
momento dato tende a essere cumulativa di tutte le esperienze acquisite durante l’assolvimento di tutti i
compiti della loro vita lavorativa» (A. PIZZORNO, «Accumulation, loisirs et rapports de classe», Esprit,
giugno 1959, p. 1011). Cfr. anche la parziale critica di questa posizione, in J. R. TREANTON, «Le concept
de ‘carrière’», Revue française de sociologie, I, 1960, p. 76 e sgg.

40 Questa considerazione non toglie certamente valore a quegli studi che, fra le altre informazioni, si
fondano sull’origine sociale dei dirigenti politici per analizzare un sistema politico. (Il «Who Governs» di
R. Dahl resta un capolavoro in questa linea, che esso travalica del resto in diversi sensi). Ma ci
suggerisce che lo studio delle decisioni politiche e del potere va fatto a partire da un’analisi degli effetti
obiettivi delle decisioni, e non della presenza, nel loro processo, di questa o quella categoria di persone:
«for whom they govern», è il quesito!

41 Prima che il concetto di centralità venisse formulato esplicitamente, gli studi del gruppo di Lazarsfeld
e Berelson erano stati decisivi nel dimostrare che le posizioni politiche dell’elettore americano sono
funzione della sua posizione in un gruppo sociale, e nel rovesciare quindi l’immagine della scelta
elettorale come scelta razionale fra due o più alternative di programmi o di candidati. Cfr. B. BERELSON,
P. F. LAZARSFELD e W. N. MCPHEE, Voting, Chicago, 1954; P. F. LAZARSFELD, B. BERELSON e
H. GAUDET, The  People’s  Choice, New York, 2a ed., 1948.

42 Sul concetto di pressioni contrastanti, cfr. l’articolo già citato di G. SIVINI, in questo fascicolo [NdR:
vol. XV, n. 3-4, 1966]. Il significato dei risultati che si sono avuti negli studi americani usando questo
concetto, può riassumersi così: se chi è soggetto a pressioni contrastanti e a conflitti fra divergenti lealtà
di gruppo tende a disinteressarsi di politica, a rinunciare a informarsi, a cadere nell’apatia, la scelta
politica non può che essere espressione diretta dell’appartenenza a un gruppo; se infatti fosse una scelta
razionale fra due alternative, chi è sottoposto a pressioni contrastanti cercherebbe di interessarsi di più,
informarsi ulteriormente, allo scopo di aver strumenti per superare l’incertezza.
43 Una situazione di questo genere finora è stata studiata solo in Norvegia, grazie alle ricerche
comparate dei gruppi di Rokkan e di Campbell (cfr. S. ROKKAN e A. CAMPBELL, «Norway and the United
States of America», International Social Science Journal, XII, 1960, pp. 69-99). La nostra ricerca
milanese ha messo a fuoco situazioni analoghe; i dati più significativi debbono essere ancora pubblicati.
Una prima indicazione si ha dall’articolo già citato di G. MARTINOTTI, in questo fascicolo.

44 Il concetto di subcultura finora non è mai stato definito in maniera sistematica. Alcuni spunti sono in
M. M. GORDON, Assimilation in American Life, New York, 1964, p. 34 sgg., il quale però è interessato
soprattutto a distinguere la subcultura, che corrisponde alla subsocietà, o gruppo intermedio, dalla
cultura di gruppo che è quella attinente ai piccoli gruppi (per esempio, la cultura delle bande criminali,
giovanili, ecc.). Abbondano invece gli studi descrittivi di casi subculturali: il più famoso, e che in un certo
senso dà origine al «genere», è W. F. WHYTE, Street Corner Society, Chicago, 1945; una notevole parte
di esso è dedicata al tipo della partecipazione politica subculturale. Un altro studio di una certa
importanza è quello di H. J. GANS, Urban Villagers, New York, 1962. Vedi anche l’articolo di L. BALBO, «La
partecipazione subculturale degli operai americani», in questo fascicolo, pp. 411-422. Per quanto
riguarda i movimenti sociali, (che sono compresi fra i fenomeni che la letteratura sociologica chiama dei
movimenti collettivi) le trattazioni teoriche e le opere monografiche abbondano. Fra le più recenti, e di
gran lunga la più sistematica, è quella di N. J. SMELSER, Theory of Collective Behavior, New York, 1963.
Essa non annulla le intuizioni acutissime del capitolo XXII: «Social Movements», di H.  BLUMER in
A. MCCLUNG LEE (a cura di), Principles of Sociology, New York, 1955.

45 Cfr. A. K. COHEN e H. M. HODGES, «Characteristics of the Lower-Blue Collar-Class», Social


Problems, 10, 1963, pp. 303-334, e inoltre S. M. MILLER e F. RIESSMAN, «The Working-Class Subculture: A
New View» in A. B. SHOSTAK e W. GOMBERG (a cura di), Blue-Collar World, Englewood Cliffs, 1964, pp. 24-
41.

46 È questo uno dei temi dominanti di W. F. WHYTE, op. cit., passim.

47 Il recente movimento del Black Power è un tentativo di esaltare una situazione subculturale e di
organizzarla in quanto tale in «movimento». E cioè un caso di combinazione di movimento e subcultura.

48 Cfr. J. M. YINGER, «Subcultures and Contracultures», American Sociological Review, XXV, 1960, pp.


625-635.

49 I partiti di massa in Italia attualmente si stanno conformando a questa situazione: sono subculture a
livello di sezione; sono organizzazioni inserite nel sistema e orientate a fini privati, dalla federazione
provinciale in su.

50 Un celebre studio di come la subcultura social-democratica si sia stabilizzata nella Germania imperiale
è quello di G. ROTH, The Social Democrats in Imperial Germany, Totowa, 1963. Si tratta di uno dei
migliori studi di subculture politicizzate. In esso è soprattutto messo in rilievo come l’isolamento
subculturale della classe operaia tedesca sia stata funzionale per la stabilità e l’integrazione nazionale. E
come la stessa ideologia apparentemente rivoluzionaria abbia agito in senso stabilizzatore.

51 Non occorrerà ricordare che al termine «civile» non si dà qui alcun valore positivo o negativo. Per
questo, fra l’altro, non avvicinerei troppo il concetto di «partecipazione civile» a quello di «civic culture»,
avanzato da Almond e Verba, che pure possiede alcuni aspetti simili. Cfr. G. A. ALMOND e S. VERBA, The
Civic Culture, Princeton, 1963.

52 Il concetto di «mobilitazione sociale», ora usato soprattutto nello studio delle trasformazioni politiche
dei paesi sottosviluppati, è stato proposto e sviluppato da K. W. DEUTSCH, Nationalism and Social
Communication, Cambridge (Mass.), 1953, e da G. GERMANI, Politica y Sociedad en una Epoca de
Transicion, Buenos Aires, 1962.

53 Cfr. E. ALLARDT, «Social Sources of Finnish Communism», International Journal of Comparative


Sociology, V, 1964, pp. 49-71.
54 Benché molti studi in Italia abbiano toccato indirettamente il fenomeno che c’interessa, quasi nessuno
ha dati confrontabili a livello internazionale, e utilizzabili per una teoria della partecipazione politica.
Sappiamo che è in corso la pubblicazione di una ricerca del Twentieth Century Fund in collaborazione con
l’Istituto «C. Cattaneo» di Bologna, che probabilmente fornirà nuovi dati.

Fra gli studi più o meno direttamente connessi al nostro problema, ricordiamo: A. SPREAFICO e J. LA
PALOMBARA (a cura di), Elezioni e comportamento politico in Italia, Milano, 1963; L. CAVALLI, Quartiere
operaio,  Genova, 1959 (per il problema delle subculture operaie politicizzate); J. La PALOMBARA, Interest
Groups in Italian Politics, Princeton, 1964 (per quanto riguarda la partecipazione ad associazioni
politicizzate); G. SARTORI (a cura di), Il Parlamento italiano, Napoli, 1963; G. BRAGA, Sociologia elettorale
della Toscana, Roma, 1963. E infine, a cura di vari autori, la ricerca riassunta in Tempi Moderni, I, 1958,
pp. 150-166, che è un po’ origine lontana degli studi poi proseguiti fino a quelli che pubblichiamo in
questo fascicolo.

55 I dati disaggregati saranno analizzati prossimamente.

56 Cfr. la presentazione di questo fascicolo [NdR: vol. XV, n. 3-4, 1966. Nella presentazione del fascicolo
speciale dedicato allo studio della partecipazione politica, Pizzorno precisa che gli articoli del fascicolo
sono in gran parte frutto dell’analisi dei dati rilevati nel 1964 con una ricerca diretta da Pizzorno stesso e
commissionata dal Comune di Milano, il cui questionario includeva una parte su partecipazione
associativa e politica e i problemi del decentramento amministrativo].

57 Cfr. J. LA PALOMBARA, op. cit., p. 134 sgg.

58 Per i fondamenti di questi concetti, cfr. il mio articolo sulle «incongruenze di status», in questo
fascicolo [NdR: vol. XV, n. 3-4, 1966].
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Per citare questo articolo

Notizia bibliografica
Alessandro Pizzorno, «Introduzione allo studio della partecipazione politica (1966)», Quaderni di
Sociologia, 79 | 2019, 17-60.

Notizia bibliografica digitale


Alessandro Pizzorno, «Introduzione allo studio della partecipazione politica (1966)», Quaderni di
Sociologia [Online], 79 | 2019, online dal 01 avril 2019, consultato il 26 février 2022. URL:
http://journals.openedition.org/qds/2487; DOI: https://doi.org/10.4000/qds.2487
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Autore

Alessandro Pizzorno

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 Familismo amorale e marginalità storica ovvero perché non c’è niente da fare a Montegrano
(1967) [Testo integrale]

Amoral familism and historical marginality. Why nothing can be done in Montegrano [1967]

Apparso in Quaderni di Sociologia, 79 | 2019

 Familismo amorale e marginalità storica ovvero perché non c’è niente da fare a Montegrano
(1967) [Testo integrale]

Apparso in Quaderni di Sociologia, 26/27 | 2001


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