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«Quaderni» della Sezione di Italiano

dell’Università di Losanna

Comitato scientifico
Mario Barenghi, Università di Milano-Bicocca
Marco Santagata, Università di Pisa
Alfredo Stussi, Scuola Normale Superiore, Pisa

Si ringrazia Davide Checchi per l’aiuto nella revisione.


Misure del testo
Metodi, problemi e frontiere
della metrica italiana
a cura di
Simone Albonico
e
Amelia Juri

Edizioni ETS
www.edizioniets.com

Il volume raccoglie gli atti del convegno di studi svoltosi a Losanna nei giorni
24-25 aprile 2017

Il volume è pubblicato grazie a un contributo di

© Copyright 2018
EDIZIONI ETS
Piazza Carrara, 16-19, I-56126 Pisa
info@edizioniets.com
www.edizioniets.com

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Messaggerie Libri SPA
Sede legale: via G. Verdi 8 - 20090 Assago (MI)
Promozione
PDE PROMOZIONE SRL
via Zago 2/2 - 40128 Bologna

ISBN 978-884675328-1
Sommario del volume

 Parole di saluto e introduzione, di Simone Albonico

 Arnaldo Soldani
Indagini sulla prosodia del verso italiano

 Maria Clotilde Camboni


Musica, ritmo, sintassi. Variazioni ritmico-sintattiche
e modalità di fruizione dei testi nel Medioevo

 Davide Checchi
Vocali virtuali e ritmo nel verso della lirica italiana delle Origini:
alcuni sondaggi

 Gabriele Baldassari
Strutture dei canzonieri d’autore e metrica: da Petrarca a Bembo
e Sannazaro

 Ida Campeggiani
Il fantasma del tono medio e la discorde armonia delle cose.
Sul ritmo delle Satire di Ariosto

 Amelia Juri


Antichi e moderni. Riflessioni attorno a metrica e sintassi
in prospettiva storica

 Laura Facini


Per uno studio metrico-sintattico delle liriche della Scuola siciliana

 Simone Albonico


Struttura e formanti metrici dei testi
6 SOMMARIO

 Andrea Pelosi


«Il taglio della veste ed il genere della cosa» in Leopardi:
ritmo e testualità nei Canti

 Fabio Magro


Tradizioni metriche novecentesche? Il caso dell’ermetismo

 Andrea Afribo


Questioni metriche postreme

Indici

 Indice dei fenomeni metrici, prosodici e stilistici

 Indice dei nomi e delle opere anonime

 Indice dei manoscritti


Vocali virtuali e ritmo nel verso della lirica italiana delle Origini:
alcuni sondaggi

 
Università di Pavia

. Nel  vedevano la luce le Concordanze della Lingua Poetica Italiana delle
Origini (CLPIO). Forte di una lunga e approfondita lettura della lirica delle
Origini direttamente dai manoscritti del Duecento, nell’introduzione Avalle
esprimeva la possibilità che un fruitore medievale realizzasse nella lettura, a
voce o mentale, alcune di quelle vocali apocopabili che «l’editore moderno
giustamente toglie di mezzo per far tornare i conti del sillabismo». Sempre se-
condo Avalle, infatti, l’esecuzione di queste vocali apocopabili – non richieste
dal computo sillabico, ma spesso presenti nei testimoni – non avrebbe inficia-
to la percezione ritmica del verso, nonostante gli inevitabili scompensi nel nu-
mero delle sillabe eseguite, da cui la definizione di «vocali virtuali». Il lettore
medievale avrebbe potuto eseguire il verso dantesco «quanti dolci pensier,
quanto disio» anche con la parola apocopata piena «quanti dolci pensieri,
quanto disio», senza per questo guastare la percezione ritmica dell’endeca-
sillabo. A dimostrazione di questa ipotesi Avalle citava alcuni casi pertinenti
al problema delle vocali soprannumerarie in rima interna, dove l’omofonia
ricercata dagli stessi autori sarebbe garante della effettiva realizzazione di
queste vocali, da pronunciarsi, verrebbe da dire, per “volontà d’autore”.
Come probabilmente lo stesso Avalle aveva messo in conto, le reazioni
a questa ipotesi non mancarono. Aldo Menichetti – nel , in occasione
della tornata pubblica per la presentazione delle CLPIO presso l’Accademia
della Crusca, e poi nuovamente l’anno successivo – espresse forti perplessità
nei confronti dell’ipotesi di Avalle, preferendo classificare la scriptio plena
di queste vocali “da apocoparsi” come semplici ipermetrie grafiche prive di
valore esecutivo e non contemplate dagli autori stessi (almeno quelli dotati
di sufficiente maestria poetica), soprattutto quando il Vaticano è testimone

. Avalle , p. , mio il corsivo.


. «I ‘ritardi’ che si diceva sono tutti riconducibili alla sfera della virtualità. Le sillabe coin-
volte in tali ‘ritardi’ sono, e, nello stesso tempo, non sono, sia per quel che riguarda il computo
sillabico – per cui, quando necessarie, sono, e quando non necessarie, non sono –, sia in rap-
porto all’andamento agogico del verso, non necessariamente compromesso, come si è visto, da
eventuali oscillazioni nell’ambito di tale sillabismo» (ivi, pp. -).
. L’esempio è sempre tratto da ivi, pp. -.
<dav.checchi@gmail.com>
Misure del testo, a cura di S. Albonico e A. Juri, Pisa, ETS, , pp. -
  

unico, per la nota propensione del suo copista principale ad adottare forme
non apocopate. Le obiezioni di Menichetti all’ipotesi di Avalle hanno trovato
ampio consenso tra gli studiosi, o quantomeno nessuna reazione contraria.
Anche l’indagine linguistica di Pär Larson sulla lingua del canzoniere Vati-
cano sembra avvalorare la tesi di Menichetti, dal momento che le abitudini
grafiche e fonetiche del copista principale lo connotano come un mercante,
e quindi abituato a trascrivere testi di natura pratica in cui di norma non si
ricorre alle forme apocopate tipiche della lingua poetica.
Più concilianti appaiono le posizioni di Beltrami e Praloran, che non
scartarono del tutto l’ipotesi di Avalle. Sempre nel  Beltrami suggeriva
infatti la possibilità che le oscillazioni dei manoscritti tra fiore e fior, core
e cor, amore e amor ecc. (fermo restando il valore puramente grafico delle
vocali comportanti ipermetria) potessero essere ricondotte all’influsso della
lingua poetica galloromanza, in modo simile a quanto avviene per il valore
ancipite, monosillabico o bisillabico, che le parole gioia e noia hanno nella
versificazione delle origini, e invitava a intraprendere uno studio sistematico
del fenomeno. Praloran, pur dichiarando di sentirsi più vicino alla posizione
di Menichetti, ha più volte citato e discusso l’ipotesi di Avalle, a cui ricono-
sceva un certo fascino, constatando però che «non sono state proposte finora
ipotesi che possano collegare saldamente la riconoscibilità del verso con la
sua instabilità, cioè facciano capire come il verso possa essere riconosciuto nel
suo andamento malgrado la sua instabilità sillabica».

. Menichetti, Roncaglia , pp. - e Menichetti , pp. -. La prima applicazione
del concetto di impermetria grafica alla poesia in volgare di sì è probabilmente di Pellegrini
(, p. ), dove si accompagna già all’ipotesi che queste vocali venissero omesse nella let-
tura dei versi (per cui vedi poi): «Quantunque sia provato che da certe ipermetrie grafiche
gli antichi, pur coltissimi come il Petrarca e il Boccaccio, non rifuggivano, correggendole poi
evidentemente nella lettura».
. Diversa è la questione relativa all’opportunità o meno di rappresentare queste vocali nel
testo critico, in merito alla quale si riscontrano tre diverse prassi ecdotiche. In alcune edizioni
la forma piena viene accolta a testo segnalando la vocale soprannumeraria tramite espedienti
grafici (in genere il punto sottoscritto, come in Leonardi ), in altre si procede all’apocope o
all’elisione, in altre ancora si pubblica la forma piena senza indicare la vocale soprannumeraria
(cfr. Allegretti ). Nella scelta delle modalità di rappresentazione influiscono spesso la sede
del verso in cui occorrono le vocali (si è in genere più propensi alla conservazione quando inte-
ressano una rima interna o la fine di un emistichio) e alcune caratteristiche della tradizione ma-
noscritta (testimone unico, autografia o presenza del punto espuntorio nello stesso autografo,
vd. ad esempio Chiari , Brambilla Ageno , Agostinelli Coleman ). Un’efficace sintesi
delle diverse modalità di espunzione delle vocali soprannumerarie si trova in Modena ,
pp. -, mentre sugli aspetti controproducenti insiti nella conservazione di queste vocali nel
testo critico si rimanda a Beltrami , pp. -.
. Larson , p. .
. Beltrami , pp. -.
. Soldani, Praloran , p. ; vd. anche Praloran, Soldani , pp. - e Praloran 
pp. -, dove, limitatamente ai testimoni della Commedia di Dante, il fenomeno delle voca-
li soprannumerarie viene discusso da un punto di vista stilistico: «Queste osservazioni [cioè
         

In un articolo del  (annus mirabilis delle vocali soprannumerarie) e


in uno più recente del , Sofia Lannutti ha valorizzato l’ipotesi di Aval-
le, dimostrando che nelle laude – e più in generale nella lirica provvista di
melodia – le vocali soprannumerarie erano equiparate, da un punto di vista
esecutivo-notazionale, alle cosiddette semivocali utilizzate nel canto (non
solo liturgico) del medioevo per facilitare l’esecuzione di sillabe con un nes-
so consonantico complesso. L’impiego di queste semivocali comportava il
prolungamento del tempo di esecuzione delle sillabe, ma non l’accrescimen-
to del loro numero. Ad esempio nella parola Sanctificatus la sillaba san veniva
pronunciata con l’aiuto di un suono vocalico “d’appoggio”, *san(e)-cti-fi-ca-
tus, ma le sillabe rimanevano cinque, come conferma l’intonazione musicale
composta da cinque neumi (uno per ogni sillaba, come era normale nel canto
monodico). Sempre secondo Lannutti, le vocali che Avalle definisce virtuali
possono essere assimilate alle semivocali impiegate nel canto. Inoltre, nella
versificazione romanza, e in particolare in volgare di sì, i ritardi generati
dalle vocali virtuali sarebbero assimilabili a quelli derivanti dalla pronuncia
delle vocali in sinalefe, istituto prosodico che si oppone al fenomeno dell’e-
lisione proprio perché, pur comportando una dilatazione del verso, non ne
intacca la misura e tanto meno la riconoscibilità. Tuttavia la maggioranza
degli studiosi ritiene che la realizzazione di queste vocali renda il verso trop-
po instabile, compromettendone l’identità, come per l’appunto sottolineava
anche Praloran.

. Rispetto agli anni in cui Avalle formulò la sua ipotesi, oggi disponiamo
di un maggior numero di edizioni critiche e di strumenti informatici (concor-
danze elettroniche del Corpus OVI e le stesse concordanze, pur non ancora
lemmatizzate, del Corpus Avalle), ma soprattutto di nuovi studi, che hanno
compiuto notevoli passi in avanti nella comprensione del funzionamento
della prosodia italiana del medioevo: oltre ai già citati Menichetti, Beltrami,
Praloran e Lannutti, si pensi ai lavori compiuti da Soldani sul ritmo dell’ende-
casillabo, anche in collaborazione con Praloran, e sul ruolo della sintassi nella

l’ipotesi di Avalle], che nascono – lo ricordiamo – da una immensa esperienza di lettura dei
manoscritti antichi, vanno discusse, credo, con molta umiltà. Tuttavia pensare che ancora nella
Commedia agisca un’oscillazione della misura sillabica […] appare difficile da sostenere, […]
perché abbiamo l’impressione che la straordinaria duttilità dell’endecasillabo dantesco si fondi
proprio su questo termine, unico, di riferimento (uguale durata virtuale o parità sillabica). Ci
appare insomma una possibilità stilisticamente non necessaria» (ivi, p. ).
. Lannutti  e .
. L’esempio è tratto da Lannutti , pp. -.
. Oltre a Beltrami , pp. -, §  e a Menichetti , pp. -, vd. Praloran , p. 
e De Rosa, Sangirardi , p. .
  

struttura e nel ritmo del sonetto petrarchesco. Per quanto riguarda i testi dei
Poeti della Scuola siciliana, oggi è possibile servirsi di una recente edizione
critica e delle significative ricerche condotte da Laura Facini sulla metrica e
sul ritmo del verso dei siciliani.
I tempi sono quindi maturi per riconsiderare e sottoporre a una nuova
valutazione l’ipotesi di Avalle, soprattutto attraverso un’analisi quantitativa
dell’incidenza delle vocali soprannumerarie. Uno spoglio esaustivo del feno-
meno, anche qualora fosse limitato ai soli tre Canzonieri delle Origini, richie-
derebbe però una notevole mole di lavoro, nell’incertezza di poter giungere a
un qualche risultato che possa confermare, confutare o precisare l’ipotesi di
Avalle. Si è pertanto proceduto a un primo sondaggio su un numero limitato
di testi, per i quali disponiamo di una recedente edizione critica, volto soprat-
tutto a indagare comparativamente il diverso trattamento delle vocali sopran-
numerarie nei tre Canzonieri delle Origini. Lo spoglio ha quindi riguardato
l’occorrenza di tutte le parole seguite da consonante che la misura del verso
vuole apocopate, all’interno di un corpus formato dai testi compresenti in P
L e V tra quelli compresi nell’edizione dei Poeti della Scuola siciliana pubbli-
cata nel  (con l’ovvia esclusione dei versi testimoniati da due o un solo
manoscritto per lacuna della tradizione). Il corpus sottoposto all’indagine
risulta così composto di  canzoni e un sonetto, per un totale di  versi:
 settenari ( con rima interna),  endecasillabi ( con rima interna) e 
ottonari;  canzoni e un sonetto di Giacomo da Lentini,  canzoni dei siciliani
e  canzoni dei siculo-toscani:

JaLe Madonna, dir vo voglio canz. V La P


JaLe Meravigliosa-mente canz. V La P
JaLe Ben m’è venuto prima cordoglienza canz. V La P
JaLe Poi no mi val merzé né ben servire canz. V Lb P
JaLe A l’aire claro ò vista ploggia dare son. V Lb P

. Soldani, Praloran ; Praloran, Soldani ; Soldani , , a e b.
. PSS: si tratta di un’edizione che, soprattutto nel II volume (Di Girolamo ), è però
caratterizzata da diversi problemi di natura metrico-sillabica, per i quali si rimanda a Beltrami
b, pp. -; Spagnolo , pp. -; Carrai , pp. -; Gresti , pp. - e alla
replica di Di Girolamo .
. Facini . Ringrazio inoltre Laura Facini di avermi gentilmente messo a disposizione
parte del suo prezioso materiale di lavoro, ancora inedito, e aver condiviso con me alcune con-
clusioni del suo studio condotto durante la Fellowship Praloran -.
. PSS, edizione di riferimento anche per le citazioni. Nello spoglio si è ovviamente prestata
particolare attenzione alle criticità proprie di Di Girolamo  (vd. nota ), ma ai fini del pre-
sente lavoro non si sono incontrati casi meritevoli di discussione.
. Si adottano le sigle degli autori delle CLPIO, pp. XLI-XLIII.
         

GuCo Gioiosamente canto canz. V Lb P


RiAq Poi li piace ch’avanzi suo valore canz. V Lb P
ArTe Vostra orgogliosa cera canz. V La P
PaSe Contra lo meo volere canz. V La P
PiVi Amor, da cui move tutora e vene canz. V Lb P
GiMo Allegramente canto canz. V Lb P
MaRi Amore, avendo interamente voglia canz. V La P
Enzo Amor mi fa sovente (stanze I-III) canz. V La P
Enzo S’eo trovasse pietanza (fino a v. ) canz. V La P

GaPi Credeam’essere, lasso! canz. V La P


TiGa Blasmomi de l’amore canz. V La P
TiGa Già lungiamente, Amore canz. V La P
LuGu Sì come ’l pescio al lasso canz. V La P
GuBe Membrando ciò ch’Amore canz. V La P

Prima di procedere a illustrare i dati ricavati dallo spoglio, è necessario


affrontare brevemente la questione relativa all’effettiva presenza di parole
apocopate nella lingua poetica della Scuola siciliana. Nell’introduzione all’e-
dizione critica dei poeti della corte di Federico II, Costanzo Di Girolamo
mette fortemente in dubbio il ricorso all’apocope da parte dei poeti sicilia-
ni, soprattutto sulla base dell’assenza del fenomeno nel volgare siciliano del
Duecento (di cui si hanno comunque scarse testimonianze), ritenendo poco
significativi i casi di apocope nei documenti siciliani trecenteschi. Diversi
studiosi hanno tuttavia recentemente ribadito e sottolineato il carattere “arti-
ficiale” e per certi aspetti “ibrido” della lingua poetica impiegata dai siciliani,
che giustifica la presenza di parole apocopate. Quest’ultima ipotesi risulta
confermata anche dall’alto tasso di frequenza dell’apocope nei testi di Gia-
como da Lentini e dei poeti siciliani inclusi nel corpus, dove si riscontra in
media un’apocope (ovviamente richiesta e garantita dalla misura del verso)
ogni tre versi:

. Di Girolamo , pp. LIX-LXVIII.


. Leonardi , pp. - e Beltrami b, pp. -. Sull’impiego dell’apocope da parte
dei poeti siciliani si vedano anche Barbato , p. ; Formentin , pp. - e  e Pagano
, pp. -.
  

Notaro Siciliani
versi totali  
apocopi  
frequenza versi/apocopi , ,

Come ha già sottolineato Leonardi, «se queste apocopi si fossero introdotte


nel momento della toscanizzazione, dovremmo supporre per il testo originario
una fisionomia prosodica ben diversa non solo da quella della successiva po-
esia toscana, ma soprattutto da quella del precedente modello trobadorico».
Passiamo quindi all’analisi dei dati raccolti. Innanzitutto è necessario
confrontare come si comportano P L e V nei confronti delle forme apocopate.
Nella tabella seguente è possibile comparare le percentuali di occorrenze di
forme in così detta scriptio plena, cioè con vocale virtuale, o soprannumeraria
che dir si voglia (core, amore, sono ecc.), sul totale di forme che la misura del
verso vuole apocopate in V, nella sezione fiorentina (Lb) e pisana (La) di L
e in P. In altri termini, il valore percentuale indica la frequenza relativa dei
casi in cui i copisti non rispettano l’apocope (richiesta dalla misura del verso)
adottando la forma piena.
Percentuali di vocali virtuali su apocopi
V ,
Lb ,
P ,
La ,

Si può notare come la pratica di scrivere queste parole a piene lettere senza
l’apocope non sia esclusiva di V, ma sia propria anche della mano fiorentina
di L. Nel manoscritto Laurenziano si manifestano quindi due atteggiamenti
contrastanti, nonostante si tratti di un canzoniere che risponde a un progetto
culturale fortemente coeso e riferibile all’ambiente pisano, anche nelle sezioni
copiate dalle due mani fiorentine. Come ha dimostrato Leonardi, le mani pi-
sane, che attingono a una fonte diversa da quella delle mani fiorentine, sono
infatti particolarmente attente alla misura del verso, ricorrendo sempre all’a-
pocope e compiendo una campagna correttoria mirata a segnalare, tramite
punto sottoscritto, la presenza di vocali soprannumerarie, anche all’interno
di parola (sincope). È però necessario precisare che tali osservazioni sono

. Leonardi , pp. -.


. L’elenco in Leonardi b, pp. -. Circa la “pisanità culturale” delle mani fiorentine
di L vd. ivi, p. .
         

pertinenti alla sola mano fiorentina che trascrive le canzoni (cioè Lb). L’e-
siguità del corpus non ha infatti permesso di conseguire risultati certi sul
comportamento della mano fiorentina che si occupa dei sonetti (Lb, rappre-
sentata nel nostro corpus dal solo sonetto A l’aire claro del Notaro), dove pro-
babilmente la frequenza di vocali soprannumerarie si riporta su percentuali
vicine alla sezione pisana: nei due sonetti comuni a Lb e V e inclusi nei PSS
(JaLe Ogn’omo ch’ama de’ amar so ’nore e PeMo Come l’arcento vivo fugge il
foco) V adotta una scriptio plena  volte, Lb nessuna.
Le due tendenze, scriptio plena e apocopata, non sono quindi cultural-
mente inconciliabili, ma entrambe possono convivere all’interno dello stesso
“progetto editoriale”. Inoltre, dal momento che la mano fiorentina del Lau-
renziano e quella principale del Vaticano dipendono dalla stessa fonte, l’alta
frequenza di parole in scriptio plena nel Vaticano e nel Laurenziano è con
ogni probabilità un tratto ereditato dalla fonte comune; lo confermerebbe
il fatto che quasi sempre le parole con vocali soprannumerarie occorrono in
entrambi i manoscritti negli stessi luoghi.
L’accordo anche sul piano grafico tra il Vaticano e la mano fiorentina di L
è un dato già noto, seppur mai preso in considerazione in modo strutturale,
e già Roberto Antonelli ha incidentalmente ipotizzato la possibile dipendenza
del fenomeno dalla fonte comune, nel cappello introduttivo all’edizione di
Troppo son dimorato del Notaro. Ne consegue che la massiccia presenza in
V di forme in scriptio plena non è più giustificabile, come proponeva Larson,
con la sola abitudine del copista a trascrivere testi di natura pratica, dato
che lo stesso fenomeno, oltre a essere tratto caratterizzante di Lb, copista di
professione, sembra riflettere una consuetudine ben radicata nel modello
comune, delle cui abitudini scrittorie non ci è possibile ipotizzare nulla. È poi
interessante notare che sia Lb che V, copisti dotati di una notevole consape-
volezza prosodica, paiono accettare senza problemi la tendenza della fonte
alla scriptio plena.
Sarebbe a questo punto utile verificare la presenza o meno del fenomeno

. Va però detto che in entrambi i testi non si riscontrano errori congiuntivi tra i due codici
(vd. Antonelli , p.  e Coluccia , p. ), e che «l’eterogeneità del contributo di Lb
rispetto alla compattezza di Lb dipenderà probabilmente dall’incrocio di fonti diverse a sua
disposizione» (Leonardi b, p. ).
. Oltre, ovviamente, a Contini , pp. -, vd. Leonardi , pp. -; Antonelli ;
Leonardi b, pp. - e Leonardi , pp. -.
. Risulta segnalato qua e là in alcuni cappelli introduttivi dell’edizione PSS, nello speci-
fico Antonelli , pp. -, -; Di Girolamo , pp. -, -, -; Coluccia ,
pp. -.
. «Nelle ipermetrie puramente grafiche solidarietà assoluta tra V e Lb (, , , , , , 
[…] il solo Lb, per mancanza di V, in , , , ); un’altra ipermetria, pure grafica, in  (ed io,
reiterato da ed a ?) fa forse di nuovo risalire all’antecedente di V e Lb la preferenza delle forme
piene» (Antonelli , p. ).
. Zamponi , pp. - e -.
  

in un autografo del Duecento, ma il panorama offre un solo caso significativo


di presunta autografia: la sezione del Vaticano dedicata al così detto Amico
di Dante, di cui sono stati spogliati  sonetti e  canzoni (per un totale di 
endecasillabi e  settenari), facendo riferimento all’edizione pubblicata nel
 da Irene Maffia Scariati. In questi testi la percentuale di vocali virtuali
sul totale delle forme che la misura del verso vuole apocopate è del ,%,
valore nettamente inferiore a quanto riscontrabile in V e Lb, ma che risulta
comunque abbastanza significativo. Che si tratti o meno di una sezione au-
tografa, va sottolineato il fatto che il copista impiega il punto sottoscritto dieci
volte, quasi sempre per segnalare casi di elisione o di sinalefe, solo una volta
in corrispondenza di una vocale da apocopare, indicando una particolare
attenzione alla misura prosodica e al contempo dimostrando di non conside-
rare la presenza delle vocali virtuali un problema rispetto alla corretta misura
del verso. A questo proposito, il verso  del sonetto S’on si trovò già mai in
vita povra (V ) risulta esemplare per comprendere le abitudini metrico-
grafiche di questo copista. Maffia Scariati pubblica il verso nella forma «Ché
star mi doverei in loco rinchiuso», intervenendo – giustamente, vista l’iper-
metria grafica – sulla lezione del manoscritto Vaticano (c. v) «che stare mi
doverei. in locho rinchiuso». Si noti che il copista pone il punto sottoscritto
in corrispondenza dell’incontro vocalico, ma lascia intatto sia l’infinito stare,
che la misura del verso vorrebbe apocopato, sia la vocale passibile di sincope
in doverei, altra possibile soluzione all’ipermetria del verso.

. Maffia Scariati . L’autografia non è data per certa, ma nemmeno smentita, dagli ulti-
mi studi in merito (vd. Petrucci , pp. -; Marrani  e Maffia Scariati , pp. -).
. Il diverso comportamento del copista di questa sezione rispetto alla mano principale
era già stato osservato da Avalle: «l’amanuense, a differenza di quello della prima parte, ten-
de ad apocopare le parole contenenti nell’ultima sillaba una liquida o una nasale» (CLPIO,
p. LXXXVIII).
. Le occorrenze del punto sottoscritto sono state selezionate tramite la consultazione delle
riproduzioni fotografiche di V (Leonardi a, vol. I). Maffia Scariati segnala in apparato la
presenza del punto sottoscritto solo in . «noia e pesanza; – voglia. essomona» (ed.: vogli’
e·ssomona), mentre negli altri casi sceglie di non elidere, senza però segnalare in apparato la
presenza del punto sottoscritto. Si adotta la medesima distinctio delle CLPIO: . «avegna-
ché ’m mio. stato» (settenario; il punto sottoscritto o implica una sinalefe tra mio e una prostesi,
graficamente non realizzata, in istato, oppure indica una correzione di mio in mi’); . «vole
et chomanda. a mme su’ servidore»; . «ched e’ no ll’à veduta assa.i innanti»; .- «dée. del
voler d’amore | a ssuo poder sempre. eser disioso»; . «Ben ch’i’ ne sia alquanto. intralasscia-
to»; . «son nel mi’ tempo, o fatto. ò cosa vana»; . «ché stare mi doverei. in locho rinchiu-
so» (endecasillabo, su cui vedi poi); . «ad apparire., tant’è cholui tenuto» (apocope, Maffia
Scariati interviene apocopando apparir e segnalando la forma piena, senza punto sottoscritto,
in apparato).
. Vd. Maffia Scariati  p. . Simili osservazioni sono possibili anche per i tre sonetti,
forse autografi, copiati da ser Aldobrandino tra il  e il  su una coperta di registro (vd.
Castellani , pp. -). Il copista si preoccupa di raschiare le ultime due vocali di gioia e
l’ultima vocale di laudare per far tornare la misura del verso (rispettivamente al v.  del sonetto
Se vi dolete a me de l’amor dogla e al v.  di Udendovi laudar, maiestro Pello), ma al v.  di Se vi
         

Fin qui i dati raccolti e le ipotesi interpretative non fanno altro che con-
fermare, e in minima parte precisare, un fatto già noto: almeno dal punto
di vista della fruizione dei testi poetici, la presenza di queste vocali sopran-
numerarie non costituiva un problema e non deve quindi essere considerata
un errore o un “guasto della tradizione”, ma un’abitudine grafica priva di
valore metrico-sillabico. Tuttavia, proprio l’indifferenza dei copisti di fronte
a questo fenomeno non fa altro che rimarcare e acuire il problema insito nel
divario tra la norma prosodica che regola la poesia colta delle Origini (vale
a dire l’indubitabile isosillabismo) e alcune sue rappresentazioni grafiche
(ovvero le trascrizioni presenti nei testimoni).

. Nel già citato saggio del , Praloran illustrava la possibilità che, qua-
lora se ne fossero ovviamente chiarite le modalità, la presenza delle vocali
soprannumerarie potesse essere attribuita «al passaggio tra composizione ed
esecuzione del testo (in modo che il verso potesse avere nella sua esecuzione
dei tempi sovrannumerari che non ne scalfissero lo schema distintivo, che
non ne impedissero la riconoscibilità)». La tesi di fondo è la stessa di Avalle,
a cui lo stesso Praloran fa riferimento, ma le parole di Praloran illuminano
una prospettiva di indagine che può forse portare a una comprensione del
fenomeno più strutturale e articolata. Volendo adottare questa prospettiva,
è innanzitutto necessario suddividere il «passaggio tra composizione ed ese-
cuzione» in due segmenti minori e adiacenti. Il primo segmento consiste nel
processo che dalla composizione di un testo poetico porta alla sua diffusione
su supporto scritto, riguardo al quale è legittimo chiedersi se la presenza del-
le vocali soprannumerarie fosse un fenomeno presente ab origine nei testi o
in qualche misura messo in conto dagli stessi autori, o se al contrario sia un
portato della sola fenomenologia della copia, e quindi non previsto o ignorato
nella composizione dei testi. In entrambi i casi l’indagine relativa a questo
primo segmento dovrà innanzitutto chiarire il significato di questo fenomeno,
ovvero il perché gli autori o i copisti ricorrevano a un’abitudine grafica tanto
perturbativa di un isosillabismo costitutivo. Il secondo segmento riguarda in-
vece il passaggio dal testo scritto alla sua esecuzione (mentale o ad alta voce)
e al riconoscimento della misura verso, e concerne quindi il come un fruitore
di questi testi poetici potesse scandire ed eseguire correttamente il verso, no-
nostante la presenza delle vocali soprannumerarie. I due segmenti non sono

dolete, «ma chi non sape valere di sua dogla», scrive valere in scriptio plena, nonostante la misura
del verso richieda la forma apocopata.
. Come osserva Leonardi (, p. ), «“Correggere” questo fenomeno per il testo critico
non significa affatto presupporre errore nel manoscritto, ma solo adattarne la grafia alle conven-
zioni prevalse nella modernità».
. Soldani, Praloran , p. .
  

ovviamente due aspetti autonomi e separati, dal momento che le modalità di


fruizione di un testo influiscono sempre sul testo stesso e sulle scelte del suo
autore, mentre a loro volta le modalità di fruizione e diffusione hanno un
influsso, a volte anche molto rilevante, sulla creazione di nuovi testi (si pen-
si, ad esempio, all’istituto prosodico della rima siciliana, o al significato dei
tratti linguistici tosco-occidentali nella poesia pre-stilnovista messo in luce
da Leonardi).
La formulazione di un’ipotesi che tenga conto dell’intero processo dalla
composizione all’esecuzione è in questa sede fortemente limitata dall’esiguità
del corpus sottoposto all’indagine. In particolare, l’analisi concernente il pri-
mo segmento (dalla composizione alla tradizione scritta) non può assoluta-
mente prescindere da uno spoglio il più possibile rappresentativo dei diversi
atteggiamenti dei copisti – anche in rapporto, quando possibile, alle diverse
fonti a cui attingono – e dell’eventuale evoluzione nel tempo del fenomeno
delle vocali soprannumerarie, da indagare sia attraverso la diacronia “com-
pressa” nella sincronicità dei singoli testimoni, sia allargando il campo di in-
dagine anche ai testimoni e agli autori trecenteschi. Per il secondo segmento
è invece possibile ricavare, in via preliminare, alcune ipotesi di lavoro anche
da uno spoglio ridotto. Il passaggio dal testo scritto all’esecuzione è infatti
un processo prevalentemente sincronico e cognitivo, riguarda cioè il modo in
cui i fruitori, e in fondo gli stessi copisti, riconoscevano ed eseguivano i versi
turbati dalle vocali soprannumerarie in determinati testimoni.
Una tesi ricorrente, ma che non ha ancora ricevuto una formulazione
compiuta, è che un lettore del Duecento apocopasse nella lettura, quando
necessario, le parole in scriptio plena. In alcuni casi è certamente possibile
che scrittura ed esecuzione mentale o orale non coincidessero, soprattutto
quando il lettore e il testo avevano due diversi sistemi linguistici di riferimen-
to, o quando un verso “graficamente ipermetro” era facilmente riconducibile
alla corretta misura mediante accorgimenti minimi. Ad esempio di fronte a

. «La natura del testo è condizionata dai modi della sua produzione e riproduzione, […] il
testo non è una realtà fisica, ma un concetto limite» (Segre , p. ).
. Leonardi , p. -.
. Questa tesi risulta associata al concetto di ipermetrie grafiche fin dal  (vd. nota ).
Recentemente hanno fatto riferimento a questa ipotesi Stefano Carrai (, p. ): «[è possi-
bile postulare che] le vocali soprannumerarie anche in sede di rima interna venissero elise au-
tomaticamente durante l’esecuzione orale o mentale, realizzando il troncamento necessario alla
prosodia, e la scriptio plena marcasse un’identità virtuale destinata soltanto all’occhio»; Roberto
Antonelli, in merito alla tradizione prosodicamente problematica di Guiderdone aspetto avere
del Notaro: «È ormai da escludere, nella lirica alta, un’alternanza di ottonari/novenari basata su
questi soli esemplari: si tratta di un altro caso in cui scrittura ed esecuzione mentale o orale non
coincidono» (Antonelli , p. ); Saverio Bellomo (, p. ): «i copisti spesso trascrivono
la parola per intero al fine della sua riconoscibilità, anche quando l’ultima vocale andrebbe
espunta per ragioni metriche; solo i più accurati segnalano un punto sotto le vocali soprannu-
merarie, mentre gli altri presumono che il lettore sappia quando non deve pronunciarle».
         

endecasillabi come «Amore di voi mi diede plagimento» (    MaRi Amo-


re, avendo interamente voglia v.  così in V, amor La P) e «Amore, chi no
gl’ofende – poi li piace» (    PaSa Contra lo meo volere, v. , così in V,
amor La P) è possibile che il lettore cogliesse a colpo d’occhio l’intero ende-
casillabo, e ancora prima di pronunciare il verso riconoscesse la necessità di
apocopare amore in amor, riconducendo il verso a un modello mentale, sia
esso un arcimodello giambico o con accento interno obbligatorio di quarta
o sesta. Tuttavia ciò è meno probabile in tipi di verso ritmicamente meno
“canonizzati” rispetto all’endecasillabo, ad esempio nel caso di un novenario
come «e vuole che donna sia ’quistata» (JaLe La ’namoranza disiosa v. , così
in V e Lb) o di un ottonario come «Amore non vole ch’io clami» (JaLe v.
 forma piena in V, [a]mor Lb), oppure in endecasillabi con scansione non
canonica o ambigua. Nel verso già citato dell’Amico di Dante, «ché stare mi
doverei in loco rinchiuso», il lettore dovrebbe scegliere a colpo d’occhio tra
l’apocope di stare e la sincope di doverei, soluzioni che da un punto di vista
ritmico risultano equivalenti, restituendo entrambe un endecasillabo con ac-
centi interni di seconda, sesta e settima.
La linea interpretativa inaugurata da Avalle e proseguita da Lannutti – ov-
vero la possibilità che il fenomeno dell’esecuzione delle vocali soprannume-
rarie sia una delle caratteristiche proprie dell’intera prosodia delle Origini,
che tuttavia non sconfessa il suo carattere isosillabico – risulta invece più
interessante e meglio supportata dalle evidenze documentarie, soprattutto se
riconsiderata alla luce di alcune osservazioni di Beltrami e Praloran. Come
già detto, in un suo intervento del  Beltrami suggeriva la possibilità di
accostare le oscillazioni grafiche tra parola in scriptio plena e apocopata ai
noti “prestiti prosodico-lessicali” come gioia, noia ecc., che spesso nei testi-
moni si trovano scritti a piene lettere, pur avendo un valore monosillabico.
Ciò dovrebbe far riflettere su come un lettore del medioevo poteva realmente
pronunciare il nesso trivocalico -oia come un’unica sillaba. Inoltre, dato che
a un valore monosillabico poteva alternarsi anche uno bisillabico, non sempre

. Per il modello basato sugli accenti di quarta e sesta si rimanda a Beltrami , pp. -,
§§ -, a, pp. - e ; per l’arcimodello giambico vd. Menichetti  e , pp. -
e -. Su questi argomenti si vedano anche Praloran, Soldani , pp. - e la bibliografia
ivi discussa.
. «Il novenario è il corrispettivo dell’“octosyllabe”, uno dei versi più usati nella poesia
medievale d’oïl e d’oc. In Guittone, presso il quale può essere un variante combinatoria dell’ot-
tonario […], il novenario assume spessissimo quell’andamento di “triplicatum trisillabum” che
infastidiva Dante […]. Di solito però era un verso dal profilo mobile» (Menichetti , p. , mio
il corsivo).
. «In effetti l’ottonario aveva accentazione molto mobile nella poesia più antica (dove era
più diffuso di quanto Dante voglia far credere): piuttosto frequente l’accento di a, come in
Bonagiunta» (Menichetti , p. ).
. «I trattatisti, dal Salviati al Cesarotti, concordano nel rilevare che questi trittonghi “a
gran fatica si possono profferire” in una sola emissione» (Menichetti , p. ).
  

il lettore poteva prevedere il valore del nesso prima della fine del verso, si
vedano a titolo di esempio questi versi:

s’io perdo gioia che·sso m’aucide amanza (monos. JaLe La ’namoranza disïosa v. )
quell’è la gioia che più mi sollazza (bisill. JaLe Uno disïo d’amore sovente v. )
E più che nulla gioia, ben m’è aviso (monos. RuAm Sovente amore n’à ricuto manti
v. )
che me ne fa tutora in gioia stare (bisill. RuAm Sovente amore v. )
da cui larghezza e gioia par che vene (bisill. RuAm Sovente Amore v. )

Analoghe considerazioni possono essere estese anche alla possibile esecu-


zione apocopata delle parole trascritte dai copisti in scriptio plena, oltre che
ad altri istituti prosodici che offrono, in astratto, la possibilità di scansioni
ambivalenti, monosillabiche o bisillabiche, non sempre facilmente determi-
nabili durante la lettura del verso, soprattutto se compresenti nello stesso ver-
so o occorrenti in versi non caratterizzati da forti modelli di riferimento. Si
pensi agli incontri vocalici interverbali: pur essendo caratterizzati da chiare
tendenze alla dialefe o sinalefe, offrono non poche eccezioni alla scansione
maggioritaria (basti sfogliare la ricca casistica raccolta da Menichetti nel suo
manuale di metrica), non tutte giustificabili con particolari situazioni intona-
tivo-sintattiche. Ad esempio nei seguenti casi l’incontro tra due vocali atone,
che solitamente implica una sinalefe, richiede invece una dialefe:

vostre ˇ altezze poria isbasare (JaLe Sì alta amanza à pres’a lo me’ core v. )
e di ˇ amare veneli temenza (ToSa L’amoroso vedere v. , significativamente
edamare V, edamore Lb)
per li sguardi ˇ amorosi (RiAq Amorosa donna fina v. )
ciascun ti cessa ˇ e non ti fa motto (CaFi Poi ch’è sì vergognoso v. )
e fermi stare ˇ in alto paraggio (InLu Caunoscenza penosa e angosciosa v. )
che quelli ch’ama ˇ e serv’è d’amore (ChDa In un regno convensi un segnore v. ).

Mentre nei versi seguenti, al contrario, la misura del verso richiede che si
effettui una sinalefe nell’incontro tra due vocali toniche, situazione in cui
solitamente si realizza una dialefe:

In ciò ˆ à natura l’amor veramente (    JaLe D Guardando basalisco velenoso


v. )
ch’io vegno là ˆ ove mi chiame (   JaPu Donna di voi mi lamento v. )
mi fa ˆ esto mal patire (  An Cotanta dura pena v.  male V)

Un discorso simile può essere fatto anche per le così dette dieresi d’eccezione,
. Ivi, pp. -.
. Parte degli esempi che seguono sono tratti dal volume in corso di stampa di Laura Facini
sul verso dei poeti siciliani.
. Ed. di riferimento Menichetti .
         

fenomeno ben noto agli studiosi di metrica su cui non è necessario dilungar-
si. In questi casi per attribuire un valore monosillabico o bisillabico è bene
considerare la scansione complessiva del verso, ponendolo spesso in relazione
con il contesto a cui appartiene (i versi che lo precedono o seguono, lo schema
metrico adottato, le abitudini prosodiche dell’autore ecc.). Come infatti osser-
va Di Girolamo, nel processo di decodificazione metrica

il contesto svolge un ruolo determinante, ove per contesto si intenda il complesso


dei versi che precedono e/o seguono un verso dato. Per esempio: «O animal grazïo-
so e benigno» (If. V ) con estrema difficoltà sarebbe interpretato e letto come un
endecasillabo, se non fosse inserito in un corpus continuo di endecasillabi (la Com-
media, appunto), molti dei quali inequivocabili; e se, inoltre, non fossimo al corrente
di certe abitudini di Dante […] (qui: della dialefe, della dieresi e della sinalefe): lo
stesso verso, inserito in contesti diversi potrebbe figurare di diritto come novenario
(sopprimendo la dialefe e la dieresi), e come decasillabo anapestico (sopprimendo la
sola dialefe).

Senza tralasciare il fatto che, anche dopo un attento esame, alcuni versi risul-
tano comunque passibili di scansioni equivalenti (in genere non più di due).
Una possibile soluzione a queste situazioni di ambiguità metrica po-
trebbe consistere nel separare, da un punto di vista cognitivo, i momenti
dell’esecuzione (o della lettura) e del riconoscimento del verso, almeno per
quanto riguarda la fruizione della poesia in volgare nel medioevo. In altri
termini, è possibile che il riconoscimento del verso, e quindi l’annullamento
del valore prosodico delle vocali soprannumerarie o virtuali, l’attribuzione
a gioia e noia di un valore mono o bisillabico, l’attuazione di una scansione
con sinalefe e dialefe, non fossero atti contestuali alla lettura o all’esecuzio-

. Per eventuali approfondimenti si rimanda a Beltrami , pp. -, §  e a Menichetti
, pp. - e -.
. Di Girolamo , p. , ma su questo argomento risultano particolarmente interessanti
anche le pp. -, dove vengono valorizzate alcune teorie di Tomaševskij, Jakobson e Chom-
sky. Simili osservazioni si trovano in Pazzaglia , p.  (mio il corsivo): «Lo spazio metrico
è paragonabile pertanto a una partitura che impone una lettura mentale e attenta al gioco di
rispondenze e parallelismi, allo spaziarsi, attraverso il disporsi in reciprocità di rapporti, delle
singole parole nel verso e del verso con gli altri in strutture metriche più ampie, in cui il verso trova
significato e misura». Si veda in merito anche Beltrami , p. , § .: «Si dovrà dunque di-
stinguere nettamente […] tra fatti metrici e stilistici. L’accento come elemento di riconoscibilità
del verso è parte del metro: accertato il metro, si potranno riconoscere come tali le eccezioni,
indicandone quando possibile le ragioni, che possono essere di tipo metrico (interazione fra più
modelli) o stilistico: variazioni volute, oppure scarso rigore metrico di certi autori o generi, per
i quali è interessante vedere quanto sia rilevante, statisticamente, la trascuratezza del modello
principale».
. «I casi in varia misura incerti, sebbene minoritari, sono tuttavia numerosissimi. E per
lo più essi sono – debbono restare – irrimediabilmente ancipiti, perché il verso può vivere – e
quasi sempre vive, e deve vivere – anche in questa costituzionale, connaturata, insopprimenda
‘ambiguità’» (Menichetti , p. ).
  

ne, ma avvenissero a livello mentale, ovvero quando il lettore/ascoltatore


poteva considerare nella sua interezza il verso, eseguito con le vocali non
apocopate là dove il testimone non le aveva apocopate, e con il trittongo -oia
là dove il testimone lo presentava. Secondo questa ipotesi la sensibilità pro-
sodica medievale avrebbe considerato passibili di una doppia realizzazione
le parole apocopabili, così come quelle con trittongo -oia, fino all’esecuzio-
ne completa del verso e al suo riconoscimento nella memoria del fruitore.
Le si pronunciava, salvo escluderle mentalmente dal computo sillabico, ove
necessario, una volta letto il verso.
Confermerebbe questa ipotesi il fatto che il completamento delle parole
che la misura del verso richiede apocopate non si verifica indistintamente,
ma pare seguire in V (e probabilmente anche in Lb) una certa logica. Infatti
le parole correttamente apocopate in questi due manoscritti (circa il % del
totale) non si distribuiscono equamente tra le varie occorrenze lessicali, ma si
concentrano in un numero ristretto di lemmi, come si può vedere da questo
grafico basato sul solo V (lo spoglio non è sufficientemente ampio per trarre
conclusioni analoghe riguardo a Lb):

Parole con trattamento particolare in V (in testi comuni a VPL)

scriptio plena apocope


bene  
buono  
tale  
grande  
inverso  
ora  
pure  
verso  

In pratica V non scrive mai inver, pur e ver nella forma piena, apocopa pratica-
mente sempre gran e or, mentre adotta un comportamento oscillante per bene,
buono e tale, a differenza di quanto avviene, per esempio, per tutte le altre
parole apocopabili (amore, core, amare, sono ecc.), che occorrono quasi sem-
pre in scriptio plena. Posto che in questi casi né la categoria grammaticale né
il ritmo del verso paiono aver influito sulla scelta del copista tra forma piena e
apocopata, è possibile che il copista percepisse le forme apocopate gran, inver,
or, pur e ver come “poeticamente grammaticalizzate”, ovvero che la sua consa-
pevolezza prosodica non prevedesse la loro forma piena, e di conseguenza non
le considerasse parte di quei termini passibili di scansione ancipite (piena/
apocopata). Una prima indagine sui testi dei poeti della Scuola siciliana pre-
         

senti nel database dell’OVI conferma questa ipotesi. Nonostante si tratti di


un’indagine da approfondire (soprattutto separando i casi in cui la vocale
finale potrebbe essere “assorbita” per sinalefe), emerge chiaramente come le
forme che V scrive quasi sempre apocopate rarissimamente o mai vengono
impiegate dai poeti nella loro forma piena, o comunque con una frequenza
assai inferiore a quella delle parole con vocali virtuali vere e proprie come
core, amore, amare ecc. – incluse nella tabella per un confronto –, per le quali
la forma piena risulta spesso maggioritaria.

Parole apocopate e piene nei poeti della Scuola siciliana (%)

apocopata piena
ben/bene , ,
b(u)on/b(u)ono , ,
tal/tale , ,
gran/grande , ,
(i)nver/(i)nverso , ,
or/ora , ,
pur/pure , ,
ver/verso , ,
amor/amore , ,
c(u)or/c(u)ore , ,
amar/amare , ,

Secondo questa ipotesi, la memoria del fruitore sarebbe quindi il luogo


in cui si concretizza a pieno la percezione prosodica del verso. Restano però
ancora da individuare le caratteristiche e i processi cognitivi che avrebbero
permesso al lettore di riconoscere il verso, e quindi di realizzare a livello
mentale gli accorgimenti richiesti dalla sua misura. Una possibile risposta
potrebbe derivare da un’analisi dei rapporti tra metro e sintassi secondo un
punto di vista in parte differente da quello generalmente adottato, e da un
approccio al metro e al ritmo dei versi che prenda in considerazione l’into-
nazione complessiva del verso e il contesto prosodico in cui si trova (ovvero
i versi che lo precedono e seguono nel componimento), abbandonando mo-
mentaneamente una prospettiva focalizzata sugli accenti interni e limitata
al singolo verso.
In genere si è soliti interpretare l’assenza di strutture inarcanti nella poe-
sia delle Origini come segno di una generale «subordinazione delle strutture
discorsive a certi vincoli fissati dal metro» che «finisce per comportare la
  

realizzazione di schemi che si adattano allo spazio del verso, […] specie di
protofigure ritmico-sintattiche in cui cogliamo tuttavia ancora una specie di
passività». Tale teoria è certamente valida e condivisa dalla maggior parte
degli studiosi, e in un’ottica diacronica risultano centrali le osservazioni di
Praloran e Soldani in merito alla progressiva autonomia del ritmo rispetto al
metro, che vede nel Dante della Commedia e in Petrarca le realizzazioni più
evidenti.
Tuttavia è altresì possibile che la corrispondenza tra confini versali e
sintattici nella lirica italiana delle Origini non dipenda unicamente da una
“passività” del discorso rispetto al metro, e che sia al contrario una caratteri-
stica in parte consapevolmente ricercata dagli stessi autori in funzione di una
corretta costruzione – e quindi percezione – del verso, in tal modo delimitato
non solo da una determinata successione sillabica e dalla presenza della rima,
ma anche da un profilo sintattico-intonativo la cui cadenza conclusiva coin-
cidesse con la sua fine. Detto diversamente, i potenziali squilibri legati alla
comparsa dei suoni vocalici soprannumerari (che comporterebbero, secondo
le ipotesi di Avalle e Lannutti, non l’aggiunta di ulteriori sillabe metriche, ma
un loro ritardo nella realizzazione), potrebbero essere stati compensati, sul
piano dell’esecuzione e nel riconoscimento del verso, da una costante cor-
rispondenza tra la fine del verso e le cadenze sintattico-intonative. Vale la
pena precisare che con questa ipotesi non si intende elevare la sintassi a fatto
metrico, a elemento costitutivo del verso, ma solo individuare nella prepon-
derante coincidenza tra sintassi e metro una compensazione degli squilibri
propri della tradizione manoscritta e, con ogni probabilità, dell’esecuzione.
Gli studi condotti da Facini sul verso dei siciliani sembrerebbero inoltre
confermare la tendenza a conferire ai versi una cadenza intonativa in fine di
verso anche attraverso alcuni accorgimenti ritmici, primo fra tutti il ricorso
sporadico all’accento di ottava nell’endecasillabo, che comporta l’«assenza di
un tempo forte in prossimità della punta endecasillabica che alleggerisce il
secondo emistichio del verso accelerandone la lettura».
Per quanto concerne invece il riconoscimento della misura del verso, si
deve tenere presente che in un componimento poetico un verso non costitui-
sce mai un’entità assoluta, ma è sempre percepito in relazione con gli altri ver-

. Soldani, Praloran , p. .


. Vd. Menichetti , p. ; Di Girolamo ; Soldani a, p. .
. Un ruolo significativo in questo processo di progressiva autonomia del ritmo rispetto al
metro è ricoperto dall’emergere della soggettività dell’autore all’interno del discorso lirico e, di
riflesso, nella costruzione ritmica del verso, vd. Soldani, Praloran , pp. -; Praloran ,
p. - e Praloran a, in particolare le pp. - e -.
. Circa gli effetti dell’enjambement sul ritmo e sull’intonazione del verso si vedano almeno
Praloran a, pp. - e Menichetti , pp. - e -.
. Vd. infatti Beltrami , pp. -, § .
. Facini , p. .
         

si dello stesso testo, che in alcuni casi, come già detto, forniscono il contesto
necessario a una corretta scansione. Credo che questo principio debba essere
ritenuto valido non solo per quanto concerne l’influsso ritmico-accentuativo
dei versi precedenti su quelli seguenti, dove il ritmo dei primi può genera-
re nell’ascoltatore/lettore un orizzonte d’attesa con cui può giocare l’autore,
ma anche per i versi successivi sui precedenti, nel momento in cui entrambi
convivono nella memoria del fruitore del testo, e dove si verificano quei feno-
meni di interferenze fonetiche e semantiche alla base degli errori d’anticipo
commessi dai copisti. Se teniamo presente questo aspetto, è allora possibile
che nel caso di versi con vocali virtuali o con fenomeni passibili di scansioni
ancipiti, il lettore potesse determinarne la corretta misura prosodica anche
grazie all’influsso metrico dei versi precedenti o successivi, facendo quindi
riferimento a un contesto prosodico più ampio rispetto a quello del singo-
lo verso. Volendo concretizzare quanto detto in un esempio, si prendano i
primi sei versi di Madonna, dir vo voglio così come sono testimoniati da V (il
testo è tratto dalle CLPIO):

Madonna, dire vi volglio


come l’amore m’à preso
inver’ lo grande orgolglio
che voi, bella, mostrate, e non m’aita.
Oi lasso lo me’ core,
ch’è ’n tanta pena miso,
che vede che si more
per ben amare, e tènelosi in vita!

Il testo inizia con due versi che presentano entrambi una parola in scriptio
plena che la misura del verso richiederebbe apocopata (dire e amore); secondo
l’ipotesi appena illustrata, un lettore del medioevo avrebbe letto, e quindi re-
alizzato, a piene lettere sia dire che amore. Posto che i confini versali sono ben
riconoscibili, oltre che dalla rima, anche dall’intonazione sintattica, che non
prevede inarcature rilevanti ed è quindi ben cadenzata in corrispondenza di
ogni fine di verso, il riconoscimento della misura dei primi due versi a livello
mnemonico sarebbe stato facilitato dal più ampio contesto prosodico, forse
coincidente con il primo piede e con la conclusione del periodo sintattico,
che al v.  prevede un settenario regolare, per di più seguito da un endecasil-
labo con cesura forte dopo la settima atona (di fatto un settenario seguito da
quinario con sinalefe). Nel caso delle canzoni con bipartizione della fronte,

. Vd. Menichetti , pp.  e ss.


. In merito si vedano le intuizioni di Pazzaglia, secondo cui i trattatisti medievali trala-
sciano di descrivere gli accenti e le cesure interne dei singoli versi e preferiscono trattare delle
strutture strofiche, perché abituati a «considerare il singolo verso non tanto e non soltanto in sé,
ma nell’arco dell’intera frase ritmica» (Pazzaglia , p. ).
  

è inoltre possibile che anche la sovrapposizione mentale delle esecuzioni dei


due piedi potesse contribuire alla corretta percezione dei primi due versi.
Uno degli aspetti problematici di questa ipotesi consiste ovviamente nel
determinare quanto potesse essere esteso, per un lettore medievale, il “con-
testo prosodico di riferimento”. Difficile dirlo ora, all’inizio di una ricerca
che si prospetta ancora lunga e non certo agevole, ma alcune indicazioni po-
trebbero venire da uno studio approfondito della fenomenologia degli errori
d’anticipo, volto a indagare le dimensioni dei contesti delimitati dai due luo-
ghi coinvolti nell’innovazione.
Si tratta certo di pure ipotesi e linee interpretative, non ancora sorrette da
uno spoglio abbastanza ampio, che implicano una sensibilità metrica ed esecu-
tiva in parte differente dalla nostra. Va però sottolineato che quando i moderni
manuali di metrica si pongono il problema dell’esecuzione, solitamente parto-
no dal presupposto che la realizzazione del verso debba consentire all’ascol-
tatore di percepirne immediatamente il metro e il ritmo, anche attraverso la
corretta resa di quegli istituti prosodici talvolta usati a fini retorici come la
sinalefe e l’inarcatura. È un presupposto del tutto legittimo, ma che a sua
volta richiede che il lettore si trovi sempre di fronte a un testo che realizza
perfettamente il suo modello metrico, nella sostanza e nella forma, vuoi ab
origine, vuoi grazie alla mediazione del filologo (che di solito si impegna a
ridurre al minimo le incertezze prosodiche), mentre per quanto riguarda il
medioevo sappiamo che le modalità di trascrizione, diffusione e ricezione dei
testi erano completamente differenti.

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