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Riassunto completo

dell'esame di Diritto Privato.


Libro del corso: Galgano
Diritto Privato
Alma Mater Studiorum – Università di Bologna
135 pag.

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DIRITTO PRIVATO (Francesco Galgano)

Parte prima
INTRODUZIONE

Capitolo primo
IL DIRITTO PRIVATO

Il diritto
Un ordinamento giuridico è un insieme di regole, le quali “regolano” i rapporti fra gli individui di
una data comunità. Ogni ordinamento, infatti, deve essere concepito quale un sistema di regole, che
disciplinano i comportamenti umani, cercando di uniformarli, evitando la violenza. È cosa nota la
teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici: sebbene, infatti, l’ordinamento giuridico statale
cerchi di imporsi quale sovrano sul diritto emanato da organi diversi e plurimi, tuttavia, giunge
indispensabile considerare come la modernizzazione abbia condotto alla nascita di associazioni e
organizzazioni, le quali, indipendentemente, hanno creato un diritto proprio. Ciononostante, è
palese il fatto che per grandi aree geografiche il diritto sia piuttosto simile, pur trattandosi, magari,
di Paesi diversi. Stando ai canoni del costituzionalismo moderno, il potere legislativo, esecutivo -
amministrativo e quello giurisdizionale devono risiedere in organi qualificati separati tra loro.
Infatti, Locke e Montesquieu ipotizzarono come, qualora i tre poteri risiedano nelle mani di un
organo monocratico, si potrebbe assistere a un regresso allo stato assoluto seicentesco. Nel nostro
Paese il potere legislativo è detenuto da organi nazionali (parlamento e governo), da organi
sovranazionali (CEE) e da enti locali (regioni e province). Nei Paesi di common law, invece, il
potere legislativo spetta al giudice, il quale crea il diritto, che diverrà poi vincolante pro futuro. Se
in passato la struttura del diritto era piuttosto semplice, oggigiorno, al contrario, il diritto ha una
struttura piuttosto complessa, dettata dalla pluralità degli ordinamenti giuridici, dalle molteplici
fonti del diritto, dalle innumerevoli regole giuridiche. Spetterà al giudice applicare il diritto astratto
al caso concreto e contingente. È opportuno, a questo punto, differenziare le regole giuridiche dalle
regole non giuridiche. Il positivista per eccellenza Kelsen mirò a costruire una teoria del diritto del
tutto scevro da qualsiasi tipo di condizionamento morale e religioso: talvolta le regole del diritto
coincidono con quelle del campo religioso e morale; talaltra, invece, no. La differenza fra regole
giuridiche e regole non giuridiche risiede nell’esistenza o meno del carattere della coercibilità: il
trasgressore a livello giuridico sarà punito con una sanzione; con una punizione ultraterrena,
qualora abbia violato i comandamenti religiosi. La legittimazione del diritto risiede, dal punto di
vista formale, nella sua struttura qualificata e, dal punto di vista sostanziale, nella sua accettazione
dalla maggioranza dei consociati di una comunità.

La norma giuridica
Ogni ordinamento giuridico è dato da un insieme di norme le quali sono generali (rivolte a una
pluralità indistinta d’individui) e astratte (è possibile ripeterle nel tempo e non riguardano singoli
fatti concreti, ma un’ipotetica serie di fatti). Le norme giuridiche possono essere definite quali
proposizioni prescrittive. A tal proposito è opportuno distinguere il linguaggio prescrittivo (mondo
del dover essere) dal linguaggio descrittivo o espressivo. È, tuttavia, possibile che alcune norme
giuridiche contengano delle definizioni giuridiche, le quali hanno comunque valore precettivo. Le
norme devono essere precostituite, ossia non possono essere create quando il conflitto è già insorto.
“Nessuno può essere giudicato se non in forza di una legge entrata in vigore prima del fatto
commesso”. Art. 25.2 Cost. La certezza del diritto, infatti, è data dal fatto che il soggetto possa
conoscere anticipatamente le leggi e possa conoscerne le eventuali sanzioni. Spetterà poi al giudice,
mediante le sentenze (provvedimento), applicare il diritto alle varie controversie. Per le norme,
specialmente per quelle penali, è fatto esplicito divieto di efficacia retroattiva. La consuetudine è,
nei Paesi di common law, fonte del diritto primaria e diretta, mentre, in quelli di civil law, è
secondaria e indiretta. Le norme consuetudinarie sono comunemente definite di diritto generale o
di diritto comune; esistono, tuttavia, norme di diritto speciale, le quali delimitano esclusivamente la
serie di soggetti ai quali si riferiscono (lex specialis derogat generali).

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I diritto e lo stato
Lo Stato deve essere considerato quale un’organizzazione politica, atta a disciplinare i
comportamenti di una collettività stanziata su un certo territorio. Per Stato, infatti, s’intende la
comunità, l’ordinamento giuridico della comunità in questione e l’insieme degli apparati che
compongono lo Stato stesso (amministrazioni pubbliche). Lo Stato (popolo, territorio, potere
sovrano) nasce come risposta alla decadenza del feudalesimo: nel 1600 nasce, infatti, lo Stato
assoluto, il quale, gradualmente, si evolverà in stato liberale, stato liberaldemocratico, stato fascista,
stato comunista, stato confessionale, muovendo dalla monarchia costituzionale britannica. Lo Stato
assoluto è testimone dello Stato - apparato, ma non possedeva un organico ordinamento giuridico;
dal XIX secolo, invece, con Napoleone si assiste a un’ingente opera codificatoria, che rivoluzionerà
l’intero ambito europeo. Con la caduta delle monarchie assolute europee cesserà anche il potere
assoluto e dispotico del sovrano, il quale, creando personalmente la legge vincolante, non era
soggetto ad alcun tipo di comando. Da ciò nasceranno le prime costituzioni, nelle quali andranno
affermandosi i diritti e i doveri dei cittadini (“La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle
forme e nei modi previsti dalla legge”). Nascerà, pertanto, lo Stato di diritto (non vi sono sudditi; i
cittadini collaborano compattamente per la creazione di codici che possano disciplinare, senza
distinzioni, tutti gli individui), unitamente alla statualità del diritto (il diritto è concezione
intrinseca allo Stato).

Diritto privato e diritto pubblico


Una prima considerazione, che giunge opportuno fare, parlando di diritto è la distinzione fra diritto
privato, che riguarda l’“utilitas singulorum”, e fra diritto pubblico, che si occupa d’interessi
generali e collettivi. Il diritto privato può essere rinominato “diritto comune”, poiché si applica
indistintamente a soggetti pubblici e a soggetti privati (imprenditori, contraenti, locatori, ecc.). Il
diritto pubblico, invece, attiene esclusivamente a organi pubblici: regola l’organizzazione dello
Stato (poteri legislativo, esecutivo e giudiziario) e i rapporti autoritativi. Il diritto pubblico si
articola in sotto-sistemi: diritto amministrativo, diritto processuale penale, diritto processuale civile,
diritto processuale amministrativo, diritto penale. La pubblica amministrazione, tuttavia, non può
abusare dei propri poteri. Può essa fare proprie le norme di diritto amministrativo (es. appalti
pubblici, espropriazione terrena) o le norme del diritto privato (es. comprare locali privati per
adibirli a funzioni pubbliche).

Diritto oggettivo e diritti soggettivi


Con la locuzione “diritto oggettivo” si considera l’insieme di norme che regolano una data
comunità; il “diritto soggettivo”, invece, è la pretesa del singolo individuo di far valere i propri
interessi e diritti. Il diritto oggettivo ha quale funzione principale quella di prescrivere certi
comportamenti e di soccombere interessi non degni di protezione. Il diritto soggettivo, riguardante
l’utilitas singulorum, pone in capo ad un soggetto attivo la pretesa di far valere i propri diritti e agli
altri soggetti passivi l’obbligo di rispettare oggettivamente il diritto soggettivo. Tuttavia, non tutte le
norme di diritto oggettivo pongono in capo ai singoli dei diritti soggettivi: vi sono, infatti, norme
oggettive che si pongono come fini diritti generali, la cui osservanza è erga omnes. In questi casi,
l’analisi di osservanza dei propri diritti non spetta al singolo individuo, ma all’ente pubblico, il
quale deve garantire l’osservanza degli obblighi, a tutela dell’intera comunità. Tra i diritti soggettivi
sono ricompresi i diritti assoluti (diritto di proprietà) e i diritti relativi (risarcimento del danno art.
2043 c.c.). Esistono anche dei diritti definiti “potestativi”: essi non impongono né doveri né
obblighi, ma implicano la soggezione, ossia il subire passivamente la volontà altrui (pagamento
delle tasse). Diverso dagli obblighi è l’onere, la cui osservanza deve essere rispettata se si vuole
raggiungere un dato risultato. La potestà, infine, è il diritto di pretesa per la tutela degli interessi
altrui (potestà genitoriale).

Fatti giuridici e atti giuridici


Per “fatto giuridico” si suole intendere qualsiasi accadimento, naturale o umano, al quale
l’ordinamento giuridico riconosce effetti giuridici. Chiarito ciò, emerge come i fatti umani possono

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essere considerati leciti, se conformi al diritto, o illeciti, se non conformi. Essi, inoltre, possono
essere discrezionali, ossia il soggetto è libero di compierli o no, o obbligatori, se in capo al soggetto
vi è un obbligo vincolante. Se i fatti giuridici producono effetti giuridici solo qualora l’individuo sia
in grado di intendere e di volere, per gli atti giuridici, invece, occorre la capacità di agire, che si
acquista al compimento del diciottesimo anno di età. Tra gli atti giuridici si annoverano: le
dichiarazioni di volontà (sono fatti giuridici, i quali constano della volontà di determinati effetti, es.
contratto) e le dichiarazioni di scienza (l’individuo dichiara di essere a conoscenza di un dato fatto
giuridico). Sono atti giuridici anche gli atti della pubblica autorità.

Capitolo secondo
LE FONTI DEL DIRITTO PRIVATO

Il sistema delle fonti del diritto


Il nostro ordinamento giuridico definisce “fonti di produzione” del diritto l’insieme degli atti o dei
fatti che abilitano a produrre norme giuridiche, che il nostro ordinamento riconosce come proprie;
mentre, si considerano “fonti di cognizione” del diritto i testi che consentono di conoscere il diritto.
Nel nostro sistema legislativo è opportuno tener presenti il diritto nazionale e quello
sovranazionale: a tal proposito, l’art. 1 delle preleggi si rivela antiquato e richiede alcune
modifiche. Oggigiorno, infatti, il sistema delle fonti del diritto è così composto:
1) TCE e regolamenti comunitari (“L’Italia … consente, in condizioni di parità con gli altri Stati,
alle limitazioni di sovranità necessarie a un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le
Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo – art. 11”.
L’Unione Europea si pone quale organo sovranazionale, capace di imporsi, a livello legislativo e
nelle materie dettate dal Trattato, sui singoli Paesi membri. Il legislatore nazionale deve
promuovere la non contraddittorietà del diritto interno nei riguardi di quello comunitario, mentre il
giudice deve disapplicare il diritto interno, che risulti in disaccordo con quello comunitario);
2) Costituzione e leggi costituzionali (la Costituzione è la legge fondamentale dello Stato italiano
entrata in vigore nel 1948; le leggi costituzionali, descritte nell’art. 138 Cost. e s., disciplinano
materie di assoluta riservatezza, non alienabili ad altri enti o organi);
3) leggi ordinarie dello Stato (“La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due
Camere” art. 70 Cost. Alle leggi ordinarie dello Stato, la Cost. equipara i decreti legge – art. 77 e i
decreti legislativi – art. 76);
4) leggi regionali (“La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della
Costituzione …” Lo stato può con legge indicare solo i principi direttivi nelle materie lasciate alla
potestà legislativa regionale: qualora Esso invada, in maniera analitica, gli ambiti giuridici per i
quali vige riserva di legge regionale, dovrà risponderne alla Corte Costituzionale; qualora, invece,
una legge regionale, contraddica i contenuti di una legge ordinaria dello Stato, la regione, su
sollecitazione del governo, dovrà risponderne presso la stessa suddetta);
5) regolamenti (sono fonti del diritto sottordinate alle leggi; della loro eventuale illegittimità
giudica il giudice ordinario; ne esistono di vario tipo. Grazie all’imponente svolta offerta dalla l.
400 del 1988, il governo ha la possibilità di emanare regolamenti di esecuzione, per disciplinare
analiticamente i contenuti di una legge e regolamenti indipendenti, per disciplinare materie non
previste dalla legge. Il governo non può, ad ogni modo, emanare regolamenti in materie la cui
disciplina è coperta da riserva assoluta di legge. Infine, il governo può emanare regolamenti aventi
forza di legge, solo qualora la disciplina non sia coperta da riserva assoluta di legge e la legge
autorizzi il governo a emanare regolamenti, avendo avuto riguardo di fissarne i criteri direttivi);
6) usi (gli usi hanno scarsa rilevanza nei Paesi di civil law, diversamente da quanto accade nei Paesi
di common law. Tuttavia, nelle materie non regolate da leggi o regolamenti le consuetudini hanno
piena efficacia praeter legem; nelle materie, invece, regolate da leggi o regolamenti, le consuetudini
hanno efficacia solo se da essi esplicitamente richiamate secundum legem).

La codificazione e il principio di uguaglianza


I codici sono raccolte di leggi ordinarie ed è questo il motivo per il quale si collocano, a livello
della gerarchia delle fonti, a pari grado con le leggi ordinarie. Si tratta di raccolte organiche: il loro

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contenuto è dato dall’unità di contesto (es. codice penale, codice civile, codice della navigazione).
Alla base dell’idea di codice sta il principio di uguaglianza, affermato già in alcune costituzioni del
XVIII secolo: i cittadini devono essere uguali davanti alla legge, e quest’ultima, nei riguardi dei
primi, deve darsi nei termini più generali (rivolti a una pluralità indistinta d’individui) e astratti
(ripetibili nel tempo, poiché non contingenti) possibili. Le codificazioni nacquero con l’intento di
creare un diritto privo di qualsiasi tipo di discriminazione. Muovendo dalla monarchia assoluta
britannica ci s’indirizzerà verso un accentramento del potere nelle mani dell’aristocrazia, classe
sociale la quale credeva che i benefici derivassero da una diversità giuridica fra i vari ceti. La
borghesia, invece, considerò come fosse necessaria l’uguaglianza fra i cittadini, creando, perciò,
disuguaglianza nei commerci per favorire il libero gioco degli scambi commerciali. A cavallo fra
Sette e Ottocento si assiste, quindi, a un’ingente proliferazione per codici, i quali saranno poi
soppiantati, nel XX secolo, da leggi speciali: non si è, infatti, proceduto per sostituzioni di codici o
per parti di essi, ma promulgando leggi speciali. I codici nacquero dall’esigenza di contenere norme
giuridiche generali, le quali potessero rivolgersi a una moltitudine d’individui, e astratte, ossia
valevoli per un tempo prolungato e non necessariamente limitato. Sebbene oggigiorno sia evidente
la crisi dei codici, tuttavia, il principio di uguaglianza tra cittadini, sotteso in essi, non viene meno.
È la stessa Carta costituzionale ad affermare la pari dignità sociale e l’uguaglianza dei cittadini di
fronte alla legge: sono dichiarate illegittime dalla Corte Costituzionale eventuali leggi contrarie a
tale principio. È compito della Repubblica rimuovere eventuali ostacoli al perseguimento
dell’uguaglianza suddetta.

I modelli di codificazione: dalla separazione fra codice civile e codice di commercio al codice
civile unificato
Il codice di diritto civile italiano è entrato in vigore nel 1942 e ha soppiantato l’antica separazione
tra codice civile e codice di commercio, dando vita a un sistema normativo unitario. Il codice di
diritto civile appare quale opera sapientemente elaborata da un’elite di esperti, i quali, abolita ogni
possibilità di scontro politico, si dedicarono alla realizzazione di un codice in grado di trasformare
la società italiana. Il codice civile consta di 2969 articoli, buona parte dei quali è stata soppressa e ai
quali si sono aggiunti altri articoli come bis, ter, ecc. Gli articoli sono suddivisi in sei libri: 1° libro:
PERSONE E FAMIGLIA; 2° libro: SUCCESSIONI MORTIS CAUSA; 3° libro: PROPRIETA’; 4°
libro: OBBLIGAZIONI E CONTRATTI; 5° libro: IMPRESE E SOCIETA’; 6° libro: TUTELA DEI
DIRITTI. Sebbene l’unificazione del codice civile e del codice di commercio abbia comportato la
dilatazione del quarto libro, tuttavia, è necessario evidenziare come se i due codici fossero rimasti
separati, essi avrebbero annoverato più articoli, sommando la medesima trattazione normativa
intorno ai contratti e alle obbligazioni. Il c.c. è preceduto dalle preleggi ed è seguito da disposizioni
transitorie e di attuazione: le prime avevano il compito di regolare i rapporti pendenti alla data di
entrata in vigore del c.c.; le seconde, invece, hanno il compito di disciplinare in maniera analitica
alcuni dei contenuti presenti nel codice stesso. L’ancora presente distinzione fra codice civile e
codice di commercio è solo una semplificazione a livello scolastico nello studio del diritto privato.

L’uniformità internazionale del diritto privato


La statalizzazione del diritto, compiuta a partire dal XIX secolo, se da un lato ha comportato un
forte accentramento del potere legislativo nelle mani della macchina dello Stato - ordinamento,
dall’altro ha causato problematiche sul fronte internazionale. I commerci hanno riscontrato non
pochi ostacoli nella loro diffusione in Paesi differenti, poiché ciascuno di questi adottante una
legislazione propria. Si è, pertanto, provveduto in direzione di convenzioni fra Stati, atte ad attuare
un diritto privato uniforme. I primi passi in ambito europeo furono quelli dettati dall’istituzione
della CECA. Oggi, l’U.E. è saldamente ancorata intorno alla consapevolezza di dover creare norme
(regolamenti e direttive) di ambito sovranazionale: nascono, così, le direttive, mediante le quali i
singoli Stati optano verso l’unificazione della legislazione nazionale con quella sovranazionale.
L’istituzione di una regolazione normativa di diritto privato commerciale all’interno dell’Europa, a
partire dal 1957, e le direttive ora emanate dal Consiglio per adeguare, con propria legge interna,
leggi ravvicinate a quelle delle altre legislazioni nazionali, si pongono come mezzi adeguati per il
funzionamento del mercato comune.

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Capitolo terzo
APPLICAZIONE DEL DIRITTO PRIVATO

Efficacia della legge nel tempo


L’obbligatorietà della legge è subordinata ad un adempimento, la pubblicazione, diretto a renderla
conoscibile da parte di chi deve osservarla. Le leggi come i regolamenti entrano in vigore solo a
seguito della pubblicazione su gazzetta ufficiale (art. 10 preleggi), a seguito del quindicesimo
giorno dall’approvazione. La conoscibilità della legge è dunque essenziale ma è un principio di
conoscibilità astratto, poiché leggi e regolamenti obbligano all’osservanza anche coloro i quali
fossero stati impossibilitati a venirne a conoscenza, da qui il principio secondo cui l’ignoranza della
legge non scusa (art. 5 cod. penale).
La perdita d’efficacia di una disposizione normativa può avvenire per abrogazione espressa, ad
opera vale a dire o di una disposizione di legge successiva, o per referendum popolare o per
sentenza d’illegittimità costituzionale; oppure l’abrogazione è tacita, vale a dire quando la legge si
trova incompatibile nei confronti di una nuova disposizione di legge, o perché una nuova legge
regola l’intera materia.
L’art. 11 delle preleggi espone un principio di carattere generale, quello secondo cui la legge
dispone solo per il futuro, non avendo dunque effetto retroattivo. Questo principio assume valore di
precetto costituzionale solo per le leggi penali (art. 25 comma II, costit.). Nel caso del diritto
privato la non retroattività della legge è sancita solo da una norma generale di legge ordinaria. In
quanto tale quindi derogabile da altre leggi ordinarie che possono attribuire a se effetto retroattivo.
La possibilità di deroga è però limitata in quanto eccezione ad un principio generale ed è possibile
solo quando vi sia un “ragionevole motivo” che la giustifichi. La retroattività della legge deve
risultare in modo esplicito o quanto meno desumersi dalla funzione della legge, altrimenti un
giudice potrà applicarla solo in situazioni successive l’entrata in vigore.

Il diritto internazionale privato


La statualità del diritto è una caratteristica essenziale del nostro tempo, tale assunto in ogni modo
inevitabilmente contrasta con la transnazionalità dei mercati e con gli stessi rapporti tra uomini, tale
principio dunque non contempla che necessariamente sul territorio di uno stato si devono applicare
esclusivamente le norme che lo stato impone. Ciò è possibile in virtù di una norma di diritto statale
che in alcuni casi specifici rinvia al diritto d’altri stati, rafforzando in tal modo la sovranità dello
stato. Il diritto internazionale privato appunto stabilisce in quali casi è necessario, da parte del
giudice, l’applicazione di un diritto statale o di un diritto straniero. La fonte primaria è la legge del
31 maggio 1995, n. 218. A loro volta gli stati possiedono ed utilizzano proprie norme di diritto
internazionale privato, formulate dunque dal punto di vista dei singoli stati, senza tener conto delle
altrui regole formulate in materia. Per evitare il crescere della conflittualità tra gli stati spesso
vengono stipulati trattati internazionali, dove gli stati si impegnano all’utilizzo di regole omogenee
di diritto privato internazionale, tali trattati non danno vita ad un corpo normativo uniforme, bensì
regolano le condizioni in base alle quali si debba utilizzare o meno il diritto del singolo stato. Tali
trattati si occupano di materie specifiche, per quelle non regolate dai trattati e per i paesi che non vi
hanno aderito, la conflittualità resta. L’Italia dal canto suo ha aderito:
1) convenzione dell’Aja, 1905, matrimonio
2) convenzioni di Ginevra del 1930 e 1931, sui conflitti in materia di cambiale ed assegno
3) convenzione di Roma nel 1980, sulle obbligazioni contrattuali
Ciascuno stato risolve i conflitti facendo valere sia la propria che l’altrui norma di diritto
internazionale: vale il principio per il quale quando una legge dello stato rinvia all’applicazione di
una legge straniera, questa va applicata tenendo conto del rinvio fatto, sempre che il rinvio sia
ammesso dalla legge straniera oppure si tratti di rinvio a legge italiana.
La legge nazionale adotta fondamentalmente due criteri, il primo è quello della legge nazionale, per
qui il giudice italiano applica il diritto nazionale o il diritto straniero a seconda che si tratti di
regolare rapporti relativi a cittadini o a stranieri. Si applica il diritto nazionale dello straniero per ciò
che attiene allo stato e alla capacità delle persone e ai rapporti di famiglia. Costituiscono poi

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fattispecie differenti quando si tratta di rapporti tra stranieri di diversa nazionalità, in linea di
principio a ciascuna delle parti si applicherà la propria legge nazionale. Per specifici rapporti
valgono criteri diversi: nei rapporti personali tra coniugi di diversa nazionalità vale la legge dello
stato in cui la vita coniugale è maggiormente concentrata, allo stesso modo accade per le questioni
di separazione personale e divorzio. Per le successioni mortis causa vale il criterio della legge
nazionale, il trasferimento patrimoniale avviene in base al diritto del defunto, ovunque i beni si
trovino.
L’altro criterio è quello della legge del luogo. In materia di diritti reali su beni mobili o immobili
vale il diritto dello stato in cui i beni si trovano. Per le obbligazioni da contratto la legge n. 218 del
1995 richiama la convenzione di Roma del 1980 secondo cui vale il diritto della parte che deve
eseguire la prestazione caratteristica, del paese in cui risiede al momento della conclusione del
contratto. La parti comunque godono di estrema libertà, in quanto possono decidere che il contratto,
integralmente o solo in parte, sia regolato dal proprio, dall’altrui o dal diritto di un paese terzo, le
clausole infine possono anche definire la nazionalità dell’arbitro o del giudice che dovrà dirimere
eventuali controversie. Per le obbligazioni da fatto illecito vale la legge dello stato in cui si è
verificato l’evento, salvo che il danneggiato non chieda l’applicazione del diritto dello stato in cui
ha avuto luogo la causa del danno, mentre per i danni da prodotto vale la legge dello stato del
produttore. Le obbligazioni nascenti da altri fatti sono regolate dal diritto del luogo in cui il fatto è
avvenuto. La promessa unilaterale è disciplinata dalle norme del paese in cui è manifestata.
Oltre a questi criteri si aggiungono altre due norme che pongono principi di carattere generale. La
prima pone un limite all’applicazione del diritto italiano allo straniero, questi nelle materie
disciplinate dalla legge italiana, è sempre sottoposto alle regole imposte da questa, ma può fruire
dei diritti civili riconosciuti dall’ordinamento italiano, solo a condizione di reciprocità, solo quando
ciò anche il suo stato d’appartenenza li riconosce. Il tenore della reciprocità si è attenuato con la
costituzione, che riconosce ad ogni individuo, nell’art. 2, i diritti inviolabili dell’uomo. Lo straniero,
munito di regolare permesso o carta di soggiorno, gode dei diritti in materia civile attribuiti al
cittadino italiano (Le condizioni di reciprocità dunque valgono per gli stranieri non soggiornanti in
Italia, o per i soggiornanti privi di carta o permesso di soggiorno, fatta eccezione, in virtù della
legge n. 40 1998, dei cittadini dell’unione europea.
La seconda norma limita l’applicazione del diritto straniero in Italia qualora la sua applicazione sia
causa di effetti contrari all’ordine pubblico, le norme straniere con tali effetti sono sostituite dalla
norma richiamata da altri criteri di collegamento o in mancanza, dalla norma italiana regolatrice in
materia.
In definitiva il giudice deve conoscere oltre al proprio diritto nazionale anche quello straniero e
svolgere un ruolo attivo nella ricerca della regola straniera da applicare, e solo qualora la ricerca si
verifichi insuperabile è tenuto all’applicazione del diritto italiano.

L’interpretazione della legge


L’applicazione della legge è applicazione di norme generali ed astratte ai rapporti umani,
traducendo in comandi concreti e particolari, quali le sentenze dei giudici le generali ed astratte
previsioni della legge. La traduzione nel concreto della legge necessita però di un’operazione
preliminare volta a stabilire quale tra le norme esistenti si debba applicare e quale significato sia
dovuto alla regola prescelta e ovviamente anche alle regole non ritenute non compatibili con la
fattispecie, individuando di conseguenza i motivi della loro incompatibilità. L’interpretazione è
dunque un’operazione selettiva ed attributiva delle norme, operazione condotta essa stessa secondo
canoni contemplati dalla legge stessa. L’art. 12 delle preleggi stabilisce che nell’applicazione della
legge non si può attribuire un significato alla legge stessa che non sia quello reso palese dal tenore
letterale o dalla c.d. intenzione del legislatore (interpretazione teleologica). Tali criteri rafforzano il
carattere statuale del diritto. Una interpretazione equa necessita una considerazione indispensabile
sia del tenore letterale, sia dell’intenzione del legislatore, nelle ipotesi maggiormente aderenti al
caso esaminato.
L’interpretazione del legislatore può dare luogo ad una interpretazione estensiva, con la quale si
attribuisce un significato alle parole più ampio di quello prettamente letterale. A questa si

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contrappone l’interpretazione restrittiva, con la quale si da alle parole un significato limitato
rispetto a quello comune, giudicato maggiormente aderente alle intenzioni del legislatore.
Caratteristica del diritto moderno è la reputazione di completezza, che si esplica con la capacità di
poter legiferare su tutte le fattispecie comprese nelle materie disciplinate, senza ammissione di
lacune. E’ comunque vero che è impossibile aspirare a ciò vista la moltitudine di fattispecie
verificabili nell’ambito della vita umana. A colmare eventuali lacune interviene l’interpretazione
analogica, cioè quando una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione, si
ricorre a norme che regolano casi simili o materie analoghe (art. 12 preleggi). E’ dunque
impossibile che il giudice da sé regoli una controversia, egli deve sempre riferirsi all’ordinamento.
L’interpretazione analogica in fine non è applicabile alle leggi penali, in virtù dell’art. 1 del codice
penale, ne alle norme eccezionali, eccezioni a regole generali. Tale concetto di interpretazione
analogica fa riferimento ad un retaggio giuridico anteriore alle codificazioni, l0interprete odierno
concepisce tale via di interpretazione come il richiamo ad una norma che, in relazione allo specifico
caso enuncia espressamente una più generale norma implicita nel sistema legislativo, ed è della
norma generale che si fa applicazione diretta, in tutti quei casi ove è possibile applicare la norma da
qui la generale fu dedotta. Nel caso in fine in cui non si possa far riferimento a norme analoghe il
giudice può guardare ai principi generali dell’ordinamento, che sono principi non scritti ma che si
evincono per induzione da una serie di norme, direttive fondamentali cui il legislatore si è ispirato,
ve ne sono diversi: il principio della libera circolazione delle ricchezze, quello della conservazione
del contratto, quello della protezione del contraente più debole.
C’è poi da considerare l’interpretazione giudiziale, questa si concretizza nell’emissione della
sentenza da parte del giudice, dotata di autorità. Le decisioni, e il relativo processo interpretativo,
valgono solo nello specifico ambito processuale presieduto da quel giudice, in altre parole una
decisione non gode del principio del precedente vincolante. Tuttavia non è detto che le decisioni
non possano godere di quella autorevolezza attribuita ai precedenti giurisprudenziali, ossia dalle
soluzioni uniformemente data dalla giurisprudenza ad un problema interpretativo. Si da dunque
molte importanza alla conoscenza dei precedenti giurisprudenziali, ed oltre alle numerose riviste e
testi specializzati, esiste l’ufficio del massimario che si occupa della raccolta in massime delle
sentenze della corte di Cassazione.
Dall’interpretazione della giurisprudenza si divide quella della dottrina, cioè del lavoro
interpretativo fatto dai giuristi nelle sedi di giurisprudenza delle università, tramite uno studio
sistematico del diritto. Ruolo incessante della dottrina è la formulazione di modelli interpretativi
che vengono consegnati in testi e saggi o commentari alla legge, ai quali i giudici possono attingere
quando sono chiamati a risolvere questioni interpretative. C’è comunque da ricordare che le tesi
dottrinali non hanno alcuna autorità sostanziale, esse si impongono solo grazie alla forza di
convinzione esercitata dall’argomentare del giurista. Solitamente l’evoluzione del pensiero
dottrinale è più rapida rispetto a quello giurisprudenziale, poiché i giudici solitamente tendono a
mediare le varie opinioni della dottrina rifacendosi comunque alle tesi più accolte.
In fine, ma non meno importante è da ricordare l’interpretazione nell’ottica del diritto comunitario,
la legge n. 287 del 1990 nell’art. 1 impone in materia di concorrenza nel mercato una
interpretazione in linea con i principi dell’ordinamento della comunità europea. Tali regole dunque
sono divenute norme del diritto interno e non solo confinate nell’ambito dell’ordinamento della
comunità europea.

La protezione giurisdizionale del diritto soggettivo


Dal punto di vista del diritto oggettivo, il diritto appare come sistema di norme che il giudice deve
applicare nella risoluzione delle controversie. Intendendo però il diritto dal canto soggettivo, questo
appare come interesse del singolo protetto dalla legge, e l’azione del giudice dunque non è altro che
protezione giurisdizionale dei diritti soggettivi. Per ricevere tutela il cittadino non può agire da sé,
ma deve adire il giudice, per non incorrere nelle sanzioni prevista dalla legge. Il giudice grazie
all’autorità di cui è dotato, egli tranne che in casi eccezionali, può agire solo se sollecitato dal
privato interessato.
Nomenclatura processuale essenziale:
attore: colui il quale ritiene che gli sia stato leso un diritto, e si rivolge all’autorità giudiziaria.

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Convenuto: la persona contro cui l’attore agisce.
Parti: attore e convenuto.
Processo, giudizio o procedimento: l’insieme degli atti raccolti dal momento in cui l’attore si
rivolge al giudice fino alla sentenza di quest’ultimo, in tutto l’iter giudiziario che coinvolge le parti.
Causa o lite: la controversia tra le parti. Forma l’oggetto del processo.
Azione: pretesa vantata dall’attore.
Eccezione: contrasto della pretesa dell’attore da parte del convenuto, o contestandola o adducendo
fatti o diritti che rendano inefficace quella pretesa.
Domanda riconvenzionale: reazione del convenuto basato o sullo stesso titolo sul quale l’attore
fonda la sua pretesa oppure sul titolo sul quale l’attore fonda la sua eccezione.
La protezione giurisdizionale dei diritti soggettivi è funzione spettante all’autorità giurisdizionale
ordinaria, istituita e regolata dalle norme sull’ordinamento giudiziario (art. 102 della costituzione).
E’ formata da preture, tribunali, corti d’appello e corti di cassazione. La giurisdizione civile è
esercitata a protezione di ogni diritto soggettivo, sia questo di un privato nei confronti di un altro
privato, sia nei confronti delle pubbliche amministrazioni.
Si distingue dall’amministrazione civile quella amministrativa volta a tutelare gli interessi legittimi
del cittadino lesi da un atto illegittimo della pubblica amministrazione. La giurisdizione è esercitata
da organi speciali quali i tribunali amministrativi regionali e il consiglio di stato. L’elemento che
distingue le sfere , d’applicazione delle due giurisdizioni risiede nella diversità di interesse tutelato:
la giurisdizione civile tutela l’interesse soggettivo, quella amministrativa tutela l’interesse legittimo.
Queste due tipologie di diritti differiscono prima di tutto nel grado di protezione che la legge
riconosce loro, gli interessi soggettivi vengono riconosciuti meritevoli di tutela diretta mentre vi
sono altri invece che la legge protegge solo indirettamente poiché coincidono con l’interesse
pubblico.
E’ evidente quindi che una medesima posizione di interesse di un privato può avere una doppia
natura, quella di diritto soggettivo e quella di interesse legittimo, a seconda se il privato si trovi in
rapporti con altro privato o con la P.A. In via generale si può dire che quando la legge riconosce un
potere discrezionale alla P.A., ossia il potere di decidere se compiere o meno un atto, la posizione di
quel privato che venga toccata da quell’atto, perde la natura di diritto soggettivo e si presenta solo
come interesse legittimo. Quanto fin qui detto contribuisce alla definizione del c.d. stato di diritto in
quanto concorrono il principio di legalità, in base al quale anche la pubblica autorità
nell’adempimento delle proprie funzioni deve emanare atti che siano in conformità con la legge, e il
principio in base al quale tutti gli atti della P.A. che non siano in conformità con la legge possono
essere impugnati davanti agli organi delle giurisdizioni amministrative, da qualunque cittadino che
abbia ricevuto lesione del proprio interesse legittimo da quell’atto. Ciò non significa che se un atto
della P.A. leda un interesse soggettivo, il privato danneggiato non possa rivolgersi alla magistratura
ordinaria.

Capitolo quarto
I SOGGETTI DI DIRITTO

Condizione giuridica della persona: la capacità giuridica, il nome, la sede, la morte presunta
Per il diritto l’uomo è una persona, o soggetto di diritto. La prima derivazione è utilizzata dallo
stesso codice nel libro primo, la seconda è di uso dottrinale, ma entrambe fanno riferimento a quella
definizione giuridica di uomo come centro di imputazione di diritti e doveri. Ogni uomo è in quanto
tale una persona ed acquisisce tale diritto al momento della nascita. Sempre dalla nascita (art. 1
comma I), intesa come inizio della respirazione polmonare, inizia la titolarità della capacità
giuridica (o soggettività giuridica o personalità giuridica), cioè l’attitudine ad essere titolare di
diritti e doveri, questa perdura sino al momento della morte, con la cessazione irreversibile cioè di
tutte le funzioni cerebrali. L’acquisizione della personalità giuridica è un fatto subordinato
all’evento della nascita, quindi il concepito non ha tale diritto. La nascita è dichiarata da uno dei
genitori o da un loro procuratore o da una persona qualsiasi che abbia assistito al parto. La
dichiarazione deve essere resa entro dieci giorni all’ufficiale dello stato civile dalla madre nel

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comune in cui è avvenuta la nascita, oppure entro tre giorni presso la direzione sanitaria della
struttura medica ove è avvenuto il parto. Tale dichiarazione da vita alla formazione dell’atto di
nascita, che l’ufficiale di stato civile iscrive nei registri dello stato civile, in questi registri vengono
depositati tutti gli atti relativi allo stato civile della persona, e con la morte di questa, l’atto di
morte. Tali atti hanno forza probatoria, fanno fede cioè sino a prova contraria della verità e, sino a
querela di falso, provano ciò che l’ufficiale di stato civile ha attestato di persona.
Ogni persona è identificata con un nome, che consta di un nome in senso stretto, o prenome, e di un
cognome (art. 6 comma II). Il nome è scelto dal dichiarante la nascita, all’ufficiale di stato civile.
Deve corrispondere al sesso del bambino e non può essere uguale a quello del padre o di un fratello
o sorella in vita. Il cognome, in caso di figlio legittimo cioè nato da genitori regolarmente uniti in
matrimonio, è quello del padre; altrimenti il bambino è iscritto nei registri come figlio di ignoti, ed
il cognome è scelto dall’ufficiale di stato civile. Se il figlio naturale viene riconosciuto, o paternità
o maternità vengono accertate in giudizio, viene lui dato il cognome del genitore che lo ha
riconosciuto, o in caso lo riconoscano entrambi, il cognome del padre. Compiuti 18 anni, la persona
può decidere di cambiare o aggiungere un prenome o un cognome al proprio, nei casi e con le
procedure previste dallo stato civile.
Il domicilio è il luogo in cui la persona ha stabilito la sede principale dei suoi interessi o affari. La
residenza invece è il luogo della dimora abituale della persona, domicilio e residenza possono non
coincidere. Il domicilio generale si distingue da quello speciale, che la persona può eleggere con
atto scritto, per determinati affari.
Può accadere che una persona scompaia dal suo domicilio o dalla sua attuale residenza e che non se
ne abbiano più notizie, sorge il problema della conservazione del suo patrimonio. Coloro che
ritengono di essere gli eredi dello scomparso o un qualsiasi interessato o un pubblico ministero,
possono chiedere al tribunale dell’ultimo domicilio o residenza dello scomparso la nomina di un
curatore dello scomparso. Trascorsi due anni dall’ultima notizia, il tribunale può dichiarare
l’assenza della persona ed immettere nel possesso temporaneo dei suoi beni gli eredi, nel caso in cui
l’assente fosse morto. Questi ne hanno l’amministrazione e fanno proprie le rendite che i beni
producono, senza poterli però ne ipotecare, ne alienare, ne darli in pegno. Se l’assente ricompare gli
vengono restituiti solo i beni, le rendite rimangono agli amministratori. Dopo dieci anni dall’ultima
notizia, il tribunale può dichiarare la morte presunta, anche senza previa dichiarazione di assenza.
La morte presunta tiene luogo alla morte naturale, gli eredi entrano in proprietà dei beni e il coniuge
può contrarre nuovo matrimonio. Può accadere che lo scomparso ritorni, in questo caso i beni
vanno riconsegnati così come si trovano. Nel caso fossero stati venduti ha diritto ai beni nei quali il
prezzo era stato reinvestito, ma se il denaro della vendita fosse stato consumato, egli non ha diritto
a nulla. Il precedente vincolo matrimoniale annullato riacquista vigore, annullando ogni altro
vincolo di eguale natura dell’altro coniuge.

La capacità di agire: condizione dei minori, degli interdetti, degli inabilitati


Si distingue dalla capacità giuridica, la capacità di agire, definita come l’attitudine di un soggetto a
compiere atti giuridici, con i quali il medesimo acquista diritti o assume doveri. Tale capacità si
acquista quando un essere umano diviene in grado di provvedere ai propri interessi, ossia con la
maggiore età, quando il soggetto compie il diciottesimo anno di età (art. 2). Eccezionalmente al
minore possono essere riconosciuti determinati atti giuridici, il sedicenne ad esempio, accertata la
sua maturità psico-fisica, può essere autorizzato dal tribunale, per motivi gravi, a contrarre
matrimonio o ancora, riconoscere il figlio naturale.
Il minore acquista diritti e assume doveri tramite i suoi rappresentanti legali, che nella maggior
parte dei casi sono i genitori (art. 316) ma anche, in mancanza di questi, un tutore nominato dal
giudice tutelare (artt. 343 ss.). Ai rappresentanti legali spetta la rappresentanza del minore:
amministrano i beni di proprietà del minore, compiono atti giuridici mediante i quali il
rappresentato acquista diritti o assume doveri. I genitori possono però compiere gli atti di
straordinaria amministrazione solo previa autorizzazione del giudice tutelare e solo quando vi sia
necessità o utilità evidente per il minore, non possono poi riscuotere capitali intestati al minore se
non con l’autorizzazione dello stesso giudice che ne decide le modalità. Il tutore è maggiormente
limitato, in quanto non può comperare beni a nome del minore, se non autorizzato dal giudice

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tutelare ne compiere atti di straordinaria amministrazione senza il permesso del tribunale. La
sostituzione del rappresentante nel compiere atti giuridici in nome del minore non vale per atti che
abbiano un carattere strettamente personale. Vi sono poi atti come il matrimonio o il testamento che
hanno un carattere fortemente personale, ma che non possono essere compiuti ne dal rappresentante
ne dal minore stesso.
Il minore resta, quale sia la sua età e il contenuto del contratto che intende contrarre, legalmente
incapace di contrattare, legalmente incapace cioè di contrattare in proprio nome acquistando diritti
o assumendo obbligazioni su di sé. La sua capacità naturale, quella relazionata cioè al grado di
maturità soggettiva, gli consente invece di contrattare in nome altrui: di concludere cioè contratti in
nome di persona dotata di capacità legale di contrattare (art. 1389). E’ comunque da considerare la
natura stessa del contratto, infatti la legge vieta, a pena di nullità, al minore di concludere contratti
per i quali è d’obbligo la forma scritta, se non munito di procura scritta.
Il sedicenne autorizzato dal tribunale a contrarre matrimonio, dalla data del matrimonio è
considerato emancipato, cioè dotato di capacità di agire limitatamente agli atti di ordinaria
amministrazione. Per gli atti di straordinaria amministrazione deve essere autorizzato dal giudice
tutelare ed assistito da un curatore, che può essere il coniuge se maggiorenne, o una persona
nominata dal giudice, preferibilmente un genitore.
Il maggiore di età può trovarsi in condizioni di abituale infermità mentale ed essere dichiarato dal
giudice, su istanza di persona prossima al soggetto o del pubblico ministero, interdetto, ossia
privato della capacità di agire. Il giudice nomina un tutore dell’interdetto, che ha gli stessi poteri di
quello per il minore (art. 417). Menzione speciale merita la legale incapacità di agire prevista dal
cod. penale, viene privato della capacità di agire cioè quel soggetto che sia stato condannato
all’ergastolo o a pena superiore a cinque anni, tale sanzione ha la natura di pena accessoria. La
rappresentanza in tal caso è la stessa dell’interdetto giudiziale (art. 32).
L’infermità mentale del soggetto potrebbe presentarsi non tanto grave da giustificare l’interdizione,
per ciò, su richiesta o iniziativa del giudice egli può essere inabilitato, trovarsi cioè in una
situazione di rappresentanza pari a quella del minore emancipato (art. 415-424).
La legge del 9 gennaio 2004 n. 6 agli artt. 404-413 del cod. civile, ha introdotto il concetto di
amministrazione di sostegno. Presupposto è uno stato di infermità temporanea. L’amministratore di
sostegno è nominato con decreto dal giudice tutelare su istanza dell’interessato o da chiunque ne sia
abilitato, il giudice indica quali atti l’amministratore può compiere in nome e per conto del
rappresentato e quali atti necessitano assistenza di quest’ultimo, comunque l’infermo conserva
capacità di agire per tutti gli atti necessari a soddisfare interessi relativi alla vita quotidiana.

Persona fisica e la persona giuridica


L’attributo di persona non è riconosciuto dal diritto soltanto all’uomo, bensì sono altrettante persone
le organizzazioni collettive, come enti pubblici, associazioni e consorzi, questi, a differenza
dell’uomo che è persona fisica, vengono riconosciuti come persone giuridiche. Nel cod. civile
persone fisiche è giuridiche sono riconosciute come specie dello stesso genere, in quanto il genere
è la persona, centro di imputazione di rapporti giuridici, nel quale si differenziano all’art. 1 le
persone fisiche e all’art. 11 le persone giuridiche. Esistono dunque materie, come quella
contrattuale in cui indistintamente con il termine persona si fa riferimento sia all’una sia all’altra
specie, mentre materie come il diritto di famiglia, sono suscettibili di riferimento solo alle persone
fisiche.
E’ persona giuridica, in linea di principio ogni soggetto di diritto che non sia definito come persona
fisica, ogni centro di imputazione di rapporti giuridici che il diritto non fa corrispondere al singolo,
bensì ad una organizzazione collettiva di uomini. La personalità giuridica si presenta come un
soggetto assestante, ulteriore rispetto ai singoli che formano l’organizzazione, tale concetto
permette di considerare la persona giuridica come soggetto dotato di propria capacità giuridica, che
le permette di essere titolare di propri diritti e doveri. La volontà che si forma nelle assemblee o nei
consigli di amministrazione delle organizzazioni collettive è giuridicamente imputata alla persona
giuridica, così come lo sono gli atti compiuti dagli amministratori o di chiunque agisca

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nell’interesse dell’organizzazione. E’ imputata dunque alla persona giuridica anche una capacità di
agire , infatti essa compie atti giuridici per mezzo di persone fisiche che agiscono come suoi organi.
Per ciò che riguarda i soggetti coinvolti in una organizzazione con personalità giuridica costoro
vengono a trovarsi in una situazione in cui si contrappongono diritti e doveri relativi all’individuo
ed altrettanti nei confronti dell’organizzazione. La persona giuridica è quindi un soggetto
autonomamente riconosciuto dal diritto, per ciò è necessario conoscere il concetto di responsabilità
limitata del socio, per cui il socio non è direttamente responsabile per i debiti contratti dalla società,
ma ne risponde soltanto la società con il proprio patrimonio (art. 2325).

I diritti della personalità


I diritti della personalità sono diritti soggettivi che si dicono trovati dal diritto oggettivo, sono cioè
diritti che non dipendono dalla mutevole valutazione dello stato-ordinamento, ma spettano all’uomo
in quanto tale, indipendentemente dalle condizioni sociali e politiche in cui egli si trova, e che lo
stato in prima persona deve garantire e riconoscere. Primi fra tutti vi sono il diritto alla vita,
all’integrità fisica, alla salute, al nome, all’onore, alla libertà personale, all’espressione del pensiero
e alla riservatezza. La loro identificazione è rimessa alle carte costituzionali dei diversi stati. La
costituzione italiana all’art. 2 definisce tali diritti come inviolabili, sia da parte di un pubblico
ufficiale sia da parte di un altro privato. Sotto quest’ultimo profilo emerge il rilievo della protezione
civile e della protezione penale dei diritti della personalità. Risaltano cioè le norme che nei codici o
in altre leggi proteggono i privati contro le lesioni dei propri diritti di personalità arrecate da altri
privati. La protezione penale si manifesta nelle norme del cod. penale che puniscono i delitti contro
la persona.
In via generale la protezione civile deriva dalle norme che agli artt. 2043 ss. riconoscono un diritto
al risarcimento e, laddove è possibile, alla reintegrazione in forma specifica a chiunque abbia subito
un danno ingiusto, come tale può essere la lesione di un diritto alla personalità, il codice di
procedura Civile prevede poi la possibilità di pubblicare la sentenza, con autorizzazione del giudice,
la dove questa contribuisca alla riparazione del danno.
I diritti della personalità si classificano tra i diritti assoluti, protetti cioè nei confronti di tutti, sono
poi indisponibili, poiché ne è impossibile la rinuncia e dunque l’alienazione, a tale concetto si
collega l’imprescrittibilità, sono cioè diritti che non si prescrivono, cioè non si perdono per non uso.
Il carattere di indisponibilità emerge rispetto al diritto alla vita e all’integrità fisica, per cui si
vietano atti di disposizione del proprio corpo che provochino menomazioni permanenti. L’esercizio
dei diritti della personalità ha carattere strettamente personale, quindi ciò che il minore non può
consentire non lo può consentire neppure i genitori. Al diritto sul proprio corpo si collega anche il
principio costituzionale per cui nessuno può essere sottoposto a trattamenti sanitari, tranne quelli
previsti dalla legge, contro la propria volontà, anche nei casi in cui la scelta del soggetto mette a
rischio la sua vita (art. 32 comma II cost.). nel caso di incoscienza del paziente l’intervento è
giustificato dal principio di necessita, nel caso egli sia incapace il consenso deve essere dato dal
rappresentante, ma nel caso specifico di aborto di donna minorenne o interdetta è necessario il
consenso di questa, se incapace la donna invece oltre al suo consenso è necessaria l’autorizzazione
del giudice.
Non trova specifica tutela civile l’onore, che è il diritto alla dignità e al decoro personale e alla
considerazione sociale. Il contenuto di tale diritto si desume dalle norme del cod. penale che
puniscono l’ingiuria e la diffamazione, la prima intesa come offesa all’onore o al decoro della
persona presente, la seconda come offesa alla reputazione altrui arrecata comunicando con più
persone. In linea di principio chi lede l’altrui onore non è ammesso a provare, a propria discolpa, la
notorietà o la verità del fatto attribuito alla persona offesa. In sede penale l’accertamento della
verità del fatto può essere chiesto dalla parte lesa. Provata la verità si può comunque essere
condannati per ingiurie o diffamazione , se il modo con cui il fatto era stato attribuito appariva in se
lesivo del diritto all’onore. La protezione civile dell’onore è quella che deriva dai c.d. principi
comuni: risarcimento anche in forma specifica del danno patrimoniale e non patrimoniale,
pubblicazione della sentenza sui giornali se idonea a riparare il danno.

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Un diritto della personalità spetta a chiunque sul proprio nome. E’ logico se si pensa che il nome è il
primo mezzo di identificazione della persona, che permette il riferimento di qualità, attitudini e
vicende di vita. Il diritto al nome è protetto all’art. 7 sotto due aspetti:
a) come diritto all’uso del proprio nome, per identificarsi ed essere identificati. Tutelato da una
azione di reclamo: spetta contro chi neghi o impedisca l’uso del proprio nome o identifichi
qualcuno con nome diverso.
b) Come diritto all’uso esclusivo del proprio nome. Protetto da azione di usurpazione contro
chi utilizzi l’altrui nome per identificare sé o una cosa o che comunque ne faccia uso
indebito.
In entrambi i casi l’azione mira ad ottenere dal giudice la cessazione dell’atto lesivo. Non occorre
che l’attore provi di aver subito un danno, basta, se il nome è stato usurpato, che questo gli rechi
pregiudizio (il diritto al nome è proprio anche delle persone giuridiche).
Analogo al diritto al nome è il diritto all’immagine , disciplinato dall’art. 10, integrato dall’art. 96
sul diritto d’autore. E’ vietato esporre o pubblicare l’immagine altrui senza il consenso della
persona ritratta, salvo che non si tratti di persona notoria o che l’immagine sia stata pubblicata nel
contesto di un avvenimento svoltosi in pubblico e sempre che tali atti non rechino pregiudizio sulla
dignità della persona ritratta.

I nuovi diritti della personalità


I diritti della personalità costituiscono un catalogo aperto, cioè il loro numero è in continua
espansione. Questo ampliamento si può spiegare oggi in relazione all’avvento e alla diffusione su
larga scala dei mezzi di comunicazione telematica, il cui utilizzo potrebbe essere causa di lesioni ai
diritti della personalità. Vengono così in considerazione nuovi aspetti della personalità, nuovi diritti
inviolabili da tutelare con l’art. 2 della costituzione.
Viene così riconosciuto un generale diritto all’identità personale, che consiste nel diritto a che non
sia travisata la propria immagine politica, etica o sociale con l’attribuzione di azioni non compiute
dal soggetto o di convinzioni da lui non sostenute. Tale diritto è leso anche quando la azioni o le
convinzioni attribuite al soggetto non sono di per sé disonorevoli e lesive della sua reputazione,
poiché la falsa attribuzione altera di per sé l’identità della persona, che non risulta solo dal nome ma
anche dall’immagine, dalla storia personale e dalle convinzioni professate.
Oltre al diritto all’immagine, la giurisprudenza protegge un più generale diritto alla riservatezza,
diritto a che non siano divulgati, mediante l’uso di mezzi di comunicazione di massa fatti attinenti
alla vita privata della persona, anche se di per sé veri e non lesivi della dignità e della reputazione
del soggetto; tali dunque da non incorrere nella lesione del diritto all’onore, relativamente alla sfera
penale e alla protezione civile prevista dall’art. 2043 ss. un generale riconoscimento del diritto alla
riservatezza proviene dall’art. 8 della convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo
e delle libertà fondamentali, ratificata dall’Italia nel 1955.
Gravi minacce alla riservatezza possono derivare dalla diffusione dell’informatica, in quanto i
computers vengono oggi utilizzati per la raccolta in banche dati di informazioni relative a persone
fisiche e giuridiche.
Il d.lgs. del 30 giugno 2003 n. 196 è intervenuto con una normazione di portata generale con il
codice in materia di protezione dei dati personali. Tale intervento legislativo è diretto a garantire
che il trattamento dei dati personali si svolga nel rispetto dei diritti, delle libertà fondamentali, della
dignità delle persone fisiche , con particolare attenzione nei confronti della riservatezza e
dell’identità personale, a garanzia dei diritti delle persone giuridiche e di qualsiasi ente o
associazione. Particolare attenzione meritano le persone fisiche, rispetto a quelle giuridiche, in
quanto le prime sono sottratte dall’applicazione del codice, se l’utilizzo dei dati personali risponde
a fini altrettanto ed esclusivamente personali, non destinati cioè alla diffusione su larga scala o
sistematica. Comunque le persone fisiche devono adottare misure minime di sicurezza affinché i
dati non vengano smarriti accidentalmente, o utilizzati per fini diversi da quelli proposti per la
raccolta.
Il concetto base della legge è espresso nell’art. 2 “trattamento dei dati personali” dove doto
personale indica ogni informazione relativa a persone fisiche o giuridiche identificate o
identificabili, e trattamento indica le attività di:

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a) raccolta e conservazione
b) elaborazione
c) comunicazione all’esterno, a soggetti diversi dall’interessato o comunicazione ad un
pubblico indifferenziato
d) conservazione senza ulteriore utilizzo, cancellazione o distruzione
la legge non coinvolge solo l’utilizzo di mezzi telematici, ma punisce l’utilizzo non autorizzato dei
dati, anche a mezzo di supporti cartacei.
La legge distingue tra “titolare” e “responsabile” del trattamento. La prima è la persona fisica o
giuridica o la P.A., cui competono le decisioni circa le modalità e le finalità del trattamento, il
secondo è il soggetto preposto dal primo alle operazioni di trattamento dei dati. Obbligo del titolare
è notificare al Garante per la protezione dei dati personali che intende procedere ad un trattamento
dei dati personali, con sottoscrizione del responsabile. Il Garante tiene un registro dei trattamenti
notificatigli, vigila sulla loro conformità alla legge e può vietarli nel caso la loro effettuazione
arrechi pregiudizio rilevante agli interessati.
Il diritto alla riservatezza è tutelato gia in fase di raccolta nei confronti del soggetto che proceda alla
raccolta stessa: i dati possono essere raccolti solo per scopi determinati, e la loro identità deve
essere pertinente allo scopo, devono essere aggiornati e conservati in modo da consentire
l’identificazione dell’interessato, per un tempo non superiore a quello necessario per lo scopo. E’
d’obbligo informare l’interessato, sulle modalità e i fini della raccolta dati, e dell’identità del
responsabile. Se alla raccolta procede un privato o un ente pubblico economico occorre il consenso
scritto dell’interessato, per l’intero trattamento o per singole operazioni. Il consenso risulta
superfluo quando la fonte dei dati è conoscibile a tutti o la raccolta dati è prescritta dalla legge, se il
trattamento è operato ai fini giornalistici, o in fine se necessario alla salvaguardia dell’integrità
fisica di un soggetto che non sia in grado di dare esplicito consenso. Per gli enti pubblici non
economici, il consenso è superfluo se la ricerca è votata ai loro fini istituzionali.
Menzione a parte meritano i c.d. dati sensibili, relativi all’origine etnica, razziale o ad esempio
relativi alle convinzioni filosofiche e religiose, il loro trattamento da parte di privato, necessita non
solo di consenso scritto dell’interessato ma anche di autorizzazione del Garante, da parte dei
soggetti pubblici il trattamento dei dati sensibili è ammesso solo se espressamente concesso dalla
legge.
Punto centrale della legge sono i diritti riconosciuti all’interessato:
1) diritto di conoscere, mediante accesso al registro del garante, eventuali trattamenti che lo
riguardano, con menzione del responsabile, del titolare e delle finalità del trattamento
2) diritto di ottenere la cancellazione dei dati trattati in violazione della legge e di quelli la cui
conservazione non sia più necessaria ai fini del trattamento
3) diritto all’aggiornamento, all’integrazione e rettificazione dei dati
4) diritto di opporsi alla raccolta dati per fini commerciali, pubblicitari, di vendita diretta o di
ricerche di mercato
tali diritti possono essere fatti valere dinnanzi all’autorità giudiziaria o dinnanzi al Garante.
L’interessato che subisca danno per l’altrui trattamento di dati personali, ha diritto al risarcimento.
L’art. 15 richiama all’art. 2050 relativo al danno cagionato da attività pericolose. Si riferisce alla
prova liberatoria, per cui il danneggiante che dimostri l’adozione di tutte le misure idonee, è
liberato dalla responsabilità del danno.
C’è da precisare che il trattamento automatizzato dei dati risponde alle esigenze di gestione di una
società complessa quale è oggi la nostra, ma l’art. 14 stabilisce che nessun comportamento umano
può essere giudicato colo solo riferimento ad un trattamento dati che riguardano il soggetto in
questione.

Parte seconda
LA PROPRIETA’

Capitolo quinto
I BENI E LA PROPRIETA’

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I beni
Punto essenziale dell’intero discorso sulla proprietà e sui diritti affini, è il rapporto fra l’uomo e le
cose, cioè fra l’uomo in quanto portatore di bisogni e le cose adatte a soddisfare tali bisogni. Per
indicare le cose in relazione alla loro attitudine a soddisfare bisogni su suole usare la parola beni.
Sono beni innanzi tutto le risorse della natura e le cose prodotte dall’uomo, sia le cose che
direttamente soddisfano un bisogno, i beni di consumo, sia le cose che li soddisfano indirettamente,
cioè quelli idonei a produrre beni, a loro volta atti a soddisfare bisogni. Non sono beni tutte le cose
da cui l’uomo non può o non può ancora trarre alcuna utilità.
E’ un concetto, quello di bene strettamente collegato, dal punto di vista storico, all’evoluzione della
civiltà umana, soprattutto dal punto di vista tecnologico dell’uomo nel saper sfruttare le risorse
naturali. Dipende poi inoltre dall’evolversi dei bisogni umani, che col tempo sono notevolmente
aumentati.
Vi sono beni, che vista la loro abbondanza rispetto ai bisogni umani, sono considerati fruibili da
parte di tutti a volontà, per questo l’uso arbitrario che uno ne fa non impedisce ad un altro di fruirne
contemporaneamente. Queste sono cose comuni a tutti, res communes omnium, queste perché
nessuno ha interesse nello stabilire un rapporto di appartenenza esclusivo, che escluda gli altri.
I beni su cui l’uomo ha interesse di riservare un utilizzo elusivo, sono quelli in rapporto impari con
l’umanità stessa, la loro utilizzazione implica dunque l’esclusione di tutti i consociati, e quindi il
rapporto tra uomo e cosa genera un implicito rapporto tra uomo e uomo, in un conflitto che mira
all’appropriazione delle risorse naturali e di tutte quelle cose derivate dal loro sfruttamento. E’ solo
di queste cose che si occupa il diritto, si occupa delle cose in quanto esse siano materia di possibile
conflitto tra individui. Giuridicamente dunque il bene è un qualcosa su cui l’uomo vuole riservarsi
un diritto, oppure una cosa idonea a formare oggetto di scambio, è dunque un bene in senso
giuridico solo quella cosa suscettibile di valutazione economica.
Per ciò che riguarda lo specifico ruolo giocato dal diritto nel rapporto tra uomini e cose è essenziale
sottolineare che ogni sistema giuridico:
1) asseconda in svariati modi la propensione dell’uomo a fare proprie le cose e ad utilizzarle a
proprio vantaggio escludendo tutti gli altri dall’utilizzo. Riconosce cioè la possibilità di
poter godere fruire e disporre di un bene in modo pieno ed esclusivo: la proprietà.
2) Regola i conflitti relativi all’appropriazione delle cose di acquisto, regolandone i modi.
L’art. 922 del codice civile stabilisce che la proprietà può essere acquistata solo nei modi
espressamente riconosciuti dalla legge, altrimenti non si acquista alcun diritto.
3) Fonda la categoria dei beni pubblici: beni considerati di utilità generale, sottratti ad ogni
possibilità di appropriazione da parte dei singoli, appartenenti alla società nel suo insieme.
Oggi sono beni appartenenti allo stato o ad altri enti pubblici, cui è affidato:
a) il compito di consentirne il disciplinato uso da parte di tutti (condizione giuridica del
demanio pubblico)
b) il compito di utilizzarli in modo da volgerli a vantaggio di tutti (condizione giuridica di beni
indisponibili dello stato), si esclude possano formare oggetto di appropriazione da parte di
privati.
Le cose comuni a tutti, se non appartengono a nessuno, possono essere oggetto della sovranità dello
stato, sulle quali cioè organi di quest’ultimo possono esercitare controllo. La proprietà pubblica può
anche assolvere il ruolo di proteggere le risorse naturali o il patrimonio culturale del paese
4) pone limiti alla proprietà ed impone obblighi al proprietario.

I diritti reali (sulle cose) : proprietà ed altri diritti reali


Nel nostro sistema giuridico i diritti reali sono in tutto sette: proprietà, superficie enfiteusi,
usufrutto, uso abitazione, servitù. Il contenuto del diritto consiste nelle facoltà attribuite, a seconda
dei casi al titolare del diritto stesso. La proprietà è il diritto il cui titolare gode delle facoltà più
ampie, contemplate dall’ordinamento. Rispetto alla proprietà gli altri diritti reali si presentano
come:
a) diritti reali limitati o parziari o minori, caratterizzati da contenuto più ridotto che spesso si
riduce ad un’unica facoltà del titolare sul bene.

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b) Diritti reali su cosa altrui, i quali si esercitano su cosa appartenente ad altro soggetto.
Coesistono col diritto di proprietà, e la sua compressione permette l’esercizio di altri diritti
sulla cosa stessa.
Il diritto di proprietà è definito nell’art. 832 che definisce la proprietà come il diritto di godere e di
disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo, entro i limiti e con osservanza degli obblighi
stabiliti dall’ordinamento.
Il diritto di godere e disporre individuano le facoltà spettanti al proprietario.
ella comunità, per un equilibrato impiego delle ricchezze che quanto meno non arrechi pregiudizio
al bene comune. Il diritto di proprietà si evolve dunque in relazione ai limiti e agli obblighi imposti
dall’ordinamento al proprietario.
Un generale e tradizionale limite al diritto di diritto di proprietà è anzitutto il divieto a compiere atti
di emulazione (art. 833), per cui il proprietario non può giovarsi della cosa compiendo atti votati
nuocere o molestare gli altri. Con riferimento alla proprietà dei suoli la facoltà di godimento è per
vari aspetti limitata. Un primo limite riguarda la destinazione dei suoli che non risponde all’arbitrio
dei proprietari, bensì deve essere stabilita dai comuni, nel rispetto dei piani regolatori elaborati dalle
regioni per lo sfruttamento del territorio ai fini agricoli, industriali e abitativi. La facoltà di edificare
dunque deve essere relazionata alle destinazioni stabilite dalle regioni. Le costruzioni devono essere
eseguite nel rispetto delle prescrizioni poste dai piani regolatori e dai regolamenti comunali, che
prevedono le condizioni estetiche e sanitarie ad esempio, a cui le costruzioni devono adeguarsi. Per
ogni tipo di costruzione o per la loro trasformazione è necessaria il relativo permesso, previo
accertamento di tutte le condizioni di legge, in caso contrario le conseguenze possono andare dalla
demolizione all’esproprio del fondo, o della costruzione abusiva che passano in proprietà al comune
(art. 31, testo unico 6 giugno 2001, n. 380, legge n. 10 1977 e legge n. 47 del 1985).
Per ciò che riguarda gli obblighi del proprietario di fondo agricolo, costui deve provvedere alla sua
coltivazione, considerazione non solo della ricchezza producibile, ma anche delle possibilità di
lavoro offerte dalla coltivazione della terra. La legge 440 del 1978 dice che le terre incolte possono
andare in affitto “forzato” a chiunque ne faccia richiesto, pagando un canone annuo. Al proprietario
che ottiene licenza di costruzione è imposto corrispondere somme al comune, mediante le quali
contribuire alle spese relative agli oneri di urbanizzazione primari, come l’allaccio alla rete urbana,
e quelli secondari, per la costruzione di determinati servizi sociali (legge n. 10, 1977).

Le cose oggetto di diritti: la classificazione dei beni


Sono beni le cose su cui si possono vantare determinati diritti, in questa categoria rientrano sia le
cose appartenenti a qualcuno sia le cose di nessuno, a tale scopo i primi sono definiti beni di
patrimonio, i secondi, le res nullius, sono cose di nessun proprietario, anche se potrebbero averlo.
La distinzione fondamentale avviene tra beni immobili e mobili. I primi sono quelli incorporati al
suolo naturalmente o artificialmente, anche se per un periodo transitorio, ed anche sorgenti e corsi
d’acqua, nonché i galleggianti saldamente ancorati alla riva. Particolare importanza assumono i
suoli e le costruzioni edilizie, il suolo adibito allo sfruttamento agricolo si dice fondo rustico, quello
adibito alla costruzione di abitazioni, edifici industriali o commerciali si chiamano fondi urbani.
Sono beni mobili tutti quelli che non sono considerati dalla legge immobili (art. 814), comprese le
energie naturali.
La condizione giuridica delle due categorie è diversa soprattutto dal punto di vista della c.d.
circolazione dei beni, ossia nelle norme che regolano il passaggio dei beni da un proprietario ad un
altro. I beni mobili circolano in modo assai più rapido, in quanto si accentua la tendenza a rendere
più semplice la circolazione delle ricchezze, quanto più ampia e più rapida è la circolazione dei
beni presenti tanto maggiore è la quantità di nuovi beni che possono immettersi sul mercato, tanto
maggiori cioè sono le possibilità di crescita del sistema produttivo. La proprietà immobiliare è
invece più garantita dalla legge, la sua circolazione è infatti più lenta, questo a maggior tutela
dell’interesse personale, come garanzia per la conservazione cioè del diritto del proprietario.
In una condizione intermedia sono i beni mobili iscritti nei pubblici registri (autoveicoli), la loro
legge di circolazione è simile sotto certi aspetti, a quella degli immobili, ma per il resto sono
sottoposti alle norme proprie dei beni mobili (art. 815).

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Più cose appartenenti allo stesso proprietario e con medesima destinazione si dicono universalità di
cose. Il proprietario può disporre sia dell’universalità sia delle singole cose che la compongono (art.
816).
Sono pertinenze le cose, mobili o immobili, destinate durevolmente ad ornamento o a servizio di
un’altra cosa mobile o immobile (art. 817). Il rapporto pertinenziale tra cose influisce sulla
circolazione delle pertinenze, in quanto gli atti o i rapporti che hanno per oggetto la cosa principale
coinvolgono, se non espresso il contrario, anche le pertinenze (art. 818). Il rapporto pertinenziale
può essere costituito solo dal proprietario della cosa principale o da chi vanti su essa altro diritto
reale, non occorre che egli sia proprietario della pertinenza. Nel caso accadesse infatti che un
soggetto venda in blocco proprietà principale e pertinenza, quest’ultima appartenente ad altri,
l’acquirente in buona fede, e solo in questo caso, acquista entrambi legalmente. Solo nel caso in cui
la pertinenza fosse iscritta in pubblico registro, che ne notifichi l’appartenenza a data anteriore il
trasferimento, il proprietario può reclamarla anche contro l’acquirente in buona fede.
Vi sono poi le cose composte, cioè nate dall’unione o montaggio di più cose, la separazione di uno
dei componenti determina la perdita di identità della cosa stessa, al contrario delle pertinenze, la cui
sottrazione non determina gli stessi effetti.
Esistono poi cose fungibili e cose infungibili. Le prime appartengono ad un genere all’interno del
quale ogni bene è indifferentemente sostituibile con un altro. Le seconde sono invece quelle che
esistono in unico esemplare o che comunque presentano dei caratteri distintivi. Le une sono
considerate in rapporto alla quantità, peso o misura, le altre in rapporto della loro identità.
Sono consumabili le cose che si estinguono con il primo uso, sono in consumabili quelle che
consentono un uso ripetuto anche se determina usura della cosa.

Proprietà pubblica e proprietà privata


Dall’art. 42 della costituzione si evince come il nostro stato sia un paese con un sistema ad
economia mista, cioè un paese che ammette la possibilità di proprietà privata, quella appartenente a
persone fisiche o enti privati, e proprietà pubblica, cioè il cui diritto è vantato dallo Stato o altri enti
pubblici.
Non tutti i beni si trovano nella condizione giuridica di poter essere indifferentemente oggetto di
proprietà pubblica o privata. Il codice indica espressamente due categorie di beni che devono essere
di pubblica proprietà:
a) i beni demaniali, dello stato delle regioni, delle province e dei comuni (artt. 822, 824), che a
loro volta si distinguono in demanio naturale, come lidi i fiumi e i porti e le altre acque
definite pubbliche dalla legge, e demanio artificiale, come gli acquedotti e gli immobili di
valore storico e culturale, in genere costituito dai singoli beni definiti dalla legge come
demanio artificiale. Sono anche beni demaniali quella universalità di beni mobili che sono
collezioni o raccolte di valore storico o artistico: i singoli beni possono essere oggetto di
proprietà privata solo se non inseriti nelle raccolte.
b) I beni patrimoniali indisponibili dello stato, delle regioni, delle province, dei comuni (art.
826, commi II e III): foreste, miniere, cave e torberie; le cose mobili di valore storico o
artistico ritrovate nel sottosuolo; gli immobili adibiti ad uffici pubblici con i relativi arredi,
in genere tutti quei beni che leggi espressamente qualificano come patrimonio indisponibile,
ed infine i beni patrimoniali indisponibili degli enti pubblici non territoriali, destinati al
pubblico servizio (art. 830, comma II).
La proprietà pubblica di queste due categorie di beni si giustifica o per garantire il loro uso da parte
di tutti o perché trattasi di essenziali risorse produttive, da sfruttare per il vantaggio dell’intera
comunità, o perché beni culturali o naturali da salvaguardare, o infine perché beni che servono allo
stato per assolvere le diverse funzioni istituzionali.
I beni demaniali sono inalienabili (art. 830), salvo che con apposite procedure amministrative non
vengano declassificati a patrimonio pubblico (art. 829). I beni indisponibili non possono essere
sottratti alla loro destinazione se non con le procedure ammesse dalla legge (art. 828 comma II).
Entrambe le tipologie, se la loro natura lo consente, possono essere oggetto di diritti da parte dei
privati (ex: le concessioni fatte per i lidi), ma in definitiva sono inalienabili, e vengono qualificati
come beni fuori commercio (locuzione utilizzata con riferimento all’art. 1145). Questi non solo non

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possono essere alienati a privati ma il loro possesso è senza effetto, cioè non conduce all’acquisto
per usucapione.
La proprietà pubblica non è comparabile con il semplice diritto di proprietà in quanto lo stato non
esercita le facoltà di godimento e di disposizione, esercitate dal privato, ma esercita i poteri che
secondo il diritto pubblico spettano alla P.A.. Solo per ciò che attiene la tutela contro terzi, le P.A.
possono agire sia in via amministrativa, avvalendosi della propria autorità, sia in via civile
servendosi di quelle azioni a difesa della proprietà o del possesso. Gli altri beni, non espressamente
qualificati dal codice o da leggi speciali, come demanio o patrimonio indisponibile, possono
indifferentemente essere sia oggetto di proprietà pubblica, sia privata. Sono nel primo caso, i beni
del patrimonio disponibile dello stato e di enti pubblici territoriali e non. Si definiscono pubblici tali
beni solo in qualità del soggetto che ne è proprietario, gli organi pubblici titolari si trovano nella
stessa posizione dei privati, e il loro diritto è regolato dal codice civile. Lo stesso acquisto dei beni
avviene dal precedente proprietario di questi, con acquisto nei modi del diritto comune.
Lo stato tuttavia possiede mezzi anche autoritativi, per conseguire la proprietà dei beni, è il caso
questo dell’espropriazione (art. 42, comma III, Costituzione). L’esproprio deve rientrare nei casi
previsti dalla legge e deve essere accompagnato da indennizzo, i modi sono regolati dalle leggi
speciali (riferimenti vi sono all’art. 834 del cod. civile). L’espropriazione è retta da due principi: il
principio di legalità, per cui i pubblici poteri possono, in forza della loro sovranità, appropriarsi di
beni privati, aggiungendoli al pubblico patrimonio, solo nei casi espressi dalla legge e con le dovute
procedure. L’altro principio è quello dell’indennizzo, per cui lo stato deve corrispondere al soggetto
che ha subito l’esproprio, una somma in denaro, che compensi la perdita, stabilita secondo i criteri
dettati dalla legge.
Oltre al regolamento relativo al demanio e al patrimonio indisponibile dello stato, la costituzione
all’art. 43 disciplina la c.d. nazionalizzazione. Tale disciplina consente allo stato di riservarsi
determinate imprese o categorie di imprese, relativamente ai mezzi produttivi, che si riferiscano a
servizi pubblici o a risorse o a situazioni di monopolio di particolare interesse generale. Tale norma
dunque preclude ogni possibilità di iniziativa economica privata nei settori nazionalizzati, e
consente allo stato di espropriare le imprese già esistenti, salvo indennizzo, nei settori di pubblico
interesse.
Diversa e la requisizione, la quale sottrae momentaneamente il godimento della cosa che rimane di
proprietà del privato. Ad essa i pubblici poteri possono ricorrere in momenti di grave necessità
pubbliche, siano esse militari o civili, è comunque dovuto un giusto indennizzo al proprietario della
cosa requisita (art. 835).
Come dichiarato dalla costituzione all’art. 42, la proprietà è riconosciuta e garantita dalla legge, ciò
significa non solo che la legge assicura il libero accesso dei privati alla proprietà di quei beni che
non siano riservati alla pubblica proprietà, ma implica in secondo luogo, garanzia dei privati
proprietari, contro l’arbitrio dei pubblici poteri, i quali anche sono tenuti al rispetto del diritto di
proprietà del privato. Lo stato può far valere la propria sovranità per spogliare il privato dei propri
beni solo nei casi e con i modi espressi dalla legge.
L’art. 42 della costituzione dichiara di voler assicurare la “funzione sociale della proprietà” oltre
che ai modi di acquisto e godimento e la generale accessibilità.
Tale funzione va conciliata essenzialmente con l’interesse proprio del titolare, per cui è necessario
considerare la proprietà dal punto di vista delle cose oggetto di proprietà privata. La norma esprime
l’esigenza di una destinazione sociale delle risorse e delle ricchezze mobiliari ed immobiliari, anche
se in mani di privati. Per questo interviene la legge imponendo limiti al diritto del proprietario,
attribuendo a stato ed enti pubblici il potere di assicurare la destinazione sociale delle ricchezze.
Vi è una parte dell’art. 43 della costituzione che identifica un terzo genere di proprietà, la c.d.
autogestione, riferita alle imprese, o per meglio dire ai mezzi di produzione, che attribuisce a
comunità di lavoratori o utenti. E’ una forma di proprietà collettiva per la quale il potere di godere
e disporre dei mezzi di produzione spetta agli stessi lavoratori o utenti dell’impresa. Non esistono
tutt’oggi concrete realizzazioni di questo genere.

La proprietà fondiaria

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il fondo, sia esso rustico o urbano, è delimitato sia in senso verticale sia in senso orizzontale. La sua
delimitazione orizzontale è di carattere geometrico, per cui esistono dei confini oltre i quali il diritto
del proprietario non sussiste. La proprietà del suolo si estende al sottosuolo, e a tutto ciò che questo
contiene (esclusi i beni di esclusivo interesse per lo stato), e allo spazio aereo sovrastante. Il diritto
del proprietario non è però illimitato, infatti la legge stabilisce che il proprietario non può opporsi
ad attività che si svolgano nel sottosuolo o nello spazio aereo sovrastante il suo fondo, ad una
profondità o altezza tale che egli non abbia interesse ad eludere (art. 840). L’identificazione
verticale del limite di proprietà è dunque di natura economica, in quanto il proprietario può vantare
il suo diritto esclusivo, fin dove può dimostrare di averne interesse. Oltre tale limite, elastico e non
quantitativamente misurabile, il sottosuolo e lo spazio aereo sono considerati cose comuni a tutti. In
ogni caso il proprietario possiede, fin dove il suo interesse lo giustifichi, uno ius excludendi alios
(art. 832), dallo spazio aereo sovrastante e dal sottosuolo.
Il limite orizzontale è il confine entro cui esercitare la facoltà di godimento insita nel diritto di
proprietà, ed in linea di principio l’attività di godimento deve essere contenuta entro i propri
confini, ma nessun proprietario, nell’esercizio di tale facolà, può compiere atti o opere che
arrechino danno al fondo del vicino, ossia che ledano il diritto del proprietario vicino (art. 840). Ma
fra proprietari vicini è inevitabile che il godimento di uno interferisca con il godimento dell’altro,
limitandolo o pregiudicandolo. Alcuni aspetti di tali interferenze trovano disciplina di
comportamento da parte della legge, cioè sono imposti limiti al proprietario fondiario al fine di
conciliare il suo godimento con quello del vicino.
Un primo limite è dettato dalle c.d. distanze legali, da rispettare dal proprietario di un fondo nella
costruzione di edifici, scavare pozzi e fosse, piantare alberi.

1) costruzioni
le costruzioni su fondi confinanti, se non sono unite o in aderenza tra loro, devono essere tenute a
una distanza minima di tre metri, salvo diversa disposizione da parte degli enti locali per una
distanza maggiore (art. 873). Tale distanza è ritenuta idonea perché costruzioni vicine non si
tolgano aria e luce e non pregiudichino la reciproca sicurezza. Risulta favorito il proprietario che
costruisce per primo, in quanto egli può costruire a meno di un metro e mezzo dal confine o sul
confine stesso, costringendo l’altro o ad indietreggiare con l’edificio, o a costruire in appoggio al
suo muro, che diventa di comproprietà, o in aderenza al suo muro, costringendo l’altro a pagare il
suolo occupato (art. 874-877). Nel caso il secondo non rispetti le minime distanze, il primo può
costringerlo alla riduzione in pristino, cioè alla demolizione (art. 872). Il secondo non ha diritto
all’indennizzo per il suolo rimasto in edificabile. Spesso i regolamenti regionali impongono una
distanza minima dal confine, in questo modo perde ogni privilegio anche colui che edifica per
primo. Oltre a ciò i regolamenti possono stabilire anche limiti massimi di altezza e volume degli
edifici in relazione alla destinazione stabilita per il territorio, il proprietario leso da violazioni di
questi regolamenti può esigere solo il risarcimento del danno che prova d’aver subito (art. 872).
2) Pozzi e fossi
Pozzi, cisterne e tubi devono essere collocati ad una distanza di almeno due metri dal confine, i
fossi ad una distanza uguale alla loro profondità (art. 892).
3) Piantagioni
Gli alberi ad alto fusto, che si ramificano dopo che il tronco raggiunge i 3m, debbono essere posti
ad una distanza minima di tre metri dal confine, salvo diversi regolamenti o usi locali, gli altri alberi
ad un metro e mezzo, le viti e le siepi a mezzo metro (art. 892). Il vicino può recidere le radici o
chiedere al proprietario di potare i rami sporgenti (art. 896).
Per ciò che riguarda la ricezione di aria e luce, l’ordinamento risolve i conflitti distinguendo tra luci
e vedute. Sono luci le aperture che non consentono di affacciarsi sul fondo del vicino, contrario
concetto sono le vedute. Per le luci che si aprono sul fondo del vicino non vi sono distanze minime
dal confine ma devono recare inferriate e grate fisse per assicurare la sicurezza del confinante, e
debbono essere collocate ad una distanza, prevista dalla legge, che assicuri la privacy del vicino. Le
vedute devono essere aperte ad una distanza minima di un metro e mezzo dal confine, colui il quale
abbia diritto di edificare in aderenza o appoggiandosi al vicino può oscurare solo le luci di
quest’ultimo e non le vedute.

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Il proprietario di un fondo non può impedire le immissioni, di qualunque genere, provenienti dal
fondo del vicino, se esse non superino la capacità di sopportazione dell’uomo medio, la soglia oltre
la quale le immissioni risultino intollerabili all’uomo medio. E’ questo un principio a favore delle
attività produttive, in quanto il giudice deve contemperare le esigenze della produzione e della
proprietà. Complementari sono i criteri di legge di condizione dei luoghi, e la priorità di un dato uso
(è privilegiato chi per primo ha dato diversa destinazione al suo edificio).
Tutte le acque sono bene pubblico (art. 1 legge n. 36, 1994). L’utilizzazione privata di acque che
fluiscono su un fondo, è ammessa di norma per concessione amministrativa, è libera invece
l’utilizzazione di acque sotterranee per uso domestico, come lo è la raccolta delle acque piovane.
Oggetto di diritto è il flusso di acqua che sul fondo sgorga o che vi scorre, dalla concezione delle
acque quindi come flusso deriva particolare disciplina. Il proprietario del fondo ha diritto di utilizzo
delle acque e può disporne a favore di altri (servitù), ma dopo l’utilizzo non può sviarle il flusso a
danno d’altri fondi.

Le azioni in difesa della proprietà


Sono previste dal codice civile a difesa del diritto di proprietà le c.d. azioni petitorie.
)1 azione di rivendicazione (art. 948): spetta a chi si dichiara proprietario di una cosa in
possesso o detenzione ad altri. Mira ad ottenere da parte del giudice l’accertamento del
diritto di proprietà del richiedente e alla condanna alla restituzione del possessore o del
detentore. Se nel corso del giudizio, per atto proprio, il convenuto ha perduto il possesso,
l’attore può agire contro il nuovo possessore o agire contro il primo affinché questi a sue
spese recuperi la cosa o perché ne corrisponda il valore oltre al risarcimento dei danni.
L’attore deve dare prova del suo diritto di proprietà. La restituzione è ottenibile anche a
mezzo di azioni possessorie ove è necessario provare solo che il convenuto
impropriamente ha spossessato l’attore della cosa.
)2 Azione negatoria (art. 949): spetta al proprietario contro chi rivendichi diritti minori sulla
cosa. Mira all’accertamento giudiziale del diritto altrui e l’ordine, al convenuto, di
cessare le eventuali turbative o molesti della proprietà, ossia l’esercizio del suo presunto
diritto sulla cosa. Attore e convenuto devono portare prova l’uno del proprio diritto di
proprietà, l’altro del diritto minore vantato sulla cosa, contestato dall’attore. Per la
cessazione delle turbative e molestie è utilizzabile anche l’azione possessoria di
manutenzione.
)3 Azione di regolamento dei confini (art. 950): spetta a ciascuno dei proprietari immobiliari
confinanti quando il confine tra i due fondi è incerto, mira all’accertamento del confine
per cui è ammesso qualsiasi tipo di prova.
)4 Azione di apposizione di termini: il confine è determinato, ma si richiede che venga
rimarcato visibilmente, le spese vengono divise tra le parti.
Il diritto di proprietà non si prescrive, rimane cioè in capo al suo titolare al di là del suo esercizio
(art. 2934), la perdita della proprietà per non uso può avvenire solo per opera di terzo che acquisti
per usucapione.

Capitolo sesto
IL POSSESSO

Concetto di possesso
Proprietà e possesso sono, giuridicamente, due situazioni diverse. La prima è la situazione di diritto
descritta dall’art. 832, il secondo è una situazione di fatto definita all’art. 1140 come il potere sulla
cosa che si manifesta in una attività corrispondente all’esercizio del diritto di proprietà. La
differenza sta appunto fra titolarità ed esercizio del diritto di proprietà, fra l’essere proprietari e il
comportarsi da proprietario della cosa.
Di norma il proprietario è implicitamente anche possessore, ma non è raro il caso in cui colui che ha
la cosa, non sia proprietario ma possessore. Il potere di quest’ultimo sulla cosa ha una protezione
giuridica autonoma, separata dalla tutela dalla proprietà.

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Oltre al c.d. possesso pieno, quello corrispondente al diritto di proprietà, il possesso può anche
essere relativo ad altri diritti reali minori, come il possesso dell’usufrutto, a cui corrisponde un
determinato comportamento relativo al contenuto del diritto reale minore, stesso.
Dal possesso si deve distinguere la semplice detenzione, che corrisponde alla materiale disponibilità
della cosa, per essere possessore bisogna avere l’animo o l’intenzione di possedere, l’intenzione di
comportarsi da proprietario della cosa. E’ dunque possessore colui il quale coltiva un fondo o abita
una edificio senza riconoscere in altri il proprietario, senza pagare canoni di locazione, affitto o
noleggio. Tali esempi si palesano o nella figura dello stesso proprietario, possessore della cosa
quindi, sia quando il proprietario trascura di esercitare il proprio diritto ed altri lo esercita in suo
luogo.
E’ invece mera detenzione quella di colui che detiene la cosa per un titolo che comunque riconosce
l’altruità della cosa, sia nella salvaguardia del proprio interesse sia per motivi di servizio (utilizzo
degli strumenti di lavoro). In questi casi il proprietario, pur non essendo detentore della cosa rimane
comunque possessore, esercitando per vie indirette il suo diritto.
Il secondo comma dell’art. 1140 descrive due tipologie di possesso, quello diretto, connaturato con
l’animus possidenti, ed uno indiretto, in cui il possessore esercita il suo diritto per mezzo d’altri.
Possesso e detenzione dunque sono concetti distinti, e differenti sono le prove di fatto che attestano
l’uno o l’altra in capo ad un soggetto. Al riguardo vige una presunzione: chi esercita il potere di
fatto sulla cosa, ossia ne è materiale detentore, si presume possessore, si presume cioè il suo animo
a possedere, salvo prova che egli eserciti quel potere in virtù di un titolo, che implica il
riconoscimento dell’altrui possesso.
Il mero detentore può divenire possessore, non solo ovviamente manifestando il cambiamento delle
sue attitudini psicologiche verso la cosa, l’art. 1141 al II comma in due soli casi riconosce la c.d.
interversione del possesso:
a) quando il titolo per il quale si ha la materiale disponibilità dalla cosa venga mutato per causa
proveniente da terzi (acquisto o eredità da non proprietario).
b) Quando il detentore faccia opposizione contro il possessore, vantandosi apertamente
proprietario e facendo constare al possessore con esplicita dichiarazione o con atti concreti
che intende tenere la cosa come propria.
Il possesso è escluso anche in coloro i quali hanno facoltà di godimento sulla osa con l’altrui
tolleranza, è tale tolleranza ad escludere l’animo di possedere.
L’acquisto del possesso è ammesso sia a titolo originario, come chi muta la detenzione in possesso,
sia a titolo derivativo, per trasmissione del possesso dal precedente al nuovo possessore, il che può
avvenire in vari modi:
a) traditio: per i mobili è consegna materiale della cosa eseguita con la volontà di trasferire il
possesso.
b) Traditio fictitia: per gli immobili la consegna è simbolica.
c) Traditio brevi manu: trasferimento senza la materiale consegna, che si acquista quando si è
gia detentori della cosa.
d) Costituto possessorio: il proprietario diviene possessore, vendendo la cosa a soggetto che
contestualmente, gliela da in locazione.
La protezione giuridica del possesso prescinde dallo stato di buona o mala fede, al di là del fatto che
il possessore sappia o meno di ledere un altrui diritto (art. 1147, comma I). lo stato di buona fede
non è escluso dall’errore, è però escluso dalla colpa grave: è in malafede chi pur ignorando l’altruità
della cosa, poteva venirne a conoscenza con un minimo di diligenza (c.d. buona fede temeraria). A
tale proposito vige una presunzione di legge: il possessore si presume in buona fede fino a prova
contraria, è perciò in buana fede anche il possessore di cui non si riesce a dimostrare la mala fede.
Inoltre basta che il possesso fosse originariamente in buona fede, per essere considerato tale anche
se in seguito si viene a conoscenza dell’altruità della cosa (art. 1147).
Essenziale è poi la prova della durata del possesso, per cui il possessore è assistito da due
presunzioni:
a) chi prova di essere possessore attuale e prova di aver posseduto la cosa in tempo più remoto
si presume abbia posseduto anche nel tempo intermedio (art. 1142).

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b) Chi prova il possesso attuale in concerto con il titolo in forza del quale possiede, si presume
possieda dalla data del titolo (art. 1143).
Sia agli effetti della durata quanto a quelli della qualificazione del possesso, vale il principio
secondo il quale il possesso dell’erede continua quello del defunto, con somma dei tempi di
possesso, conservandone la qualificazione. Non c’è automatica continuazione del possesso nelle
successioni a titolo particolare, ma solo una facoltà in tal senso (accessione del possesso) attribuita
al successore: l’acquirente, se gli giova, può sommare suo possesso con quello dell’alienante (art.
1146).

Diritti del possessore nella restituzione al proprietario


Al possessore, benché non proprietario, sono attribuiti molteplici effetti di diritto.
Nel caso in cui il proprietario ottenga la restituzione della cosa tramite azione di rivendicazione dal
possessore, questi possiede nei diversi casi, diritti sui frutti maturati nel frattempo. L’art. 1148
riconosce diversi diritti al proprietario di mala fede e a quello in buona fede, il quale ha tenuto la
cosa con la convinzione d’esserne proprietario. Il proprietario in buona fede trattiene i frutti che ha
percepito fino alla domanda giudiziale di restituzione, il possessore in mala fede deve restituire tutti
i frutti o un loro equivalente in denaro; il proprietario non deve però trarre profitto dagli
investimenti finanziari altrui: il possessore in mala fede ha diritto al rimborso per le spese inerenti
produzione e raccolto (art. 1149). Il possessore può poi aver eseguito riparazioni o migliorie sulla
cosa. Ogni possessore ha diritto al rimborso per le spese straordinarie, il possessore di buona fede
ha il diritto ad un’indennità pari al maggior valore raggiunto dalla cosa grazie ai miglioramenti
apportati, mentre il possessore in mala fede ha diritto alla minor somma tra l’aumento di valore
della cosa e l’importo delle spese affrontate (art. 1150). Al proprietario di buona fede spetta in fine
il diritto di ritenzione, con il quale può riservare la restituzione al momento del pagamento delle
indennità dovutegli (art. 1152).

Le azioni possessorie
La protezione giuridica di cui si avvale il possesso permette una reintegrazione giudiziale della
situazione e un ordine di cessazione delle molestie, più rapida rispetto al diritto di proprietà. Tale
protezione giurisdizionale è riconosciuta al possesso in quanto tale: è irrilevante che il possessore
sia o meno proprietario, o che non possa provare di essere proprietario del bene, e anche irrilevante
se l’oggetto sia idoneo o meno a formare oggetto di proprietà privata (tale riconoscimento è fatto
anche nei con fronti del possessore di bene demaniale).
A difesa del possesso vi sono le azioni possessorie:
a) azione di reintegrazione o di spoglio (art. 1168): spetta al possessore violentemente od
occultamente spossessato del bene, mobile o immobile, cioè di nascosto e con l’uso di forza
o minacce. Esercitatile entro un anno dallo spoglio, o se clandestino, dalla sua scoperta;
consente al possessore spogliato di ottenere, sulla semplice notorietà dell’atto dello spoglio,
la reintegrazione del possesso, tramite ordine del giudice rivolto all’autore dello spoglio o
a chi abbia acquisito il bene, pur consapevole dello spoglio. Trascorso l’anno dallo spoglio,
il possesso si consolida nelle mani dell’autore dello spoglio stesso, la reintegrazione può
avvenire solo tramite azione di rivendicazione da parte di chi porti prova del diritto di
proprietà.
b) azione di manutenzione (art. 1170): riguarda i beni immobili e le universalità di beni mobili,
ha un duplice campo d’applicazione: spetta al possessore che sia molestato nel godimento
della cosa e al possessore che abbia subito uno spoglio non violento o clandestino. Può
essere utilizzata entro un anno dallo spoglio e dalle turbative e mira nel primo caso
all’ottenimento di un ordine di cessazione delle turbative, nel secondo caso alla restituzione
della cosa.
L’ azione di reintegrazione, in quanto basata sull’altrui atto violento o clandestino, è data a qualsiasi
possessore, e al detentore che detenga nel proprio interesse, indipendentemente dalla durata del
possesso e dal modo con il quale egli se lo era procurato.
L’azione di manutenzione invece è concessa solo al possesso duraturo, continuato ed ininterrotto, da
oltre una anno, non conseguito in modo violento o clandestino, oppure se conseguito in tal modo, è

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concessa solo se è trascorso un anno almeno da quando la violenza o la clandestinità è cessata (art.
1170). Fa eccezione il conduttore di immobili, che sia stato molestato da terzi nel godimento della
cosa in locazione, per cui egli direttamente può usufruire dell’azione di manutenzione.
Le azioni possessorie spettano anche al proprietario, che sia stato spogliato del possesso o molestato
nel godimento del bene. Agendo da possessore, il proprietario, gode di una protezione più rapida,
essendo esonerato dall’onere della prova, nell’ambito delle azioni possessorie.
Il possesso riceve tutela giurisdizionale, malgrado le controverse situazioni in cui tale concetto può
essere coinvolto, per superiori esigenze attinenti all’ordine pubblico, in quanto se chiunque potesse
liberamente impossessarsi di ciò che altri possiedono senza esserne o senza possibilità di provare di
essere proprietario, si legittimerebbero spoliazione a catena, con grave pregiudizio dell’ordine
pubblico. Vale l’antico principio per cui il possessore, anche se non proprietario, può ottenere dal
giudice protezione per la già conseguita situazione di fatto, tale principio indirettamente protegge il
possessore, mira essenzialmente alla salvaguardia dell’ordine pubblico.
La legge introduce un criterio per la risoluzione dei conflitti sul possesso dei beni per cui il
possessore antecedente, dello spogliato, prevale sul possesso successivo, dell’autore dello spoglio,
salvo che il possesso successivo non sia durato almeno un anno senza reazione del primo
possessore.
Le azioni possessorie possono essere rivolte verso tutti, anche nei confronti del proprietario, che
secondo l’art. 705 del codice di proc. Civ. non può opporre a difesa il proprio diritto di proprietà.
Questo perché esiste l’azione di rivendicazione, come mezzo di opposizione, allo spoglio.
Il possessore di beni demaniali ha azione possessoria verso altri privati, ma non verso lo stato, il
quale può utilizzare la forza pubblica per il recupero e la cessazione delle molestie.
L’art. 705 del codice di proc. Civ. contiene una riserva: salvo che ne derivi o possa derivare un
giudizio irreparabile per il convenuto. Tale riserva ammette l’ipotesi in cui l’attore vinto il giudizio
possessorio faccia sparire il bene prima del giudizio, petitorio, a danno del convenuto, proprietario.
Per ciò, provato l’irreparabile pregiudizio, l’attore può richiedere il sequestro giudiziario del bene.
L’azione di reintegrazione può spettare anche al detentore che non detenga per motivi di servizio o
di ospitalità. Spetta a chi detenga nel proprio interesse e detenga sulla base di un rapporto stabile. Il
detentore che subisca spoglio o molestie relative al bene, può esercitare egli stesso l’azione di
reintegrazione senza necessario riferimento al possessore. Non spetta di regola l’azione di
manutenzione al detentore, nei casi che contemplano tale azione, il detentore deve riferirsi al
possessore. Fa eccezione a questo caso, il conduttore.

Le azioni di nunciazione
Sono azioni che spettano al possessore, indipendentemente dalla prova di proprietà, sia al
possessore non proprietario sia al titolare di un altro diritto reale, con la funzione di prevenire un da
nno che minaccia la cosa.
a) denuncia di nuova opera: è la denuncia all’autorità giudiziaria di nuova opera intrapresa da
altri, dalla quale si teme un danno futuro alla cosa di cui si è possessori, proprietari o titolari
di un altro diritto reale. L’azione è esperibile fino a quando l’opera non sia stata completata
e purché non sia trascorso un anno dall’inizio dei lavori.
b) Denuncia di danno temuto: è la denuncia di danno grave ed imminente, all’autorità
giudiziaria, che si teme possa derivare alla cosa di cui si è possessori o proprietari o titolari
di un altro diritto reale dall’edificio o da cosa altrui.
Il giudizio che si svolge con tali azioni si divide in due fasi:
1) l’autorità giudiziaria, cosciente di una sommaria conoscenza dei fatti, emette provvedimenti
provvisori ed urgenti, con i quali può vietare la continuazione dei lavori o sottoporre la
continuazione dell’opera a particolari cautele, che escludano la possibilità del danno.
l’autorità giudiziaria può ordinare demolizioni riparazioni urgenti ecc…
2) giudizio di merito: decisione conclusiva circa l’esistenza o meno del pericolo di danno ed
illiceità del comportamento del denunciato.
Tali azioni sono esperibili anche contro la P.A., relativamente alle modalità di esecuzione
dell’opera, contro le violazioni delle regole poste dalla prudenza e dalla tecnica a salvaguardia degli
altrui diritti.

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Capitolo settimo
I MODI DI ACQUISTO DELLA PROPRIETA’

Acquisto a titolo originario e a titolo derivativo


La proprietà si può acquistare solo nei modi stabiliti dalla legge, l’art. 922 ne enuncia nove, facendo
riserva degli altri modi stabiliti dalla legge. Tale articolo presenta due categorie di acquisto della
proprietà. Una categoria a titolo originario (occupazione, invenzione, accessione, specificazione,
unione, commistione e usucapione) ed una a titolo derivativo (contratti, successione mortis causa).
Si acquista a titolo derivativo quando si acquista il diritto di proprietà ad un precedente
proprietario, cioè quando la proprietà viene trasferita con un contratto cui la legge riconosce effetto
traslativo (art. 1376), oppure quando a causa di morte del proprietario una determinata cosa di sua
proprietà passa , per successione all’erede. Chi trasferisce il diritto è detto, dante causa, colui che
acquista è l’avente causa. L’essenza di questo tipo di acquisti è che l’avente causa acquisisce la
proprietà solo se e solo come, il dante causa era proprietario, la cosa si trasferisce continuando ad
essere gravata dai medesimi diritti altrui, nel caso esistano.
Si acquista a titolo originario quando il diritto di proprietà, che si acquista sulla cosa, è indipendente
dal diritto del precedente proprietario, sia quando non esiste il precedente proprietario, sia nel caso
egli abbia abbandonato la cosa. Accade anche quando esiste un precedente proprietario, ma quando
il suo diritto è destinato a soccombere di fronte al diritto di acquisto a titolo originario. Nei casi di
acquisto a titolo originario il diritto di proprietà si acquista pieno, libero da ogni altrui diritto che
gravava sulla cosa con il precedente proprietario. Questi modi di acquisto determinano la
cessazione di ogni precedente diritto reale o garanzia reale sulla cosa.
Modi acquisto particolari, per così dire, sono l’acquisto dei frutti, da parte del proprietario di una
cosa fruttifera, e le pertinenze acquistate dal proprietario di una cosa definita come principale.

Occupazione ed invenzione
L’occupazione è il modo di acquisto delle res nullius, delle cose mobili di nessuno (art. 923),
richiede un elemento materiale, l’impossessamento della cosa, ed un elemento psicologico
consistente nella volontà di fare propria la cosa. Possono essere oggetto di occupazione solo le cose
mobili, gli immobili non appartenenti a nessuno, sono di proprietà dello stato o delle regioni a
statuto speciale se sono situati in quest’ultime (art. 827).
Vi sono due categorie di cose mobili che il codice civile riconosce come suscettibili d’occupazione.
Prime fra tutte le cose abbandonate o derelitte dal precedente proprietario, il quale si è liberato del
possesso con l’intenzione di rinunciare alla proprietà. Poi vi sono gli animali che formano oggetto
di caccia o pesca, cioè la selvaggina ed i pesci. La caccia e la pesca sono le forme tramite cui
avviene l’impossessamento e con questo, l’acquisto della proprietà per occupazione. La legge n.
968 del 1977 e la n. 157 del 1992, a tutela della natura hanno cambiato la condizione giuridica della
selvaggina selvatica, considerata oggi come patrimonio indisponibile dello stato.
Si può parlare di occupazione anche in riferimento ad un’altra categoria di cose mobili, quelle altrui
occupate con espresso o tacito consenso del proprietario. E’ il caso non di cose di nessuno, ma di
frutti naturali, spesso spontanei, del fondo, della foresta o del corso d’acqua, e appartengono o al
proprietario privato del fondo (art. 821)oppure allo stato per ciò che concerne foreste e corsi
d’acqua (art. 822). Il consenso del proprietario rende queste cose suscettibili di occupazione. Il
consenso si desume secondo diversi criteri, è vietata la raccolta dei frutti del fondo, laddove il
proprietario privato ponga un visibile cartello che lo impedisca, mentre è sempre possibile sul suolo
statale, anche la selvaggina rientra oggi in tale categoria in un certo modo, in quanto la caccia è
permessa solo in determinati periodi dell’anno, e non su tutti i fondi. La caccia nei periodi non
previsti dalla legge è considerata furto, il cacciatore occupa la selvaggina quando oltre al periodo
previsto dalla legge concorre anche il consenso del proprietario del fondo. È dello stato la
selvaggina accidentalmente uccisa.
Dalle cose abbandonate si distinguono le cose smarrite, di cui cioè il proprietario ha perso il
possesso ma non la volontà di avere la proprietà sul bene. Di queste si può diventare proprietari per
invenzione. Il ritrovatore infatti è si tenuto a presentare la cosa all’ufficio oggetti smarriti del

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comune dove la cosa è stata rinvenuta, ma è anche vero che se dopo un anno dalla pubblicazione
sull’albo pretorio del comune, il proprietario non reclama la cosa, questa diventa di proprietà del
ritrovatore. Se il proprietario si dovesse presentare, il ritrovatore ha comunque diritto ad un premio
pari al dieci per cento del valore della cosa (artt. 928, 929, 930). Caso speciale è il ritrovamento di
relitti marini, è dovuto comunque un premio al ritrovatore, ma in caso il proprietario non si presenti
dopo un anno, il relitto è venduto e il ricavato va alla previdenza marina. Sempre per invenzione
può acquistarsi il tesoro, qualsiasi cosa di pregio nascosta o sotterrata di cui nessuno può dimostrare
d’essere proprietario (art. 932). Se il ritrovamento è fatto dal proprietario del fondo su cui il tesoro
giace, questo diventa suo, se trovato da altri metà va allo scopritore l’altra metà al proprietario del
fondo (l’art. 959 equipara il proprietario all’enfiteuta). La proprietà di cose di valore storico o
archeologico ritrovate è dello stato.

Accessione, unione e commistione, specificazione


L’accessione deriva da un principio antico e generale, per cui la proprietà di una cosa qualificabile
come principale fa acquistare la proprietà delle cose definite accessorie. Vi sono tre forme:
)1 accessione di cosa mobile a cosa immobile: è preminente la proprietà immobiliare, in
quanto ogni bene che venga materialmente unito ad un immobile accede a questo, ossia è
di proprietà del proprietario dell’immobile.
Il proprietario del suolo che incarica un’impresa di costruire un edificio sul suo terreno, acquista a
titolo originario l’edificio man a mano che i materiali di proprietà dell’impresa vengono uniti al
suolo. Può accadere che per ragioni comprensibili, un soggetto, in buona fede costruisca su suolo
altrui. Oppure può accadere che il costruttore compri il suolo su cui ha edificato, ma a causa della
risoluzione del contratto da parte del venditore, operando retroattivamente la risoluzione, accade
che l’edificio risulta costruito su suolo altrui. In questi casi il proprietario del suolo ha diritto a
tenersi l’edificio pagando o una somma pari al costo dell’opera o a scelta, il valore massimo
raggiunto dal suolo. L’art. 936 permette al proprietario del suolo di demolire solo se il proprietario
della costruzione sia in mala fede. Se il costruttore che costruisce sul proprio suolo, sconfina su
suolo altrui con l’edificio, può ottenere la proprietà del suolo occupato, dal giudice, solo se paga il
doppio del valore del suolo occupato.
)2 accesso di cosa immobile ad immobile: è il caso dell’alluvione: i detriti trasportati dai fiumi
sui fondi rivieraschi vanno a modificarne l’estensione, il proprietario del fondo a valle
acquista per accessione, la proprietà della maggiore estensione che il suo fondo ha ricevuto.
Vi è poi l’avulsione: quando il fiume trasporta da un fondo a monte, una porzione distinta di
terra sul fondo a valle, l’incremento è del proprietario di quest’ultimo, che però è costretto
una indennità ha proprietario del fondo che ha subito il distacco. Nei casi dove il ritiro delle
acque determina incremento del fondo, tale incremento appartiene al demanio pubblico.
)3 Accessione di cosa mobile a mobile: se sono cose mobili appartenenti a diverso proprietario
e si mescolano (commistione) o si uniscono (unione), in modo da formare un tutt’uno
inseparabile, il proprietario della cosa principale, pagando un’indennità all’altro diviene
proprietario del tutto. Se nessuna delle cose può considerarsi principale, nel caso in cui la
separazione non causi grave deterioramento, ciascuno conserva la proprietà della sua cosa,
altrimenti si avrà una comproprietà della cosa risultante, con quote pari al valore delle cose
unite (art. 939).
La specificazione è il modo di acquisto della proprietà della materia altrui, da parte di chi la
adopera per ottenere una cosa nuova, la proprietà della nuova cosa è dello specificatore se questi
paga un’indennità al proprietario della materia. Se il valore della cosa specificata super il valore
della manodopera, la cosa va al proprietario della materia, il quale dovrà pagare la manodopera
dell’altro (art. 940).

Il possesso di buona fede dei beni mobili


Il possesso dei beni mobili può determinare l’acquisto istantaneo della proprietà, nel momento
stesso in cui lo si consegue. Tale principio permette una più rapida circolazione dei beni mobili,
offre la possibilità di un acquisto a titolo originario laddove v’è un ostacolo che impedisce un
acquisto a titolo derivativo (possesso vale titolo). Il principio si manifesta in due ipotesi:

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1) acquisto di cosa mobile da non domino: colui il quale acquista un bene mobile da non
domino ne diviene proprietario mediante possesso, purché in buona fede e purché sussista
un titolo idoneo al trasferimento di proprietà (art. 1153). Il titolo idoneo è un contratto,
improduttivo dell’effetto traslativo solo perché il dante causa non è proprietario del bene
alienato.
2) Alienazione della stessa cosa mobile a più persone: nel caso qualcuno alieni a più persone
una stessa cosa, diviene proprietario colui che per primo in buona fede ha conseguito il
possesso della cosa, anche se il suo contratto è successivo a quello di altri (art. 1155). È una
applicazione del precedente principio.
In entrambi i casi la proprietà si acquista libera da ogni altrui diritto, a meno che non vi fosse
menzione nel titolo di alienazione.
Con l’applicazione di tale principio il compratore è libero da una possibile remora a comprare,
compra senza il rischio di dover restituire la cosa ad un terzo che se ne dimostri proprietario. Tale
vantaggio si riflette sul venditore, facilitato a vendere. In taluni casi è dunque sacrificato l’interesse
del proprietario per una sicura, ampia e rapida circolazione dei beni mobili.
Negli stessi modi descritti si acquistano altri diritti reali su cose mobili, oltre alla proprietà (uso,
usufrutto) e il pegno. Mediante possesso non sono acquistabili i beni mobili registrati ai pubblici
registri e le universalità di beni mobili, i primi perché rispondono ad un tenore giuridico simile a
quello degli immobili, i secondi perché non sono destinati alla circolazione.

Usucapione
L’usucapione è l’acquisto della proprietà a titolo originario, mediante il possesso prolungato nel
tempo, per cui, al protrarsi di una situazione di possesso da parte di un non proprietario, accade che
il proprietario non possessore perde il suo diritto di proprietà, e il possessore non proprietario
acquisisce il diritto. È irrilevante per l’usucapione, il fattore della buona o mala fede, che influisce
solo per il fattore della durata, più lungo per l’usucapione in mala fede. Occorre però che il
possesso della cosa sia goduto alla luce del sole, quindi in caso di possesso in mala fede, come nel
caso del ladro, il tempo utile per l’usucapione comincia decorrere dal momento in cui cessa la
violenza o la clandestinità (art. 1163). L’art. 1153 stabilisce che compiuta l’usucapione , i diritti
sulla cosa eventualmente costituiti dall’antico proprietario, non sono più opponibili anche se
trascritti. Se diritti vengono costituiti dall’antico proprietario in pendenza dell’altrui possesso
occorrerà distinguere: se il possessore ha posseduto la cosa come libera, non saranno a lui
opponibili, se la cosa è stata posseduta come gravata dal diritto altrui, questo sopravvive
all’usucapione.
Il fondamento dell’usucapione è una esigenza di ordine generale che è quella di eliminare le
situazioni di incertezza circa l’appartenenza dei beni, assicurando la certezza dei diritti sulle cose,
eliminando una possibile remora alla circolazione della ricchezza.
L’usucapione vale a semplificare la prova in giudizio del diritto di proprietà. La prova sarebbe
difficile soprattutto per gli immobili, in quanto bisognerebbe provare a ritroso ogni trasferimento a
titolo derivativo che il bene ha subito. L’usucapione rende necessaria la prova solo per il tempo
necessario per acquistare la proprietà a titolo originario, e se si possiede da tempo minore si può
sommare il proprio tempo con quello del dante causa.
Il tempo necessario per usucapire una cosa varia a seconda del tipo di bene: di regola servono venti
anni per gli immobili e per le universalità di beni (artt. 1158-1160), dieci anni per i beni mobili
registrati (art. 1162). Quando un immobile sia stato acquistato in buona fede da non proprietario,
con titolo idoneo al trasferimento e debitamente trascritto, in buona fede, bastano dieci anni dalla
data della trascrizione, in questi casi per i beni mobili registrati bastano tre anni dalla trascrizione.
Per le cose mobili non registrate, se conseguite in buona fede ma senza titolo, si acquista la
proprietà dopo dieci anni, se il possesso è stato conseguito in mala fede, ne sono richiesti venti di
anni (art. 1161).
Oltre che il diritto di proprietà, si acquistano per usucapione anche degli altri diritti reali, anche gli
altri diritti reali su beni mobili ed immobili (superficie, usufrutto, servitù). La durata del possesso di
tali diritti è la stessa richiesta per usucapire la proprietà.

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Capitolo ottavo
I DIRITTI REALI SU COSA ALTRUI

Concetto di diritto reale su cosa altrui


Sono, come la proprietà, diritti reali, ma la loro esistenza è presupposta all’esistenza di un diritto di
proprietà sulla cosa, il cui titolare è un altro soggetto. Questi sono: superficie, usufrutto, uso,
abitazione, enfiteusi e servitù, sono anche detti diritti reali, minori o parziari.
Questo tipo di diritti reali hanno la naturale tendenza a ridurre il contenuto del diritto di proprietà,
del titolare della cosa, sottraendo a questo, a seconda del diritto reale minore, talune facoltà.
Possono esistere sulla stessa cosa, più diritti reali minori, questo grazie al diverso contenuto di
ciascuno (ex: usufrutto e servitù sul medesimo fondo, esercitati rispettivamente da soggetti
differenti).
La natura di tali diritti, come reali minori, si manifesta nel fatto che essi hanno per oggetto la cosa,
dunque permangono e sono opponibili, anche quando cambia la persona del proprietario, o perché
la cosa è stata venduta o perché è passata per successione all’erede, i diritti reali seguono la cosa
nella sua circolazione. Si dice a tal proposito che il diritto reale su cosa altrui ha diritto di sequela o
seguito, cioè è opponibile a tutti i successivi proprietari, i quali quindi sono tenuti a rispettarlo,
salvo che l’acquisto non sia avvenuto a titolo originario.
Il diritto di sequela è comunque comune a taluni diritti personali di godimento della cosa altrui,
come la locazione, e perciò non spiega definitivamente l’essenza di tali diritti, la differenza risiede
nella diversa legge di circolazione che caratterizza i diritti reali minori, in quanto suscettibili di
possesso e di acquisto a titolo originario. Essendo dunque suscettibili a possesso, essi sono
riconosci, oltre che come diritti, anche come potere di fatto del titolare sulla cosa, difeso con azioni
possessorie.
I diritti reali minori, sono un numero chiuso, cioè sono considerati tali solo quelli espressamente
definiti dalla legge, ciò significa che i privati non possono crearne altri. Il favore legislativo è solo
per la piena proprietà, ed ogni diritto reale su cosa altrui viene considerato come una eccezione alla
regola, che va confinata entro precisi limiti dalla legge. Questa è una concezione che perfettamente
risponde alla politica economica seguita dall’ordinamento, che intende favorire al massimo la
circolazione della ricchezza, la costituzione di diritti reali parziari, sulla proprietà non è quindi un
ostacolo, ma quanto meno una remora all’acquisto e alla circolazione della proprietà stessa. Il
favore per la piena proprietà si esplica anche nel carattere temporaneo che hanno alcuni diritti reali
su cosa altrui, come l’usufrutto, o nel favore che incontra ad esempio l’affrancazione dell’enfiteusi,
che si concretizza nel favore dato al superamento delle situazioni di coesistenza di più diritti sulla
medesima cosa.
I diritti reali su cosa altrui, sempre in considerazione dello sfavore legislativo, sono prescrittibili: si
estinguono per non uso in seguito a venti anni (art. 954, 970, 1014, 1073).
L’azione giudiziale in difesa dei diritti reali su cosa altrui è l’azione confessoria, contrapposta a
quella di negazione, di cui può fare uso il proprietario, contro chi vanti diritti reali minori su un suo
bene. L’azione confessoria mira al riconoscimento del diritto reale minore sulla cosa, contro
proprietario o terzo che ne abbia contestato l’esistenza. Mira inoltre all’ordine di cessazione, da
parte del giudice di eventuali turbative o molestie e se è necessario, la riduzione in pristino (art.
1079).
Quando un diritto reale su cosa altrui si estingue avviene la c.d. consolidazione, la proprietà si
riespande e diventa nuovamente piena. Una generale causa di estinzione è la confusione, avviene
quando proprietario della cosa e titolare di un diritto reale su cosa altrui, sulla cosa stessa, si
riuniscono nella stessa persona, a causa ad esempio di una successione ereditaria, il diritto minore si
estingue e la proprietà riacquista la sua pienezza.

Il diritto di superficie
È il diritto di edificare o mantenere sul suolo o sottosuolo altrui una propria costruzione (artt. 952
comma I, 955). Il contratto intervenuto tra proprietario del suolo e superficiario, che determina la
costituzione del diritto di superficie, vale a sospendere il principio di accessione. Il superficiario è
proprietario della costruzione ed inoltre possiede il diritto di superficie sul suolo altrui, il secondo

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soggetto coinvolto è proprietario del fondo. Si costituisce il diritto di superficie anche quando il
proprietario di un a costruzione alieni questa, ma non il fondo su cui si trova (art. 952 comma II),
l’alienazione della costruzione determina la costituzione del diritto di superficie a favore
dell’acquirente.
Il diritto di proprietà può essere costituito in perpetuo o a tempo determinato, nell’ultima ipotesi al
sopraggiungere della scadenza rientra in vigore il principio di accessione (art. 953). Il diritto di
superficie a tempo determinato è utilizzato soprattutto in relazione a costruzioni di durata
relativamente breve, cosicché il superficiario potrà acquistare il diritto ad un prezzo minore.
Il diritto di superficie può avere per oggetto anche la costruzione su edifici preesistenti, riguardando
dunque solo la porzione di superficie da occupare con la sopraelevazione.
La prescrizione del diritto avviene dopo venti anni, ma tale principio non vale una volta che il
superficiario abbia costruito, il ventennio di prescrizione comincia a decorrere o se il titolare del
diritto non costruisce o dalla data di demolizione della costruzione.
La legge n. 865 del 1971 prevede un particola tipo di superficie a tempo determinato, ai fini della
politica urbanistica, per cui i suoli espropriati e destinati all’edilizia, non vengono venduti ai
costruttori, ma viene venduto loro il diritto di superficie per un tempo determinato. Il costruttore
così paga per il suolo un prezzo più basso che influisce positivamente sul costo di mercato degli
edifici. Tale politica è poco utilizzata in Italia, soprattutto perché le costruzione vengono edificate in
modo tale da sopravvivere appena al termine del diritto di superficie, oltre al fatto che la
manutenzione è scarsa all’avvicinarsi della scadenza.
Il codice civile non permette la costituzione del diritto di superficie sulle piantagione che
appartengono al proprietario del suolo (art. 956).

L’usufrutto
È un diritto costituibile su bene mobile, immobile e su universalità di beni altrui, ed ha un contenuto
molto vasto.
a) facoltà di godere della cosa, ossia di utilizzarla per il proprio vantaggio, con le eventuali
accessioni, nel rispetto della destinazione economica impressa dal proprietario (art. 981)
b) Facoltà di fare propri i frutti, naturali come i frutti del raccolto(art. 984) o come i parti della
mandria (art. 994) o civili, come i proventi ottenuti da l’usufrutto di un capitale o di una
azienda (art. 2561).
L’usufruttuario non raggiunge la pienezza delle facoltà del proprietario perché egli non ha potere
sulla destinazione economica della cosa, potere che resta al proprietario, che eventualmente può
vendere la cosa.
Le spese e le imposte relative alla cosa sono ripartite tra proprietario ed usufruttuario. Al
proprietario spettano le spese di straordinaria amministrazione e le imposte che gravano sulla
proprietà (artt. 1005-1009), all’usufruttuario spettano le spese per la manutenzione ordinaria e le
imposte che incombono sul reddito (artt. 1004-1008).
L’usufrutto perdura finché è in vita l’usufruttuario, non è trasmissibile agli eredi, se questi è persona
fisica, oppure si estingue dopo trenta anni se titolare è una persona giuridica (art. 979).
L’usufruttuario può cedere il suo diritto con atto tra vivi, ma il diritto del nuovo usufruttuario
sopravvive fino alla morte del precedente titolare.
L’usufrutto può essere costituito per atto volontario, contratto o testamento, oppure può trattarsi di
usufrutto legale, imposto cioè dalla volontà della legge. Può acquistarsi ovviamente anche per
usucapione.
Al termine dell’usufrutto, l’usufruttuario dovrà restituire la cosa al proprietario (art. 1001 comma I),
così come l’ha ricevuta, salvo deterioramenti determinati dall’uso (art. 996), giudicando
l’amministrazione della cosa dal punto di vista del criterio del buon padre di famiglia, ossia
dell’uomo medio (art. 1001 comma II). Nel caso delle universalità di beni al momento della
restituzione,queste dovranno essere reintegrate delle cose perite.
Oggetto di usufrutto possono essere anche cose consumabili o cose fungibili, è il caso del quasi
usufrutto, in cui l’usufruttuario deve restituire, al termine del suo diritto, un equivalente di quanto
ricevuto in qualità e quantità (art. 995)

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Uso
Differisce dall’usufrutto per le limitate facoltà di godimento del titolare di tale diritto, infatti egli
può godere dei frutti della cosa, limitatamente alle esigenze della sua famiglia (art. 1021), mentre le
eccedenze vanno al proprietario della cosa. Non è ammessa la cessione del diritto ne la possibilità
di dare in locazione la cosa (art. 1024).

Abitazione
Il diritto reale di abitazione è ancora più circoscritto di uso e usufrutto. Ha per oggetto una casa e
consiste nel diritto di abitare la casa limitatamente ai bisogni della famiglia del titolare del diritto
(art. 1022). Non è ammessa né la cessione del diritto ne la possibilità di dare in locazione la cosa
(art. 1024).

Enfiteusi
È fra i diritti reali minori quello di contenuto più esteso, infatti all’enfiteusi viene riconosciuto un
dominio utile, per l’enfiteuta, ed un dominio diretto, per il nudo proprietario. Con le leggi n. 607 del
1966 e n. 1138 del 1970, l’enfiteusi incontra uno sfavore legislativo, che recentemente ha ridotto
l’uso di questo diritto.
L’enfiteusi è un diritto perpetuo, o se stabilito un termine, questo non deve essere inferiore a venti
anni (art. 958), e può essere trasmesso agli eredi (art. 965).
Ha per oggetto generalmente fondi rustici, ma è applicabile anche a fondi urbani. Sul fondo
l’enfiteuta ha le stesse facoltà di godimento del proprietario (art. 959), ma con due specifici
obblighi:
1) migliorare il fondo
2) corrispondere al nudo proprietario o al c.d. concedente, un canone periodico (art. 960)
l’obbligo del miglioramento del fondo risponde alla funzione economica dell’enfiteusi, in quanto
questa è un diritto che permette ai proprietari terrieri di percepire una rendita dai fondi incolti o
comunque scarsamente produttivi, disinteressandosene.
Dall’altro lato, l’enfiteusi permette all’enfiteuta di acquistare, tramite la sua rendita, il fondo, grazie
all’affrancazione. L’enfiteuta ha infatti la facoltà di acquistare il fondo, pagando al concedente, che
non può opporsi, un prezzo equivalente oggi alla capitalizzazione del canone annuo, moltiplicando
cioè il valore del canone per quindici (prima era per venti). Il concedente perde la proprietà del
fondo, ma percepisce a sua volta una rendita.
Al concedente spetta il diritto di domandare al giudice la devoluzione del fondo, quando l’enfiteuta
non adempie all’obbligo di miglioramento o non paga il canone per due anni (art. 972).

Le servitù prediali
La tradizione le definisce come un peso imposto sopra un fondo, per l’utilità di un altro fondo
appartenente a diverso proprietario (art. 1027). Il peso consiste in una limitazione della facoltà di
godimento di un immobile, detto fondo servente, alla quale corrisponde un diritto del proprietario di
un altro fondo detto dominante.
I due fondi, come nel caso della servitù di acquedotto, non devono essere necessariamente contigui,
l’utilità del fondo può essere anche inerente alla sua destinazione industriale (art. 1028), ma è
necessario che alla servitù equivalga l’utilità di un fondo, e non l’utilità personale del proprietario
del fondo.
Non esiste una sola classificazione di servitù:
a) servitù positive e negative. Le prime consistono in una diretta utilizzazione da parte del
proprietario del fondo dominante, del fondo servente, il proprietario di quest’ultimo a sua
volta è obbligato semplicemente a sopportare, le altrui attività oggetto del diritto. Le
seconde consistono in un obbligo di non fare, da parte del proprietario del fondo servente.
b) Servitù continue e discontinue. Per l’esercizio delle prime non è necessaria alcuna attività
umana, per le seconde è invece necessario un comportamento attivo da parte del titolare
della servitù.

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c) Servitù apparenti e non apparenti. Le prime differiscono dalle seconde poiché sul fondo
servente esistono opere visibili e permanenti, destinate all’utilità del fondo dominante.
Le servitù possono essere costituite per atto volontario, contratto e testamento, oppure
coattivamente. Quest’ultimo caso si ha in casi specifici, quando la legge riconosce al proprietario di
un fondo il diritto di ottenere una servitù,dal proprietario di un altro fondo, il quale però rifiuta la
concessione (art. 1032), la servitù è concessa dall’autorità giudiziaria, che determina anche le
indennità per i fondi serventi, finché il primo non paga l’indennità l’altro non può esercitare la
servitù. La legge riconosce una serie di casi di costituzione coattiva della servitù, come:
1) acquedotto coattivo. Consiste nel diritto di far passare acque sui fondi o sul fondo altrui
(escluse case e giardini), per soddisfare i bisogni del proprio fondo, inerenti i bisogni della
vita del proprietario, o la destinazione del fondo (art. 1033).
2) Passaggio coattivo. Consiste nel diritto di passaggio su fondo altrui, del proprietario del
fondo intercluso, quello che cioè non accede alla strada pubblica, o potrebbe accedervi se
non in seguito a lavori costosi (art. 1051). L’interclusione non va intesa in modo assoluto, è
costituibile un tale tipo di servitù, anche laddove fondi agricoli o industriali abbiano un
accesso alla strada pubblica, insufficiente ai loro bisogni. La servitù è costituibile anche
nella forma di sottopassaggio (art. 1056).
3) Elettrodotto coattivo. È la servitù che spetta alle società di erogazione di un servizio
pubblico, acqua, metano, elettricità ecc… su tutti i fondi situati lungo il percorso delle linee
specifiche. Il fondo dominante è quello su cui passano gli impianti.
In questi ultimi casi la servitù coattiva può costituirsi anche per provvedimento dell’autorità
amministrativa (art. 1032), tali provvedimenti assumono il carattere analogo a quelli delle
espropriazioni per pubblica utilità, con la particolarità che qui si lascia permanere il diritto di
proprietà del titolare sul fondo, gravandola coattivamente con la servitù.
Vi sono poi le c.d. servitù reciproche, in cui proprietari di aree edificabili, costituiscono servitù di
uguale contenuto, generalmente di non edificare, limitandosi a vicenda.
Generalmente le servitù possono acquistarsi per usucapione, fanno eccezione le servitù non
apparenti, le quali, in assenza di strutture visibili e permanenti, non permettono di rendere certo ed
incontrovertibile il possesso della servitù.
Un modo di acquisto esclusivo delle servitù è la destinazione del padre di famiglia. Quando su due
fondi, appartenenti allo stesso titolare, esiste una rapporto analogo al contenuto di una servitù, tale
rapporto permane anche quando il titolare aliena o lascia in eredità uno dei due fondi. Tale modo di
acquisto vale solo per le servitù apparenti.
La prescrizione delle servitù decorre dopo venti anni. Se la servitù è positiva la prescrizione
comincia a decorrere dal momento in cui cessa l’attività di godimento del fondo altrui, per le servitù
negative comincia a decorrere al verificarsi di un fatto che impedisce l’esercizio della servitù.
Le servitù non consistono mai in un fare o in un dare, ma al limite in un non fare o in un sopportare
(art. 1030), l’art. 1030 aggiunge poi: salvo che la legge o il titolo non dispongano diversamente.
Sono le c.d. prestazioni accessorie. Consistono in un dare o in un fare imposto dalla legge o dal
titolo della servitù, imposte al proprietario del fondo servente, con valore strumentale all’esercizio
della servitù.

Gli oneri reali


Sono una categoria che comprende anche le prestazioni accessorie delle servitù, che comprendono
pesi che gravano su un immobile e che consistono in una prestazione di fare o di dare imposta, a
vantaggio altrui, a chi sia proprietario o titolare di un diritto reale sull’immobile. Sono obblighi
accessori alla titolarità di un diritto reale in quanto tale, afferiscono la cosa e la seguono nella
circolazione, per liberarsi dell’obbligo bisogna spogliarsi del diritto sulla cosa. Per il loro carattere
limitativo, sono guardati con sfavore dal legislatore, sono quindi un numero chiuso.

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Capitolo nono
LA COMUNIONE

concetto di comunione
la comunione è la situazione per la quale la proprietà o altro diritto reale spetta in comune a più
persone (art. 1100), sulla medesima cosa esistono diritti di più persone, con uguale contenuto.
Può costituirsi in tre ipotesi:
a) comunione volontaria: dipende dalla volontà dei partecipanti alla comunione, quando ad
esempio più persone comperano lo stesso bene, diventandone comproprietarie.
b) Comunione incidentale: non dipende dalla volontà dei partecipanti, come ad esempio nei
lasciti ereditari di una cosa a più persone.
c) Comunione forzosa: è una fattispecie alla quale non ci si può sottrarre, come ad esempio per
chi voglia abitare in un condominio.
La comunione incidentale differisce da quella forzosa per il fatto che sorge senza che i partecipanti
l’abbiano voluta, ma può sciogliersi per volontà di questi ultimi, la seconda invece è totalmente
sottratta dalla volontà dei partecipanti.
La coesistenza dell’uguale diritto sulla medesima cosa, di più persone si realizza mediante una
ideale divisione in quote della cosa. Materialmente tutti hanno stessi diritti reali sulla cosa, in egual
misura, senza possibilità di separazione delle parti che spettano all’uno o all’altro. Idealmente la
cosa invece viene scomposta in tante quote quanti sono i partecipanti, la quota è una frazione ideale
calcolata aritmeticamente, essa è la proporzione secondo cui ciascun partecipante concorre nei
vantaggi e negli oneri inerenti alla cosa comune (art. 1101 comma II).
In linea di principio le quote sono uguali, ma per volontà delle parti o per legge possono essere
anche disuguali. La presunzione di uguaglianza tra le quota opera invece, laddove più persone
comprano una cosa con quote diverse, se le parti non stabiliscono diversamente, ciascuna avrà sul
bene una quota uguale.
Le facoltà di godimento e amministrazione della cosa comune, spettano ai partecipanti per certi
aspetti in modo individuale, per altri in modo collettivo.
a) uso della cosa comune: in linea di principio spetta separatamente a ciascun partecipante, il
quale non deve alterare la destinazione economica, comportandosi in modo tale da non
impedire l’altrui uso (art. 1102). Non sempre tuttavia la natura del bene consente l’uso
individuale della cosa comune.
b) Amministrazione della cosa comune: spetta collettivamente ai partecipanti che deliberano a
maggioranza di quote (art. 1105). Per le innovazioni e per gli atti di straordinaria
amministrazione occorre la maggioranza del numero di partecipanti, che rappresentino
almeno i due terzi del valore della cosa (art. 1108 commi I e II). Le deliberazioni possono
essere impugnate dai dissenzienti, dinnanzi all’autorità giudiziaria, che le può annullare se
pregiudizievoli per la cosa comune o per gli interessi dei singoli partecipanti.
c) Atti di disposizione della propria quota: ogni partecipante, senza l’altrui consenso, può
costituire altrui diritti sulla sua quota o alienarla (art. 1103).
d) Atti di disposizione dell’intera cosa comune: richiedono il consenso unanime dei
partecipanti (art. 1108 comma II).
Lo stato di comunione è guardato con sfavore dal legislatore, per gli ostacoli che oppone al
mutamento di destinazione dei beni e per la loro circolazione, pregiudicando le possibilità di
maggiore sfruttamento delle ricchezze. L’art. 1111 prevede che ogni partecipante può chiedere in
qualsiasi momento, la divisione della cosa comune, salvo che gli effetti della divisione farebbero
cessare la destinazione della cosa. Il patto di comunione non può eccedere la durata di dieci anni.
La divisione può avvenire in natura, trasformando le quote in entità fisiche, laddove la divisione è
impossibile, si procede o alla sua assegnazione in solitaria ad uno dei partecipanti, che indennizza
gli altri delle loro quote, o si passa alla vendita del bene, con divisione dei proventi proporzionale
alle quote.

Il condominio negli edifici

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Riguarda gli edifici composti da una pluralità di appartamenti, formati ciascuno da un piano o da
una porzione di piano, che appartengono a proprietari diversi. I singoli appartamenti sono oggetto
di proprietà solitaria dei rispettivi proprietari, il suolo su cui sorge l’edificio, i muri maestri, i tetti e
tutte le cose destinate all’uso comune, sono oggetto di comproprietà fra tutti i proprietari degli
appartamenti (art. 1117). può inoltre riguardare le cose comuni a più edifici condominiali
(condominio orizzontale).
Il condominio è un caso di comproprietà forzosa, i proprietari degli appartamenti devono tutti
contribuire, in proporzione al valore della loro abitazione, nelle spese occorrenti per conservazione
e godimento delle parti comuni (art. 1123 comma I). le spese che riguardano cose destinate a servire
in modo diverso o esclusivo alcuni condomini, sono ripartite in maniera proporzionale all’uso.
Le deliberazioni sull’amministrazione, sono prese da una assemblea dei condomini (artt. 1135 e
ss.), se i condomini sono più di quattro è d’obbligo la nomina di un amministratore, se sono più di
dieci deve essere formato un regolamento per l’utilizzo delle cose comuni. Il proprietario
dell’ultimo piano può sopraelevare pagando una indennità ai condomini.
Diversa dalla comunione è la multiproprietà, oggi sfruttata a scopi turistici. Un medesimo
appartamento viene venduto separatamente a più persone che ne possono godere a turno, ciascuna
in un differente periodo dell’anno. Il diritto di ciascun multiproprietario è perpetuo ed indisponibile,
la cosa oggetto è indivisibile, le parti comuni del complesso residenziale sono in condominio. Il d.
lgs. del 9 novembre 1998 n. 427 stabilisce che si può usare nel contratto o nella pubblicità il
termine multiproprietà, solo se l’oggetto è un diritto reale. Il contratto deve avere durata minima di
tre anni, deve essere previsto un prezzo globale, il godimento ternario non può essere inferiore di
una settimana all’anno.

Parte terza
LE OBBLIGAZIONI

Capito decimo
L’OBBLIGAZIONE

Diritto reale e diritto d’obbligazione


Carattere generale della moderna società industriale, dall’ottica del diritto, è la progressiva perdita
di importanza del diritto reale, che era invece di essenziale importanza per il sistema giuridico
preindustriale.
Dei diritti d’obbligazione si suole parlare anche come di diritti di credito, rispetto ai diritti reali
presentano importanti caratteri distintivi:
a) invece che diritti sulle cose si presentano come diritti ad una prestazione personale, ossia ad
un dato comportamento di un soggetto. Questo comportamento può consistere generalmente
in una prestazione di dare o consegnare, in una prestazione di fare o in una prestazione di
non fare.
Alcuni diritti di obbligazione presentano caratteristiche affini con i diritti reali, come la locazione
che assicura il godimento della cosa data in locazione al locatario. Qui non si presentano diritti sulla
cosa, ma la prestazione, da parte del locatore è quella di permettere il godimento o l’uso ad altri
della cosa.
b) I diritti di obbligazione differiscono dai reali, sul carattere dell’assolutezza, sono cioè i
diritti di obbligazione, diritti non assoluti, bensì relativi, spettano al loro titolare, non nei
confronti di tutti, ma solo verso soggetti determinati o quanto meno determinabili.
La relatività del diritto di obbligazione, si manifesta nella differenza che intercorre tra una servitù
negativa ed una obbligazione negativa. Nella prima ipotesi il titolare diritto di servitù potrà opporlo
a tutti i successivi proprietari del fondo oggetto di servitù, al contrario il titolare del diritto di
obbligazione potrà far valere questo solo nei confronti della controparte specifica.
c) I diritti reali godono di una difesa assoluta, tutti i titolari di diritti reali hanno azione in
giudizio contro chiunque contesti il loro diritto. I diritti di obbligazione invece fruiscono di
una difesa relativa, il loro titolare potrà difenderli, con azione in giudizio, solo nei confronti

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della persona dell’obbligato, mentre non può agire nei confronti dei terzi che contestino il
suo diritto, ha bisogno in questo caso della collaborazione dell’obbligato.
A partire dagli anni settanta la giurisprudenza ha esteso ai diritti di credito la tutela aquiliana, un
tempo riservata ai diritti assoluti. Il creditore, il cui diritto sia stato pregiudicato da un terzo, ha
azione nei confronti di questo per il risarcimento del danno e, se possibile, per la reintegrazione in
forma specifica. I diritti di credito sono così oggi considerati diritti patrimoniali protetti.
d) Solo i diritti reali sono suscettibili di possesso e di acquisto a titolo originario. Tale
differenza rispetto ai diritti di credito attiene alla diversa legge di circolazione dei diritti: i
diritti reali si possono acquistare, in quanto suscettibili di possesso, anche a titolo originario,
i diritti di credito solo a titolo derivativo. L’eccezione risiede nel titolo di credito, un
documento in cui si incorpora il diritto di obbligazione, suscettibile di possesso in quanto
bene mobile.

Il rapporto obbligatorio
Nella sua struttura più elementare l’obbligazione si presenta come un rapporto o un vincolo, che
lega un soggetto ad un altro per l’esecuzione di una data prestazione. All’interno del rapporto si
distinguono:
1) il creditore: soggetto attivo, cui spetta il diritto di esigere una data prestazione.
2) Debitore: soggetto passivo, il quale è tenuto ad adempiere la prestazione
3) Oggetto: prestazione dovuta dal debitore al creditore.
I soggetti coinvolti nel rapporto possono essere, su entrambi i lati, più di uno, ma devono essere, al
sorgere del rapporto obbligatorio, soggetti determinati o quantomeno determinabili.
L’oggetto dell’obbligazione deve avere carattere patrimoniale, ossia deve essere suscettibile di
valutazione economica (art. 1174). L’interesse del creditore, alla prestazione, invece può anche non
essere di carattere economico o patrimoniale.
Il carattere patrimoniale della prestazione presenta un carattere analogo al valore economico dei
beni oggetto di diritti reali. In questo si identifica una analogia tra diritti reali e diritti di credito,
compongono nel loro insieme la categoria dei diritti patrimoniali, quali diritti su una cosa o ad una
prestazione, avente valore economico.
Tale categoria di diritti serve soprattutto a distinguere i diritti reali da altri diritti assoluti non
patrimoniali, come quelli della personalità, e a distinguere i diritti di obbligazione da altri diritti
relativi che però mancano del carattere della patrimonialità.
Il patrimonio dunque non è altro che l’insieme di tutti i diritti patrimoniali, reali e di credito, che
appartengono ad una medesima persona. Si parla di patrimonio lordo quando si fa riferimento alla
totalità del patrimonio, è patrimonio netto invece l’ammontare del patrimonio di una persona
detratto dai debiti.
La prestazione può consistere in:
a) dare o consegnare: può consistere nel pagamento di una somma di denaro o nella consegna
di un bene. Una sottospecie è la prestazione di restituzione, particolare in alcuni contratti in
cui è prevista la restituzione dell’oggetto al termine del rapporto.
La prestazione di dare o consegnare può dar vita ad obbligazioni di genere o ad obbligazioni di
specie, a seconda che la cosa sia generica o di specie. Le prime consistono nella consegna di una
cosa specificata solo nel genere, le seconde nella consegna di una cosa determinata nella sua
identità. Per le prestazioni di genere vale la regola per cui il debitore deve prestare cose di qualità
non inferiori alla media (art. 1178). Per le prestazioni di specie vale il principio per cui
l’obbligazione che ha per oggetto un determinata cosa, include una prestazione di fare, quella di
custodirla fino alla consegna (art. 1177).
b) Fare: può determinare due tipi di obbligazione, di mezzi e di risultato. La prima ipotesi
ricorre quando il debitore svolge una determinata attività, senza però garantire al creditore il
risultato, cosa che invece accade nelle obbligazioni di risultato appunto. Esiste una diversa
distribuzione dei rischi nelle due ipotesi, nelle obbligazioni di mezzi questi si riversano tutti
sul creditore, nelle obbligazioni di risultato si riversano sul lato del debitore.
c) Non fare: il debitore si obbliga a non assumere una determinata condotta nei confronti del
creditore.

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d) Contrattare: impone l’obbligo al debitore di concludere un contratto.
Oltre a questi tipi di prestazione, generalmente il debitore, oltre ad adempiere ad una prestazione
principale, può essere obbligato all’adempimento di obbligazioni, della stessa entità, definite
accessorie.
Una generale obbligazione accessoria che coinvolge sia il debitore che il creditore, è quella di
comportarsi l’una verso l’altro secondo le regole della correttezza (art. 1175), nel senso cioè che
l’uno deve cooperare per il soddisfacimento dell’interesse dell’altro. Applicazione specifica è il
dovere di informazione, per cui è necessario informare la controparte di tutti gli eventuali rischi in
cui potrebbe intercorrere.

Obbligazioni con pluralità di soggetti o di oggetti


Quando un’obbligazione presenta più soggetti dal lato del creditore o del debitore, questa può
configurarsi come obbligazione solidale o parziaria.
L’obbligazione può essere solidale sia dal lato attivo che da quello passivo. C’è solidarietà attiva
quando ciascuno dei creditori di un medesimo debitore, può rivolgersi a questo ed esigere
l’adempimento, con la conseguenza che il singolo adempimento prestato libera il debitore nei
confronti dei creditori rimanenti. La solidarietà è invece passiva, quando ciascuno dei debitori del
medesimo creditore, può essere costretto da questo ad adempiere all’intera prestazione,
determinando la liberazione dagli obblighi, degli altri debitori (art. 1292). Nei rapporti interni tra
con creditori e condebitori, l’obbligazione si divide, quindi il creditore che ha riscosso dovrà dare ai
rimanenti la loro spettanza e il debitore adempiente avrà azione di regresso verso gli altri per
ottenere da essi il rimborso della parte da ciascuno dovuta. Le parti di ciascuno si presumono uguali
(art. 1298). Se uno dei debitori è insolvente, la perdita si ripartisce fra tutti gli altri (art. 1299).
Il codice civile menziona altre vicende che possono intercorrere tra condebitore e creditore:
remissione del debito, transazione, il giuramento, la sentenza, la costituzione di mora, ecc… nella
solidarietà passiva per i condebitori e nella solidarietà attiva, per i con creditori, il codice civile
prevede per queste situazioni in linea di massima che si propaghino ai condebitori o ai concreditori
in solido solo le conseguenze favorevoli e non quelle sfavorevoli. Fa eccezione l’interruzione della
prescrizione, in quanto tutti gli atti che interrompono la prescrizione dal lato attivo o dal lato
passivo si propagano agli altri condebitori o ai restanti concreditori. (art. 1310).
L’obbligazione è parziaria quando ciascuno dei creditori di un medesimo debitore (attiva) può
esigere da questo solo la sua parte di prestazione, o quando ciascuno dei debitori di un medesimo
creditore può esigere può essere costretto a pagare solo la sua parte (passiva) onde il creditore per
ottenere l’intero, dovrà agire nei confronti di tutti (art. 1414).
Quanto più sono i debitori, la solidarietà è la regola, la parziarietà è l’eccezione, salvo che le parti o
la legge, non l’abbiano espressamente prevista (art. 1294). Il contrario accade invece quando più
sono i creditori, la solidarietà deve essere prevista, altrimenti l’obbligazione è parziaria. Tali
disposizioni seguono il principio del favore per il creditore, esonerando questo dall’insolvenza dei
debitori.
Quando l’obbligazione ha per oggetto una cosa o un fare indivisibile, essa in tutti i casi sarà
necessariamente solidale, seguendo le stesse regole delle obbligazioni solidali (art. 1317).
L’obbligazione può avere per oggetto due prestazioni tra loro alternative, il debitore si libera
eseguendo l’una o l’altra (art. 1285), e la facoltà di scelta di regola spetta al debitore stesso, salvo le
parti non dispongano diversamente (art. 1286). Se prima della scelta una delle prestazioni diventa
impossibile, l’obbligazione si concentra sull’altra, se questa si estingue, il debitore è considerato
libero da ogni obbligo.

Le fonti delle obbligazioni


Sono fonti, tutti gli atti o fatti che danno origine ad una obbligazione. All’art. 1173 sono menzionate
tre categorie di fonti delle obbligazioni, le più specifiche sono, il contratto e il fatto illecito, la terza
è più generica, indicata come ogni atto o fatto idoneo a produrle, in conformità dell’ordinamento
giuridico.
Il contratto è un accordo tra due o più parti, si qualifica tra le fonti, come fonte volontaria, nel senso
che le obbligazioni per contratto nascono con il concorso della volontà del debitore. Il contratto

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quindi, se si pensa alle funzioni di acquisto dei diritti reali, assume una duplice funzione giuridica,
quella che assolve alla circolazione dei diritti e al tempo stesso fonte di diritti alle altrui prestazioni
personali.
Il fatto illecito è fonte di obbligazione in quanto ogni fatto che determina un danno ingiusto è fonte
di obbligazione di risarcire il danno (art. 2043), è dunque una fonte non volontaria, l’obbligazione
è conseguenza dell’illecito.
La terza categoria, generica, è composta sia da fonti volontarie, come la promessa in pubblico, sia
fonti non volontarie, non qualificabili come fatto illecito.

Capitolo undicesimo
L’ADEMPIMENTO E L’INADEMPIMENTO

L’adempimento delle obbligazioni


L’adempimento è l’esatta esecuzione, da parte del debitore, della prestazione che forma oggetto
dell’obbligazione. Ad esso consegue l’estinzione dell’obbligazione e la liberazione del debitore.
L’esattezza dell’esecuzione deve essere valutata considerando: le modalità dell’esecuzione, il tempo
dell’esecuzione, il luogo dell’esecuzione, la persona che esegue la prestazione, la persona
destinataria alla prestazione, l’identità della prestazione.
Per ciò che riguarda le modalità, il codice civile indica uno specifico principio di valutazione,
secondo cui il debitore, nell’adempiere, deve usare la diligenza del buon padre di famiglia (art.
1176, comma I), ossia la cura e l’attenzione dell’uomo medio che assolve ai suoi impegni. Diverso
è il metro di misura per ciò che riguarda le prestazioni fornite da un professionista, la diligenza va
valutata con riguardo alla natura dell’attività esercitata (art. 1176, comma II), e sarà quella del
medio professionista, allo stesso modo viene misurata la perizia del professionista, costui per essere
considerato adempiente, deve utilizzare la perizia del professionista medio. Se tuttavia la
prestazione richiede la risoluzione di problemi di particolare difficoltà, la responsabilità
professionale per danni è valutata con minor rigore. I criteri di diligenza sono idonei alla
valutazione della prestazione solo nelle obbligazioni di fare, ed in particolare nelle obbligazioni di
mezzi. L’obbligazione va eseguita per intero, il creditore può rifiutare comunque un adempimento
parziale anche quando la prestazione è divisibile, se l’oggetto è la restituzione di una somma di
denaro, il creditore può considerare l’adempimento parziale come acconto o anche considerare il
debitore inadempiente per l’intero. Quando si tratta di titoli di credito, il portatore di una cambiale
o di un assegno, che rifiuti il pagamento parziale offertogli dal debitore, perde per la somma
rifiutata, l’azione di regresso nei confronti dei coobbligati del debitore.
Con riguardo al tempo, la prestazione deve essere eseguita a richiesta del creditore, o se fissato un
termine, alla scadenza di questo. Nel primo caso, il creditore può chiedere l’adempimento in
qualsiasi momento, finché il suo credito non sia estinto per prescrizione. Quando invece, per la
natura dell’obbligazione o per gli usi, è necessario porre una scadenza, questa è decisa dal giudice
in mancanza di accordo tra le parti (art. 1183). Nel secondo caso , il termine fissato si presume a
favore del debitore, salvo che non risulti fissato a favore del creditore o di entrambi (art. 1184). Il
creditore può esigere l’adempimento anticipato solo quando il termine sia fissato a suo favore (art.
1185). Il termine è posto o a data fissa (giorno, mese e anno) o a certo tempo ( a tot giorni, a tot
mesi, ecc…), in questo secondo caso, non conta il giorno iniziale e il tempo scade nell’ultimo
istante dell’ultimo giorno utile.
La prestazione va eseguita nel luogo stabilito dalle parti, se esse non hanno stabilito il luogo,
valgono le regole per cui (art. 1182):
)1 l’obbligazione di consegnare una cosa determinata va adempiuta nel luogo in cui la cosa si
trovava al sorgere dell’obbligazione.
)2 L’obbligazione di pagare una somma di denaro va adempiuta al domicilio del creditore al
tempo dell’adempimento.
)3 Ogni altra obbligazione va adempiuta al domicilio del debitore al tempo
dell’adempimento.
Tenuto ad adempiere è di regola il debitore, ma la prestazione può essere di natura tale per cui
risulti indifferente che ad adempiere sia il debitore o un terzo, come nei casi di consegna di somme

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di denaro o altre cose fungibili. I questi casi il creditore non ha alcun interesse giuridico affinché
l’adempiente sia proprio il debitore, la prestazione di terzi libera dunque il debitore, anche se
eseguita contro la volontà della controparte (art. 1180 comma I). il debitore può rifiutare la
prestazione di terzi solo in due casi, quando cioè ha un obbiettivo interesse a che ad adempiere sia il
debitore in persona (nei casi di consegna di cose infungibili o prestazioni di fare) oppure se il
debitore abbia manifestato la sua opposizione all’adempimento da parte di terzi. In quest’ultimo
caso il creditore ha la facoltà, non il dovere di rifiutare l’altrui adempimento (art. 1180 comma II).
Il creditore che riceve l’adempimento da un soggetto diverso dal debitore, può surrogare a questo i
suoi diritti di creditore nei confronti del debitore, così da diventare l’adempiente creditore del
debitore (art. 1201). L’adempimento è un atto dovuto dal debitore, non un atto di libera disposizione
del suo patrimonio, quindi non importa se al momento del adempimento il debitore sia incapace di
intendere e di volere.
Per ciò che riguarda il destinatario del adempimento, è necessario che questo sia capace di
intendere e di volere, il debitore che adempie all’incapace e non ai suoi rappresentanti si ritiene
liberato solo se prova che quanto ha pagato è stato rivolto a vantaggio dell’incapace.
L’adempimento va rivolto nelle mani del debitore, o di un suo legale rappresentante, o nelle mani di
chiunque sia autorizzato a riceverlo (art. 1188). Se accade che il creditore paghi nelle mani di una
persona, solo apparentemente legittimata, questi è considerato libero se e solo se ricorrono due
condizioni (art. 1189): che l’apparenza sia creata da circostanze univoche, ossia da elementi
obbiettivi, e che il debitore nel pagare fosse in buona fede.
È poi essenziale l’identità della prestazione, il debitore infatti è liberato solo se esegue la
prestazione dovuta, non è liberato se esegue una diversa prestazione anche se di valore uguale o
maggiore. Il creditore può consentire un diverso adempimento da quello dovuto, è l’ipotesi della
così detta datio in solutum o prestazione in luogo dell’adempimento (art. 1197). In questo caso il
debitore è liberato solo quando la diversa prestazione viene eseguita, o se in luogo della prestazione
è stato ceduto un credito, quando questo credito è riscosso (art. 1198). L’adempiente ha diritto alla
quietanza: una dichiarazione cioè che attesta l’avvenuto pagamento, una dichiarazione di scienza
con valore probatorio (confessione) (art. 1199). Chi ha più debiti con lo stesso creditore può
dichiarare quando paga, quale debito estinguere, altrimenti il creditore, nel rilasciare quietanza,
dichiarerà in questa quale debito ritiene saldato. Se nulla viene dichiarato da entrambi valgono i
criteri legali per cui si considerano estinti prima i debiti già scaduti, poi quelli meno garantiti ed
infine quelli di più vecchia data. Il debitore, salvo diversa disposizione del creditore, deve imputare
il suo pagamento prima agli interessi e poi al capitale.

Le obbligazioni pecuniarie
Il denaro, anche chiamato moneta o valuta, è un bene mobile idoneo ad acquistare altri beni o per
procurarsi le altrui prestazioni.
Sono obbligazioni pecuniarie o debiti di valuta quelle che hanno per oggetto la consegna di una
data somma di denaro. Esse si adempiono con la moneta avente corso legale nel paese in cui
avviene il pagamento (art. 1277), se dal momento in cui il debito è sorto e il pagamento la moneta
legale è cambiata, il pagamento avverrà nella nuova moneta ragguagliata al valore della prima. Se
nell’obbligazione è stata dedotta una moneta estera il debitore potrà pagare l’ammontare del suo
debito sia nella moneta estera sia nel suo equivalente in moneta nazionale. Se viene apposta la
clausola effettivo, il pagamento potrà avvenire solo in valuta estera.
Per ciò che riguarda il valore della moneta vale il c.d. principio nominalistico. Per cui la moneta,
agli effetti dell’adempimento, è presa in considerazione per il suo valore nominale non per il suo
potere d’acquisto. Esistono clausole contrattuali grazie alle quali il creditore può prevenire la
svalutazione della moneta, come la clausola Istat, per cui la restituzione del denaro deve tener conto
degli indici di svalutazione stilati dall’Istat, la clausola oro, per cui si fa riferimento ad una data
quantità di oro che si poteva comperare in passato con un determinato capitale, la clausola valuta
pregiata e la clausola merci, per cui si fa riferimento a merci ritenute significative del più generale
livello dei prezzi. L’adempimento di obbligazione pecuniaria si ritiene esatto solo se eseguito con
moneta, il creditore può rifiutare il pagamento in assegno o circolare (datio in solutum), non può
rifiutare se il suo atto è considerato contrario alla buona fede.

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Ai debiti di valuta si sogliono contrapporre i debiti di valore, in cui il pagamento è dovuto come
valore di un altro bene, è il caso del danno da fatto illecito, in questo caso il debitore adempie
pagando una somma di denaro. Il debito di valore in questo caso viene tradotto dal giudice in una
somma di denaro e quindi diviene debito di valuta, ed è retto dai medesimi principi di questo. La
differenza riguarda il periodo antecedente la liquidazione.
Il denaro è un bene produttivo di frutti civili, gli interessi. L’obbligazione di pagare una somma di
denaro che sia liquida ed esigibile, cioè non sottoposta a termine non ancora scaduta, è
accompagnata, salvo diversa disposizione delle parti, da un’obbligazione accessoria, quella di
corrispondere gli interessi, secondo il tasso legale o secondo il tasso più elevato che le parti abbiano
convenuto (art. 1284). Sono i c.d. interessi compensativi, diversi dagli interessi moratori, i primi
vertono su debiti di denaro non sottoposti a termine o su quelli sottoposti a termine scaduto, ma dei
quali il creditore non ha fatto la costituzione in mora del debitore, i secondi sono gli interessi dovuti
dal debitore in mora, anche se in precedenza non dovuti come interessi compensativi.
Il tasso legale di interesse è fissato annualmente dal ministro del tesoro.
I tassi di interesse superiori a quello legale devono essere pattuiti per atto scritto, altrimenti sono
dovuti nella misura legale. Nell’ambito dei prestiti bancari, il tasso è superiore al prevedibile tasso
di inflazione, in modo tale le banche si proteggono dalla svalutazione della moneta, neutralizzando
gli effetti del principio nominalistico.
Non sono di regola dovuti gli interessi composti, gli interessi sugli interessi scaduti, l’art. 1283
prevede che gli interessi composti sono dovuti dal momento della domanda giudiziale con la quale
si chiedono gli interessi già scaduti o per effetto di convenzione posteriore alla loro scadenza,
sempre che si tratti di interessi dovuti per almeno sei mesi.

L’inadempimento delle obbligazioni


Il debitore è inadempiente, se non esegue la prestazione dovuta o se non la esegue esattamente,
ossia nei modi, nei tempi ecc…
Secondo i principi esposti dal codice civile l’inadempimento è considerato un fatto oggettivo: il
fatto, oggettivamente considerato, della mancata o della inesatta esecuzione della prestazione.
Al prodursi del fatto oggettivo dell’inadempimento consegue la responsabilità del debitore, per cui
questi deve risarcire il danno che il suo inadempimento ha cagionato al creditore.
Concorre con questo principio quello per il quale il debitore è ammesso a provare che la mancata
esecuzione della prestazione è stata dovuta ad una impossibilità della prestazione dovuta a causa a
lui non imputabile. Quindi il debitore che non adempia o non adempia esattamente alla prestazione
dovuta è tenuto al risarcimento del danno cagionato, se non prova che l’inadempimento o il ritardo
è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile (art.
1218).
Il debitore inadempiente può liberarsi dal vincolo presentando una duplice prova:
1) deve provare che la prestazione è diventata oggettivamente impossibile, cioè ineseguibile da
un qualsiasi debitore.
2) Deve provare che la prestazione, oggettivamente impossibile, è diventata tale per una causa
a lui non imputabile, indicandola specificamente. Causa a lui non imputabile significa ogni
evento che non fosse prevedibile ed evitabile (caso fortuito o forza maggiore, naturale o
generata da terzo o come l’ordine della pubblica utilità) da parte del debitore, o da parte dei
suoi ausiliari, se questo per l’esecuzione si è servito di terzi (art. 1228).
Per comprendere la portata di tali principi è necessario considerare le diverse serie di prestazioni:
a) per le prestazioni di dare che abbiano per oggetto una cosa di genere (denaro o altre cose di
genere), il debitore sarà sempre responsabile per il mancato adempimento, in quanto non
sarà, mai impossibile la restituzione di una cosa di genere, come il denaro, per cause
oggettive.
b) Per le prestazioni di dare che abbiano per oggetto una cosa di specie, l’impossibilità
oggettiva è realmente possibile, in questi casi il debitore, per liberarsi deve dare la prova che
la prestazione è diventata impossibile per causa a lui non imputabile. Deve innanzi tutto
identificare la causa, perché non restino a suo carico le c.d. cause ignote, e deve dimostrare
che questa era imprevedibile ed inevitabile per lui ed i suoi dipendenti.

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c) Per le Prestazioni di fare, consistenti in prestazioni di mezzi il metro per valutare se il
debitore è adempiente o meno è espresso dall’art. 1176. benché l’impossibilità oggettiva sia
davvero possibile, il fondamento della responsabilità può qui essere la colpa, cioè mancanza
di diligenza, perizia e diligenza dovuta, e l’onere di provare l’inadempimento spetta qui al
creditore.
d) Per le prestazioni di fare, consistenti in un risultato, l’impossibilità può essere sì soggettiva
ma anche oggettiva, il codice affronta le diverse fattispecie in relazione ai singoli contratti,
talvolta confermando l’art. 1128, altre volte riferendosi ad altri principi.
e) Nelle prestazioni di non fare, il problema dell’impossibilità di adempiere non si pone in
quanto ogni fatto compiuto in violazione dell’obbligazione è da considerarsi come atto
volontario del debitore, del quale questi è sempre responsabile.
Il debitore è in dolo quando è volontariamente inadempiente, è invece in colpa se la prestazione è
diventata impossibile per causa a lui imputabile, si parla invece di responsabilità senza colpa o
responsabilità oggettiva quando il debitore risponde dell’inadempimento derivante da impossibilità
soggettiva o oggettiva derivante da cause ignote.
Esiste dunque una ripartizione, fra debitore e creditore, dei rischi per l’inadempimento, ma è
comunque il creditore ad essere privilegiato, in quanto mentre questi corre solo il rischio di una
oggettiva impossibilità dell’inadempimento determinato da cause non imputabili al debitore, che
sono comunque di difficile prova, quest’ultimo corre il rischio di inadempimento dovuto da una
impossibilità soggettiva ed una oggettiva non a lui imputabile. Ciò significa che il sistema giuridico
impone al debitore di adoperarsi il più possibile per non incorrere nell’inadempimento, questo
perché quante più sono le obbligazioni adempiute tanto maggiore sarà il beneficio che ne ricaverà
l’intero sistema economico e di conseguenza maggiore saranno le ricchezze in circolazione,
maggiori i beni o i servizi prodotti.
La ripartizione dei rischi attuata dal codice civile, può entro certi limiti essere modificata dalle
parti, è comunque nullo il patto che preventivamente esonera il debitore da responsabilità per dolo
e colpa grave (art. 1229), ciò non toglie che l’esonero preventivo può riguardare la colpa lieve
(lieve mancanza di diligenza) del debitore, che ha causato l’inadempimento.

Mora del debitore e mora del creditore


La mora del debitore è il ritardo di questo nell’adempiere la prestazione dovuta, ritardo che
potrebbe essere già segno di inadempimento, ma anche sintomo definitivo dell’inadempimento del
debitore o può invece preludere, qualora la natura dell’obbligazione lo consenta, ad un
adempimento tardivo del debitore.
Perché il debitore sia in mora occorre un atto formale che è la costituzione in mora, ossia la
richiesta o intimazione scritta di adempiere, da parte del creditore al debitore (art. 1219 comma I).
questo perché v’è una presunzione per cui il creditore tolleri il ritardo dell’esecuzione, perciò il
debitore è inadempiente solo quando gli viene rivolta la formale richiesta di adempimento.
In taluni casi comunque la costituzione in mora è un atto superfluo, perché il debitore sia in mora:
quando il debitore abbia dichiarato per iscritto di non voler adempiere, quando si tratti di
prestazione sottoposta a termine scaduto da eseguirsi al domicilio del creditore, quando si tratta di
obbligazione da fatto illecito o di non fare. Da precisare il fatto che la mora non è il ritardo colposo,
ma il semplice ritardo.
Questa produce due effetti:
)a aggravamento del rischio del debitore. Qualora, dopo la costituzione in mora, la
prestazione diventasse impossibile, per fatto non imputabile al debitore, questi è
ugualmente responsabile, a meno che non dimostri che l’oggetto della prestazione
sarebbe perito anche nelle mani del creditore (art. 1221).
)b Dopo la costituzione in mora sorge a carico del debitore l’obbligazione di risarcire il
creditore, di una somma di denaro equivalente ai danni arrecati dal ritardo
dell’adempimento. Questa è la c.d. responsabilità contrattuale, che l’art. 1218 disciplina
per l’inadempimento da obbligazione nascente sia da contratto che da altra fonte che non
sia il fatto illecito, per questo infatti si parla di responsabilità extracontrattuale. Il danno

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subito è formato da due componenti (art. 1223): il c.d. danno emergente, ossia la perdita
subita dal creditore, e il lucro cessante, ossia il mancato guadagno.
Fra inadempimento e danno deve sussistere uno specifico rapporto di causalità, è risarcibile cioè
solo il danno che sia conseguenza diretta e immediata (art. 1223) e che sia prevedibile dal debitore
come conseguenza del proprio inadempimento (art. 1225). Il danno non prevedibile, sempre che sia
conseguenza diretta ed immediata dell’inadempimento, è risarcibile solo in caso di dolo del
debitore, ossia di inadempimento consapevolmente perseguito per danneggiare il creditore (art.
1225). Il creditore che con l’ordinaria diligenza avrebbe potuto evitare il danno, esonera il debitore
dalla responsabilità, o quanto meno riduce l’ammontare del risarcimento (art. 1227).
Nel caso di prestazioni con oggetto la consegna di somme di denaro, che non sono mai impossibili,
il debitore, dopo la costituzione in mora è tenuto anche al pagamento degli interessi moratori,
secondo il tasso legale, anche se le parti non avevano convenuto il pagamento di interessi
compensativi. Se erano previsti interessi compensativi, di tasso maggiore a quello legale, gli
interessi moratori saranno investiti dallo stesso tasso di quelli compensativi. Gli interessi moratori
valgono come risarcimento per il ritardo, e sono sempre previsti, a seconda che il debitore in mora
sia responsabile o no. Il creditore può provare di aver subito un danno maggiore rispetto a quello
risarcitogli dagli interessi moratori, magari provocato dalla svalutazione della moneta. In questi casi
il giudice può ordinare un risarcimento del maggior danno calcolato in base al tasso di interesse
relativo al tasso di inflazione. In questo modo il debitore risulta effettivamente risarcito e il debitore
scoraggiato a pagare il più tardi possibile, in previsione i una maggiore svalutazione della moneta.
Il ritardo nell’adempimento può essere causato anche dalla condotta del creditore. La mora del
creditore consiste nell’ingiustificato rifiuto del creditore di ricevere la prestazione offertagli dal
debitore o comunque una condotta del creditore che impossibilita la controparte ad adempiere (art,
1206). Il debitore ha l’obbligo di eseguire la prestazione dovuta e il creditore ha la facoltà di esigere
la prestazione. Tuttavia il rifiuto del creditore può danneggiare il debitore, esponendolo al rischio
che la prestazione diventi impossibile, esponendolo ad ulteriori spese, magari di custodia della cosa
e privandolo del diritto alla controprestazione. L’art. 1206 stabilisce che il creditore deve fare il
possibile affinché il debitore possa adempiere, più che un dovere è un onere in quanto il creditore
che non coopera si espone alle conseguenze della mora.
La costituzione in mora del creditore la effettua con l’offerta della prestazione al creditore (art.
1209) che è offerta reale per le cose mobili da consegnare al domicilio del creditore fatta dal
debitore con un ufficiale giudiziario o un notaio, ed è offerta per intimazione per gli immobili e i
mobili da consegnare in luogo diverso, fatta dal debitore per mezzo dell’ufficiale giudiziario
incaricato della notifica.
All’art 1207 la costituzione in mora del creditore può produrre tre effetti:
a) se la prestazione diventa impossibile è a carico del creditore, il debitore infatti può sempre
pretendere la controprestazione.
b) Non sono più dovuti dal debitore interessi sulle somme di denaro.
c) Sono dovuti dal creditore le spese per la custodia della cosa ed, in generale, il risarcimento
dei danni subiti dal debitore.
d) Il debitore, perdurando il rifiuto, può liberarsi versando la somma di denaro in oggetto in
una banca o le cose mobili nel luogo indicatogli dal giudice, o la consegna dell’immobile al
sequestratario nominato dal giudice (art. 1210). Gli effetti dell’offerta e del deposito si
produrranno solo quando la sentenza del giudice passerà in giudicato, dopo aver accertato
che il rifiuto del creditore era effettivamente ingiustificato (art. 1210 comma II).

Estinzione dell’obbligazione per cause diverse dall’adempimento


L’adempimento è solo uno dei modi di estinzione dell’obbligazione, l’obbligazione si estingue
anche per impossibilità sopravvenuta all’adempimento, non dipendente in alcun modo dal debitore.
L’impossibilità può essere anche solo temporanea (art. 1256), in tale caso l’obbligazione si estingue
solo se il tempo dell’adempimento doveva considerarsi essenziale. Se la impossibilità è parziale il
debitore si libera eseguendo la prestazione rimasta eseguibile.
La novazione è l’estinzione dell’obbligazione per volontà delle parti, mediante la costituzione di
una nuova obbligazione diversa per oggetto o per titolo (art. 1230). L’oggetto può mutare ad

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esempio da una somma di denaro alla consegna di un immobile. Il mutamento del titolo prevede
diverse regole contrattuali, come ad esempio una somma di denaro dovuta a titolo di vendita, viene
novata in una somma da consegnare a mutuo. Non c’è novazione se vengono cambiati i tempi
dell’adempimento. L’obbligazione originaria è la ragione che giustifica la costituzione della nuova
obbligazione, per cui se la prima è dichiarata senza effetto anche la seconda sarà giudicata tale.
La remissione è la rinuncia volontaria del creditore al proprio diritto, può risultare da una
dichiarazione espressa (art. 1236) o dalla volontaria restituzione al debitore del documento dal
quale risulta il credito (art. 1237). Estingue il debito sempre che il debitore entro congruo termine
non vi si opponga (art. 1236), questo in base al principio che nessuno può essere costretto a ricevere
un favore da altri.
Si ha estinzione per confusione quando le qualità di debitore e creditore si riuniscono nella
medesima persona, questo perché non si può essere creditori di se stessi. Non c’è estinzione in caso
di fideiussione, quando cioè il fideiussore diventa egli stesso soggetto passivo, e non si verifica nel
caso di cambiale o di assegno, il debitore a cui viene girato il titolo può a sua volta girarlo ad altri.
Si può infine verificare l’estinzione dell’obbligo per compensazione, quando due persone sono
reciprocamente obbligate, in modo che la prima sia debitrice della seconda e la seconda sia
debitrice della prima. La compensazione è totale quando i due debite sono uguali, parziale quando
ne sopravvive solo il maggiore, e cioè la differenza tra maggiore e minore. La compensazione può
essere:
a) legale, operante per il solo fatto che esistono i presupposti di legge. Si applica fra debiti
omogenei, che abbiano per oggetto entrambi somme di denaro o quantità di cose fungibili
dello stesso genere, liquidi, cioè determinabili nel loro ammontare in denaro, ed esigibili,
cioè non sottoposti a termine già scaduto (art. 1243 comma II). Deve essere eccepita dal
debitore ed opera dal momento in cui i due debiti coesistono.
b) giudiziale, decisa dal giudice. Si attua quando i due debiti siano omogenei ed esigibili ma
uno dei due non è liquido. Il giudice se lo considera di facile e pronta liquidazione, può
dichiarare la compensazione per quella parte di debito che appare sicuramente esistente o
previa liquidazione, per la totalità (art. 1243 comma II). Opera dal momento in cui la
sentenza viene dichiarata (art. 1242)
c) Volontaria, decisa dalle parti ove manchino i presupposti per la compensazione giudiziale e
legale (art. 1252).
La compensazione non opera se il debitore vi abbia previamente rinunciato o nei casi di credito
impignorabile o di altro credito per cui la legge esclude la compensazione (art. 1246).
Sul meccanismo della compensazione legale si basa il contratto di conto corrente. È stipulato da
soggetti tra i quali intercorrono permanenti rapporti di affari, che col tempo determinano una
pluralità di crediti reciproci. L’obbligo è quello di mettere in conto i rispettivi crediti, tra le
reciproche rimesse nel conto si attua la compensazione, al termino di ogni semestre, se non viene
previsto diversamente tra le parti, quello dei due che risulterà creditore dell’altro, potrà esigere da
questi il saldo, salvo che non ne faccia rimessa in conto per un nuovo periodo (art. 1823).

Capitolo dodicesimo
IL CONTRATTO

Il contratto e l’autonomia contrattuale


Il contratto è un atto giuridico idoneo, a svolgere due funzioni, talvolta congiuntamente talaltra
separatamente, è un modo di acquisto di diritti reali e fonte essenziale per la costituzione di
obbligazioni, mediante il quale si acquisisce il diritto all’altrui prestazione. E poi un atto tramite il
quale si possono trasferire i diritti di credito.
L’art. 1321, tenta a suo modo di riassumere i contenuti relativi al contratto, degli artt. 922 e 1173,
dando del contratto una definizione generale. Definisce il contratto come l’accordo di due o più
parti per costituire, regolare o estinguere fra loro un rapporto giuridico patrimoniale. È comunque
una definizione che non contempla la traslazione di diritti reali e di credito.
Particolare essenziale è la patrimonialità del rapporto giuridico, deve cioè avere per oggetto cose, o
prestazioni suscettibili di valutazione economica (requisito sia dei beni, sia delle prestazioni oggetto

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di obbligazione). Tale requisito discende dal fatto che il contratto è un modo di acquisto di diritti
reali, fonte di obbligazione, oppure l’una è l’altra cosa insieme (il contratto di vendita trasferisce la
proprietà e determina l’obbligo del pagamento).
La regolazione del contratto si attua nel codice civile in due serie di norme, una prima riguarda il
contratto in generale (artt. 1321-1469), la seconda serie regola invece i singoli contratti, ossia quella
serie di contratti che nel codice civile o in altre leggi trovano una disciplina particolare, specifica
per ciascun contratto. Questa seconda serie di norme è contenuta in gran parte nel quarto libro del
codice, di seguito alla disciplina generale del contratto (artt. 1470-1986), ma vari contratti sono
regolati anche nel quinto e nel secondo libro. Fra le due serie di norme vige uno specifico rapporto,
che vede la disciplina generale propria di tutti i contratti (art. 1323), le norme particolari invece
valgono solo per gli specifici contratti cui si riferiscono, non è comunque raro che queste deroghino
alle norme generali.
Ciò che per l’art. 1321, costituisce, regola o estingue un rapporto patrimoniale è l’accordo tra le
parti, inteso come la concorde volontà. Un rapporto patrimoniale comunque può costituirsi,
regolarsi ed estinguersi per cause diverse dal contratto, ma questo assume importante rilievo
proprio per il ruolo giocato dalla volontà dell’uomo, l’effetto costituivo o regolatore o estintivo del
rapporto è qui prodotto dalla volontà delle parti interessate. Si trasferiscono, estinguono, regolano e
costituiscono diritti reali in funzione di un accordo tra due soggetti, che si concretizza nell’atto del
contratto, e la stessa cosa accade per i diritti di obbligazione.
L’importanza e la preminenza del contratto, fra i modi di acquisto della proprietà e di altri diritti
come fra le fonti delle obbligazioni, deriva dall’ampio riconoscimento legislativo della c.d. signoria
della volontà, ossia al fatto che la legge riconosce ai privati un ampio potere di provvedere, con
autonomo atto di volontà, alla costituzione, regolazione ed estinzione dei rapporti patrimoniali. Il
contratto occupa ancora oggi una posizione centrale all’interno del sistema del diritto privato,
benché, rispetto al passato, siano stati posti limiti maggiori alla signoria della volontà.
Per definire la preminenza della volontà dei privati si parla di libertà o autonomia contrattuale, che
alla lettera significa darsi da sé la propria legge. Tale autonomia del privato si manifesta sotto un
duplice aspetto, uno negativo ed uno positivo:
a) in senso negativo libertà contrattuale significa che nessuno può essere spogliato dei propri
beni o essere costretto ad eseguire prestazioni a favore di altri contro o indipendentemente
dalla propria volontà. Ciascuno in linea di principio obbedisce solo alla sua volontà e non
può essere vincolato, se la legge non lo consente, dalla volontà altrui. Il contratto non
vincola se non chi ha partecipato all’accordo, coloro i quali cioè che hanno espresso il
proprio consenso alla costituzione, o alla regolazione o alla estinzione di un rapporto
giuridico a carattere patrimoniale. Secondo l’art. 1372, il contratto produce effetti nei
confronti di coloro che non vi hanno partecipato, i terzi, solo nei casi previsti dalla legge.
b) In senso positivo, autonomia contrattuale, significa che ogni privato, può con autonomo atto
di volontà, costituire o regolare o estinguere rapporti patrimoniali, relativamente alla
disposizione dei beni sui quali vantano taluni diritti e relativamente alle obbligazioni, per
eseguire prestazioni patrimoniali a favore di altri. In senso positivo l’autonomia del
contraente si manifesta essenzialmente in tre forme:
1) libertà di scelta fra i diversi tipi di contratto previsti dalla legge, a seconda degli scopi che il
privato intenda perseguire.
2) Libertà di stabilire, entro i limiti disposti dalla legge, il contenuto del contratto (art. 1322).
Ciascuna determinazione inserita dalle parti nel contratto scritto, prende il nome di clausola
o patto. Ogni contratto è costituito da una pluralità, più o meno estesa di clausole, che
generalmente sono indicate da una numerazione progressiva, nel loro insieme formano il
c.d. regolamento contrattuale. Questa libertà si esprime in forme estese in alcuni tipi di
contratto, come quello per la costituzione di società per azioni, dove dà vita ad uno statuto
che regola la composizione e il funzionamento degli organi costitutivi per l’attuazione del
contratto, in altre forme di contratti le clausole sono accompagnate da condizioni generali di
contratto, che regolano in maniera uniforme una intera serie di rapporti contrattuali.
3) Libertà di concludere contratti atipici o innominati, contratti cioè non corrispondenti a tipi
contrattuali previsti dalla legge, ma ideati e praticati nel mondo degli affari. Tali contratti

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sono validi purché siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo
l’ordinamento giuridico (art. 1322 comma II). Tale requisito di validità è la causa. I contratti
atipici sono sottoposti alla disciplina delle norme generali del contratto (art. 1323), sono
regolate per il resto dalle loro clausole contrattuali.
Il contratto è bilaterale quando le parti siano due e necessariamente due, è plurilaterale quando i
contraenti sono più di due. Il concetto di parte, c’è da precisare, non coincide con la persona, ma
con il centro di interessi che aderisce al contratto, per cui è bilaterale ad esempio, anche il contratto
stipulato da due s.p.a.
Sono invece atti unilaterali, le dichiarazioni di volontà di una sola parte, di per sé produttiva, solo
nei casi espressi dalla legge, di effetti giuridici. Gli atti unilaterali costituiscono un numero chiuso,
non vi sono cioè atipicità e sono solo quelli espressamente previsti dalla legge (art. 1987). Questi
non hanno una disciplina generale, ma solo una disciplina particolare relativa ad ogni singolo atto,
rispondono comunque alle norme generali sui contratti, in quanto compatibili (art. 1324).

Contratto e atto unilaterale come negozi giuridici


L’attitudine a produrre effetti giuridici che il diritto riconosce alla volontà umana, è stata riunita in
un concetto, disconosciuto dal codice civile italiano, il negozio giuridico, un genere sopraordinato
al contratto e all’atto unilaterale, che in definitiva vanno a formare due sottospecie. Il concetto di
negozio giuridico discende dall’elaborazione, fatta dalla pandettistica, dei concetti di fatto giuridico
e atto giuridico, il negozio discende in quanto non solo è un fatto volontario dell’uomo con
rilevanza giuridica, ma i soggetti sono permeati dalla volontà di conseguire determinati effetti
tramite quel negozio. Il negozio giuridico è dunque una manifestazione o dichiarazione di volontà
diretta a produrre effetti giuridici, che il diritto realizza come voluti. A seconda del numero delle
parti coinvolte nel negozio, si distinguono negozi unilaterali (testamento,atto di fondazione,
procura, promessa unilaterale,deliberazione e voto), bilaterali (matrimonio e contratti bilaterali) e
plurilaterali (contratti di società, associazione, consorzio). Si distingue poi tra negozi patrimoniali e
non patrimoniali, a seconda che gli effetti siano in qualche modo suscettibili di valutazione
economica.
L’astrazione del concetto di negozio giuridico è stata creata ed inserita dalla dottrina tedesca nel
BGB del 1900, nel primo libro infatti al contratto si fa precedere un titolo chiamato “dichiarazione
di volontà”. Il legislatore italiano ha preferito rimanere fedele al modello francese, regolando come
materia generale solo il contratto, con le applicazioni delle stesse norme all’atto unilaterale tra vivi
a contenuto patrimoniale, in quanto compatibili (art. 1324).
La scelta del legislatore italiano del 1942, risponde ad un metodo di codificazione definito come
metodo dell’economia. È un metodo che ripudia le categorie altamente astratte, più propenso ad
adeguare i concetti alla tipologia economico-sociale. Il codice civile italiano non ha condiviso la
stessa ideologia che ruota attorno al negozio giuridico, imperniata sulla forza creatrice della
volontà, tendendo verso una oggettivazione dello scambio, che sacrifica le ragioni della volontà, per
proteggere la produzione e la circolazione dei beni. La dichiarazione di volontà è poi un concetto
che mal si sposa con un sistema di diritto privato come quello italiano, fondato su principi di
causalità.
Nel nostro linguaggio giuridico comunque il concetto di negozio viene usato nella forma
aggettivata:
a) volontà negoziale: volontà diretta produrre effetti giuridici
b) effetti negoziali: effetti prodotti da una dichiarazione di volontà
c) dichiarazione negoziale: dichiarazione avente contenuto di dichiarazione di volontà.

Requisiti del contratto: a)l’accordo delle parti


L’art 1325 scompone il concetto di contratto in quattro distinti requisiti: l’accordo delle parti, la
causa, l’oggetto, la forma. In relazione ad ognuno poi vengono formulati alcuni principi
fondamentali del contratto in generale.
L’accordo delle parti è l’incontro delle manifestazioni o dichiarazioni dei volontà dei contraenti, il
contratto e concluso, o meglio si perfeziona, quando viene raggiunta piena coincidenza fra le
dichiarazioni di volontà provenienti dalle diverse parti contraenti.

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Il contratto si perfeziona in modo espresso o tacito. Ricorre la prima ipotesi quando la volontà delle
parti viene dichiarata per iscritto oppure oralmente, o con un qualsiasi altro segno, ritenuto valido
considerando lo specifico contratto (nell’asta, l’offerta è fatta per alzata di mano). Ricorre la
seconda ipotesi quando la volontà delle parti non viene dichiarata ma si desume dal loro
comportamento (c.d. comportamento concludente), il loro comportamento corrisponde
all’esecuzione di un dato contratto, e perciò lascia presupporre che esse abbiano voluto concluderlo.
La legge non sempre ammette i casi di tacita manifestazione di volontà: deve infatti essere espressa,
nella delegazione, la volontà di liberare il debitore originario, nell’espromissione, deve essere
espressa la volontà di prestare fideiussione come la volontà di rinunciare all’ipoteca da parte del
creditore.
La volontà può formarsi in modo simultaneo, quando cioè le parti manifestano la loro volontà di
adesione nella stessa unità di tempo. Può formarsi però anche per fasi successive, e le dichiarazioni
dei contraenti in tal caso prendono il nome di proposta ed accettazione. La prima è la dichiarazione
di volontà di chi assume l’iniziativa del contratto, l’accettazione è invece la dichiarazione di
volontà che il destinatario della proposta rivolge, a sua volta al proponente. In virtù della libertà
contrattuale, il destinatario della proposta è libero di accettare o rifiutare, può infatti rispondere
negativamente o non rispondere affatto, né è tenuto a dare spiegazioni per il suo rifiuto (ogni atto di
autonomia contrattuale è incensurabile ed insindacabile).
L’accettazione della proposta vale solo se pienamente conforme alla natura di quest’ultima, se non
è conforme ha la valenza di nuova proposta, e richiede l’accettazione dell’originario proponente
(art. 1326 comma V).
Il contratto è concluso dal momento che chi ha ricevuto la proposta riceve la dichiarazione di
accettazione dell’altra parte (art. 1326 comma I). l’accettazione deve pervenire entro il termine
posto da proponente, in mancanza di termine deve pervenire entro un tempo congruo alla natura del
contratto o agli usi (art. 1326 comma II).
La proposta può assumere la forma di offerta a soggetto determinato, ma anche la forma di offerta
al pubblico, chiunque quindi, in questo ultimo caso, può far pervenire la propria accettazione al
proponente, con la conseguenza che il contratto si perfeziona quando questa arriva al proponente
stesso (art. 1336).
È diverso dalla proposta contrattuale vera e propria, l’invito a proporre. È tale anzitutto una
dichiarazione che non contenga tutti gli estremi essenziali del contratto da concludere, ma vale solo
come invito al pubblico, o a privato, a formulare proposte contrattuali o comunque ad iniziare
trattative contrattuali. Una specifica forma di proposta contrattuale è l’adesione di nuove parti,
quando sia consentita l’adesione, ad un già formato contratto plurilaterale. La richiesta di
ammissione deve essere rivolta all’organo costituito per l’adesione del contratto, o in mancanza a
tutti gli organi contraenti (art. 1332).
Fino al momento in cui il contratto non è concluso, le parti conservano la propria autonomia
contrattuale, possono cioè in qualsiasi momento, ritirare la proposta, prima che pervenga
l’accettazione, e ritirare l’accettazione prima che questa pervenga al proponente (art. 1328). La
conoscenza di proposta e accettazione, quanto quella della loro revoca, è da considerarsi
conoscenza presunta, va cioè considerata la conoscibilità di queste, esse si presumono conosciute
quando pervengono all’indirizzo del destinatario, il quale è ammesso comunque a provare d’essere
stato, senza sua colpa, impossibilitato ad averne avuto notizia (art. 1335).
La proposta può essere dichiarata dal proponente come ferma o irrevocabile per un dato tempo. Il
destinatario può entro questo tempo accettarla o non accettarla e il proponente non può revocare la
proposta, che rimane per lui vincolante, così formulata, sino al termina da lui stesso prefissato (art.
1329). L’utilità della proposta irrevocabile è evidente, il destinatario infatti fruisce di un lasso di
tempo per decidere se accettare o rifiutare, consapevole che in questo periodo il proponente non
modificherà la proposta, ne la girerà ad altri.
Dalla proposta irrevocabile differisce l’opzione per la sua natura di contratto. Si parla infatti di
contratto di opzione quando uno dei probabili contraenti si vincola verso l’altro, e l’altro si limita a
prendere atto, riservandosi l’opzione di accettazione o rifiuto. Il patto di opzione produce a carico
dell’obbligato gli stessi effetti della proposta irrevocabile, ma con la differenza che è valido anche
se non è stato prefissato un termine per l’accettazione, che potrà essere poi stabilito dal giudice (art.

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1331 comma II). Talvolta chi acquista per contratto la facoltà di opzione, paga all’altro contraente
un corrispettivo, che è il controvalore dell’utilità che l’altrui impegno irrevocabile procura e che
non dovrà essere restituito anche in caso di mancata accettazione. L’opzione, in quanto contratto,
può essere ceduta, chi la consegue ha, a differenza del destinatario di proposta ferma, la facoltà di
negoziarla.
Particolari tecniche di formazione dell’accordo riguardano:
a) i contratti con obbligazione del solo proponente. Il silenzio del destinatario della proposta è
considerato come tacita accettazione, il contratto si perfeziona se entro il termine previsto
per la natura dell’obbligo o dagli usi, il destinatario no rifiuta la proposta (art. 1333). La
norma è valida solo per i contratti con effetto obbligatorio e non reale, non è applicabile ai
contratti formali.
b) I contratti che ammettono esecuzione prima della risposta dell’accettante. Per l’art 1327 il
proponente può chiedere, oppure la natura del contratto o gli usi possono permettere che la
prestazione della controparte sia eseguita senza preventiva risposta. Il contratto è concluso
nel tempo e nel luogo in cui ha avuto inizio la esecuzione. Qui c’è accettazione tacita per
fatto concludente, quale è l’iniziata esecuzione della prestazione.
Gli atti unilaterali recettizzi, rivolti a persona determinata, producono effetti dal momento in cui
giungono a conoscenza del destinatario, con valenza di presunzione di conoscenza (art. 1334).

Continua: i limiti dell’autonomia contrattuale


I limiti imposti all’autonomia contrattuale sono menzionati gia nella norma generale del contratto
all’art. 1322, derivano comunque da un tipo di società come la nostra, la cui economia
essenzialmente fa perno sull’industria e la produzione in serie, oltre al fatto che vi è un grande
intervento pubblico nella legislazione dei rapporti di mercato.
Nel nostro sistema i limiti all’autonomia contrattuale appaiono alquanto estesi e si manifestano
sotto un duplice aspetto, talvolta limita solo uno dei contraenti, procurando vantaggi all’altro, in
altri casi tendono a limitare l’autonomia contrattuale di entrambi.
La prima ipotesi ricorre soprattutto nei contratti in serie, distinti dai c.d. contratti isolati. È contratto
isolato quello frutto di trattative intercorse tra le parti, nelle quali ciascuna discutono delle clausole
che andranno a formare il futuro contratto, sono frequenti questi contratti soprattutto nei casi in cui
le parti si trovano su un piede di parità economica. È contratto in serie o standard o di massa, il
contratto interamente predeterminato da una delle parti, e l’atra può solo prendere o lasciare, non
può cioè trattare alcuna clausola. Il contratto in serie ubbidisce alle esigenze di regolare in modo
uniforme i rapporti contrattuali con i consumatori dei prodotti o con gli utenti dei servizi. L’aspetto
giuridico del fenomeno si manifesta nella efficacia che la legge attribuisce alle condizioni generali
di contratto. Sono condizioni contrattuali predisposte da un solo contraente, volte ad essere efficaci
per tutti i contratti che verranno in futuro conclusi, sono efficaci nei confronti dell’altro contraente
quando questo le conosce o avrebbe dovuto conoscerle usando l’ordinaria diligenza (art. 1341
comma I). non è necessaria dunque conoscenza effettiva, ma mera conoscibilità dell’altro
contraente ai fini dell’efficacia del contratto.
Il consumatore o l’utente è dunque nei confronti della controparte che predispone il contratto, una
parte debole, che la legge in qualche modo protegge. Il secondo comma dell’art 1341 prevede
alcune eccezioni al primo comma: devono essere approvate per iscritto le c.d. clausole vessatorie o
onerose, condizioni cioè che stabiliscono a favore di colui che le ha predisposte, limitazioni della
responsabilità, facoltà di recedere dal contratto o di sospendere l’esecuzione, o sanciscono a carico
dell’altro contraente decadenze, limitazioni alla facoltà di opporre eccezioni, restrizione della
libertà contrattuale nei rapporti con terzi, tacita proroga o rinnovazione del contratto, clausole
compromissorie o deroghe alla competenza della autorità giudiziaria.
Per il contratto in serie spesso sono predisposti moduli o formulari prestampati che vengono
riempiti con i dati del contraente e gli estremi del contratto mancanti nel modulo. A favore del
contraente debole è previsto che le clausole aggiunte a penna o a macchina prevalgano su quelle
stampate, anche se cancellate.
A volte il limite dell’autonomia contrattuale è previsto a carico del contraente forte, a protezione del
debole, è il caso, previsto dal codice, dell’obbligo di contrattare del monopolista. Chiunque eserciti

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una impresa in condizioni di monopolio legale è obbligato a contrattare, con chiunque richieda le
prestazioni che formano oggetto dell’impresa, osservando parità di trattamento. Il limite
dell’autonomia contrattuale, investe qui la scelta se concludere o meno il contratto, la scelta è libera
per l’utente, ma non per l’imprenditore, che è tenuto ad accettare le proposte del consumatore o
quanto meno a motivare il proprio rifiuto. È tenuto alla parità di trattamento, cioè la soddisfazione
delle varie richieste non risponde all’arbitrio del monopolista, bensì all’ordine delle richieste o
quanto ai criteri di maggiore urgenza o necessità.
In altri casi appare limitata, a protezione di superiori interessi, la libertà contrattuale di entrambe le
parti. Il caso è quello della determinazione autoritativi dei prezzi dei beni di largo consumo o delle
tariffe di servizi pubblici, stabiliti dal comitato interministeriale prezzi. Gli interessi protetti sono
quelli connessi alla direzione pubblica dell’economia. L’aspetto giuridicamente più significativo del
fenomeno sta nel fatto che le condizioni contrattuali imposte dalla pubblica autorità, concorrono
direttamente a formare il contenuto del contratto. Caso analogo si ha quando una clausola apposta
dalle parti sia contraria ad una norma imperativa, cioè non derogabile dalla volontà delle parti, in
questo caso la clausola è considerata nulla e sostituita con la norma imperativa (art. 1419, comma
II).
Il contratto risulta a questo punto, non più semplice manifestazione di volontà dei contraenti, bensì
risultato di più componenti, che costituiscono le fonti del regolamento contrattuale, il contratto
infatti obbliga le parti, non solo in relazione a quanto ivi espresso (volontà delle parti), ma anche a
tutte le conseguenze che ne derivano secondo la legge, o in mancanza secondo gli usi e l’equità.
L’equità non è fonte di diritto oggettivo, è invece una valutazione di fatto effettuata dal giudice nei
casi previsti dalla legge, ad integrazione delle valutazioni delle parti. Usi ed equità hanno carattere
suppletivo, laddove manchino espresse disposizioni delle parti o della legge. Il carattere suppletivo
dell’equità, è solo normale, sussistendo casi nei quali essa configura come equità correttiva essendo
il giudice chiamato ad esercitare un vero e proprio potere correttivo dell’autonomia privata.
Diversi dagli usi, sono le clausole d’uso o usi contrattuali, che si intendono inserite nel contratto,
anche se risulta che non sono state volute dalle parti.
Infine le clausole di stile sono clausole meccanicamente ripetute in moduli contrattuali a stampa, o
dal notaio nel redigere contratti per atto pubblico. Ciascuno dei contraenti è ammesso a provare che
una data clausola del modulo a stampa da lui sottoscritto, sebbene inserita, era da lui non voluta.

b)La causa
Altro requisito essenziale per la validità del contratto e dell’atto unilaterale (visto il richiamo all’art
1324) è la causa (art. 1325). La causa è la funzione economica-sociale dell’atto di volontà, o come
la definisce la relazione che accompagna il codice civile, la giustificazione dell’autonomia privata.
Il bene o il diritto in generale, non si trasferisce e l’obbligazione non sorge, se manca una causa,
una giustificazione economico-sociale dell’atto di autonomia contrattuale. Così la causa della
vendita (art. 1470), è lo scambio di cosa contro prezzo, la cosa dunque non passa solo in virtù del
fattore soggettivo che è la volontà, ma in funzione della ulteriore ragione oggettiva, che al
trasferimento del bene dal venditore al compratore, corrisponde l’obbligazione di quest’ultimo di
pagare il prezzo. Le reciproche obbligazioni dei contraenti, diventano una la giustificazione
dell’altra.
Per i contratti che non siano onerosi, cioè che non consistono in scambio di prestazioni (contratti a
titolo gratuito), come la donazione, la giustificazione di una prestazione unilaterale, risiede nello
spirito di liberalità della parte che compie la prestazione, la quale per generosità, per affetto ecc…
arricchisce la controparte. La giustificazione è dunque in questi casi la liberalità del donante, come
tale accettata dal donatario.
I contratti tipici, proprio perché disciplinati dalla legge, hanno tutti una causa, la c.d. causa tipica, e
per essi non si pone il problema, già positivamente risolto dalla legge, di accertare la ricorrenza o
no di una funzione economico-sociale. Per ciascuno di questi modelli contrattuali, il trasferimento
del diritto e l’assunzione dell’obbligazione sono direttamente giustificati dalla legge.
Al di là comunque del modello astratto c’è sempre da considerare la concreta realizzabilità del
modello. Un esempio è il contratto di vendita di chi voglia acquistare una cosa già propria, il
modello scelto è astrattamente idoneo al conseguimento dell’obbiettivo, ma non è concretamente

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realizzabile, poiché colui che vende a sé stesso un bene, non riceve alcun prezzo in contropartita,
manca quindi una causa che legittimi l’operazione, e dunque il contratto è nullo.
Per i contratti atipici, il problema della causa si pone sia sotto il profilo astratto sia sotto il profilo
della concreta realizzazione. Per i contratti innominati, sarà il giudice a decidere, se il contratto in
esame è votato a realizzare interessi meritevoli di tutela giuridica. Deve dunque esaminare se nel
contratto che regola gli interessi delle parti, ricorra il requisito della c.d. causa atipica.
Viene dunque riconosciuto un controllo giudiziario alla autonomia contrattuale delle parti, votato
non solo a determinare se gli interessi perseguiti siano illeciti, ma anche a scoprire se gli interessi
che le parti intendono perseguire siano meritevoli di tutela, potendoli non ritenere tali, anche
quando si tratta di interessi leciti. Il giudice è tenuto a giudicare in base all’ordinamento giuridico,
e non per equità, applicherà le norme che regolano casi simili o materie analoghe o, in mancanza, i
principi generali dell’ordinamento giuridico (art. 12 comma II preleggi). Tale potere è conferito al
giudice a protezione degli stessi interessi dei contraenti, in particola del contraente più debole.
La giurisprudenza esige con rigore il requisito della causa, esige cioè la c.d. expressio causae ,
ossia la enunciazione esplicita della causa, escludendo che questa, non emergendo dal contenuto del
contratto, possa rilevarsi da elementi estranei al contratto. La causa deve essere espressa anche
negli atti di liberalità: la causa donandi deve essere resa esplicita con le parole donazione, donante,
donatario o altre equivalenti.
Se il contratti atipico, deriva dalla commistione di più contratti tipici, si avrà il fenomeno della c.d.
causa mista.
Diversi sono invece i contratti collegati, qui non avviene una fusione di contratti, ma ne esiste una
pluralità coordinata, ciascun contratto conservando autonomamente la propria causa, anche se nel
loro insieme mirano a concludere tra le parti una unitaria e complessa operazione economica. Il
collegamento contrattuale determina il fatto che talune vicende che investono un contratto, come la
nullità, possono ripercuotersi sugli altri. Il criterio distintivo tra contratti misti e collegati, è di tipo
sostanziale, ed è dato dall’unità o dalla pluralità delle cause.
Dal requisito della causa discende dunque l’inammissibilità dei contratti astratti, ossia diretti
produrre effetti per sola volontà delle parti, indipendentemente dalla causa. A questo principio si
coordina l’art 1988, per cui la semplice promessa di pagamento o il semplice riconoscimento del
debito sono dichiarazioni unilaterali astratte delle quali non emerge la causa determinante tale
obbligo. La dichiarazione ha un limitato valore poiché dispensa colui a favore del quale è stata fatta
dall’onere di provare il rapporto fondamentale, e cioè la causa. L’esistenza del debito si presume
fino a prova contraria, Si parla di astrazione processuale della causa, per cui l’onere della prova non
ricade su creditore, che deve provare l’esistenza del debito, ma sul debitore che deve provarne
l’inesistenza.
L’astrazione processuale è per legge ammessa per la promessa di pagamento e per la ricognizione
del debito, la si ritiene non ammissibile per il riconoscimento del diritto reale, fuori dai casi previsti
dalla legge (enfiteusi).
Valore analogo ha il contratto di accertamento, che mira all’eliminazione di situazioni di incertezza,
relative a situazioni giuridiche intercorrenti tra le parti, le quali reciprocamente si obbligano ad
attribuire al fatto o all’atto preesistente gli effetti che risulteranno dall’accertamento del contratto.
Tale contratto deve operare su una situazione preesistente tra le parti ed obbiettivamente incerta,
accertato il rapporto giuridico, l’accertamento opera retroattivamente, facendo sì che gli effetti
prodotti dalla fonte originaria siano quelli accertati dal contratto.
Diversi dalla causa sono i motivi del contratto, che sono le ragioni soggettive che spingono le parti
al contratto, e possono essere i più diversi, sia per il creditore che per il debitore. I motivi sono di
regola irrilevanti per il diritto, acquistano rilievo in due casi: nel caso di motivo illecito, e nel caso
di errore di diritto sui motivi.

c)L’oggetto
Dal contenuto del contratto, che è l’insieme delle clausole, apposte per legge o dalle parti, si
distingue l’oggetto, che è la cosa o più in generale, il diritto, reale o di credito, che la una parte
trasferisce all’altra, oppure la prestazione che una parte si obbliga ad eseguire in favore dell’altra.
Di regola, il contratto ha più di un oggetto, come la compravendita, dove oggetto sono la cosa da

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trasferire ed il prezzo pagato dal compratore, è unico l’oggetto nel caso di contratti che
trasferiscono cose o diritti a titolo gratuito o in quelli con obbligazione di una sola parte.
L’oggetto del contratto deve essere possibile, lecito, determinato o determinabile (art. 1346). La
possibilità dell’oggetto fa riferimento appunto alla sua possibilità materiale, è infatti impossibile un
oggetto che non esiste o una prestazione che non è eseguibile (è il caso di cose già perite).
Una cosa attualmente inesistente, può formare oggetto di contratto, se è suscettibile di venire ad
esistenza, è il caso delle cose future, che possono dedursi in contratto qualora la legge non lo vieti
(art. 1348). Si può garantire per fideiussione l’adempimento di una obbligazione futura, mentre è
vietato donare cose future. Il requisito della possibilità fa inoltre riferimento alla possibilità
giuridica dell’oggetto, è infatti impossibile sotto questo aspetto, l’oggetto che non è per legge un
bene in senso giuridico, una cosa cioè che non può formare oggetto di diritti. È ancora
giuridicamente impossibile, l’oggetto che la legge ha dichiarato inalienabile o fuori commercio
(demanio).
L’oggetto deve essere lecito.
L’oggetto del contratto deve essere determinato: la vendita che non permetta una sicura
identificazione della cosa è nulla. Ma l’oggetto, se pur non determinato, può essere determinabile,
in base ai criteri di individuazione espressi nel contratto stesso o altrimenti ricavabili. Così per la
determinazione del prezzo di vendita si può fare riferimento ai listini ufficiali, riferimento
comunque non necessario se si tratta di cose che si vendono abitualmente (art. 1147 comma I).
Altrettanti casi di oggetto determinabile, sono le clausole di rivalutazione monetaria.
Un caso di oggetto determinabile risiede in tutti quei contratti che deferiscano ad un terzo, un non
contraente, la determinazione dell’oggetto; è un caso questo in cui la determinazione dell’oggetto è
aliena dalla volontà delle parti, si tratta di un caso di arbitramento, ed il terzo, un esperto nel settore
di solito, è detto arbitratore. Di regola l’arbitratore deve procedere alla determinazione dell’oggetto,
con equo apprezzamento, ma comunque in questi casi entrambe le parti hanno il diritto di
impugnare dinnanzi al giudice la determinazione del terzo, lamentando che essa è manifestatamene
iniqua o erronea (art. 1349 comma I). le parti possono comunque affidarsi al mero arbitrio del terzo,
colui cioè che non sia un esperto, con possibilità di impugnazione dinnanzi al giudice solo in caso
di prova di mala fede (art. 1349 comma II), ossia il suo intento di favorire una parte a danno
dell’altra.
Gli effetti giudiziari delle due ipotesi sono differenti. Nella prima ipotesi se dichiarata dal giudice
manifestatamene iniqua o erronea, la determinazione passa all’arbitrio dello stesso giudice, che
determinerà con equo apprezzamento. Nella seconda ipotesi l’omissione dell’arbitratore o
l’accertamento della sua mala fede, determineranno la nullità del contratto, salvo che le parti, di
comune accordo, non intendano affidarsi ad un altro terzo soggetto.

d)La forma
Principio generale del moderno sistema dei contratti è la libertà delle forme. I contratti possono, per
regola generale, risultare da dichiarazione espressa o tacita
e i contratti espressi possono a loro volta essere contratti verbali ( o orali) e contratti scritti. È
sufficiente perché il contratto sia valido e produttivo di effetti, che la volontà delle parti sia
manifestata, qualunque sia il modo o la forma della sua manifestazione.
Al generale principio della libertà delle forme fanno eccezione i contratti immobiliari: i contratti
che trasferiscono la proprietà o altri diritti reali sugli immobili o che costituiscono o modificano o
estinguono diritti reali su questi beni, nonché i le locazioni di immobili con durata superiore a nove
anni, devono essere conclusi per atto scritto, pena la nullità del contratto (art. 1350). La legge
comunque impone la forma scritta anche per contratti che non abbiano ad oggetto un immobile, ma
sono solo quelli espressamente voluti dal legislatore (art. 1350 n. 13).
La forma scritta può consistere in atto pubblico o scrittura privata. Il primo consiste nel documento
redatto da notaio a da altro ufficiale giudiziario autorizzato, il quale attesta con le dovute formalità
richieste dalla legge notarile, le volontà dichiarate in sua presenza dalle parti (art. 2699). Il secondo
è il documento redatto e scritto dalle stesse parti, senza la partecipazione di un pubblico ufficiale
alla sua redazione. La scrittura privata può essere autenticata dal notaio, il quale attesta che le parti
hanno sottoscritto il documento alla sua presenza, e perciò che le firme sono autentiche (art. 2703).

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È importante osservare che il requisito della forma scritta è di regola soddisfatto dalla sola scrittura
privata, anche non autenticata. L’autenticazione della scrittura privata, e l’atto pubblico, valgono
solo come speciali mezzi di prova: la prima serve ad autenticare le firme in calce al contratto,
evitando che in seguito una delle parti disconosca l propria firma, il secondo fa prova fino a querela
di falso, di quanto attestato dal notaio (art. 2700). Servono in oltre a formare il titolo per la
trascrizione del contratto nei registri immobiliari.
In alcuni casi l’atto pubblico è richiesto dalla legge pena la nullità del contratto (forma solenne), è il
caso della donazione (art. 782), del contratto di s.p.a. (art. 2332) e di s.r.l. (art. 2475).
Le forme scritte operano, con obbligo, in un campo di materie e casi così ristretto, a causa
dell’intenzione legislativa di favorire al massimo la circolazione dei beni, caricando il meno
possibile i contraenti di oneri formali. È d’obbligo la forma scritta nei contratti immobiliari per
accertare la effettiva volontà del proprietario, di spogliarsi di un proprio bene.
Si deve distinguere la forma scritta richiesta dalla legge, a pena di nullità, dalla forma scritta che la
legge talvolta richiede per la c.d. prova del contratto ( o la c.d. prova documentale). Nei casi in cui
infatti il contratto risulti valido anche in assenza di una forma scritta, se si dovesse presentare
l’eventualità che una delle parti contesti l’esistenza del contratto, sarà ardua per l’altra parte
provarne l’esistenza, in quanto non saranno valide ne le prove testimoniali (art. 2725), ne le
presunzioni (art. 2729), ma potrà essere provato solo con confessione giudiziale dell’altra parte (art.
2730 e 2735) o con il giuramento (art. 2739). La forma scritta è richiesta qui come forma della
prova, non del contratto, quindi un qualsiasi documento che inerisca ad una rapporto intervenuto tra
le parti, con contenuto idoneo al contratto contestato, sarà valido come prova, anche se il contratto
era concluso oralmente o per atti concludenti.

La trascrizione del contratto


La trascrizione del contratto nei pubblici registri è prevista sia per i beni immobiliari, sia per
contratti che hanno per oggetto beni mobili registrati, ed è il mezzo per dare pubblicità al contratto,
per renderlo cioè conoscibile a terzi (art 2643, 2683).
Il contratto, anche se non trascritto, è pienamente valido ed è pienamente efficace tra le parti.
Tuttavia solo la trascrizione del contratto può essere noto a terzi, e quindi ad essi opponibile, il
contratto dunque esce dalla sfera soggettiva delle parti e diventa un fatto giuridico che si considera
noto a tutti, anche a chi lo ignorasse (la c.d. presunzione legale di conoscenza).
Se più persone acquistano un immobile o un bene mobile registrato, ne diviene proprietario colui il
quale per primo ha trascritto il contratto, in quanto è l’unica a poter opporre a terzi il diritto sul bene
(art. 2644).
Per iscrivere un contratto nei pubblici registri è necessario che questo risulti da atto pubblico o da
scrittura privata autenticata (art 2657), se la scrittura privata non è stata autenticata, occorrerà che
venga giudizialmente accertata, ossia dichiarata autentica dal giudice.

Il contratto preliminare
È un contratto con il quale le parti reciprocamente si obbligano reciprocamente, a concludere un
futuro contratto, del quale predeterminano il contenuto essenziale.
Per legge la forma del contratto preliminare deve essere la stessa del contratto definitivo (art. 1351).
Il codice prevede l’evenienza che una delle parti si rifiuti di adempiere al contratto preliminare,
l’altra parte può rivolgendosi al giudice, ottenere, se il contratto preliminare non lo esclude,
l’esecuzione forzata dell’obbligazione di contrattare: il giudice emetterà una sentenza che produce
gli effetti del contratto non concluso (art. 2932). Viene usato tale contratto soprattutto quando le
parti intendono reciprocamente riservarsi l’altrui prestazione, ma si riservano alcuni accertamenti
tecnici.
Una categoria di contratti che prende lo stesso il nome di contratti preliminari, ha una diversa
funzione. Sono contratti definitivi, cioè che hanno già prodotto, in teoria effetti, ma mancanti
ancora dei requisiti necessari ai fini della trascrizione, le parti concludono il contratto, ma si
impegnano reciprocamente a ritrovarsi in un secondo momento per riprodurre il contratto già
definitivo, in un documento avente forma dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata.
Con questi contratti, le parti hanno azione diretta nei confronti della controparte, in quanto il

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contratto è sostanzialmente concluso. Nel caso di perimento della cosa, in caso di compravendita,
anche per cause non imputabili all’alienante, il compratore deve comunque pagare il prezzo della
cosa, a contrario del contratto preliminare vero e proprio.
Altra figura è la minuta di contratto: le parti si accordano su alcuni estremi del futuro contratto, ma
non ancora su tutti. In questo caso se non si raggiunge il successivo accordo sui punti mancanti, non
si potrà fare ricorso all’art. 2932, che precisa che si può ottenere una sentenza sostitutiva del
contratto non concluso solo se possibile, e si dovrà ritenere di essere in presenza di un contratto con
oggetto non determinato, ne determinabile, come tale nullo.
C’è poi il programma di contratto, con cui le parti si impegnano ad istaurare trattative per la
formazione di un possibile contratto, del quale non si è fissato alcun punto essenziale, fissando
tempi e modalità delle trattative che si sono impegnate a condurre.
Programma è minuta assumono rilievo in relazione alla responsabilità precontrattuale.
Se le parti hanno convenuto per la formazione del futuro contratto, una forma non richiesta dalla
legge, questa si presume convenuta per la validità del contratto e non per la semplice prova (art.
1352).

Capitolo tredicesimo
VALIDITA’ E INVALIDITA’ DEL CONTRATTO

Le cause di nullità del contratto


Il contratto è invalido se contrario a norme imperative di legge. L’invalidità comunque può essere di
due tipi, cioè il contratto in contrasto con norme imperative può essere nullo o semplicemente,
annullabile.
Esiste la c.d. nullità virtuale, per cui la nullità del contratto sopraggiunge ogni qual volta questo
esista in violazione di una qualsiasi norma imperativa, ed ha un carattere dunque di portata
generale. L’annullabilità invece ha carattere speciale, ricorre cioè quando sia stata prevista dalla
legge come conseguenza della violazione di una norma imperativa, cosa che non accade per la
nullità (c.d. annullabilità testuale). A tale proposito, dispone l’art. 1418 comma I, per cui il contratto
è nullo quando è contrario a norme imperative, salvo che la legge disponga diversamente. Fra le
ipotesi per le quali la legge dispone diversamente rientrano quelle dell’annullabilità del contratto, e
sono, per i contratti e gli atti unilaterali in generale, l’incapacità di contrattare delle parti (artt. 1425
e s.) e i vizi del consenso (artt. 1427 ss.), il conflitto di interessi fra rappresentato e rappresentante
(artt. 1394 s.) e altre specifiche cause relative ai singoli contratti e atti unilaterali.
Sono norme imperative le norme non derogabili per volontà delle parti, si identificano facilmente
perché non contengono incisi del genere: “salvo patto contrario” o “salva diversa volontà delle
parti”, oppure contengono un inciso del tipo “a pena di nullità”. Si distinguono da queste le norme
dispositive che invece contengono incisi di questo tipo, per indicare una diversa disposizione delle
parti. Sono dispositive comunque tutte quelle norme che, per la natura del sistema di norme entro
cui operano, appare evidente che si tratti di norma derogabile. Fra le norme imperative, la cui
violazione rende nullo il contratto, bisogna includere, oltre che le norme nazionali, anche quelle
comunitarie, e il giudice italiano può dichiarare nullo il contratto se questo viola norme imperative
straniere, nei casi in cui, secondo le preleggi, egli debba applicare il diritto straniero. Sono da
considerarsi imperative le norme penali, il fatto che un precetto sia penalmente sanzionato, esprime
il più alto grado di imperatività, poiché il precetto è posto a salvaguardia di un valore più grande.
Produce nullità, anzitutto, la mancanza di uno dei requisiti essenziali espressi all’art. 1325,
mancanza dell’accordo delle parti, mancanza della causa nei contratti atipici, mancanza
dell’oggetto o della forma se richiesta a pena di nullità.
L’accordo, risultato della concorde dichiarazione di volontà delle parti, si compone di due elementi
costitutivi, due o più dichiarazioni di volontà, mediante le quali ciascun contraente partecipa
all’accordo. In ciascuna dichiarazione di volontà si distingue la volontà che il soggetto forma entro
la propria mente e la dichiarazione, costituita dallo scritto o dalle parole o da altri segni,
giuridicamente validi, mediante i quali la interna volontà si manifesta all’esterno. La sola volontà
interna, non manifestata è irrilevante per il diritto. L’esterna volontà produce effetti, poi, non in

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virtù dei mezzi giuridicamente validi per manifestarla, ma in relazione alla giusta corrispondenza
tra volontà interna e dichiarazione esternata.
Il contratto è nullo per la mancanza del requisito dell’accordo tra le parti, quando nonostante la
dichiarazione contrattuale resa all’esterno, manca l’interna volontà dell’una o di entrambe le parti di
produrre effetti giuridici.
Casi di marginale importanza a tale proposito sono ad esempio la dichiarazione non seria o
l’esemplificazione didattica, ma di rilevante importanza è il caso della violenza fisica, e cioè il fatto
dell’altro contraente o di un terzo che provoca una dichiarazione non voluta, diversa dalla violenza
morale, che invece provoca annullabilità del contratto. Un caso di violenza fisica è quello di chi
firma un contratto in stato si assoluta incapacità di intendere e volere procuratogli dall’altro
contraente o, questo consapevole, da un terzo. Qui esiste una esterna dichiarazione di volontà del
soggetto, ma questa non è voluta dal dichiarante, o almeno non lo sarebbe in uno stato di normalità
psicofisica.
Diversi sono i casi in cui vi è una divergenza fra interna volontà e dichiarazione esteriore, il
dichiarante cioè vuole la dichiarazione, ma questa è per errore (detto errore ostativo), formulata in
modo non corrispondente alla sua interna volontà, oppure è trasmessa in modo errato dalla persona
o dall’ufficio che ne era stato incaricato. A rigore anche in questi casi manca il requisito
dell’accordo, vista la divergenza tra volontà e manifestazione, la legge non ravvisa tuttavia in questi
casina causa di nullità, bensì una causa di semplice annullabilità del contratto, e solo nel caso in cui
l’errore sia riconoscibile dall’altro contraente.
Secondo una categoria sconosciuta al codice civile, ma largamente riconosciuta dalla
giurisprudenza, il contratto oltre che invalido (nullo o annullabile), può essere inesistente. È
inesistente il contratto che non è neppure identificabile come tale, privo cioè del minimo essenziale
affinché un accadimento possa essere c considerato un contratto. V’è differenza tra contratto nullo
e inesistente, poiché quest’ultimo non produce nemmeno quei limitati effetti che il contratto nullo
produce. Occorre, perché il contratto quantomeno possa dirsi esistente, una parvenza esteriore di
accordo, risultante da concordanti dichiarazioni tra le parti.

Il contratto illecito
Il contratto inoltre è nullo per illiceità della causa, per illiceità dell’oggetto, per illiceità dei motivi
(art. 1418 comma II). Qui assume rilievo la contrarietà a norme imperative del risultato che, con il
contratto le parti si propongono di realizzare, sotto il triplice aspetto dell’oggetto che esse hanno
dedotto in contratto, della causa del contratto dei motivi del contratto.
Secondo una formula che l’art. 1343 utilizza per la causa illecita, l’oggetto, i motivi e la causa sono
illeciti se contrari a norme imperative, all’ordine pubblico o al buon costume. Tale formula
legislativa esprime l’esigenza di difesa dei valori fondamentali della società, in difesa dei valori di
natura collettiva, che attengono alla pacifica e civile convivenza fra gli uomini e al loro progresso
economico e sociale, in difesa anche dei valori individuali, relativi alla libertà, sicurezza e dignità
dei singoli. L’atto di autonomia contrattuale che leda questi valori è illecito, e quindi nullo.
La difesa di questi valori è generalmente realizzata con l’espressa formulazione legislativa di norme
imperative che vietano determinati atti o attività. Non è necessaria comunque, in campo civile, una
espressa dichiarazione legislativa di divieto, per la dichiarazione di nullità del contratto per illiceità.
Questo è illecito anche se contrario all’ordine pubblico o al buon costume.
L’ordine pubblico è costituto da quelle norme, anch’esse imperative che salvaguardano i valori
fondamentali della comunità e del singolo, che tuttavia non sono espressamente formulate dalla
legge, ma che per implicito si ricavano dal sistema legislativo: codici e altre leggi ordinarie, e dalla
costituzione.
Con riguardo ad esempio, ai valori collettivi, non esiste un contratto d’assicurazione contro i rischi
di essere scoperto e condannato per i reati che si commetteranno, sarebbe questo un incentivo a
delinquere, attenuando dunque l’efficacia delle norme penali. È la stessa necessità di difesa della
società che rende illecito un contratto del genere. Un esempio invece di difesa dei valori individuali
è rappresentata dal divieto al contratto di boicottaggio, divenuta più energica con l’intervento della
legge anti-trust del 10 ottobre 1990. con il contratto di boicottaggio più imprenditori si
obbligherebbero a non contrattare con determinati terzi o con determinate categorie di terzi. Il

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boicottaggio è, tuttavia, sempre stato considerato illecito, poiché lede principi di ordine pubblico
come, la libertà di iniziativa economica e di religione, e le pari dignità di tutti i cittadini senza
distinzione di razza o di condizione personale.
Il buon costume è costituito da quelle norme imperative, non esplicite, ma ricavabili per implicito
dal sistema legislativo, che comportano una valutazione del comportamento dei singoli, in termini
di moralità ed onestà. Vengono in considerazione molti aspetti della vita sociale in questo campo,
come la sfera sessuale, il costume sportivo, politico e negli affari. Il contratto di buon costume,
sebbene nullo, produce uno speciale effetto (art. 2035): non si è tenuti, come in qualsiasi altro
contratto nullo, a dare esecuzione del contratto, ma non si può ottenere la restituzione di ciò che si
è pagato in esecuzione del contratto. Questo principio vale per ogni contratto dichiarato contrario al
buon costume, anche se la sua illiceità sia espressamente prevista dalla legge.
Con riguardo all’illiceità dell’oggetto, questo è qualificato come tale se la cosa dedotta in contratto
è il prodotto o lo strumento di attività contrarie alle norme imperative, all’ordine pubblico o al buon
costume (vendita di cose di contrabbando, stupefacenti o di materiale pornografico), o quando la
prestazione dedotta è essa stesa, attività vietata.
L’illiceità della causa differisce dall’illiceità dell’oggetto, poiché investe la funzione del contratto. Il
contratto può avere benissimo un oggetto lecito ma una causa illecita, è il caso del contratto che
obblighi ad una prestazione e ad una controprestazione si per sé lecite, ma di cui è proibito lo
scambio. In pratica è comunque difficile identificare queste ipotesi, perciò l’ipotesi di causa illecita
finisce per essere assorbita da quella dell’oggetto illecito o dell’oggetto giuridicamente impossibile.
È meglio spiegare con un esempio: il contratto con cui si assolda un assassino, perché questi uccida
qualcuno in cambio di denaro, è un contratto con oggetto illecito, mentre sarebbe da considerare un
contratto con causa illecita, il contratto di protezione mafiosa, con cui la malavita si impegna a non
uccidere in cambio di denaro, non uccidere infatti è lecito. Questo esempio non è corretto, in quanto
l’attività di non uccidere, non può essere oggetto di obbligazione, neppure a titolo gratuito, poiché
questa rappresenta un comportamento doveroso di ogni soggetto la differenza tra i due esempi non
risiede tra l’illiceità dell’oggetto e della causa, ma tra illiceità ed impossibilità dell’oggetto.
Una serie di ipotesi in cui la legge considera illecita la causa del contratto è quella dei contratti
conclusi in frode alla legge (art. 1344). È in frode alla legge il contratto che costituisce il mezzo per
eludere l’applicazione di una norma imperativa, in quanto le parti mirano a realizzare un risultato
che la legge vieta. Le parti per non incorrere nell’applicazione della norma imperativa che vieta la
realizzazione dei risultati da esse voluti, utilizzano uno o più contratti in sé leciti, in modo da
realizzare, in concreto, un risultato equivalente a quello vietato. La legge ad esempio vieta il patto
commissorio, in base al quale la cosa data in pegno o in ipoteca passa al creditore, in caso di
insolvenza del debitore. Per eludere il divieto le parti utilizzano la vendita con patto di riscatto, per
cui il debitore vende all’altro un proprio bene, per un prezzo pari al suo debito per capitale ed
interessi, non pagato perché compensato dal preesistente debito, se alla scadenza il debitore si
dimostrerà adempiente, eserciterà il diritto di riscatto, altrimenti la cosa rimarrà definitivamente al
creditore.
Il motivo per cui le parti concludono il contratto, di regola giuridicamente irrilevante, diventa
rilevante quando è illecito, ossia contrario alle norme imperative, all’ordine pubblico o al buon
costume. L’illiceità del motivo, per rendere nullo il contratto, deve presentare due requisiti: essere il
motivo esclusivo del contratto, ed essere il motivo comune ad entrambe le parti (art. 1345). Quindi
il contratto è nullo se entrambe le parti lo hanno concluso per un motivo illecito, come il noleggio
di una nave per fare contrabbando ad un prezzo più alto del normale, ne basta che il motivo illecito
di una sia semplicemente noto all’altra parte. Occorre che l’altra parte ne sia partecipe e miri a
trarre personale vantaggio dall’attività illecita che la controparte mira a conseguire.
Eccezione fa la da nozione, ove è sufficiente il motivo illecito del donante, purché sia determinante
della liberalità, e risulti dall’atto (art. 788).

Le cause di annullabilità: l’incapacità di contrattare


Il contratto è annullabile solo nei casi in cui la legge ricollega alla violazione di una norma
imperativa, anziché la nullità, la speciale conseguenza dell’annullabilità. Per ciò che riguarda
l’incapacità di contrattare, questa può presentarsi come incapacità legale oppure solo naturale.

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Sono legalmente incapaci di contrattare coloro che non hanno acquistato la legale capacità di agire
e coloro che avendola acquistata l’hanno successivamente persa: sono i minori di 18 anni (art. 2) e
gli infermi totali di mente che, con sentenza dell’autorità giudiziaria, siano stati interdetti (art. 414),
nonché i condannati all’ergastolo e i condannati ad una pena superiore a cinque anni, in stato di
interdizione legale. Sono ancora incapaci a contrattare in modo parziale, poiché possono compiere
solo atti di ordinaria amministrazione, i minori che per effetto del matrimonio, abbiano conseguito
l’emancipazione (art. 390) e i parziali infermi di mente che, con sentenza siano stati inabilitati (art.
415).
I contratti conclusi dall’incapace legale di agire sono annullabili (art. 1425 comma I), e
l’annullamento può essere domandato al giudice:
a) da chi eserciti la potestà sul minore, o sul minore emancipato, sull’interdetto o
sull’inabilitato
b) dallo stesso minore emancipato o interdetto, una volta raggiunta la maggiore età, o una volta
revocato dall’autorità giudiziaria lo stato di interdizione o di inabilitazione
c) dagli eredi o aventi causa del minore
il contratto del minore non può essere annullato se il minore ha occultato con raggiri, , la sua età
(falsificando un documento), non basta dunque la semplice falsa dichiarazione del minore.
Il contratto concluso dall’incapace di agire, se considerato astrattamente, è un contratto manchevole
della volontà di una parte, punibile con la nullità. In questo caso le esigenze di protezione
dell’autonomia contrattuale sono coordinate con le esigenze attinenti alla sicurezza della
circolazione dei beni e che consigliano di contenere il più possibile i casi di nullità del contratto. Il
contratto è dunque considerato annullabile su istanza dei soggetti espressamente legittimati
all’azione, non solo, tale richiesta è proponibile solo entro cinque anni dalla stipulazione del
contratto o a partire dalla cessazione dello stato di incapacità dell’incapace contraente.
La controparte capace in nessun caso è legittimata a chiedere istanza di annullabilità, poiché
l’annullabilità è disposta a tutela dell’incapace, l’altro non ha alcuna giustificabile ragione per
invocarla.
Diversa è l’incapacità naturale di un contraente giuridicamente dotato di capacità legale (art. 1425
comma II): incapacità di intendere e di volere del maggiorenne affetto da infermità mentale, ma non
interdetto ne inabilitato, oppure lo stato transitorio di incapacità intendere e di volere di un soggetto
al momento della stipulazione di un contratto (ubriachezza, intossicazione da droghe).
La legge, oltre alla prova di infermità del soggetto contraente, esige ai fini dell’annullabilità altri
requisiti, con distinzione tra atti e contratti:
a) gli atti in genere, compresi gli unilaterali, sono annullabili su istanza dell’incapace o di un
erede o avente causa, solo se si prova che dall’atto derivi un grave pregiudizio per
l’incapace (art. 428 comma I).
b) i contratti sono annullabili su istanza dell’incapace o dei suoi eredi o aventi causa solo se si
prova, oltre al pregiudizio per l’incapace, anche la mala fede dell’altro contraente, il quale
conosceva o avrebbe potuto conoscere con ordinaria diligenza lo stato di infermità della
controparte (art. 428 comma II).
La legge considera l’incapacità naturale, non come fattore pregiudizievole per la volontà, ma come
possibile fattore di alterazione della causa dell’atto o del contratto, che è annullabile solo se
concluso per effetto dell’incapacità della parte, a condizioni gravemente pregiudizievoli per essa.
Per i contratti quindi non solo è necessario dimostrare il pregiudizio arrecato all’incapace, ma anche
la mala fede della controparte. In questo modo viene tutelato di chi, ignorandone l’incapacità, ha
contrattato con l’incapace, l’interesse di quest’ultimo infatti viene sacrificato a vantaggio di una
vasta e più sicura circolazione dei beni. Fa eccezione la donazione fatta dall’incapace, che è
annullabile anche quando la controparte fosse ignara dello stato dell’incapace (art. 775).
Se lo stato di incapacità naturale è stato provocato dalla controparte, o da un terzo, con
consapevolezza o meno dell’altro contraente, il contratto non è semplicemente annullabile, bensì
nullo per violenza fisica, e nullo anche in mancanza del grave pregiudizio per l’incapace.

I vizi del consenso: a) l’errore motivo e l’errore ostativo

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Il contratto, o l’atto unilaterale è annullabile se la volontà di una delle parti è stata dichiarata per
errore o carpita con dolo o estorta con violenza (art. 1427).
Questi sono i vizi della volontà o del consenso, e vizio, metaforicamente indica il fatto che la
volontà del contraente è presente, ma è il suo processo formativo ad essere stato alterato, onde la
volontà risulta viziata.
Dell’errore bisogna distinguere due specie, l’errore motivo o errore vizio e l’errore ostativo.
L’errore motivo è quello che sorge nella formazione della volontà, prima che questa venga
dichiarata all’esterno: consiste in una falsa rappresentazione della realtà presente, che induce il
soggetto a dichiarare una volontà che altrimenti non avrebbe dichiarato. Per rendere il contratto
annullabile, deve essere un errore essenziale (art. 1428), cioè deve essere determinante del volere,
tale per cui il contraente se non fosse caduto nell’errore motivo non avrebbe mai concluso il
contratto. È tale l’errore se ricorre una delle quattro ipotesi che la legge prevede all’art. 1429.
l’errore può cadere (ma l’elencazione legislativa è considerata solo esemplificativa):
)1 sulla natura o sull’oggetto del contratto. La natura investe l‘errore sul tipo di contratto che
si intende concludere. L’oggetto del contratto investe invece l’errore che si fa nel dedurre
la cosa o la prestazione del contratto.
)2 Sull’identità dell’oggetto, o sulla sua qualità, che date le circostanze devono ritenersi
determinanti del consenso. È irrilevante l’errore sul valore dell’oggetto, mentre assume
importanza quando il reale valore dell’oggetto venga mascherato con raggiri dalla
controparte o da un terzo, con la consapevolezza della controparte, in questo caso il
contratto è annullabile per dolo ai sensi dell’art. 1439. diverso è l’errore sul prezzo che è
errore ostativo, qui vi è un fraintendimento della proposta dell’offerente, un errore che si
propaga nella dichiarazione di chi ha frainteso.
)3 Sull’identità o sulle qualità personali dell’altro contraente. L’errore sull’identità ricorre
quando un contraente crede di contrarre con un soggetto invece contrae con un altro.
Nell’errore sulla qualità dell’altro contraente ricorre ad esempio quando si crede che questi
goda di un’ottima condizione economica, che invece non possiede. È un errore ricorrente
nei contratti intuitu personae, quando cioè l’identità o le qualità dell’altro contraente siano
determinanti ai fini del consenso. Per i c.d. contratti personali, l’identità o le qualità
personali del contraente sono sempre determinanti del consenso, per questi contratti basta
solo la prova dell’errore sull’identità del contraente, o, esatta l’identità, l’errore sulle sue
qualità personali, non essendo anche determinante l’errore ai fini del consenso, essendo
l’identità del contraente inerente all’essenza stessa del contratto.
)4 Le ipotesi fin ora descritte, interessano i c.d. errori di fatto, determinati da una falsa
conoscenza dei fatti, cose o persone, vi sono poi i c.d. errori di diritto provocati
dall’ignoranza o dalla falsa conoscenza di norme o regolamenti, tali errori cadono sui
motivi del contratto. Sono errori sui motivi rilevanti, quando sono motivi invalidati dalla
dall’ignoranza o dalla falsa conoscenza di una norma di legge o di un regolamento, e
costituiscono la ragione esclusiva o principale del contratto (esempio del terreno agricolo
comperato per edificare).
L’errore sui motivi è irrilevante quando si tratta di errore di fatto. Un eccezione a tale principio è la
donazione (art. 787), qui ha rilievo l’errore di fatto sui motivi, se questo risulta dall’atto e sia stato il
solo motivo che ha determinato la liberalità.
Perché il contratto sia annullabile, l’errore, oltre che essenziale, deve essere riconoscibile, mediante
l’ordinaria diligenza dall’altro contraente (art. 1431), in questo modo viene protetto l’affidamento
dell’altro contraente sulla validità del contratto o più in generale, la sicurezza nella circolazione dei
beni. Nel caso l’errore non sia riconoscibile dalla controparte, il primo soggetto rimane vincolato al
contratto. Vanno considerati a questi effetti, il contenuto e le circostanze del contratto, nonché le
qualità dei contraenti (art. 1431).
L’errore ostativo ricade sulla dichiarazione esterna della volontà, oppure è l’errore commesso dalla
persona o dall’ufficio incaricato di trasmettere la dichiarazione. Nel primo caso l’errore è
commesso dal dichiarante (errore nella quantità o prezzo della merce che si intende vendere o
comprare), nel secondo caso l’errore è commesso da un terzo. L’errore ostativo, come l’errore
motivo, rende annullabile il contratto solo se riconoscibile dalla controparte (art. 1433).

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b) il dolo
si parla di dolo, come vizio del consenso, in senso corrispondente al concetto comune di inganno.
Qui un contraente è indotto in errore dai raggiri usati dall’altro contraente o da un terzo. Se il dolo
è determinante ai fini del consenso, tale cioè che senza il contraente non avrebbe mai aderito al
contratto, il contratto è annullabile (art. 1439 comma I), se invece il dolo non è determinante, ma
incidente, cioè tale che senza dolo il contraente raggirato avrebbe sì aderito, ma ad altre condizioni,
il contratto è valido, ma la controparte è tenuta al risarcimento dei danni subiti dal raggirato (art.
1440). Nel dolo rientra anche l’induzione in errore sul valore dell’oggetto del contratto, caso questo
di errore irrilevante per la legge se non indotto da dolo.
Il raggiro del terzo, perché il contratto sia annullabile, deve essere, come minimo, noto e non solo
riconoscibile, dall’altro contraente che ne ha tratto vantaggio (art. 1439 comma II). Questa è
l’ipotesi propriamente, del terzo che ha un proprio interesse alla altrui conclusione del contratto
(dare false credenziali del proprio inquilino, perché un altro gli dia in locazione la propria
abitazione). La tutela in questi casi ricade sull’altro contraente inconsapevole del raggiro.
Si parla di dolo commissivo, quando l’autore del dolo organizza un artificio, uno stratagemma,
mediante il quale si induce l’altro contraente a prendere per vera una falsa rappresentazione della
realtà.
Si parla di dolo omissivo, quando il contraente sia indotto in errore da un contegno puramente
dell’altro, quando cioè questi omette di fornire informazioni inerenti alla propria situazione
economica o all’oggetto, la cui conoscenza avrebbe scoraggiato il contraente raggirato dal
concludere il contratto. Per il contratto di assicurazione esiste una norma espressa all’art. 1892, per
cui la semplice reticenza dell’assicurato è causa d’annullamento del contratto. Per tutti gli altri
contratti vale il principio secondo il quale le parti devono comportarsi secondo buona fede (art.
1337), e ciò comporta un reciproco dovere di informazione, che verte su tutte quelle circostanze che
investono le parti, determinanti ai fini del consenso dell’altro contraente. Il dolo omissivo è causa di
annullamento del contratto ogni qual volta, date le circostanze, si ritiene che il contraente fosse
obbligato a fornire le informazioni omesse.
Il dolus bonus consiste nelle esagerate vanterie delle qualità del proprio bene o della propria attività
professionale che avvolte accompagnano l’offerta di un bene o di una prestazione. Una persona di
media avvedutezza sa che il più delle volte le caratteristiche vantate dal venditore, ad esempio, non
corrispondono al vero e sono frutto di esagerazione, e poiché il diritto tiene conto del
comportamento dell’uomo medio, nessuno potrà in questi casi chiedere l’annullamento del
contratto.

c)la violenza morale


la violenza morale comporta l’annullabilità del contratto (art. 1427), consiste nell’estorcere il
consenso con la minaccia che, se il consenso non verrà prestato verrà inferto un male alla sua
persona o ai suoi beni oppure alla persona o i beni dei suoi familiari. A differenza della violenza
fisica, qui esiste concretamente la volontà di adesione del contraente al contratto, ma questa viene
data solo perché altrimenti egli rischierebbe di soggiacere ad un male ingiusto.
Il male minacciato può essere un male alla persona, come la minaccia della vita o dell’integrità
fisica, o può essere la minaccia di ledere altri diritti della persona, e può riguardare la persona e i
beni sia del contraente, sia del coniuge o degli ascendenti o dei discendenti. Se riguarda parenti in
via collaterale o affini, o persone che non hanno con il minacciato parentela o affinità,
l’annullamento è rimesso alla prudente valutazione del giudice, che terrà conto delle circostanze del
caso concreto e della relazione che v’è con il minacciato (art. 1436).
Deve trattarsi di male ingiusto (art. 1435), cioè contrario al diritto. Analoga ipotesi è quella della
minaccia di far valere un diritto, in questi casi il contratto è annullabile, solo se la minaccia è diretta
a realizzare un vantaggio ingiusto (art. 1438).
Il male deve essere notevole (art. 1435), deve cioè essere superiore al danno che il contratto estorto
ha prodotto al minacciato. Tale valutazione va ricollegata all’impressionabilità dell’uomo comune,
la minaccia cioè deve essere tale da impressionare una persona sensata, con riguardo all’età al
sesso, e alla condizione della persona (art. 1435).

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La violenza può essere opera di un terzo (art. 1434), ma non è necessario, ai fini dell’annullamento
del contratto, che la minaccia di questo sia nota al contraente che ne ha tratto vantaggio.
Non è causa di annullamento il semplice timore riverenziale (art. 1437), per cui non si dice di no
per la posizione di soggezione psicologica che colui che accetta possiede, nei confronti di una
persona autorevole o potente, o per la particolare relazione che intercorre con essa. L’uomo medio
trova in questi casi il coraggio di dire di no.
Il contratto è annullabile Nel caso il personaggio importante invece, pur senza esplicite minacce,
lasci intendere che dal suo consenso dipenda la sua carriera o la conclusione di un affare a cui
aspira.
Anche l’avvertimento mafioso, ad opera di un esponente della malavita, vale come minaccia e
quindi rende annullato il contratto.

Conseguenze della nullità e della annullabilità


Le conseguenze prodotte da nullità e annullabilità, sono profondamente diverse. A chiedere la
dichiarazione di nullità è legittimato chiunque, anche terzo, che ve ne abbia interesse (art. 1421). A
chiedere l’annullamento invece, è legittimata solo la parte a favore della quale è prevista
l’annullabilità (art. 1441 comma I). può essere chiesta da un qualsiasi soggetto interessato solo nei
casi di interdizione legale, per i condannati all’ergastolo o a pene superiori ai cinque anni (art. 1441
comma II).
La nullità, a contrario della annullabilità, può essere anche rilevata di ufficio dal giudice quando un
contratto è dedotto in giudizio, anche senza l’apposita domanda.
L’azione di nullità è imprescrittibile (art. 1442), l’azione di annullamento è soggetta al termine di
prescrizione di cinque anni (art. 1442 comma I).
Varia il termine di decorrenza della prescrizione: l’incapace legale e la vittima di un vizio del
consenso sono più protetti, giacché la prescrizione decorre dalla cessazione dello stato di incapacità
legale, quale che sia, e dalla data di scoperta del vizio portato dall’altro contraente. Minore è la
protezione in ogni altro caso, in quanto la prescrizione decorre dalla data del contratto (art. 1442
comma III). La prescrizione riguarda l’azione non l’eccezione: può essere chiesto l’annullamento
anche in seguito a cinque anni, se solo dopo questo tempo, eccepita la causa di annullamento, l’altro
contraente domanda esecuzione del contratto (art. 1442 comma IV).
La sentenza che dichiara la nullità del contratto, opera retroattivamente, cioè elimina ogni effetto
del contratto sia fra le parti sia rispetto ai terzi, anche se questi sono in buona fede, ossia ignoravano
le cause di nullità.
La sentenza di annullabilità opera retroattivamente solo tra le parti, e rispetto ai terzi in mala fede,
che conoscevano o avrebbero potuto con ordinaria diligenza conoscere le cause di annullabilità del
contratto, Non pregiudica i diritti acquistati dai terzi in buona fede (art. 1445). Se il terzo ha
acquistato i diritti a titolo gratuito, anche se in buona fede, o se l’annullamento dipende da
incapacità legale, in seguito alla sentenza di annullabilità perde ogni diritto(art. 1445).
Il contratto affetto da una causa di annullabilità può essere convalidato, con l’effetto di sanare il
contratto e di precludere l’azione di annullamento. Può essere sanato in due modi: o con una
espressa dichiarazione di convalida ad opera della parte cui spetta l’azione di annullamento (art.
1444 comma I), oppure in modo tacito, quando la parte cui spetta l’azione di annullamento da
volontariamente esecuzione del contratto (art. 1444 comma II), se in seguito questa domandi
l’annullamento del contratto, la controparte potrà eccepirgli l’avvenuta tacita convalida del
contratto. All’opposto non può essere convalidato il contratto nullo (art. 1423), salva la diversa
disciplina della donazione.
Il contratto nullo è suscettibile di conversione. Accade quando un contratto dichiarato nullo
presenta i requisiti di un altro tipo contrattuale, quando cioè il tipo di contratto, cui quello nullo
presenta i requisiti, è idoneo allo scopo perseguito dalle parti (art. 1424). La conversione del
contratto è applicazione di un più generale principio, quello della conservazione del contratto: la
legge tende finché è possibile ad attribuire effetti ad una dichiarazione di volontà, esprimendo il
proprio favore per la conclusione degli affari. Tale principio si applica anche nei contratti
plurilaterali, in quanto la nullità (art. 1420) o l’annullabilità (art. 1446) della partecipazione al
contratto di una delle parti non comporta nullità dell’intero contratto, se la sua partecipazione al

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contratto non debba, viste le circostanze, considerarsi essenziale e se il contratto può avere
attuazione con le parti restanti.
Le cause di nullità che investono singole clausole del contratto comportano la nullità della clausola
e non dell’intero contratto:
a) quando non si tratti di clausola essenziale, senza la quale le parti non sarebbero giunte al
contratto (art. 1419 comma I).
b) se, in ogni caso, le clausole nulle sono sostituite di diritto da norme imperative di legge (art.
1419 comma II). Si esplica il principio di integrazione del contratto (art. 1374), per cui il
contenuto di questo è determinato, oltre che dalla volontà delle parti, anche dalle
disposizioni di legge.
Alla dichiarazione di nullità o annullabilità segue il diritto delle parti di ripeter le prestazioni
eventualmente eseguite. l’azione di ripetizione si prescrive in seguito a dieci anni. Tale azione è
limitata nel caso di annullamento del contratto per incapacità di uno dei contraenti (artt.
1443-2039), l’altro può ripetere la prestazione solo se dimostra che questa era stata rivolta a
vantaggio dell’incapace, e solo nei limiti di questo vantaggio. La norma è posta a tutela
dell’incapace legale o naturale e si basa sulla presunzione che questi non sia capace di trarre
vantaggio dalla prestazione ricevuta. Il contraente capace per ottenere la restituzione di ciò che ha
dato deve vincere la presunzione, e dimostrare che quanto da lui prestato è andato a vantaggio
dell’incapace.

Capitolo quattordicesimo
EFFICACIA E INEFFICACIA DEL CONTRATTO

Invalidità e inefficacia del contratto


Dall’invalidità del contratto bisogna distinguere la sua inefficacia. Il contratto invalido è anche
inefficace, la sentenza che dichiara la nullità o che pronuncia l’annullamento del contratto, lo rende
improduttivo di effetti, ed elimina anche gli effetti prodotti nel frattempo, salvo, nel caso
dell’annullamento, i diritti acquistati da terzi in buona fede. Può comunque accadere che un
contratto, sebbene valido, sia inefficace, ossia non produttivo di effetti. Le cause che possono
provocare l’inefficacia di un contratto valido, o di sue singole clausole, sono molteplici, e sono
diverse le forme di inefficacia che possono provocare. Un contratto può essere temporaneamente
inefficace, come nei casi di contratto sottoposto a termine, o definitivamente inefficace, come per il
contratto simulato. Esistono forme di inefficacia assoluta, che operano, sia tra le parti, sia nei
confronti dei terzi, e forme di inefficacia relativa, che agiscono solo nei confronti di terzi o
determinati terzi (inopponibilità).
Le cause che producono inefficacia sono a volte cause, dello stesso ordine di quelle che causano
nullità del contratto. Può infatti accadere che la contrarietà del contratto, a norme imperative, trovi
nella legge una sanzione diversa dall’invalidità, quale è l’inefficacia (esempio: vendita immobiliare
conclusa in violazione di una prelazione legale).
Non sono nulle, bensì inefficaci, per l’art. 1341 comma I, le condizioni generali di contratto
predisposte da uno dei contraenti e non conosciute, ne conoscibile dall’altra parte. A rigore,
mancando il requisito fondamentale del consenso di uno dei contraenti, il contratto dovrebbe essere
giudicato nullo, in linea con l’art. 1418 comma II. Allo stesso modo sono considerate le clausole
onerose non approvate per iscritto (art. 1341 comma II).

Termine e condizione del contratto


Per ciò che riguarda le cause di inefficacia che agiscono nel tempo, possiamo distinguere, le cause
di inefficacia iniziale e cause di inefficacia sopraggiunta. Le prime ritardano l’efficacia del contratto
(termine iniziale) o comunque ne rendono possibile, anche se incerta, una successiva efficacia
(condizione sospensiva). Le seconde invece tolgono effetti ad una contratto inizialmente efficace
(termine finale e condizione risolutiva).
L’efficacia iniziale del contratto, può essere subordinata dalle parti, con apposita clausola, al
raggiungimento di un termine, il termine iniziale. I contratti sottoposti a termine iniziale, sono già
perfezionati quando le parti manifestano concordemente la propria volontà, ma la loro efficacia è

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subordinata al sopraggiungere del termine stabilito. Il termine finale invece limita nel tempo
l’efficacia del contratto, cioè il contratto cessa di essere efficace a seguito del raggiungimento del
termine prestabilito, una data o un definito periodo.
La condizione è un avvenimento futuro ed incerto, al verificarsi del quale è subordinata l’iniziale
efficacia dell’intero contratto o di una sua clausola, e questo e il caso della condizione sospensiva,
oppure la condizione determina il cessare degli effetti del contratto o di una sua clausola
(condizione risolutiva). La condizione e il termine, per ciò che riguarda il loro inserimento nel
contratto, producono analoghi effetti, si differenzia però la condizione dal termine, per il fatto che
questa è si un avvenimento futuro, ma di natura incerta, cioè può avvenire, come non avvenire,
stendendo una specie di incertezza sulla efficacia ed inefficacia del contratto (art. 1353).
L’avvenimento futuro deve consistere in un evento che, al momento della conclusione del contratto,
non è ancora accaduto, ma può consistere anche nell’accertamento futuro di un fatto già avvenuto,
del quale non si ha notizia al momento della conclusione del contratto, come nel caso in cui sia
dedotta in condizione la sorte di una cosa data per dispersa.
L’incertezza, a sua volta, può essere di vario grado: può essere incerto sia il sé sia il quando
dell’avvenimento futuro, ma può essere incerto il sé e certo il quando, come nel caso in cui sia
dedotta in condizione la permanenza in vita di una persona ad una fissata data.
Se la condizione non dipende dalla volontà delle parti, si parla di condizione causale, in caso
contrario si avrà una condizione di tipo potestativo, dipendente dal futuro comportamento
volontario di una delle parti. È nullo il contratto sottoposto a condizione meramente potestativa,
cioè consistente nel semplice arbitrio di una delle parti (art. 1355), mancando in questi casi una
volontà attuale nel voler acquistare un diritto o di assumere un obbligazione (ti venderò X se
deciderò di vendere). Se contratti del genere fossero validi uno dei contraenti, si troverebbe in balia
dell’arbitrio dell’altra parte. Quando invece si tratta di condizione non meramente potestativa esiste
una volontà attuale, anche se condizionata, di acquistare un diritto o di assumere un obbligazione.
La condizione, sia essa risolutiva o potestativa, contraria alle norme imperative, all’ordine pubblico
o al buon costume, rende nullo il contratto (art. 1354 comma I).
È impossibile la condizione che consista in un evento irrealizzabile, sia essa irrealizzabile in
assoluto o non realizzabile in concreto, come ad esempio la condizione che consista in un evento
già accaduto. Bisogna comunque fare una distinzione: la condizione impossibile sospensiva rende il
contratto nullo, e il contratto non avrà mai efficacia, mentre una condizione impossibile risolutiva si
considera come non apposta (art. 1354 comma II), il contratto è efficace ma non sottoposto a
condizione.
Finché perdura lo stato di incertezza sul verificarsi o no della condizione, si dice che questa pende.
Le parti si trovano in pendenza della condizione, in uno stato di aspettativa giuridicamente protetto.
Chi ha acquistato un diritto sotto condizione sospensiva, o si è assunto un’obbligazione sotto
condizione risolutiva, può, in pendenza della condizione, compiere atti conservativi (art. 1356). Un
esempio è la richiesta di sequestro conservativo della cosa che forma oggetto del contratto, quando
il richiedente nutra il fondato sospetto che, durante l’aspettativa, l’altro contraente o terzi, possano
pregiudicare le sue ragioni. La stessa aspettativa può formare oggetto di disposizione: chi ha
acquistato un diritto con contratto sottoposto a condizione sospensiva o chi ha alienato un diritto
con contratto sottoposto a condizione risolutiva, può, in pendenza della condizione, alienarlo ad un
terzo, e gli effetti di questo atto di disposizione, sono subordinati anch’essi alla medesima
condizione (art. 1357). Perché il terzo acquisti un diritto condizionato, è necessario che la
condizione, gli sia opponibile, che il contratto convenzionale, cioè, fosse menzionato nel contratto
con il terzo, o in mancanza, che fosse stato trascritto nei registri immobiliari prima del nuovo
contratto. Altrimenti il terzo acquista un diritto incondizionato, e l’alienante dovrà il risarcimento
dei danni al suo contraente per l’inadempimento contrattuale.
In pendenza della condizione le parti devono comportarsi secondo le regole della correttezza (art.
1358). In particolare devono astenersi dai comportamenti che possano rendere impossibile il
verificarsi della condizione, se la parte che ha maggiore interesse perché la condizione non si
verifichi, rende, con la sua condotta, questa impossibile, la condizione si considera come avverata
(art. 1359), la condizione si ritiene come non apposta, e l’altro contraente può senz’altro pretendere
l’esecuzione del contratto.

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Gli effetti dell’avveramento della condizione retroagiscono alla data del contratto (art. 1360), il che
significa che il diritto acquistato sotto condizione, si considera acquisito sin dal momento della
conclusione del contratto (i frutti sono però dovuti solo dal giorno in cui la condizione si è avverata:
art. 1361 comma II), e acquistano piena efficacia gli atti di disposizione compiuti in pendenza della
condizione.
Il codice civile regola solo la condizione volontaria, cioè quella apposta per volontà delle parti (art.
1353). È invece condizione legale, quando è la stessa legge a subordinare l’efficacia del contratto
ad un avvenimento futuro ed incerto. È il caso dei contratti conclusi con le P.A., la cui efficacia è
subordinata all’approvazione da parte delle autorità di controllo. La condizione legale, non ha
effetto retroattivo, ed ad essa non si ritiene applicabile la finzione di avveramento.

La simulazione del contratto


Una causa di radicale e definitiva inefficacia del contratto è la simulazione del contratto. I
contraenti con le loro dichiarazioni, creano solo parvenze esteriori di un contratto, del quale non
vogliono gli effetti (art. 1414 comma I), oppure creano le parvenze esteriori di un contratto diverso
da quello da essi realmente voluto (art. 1414 comma II).
La simulazione può assumere tre forme:
a) simulazione assoluta (art. 1414 comma I). ricorre quando le parti concludono un contratto e,
con separato accordo segreto, detto controdichiarazione, dichiarano di non volerne alcun
effetto. Il loro intento è solitamente quello di creare dinnanzi ai terzi l’apparenza del
trasferimento di un diritto o dell’assunzione di un obbligazione, dell’una rispetto all’altra. È
un intento che può derivare da diverse ragioni, alla simulazione assoluta ricorre solitamente
chi voglia nascondere i propri beni ai creditori, per sottrarli alle loro pretese, o chi voglia
nasconderli al fisco per sottrarli alla tassazione. Alla simulazione si fa ricorso anche per
eludere un divieto di legge o un’obbligazione contrattuale di non fare.
b) Simulazione relativa (art. 1414 comma II). Si ha quando le parti creano l’apparenza di un
contratto diverso da quello che esse realmente vogliono. Si hanno due contratti, quello
simulato, che crea l’apparenza, e di cui le parti non vogliono gli effetti, ed il contratto
dissimulato di cui le parti vogliono gli effetti. I due contratti possono differire per tipo
contrattuale, e possono essere dello stesso tipo, ma con diverso contenuto.
c) Interposizione fittizia di persona. È un tipo di simulazione relativa che investe l’identità
delle parti: nel contratto simulato appare come contraente un soggetto, l’interposto, che è
persona diversa dal reale contraente, l’interponente (esempio: intestazione fittizia di un
bene).
La volontà di concludere un contratto simulato risulta da un apposito accordo di simulazione : la
controdichiarazione. Nel caso della simulazione assoluta le parti dichiarano di non volere gli effetti
del contratto fra esse concluse. Nella simulazione relativa dichiarano di volere, in luogo del
contratto simulato, un diverso contratto.
L’accordo di simulazione, assoluta e relativa, è un accordo quanto meno a due, mentre
nell’interposizione fittizia di persona ci deve essere un accordo quanto meno a tre, giacché oltre ai
contraenti partecipa anche un terzo soggetto. Non basta fare un accordo a due tra interposto ed
interponente, il diretto contraente dell’interposto, se non fosse partecipe della controdichiarazione,
potrebbe chiedere l’esecuzione del contratto dall’interposto stesso.
L’inefficacia è causa di inefficacia solo relativa del contratto: determina conseguenze estremamente
diverse tra le parti e rispetto ai terzi. Fra le parti il contratto simulato è inefficace (art. 1414 comma
I), e se non si tratta di simulazione assoluta, l’inefficacia del contratto simulato comporta l’efficacia
del contratto dissimulato, sempre che sussistano i requisiti necessari per la sua validità (art. 1414
comma II).
Nei confronti dei terzi il contratto simulato può, a seconda dei casi, essere efficace oppure
inefficace. È inefficace rispetto a quei terzi i cui diritti sono pregiudicati dal contratto simulato (art.
1415 comma II), è invece efficace rispetto a quei terzi, che in buona fede, hanno fatto affidamento
sull’apparenza del contratto simulato (art. 1415 comma I, art. 1416 comma I). la prima regola mira
a sventare gli eventuali danni che, con il contratto simulato, sono stati arrecati a terzi. La seconda
regola risponde invece alle esigenze delineate dal principio sulla sicurezza nella circolazione dei

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beni, per cui l’inefficacia del contratto è in opponibile ai terzi. La simulazione inoltre non è
opponibile ai creditori in buona fede del simulato acquirente (art. 1416 comma I). la simulazione
non può essere apposta dai creditori del simulato alienante ai terzi che in buona fede hanno
acquistato diritti dal titolare apparente, prevale quindi tra le due regole quella che vuole una sicura
circolazione dei beni.
Nel caso insorgano conflitti tra i creditori del simulato alienante e i creditori del simulato
acquirente, prevalgono i primi se il loro credito è anteriore all’atto simulato (art. 1416 comma II), in
quanto è necessario che l’affidamento fondato sulla realtà deve prevalere su quello fondato
sull’apparenza.
Per ciò che riguarda la prova della simulazione, le parti non possono dare prova per testimoni o
presunzioni dell’accordo di simulazione tra esse intervenuto, ed in mancanza di prove scritte,
l’unico mezzo è il giuramento o la confessione. I terzi possono provare la simulazione anche per
testimoni, le parti sono ammesse a provare per testimoni solo quando il contratto simulato sia
illecito (art. 1417), allo scopo di favorire la dichiarazione di nullità del contratto.
Le norme sulla simulazione del contratto, valgono anche nel campo degli atti unilaterali destinati a
persona determinata, gli atti unilaterali recettizzi cioè, se sono simulati per accordo fra il
dichiarante e il destinatario della dichiarazione (art. 1414 comma III). Non è possibile parlare di
simulazione per gli atti unilaterali non recettizzi, come la promessa al pubblico, mancando un
determinato destinatario della dichiarazione, con cui stabilire l’accordo della simulazione.

Il contratto fiduciario e il contratto indiretto


Si parla di contratto fiduciario quando la causa del contratto eccede lo scopo che le parti
perseguono con il contratto. L’eccesso della causa rispetto allo scopo risulta da uno specifico patto
intercorso tra le parti (patto fiduciario), che ha lo scopo di riportare il contratto entro i limiti dello
scopo dei contraenti. È il caso della vendita a scopo di mandato a vendere, in cui Tizio vende a
Caio, con il patto che Caio, a sua volta, venda a Sempronio.
Sono questi casi di fiducia cum amico, si parla invece di fiducia cum creditore quando il contratto
fiduciario intercorre tra debitore e creditore, in cui il primo vende un bene al secondo, a patto che,
estinto il debito, il creditore rivenderà il bene al debitore (vendita a scopo di garanzia).
Il contratto fiduciario, a contrario del contratto simulato, mira ad effetti realmente voluti dalle parti.
È in line ad principio, valido ed efficace, e in caso di inadempimento del patto fiduciario, si potrà
agire in giudizio per l’adempimento. Questo tipo di contratto ha efficacia meramente obbligatoria,
non efficacia reale, nel senso che non è opponibile a terzi, e il contraente , che magari ha alienato
un bene sotto contratto fiduciario, potrà essere condannato solo al risarcimento dei danni subiti
dall’altro.
Il contratto fiduciario è nullo quando si rivela essere il mezzo per eludere l’applicazione di una
norma imperativa, rivelandosi come contratto in frode alla legge.
Si parla di contratto indiretto quando un determinato contratto è utilizzato dalle parti, per realizzare
una funzione diversa da quella corrispondente alla sua causa (esempio: cosa venduta ad un prezzo
irrisorio, la vendita assume la forma della donazione). Esso risulta nullo se risulta concluso in frode
alla legge. La differenza con il contratto simulato risiede nel fatto che qui la volontà dei contraenti
non si dissocia tra dichiarazione e controdichiarazione, ma si manifesta in un unico atto di volontà,
da cui traspare il reale intento delle parti.

I contratti tra professionista e consumatore


Nuove cause di inefficacia del contratto sono state introdotte dagli artt. 1469 bis e 1469 sexies, in
esecuzione di una direttiva comunitaria per una maggiore tutela delle esigenze di protezione del
consumatore.
La materia è regolata in riferimento al contratto che intercorre tra:

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a) un professionista: persona fisica o giuridica , privata o pubblica, che nell’ambito della sua
attività imprenditoriale o professionale conclude contratti aventi per oggetto la cessione di
beni o la prestazione di servizi.
b) Un consumatore: persona fisica che si procura per contratto i beni o i servizi del
professionista per utilizzarli a fini estranei alla propria attività imprenditoriale o
professionale, ossia ai fini personali.
Il contratto intercorrente tra soggetti così qualificabili è legislativamente valutato come contratto
con il quale il contraente forte, ossia il professionista, può avvalersi della propria forza contrattuale
per imporre al consumatore, parte debole, condizioni contrattuali, che, a danno del consumatore,
creerebbero uno squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto, violando il dovere di
buona fede.
È definita clausola vessatoria quella che all’interno del contratto provoca il significativo squilibrio
dei diritti e degli obblighi reciproci, inteso lo squilibrio in modo oggettivo, bastando cioè la sua
esistenza, non è infatti richiesto alcun elemento d’ordine soggettivo.
La legge comunque ammette una serie di presunzioni relative, che ammettono la prova contraria del
professionista. Si presumono vessatorie, fino a prova contraria, venti clausole espresse all’art. 1469
bis, e di particolare importanza risultano la n. 1,2,10:
1) escludere o limitare la responsabilità del professionista, in caso di morte o grave danno arrecato
al consumatore a causata di un atto o omissione del primo.
2) escludere o limitare le azioni o i diritti del consumatore nei confronti del professionista o di
un’altra parte, in caso di adempimento inesatto, o inadempimento totale o parziale da parte del
professionista.
10) prevedere l’estensione dell’adesione del consumatore a clausole che non ha avuto la possibilità
di conoscere prima della conclusione del contratto.
La categoria delle clausole vessatorie è comunque aperta, infatti un consumatore è sempre ammesso
a dimostrare che una clausola provochi un significativo squilibrio dei suoi diritti o obblighi, rispetto
a quelli del professionista.
La sorte delle clausole vessatorie è diversa a seconda delle ipotesi, se cioè ricorrono le clausole n.
1,2 o 10, oppure le restanti. Nel primo caso la clausola perde efficacia, negli altri casi è inefficace
solo se apposta unilateralmente dal professionista senza l’approvazione del consumatore. Se il
consumatore sottoscrive un contratto predisposto in precedenza dal professionista, che presenta
clausole vessatorie, sta al professionista dimostrare che le clausole sono state oggetto di trattativa
con il consumatore. L’inefficacia della clausola vessatoria opera a vantaggio del consumatore e può
essere rilevata d’ufficio dal giudice.
Quando una clausola viene identificata come vessatoria, secondo il II comma dell’art. 1341 per
essere efficace deve essere approvata per iscritto dal consumatore, e solo in questo caso assumono
piena efficacia. Tale articolo, sopravvissuto alle nuove norme, ha valenza solo quando il
consumatore non sia consumatore finale, o quando consumatore finale non sia una persona fisica, in
tutti gli altri casi prevalgono le nuove norme.

Capitolo quindicesimo
LA RAPPRESENTANZA

Il contratto in nome altrui


Può accadere che una o entrambe le parti del contratto, siano soggetti diversi dalle parti del
rapporto. È il caso della rappresentanza: un soggetto, il rappresentante, partecipa alla conclusione
del contratto con una propria dichiarazione di volontà, un altro soggetto, il rappresentato, subisce
gli effetti giuridici del contratto concluso dal rappresentante, assumendone i diritti acquistati o le
obbligazioni che ne derivano.
Il potere di rappresentanza può essere conferito volontariamente dall’interessato, nel caso della
rappresentanza volontaria, in altri casi invece deriva dalla legge (art. 1387), come per la
rappresentanza legale dei genitori per il figlio.
Il conferimento della rappresentanza volontaria, sul versante del rappresentato, si considera come
un atto di autonomia del soggetto, il quale preferisce affidare ad altri il compito della conclusione

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del contratto, accettando di restare vincolato all’altrui volontà. Nel caso della rappresentanza legale
invece, non vi è alcun atto di volontà, per cui invece di autonomia si parla di eteronomia.
In entrambi i casi si produce lo stesso effetto, quello per cui gli effetti del contratto concluso dal
rappresentante si producono in capo al rappresentato (art. 1388). Perché ciò accada occorrono delle
condizioni preliminari: il rappresentante deve concludere il contratto in nome del rappresentato,
deve concluderlo nei limiti delle facoltà conferitegli, e deve concluderlo nell’interesse del
rappresentato (art. 1388).
Il rappresentante deve contrattare in nome, oltre che per conto del rappresentato, occorre la c.d.
spendita del nome (contemplatio domini), cioè il contratto deve essere concluso in nome del
rappresentato, e se si tratta di contratto scritto deve essere concluso con la menzione del suo nome
(con formule del tipo: a questo contratto partecipa Tizio in rappresentanza di Caio), o deve essere
sottoscritto in nome del rappresentato (con formule del tipo: Caio rappresentato da Tizio).
Se un soggetto agisce in nome proprio, anziché in nome altrui, il contratto da lui concluso produrrà
effetti nei suoi confronti.
L’effetto rappresentativo è efficace solo se il rappresentante è investito del potere di rappresentanza.
Nella rappresentanza legale questo potere è inerente ad una qualità del rappresentante, quella ad
esempio di genitore o tutore del minore. Nella rappresentanza volontaria, invece, tale potere deriva
da un atto volontario del rappresentato, che è la procura. Questa è un atto unilaterale non recettizio,
con il quale un soggetto investe un altro soggetto del potere di rappresentarlo. È atto unilaterale
non recettizio, poiché è indirizzato ad una generalità di terzi, di fronte ai quali il rappresentato
legittima il rappresentante ad agire in suo nome.
La procura può essere speciale, cioè riguardare la conclusione di un singolo contratto, oppure può
essere generale, investendo una serie determinata di affari (tutti dello stesso tipo), o tutti gli affari
del rappresentato, ed in questo caso la rappresentanza generale assume la stessa estensione della
rappresentanza legale.
La procura deve avere la stessa forma dei contratti o del contratto da concludere (art. 1392).
Può accadere che qualcuno contratti come rappresentante altrui, senza potere di rappresentanza,
oppure che nell’atto di contrattare, ecceda i limiti dei poteri conferitigli. Si parla in entrambi i casi
di falsus procurator, ed in questi casi il contratto concluso non può produrre effetti ne in capo al
falso rappresentante, ne tanto meno alla persona da questi falsamente rappresentata, o rappresentata
in modo eccedente le facoltà conferite al rappresentante. Si tratta dunque di contratto invalido (art.
1398), o meglio, di contratto inefficace, del tutto improduttivo di effetti.
La persona in nome della quale il falso procuratore ha agito, o i suoi eredi, possono però ratificare il
contratto, con un atto unilaterale detto ratifica, destinato a sanare l’originale difetto di potere
rappresentativo di chi ha contrattato. La ratifica può essere sollecitata anche dal terzo contraente, il
quale confidava nella efficacia del contratto, ma nel silenzio dell’interessato si intende negata, ma
se dichiarata ha effetto retroattivo (art. 1399), il contratto ratificato cioè diventa efficace dalla sua
data, che assume a posteriori lo stesso valore giuridico di una originaria procura.
L’inefficacia del contratto, salvo ratifica, tende a sacrificare l’interesse del terzo contraente, a favore
del soggetto cui nome era stato indebitamente speso.
Il terzo contraente può solo rivolgersi al falso rappresentante, per ottenere il risarcimento dei danni,
per aver confidato senza colpa nell’efficacia del contratto (art. 1398), ma deve avervi confidato
senza colpa, e cioè senza negligenza, la legge infatti gli addossa l’onere, nonché il diritto (art.
1393), di accertare l’esistenza dei poteri del rappresentante, nonché la loro estensione. Se egli
poteva,con l’utilizzo dell’ordinaria diligenza, rendersi conto di contrattare con un falso procuratore,
non ha diritto nemmeno al risarcimento del danno.
La responsabilità del falsus procurator è una responsabilità da fatto illecito, che si inquadra nella
più generale categoria della responsabilità precontrattuale. Il danno risarcibile in questi casi è il c.d.
interesse contrattuale negativo, che consiste nel danno provocato dall’infruttuosa contrattazione,
somma corrispondente alla diminuzione del patrimonio che il terzo contraente non avrebbe subito
(danno emergente) e al vantaggio che il contraente avrebbe ottenuto se non avesse contrattato con il
falso procuratore (lucro cessante). Emergono dunque, le spese sostenute per la contrattazione e le
perdite dovute alla rinuncia dei vantaggi derivanti dal contratto non concluso.

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Il rappresentato può sempre revocare la procure o modificarne il contenuto. Revoca e
modificazione della procura sono entrambi atti unilaterali, che il rappresentato ha l’onere di portare
alla conoscenza di terzi. Altrimenti il contratto concluso dall’ex rappresentante è efficace nei suoi
confronti, salva solo la prova che il terzo contraente fosse a conoscenza della revoca o
modificazione del contratto, al momento della conclusione del contratto, o che pur non sapendo,
poteva sapere utilizzando l’ordinaria diligenza (art. 1396).
Il rappresentante deve contrattare nell’interesse del rappresentato (art. 1388), non può cioè
concludere contratti, in nome del rappresentato, nel suo interesse ( o nell’interesse di un terzo). Il
che può accadere quando rappresentante e rappresentato si trovino in una situazione di conflitto di
interessi, quando cioè, l’interesse dell’uno e dell’altro si trovano fra loro in concorrenza, e la
realizzazione del primo comporti il sacrificio del secondo. Il contratto concluso dal rappresentante,
in conflitto di interessi, è annullabile su richiesta del rappresentato (art. 1394), la situazione di
conflitto di interessi deve essere influente sul contenuto del contratto, e deve essere noto o
riconoscibile da parte del terzo contraente.

Rappresentanza e ambasceria
Il rappresentante agisce per procura del rappresentato, ciò spiega perché la capacità legale di agire,
richiesta per la conclusione del contratto, debba essere presente nel rappresentato, in quanto è questi
e non il rappresentante, a disporre dei propri diritti, e quindi deve essere legalmente capace di
disporre (art. 1389 comma II). Se la procura è stata conferita da persona legalmente incapace di
agire, il contratto sarà annullabile, anche se concluso da rappresentante pienamente capace di agire.
Per ciò che riguarda il rappresentante, visto che egli non dispone dei propri diritti nella sua
funzione, a questi è sufficiente la capacità naturale di agire, avuto riguardo per il contenuto del
contratto (art. 1389 comma I).
La procura investe il rappresentante di determinare il contenuto del contratto da concludere. Se la
procura non pone limiti a questo potere, questo comprende ogni elemento del contratto. Il
rappresentante dichiara, a nome altrui, la propria volontà, ciò significa che i vizi del consenso
renderanno annullabile il contratto, solo se si tratta di vizi della volontà del rappresentante (art.
1390). Allo stesso modo gli stati soggettivi, di buona e mala fede, devono essere considerati con
riguardo alla persona del rappresentante (art. 1391).
Può comunque accadere che alcuni degli elementi del contratto siano predeterminati nella procura,
ed in questo caso a determinare il contenuto del contratto concorrono la volontà del rappresentante
e quella del rappresentato, che ha definito i termini della procura. Il rappresentante dichiara dunque
solo in parte la sua volontà, e da ciò deriva una importante conseguenza: i vizi del consenso che
riguardano clausole predeterminate dal rappresentato, renderanno annullabile il contratto solo se
risulta viziata la volontà del rappresentato (art. 1390). Stessa cosa vale per gli elementi soggettivi
del contratto, in quanto, nei casi inerenti gli elementi predeterminati dal rappresentato, ciò che
rileva e la buona o la mala fede di quest’ultimo.
Si parla invece di ambasceria, quando tutto il contenuto del contratto viene stabilito dal
rappresentato, e il rappresentante ha funzione di semplice portavoce della volontà dell’altro. Anche
qui i vizi della volontà e gli elementi soggettivi che rilevano, sono quelli del rappresentato. Può
rilevare però l’errore ostativo del rappresentante nella comunicazione della altrui volontà, in questo
caso il contratto è annullabile se l’errore era conoscibile dal terzo contraente (art. 1433).
Differisce dal portavoce la figura della persona o dell’ufficio incaricato di trasmettere la volontà del
contraente, questi non partecipano attivamente al contratto ma costituiscono solo il mezzo di
comunicazione, mediante il quale una parte conclude il contratto.

Mandato con e mandato senza rappresentanza


La procura non riguarda l’interno rapporto fra il rappresentato e il rappresentante, questo interno
rapporto è regolato da un contratto, dal qual e nasce l’obbligo del rappresentante de agire in nome e
nell’interesse del rappresentato. L’ipotesi di portata generale, di fonte di tale contratto, è il contratto
di mandato, per cui quando l’interno rapporto in base al quale un soggetto riceve una procura da un
altro soggetto non è altrimenti qualificabile, si dovrà concludere d’essere in presenza di un
mandato.

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Il mandato è il contratto in base al quale un soggetto, il mandatario, si obbliga a svolgere uno o più
atti giuridici per conto di un mandante (art. 1703). Il mandato, salvo patto contrario, si presume
oneroso, cioè è dovuto un compenso al mandatario per i servigi svolti (art. 1709).
Mandato e procura svolgono due funzioni diverse: il primo obbliga il mandatario ad agire per conto
del mandante, e questi a sua volta è tenuto a corrispondergli un compenso; in virtù della procura il
mandatario è altresì legittimato ad agire, di fronte ai terzi, in nome del mandante (art. 1704).
È comunque possibile che un soggetto conferisca ad un altro un mandato, e non anche una procura:
è il caso del mandato senza rappresentanza o rappresentanza indiretta. In questo caso il mandatario
agisce per conto del mandante, ma in nome proprio, con la conseguenza che i diritti acquistati e le
obbligazioni derivanti dal contratto prodotto con un terzo, produrranno effetti in capo al mandatario
e non al mandante (art. 1704). Il mandatario sarà poi obbligato a trasferire gli effetti dei contratti
conclusi al mandante, in caso contrario questi potrà agire contro il primo secondo le regole
dell’esecuzione in forma specifica dell’obbligazione di contrattare, ed ha diritto ad essere
rimborsato, dal mandatario, per quanto, essendosi obbligato in proprio nome, ha dovuto pagare al
terzo contraente.
Il terzo contraente non può in nessun caso, agire nei confronti del mandante, e pretendere da lui
l’esecuzione del contratto concluso dal mandatario senza rappresentanza, neppure se ha avuto
conoscenza del mandato (art. 1705).
L’interesse del mandante è intensamente protetto. Per le cose mobili acquistate dal mandatario, il
mandante può rivendicarle direttamente, senza un contratto di trasferimento, come proprie anche
nei confronti di terzi, salvi i diritti dei terzi in buona fede. (art. 1706 comma I). È inoltre concessa al
mandante di rivendicare i crediti derivanti dal contratto concluso dal mandatario senza
rappresentanza (art. 1705 comma II). Il diritto del mandante, sui beni mobili acquistati dal
mandatario senza rappresentanza è protetto dalle pretese dei creditori del mandatario, i quali non
possono agire nei suoi confronti se il mandato risulta da data certa anteriore al pignoramento (art.
1707). Il mandante acquista dunque i crediti e la proprietà delle cose mobili acquistate per suo
conto, anche se non in suo nome, dal mandatario.
Tali regole non valgono per gli immobili e per i mobili registrati, perché sottoposti all’onere della
pubblicità, se così non fosse il mandato infatti perderebbe la sua stessa ragion d’essere. Il mandante
poi non può sottrarre questi beni all’azione esecutiva dei creditori del mandatario, li sottrae solo in
epoca successiva alla trascrizione dell’atto di ritrasferimento o della relativa domanda giudiziale.

Capitolo sedicesimo
GLI EFFETTI DEL CONTRATTO

Gli effetti del contratto tra le parti


Dal contratto come atto, accordo di due o più parti, bisogna distinguere il c.d. rapporto o vincolo
contrattuale, che l’accordo intervenuto tra le parti ha instaurato tra esse. Il contratto è si fonte di
obbligazione, ma reciprocamente, anche di diritti delle parti: l’insieme dei diritti e delle
obbligazioni reciproche, che nascono dal contratto, è appunto, il rapporto contrattuale.
L’adempimento delle obbligazioni assunte con il contratto, da parte dei contraenti, prende il nome
di attuazione o esecuzione del contratto. L’adempimento delle prestazioni contrattuali, è sotto
questo profilo, atto di esecuzione o di attuazione del contratto, mentre l’inadempimento è in
esecuzione o mancata esecuzione del contratto.
L’esecuzione del contratto può esaurirsi rapidamente o può protrarsi nel tempo, cioè l’adempimento
può esaurirsi al momento stesso della conclusione del contratto, oppure può avere una lunga durata.
Sotto questo aspetto bisogna distinguere tra contratti a esecuzione istantanea, contratti ad
esecuzione differita, contratti ad esecuzione continuata o periodica.
I contratti ad esecuzione istantanea sono quelli il cui adempimento si esaurisce, per ciascuna delle
parti, nel compimento di un solo fatto, simultaneo alla conclusione del contratto o senza
apprezzabile intervallo di tempo rispetto ad essa (esempio: vendita).
Quando invece, ad esempio, per l’adempimento di una prestazione, o di entrambe, è posto un
termine, si ha il caso di contratto ad esecuzione differita, differita, rispetto alla conclusione del
contratto, alla scadenza del termine pattuito. In questi contratti non è inconsueto che l’adempimento

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non si esaurisca nell’esecuzione di un solo fatto, ma in una pluralità di fatti (esempio: vendita con
pagamento rateizzato).
Sono contratti ad esecuzione periodica o continuata, i contratti che obbligano una o entrambe le
parti, ad una prestazione continuativa o che deve essere periodicamente ripetuta nel tempo.
Continuativa può essere una prestazione di dare (somministrazione, art. 1559), di fare (contratto di
lavoro) o, in fine, di non fare (contratto di non concorrenza tra imprenditori).
Il contratto, una volta concluso, ha forza vincolante. Il codice civile esprime questo concetto
dicendo che il contratto ha, per le parti, forza di legge (art. 1372 comma I); il contratto è sì un atto
di autonomia privata, a cui le parti possono aderire o meno, ma, una volta concluso il contratto, le
parti sono tenute a rispettarlo allo stesso modo in cui sono tenute ad osservare la legge.
Per sciogliere il contratto occorre un atto di autonomia contrattuale, uguale e contrario al
precedente: è necessario, in linea di principio, il mutuo dissenso, un nuovo accordo tra le parti volto
ad estinguere il già costituto rapporto contrattuale, o, se è stato posto un termine, ad estinguerlo
prima del sopraggiungere del termine stesso.
Il contratto può anche consentire ad una o ad entrambe le parti, la facoltà di recesso unilaterale (art.
1373). Questo è l’atto unilaterale, redatto nella stessa forma del precedente contratto, di una delle
parti, che in quanto tale, non necessita dell’accettazione dell’altro contraente, ma scioglie il
contratto nel momento in cui viene comunicato all’altro contraente (art. 1373).
Nei contratti ad esecuzione istantanea e differita, la facoltà di recesso può essere esercitata, salvo
patto contrario, solo prima che il contratto abbia avuto principio di esecuzione (art. 1373 comma I),
se ciò è avvenuto, entrambe le parti perdono la facoltà di recesso.
Nei contratti ad esecuzione continuata o periodica, il recesso è possibile anche se è già iniziata
l’esecuzione, ma, salvo patto contrario, non ha effetto per le prestazioni già eseguite o in corso di
esecuzione (art. 1373 comma II). Non vi è effetto retroattivo, il contratto conserva efficacia per
tutto il tempo precedente l’atto di recesso.
Nei contratti plurilaterali, il recesso di una parte non determina lo scioglimento del contratto, se la
sua partecipazione al rapporto contrattuale non deve considerarsi essenziale.
La clausola che riconosce la facoltà di recesso può prevedere un corrispettivo per il recesso, in tale
caso il recesso è efficace dal momento in cui il corrispettivo è prestato (art. 1373 comma III).
Analoga funzione ha la caparra penitenziale, che viene prestata alla conclusione del contratto.
Per ciò che riguarda le modificazioni al contratto, valgono regole analoghe: le parti, salvo patto
contrario, non possono unilateralmente modificare il contratto.
Il mutuo dissenso e la clausola che permette il recesso, però, valgono solo come regola generale, il
contratto può anche sciogliersi per cause ammesse dalla legge (art. 1372 comma I). Le cause che
legge prevede possono essere di due ordini: alcune riguardano i contratti a titolo oneroso, e sono la
risoluzione e la rescissione del contratto, altre concernono i contratti di durata.
I contratti di durata sono quelli che instaurano tra le parti un vincolo destinato a protrarsi nel tempo,
pongono problemi di protezione della libertà contrattuale dei contraenti, ed in particolare, del
contraente più debole. Il codice civile quindi si pronuncia, per principio, sfavorevole ai rapporti
contrattuali perpetui, che vincolino le parti per tutta la loro esistenza, o, in caso di contratti
trasmissibili, che vincolino in perpetuo anche i loro eredi. L’adesione ad un simile contratto
equivarrebbe ad una rinuncia della libertà contrattuale, disponendo, il contraente, con un singolo
atto di tutta la sua libertà contrattuale futura. Si oppongono inoltre a questi vincoli anche principi
volti a proteggere l’interesse generale, che si esprimono in favore per l’evoluzione della
destinazione delle risorse.
Per soddisfare queste esigenze la legge utilizza due figure, il termine massimo e il recesso. Per
alcuni contratti ad esecuzione continuata o periodica è considerato requisito essenziale del contratto
un termine di durata, per altri invece è stabilito direttamente un termine massimo di durata (la
locazione non può durare più di trenta anni). Il contratto perpetuo e nullo o tutt’al più può
convertirsi in contratto a tempo indeterminato, con facoltà di recesso delle parti.
Per altri contratti è prevista una durata indeterminata, ma viene riconosciuta alle parti la facoltà di
recesso. Si deve comunque distinguere tra recesso puro e semplice, come atto unilaterale che non
necessita di giustifica da parte di chi retrocede, e il recesso per giusta causa, che deve essere
giustificato da colui che recede. Il recesso puro e semplice può essere concesso tanto ad una quanto

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ad entrambe le parti. Può recedere dal contratto di lavoro per giusta causa o per giustificato motivo,
il datore di lavoro.

Contratti con effetti obbligatori e con effetti reali, contratti consensuali e contratti reali
Per ciò che riguarda propriamente gli effetti del contratto, si possono distinguere due tipi di effetti,
l’effetto obbligatorio e l’effetto reale del contratto. Sono effetti obbligatori, le obbligazioni che dal
contratto derivano: così nella vendita l’obbligo del venditore di consegnare la cosa, e del
compratore di pagare il prezzo stabilito, sono effetti obbligatori di questo contratto. Sono effetti
reali invece, gli effetti prodotti al momento stesso della formazione dell’accordo delle parti: così il
trasferimento della proprietà dal venditore al compratore, nella vendita, è un effetto che si produce
all’atto stesso della conclusione del contratto di vendita.
Sono contratti con effetti obbligatori, quelli che sono solo fonte di obbligazione tra le parti, di una
di esse o di entrambe. Sono poi, contratti con effetti reali, quelli che producono l’effetto di trasferire
la proprietà o altri diritti, oltre ad essere, al tempo stesso, fonte di obbligazione.
In materia di contratti con effetto reale, vige il c.d. effetto con sensualistico, espresso all’art. 1376:
nei contratti che hanno per oggetto il trasferimento di proprietà, o di una cosa determinata, o il
trasferimento di un diritto reale o di un altro diritto, la proprietà o il diritto si trasmettono per effetto
del consenso delle parti legittimamente manifestato.
La legge comunque protegge l’alienante non pagato, in caso di vendita: nelle alienazioni di beni
immobili con pagamento del prezzo posticipato, o di beni mobili iscritti ai pubblici registri, il
venditore può iscrivere ipoteca legale sul bene venduto, a garanzia delle obbligazioni che derivano
dal contratto (artt. 2817 n. 1-2810 commi II e III). Per gli altri beni mobili, manca una analoga
garanzia, ma le parti possono utilizzare la vendita con riserva di proprietà, per cui il compratore
acquista la proprietà della cosa solo con il pagamento dell’ultima rata del prezzo (art. 1523).
Il principio con sensualistico opera con efficacia, solo nel trasferimento di cose determinate (art.
1376), nel caso di cose identificate solo nel genere, la proprietà passerà solo in seguito
all’individuazione, fatta d’accordo tra le parti o nei modi da queste stabiliti (art. 1378). Se oggetto
è una massa di cose la proprietà passa secondo il principio con sensualistico, e non occorre
l’individuazione delle singole cose, anche se a determinati effetti, come per determinare il prezzo,
le cose debbano essere numerate, pesate o misurate (art. 1377).
Quando l’oggetto del contratto sono cose da trasportare da un luogo ad un altro, l’individuazione, e
quindi il passaggio di proprietà, avviene al momento della consegna al vettore o allo spedizioniere
(art. 1378).
Stabilire il momento in cui la proprietà passa è importante, in quanto il rischio del perimento della
cosa incombe su chi ne è proprietario: sul venditore se ne è ancora proprietario, sul compratore se
ne è già proprietario.
Il contratto si perfeziona con l’accordo delle parti, da quel momento esso produce tutti i suoi effetti
siano essi reali oppure obbligatori. In linea generale, il semplice accordo tra le parti è sufficiente a
perfezionare il contratto, in alcuni casi però, oltre all’accordo è necessaria la consegna della cosa,
che forma oggetto del contratto. I contratti che si perfezionano con il semplice accordo tra le parti,
sono detti contratti consensuali, quelli che necessitano anche della consegna della cosa, sono i
contratti reali, e si perfezionano solo al momento della consegna. Sono reali il contratto di mutuo, di
deposito, di comodato e il contratto costitutivo di pegno. Nei contratti consensuali, la consegna
della cosa dedotta in oggetto, è adempimento di un obbligo già sorto al momento dell’accordo.
La consegna della cosa può svolgere anche una specifica funzione nei contratti consensuali. Se con
successivi contratti, una parte concede ai diversi contraenti un diritto personale di godimento sulla
medesima cosa, prevale tra essi il primo che ha conseguito il godimento della cosa (art. 1380).

Gli effetti del contratto rispetto ai terzi


Il contratto vincola le parti ma, per regola generale, non produce effetto rispetto ai terzi (art. 1372
comma II), nel senso che nessuno può essere vincolato ad un contratto, se non in forza della sua
libera volontà.
Coerente con questo principio generale è la promessa del fatto o dell’obbligazione del terzo. Chi,
per contratto, promette la prestazione di un terzo, esprime una valida promessa, ma obbliga solo se

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stesso: se il terzo si rifiuta di obbligarsi o non compie il fatto promesso, il promettente dovrà
indennizzare il danno subito all’altro contraente (art. 1381).
Il patto di non alienare, contenuto in un contratto, è valido: Tizio, ad esempio, vende a Caio, il quale
si obbliga a non rivendere a sua volta. Tuttavia al patto di non alienazione l’art. 1379 attribuisce
effetti limitati. Anzitutto esso ha effetto solo tra le parti, e quindi non è opponibile all’eventuale
terzo che ha comprato la cosa dal contraente che ha venduto in violazione del patto. Tizio potrà
pretendere da Caio, solo il risarcimento del danno per l’inadempimento contrattuale. Il patto è poi
valido, solo se il divieto di alienare è contenuto entro convenienti limiti di tempo ed in oltre se
risponde ad un apprezzabile interesse di una delle parti. Il divieto di alienazione non può avere
lunga durata poiché esso contraddirebbe il principio che vuole una libera circolazione della
ricchezza. Per questo sono stabiliti limiti di tempo a seconda dei casi, più lunghi per gli immobili
(arriva fino a venti anni), ma molto ridotti per i beni mobili di più intensa circolazione. C’è
comunque da precisare che il divieto di non alienare costituisce l’oggetto di una obbligazione
personale negativa, ma non un peso imposto sul bene, in altre parole non può essere costituita una
servitù di non alienare.
Altro limite contrattuale alla facoltà di disporre, connesso all’alienazione della cosa, è il patto di
prelazione. Un soggetto si obbliga nei confronti di un altro per l’eventualità che egli intenda
alienare un proprio bene: prima di alienarlo ad un terzo, dovrà offrirlo, alle stesse condizioni cui il
terzo è disposto ad acquistarlo, a chi ha contrattualmente conseguito il diritto di prelazione.
Talvolta il diritto di prelazione è espressamente riconosciuto dalla legge: come per la locazione di
immobili ad utilizzo diverso da quello abitativo, nell’ipotesi cui il locatore intenda trasferire a titolo
oneroso l’immobile locato, deve darne comunicazione al conduttore, indicandogli le condizioni cui
la vendita sarà effettuata, il conduttore ha sessanta giorni, a partire dalla comunicazione, per
esercitare il diritto di prelazione. Nei casi di prelazione legale, il diritto di prelazione è opponibile
ai terzi ed il suo titolare può riscattare la cosa presso il terzo acquirente. La prelazione legale è
perciò prelazione reale, la prelazione contrattuale ha, per contro, efficacia meramente obbligatoria,
come il patto di non alienare. Alla offerta in prelazione si attribuisce il carattere di proposta
contrattuale, il contratto si perfeziona cioè, a favore del destinatario dell’offerta in prelazione,
quando questi fa prevenire l sua accettazione alla controparte.
Al momento della conclusione del contratto una delle parti può riservarsi la facoltà di nominare
successivamente la persona che acquisterà i diritti o assumerà le obbligazione derivanti dal
contratto (art. 1401). La nomina del contraente deve essere fatta entro il termine stabilito, o, in
mancanza, entro tre giorni (art. 1402 comma I), e naturalmente deve essere accompagnata
dall’accettazione del terzo (art. 1402 comma II). La persona nominata e accettante, acquista i diritti
e assume le obbligazioni del contratto con effetto retroattivo, dalla data del contratto (art. 1404). In
mancanza di nomina o di accettazione (che deve essere fatta nella forma del contratto), il contratto
produce effetti tra i contraenti originari (art. 1405).
Nel contratto per persona da nominare non c’è deroga al principio generale della inefficacia del
contratto rispetto ai terzi, giacché occorre l’accettazione del terzo. Una eccezione al principio
generale è il contratto a favore di terzo, eccezione giustificata dal fatto che il terzo non assume
obblighi, ma acquista diritti. Le parti qui sono lo stipulante, che è colui che contratta a favore del
terzo, e il promettente, che è colui che si obbliga verso lo stipulante ad eseguire la prestazione a
favore di un terzo. In questi contratti, non occorre l’accettazione del terzo, poiché questi acquista il
diritto verso il promettente per effetto della stipulazione in suo favore (art. 1411 comma II). Lo
stipulante può revocare la stipulazione a favore del terzo solo dopo che questi abbia rifiutato di
goderne (art. 1411 comma III), ed in questo caso, o se semplicemente il terzo non accetta la
stipulazione in suo favore, gli effetti del contratto ricadono sullo stipulante, salvo diversa
disposizione delle parti o che la natura del contratto non lo consenta (art. 1411 comma IV).
La stipulazione a favore di terzi è valida solo se lo stipulante vi abbia interesse (art. 1411 comma I),
questo perché il suo interesse funge da causa, da giustificazione economico-sociale del contratto.
L’interesse può essere di natura patrimoniale, nel caso del rapporto di provvista, in cui lo stipulante
è debitore del terzo. Il contratto è nullo in mancanza dell’interesse dello stipulante, ed è nullo anche
quando sia nullo il rapporto di provvista tra terzo e stipulante. L’interesse può comunque avere
diverse radici da quelle patrimoniali, ad esempio essere un interesse affettivo, per cui la

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giustificazione del contratto in favore del terzo, si giustifica grazie allo spirito di liberalità dello
stipulante.

Capitolo diciassettesimo
RISOLUZIONE E RESCISSIONE DEL CONTRATTO

La risoluzione del contratto


La causa del contratto può essere onerosa o gratuita. Nel primo caso entrambe le parti si obbligano
reciprocamente all’esecuzione di una prestazione, nel secondo caso solo una delle parti assume
un’obbligazione. Si distingue così tra contratti a titolo oneroso, che sono la quasi totalità, e contratti
a titolo gratuito (donazione, comodato, mandato gratuito, deposito gratuito, mutuo senza interessi).
La causa dei contratti a titolo oneroso risiede nello scambio tra le prestazioni delle parti, e la stessa
idea dello scambio, implica una corrispettività tra le prestazioni: ciascuna parte si obbliga a fornire
una prestazione per avere in cambio la prestazione dell’altra, e ciascuna prestazione è, rispetto
all’altra, una controprestazione. Dei contratti a titolo oneroso dunque, si suole parlare anche come
di contratti a prestazioni corrispettive, cioè la prestazione di ciascuna parte trova giustificazione (o
causa) nella prestazione dell’altra.
Si possono individuare diversi schemi causali: do perché tu dia, do perché tu faccia, faccio perché
tu dia, non faccio perché tu non faccia, do perché tu non faccia.
Il rapporto di corrispettività delle prestazioni è detto sinallagma, una locuzione che indica
l’interdipendenza esistente tra le prestazioni. Il sinallagma genetico risulta dal contratto e ne
costituisce la causa, mentre il sinallagma funzionale, consiste nella sua realizzazione nella fase di
esecuzione del contratto, solo allora lo scambio previsto e la funzione economico-sociale del
contratto si attuano in concreto.
Può però accadere che una delle parti non adempia alla sua obbligazione, o che la sua prestazione
diventi impossibile per causa a lui non imputabile, o che la prestazione di una diventi troppo
onerosa rispetto alla prestazione dell’altra. In questi casi si determina una alterazione della causa
del contratto, per cui lo scambio di prestazioni non può avvenire, o non può avvenire alle
condizioni economiche prestabilite. Si parla in questo caso di difetto funzionale della causa, in
antitesi con la sua originaria mancanza o illiceità, che sono dette difetto genetico della causa. Il
difetto genetico colpisce il contratto come atto, determinandone la nullità, mentre il difetto
funzionale investe il rapporto contrattuale, manifestandosi in sede di esecuzione del contratto, e
determinando la risoluzione del contratto.
Risoluzione significa scioglimento del contratto, e le cause che determinano tale eventualità sono
quelle previste dalla legge all’art. 1372, per le quali il contratto può sciogliersi senza necessità del
mutuo consenso delle parti. La risoluzione è una vicenda del rapporto contrattuale, come la
condizione risolutiva e il recesso unilaterale, per cui il contratto è e resta valido, ma il rapporto tra
le parti si scioglie, e si scioglie con effetto retroattivo tra le parti (art. 1458), ossia dalla data del
contratto. Rispetto ai terzi, invece, l’effetto retroattivo non si produce (art. 1458 comma II), per cui
chi ha acquistato diritti da una parte del contratto, non viene pregiudicato dalla risoluzione. Nei
contratti ad esecuzione continuata o periodica l’effetto della risoluzione non si estende alle
prestazioni già eseguite (art. 1458). Nei contratti plurilaterali la risoluzione del contratto non
importa lo scioglimento, se la prestazione mancata non debba considerarsi essenziale, secondo le
circostanze.
La legge prevede tre generali cause di risoluzione del contratto a prestazioni corrispettive:
risoluzione per inadempimento, risoluzione per impossibilità sopravvenuta della prestazione,
risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione. Queste tre generali regole di
risoluzione, valgono laddove la legge non preveda, nella disciplina dei singoli contratti, una diversa
e più specifica figura.

Risoluzione per inadempimento


L’inadempimento, che permetta ad una parte la risoluzione del contratto, deve presentare un
requisito ulteriore rispetto al comune concetto di inadempimento: deve trattarsi di inadempimento

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di non scarsa importanza, avuto riguardo all’interesse dell’altra parte (art. 1455), occorre cioè che
l’inadempimento di una parte sia tale da rendere non giustificabile la controprestazione dell’altra.
In alcuni casi è la stessa legge a stabilire quando l’adempimento sia di scarsa importanza, tale da
non legittimare la risoluzione del contratto, come nella vendita il mancato pagamento di una rata
non legittima la risoluzione del contratto da parte del venditore. In mancanza di criteri di legge, sarà
il giudice a stabilire, caso per caso, quando l’inadempimento debba considerarsi, secondo la regola
generale dell’art. 1445, di importanza non scarsa.
La risoluzione per inadempimento può assumere due forme:
- risoluz. giudiziale. Se una delle parti non adempie alla sua prestazione l’altra parte ha una scelta
(art.1453 comma I):
a) può agire in giudizio per l’inadempimento, chiedendo al giudice di condannare
l’inadempiente ad eseguire la prestazione mancata, ed offrendosi di eseguire la propria se
non l’ha già fatto.
b) Può agire per la risoluzione, chiedendo al giudice di sciogliere il contratto. Otterrà in questo
caso di essere esonerato dall’eseguire la propria prestazione , poiché con la risoluzione
viene meno la fonte dell’obbligazione, nel caso egli avesse già eseguito la sua prestazione
potrà ottenere anche la condanna dell’altra parte alla restituzione della prestazione ricevuta.
Se opta per la prima strada potrà sempre ottenere la risoluzione del contratto, prima di ricevere
dall’altra parte la prestazione dovutagli in modo spontaneo e coattivo; ma se ha optato per la
seconda strada non potrà più chiedere l’adempimento (art. 1453 comma II), ne la controparte può,
dalla data della domanda di risoluzione, adempiere più la propria obbligazione (art. 1453 comma
III).
-risoluzione stragiudiziale.
Se ne conoscono di tre forme e Non si ricorre al giudice:
a) Diffida ad adempiere: la parte adempiente può intimare per iscritto all’altra parte di
adempiere entro un dato termine che però non può superare i quindici giorni, con
l’avvertenza che altrimenti il contratto si riterrà risolto (art. 1454), allo spirare del termine il
contratto è risolto di diritto (art. 1454 comma III). Il debitore potrà comunque neutralizzare
l’effetto risolutivo della diffida, assumendo l’iniziativa di un accertamento giudiziale della
scarsa importanza del suo inadempimento.
b) Altra forma di risoluzione stragiudiziale può essere prevista dallo stesso contratto: è la
clausola risolutiva espressa. Le parti possono convenire che, se una di esse sarà
inadempiente, il contratto si risolverà di diritto, senza necessità di rivolgersi al giudice. Non
basta però il semplice fatto dell’inadempimento, ai fini della risoluzione, occorre anche che
la parte adempiente dichiari che intende valersi della clausola risolutiva, (art. 1456). La
dichiarazione scioglierà il contratto con effetto retroattivo alla data del contratto. Tale
clausola esonera dalla necessità di valutare l’importanza dell’inadempimento, per il fatto
che la risoluzione di diritto del contratto è stata predeterminata dalle parti stesse.
c) In fine il contratto è di diritto risolto per inadempimento, se per la prestazione di una parte
era fissato un termine, da considerarsi essenziale nell’interesse dell’altra. Questa può ancora
richiedere la prestazione entro tre giorni dalla scadenza del termine, ma in mancanza di
richiesta, il contratto è risolto di diritto (art. 1457).
Il rapporto di corrispettività tra le prestazioni, inoltre, legittima anche ciascuna parte al rifiuto di
adempiere alla propria prestazione, se l’altra parte non adempie o non offra di adempiere
contemporaneamente la propria, sempre che per l’adempimento non siano previsti termini diversi
(art. 1460). È la c.d. eccezione di inadempimento, che opera stragiudizialmente, espressa
tradizionalmente dal principio “all’inadempiente non si deve adempiere”.
Analoga all’eccezione di inadempimento è l’eccezione basata sul mutamento delle condizioni
patrimoniali dell’altro contraente, divenute tali da porre in evidente pericolo il conseguimento della
controprestazione: in questo caso, la parte che per contratto è tenuta ad adempiere per prima, può
sospendere l’esecuzione della prestazione dovuta, salvo che l’altra parte non offra idonee garanzie
(art. 1461).
La parte inadempiente è in ogni caso tenuta a risarcire il danno cagionato alla controparte, sia che
questa abbia agito per l’adempimento sia che abbia agito per la risoluzione: il danno per

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l’inadempimento o per il ritardo, il danno per la risoluzione del contratto, se a causa del suo
inadempimento il contratto è risolto (art. 1453 comma I).
La parte che chiede il risarcimento del danno ha l’onere di provare di aver subito un danno per
l’altrui inadempimento o per il ritardo dell’adempimento, e deve altresì provare, l’ammontare del
danno subito. Il contratto può comunque prevedere una penale per l’inadempimento o per il ritardo,
che determina due effetti:
a) Di dispensare dall’onere di provare il danno
b) Di limitare l’ammontare della penale pattuita, salvo che non sia prevista la risarcibilità del
danno ulteriore (art. 1382).
Diversa dalla penale, che viene versata solo in seguito all’inadempimento o del ritardo, è la caparra
confirmatoria, che è una somma di denaro o di cose fungibili, che una parte da all’altra al momento
stesso della conclusione del contratto. Se la parte che ha versato la caparra adempie al contratto,
l’altra è tenuta a restituire la caparra (art. 1385 comma I), se non adempie al contratto l’altra parte
può trattenere la caparra e recedere dal contratto, infine se inadempiente è la parte che ha ricevuto
la caparra, l’altra può esigere il doppio della caparra e recedere dal contratto (art. 1385 comma II).
L’aver dato o ricevuto una caparra, comunque, non comporta però rinuncia ad agire per
l’adempimento o per la risoluzione, o per ottenere il risarcimento del danno (art. 1385). Il recesso
del contratto, trattenendo la caparra o esigendone il doppio, resta una mera facoltà dell’adempiente.
Diversa è la caparra penitenziale, questa è data sempre alla conclusione del contratto, come
corrispettivo del recesso, il recedente perde la caparra data o deve il doppio di quella ricevuta (art.
1386).

Risoluzione per impossibilità sopravvenuta della prestazione


L’impossibilità sopravvenuta per causa non imputabile al debitore, in un contratto a prestazioni
corrispettive, rende priva di ogni giustificazione la controprestazione. Essa comporta quindi la
risoluzione del contratto, dal quale l’obbligazione estinta derivava, determinando anche l’estinzione
della obbligazione dell’altra parte. Ne consegue che la parte liberata dall’obbligazione per
sopravvenuta impossibilita, non può chiedere la controprestazione, e, se già l’ha ricevuta, deve
restituirla (art. 1463).
La risoluzione del contratto opera quindi di diritto, e sarà necessario promuovere un giudizio, da
parte dell’adempiente, solo nel caso in cui l’inadempiente si rifiuti di restituire la prestazione, già
eseguita dalla controparte.
Nel caso in cui la prestazione sia diventata impossibile per causa imputabile al creditore, nel
silenzio della legge può prospettarsi una duplice soluzione:
a) Si può ritenere che il contratto non si risolva, con la conseguenza che il creditore sia
comunque tenuto a dare esecuzione della propria prestazione
b) Si può ritenere anche in questo caso il contratto risolto, con l’aggiunta che il creditore sarà
esposto alla responsabilità per danni che la controparte ha subito, per la mancata esecuzione
del contratto.
Se l’impossibilità sopravvenuta è solo parziale, il contratto in questo caso non si risolve, ma l’altra
parte ha diritto ad una corrispondente riduzione della controprestazione, oppure il contratto può
sciogliersi per giusta causa, quella per cui il contraente non ha interesse ad una esecuzione solo
parziale della prestazione (art. 1464). Emerge dunque uno specifico rapporto di equivalenza tra le
prestazioni, per cui ad una esecuzione minore, corrisponde un’altrettanto minore controprestazione,
è un carattere che si palesa soprattutto nei contratti commutativi, che sono contratti a prestazioni
corrispettive, dove si attua uno scambio tra prestazioni economicamente equivalenti. Quindi le
vicende successive alla formazione del contratto, che provocano uno squilibrio economico fra le
prestazioni, influiscono sulla misura della controprestazione o, addirittura, sulla sorte del contratto.

Risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta


Anche qui si manifesta il carattere della commutatività del contratto. È un tipo di risoluzione che
riguarda i contratti la cui esecuzione è destinata a protrarsi nel tempo, siano essi contratti ad
esecuzione differita o contratti ad esecuzione continuata o periodica: può accadere che nel periodo
intercorrente tra la conclusione del contratto e quello dell’esecuzione, si verifichino avvenimenti

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straordinari ed imprevedibili, tali da rendere una prestazione eccessivamente onerosa rispetto alla
controprestazione. In questo caso la parte che deve la prestazione diventata eccessivamente onerosa
può chiedere la risoluzione giudiziale del contratto (art. 1467 comma III). L’altra parte, per evitare
la risoluzione del contratto può offrire di modificare equamente le condizioni contrattuali,
ristabilendo uno stato di equivalenza economica delle prestazioni, o accrescendo l’ammontare della
sua prestazione, o riducendo l’ammontare della prestazione diventata troppo onerosa.
L’onerosità sopravvenuta deve essere eccessiva, deve cioè consiste in un forte squilibrio economico
tra le prestazioni, tale da rendere iniquo il contratto.
Per poter risolvere il contratto occorre che questo non sia ancora stato eseguito quando
sopraggiunge l’evento straordinario ed imprevedibile, per l’art. 1467 infatti, la domanda di
risoluzione può essere presentata solo dalla parte che deve, e quindi non ha ancora eseguito, la
prestazione divenuta eccessivamente onerosa.
Lo squilibrio fra le prestazioni deve dipendere da un evento straordinario e imprevedibile, non sono
tali dunque quelli che rientrano negli ordinari limiti di oscillazione dei prezzi di mercato, e non
permettono di domandare la risoluzione contrattuale (art. 1467 comma II): sono rischi che ogni
contraente si assume al momento della conclusione del contratto. Chi vuole sottrarsi ad essi deve
ottenere l’inserimento nel contratto di una apposita clausola che preveda l’aggiornamento delle
condizioni contrattuali con il variare delle condizioni del mercato.
Le norme sulla risoluzione del contratto per eccessiva onerosità sopraggiunta non si applicano per i
contratti aleatori o di sorte (art. 1469), mentre valgono quelle per inadempimento e per
sopraggiunta impossibilità di una prestazione. Sono contratti in cui uno dei contraenti accetta di
adempiere alla sua prestazione, nell’incertezza che l’altro esegua la sua, accetta il rischio di dover
eseguire la sua prestazione senza avere nulla in cambio. Il contratto può essere aleatorio per sua
natura (assicurazione), o per volontà delle parti (vendita di cosa futura).

La rescissione del contratto


Di regola, in linea con il principio della libertà contrattuale, ogni soggetto può contrattare a
condizioni a se favorevoli e sfavorevoli. A questo principio fanno eccezione due casi, che rientrano
entrambi nella la rescissione del contratto. Rescissione altro non significa, che scioglimento o
risoluzione del contratto, ma viene utilizzato nel linguaggio tecnico per indicare lo scioglimento del
contratto dovuto a due casi specifici.
Una prima causa di rescissione investe il contratto concluso in situazioni di pericolo: chi per
contratto assume obbligazioni a condizioni inique, ossia con forte sproporzione tra il valore di ciò
che da e di ciò che riceve, per la necessità, nota alla controparte, di salvare sé o altri dal pericolo
attuale di un danno grave alla persona, può chiedere al giudice la rescissione del contratto (art.
1447).
Più importante e più frequente è l’ipotesi del contratto concluso in stato di bisogno: se c’è
sproporzione tra le due prestazioni, dovuta dalla situazione, anche momentanea, di bisogno
economico di una parte, della quale l’altra a approfittato, la prima può chiedere la rescissione del
contratto (art. 1448 comma I). è la c.d. rescissione per lesione, e la legge stabilisce i criteri per
determinare la sproporzione tra le prestazioni, e quindi lesione: la prestazione ricevuta deve essere
inferiore alla metà del valore della prestazione prestata al tempo del contratto (art. 1448 comma II),
e questa sproporzione deve perdurare fino al momento in cui è proposta la domanda di rescissione
(art. 1448 comma III). La rescissione non può essere richiesta per i contratti aleatori (art. 1448
comma IV).
La parte contro cui è chiesta la rescissione del contratto, può evitarla riportando il contratto a
condizioni di equità (art. 1450).
Le cause di rescissione del contratto sono difetti genetici del contratto che riguardano la sua
formazione, tuttavia la legge disciplina queste eventualità con norme analoghe alla risoluzione, e
non alla nullità, che pur sopravviene per difetti genetici. Il contratto rescindibile non può essere
convalidato (art. 1451), come quello annullato, ma può essere solo ricondotto ad equità. Anche gli

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effetti della rescissione rispetto ai terzi sono regolati in modo corrispondente alla risoluzione (art.
1452).
L’azione di rescissione e l’eccezione di rescissione sono soggette al termine di prescrizione di un
anno, che decorre dalla conclusione del contratto (art. 1449 comma I).

Capitolo diciottesimo
CRITERI DI COMPORTAMEN. DEI CONTRAENTI E DI INTERPRETAZ. DEL CONTRATTO

La buona fede contrattuale


Alle norme che regolano, in modo analitico e circostanziato, la formazione e l’esecuzione del
contratto, si devono aggiungere una serie di regole che disciplinano il generale criterio di
comportamento delle parti contraenti. Sono le norme che impongono alle parti di comportarsi
reciprocamente, secondo buona fede: buona fede nello svolgimento delle trattative e nella
formazione del contratto (art. 1337), buona fede nell’esecuzione del contratto (art. 1375), buona
fede, se si tratta di contratto sottoposto a condizione risolutiva o sospensiva, in pendenza della
condizione (art. 1358), buona fede nell’opporre l’eccezione di inadempimento (art. 1460 comma
II).
C’è poi da aggiungere che la buona fede, oltre che criterio di comportamento, rappresenta anche un
criterio di interpretazione del contratto, questo infatti va interpretato secondo buona fede (art.
1366).
La buona fede, ha in queste norme, un carattere diverso da quello utilizzato per il possesso ad
esempio, altro non significa, nell’ambito del contratto, che lealtà o correttezza. Invece di esprimere
uno stato soggettivo, quello di ignorare di ledere gli altrui diritti, qui esprime un dovere, quello
delle parti contraenti di comportarsi secondo correttezza e lealtà. È quindi una buona fede
contrattuale, che assume il medesimo significato, di quel più generale dovere di correttezza che il
codice civile, impone a debitore e creditore (art. 1175), e che vale per ogni rapporto obbligatorio,
non solo per quelli nascenti da contratto.
Il dovere generale di buona fede assume la funzione di colmare le inevitabili lacune legislative. La
legge infatti cerca di prevenire direttamente solo gli abusi più frequenti, è quindi logico quanto
impossibile sia il fatto che la legge non può contemplare ogni sorta di comportamento lesivo che un
contraente assume a danno dell’altro. Il criterio generale di buona fede consente di individuare
ulteriori divieti ed obblighi, oltre a quelli previsti dalla legge, realizza la c.d. chiusura del sistema
legislativo, ossia offre criteri per colmare le lacune che questo può rilevare nella molteplicità delle
situazioni della vita economica e sociale.
Le regole, non scritte, della correttezza e della lealtà, sono regole di costume: corrispondono a ciò
che un contraente di media lealtà e correttezza si sentirebbe in dovere di fare e di non fare, e si
dovrà tener conto del livello medio di correttezza e lealtà di quel dato settore economico o sociale,
cui il contratto si riferisce. Spetta al giudice determinare ciò che è in buona fede e ciò che non lo è,
non secondo un proprio criterio di giudizio, ma secondo le regole del costume.
Il dovere di buona fede opera:
a) nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto (art. 1337).
Qui assume più il carattere di un dovere di informazione di una parte nei confronti dell’altra.
Ciascuna di esse ha il dovere di dare notizia delle circostanze ignote all’altra parte, che possono
essere determinanti per il suo consenso, tali da produrre il rifiuto dell’altra parte o una diversa
contrattazione.
Al dovere di informazione si ricollega la figura della reticenza: la violazione del dovere di
informazione può dare luogo, se ad essa segue il contratto, ad un’azione di annullamento per
dolo omissivo. Allo stesso modo la violazione del dovere di informazione, al di là dell’azione di
annullamento, può dare vita ad un azione di danni della controparte, generati dal dolo omissivo
dell’altra parte (violazione del consenso informato).
Si considera contrario alla buona fede anche una improvvisa ed ingiustificata rottura delle
trattative precontrattuale, intervenuta nel momento in cui l’altra parte ave motivo di fare
affidamento sulla futura conclusione del contratto, ed aveva quindi affrontato delle spese per far
fronte all’adempimento delle obbligazioni contrattuali o aveva rinunciato ad altri contratti.

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Chi, violando il dovere di buona fede nelle trattative contrattuali, ha cagionato un danno
all’altro contraente, è tenuto a risarcirlo. È la c.d. responsabilità precontrattuale, la cui fonte non
è il contratto, ma un fatto giuridico, omissivo o commissivo, che ha preceduto o accompagnato
la formazione del contratto. Per la Cassazione è una forma di responsabilità da fatto illecito (art.
2043) regolato dalle norme a questa relative. Questa è la tesi dominante, secondo cui qualsiasi
responsabilità che non derivi da contratto, sia necessariamente responsabilità da fatto illecito.
Vero è pero, che la responsabilità precontrattuale deriva dall’inadempimento dell’obbligazione
di comportarsi secondo buona fede, è dunque una responsabilità per inadempimento, regolata
dall’art. 1218, ossia responsabilità contrattuale, nel lato senso che si attribuisce a questa
espressione. Una specifica ipotesi di responsabilità precontrattuale è prevista dalla legge, per
cui se una parte, conoscendo o dovendo conoscere con ordinaria diligenza, una causa di
invalidità del contratto, non né da notizia all’altra, è tenuta a risarcire il danno da questa
risentito per aver confidato, senza sua colpa, nella validità o nell’efficacia del contratto (art.
1338). L’altra parte, scoperto l’errore, potrà sì ottenere l’annullamento del contratto, con la
restituzione della prestazione eventualmente già eseguita, ma ciò potrebbe non aver sanato
interamente il danno da questa subito. Può esserci infatti anche l’interesse contrattuale negativo:
il danno emergente, costituito dalle spese sostenute, e il lucro cessante, ossia il danno delle
occasioni perdute, generato dal rifiuto di altre proposte contrattuali altrettanto vantaggiose.
L’altra parte se prova di aver subito il danno, ha diritto ad essere risarcita. Applicazione di
questa regola è la responsabilità da falso rappresentante.
b) nella esecuzione del contratto (art. 1375).
Due specifiche applicazioni di legge sono: l’obbligo di comportarsi secondo buona fede in
pendenza della condizione, per conservare integre le ragioni dell’altra parte (art. 1358), ossia
custodendo con diligenza la cosa alienata sotto condizione sospensiva, o acquistata sotto
condizione risolutiva. La seconda applicazione è costituita dal divieto di rifiutare, tenuto conto
delle circostanze, la propria prestazione avvalendosi della eccezione di inadempimento, se il
rifiuto è contrario alla buona fede (art. 1460 comma II).
La buona fede nell’esecuzione del contratto implica, più in generale, il dovere delle parti di
realizzare l’interesse contrattuale dell’altra parte o di evitare di recarle danno, e ciò può anche
comportare l’adempimento di obblighi non previsti dalla legge o dal contratto, come l’obbligo
di prestazioni accessorie rispetto a quelle contrattuali (esempio: locazione a disabile). Così se la
prestazione di una parte sta per diventare temporaneamente o definitivamente impossibile, la
parte dovrà darne pronta notizia all’altro contraente, per consentirgli di procurarsi in altro modo
la prestazione, o comunque di far in modo di non subire danni.
La violazione del dovere di buona fede può anche presentarsi nella forma di abuso del diritto:
accade quando un contraente esercita verso l’altro i diritti, che gli derivano dal contratto o dalla
legge, per realizzare uno scopo diverso sa quello cui questi diritti sono preordinati (esempio: il
venditore per sciogliersi dalla vendita, esige il prezzo in un momento di evidente difficoltà
economica del compratore).
La violazione del dovere di buona fede comporta l’obbligazione di risarcire il danno alla
controparte lesa, ma può comportare anche conseguenze diverse, valutabili come una sorta di
esecuzione in forma specifica del dovere di buona fede. Una ipotesi legislativa è ravvisabile nel
rapporto fra l’art. 1358 che impone alle parti di comportarsi secondo buona fede in pendenza
della condizione, e l’art. 1359 che considera avverata la condizione mancata per causa
imputabile a colui che aveva interesse contrario al suo avveramento. Qui la conseguenza posta
a carico del contraente in mala fede è l’efficacia del contratto, produttivo di effetti nei suoi
confronti, quantunque sottoposto a condizione sospensiva mancata.
c) nell’interpretazione del contratto.

L’interpretazione del contratto


Il contratto, quando non è tacito, è fatto di parole, redatte in forma scritta o pronunciate oralmente,
ed il senso delle parole, singole parole o prese nel loro insieme, può dare luogo a controversie.
Quindi traspare la necessita di formulare dei criteri per l’interpretazione del contratto. Sono criteri
che vincolano le parti allorché queste desumono i diritti e i doveri derivanti dal contratto, e servono

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al giudice, quando è controversa l’interpretazione del contratto dedotto in giudizio. La legge
enuncia un duplice ordine di criteri interpretativi. I criteri di interpretazione soggettiva, si basano
sulla comune intenzione delle parti; i criteri di interpretazione oggettiva si rifanno al concetto di
buona fede, ed ad elementi oggettivi non riconducibili all’intenzione dei contraenti.
I criteri soggettivi, muovono dal principio per cui, nell’interpretazione del contratto, si deve
indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti, e non limitarsi al senso delle parole da
esse usate (art. 1362 comma I), in quanto le parole prese a sé possono tradire l’intenzione dei
contraenti. Ad esempio in un contratto di locazione, no è menzionato il canone, questo sarebbe un
contratto nullo per mancanza dell’oggetto, ma può essere reale intenzione delle parti il godimento
gratuito dell’immobile, quindi invece che locazione il contenuto del contratto, è più simile ad un
comodato gratuito. È evidente dunque, come l’interpretazione delle parti possa modificare la
qualificazione del contratto. Vale la regola secondo cui il nome dato dalle parti al contratto non è
vincolante, e il giudice, dopo aver ricostruito la sostanza effettiva del rapporto tra le parti, può
attribuirgli una qualificazione giuridica, diversa da quella data dalle parti, corrispondente alla
sostanza del contratto.
Per scoprire, al di là delle parole, la reale intenzione delle parti, la legge fornisce alcuni criteri. Un
primo criterio, di carattere storico, è quello per cui va esaminato il comportamento complessivo
delle parti, anche posteriore alla conclusione del contratto (art. 1362 comma II). Un secondo criterio
è di carattere logico: occorre interpretare le singole clausole le une per mezzo delle altre,
attribuendo a ciascuna il significato che risulta dal complesso del contratto (art. 1363). In virtù del
primo criterio può venire in considerazione la corrispondenza intercorsa fra le parti durante le
trattative, e può altresì assumere rilievo il loro comportamento in esecuzione del contratto, quindi se
le parti di comune accordo, hanno attribuito un determinato significato ad una clausola, in fase di
conclusione del contratto, una parte, successivamente, non potrà pretendere di attribuire un altro
significato alla medesima clausola. Con il secondo criterio, l’intenzione delle pari viene ricostruita
considerando il contratto nel suo insieme, e il significato letterale di una clausola può apparire
contrario all’interpretazione delle parti se questa viene considerata alla luce dell’intero regolamento
contrattuale.
Un generale criterio di interpretazione oggettiva è quello per cui il contratto deve essere interpretato
secondo buona fede (art. 1366). Questo criterio impone di dare al contratto il significato che gli
attribuirebbero contraenti corretti e leali. È un criterio che può condurre a dare al contratto un
significato diverso da quello palesato dalle espressioni che in esso figurano, se questo significato è
quello che darebbero contraenti leali e corretti.
Criteri oggettivi che prescindono dall’intenzione delle parti, valgono per le c.d. clausole ambigue,
ossia per quelle clausole alle quali si possono attribuire più sensi. Per l’art. 1369 le espressioni che
possono avere più sensi debbono, nel dubbio, essere interpretate nel senso che meglio si conforma
alla natura e all’oggetto del contratto, ossia dando rilievo alla oggettiva funzione economico sociale
di quel tipo contrattuale e alla oggettiva destinazione economica del bene dedotto in contratto. Vale
il principio di conservazione del contratto, per cui la clausola ambigua va interpretata nel senso che
da efficacia e validità al contratto (art. 1367). Valgono inoltre i c.d. usi interpretativi, che sono
pratiche contrattuali diffuse, per cui la clausola ambigua si interpreta secondo ciò che generalmente
si pratica nel luogo in cui il contratto è stato concluso (art. 1368).
Le clausole che pongono condizioni generali del contratto si interpretano in senso sfavorevole a chi
le ha poste, a vantaggio del contraente debole (art. 1370).
Se infine il contratto rimane ancora oscuro si applicano due estremi criteri. Il contratto a titolo
oneroso si interpreta nel senso che realizzi l’equo contemperamento degli interessi delle parti, ossia
il miglio equilibrio economico tra le prestazioni. Il contratto a titolo gratuito si interpreta nel senso
meno gravoso per il contraente obbligato.

Tendenze generali del diritto dei contratti


Una prima tendenza del codice civile, in ripudio al concetto di negozio giuridico e all’esaltazione
della volontà, è quella verso l’oggettivazione dello scambio contrattuale, in adesione alle esigenze
di sicura, rapida e ampia circolazione della ricchezza.

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L’oggettivazione si manifesta anzitutto nella disciplina dello scambio fra imprenditore ed utenti di
impresa, posta dall’art. 1341. viene infatti sostituita alla conoscibilità, la conoscenza del
regolamento contrattuale, funzionale alle esigenze della contrattazione di massa, in questo modo il
regolamento del contratto diviene vincolante per una parte anche se questa non lo aveva voluto.
Altrove l’oggettivazione investe ogni sorta di scambio, anche se effettuata tra parti cui almeno una
non è un imprenditore, agendo sulla stessa libertà del volere. Così ad esempio l’art 1341 subordina
l’azione di annullamento alla riconoscibilità dell’errore.
L’oggettivazione dello scambio, da un lato, tende a far prevale la dichiarazione sulla volontà,
quando la divergenza tra la prima e la seconda non sia riconoscibile dal destinatario della
dichiarazione. Tende, sotto un altro punto di vista, a far prevalere la causa sul consenso, instaurando
con le clausole generali di buona fede, intesa in senso oggettivo, la possibilità di un controllo
giudiziario sulla funzione economica dello scambio.
Il controllo giudiziario si è manifestato con evidenza, a proposito della funzione economica dello
scambio, sulla presupposizione. Questa e una causa di risoluzione del contratto non riconosciuta
dalla legge, ma dalla giurisprudenza, e consiste in un presupposto oggettivo del contratto che le
parti hanno avuto presente alla sua conclusione, ma che non hanno menzionato nel contratto, al
successivo venir meno di questo presupposto, al contraente che via abbia interesse, è data la
possibilità di chiedere al giudice la risoluzione del contratto. È riconosciuta dalla giurisprudenza, la
presupposizione, poiché questa provoca una alterazione funzionale della causa, rendendo non più
giustificato lo scambio di prestazioni tra le parti, che l’evento sopravvenuto ha reso non più
equivalenti.
Bisogna comunque distinguere due casi: quello in cui la presupposizione abbia ad oggetto una
situazione falsamente presupposta oppure riguardi un mutamento della situazione originariamente
presupposta. Nel primo caso il contratto è nullo per mancanza della causa, nel secondo caso è
invece affetto da vizio funzionale, che determina la risoluzione del contratto.

Capitolo diciannovesimo
I FATTI ILLECITI

La responsabilità da fatto illecito


L’art. 2043 definisce il fatto illecito come, qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un
danno ingiusto. Il fatto illecito, come i contratti, rientra tra le fonti delle obbligazioni, e ne deriva, in
particolare, l’obbligazione di risarcire il danno cagionato dal fatto illecito. È di regola una
obbligazione di dare, che ha per oggetto l’equivalente monetario del danno provocato, ma è
comunque ammesso il risarcimento in forma specifica.
L’obbligazione di risarcimento del danno può derivare, nei casi di inadempimento, anche dal
contratto, per distinguere dunque la responsabilità da inadempimento da quella derivante dal fatto
illecito, si suole parlare della prima come responsabilità contrattuale, della seconda come
responsabilità extracontrattuale, o, secondo la terminologia romanistica, responsabilità Aquilana.
C’è comunque da dire che il termine responsabilità contrattuale viene usato per indicare ogni altra
responsabilità diversa da fatto illecito, ai sensi dell’art. 1173.
Per indicare la responsabilità per danni, più frequentemente, si usa l’espressione responsabilità
civile, contrapposta a quella penale, a cui è sottoposto l’autore di un fatto qualificato come reato
dalla legge. Un medesimo fatto così, può essere fonte sia di responsabilità civile, consistente
nell’obbligo di risarcimento, sia di responsabilità penale, consistente nell’assoggettamento alla pena
prevista.
Scomposto nei suoi elementi costitutivi il fatto illecito è composto da elementi oggettivi: il fatto, il
danno ingiusto, il rapporto di causalità fra fatto e danno; ed elementi soggettivi: il dolo o la colpa.
1) il fatto è un comportamento umano commissivo, come il comportamento di chi con un arma
uccide una persona, od omissivo, come il comportamento di chi, evitando di riparare il
proprio immobile pericolante, cagiona al vicino un danno. Il fatto omissivo è fatto illecito,
solo se il soggetto la cui omissione ha cagionato il danno, aveva l’obbligo giuridico di
evitarlo.

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2) Il danno ingiusto è la lesione è la lesione di un interesse altrui meritevole di protezione
secondo l’ordinamento giuridico, non basta dunque il semplice fatto del danno ingiusto, ma
bensì deve concorrere il riconoscimento giuridico del fatto come ingiusto, quindi meritevole
di tutela.
Il principio della risarcibilità di ogni danno qualificabile come ingiusto è la clausola generale,
quando non è la legge a valutare che un dato danno è ingiusto, riconoscendo a chi lo ha subito il
diritto ad essere risarcito (caso della concorrenza sleale art. 2600), la valutazione è rimessa
all’apprezzamento del giudice, il quale decide se la lesione è meritevole di tutela secondo
l’ordinamento, ed è, quindi, qualificabile come danno ingiusto che deve essere risarcito. Si parla
dunque di atipicità dell’illecito civile, in antitesi con la tipicità dell’illecito penale, e dell’illecito
civile di altri sistemi, come quello tedesco.
In alcune serie di casi la presenza del requisito dell’ingiustizia del danno è, nella prassi
giurisprudenziale, fuori discussione:
a) quando sia stato leso un diritto della personalità.
b) Quando sia stato leso un diritto reale.
c) Quando l’uccisione di una persona comporti la lesione del diritto al mantenimento oppure al
diritto agli alimenti dei suoi familiari. Qui non viene in luce il diritto alla vita dell’ucciso,
ma solo la lesione del diritto al mantenimento che, eventualmente il coniuge e i figli
avevano nei suoi confronti o del diritto agli alimenti eventualmente spettante ad latri. È
risarcibile anche la semplice aspettativa di prestazioni future, come l’uccisione del figlio
minore, fonte di responsabilità per danni nei confronti dei genitori. Viene valutata anche
l’aspettativa di successione futura, così il figlio maggiorenne, all’uccisione del padre, può
pretendere il risarcimento per l’eredità che il padre, nel corso ulteriore della sua vita,
avrebbe accumulato e lasciato.
Il requisito dell’ingiustizia i giudici in passato hanno dato una interpretazione molto restrittiva,
limitata a tre sole serie di ipotesi: danno derivante dalla lesione di diritti assoluti, siano essi della
personalità o diritti reali, e lesioni inerenti a rapporti di famiglia, inclusa la lesione della semplice
aspettativa. Oggi questa interpretazione è stata superata e si ammette l’esistenza del danno ingiusto
anche in altre diverse ipotesi.
d) Quando sia stato leso un diritto relativo, anche estraneo ai rapporti di famigli, e, in
particolare, un diritto di credito. Così la distruzione della casa in locazione non lede solo il
diritto reale del proprietario, ma anche il diritto di credito del conduttore. In questo caso il
fatto del terzo provoca l’estinzione del rapporto obbligatorio.
La giurisprudenza ha riconosciuto anche ipotesi in cui il fatto del terzo non estingue il rapporto
obbligatorio, in particolare:
e) Quando il terzo abbia reso solo temporaneamente impossibile la prestazione del debitore.
f) Quando il terzo sia concorso nell’inadempimento del debitore, o istigandolo a non compiere
(induzione all’inadempimento) o rendendosi comunque partecipe all’inadempimento.
Fuori dalla lesione del credito si collocano altre ipotesi di danno giudicato risarcibile.
g) Quando sia stata lesa la libertà contrattuale, come nel caso del contraente che, per falsa
informazione del terzo, si sia indotto a concludere un contratto che altrimenti non avrebbe
concluso. In questo caso il contraente raggirato può ottenere l’azione di annullamento, a
patto che l’altro contraente fosse cosciente del dolo del terzo.
h) Quando sia stata lesa, anziché un diritto, una situazione di fatto, che appaia meritevole di
protezione. Un caso emblematico è quello della famiglia di fatto: viene uccisa una persona
che mantiene il suo o la sua convivente, questi non può vantare il risarcimento per la lesione
di un diritto, ma solo per la lesione di una situazione di fatto, certamente meritevole (grazie
alla Cassazione dal 1994) di tutela giuridica.
Il concetto di danno ingiusto si compone, oltre che di questi estremi positivi, anche di un estremo
negativo: deve trattarsi di un danno che non sia stato cagionato dall’esercizio di un diritto (esempio:
il datore di lavoro che licenzia per giusta causa). Si suole distinguere il danno ingiusto con
l’espressione contra ius, mentre quello cagionato dall’esercizio di un diritto con l’espressione non
iure.

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In due casi la legge esclude in modo esplicito che il danno sia ingiusto. Il primo è quello della
legittima difesa: chi cagiona danno per legittima difesa di sé o di altri, non è responsabile del danno
cagionato (art. 2044). La difesa di sé o di altri può essere relativa alla persona, per conservare la
propria o l’altrui integrità fisica, oppure dei beni, e può consistere anche in misure di prevenzione,
come l’apposizione di filo spinato o inferriate appuntite intorno alla proprietà. La difesa per essere
legittima deve essere proporzionale all’offesa, presente o temuta, non si può uccidere o ferire un
soggetto, se esiste altro mezzo per metterlo in fuga o prevenirne l’eventuale danno. Il secondo caso
è quello dello stato di necessità: qui, a differenza che nella legittima difesa, si cagiona danno ad un
innocente, e lo si fa perché costretti dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un
grave danno alla persona (art. 2045). Occorre però che il pericolo non sia stato generato dal
danneggiante ne che il danno fosse altrimenti evitabile. Lo stato di necessità si può invocare solo
per salvare la persona, propria o altrui, da un pericolo attuale, non lo si può invocare per salvare i
beni o per giustificare misure di prevenzione. Quando si invoca lo stato di necessità il giudice può
condannare il danneggiante al risarcimento di una equa indennità, cosa che non accade per i casi di
legittima difesa.
3) il rapporto di causalità tra il fatto e il danno. Deve esserci, fra il fatto e il danno un rapporto
di causa ed effetto per cui possa dirsi che il primo ha cagionato il secondo (art. 2043).
Questo rapporto non va inteso in senso naturalistico: ogni evento è il prodotto di più cause,
ognuna delle quale è, in senso naturalistico, in rapporto di causalità con l’evento. Occorre,
perché sia rapporto di causalità in senso giuridico, che l’evento dannoso appaia, secondo la
comune esperienza, come conseguenza immediata e diretta (art. 1223) del fatto commesso.
Per l’applicazione di questo principio si suole adottare il criterio della c.d. regolarità
statistica: un dato fatto è considerato, giuridicamente come causa di un evento se questo,
sulla base di un giudizio di probabilità ex ante, poteva apparire come conseguenza
prevedibile ed evitabile di quel fatto. Si distingue quindi tra cause ed occasioni, di una
evento, che non sono rapporto di regolarità statistica con l’evento stesso, per cui risponde
del danno colui che ha posto in essere una causa, non chi pone in essere una semplice
occasione.
4) Il dolo o la colpa. È dolo l’intenzione di provocare l’evento che ha cagionato il danno
ingiusto, come l’intenzione di uccidere o di danneggiare gli altrui beni. È perciò fatto
doloso, il comportamento assunto con l’intenzione di provocare come conseguenza il danno.
È colpa la mancanza di diligenza, di prudenza o di perizia. L’evento dannoso qui non è
voluto, ma è provocato per negligenza, imprudenza o imperizia o per inosservanza di norme
di legge o di regolamento. Il fatto colposo è dunque il comportamento negligente, o
imprudente o imperito (per ciò che riguarda le prestazioni dei tecnici). L’onere di dimostrare
la colpa del danneggiante incombe sul danneggiato.
L’azione extracontrattuale può essere esercitata anche da chi abbia, verso il danneggiante, azione
contrattuale. Il fatto produttivo di danno può infatti, venire in considerazione sia come
inadempimento di una obbligazione contrattuale, sia come illecito aquiliano. Il danneggiato
eserciterà la prima, anziché la seconda, se quest’ultima si è prescritta.

La responsabilità indiretta
Per regola generale, la responsabilità di risarcire il danno spetta a colui il quale lo ha cagionato (art.
2043). A questa regola generale, tuttavia, sono apportate numerose ed importanti eccezioni, e sono
ipotesi in cui è responsabile del danno un soggetto diverso da colui che l’ha cagionato. Sono le
ipotesi della responsabilità indiretta.
1) Responsabilità dei padroni e dei committenti. Se il danno è provocato da un lavoratore
dipendente, nell’esercizio delle mansioni a lui affidate, del danno risponde, oltre che il
dipendente che ha commesso il fatto, anche il suo datore di lavoro (art. 2049). Questo
principio ha una antica origine, quando cioè si pensava che i padroni, abbienti, fossero gli
unici che potessero risarcire il danno cagionato dai loro dipendenti. Oggi la giustificazione
di questo principio va ricercato nello stesso contratto di lavoro: il dipendente mette a
disposizione del datore di lavoro le sue energie lavorative, mentre il rischio del lavoro
incombe sul datore di lavoro stesso, il quale fa proprio il risultato del lavoro altrui.

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2) Responsabilità dei sorveglianti di incapaci. Se il fatto illecito è provocato da persona
incapace di intendere e di volere, questa non ne risponde a meno che lo stato di incapacità
non derivi da sua colpa (art. 2046), ne risponde invece chi è tenuto alla sorveglianza
dell’incapace (art. 2047).
3) Responsabilità dei genitori, dei tutori, dei precettori. I genitori sono responsabili dei fatti
illeciti commessi dai loro figli minorenni, il tutore lo è per il minore o l’interdetto affidato
alla sua tutela, i precettori (insegnanti, istruttori ecc…) sono responsabili del danno
cagionato dai loro allievi minori, nel tempo in cui sono sotto la loro sorveglianza (art. 2048).
Chi è tenuto alla sorveglianza degli incapaci, i genitori, i tutori o i precettori, possono liberarsi da
responsabilità, provando di non aver potuto impedire il fatto (art. 2047, 2048 comma III), ai
padroni e ai committenti invece non è concessa alcuna prova liberatoria.
4) Responsabilità del proprietario del veicolo. Questi risponde in solido con il conducente, a
meno che provi che la circolazione del veicolo è avvenuta contro la sua volontà.

La responsabilità oggettiva
Per l’art. 2043 il fatto illecito deve presentare, per principio generale, l’elemento soggettivo del
dolo o della colpa. Ma è lo stesso codice civile a fornire una serie di eccezioni a questo principio
generale, eccezioni tali da diventare nella pratica la regola, e facendo diventare lo stesso principio
generale, l’eccezione. Sono le ipotesi del fatto produttivo di danno senza colpa e senza dolo,
classificate come responsabilità oggettive.
La responsabilità si basa sulla sola esistenza di un rapporto di causalità tra il fatto e il danno, e ci si
libera dalla responsabilità, presentando la prova dell’assenza del rapporto di causalità, provando
cioè che il danno non è diretta ed immediata conseguenza del fatto commesso.
In epoca anteriore alle codificazioni, valeva il principio, morale anziché giuridico, per cui non vi
era alcuna responsabilità senza colpa. L’espansione dell’area della responsabilità oggettiva si
ricollega ai caratteri dell’odierna società industriale, basata sull’impiego di mezzi di produzione e di
vita che sono di per se stessi pericolosi, per persone e cose, ma è un tipo di pericolo ormai accettato,
a livello sociale, come componente ineliminabile della nostra civiltà. L’enorme aumento delle
occasioni di danno dunque, ha posto l’esigenza di un diverso sistema di responsabilità per danni,
per cui chi ha subito un danno è giusto che riceva risarcimento, indipendentemente dal dolo o dalla
colpa del suo autore. D’altro canto chi ha intrapreso una attività produttiva, che può essere di per se
pericolosa, deve accettare il rischio e l’eventualità di poter arrecare danni ad altri, e quindi di
doverli risarcire, anche se li ha cagionati senza colpa.
Se poi ci si assicura contro il rischio della responsabilità civile, sarà l’assicurazione a risarcire i
danni provocati, a questo modo il sistema assicurativo serve a ripartire, per piccole quote, il rischio
di risarcire un danno provocato, tra tutti coloro che usano mezzi pericolosi.
I casi più importanti di responsabilità oggettiva sono:
1) esercizio di attività pericolose. Chi cagiona danno ad altri nello svolgimento di una attività
pericolosa, per sua natura o per i mezzi adoperati,
è tenuto al risarcimento, a meno che non provi di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare
il danno (art. 2050). Vale, soprattutto, per le imprese che svolgono attività industriali di per sé
suscettibili di recare danno alle persone, come le imprese chimiche, che possono inquinare
l’ambiente o mettere in pericolo la salute o la stessa vita degli uomini. Chi ha cagionato il
danno, ne risponde indipendentemente da ogni sua colpa, anche se al momento del fatto ha
usato diligenza, prudenza e perizia. Per liberarsi dalla responsabilità bisogna dimostrare di aver
adottato tutte le misure idonee a evitare il danno, e la prova liberatoria verte sulle modalità di
organizzazione dell’attività pericolosa, che devono apparire idonee a prevenire l’eventualità di
eventi dannosi. Se l’evento dannoso, benché siano state adottate tutte le misure di sicurezza
offerte dalla tecnica, si verifica lo stesso, esso apparirà un evento inevitabile, e perciò non in
rapporto di causalità con lo svolgimento dell’attività pericolosa.
2) Animali o cose in custodia. In questo caso , se un animale di proprietà di un soggetto, o una
cosa in custodia (gasolio dell’impianto di riscaldamento), cagionano ad altri un danno, ci si
potrà liberare dalla responsabilità solo con la dimostrazione del caso fortuito, ad esempio il

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fulmine che spezza la catena del cane o provoca un cortocircuito (artt. 2052, 2051). Se la causa
resta ignota, il soggetto risponde comunque del danno.
Chi esercita attività pericolose può essere chiamato a rispondere anche del caso fortuito, e sotto
questo aspetto, la prova dell’adozione di tutte le misure di sicurezza idonee, è più rigorosa, ma se la
causa del danno resta misteriosa, chi custodisce cose che hanno provocato danni risponde anche se
aveva adottato tutte le misure di sicurezza per evitarlo.
3) Rovina di edificio. Se un edificio o un’altra costruzione crolla, provocando danni a persone o
cose, il proprietario della costruzione è tenuto al risarcimento del danno, salvo che non provi
che il crollo era prodotto di un difetto di manutenzione o di un vizio di costruzione (art. 2053).
4) Circolazione di veicoli. Il conducente di veicoli, senza guida di rotaie, è responsabile del danno
provocato dalla circolazione del veicolo anche se non ne ha colpa, ossia nonostante la guida
prudente, diligente ed esperta del mezzo. Si libera dalla responsabilità dimostrando di aver fatto
tutto il possibile per evitare il danno (art. 2054 comma I). è una prova tendente ad eliminare il
rapporto di causalità tra fatto e danno, se il conducente dimostra di aver fatto il possibile per
evitare il danno, dimostra che non lo ha cagionato. È un prova assai ardua poiché esenta dalla
responsabilità solo se, in caso di investimento, questo è imputabile al fatto del pedone. La
responsabilità è aggravata dal fatto che si risponde del danno, anche se questo è stato cagionato
da difetti di produzione o manutenzione del veicolo (art. 2054 comma IV). Per il caso di scontro
tra veicoli, vale una presunzione: si presume, fino a prova contraria, che ciascuno dei contraenti
abbia concorso ugualmente a cagionare il danno subito dai singoli veicoli (art. 2054 comma II).
A ciascuno dei contraenti spetta quindi l’onere di provare che la colpa è tutta dell’altro, o che
è dell’altro in misura superiore alla metà. Se alla guida vi era soggetto diverso dal proprietario,
per il danno cagionato risponde anche questi, insieme a l conducente (responsabilità indiretta),
salvo provi che la sua circolazione è avvenuta nonostante la sua contraria volontà. Conducente
e proprietario rispondono in solido fra loro, ma il danneggiato può esigere il risarcimento
interamente da l’uno o dall’altro.

Il risarcimento del danno


Chi è responsabile del danno, a titolo di dolo o di colpa, oppure a titolo di responsabilità indiretta o
responsabilità oggettiva, deve risarcirlo, ossia deve corrispondere al danneggiato una somma di
denaro, calcolata secondo i principi generali sulla valutazione dei danni. L’art. 2056 nel rinviare
questi principi, omette di richiamare l’art. 1225, per cui si ritiene risarcibile anche il danno non
prevedibile al momento del fatto illecito. La non prevedibilità riguarda qui, l’entità del danno, non
l’evento dannoso, che se non è prevedibile non presenta l’elemento essenziale della causalità.
In luogo del risarcimento in denaro, dove è possibile, si può ottenere una reintegrazione in forma
specifica (art. 2058), ossia il ripristino della preesistente situazione, come la demolizione di un
edificio, o la restituzione di una cosa uguale a quella distrutta.
Il danno permanente alle persone, come una definitiva inabilità al lavoro, totale o parziale, può
essere liquidata nella forma di una rendita vitalizia (art. 2057).
Il danno risarcibile, di regola, è il danno patrimoniale, ossia quello suscettibile di valutazione
economica, comprendente il danno emergente e il lucro cessante. Secondo l’art. 2056 il lucro
cessante è calcolato dal giudice con equo apprezzamento delle circostanze del caso. La norma è
applicata secondo un principio guida, per cui, il lucro cessante è risarcibile quando, sulla base di
proiezioni di situazioni già esistenti, appare ragionevole prevedere che il danno si produrrà nel
futuro.
Il lucro cessante è sempre danno futuro, basato sulla valutazione presente del suo probabile
verificarsi, il danno emergente invece può essere sia danno presente che danno futuro. Nel caso di
infortuni lavorativi, con danni permanenti, il lucro cessante è rappresentato dalle somme che
l’infortunato avrebbe percepito lungo tutta la sua vita lavorativa, ma è anche danno futuro, ma
danno emergente, quello rappresentato dalle spese per servirsi dell’altrui assistenza, a causa
dell’invalidità provocata dall’infortunio.
I danni morali, cioè non patrimoniali, consistenti nelle sofferenze psichiche e fisiche sofferte dal
danneggiato, sono risarcibili (art. 2059) solo nei casi espressamente previsti dalla legge, e vengono
liquidati dal giudice in via equitativa.

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Un caso espressamente previsto dalla legge è quello del danno provocato, oltre che da fatto illecito
per il codice civile, da fatto giudicato reato dal codice penale. Il danneggiante sarà condannato, in
sede penale, ad una pena, ed in sede civile al risarcimento dei danni, comprendenti danni
patrimoniali, e non patrimoniali, per le sofferenza subite a causa del danno. Ma la Cassazione ha
ormai esteso la risarcibilità del danno non patrimoniale ad ogni caso di danno alla persona,
argomentando sulla base della tutela costituzionale della persona.
Altra specifica figura è il danno biologico, da qualche tempo riconosciuto dalla giurisprudenza. Si
considera tale la lesione psico-fisica alla persona, quale bene protetto in se per se art. 32 Cost.),
indipendentemente dalla capacità della persona di produrre ricchezza.
Se più persone sono responsabili del medesimo danno esse ne rispondono solidalmente. Il
danneggiato può pretendere il risarcimento da ciascuno di essi, indipendentemente dalla gravità
della colpa dei singoli. Chi avrà pagato, avrà azione di regresso verso gli altri, e solo in questa sede
si potranno valutare i diversi gradi di colpa di ciascuno (art. 2055).

Espansione della responsabilità oggettiva : il danno da prodotti


In requisito che si richiede ad ogni prodotto industriale è la possibilità di essere utilizzato in
condizioni di sicurezza, cioè senza pregiudizio per l’integrità fisica e per i beni dell’utente. Questo
principio di sicurezza, presente all’art. 41 comma II della Costituzione, che pone all’iniziativa
economica privata il limite della salvaguardia della sicurezza umana, è stata rafforzata, con
maggiore significato tecnico giuridico, dalla direttiva comunitaria del 25/7/1985 n. 374, in materia
di danno cagionato da prodotto difettoso. Per l’art. 1 il produttore è responsabile per il danno
causato dal difetto del suo prodotto, mentre l’art. 5 precisa che, è difettoso il prodotto che non offre
la sicurezza che ci si può legittimamente attendere date le circostanze. In società come quella
italiana e tedesca, si è privilegiata, per questi casi, la clausola generale della responsabilità
aquiliana, meglio rispondente alle esigenze di protezione del consumatore, che di regola non è
diretto contraente del produttore. Ma si è poi dispensato il consumatore dall’onere della prova della
colpa del produttore, e resa in tal modo oggettiva la sua responsabilità, introducendo una
presunzione di colpa. La responsabilità è collegata al fatto di aver, il produttore, messo in
circolazione un prodotto difettoso, secondo la definizione dell’art. 5, e spetta al danneggiato l’onere
di provare il danno, il difetto e la connessione causale tra difetto e danno. L’art. 6 concede al
produttore di liberarsi in vari modi. Talvolta ad esempio è richiesta la prova dello specifico fatto del
terzo, che ha interrotto il rapporto di causalità, oppure è richiesto il c.d. factum principis, prova che
il difetto è dovuto alla conformità a norme imperative emanate dai pubblici poteri.

Capitolo ventesimo
ALTRI ATTI O FATTI FONTE DI OBBLIGAZIONE

Altri atti: le promesse unilaterali


Secondo l’art. 1173, oltre al contratto, sono fonte di obbligazione, ogni atto o fatto idoneo a
produrle in conformità con l’ordinamento giuridico.
Per ciò che riguarda gli atti, come per il contratto, l’obbligazione sorge da una dichiarazione di
volontà, non occorre, a contrario del contratto, la concorde dichiarazione di volontà, ma solo quella
dell’obbligato.
Per ciò che riguarda i fatti, questi, in analogia con il fatto illecito, producono obbligazione a
prescindere dalla volontà dell’obbligato.
Gli atti che producono obbligazione si collocano, nella più ampia categoria degli atti unilaterali tra
vivi aventi contenuto patrimoniale (art. 1324). Questi possono produrre effetti reali, come l’atto
unilaterale di concessione dell’ipoteca, o contenuto obbligatorio. In questo secondo caso assumono
il nome di promesse unilaterali: un soggetto è tenuto ad eseguire una data prestazione per il solo
fatto di averla unilateralmente promessa, indipendentemente dall’accettazione del soggetto a favore
del quale deve essere eseguita.
Le promesse unilaterali sono rette da un principio di tipicità, per cui producono effetti solo nei casi
previsti dalla legge (art. 1987).

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Nella categoria delle promesse unilaterali rientrano la promessa di pagamento e la ricognizione
( ossia risarcimento) di debito (art. 1998).
Alcuni ritengono che questi due atti non siano di per sé produttivi di obbligazione, ma dichiarazioni
di scienza che hanno altrove la loro fonte. Il promettente può si neutralizzare le pretese del
promissario eccependo la mancanza del rapporto fondamentale, tuttavia se non può o non vuole
provarne la mancanza, egli è obbligato, ex promissa, e il suo inadempimento è inadempimento
dell’obbligazione ex promissa, sottoposto alle stesse regole della responsabilità contrattuale, anche
se il rapporto traeva origine da atto illecito. La promessa inoltre è attributiva, nei confronti del
promissario, di un diritto di credito suscettibile di una propria circolazione.
Una indiscussa fonte di obbligazione è la promessa al pubblico (art. 1989). È la dichiarazione di
chi, rivolgendosi al pubblico, promette una prestazione a chi si trova in una determinata situazione
o compie una data azione: il promettente è vincolato dalla sua unilaterale dichiarazione, non appena
questa è resa pubblica. Il promettente è vincolato per un anno, salvo che alla promessa non sia posto
un termine diverso (art. 1989 comma II). Finché il termine non è scaduto, il promettente può
revocare la promessa solo per giusta causa, e la revoca và resa pubblica allo stesso modo in cui si
era fatto per la promessa (art. 1990).

Altri fatti: la gestione di affari


Ai fatti produttivi di obbligazione, al di là degli illeciti, primo fra tutti vi è la gestione di affari
altrui. È il caso di chi si comporta come mandatario altrui, senza avere ricevuto alcun mandato: il
che può accadere quando, in assenza dell’interessato, altri si preoccupa di gestire i suoi interessi.
Come il mandatario, il gestore può agire in nome suo o in nome dell’interessato, assumendo nel
secondo caso, la posizione di mandatario con rappresentanza.
Da questo mero fatto, poiché il gestore non ha ricevuto alcun mandato, discendono due serie di
obbligazioni: il gestore, per il puro fatto di aver iniziato pur senza essere obbligato, è tenuto a
continuare la gestione degli affari dell’interessato (art. 2030), fino a che questi non sia in grado di
provvedere da solo (art. 2028).
L’interessato è invece tenuto ad adempiere alle obbligazioni assunte dal gestore in suo nome e al
rimborso delle spese da questi sostenute (art. 2031). Perché sorgano queste obbligazioni a carico
dell’interessato, è sufficiente che la prestazione sia utilmente iniziata, non occorre che abbia
prodotto il risultato sperato. Se poi l’interessato ratifica la gestione altrui, si producono gli stessi
effetti di un contratto di mandato, con la conseguenza che il gestore avrà diritto a compenso per
l’opera svolta (art. 2032).

Il pagamento di indebito, e l’arricchimento senza causa


Il pagamento di indebito è l’esecuzione di una prestazione non dovuta.
Può trattarsi di indebito oggettivo, il pagamento, o comunque la prestazione eseguita non ha,
oggettivamente, alcuna valida giustificazione (l’esempio è quello dell’esecuzione di prestazioni
derivanti da contratto poi dichiarato nullo). In questi casi il pagamento eseguito, si rivela un fatto
privo di causa, e correlativamente, questo fatto produce un’obbligazione: l’obbligazione di restituire
ciò che si è indebitamente ricevuto e il relativo diritto di ripete, cioè di riottenere, quanto
indebitamente dato (art. 2033).
Il diritto di ripeter quanto indebitamente dato, viene meno in due ipotesi. Il primo è quello della
prestazione eseguita in adempimento delle obbligazioni naturali. Si tratta di doveri morali o sociali,
come tali sentiti dalla generalità degli individui, e sono naturali poiché nessuna legge ne impone
l’adempimento, ma sono pur sempre obbligazioni poiché chi vi adempie lo fa con la convinzione di
esservi tenuto. Sono esempi il pagamento dei debiti di gioco e il mantenimento della convivente, in
una unione di fatto.
Le obbligazioni naturali, sono rilevanti per il diritto, poiché chi vi adempie, in giudizio, non può
chiedere la restituzione di quanto prestato, adducendo la mancanza dell’obbligo giuridico ad
adempiere (art. 2034). Esse assumono rilevanza giuridica, solo se adempiute (art. 2034). L’art. 2034
fa salva l’ipotesi che la prestazione sia stata eseguita da un incapace.
Per ciò che riguarda i debiti di giuoco, chi ha vinto al gioco o ad una scommessa, non ha azione per
ottenere il pagamento di una vincita, ma il perdente che spontaneamente paga non può a sua volta

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riottenere, in giudizio, quanto dato, a meno che non vi sia stata frode a suo danno (art. 1933 comma
II). A questa regola sono poste due eccezioni: le competizioni sportive attribuiscono azione per
ottenere il pagamento della posta in giuoco, sia ai partecipanti alla competizione, sia a chi sulla
competizione aveva scommesso. E la stessa cosa vale per le lotterie autorizzate, non connesse a
competizioni sportive (art. 1935).
Un secondo ordine di ipotesi nel quale viene meno il diritto di ripetere l’indebito, è quello delle
prestazioni contrarie al buon costume, la ripetizione è ammessa solo quando lo scopo contrario al
buon costume, non è comune, ma proprio solo di una delle parti.
L’indebito è soggettivo quando, per errore scusabile, si paga un debito altrui credendolo proprio,
anche in questo caso si prospetta il diritto di ripetizione (art. 2036).
Se tra due soggetti avviene uno spostamento patrimoniale, tale da generare l’arricchimento di uno e
il danno dell’altro, il danneggiato non ha azione verso chi si è arricchito a suo danno, né a titolo di
prezzo di vendita, nel caso dell’avulsione ad esempio, né a titolo di fatto illecito. Spostamenti
patrimoniali ingiustificati, possono essere causati o da fatti naturali, come l’avulsione, o da fatti
dell’uomo, come chi in buona fede consuma la cosa altrui, e vanno sotto il nome di arricchimento
senza causa, ossia privo di titoli che lo giustifichi. Nasce da questo fatto una specifica obbligazione
a carico dell’arricchito, questi è tenuto a indennizzare il danneggiato della diminuzione
patrimoniale che egli ha subito (art. 2024), nei limiti del suo arricchimento. Ciò significa che non è
contemplato un risarcimento del danno, ma un indennizzo limitato all’entità dell’altrui
arricchimento.
L’azione di arricchimento è una azione generale e sussidiaria, generale perché esperibile in una
serie limitata di ipotesi e sussidiaria perché è esperibile solo quando il danneggiato non può servirsi
di altre azioni, basate su contratto o fatto illecito, o su altro fatto o atto, per farsi indennizzare del
pregiudizio subito (art. 2042).

Capitolo ventunesimo
RESPONSABILITA’ DEL DEBITORE E GARANZIA DEL CREDITORE

La responsabilità patrimoniale
Il debito è il dovere del debitore di eseguire una data prestazione avente valore economico, sia essa
una prestazione di dare o di fare, dall’altro lato, il credito, equivale al diritto del creditore di esigere
quella determinata prestazione, cui il debitore è tenuto ad adempiere. La correlazione tra debito e
diritto di credito dei contraenti, costituisce appunto il rapporto obbligatorio, questo, per sua natura,
è destinato ad estinguersi con l’adempimento, in modo tale che il creditore realizzi il suo diritto e il
debitore consegua la propria liberazione dal vincolo.
Bisogna però sottolineare che la fonte che genera il rapporto obbligatorio, determina a carico del
debitore, una più generale conseguenza che investe il suo intero patrimonio, si tratta del c.d.
principio della responsabilità patrimoniale del debitore. Il debitore infatti, risponde
dell’adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri (art. 2740). Il debitore
dunque risponde non solo con i beni ch’egli possedeva alla conclusione del contratto, ma anche con
quelli acquistati successivamente, che di fatto vanno a formare una generale garanzia a favore del
creditore.
Da debito si deve comunque distinguere la responsabilità, il primo consiste nella prestazione
specifica dovuta dal debitore al creditore, la seconda ha invece per oggetto l’intero patrimonio del
debitore. Allo stesso modo, dalla parte del creditore, si distingue tra credito e garanzia, con credito
si identifica il diritto ad esigere una prestazione dedotta in obbligazione, con garanzia si indica,
l’intero patrimonio del debitore.
Al II comma dell’art. 2740, viene espresso che le limitazioni della responsabilità sono ammesse
solo nei casi stabiliti dalla legge, ma per regola generale, la responsabilità del debitore è illimitata,
investendo ogni suo bene, presente o futuro. Esempi di limitazione sono ad esempio la
responsabilità dell’armatore e quella di cui godono i membri della comunione fra i coniugi.
Il rapporto tra debito e responsabilità, e conseguentemente tra credito e garanzia, si manifesta in
varie fasi del rapporto obbligatorio.

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1. nei casi di obbligazione da contratto, si manifesta nella fase costruttiva del rapporto. Qui è
intuitivo, che si fa volontariamente credito ad una persona, in quanto questi dispone di un
patrimonio tale da fungere da idonea garanzia per il debito contratto. Il questi casi il
debitore può disporre solo dei beni immobili di valore superiore all’ammontare del debito, e
il creditore dunque, saprà che, in caso di inadempimento, potrà soddisfarsi con uno o più di
quei beni del debitore.
2. si manifesta nella fase estintiva del rapporto obbligatorio. La responsabilità patrimoniale del
debitore è preordinata all’eventualità che, al momento stabilito, il debitore non esegua la
prestazione dovuta. In questo caso il creditore potrà procedere all’esecuzione forzata, in
forma generica o in forma specifica. Sara esecuzione forzata in forma generica, quando la
prestazione ha per oggetto la consegna di una somma di denaro, in questo caso il debitore
potrà soddisfarsi sul patrimonio del debitore, facendo eseguire pignoramento e vendita di un
suo bene. Se l’obbligazione ha invece per oggetto un fare, un non fare o un consegnare, il
creditore, in caso di inadempimento, potrà soddisfarsi con una esecuzione forzata in forma
specifica della prestazione (nelle forme processuali all’artt. 2930-2933). In questi casi si può
ottenere, per provvedimento del giudice, la prestazione che il debitore si è rifiutato di
eseguire in modo spontaneo, oppure l’ufficiale giudiziario preleverà dal debitore le cose che
questi si è rifiutato di consegnare, dandole al creditore, oppure un terzo incaricato dal
giudice eseguirà la prestazione di fare, con spese a carico del debitore, o in fine, distruggerà
tutte le cose costituitesi in violazione della prestazione di non fare. Anche l’obbligazione di
contrattare può avere esecuzione forzata in forma specifica, la parte adempiente infatti, può
ottenere dal giudice, nei confronti dell’inadempiente, una sentenza che produce gli stessi
effetti del contratto non concluso.
Nel caso in cui l’esecuzione in forma specifica non è possibile, perché ad esempio la prestazione è
divenuta infungibile, il creditore potrà ottenere solo l’esecuzione forzata in forma generica (danni
per inadempimento + esecuzione generica). L’esecuzione in forma specifica può determinare anche
una esecuzione in forma generica, consistente nel rimborso delle spese sostenute per l’esecuzione in
forma specifica.
3. si manifesta nella fase intermedia, fra il momento costitutivo del rapporto e il tempo
dell’adempimento. Assumono importanza in questa fase, le vicende che possono investire il
patrimonio del debitore. Può infatti verificarsi una riduzione sensibile del patrimonio del
debitore tale da pregiudicare le possibilità di conseguire la prestazione da parte del creditore
o, in caso di inadempimento, di procedere con successo nella esecuzione forzata sul
patrimonio del debitore. In tale caso il creditore è legittimato ad esperire diverse misure di
tutela preventiva del credito. Un esempio è la decadenza del beneficio del termine, che
mostra come il mutamento delle condizioni patrimoniali del debitore possa influire sullo
stesso debito, quale era stato originariamente costituito, altri mezzi sono quelli di
conservazione della garanzia patrimoniale.

Garanzie reali: il pegno


Il patrimonio del debitore è la garanzia del creditore, ma è solo una garanzia generica. Il creditore
infatti non ha la certezza di potersi soddisfare in caso di inadempimento, su un dato bene del
debitore.
Una garanzia specifica, che dia al creditore la certezza di potersi soddisfare su un dato bene, è
invece rappresentata dalla costituzione del pegno o dell’ipoteca.
Pegno ed ipoteca hanno la funzione di vincolare un dato bene a garanzia di un dato credito: il bene
può appartenere o al debitore stesso o ad un terzo (c.d. terzo datore di pegno o ipoteca), che
acconsenta di garantire per un debito altrui.
Tra pegno ed ipoteca, riguardo all’oggetto c’è questa differenza: il pegno si costituisce su cose
mobili, o su universalità di mobili, oppure su diritti di credito (art. 2784), l’ipoteca si costituisce su
beni immobili, su diritti reali immobiliari e su beni mobili registrati (art. 2810).
Pegno ed ipoteca sono garanzie reali, e li si definisce come diritti reali di garanzia su cosa altrui: il
bene resta in proprietà di chi lo ha dato in pegno o in ipoteca, e può essere da questi liberamente
alienato.

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Il creditore, che nel caso del pegno si chiama creditore pignoratizio, e nel caso dell’ipoteca si
chiama creditore ipotecario, acquista sul bene un duplice diritto:
1. il diritto di procedere all’esecuzione forzata del bene anche nei confronti del terzo
acquirente. Questo perché pegno ed ipoteca seguono la cosa in tutti i suoi successivi
passaggi di proprietà, fino a quando il debito non sia estinto.
2. il diritto di soddisfarsi sul prezzo della vendita forzata del bene in pegno o in ipoteca, con
preferenza rispetto agli altri creditori del medesimo debitore. È questo il diritto di
prelazione, per cui il creditore pignoratizio è il primo a trarre soddisfazione dalla vendita
forzata del bene in pegno o ipotecato, se il ricavato della vendita forzata risulta superiore
all’ammontare del debito, il ricavato restante và ridistribuito tra gli altri creditori, e solo
quando tutti saranno soddisfatti, il restante andrà al debitore.
La cosa data in pegno o in ipoteca, può avere, come spesso accade, un valore superiore
all’ammontare del credito che garantisce. Di questo maggior valore il creditore non può profittare a
danno del debitore o degli altri creditori, per ciò è vietato il patto commissorio, l’accordo cioè che
preveda, in caso di inadempimento, che la cosa data in pegno o in ipoteca passi in proprietà del
creditore (art. 2744).
Il pegno si costituisce per contratto, che deve risultare da atto scritto: nel caso di cose mobili, è un
contratto reale che si perfeziona solo con la consegna della cosa in pegno al creditore o ad un terzo
designato dalle parti (art. 2786), se si tratta di pegno di crediti, un contratto che si perfeziona solo
con la notificazione del pegno al debitore del credito dato in pegno oppure con accettazione da
parte di questo (art. 2800).
La realità del pegno comporta lo spossessamento del proprietario e assolve, in tal modo, la funzione
di porre i terzi, cui il proprietario voglia alienare la cosa, nella condizione di rendersi conto che si
tratta di cosa della quale l’alienante non ha il possesso e quindi non ne ha piena disposizione. Allo
stesso modo la notificazione del pegno di crediti al debitore del credito dato in pegno vale ad
impedire che il debitore paghi nelle mani del proprio creditore, rendendo inutile così la funzione di
garanzia del pegno.
Il pegno e l’ipoteca non possono costituire oggetto di usucapione, poiché questo è modo di acquisto
di diritti reali di godimento, ma può acquistarsi, il pegno, a titolo originario, da non proprietario
mediante il possesso di buona fede (art. 1153 comma III).
Se il debitore paga, in capitale ed interessi, il credito garantito su cosa mobile, il creditore dovrà
restituirgli la cosa. Se il debitore non è adempiente, il creditore, dopo avergli intimato di pagare,
può far vendere la cosa ad un mediatore a ciò autorizzato, o chiedere al giudice che la cosa gli
venga assegnata in proprietà. Nel primo caso, l’eventuale eccedenza ricavata dal prezzo della
vendita, spetterà al debitore, o, se ve ne sono, agli altri suoi creditori; nel secondo caso occorrerà
invece una stima del valore del bene, la quale accerti che il bene non h valore superiore all’importo
del credito (artt. 2796-2798).
Il discorso è diverso per il pegno di crediti. Qui il creditore pignoratizio è tenuto a riscuotere il
credito alla scadenza, tratterrà quanto a lui dovuto, versando l’eventuale eccedenza al suo debitore
(art. 2803). Per ciò il pegno di crediti implica anche un mandato a riscuotere il credito del proprio
debitore.
Si parla di pegno irregolare, quando la cosa data in pegno è una somma di denaro o altre quantità di
cose fungibili non individuate, o delle quali è stata conferita al creditore la facoltà di disporre. Le
cose date in pegno passano in proprietà del creditore che, in caso di adempimento, è tenuto a
restituire, e che, in caso di inadempimento, tratterrà, restituendo solo la parte che ecceda
l’ammontare del credito garantito.

Garanzie reali: l’ipoteca


L’ipoteca ha ad oggetto beni immobili, o beni mobili iscritti ai pubblici registri, e per questo
differisce in primo luogo dal pegno. In secondo luogo la sua costituzione richiede una specifica
formalità, che è l’iscrizione in pubblici registri: nei registri immobiliari, per gli immobili, e nel
pubblico registro automobilistico, nello specifico caso che oggetto dell’ipoteca sia un’auto.
L’ipoteca può avere tre diverse fonti:

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1. ipoteca volontaria: si basa su un contratto costituitosi tra debitore o terzo datore di ipoteca
e creditore, o su un atto unilaterale (escluso il testamento) del debitore o del terzo datore di
ipoteca. Contratto e atto unilaterale, devono avere forma scritta a pena di nullità (art. 2821).
2. ipoteca giudiziale: si basa su una sentenza di condanna al pagamento di una somma di
denaro o all’adempimento di una data obbligazione o al risarcimento del danno, da
liquidarsi successivamente (art. 2818), e può anche basarsi su un decreto ingiuntivo reso
esecutivo.
3. ipoteca legale: può essere iscritta anche contro la volontà del debitore, nei casi previsti
dalla legge. Hanno diritto ad essa:
a) l’alienante di un immobile o di un bene mobile iscritto nei pubblici registri, che non sia
stato pagato dall’acquirente. In questo caso l’ipoteca si costituisce sul bene alienato e
garantisce il pagamento del prezzo (art. 2817 n. 1)
b) ciascun coerede sugli immobili dell’eredità, a garanzia del pagamento dei conguagli in
denaro spettantigli (art. 2817 n. 2)
l’ipoteca giudiziale si costituisce per iniziativa, meramente facoltativa, del creditore.
Diversa regola vale per l’ipoteca legale a favore dell’alienante e del coerede (art. 2834, legge n. 52
1985): il conservatore dei registri immobiliari, nel trascrivere un atto di alienazione o di divisione,
deve iscrivere d’ufficio l’ipoteca legale, a meno che dal titolo o da separato atto pubblico o scrittura
privata autenticata, risulti che vi è stata rinuncia all’ipoteca.
L’iscrizione dell’ipoteca, differisce dalla pubblicità dichiarativa che si fa ad esempio per la
proprietà, perché è pubblicità costitutiva, poiché l’ipoteca esiste solo se è iscritta nei pubblici
registri e solo dal momento della iscrizione (art. 2852). L’ipoteca è comunque inefficace se, benché
sia trascritta, il titolo, sulla base del quale l’ipoteca è stata iscritta, è nullo.
Su un medesimo bene si possono costituire più ipoteche, a garanzia di crediti diversi. Ogni
successiva ipoteca è, in ordine di tempo, contrassegnata da un numero crescente, chiamato grado, in
caso di esecuzione forzata sul bene ipotecato, verrà soddisfatto prima il creditore di primo grado, e
con le eventuali eccedenze dalla vendita, si darà soddisfazione al creditore di secondo grado, di
terzo e così via. Il creditore che ha una ipoteca di grado inferiore può estinguere con il pagamento,
il credito di chi ha una ipoteca di grado superiore, surrogandosi nei suoi diritti.
L’ipoteca conserva il suo effetto per venti anni, trascorsi i quali, l’ipoteca si estingue, salvo che ad
istanza del creditore l’iscrizione non venga rinnovata prima della scadenza (art. 2847). Se la
rinnovazione avviene dopo la scadenza, questa avrà valore di nuova iscrizione, producendo effetti e
prendendo grado dalla nuova data (art. 2848).
L’ipoteca è garanzia reale, e, come il pegno, segue il bene che investe in ogni atto di alienazione, il
bene ipotecato venduto, o che passa all’erede, è comunque gravato dall’ipoteca. Se il rinnovo
dell’ipoteca avviene dopo la scadenza, la nuova trascrizione sarà inefficace nei confronti del terzo
acquirente che abbia trascritto il suo titolo di acquisto (art. 2848 comma II). Il diritto di ipoteca non
è sottoposto a prescrizione, tuttavia si estingue con il decorso di venti anni dalla trascrizione del
titolo di acquisto da parte del terzo acquirente (art. 2880).
Alla scadenza del credito, a garanzia del quale l’ipoteca era stata costituita, il creditore non pagato
ha diritto di promuovere la vendita forzata del bene in confronto del debitore o del terzo acquirente
(art. 2808). Questi, per evitare la vendita forzata del proprio bene ha tre possibilità:
a) o paga lui stesso il creditore e i creditori ipotecari, liberando il bene dall’ipoteca
b) o effettua il rilascio del bene ipotecato, ossia rinuncia alla proprietà con una apposita
dichiarazione rilasciata alla cancelleria del tribunale (art. 2861)
c) o, infine libera il bene dall’ipoteca (purgazione dell’ipoteca): offrirà al creditore o ai
creditori una somma pari al prezzo di acquisto del bene, se nessun creditore si offre di
acquistare ad un prezzo superiore di almeno un decimo, il bene è liberato dall’ipoteca
contro il pagamento del terzo acquirente (art. 2889).
Il terzo acquirente che subisca l’esecuzione forzata del bene ipotecato, o che paghi i creditori
liberando il bene ipotecato o che rilasci il bene, ha azione di regresso nei confronti del debitore, per
essere da lui indennizzato (art. 2866).
Anche il terzo datore di ipoteca può pagare i creditori ipotecari, per evitare la vendita forzata, ed
anche questi ha azione di regresso nei confronti del debitore (art. 2871).

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L’ipoteca è, in linea di principio, speciale ed indivisibile: grava solo sui beni specificamente indicati
(devono essere indicati almeno tre confini dell’immobile) e solo per una somma determinata di
denaro (art. 2809 comma I); e grava, per intero, su tutti i beni ipotecati e su ogni loro parte (art.
2809 comma II). Fanno eccezione al principio di specialità le pertinenze dell’immobile, i
miglioramenti e le accessioni (art. 2810 n. 1- 2811).
Il principio di indivisibilità comporta che l’ipoteca sussista anche quando il credito sia stato
parzialmente soddisfatto, o quando il valore del bene ipotecato sia aumentato dalla data di
iscrizione. Tuttavia con consenso del creditore o con sentenza, si può ottenere la riduzione
dell’ipoteca: può consistere o nella riduzione della somma per la quale l’ipoteca fu iscritta, o nella
riduzione dell’iscrizione ad una parte soltanto dei beni originariamente ipotecati (art. 2872).
L’ipoteca si estingue a seguito della cancellazione dai registri di iscrizione, formalità altrettanto
necessaria per estinguerla, quanto lo è l’iscrizione per costituirla.
Anche per la cancellazione occorre un titolo: o l’estinzione dell’obbligazione, o la rinuncia espressa
da parte del creditore redatta per iscritto (art. 2879), o la vendita forzata del bene ipotecato, o il
perimento del bene o lo spirare del termine ventennale estintivo per l’ipoteca (art. 2878 ss.).
Il conservatore dei registri non può procedere d’ufficio alla cancellazione: occorre o la domanda
della parte interessata, corredata dal consenso del creditore ipotecario, o una sentenza o altro
procedimento giurisdizionale, che accerti una causa di estinzione dell’ipoteca e ne ordini la
cancellazione (art. 2884).
Il conservatore dei registri è responsabile dei danni cagionati con una indebita cancellazione. Se
questi si rifiuta, indebitamente di adempiere, l’interessato potrà ottenere un provvedimento
giudiziario che ordini la cancellazione dell’ipoteca (art. 2888).

Garanzie personali: la fideiussione


Nelle garanzie personali, garante è appunto una persona. Questa garantisce, con il proprio
patrimonio, l’adempimento di una obbligazione altrui.
Figura tipica di garanzia personale è la fideiussione, che è il contratto con il quale il fideiussore
garantisce l’adempimento di una altrui obbligazione, obbligandosi personalmente verso il creditore
(art. 1936 comma I). al contratto il debitore è estraneo, e ha efficacia anche se questi non è al
corrente della fideiussione (art. 1936 comma I).
L’effetto prodotto dalla fideiussione è la responsabilità solidale del debitore e del fideiussore, nei
confronti del creditore. Questi, a sua scelta, può esigere il pagamento dall’uno o dall’altro, senza
necessità di rivolgersi prima al debitore principale, salvo che ciò non sia previsto dal contratto (art.
1944). A questo modo il creditore potrà fare affidamento sulla responsabilità patrimoniale, di due
persone, anziché una.
Il diritto del creditore nei confronti del fideiussore decade però se, essendo scaduta l’obbligazione
principale, il creditore non ha agito in giudizio contro il debitore principale o contro il fideiussore,
entro sei mesi dalla scadenza (art. 1957).
La volontà di assumere una obbligazione fideiussoria deve essere espressa (art. 1937).
Il fideiussore diventa egli stesso debitore del creditore e la sua è tuttavia, una obbligazione
accessoria rispetto all’obbligazione garantita: è valida solo se è valida l’obbligazione del debitore
principale, salvo il caso che sia stata garantita l’obbligazione di un incapace (art. 1939). Per la
stessa ragione la fideiussione non può eccedere il valore del debito garantito (art. 1941), il
fideiussore inoltre può presentare le stesse eccezioni che spettano al debitore principale, compresa
l’eccezione di compensazione (art. 1247), ma è esclusa l’eccezione di incapacità del debitore
principale (art. 1945).
Se il creditore si rivolge al debitore principale e questi paga, si estingue l’obbligazione principale, e
di conseguenza anche la fideiussione.
Se invece il creditore si rivolge al fideiussore, questi ha azione di regresso nei confronti del debitore
per quanto ha pagato (art. 1950), ma perde l’azione di regresso se, omettendo di dare notizia
dell’avvenuto pagamento al debitore, quest’ultimo paga ugualmente (art. 1952).
Anche prima di aver pagato il debito il fideiussore può agire nei confronti del debitore principale
perché gli procuri la liberazione o, in mancanza, gli presti idonee garanzie per il regresso, se è stato

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convenuto in giudizio per il pagamento o se il debito è divenuto esigibile o sé, indipendentemente
da ciò, il debitore principale è divenuto insolvente (art. 1953).
Si può prestare fideiussione anche per una obbligazione futura, purché sia stabilito un importo
massimo garantito (art. 1938), entro questi limiti è efficace anche la fideiussione omnibus, con la
quale si garantiscono tutte le future obbligazioni di un soggetto, verso un altro soggetto.
Un’applicazione della fideiussione per debito futuro è il mandato di credito. È un contratto con il
quale un soggetto si obbliga verso un altro, che gli ha dato incarico, a fare un credito ad un terzo in
nome e per conto proprio, chi ha dato l’incarico risponde come fideiussore di un debito futuro (art.
1958).

Il concorso dei creditori e le cause di prelazione


Nei rapporti tra creditori di uno stesso debitore, vale la regola generale della parità di trattamento,
per cui i creditori hanno uguale diritto ad essere soddisfatti sui beni del debitore (art. 2741 comma
I). se più creditori promuovono la vendita forzata dei beni del debitore comune, ciascuno si
soddisferà sul ricavato della vendita in proporzione con l’ammontare dei rispettivi crediti.
Questa è però una regola generale, a cui fanno eccezione le cause di prelazione, le quali consistono
nel diritto di preferenza che è riconosciuto dalla legge a determinati crediti. Sono cause di
prelazione il pegno, l’ipoteca e i privilegi (art. 2741 comma II).
I privilegi sono diritti di preferenza accordati dalla legge a determinati crediti, in considerazione
della causa del credito, ossia della specifica natura del rapporto dal quale il credito deriva, e questa
è una valutazione riservata solo alla legge (art. 2745).
Il privilegio può essere generale o speciale: il primo spetta su tutti i beni mobili del debitore, il
secondo solo su determinati beni mobili o immobili (art. 2746).
I creditori non muniti di cause di prelazione sono detti creditori chirografari, quelli invece muniti di
pegno, ipoteca o privilegi, si dicono creditori privilegiati.
Il privilegio generale, spettante su tutti i beni mobili del debitore, è riconosciuto in considerazione
dell’esigenza di assicurare il soddisfacimento prioritario di categorie professionali che dalla
realizzazione del credito traggono sostentamento oppure in considerazione dell’esigenza di prelievo
fiscale dello Stato.
Il privilegio speciale si basa invece, su una specifica connessione fra il credito e la cosa mobili o
immobile, così il credito dell’albergatore ha privilegio sulle cose mobili portate in albergo dai
clienti, e i crediti relativi al miglioramento o alla conservazione di cose mobili hanno privilegio su
tali cose. Il privilegio speciale ha diritto di seguito, segue cioè la cosa anche se questa sia stata
alienata a terzi.
Tra i vari privilegi, generali o speciali è stabilito un ordine di preferenza all’art. 2777 (vedi pag.
409). I crediti che hanno pari collocazione entro l’ordine stabilito, concorrono tra loro secondo il
principio della parità di trattamento, in proporzione quindi al relativo importo.
Il pegno e l’ipoteca si collocano nell’ordine generale delle cause di prelazione, a questo modo il
pegno si inserisce, tra i mobili tra il IV e V posto, mentre l’ipoteca, sempre di mobili registrati, tra il
VI e VII posto, l’ipoteca di immobili si colloca all’ultimo posto nell’ordine dei privilegi sugli
immobili.

I mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale


Il creditore nella fase intermedia, quella tra il momento costitutivo del rapporto e l’adempimento,
può fruire di specifici mezzi di conservazione della sua garanzia patrimoniale.
a) Azione revocatoria.
Costituisce, per i creditori, un mezzo di reintegrazione della loro garanzia patrimoniale, tramite
richiesta al giudice infatti, qualora il debitore abbia disposto del proprio patrimonio, in maniera
pregiudizievole per i creditori, il giudice può dichiarare inefficaci o revocati, gli atti di disposizione
che hanno prodotto questi effetti ai creditori (art. 2901). L’inefficacia è però solo relativa, cioè l’atto
dispositivo non vale nei confronti dei soli creditori, questi infatti potranno soddisfarsi sul bene che
ha formato oggetto di disposizione, come se non fosse mai uscito dal patrimonio del debitore (art.
2902).

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Fra gli atti suscettibili di revoca rientrano anche i pagamenti di debiti non scaduti, non vi rientrano
i pagamenti di debiti scaduti, poiché rappresentano atti doverosi, e non di disposizione del
patrimonio.
L’azione revocatoria è di difficile esperimento, poiché il creditore deve provare:
1) il fatto oggettivo del pregiudizio che l’atto di disposizione del debitore ha arrecato alle sue
ragioni, ossia la sua impossibilità di soddisfarsi sul restante patrimonio del debitore.
2) Il fatto oggettivo della conoscenza di questo pregiudizio da parte del debitore e, se l’atto di
disposizione è a titolo oneroso, anche da parte del terzo acquirente; ossia deve dimostrare
che questi sapeva che, acquistando dal suo dante causa, pregiudicava la garanzia
patrimoniale dei crediti di questo.
3) Il fatto soggettivo della dolosa preordinazione dell’atto, quando questo è anteriore al
sorgere del credito, e se l’atto è a titolo oneroso, anche da parte del terzo acquirente.
Le prestazioni di garanzia se contestuali al sorgere del credito, si presumono a titolo oneroso (art.
2901 comma II), in caso contrario si presumono a titolo gratuito, non avendo rappresentato una
condizione per la concessione del credito.
L’azione revocatoria si prescrive a cinque anni dalla data dell’atto (art. 2903).
Se il debitore è un imprenditore commerciale insolvente, dichiarato fallito, si potrà esperire l’azione
revocatoria fallimentare.
b) azione surrogatoria
se il debitore trascura di esercitare i propri diritti, in relazione al suo patrimonio, ledendo la
garanzia patrimoniale dei propri creditori, questi possono sostituirsi al debitore e, per assicurare che
siano soddisfatte o conservate integre le sue ragioni, esercitare le azioni che al debitore spettano
contro terzi, esclusi solo i diritti e le azioni a carattere strettamente personale, come quelle nascenti
dai rapporti di famiglia (art. 2900).
Chi agisce in surrogatoria reintegra il patrimonio del debitore a vantaggio di tutti i creditori, i quali,
una volta che un bene è rientrato nel patrimonio della controparte, possono concorrere su di esso
secondo le regole di preferenza.

Altri mezzi di tutela preventiva del credito


a) decadenza del debitore insolvente dal beneficio del termine.
Se nella fase intermedia, tra il sorgere del rapporto e la scadenza del termine pattuito per
l’adempimento, il debitore non può più far fronte a tutti i suoi pagamenti, il creditore, il cui debito
non è ancora scaduto, per prevenire un prosciugamento del patrimonio del debitore, ad opera degli
altri creditori, può esigere immediatamente la prestazione dovutagli, concorrendo così sul
patrimonio del debitore (art. 1186). La stessa norma vale anche quando il creditore abbia diminuito,
per fatto proprio, le garanzie date, o non abbia prestato le garanzie promesse.
b) Diritto di ritenzione.
Previsto dal codice civile solo per casi particolari, ma al quale si tende ad attribuire portata
generale. Il creditore, che detenga una cosa del debitore, può rifiutarsi di restituirla fino a quando il
suo credito non sia stato soddisfatto. Il diritto di ritenzione è, per comune opinione, opponibile a
terzi. La ritenzione può essere semplice o Può accompagnarsi a questo diritto un privilegio del
creditore sulla cosa detenuta, la c.d. ritenzione privilegiata, che gli permette di soddisfarsi sulla cosa
con preferenza rispetto agli altri creditori.
c) Pegno gordiano.
Il creditore pignoratizio, dopo essere stato pagato per il credito garantito, può esercitare il diritto di
ritenzione sulla cosa già trattenuta in pegno, a protezione di un nuovo credito con il medesimo
debitore (art. 2794 comma II).
d) Sequestro conservatorio.
È un mezzo giudiziario (art. 2905), che consente al creditore di chiedere ed ottenere il sequestro di
tutti o solo di alcuni beni del debitore, quando, prima di una sentenza che accerti il suo diritto, tema
che il debitore possa disperdere il suo patrimonio. Il giudice consente tale provvedimento quando,
dopo una rapidissima indagine, si convince che il debito probabilmente esiste. I beni sequestrati
vengono dati ad un sequestratario, fino a quando non sia concluso il giudizio sull’esistenza del
credito, ed ogni atto di alienazione dei beni è del tutto in efficace nei confronti del creditore

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sequestrante (art. 2906). Se non viene provata l’esistenza del debito, il preteso debitore avrà diritto
alla restituzione dei suoi beni e ad un risarcimento per danni, se il debito invece esiste, il creditore
potrà convertire il sequestro in pignoramento e soddisfarsi dalla vendita forzata dei beni del
debitore.

Capitolo ventiduesimo
CIRCOLAZIONE ED ALTRE VICENDE DEL CREDITO E DEL CONTRATTO

La cessione del credito


Anche i crediti, al pari dei beni, possono circolare, cioè possono passare da un soggetto ad un altro,
tramite vendita, permutazione, donazione ed ogni altro atto di alienazione, che sostituiscono al
creditore originario un nuovo creditore, e queste operazioni di cessione continuano finché il
debitore non adempie all’obbligo o interviene un’altra causa estintiva per l’obbligazione.
Questa è la cessione dei crediti, tramite il quale il creditore trasferisce ad altri, a titolo oneroso o
gratuito, il proprio credito, senza necessariamente dovere rendere partecipe anche il debitore, con il
suo consenso (art. 1260).
Il primo creditore è detto cedente, il secondo è il cessionario, il terzo è detto debitore ceduto. Questi
è comunque tenuto al suo originario onere di adempimento, poiché non importa, per il diritto, che
adempia nelle mani di un soggetto oppure di un altro, e per questo è superfluo, ai fini della cessione
del credito, il suo consenso.
La cessione dei crediti si inserisce nel più generale fenomeno della circolazione della ricchezza, con
una differenza essenziale rispetto alla circolazione dei beni. La circolazione dei beni attua la
circolazione di una ricchezza presente, la cessione dei crediti invece, attua la circolazione di una
ricchezza futura, poiché la realità della ricchezza, derivante dal credito, è posticipata al momento
dell’adempimento del debitore. Il sistema produttivo, in questo modo, non rimane inerte, ma
funziona sulla base della circolazione di una ricchezza futura. Per rendere più ampia, sicura e
veloce la circolazione del credito viene utilizzato l’apposito strumento della cambiale.
La cessione dei crediti non è un contratto a sé stante, ma è l’oggetto di un contratto traslativo di
diritti, e gli stessi concetti di vendita, permuta e donazione, ad esempio, sono formulati non solo per
il trasferimento della proprietà, ma anche per il trasferimento di un altro diritto (artt. 1470, 1552,
769).
Non tutti i crediti sono cedibili, sono infatti esclusi quelli di carattere strettamente personale (art.
1260 comma I), per i quali non può dirsi indifferente che il debitore adempia a favore di un
soggetto o di un altro. In alcuni casi la cessione è vietata in assoluto: magistrati, avvocati, notai, non
possono neppure per interposta persona, rendersi cessionari dei diritti sui quali è sorta contestazione
dinnanzi all’autorità giudiziaria di cui fanno parte o nella cui giurisdizione esercitano la loro
funzione (art. 1261). Sono incedibili anche i crediti alimentari e, in genere, quelli inerenti ai
rapporti di famiglia.
La cessione del credito è efficace, nei confronti del debitore ceduto, solo dal momento in cui è stata
notificata a questo, o è stata da questo accettata. Fino a quel momento il debitore si libera
adempiendo nelle mani del cedente, salvo che il cessionario non provi che ne era comunque a
conoscenza. Dopo il momento della notifica, se il debitore paga nelle mani del cedente, paga male,
e può essere costretto dal cessionario, a ripetere la prestazione in suo favore (art. 1264). Se il
medesimo credito è stato ceduto a più persone, prevale il cessionario che prima ha notificato il suo
diritto al debitore ceduto (art. 1265).
La cessione del credito, fa acquistare diritti a titolo derivativo, perciò è retto dal principio secondo
cui l’avente causa non può acquistare diritti maggiori rispetto a quelli cedutigli dal dante causa, per
questo il creditore cessionario è esposto alle stesse eccezioni che il debitore ceduto, avrebbe potuto
opporre al creditore cedente, se ad esempio il debitore era, a sua volta, creditore del cedente, può
opporre, anche dopo la cessione, l’eccezione di compensazione, salvo che non abbia accettato la
cessione (art. 1248).
Queste remore nell’acquisto del credito, sono eliminate nei casi di acquisto a titolo originario, validi
però solo quando il credito sia rappresentato da un titolo di credito, beni mobili sottoposti alle stesse
regole sull’acquisto a titolo originario.

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Può presentarsi l’ipotesi che il credito ceduto sia inesistente, magari perché nascente da contratto
nullo, e può anche accadere che, pur trattandosi di credito esistente, il debitore non adempia. Nel
primo caso esiste una disciplina simile all’evizione nel trasferimento di cose, il cedente, se cede a
titolo oneroso, deve garantire l’esistenza del credito, se invece la cessione è gratuita, la garanzia è
dovuta, come nella donazione di cose, solo se espressamente pattuita (art. 1266).
Nel caso invece che il debitore ceduto non adempia, per regola generale il creditore cedente non
garantisce la solvenza del debitore, addossando al cessionario, oltre che la spesa per la cessione,
anche il rischio di trovarsi insoddisfatto. Si può porre rimedio a questa eventualità, applicando, sul
contratto di cessione, la clausola di buon fine, con la quale il cedente garantisce la solvenza del
debitore ceduto, con la conseguenza che se questi non adempie, il cessionario potrà esigere il
pagamento dal creditore cedente (art. 1267). Nel primo caso si ha una cessione pro soluto, nel
secondo una cessione pro solvendo.

La delegazione, l’accollo, l’espromissione


Si può essere allo stesso tempo creditori di un soggetto e debitori di un altro soggetto.
Schematicamente, A è debitore di C, ed inoltre è creditore di B. è un rapporto che interessa tre
soggetti, il debitore-creditore A, il creditore C e il debitore B. questi rapporti, legano in modo
obbligatorio solo due soggetti, e cioè A e C, e A e B, non esiste dunque alcun rapporto che leghi B
e C. alcune operazioni comunque mirano ad istaurare un simile rapporto, per raggiungere un
determinato risultato.
Prima fra tutte vi è la delegazione, che si presenta in due forme:
a) delegazione di debito.
Il debitore (delegante), assegna al proprio creditore (delegatario), un nuovo debitore (delegato), il
quale si obbliga nei confronti del creditore. Perché questa operazione sia possibile, è necessaria la
sussistenza di un rapporto obbligatorio che leghi il delegante al delegato, in modo tale che il primo
sia creditore del secondo.
Il rapporto tra il delegante e il delegatario è detto rapporto di valuta, quello preesistente, che
intercorreva tra delegante e delegato, si dice rapporto di provvista. La funzione della delegazione è
fare in modo che l’unico adempimento del delegato al delegatario, estingua due rapporti
obbligatori, il rapporto di valuta e quello di provvista.
Perché l’operazione sia possibile occorre:
a) la delegazione in senso stretto, l’invito del delegante al proprio debitore (esempio: la prego
di volersi obbligare nei confronti di C a pagare a lui la somma tot che lei deve a me)
b) la promessa al delegatario con la quale il delegato dichiara di volersi obbligare nei suoi
confronti (ex: su invito di A, mi obbligo a pagare a lei la somma tot che ad A devo)
c) l’accettazione del delegatario. Questi può limitari alla semplice accettazione, che può
risultare tacitamente dal mancato rifiuto espresso (art. 1333), ma deve essere una
accettazione espressa se con essa si dichiara di voler liberare il delegante (art. 1268 comma
I).
se il creditore delegatario, dichiara espressamente di voler liberare il delegante, questi è sostituito
dal nuovo debitore (delegazione privativa). Si produce una novazione soggettiva, che da vita ad una
nuova obbligazione che ha di nuovo e diverso la persona del debitore (art. 1235), e se il delegato
non paga il creditore non potrà rivolgersi al delegante (art. 1274).
Se il delegatario, non libera l’originale debitore, si avrà una delegazione cumulativa, per cui se il
delegato non adempie, il creditore può rivolgersi al debitore originario (art. 1268 comma II).
La delegazione può essere causale (o titolata), oppure può essere astratta (o pura). Nel primo caso il
delegato menziona, al creditore delegatario, il tipo di rapporto di provvista che lo lega al delegante,
oppure menziona il rapporto di valuta che lega delegante e delegatario, o li menziona entrambi.
Nella delegazione astratta invece, nessuno dei due rapporti è menzionato. Da ciò se la delegazione
è causale, il delegato può rifiutarsi di pagare, eccependo al delegatario le eccezioni relative al
rapporto di provvista o sul rapporto di valuta. Nella delegazione astratta, invece, le eccezioni sulla
mancanza del rapporto di valuta o sulla mancanza del rapporto di provvista, non possono essere
opposte dal delegato, che deve comunque pagare, salvo il caso che manchino entrambi i rapporti
(art. 1271 commi II e III).

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2.delegazione di pagamento.
In questo caso il delegato non istaura un rapporto obbligatorio con il delegatario, liberandosi dagli
obblighi con il delegante, bensì è semplicemente inviato a pagare, al delegatario, il debito del
delegante che lo lega al primo. Il delegato, anche se debitore delegante, non è tenuto ad accettare
l’incarico (art. 1269 comma II).
Può essere, come la delegazione di debito, causale o astratta, ed è sottoposta alle medesime norme.
Ne sono applicazioni pratiche i c.d. mandati di pagamento: un ente, ad esempio, che ha un deposito
presso una banca, da mandato alla banca di pagare un proprio creditore.
Analoghe alla delegazione, sono l’accollo e l’espromissione.
L’espromissione differisce dalla delegazione, poiché l’iniziativa non è presa dal debitore delegante,
bensì dal debitore delegato, che senza delegazione del primo. Il delegato che qui è detto
espromittente, si obbliga spontaneamente nei confronti dell’espromissario (il creditore delegatario),
per pagare il debito dell’espremesso (il delegante). L’espromissione, come la delegazione, può
essere privativa o cumulativa, ma può essere solo parzialmente astratta, la si può astrarre cioè solo
dal rapporto dei provvista, non dal rapporto di valuta, e l’espromittente può sempre rifiutarsi di
pagare eccependo la mancanza del rapporto di valuta (art. 1272 commi II e III).
L’accollo è diverso, poiché l’accollante (B) si obbliga verso l’accollato (A) ad assumere il debito
verso l’accollatario (C). valgono i principi del contratto a favore di un terzo. Può essere causale o
astratto, privativo o cumulativo, ma l’accollante può sempre opporre le eccezioni relative al
contratto di accollo (art. 1273).

La cessione del contratto


La cessione del credito, da un lato, e la delegazione o l’espromissione o l’accollo, dall’altro, sono
vicende che toccano rispettivamente dal lato attivo e dal lato passivo singoli rapporti obbligatori,
nascenti da contratto o da altri atti o fatti.
È però possibile che una vicenda circolatoria, investa globalmente la posizione di parte di un
contratto, determinando il trasferimento di tutti i rapporti, sia di credito sia di debito, che dal
rapporto derivano. Si parla dunque di cessione del contratto, tramite la quale, una parte, il cedente,
sostituisce a se un terzo, il cessionario, nei rapporti derivanti da un contratto a prestazioni
corrispettive, con la conseguenza che il cessionario assumerà la stessa posizione del cedente, nei
confronti dell’altro contraente, il contraente ceduto.
Per perfezionare la cessione del contratto occorre però il consenso del contraente ceduto (art. 1406).
Ciò si spiega se si considera che per il contraente ceduto, il cessionario, non è solo un nuovo
creditore, ma è anche, in rapporto sempre al contraente ceduto, un nuovo debitore, le cui qualità
personali e condizioni patrimoniali, non sono, di regola, indifferenti per il creditore (fanno
eccezione i contratti di società, dove è indifferente il consenso del contraente ceduto).
La cessione del contratto è, a sua volta, l’oggetto di un nuovo contratto, per cui si possono applicare
le stesse operazioni di alienazione, relative ai beni e ai crediti.
È ovviamente possibile solo se le prestazioni contrattuali devono essere ancora eseguite (art. 1406).
A tale riguardo bisogna comunque distinguere tra contrattai ad esecuzione istantanea o differita, e
contratti ad esecuzione continuata o periodica. Nei primi, se una delle parti ha già eseguito la sua
prestazione, la cessione del contratto non può avere luogo, solo, se mai, la cessione del suo credito
alla controprestazione. Le prestazioni quindi devono essere ancora ineseguite, se ad esempio un
commerciante compra merci per rivenderle, ed ha già trovato un compratore, anziché concludere un
contratto per comprare ed uno per vendere, realizzerà il suo guadagno dalla cessione del contratto,
al compratore.
Nei contratti ad esecuzione continuata o periodica, la cessione del contratto è possibile anche
quando una o entrambe le parti hanno dato inizio all’esecuzione, e la cessione e possibile fino a
quando il contratto non sia sciolto, fino a quando, cioè, il contratto è ancora suscettibile di
esecuzione.
Il cedente è, in linea di principio, liberato dagli obblighi verso il contraente ceduto, a meno che
questi, nell’accettare la cessione, intenda non liberare l’altro dagli obblighi contrattuali. In tal caso
se il cessionario non adempie, il contraente ceduto potrà rivolgersi al cedente (art. 1408).

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Il contraente ceduto può opporre al cessionario, solo le eccezioni relative al contratto, non quelle
derivanti da altri rapporti con il cedente (art. 1409).
Le garanzie dovute dal cedente al cessionario, sono analoghe a quelle relative alla cessione dei
crediti: il cedente garantisce la validità del contratto ceduto, ma non garantisce, salvo patto
contrario, l’adempimento del contraente ceduto (art. 1410 commi I e II).

Il pagamento con surrogazione


La cessione del credito rappresenta una delle possibili forme di successione nel credito, cessione
che si determina per contratto tra il nuovo ed il precedente creditore. Una ulteriore forma di
successione nel credito è la surrogazione.
Si caratterizza per il fatto che la successione del credito è collegata al pagamento: in tre ordini di
casi il pagamento soddisfa il creditore, ma non estingue l’obbligazione, determina invece il
subingresso di chi ha pagato il debito, nei diritti del creditore. Questo accade in tre casi:
I. surrogazione per volontà del creditore: (adempimento del terzo) il creditore, ricevendo il
pagamento da un terzo, può surrogarlo nei suoi diritti verso il debitore purché lo faccia
contestualmente al pagamento (art. 1201).
II. surrogazione per volontà del debitore: questi, se prende una somma a mutuo da un terzo per
pagare un debito, può surrogare il mutuante nei diritti del suo creditore, anche senza il
consenso di questo, purché nel contratto sia indicata la specifica destinazione della somma
presa a prestito, e nella quietanza di pagamento sia indicata, dal debitore, la provenienza della
somma di denaro impiegata per il pagamento (art. 1202).
III.surrogazione legale: opera senza il consenso della volontà delle parti, nei casi menzionati
all’art. 1203:
a) a vantaggio del creditore chirografo, che paga un altro creditore che a diritto di essergli
preferito, in ragione di una causa di prelazione.
b) a vantaggio dell’acquirente di immobili che, fino alla concorrenza del prezzo di acquisto,
paga uno o più creditori, a favore dei quali l’immobile è ipotecato.
c) a vantaggio di colui, che essendo tenuto con altri al pagamento del debito, aveva interesse di
soddisfarlo.
d) a vantaggio dell’erede con beneficio di inventario, che paga con denaro proprio i debiti
ereditari.
e) negli altri casi stabiliti dalla legge (vedi codice per i rimandi)

Parte quinta
I SINGOLI CONTRATTI

Capitolo ventottesimo
I CONTRATTI PER LA CIRCOLAZIONE DEI BENI

La vendita e la permuta
La vendita è il più importante dei contratti mediante i quali si attua la circolazione della ricchezza,
intesa, la circolazione, nel senso più ampio. Il contratto di vendita può avere infatti ad oggetto, oltre
che il trasferimento della proprietà di beni mobili o immobili (art. 1470), il trasferimento di diritti,
che siano diritti reali oppure diritti di credito (cessione del credito), ma la stessa espressione “altri
diritti”, comprende anche il caso di trasferimento di contratto, che non è traslativo propriamente di
diritti, ma del più complesso rapporto tra contraenti o di parte di un contratto.
La vendita è un contratto a titolo oneroso, in quanto attua il trasferimento di un diritto dietro un
corrispettivo in denaro, detto prezzo, e la sua causa è appunto lo scambio tra un diritto e una somma
di denaro. La vendita dunque assolve ad una duplice funzione economica, da un lato permette la
circolazione dei beni, e più ampiamente la circolazione dei diritti, dall’altro permette la circolazione
del denaro.
Il prezzo in denaro è il carattere che distingue la vendita dalla permuta, qui infatti il trasferimento di
un diritto avviene contro il trasferimento di un altro diritto (art. 1552). La causa della permuta è
infatti lo scambio di cosa contro cosa, o di cosa contro diritto, o di diritto contro diritto.

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Il contratto di vendita produce due ordini di effetti:
a) effetti reali. In virtù dell’art. 1376 la vendita trasferisce la proprietà o l’altro diritto dal
venditore al compratore, per effetto del solo consenso.
b) effetti obbligatori. La vendita è fonte d’obbligazione per il compratore e per il venditore.
Sul compratore incombe l’obbligazione di pagare il prezzo (art. 1498). Il prezzo può essere
determinato dal contratto o può essere affidato alla determinazione di un terzo, eletto nel
contratto o da eleggere successivamente (art. 1473 comma I). ma se le parti non si
accordano per la sua nomina o il terzo non accetta l’incarico, la determinazione è fatta dal
presidente del tribunale, su richiesta di una delle parti (art. 1473 comma II). In mancanza di
diversa pattuizione il prezzo deve essere pagato al momento della consegna della cosa
venduta (art. 1498). Sul venditore grava una serie più complessa di obblighi:
1. l’obbligazione di consegnare la cosa al compratore, la quale, per solo effetto del consenso, è
già di proprietà di quest’ultimo.
2. l’obbligazione di fargli acquistare la proprietà della cosa o il diritto, quando l’acquisto non
è effetto immediato del contratto (art. 1476 n. 2), un esempio di questa eventualità è quando
la cosa sia identificata nel genere, per cui l’acquisto può avvenire solo in seguito alla
identificazione (poi, guarda prossimo par.)
3. l’obbligazione di garantire il compratore dall’evizione (art. 1476 n. 3).
Si ha evizione quando, dopo la vendita, un terzo rivendica, con successo, la proprietà della cosa e il
compratore perciò ne perde la proprietà. Sul venditore incombe l’obbligazione di garantire di essere
proprietario di ciò che vende ( o comunque titolare del diritto che trasferisce): se il compratore
subisce l’evizione, il venditore dovrà restituirgli il prezzo e risarcirgli il danno subito (art. 1483). La
garanzia per evizione non è dovuta quando il contratto sia stato concluso con la clausola “a rischio
e pericolo del compratore” (art. 1488).
4. l’obbligazione di garantire il compratore dei vizi occulti della cosa (art. 1476 n. 3).
Si tratta di vizi materiali della cosa, che la rendono inidonea all’uso cui è destinata o che ne
diminuiscono in modo apprezzabile il valore (art. 1490 comma I). devono essere poi vizi occulti,
cioè che il compratore non conosceva o che non poteva facilmente riconoscere, al momento della
conclusione del contratto (art. 1491). Ai vizi occulti la legge equipara la mancanza delle qualità
promesse o delle qualità essenziali della cosa (art. 1497). La garanzia per vizi occulti può essere
esclusa o limitata dal contratto, ma il patto che la esclude o la limita non ha effetto a favore del
venditore che sapeva dei vizi occulti della merce (art. 1490 comma II). Il venditore, salvo diversa
disposizione contrattuale, ha solo otto giorni dalla scoperta, per denunciare i vizi occulti o la
mancanza di qualità della merce (art. 1495 comma I). effettuata tempestivamente la denuncia, ha
poi il termine di prescrizione di un anno dalla consegna per far valere in giudizio la garanzia (art.
1495 comma III). Per comune giurisprudenza, queste regole non valgono nel caso aliud pro alio,
ossia nell’ipotesi in cui la cosa difetti delle sue qualità necessarie ad assolvere la sua funzione
economica.
Il compratore in giudizio può esercitare due azioni:
• azione redibitoria: richiede la risoluzione del contratto e la restituzione del prezzo, e deve a
sua volta restituire la cosa se non è perita a causa dei vizi (art. 1493).
• Azione estimatoria: si domanda la riduzione del prezzo e, se lo ha già pagato, il suo parziale
rimborso (art. 1492 comma I).
Scelta con domanda giudiziale una delle due azione, il compratore non potrà più esercitare l’altra
(art. 1492 comma II).
In ogni caso il compratore ha diritto al risarcimento dei danni subiti, se il venditore non prova di
aver senza colpa ignorato i vizi della cosa (art. 1494 comma I).
Al venditore è così imposta la specifica obbligazione di controllare che la cosa posta in vendita sia
immune da vizi, liberandosi da responsabilità verso il compratore dimostrando di aver esercitato,
con la dovuta diligenza, gli opportuni controlli sulla cosa.
A maggior tutela dei consumatori, le garanzie nella vendita dei beni di consumo sono regolate da
norme speciali, dette in attuazione della direttiva comunitaria n. 44 del 1999, dagli artt. 1519 bis,
1519 novies.

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Per consumatore si intende solo la persona fisica, che comperi il bene per il suo consumo o
l’utilizzazione propria, e non quale mezzo per produrre altri beni o per eseguire servizi
nell’esercizio di una attività imprenditoriale o professionale.
Per bene di consumo si intende qualsiasi bene mobile, sempre che definibile come bene di
consumo, ossia adatto al diretto soddisfacimento di bisogni propri del compratore o della sua
famiglia, con esclusione quindi dei valori di scambio, quali le azioni di società e gli strumenti
finanziari in genere. Alcuni beni, benché di largo consumo, sono esclusi da questa categoria: acqua,
gas, ed energia elettrica, anche se somministrati per l’utenza personale o familiare, salvo che
l’acqua o il gas non siano confezionate in volume determinato o in quantità determinata (bottiglie,
bombole) (art. 1519 bis).
Il referente economico della speciale disciplina è il sistema della distribuzione a catena, che vede
tra produttore e consumatore, una serie più o meno ampia di intermediari.
La fattispecie regolata è quella descritta come difetto di conformità del bene consegnato al
consumatore rispetto al contratto di vendita (art. 1519 ter). Corrisponde nella sostanza alle classiche
figure dei vizi occulti e della mancanza di qualità essenziali o di qualità promesse.
Secondo le norme di origine comunitaria il prodotto difetta di conformità al contratto quando:
• Non è idoneo all’uso al quale servono beni dello stesso tipo
• Non è conforme alla descrizione fatta dal venditore
• Non è conforme al campione presentato dal venditore al consumatore
• Oppure non presenta le caratteristiche abituali di un bene dello stesso tipo, che il
consumatore può ragionevolmente aspettarsi.
Il venditore finale è dunque obbligato nei confronti del consumatore, per i difetti di conformità del
prodotto, anche quando il difetto del prodotto da lui venduto, non gli sia imputabile direttamente,
ma imputabile al produttore o ad un altro intermediario della catena distributiva. Il venditore non
può addurre il fatto che il difetto preesisteva all’acquisto del prodotto da parte sua, e che non era a
lui noto o da lui non eliminabile.
Le qualità del prodotto contrattualmente dichiarate, rispetto alle quali il consumatore può
denunciare un difetto di conformità, non necessariamente sono qualità dichiarate dal venditore
finale, ma, come spesso accade, sono oggetto di pubblicità o dichiarazioni dello stesso produttore,
oppure sono qualità attestate dall’etichetta del prodotto, per cui il venditore risponde anche del
contratto da lui stipulato, ma il cui contenuto è stato da altri predeterminato, a monte della catena
distributiva.
La vendita di cose mobili è sottoposta ad altre norme particolari. Se il compratore non paga il
prezzo, il venditore può far rivendere la cosa, a spese dell’altro contraente, da un mediatore
professionale, se si tratta di merci, oppure da un agente di cambio, se si tratta di titoli, o in
mancanza di questi nel luogo dell’esecuzione della vendita, da un ufficiale giudiziario (art. 1515, art
83 disp. Att.).
Se è inadempiente il venditore, il compratore potrà a sua volta dare esecuzione coattiva, rivendendo
le cose agli stessi soggetti cui il venditore può proporre la vendita (art. 1516).
Il venditore che abbia consegnato la cosa, prima del pagamento del prezzo, può (se il pagamento
del prezzo non era sottoposto a termine) chiedere in giudizio, entro quindici giorni dalla consegna,
che la cosa venduta gli sia restituita, purché questa si trovi ancora presso il compratore (art. 1519).
È un’azione che non implica la domanda di risoluzione del contratto, con essa il compratore mira
solo a recuperare il possesso della cosa al fine di poter esercitare, fino a quando il compratore non
avrà pagato, il suo diritto di ritenzione.
Nella vendita di cose per le quali è stato emesso un titolo rappresentativo (fede di deposito,
duplicato della lettera di vettura), il venditore adempie l’obbligazione di consegnare la cosa,
rimettendo al compratore il titolo che la rappresenta (art. 1527). Al momento della consegna del
titolo, conseguentemente dovrà essere pagato il prezzo (art. 1528).
Altre norme particolari riguardano la vendita di cose immobili.
Queste possono essere vendute a misura (ad esempio quel determinato terreno di tot ettari in
ragione di tot euro all’ettaro), oppure a corpo (ad esempio quel determinato terreno segnato da quei
determinati confini). Nel primo caso, se la misura effettiva dell’immobile eccede o è in difetto,
rispetto alla misura indicata sul contratto, il compratore o deve pagare un supplemento del prezzo

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corrispettivo dell’eccedenza, oppure ha diritto ad una corrispondente riduzione del prezzo. Ha
facoltà di recedere dal contratto, se l’eccedenza supera la ventesima parte della misura dichiarata
(art. 1537). Nel caso della vendita a corpo la differenza tra misure effettive e misure dichiarate è
ininfluente sul prezzo, a meno che non sia superiore alla ventesima parte (art. 1538).
La vendita mobiliare e immobiliare può essere conclusa con patto di riscatto, con il quale il
venditore si riserva il diritto di riacquistare la cosa venduta allo stesso prezzo (art. 1500), entro un
termine che non può superare i due anni per i mobili e cinque anni per gli immobili (art. 1501). La
facoltà di riscatto è un diritto potestativo del venditore, e si esercita con un atto unilaterale di per sé
produttivo dell’effetto giuridico della retrocessione della proprietà.
Il patto di riscatto crea sulla cosa venduta un vincolo reale, per cui il compratore può sempre
rivendere la cosa, ma il compratore può riscattarla anche dal terzo acquirente, purché il patto sia ad
esso opponibile, quindi nel caso degli immobili è necessario trascriverlo,e per i mobili deve
risultare da data certa anteriore al trasferimento. Il riscattante riacquista la proprietà della cosa
libera da pesi ed ipoteche, che il compratore vi aveva eventualmente costituito, ma è tenuto a
rispettare la locazione (art. 1504-1505).
Diversa è la vendita con patto di retrovendita, non prevista dalla legge: qui il compratore si obbliga
a rivendere la cosa al venditore con un nuovo contratto di vendita. Non valgono in questo caso i
limiti di tempo e di prezzo, che non necessariamente deve essere uguale a quello di vendita. Il patto
di retrovendita ha solo effetti obbligatori, per cui se il compratore lo trasferisce ad un terzo, il
venditore lo ha definitivamente perduto, e potrà pretendere dal compratore solo il risarcimento per
danni.

La vendita obbligatoria
Si parla, comunemente, di vendita obbligatoria, quando il trasferimento della proprietà della cosa
venduta non è effetto diretto ed immediato del contratto, e quindi sul debitore incombe l’obbligo di
fare acquistare la proprietà della cosa al compratore (art. 1476 n. 2). L’effetto traslativo della
proprietà, in questi casi, rimane sempre un effetto reale della vendita, con la differenza che, invece
che prodursi immediatamente, alla conclusione del contratto, si produce in un momento successivo
(e può anche non prodursi affatto).
Quale sia il momento successivo di acquisto della proprietà, e in cosa consista la specifica
obbligazione di trasferire la proprietà al compratore, da parte del venditore, si può dire solo in
relazione ai singoli casi di vendita obbligatoria, che sono:
1. la vendita di cose determinate nel genere. La proprietà passa solo al momento di
individuazione delle cose. L’obbligazione di far acquistare la proprietà, del venditore, al
compratore consiste nel prestarsi all’individuazione della cosa, nei modi della legge o del
contratto.
2. vendita di cose future. Le cose future sono cose che ancora non esistono al momento della
conclusione del contratto, ma che si spera vengano ad esistenza. Due esempi sono la vendita
del futuro raccolto e la vendita dell’edificio da costruire. La proprietà passa solo quando la
cosa o le cose vengono ad esistenza (art. 1472). La costruzione può dirsi venuta ad esistenza
quando esistano muri perimetrali e copertura (art. 2645 bis, comma VI), per i prodotti del
suolo, si ritengono venuti ad esistenza al momento della loro separazione dal terreno o dalla
pianta madre.
La vendita della cosa futura può essere vendita della “speranza” (emptio spei), oppure vendita della
cosa sperata (emptio rei speratae). Il primo è un contratto aleatorio, il compratore dovrà pagare il
prezzo e, se lo ha già pagato, non potrà chiederne la restituzione se la cosa sperata non verrà ad
esistenza. Il secondo è un contratto commutativo, nullo, o meglio inefficace, se la cosa non viene ad
esistenza (art. 1472 comma II). In entrambi i casi, l’obbligazione del venditore di far acquistare la
proprietà al compratore ha per oggetto i comportamenti che, nei diversi casi, appaiono necessari per
far sì che la cosa venga ad esistenza: così ad esempio chi ha venduto il futuro raccolto del proprio
terreno agricolo, non sarà libero di astenersi dal coltivare il fondo, o di destinarlo ad una
coltivazione diversa da quella determinata nel contratto.
3. vendita di cosa altrui. Per vendere un bene non occorre esserne proprietario, è infatti valida,
la vendita di cose che, al momento del contratto, non appartengono al venditore.

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Naturalmente la vendita di cosa altrui non comporta il trasferimento di proprietà della cosa
al compratore, è bensì fonte di obbligazione per il venditore, obbligo di doversi procurare la
proprietà del bene alienato. Il compratore acquisterà la proprietà nel momento stesso in cui
il venditore diventerà proprietario della cosa (art. 1478), senza bisogno di un nuovo atto di
trasferimento da parte del debitore (funzione della vendita di cose altrui). Se il venditore non
riuscirà a procurarsi la proprietà del bene altrui sarà inadempiente, subendo le conseguenze
dell’inadempimento contrattuale: risoluzione del contratto, risarcimento dei danni.
Per aversi una valida vendita di cosa altrui non occorre che il compratore sia a conoscenza
dell’altruità della cosa, si producono però diverse conseguenze a seconde che vi sia o meno questa
consapevolezza, da parte del compratore. Se il compratore sapeva dell’altruità del bene e non vera
nel contratto un termine per l’adempimento del venditore, il compratore potrà chiedere al giudice la
fissazione di un termine (art. 1183), e solo dopo l’inutile decorso di questo egli potrà chiedere la
risoluzione del contratto. Nell’altro caso, quando il compratore scoprirà che gli è stato venduto un
bene appartenente a terzo, il compratore potrà domandare subito la risoluzione del contratto, se nel
frattempo il venditore non gli avrà procurato la proprietà della cosa (art. 1479).
4. vendita a rate con riserva di proprietà. Si basa su tre principi (art. 1523):
a) il venditore è obbligato a consegnare subito la cosa al compratore, che ne acquista in
immediato il godimento.
b) Il compratore diviene proprietario della cosa solo con il pagamento dell’ultima rata del
prezzo (deroga al principio secondo cui il venditore può rifiutarsi di consegnare prima di
aver ricevuto il pagamento del prezzo).
c) I rischi relativi alla cosa venduta, come il perimento di questa, passano dal venditore al
compratore già al momento della consegna (deroga al principio secondo cui i rischi relativi
alla cosa incombono sul proprietario), se la cosa perisce prima del pagamento integrale,
quindi, il compratore dovrà comunque continuare a pagare il prezzo.
Se il compratore non paga, alle scadenze pattuite, le rate del prezzo, il venditore può ottenere la
risoluzione del contratto. Non può ottenerla però per il mancato pagamento di una rata che non
superi l’ottava parte del prezzo complessivo (art. 1525). Risolto il contratto il venditore potrà
esigere la restituzione della cosa, ma a sua volta dovrà restituire le rate già riscosse, salvo il diritto
di trattenere una quota a titolo di compenso per l’uso che il compratore ha fatto della cosa (art.
1526).
La cosa venduta con pagamento a rate con riserva di proprietà, appartenendo al venditore fino al
pagamento dell’ultima rata, prima di questo tempo, non può essere aggredita dai creditori del
compratore, se i creditori sottopongono a pignoramento la cosa venduta, il venditore potrà opporsi
al pignoramento recando un atto scritto, avente data anteriore al pignoramento, che rechi la riserva
di proprietà a suo favore (art. 1524 comma I). se si tratta di cose mobili iscritte ai pubblici registri,
la trascrizione sarà mezzo sufficiente di opposizione ai terzi (art. 1524 comma I).

Il contratto estimatorio
L’acquisto di un bene da parte consumatore finale, nella maggior parte dei casi, è solo
un’operazione di trasferimento che è stata preceduta da una più intensa circolazione del bene, il
quale, dal produttore, è passato lungo una estesa catena di intermediari, fino ad arrivare al
dettagliante che vende al consumatore finale. In questo modo in questo modo il produttore, e tutti
gli intermediari successivi fino al dettagliante, trasferiscono oneri e rischi inerenti la distribuzione
del bene.
È però possibile utilizzare, per la distribuzione, una diversa figura contrattuale: il contratto
estimatorio, che consente di addossare al produttore il rischio dell’invenduto, esonerando il
venditore.
Nella pratica si parla di conto di deposito, frequente nei rapporti tra editore e giornalaio, o tra
produttori di gioielli e i loro rivenditori. È il contratto mediante il quale una parte (il produttore),
consegna all’altra (il rivenditore), una o più cose mobili, e l’altra parte può, nel termine pattuito, o
pagare il prezzo delle cose, o restituirle (art. 1556).
Chi ha consegnato le cose ne resta proprietario, ma non può disporne ossia venderle ad altri (art.
1558 comma II), chi le ha ricevute, pur non essendone proprietario, può disporne, vendendole (art.

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1558 comma I). se al termine pattuito, il venditore avrà venduto le cose, ne pagherà il prezzo
pattuito con il produttore, altrimenti le potrà restituire tutte o solo l’eccedenza, pagando il prezzo
del venduto.

La somministrazione
La somministrazione è un contratto che si inserisce nello schema della vendita obbligatoria,
assumendo i caratteri del contratto ad esecuzione periodica o continuata. È il contratto con il quale
una parte si obbliga, verso il corrispettivo di un prezzo, ad eseguire a favore dell’altra prestazioni
periodiche o continuative di cose (art. 1559).
Se l’entità della somministrazione non è indicata nel contratto, varrà la regola per cui il
somministrante fornirà quantità di beni corrispondenti al fabbisogno normale del somministrato
(art. 1560 comma I). quando è stabilito, nel contratto, un limite minimo o massimo della
somministrazione, spetta al somministrato stabilire quanto dovutogli (art. 1560 comma II).
Il prezzo, se non è stabilito dal contratto, si determina secondo le norme sulla vendita; è corrisposto
all’atto delle singole prestazioni ed in proporzione ad esse, se si tratta di somministrazione
periodica, oppure alle scadenze d’uso, se si tratta di somministrazione a carattere continuativo (art.
1562).

Concessione di vendita
È un contratto nascente dalla somministrazione tra produttore e rivenditore. In questo caso il
produttore concedente si impegna si impegna somministrare al rivenditore concessionario, la
quantità di prodotti che questi gli richiede. Il rivenditore si obbliga ad ordinare una quantità minima
del prodotto, contrattualmente pattuita, e ad eseguirne la vendita in una zona determinata, dando
assistenza ai clienti prima e dopo la vendita. Differisce dalla ordinaria somministrazione, per i
caratteri di contratto atipico, per le interne regole di organizzazione dell’impresa (es.
organizzazione dei locali), imposte al rivenditore, che prescrivono le modalità di vendita (il
produttore predispone solitamente le condizioni generali di contratto) e riservano al concedente di
stabilire il prezzo di vendita da praticare ai consumatori.

Franchising (“privilegio”) e factoring


Sono contratti, di derivazione statunitense, tra produttore e rivenditore, dove l’ingerenza del primo
si manifesta in misura più penetrante, rispetto alla concessione di vendita.
Il produttore è il franchisor, il rivenditore il franchisee, il primo è l’elaboratore del piano di mercato
dei propri prodotti, studiato in tutti i particolari, anche quelli esecutivi, il secondo si presenta invece
come mero esecutore del piano proposto dal primo; e si presenta al pubblico con la stessa immagine
imprenditoriale del produttore, fino ad ingenerare nei consumatori il convincimento che sia lo
stesso produttore ad agire come distributore dei suoi prodotti.
Entro il vasto fenomeno della distribuzione, c’è poi da menzionare, sotto un particolare aspetto, il
contratto di factoring, introdotto anche in Italia come contratto atipico, dalla legge n. 52 del 1991.
Viene in considerazione lo specifico rischio, nella distribuzione, per il produttore o per il
rivenditore, che è il rischio dell’insolvenza dei clienti. Il factor è un imprenditore che si interpone
tra il fornitore di beni o servizi, e la clientela, stipulando con il primo, appunto, il contratto di
factoring, per cui:
a) Il fornitore si obbliga a sottoporre al factor i contratti conclusi o da concludere con i clienti,
e il factor si riserva la facoltà di approvare i crediti nascenti da tali contratti, valutata la
solvibilità dei clienti.
b) Il fornitore si obbliga a cedere al factor i crediti da questo approvati, e il factor si obbliga a
sua volta a versare al fornitore, alla scadenza dei crediti, il pattuito corrispettivo della
cessione (equivalente all’importo dei crediti, meno la somma di copertura dei rischi assunti,
delle spese di riscossione ecc..), oltre che a svolgere per il fornitore i servizi di
contabilizzazione dei rapporti oggetto del contratto.

Capitolo ventinovesimo
I CONTRATTI PER IL GODIMENTO DEI BENI

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La locazione
La locazione è il contratto con cui una parte, il locatore, si obbliga a far godere all’altra parte, il
locatario o conduttore, una cosa mobile o immobile, per un dato tempo, verso un dato corrispettivo
(art. 1571).
È un contratto consensuale, cioè si perfeziona con il solo consenso delle parti, è inoltre un contratto
con soli effetti obbligatori, in quanto il conduttore non consegue alcun diritto reale sulla cosa locata,
bensì un titolo di credito, avente per oggetto il godimento della cosa stessa.
È infine un contratto a titolo oneroso, poiché è essenziale, ai fini di una locazione valida, la
pattuizione di un corrispettivo per il godimento della cosa.
Il godimento della cosa è parte del contenuto del diritto di proprietà, e il proprietario, o l’enfiteuta
o l’usufruttuario, continua a godere della cosa, non tramite l’uso, ma tramite il frutto civile
derivante dalla locazione: il corrispettivo; lo stesso godimento del conduttore è limitato, limitato nel
tempo e limitato nella destinazione, egli può infatti usarne solo nell’uso, determinato, stabilito dalla
locazione.
La locazione è uno dei contratti più antichi, e i suoi vantaggi si riflettono sia sul proprietario, sia sul
non proprietario, il primo infatti continua a godere della cosa, traendone una rendita, al secondo
invece permette di utilizzare le cose altrui, per i propri scopi. La causa della locazione sta appunto
nello scambio tra concessione di godimento di un bene e corrispettivo del godimento.
La locazione può avere ad oggetto una qualsiasi cosa mobile o immobile (casa, fondo, auto, nave),
e può trattarsi inoltre di una cosa produttiva, di per sé idonea a produrre frutti (miniera, azienda
industriale, albergo), in questo ultimo caso la locazione assume lo specifico nome di affitto, e gode
di una disciplina più specifica. Norme particolari valgono inoltre per la locazione di immobili
urbani.
Per la conclusione del contratto di locazione, non è necessaria la forma scritta, neanche nei casi di
locazione immobiliare. È necessaria la forma scritta, a pena di nullità, per le locazioni immobiliari
ultranovennali (art. 1305 n. 8), le quali sono soggette a trascrizione (art. 2643 n. 8).
Con la locazione, il locatore si obbliga (art. 1575):
a) A consegnare la cosa al conduttore
b) A mantenere la cosa in condizioni tali da servire all’uso convenuto nel contratto. Spetta al
locatore di eseguire le riparazioni necessarie a tal fine, mentre al conduttore spettano le
piccole riparazioni ordinarie (art. 1576)
c) Garantire il pacifico godimento della cosa al conduttore.
Questa garanzia interviene quando terzi arrechino molestie che diminuiscano l’uso o il godimento
della cosa del locatario, ma opera solo nel caso in cui i terzi pretendono di avere diritti sulla cosa
(art. 1585 comma I). il locatore per adempiere l’obbligazione di garanzia, dovrà agire direttamente
nei confronti del terzo, perché sia dichiarato inesistente il diritto da lui preteso, ed ordinata la
cessazione delle molestie (azione negatoria), nel caso sia il terzo ad agire contro il conduttore, il
locatore dovrà assumere la lite (art. 1586). Contro le molestie di un terzo che non pretende diritti
sulla cosa, il conduttore dovrà difendersi da sé agendo in proprio nome (art. 1585 comma II),
esercitando l’azione di manutenzione, eccezionalmente concessa al locatario, ossia ad un detentore.
Il conduttore è a sua volta obbligato:
a) A prendere la cosa in consegna, dal locatore, ed ad usarne con la diligenza del buon padre di
famiglia, per l’uso stabilito nel contratto (art. 1587 n. 1).
Se la cosa ricevuta in locazione perisce o subisce deterioramento, il conduttore ne risponde, a meno
che non provi che il perimento o l’usura della cosa è dovuto a causa a lui non imputabile (art.
1588). Non risponde, ovviamente, del perimento o del deperimento derivante dal tempo (vetustità).
Se apporta miglioramenti alla cosa, non ha diritto di farsi indennizzare dal locatore, può però
opporre il loro valore in compensazione dei danni per deterioramento. Se ha eseguito addizioni,
ossia aggiunte, e queste sono separabili dalla cosa, alla fine della locazione potrà toglierle, salvo
che il locatore non voglia tenerle, pagando la minor somma fra il valore e la spesa; se le addizioni
non sono separabili, comunque, non avrà diritto all’indennizzo per le spese sostenute (artt. 1592-
1593).

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b) A dare il corrispettivo nei termini stabiliti (art. 1587 n. 2). Il corrispettivo consiste in una
somma di denaro, commisurata alla durata della locazione. I corrispettivi determinati ad
anno o a mese, sono detti canoni, e vengono corrisposti periodicamente; gli altri sono dati di
generalmente alla fine del contratto.
c) A restituire la cosa, al termine della locazione, nel medesimo stato in cui l’ha ricevuta, salvo
il deterioramento derivato dall’uso (art. 1590).
Se la cosa viene restituita in ritardo, il conduttore dovrà pagare il corrispettivo anche per il periodo
di ritardo, salvo l’obbligo di dovere risarcire il locatore per il maggior danno (art. 1591), consistente
nel più alto prezzo che il locatore avrebbe ottenuto per le mutate condizioni di mercato, da altro
conduttore.
Essenziale per la locazione è la temporaneità del godimento, in quanto non è possibile stipulare una
locazione di durata superiore a trenta anni, se stipulata per durata superiore a questo limite, si riduce
automaticamente alla durata di trenta anni (art. 1573).
La locazione può essere a tempo determinato, e in questo caso cessa con lo spirare del termine, se
invece è a tempo indeterminato, spira con il recesso unilaterale di una delle parti, comunicata
all’altro contraente con il preavviso stabilito nel contratto (disdetta) (art. 1596). La locazione a
tempo determinato è suscettibile di rinnovazione tacita, infatti se dopo la scadenza, il conduttore
rimane nella detenzione della cosa con il consenso del locatore, il contratto si ritiene tacitamente
rinnovato a tempo indeterminato (art. 1597).
Il diritto del locatario è opponibile a terzi acquirenti, purché la locazione risulti da data certa
anteriore al trasferimento (art. 1599), il nuovo proprietario rimane a sua volta vincolato dalla
locazione, e subentra nei diritti e negli obblighi del vecchio proprietario, derivanti dal contratto (art.
1602).
Il conduttore può sublocare la cosa, cioè darla a sua volta in locazione, senza il consenso del
locatario, salvo che la sublocazione non fosse vietata dall’originario contratto . il consenso del
locatore occorre per la sublocazione di cose mobili (art. 1594). Il conduttore, non pagato dal
conduttore, può agire direttamente contro il subconduttore per ottenere il corrispettivo della
sublocazione (art. 1595).

La locazione di immobili urbani


i vantaggi della locazione si riflettono sia sul proprietario, sia sul non proprietario, il primo infatti
continua a godere della cosa, traendone una rendita, al secondo invece permette di utilizzare le cose
altrui, per i propri scopi. Il locatore ovviamente mira ad ottenere dal contratto, la maggior rendita
possibile, all’opposto il conduttore cercherà di pattuire un canone della minore entità possibile.
L’ammontare del canone è rimesso all’accordo delle parti, secondo i principi generali
sull’autonomia contrattuale. Esso dipenderà di fatto, dalla legge di mercato, della domanda e
dell’offerta. Se la domanda prevarrà sull’offerta, saranno i conduttori a concorrere tra loro, e
vincerà quello disposto a pagare il canone più alto; nel caso invece la domanda sia inferiore
dell’offerta, saranno gli aspiranti locatori a gareggiare fra loro nell’abbassare l’entità dei canoni.
Sugli opposti interessi delle parti, influisce anche la durata della locazione, in quanto il conduttore
pagherà sempre lo stesso canone, per tutta la durata della locazione, anche quando le mutate
condizioni di mercato, provochino un innalzamento o una riduzione del costo dei canoni.
Ai principi generali sono sottratte le locazioni di immobili urbani, valgono la leggi n. 392 del 1978
e la n. 431 del 1998, regole che separatamente riguardano:
a) Le case per abitazione.
La legge del 1998 si è sostituita a quella del 1992 e del 1978, che, concependo la casa come
un bisogno primario, avevano stabilito il c.d. equo canone, per cui il canone non poteva
superare il 3,85 % del valore dell’immobile. La legge del 1998 ha soppresso definitivamente
l’equo canone ed è stato introdotto un duplice regime:
a. Locazione a libero mercato, con canone rimesso all’autonomia contrattuale; ma la durata
della locazione non può essere inferire a quattro anni, con rinnovo per altri quattro anni, in
mancanza di disdetta, con preavviso dei almeno sei mesi, motivata dal bisogno per uso
proprio del locatore, o dalle altre circostanze indicate all’art. 3 della legge.

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b. Locazioni definite in base agli accordi definiti in sede locale fra le organizzazioni della
proprietà edilizia e le organizzazioni dei conduttori maggiormente rappresentative, aventi
per oggetto l’entità dei canoni e della durata dei contratti di locazione, che non può essere
inferiore a due anni con rinnovo ad altrettanta durata, salva disdetta motivata del locatore
(art. 2 della legge).
b) Immobili urbani ad uso diverso dall’abitazione, ancora regolati dalla legge del 1978. in
questi casi è avvenuta una sospensione delle leggi di mercato, in modo tale che la rendita
immobiliare non incida sulle attività economiche o sociali, aumentandone i costi. Non c’è
un criterio di legge per determinare il valore iniziale del canone che è rimesso, dunque, alle
leggi di mercato. La durata non può essere inferiore a sei anni, e si rinnova di sei anni in sei
anni, salva disdetta di una delle parti.

L’affitto
La locazione che ha per oggetto una cosa produttiva, prende il nome di affitto (art. 1615). È
necessario, perché non si abbia una normale locazione, che la cosa sia di per sé produttiva di frutti,
come un fondo rustico o un’azienda (art. 2562), non si tratta di affitto se la cosa locata è uno
strumento produttivo.
L’affittuario ha l’ulteriore obbligo di curare la gestione della cosa produttiva, secondo la sua
destinazione economica (art. 1615), al contrario del semplice conduttore che può anche astenersi
dall’uso. E ciò detto va sia a favore del locatore, la cui azienda se sfruttata in modo adeguato non
perde valore economico, sia a favore della produzione nazionale.
Sul piano dell’affittuario invece, egli ha il diritto di fare propri i frutti, che dalla cosa produttiva
derivano (art. 1615).
Il locatore ha un diritto di controllo, anche con accesso in luogo, sull’osservanza da parte
dell’affittuario degli obblighi che gli incombono (art. 1619). Il locatore può chiedere la risoluzione
del contratto, se l’affittuario non destina al servizio della cosa i mezzi necessari per la sua gestione,
se non osserva le regole della buona tecnica o se muta la destinazione economica della cosa (art.
1618). A differenza del semplice conduttore, l’affittuario non può sublocare senza il consenso del
locatore (art. 1624).
L’affitto dei fondi rustici può interessare anche le scorte del fondo: le scorte vive, come il bestiame
da lavoro o da allevamento, e le scorte morte, come macchine, attrezzi e foraggi (art. 1641 – 1640).
Una ulteriore specie di affitto del fondo rustico è l’affitto al coltivatore diretto, caratterizzato dal
fatto che l’affittuario è un piccolo imprenditore agricolo, che coltiva il fondo con il lavoro manuale
prevalentemente proprio e dei componenti della propria famiglia.
La legge n. 203 del 1982, ha introdotto nuove norme per la determinazione dell’equo canone e per
la disciplina dei miglioramenti del fondo, mentre ha fissato a quindici anni la durata minima
dell’affitto a coltivatore diretto. L’affittuario può sempre recedere dal contratto, il locatore può, solo
in caso di inadempimento dell’affittuario, richiedere al giudice la risoluzione.

Il leasing o locazione finanziaria


Un contratto atipico largamente presente in Italia, di ricezione americana, è il contratto di leasing.
Per comprendere questo modello bisogna far riferimento all’impresa di leasing. Questa si interpone
tra due categorie di imprenditori: da un lato gli imprenditori produttori o distributori di attrezzature
idonee alla produzione, dall’altro gli imprenditori utilizzatori di tali strumenti produttivi. L’impresa
di leasing si interpone tra produttore e utilizzatore, comperando o facendo costruire dal primo il
bene, su indicazione dell’utilizzatore, restandone proprietaria e concedendo, il bene o i beni, in
godimento al secondo, che ne assume tutti i rischi.
In forza del contratto di leasing o locazione finanziaria:
a) Il concedente si obbliga a consentire all’utilizzatore il godimento della cosa, per un tempo
determinato, di norma inferiore alla vita economica del bene. può essere pattuito a favore
dell’utilizzatore, o la facoltà di proroga al termine del contratto, oppure l’opzione di
acquisto dei beni, al termine del contratto.
b) L’utilizzatore assume i rischi inerenti alla cosa e si obbliga a corrispondere al concedente un
canone periodico, il cui ammontare tende, rapportato alla durata del contratto, a eguagliare il

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valore capitale del bene, con i relativi interessi e le quote di rischio e di profitto dell’impresa
di leasing.
Il contratto assolve essenzialmente una funzione di finanziamento, equivalendo nella sostanza ad un
prestito d’impresa di leasing all’utilizzatore. La garanzia dell’impresa di leasing sta nel fatto di
rimanere comunque proprietaria del bene dato in godimento all’utilizzatore.

Locazione e noleggio della nave


L’armatore assume l’esercizio di una nave, anche non essendone proprietario, è responsabile del
valore della nave più degli eventuali proventi del viaggio, infatti ha limitazione della responsabilità
patrimoniale, la forma richiesta del contratto di locazione della nave, è scritta, e non permette
sublocazione.
Con noleggio si utilizza una nave altrui già equipaggiata, viaggiante sotto nome e responsabilità di
altro armatore, il noleggiante, per contratto, si obbliga a procedere ai viaggi commissionatigli dal
noleggiatore (appalto o impiego commerciale, trasporto di merci proprie o altrui (vettore)). Si
fruisce del servizio di impresa altrui. La responsabilità per danni a terzi è del noleggiante, è del
noleggiatore per le obbligazione assunte dal comandante o dall’equipaggio.

Contratti per utilizzo di computer


Hardware e software sono beni materiali (esemplari in serie o supporti), sia immateriali (idee o
opere di ingegno). Se il software è commissionato ad un’impresa, si ha un contratto d’appalto, se
commissionato a libero professionista, si tratta di contratto d’opera intellettuale.
La fruizione di centri di calcolo (C.E.D.) è un contratto di somministrazione di servizi periodici.
Sono contratti di utilizzazione dei computer, contratti con condizioni generali, quando solo uno dei
due contraenti è forte, ad eccezione del caso che entrambi siano contraenti forti (P.A.).
Vendita hardware, locazione software (licenza d’uso)
Locazione hardware e software
Leasing Hardware e locazione software
C’è collegamento contrattuale, ma rapporto unitario, nei rapporti che prevedono forniture di
hardware (vendita, leasing o locazione), manutenzione e aggiornamento software (appalto),
locazione software.
Se c’è una vendita di bene immateriale, si ha diritto patrimoniale di autore su opera di ingegno, se
c’è vendita di bene materiale c’è semplice fruizione dell’opera di ingegno.
Responsabilità contrattuale: per cattivo funzionamento dell’hardware o errori di programmazione
del software. Se l’hardware è stato acquistato il venditore risponde dei danni (denuncia entro 8gg.
Ed azione entro un anno), per i danni da cattiva assistenza, entro 60gg. Devono essere denunciati i
vizi (art. 1667), se l’hardware e software sono dati in locazione o in leasing, i vizi della cosa sono
risarciti dal locatore, salvo assenza di colpa, per i danni da cattiva assistenza, come nel caso della
vendita. Le clausole di esonero da responsabilità non valgono se i vizi privano la cosa delle sue
qualità essenziale alla sua funzione economica, perché sarebbe di esonero da responsabilità che per
l’art. 1229, sono valide solo per responsabilità per colpa lieve. È possibile agire per responsabilità
extracontrattuale per danni da cattivo funzionamento, per difetti di costruzioni, anche ad opera di
terzi, contro il produttore.

Capitolo trentesimo
I CONTRATTI PER LA PRODUZIONE DI BENI O L’ESECUZIONE DI SERVIZI

L’appalto
In alcuni settori del sistema produttivo, l’imprenditore non produce in serie, bensì provvede alla
vendita operando su commissione del cliente. È il caso questo degli appaltatori di opere (costruzioni
di edifici) o degli appaltatori di servizi (imprese di pulizie per uffici).
Per l’art. 1655 l’appalto è il contratto mediante il quale, l’appaltatore si obbliga verso il
committente, dietro corrispettivo di denaro, a compiere un’opera o un servizio, con propria
organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio. L’appaltatore inoltre, per
eseguire l’opera o il servizio utilizza propri materiali (art. 1658), ed assume il rischio dell’affare:

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a) Il rischio di non coprire il corrispettivo pattuito, i costi di costruzione dell’opera o di
esecuzione del servizio. Se i costi dei materiali o della manodopera aumentano dopo la
conclusione del contratto, oltre il dieci per cento del compenso pattuito per l’opera,
l’appaltatore può chiedere una revisione del corrispettivo, e può chiederla, nell’inversa
ipotesi, anche il committente.
b) Il rischio di non ricevere il compenso pattuito, se nonostante l’attività da lui svolta e le spese
affrontate, non riesce a realizzare l’opera, oppure se la realizza, ma non secondo il progetto
convenuto o comunque a regola d’arte (art. 1667) o, se infine l’opera perisce prima della
consegna al committente (art. 1673).
L’obbligazione assunta dall’appaltatore, non è una obbligazione di mezzi, avente per oggetto lo
svolgimento di una determinata attività, è bensì una obbligazione di risultato, per cui l’appaltatore
risulta inadempiente in tutti quei casi in cui non procura al committente il risultato pattuito. Solo
qualora l’impossibilità della prestazione non sia imputabile a nessuno dei contraenti, l’appaltatore
ha diritto a chiedere il compenso per la parte d’opera o servizio svolta, nella misura in cui la sua
attività sia utile al committente (art. 1672).
L’appaltatore è inadempiente anche quando l’opera da lui realizzata sia difforme dal progetto
convenuto o presenti intrinseci vizi. Il committente ha sessanta giorni dalla scoperta, 1 anno se si
tratta di immobili, per denunciare le difformità e i vizi, ed invocare la garanzia dell’appaltatore (art.
1667). Può chiedere che per le difformità o i vizi l’appaltatore provveda, a sue spese
all’eliminazione, oppure può chiedere una proporzionale riduzione del corrispettivo, salvo il
risarcimento del danno per colpa dell’appaltatore (art. 1668). La garanzia non è dovuta
dall’appaltatore se il committente aveva accettato l’opera ed era a conoscenza delle difformità o i
vizi oppure erano da lui conoscibili con ordinaria diligenza.
È d’altra parte protetta l’aspettativa di profitto dell’appaltatore: il committente può recedere dal
contratto in qualsiasi momento, ma deve corrispondere all’appaltatore il rimborso delle spese da lui
sostenute e risarcirlo del mancato guadagno (art. 1671).
L’appaltatore può avere per oggetto prestazioni continuative o periodiche di servizi, sono i casi del
c.d. appalto-somministrazione: ad esso si applicano anche le norme, perché compatibili, sulla
somministrazione (art. 1677).

Il contratto d’opera
Il contratto d’opera ha la stessa struttura dell’appalto: il prestatore d’opera si obbliga verso il
committente a compiere, dietro corrispettivo, un’opera o un servizio, dall’appaltatore differisce il
prestatore, poiché compie l’opera con lavoro prevalentemente proprio (art. 2222). Perciò se
l’appalto è il contratto del grande o medio imprenditore, il contratto d’opera è quello del piccolo
imprenditore, e in particolare dell’artigiano.
Il lavoro del prestatore d’opera deve essere necessariamente lavoro autonomo, non ci deve essere
cioè un vincolo di subordinazione nei confronti del committente (art. 2222), altrimenti si sarà in
presenza di un contratto di lavoro subordinato. Il criterio di differenziazione dei due contratti,
risiede nella esenzione del prestatore d’opera e nella soggezione del prestatore di lavoro
subordinato all’altrui potere direttivo, circa le modalità di esecuzione della prestazione.
Il criterio invece, per distinguere il contratto d’opera da quello di vendita è qui fornito dall’art.
2223, sta nello stabilire se le parti abbiano in prevalente considerazione l’opera oppure la materia:
è contratto di vendita ad esempio quello con cui si chiede un caffè al bar, è contratto d’opera invece,
quello con cui si commissiona un vestito al sarto.
Il contratto d’opera è il contratto mediante il quale il lavoratore autonomo o l’artigiano si procura
sostentamento, ma il corrispettivo non si calcola in base al lavoro svolto dal lavoratore, bensì,
qualora questo non sia stabilito nel contratto o né esistano tariffe professionali o usi al riguardo, in
relazione al risultato ottenuto e dal lavoro normalmente necessario per ottenerlo.
Il codice civile a questo modo, addossa al prestatore d’opera, e non al committente, il rischio del
lavoro, trattando il lavoratore manuale autonomo alla stessa stregua dell’appaltatore. Il lavoratore
autonomo infatti, se per causa non imputabile ne a lui ne al committente l’esecuzione dell’opera
diventa impossibile, al punto tale da non portare alcun risultato utile al committente, avrà lavorato

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invano. Come per l’appaltatore in questi casi, al lavoratore autonomo spetta un compenso nei limiti
dell’utilità che la parte del lavoro svolto porta al committente (art. 2228).
Dal normale contratto d’opera manuale si distingue il contratto d’opera intellettuale (art. 2230),
ossia quello che ha per oggetto una prestazione svolta, a favore del committente, dagli esercenti le
c.d. professioni liberali (avvocati, medici, ingegneri), tenuti all’iscrizione nei rispettivi albi
professionali, pena la mancanza del diritto al compenso per l’opera svolta (artt. 2229 – 2231).
L’obbligazione del prestatore d’opera intellettuale, a contrario dell’appalto e del contratto d’opera,
è sempre una obbligazione di mezzi, avente per oggetto una condotta professionale diligente ed
esperta, l’impiego di mezzi idonei a conseguire un risultato, ma non ha per oggetto la realizzazione
del risultato. Per questo il prestatore di lavoro intellettuale sarà comunque adempiente, ed avrà
diritto al corrispettivo, quando, agendo con la perizia e la diligenza richiesta, il suo lavoro non avrà
prodotto i risultati sperati dal committente. La prestazione implica la risoluzione di problemi tecnici
di speciale difficoltà, il prestatore d’opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o colpa
grave (art. 2236).

Il trasporto
Il trasporto è il contratto il cui servizio consiste nel trasferire persone o cose da un luogo all’altro, il
committente nel trasporto di persone è il viaggiatore, il mittente nel trasporto di cose, e chi si
obbliga, verso corrispettivo, al trasporto è il vettore (art. 1678).
L’obbligazione del vettore è una obbligazione di risultato, che consiste nell’obbligo di portare a
destinazione convenuta le cose o le persone, e si obbliga a portare a destinazione le persone
incolumi e le cose intatte.
Il vettore è inadempiente e risponde del danno:
a) Per la mancata esecuzione del trasporto o il ritardo, salvo provi che il mancato trasporto o il
ritardo sono dovuti a causa a lui non imputabile.
b) Per il sinistro, che durante il trasporto, abbiano subito i passeggeri, e per le perdite o le
avarie delle cose trasportate. La prova liberatoria di questa responsabilità è diversamente
articolata, a seconda che si tratti di trasporto di cose o di persone:
1) Nel trasporto di cose il vettore è responsabile dal momento della consegna da parte del
mittente al momento in cui le porge al destinatario. Si libera dalla responsabilità per perdita
o avaria se dimostra che queste sono state dovute a caso fortuito, oppure da vizi della cosa
trasportata e in genere per fatto del mittente. Deve fornire la prova positiva che identifichi la
specifica causa, a lui non imputabile, della perdita o del danno, con la conseguenza che
sono a suo rischio le cause ignote.
Questa responsabilità può essere mitigata con la presunzione contrattuale di caso fortuito (art.
1694), con la previsione di altre specifiche cause di esonero da responsabilità. È inoltre mitigata
dalla legge n. 450 del 1985, per cui il vettore di trasporti su strada, non può rispondere per somma
superiore a lire 12 mila per Kg di peso lordo perduto o avariato.
2) Nel trasporto di persone la prova è più rigorosa, in quanto il vettore si libera dimostrando di
aver assunto tutte le misure idonee per evitare il danno. È liberato il vettore quindi solo
quando dimostra che il danno era inevitabile, benché egli avesse assunto tutte le misure di
prevenzione adatte. Il viaggiatore risponde anche per i danni cagionati da caso fortuito, e al
viaggiatore basta provare l’esistenza del contratto di trasporto e del danno subito durante il
viaggio. Non sono ammesse nel trasporto di persone clausole che limitino la responsabilità
del vettore (art. 1681 comma II).
Il vettore può anche ad altro titolo essere chiamato a rispondere del sinistro al viaggiatore e del
danno alle sue cose, precisamente a titolo di responsabilità extracontrattuale, dove si applicheranno
gli artt. 2043 e ss., e non l’art. 1681. l’opzione per l’azione extracontrattuale si giustifica per il più
ampio termine di prescrizione, due anni dal fatto (art. 2947 comma II) anziché un anno (art. 2951).
Diverso trattamento è riservato al trasporto ferroviario, dove il vettore si libera dalla responsabilità
dimostrando che il danno è stato cagionato da causa a lui non imputabile (l. n. 754, 1977).
Le disposizioni dell’art. 1681 si applicano anche al trasporto gratuito, che è pur sempre un
contratto, ma non al trasporto di cortesia, come nel caso in cui passeggero sia un autostoppista,

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dove non c’è alcuna obbligazione del vettore, neppure di mezzi. Dell’eventuale sinistro in questo
caso, si risponde solo per responsabilità extracontrattuale.
Nel trasporto di cose il mittente, su richiesta del vettore, gli rilascia un documento, la lettera di
vettura, titolo di credito rappresentativo di merci, recante le condizioni convenute per il trasporto, e
il vettore, su richiesta del mittente, lascia a questi un duplicato della lettera di vettura (art. 1684).
Il trasporto marittimo è autonomamente regolato dal codice della navigazione, in quanto domina
l’idea, in questa materia, che ogni viaggio per mare esponga a pericoli in larga misura
imponderabili, e che non appare equo addossare tutti i rischi al vettore. Nel trasporto di persone
infatti, sul vettore si applicano i principi sulla responsabilità del comune debitore (art. 1218): il
vettore dei sinistri subiti dalla persona del passeggero, dipendenti da fatti verificatisi durante il
trasporto (naufragio), oppure dalla in esecuzione o del ritardo del trasporto, a meno che non provi
che l’evento è derivato da causa a lui non imputabile (artt. 408 s.).
Nel trasporto di cose, marittimo, la responsabilità che il vettore assume nei confronti del mittente
(caricatore) è trattata con maggior favore, rispetto al trasporto terrestre, sotto un duplice aspetto,
nella previsione dei pericoli eccettuati e nel limite al risarcimento dovuto al vettore.
Sotto l’aspetto dei pericoli eccettuati assume rilievo la distinzione tra colpa del vettore verificatasi
prima oppure dopo l’inizio del viaggio e, dopo l’inizio del viaggio, la distinzione tra colpa nautica
e colpa commerciale dell’equipaggio. È colpa nautica la negligenza, l’imperizia o imprudenza del
comandante o dell’equipaggio della nave, nella conduzione e nella manutenzione di questa, è colpa
commerciale, la loro negligenza, imprudenza o imperizia nella utilizzazione della nave per il
trasporto. Il vettore risponde della perdita o dell’avaria della merce o del ritardo del trasporto solo
se dipende da sua colpa manifestatasi prima dell’inizio del viaggio (art. 412), o durante il viaggio,
per colpa commerciale dell’equipaggio (negligente conservazione o stivaggio della merce). Non
risponde dei vizi occulti della nave, ne per colpa nautica dell’equipaggio.
Non risponde inoltre per tutta una serie di altri pericoli eccettuati (tempesta, fatti di guerra e
pirateria), elencati all’art. 422. di fronte ad un pericolo eccettuato il vettore può essere comunque
chiamato a rispondere, ma spetta al caricatore l’onere di provare la colpa del vettore.
La responsabilità del vettore marittimo è limitata al valore della merce dichiarato dal caricatore al
momento dell’imbarco, e non risponde se prova che la dichiarazione del caricatore era inesatta (art.
423).
Nel trasporto marittimo il vettore emette la polizza di carico, titolo di credito rappresentativo di
merce, con funzione analoga al duplicato della lettera di vettura.
Sono invece diverse le norme concernenti la responsabilità del vettore aereo. Si tratta di una
responsabilità molto più rigorosa, modellata secondo le norme del trasporto terrestre di persone.
Il vettore aereo nel trasporto di cose risponde delle perdite e delle avarie del carico e del ritardo del
trasporto (art. 951), nel trasporto di persone risponde dei sinistri che colpiscono il passeggero (art.
942), a meno che non provi che i suoi dipendenti e preposti abbiano adottato tutte le misure
necessarie e possibili per evitare il danno, secondo la normale diligenza. Nel trasporto aereo di cose
il vettore si libera dimostrando che il danno è stato dovuto da colpa nautica lieve.
La responsabilità del vettore aereo è illimitata se il danno è dovuto a colpa grave sua o dei suoi
dipendenti o preposti, altrimenti è limitata nel trasporto di persone, ad una cifra massima
predeterminata per legge e, nel trasporto di cose, al valore delle cose trasportate dichiarato dal
mittente anteriormente alla caricazione (artt. 943 – 952).

Il deposito
Nel contratto di deposito il servizio dedotto in contratto consiste nella custodia di una cosa mobile,
cui il depositario si obbliga nei confronti del depositante, con l’obbligo del primo di restituirla in
natura (art. 1766), a richiesta del depositante (art. 1771 comma I), e con l’obbligo del depositante di
ritirarla alla scadenza del termine, quando viene previsto, altrimenti a richiesta del depositario (art.
1771 comma II).
Il deposito è contratto reale, si perfeziona cioè con la consegna della cosa, ed è contratto che si
presume gratuito, salvo che il depositario non eserciti professionalmente l’attività dedotta in
contratto (art. 1767). Ma anche quando il deposito è oneroso, non c’è rapporto di corrispettività fra
obbligazione al deposito e obbligazione al compenso, il depositario non può, di fronte al

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depositante inadempiente, avvalersi dell’eccezione di inadempimento, e lasciare incustodita la cosa
(comportamento contrario alla buona fede, art. 1460 comma II).
Il deposito ha per oggetto, di regola, cose infungibili delle quali il depositario non può servirsi (art.
1770) e che deve restituire in natura. È però ammesso il deposito irregolare, con oggetto cose
fungibili, delle quali il depositario diventa proprietario, con facoltà di servirsene (art. 1782). Il
deposito irregolare assolve una duplice funzione: è interesse del depositante la custodia delle cose
fungibili, mentre è nell’interesse del depositario la funzione di credito che questo contratto assolve,
vi si applicano infatti le norme sul mutuo (art. 1782 comma II).
Per l’art. 1768 il depositario deve custodire la cosa con media diligenza, e l’art. 1780 aggiunge che
il depositario è liberato dall’obbligo di restituzione, se la cosa gli è tolta in conseguenza di un fatto
a lui non imputabile, ma in questo caso ha l’obbligo di farne immediata denuncia al depositante. Il
depositario è inadempiente se non prova che uno specifico fatto a lui non imputabile, gli ha fatto
perdere la detenzione della cosa, o ne ha determinato la distruzione o il deterioramento, il criterio
della media diligenza si applica solo dopo che il depositario ha fornito la prova. In caso di deposito
gratuito, la responsabilità per colpa è valutata con meno rigore (art. 1768 comma II).
È illimitata la custodia dell’albergatore, rispetto alle cose portate dai clienti:
a) Quando la sottrazione, la perdita e il deterioramento riguardino cose consegnate in custodia
all’albergatore o cose che egli si è illegittimamente rifiutato di ricevere (art. 1784)
b) Quando la perdita, sottrazione o la perdita siano imputabili a colpa sua o dei suoi ausiliari
(art. 1785 bis).
L’albergatore risponde fino ad un limite massimo pari a cento volte il prezzo dell’alloggio
giornaliero.
I magazzini generali sono imprese di custodia di merci, previamente autorizzate dal ministro
dell’industria, che operano nei centri di maggiore traffico. Come il vettore di cose, i magazzini
generali possono rilasciare a richiesta del cliente, titoli di credito rappresentativi delle merci
depositate, e cioè la fede di deposito e la nota di pegno.

Capitolo trentunesimo
I CONTRATTI PER IL COMPIMENTO O PER LA PROMOZIONE DI AFFARI

Il mandato
La conclusione degli affari, da parte di qualsiasi soggetto, può essere affidata ad altri, in modo tale
che questi si sostituisca all’interessato, che lo incarica, nella conclusione dei propri contratti,
nell’esecuzione dei propri pagamenti o nella riscossione dei propri crediti. Occorre naturalmente
che colui il quale viene incaricato per svolgere queste mansioni accetti l’incarico, ed il mandato è il
contratto con il quale una parte, il mandatario si obbliga nei confronti dell’altra, il mandante, a
compiere uno o più atti giuridici per conto di quest’ultima (art. 1703).
L’oggetto del mandato è una prestazione di fare, il compimento cioè di un servizio, nel senso più
ampio di questa espressione.
Differisce dal contratto d’opera per la specifica natura del servizio che il mandatario si obbliga a
svolgere, il quale non consiste, come nel contratto d’opera, nello svolgimento di una qualsiasi
attività materiale o intellettuale, ma nel compimento di atti giuridici per conto altrui. E sono atti
giuridici, agli effetti dell’art. 1703, quelli che vengono in considerazione solo per le loro
conseguenze giuridiche, come i contratti che trasferiscono o costituiscono diritti o producono
obbligazioni, o l’esecuzione di pagamenti o la riscossione di crediti.
Il mandatario si obbliga a compiere atti giuridici per conto altrui, non nel proprio interesse, ma
nell’interesse del mandante.
Un mandato può essere con rappresentanza e senza rappresentanza, la prima tipologia differisce
dalla seconda poiché il mandatario, investito da una procura, oltre che in nome, agisce anche per
conto del mandante, così che gli atti giuridici da lui compiuti produrranno effetti diretti nei
confronti del mandante (art. 1704).
Il mandato può essere speciale, e riguardare il compimento di uno o più atti giuridici specifici,
oppure può essere generale ed investire, quindi, globalmente la cura di tutti gli interessi del
mandante, o di tutti gli interessi di un dato tipo o tutti gli interessi relativi ad una data zona. Il

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mandato generale comprende però solo gli atti di ordinaria amministrazione, quelli di straordinaria
amministrazione possono essere compiuti solo se espressamente menzionati nel mandato (art. 1708
comma II).
Benché le parti possano pattuire un mandato gratuito, è un contratto di regola a titolo oneroso, e se
il corrispettivo del mandatario non si ricava dalle tariffe professionali o dagli usi, sarà deciso dal
giudice (art. 1709).
In ogni caso il mandatario deve eseguire il contratto con la diligenza del buon padre di famiglia, in
caso di mandato gratuito, la responsabilità per colpa è valutata con minor rigore (art. 1710). Il
mandante a sua volta deve somministrare al mandante i mezzi necessari all’esecuzione del
contratto, rimborsargli le spese e pagargli il corrispettivo in caso di mandato oneroso (artt. 1719 –
1720).
Il mandato si basa sulla fiducia che il mandante ripone nel mandatario. Ne deriva:
a) Che il mandatario non può farsi sostituire da altri nell’esecuzione del mandato, salvo che
non sia stato autorizzato dal mandante oppure nel caso in cui la sostituzione sia necessaria
per la natura dell’incarico; altrimenti risponde dell’operato del suo sostituto (art. 1717).
b) Il mandato si estingue per morte di uno dei contraenti (art. 1722)
c) Il mandante può in ogni momento recedere dal contratto, risarcendo i danni al mandatario se
si tratta di mandato oneroso (art. 1725).
Occorre una giusta causa per il recesso del mandante se si tratta di mandato qualificato dalle parti
come irrevocabile (art. 1723 comma I), o di mandato conferito anche nell’interesse del mandatario
o di terzi (art. 1723 comma II).
Il mandato può essere affidato da più persone ad un unico mandatario, per un affare di interesse
comune, in tal caso la revoca deve provenire da tutti i mandanti, salvo che ricorra una giusta causa
(art. 1726) del singolo che provocherà l’estinzione dell’intero contratto.
Può anche accadere che il mandato sia affidato a più mandatari, in questo caso ognuno da solo può
concludere l’affare (mandato disgiuntivo), salvo che il contratto non obblighi i mandatari ad operare
insieme. In questo caso il mandato si estingue anche se la causa di estinzione riguarda uno solo dei
mandatari (artt. 1716, 1730).

La commissione e la spedizione
Il contratto di commissione è una sottospecie di mandato, in particolare è un mandato a vendere o a
comprare per conto del committente ed in nome del commissionario (art. 1731), mandato
revocabile finché la vendita non sia stata conclusa (art. 1734).
Rispetto al mandato la commissione si caratterizza sotto un duplice aspetto:
a) Gli atti che il commissionario sono in genere contratti di vendita.
b) È un mandato senza rappresentanza (art. 1705), per cui il commissionario acquista o vende
per conto altrui, ma in nome proprio. Alla conclusione della vendita il mandatario dovrà
trasferire al committente le cose acquistate, o il prezzo delle cose vendute in esecuzione del
contratto.
Il commissionario per la vendita, vende le cose del committente, perciò non ha il rischio
dell’invenduto, ma partecipa al rischio della distribuzione, viene infatti retribuito con provvigione
(art. 1733), cioè con una percentuale sul valore dell’affare.
Del resto egli agendo in nome proprio, è personalmente obbligato nei confronti del terzo contraente,
ad esempio per i vizi della cosa venduta, salvo il suo diritto di essere risarcito dal committente (art.
1720 comma II). Non risponde invece, al committente, dell’esecuzione degli affari conclusi, per cui
non risponde dell’inadempimento del terzo contraente. Solo se viene pattuito il c.d. star del credere
(art. 1736), il commissionario garantisce di persona dell’adempimento del terzo.
La spedizione, invece, si distingue come mandato, anche qui per conto altrui ma in nome proprio, a
concludere, dietro provvigione (art. 1740), un contratto di trasporto ed a compiere le operazioni
accessorie (art. 1737), mandato revocabile fino a che il contratto di trasporto non sia stato concluso
(art. 1738).

I contratti per la promozione di affari: la mediazione e l’agenzia

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Sono contratti che essenzialmente mirano alla promozione degli affari, cioè nel predisporre tutto
affinché le parti in seguito possano concludere affari direttamente fra loro.
Il mediatore è una figura neutrale, definita come colui che mette in relazione due o più parti, per la
conclusione di un affare, senza essere legato ad alcuna di esse da rapporti di collaborazione,
dipendenza o rappresentanza. È retribuito con provvigione, che dipende dalle tariffe professionali o
dagli usi, da entrambe le parti, se l’affare tra loro viene concluso (art. 1755), altrimenti gli spetta
solo il rimborso per le spese effettuate (art. 1756). È essenziale, perché si parli di mediazione, che il
mediatore sia una figura, rispetto alle parti, indipendente ed imparziale.
Il mediatore conserva, nonostante l’incarico assunto, piena libertà di azione, in quanto egli è spinto
a promuovere l’affare solo dal proprio interesse a percepire la provvigione.
Sul mediatore gravano, nei confronti delle parti, alcune responsabilità: deve comunicare le
circostanze a lui note, relative alla valutazione ed alla sicurezza dell’affare e risponde della
sottoscrizione delle scritture (art. 1759).
Il mediatore è tenuto ad iscriversi ad un apposito ruolo dei mediatori, istituito presso la camera di
commercio, pena la perdita del diritto alla provvigione.
Dal mediatore l’agente di commercio differisce per la mancanza della posizione di imparzialità ed
indipendenza, e differisce per il carattere stabile del suo incarico, a differenza della mediazione che
ha carattere occasionale.
Con il contratto di agenzia l’agente assume stabilmente l’incarico di promuovere, nei confronti di
un determinato preponente, la conclusione di contratti in una determinata zona (art. 1742). Il
contratto si protrae fino al recesso di una delle parti, se è fissato un termine al contratto, allo scadere
del termine.
Al contratto d’agenzia inerisce il dritto d’esclusiva di entrambi i contraenti: il preponente dà in
esclusiva una determinata zona, per la promozione degli affari, solo a quell’agente, il quale a sua
volta si obbliga a proporre solo i contratti del suo preponente.
L’agente procura e trasmette le ordinazioni dei clienti al preponente, il quale si occuperà della
conclusione dei contratti.
L’agente assume tutto il rischio della sua attività, viene pagato con provvigione e non ha diritto al
rimborso delle spese (art. 1748 comma II). Egli non riceve la provvigione anche quando un cliente
da lui procurato, pur avendo concluso il contratto, si dimostra inadempiente. Ha diritto alla
provvigione, se il preponente direttamente conclude affari nella sua zona.
L’agente di commercio, ha diritto, allo scioglimento del contratto a tempo indeterminato, ad una
indennità proporzionale all’ammontare delle provvigioni liquidategli, nella misura stabilita dagli
accordi economici collettivi, stipulati dal sindacato degli agenti. Devono iscriversi ad un apposito
ruolo pubblico, pena la nullità del contratto d’agenzia.

Capitolo trentaduesimo
I CONTRATTI DI PRESTITO

Il comodato
Il prestito giuridicamente, assume due forme distinte, quella del comodato, che ha per oggetto cose
immobili o cose mobili infungibili, e quella del mutuo, che ha per oggetto somme di denaro o
determinate quantità di cose fungibili.
Il comodato è un contratto reale, che si perfeziona con la consegna di una cosa dal comodante al
comodatario, affinché questi se ne serva per un uso determinato, con l’obbligo di restituire la stessa
cosa ricevuta (art. 1803 comma I). la consegna della cosa è il requisito necessario per la
conclusione del contratto, e la legge protegge solo l’interesse del comodante alla restituzione della
cosa, poiché questa è l’unica obbligazione del contratto.
È un contratto a titolo gratuito (art. 1803 comma II), e la causa è di solito, lo spirito di liberalità, ma
può anche trattarsi di un prestito gratuito giustificato dai rapporti di affari intercorrenti tra le parti.
Se per il comodato sarà pattuito un corrispettivo, per il comodante, non si avrà un comodato ma una
locazione, poiché in questo caso la gratuità funge da discriminante.
Al comodatario però può anche essere imposto un onere, come al donatario. Il comodatario può
servirsi della cosa solo per l’uso convenuto, deve custodirla con la diligenza del buon padre di

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famiglia e non può darla in subcomodato senza il consenso del comodante (art. 1804). Se la cosa
perisce per caso fortuito è responsabile, se potendo scegliere tra salvare una cosa sua e quella in
comodato, ha salvato la sua cosa (art. 1805).
La cosa deve essere restituita alla scadenza pattuita, o se non è previsto un termine, o a richiesta del
comodante oppure quando il comodatario se ne sarà servito per l’uso convenuto, salvo che nel
frattempo non sia intervenuto un bisogno urgente ed imprevisto del comodante (art. 1809 – 1810).
Si parla di precario, quando il comodatario dovrà restituire la cosa a richiesta del comodante.

Il mutuo
Il mutuo è il prestito di determinate quantità di denaro o di altre cose fungibili. La conseguenza del
mutuo è che le cose consegnate dal mutuante al mutuatario, passano in proprietà di quest’ultimo
(art. 1814), il quale è obbligato a restituire al mutuante, altrettante cose della stessa specie e qualità
(art. 1813).
Il mutuo può essere sia un contratto reale sia un contratto consensuale. Nella normalità delle ipotesi
è un contratto reale che si perfeziona con la consegna e il passaggio di proprietà della cosa (art.
1813 – 1814). Il cod. civ. ammette però la promessa di mutuo o contratto di finanziamento, che ha
la specifica funzione di tutelare, non solo l’interesse alla restituzione del mutuante, ma anche
l’interesse del mutuatario a ricevere la cosa. Chi ha promesso di dare un mutuo, può rifiutare
l’adempimento se fra il momento della promessa e quello pattuito per l’esecuzione, le condizioni
patrimoniali del mutuatario sono diventate tali da rendere difficile la restituzione (art. 1822).
L’inadempimento della promessa può dare luogo solo al risarcimento del danno.
Il mutuo è, salvo disposizione contraria delle parti, un contratto generalmente oneroso, e il
corrispettivo che il mutuatario deve corrispondere consiste negli interessi, che sono dovuti secondo
il tasso legale del 10% o secondo il più alto tasso pattuito, che deve essere pattuito per iscritto.
Il mutuatario ha una duplice obbligazione: deve restituire la somma ricevuta a mutuo, il capitale, e
con esso i relativi interessi.
Adempirà entro il termine pattuito, stabilito, di regola, a favore di entrambe le parti (art. 1816), in
mancanza di termine procederà il giudice a stabilirlo.
Può essere prevista la restituzione a rate del capitale con relativi interessi, in tal caso il mancato
pagamento di una rata, provoca la decadenza del mutuatario dal beneficio del termine, e il mutuante
potrà pretendere la restituzione dell’intero (art. 1819).
Il sinallagma praticamente consiste nell’utilizzazione del denaro ricevuto a mutuo e
nell’obbligazione degli interessi.

Capitolo trentaquattresimo
I CONTRATTI DI ASSICURAZIONE E DI RENDITA

Il contratto di assicurazione
Il concetto base dei contratti di assicurazione, è il rischio a cui sono esposti i beni o la vita dei
singoli: nel primo caso, il rischio, in genere, che il patrimonio di un soggetto resti pregiudicato da
avverse circostanze, il rischio, sotto il secondo aspetto, che rende incerta la durata della vita umana.
Il contratto di assicurazione, fondamentalmente, trasferisce il rischio del singolo, l’assicurato,
all’impresa di assicurazione, l’assicuratore; per l’art. 1882 l’assicuratore si obbliga, verso il
pagamento di un corrispettivo, detto premio, a rivalere l’assicurato del danno prodotto da un
avvenimento avverso, detto sinistro, che colpisca i beni o il patrimonio dell’assicurato; oppure si
obbliga a pagare una somma di denaro, una tantum (capitale), o in forma di prestazioni periodiche
(rendita), al verificarsi di un evento attinente alla vita umana.
Lo sviluppo delle assicurazioni, è dovuto in larga misura, ai caratteri della società industriale, nella
quale il prodursi di un sinistro, non è una fatalità, ma è la conseguenza, il più delle volte prevedibile
statisticamente, dell’uso di massa dei ritrovati della tecnica.
La funzione economica derivante dall’operato delle compagnie assicuratrici, che stipulano una
massa consistente di contratti, sta nel ripartire il rischio dei singoli, entro la massa degli assicurati.
Le imprese di assicurazione, formano, con i premi pagati dai clienti, un fondo premi dal quale

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attingere per indennizzare i singoli colpiti da un sinistro. Quanto maggiore è quindi il numero degli
assicurati, tanto più il rischio è ripartito, tanto minore è il premio richiesto ai singoli assicurati.
La causa dell’assicurazione, sta nel trasferimento del rischio, dall’assicurato all’assicuratore, dietro
versamento di un corrispettivo dal primo al secondo. Perciò, se il rischio non è mai esistito, o cessa
di esistere prima della conclusione del contratto, questo è nullo (art. 1895), per mancanza originaria
della causa, e i premi eventualmente pagati dovranno essere restituiti. Se, invece, il rischio cessa di
esistere dopo la conclusione del contratto, questo si scioglie (art. 1896), per mancanza sopravvenuta
della causa, e i premi sono dovuti fino al momento in cui, la cessazione del rischio non viene
comunicata all’assicuratore.
Il rischio, in pendenza del contratto, può diminuire, o all’opposto, aggravarsi: in entrambi i casi si
determina un’alterazione dell’equilibrio causale fra prestazioni (fra ammontare del premio ed entità
del rischio), l’assicuratore ha facoltà di sciogliere il contratto, salvo preferisca, nel primo caso,
ridurre o, nel secondo caso, aumentare il valore del premio (art. 1897 – 1898).
Nel caso in cui l’equilibrio causale sia alterato sin dalla conclusione del contratto, a causa delle
dichiarazioni inesatte o della reticenza dell’assicurato, il codice protegge l’assicuratore con norme
più esplicite di quelle di diritto comune sull’annullamento del contratto per dolo. Se l’assicurato
aveva agito, alla conclusione del contratto, con dolo o colpa grave, l’assicuratore può, entro tre mesi
dalla scoperta delle dichiarazioni inesatte o della reticenza, chiedere l’annullamento del contratto
(art. 1892); se invece, l’assicurato aveva agito senza dolo o colpa grave, l’assicuratore, entro lo
stesso termine, può recedere dal contratto, e per il sinistro eventualmente verificatosi, deve un
indennizzo inferiore a quello contrattualmente previsto, rapportato al reale stato delle cose (art.
1893).
Il rischio che il contratto di assicurazione, trasferisce all’assicuratore è, per l’art. 1900, quello al
quale la vita o le cose dell’assicurato sono esposte, per caso fortuito o forza maggiore, esclusi però,
salvo patto contrario, i casi di terremoto, guerra, insurrezione o tumulto popolare, vengono
indennizzati poi, i sinistri cagionati dal fatto doloso o colposo dei terzi, e il fatto dello stesso
assicurato, se commesso con colpa lieve.
Si suole classificare i contratti di assicurazione, tra i contratti aleatori, in quanto l’assicurato, non sa
al momento della conclusione del contratto, se l’evento si verificherà o meno, e non sa quando si
verificherà, e se, a fronte dei premi corrisposti all’assicuratore, riceverà un indennizzo. Ove il
sinistro non si verifichi, sarà l’assicurato a subire l’alea del contratto, ove il sinistro si verifichi,
l’alea l’avrà subita l’assicuratore.
L’assicurato, che è colui che è esposto al rischio, può anche non coincidere con la parte che contrae
l’assicurazione. L’assicurato è persona diversa dal contraente, quando quest’ultimo stipula e agisce
per conto altrui o “per conto di chi spetta”. Nell’assicurazione per conto altrui, l’assicurato è
indicato nel contratto, nelle assicurazioni con clausola “per conto di chi spetta” l’assicurato è la
persona non identificata nel contratto, che risulterà esposta al rischio assicurato, al momento del
sinistro. In entrambi i casi gli obblighi derivanti dal contratto, spettano al contraente, mentre i
diritti sono dell’assicurato dedotto in contratto.
Per ciò che riguarda la formazione del contratto, quello di assicurazione appartiene alla categoria
dei contratti di adesione, predisposto su moduli uniformi dall’impresa di assicurazione.
Il contratto è consensuale e si perfeziona con lo scambio del consenso tra le parti, e decorre dalla
mezzanotte del giorno della sua conclusione, ma resta sospeso finché il contraente non paga il
premio o la prima rata di esso.
La durata del è stabilita nel contratto, ma se prevista superiore a dieci anni, ciascuna delle parti può,
decorso il decennio, recedere dal contratto.
L’assicurato ha quindici giorni, dalla scadenza di ogni rata, per pagare i premi, se non paga, il
contratto resta sospeso, e l’assicuratore ha sei masi per decidere se agire per la riscossione dei premi
scaduti, o ritenere il contratto risolto, trattenendo i premi già pagati.
Il contratto deve essere provato per iscritto (art. 1888). Il documento di prova è la polizza di
assicurazione, che può essere emessa all’ordine o al portatore, quando copra i rischi inerenti a merci
soggette a ripetuti trasferimenti, assumendo così, la natura di titolo di credito improprio. Il suo
trasferimento, nelle forme di titolo all’ordine o al portatore, produce effetti analoghi alla cessione

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dei crediti o del contratto di assicurazione, e si accompagna, in genere, al trasferimento dei titoli
rappresentativi delle merci.

L’assicurazione contro i danni


L’assicurazione contro i danni copre i rischi cui sono esposti i beni o più in generale, i diritti
patrimoniali dell’assicurato, specifici beni, diritti anche di credito, oppure l’intero patrimonio
dell’assicurato.
Domina il principio indennitario, per cui l’assicuratore, in caso di sinistro, deve risarcire
all’assicurato il danno subito. Il principio si articola in tre regole:
1. interesse all’assicurazione: può validamente assicurarsi solo chi è validamente esposto al
rischio dedotto in contratto, cioè chi dal sinistro può subire un danno ed avere interesse al
risarcimento, altrimenti il contratto è nullo.
2. limite del risarcimento: il pagamento dovuto all’assicurato, in caso di sinistro, non può avere
altra natura se non quella di risarcimento del danno, e non può in ogni caso superare l’entità
del danno subito.
Il danno risarcibile è di regola, il danno emergente, ossia la diminuzione patrimoniale, non il lucro
cessante, il cui risarcimento deve essere espressamente pattuito.
3. surrogazione dell’assicuratore: una volta pagata l’indennità, l’assicuratore può sostituirsi
all’assicurato, nell’esercizio dell’azione di danni nei confronti dei terzi responsabili.
Il contratto di assicurazione per danni, è tendenzialmente destinato a circolare con la circolazione
della cosa assicurata, sui inerisce il rischio coperta dall’assicurazione. Se la cosa circola, ma
vengono in considerazione le capacità di solvibilità dell’assicurato, e quindi del titolare della cosa,
entrambe le parti possono recedere dal contratto, l’acquirente entro dieci giorni dalla conoscenza
del contratto di assicurazione, e per l’assicuratore entro lo stesso termine, dalla notizia
dell’alienazione. La regola è inderogabile, nei casi di emissione di polizze all’ordine o al portatore.
Il referente dell’assicurazione della responsabilità civile è il generale principio, all’art. 2740, per il
quale il debitore risponde delle obbligazioni assunte, con tutto il suo patrimonio. Con questa forma
di assicurazione, l’assicurato trasferisce all’assicuratore il rischio cui il suo patrimonio è esposto per
effetto dell’art. 2740. la responsabilità a cui l’assicuratore risponde, può essere per fatti illeciti, per
inadempimento contrattuale, esclusa solo la responsabilità per fatti dolosi. L’assicuratore può
pagare l’indennità per danni, direttamente al terzo danneggiato, ed è comunque tenuta al
pagamento, se l’assicurato lo chiede.
Prevale in questi casi l’interesse proprio del terzo danneggiato, questo interesse è preso in
considerazione da leggi speciali che, con riferimento ad attività pericolose o che espongono a
pericoli particolarmente frequenti, rendono obbligatoria l’assicurazione della responsabilità civile,
offrendo così al danneggiato la possibilità di conseguire, in ogni caso, il risarcimento dall’impresa
di assicurazioni.
Le imprese di assicurazioni possono riassicurarsi, cioè stipulare assicurazioni con compagnie più
grandi, come i Lloyd di Londra, per il rischio che i loro fondo premio, non bastino a coprire gli
impegni assunti, ma in questi casi non vige alcun rapporto tra il normale assicurato, che pretende
l’indennizzo, e la compagnia di riassicurazione.

L’assicurazione sulla vita


L’assicurazione sulla vita può assumere sue forme: assicurazione in caso di morte, quando
l’assicuratore si obbliga al pagamento di una somma o di una rendita, alla morte dell’assicurato, a
coloro i quali sono stati designati come beneficiari, oppure vi è anche l’assicurazione per il caso di
sopravvivenza, dove l’assicuratore si obbliga a pagare all’assicurato o al terzo beneficiario, una
somma o una rendita ad un’epoca fissa, nel caso l’assicurato sia ancora in vita. Ci si può anche
assicurare sulla vita di un terzo, purché con il consenso di questo, da provarsi per iscritto.
L’assicurazione sulla vita ha carattere previdenziale: l’assicurato, in genere, mira a garantire ai
propri familiari o agli eredi, una somma consistente o una rendita dopo la sua morte, oppure tende
a garantire a se stesso la disponibilità economica per l’anzianità.

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Essendo sottratta al principio indennitario, l’assicurazione sulla vita può essere stipulata per
qualsiasi somma, nulla rilevando del danno patrimoniale che i familiari o gli eredi subiranno al
momento della morte dell’assicurato, ma tutto dipende dal premio che questi è disposto a pagare.
Il premio varia, oltre che in rapporto ala capitale o alla rendita assicurata, a seconda dell’entità del
rischio, che dipende dall’età, dalle condizioni di salute e dalla professione dell’assicurato.
L’alea del contratto è il momento, incerto, della morte dell’assicurato. Il suo suicidio, intervenuto a
breve tempo dalla conclusione del contatto, entro due anni per l’art, 1927, legittima l’assicuratore a
non pagare la somma assicurata, salvo patto contrario.
La giurisprudenza suole collocare sullo stesso piano delle assicurazioni sulla vita, disciplinandole
allo stesso modo, le assicurazioni contro l’ infortunio, traendo argomento dalla lata espressione
dell’art. 1882 che fa riferimento ad un evento attinente alla vita umana, non solo la morte quindi,
ma anche l’invalidità, permanente o temporanea, conseguente all’infortunio.

L’assicurazione dei rischi della navigazione


L’assicurazione dei rischi della navigazione marittima, trasferisce all’impresa di assicurazione i
rischi cui sono esposti il proprietario della nave o l’armatore o il noleggiatore o il caricatore, per
tutti i gli accidenti della navigazione.
L’assicurazione dei rischi della navigazione aerea differisce da quella per la navigazione marittima,
per il fatto che il vettore ha l’obbligo, per legge, di assicurare i passeggeri contro gli infortuni di
volo, mentre l’assicuratore è tenuto all’indennizzi negli stessi limiti cui è tenuto il vettore. Altra
assicurazione obbligatoria, per il vettore, è quella che copre i rischi cagionati dall’aeromobile a terzi
sulla superficie, e il terzo danneggiato, come in tutti i casi di assicurazione obbligatoria, ha azione
diretta contro l’assicuratore.

Il contratto di rendita
Nei casi di alienazione di un bene e di cessione di un capitale, può accadere che l’acquirente, in
luogo del normale pagamento, corrisponda una rendita periodica all’alienante, per il bene o il
denaro ricevuto.
La rendita può essere perpetua o vitalizia (artt. 1861 – 1872), la prima è dovuta senza limiti di
tempo, anche dopo la morte dell’avente diritto ai suoi eredi, la seconda è dovuta fino alla morte
dell’avente diritto. La prima è un contratto commutativo, la seconda è un contratto aleatorio.
La rendita perpetua può essere costituita solo tramite la cessione di un capitale (rendita semplice) o
l’alienazione di un immobile (rendita fondiaria). In ogni caso la rendita costituisce un semplice
rapporto obbligatorio, non un onere reale sull’immobile, ma il credito del beneficiario deve essere
garantito da una ipoteca, o sull’immobile stesso alienato, nella rendita fondiaria, o su un qualsiasi
altro immobile, nella rendita semplice.
La rendita vitalizia può essere costituita anche con l’alienazione di un bene mobile, con donazione
o con testamento, e inoltre la sua causa può essere anche la liberalità.
È applicazione della rendita vitalizia, il contratto di alimenti, con il quale ci si obbliga a
corrispondere al beneficiario, per tutta la sua vita, una somma periodica necessaria al suo
sostentamento.
La rendita perpetua è redimibile in qualsiasi momento a volontà del debitore, con il riscatto, che è
recesso del contratto di rendita, il debitore si libera pagando una somma paria alla capitalizzazione
della rendita annua al tasso di interesse legale, pari al prodotto della moltiplicazione per venti della
rendita annua.

Capitolo trentacinquesimo
I CONTRATTI NELLE LITI

La transazione
La transazione è un contratto mediante il quale le pari, facendosi reciproche concessioni, pongono
fine ad una controversia giudiziaria già insorta tra loro oppure prevengono l’insorgere di una lite
che fra essi può insorgere (art. 1965). Si ricorre a questa contratto generalmente per eliminare
l’incertezza sull’esito della lite o per non dover attendere la fine del processo.

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L’essenza di questo contratto sta nelle reciproche concessioni delle parti, in quanto ciascuna di esse
rinuncia parzialmente alla propria pretesa o alla propria contestazione. Le reciproche concessioni
possono anche consistere nella costituzione, modificazione o estinzione di rapporti diversi da quelli
che formano oggetto della lite (art. 1965 comma II).
Le parti, transigendo, dispongono dei propri diritti, e non è perciò possibile transigere su materie
sottratte alla disponibilità delle parti (diritti della personalità e di famiglia) (art. 1966). La legge
vieta inoltre di transigere in materia di diritti del lavoratore, derivanti da norme inderogabili di
legge o di contratto collettivo (art. 2113).
La transazione presuppone l’incertezza della lite, quindi è annullabile la transazione su lite passata
in giudicato (art. 1974). Non si può chiedere l’annullamento per questioni di diritto sulle questioni
oggetto della transazione (art. 1969).
Salvo patto contrario, la transazione non determina la novazione del precedente rapporto, quello per
cui è nata la lite. Deve essere provato per iscritto ((art. 1967).

Il sequestro convenzionale, la cessione dei beni ai creditori e l’anticresi


Il sequestro convenzionale è il contratto con cui due o più parti, affidano ad un terzo una o più cose,
rispetto alle quali è sorta una controversia tra le parti. Il terzo deve custodire le cose consegnategli,
e le deve restituire al litigante, cui le cose spetteranno dopo la risoluzione della lite (art. 1798). Il
terzo è detto sequestratario ed è sottoposto alle norme sul deposito (art. 1800).
La cessione dei beni ai creditori è il contratto tramite il quale il debitore incarica i suoi creditori, o
alcuni di essi, di liquidare, ossia di convertire in denaro, tutti o alcuni dei suoi beni, e di ripartirne il
ricavato per soddisfare i loro crediti (art. 1977). Il debitore è liberato, salvo patto contrario, verso i
creditori, solo quando questi ricevono il ricavato della liquidazione dei suoi beni e nella misura di
quanto essi realizzano (art. 1984), le eventuali eccedenze della liquidazione spetteranno al debitore
(art. 1982). È dunque un mandato in rem propriam, diretto a sostituire una liquidazione privata dei
beni del debitore alla loro liquidazione giudiziaria.
Dalla data del contratto il debitore non può più disporre dei beni ceduti e i creditori non vi possono
esercitare azioni esecutive, ne possono agire su altri beni del debitore, non ceduti, prima della
liquidazione di quelli oggetto del contratto. L’amministrazione dei beni ceduti spetta ai creditori
cessionari, ma il debitore ha diritto di controllare la gestione e di averne un rendiconto.
L’anticresi è un contratto che presuppone l’esistenza di un rapporto obbligatorio tra le parti, avente
per oggetto il pagamento di una somma di denaro. Il debitore si obbliga a consegnare un immobile
al creditore affinché questi ne goda e ne percepisca i frutti, imputandoli al pagamento del proprio
credito, prima per gli interessi e poi per il capitale (art. 1960). Il contratto non attribuisce nessun
privilegio al creditore, poiché la sua funzione è solo satisfattiva. Non può eccedere la durata di dieci
anni.
L’anticresi richiede, a pena di nullità, la forma scritta, ed è soggetto a trascrizione, è quindi
opponibile ai terzi acquirenti dell’immobile, e verso i creditori del debitore che vogliano soddisfarsi
sull’immobile oggetto del contratto.

Parte sesta
LE ORGANIZZAZIONI COLLETTIVE

Capitolo trentaseiesimo
LE ASSOCIAZIONI

Il concetto di associazione
Le associazioni altro non sono che istituzioni o formazioni sociali nelle quali s’instaurano rapporti
fra individui, i quali perseguono scopi superindividuali. È la stessa Costituzione a evidenziare,
all’art. 2, come sia compito della Repubblica tutelare i diritti inviolabili dell’uomo “sia come
singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”. L’associazione nasce come
istituzione data da un contratto: le parti (due o più di due) sono unite da un contratto di associazione
e le nuove adesioni sono disciplinate dallo stesso. Il contratto di associazione si distingue dai
contratti di scambio perché si tratta di un contratto plurilaterale con comunione di scopo: le parti

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possono essere due o più di due ed esse sono unite con l’obiettivo di conseguire uno scopo comune.
Inoltre, le prestazioni svolte dalle parti non vanno a vantaggio di altre parti, ma sono destinate allo
svolgimento dell’attività comune. Le associazioni, per essere considerate tali, devono disporre di
uno scopo ideale, diverso dallo scopo lucrativo delle società o dallo scopo, pur sempre economico,
delle cooperative. Seconda prerogativa delle associazioni è la loro struttura aperta: esse devono
offrire la possibilità illimitata a che altri individui possano entrare a far parte delle stesse, pur non
intervenendo, come, invece, accade nelle società, a una modifica contrattuale. Pertanto, le
collettività organizzate per la realizzazione di un interesse di gruppo altro non sono che società
lucrative, differenti dalle associazioni o dalle cooperative, le quali si pongono come aventi un
interesse di categoria. L’atto costitutivo delle associazioni, quindi, presume la loro caratteristica
aperta nei riguardi di tutti quegli individui che hanno un interesse comune con i fondatori o la loro
caratteristica chiusa nei riguardi di tutti quelli che vorrebbero entrare a far parte dell’associazione
pur non perseguendo lo stesso scopo.

Associazione riconosciuta e associazione non riconosciuta come persona giuridica


Il codice civile distingue le associazioni dotate del riconoscimento di personalità giuridica da quelle
che tale riconoscimento non hanno. Il riconoscimento si ottiene a seguito della registrazione
dell’associazione presso i registri del prefetto o, se l’associazione ha prerogative di carattere
regionale, presso i registri della regione. Dire che un’associazione ha personalità giuridica equivale
a considerarla come un soggetto di diritto a sé stante; di converso, considerare un’associazione
priva di personalità giuridica equivale a considerarla come una pluralità di membri. Tra le due
tipologie di associazioni si possono costituire alcuni parallelismi: non intercorre differenza alcuna
tra il patrimonio delle associazioni riconosciute e il “fondo comune” delle associazioni non
riconosciute (possono agire su di essi solo i creditori delle associazioni e non i creditori personali
dei membri); entrambe le associazioni possono acquistare beni immobili o mobili, sia a titolo
oneroso sia a titolo gratuito; delle obbligazioni assunte da un’associazione dotata di personalità
giuridica risponde l’associazione in sé, con esclusione di una personale responsabilità dei singoli
membri, mentre per le obbligazioni assunte da rappresentanti di associazioni non riconosciute
risponde il fondo comune e le persone stesse che hanno agito in nome dell’associazione: gli
amministratori di associazioni non riconosciute, qualora si obblighino in prestazioni che il fondo
comune non è in grado di assolvere, sono personalmente responsabili; anche la materia processuale
è parificata tra le due tipologie di associazione; le associazioni riconosciute sono sottoposte al
controllo dell’autorità pubblica sin dai momenti della loro formazione (il riconoscimento, infatti,
consiste nell’individuazione, da parte delle autorità pubbliche, di un fine sopraindividuale tra le
parti e di un patrimonio adatto e sufficiente al perseguimento del fine), mentre quelle non
riconosciute non sono sottoposte a controlli pubblici; infine, solo le associazioni riconosciute sono
registrate presso i registri prefettizi o regionali (registrazione dei dati essenziali dell’associazione e
delle sue successive variazioni), diversamente dalle associazioni non riconosciute.

Il contratto di associazione e le sue vicende


Sebbene si soglia definire il contratto come l’accordo tra due o più parti per costituire, modificare o
estinguere un rapporto giuridico patrimoniale e il contratto di associazione si fonda sul presupposto
non lucrativo delle parti, giungerà di notevole importanza rilevare come, quantunque l’associazione
possa costituire in sé rapporti giuridici suscettibili di valutazione economica, l’interesse e lo scopo
ideale degli associati non influiscono sul concetto e la stipulazione del contratto. Si tratta di un
accordo stipulato sul consenso degli associati, il cui contenuto è reso pubblico se l’associazione
richiede la sua registrazione per ottenere il riconoscimento della personalità giuridica. Talvolta, il
contratto di associazione si scompone nell’atto costitutivo e nello statuto: essi formano, tuttavia, un
unico atto. Tra i requisiti del contratto si annoverano lo scopo dell’associazione, i modi di
annessione di nuovi associati, le regole sull’ordinamento interno. I dati essenziali dell’associazione
sono utili solo ed esclusivamente qualora si voglia fare domanda alle pubbliche autorità per ottenere
la personalità giuridica. Le associazioni si costruiscono su una struttura aperta, poiché è possibile
che gli individui si associno anche in atto successivo al momento della costituzione
dell’associazione stessa senza che vi sia la necessità di annullare il vecchio contratto di

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associazione o di stipularne uno nuovo. L’adesione successiva non espone il nuovo aderente a
condizioni di disparità con i precedenti associati: egli è pienamente integrato nel contratto di
associazione già stipulato. L’atto costitutivo o lo statuto devono indicare le condizioni per
l’ammissione degli associati: qui si palesa la struttura aperta dell’associazione, la quale, da un lato,
non può arbitrariamente regolare l’accesso di nuovi associati, dall’altro, non può permettere
l’adesione a chi non sia in possesso dei requisiti necessari. I diritti e gli obblighi degli associati sono
rinvenibili all’interno del contratto di associazione; talvolta, può accadere che essi siano stabiliti di
anno in anno dagli organi amministrativi dell’associazione stessa: gli associati, dunque, potranno
godere dei beni dell’associazione secondo le modalità previste e dettate e dovranno contribuire
equamente alle spese dell’associazione. Tra i soci di un’associazione deve vigere, non solo in teoria
ma anche in pratica, un principio di uguaglianza: poiché animati da interessi affini e desiderosi di
raggiungere un ideale comune, gli associati hanno uguali diritti e doveri. Sono illegittime quelle
norme che dispongono in seno ad alcuni un voto plurimo e in seno ad altri un voto singolo o,
ancora, quelle disposizioni atte a creare disuguaglianze formali. Non vi sono sostanziali differenze
nella qualità di associato tra le associazioni riconosciute e quelle non riconosciute: in entrambe,
infatti, l’associato può chiedere il recesso dal contratto di associazione. Nonostante un generale
principio asserisca che “il contratto non può essere sciolto se non per mutuo consenso”, il contratto
di associazione può essere sciolto su volontà individuale: la singola parte può decidere
singolarmente di cessare il contratto di associazione in virtù del principio per la tutela del diritto
negativo di associazione e per la libertà personale. È, di converso, possibile che un associato sia
escluso dall’associazione: l’esclusione, sempre e comunque, non deve mai essere una decisione
dell’assemblea arbitraria; l’esclusione dell’associato, infatti, presuppone l’esistenza di “gravi
motivi” per i quali è necessario escludere l’associato dal contratto di associazione. L’associato può,
entro sei mesi dall’esclusione, fare ricorso all’autorità giudiziaria per l’accertamento di gravi motivi
comprovanti la sua esclusione: l’assemblea associativa non può, infatti, esprimersi limitatamente
con locuzioni generiche, ma deve osservare obiettivi impedimenti. L’associazione si estingue per
vari motivi: per deliberazione dell’assemblea, per il raggiungimento dello scopo ideale prefissato,
per impossibilità di raggiungimento dello scopo comune, per recesso di tutti gli associati. Non è
sufficiente, per l’estinzione dell’associazione, il sopravvento di uno dei motivi suddetti, al quale
dovrà necessariamente conseguire uno stato di liquidazione, per il quale il presidente
dell’associazione o del tribunale nominerà un liquidatore atto ad assolvere tutte le obbligazioni in
carico e a riscuoterne, eventualmente, altre. Solo dopo aver assolto tutti i debiti, l’associazione
potrà estinguersi. In caso di un avanzo di patrimonio, esso dovrà essere devoluto ad associazioni
perseguenti uno scopo simile: in ogni caso non potrà essere ripartito fra gli associati.

Gli organi dell’associazione


Le associazioni hanno una propria organizzazione interna: esse sono costituite dalla pluralità degli
associati, la quale costituisce l’assemblea; a questa si affianca, necessariamente, un altro organo,
formato dagli amministratori. Lo statuto, infine, può prevedere la costituzione di un altro organo di
controllo, definito come collegio dei probiviri. L’assemblea ha competenza necessaria
nell’approvazione dello statuto e dell’atto costitutivo, nello scioglimento anticipato
dell’associazione e nella nomina degli amministratori; a questi ultimi, invece, spettano competenze
esclusive per ciò che attiene alle decisioni operative dell’associazione. Essi sono responsabili di
eventuali danni cagionati da loro atti. L’assemblea è composta di tutti gli associati e decide, alla
presenza della metà dei soci, nelle discipline riservate alla sua competenza; più di frequente,
l’assemblea elegge suoi rappresentanti, andando a costituire, così, organi sempre più ristretti.
L’assemblea è convocata dagli amministratori almeno una volta l’anno per deliberare il bilancio;
essa può, inoltre, essere convocata, per ragioni motivate, da un decimo degli associati. L’assemblea
decide a maggioranza alla presenza della metà degli associati: le decisioni possono essere adottate
a seguito del dibattito; non si può, infatti, adottare decisioni per referendum. Gli associati possono
farsi rappresentare da altri associati mediante delega scritta in calce alla convocazione scritta
dell’assemblea stessa. Al termine di ogni consiglio deve essere redatto un verbale avente valore di
dichiarazioni di scienza. Qualora dall’assemblea siano adottate deliberazioni contrarie alle norme di
legge, all’atto costituivo o allo statuto, esse devono essere annullate: spetta, in primo luogo, agli

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amministratori e ai probiviri vigilare sulla legittimità delle deliberazioni assunte; poi, è nelle
facoltà dell’associato vigilare sulla loro legittimità e, infine, può intervenire il pubblico ministero.
Compito dell’assemblea è di designare gli amministratori, i quali, accettato l’incarico,
s’impegneranno a esercitare i poteri loro affidati e ad adempiere le correlative obbligazioni. Sugli
amministratori incombe responsabilità verso l’associazione: essi, infatti, sono tenuti a risarcire il
danno eventualmente commesso nei confronti dell’associazione stessa. Non è sufficiente, però, a
che sorga la loro responsabilità che il danno subito dall’associazione sia dovuto alla condotta degli
amministratori; è necessario, altresì, che sia intervenuto un inadempimento di un obbligo imposto
loro o di un obbligo assolto non con la dovuta diligenza. Gli amministratori sono responsabili in
ragione di aver partecipato all’atto che ha costituito il danno o, se non vi hanno partecipato ed
essendo a conoscenza dell’atto, non hanno espresso il loro dissenso. Gli amministratori sono anche
responsabili nei confronti dei creditori qualora abbiano disatteso ai doveri di conservazione
dell’integrità del patrimonio dell’ente. Infine, incombe su di essi anche la responsabilità per
eventuali fatti illeciti commessi.

Libertà dell’ associazione e libertà nell’associazione


Il tema delle associazioni trova una modica protezione all’interno della nostra Carta costituzionale
laddove l’art. 2 riconosce la tutela, da parte della Repubblica, dei diritti personali sia al soggetto
nella sua individualità sia nelle “formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”. La
Costituzione, dunque, non pone alcuna discriminazione nei riguardi dei soggetti che partecipano a
un’associazione non riconosciuta. L’art. 18, inoltre, consente la facoltà di associarsi liberamente,
senza autorizzazione, per fini non vietati ai singoli dalla legge penale. Lo Stato, nei riguardi delle
associazioni, ha nutrito atteggiamenti differenti: dal disconoscimento delle formazioni sociali nella
concezione assolutistica al riconoscimento di diritti e doveri nello Stato liberale. Talvolta, lo Stato si
è espresso nei riguardi delle associazioni con la concessione o il diniego del riconoscimento: tale
fattore è rilevante per il diritto dello Stato. Agli inizi del secolo scorso si è andata formando la teoria
della dottrina della pluralità degli ordinamenti giuridici: erano concepiti, a fianco dello Stato,
numerosi altri ordinamenti giuridici, dinanzi ai quali lo Stato si pronunciava nella possibilità di farli
propri mediante il riconoscimento o di ignorarli. Nel primo caso le associazioni godevano di tutela
giurisdizionale da parte delle autorità giudiziarie, diversamente dalle associazioni non riconosciute,
delle cui eventuali controversie giudicava l’associazione in sé. I caratteri discriminanti tra le
associazioni riconosciute e le associazioni di fatto sono andati diminuendo a seguito dell’entrata in
vigore del codice civile e della Costituzione: oggi, il riconoscimento non è più fonte di limitati
poteri in capo alle associazioni non aventi personalità giuridica, ma, casomai, fattore di maggiore
protezione giudiziaria per gli amministratori delle associazioni riconosciute. Dal 1948, quando nella
Costituzione fu affermato il principio ai sensi del quale “la Repubblica riconosce e garantisce i
diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua
personalità”, l’ordinamento giuridico statale tutela i diritti del soggetto anche all’interno delle
formazioni sociali non riconosciute. Tale constatazione giunge, sicuramente, in contrasto con
l’antica dottrina della pluralità degli ordinamenti giuridici, la quale lasciava all’associazione stessa,
qualora non riconosciuta, la tutela dei diritti dei suoi associati. Oggi, lo Stato non può più, in modo
arbitrario, decidere dell’approvazione o del diniego del riconoscimento di persona giuridica alle
associazioni: al sospetto, in epoca liberale, di possibili moti rivoluzionari, si contrappone, ora, un
rapporto di fiducia tra lo Stato e le associazioni.

Capitolo trentasettesimo
LE FONDAZIONI E I COMITATI

Le fondazioni
Le fondazioni sono anch’esse, come le associazioni, istituzioni, ossia organizzazioni collettive che
perseguono scopi superindividuali. Essi si costituiscono mediante un atto di fondazione, per il quale
ha agito un’autonomia privata, data dalla volontà di un soggetto privato di mettere a disposizione
un fondo per scopi culturali, d’assistenza, ecc. Diversamente dal contratto di associazione, che è un

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contratto plurilaterale, l’atto di fondazione è un atto unilaterale, che si costituisce per la sola volontà
del fondatore. Anche qualora altri soggetti entrassero a far parte della fondazione, destinando un
loro fondo privato a essa, l’atto non muterebbe la sua intrinseca unilateralità. L’atto di fondazione
ha una duplice caratteristica: si tratta di un atto di disposizione mediante il quale il fondatore si
spoglia, definitivamente e irrevocabilmente, di un bene privato, destinandolo a uno scopo pubblico,
e di un atto di organizzazione, sulla scia delle strutture organizzative delle associazioni. La
fondazione può essere costituita per atto tra vivi e per testamento; nel primo caso per essa è
richiesta la forma dell’atto pubblico, nel secondo, invece, essa diventerà efficace solo al momento
dell’apertura della successione. Altra diversità riscontrabile tra le associazioni e le fondazioni è
che, in queste ultime, il fondatore non può, come gli associati, concorrere al perseguimento dello
scopo superindividuale, il quale compito è affidato a persone diverse dal fondatore. La posizione
degli amministratori della fondazione è tanto diversa da quella degli associati tanto da quella degli
amministratori di un’associazione. I membri di un’associazione sono comunemente definiti “organi
dominanti”, diversamente dagli “organi serventi” propri della fondazione: i primi hanno la
possibilità di modificare il contenuto del contratto, di deliberare lo scioglimento dell’associazione e
di decidere a chi devolvere gli utili; i secondi, invece, non hanno autonomia alcuna, ma il solo
compito di perseguire lo scopo enunciato nell’atto di fondazione, il quale può essere modificato
soltanto dall’autorità pubblica. Diversa è, poi, la posizione degli amministratori nelle due
istituzioni: gli amministratori delle fondazioni possono essere nominati a vita e godono di notevole
autonomia sulla gestione del patrimonio e la pubblica autorità ha un semplice controllo sulla
legittimità del loro operato; gli amministratori delle associazioni, d’altro lato, hanno un’autonomia
più ristretta, anche in considerazione del giudizio che possono costruirsi su di loro gli associati.
Altra differenza tra le due tipologie di organizzazioni, qui in esame, è quella riguardante il loro
scopo: se per le associazioni lo scopo può avere i fini più disparati, purché non abbia natura
economica, per le fondazioni, invece, esso deve giovare all’utilità pubblica. Lo scopo delle
fondazioni è solitamente perpetuo, poiché esso non può essere modificato né dal fondatore, né dagli
amministratori né per provvedimento dell’autorità giudiziaria sino a quando lo scopo sia attuabile.
Questo è il motivo a causa del quale l’ordinamento giuridico guarda con sfavore alle fondazioni,
poiché non attuano una politica di circolazione della ricchezza, diversamente dalle associazioni, il
cui scopo può variare per semplice deliberazione contrattuale. Anche le fondazioni hanno la
possibilità di conseguire la personalità giuridica nelle stesse modalità delle associazioni. Se, però,
queste ultime hanno la possibilità di costituirsi come organizzazioni riconosciute o non
riconosciute, le fondazioni, invece, pur godendo della stessa possibilità, sono piuttosto limitate
dall’autorità pubblica a causa del loro immutabile scopo.

I comitati
Se le fondazioni si costituiscono mediante un atto di fondazione, quale atto unilaterale con scopo
superindividuale, voluto dal fondatore, il quale mette definitivamente e irrevocabilmente a
disposizione suoi beni, è, altresì, possibile che anche persone non dotate della possibilità di mettere
a disposizione della pubblica utilità loro beni privati si facciano promotori di una pubblica
sottoscrizione di raccolta fondi per raggiungere lo scopo da loro desiderato. Il fenomeno è dato
dall’annuncio in pubblico, da parte dei promotori, dello scopo che si vuole raggiungere, invitando la
collettività a partecipare con donazioni; i fondi raccolti, dette oblazioni, sono quindi destinati allo
scopo per il quale erano stati raccolti. Sono i promotori a essere personalmente e solidamente
responsabili dell’amministrazione di tali fondi. Solo qualora i fondi siano insufficienti al
perseguimento dello scopo o questo risulti non più attuabile o ancora, dopo la realizzazione,
avanzino degli utili, spetterà esclusivamente all’autorità giudiziaria stabilirne la destinazione. Sotto
questo punto di vista nulla differisce dalla posizione degli amministratori di una fondazione con
quella dei promotori di un comitato. Infine, è possibile, da parte dei promotori, richiedere il
riconoscimento della personalità giuridica: ottenuto, il comitato si trasformerà in una fondazione,
non richiesto o chiesto e non concesso, i promotori assumeranno su di loro tutte le obbligazioni,
similmente a un’associazione non riconosciuta. Anche il comitato, come le associazioni, può stare
in giudizio nella persona del presidente. In ultima istanza, il comitato può, anche dopo lungo tempo,
richiedere il riconoscimento della personalità giuridica: se concesso si attuerà continuità tra il

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comitato e la fondazione ora riconosciuta.

Parte settima
LA FAMIGLIA E LE SUCCESSIONI

Capitolo quarantatreesimo
LA FAMIGLIA

Famiglia in senso stretto e famiglia in senso ampio


Parlando di “famiglia” è necessaria la preliminare distinzione tra famiglia in senso stretto e famiglia
in senso ampio. Di famiglia, nel senso stretto del termine, si parla con esclusivo riferimento al
nucleo famigliare: i coniugi e la prole minore. Fra questi intercorre una fitta serie di rapporti
giuridici: l’obbligo dei coniugi alla coabitazione; l’obbligo all’assistenza morale e materiale;
l’obbligo alla fedeltà coniugale; l’obbligo dei coniugi a mantenere, educare e istruire la prole;
l’obbligo dei figli a rispettare i genitori; l’obbligo della prole a contribuire, secondo il proprio
reddito e le proprie sostanze, al mantenimento della famiglia. È, tuttavia, possibile, parlare di
famiglia nel senso ampio del termine, stabilendo rapporti di parentela e di affinità. Per parentela
s’intende il rapporto di sangue che unisce persone discendenti l’una dall’altra (linea retta) o da uno
stipite comune (linea collaterale). Non è riconosciuta dalla legge la parentela oltre il sesto grado.
Per affinità s’intende il rapporto che intercorre fra una persona e i parenti del suo coniuge, anche se
morto.

La famiglia legittima
L’art. 29.1 Cost. considera come “la Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società
naturale fondata sul matrimonio”. La constatazione del concetto di famiglia quale “società naturale”
implica che tale rapporto non può essere assoggettato a generali disegni dello Stato - ordinamento,
ma che quest’ultimo può solo e deve assecondare legislativamente le necessità della famiglia stessa.
Tuttavia, il fatto che si tratti di una società naturale non impedisce l’evolversi della regolazione
normativa: si considerino l’introduzione del divorzio e l’abolizione della potestà maritale. Tra i
compiti – doveri della famiglia sono possibili annoverare quello di mantenere, istruire e educare i
figli o quello di garantire al coniuge assistenza morale e materiale. La Costituzione, tuttavia, non si
limita a garantire diritti e doveri solo nei riguardi della famiglia legittima, ossia quella società
naturale fondata sul matrimonio. La Costituzione disciplina anche la regolazione normativa inerente
ai figli nati al di fuori del matrimonio, garantendo a questi ultimi gli stessi diritti in seno ai figli
legittimi. Tuttavia, sebbene la Cost. all’art. 31 faccia esplicito riferimento alle misure istituzionali
atte ad agevolare la formazione sociale delle famiglie, tuttavia, l’art. 30 Cost. limita i diritti dei
figli naturali in considerazione dei diritti dei figli legittimi. Sotto l’aspetto successorio non sono
poste particolari differenze tra figli legittimi e figli naturali, ad eccezione della “commutazione”,
attraverso la quale i figli legittimi possono soddisfare in denaro o con beni immobili ereditari la
porzione spettante ai figli naturali, sempre che questi acconsentano.

La famiglia di fatto
I rapporti tra conviventi hanno, nel nostro diritto, scarsa rilevanza: gli obblighi dei coniugi non
sono trasferibili ai conviventi. Tuttavia, la morte del convivente, causata da terzi, presuppone che il
responsabile risarcisca il convivente rimasto in vita e, similmente, la legislazione pensionistica
dispone alla convivente del caduto la pensione di guerra. Restano uguali a quelli della famiglia
legittima i rapporti giuridici tra genitori e figli naturali.

Gli alimenti
La famiglia in senso ampio ha, inoltre, il dovere di assistenza nei riguardi di coloro che, all’interno
della cerchia parentale, gravitino in circostanze di bisogno. La famiglia ha l’obbligo, infatti, di
garantire gli alimenti a chi versi in stato di bisogno e non possa provvedere a se stesso. Anche tra
affini vige l’obbligo degli alimenti. L’obbligato può sottrarsi alla prestazione qualora dimostri
impossibilità economiche. Tale obbligo incombe anche nei riguardi del donatario, qualora, in

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precedenza, l’alimentando avesse donato alcuni suoi beni. Se l’obbligo incombe su più persone di
pari grado, queste interverranno secondo le loro possibilità.

Capitolo quarantaquattresimo
IL MATRIMONIO

Il matrimonio come atto


Innanzitutto è opportuno distinguere fra il matrimonio come atto (reciproche dichiarazioni di
volontà tra persone di sesso opposto di prendersi rispettivamente in marito e in moglie) e il
matrimonio come rapporto (insieme dei diritti e dei doveri reciproci dei coniugi insorti dopo la
celebrazione dell’atto). Il matrimonio è certamente un atto giuridico (dato non solo dalla capacità di
intendere e di volere dei contraenti, ma anche dalla legale capacità di agire di essi) e, più
precisamente, l’accordo di due parti di costituire tra loro un rapporto giuridico non patrimoniale: in
ciò il contratto di matrimonio differisce dal concetto generale del contratto, atto a stabilire, invece,
un rapporto giuridico patrimoniale. Diversamente dall’autonomia e dalla libertà dei contraenti di
determinare il contenuto dei contratti, coloro che si vincolano nell’atto di matrimonio non possono
sottoporre lo stesso a patti o a termine. La promessa reciproca o unilaterale di matrimonio non è
vincolante: le parti, sino all’ultimo, possono revocare il loro consenso. Tuttavia, la giurisprudenza
disciplina alcuni casi di rifiuto di contrarre il matrimonio: il promittente, che si veda rifiutata la
proposta di matrimonio, può chiedere, entro un anno dal rifiuto, la restituzione dei beni fatti sulla
promessa; inoltre, a seguito di atto pubblico di promessa di matrimonio, la parte che si sottragga a
contrarre matrimonio è tenuta al risarcimento del danno per le spese occorse alla preparazione della
cerimonia. L’atto di matrimonio deve essere preceduto dalle pubblicazioni dell’ufficiale di stato
civile, le quali dovranno restare affisse per almeno otto giorni nell’ingresso della casa comunale. Il
matrimonio non può essere celebrato prima che siano trascorsi quattro giorni dall’eseguita
pubblicazione; il giudice può ridurre i termini. In caso di grave pericolo degli sposi si può procedere
immediatamente all’esecuzione del matrimonio, il quale resta valido anche se non preceduto dalle
pubblicazioni: l’ufficiale di stato civile e gli sposi saranno assoggettati a una sanzione
amministrativa. Trascorsi 180 giorni dalle pubblicazioni, ne saranno necessarie delle nuove. La
celebrazione del matrimonio avviene dinanzi all’ufficiale di stato civile e alla presenza di almeno
due testimoni: dopo aver dato lettura degli artt. 143, 144 e 147 del c.c., dopo aver ricevuto le
dichiarazioni di volontà degli sposi, l’ufficiale li dichiara uniti in matrimonio. Tra il momento delle
dichiarazioni e la pronuncia dell’ufficiale, le parti possono ancora revocare il loro consenso; così,
qualora una delle parti muoia in quei brevi instanti, il matrimonio non può considerarsi celebrato.
Chi residente all’estero può contrarre matrimonio per procura. La prova del matrimonio può essere
data per estrazione dell’atto dai registri di stato civile: non è sufficiente la prova del possesso di
stato.

Le condizioni per contrarre matrimonio


Per contrarre matrimonio è necessario che:
• Gli sposi abbiano raggiunto la maggiore età; diversamente, il giudice può consentire
al minore, che abbia raggiunto comunque il sedicesimo anno di età, di sposarsi, purché ciò
non sia semplicemente considerato un “matrimonio riparatore”;
• Gli sposi godano di sanità mentale: non può essere contratto matrimonio
dall’incapace di intendere e di volere o da chi, anche solo temporaneamente, si trovi nella
condizione ora detta;
• Gli sposi detengano la libertà di stato, ossia non siano obbligati da precedenti vincoli
matrimoniali;
• Tra gli sposi non vi siano rapporti di parentela, affinità o adozione;
• Non vi sia stato (o tentato) l’omicidio del coniuge dell’altra parte.
Sono, invece, impedimenti solo impedienti e non dirimenti l’omissione delle pubblicazioni o il lutto
vedovile. Chi a conoscenza d’impedimenti dirimenti o impedienti, ha l’obbligo di denunciarli:
l’esecuzione dell’atto sarà sospesa sino a sentenza passata in giudicato.

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La nullità del matrimonio
Il matrimonio è dichiarato nullo alla presenza d’impedimenti dirimenti, di vizi del consenso o
nell’ipotesi del matrimonio contratto dal coniuge di chi, dopo la dichiarazione di morte presunta,
torna a farsi vivo. L’azione di nullità può essere richiesta da chiunque abbia un interesse legittimo e
attuale e dallo stesso pubblico ministero in caso di presenza d’impedimenti dirimenti; dal coniuge
cui la nullità si riferisce o da entrambi i coniugi. L’azione di nullità può essere richiesta in ogni
momento, fatte salve certe ipotesi sottoposte secondo la decadenza di un anno. In alcuni casi, infine,
la nullità è sanata: il raggiungimento della maggiore età del minore o la procreazione del minore
con la volontà di mantenere il vincolo matrimoniale; un anno di coabitazione dalla revoca
dell’interdizione, dal riacquisto della capacità di intendere e di volere di chi fu solo incapace al
tempo della dichiarazione di volontà del matrimonio, dalla cessata violenza o timore, dalla
simulazione di matrimonio. La sentenza che dichiara nullo il matrimonio ha efficacia retroattiva fra
le parti, ma non rispetto ai figli: questi ultimi, se nati in costanza di matrimonio, sono considerati
legittimi. Se i coniugi avevano contratto matrimonio non essendo a conoscenza di eventuali
impedimenti (matrimonio putativo) o se, comunque, lo avevano contratto per violenza o timore, il
matrimonio produce fra le parti gli stessi effetti fra i coniugi di un matrimonio valido sino a quando
non è dichiarata la sentenza di nullità. Se solo uno dei coniugi aveva contratto il matrimonio in
buona fede, solo questi avrà diritto agli effetti del matrimonio valido. In caso di bigamia o
d’incesto, dei quali entrambi consapevoli i coniugi, i figli sono naturali riconosciuti e non legittimi;
se, invece, uno dei due è in buona fede, i figli sono considerati legittimi. La sentenza che dichiara
nullo il matrimonio ha gli stessi effetti di una sentenza di divorzio: il giudice stabilisce intorno
all’affidamento della prole e può disporre, per un massimo di tre anni, l’obbligo del coniuge di
corrispondere un assegno all’altro coniuge che versi in stato di bisogno e che non sia passato a
nuove nozze. Qualora il giudice rinvenga in una delle parti la colpa della nullità del matrimonio,
potrà obbligare questa al risarcimento del danno, pari ad almeno al mantenimento e, per il tempo
successivo, dovrà corrispondere gli alimenti.

Continua: i vizi del consenso matrimoniale


Il matrimonio può essere dichiarato nullo quando si dimostri:
• L’incapacità naturale di intendere e di volere, anche solamente temporanea, di uno
dei due coniugi;
• La violenza che ha estorto il consenso (minaccia dell’allontanamento dal tetto
familiare, minaccia della denuncia di violenza carnale, minaccia di suicidio);
• Il timore derivante da persecuzioni razziali o politiche;
• L’errore sull’identità della persona del coniuge;
• L’errore essenziale sulle qualità personali del coniuge: impotentia coeundi,
impotentia generandi (purché tali impotenze fossero ignote al coniuge al momento della
contrazione del matrimonio); giudicato delinquente; stato di gravidanza della donna ad
opera altrui;
• La simulazione del matrimonio per fini altri dal rapporto familiare (la nullità è sanata
se i coniugi hanno coabitato per almeno un anno).

Gli effetti civili del matrimonio religioso


In considerazione dell’importanza, per il nostro Paese, del matrimonio celebrato dinanzi a un
ministro del culto cattolico, lo Stato italiano riconosce alla celebrazione del matrimonio cattolico gli
stessi effetti civili del matrimonio celebrato dinanzi all’ufficiale dello stato civile. Nel caso in cui il
matrimonio sia celebrato seguendo il rito cattolico è importante distinguere:
a) L’atto di matrimonio: la sua validità e le sue forme di celebrazione sono regolate dal
diritto canonico. Il celebrante è tenuto, durante la celebrazione, dare lettura degli artt. 143,
144, 147 del codice civile, compilare un duplice originale della celebrazione del matrimonio
e inviarne una copia all’ufficio di stato civile, ove il matrimonio sarà registrato negli
appositi registri e avrà efficacia civile dalla data di celebrazione. Il matrimonio cattolico non
può essere trascritto nei registri dello stato civile qualora presenti impedimenti dirimenti.
Qualora il matrimonio sia considerato nullo dall’autorità ecclesiastica, ciò potrà essere

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annotato sui registri dello stato civile solo a seguito dell’ordinanza della corte d’appello.
b) Il rapporto matrimoniale: è disciplinato dalle disposizioni del codice civile.
L’ufficiale di stato civile può consentire ai promittenti di sposarsi dinanzi a un ministro del culto
diverso da quello cattolico; gli effetti civili rimangono invariati.

Capitolo quarantacinquesimo
IL RAPPORTO MATRIMONIALE

Diritti e doveri che derivano dal matrimonio


L’art. 29.2 Cost. sancisce come “il matrimonio è ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei
coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare”. Sulla scorta di questo
principio costituzionale, la riforma al codice civile del 1975 si è indirizzata verso un’abolizione
della potestà maritale sulla moglie: i coniugi, avendo gli stessi diritti e gli stessi doveri hanno
entrambi la facoltà di decidere sull’indirizzo della vita matrimoniale, sul luogo di residenza della
famiglia, ecc. Qualora essi discordino, potranno rivolgersi al giudice, il quale potrà, sentiti entrambi
i coniugi e, eventualmente, i figli conviventi che abbiano compiuto il sedicesimo anno di età,
prendere decisioni per entrambi i coniugi “a tutela dell’unità familiare”. Tuttavia, il giudice può
solo intervenire se sono i coniugi a rivolgersi a lui: ciò a tutela dell’autonomia della conduzione
della vita familiare. Tra i doveri dei coniugi si annoverano:
a) il dovere reciproco della fedeltà,
b) il dovere reciproco all’assistenza morale e materiale;
c) il dovere reciproco alla collaborazione nell’interesse della famiglia;
d) il dovere reciproco della coabitazione.
Col vincolo del matrimonio la moglie acquista il cognome del marito e lo conserva anche se
vedova; lo perde qualora giunga a nuove nozze o in caso di divorzio. Il matrimonio influisce sul
requisito della cittadinanza: il coniuge di cittadino italiano acquista la cittadinanza quando risieda
da almeno sei mesi nel territorio della Repubblica ovvero dopo tre anni dalla data di matrimonio.
Sempre a seguito della riforma del 1975, entrambi i genitori possiedono la potestà sulla prole, in
precedenza spettante al padre: congiuntamente essi hanno il dovere di mantenere, educare e istruire
la prole in relazione alle loro sostanze. Nell’istruirli e educarli i genitori devono tenere conto delle
loro aspirazioni e inclinazioni: i genitori non possono abusare dei loro poteri, anche alla luce del
fatto che i minori godono di una loro personalità. Qualora un genitore non possa, materialmente o
fisicamente, provvedere ai doveri nei riguardi della prole, spetterà all’altro genitore il compito di
mantenerli e educarli; qualora, invece, uno (o entrambi) dei genitori costituisca grave pregiudizio
per il figlio, il giudice potrà allontanare il figlio dal tetto coniugale o il genitore. Se in disaccordo, i
genitori possono rivolgersi al giudice, il quale, sentito il parere della prole (con più di quattordici
anni), si limiterà a esprimere solo consigli, evitando di sostituire il ruolo dei genitori a tutela della
salvaguardia della società naturale. I figli, dal canto loro, devono portare rispetto ai genitori e
contribuire con le loro sostanze o con il loro reddito al mantenimento della famiglia. I genitori
hanno rappresentanza legale dei beni dei figli minori: ciò consente loro di usufruire dei loro beni
per il mantenimento della famiglia e per contribuire ai loro studi.

La separazione personale dei coniugi


Con la separazione personale dei coniugi vengono meno alcuni dei doveri spettanti loro: il dovere
della coabitazione o della fedeltà reciproca; il dovere di assistenza si riduce a un mantenimento
economico del coniuge che versi in stato di bisogno e non abbia un reddito proprio. La separazione
può essere: - giudiziale (uno dei coniugi può ricorrere al giudice per chiedere la separazione
dall’altro coniuge in relazione ad un’insostenibile conduzione della vita coniugale, la quale
pregiudicherebbe anche l’educazione dei figli; al giudice, inoltre, può essere richiesta, da parte di
un coniuge, l’addebitabilità della separazione all’altro coniuge, qualora abbia disatteso ai suoi
doveri: l’addebitabilità non comporta il diritto al mantenimento) Nel pronunciare la separazione, il
giudice stabilisce a quale genitore debbano essere affidati i figli e in quale misura l’altro coniuge
debba provvedere al loro mantenimento. La regola si pronuncia in direzione dell’affidamento

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condiviso; - consensuale (sono entrambi i coniugi a decidere, di comune accordo, sui modi di
mantenimento della prole e delle relative condizioni di conduzione della separazione: ciò deve
avvenire per omologazione del giudice). La separazione può cessare anche per tacita volontà dei
coniugi.

Lo scioglimento del matrimonio


Lo scioglimento del matrimonio avviene o a causa della morte di un coniuge o a causa della
pronuncia di una sentenza di divorzio; esso avrà luogo solo dal momento della morte di un coniuge
o dal momento in cui è registrata sui registri dello stato civile la sentenza di divorzio. Lo
scioglimento differisce dall’annullamento, il quale ultimo elimina fin dall’origine ogni effetto
giuridico. Il divorzio, introdotto in Italia solo con la legge n. 898 del 1970, può essere richiesto da
uno dei coniugi quando:
a) Siano trascorsi tre anni dalla separazione personale, sia essa giudiziale o consensuale
omologata;
b) Ci sia stata condanna dell’altro coniuge all’ergastolo, al carcere superiore a quindici
anni o per gravi reati commessi anche prima del vincolo matrimoniale;
c) Non ci sia stata consumazione del matrimonio;
d) L’altro coniuge abbia contratto all’estero nuovo matrimonio.
Anche il matrimonio cattolico può, negli stessi casi, essere sciolto. Sebbene la Chiesa consideri il
matrimonio cattolico indissolubile, lo Stato, tuttavia, considera cessato il vincolo matrimoniale, il
quale può essere sciolto per divorzio. Il giudice deve, prima di separare la sentenza di divorzio,
tentare di riconciliare i coniugi; esperito ogni tentativo, potrà procedere al divorzio. Con la sentenza
di divorzio, il giudice stabilisce a quale coniuge affidare la prole e indica in quale misura l’altro
coniuge debba concorrere al mantenimento della prole. Può, inoltre, decidere la corresponsione di
un assegno nei riguardi del coniuge che non disponga di un reddito proprio: la decisione è presa
sulla base di un criterio assistenziale, risarcitorio e compensativo. L’assegno non spetta al coniuge
che abbia mezzi sufficienti per mantenersi o le possibilità per procurarsi il proprio sostentamento.
Lo scioglimento del matrimonio può essere determinato per il cambiamento sessuale di uno dei due
coniugi.

Capitolo quarantaseiesimo
I RAPPORTI PATRIMONIALI NELLA FAMIGLIA

Comunione e separazione dei beni


Tra il marito e la moglie può esserci comunione o separazione dei beni: il regime legale è quello
della comunione dei beni, la quale comprende:
I beni acquistati dai coniugi, anche separatamente, durante il matrimonio, eccetto i beni
personali e di quelli appartenenti loro già prima del matrimonio;
• I frutti dei beni propri e i proventi delle attività lavorative di ciascuno dei coniugi,
percepiti e non ancora consumati al momento dello scioglimento della separazione dei beni;
• Le aziende costituite durante il matrimonio e gestite da entrambi.
I frutti e i proventi percepiti dal singolo coniuge appartengono a quello e solo in caso di
scioglimento della comunione potranno essere suddivisi. Gli atti di ordinaria amministrazione
spettano disgiuntamente a ciascuno dei coniugi; quelli, invece, di straordinaria amministrazione
spettano congiuntamente ai coniugi. È possibile richiedere l’annullamento degli atti straordinari
compiuti senza il consenso dell’altro coniuge, purché si tratti di beni immobili o mobili registrati, e
purché la richiesta di annullabilità avvenga entro un anno dalla loro trascrizione in pubblici registri.
Per garantire, poi, la libera e rapida circolazione dei beni mobili, la richiesta di annullabilità mira
semplicemente a ricostituire il patrimonio comune. I beni in comunione possiedono un vincolo di
destinazione, ossia essi sono destinati, in modo prioritario, al mantenimento della famiglia. Qualora
i coniugi si obblighino in prestazioni a favore della famiglia, i creditori avranno diritto di
soddisfarsi sulla totalità dei beni comuni e, se questi non bastano, sui beni personali ma solo per la
metà del credito; qualora, invece, i coniugi si obblighino per affari personali, i creditori hanno
diritto di rivalsa sui beni personali del coniuge e sui beni comuni solo per le quote al debitore

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spettanti. Il regime della separazione dei beni si scioglie e si dà luogo alla divisione dei beni in parti
uguali in caso di annullamento (impedimenti dirimenti, vizi consensuali, ritorno del coniuge
dichiarato presumibilmente morto) o scioglimento del matrimonio (morte del coniuge o divorzio),
di separazione personale dei coniugi, di mutamento del regime, di fallimento di uno dei coniugi. La
dichiarazione di separazione dei beni può essere inserita già negli atti di celebrazione del
matrimonio o anche in seguito: in tali casi, il singolo coniuge rimane proprietario unico dei suoi
beni, pur tuttavia, obbligato all’assolvimento dei suoi doveri familiari. I coniugi possono costituire
anche regimi atipici, pur mantenendo l’esclusività sui beni personali e su quelli concernenti
l’esercizio della professione, pur rispettando i propri doveri. I coniugi possono anche costituire un
fondo patrimoniale per le esigenze della conduzione della vita familiare. Le convenzioni
matrimoniali possono essere mutate in ogni tempo per atto pubblico, salvo quelle imposte
direttamente dalla legge.

L’impresa familiare
Parlando d’impresa familiare si va a considerare l’impresa nella quale prestano una continua attività
lavorativa il coniuge dell’imprenditore o i parenti entro il terzo grado o gli affini entro il secondo
grado. Il lavoro del coniuge, dei parenti o degli affini non prevale su quello di lavoratori esterni alla
conduzione familiare. L’impresa familiare è, per certi aspetti, simile al lavoro subordinato, per certi
altri, simile alla società. I familiari hanno diritto di partecipazione alla conduzione dell’impresa
familiare: a) hanno il diritto al mantenimento; b) hanno il diritto di partecipazione agli utili
dell’impresa in relazione alla quantità e alla qualità del lavoro prestato; c) hanno diritti su una quota
dei beni acquistati con gli utili; d) hanno il diritto su una quota degli incrementi dell’impresa. I
familiari, oltre a concorrere alla ripartizione degli utili, partecipano al rischio d’impresa che li vede
coinvolti qualora l’azienda sia in perdita: essi, infatti, dovranno rinunciare allo stipendio e
rinunciare ai loro diritti sui beni aziendali. Solo l’imprenditore, però, risponde con tutto il suo
patrimonio nei confronti dei creditori. La gestione ordinaria spetta al titolare dell’impresa
unitamente al potere direttivo sui lavoratori (compresi i familiari); la gestione straordinaria spetta,
invece, a tutti i familiari partecipanti, i quali decidono a maggioranza. In caso di cessazione
dell’attività lavorativa, liquidata in denaro, il diritto di partecipazione può essere ceduto, su
approvazione unanime dei partecipanti, ad altro membro della famiglia; non può, invece, essere
ceduto a estranei.

Capitolo quarantasettesimo
LA FILIAZIONE

La filiazione legittima
Lo stato del figlio all’interno della famiglia può essere quello di figlio legittimo, di figlio naturale o
di figlio adottivo: nei primi due casi si è avuta una generazione naturale; nel terzo, invece, si è
avuto un rapporto elettivo di filiazione. Il nostro ordinamento giuridico mostra il suo favore
legislativo nei confronti dello Stato di figlio legittimo: figlio legittimo è considerato chi è stato
concepito o è nato in costanza di matrimonio. Il figlio è concepito in costanza di matrimonio se
nasce dopo il 180esimo giorno dopo la celebrazione del matrimonio ed entro il 300esimo giorno
dalla separazione giudiziale o consensuale omologata dei coniugi. È possibile esercitare il
disconoscimento della paternità qualora si dimostri che fra i 300 e i 180 giorni prima della nascita i
coniugi non coabitavano, o il marito era affetto da impotenza o la moglie aveva occultato la sua
gravidanza e il parto al marito. In quest’ultimo caso è necessario procedere per caratteristiche

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ematologiche incompatibili col padre. Non è stato concepito in costanza di matrimonio chi sia nato
300 giorni dopo lo scioglimento del vincolo matrimoniale. Il figlio, nato in costanza di matrimonio,
ma prima del 180esimo giorno dalla celebrazione, si presume essere stato concepito prima delle
nozze: tuttavia, egli è considerato legittimo salvo che uno dei coniugi o il figlio non chieda il
disconoscimento della paternità. Lo stato di figlio legittimo può formare materia di tre distinte
azioni:
• Azione di disconoscimento della paternità;
• Azione di contestazione della legittimità: chiunque abbia interesse a contestare la
legittimità del figlio può condurre tale azione;
• Azione di reclamo della paternità: può essere richiesta dal figlio che nutra l’interesse
di essere riconosciuto figlio legittimo.
Diversamente dalle altre che sono imprescrittibili, l’azione di disconoscimento della paternità può
essere esercitata dalla madre entro sei mesi dal parto, dal padre entro un anno dalla conoscenza
della nascita e dal figlio entro un anno dal raggiungimento della maggiore età. Il titolo di figlio
legittimo è provabile mediante i registri dello stato civile o mediante il possesso di stato: il figlio
deve dimostrare di aver sempre portato il cognome del padre, di essere stato trattato da questi come
suo figlio e di essere stato considerato da tutti come suo figlio.

La filiazione naturale
È considerato figlio naturale il figlio nato al di fuori del matrimonio; pertanto, è figlio naturale il
figlio che sia nato dopo il 300esimo giorno dalla separazione coniugale. Uno dei genitori o
entrambi può riconoscerlo. Il figlio naturale non riconosciuto è registrato nei registri dello stato
civile quale figlio d’ignoti e spetterà all’ufficiale dello stato civile attribuirgli un nome di rispetto. Il
fatto che sia iscritto quale figlio d’ignoti, seppur la madre sia sempre certa, sta a individuare il
favore legislativo nei riguardi della madre che vuole occultare la sua maternità e nei riguardi del
figlio che, magari, vuole nascondere la sua discendenza da donna poco ragguardevole. Il
riconoscimento può essere operato dai genitori al momento della nascita del figlio dinanzi
all’ufficiale di stato civile o anche in momento posteriore dinanzi al giudice tutelare. Una volta
avvenuto il riconoscimento esso è irrevocabile. Possono, altresì, essere riconosciuti i figli premorti,
quelli adulterini o incestuosi. Il figlio naturale può fare ricorso al giudice per chiedere
l’accertamento giudiziale della maternità e della paternità: si tratta di un diritto imprescrittibile in
capo al figlio; se questi è morto, i suoi eredi possono chiedere l’accertamento giudiziale entro due
anni dalla morte. Il figlio naturale riconosciuto o accertato giudizialmente ha gli stessi diritti e
doveri in seno ai figli legittimi. Se non riconosciuto ed impossibile il suo accertamento egli ha,
tuttavia, diritto di essere mantenuto o di ricevere gli alimenti se non abilitato a procacciarseli. Ha,
inoltre, il diritto ad un assegno vitalizio qualora, morti i genitori, essi non abbiano disposto a suo
favore nella successione ereditaria. Il figlio riconosciuto può divenire legittimo per susseguente
matrimonio tra i coniugi o per provvedimento del giudice qualora uno dei genitori sia morto e sia
impossibile il matrimonio.

L’adozione
Diverso dal figlio legittimo (concepito o nato in costanza di matrimonio) e dal figlio naturale (nato
al di fuori del matrimonio) riconosciuto o accertato o legittimato è il caso del figlio adottato, il
quale non è unito ai genitori da vincolo di sangue. Il nostro ordinamento giuridico contempla
l’adozione di persone di maggiore età (a) e di persone di minore età (b):
a) L’adozione di persona di maggiore età può, oggi diversamente dal passato, essere
richiesta anche da chi, coniugato o meno, abbia la possibilità di una discendenza di sangue.
Occorre il consenso dell’adottato, dell’adottante, del coniuge se l’adottante è sposato, dei
discendenti di sangue; l’adottante deve avere compiuto il 35° anno di età e avere almeno 18
anni di più dell’adottato. In tal modo l’adottato mantiene i propri diritti e i propri doveri, ma
aggiunge al proprio il cognome dell’adottante, o del marito se si tratta di coniugi, e ha diritto
alla successione legale verso l’adottante. L’adozione può essere revocata dal giudice su
istanza dell’adottato o dell’adottante o dei discendenti di questo per indegnità;
b) L’adozione di persona minore si verifica quando i minori si trovino in stato di

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abbandono perché privi di assistenza morale e materiale dei genitori o perché “chiusi” in un
ambiente familiare inadatto. Diversamente dall’adozione di maggiorenni, la quale può
essere fatta anche da persone non coniugate, in questo caso è richiesto che gli adottanti
siano coniugati e responsabili per una buona educazione e istruzione dell’adottato. Tale tipo
di adozione è consentito ai coniugi che siano uniti in matrimonio da almeno tre anni, di età
non inferiore ai diciotto e non superiore ai quarantacinque anni rispetto all’adottato. Deve
essere sentito l’adottando, qualora abbia compiuto dodici anni e i figli degli adottanti,
qualora ne abbiano compiti quattordici. L’adozione è data da un procedimento in tre fasi: il
tribunale dei minorenni dichiara l’adottabilità del minore in stato di abbandono; i coniugi
che abbiano i requisiti di legge possono adire domanda di adozione; dopo un anno di pre-
adozione i coniugi possono chiedere la dichiarazione di adozione. Il minore adottato
acquista i diritti e i doveri del figlio legittimo, diventa parente degli ascendenti e dei
discendenti dei coniugi, assume il cognome del padre adottivo e assume la medesima
posizione successoria dei figli di sangue. Qualsiasi informazione concernente la sua
adozione deve rimanere occulta.

L’affidamento dei minori


In alcuni casi si assiste ad un abbandono dei minori, il quale non è colmato dall’adozione. In questi
casi si procede per affidamento familiare o a comunità di tipo familiare, secondo i più moderni
indirizzi sociologici e pedagogici. L’affidatario ha il compito di educare ed istruire il minore
secondo onestà e buonsenso, tenendo in considerazione la potestà e gli indirizzi dei genitori e
cercando di favorire il rapporto fra questi e il minore, tentando di reintegrarlo nella vita familiare.

Capitolo quarantottesimo
LE SUCCESSIONI A CAUSA DI MORTE

I rapporti trasmissibili a causa di morte


Alla morte della persona alcuni suoi diritti e alcune sue obbligazioni si estinguono; altri, invece, si
trasmettono ai suoi successori; lo stesso vale per i contratti. Si estinguono i diritti e gli obblighi non
patrimoniali: es. diritti e doveri all’interno della società naturale per eccellenza (la famiglia); si
estingue l’obbligo di corrispondere gli alimenti al parente o all’affine che versi in stato di bisogno:
tale obbligo succederà ai sensi dell’art. 433 a titolo originario; si estinguono, infine, i diritti della
personalità. Per quanto concerne, invece, i diritti patrimoniali assoluti (diritti reali e garanzie reali)
essi succedono, comprensivi delle relative situazioni negative. Ovviamente non succedono il diritto
all’usufrutto, all’uso e all’abitazione, i quali si estinguono con la morte del loro titolare. Anche i
crediti e i debiti del defunto si trasmettono ai successori, salvi i casi in cui si tratti di debiti o crediti
di carattere strettamente personale. In linea di principio il contratto non si estingue con la morte di
uno dei contraenti; così, il suo successore subentra nell’esercizio dei diritti e nell’adempimento
delle obbligazioni: è il caso del contratto di vendita, del contratto preliminare di vendita, del
contratto di mutuo e del contratto di locazione e di affitto. Sono sottratti a trasmissione i contratti
aventi a oggetto una prestazione di fare o i contratti che riflettano propensioni del tutto personali. Si
trasmette, invece, agli eredi la quota di partecipazione a società per azioni e a società a
responsabilità limitata. Qualora il contratto non sia stato concluso prima della morte di uno dei due
contraenti, in linea di principio, la proposta perde ogni efficacia; di converso, è vincolante la
proposta irrevocabile, vincolante per l’erede del proponente defunto. Continuità di contratto è
presente per i contratti d’imprenditori non piccoli: il nostro ordinamento giuridico mostra il suo
favore legislativo per la continuità contrattuale.

L’eredità e le diverse forme della successione


L’insieme dei rapporti giuridici che alla morte del loro titolare si trasmette ai suoi successori prende
il nome di asse ereditario o di eredità. Il defunto è detto ereditando o, più comunemente, “de cuius”;
il suo successore, invece, è detto erede o, se più di uno, coerede. L’apertura della successione
avviene nel momento della morte ed essa si apre nel luogo dell’ultimo domicilio. Alla morte del
soggetto, quest’ultimo perde la titolarità dei suoi rapporti giuridici, i quali succederanno nei

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confronti degli eredi. Tuttavia, la sola morte non individua i successori e in quali modi la
successione avverrà: con la morte ha inizio solamente la delazione o devoluzione dell’eredità. La
delazione può assumere due forme: l’eredità si devolve per legge o per testamento. Si ha
successione testamentaria nel caso in cui l’ereditando aveva fatto testamento, individuando le
persone alle quali devolvere il suo patrimonio. Si tratta di un atto di volontà, con il quale si afferma
il principio di godimento e di disposizione dei propri beni non solo per atto tra vivi, ma anche per
atto a causa di morte. Qualora, invece, l’ereditando non avesse disposto per testamento, il
patrimonio sarà suddiviso tra i successori per successione legittima, secondo i modi ed entro i limiti
previsti dalla legge. Tale principio sottolinea il vincolo affettivo e familiare: tuttavia, qualora non vi
siano parenti entro il sesto grado, il patrimonio sarà devoluto allo Stato. L’ereditando che abbia
disposto per testamento, pretermettendo alcuni familiari, o che abbia donato, ancora in vita, beni in
misura tale da pregiudicare il diritto di successione dei suoi eredi, potrà causare un’azione di
riduzione della volontà testamentaria o delle donazioni eseguite: si tratta della successione
necessaria, per la quale il soggetto defunto può disporre solo di una parte del suo patrimonio (quota
disponibile), riservandone un’altra ai suoi parenti (quota di riserva). Il soggetto può disporre del
proprio patrimonio in maniera limitata, qualora decida di destinarlo a terzi a titolo non oneroso. Si
parla, altresì, di vocazione dei successori, in riferimento agli eredi destinati a succedere
all’ereditando: sono successori universali coloro che interamente o per quota succedono
all’ereditando in attivo e in passivo; sono, invece, successori a titolo particolare coloro ai quali
vanno, per legato contenuto nel testamento, uno o più beni determinati e questi ultimi non
rispondono dei debiti del defunto.

Capacità a succedere e successione per rappresentazione


In realtà, non tutti quelli che sono vocati a succedere, o per legge o per testamento, possono
succedere: per succedere, infatti, occorre che i successori siano capaci di succedere e non siano
indegni. Possono succedere sia le persone fisiche sia gli enti riconosciuti o non come persone
giuridiche, purché vi sia disposizione testamentaria. Ha diritto a succedere anche il figlio soltanto
concepito dal defunto, purché nasca entro 300 giorni dalla morte del padre. Inoltre, è possibile che
succeda anche colui non ancora concepito, ovviamente per esplicita espressione testamentaria.
Qualora la madre muoia prima di aver concepito, la successione ereditaria avrà effetti retroattivi al
momento dell’apertura della successione. Sono indegne alla successione quelle persone che abbiano
attentato alla vita dell’ereditando e della sua famiglia o che abbiano alterato, celato o manomesso il
testamento o che abbiano, ancora, con violenza, costretto l’ereditando nella stesura di testamento.
Tali persone possono partecipare alla successione ereditaria solo se riabilitate dal defunto. Si ha
successione per rappresentazione quando il successore non voglia o non possa succedere: il
successore, infatti, può rinunciare o rifiutare l’eredità, può anche essere incapace o indegno di
riceverla. A tal proposito, subentrano alla successione i discendenti in linea retta e i discendenti dei
fratelli in linea collaterale. Il rappresentante può accettare l’eredità, anche se in precedenza avesse
rinunciato a quella del rappresentato o se nei confronti di questo ultimo fosse stato incapace o
indegno di succedere.

L’accettazione dell’eredità e la separazione dei beni


Alla delazione, che coincide con la morte del soggetto, fa seguito l’accettazione, ossia la vocazione
dei chiamati a succedere, la quale, una volta intervenuta, opererà retroattivamente sino al momento
dell’apertura della successione. Il chiamato a rispondere alla successione può esercitare le azioni
possessorie, anche se non è nel possesso dei beni, senza che ciò implichi la sua accettazione.
L’accettazione è requisito necessario per l’acquisto dell’eredità; i legati, invece, possono essere
ereditati immediatamente e senza bisogni di accettazione: il legatario dovrà chiedere all’erede,
onerato, di farsi consegnare il bene legatogli. Talvolta, l’erede prende possesso dei beni prima
ancora di aver espresso la sua manifestazione di accettazione, provvedendo alla loro cura e alla loro
amministrazione. Di converso, è possibile che l’eredità venga a trovarsi in una condizione di
giacenza: in tali casi, il pretore può nominare un curatore, il cui incarico cesserà nel momento
dell’accettazione dell’eredità. L’erede ha dieci anni di tempo per accettare l’eredità, i quali
decorrono dal momento dell’apertura della successione; l’erede, invece, che sia chiamato a

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succedere a condizione, ha dieci anni di tempo dal momento in cui la condizione si verifica.
L’accettazione può essere espressa (atto pubblico o scrittura privata) o tacita (il vocato erede si
comporta con l’eredità come se avesse accettato): l’accettazione non può essere soggetta a termine
o a condizioni. La pura e semplice accettazione comporta che i beni ereditari si confondano con il
patrimonio dell'erede; quest’ultimo, per evitare che eventuali creditori del defunto esercitino i loro
diritti non solo sul patrimonio ereditario ma anche su quello personale, ha diritto di accettare
l’eredità con beneficio d’inventario: in tal modo i creditori e i legatari non potranno pretendere di
più di quanto è nel patrimonio ereditario; i creditori e i legatari del defunto avranno preferenza sul
patrimonio ereditario rispetto ai creditori dell’erede; l’erede non può sottrarre ai creditori del
defunto i beni ereditari. Tale tipo di accettazione si fa con un atto ricevuto dal notaio o dal
cancelliere dell’ufficio giudiziario del luogo in cui si è aperta la successione: l’erede avrà tre mesi
di tempo per eseguire l’inventario, i quali decorrono dall’apertura della successione se egli è nel
possesso dei beni o dall’accettazione dell’eredità se egli non è nel possesso dei beni.
• L’erede può pagare creditori e legatari a mano a mano che essi gli si presentano;
• può, altresì, accertare i debiti, vendere i beni e conseguire i pagamenti;
• può, infine, rilasciare i beni a creditori e legatari, affidando le rispettive funzioni a un
curatore.
L’erede che abbia accettato con beneficio d’inventario e non abbia proceduto all’inventario entro i
termini e con i modi stabiliti dalla legge decade da tale beneficio. Tale tipologia di accettazione può
dimostrarsi utile anche per i creditori del defunto i quali non vogliono che il patrimonio del defunto
e quello dell’erede si congiungano, onde evitare di concorrere con i creditori dell’erede. L’erede
può rinunciare all’eredità negli stessi modi previsti per l’accettazione; tuttavia, qualora la rinuncia
possa pregiudicare i diritti di credito dei creditori dell’erede, questi possono impugnare la rinuncia,
non impedendo all’erede di rinunciare comunque sia all’accettazione. L’erede ha diritto di chiedere
la petizione di eredità, con la quale egli è dichiarato erede.

La comunione ereditaria e la divisione


Qualora gli eredi siano due o più di due si parla di comunione ereditaria:
I crediti e i debiti ereditari danno luogo a obbligazioni parziarie: ciascun erede può risolvere
il credito o riscuotere i debiti solo per la quota a lui spettante;
• Il coerede può alienare la sua quota, ma con obbligo di prelazione (deve, in
principio, offrirla ai suoi coeredi);
• Il coerede può chiedere la divisione; questa non avrà luogo se il testatore l’ha vietata
(il divieto non può valere per più di cinque anni) o se un erede non è ancora nato.
La divisione può essere:
• Divisione amichevole: si produce sul consenso di tutti gli eredi, presupponendo
quote ideali;
• Divisione giudiziale: spetta al giudice istruttore considerare l’attivo e il passivo
dell’eredità e disporre la divisione per quote uguali; se a un coerede spetta una quota
maggiore, egli ha il diritto di chiedere l’assegnazione in natura del bene, procedendo al
conguaglio liquido degli altri condividenti;
• Divisione operata dal testatore: spetta al testatore designare che cosa spetta a
ciascuno degli eredi.
Tuttavia, qualora a un soggetto tocchi un’eredità di un valore inferiore ai tre quarti rispetto ciò che
gli spetta, egli può rivolgersi all’autorità giudiziaria per la risoluzione della divisione.
Per collazione s’intende un procedimento che mira a evitare la disparità di trattamento fra eredi che
abbiano ricevuto quando ancora l’ereditando era in vita ed eredi che non abbiano ancora ricevuto: le
donazioni, infatti, si considerano come anticipazioni dell’eredità. L’ereditando, tuttavia, può
dispensare la collazione, purché non si tratti della quota di riserva. La collazione giova solamente ai
discendenti e al coniuge, i quali hanno diritto, nella determinazione dell’asse ereditario, di sommare
al relictum il donatum. Si considerano tutte le liberalità, escluse quelle di modico valore o
necessarie al mantenimento e alla conduzione della vita familiare il coerede può rendere in natura
ciò che aveva ricevuto dal defunto oppure può detrarre, per imputazione, dalla sua quota quanto già
ricevuto. Qualora un erede abbia ricevuto più di quanto, o per legge o per testamento, gli spetti,

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potrà evitare l’esborso rinunciando all’eredità.

Capitolo quarantanovesimo
LA SUCCESSIONE PER LEGGE

La successione legittima
L’eredità si devolve per legge o per testamento: si parla di successione legittima quando la
devoluzione opera in assenza di testamento; di successione necessaria quando disposizioni del
testamento o atti di liberalità abbiano pregiudicato gli interessi dei legittimari. Il fondamento della
successione per legge risiede nel vincolo familiare che unisce l’ereditando e i suoi successori.
Qualora la persona muoia senza aver fatto testamento, si attua la successione legittima:
• Se ci sono figli, legittimi, naturali o adottivi, i beni vanno a questi in parti uguali; al
coniuge, se ancora in vita, va metà del patrimonio oppure un terzo un terzo a seconda che
concorra con uno con più figli;
• Se non ci sono figli, due terzi vanno al coniuge e un terzo a genitori, fratelli e
sorelle;
• Se non ci sono né figli né coniuge superstite, succedono i genitori, i fratelli e le
sorelle legittimi;
• Se nessuno di questi sia vivo, i beni vanno ai parenti sino al sesto grado di parentela.
Ciascun grado esclude il successivo grado di parentela, ad esclusione delle norme sulla
rappresentazione. Qualora non vi siano parenti entro il sesto grado succede lo Stato, il quale
risponde deii debiti solo in relazione al valore del patrimonio ereditato. La Corte Costituzionale ha
introdotto al fianco dei fratelli e delle sorelle legittimi, anche quelli naturali.

La successione necessaria dei legittimari


Se l’ereditando ha un coniuge o ha discendenti o ascendenti, egli non potrà disporre liberamente del
proprio patrimonio: una frazione aritmetica di questo spetta, anche contro la volontà
dell’ereditando, ai suoi parenti più prossimi. Qualora il de cuius muoia lasciando un coniuge e più
figli, la legittima può arrivare a coprire sino a tre quarti del patrimonio; mentre se lascia solo
ascendenti, la disponibile raggiunge i due terzi: ciò non pregiudica solo la volontà dell’ereditando,
ma anche le sue liberalità. I parenti cha hanno diritto ad ereditare la legittima sono: il coniuge, i
figli legittimi, naturali o adottivi, gli ascendenti legittimi e quelli adottivi. Essi succedono in questo
ordine:
• Al coniuge spetta la metà del patrimonio, un terzo se concorre con un figlio, un
quarto se con più figli;
• Al figlio spetta un mezzo o ai figli i due terzi;
• Agli ascendenti spetta un terzo del patrimonio o un quarto se gli ascendenti
concorrono con il coniuge.
La quota viene determinata detraendo dal patrimonio i debiti ed aggiungendovi le eventuali
elargizioni. Il legittimario, che si veda spogliato dei beni di sua spettanza, può chiedere l’azione di
riduzione delle disposizioni testamentarie o delle liberalità dell’ereditando. Se il legittimario avesse
già beneficiato di donazioni, queste dovranno essere sottratte alla quota di riserva.

Capitolo cinquantesimo
LA SUCCESSIONE TESTAMENTARIA E LA DONAZIONE

Il testamento
L’art. 587 c.c. sancisce come “il testamento è un atto revocabile con il quale taluno dispone, per il
tempo in cui avrà cessato di vivere, di tutte le proprie sostanze o di parte di esse”. Il testamento è,
anzitutto, un atto giuridico unilaterale, dato dalla dichiarazione di volontà di un soggetto, mediante
la quale, quest’ultimo disporrà pro futuro delle proprie sostanze. È un atto personalissimo, che non
può essere ceduto ad alcuno; l’incapace naturale di intendere e di volere non può fare testamento,
né per lui terzi; è necessario il raggiungimento della legale capacità di agire. Peculiarità dell’azione
testamentaria è la sua revocabilità: in ogni momento, sino all’ultimo istante della sua vita, il

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testatore può revocare il testamento fatto. Ciò è, sicuramente, un presidio alla libertà di fare o di
non fare testamento e di revocarlo: qualsiasi clausola contraria a tale libertà e contenuta all’interno
del testamento è da dichiararsi senza effetti. Sono nulli eventuali patti successori istitutivi; vige il
divieto di testamento congiuntivo o di testamento reciproco: l’essenza del testamento risiede nella
sua necessità di essere un atto unipersonale. Sono, invece, validi i patti di famiglia, con i quali si
anticipa, in tutto o in parte, la trasmissione della ricchezza familiare. Il testamento può essere
revocato in modo espresso mediante atto pubblico o con dichiarazione di revoca contenuta in un
nuovo testamento; di converso, può essere revocato tacitamente con la sua distruzione o con nuovo
testamento le cui disposizioni risultano incompatibili con quelle contenute in un precedente
testamento. Il testamento è un atto revocabile con il quale taluno dispone “per il tempo in cui avrà
cessato di vivere”: è, dunque, un atto mortis causa (la morte non è solo il termine nel quale il
testamento troverà la sua apertura, ma è anche il motivo e la causa del testamento), diverso dagli
atti inter vivos post mortem (es. assicurazioni sulla vita e disposizioni intorno alla propria
crematura). Il testamento è sostanzialmente un atto di liberalità con il quale taluno dispone in tutto
o in parte delle proprie sostanze: diversamente dalla donazione, che il donatario è libero di fare o
non, il testamento è pura deroga alla successione inevitabile. Diversamente dalla donazione che può
essere revocata o meno per sopravvenienza di figli, il testamento deve essere revocato di diritto per
sopravvenienza di figli, ossia di legittimati. Il testamento è un atto formale; per essere valido esso
deve presentarsi nelle seguenti forme:
• Testamento olografo: è scritto, datato e sottoscritto interamente di mano del
testatore; può avere aggiunte successive, i codicilli;
• Testamento pubblico: è scritto dal notaio dopo che il testatore ha espresso le sue
ultime volontà davanti a due testimoni; è sottoscritto dal notaio, dal testatore e dai due
testimoni dopo la rilettura e l’annotazione del luogo, della data e dell’ora del notaio;
• Testamento segreto: è scritto dal testatore o da persona da lui delegata, a mano o a
stampa, in un qualunque foglio di carta; questo deve essere presentato sigillato ad un notaio
che, esternamente al foglio, annoterà tutte le formalità; dovrà essere sottoscritto dal notaio,
dal testatore e dai testimoni.
Non solo è possibile fare testamenti tipici, ossia a contenuto patrimoniale; sono ammissibili
testamenti atipici a contenuto non patrimoniale: ad esempio quelli che contengono disposizioni post
mortem del testatore (riconoscimento del figlio naturale; divieto di pubblicaz di opera inedita, ecc.).

L’istituzione di erede ed i legati


Il contenuto tipico del testamento contiene disposizioni patrimoniali che possono riguardare:
• L’istituzione di un erede, o più eredi, a titolo universale: il testatore determina i suoi
successori e in quali parti essi succedono;
• L’istituzione di un legato a titolo particolare: il legato è di specie quando ha per
oggetto la proprietà di una cosa determinata, mentre è di genere quando ha per oggetto cose
determinate solo nel genere; l’adempimento del legato spetta agli eredi o a un determinato
erede (onerato) ed è a carico illimitato degli stessi, purché essi non abbiano accettato con
beneficio di inventario;
• La costituzione di una fondazione, sempre rispettando i diritti dei legittimari.
Un’eventuale diseredazione ha valore solo se non pregiudica i diritti dei legittimari. L’erede o il
legatario devono essere persone determinate o determinabili: disposizioni che non consentano la
possibilità di determinare con certezza i singoli soggetti sono dichiarate nulle, fatti salvi eventuali
richiami testamentari a fonti terze, le quali consentano una certa identificazione. Sono, altresì, nulle
eventuali disposizioni che non consentano di determinare le quantità di eredità e di legati. È
possibile, invece, che il testatore indichi un soggetto terzo a che disponga a favore di persone da
scegliersi all’interno di categorie prestabilite. La disposizione testamentaria incerta, che possa
essere accertata sulla base di altre fonti, non è nulla: qui procede il principio dell’interpretazione del
testamento. Sono incapaci a ricevere il notaio che abbia ricevuto il testamento, il tutore del testatore
e le persone che abbiano scritto il testamento segreto. L’erede o il legatario che abbiano ricevuto
l’eredità in qualità di interposti non sono obbligati, fatta salva l’azione morale, a cedere a terzi,
eventualmente stabiliti con patti fiduciari, l’eredità o i legati, anche se sono presenti cenni

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all’interno del testamento. Sono nulle le disposizioni testamentarie per interposizione che mirino ad
eludere eventuali soggetti incapaci di ricevere per testamento.

La condizione, il termine, l’onere


Talvolta può verificarsi l’efficacia dell’istituzione di erede o di legato a seguito di una condizione
sospensiva (sei istituito erede o legato al verificarsi di una certa condizione; in attesa, sarà nominato
un amministratore) o risolutiva (al verificarsi di un evento contrario alle disposizioni testamentarie,
l’eredità e i legati devono essere restituiti, eccetto i frutti maturati). Le condizioni che limitino
eccessivamente la libertà altrui sono considerate illecite. A volte, l’eredità e i legati sono vincolati
da oneri: si hanno, quindi, le disposizioni modali. L’ereditario è tenuto ad eseguire le disposizioni
modali anche con l’utilizzo del suo patrimonio; il legato, invece, è tenuto alla disposizione solo nel
limite del valore del legato.

Le sostituzioni e l’accrescimento
Qualora la persona istituita erede o legataria non possa o non voglia succedere subentreranno le
norme di rappresentazione, valide sia in caso di successione legittima sia in caso di successione
testamentaria. In quest’ultimo caso, tuttavia, il testatore può prevedere l’ipotesi che alcuni soggetti
non accettino l’eredità e può istituire al loro posto “soggetti sostituiti”, i quali succederanno
direttamente al testatore. Qualora non sia prevista la sostituzione degli eredi o dei legatori e qualora
le norme della rappresentazione non siano applicabili, si procederà per accrescimento: se, infatti, il
testatore con medesimo testamento aveva disposto in parti uguali per più eredi o intorno ad uno
stesso legato per più legatari, la quota non accettata sarà ripartita in quote uguali fra i coeredi e i
collegatari, purché non sia stato escluso nel testamento l’accrescimento. Se il testamento prevede il
divieto di accrescimento o ereditari e legatari con quote diverse o su oggetti molteplici, allora si
dovrà procedere per successione legittima. Fenomeno analogo si ha anche nelle successioni
legittimi, fatti salvi i casi di rappresentazione. La sostituzione fedecommissaria opera quando gli
ascendenti o il coniuge di un interdetto istituiscono questo come erede con l’obbligo di conservare
il patrimonio e di restituirlo alle persone o all’ente che si sono prese cura di lui.

Invalidità del testamento


Il testamento può risultare nullo o annullabile. Comporta nullità la violazione delle norme
imperative e la violazione del divieto di testamento congiuntivo o reciproco; sono, invece, nulle
quelle disposizioni a favore di persone incapaci di ricevere anche per interposizioni di terzi, a
favore di persone non determinabili o rimesse all’arbitrio altrui. Qualora il motivo illecito venga
evidenziato nel testamento, esso rende nulla la disposizione. Alcuni difetti di forma producono
nullità solo se rendono incerta l’autenticità delle disposizioni. L’azione di nullità può essere
esercitata da chiunque vi abbia interesse ed è imprescrittibile. Essa, tuttavia, non può essere
esercitata da chi abbia dato attuazione alle disposizioni testamentarie. Un testamento che presenti
vizi di forma può essere convertito in testamento altro. È annullabile il testamento di chi si trovava
in condizione di incapacità di disporre al momento della stesura del testamento o del testamento per
errore, per violenza o per dolo. La rilevanza dell’errore è accentuata se quello è il solo motivo per il
quale si è disposto in un modo e non diversamente. L’azione di annullamento si prescrive in cinque
anni dall’esecuzione testamentaria per i casi di stesura di testamento nello stato di incapacità di
disporre o dalla loro scoperta per i vizi della volontà.

La donazione e le altre liberalità fra vivi


La donazione è disciplinata nel libro delle successioni. La donazione è “il contratto col quale, per
spirito di liberalità, una parte arricchisce l’altra, disponendo a favore di questa di un suo diritto o
assumendo verso la stessa un’obbligazione”: l’oggetto della donazione, dunque, può essere quanto
mai vario. La donazione, pena annullabilità, necessita della forma dell’atto pubblico e può risultare
da un medesimo atto o da due atti distinti.

Parte ottava
LA TUTELA DEI DIRITTI

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Capitolo cinquantunesimo
LA TRASCRIZIONE

La pubblicità dei fatti giuridici in genere


La legge appresta determinati mezzi per rendere i fatti giuridici, conoscibili da chiunque, dandone
dunque pubblicità:
)a i registri dello stato civile, che rendono conoscibile lo stato della persona fisica: nascita,
morte, cittadinanza; il matrimonio e la sentenza dichiarativa della sua nullità e quella di
divorzio, il riconoscimento del figlio naturale e le sentenze di accertamento giudiziale della
paternità e della maternità, l’adozione.
)b Il registro delle persone giuridiche, che rende disponibili le informazioni relative alle
associazioni e alle fondazioni riconosciute come persone giuridiche.
)c Il registro delle imprese, che dà pubblicità alle vicende inerenti le imprese e le società
commerciali.
)d I registri immobiliari, che danno pubblicità ai fatti costitutivi, estintivi e traslativi della
proprietà e degli altri diritti reali sugli immobili, compresi i fatti relativi ai diritti di
obbligazione, come la locazione e i conferimenti di godimento ultranovennali.
)e Registri che danno pubblicità relativa a categorie di beni mobili: il pubblico registro
automobilistico, il registro navale, il registro degli aeromobili.
)f La gazzetta ufficiale può essere il mezzo di pubblicità per la convocazione dell’assemblea di
società per azioni, o per la convocazione dei creditori nei concordati e nell’amministrazione
controllata.
Per la pubblicità dei fatti giuridiche, si distinguono tre diverse funzioni, fondamentali:
I. Pubblicità – notizia. Vale a rendere i fatti giuridici conoscibili a chiunque ne abbia interesse,
ed è funzione assolta da ogni mezzo di pubblicità. È il caso di chi si accinge a fare credito
ad un soggetto può desumere se questo è proprietario di beni immobili, e se i suoi beni sono
liberi da ipoteche o altri diritti reali altrui. I registri dello stato civile, come anche altri mezzi
di pubblicità assolvono solo a questa funzione. Il fatto soggetto a registrazione produce le
medesime conseguenze giuridiche sia che la sua registrazione sia avvenuta, sia che non sia
avvenuta.
II. Pubblicità dichiarativa. Ha la specifica funzione di rendere opponibile a terzi il fatto
giuridico del quale è stata data pubblicità, indipendentemente dal fatto che i terzi ne abbiano
avuto effettiva conoscenza. Essa trasforma la conoscibilità del fatto, resa possibile dalla
pubblicità del fatto, in conoscenza legale: una volta che è stata data pubblicità nessuno può
eccepire di ignorare il fatto.
Entro la pubblicità dichiarativa occorre però distinguere due casi, rilevanti per il caso che non sia
stata data pubblicità del fatto giuridico:
a) in alcuni casi la pubblicità e mezzo sufficiente ma non necessario per l’opponibilità del fatto
giuridico a terzi. Se il fatto è iscritto nel registro ciò basta a renderlo opponibile a terzi,
anche qualora questi lo ignorassero, ma se il fatto non era iscritto, esso è comunque
opponibile, ma solo con la prova che, pur non essendoci pubblicità, essi erano a conoscenza
del fatto.
b) In altri casi la pubblicità e mezzo necessario, oltre che sufficiente, per rendere opponibile a
terzi il fatto. Così è infatti per la trascrizione nei registri mobiliari e immobiliari: se ad
esempio non avviene la trascrizione di una vendita, la mancata trascrizione impedisce di
opporre ai terzi l’avvenuto trasferimento, senza possibilità di provare altrimenti la
conoscenza del fatto. In materia di convenzioni matrimoniali, la trascrizione degrada a mera
pubblicità notizia.
III. pubblicità costitutiva. Ricorre in casi in cui l’iscrizione di un fatto giuridico nel
registro è requisito necessario perché si producano i suoi effetti giuridici. È il caso della
iscrizione di ipoteca, che è l’atto per il quale l’ipoteca acquista validità giuridica.

La trascrizione immobiliare

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Si debbono rendere pubblici per mezzo della iscrizione nei registri immobiliari:
• i contratti che trasferiscono la proprietà di beni immobili
• i contratti che costituiscono trasferiscono o modificano o estinguono i diritti reali sugli
immobili
• le locazioni ultranovennali
• i contratti di associazione o di società con i quali si trasferisce il godimento di immobili per
oltre nove anni o a tempo indeterminato. E le se utenze, gli altri provvedimenti giudiziari e
gli atti unilaterali che producono gli stessi effetti. (artt. 2643, 2645, 2653).
La trascrizione, essenzialmente, esaurisce la sua funzione nel rendere opponibile a terzi gli atti che
vi sono soggetti, per legge. Ma svolge la funzione di pubblicità dichiarativa, in quanto il contratto o
l’atto, soggetto a trascrizione, è comunque efficace tra le parti, anche se non trascritto, la
trascrizione risolve il conflitto tra più soggetti che hanno partecipate, indipendentemente, al
medesimo atto, a favore di colui che per primo l’ha trascritto (principio di priorità).
Sono atti soggetti a trascrizione, sempre agli effetti dell’opponibilità a terzi, le domande giudiziali,
riguardanti atti soggetti a trascrizione (art. 2652). In questi casi, la trascrizione fa retroagire, al
momento della trascrizione della domanda giudiziale, l’effetto della successiva trascrizione della
sentenza di accoglimento della domanda (effetto prenotativo). Se la domanda sarà accolta, quindi,
la sentenza di accoglimento potrà essere opposta ai terzi dalla data di trascrizione della domanda.
È una regola, questa, che non vale però per il contratto nullo, in quanto la sentenza che dichiara la
nullità travolge, in linea di principio, anche i diritti dei terzi acquistati in buona fede, anche se i terzi
avessero trascritto il loro acquisto prima della trascrizione della sentenza di nullità. Nel caso in cui
però siano trascorsi cinque anni, durante i quali la sentenza di nullità non è stata trascritta, una
sentenza successiva di nullità o pronuncia di annullamento, non coinvolge i diritti acquistati dai
terzi in buona fede (art. 2652 n. 2). Si parla allora di pubblicità sanante, non nel senso che viene
sanata la nullità, ma nel senso che la sentenza di nullità non è opponibile al terzo, ma è pienamente
efficace tra le parti.
Una ulteriore forma di pubblicità con effetto prenotativo esiste per il contratto preliminare (art.
2645 bis) (contratti traslativi, costitutivi o modificativi di diritti reali sugli immobili). La
trascrizione del preliminare fa si, che la successiva trascrizione del contratto definitivo o della
sentenza che accoglie la domanda giudiziale di esecuzione in forma specifica, che devono avvenire
rispettivamente entro uno e tre anni, altrimenti cessano gli effetti prenotativi, prevalga sulle
trascrizioni ed iscrizioni eseguite contro il promettente alienante dopo la trascrizione del contratto
preliminare (art. 2645 bis, comma II).
Per altri atti la trascrizione è richiesta dalla legge a meri fini di pubblicità notizia (atti di
accettazione di eredità, sentenze che accertano l’avvenuto acquisto della proprietà per usucapione,
atti opponibili a terzi anche se non trascritti). La loro trascrizione interessa essenzialmente, i futuri
aventi causa, agli effetti dell’osservanza del principio della continuità delle trascrizioni.
Il nostro sistema delle trascrizioni immobiliari è a base personale, non reale: i registri cioè fanno
riferimento a persone, non a beni, corredati da un indice di nomi non da un inventario di immobili.
Il conservatore dei registri immobiliari esegue la trascrizione degli atti a favore del loro acquirente
e contro il loro dante causa. Le ricerche dunque si eseguono per nomi di persone, e non per unità
immobiliari.
A base reale, è invece il sistema tavolate vigente tutt’ora nelle province appartenenti, prima della I
guerra mondiale, all’impero austro-ungarico. L’iscrizione in quei libri fondiari, detta intavolazione,
ha inoltre il valore di pubblicità costitutiva, perciò l’atto non è efficace, neppure tra le parti, se non
prima dell’intavolazione.
Diverso dai registri immobiliari è il catasto, che è l’inventario generale degli immobili situati nel
territorio dello Stato, basato sul rilevamento topografico del territorio, e diviso in catasto dei terreni
e catasto edilizio urbano. Ha la funzione di consentire l’identificazione dei singoli beni,
l’accertamento della loro consistenza, del loro reddito e della loro proprietà. Il catasto serve
essenzialmente, ai fini fiscali, urbanistici e di rilevazione statistica, oltre che per identificare gli
immobili oggetto di contratti traslativi o costitutivi di diritti reali. I trapassi di proprietà debbono
essere denunciati all’ufficio catastale, il quale, in genere dopo anni, rilascia un certificato storico
catastale, che descrive le vicende giuridiche dei beni. I dati catastali non hanno efficacia come

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prova della proprietà degli immobili, né efficacia di pubblicità dichiarativa, nei loro trasferimenti.
Solo in mancanza di altre prove, i dati catastali possono essere utilizzati per la identificazione dei
confini dei fondi (art. 950 comma III).
Il sistema della trascrizione immobiliare è basato sul principio della continuità delle trascrizioni, per
cui, se un atto di acquisto è soggetto a trascrizioni, le successive trascrizioni o iscrizioni a carico
dell’acquirente non producono effetto, se non è stato trascritto l’atto anteriore di acquisto (art. 2650
comma I). per ciò ad ogni trascrizione contro una persona deve corrisponderne una a favore della
medesima persona, e la ragione appare evidente se si considera l’impostazione a base personale dei
nostri registri immobiliari. La trascrizione dell’acquisto di un soggetto è inefficace se non appare la
trascrizione del precedente acquirente, che compare come dante causa, la trascrizione di questo,
renderà la trascrizione del primo soggetto a partire dalla sua data. È però fatto salvo il disposto
dell’art. 2644: se Mevio ha trascritto il proprio acquisto da Sempronio prima che Caio trascrivesse
il proprio trasferimento da Sempronio a Tizio, Mevio prevale su Caio. Nell’ordine delle trascrizioni
si dovrà procedere a ritroso, in linea generale, fino ad un dante causa, a vantaggio del quale
l’acquisto è avvenuto per usucapione.
La trascrizione si esegue presso gli uffici dei registri immobiliari nelle cui circoscrizioni sono situati
i beni (art. 2663). L’atto da trascrivere deve presentare specifici requisiti formali idonei a farne un
titolo per la trascrizione, deve trattarsi:
• o di una sentenza
• o di un atto pubblico
• scrittura privata con firme autenticate o giudizialmente accertate (art. 2657)
il titolo per la trascrizione deve essere accompagnato da una nota di trascrizione, indicante gli
estremi essenziali dell’atto e gli immobili che ne formano oggetto (art. 2659).
La trascrizione degli atti che la legge dichiara soggetti a trascrizione è solo un onere per le parti, che
in difetto non potranno opporre l’atto a terzi, e può essere fatta anche da un qualsiasi terzo
interessato (art. 2666), ma è un obbligo per il notaio che abbia redatto l’atto pubblico o autenticato
la scrittura privata (art. 2671).
La cancellazione della trascrizione risponde ad un tenore particolarmente rigoroso. La trascrizione
delle domande giudiziali, come la trascrizione del contratto preliminare, può essere cancellata solo
con il consenso delle parti interessate o se è ordinata dal giudice con sentenza passata in giudicato
(art. 2668 comma I), ed il giudice deve ordinarla se rifiuta la domanda o se dichiara estinto il
giudizio (art. 2668 comma II e IV). Si deve inoltre cancellare l’indicazione della condizione o del
termine negli atti trascritti, quando l’avveramento o il mancato avveramento della condizione o la
scadenza del termine risulta da sentenza, o dichiarazione anche unilaterale, della parte in danno
della quale la condizione sospensiva si è avverata o la condizione risolutiva è mancata, o il termine
essenziale è scaduto (art. 2668 comma III).
Il conservatore dei registri immobiliari, pubblico funzionario, è direttamente responsabile dei danni
che cagiona a privati per l’illegittimo rifiuto di trascrizione o per il ritardo con il quale la esegue o
per le omissioni o gli errori nei quali incorre.
Qualora emergano gravi dubbi sulla trascrivibilità di un atto, il conservatore, su istanza di parte,
esegue la formalità con riserva, la parte deve quindi presentare domanda all’autorità giudiziaria
perché sciolga il dubbio (art. 2674 bis).

La trascrizione mobiliare
Gli atti che sono oggetto di trascrizione quando hanno per oggetto beni immobili, sono soggetti ad
analoghe forme di pubblicità quando hanno per oggetto beni mobili registrati. Il Pubblico registro
automobilistico, il registro navale e quello per gli aeromobili, assolvono, per i veicoli a motore in
genere, per le navi e i galleggianti in genere sottoposti ad immatricolazione e per gli aeromobili, la
medesima funzione dei registri immobiliari (art. 2683). La tenuta del Pra è regolata dal r.d. n. 436
del 1927, la tenuta degli altri due registri è regolata dal codice della navigazione (artt. 146 ss. 753
ss.). la trascrizione mobiliare ha la medesima funzione di quella immobiliare (artt. 2685 ss.),
rappresenta un onere per le parti interessate, ma un dovere per il notaio rogante, ed anche qui vale il
principio della continuità delle trascrizioni.

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Il sistema delle trascrizioni mobiliari è a base reale, per semplificare le ricerche nei registri
mobiliari. Gli elementi di identificazione del bene (n. di matricola), permettono, a chiunque, di
accertare a chi il bene appartenga, quale sia la sua condizione giuridica e le sue precedenti vicende
traslative.

Capitolo cinquantaduesimo
LE PROVE

L’onere della prova


Chi fa valere in giudizio un diritto, cioè l'attore, deve provare i fatti che ne costituiscono il
fondamento. È l'onere della prova: non basta per il riconoscimento del diritto, limitarsi ad affermare
di averlo; occorre provarlo, cioè addurre i fatti che ne costituiscono la dimostrazione. Chi,
all'opposto, contrasta, la pretesa dell'attore, cioè il convenuto, deve a sua volta provare i fatti su cui
l'eccezione si fonda.

La prova documentale
Le prove documentali o scritte sono :
• Atti pubblico: è un documento redatto, con date formalità, da un pubblico ufficiale
nell'esercizio delle sue funzioni, generalmente da un notaio o dall'ufficiale di stato civile; gli
atti pubblici fanno piena prova fino a querela di falso;
• Scrittura privata: fa piena prova, contro chi l'ha sottoscritta, se questi non la disconosca con
querela di falso o se la sottoscrizione sia autenticata da un notaio. La sottoscrizione deve
essere autografa, cioè di pugno della parte il cui nome risulti dalla sottoscrizione, quale
prova certa della sua paternità. Quando si voglia addurre un documento contro persone
estranee alla sua redazione bisogna che esso abbia data certa. È valida anche la firma
digitale (bancomat), hanno valore anche i telegrammi, le riproduzioni meccaniche e i
documenti informatici.

La prova testimoniale
La prova dei fatti può raggiungersi anche con le dichiarazioni di persone che siano state presenti al
loro verificarsi e che ne abbiano avuto notizia (testimoni).

La confessione
E’ una dichiarazione dei presenti che una parte fa, in giudizio o fuori dal giudizio, della verità di
fatti a sé sfavorevoli e favorevoli alla controparte.

Il giuramento
E’ una confessione pronunciata in giudizio con la formula solenne (giuro di dire la verità): è fatto da
una delle parti su invito dell'altra o dal giudice.

Le presunzioni
Sono mezzi di prova indiretti e consistono nel dedurre da fatti noti, dei fatti ignoti (possono essere
legali o semplici, a seconda che siano dettate dalla legge o siano lasciate alla prudente valutazione
del giudice). Possono essere, inoltre, assolute, se non ammettono prova contraria, relative, se sono
valide sino a prova contraria.

Capitolo cinquantatreesimo
LA PRESCRIZIONE E LA DECADENZA

La prescrizione
La prescrizione è l’estinzione dei diritti a causa del loro mancato esercizio per un tempo prolungato,
determinato dalla legge (art. 2934 comma I). il termine ordinario di prescrizione, che vale per ogni
diritto per il quale non sia stato stabilito un diverso termine, maggiore o minore, dalla legge, è di

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dieci anni (art. 2936). Un termine maggiore, ventennale, è previsto per i diritti reali su cosa altrui,
un termine di prescrizione minore è previsto per i casi delle c.d. prescrizioni brevi.
La prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui poteva essere fatto valere il diritto (art.
2935); se a partire da quel giorno il titolare del diritto si è astenuto dall’esercizio del diritto, per
dieci anni o per un periodo maggiore o minore nei casi previsti dalla legge, il diritto si estingue.
La possibilità del diritto è possibilità legale, per cui gli ostacoli materiali che impediscono
l’esercizio del diritto sono di regola irrilevanti. Per i contratti sottoposti a termine o a condizione
sospensiva, ad esempio, il termine di prescrizione comincia a decorrere dal momento in cui si
verifica la condizione, o da quando viene raggiunto il termine, essendo questi i momenti da cui è
possibile l’esercizio del diritto. Non impedisce il decorso del termine di prescrizione invece,
l’ignoranza del titolare intorno all’esistenza del diritto, salvo che l’ignoranza non derivi da
occultamento doloso del debitore, dell’esistenza del diritto (art. 2941 n. 8). Eccezionalmente, poi, il
comma II dell’art. 1442 fa decorrere il termine di prescrizione dell’azione di annullamento per vizi
del consenso o per incapacità legale, dal giorno in cui è cessata la violenza o è stato scoperto
l’errore o il dolo o è cessata l’incapacità, ma la regola riacquista vigore in ogni altro caso (art. 1442
comma III).
Le ragioni che legittimano l’istituto della prescrizione risiedono nel fatto che il mancato esercizio di
un diritto determina e, con il passare del tempo, tende ad accentuare un contrasto tra la situazione di
diritto e la situazione di fatto. Per cui, dunque, un soggetto è legalmente titolare di un diritto, ma il
suo mancato esercizio, nella pratica, crea un contrasto economicamente controproducente, che
comporta il mancato utilizzo delle risorse. La prescrizione impedisce che questo contrasto si
protragga indefinitamente nel tempo, per cui dopo un certo periodo, previsto dalla legge, la
situazione di fatto prevale sulla situazione di diritto. L’interesse di un soggetto attivo alla ulteriore
protrazione di una situazione di diritto che non utilizza, non è più protetto, mentre appare
meritevole di tutela l’interesse del soggetto passivo, alla consolidazione definitiva della situazione
di fatto.
L’interesse generale che è alla base della prescrizione, comporta la nullità di tutti quei patti tendenti
a sottrarre i diritti dagli effetti prescrittivi (art. 2936). Ad essa si può rinunciare solo quando è
compita (art. 2937).
Non sono sottoposti a prescrizione i diritti indisponibili (art. 2934 comma II), come i diritti della
personalità, i diritti inerenti a rapporti di famiglia, questi restano in vigore anche se il loro titolare
non li abbia mai esercitati. Non è sottoposto a prescrizione, sebbene disponibile, il diritto di
proprietà, l’azione di rivendicazione infatti non si estingue, e la proprietà si estingue solo in seguito
al possesso prolungato altrui in buona fede, e al conseguente acquisto per usucapione.
Allo stesso modo non è soggetta a prescrizione l’azione di nullità del contratto, salvi però gli effetti
della trascrizione sanante, la prescrizione, decennale, dell’azione di ripetizione di indebito,
conseguente alla nullità del contratto, e l’acquisto mediante possesso delle cose consegnate in
esecuzione del contratto nullo (art 1422).
Imprescrittibile è l’azione nascente da contratto dissimulato, e l’azione di simulazione relativa,
benché imprescrittibile, diventa improponibile per mancanza di interesse ad agire.
Il decorso del termine di prescrizione è interrotto se:
a) Il titolare del diritto compie un atto formale di esercizio dello stesso (l’atto con cui si inizia
un giudizio, la costituzione in mora del debitore – art. 2943 commi I e IV)
b) Il soggetto passivo riconosce l’esistenza del diritto (art. 2944)
Conseguenza dell’atto interruttivo della prescrizione è che questa ricomincia, da principio a
decorrere (art. 2945).
Diversa dall’interruzione è la sospensione della prescrizione, per cui il decorso del termine di
prescrizione si arresta per una causa determinata, e ricomincia a decorrere, per la parte residua,
quando la causa di sospensione è cessata. La prescrizione è sospesa: fra i coniugi, se il debitore e
creditore si sposano la prescrizione riprende a decorrere con lo scioglimento del matrimonio; fra i
genitori esercenti la patria potestà e i figli minori, fra tutore e pupillo; fra società o enti e i loro
amministratori, finché sono in carica, per le azioni di responsabilità contro questi, e vi sono altri
casi (artt. 2941-2942), uno dei quali è stato introdotto dalla cassazione: fra lavoratore e datore di
lavoro, per il diritto alla retribuzione, finché dura il rapporto di lavoro.

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Alcuni diritti si prescrivono in un termine minore di dieci anni. In cinque anni si prescrivono:
a) L’azione di annullamento del contratto
b) Il diritto al risarcimento da fatto illecito
c) L’azione revocatoria
d) I diritti derivanti dal contratto di società
In due anni si prescrive il diritto al risarcimento da danno prodotto dalla circolazione dei veicoli. Si
prescrivono in un anno i diritti derivanti da contratti di mediazione, spedizione, trasporto,
assicurazione.
Se il fatto illecito è considerato, dalla legge un reato, si applica l’azione di risarcimento del danno
con prescrizione relativa a quella del reato (art. 2954).
Se riguardo ai diritti a prescrizione è intervenuta una sentenza passata in giudicato, questi si
prescrivono in dieci anni (art. 2953).
Vi sono crediti che, benché sottoposti a prescrizione decennale, si presumono estinti, salvo prova
contraria, se è trascorso un certo tempo da quando sono sorti. Il tempo è di sei mesi per il conto
dell’albergo e del ristorante (art. 2954). Il tempo è di un anno per la retribuzione dei lavoratori, per
il prezzo delle merci vendute dai commercianti ai consumatori, o dei medicinali venduti dai
farmacisti (art. 2955). È di tre anni per l’opera prestata dai liberi professionisti (art. 2956).
Si può vincere la presunzione di avvenuta estinzione o con la confessione del debitore, o con il
giuramento in giudizio, deferitogli in giudizio dal creditore, e non prestato dal debitore (art. 2959-
2960).
La prescrizione può essere rilevata solo da parte di chi ne abbia interesse, non dal giudice d’ufficio
(art. 2938).

La decadenza
Anche la decadenza è l’estinzione di un diritto per mancato esercizio per un dato tempo (art. 2964).
Differisce dalla prescrizione per il fatto che tende a limitare, in un tempo breve o brevissimo, lo
stato di incertezza delle situazioni giuridiche.
Sono sottoposti a termine di decadenza il diritto del compratore di denunciare, entro otto giorni, i
vizi della cosa vendutagli, il diritto del comproprietario dissenziente di impugnare, entro trenta
giorni, le delibere della maggioranza (art. 1109). Termini di decadenza sono poi tutti i termini
perentori previsti per il compimento degli atti processuali.
Per questa sua specifica funzione, la decadenza, non ammette ne sospensione ne interruzioni, a
meno che non siano espressamente previste. Essa può essere impedita solo dal compimento
dell’atto (art. 2966).
La decadenza ha natura eccezionale, per cui quando un diritto non è sottoposto a termine di
decadenza, il diritto dovrà ritenersi sottoposto a termine di prescrizione.
La decadenza può, a contrario della prescrizione che è prevista dalla legge, essere pattuita: il
contratto può sottoporre a termine di decadenza l’esercizio dei diritti da esso derivanti. È nullo il
contratto con termine di decadenza tale, da rendere eccessivamente difficile ad una delle parti,
l’esercizio del diritto (art. 2965).
La decadenza non può essere rilevata d’ufficio dal giudice (art. 2969).

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