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SPIRITUALITÀ

Una nuova condivisione


dell’autorità nella Chiesa
Anne-Marie
 Pelletier
Quale modalità di esercizio dell’autorità sacerdotale ha potuto
ingenerare abusi di potere fino a perversioni e delitti come la pe-
dofilia? Si tratta di rivisitare la comprensione della Chiesa nell’ar-
ticolazione di ministero presbiterale e sacerdozio battesimale.

Nel suo Dialogo con Trifone (II secolo), Anne-Marie Pelletier, studiosa
di ermeneutica e di esegesi biblica
parlando della Chiesa, Giustino osa queste e vincitrice del premio Ratzinger
parole estreme: «Noi che […] ci spogliamo 2014, ha insegnato nell’Università
di Parigi X e all’Institut Catholique;
delle vesti immonde, cioè dei peccati […] attualmente insegna Sacra Scrittura
noi siamo la vera stirpe di sommi sacerdo- ed Ermeneutica biblica allo Studium
della Facoltà Notre-Dame del Se-
ti di Dio». Ecco qui una verità emine-nte, minario di Parigi. È autrice, fra l’al-
tro, di La Bibbia e l’Occidente (1999),
che dice in maniera grandiosa e inclusiva Il cristianesimo e le donne (2001),
l’identità della Chiesa. Una verità che non- Creati maschio e femmina (2010).
L’articolo che qui pubblichiamo è
dimeno è andata perduta per molto tempo. apparso sulla rivista «Études» nel
giugno 2019 ed è l’estratto di una
Una verità che il nostro secolo ha tuttavia più ampia conferenza tenuta al
ritrovato, specialmente con l’ecclesiologia Collège des Bernardins di Parigi.

del Vaticano II. Una verità di cui bisogna


certamente dire che ancora fatica a dispiegarsi nella coscienza cristia-
Vita e Pensiero 52019

na, ma che il tempo presente rende più urgente che mai ascoltarla e
onorarla.
Conosciamo infatti gli scombussolamenti della congiuntura attuale,
l’enorme bufera del peccato scoperto in seno all’istituzione ecclesiale.
Impossibile sottrarsi ad alcune domande radicali, affrontate soprattut-
to dal vertice sugli abusi sessuali che ha riunito a Roma, nel febbraio
2019, i presidenti delle Conferenze episcopali del mondo. Impossibile
sfuggire a un doloroso stupore: come può la Chiesa, «esperta in uma-
nità», come dichiarava la Populorum progressio nel 1967, ritrovarsi a
coprire perversioni che feriscono l’umanità a tal punto? Quale modali-

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tà di esercizio del potere – in particolare dell’autorità sacerdotale – ha


potuto ingenerare in taluni un atteggiamento di onnipotenza che rende
possibile abusare dell’altro, mentalmente e fisicamente?
Sono domande oggi poste pubblicamente all’istituzione ecclesiale.
Questa deve assolutamente accoglierle, nella consapevolezza che, per
quanto doloroso sia per lei questo momento, lo scandalo deve per-
mettere, mentre lascia emergere la verità, l’avvento di una maggiore e
più vera fedeltà al Vangelo. In particolare – e papa Francesco collega
esplicitamente la crisi attuale a certe disposizioni strutturali –, questo
tempo deve portare a rivisitare la nostra comprensione della Chiesa
nel punto nevralgico in cui si formulano le nostre identità, in cui si
esercitano i munera (compiti) del ministero presbiterale, in cui si arti-
colano – o dovrebbero articolarsi – le due figure dell’unico sacerdozio,
ministeriale e battesimale. È esattamente questa articolazione che mi
propongo di interrogare nella sua storia, con le sue vicissitudini, ma
altresì sotto l’ispirazione che possiamo trovare nel momento presente,
un tempo in cui la Chiesa – non dimentichiamolo – è percorsa anche
da una forte vitalità evangelica. Un tempo in cui, per quanto riguar-
da l’ecclesiologia, una crescente preoccupazione di sinodalità cerca di
aprire nuove strade.
E la sinodalità non si esprimerebbe oggi per l’appunto in una ri-
flessione condivisa sulla Chiesa? Sappiamo bene che la teologia è stata
sempre elaborata in quello spazio che è il cosiddetto mondo dei chie-
rici. Le nostre ecclesiologie sono state sempre formulate a partire dal
privilegio di intelligenza tradizionalmente spettante a uomini portato-
ri del sacerdozio ministeriale. Senza che vada persa la specificità del
munus docendi (il compito di insegnare), non è possibile immaginare
che il mistero della Chiesa possa essere altresì interrogato attraverso
il prisma di altre posizioni nel corpo ecclesiale, che la nostra teologia
possa avvalersi di altri punti di vista? In particolare da parte del «santo
popolo dei battezzati» (espressione favorita di papa Francesco) e, più
precisamente ancora, da parte della vita cristiana vissuta al femminile?
È proprio interrogando il sacerdozio attraverso il prisma della mia
SPIRITUALITÀ

identità di battezzata che ora passo a formulare la seguente analisi.


Oso pensare che la particolarità di questo luogo di presa di parola non
rappresenti un handicap, ma piuttosto una realtà che risponde alla ne-
cessità sempre più palese che la nostra teologia incorpori le risonanze
di molte voci, le intuizioni di molti spazi. E in modo del tutto speciale

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quando si tratta di ecclesiologia, cioè dell’intelligenza che dobbiamo


avere del mistero della Chiesa. E dunque anche dei «sacerdoti nel mi-
stero della Chiesa», come recitava il titolo di un convegno di qualche
anno fa al Seminario francese di Roma, dove mi sono trovata unica
donna a prendere la parola in un consesso di un centinaio di pre-
ti. Non mi è parso, allora, che si trattasse di una situazione davvero
soddisfacente. In questa sede, la parrhesia (libertà di parola) del mio
discorso sarà legata alla convinzione che l’avvenire dell’istituzione ec-
clesiale è intrinsecamente legato, nel cattolicesimo, a una riflessione
polifonica, dunque alla condivisione della ricerca della verità, che è
sempre più grande di quella che noi sappiamo cogliere.

Ritrovare
 il senso del sacerdozio battesimale
Ecco qualcosa che ci mette sulla giusta strada per apprezzare il ritorno
di memoria profonda – quella della tradizione dei primi secoli – at-
testato per bocca dei padri del Vaticano II e dell’odierno magistero.
È infatti di una vecchia novità ritrovata che noi parliamo, ossia del
sacerdozio dei battezzati che torna a imporsi nell’ecclesiologia. Certo,
la conoscenza della Chiesa, corpo di Cristo, che il XII secolo iniziò a
qualificare come “mistico”, è sempre sussistita sotterraneamente. Ma
ci sarebbe voluto del tempo prima che, con Johann Adam Möhler e
John Henry Newman, il premere di un’ecclesiologia di comunione
cominciasse a scuotere le rigidità della teologia “classica” del trattato
De Ecclesia. Nella sua Meditazione sulla Chiesa (1953), padre Henri
de Lubac può a buon diritto appellarsi alla più alta tradizione per
ricordare che ogni cristiano partecipa dell’unico sacerdozio di Cristo.
Aggiungendo che i poteri gerarchici non ne vengono per questo smi-
nuiti, ma si esplicitano come “compiti” (munera) affidati ad alcuni,
Anne-Marie Pelletier

sotto la forma di un potere ricevuto da Cristo, che autorizza a con-


sacrare in persona Christi il sacrificio eucaristico offerto in persona
omnium (così si esprime san Tommaso d’Aquino, citato da Henri de
Lubac).
Cronologicamente, siamo nelle immediate vicinanze di Per una
teologia del laicato che padre Yves Congar pubblica nel 1953. È nota la
celebre formula che a lui dobbiamo: «Uno solo è sacerdote (hiéreus),
tutti sono sacerdoti (hiéreus); alcuni sono preti (presbyteroi)». Dieci
anni dopo, la costituzione dogmatica Lumen gentium (21 novembre

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1964) organizza i propri contenuti attorno a questa verità, confermata


negli ultimi mesi del Concilio dalla votazione di un decreto sull’apo-
stolato dei laici (Apostolicam actuositatem, 18 novembre 1965), segui-
to da un decreto sul ministero e la vita dei presbiteri (Presbyterorum
ordinis, 7 dicembre 1965). Il semplice accostamento tra questi testi,
cui va aggiunto il decreto sulla vita religiosa (Perfectae caritatis, 28 ot-
tobre 1965), ben attesta la profondità del rinnovamento ecclesiologico
operato. Inutile rievocare adesso la struttura di Lumen gentium. Come
pure insistere sul peso dottrinale del suo modo di organizzare l’espo-
sizione: a partire dal mistero della Chiesa generata dal costato aperto
di Cristo, per poi sviluppare diffusamente quel che riguarda il popolo
di Dio e infine occuparsi della costituzione gerarchica della Chiesa. In
tal modo l’ontologia della grazia comune a tutti i battezzati riqualifica
i laici secondo la loro identità scritturale affermata nella Prima Lettera
di Pietro e nell’Apocalisse. Essa restituisce il senso di una Chiesa co-
munione, convocata tutt’intera dalla chiamata universale alla santità,
che risuona nel quinto capitolo di Lumen gentium. Le stesse pagine
dichiarano la molteplicità delle vie della santità e l’unicità di un appel-
lo che obbliga tutte e tutti coloro che hanno «rivestito Cristo», senza
enfatizzare l’una o l’altra condizione o vocazione specifica.
Ci accontenteremo qui di due osservazioni, l’una riguardante da
vicino il testo conciliare, l’altra associata alla problematica più larga
dell’appartenenza alla Chiesa. Registriamo innanzitutto e semplice-
mente un fatto decisivo, che resta purtroppo ancora insufficientemen-
te familiare a molti cristiani: in lineare conformità con la sua tradi-
zione (sopra evocata dalle parole di Giustino), la Chiesa ha ritrovato
nel XX secolo un’intelligenza di sé inclusiva. Tale autocomprensione
consente di pensare e di vivere la comunione ecclesiale col respiro di
Galati 3,28, ossia nella libertà dalle varie forme di pregiudizio che nel-
le società umane introducono incessantemente dei giochi gerarchici,
i quali giustificano dei poteri tanto più temibili in quanto invocano
fondamenti sacrali.
Questa rinnovata comprensione dell’identità del corpo libera dal-
SPIRITUALITÀ

le rigidità delle ripartizioni strettamente gerarchiche, e permette alla


Chiesa di riaprirsi alla percezione della diversità dei carismi quali sono
menzionati nelle diverse liste di Romani 12, di 1Corinzi 12 e anche di
Efesini 4. Dilata al tempo stesso il senso della missione, ricordando
che l’evangelizzazione deve essere l’opera comune di tutto il popolo

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di Dio, chiamato a partecipare all’unica missione affidata da Cristo


alla Chiesa. Similmente, al di là della distinzione necessariamente un
po’ infantilizzante di una Chiesa docente versus una Chiesa discente,
si ritrova il dinamismo dello Spirito all’opera nell’insieme del corpo
tramite l’esercizio della funzione profetica, elemento correlato alla
condizione di battezzati. Riconosciuto e onorato, il sensus fidei può
giocare in sinergia con il lavoro del magistero e della teologia. È come
dire che, con un simile sguardo, questo corpo ecclesiale così ricom-
posto non difetta certo di risorse. Resta da riconoscerle e da porle in
opera istituzionalmente, mettendo in campo coraggio, fiducia e crea-
tività spirituale. Resta da entrare in travaglio di rinnovamento eccle-
siologico.
Notiamo, peraltro, che questa dinamica di una verità in via di ma-
turazione riguarda il testo stesso di Lumen gentium nel suo sforzo di
svincolamento da una lunga tradizione gerarchizzante – «gerarcolo-
gica», direbbe padre Congar. Questa costituzione conciliare reca le
tracce di uno sforzo d’intelligenza cui sarebbe deplorevole apporre
il sigillo di una parola finale che mettesse fine a ulteriori riflessioni.
Così, la celebre formula del numero 10 continua a sollevare interroga-
tivi, con la sua affermazione di una «differenza essenziale e non solo
di grado» (licet essentia et non gradu tantum differant) tra sacerdozio
comune dei fedeli e sacerdozio ministeriale gerarchico. Si sente bene,
qui, la sottolineatura della singolarità del potere ministeriale, che è un
potere ordinato, ma il non tantum indebolisce un poco la differenza di
essenza per tirare ancora in direzione di una differenza di grado. L’af-
fermazione, peraltro, che le due figure dell’unico sacerdozio sono or-
dinate l’una all’altra causa una certa perplessità: se si vede bene come
il sacerdozio ministeriale sia ordinato al sacerdozio comune, l’inverso
rimane problematico! E ancora, nel quarto capitolo, la definizione dei
Anne-Marie Pelletier

laici semplicemente per difetto suona un po’ strana («si intende qui
l’insieme dei cristiani a esclusione dei membri dell’ordine sacro e del-
lo stato religioso…»). Su questo punto, e senza potere, in questa sede,
fare di più che menzionare il problema, sottolineiamo quanto sarebbe
necessario riaprire il dibattito sul binomio chierici-laici e sulla maniera
corrente di ricalcarlo sulla distinzione tra spirituale e temporale. Biso-
gnerebbe assolutamente riprendere, a questo proposito, la domanda
formulata da Hans Urs von Balthasar in un articolo del 1979: «Vi sono
laici nella Chiesa?».

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Comunque sia, c’è ancora del lavoro da fare, oggi, perché la giusta
articolazione tra le due figure venga riconosciuta, messa in pratica e
anche solo semplicemente insegnata (molti cristiani ignorano tutto del
loro sacerdozio battesimale, quando invece possono esercitare dei veri
ministeri battesimali!). Come pure c’è del lavoro da fare perché ven-
ga messa sul tavolo la questione di cosa competa, istituzionalmente,
ai battezzati nell’annuncio del Vangelo e nel governo della Chiesa.
Ricordiamo infine che è lungi dall’essere un dato acquisito che, nella
vita attuale delle comunità cristiane, il sacerdozio ministeriale appaia
leggibilmente inscritto nell’insieme della grazia battesimale. Il richia-
mo di papa Francesco, che siamo dei battezzati ben prima di essere
sacerdoti o connotati da qualsiasi vocazione specifica, prova che que-
sta realtà rimane ancora programmatica.
Seconda osservazione, anche questa formulata sotto l’ispirazione
del papa con l’intento di rimediare alle derive del clericalismo: ci sa-
rebbe molto da fare perché la Chiesa viva oggi a pieni polmoni, come
una comunità di donne quanto di uomini. Quella, infatti, che è spesso
detta “questione femminile” è invece, in realtà, una “questione eccle-
siale”. In particolare, le disposizioni della lettera apostolica Ordinatio
sacerdotalis (2 maggio 1994) che conosciamo, sul non-accesso delle
donne all’ordinazione presbiterale, devono o dovrebbero mettere al
centro della nostra riflessione l’articolazione tra le due figure di sacer-
dozio. Siamo chiari: nella nostra congiuntura culturale e sociale, ci è
inderogabilmente richiesto di pensare radicalmente questa disposizio-
ne della non-ordinazione – andando, beninteso, alla radice dell’iden-
tità battesimale. Ciò non può non farci mettere in questione una teo-
logia che, più o meno esplicitamente, pensa il sacerdozio ministeriale
come una classe superiore a quella del battesimo. Riconosciamolo:
certe elevazioni spirituali del Grande Secolo (il Seicento), che esaltano
il sacerdote come portatore di una grazia insuperabile, possono sol-
tanto umiliare in modo irrimediabile le donne cristiane, consacrate o
non. È peraltro sorprendente come questa teologia non si renda conto
che, ragionando in quel modo, può finire per suscitare nelle donne il
SPIRITUALITÀ

desiderio spirituale di ciò che viene presentato come pienezza della


vita cristiana. Si tratta insomma di pensare l’una e l’altra figura in un
modo che non voti le donne a una sotto-vocazione. Anzi direi, senza
tema di ostentare un’elevata ambizione spirituale, che il tema è che
le donne, portatrici del solo sacerdozio battesimale, possono essere il

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richiamo potente e necessario che la qualifica battesimale concentra


il tutto dell’identità cristiana, rappresenta ciò che di più alto e di più
eminente possano desiderare i discepoli di Cristo: questo dono pieno
che il sacerdozio ministeriale riceve il compito e la grazia di servire in
tutti i suoi fratelli. È in questo senso che io amo parlare di un “segno
della donna”, in e per una Chiesa inclusiva dove ognuno si senta parte
integrante di una dinamica «per l’altro», specchio dell’immagine di
Dio che trova il suo modello e il suo compimento in Cristo.
Per terminare, proporrò qualche considerazione sull’esercizio
del sacerdozio ministeriale in un tempo in cui l’ecclesiologia ritrova
la grazia battesimale e crismale come suo centro di gravità, così in-
scrivendosi, per di più, in una configurazione culturale attenta all’u-
guaglianza e alla fraternità, due riferimenti che non appartengono,
evidentemente, all’ordine del Grande Secolo e che invece abitano il
nostro. Mi soffermerò su due declinazioni del ministero presbiterale
che mi sembra debbano ricevere oggi un’attenzione particolare. L’una
riguarda il servizio; l’altra, l’esperienza di “essere fratelli”.

Il
 sacerdozio dei presbiteri oggi
Tanto Lumen gentium come Presbyterorum ordinis affermano con in-
sistenza che il sacerdozio ministeriale trova la sua qualifica fondamen-
tale come servizio della santità dell’insieme del corpo ecclesiale, ser-
vizio del «santo popolo dei fedeli di Dio», come dice papa Francesco
nella Lettera al card. Marc Ouellet (19 marzo 2016). In altri termini, la
piena e prima identità del sacerdozio ministeriale è quella di un munus
(compito), che le equivoche superiorità che possono contaminare la
tematica della potestas (potenza) non devono mai eclissare.
Nondimeno questa bella realtà del servizio va incessantemente sot-
Anne-Marie Pelletier

toposta a verifica, tante sono le contraffazioni che essa può veicolare.


Tanto più che “servizio” rinvia a quanto di più centrale c’è nella vo-
cazione e nella testimonianza cristiane, alla maniera del Cristo quale è
meditato nell’inno ai Filippesi, in eccesso a tutte le accezioni ordinarie
del servizio e, di conseguenza, in rapporto critico con ciò che sponta-
neamente veicolano i nostri discorsi spirituali – anche, e forse innanzi-
tutto – là dove sollecitano fasti mistici a profusione. Così la grandiosa
esortazione di san Giovanni Eudes («Che il sacerdote, come Cristo,
sia ostia») sembra poter essere intesa correttamente solo sbarazzando-

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si di una certa enfasi, ossia caricando la parola “ostia” del realismo as-
sai concretamente carnale del Vangelo, quello di Gesù, Figlio di Dio,
«dall’aspetto riconosciuto come uomo» (Fil 2,7), iscritto nei registri
del censimento di Cesare Augusto, confuso tra la folla che si presenta
al battesimo di Giovanni, e che «passò beneficando e risanando tutti»
(At 10,38), che frequentava gli infrequentabili, dedito alla rivelazione
della misericordia del Padre esponendosi, fino alla morte, al disprezzo
dei pii osservanti e delle persone perbene.
Padre Gustave Martelet invitava, tempo fa, a conoscere il ministero
presbiterale come «effetto dell’umiltà del Signore», come «istituzione
stessa di tale umiltà», nel senso che Cristo, in questo tempo presente
in cui si sottrae ai nostri sensi, si dà nella presenza suppletiva di uomini
che egli chiama a essere suoi intendenti. La sua analisi sottolinea con
forza il carattere determinante, insostituibile, di questa intendenza –
senza cui la vita della Chiesa collassa e si perde – e che consiste nel
decentrare da sé stessa la comunità dei credenti e nel ricentrarla sacra-
mentalmente su Cristo, sorgente e risorsa di vita. Ma invita anche ogni
sacerdote a dire: «Io non sono Cristo eppure lui è qui», aggiungendo:
«Questo dovrebbe essere, modellato sul Battista, il presente continuo
del ministero del prete e il programma portante del suo comporta-
mento». Così prende forma la figura di un ministero che è totale con-
segna di sé a servizio della santità dell’altro, che – ci ricorda con vigore
l’esortazione apostolica Gaudete et exsultate (19 marzo 2018) – è l’o-
rizzonte non facoltativo di ogni vita rinata dal battesimo (una santità
che consiste, in qualsiasi stato e anche nelle condizioni più modeste,
nel dedicarsi al bene dell’altro…). Se si assume questa visione, la ve-
rità del sacerdozio ministeriale potrebbe finalmente trovarsi di fronte
al sacerdozio battesimale in quella disposizione di Giovanni Battista
quando dichiara: «Lui deve crescere; io, invece, diminuire» (Gv 3,30).
Posizione radicale, certo, ma la prova e la grazia del tempo presente
non sono precisamente quelle di attirarci nella radicalità? Di attirarvi
tutti e tutte coloro che entrano nella sequela Christi. Riportate al mini-
stero presbiterale, questa prova e questa grazia potrebbero consistere
SPIRITUALITÀ

nel viverlo oggi pronti allo spogliamento dalle gratificazioni compen-


satorie e alla larga da un certo sublime, tratti che sono potuti esistere
in un’epoca di cristianità. Semplicemente nel «per l’altro» di Cristo,
questa radicalità della semplicità evangelica che è il vero sublime…
Ultima tappa del percorso qui proposto, appunto sul piano della

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fraternità, l’«essere fratelli». È una questione oggi nevralgica, che pro-


blematizza in particolare il legame del sacerdozio ministeriale rispetti-
vamente con la paternità e la fraternità. Che ha un rapporto anche con
l’articolazione tra sacerdozio ministeriale e sacerdozio battesimale.
Che infine incrocia direttamente la nostra attualità sociale ed ecclesia-
le. Si parla molto del deficit di paternità nelle nostre società odierne.
È un dato assodato. Ma la stessa attualità suggerisce che, nella vita
della Chiesa, il dramma degli abusi, degli sviamenti, delle perversioni
dell’autorità, che scuotono oggi l’istituzione, potrebbe a contrario es-
sere in rapporto con un’inflazione, deviata, di paternità.
È il caso di ricordare che i testi conciliari relativi al sacerdozio mi-
nisteriale pongono un forte accento sulla fraternità nel descrivere le
relazioni dei preti con i laici come quelle dei preti fra loro. «In mezzo
a tutti coloro che sono stati rigenerati con le acque del battesimo, i
presbiteri sono fratelli membra dello stesso e unico corpo di Cristo, la
cui edificazione è compito di tutti»: questa affermazione di Presbyte-
rorum ordinis dispiega le sue implicazioni lungo tutto il decreto, che,
per contro, usa con grande parsimonia il riferimento alla paternità ed
evita la tematica della generazione. Stessa osservazione vale per l’esor-
tazione Pastores dabo vobis di Giovanni Paolo II (25 marzo 1992). Il
sacerdote è «nella» Chiesa, senza escludere il «di fronte» ma con l’e-
vidente cura di non insistere sulla tradizione della figura paterna con i
suoi equivoci e il suo potenziale di autoritarismo.
Così parlano i testi. Ciò non toglie che, nella vita delle comunità, è
poi il riferimento alla paternità che rimane dominante nella testa dei
fedeli e che si ritrova oggi in causa nei fenomeni di plagio e di abuso
di potere. Di qui – crisi oblige – il necessario ritorno alla testimonian-
za scritturale della novità evangelica, quando l’ora della Risurrezione
appare come l’ora dei fratelli: «Va’ dai miei fratelli e di’ loro: “Salgo
Anne-Marie Pelletier

al Padre mio e Padre vostro”…» (Gv 20,17). E Pietro, dopo la Pen-


tecoste, inaugura il suo ministero apostolico rivolgendosi a «uomini
d’Israele» che sono ormai chiamati «fratelli» (At 3,17). Crisi oblige, di
nuovo, siamo tenuti a eludere meno frettolosamente la parola di Gesù
in Mt 23,8: «Voi siete tutti fratelli. E non chiamate “padre” nessuno
di voi sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello celeste».
Parola tanto più provocatoria in quanto appare nel contesto di una
serie di brutali avvertimenti. In effetti, è proprio il riferimento cristo-
logico a essere fondatore dell’identità presbiterale. Ora, come ricor-

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da padre Benoît-Dominique de La Sougeole, Cristo non è chiamato


«padre» nella sua relazione con gli uomini da salvare, bensì «fratello»,
lui che è ormai designato come «il primogenito tra molti fratelli» (Rm
8,29) e di cui la Lettera agli Ebrei dichiara che, benché «sommo sa-
cerdote misericordioso e degno di fede», non si vergogna di chiamare
fratelli gli stessi che egli santifica (Eb 2,11). Lo stesso teologo invita
a distinguere la paternità ministeriale collegata al presbiterato dalla
paternità spirituale che è invece un carisma suscettibile di risiedere
nei laici come nei preti, nelle donne come negli uomini. Mantenere la
verità dell’identità presbiterale consisterà dunque nel pensare assieme
questa paternità ministeriale – nel suo senso preciso e nei suoi limiti –
con quella fraternità fondamentale che si esprime nel fatto che questa
paternità genera dei fratelli, non dei figli.
C’è insomma in questione un riordino mentale e simbolico, che per-
metta di ritrovare la fecondità di una fraternità che lega quanti sono
generati dal battesimo a una vita filiale, rendendo possibile l’espres-
sione di un mutuo riconoscimento e di una sinergia delle vocazioni
e dei carismi, dando finalmente al corpo ecclesiale la sua organicità
vivente e l’unità. A ognuno, di vedere nel dettaglio le forme con cui
questa fraternità ritrovata e accolta sia in grado di rinnovare le nostre
relazioni e le nostre pratiche ecclesiali. Indichiamo un solo ambito di
applicazione, che concerne il ministero della Parola e dell’insegnamen-
to affidato al sacerdozio ministeriale. Ben sappiamo quanti problemi
si cristallizzino attorno all’omelia, di cui il Papa non esita a parlare
lungamente (cfr. Evangelii gaudium 135-159) e che vengono sollevati
a mezza voce tra i cristiani. In generale, appare evidente che la parola
che ha la responsabilità di insegnare le profondità della fede, di esorta-
re al coraggio della fedeltà cristiana, di edificare la vita dei destinatari,
si avvantaggerebbe notevolmente dall’essere una parola fraternamente
impegnata, nel senso che essa si formerebbe assumendo esplicitamente
l’esperienza condivisa della fede, con le sue pietre d’inciampo e le sue
illuminazioni. Certo, l’atto della predicazione comporta una dimensio-
ne istituzionale, che fonda la veracità della testimonianza. Ma tale di-
SPIRITUALITÀ

mensione non dovrebbe far ignorare che tutti – fedeli e pastori – sono
prima di tutto uditori della Parola, la quale afferra gli uni e gli altri per
farli passare dai loro pensieri a quelli di Dio, prima di riunirli nell’azio-
ne di grazie del rito eucaristico. Così, colui che ha la responsabilità del-
la predicazione dovrebbe esprimersi come un “noi”, accompagnando

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il cammino dei suoi destinatari, anche attraverso resistenze che i Van-


geli ci mostrano essere quelle degli uditori di Gesù. Questo dovrebbe
preservare il discorso omiletico dall’enunciazione insipida e distanziata
di verità generali, come pure dalla postura altera del predicatore “che
sa quello che gli altri non sanno”, dimenticando e facendo dimenticare
che le verità che vengono da Dio manifestano la loro origine nel fatto
che nessuno può pretendere di impadronirsene perentoriamente. Si
tratta dunque di trovare la via, o la voce, di un linguaggio autentica-
mente fraterno, il solo che ha il potere di edificare nella conoscenza e
nell’amore di Dio. Il solo, probabilmente, capace anche di essere sen-
sibile ai nostri contemporanei, i quali possono raggiungere la fede uni-
camente attraversando la spessa nebbia che un mondo secolarizzato ha
frapposto tra loro e Dio.
Si potrà a questo proposito rileggere con profitto Karl Rahner, in
uno dei capitoli del grande libro Existence presbytérale. Si tratta di una
conferenza del 1967, da lui pronunciata a Münster per un gruppo di
preti. Egli li esorta appunto a trovare le parole di un linguaggio frater-
no per attestare davanti ai loro fratelli la fede della Chiesa. E precisa
che cosa sia questa fede dal tenore fraterno: «Una fede che sopporti
le tenebre del mondo, invece di volerle dissipare con la discussione;
una fede che confessi Dio, invece di difendere le posizioni che danno
alla Chiesa il volto di una potenza di questo mondo e di un’ideologia
incarnata in un corpo sociale; una fede cosciente di non poter procu-
rare la giustificazione, e di non poter giustificare se stessa agli occhi
del mondo, se non a condizione di divenire una “energia” (Gal 5,6),
quella dell’amore che si consuma a servizio del prossimo».
Concludiamo ritornando, una volta di più, sul nostro tempo pre-
sente. Non è probabilmente indebito pensare che esso ci fa vivere un
tempo di potatura, nel senso indicato dal capitolo 6 di Isaia, che per la
Anne-Marie Pelletier

missione del profeta parla di potatura. Il medesimo testo, peraltro, in-


segna che la potatura, nel senso biblico, ha per misterioso fine quello di
riportare al ceppo santo, che Dio preserva e cui affida l’avvenire del po-
polo. È proprio a partire da questo ceppo o seme santo che è Cristo, che
noi dobbiamo lavorare alla «conversione dell’agire ecclesiale» alla quale
il papa invita, nel suo Appello al popolo di Dio (20 agosto 2018), come
antidoto ai veleni che hanno preso quartiere nell’istituzione ecclesiale.

(Traduzione di Pier Maria Mazzola)

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File di Sanchez Jauregui Alma Liliana - alilifcj@gmil.com - Numero ordine:201202200134123


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