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Sofocle - Tragedie - Trachinie e Antigone
Sofocle - Tragedie - Trachinie e Antigone
Antigone
• Antigone
• Ismene
• Coro di vecchi Tebani
• Creonte
• Guardia
• Emone
• Tiresia
• I messaggero
• Euridice
• II messaggero
• Armati di Creonte.
• Ragazzo che guida Tiresia cieco.
• Corteo funebre di Emone.
Ci apparteniamo, Ismene, occhi di sorella. Edipo, lascito d'umiliazioni... Ne sai tu una, e quale, che
non farà matura, Zeus, per la nostra coppia d'esistenze? No, no. Non esiste strazio, errore cieco
ovunque, non c'è piaga, barbarie, che non abbia visto, e veda, io, radici d'umiliazioni tue, e mie.
Oggi nuovamente. Parlano di ordini assoluti, fatti gridare per la gente a Tebe da lui, dal generale, in
queste ore. Che sarà? Hai sentito anche tu? Forse no, forse a te è oscura la manovra d'odio che
umilia chi è più tuo.
ISMENE
A me non è arrivata voce, Antigone, dei nostri, serena, o lacerante, da quel gran vuoto, due fratelli
morti nello stesso giorno, incrocio di ferite, e noi due sole. L'armata argiva è via, sulle strade, in
queste ore buie. Non so altro. Niente che m'accresca dentro festa, o pianto.
ANTIGONE
Avevo visto chiaro. E t'ho chiamata fuori casa, allo scoperto, per un fatto: devi capirmi tu, sola.
ISMENE
La fossa, non capisci? Fratelli, tutti e due... Creonte esalta quello, e ha profanato l'altro. Tutti sanno.
Con Eteocle è retto, ufficiale, applica la regola: l'affonda in terra, alto personaggio tra i morti
dell'abisso. L'altro, dolorosa morta carne, Polinice, fa gridare a Tebe ch'è cancellato, escluso:
nessuno l'affonderà sotterra. Senza ululi, lutto. Starà là, scoperto, inaridito, miniera di sapori per
artigli, pupille affascinate dalla preda cruda. Che ordini: e Creonte, il generale, li ha fatti gridare,
dicono, per te, per me. Per me, capisci? Adesso si dirige qui. Vuole far gridare in faccia, limpide, le
cose, a chi non ha capito. Guida lui l'azione, non è gioco. Basterà un impulso, un atto, e la massa
t'ammazzerà a sassate, qui dentro Tebe: supplizio di Stato. Sai cos'hai davanti: darai subito prova se
la tua tempra è d'alto sangue o, da radici luminose, marcia.
ISMENE
Povera sorella. La realtà, eccola. Potrei tagliare, cucire. Che porterei di nuovo , io?
ANTIGONE
Il fratello! Mio, almeno, e tuo: anche se tu non hai lo slancio. Non l'abbandono, non voglio questa
colpa.
ISMENE
Aaah! Sorella, ricordati. Nostro padre: che fine desolata. Disgusto, eroismo sbagliato. Autosvelò
errori suoi, e furono vive pupille sventrate, automaticamente. Autrice del colpo la sua mano. Non
basta. Lei, madre e sposa - ambigua storia - assassina la vita con pendulo collare. Terza cosa i due
fratelli. Due, e in quell'unico giorno - incarnavano morte - coppia disperata, annodarono fine fatale,
incrocio di colpi. Oggi siamo sole, due assolutamente sole. Tocca a te scrutare che sfacelo, che più
vile morte avremo se varcheremo la legge, decreto e forza del governo. Bisogna concentrarsi in
questo: siamo tempra di donne, non fatte per duelli contro l'uomo. Non basta. Siamo sotto gente
forte, piegate, docili a queste cose d'oggi, o ad altre, più brucianti. Io chiederò ai sepolti che
sappiano capire. Io oggi sono infranta. M'arrenderò a chi è salito in alto. Porsi squilibrate mete è
assurdo, totalmente.
ANTIGONE
Non voglio spingerti. Anzi: se scegliessi tu d'importi la mia meta, non sarebbe decisione grata, a
me, ormai. Scegli il tuo modo d'essere, seguilo. A lui, laggiù, darò una fossa. Dopo l'azione morirò.
Sarà esaltante. M'allungherò al suo fianco, sua. Al fianco d'uno mio. Devota fuorilegge. È fatale:
dovrò farmi accettare dai sepolti più tempo che da questa gente viva. Sì, là sotto sarà il mio fermo
sonno. Tu fa' come vuoi: ostinati, sdegna degne cose, degli dèi.
ISMENE
Io non le sdegno. Ma decidere violenza a Tebe, no, mi paralizza: l'ho nel sangue.
ANTIGONE
Tu fatti questo schermo. Io m'incammino. Ammucchierò una tomba sul fratello. Mi appartiene.
ISMENE
Ti prego, non parlare mai del gesto, con nessuno. Covalo in te, nel buio. Farò ugualmente io.
ANTIGONE
Nooh, urlalo! Mi sarai nemica molto, molto più se tacerai, se non vorrai gridare a Tebe la notizia
mia!
ISMENE
Se questa è la tua logica, tu mi hai già contro ostile, e ostilità sarà il rapporto tuo col morto. È
naturale. Dimenticami. Lascia che col mio delirio io viva la tremenda prova... Ah no, non cederò,
non fino al punto di morire senza luce.
ISMENE
Bene. Va', se così vuoi. Convinciti: è insensato andare, il tuo, ma retto modo d'appartenere a chi più
t'appartiene. Antigone si allontana. Ismene rientra nel palazzo. A passi cadenzati il Coro invade
l'orchestra.
CORO
str.
ant.
Ecco, là sulle case. Rotea
ghirlanda di spalti.
str.
ant.
Cancelliamo il ricordo.
scorti i passi.
Uomini, Tebe non traballa più! Dèi ce l'hanno martellata, con risacca dura. Poi, l'hanno rimessa in
rotta. Io ho eletto voi. Con dispacci v'ho riuniti, isolati da tutti: so bene il vostro culto vivo per i
governi in trono, via via, di Laio prima, poi quando Edipo pilotava Tebe. Poi sparve, ma voi sempre
saldi, con radicati sentimenti verso i loro eredi. Caddero anche i figli, morti annodate in quell'unico
giorno, offensori trafitti, delitto, cancro suicida. Ora io, io impugno governo e trono. Io, per legami
di famiglia ai morti. Bene. Non c'è strumento a decifrare un uomo, il suo profondo io, sentimenti,
ideali, se non l'illumina - pietra di confronto - fatica di comando e legge. Ho una teoria, io, da tanto,
sempre viva: chi regola sovrano la barra dello stato, e non si stringe alla politica più sana, anzi, per
indefinite ansie inchioda le sue labbra, è l'essere più abietto. Io poi non ho fiducia in chi, chiunque
sia, dà maggior peso ai suoi che alla sua stessa patria. Guardate me. Su Zeus, occhio cosmico,
perenne, giuro: non tacerei vedendo Perdizione che attacca i cittadini, invece di salvezza. E un
uomo, fosse sangue mio, ma pieno d'odio per lo Stato, non lo vorrei con me. Sono convinto! Stato
significa sicuro porto; se naviga diritto noi, gente imbarcata, sentiamo d'appartenerci tra di noi,
solidali. Con queste regole farò grande Tebe, io. Veniamo ad oggi. Ho fatto gridare ai cittadini un
ordine sui figli d'Edipo, che ben s'accoppia alle regole che ho detto. Eteocle s'è battuto per la sua
comunità, e cadde. Eroe, con la lancia. Va avvolto di terra. Gli toccano chiare bevande, che filtrano
giù, agli altissimi morti. L'altro - identico sangue, di Polinice, parlo - era reduce esule, ebbe slancio
d'incenerire alle radici terra madre, Potenze della stirpe. Si slanciò goloso su sangue uguale, volle la
sua gente serva. Per quest'uomo echeggia in Tebe la proibizione: non chiuderlo in fossa, niente ululi
a lutto, relitto senza fossa, carne offerta cruda a uccelli, e cani. Vista oscena. Ecco il mio principio:
nessun vantaggio di favore, mai, da me, dei pessimi sui retti cittadini. Chi darà tutto per questa città
nostra, caduto o vivo, senza distinzione, avrà da me sicuro premio.
CORO
Tu scegli il trattamento, figlio di Meneceo, per chi s'accanisce contro, e per chi si fa scudo a questa
nostra Tebe. Tu sei padrone della legge. Sta in te il futuro dei caduti e di noi, gente viva.
CREONTE
Capo, non ti dirò che ho fiato mozzo per la fretta, che arrivo mulinando aereo passo. Anzi! Quante
tappe d'ansia, di pensieri. E camminando, tante volte, perno su me stesso e via, in ritirata. Ah sì!
Avevo un'eco nel cervello e ripeteva, ripeteva: sei nei guai, perché marci a meta di castigo? Che
guaio, stai ancora fermo? Se Creonte saprà tutto da diversa bocca, come pensi di non pagarla cara?
Gorgo di pensieri. E il viaggio era vischioso, lento. È quando un breve tratto si fa lungo. Ma poi per
forza, la scelta vittoriosa è stata di venire qui, da te. Non varrà nulla il mio racconto. Non importa,
parlo. Io sono qui, m'attacco alla speranza di non soffrire altro: solo la mia quota.
CREONTE
Sento che devo darti chiarimenti, su di me, per cominciare. Quel gesto, io non l'ho deciso. Neanche
ho visto l'autore, io. Sarebbe poco giusto, se cadessi nei castighi.
CREONTE
Bella mossa. Bella trincea hai fatto intorno al tuo problema. Stai per confessare strane cose. Te lo
leggo.
GUARDIA
Dico, dico tutto. Il corpo, uno, adesso, gli ha fatto funerale e se n'è andato. Poca polvere arsa su quel
morto, velo di farina. E l'altro rituale, in regola.
CREONTE
Non so. Non c'era buca di badile, là, né sterro di piccone; solido, asciutto suolo, senza crepe, senza
rotaie di carro; chi ha lavorato, l'ha fatto senza indizi. Quando la scolta al primo turno ci segnala,
disperazione incredula ci invade, tutti quanti. Quello laggiù era velato. Non proprio tumulo. Fragile,
sparsa polvere: pareva tentativo di cancellare l'empietà. Non brillavano segni di bestia, o d'arrivo di
cani, a rovistare. E c'era tempesta di parole sconce, nel gruppo, tra noi, uomo che incolpava uomo, e
finiva a suon di pugni, quasi. Non c'era paciere. Eh sì, uno per uno, chiunque là in mezzo aveva
fatto il gesto, nessuno era lampante: non aver visto niente era la scusa. Accettavamo tutto: alzare
con le mani ferri incandescenti, andare nelle fiamme, giurare e spergiurare di non essere noi la
mente di quell'atto, né braccio di chi l'ha meditato, o l'ha concretamente fatto.
Non si faceva un passo avanti, su questa pista. Allora parla uno, parola che c'inchioda gli occhi a
terra dall'angoscia. E che c'era da rispondergli? Che mezzo, che diversa scelta, per toglierci dai
guai? Ecco il piano: bisognava riferire il gesto a te, senza misteri. Fu convincente. Ah sono
sfortunato, io! Si sorteggia, e capito io, per questo bel lavoro. E mi presento: mi dispiace, e a voi
non piacerà, lo sento. Non c'è simpatia per chi giunge con notizie storte.
CORO
Principe, chissà, fu forse per celeste impulso il gesto. È un'insistente idea che m'ispira.
CREONTE
Basta! Parli, e già quasi mi gonfi d'ira tesa. Vuoi che ti scopra vecchio, e in più senza cervello? Dici
ribelli assurdità, se dici che i Potenti spendono un pensiero per quel tale, là, cadavere. Com'è?
L'incensano, il benemerito, col fregio d'una fossa, uno venuto a incenerire santuari colonnati, ex-
voto, terra di quegli stessi dèi, e a sgretolare leggi? O sai di dèi capaci di esaltare il vizio? No, no.
Piuttosto quell'insistente brontolio coperto, in Tebe, d'individui che non mi sopportano. Scuotere di
teste. Colli non docili alle stanghe. Criminali! Io non piaccio loro! È lì la fonte, in questa gente: e il
lavoro l'hanno fatto gli altri, traviati da una paga. Ah, non c'è rigoglio, in terra, di sinistra usanza,
come il soldo.
Dirocca terre, spopola le case. È buon maestro, deforma rette menti, che restano aggrappate al vizio,
al crimine; squaderna all'uomo i modi del delitto, lo fa colto d'ogni profanante agire. Quei
mercenari, braccio materiale della colpa, qualcosa han ricavato: salderanno il conto, oggi, domani,
al giusto tempo. (Rivolgendosi alla Guardia) Attento, se religione vive salda, in me, di Zeus, cerca
di capirmi bene, io ti giuro: se non scovate, se non mettete in luce, qui, davanti agli occhi miei la
mano che scavò la fossa, per voi l'inferno sarà troppo poco, prima che appesi per i polsi denuncerete
l'atto squilibrato. Vi servirà a capire qual è la giusta vena del denaro, da cui cavarne, d'ora innanzi.
Così saprete che far denaro avidamente, da qualunque parte, non si deve. Ormai vedi tu stesso: la
conseguenza dei guadagni ladri è perdizione, non felicità.
GUARDIA
Rìdici, sul giudicare. Provate a non far luce, sulla mente che decise. Racconterete che basso
profittare genera soffrire.
(Al Corifeo)
La Guardia scompare.
CORO
str.
su folate d'autunno
l'altissima, Terra,
ant.
Svagata razza
str.
E di linguaggio, d'ariose
ha ideato.
ant.
Ah ostico fato
sorpresa in delirio.
GUARDIA
Eccola qui. Ha lavorato lei. Bel lavoro. Scavava, e noi l'abbiamo presa. Su, dov'è Creonte?
Capo, giurare no è un controsenso. Ci pensi sopra, e la tua idea di prima è già fasulla. Io lo dicevo
forte: ce ne correva, prima di ripresentarmi qua, dopo la grandine delle maledizioni tue! Ma quella
gioia strana, che non t'aspetti più, quella non ha confronto con altre contentezze, tanto è grande! E
quindi sono qua, falso e spergiuro, che m'importa? Porto la ragazza, guarda. Pescata che accudiva il
morto. Niente sorteggio questa volta. Tutta buona stella mia, solo mia. Bene, capo. È ora che la tieni
tu. Fa' come vuoi, processala, falla confessare. Io posso andare, fuori da questa brutta storia. Me lo
merito.
CREONTE
L'ho vista, almeno, che sotterrava quel tuo morto, quello del divieto. Parlo chiaro e schietto, o no?
CREONTE
L'operazione fu così. Tornammo indietro, col terrore delle tue minacce. Cancellammo l'ombra della
polvere sul morto, scoprimmo la carne che sudava. Una bellezza. C'eravamo sistemati su rialzi, in
cima, sottovento, fuori tiro dai miasmi che il morto ci buttava. Tutti svegli. E che scossoni,
bestemmie martellanti, se capitava di distrarsi sul lavoro. Durò del tempo, tutto questo: finché
nell'aria, a piombo, s'inchiodò lampo di rotondo sole. Bolliva la calura. Un attimo, e gorgo strappa
guizzi di polvere dal piano - spasimo del cielo - e copre l'orizzonte, sfilaccia tutta scarmigliata la
foresta in basso. L'arco celeste fu polvere. Chiudevamo gli occhi sotto la crisi sovrumana.
Trascorsero le ore, e tutto si quietò. Fu allora: si vede la ragazza. Stride, nota acre, d'uccello
lacerante quando vede il fondo del nido suo deserto, e i piccoli scomparsi. Quella uguale, come
vede morta nudità ululò, pianse, maledisse, male parole contro i delinquenti autori del delitto. Poi di
volo porta pugno di polvere bruciata, alza una brocca di metallo martellato, fa spiovere tre volte
l'aspersione e così consacra il morto. Noi, testimoni, scattiamo, l'intrappoliamo di volo, tutti
insieme. Lei è indifferente. E noi la scandagliamo, sul gesto del passato, e quello d'ora. Lei non
s'irrigidiva, non smentiva nulla. Nodo di sollievo e d'amarezza, per me almeno. Gran sollievo aver
schivato danno personale, ma è amaro far precipitare chi senti a te vicino. Ma tutto il resto viene
dopo: per me conta la mia incolumità. Questione di carattere.
CREONTE
Tu, ehi tu, che inchiodi gli occhi a terra: ammetti o neghi la responsabilità dei fatti?
ANTIGONE
(Alla Guardia)
Tu puoi sparire. Scegli il luogo, l'accusa non ti schiaccia più. Sei libero.
(Ad Antigone)
Tu, rispondi senza ghirigori, taglia corto: sapevi l'ordine gridato di non fare riti?
ANTIGONE
Ah sì. Quest'ordine non l'ha gridato Zeus, a me; né fu Diritto, che divide con gli dèi l'abisso,
ordinatore di norme come quelle, per il mondo. Ero convinta: gli ordini che tu gridi non hanno tanto
nerbo da far violare a chi ha morte in sé regole sovrumane, non mai scritte, senza cedimenti. Regole
non d'un'ora, non d'un giorno fa. Hanno vita misteriosamente eterna. Nessuno sa radice della loro
luce. E in nome d'esse non volevo colpe, io, nel tribunale degli dèi, intimidita da ragioni umane. Il
mio futuro è morte, lo sapevo, è naturale: anche se tu non proclamavi nulla. Se prima del mio
giorno morirò, è mio interesse, dico: uno che vive come me, tanto in basso, e soffre, non ha
interesse nella fine? E così tocca a me: fortuna, di quest'ora di morte, non dolore. Lasciassi senza
fossa, per obbligo, la salma, quel frutto di mia madre spento, quello era dolore: ma il mio presente
caso, ah no, non m'addolora. Logica idiota, penserai. Chissà. Forse è l'accusa d'idiozia idiota.
CORO
Spicca nella figlia tempra cruda, da crudo padre. L'umili, e non si curva.
CREONTE
Attento. Cervelli ferrigni, si spezzano più spesso. Come acciaio: il più possente, in tempera di
fuoco, arso, lo vedi che si scheggia, schianta. So che basta un po' di freno, e s'addomestica il
puledro ardente. Non deve esistere arroganza in chi sta sotto, servo. Lei era lucida, superba, quando
trasgrediva, derideva leggi proclamate chiare. La senti? Non le basta colpa, aggiunge un'arroganza
nuova: si gloria, della colpa, n'è radiosa. Ora basta. Non sarei più maschio, io, lei sarebbe maschio
se questa prepotenza passasse senza pena. Figlia di sorella, sia pure. Fosse pure legata al sangue
mio più dello stesso Zeus della casa, lei, e l'altra del suo sangue non scamperanno ai loro due
supplizi vili. Certo, incrimino anche l'altra, assente, d'aver pensato a questa fossa. Fatela venire. Ora
capisco: l'ho scorta nella sala, adesso. Lottava con se stessa, non si dominava. L'impulso criminoso,
di chi architetta storte trame al buio, si smaschera in anticipo. Accade sempre. Provo disgusto, io, di
chi, sorpreso in atto degradante insiste a esaltarlo e si compiace.
ANTIGONE
Perché perdi tempo? Tu hai le tue ragioni. Non le accetto. Non le accetterò mai. Così per te: le mie
ti disgustano. È nelle nostre essenze. Dimmi, da dove ricavavo luce di più illustre fama, se non con
rito della fossa a mio fratello? Anche da questa gente sarebbe voce piena di consenso, senza sigillo
di terrore in bocca. Ma il despota è baciato dai celesti, sta in lui decidere, parlare come crede.
CREONTE
Allora va' là sotto. Se devi unirti, unisciti coi tuoi, con quelli. Finché vivo, non mi comanderà una
donna.
viso rabbuia,
Tu, come rettile subdolo losco nelle stanze, m'hai riarso. Ah non capivo, sfamavo coppia maledetta
attentatrice del potere. Avanti, parla. Guardami: confessi connivenza in quella fossa, o giuri
estraneità?
ISMENE
Io ho voluto il gesto, se lei s'accorda sul mio remo. Partecipo al carico d'accusa.
ANTIGONE
Ma retta verità non te lo lascia fare. Tu non avesti slancio. E io non volli complici.
ISMENE
Ma ora tu sei disperata: e io non ho pudori a scegliere con te la rotta della pena.
ANTIGONE
La mano di chi agi è nota a Nulla, e a quelli dell'abisso. Io non accetto come mia una che vuole
appartenermi, ma a parole.
ISMENE
Non annullarmi, Antigone, col negarmi morte accanto a te, e rito di pietà sul morto.
ANTIGONE
Non puoi spartire la mia morte. Non t'impadronirai di cose che hai da te scostato. Morirò io.
Basterà.
ISMENE
Calmati. Tu sei sempre viva. Il mio io da tanto è nella morte, ed io conforto i morti.
CREONTE
Guardatele! Due donne nel delirio: una da oggi, l'altra dal suo esser viva.
ISMENE
No, principe, germoglio di pensiero non resiste, sfuma in chi ha perduto tutto.
CREONTE
Fissa, per te. Per me, perfino. S'è perso troppo tempo. Servi, portatele dentro. Devono essere
rinchiuse, non sciolte, Anche i più duri cercano la fuga, quando vedono la vita sul baratro del Nulla.
Antigone e Ismene vengono arrestate dagli armati di Creonte, e condotte nel palazzo.
CORO
str.
ant.
str.
né irriducibili stagioni
domini trasparenze
scintillanti d'Olimpo.
ant.
S'annoda nell'inconscio,
dio, e acceca.
(A Emone)
Ragazzo, che c'è: hai udito la sentenza sulla futura moglie e ti presenti tempestoso al padre? O noi -
comunque decidiamo - ti apparteniamo sempre?
EMONE
Padre, ti appartengo. Tu mi piloti, coi tuoi principi probi. Essi sono faro, per me, almeno. Lo sai.
Non hanno peso, le nozze, per me: non più di te, che m'illumini la strada.
CREONTE
Figlio, deve essere questo il pilastro interiore: prima ciò che pensa il padre. Tutto il resto dopo.
L'ambizione umana d'avere in casa figli sempre docili tende a che ti siano scudo ai colpi dei nemici,
e condividano, di te padre, la stima per chi senti tuo. Ma se uno sparge semenza di figli incapaci,
che fa? Dà vita a dolori, per sé, e a festa di risate per chi l'odia. Null'altro. Figlio, non perdere il
cervello, ora, dietro a sesso di donna. Devi sapere che dà brividi stringere una donna, se quella che
ti porti a letto, e in casa, è perfida. Può esistere ulcera peggiore di un legame sporco? Sputale in
faccia. Ci odia, quella. Lasciala cadere dentro al Nulla, che si mariti là. lo l'ho sorpresa che tradiva
in piena luce, lei sola in tutta Tebe: ora, non posso certo fare il fantoccio di me stesso.
L'ammazzerò. Può sfogarsi, con la nenia a Zeus del sangue uguale. Se covo creature sregolate in
casa mia, chissà fuori. Chi fra le quattro mura è vero uomo, anche nello Stato fa, limpidamente, il
suo dovere. E questo stampo d'uomo - col fondo di me stesso credo - sa essere luminoso capo, e sa
accettare i capi: esposto a raffiche di lancia ti si blocca a fianco, baluardo retto, degno. Ma c'è anche
l'arrogante pazzo: spezza leggi, medita attentati all'autorità. Escludo che strappi consensi da me. A
chi lo Stato innalza, docilità si deve: nelle minori, nelle diritte, e nelle opposte cose. Del non
governo non c'è peggiore male. Sbriciola stati, spopola case. Schianta, spazza via lance nello
scontro. Nei vittoriosi, fedeltà ai comandi salva molte vite. Chiudo: urge sostenere l'ordine vigente,
non arretrare davanti a donna, mai. Preferisco, se devo, crollare sotto pugno maschio, e non sentirmi
dire che m'arrendo a donne.
CORO
Padre, innestano gli dèi nell'uomo la ragione, sovrana dei valori. Io non avrei forza, non avrei parole
a dire che questo tuo parlare non è retto. Proviamo a non scartare lucide ragioni dentro idee diverse.
Tu non puoi scrutare - sarebbe sovrumano - minime parole, gesti, indefinito mormorare in Tebe. E
la tua faccia rende muto l'uomo della strada... Voci che non rallegrerebbero il tuo udito. Io sto dietro
le quinte e percepisco certe cose: le lacrime di Tebe per la giovane che sai, che sfuma in morte
degradante, lei, la più trasparente delle donne, per gesti che svettano di luce; lei non ammise che il
suo stesso sangue, che il fratello crollato nella pozza rossa si consumasse, scoperto, sotto cani
sanguinari, e volo di rapaci. Se non lei, chi merita fregio d'oro puro? Questa voce striscia nel
silenzio nero. Per me, padre, non c'è più nobile tesoro di quando successo ti sorride. Che cosa esalta
un figlio più che rigoglio luminoso di suo padre? E un padre, di suo figlio? Ma tu non chiuderti in
consuetudine esclusiva, nella certezza che quanto tu declami è retto, e solo quello. Uno, chiunque
sia, con l'illusione di essere la mente, capace d'espressioni, d'interiori mondi senza uguali, srotola,
tu, uno come quello, e sotto gli occhi avrai pagina bianca. Un uomo può sapere molto: ma certo non
s'infanga se approfondisce, studia cose nuove. O se rifiuta gli eccessi. Guarda rasente i corsi d'acqua
in piena, l'albero che si flette, accondiscende: sottrae, salvi, i rami. Quello che s'irrigidisce crolla, le
radici in aria. Ancora: uno tende i cavi, nerbo dello scafo, e non allenta mai. S'avvita, finisce
fluttuando col ponte sottosopra. Raffredda, allora, la tua febbre. Mostra che sai correggerti. Io sono
troppo giovane, ma se da me può nascere un'idea, dico forte che il più nobile valore è la capacità di
riflessione, sempre viva, innata. Altrimenti - ma la tendenza generale, in questo, è ben diversa -
bello è imparare da chi ragiona bene.
CORO
(A Emone)
Io, con i miei anni, scolaro di ragionevolezza da uno che ha i suoi pochi anni?
EMONE
CREONTE
(A un armato)
Portami il pomo di discordia. Deve morire adesso. Qui, davanti al fresco sposo. Che la veda bene.
EMONE
Non davanti a me morrà. Non pensarlo. Tu non m'avrai più negli occhi. Sparirò. Sta con i tuoi, se
accettano la tua ossessione.
Emone esce.
CORO
Principe, è scomparso. Rabbioso volo. Mente tanto giovane, trafitta, è una minaccia.
CREONTE
Sta a lui decidere. Coltivi l'arroganza assurda. Non stornerà fatale fine dalle due.
CORO
Condurla dove non c'è pista d'uomo, farla sparire viva in sasso cavo. Le darò pane, giusto per sacro
scampo: la peste non dovrà lambire Tebe. Là supplicherà Nulla, il solo dio della sua fede: chissà, le
toccherà di non morire. O almeno capirà, e sarà l'ora, che è stupida fatica il culto al mondo
dell'abisso.
str.
su guance delicate
spazi oltremare
E averti è ossessione.
ant.
perverti a degradarsi.
str.
supremi passi
m'abbaglia di sole.
Alla riva
Sposerò Acheronte.
CORO
ant.
leggenda d'uomini -
str.
Aaah, acque
d'incredibile fossa.
ant.
patimento vivo
in noi tutti
ep.
Nenie, singhiozzi? Ancora? Nessuno ci rinuncia, in faccia a morte, se servono parole. Portatela via.
Sparite! Affondatela nel nero di una fossa. Fate come ho detto! Lasciatela nel vuoto, nel silenzio.
Vorrà morire, vorrà la vita sepolta in quel suo covo, non importa: non ci contamina, la sorte della
donna. Solo, si spezzerà il legame con il mondo vivo.
ANTIGONE
Ah fossa, ah prima notte d'amore, casa nell'abisso, eterna cella! Scendo laggiù, dai miei. Quanti,
quanti perduti e Morte li ospita tra gli estinti. Resto io, l'ultima. Sprofondo, degradazione senza pari.
E la mia parte di vita non è colma! Cammino, e ho dentro una speranza, viva: che arriverò dal padre
per appartenergli sempre, e per essere tua, madre, e tua, fratello morto. Perché io, con le mie mani
ho rialzato i corpi, li ho lavati, ho sparso le bevande sulle fosse. Oggi, Polinice, ho seppellito il tuo
cadavere: ed ecco il frutto. Doveroso rito, direbbe la ragione; certo avessi avuto in me forza di
madre, e figli miei, o fosse sposo mio putrido di morte, non avrei tentato questa prova, sfidando il
potente. A che logica obbedisce, e a che diritto, quanto dico? Fosse stato lo sposo, a cadermi,
trovavo altri. E altri figli, da diverso uomo, se restavo senza figli. Ma padre e madre, uniti, posano
nel profondo Nulla, e rifiorire di fratelli non è dato. Ecco il diritto per cui t'ho scelto, t'ho nobilitato,
fratello caro: e Creonte lo giudica colpa, e scatto assurdo. Ora mi strappa a forza viva,
m'imprigiona: e non ho uomo, non ho festa di nozze, non ho futuro di donna, figli da avere, cullare.
Sono un relitto. Non ho nessuno. Parte atroce: viva, vado dentro pozzo morto. Quale norma di
Potenti ho scavalcato? Dovrei rivolgere lo sguardo a dio. E come? Sono disperata. Chiedere che uno
si batta per me? E chi? Sacro gesto sacrilegio m'ha addossato. Forse tutto questo ha un senso, tra gli
dèi. E allora, vivendo il mio dolore, decifrerò dove ho sbagliato. Se invece sbaglia quella gente,
vorrei per loro non peggiore pena del male che, barbaramente, decidono per me.
CORO
a soglia di morte.
CREONTE
dei padri
str.
figlia. Fu scrigno
di rivolo d'oro,
sovrumana.
Fortuna, armi,
ant.
str.
l'infernale squarcio
divelti da scarlatte
ant.
d'Eretteidi antichi
e in grotte lontanissime
Nobili di Tebe. A passi uniti siamo giunti qui, due con la vista d'uno. Per noi ciechi la strada sorge
da chi ci precede e regge.
CREONTE
Comprenderai, se ripercorri i segni della mia magia. Fu così. Posavo sul seggio secolare, vedetta di
voli. Là ero faro di tutti gli alati. Ecco, odo note enigmatiche d'uccelli, sinistri, ossessionati.
Balbettare stridulo, insensato. Li percepivo, stracci insanguinati in nodo d'unghie, e becchi. Sì,
decifravo l'esplosione d'ali. Rabbrividii, subito tastai le sacre cose accese sui bracieri in fiamme. Dal
sacrificio non scintillava santa fiamma. Marcia scoria di carne si sfaceva, tra i tizzoni. Sfrigolava,
schiumava. Vapore di fiele svaniva nel cielo. Affioravano cosce scheletrite, imperlate di grasso. Io
sapevo tutto dal giovane che vedi, pronostici smorti dal rito senza forma. Lui è il mio pilota. Io di
voi tutti. Appesta Tebe, questo. La causa è nella tua mentalità. Altari, sacri focolari soffocano sotto
cruda preda d'uccelli e cagne: carne del figlio d'Edipo, schiantato da nemico caso. E ora non c'è dio
che si apra alle preghiere nostre tra vapori sacri, e a vittima accesa. Non c'è schianto d'ali, a urlare
pronostico chiaro: sono becchi golosi impastati di sangue già morto. Figlio, concentrati su questo:
sbagliare è d'uomo. Non c'è eccezione, è naturale. Ma nello sbaglio non ha torto, non cade
nell'inferno chi, crollando, degradato, tenta una cura, non s'inchioda immoto. Pienezza di se stessi è
vanità. Ritirati, di fronte al morto. Non accanirti su chi non è più. Strano coraggio, raddoppiare
morte a quel caduto. Ho usato io il cervello, per te, per il tuo bene, dico. Fa felice la parola buona,
che t'illumina, se è carica di frutto.
CREONTE
Vecchio, sembrate tanti arcieri. Puntate gli archi dritti su quest'uomo. Oggi, neppure dal vostro
profetare so sbrogliarmi: razza di mercanti , mi liquidate, mi svendete, voi, da tanto. Fate soldi,
l'elettro di Sardi smerciate, se volete, l'oro d'India: non calerete quello in una fossa, neanche se le
aquile di Zeus fossero qui, ad artigliarlo, cruda preda lassù ai celesti seggi. Non ho fremiti, io. Non
mi sento mani sporche. Perciò non darò fossa a quello. So troppo bene che nessuno al mondo ha
forza di sporcare esseri divini. Tiresia, vecchio, crollano anche creature eccezionali: crollano nel
fango, se decorano di frasi viscide ragioni, per fascino di lucro.
TIRESIA
Bene. Allora concentrati: non vedrai culminare molte orbite volanti di sole e tu, esattamente tu,
avrai già corrisposto un morto, specchio d'altri morti. Uno sorto dal tuo seme: a saldo di viventi che
tu affondi nell'abisso morto, disumana fossa, carcere tombale d'una che respira. E tieni stretto un
corpo che tocca a dèi dell'aldilà: frodato, profanato, osceno. È campo che non tocca a te, né a dèi
d'alto firmamento: è arbitrio vile, il tuo. Sei in colpa: hai addosso occhi di pazienti giustizieri
funebri, vendette di Nulla e di Celesti. Finirai nella rete tua di male. Scruta il mio parlare: m'hanno
coperto di denaro? Attento: logorio di non vasto tempo, e in casa tua sarà lampo d'ululi, d'uomini e
donne. Ecco tempeste d'odio tra le genti, dove cagne, bestie, uccelli delle altezze danno estremi
onori a carne lacerata, e fetore sacrilego filtra fino al fondo delle case. Tu mi esasperi. Così come
arciere - ribollivo, dentro - t'ho fiondato i colpi d'arco, ferrei, dritti: squarci febbrili, e tu non
sguscerai.
(Alla guida)
Figlio, torniamo a casa: che sfoghi il suo bollore con chi ha meno anni. Deve capire, educare la
lingua alla calma, e il suo cervello a funzionare meglio.
Se n'è andato, principe. Spaventa, la magica voce. Da quando m'inghirlanda bianca chioma, da
bruna, non so parole sue fasulle per la patria.
CREONTE
Anch'io, so bene. Mi sento a pezzi, dentro. Flettersi è follia. Ma caso di follia è anche ribellarsi,
l'istintivo schianto contro Perdizione.
CORO
Va', fa riemergere la giovane da coperto covo. Dedica una fossa all'altro ai quattro venti.
CREONTE
Principe, è già tardi: a tese falcate, castighi di dèi incrociano menti perverse.
CREONTE
Eccomi, in cammino. Uomini, voi qui, e gli altri che non vedo, prendete le scuri, correte là dove
puntano gli occhi di tutti. Io no... io m'illudevo, e ora mi trasformo. Io ho legato. lo sarò là a slegare.
Ho un'ansia, dentro: se non sia più nobile sigillo per la vita proteggere i pilastri della legge.
str.
vibra! Tu custode
Eleusinia, o Bacco,
di rettile acre.
ant.
su strade di Tebe.
str.
tu sublimi Tebe,
ant.
raggianti di fiamma,
Entra un messaggero.
MESSAGGERO
Voi, che fate cerchio alla reggia di Cadmo e d'Anfione! Non c'è stabilità in esistenza d'uomo, da
dirne lode, o criticarla, mai! Caso equilibra, caso sbilancia: chi capita bene, chi capita storto.
Cadenza eterna. Non c'è presagio d'un domani già passato, fisso. Ecco Creonte. Era un idolo, ieri,
credo di poterlo dire. Liberatore della nostra Tebe in guerra, monarca splendidamente solo al suo
timone: e in più una primavera fertile di figli. Oggi tutto gli sfugge. Il giorno in cui uno saluta per
sempre la gioia, ha finito di vivere, almeno per me. È morto corpo, con un po' di fiato dentro.
Copriti d'oro in casa, se ti piace, vivi con stile principesco: ma se elimini il senso del godere, una
manciata di fumo, io, non la darei per tutto il resto. Non vale, senza gioia.
CORO
Eccola, infatti, Euridice, consorte di Creonte, Che sofferenza. Viene dalle sale. Ha sentito del figlio,
o per coincidenza è qui.
È apparsa Euridice.
EURIDICE
Tebani, quanti siete qui. Ho percepito le parole. Ero qui, sull'uscita. M'avviavo da Pallade dea, a
parlarle, a supplicarla. Sto liberando la sbarra dai battenti, schiudo, e nota d'intima disgrazia mi
trapassa. Arretro, mi sciolgo, crollo tra le mie donne. Paralisi d'angoscia. Fatemi riascoltare la
notizia, quale sia. So cos'è disgrazia. Ascolterò.
MESSAGGERO
Sovrana, mia sovrana. Io ero là. Ti dirò tutto, senza sorvolare. La piena verità. Addolcirti? In cose
in cui ben presto splenderà che mento? Non ha senso. Sincerità non devia, mai. Io ero del seguito,
con lo sposo tuo. Facevo strada, fino al punto dove la pianura sale. La salma stava ancora là,
Polinice, stracciato dai morsi. Che barbarie. Pregammo la dea delle strade, e Plutone, che
smorzassero l'ira, sereni. Lo tergemmo con acqua tersa, e accendemmo i resti fra le fronde colte
allora. Lo coprimmo con sue zolle antiche, e fu tumulo erto, fiero. Poi, subito, penetravamo nella
stanza della prima notte tra la ragazza e Nulla, lenzuola di sasso, sotterra. Da laggiù s'ode nota di
ululi irti, intorno alle pareti indecorose. Uno corre, fa' segno al principe. Creonte s'inerpica e più si
fa vicino, più l'avvolge incerto suono, di urlo doloroso. Ha un singhiozzo, si strappa funebre parola:
"Ah, che dura prova! Ho le visioni? Brancolo su rampa, la più sinistra delle passate strade? Voce di
figlio mi si struscia addosso? Uomini, fate presto. Avvicinatevi allo scavo, aprite spiraglio tra le
pietre, penetrate, all'imbocco e lì scrutate s'è d'Emone la voce che m'avvolge, o un dio mi froda".
Era comando d'un capo con il cuore in pezzi. Noi scrutavamo. E là, nel buio, dove la grotta cessa,
intravvedemmo lei. Pendeva per il collo. Gancio era cappio di veste sfilacciata. Lui s'inarcava,
sfinito, ad allacciarla. Mugolava su sfacelo di nozze d'agonia, sui crimini del padre, su ostico letto
d'amore. Come lo scorse, fu gemere amaro. Corre da lui, e in balbettio di pianto chiama e dice:
"Come hai potuto, che coraggio!
Che volevi fare? In che tristezze ti perdi? Figlio, vieni fuori, sono io, qui in ginocchio, che ti prego".
Il ragazzo lo guarda con occhio di bestia spaventata. Gli sputa in faccia. Non una parola. Cava l'elsa
falcata della spada. Colpo a vuoto, col padre che di scatto sfugge. Rabbia amara con se stesso,
povero figlio, e subito s'incurva, s'appoggia sulla lama che gli spacca il petto. È lucido. S'aggrappa
alla giovane donna. Cerchio di braccia che scivola, scivola. Ansima, e un rivolo esala, squillo di
gocciole rosse su candida guancia. È finita. Nodo di morte, uno sull'altra. Non ha avuto fortuna. La
sua festa di nozze è laggiù, nelle case dei morti. Ci ha fatto lezione: mente ottusa, nel mondo, è
male più vile.
Che ti fa pensare questo, la regina che rientra e non dice parola, di bene, di male?
MESSAGGERO
Anch'io non so capire. Un pensiero mi dà forza: ora che ha saputo l'agonia del figlio, non sceglierà
di disperarsi davanti a tutta Tebe, ma dentro, all'ombra delle sale, addosserà alle donne il compito
del lutto, stretto, nella casa. Sa l'equilibrio, non farà sciocchezze.
CORO
Dubito. Mutismo esasperato è un peso, per me, come alte grida vuote.
MESSAGGERO
Andiamo a vedere se tiene sepolti misteri nell'incendio del cuore, Incamminiamoci alla reggia. Parli
bene, tu. Sento cupo peso in questo silenzio che si ostina.
Appare Creonte, che regge il capo del morto Emone trasportato a braccia.
CREONTE
str.
Aaah
rigida, letale!
Uccisori, uccisi
aah!
cadesti dissolto
Aaaah!
O re, sei tale e quale chi più ne ha, più ne guadagna. Un bel peso di dolore l'hai già lì, sulle braccia.
E si vede. Ma va' dentro, in casa: troverai ben altro.
CREONTE
Moglie morta. Sì, lei vera madre di quel corpo morto. Brutta morte. Taglio ancora caldo, di ferro.
CREONTE
ant.
Aaah, messaggero
Aaah!
Fu filo di lama, là sotto l'altare, e abbandona le palpebre di nebbia. Quanto piangere, sul posto vuoto
di Megareo, il primo morto. Poi su questo. Poi la fine. T'ha augurata una morte disperata: a te,
assassino di figli.
CREONTE
str.
Aaah!
Eri bersaglio della morta. T'incriminava della doppia fine. Dell'uno, qui, e di quell'altro.
CREONTE
Un colpo sotto il seno, tutta sola. Fu quando udì la stridula passione di suo figlio.
CREONTE
str.
Comandi bene, se bene esiste nella pena. Più s'abbrevia, meglio è, l'assedio della pena.
CREONTE
ant.
Sorgi, sorgi
Ah, sorgi.
Domani, tutto questo. Ora c'è da pensare ai corpi esposti. Sono cose, quelle, che toccano a chi deve.
CREONTE
Non è più tempo di preghiere. Chi ha dentro morte non ha vie di fuga dalla cadenza dei suoi giorni
fissi.
CREONTE
ant.
Dovrebbero spazzarlo via, quest'uomo vuoto
• Deianira
• Nutrice
• Illo
• Coro di donne Trachinie
• Messaggero di Trachis
• Lica
• Eracle
• Vecchio di Eubea
• Personaggi muti
• Corteo di prigioniere, tra cui Iole.
• Portatori con la stuoia su cui giace Eracle.
Opera
Teoricamente - idea vecchia, balenata con l'uomo - non si può decifrare la vicenda d'un uomo,
prima che muoia, se bella, se amara.
Io no. Io non aspetto d'entrare nel Nulla. So già che la mia è contorta, di piombo. Io, allora, stavo
laggiù, a Pleurone, in casa, con mio padre Eneo, e subito provai lancinante ribrezzo per il mio
sposalizio. Unica, tra le ragazze d'Etolia! Pazzo di me era un fiume - attenta! - l'Acheloo. Quello
sollecitava mio padre, per me, e aveva tre facce. Eccolo, toro che si staglia davanti, mi cerca; poi
occhi freddi di rettile snello, striato; ora viso bovino, sopra stampo d'uomo e dalla barba buia
scrosciavano sgorghi, d'acqua di roccia. Che spasimante, e proprio a me! L'attesa era atroce, amara.
Ogni volta, pregavo la morte, subito, non volevo aspettare d'essere dentro, avvinta a quel letto.
Quanto tempo! Ma venne, finalmente, e mi fece felice, lui, l'eroico, il figlio di Zeus e di Alcmena.
Piomba sull'altro, in sfida guerriera, e riscatta me, la sua donna! Non so dire il variare dei colpi.
L'ignoro. Ci vorrebbe chi vide: uno del pubblico, freddo, impassibile. Lui sì narrerebbe. Io, ah io
stavo lì, rigida, nell'incubo inerte che a me, a me il mio essere bella tracciasse la strada a futuro
soffrire. Al termine Zeus delle Sfide risolse in bellezza. In bellezza... chissà. Sai, io sono il premio
da letto, per Eracle, Io sono sua, e da allora mi tengo dentro, viva paura, sempre nuova paura. Col
cuore in pezzi, per lui. E la notte trascina amarezza finché altra notte fa il vuoto. Cadenza ossessiva.
Sì, abbiamo fatto figli. Ma con loro lui è come il bracciante che ha preso un terreno lontano e ci
torna una volta ogni tanto, per la semina e poi per la messe. È un destino così: fa viaggiare il mio
uomo, qui a casa, poi via da casa, sempre sotto padrone. Ora è giunto alla vetta delle sue fatiche. E
proprio ora angoscia m'inchioda più forte. Sai, da quando ha spento la forza d'Ifito - sradicati, da
allora stiamo in una casa amica, qui a Trachis - nessuno sa dirmi il mio uomo dov'è.
Solo, quel suo essere via mi lacera dentro, come doglie taglienti. Io sento, so che ha addosso carico
amaro. Ormai non è più qualche giorno: dieci mesi, poi cinque ancora, e non un messaggio, niente.
Tutto fermo. E un caso grave, eccezionale forse: a leggere le righe che ha lasciato a me, andando
via. Quante volte ho supplicato dio che il gesto d'accettarle fosse senza danno!
NUTRICE
Deianira, signora! Troppe volte t'ho colta in singhiozzi, piena di pianto convulso per quest'ultimo
viaggio di Eracle. Ma oggi, se è dato far luce ai padroni con pareri da serva, ecco, anch'io parlo
chiaro. Solo questo: com'è, tu hai capitale di figli, e che figli, e non mandi nessuno a indagare sul
padre? Illo, per primo, lui, naturale, se gli sta a cuore il padre, farsi un'idea se tutto va bene. Eccolo,
è lui, s'affretta a casa, passi tempestivi. E se ti pare adatto il mio suggerimento ora disponi della sua
persona, e delle mie ragioni.
Appare Illo.
DEIANIRA
Figlio mio, ragazzo! La gente qualunque fa mosse felici, talvolta, parlando. Guarda lei. È una serva,
ma ha detto una nobile idea.
ILLO
Tuo padre peregrina da tanto, e tu non tenti di sapere dov'è: è una macchia, per te!
ILLO
La trascorsa stagione, tutto l'arco del tempo, ha fatto da servo a una donna di Lidia, si dice.
DEIANIRA
Parlano dell'Eubea, della città d'Eurito. Lui le fa guerra, o sta per farlo.
DEIANIRA
Figlio, sai tu che proprio del paese, d'Eubea, lui mi lasciò magici indizi, eloquenti?
ILLO
È sull'orlo: d'ultimare i suoi ultimi giorni o d'avere, se supera questa sua sfida, vicenda di vita felice,
per sempre, in futuro. È in bilico, immoto: e in questi momenti non corri, ragazzo, a dargli un
appoggio, conforto? Noi siamo vivi, se lui testa vivo: o insieme finiamo nel nulla.
ILLO
Madre, mi muovo. Sarei già laggiù, se avessi saputo l'accento delle magiche voci. Ma ormai era a
me familiare la cadenza fatale del padre: mi vietava l'angoscia immatura, l'ossessione dell'ansia. Ora
afferro: non voglio trascurare nulla, per capire intera la realtà dei fatti.
DEIANIRA
Parti, figlio. In ritardo, che importa: lieto fine - dopo ch'è noto - dà sempre buon frutto.
str.
Sole, t'interrogo
ant.
Logorante attesa
di nemica fine.
str.
vanno, rivanno.
ant.
Ti critico, in questo. Dirò cose devote,
ma opposte. Ti dico:
non inaridire
la speranza di bene.
ep.
Altri è meta
(Alla Corifea)
Te lo leggo in faccia: hai saputo che soffro e sei venuta. Io ho la rovina, dentro: ti auguro di non
sperimentarla mai, da vittima. Che resti mistero per te, come ora. Ah, gioventù fiorisce in giardini
ovattati, esclusivi: non c'è cielo rovente, né scroscio, né raffica d'aria che irrompe. Vivere è festa
leggera, aerea, sopra il dolore. Poi viene il momento. Cambi nome: da ragazza, donna. E in quella
notte abbracci il tuo carico d'ansie, tremore perenne per l'uomo, per i figli. Solo se scruta se stessa, i
suoi casi, un'altra può forse capire che peso maligno schiaccia me, Deianira. Io, io. Quante lacrime,
sulle mie ferite! Ma l'ultima è senza confronto. Voglio svelarla. Era già sulla soglia, il mio uomo,
Eracle, pronto per l'ultimo viaggio, e mi lascia qui in casa una pagina antica tracciata di note, che
non s'era mai rassegnato a svelarmi finora: pure ne aveva affrontate di sfide, fuori, lontano. Ma,
allora, aveva dentro la voglia di vincere, non di morire. Questa volta si sentiva la morte, pareva: e
mi disse che quota di beni dovevo far mia, come moglie; dei possessi di terra mi disse che parte
lasciava da dividere ai figli. Predisse scadenza fissa: tre mesi più un anno lontano da casa, a partire
da allora. Alla fine del tempo - fatalmente - doveva o morire, o con salto vincente sfuggire a quel
cerchio di tempo, e vivere giorni indolori, per sempre. C'era mano divina spiegava. Una meta fatale.
Lì si spegnevano le pene di Eracle. Scaturiva dal rovere annoso, a Dodona, la voce, dalle due
colombe. Voce, la cui realtà si concreta nel tempo che ora si affaccia.
Fatalmente matura! Mie donne, capite, nella pace del sonno leggero io trasalisco, brivido cieco, se
penso che ormai è deciso, starò senza l'uomo, l'eroe superiore. Sola!
CORO
Mitiga il tuo dire! Laggiù, vedo un uomo che viene. Porta ghirlanda, e voci di festa.
Irrompe un Messaggero.
MESSAGGERO
Sovrana, Deianira! Precedo i messaggeri, io, ti slego dal rovello. Sta' certa; vive, il frutto
d'Alcmena, trionfa, e dal duello offre scelto fiore di preda agli dei del paese.
DEIANIRA
Sarà subito qui, tra le mura, il marito! Lo idolatrano. È radioso. Sprigiona potenza e vittoria.
DEIANIRA
Nella radura assolata, sull'erba, un vostro uomo grida le cose: Lica, il banditore. Lui ho sentito, e di
volo mi precipito qui. Ho uno scopo: dirti la bella primizia, e così farmi dare qualcosa, da te,
acquistare per sempre favore.
DEIANIRA
Ha le mani legate, regina! L'attanaglia la gente del posto, una massa, che vuole sapere, che stringe.
Non riesce a passare. Febbre prende la folla, d'ascoltare tutto: nessuno si stacca, se non calma la
sete d'udire. Non è certo una festa, per lui: per loro è una festa! Comunque è là in mezzo. Ma tra
poco apparirà anche a te.
DEIANIRA
Zeus, che possiedi i pianori dell'Eta verdissimi, vergini, ci hai fatto attendere, ma ora ci doni
conforto.
Cantate, donne, voi che siete nel chiuso, e voi qui sulla via. È astro sorgente, la buona notizia, è
rigoglio per noi. E pareva illusione!
armato di dardi!
E s'intrecci, fanciulle,
avvolta di fuoco
Ecco mi scrolla
Evviva, viva!
Osserva, sovrana
Vedo, mie donne. È buona sentinella, il mio occhio, ed è scena di luce il corteo. All'araldo, presenza
eternamente attesa, proclamo «sta' bene!», se è bene - chissà! - che tu porti.
LICA
Festa è l'arrivo, festa la tua accoglienza, signora, corona della forte conquista. È fatale: a chi arride
successo spetta frutto di parole allegre!
DEIANIRA
Ah, Lica, quanto bene mi fai! Prima soddisfa il mio primo rovello: lo riavrò, salvo, Eracle?
LICA
Io, per me, l'ho lasciato in salute, salvo, una quercia. Sanissimo.
DEIANIRA
Dove Eubea s'incunea nel mare; là delimita santi rialzi, tributa primizie a Zeus Ceneo.
DEIANIRA
Promessa votiva, di quando cercava la presa, il colpo di lancia mortale al paese delle donne che vedi
sfilare.
DEIANIRA
Dio mio, che donne sono, figlie di chi? Disperate. Ma forse il soffrire mi deforma le cose.
LICA
Donne che l'eroe ha eletto preda esclusiva sua e degli dèi, quando ha spianato la cinta d'Eurito.
DEIANIRA
È questa la città per cui partì, da tanto tempo, assurdo abisso di giorni?
LICA
No, anzi quasi per tutto il tempo fu bloccato in Lidia - parole sue - non padrone di se stesso, ma
proprietà di un altro. Io riferisco, signora. Non volermi male per un fatto in cui splende l'opera di
Zeus. Fu venduto a Onfale, l'esotica. E là colmò un anno: sono parole sue. L'umiliazione l'azzannò
profondo: e lui giurò, solennemente, di degradare a servo chi l'accostò a quell'esperienza dura, lui
con i figli, e con la donna. Sfida dritta a bersaglio. Quando tornò immacolato riunì mercenari,
un'armata, e via addosso a Eurito, unico essere vivo - vociava - a spartire la responsabilità di quel
suo soffrire. Fu così. C'erano vecchi legami, d'amicizia ospitale. Eppure, quando Eracle venne da
lui, al suo focolare, lo martellò con parole pesanti, con scatto suicida, gridava che i dardi che aveva
sì, non lasciavano scampo, ma lui, Eracle, alla sfida dell'arco non valeva i suoi figli. E poi si
lasciava umiliare - aggiungeva - schiavo sotto padrone. Capitò anche che, pieno di vino, mangiando,
lo fece rotolare per strada. Covò rabbia per questo, l'eroe. Così, quando Ifito toccò la scarpata
tirinzia, frugando la pista delle sue puledre sciolte - l'occhio distratto, la testa da tutt'altra parte - lo
fece piombare dall'orlo del tozzo bastione: Per il delitto s'infuriò il sovrano, il cosmico padre, Zeus
dell'Olimpo, e lo bandì, come una merce vile. Non ammetteva questo, che avesse assassinato un
uomo - un uomo solo - a tradimento. Fosse stata ritorsione a viso aperto, Zeus comprendeva il
colpo, vibrato nel diritto. Non sono teneri i Potenti con l'eccesso.
E quella gente, che lingua perversa accese, oggi è folla che abita nel Nulla. La terra è serva. Queste
che vedi erano privilegiate, e si ritrovano questo rifiuto di vita. Sfilano verso di te. Il tuo uomo
ordinava così: io sono il suo braccio leale.
Lascia che quello arda vittime a Zeus, padre suo, espiatrici della vittoria, e presto verrà, sta'
tranquilla. Ed è la notizia più grata, dell'ampio messaggio felice che ho detto.
CORO
Sovrana: ora saldo, lucente motivo di gioia hai in te, per i casi attuali, e gli altri, sentiti narrare.
DEIANIRA
Dolcezza fonda, piena, sento in me. Sarei assurda, altrimenti, io che ho appena sentito il magico
momento dello sposo!
Zeus che Travolgi! Non con quel passo sul ceppo dei miei! Non voglio vederlo! E se vuoi, fa' che io
cada morta, prima.
È tanta la mia angoscia con queste donne qui, davanti agli occhi!
Ottima famiglia, no? Lica, di chi è la ragazza, di chi? Chi è la madre? E il padre che l'ha fatta viva?
Voglio saperlo. Ho un nodo alla gola tremendo se fisso lei, là in mezzo. È intelligente. L'unica, ad
aver capito.
LICA
Che vuoi che sappia, io? Proprio a me, certe domande? Creatura d'una gente non umile, direi, non
troppo, di quel luogo.
DEIANIRA
(A Iole)
Pronuncialo tu, il tuo nome! È gran peso per me non sapere chi sei.
LICA
Non smuoverà la lingua, non l'ha fatto per tutto il tempo. Mai una parola, un discorso, né lungo, né
breve. È in travaglio continuo. Soffre peso schiacciante. La faccia è piena di pianto. Caso atroce! È
così da quando ha lasciato la sua terra spazzata dal vento. Certo, è una disgrazia nera, per lei. Le dà
diritto a un po' di comprensione.
DEIANIRA
Non tormentatela. Entri sotto questo tetto nel modo più consolante. Non deve raddoppiare il suo
soffrire, già maligno, a causa mia. Ne ha già abbastanza, di dolore. In casa, ora, tutte, andiamo. Tu
Lica va' pure dove devi. Io mi occuperò del necessario, là nelle sale.
Interviene il Messaggero.
MESSAGGERO
Sta' qui fuori, prima, pochi istanti. Lasciali andare, quelli. Devi sapere che gente fai portare in casa,
e apprendere essenziali cose, che non ti sono state dette. Cose che conosco molto bene, io.
DEIANIRA
Ferma! Dammi retta. Il discorso precedente non l'hai sentito a vuoto, no? Neppure questo, credo.
DEIANIRA
Chiamiamo gli altri, indietro, qui sulla strada, o sei disposto a dire tutto a me, e alle mie donne?
MESSAGGERO
Quel Lica, non c'è parola chiara e retta in quanto ha raccontato qui. O è messaggero infido adesso, o
era disonesto prima.
DEIANIRA
Che vuoi dire? Svela con chiarezza tutto quanto hai in testa. Per ora, il tuo parlare è buio.
MESSAGGERO
L'ho sentito io, quel Lica - c'era folla d'altri testi - dire che per quella giovane proprio l'eroe ha
cancellato Eurito con la sua fortezza, Ecalia, e che un solo ben preciso dio, Eros, gli ha fatto la
malia, l'ha spinto a quel colpo di lancia. Ah, non furono i casi di Lidia, la rabbia del lavoro schiavo
sotto Onfale, né quel volo di morte di Ifito. Quello ha rimosso dal racconto Eros, e ha stravolto i
fatti. Siccome non piegava il padre a dargli quella figlia - la voleva amare, di nascosto - trovò un
insignificante appiglio e scatenò l'assalto alla città di lei, dove quel tale Eurito - lo disse Lica -
aveva poteri di monarca. E così ammazza il padre di lei, il re, e cancella il paese. Ora torna a queste
mura, come sai e fa scortare - con quante raccomandazioni! - lei, regina, figurati, una schiava! Non
illuderti! Sarebbe assurdo: sai, la passione di lei l'ha già riarso, dentro.
Allora ho deciso di venirti a denunciare tutto, sovrana. Cose che ho udito da quello, così, passando.
Cose che una folla grande, là nella piazza di Trachis, a cerchio, sentiva, né più, né meno di me: e
potrebbe senz'altro smentirlo, quel Lica.
Ah, che stanchezza. Non so più dove sono. Che problema, per me. A che insidia dolorosa,
sfuggente, nel cuore della casa ho aperto le mie braccia! Ho tutto contro. Ah sì, non ha un nome
chiaro: l'affermò chi faceva da scorta!
MESSAGGERO
È splendida, invece, per nome e per figura. Come famiglia, è figlia di Eurito! Si chiamava Iole,
prima. Quel Lica non la rivelava, la radice! Già, non aveva curiosato troppo!
CORO
Sparisse, la gente che non ha morale! Non tutta, chi si perfeziona nell'infamia subdola, oscena.
DEIANIRA
Raggiungi quell'uomo, fagli dire tutto. Parlerà più sincero, forse, se sei disposta a frugarlo col peso
dell'autorità.
DEIANIRA
Férmati, aspetta. Ecco là l'uomo. S'affaccia ora alla strada, senza mia chiamata, per interiore
impulso.
LICA
Signora, che devo dire quando sarò là, da Eracle? Da' tu disposizioni: vedi, sono già per strada.
DEIANIRA
Tutta una lenta eternità per arrivare qui, ed ora che balzo, che volo, non aspetti neppure che io
riapra il discorso con te!
LICA
A Deianira, la sovrana, figlia di Eneo, legittima sposa di Eracle. E se la vista non è abbaglio vuoto,
è la signora mia.
MESSAGGERO
Ah, la parola che volevo, che pretendevo dalla bocca tua: «la signora mia»! E lo confermi?
LICA
Allora di': che castigo ti parrebbe equo, se si scopre che tu, verso di lei, non sei quello che dovresti?
LICA
Quella. Tu ora la guardi con occhi assenti, ignari. Però prima predicavi che era Iole, nata da Eurito.
LICA
E davanti a un pubblico? Hai testi oculari, presenti al mio vivo racconto? Quali, da dove?
MESSAGGERO
Da qui, dalla città, una folla. Proprio nel cuore di Trachis, un mare di gente t'ha sentito rivelare
tutto.
LICA
Ma sì: pure voci, dicevo. Dire una voce, un'idea, sai, è un conto. Un discorso esatto esatto è un
altro.
MESSAGGERO
Idea? Ma che dici? Non predicavi, non spergiuravi che la scortavi ad Eracle in moglie, quella là?
LICA
Uno ch'era in piazza, e t'ha sentito dire d'uno stato intero fatto schiavo, per voglia disperata della
donna. La Lidia non fu fonte del massacro. Fu esplosione d'amore.
LICA
Sovrana, bisogna eliminarlo, questo vecchio. Delira: sprecarci fiato non ha senso.
DEIANIRA
Non nascondermi la verità, te lo chiedo su Zeus, che arroventa di lampi gli aerei boschi dell'Eta.
Dimmi la tua verità: non sono una donna gretta. So tutto dell'uomo. So che dentro, nel sangue, ha la
voglia d'amare cose sempre diverse. È così: incrociare i pugni con Eros, sfidarlo, è pura pazzia. Per
chiunque. Fa schiavi gli dei, sovranamente. Sicuro, anche me: e un'altra, fatta come me, no, non
dovrebbe? E perché? Se voglio rinfacciare all'uomo mio la debolezza, questo arrendersi al cancro,
sarei davvero pazza. E così a quell'altra implicata... in che? In nulla di scandaloso o di perverso: non
mi tocca. No, non può essere. Tu, piuttosto, se menti perché t'ha addestrato lui, t'addestri in un
sapere negativo. Se è studio tuo, invece, libero, spontaneo, proprio quando vuoi la perfezione, metti
a nudo la tua immoralità. Su, di' tutto, sii sincero. Non è una bella fine, per uno di valore, la stima
d'impostore. Non hai modo di coprire tutto: è assurdo. Troppi hanno sentito, e sono pronti a
riferirmi. Forse sei spaventato. Ma è un'ansia illogica. Solo la verità taciuta, quella è una tortura.
Sapere tutto, che male mi può fare? Quante altre donne ha fatte sue Eracle, uomo unico per tante?
Mai una parola dura, mai un insulto hanno patito da me, nessuna. E neanche quest'ultima, neanche
se si sfacesse tutta per la voglia d'averlo. Anzi, m'ha fatto ancora più pena, quando l'ho guardata
bene: l'essere bella la vita le ha stroncato. E alla città nativa ha dato morte, e schiavitù, lei,
innocente. Caso perverso! Acqua passata, ormai. A te io dico chiaro: riserva la bassezza ad altri. A
me la lealtà, senza eccezioni.
CORO
Sante parole. Sii docile, e non dovrai lamentarti di lei, in futuro. Conquisterai anche me,
riconoscente.
LICA
Ma sì! O mia sovrana. Tu sei una donna vera, viva: sai cos'è la vita, non sei fredda, indifferente. Ah,
l'ho capito, e voglio rivelarti il vero. Scoprirò tutto. È proprio come ha detto il vecchio. È passione
feroce per lei, improvvisa: una raffica dentro le vene, ad Eracle. E per lei Ecalia paterna è macerie,
solo macerie, disfatta dal ferro. Tutte cose - anche le attenuanti è giusto dirle - che non m'ha detto di
velare, non ha mai smentito. Sono stato io, sovrana. Temevo troppo di ferirti, dentro, con le mie
notizie. Ed ho sbagliato: se tu lo giudichi uno sbaglio. Ora possiedi la tua verità. Devi pensare al
vantaggio vostro, di voi due, dell'uomo tuo e di te: e cioè far buon viso alla donna, sforzarti di dare
concreta saldezza alle idee che hai detto su di lei. L'eroe, l'uomo che ha braccia capaci di tutto, è in
ginocchio, vittima inerme della voglia di lei.
DEIANIRA
Sono ancora padrona di me, sceglierò questa via. Non ci tireremo addosso un'altra maledetta
sofferenza, con un duello assurdo contro dio. Rientriamo nella sala. T'affiderò missione di parole
mie, non solo, ma di doni, a bilanciare esattamente i doni avuti. È obbligo, è fatale. E tu li porterai.
E ingiusto che tu viaggi a mani nude, dopo aver scortato qui tanto splendore.
str.
eterno!
Non tocco
casi di dei:
la beffa al Cronide
ad Ade sepolto nel nero,
ant.
toro quadrato,
impennarsi
di corna
ep.
gorgo
di corna di toro
prese asfissianti,
schianti
devastanti d'ariete
grumo ansimante.
Immobile - occhi stupendi, di fragile
donna-premio in attesa
Mie donne, Lica è ancora dentro, in casa. Parla sonoramente alle fanciulle schiave, pronto a partire.
Ne approfitto, e vengo sulla strada, qui da voi. Nessuno m'ha notata. Voglio dirvi l'abilità delle mie
mani, cos'ho inventato. E voglio che facciate eco al mio dolore. La giovane - quella? quella sa bene
come stringe un uomo - me la son messa in casa, tra le tante, come il padron di barca un carico
qualunque, zavorra che ora mi devasta, dentro. Oggi due donne siamo, sotto un lenzuolo solo, ad
aspettare l'uomo che ci copra. Bella ricompensa per tanti anni chiusa qui, tra quattro mura! Ed è
regalo suo, di Eracle: il fedele, il generoso, mi dicevo! Non so infiammarmi contro lui che troppo
spesso, ormai, ricade in queste crisi: ma che donna accetterebbe di ritrovarsi in casa quella, da pari a
pari, e mettere in comune suo marito? Là vedo una freschezza in pieno slancio, qui stremata: e di
queste preferisce il fiore, l'occhio maschile, per carpirlo. Non gli interessa il resto, cambia strada. E
il mio incubo. La forma sarà salva; Eracle coniuge di Deianira. Ma marito all'altra, la più fresca!
Eppure l'ho già detto, è assurdo che io, donna matura, esperta, perda la lucidità. Donne: so come
liberarmi, avere tregua. Vi dirò il modo.
M'era rimasto, sul fondo d'un vaso di metallo, il dono d'una belva primitiva. Quanti anni! Ero
ragazza, allora. L'ebbi da Nesso, dagli sbocchi rossi della sua agonia. E il petto era una macchia
d'ombra! Nesso trasportava gente sull'Evenol
fondo, vorticoso. Era il suo lavoro. Tutto a braccia, senza leva di remo, senza vela marina. Caricò
anche me sulle spalle quando - fresca sposa - seguii Eracle, come il padre volle. Ma a metà del
fiume Nesso mi fruga, le dita impazzite. Io urlai, Eracle s'inarcò, scattò, fiondò un dardo fulminante
che gli spaccò fischiando il petto, giù, fino ai polmoni.
Nell'agonia la bestia cominciò a parlare: «Figlia del venerando Eneo, ti darà frutto il guado, se mi
ascolti. A te, sì, che sei l'ultimo viaggio mio. Ecco: se con le dita cogli i grumi, blocco di sangue
della mia ferita, lì sulla punta che la biscia di Lerna temprò col fiele velenoso nero, ti farà da
magico richiamo per l'amore d'Eracle, e non ci sarà donna, agli occhi suoi, degna d'affetto più di
te.» Mi tornò in mente il sangue, donne. Lo tenevo in casa, sotto chiave, come un bene, il sangue
della bestia morea. Guardate: ho inumidito questa veste, bene attenta a quanto lui mi disse in
agonia. L'estrema soluzione. È fatta. Certo, è un maledetto rischio: ne fossi incapace, potessi non
saperne i modi! Detesto chi rischia: donne, specialmente. Chissà, con le magie d'amore, con i
fascini molli su Eracle forse trionfo su quell'altra. Tutto qui, il mio gesto insidioso, segreto. Purché
non sembri gesto da pazza, a voi. Altrimenti lo lascerò cadere.
CORO
Purché tu creda in questa scelta per noi, direi, non è progetto basso.
DEIANIRA
Per credere, sì, credo. Ma è come una speranza della mente. Non ho mai avuto in mano la concreta
prova.
CORO
Saprai, se decidi. È fatale. Non basta averla in mente, la certezza. Solo sperimentando la fai tua.
DEIANIRA
Verrà presto la certezza: eccolo, già sulla strada. (appare Lica, che esce dal palazzo) Rapido
ripartirà. Voglio coltre di segreto, da voi. Mi basta. Nella notte nera puoi tramare. Anche infamie:
non piombi nell'infamia.
LICA
Che c'è da fare? Dammi istruzioni, Deianira d'Eneo. Da un pezzo ce la prendiamo calma, troppo.
DEIANIRA
Vedi, Lica, a questo ho provveduto io, mentre tu, là nella sala parlavi alle ragazze. Laggiù, tu
porterai a mio marito questa veste avvolgente, omaggio da queste mani mie. Mentre la porgi,
raccomanda che nessuno, prima di lui, fasci con essa la sua carne viva, né la sfiori calda occhiata di
sole, né cerchio votivo, né strale di domestica fiamma, finché Eracle solo si stagli, statua raggiante,
nel chiaro del cielo, e l'inauguri, in onore agli dèi, nel giorno del santo macello di tori. Fu mio voto
solenne: l'avessi rivisto vivo, un giorno, a casa, o avessi udito rassicuranti voci, dovevo cingerlo con
questa veste, figura che brilla davanti agli dèi, prodigioso carnefice sacro, prodigioso drappeggio.
Avrai con te la sigla delle mie parole, siglata sul disco del sigillo: lui capirà, capirà subito.
Incamminati, svelto. Fa' tua la regola prima: tu sei uno mandato. Attieniti al compito tuo. Non
decidere oltre. Punta a questo, che grato favore s'assommi da lui e da me: da unico, doppio. Chiaro,
tangibile.
LICA
Nella professione, Ermes è mia guida: sono una sicurezza, io. Niente passi falsi, nel tuo caso. Non
temere. Recherò il tuo cofano, intatto. V'applicherò conferma esatta delle tue parole.
DEIANIRA
Sai anche, l'hai veduto bene, l'abbraccio alla straniera. Le ho teso io le braccia. Come fosse mia.
LICA
Aggiungere parole, e quali? Mi spaventi, se sveli la passione che ho dentro per lui, prima d'essere
certa che vive uguale passione per me, là dov'è lui.
str.
ant.
come di lira.
str.
Per noi era profugo
frantuma catena
di giorni angosciosi.
ant.
Donne, ho paura, tanta! Se fosse esagerata la conseguenza del mio gesto... ormai...
CORO
Non so più! Mi spezzo, dentro: risplenderà, forse, che io causo danno grave, io, protesa al bene.
CORO
Certo, certo. E dopo questo, non consiglierò a nessuno lo slancio in un'azione non perfettamente
chiara.
CORO
Che cosa, donne! Che fatto improvviso! Udrete illogico mistero, se lo narro a voi. Quel fiocco
sapete - lana buona, di pecora - con cui inumidii la veste lucente che deve fasciarlo, quello, donne, è
svanito! Inghiottito nel nulla. Non c'è responsabile in casa. È un cancro, fondo, suo, da dentro, lo
consuma. E smangia la lastra di sasso per terra. Devi sapere tutto, come s'è arrivati a questo:
spiegherò meglio, aggiungerò parole. Io delle regole che il centauro, preda selvaggia - agonia della
lama bruciante nel fianco - mi disse e ridisse nessuna ho abolito, ne ho fatto tesoro, iscrizione che
nulla dilava, su metallica pagina. Questo m'è stato detto, ed io l'ho fatto: il mio filtro dovevo tenerlo
coperto, via dal fuoco, dal tocco di strale rovente, in attesa d'applicarlo a qualcosa, come svelto
unguento... E ho dovuto trovare il coraggio di
farlo. Oggi - l'ora del gesto era giunta - ho intriso la veste nel buio, laggiù nella stanza, col pugno di
lana staccata a una bestia del gregge. L'ho ravvolto, il mio dono, nel fondo notturno d'una cassa
sprangata: l'avete veduto.
Ma tornando là dentro m'inchioda lo sguardo un fenomeno assurdo, che il nostro cervello non
domina. Quel pugno di lana, capite, quello del filtro, m'era successo, non so, di lasciarlo cadere nel
cerchio acceso di luce, nel fascio di sole: cuoceva a mano a mano, e dilegua, diafano, in niente,
pulviscolo sparso. Come forma pareva, sì, ecco, pensa alla sega che intacca e sbriciola il legno.
Finisce in quel modo, disfatto. Là sulla lastra, su cui s'era sparso, sfrigola coagulo di bolle: pare la
densa bevanda dell'uva azzurrina, se dai grappoli ebbri dilaga giù per la zolla. Così non ho sbocchi,
non so
soluzioni. Ah, sono stanca. Lo vedo, il mio gesto, il mio gesto è un incubo: ora capisco. Su che
base, a compenso di che la preda selvaggia, nella sua agonia mi offriva amicizia, a me alla donna
radice di morte? Assurdo. M'incantava, ma il suo piano era insinuare sfacelo nel suo cacciatore. Ora
penetro i fatti, m'illumino. Ma è finita, è inutile. Ah sì, io sola, sarò io a schiantarlo. Ostico destino!
A meno che - chissà - sia tutta illusione questa mia paura. Ma io so che lo strale divino diede
spasimo a uno divino, a Chirone. Se coglie di striscio, azzanna ogni essere vivo, senza eccezione. E
questo fiotto nero della sua ferita, sangue avvelenato, non stroncherà anche lui? Io credo di sì. E
poi, la decisione è presa: se crollerà il mio uomo, gli morirò vicina, io, nello stesso abisso. Troppo
peso, la vita, se ti dicono vile e tu hai dentro, nel sangue - coscienza gelosa, preziosa - il non essere
vile.
CORO
Rabbrividire per i gesti assurdi è fatale. Però non processiamo la speranza, prima della fine.
DEIANIRA
No, no. Non c'è speranza in poco nobili progetti, da regalarti un poco di fiducia.
CORO
Ma per i passi falsi non premeditati, rancore è meno aspro. Ed è un'attenuante che ti spetta.
DEIANIRA
Parole! Buone non per chi è compagno della colpa, per chi non ospita peso doloroso.
CORO
È il momento di tacere. Basta, non dire più. Se no parlerai al tuo ragazzo. Eccolo, entra, lui che s'era
messo sui passi di suo padre.
Entra Illo.
ILLO
Madre, una delle tre mi basterebbe: tu sparisci morta; o resti viva, madre non di me, d'un altro; o ti
converti, dentro, e ti fai altra - non so come - più morale.
DEIANIRA
Realtà matura, non ammette smentite: chi toglie esistenza a qualcosa già apparso nel sole?
DEIANIRA
Figlio, come puoi dirlo? Io sono colpevole, dici: e ripugna la colpa. Ma da chi, da che uomo l'hai
appreso?
ILLO
Io, io, gli occhi inchiodati sul male che schiacciava mio padre! Non è voce d'estranee labbra.
DEIANIRA
Forse è necessario che tu sappia. È necessario dirti tutto. Era per strada. Aveva disfatto il chiaro
paese d'Eurito. Era carico d'armi predate, di premi d'onore. Bene! C'è lingua di terra, d'Eubea, che
s'inarca nel mare. È capo Ceneo. Laggiù fonda santi rialzi a Zeus, sua radice, e un cerchio rituale,
d'alberi verdi. Da lontano lo scorsi là sotto, improvviso. Placai la mia ansia di lui. Era pronto a
sgozzare la folla di bestie, quando venne da casa l'araldo, quel Lica, e portava il tuo dono, la veste
di morte. Lui se l'avvolge, come tu comandasti, e con quella addosso macella dodici buoi, bestie
superbe, fiore dei beni razziati. Ammassava la calca del gregge, cento capi, mischia confusa.
All'inizio, col sorriso nel cuore, pregava: gli piaceva la veste bellissima. Ed era già condannato! Ma
poi quando dai santi macelli riarse la fiamma scarlatta, di sangue, dai tronchi sugosi, sudore
affiorava sul corpo, ed ecco, si salda alla carne - scultura vivente, piastra ossessiva su ogni lembo di
pelle - il tuo manto. Brivido scattante gli azzannò le ossa: poi lancinante veleno, diresti, di rettile
aspro, cruento. Ed ecco, ululando, la domanda a Lica disgraziato - innocente, lui, del tuo delitto -
per che piano occulto gli mandavi il manto. Povero Lica! Che ne sapeva? Disse che quella era
offerta puramente tua, così come gli era stata data. Lui l'ascoltò, e intanto fitta gonfia, squarciante
gli fasciò i polmoni: allora lo ghermisce al piede, dove piega,
alla caviglia e lo mulina contro un sasso, tra gli schiaffi d'acqua, alto sul mare. La testa gli esplode
macchia di materia chiara. Sfascio di cervello e sangue. Dalla folla, immoto blocco, raccapriccio
ululante, per quel delirio, e per l'altro lacerato. Nessuno osava farsi sotto al padre. Strisciava
convulso, e s'inarcava, trascinava roco urlio. C'era un riverbero cupo, dalle rupi intorno, dagli
altissimi scogli, dalle punte dell'isola. Poi la stanchezza, lo sfinimento delle troppe cadute, del
pianto rauco, delle bestemmie dure contro il letto, contro il ribelle, nemico abbraccio tuo - sì,
miserabile, tuo - e lo sposalizio con Eneo, e che fallimento nella vita - diceva - s'era tirato addosso.
Dall'assedio della caligine rovente strappò lo sguardo pazzo, mi colse perso nella folla, che
piangevo. Da lontano mi vide. Mi chiama: «Ragazzo, avvicínati. Non lasciarmi in questa malattia,
nemmeno se costa a te la vita, con questa vita mia che va.
Toglimi da qui. Assolutamente, devi spostarmi dove non c'è occhio vivo che mi scruti. Se è peso
troppo doloroso, fammi salpare da quest'isola, almeno. Ma fa' presto. Non voglio morirci, non qui!»
Era un ordine, fermo. Noi l'adagiammo sul fondo d'una barca, e traversammo a questa costa.
Rantolava convulso! Che pena! Tra poco lo vedrete:
vivo, o morto e ancora caldo. Flagrante crimine, madre, il tuo, premeditato, e ben riuscito, contro il
padre. Castigo doloroso, e Vendetta, ti faranno scontare questo gesto, spero: se ha santa base, questa
mia speranza. Sì, santa base: base che tu m'hai fondato, assassinando il fiore degli eroi viventi. Un
altro non lo vedrai più, così.
Perché questi tuoi passi muti? Ma non capisci? È silenziosa confessione a chi t'attacca.
ILLO
Lasciate che scivoli via. Le auguro vento nelle vele, se esce dallo sguardo mio, lontana. Lei
dovrebbe far vivere in sé quel gran nome di madre?
Lei che gesto di madre non sa cosa sia? Assurdo! Via, via, che sparisca, addio! Le auguro
d'assaggiare lei il piacere che procura a lui, al padre mio.
str.
umiliato, provato?
ant.
- parlano morte -
di uno nero, irsuto.
str.
Aggiungi il piano
semprevivi di pianto.
ant.
la giovane amata
dall'aerea Ecalia.
O sono una povera pazza, o odo, su dalle stanze, improvviso, un volo di pianto?
II
Che sarà? Grido rimbalza. Voce non nebulosa! Di lugubre sconforto! Ora c'è un'aria strana, là
dentro.
Il Coro si riunisce.
CORO
Guarda la Nutrice! Non pare lei, la faccia devastata. Viene da noi. Dirà notizie, forse.
NUTRICE
(Apparendo)
Donne, quel dono fatto avere a Eracle, di che mali non lievi fu radice!
CORO
Non c'è più Deianira! S'è messa in viaggio, l'ultimo viaggio, con immoto passo.
CORO
Gesto disperato.
CORO
Come ideò
Squarcio d'acciaio
lugubre.
CORO
Chiara verità.
CORO
Dal ventre, dal ventre
Enorme. E più fremeresti di pianto, se ti fosse esplosa davanti, negli occhi, la scena del gesto.
CORO
Sovrumana forza. Anche tu lo dirai. Ascoltami. Fu dopo che ritornò là dentro, sola, e vide il figlio,
al coperto, che lavorava a una stuoia avvolgente, per ritornare, ripresentarsi al padre. Allora entrò
nell'ombra, via da estranei occhi.
S'attaccò agli altari, gemeva sordamente, sentiva intorno a lei il deserto. Sfiorava le sue care cose, il
suo passato quotidiano, e singhiozzava. Che amarezza! Girava per le stanze, avanti e indietro. Altre
lacrime, se si profilava uno dei suoi, di casa: lei lo fissava addolorata, rievocava la sua vicenda, la
sua famiglia, quel figlio come morto, ormai. Poi, all'improvviso, smise. Rapida, decisa, vedo che
entra in camera da letto. Io la seguivo con lo sguardo, al buio, segreta... E vedo che la donna getta,
spiana sul giaciglio d'Eracle un gran manto. Poi vi sale, svelta. Rigida, al centro delle coltri, scoppia
in pianto, rivoli brucianti, e rotte frasi: «Letto, stanza dell'amore! È l'ultimo saluto. Voi non
m'avvolgerete più nei vostri abbracci. Non sono più una sposa, io!» Non una parola, poi. Con un
gesto teso apre la veste, dove l'allacciava ai seni spilla martellata d'oro. Scopri completamente il
fianco, di lato, e il braccio. Con tutto il fiato corro verso il figlio, l'avverto che medita qualcosa.
Vado, torniamo, un lampo: e lei è là, davanti ai nostri occhi, spezzata da spada tagliente, nel fianco,
giù fino al ventre. Il figlio urlò. Senti il peso d'averla spinta lui, con la sua rabbia, all'atto: gli era
stato detto dopo, dalla gente in casa, che quello fu innocente gesto, veniva dal centauro. Era
distrutto, il ragazzo Singhiozzava, non sapeva placarsi. L'avvolgeva, nel pianto, stremato, col viso
sul viso, l'allacciava alla vita, disteso, ripeteva con voce incrinata il suo essere cieco: uccisa, l'aveva,
con l'accusa cattiva. Poi nuovo strazio: la vita totalmente vuota, con la morte del padre, e ora altra
morte, di lei.
Questa è la casa, oggi. C'è da dire: far calcolo di due o peggio di più giorni, è proprio cecità. No,
non c'è giorno dopo, se prima non hai vissuto indenne l'attuale.
str.
ant.
str.
Ammutolisci, a vederlo.
ant.
o stremato, assopito?
Mi strazia, padre
a folate, ragazzo.
ILLO
Zeus!
la testa e lo sguardo
dal sonno?
ILLO
str.
Aaah, aaah
str.
Ah faticai negli abissi, nei boschi per farvi civile la terra. Che peso mortale! Ed ora che crisi
m'assale non si trova chi offra una spada, o sollievo di rogo?
ant.
Aah!
la testa
str.
Aaah!
ant.
la crisi bestiale
ant.
Donne, mi folgora, mi gela sentire tanto male, del sovrano. Che uomo, e che raffica, su lui!
ERACLE
Quanti sforzi, duri, roventi. Maligni perfino a ridirli: tutto di muscoli, di spalle. Ma né la donna di
Zeus, né Euristeo schifoso seppero schiacciarmi come la figlia d'Eneo, doppia faccia, con la sua
gabbia intrecciata di Delitto, a inchiodarmi le spalle, a finirmi. Piastra dura sui fianchi, mi morde i
muscoli all'osso, s'incunea nel cavo dei bronchi.
Aspira. S'è bevuta, sento, il sangue in fiore: la carne si devasta, sfatta da tenaglie misteriose,
assurde. No, no: non ci fu lama mai in duello, né i Giganti armati sorti dalle zolle, né ferocia
disumana, né terra greca, né straniera - e ne ho corsa di terra, per fare pulizia - capaci di ridurmi in
questo stato. No: una dorma! Tempra di donna, non d'eroe! E sola, e senza lama: e m'ha distrutto!
Ragazzo, figlio, sii figlio d'Eracle autentico: non dare troppo peso al nome di quell'altra, di tua
madre. Afferrala tu, con le tue mani, da casa, e dalla a me, qui in pugno. Voglio vedere chiaramente
se ti trafigge più questo sfacelo mio, o il suo, della persona sua distrutta, calpestata, come merita.
Figlio, trovati la forza, dentro. Deve farti pena. L'ho fatta a tanti, io, col mio balbettio lagrimoso:
una femmina, sono! Nessuno può dire d'avermi visto fare questo: io, l'eroe, docile sempre al mio
patire, senza stilla di pianto. Ma ora è troppo, ed eccomi una donna, che miseria! Fatti sotto. Sta'
ritto qui, da tuo padre. Scruta la mia passione, vicenda che prostra. Via le coperte, via, via! Qua,
qua, puntate gli occhi, tutti, su questa carne in agonia! Fermateli sul mio disastro, e piangetemi,
tutti! Aaaah! Sto male! Brivido febbrile, maledetto, mi fruga dentro, a fondo. Vuole duello
ininterrotto, lo sento, il male che mi mangia vivo. O potente Nulla, apriti! Spaccami, strale di Zeus!
Maestoso dio, padre, saetta, scatena la folgore armata! Ecco, riprende: a morsi, a bocconi, sboccia, è
in
volo. O mani, mani mie! Spalle, petto, muscoli miei, siete saldi, siete ancora voi che schiacciaste
prepotenti il padrone di Nemea, l'incubo dei mandriani, il leone, l'ostica bestia ribelle a chiunque; e
la biscia di Lerna; e la banda incivile al galoppo, doppi, bestiali, barbaro squilibrio, forza che
schianta; la preda selvaggia erimanzia; poi il cane a tre teste, giù nell'abisso, nel Nulla, mostro
assurdo, troppo superiore, creatura d'Echidna d'inferno; e il rettile all'orizzonte del mondo,
sentinella delle mele d'oro. Quanti, infiniti sapori di atletiche prove! Nessuno ha umiliato il mio
braccio. Ora ho le ossa in frantumi. Cade a pezzi la carne. Rudere pietoso. Tutta colpa di Castigo
pazzo! Io, capite: del mio nome è radice una madre che svetta su tutte, e di me si diceva: «È seme di
Zeus, del Celeste!»
Ora ascoltate, capitemi bene. Io sono annientato, inchiodato: ma anche così l'avrò in pugno, l'autrice
di tutto. S'avvicini, mi basta: le sarà di lezione su come - lo dirà anche al resto del mondo - ho
sempre colpito il nemico, da vivo, o già dentro la morte.
CORO
Grecia, Grecia, che colpo! Che funebre pianto, lo vedo, verserai se ti lasci sfumare il campione.
ILLO
M'hai offerto, padre, di ribattere. Ora soffoca tu la voce, e ascoltami. Dimentica la crisi. Voglio
chiederti cose che ottenere è equo. Offri te stesso a me, non come adesso, sbranato, dentro, dalla
rabbia tesa. O non discernerai in cosa ti lasci trasportare a gioie, a strazi che non hanno base.
ERACLE
Di' l'indispensabile. Poi fermati. Sto male, Non decifro questa tua tavolozza di ragioni.
ILLO
E per mia madre. Sono qui per spiegarti com'è messa, e in quali sbagli, lei, non ebbe colpa.
ERACLE
Maledetto! Ancora, ancora fai quel nome, me lo fai sentire, della madre assassina del padre?
ILLO
S'illudeva d'irretirti con magia d'amore. Passo falso: quando vide ch'era vero, vivo, quel tuo
sposalizio.
ERACLE
Nesso, il centauro, tanto tempo fa, l'illuse che con questo incanto scatenava in te delirio di passione.
ERACLE
Aaah, fatalità nemica! Me ne sto andando disperato. Ho addosso la morte. Sole buio, per me. So la
disgrazia che ora mi avvolge. Parti, creatura: tuo padre non c'è più. Raccogli il mio ceppo, quelli del
mio sangue, e chiama Alcmena affranta, l'amata di Zeus. Inutile amore! Dovete sentire, tutti voi - e
poi sarà la fine - suono solenne delle profezie che so.
ILLO
Ah non è qui tua madre. La sua casa, la vita sua è a Tirinto, là sulla costa. Dei figli, qualcuno lo ha
raccolto lei, lo cresce. Altri, lo saprai, vivono a Tebe. Noi siamo qui, docili ad ascoltarti, ad eseguire
tutto.
ERACLE
Odi la tua missione. Tu sei a uno sbocco: qui risalterà se hai tempra d'uomo, da chiamarti figlio
mio. Era illuminazione antica, da mio padre, ch'io non sarei mai caduto sotto un vivente: doveva
essere un ospite del Nulla, già disfatto. Ecco, la bestia, il centauro avvera la luce presaga e da morto
mi ha tolto la vita. Rivelerò fresche profezie, uguali, combacianti con quelle del passato, voci a
conferma. Le ho annotate io quando entrai nella foresta magica dei Selli, gente montanara, che per
letto ha la terra. Fonte era la quercia millenaria di mio padre Zeus: in quest'epoca che corre - mi
scandiva - e che trapassa, sarebbe maturato il mio sollievo dall'assedio ossessivo, duro, delle mie
fatiche. Esito felice, m'illudevo. Era una cosa sola, invece: la mia morte. Non pesano fatiche su chi
è morto. Ora s'illumina tutto, e coincide: devi farmi da scudo nella mia battaglia. Non essere lento,
che s'inferocisca la mia lingua. Flettiti, collabora. Ripercorri il sublime tra i doveri: essere docili col
padre.
ILLO
Bene. Là devi issarmi - morto peso - tu con le tue mani. Scegli qualche uomo dèi tuoi. Taglia rami
su rami di quercia profondamente radicata al suolo e mischia schegge di robusto ulivo matto.
Gettaci il mio corpo, impugna guizzo di fiamma resinosa, e incendia. Gemito lacrimoso non si
mischi. Agisci senza brividi, senza stilla di pianto, se sei figlio d'eroe. Altrimenti - incubo cupo - ti
perseguiterò tenace, anche da giù, dal buio.
ILLO
Azioni necessarie. Se no, fatti chiamare figlio d'altri, d'uno qualunque, non mio, d'Eracle!
ILLO
Padre ti ripeto, reclami l'impossibile, farmi carnefice, macchiarmi del tuo sangue.
ERACLE
Non dire così, non voglio. Guaritore, piuttosto, medico unico al male.
ILLO
Basta non sia la mano mia a dare fuoco. Farò il resto. Non ti darà tormento la mia parte.
ERACLE
Può bastarmi, anche così. Tributami una gioia, un'inezia aggiunta ai compiti maggiori.
ILLO
Hai capito. Ti do quest'incarico, creatura. Tra poco morirò: allora, se contano per te la devozione, la
memoria delle promesse al padre, falla tua moglie, non tradirmi in questo. Lei s'è adagiata tra queste
braccia mie. Non deve un altro uomo farla sua: solo tu. Devi essere tu a possederla, figlio. Lasciati
convincere. M'hai obbedito in gesti grandi, se ti ribelli in altri, lievi, macchi la gratitudine che
meriti.
ILLO
Non è bello scaldarsi con chi pena: ma reggere a una logica così è duro, è duro.
ERACLE
Chi lo farebbe? Lei è la radice sola, se mia madre è morta, se tu sei come sei: chi farebbe, dimmi,
questa scelta? Solo un pazzo, per un delirio d'incubo. Padre, meglio seguirti nella morte che vivere
la vita a fianco a fianco con chi odio.
ERACLE
Come si vede! Questo ragazzo non mi tributerà il dovuto. Neppure se sto qui morendo. Ma da lassù
Castigo ti si attaccherà, se tradisci questo mio comando.
ILLO
Eseguirò l'azione. Non rifiuterò. Ma a dio dirò chiaro che sei tu la fonte. Non voglio che spicchi una
mia colpa, padre, se ti cedo.
ERACLE
Ti fa onore questa soluzione. Coronala col gesto che mi fa felice, adagiami sul rogo. Fa' presto,
prima che mi piombi addosso il brivido, l'aculeo febbrile. Anche voi, svelti, alzatemi. Questa è la
fine del dolore. L'ultima soglia di un eroe.
ILLO
Inchiodami le labbra,
E notare l'indifferenza
su questi tormenti.