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Oliver Sacks, La lingua dei segni, un codice di pari dignità rispetto al parlato

Oliver Sacks (1933-vivente), neurologo, è stato docente di neurologia a New York, dove ha
praticato anche il lavoro clinico. È autore di numerosi libri di fama internazionale, fra cui: Un
antropologo su Marte, L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello, Risvegli.
Vedere voci, uno dei saggi più penetranti sulla cultura dei sordi, presenta un’analisi
approfondita dell’educazione dei non udenti e del loro strumento comunicativo elettivo - la
Lingua dei segni - sotto diverse angolature: storica, linguistica, neurologica, sociologica e
pedagogica. Nelle pagine selezionate, Sacks spiega che questo codice di comunicazione è un
autentico linguaggio innovativo, con proprie regole lessicali, grammaticali, sintattiche e
semantiche, che ricorre ad un originale uso dello spazio.

Nella lingua dei segni il volto assume funzioni linguistiche speciali…particolari


espressioni facciali, o meglio ‘comportamenti facciali’ possono servire a denotare una
determinata costruzione sintattica…, oppure possono assumere la funzione di avverbi o di
quantificatori. Infine possono intervenire anche altre parti del corpo. Uno qualsiasi di questi
atteggiamenti o tutti insieme…possono convergere sui segni-radice, fondersi con essi,
modificarli, condensando una quantità enorme di informazioni nei segni risultanti.
Proprio la compressione di queste unità segniche e il fatto che le loro modificazioni
sono sempre spaziali rendono la Lingua dei segni, a livello manifesto, visibile,
completamente diversa da qualsiasi lingua vocale; e questo in parte impediva di riconoscerla
come una lingua vera e propria. E’ esattamente questo, assieme all’esistenza di una sintassi e
di una grammatica spaziali, che fa della lingua dei segni un autentico linguaggio innovativo,
posto al di fuori della corrente evolutiva di tutte le lingue parlate, un’alternativa evolutiva
unica nel suo genere. Un’alternativa sorprendente se si considera che abbiamo impiegato da
mezzo milione a due milioni di anni a specializzarci per il linguaggio. Non facciamo molta
fatica a capire che tutti possediamo potenzialmente il linguaggio, la cosa stupefacente è che
negli esseri umani sia altrettanto grande la potenzialità di una modalità visiva di linguaggio:
non riusciremmo nemmeno a immaginarlo se il linguaggio visivo non fosse una realtà. Si
potrebbe osservare che gesticolare e fare dei segni – seppure segni e gesti privi di una
struttura linguistica complessa – sono comportamenti che risalgono al nostro remoto passato
preumano: l’ultimo arrivato nell’evoluzione allora sarebbe proprio il linguaggio vocale, cui
arrise un grande successo perché liberava le mani per altri compiti, non legati alla
comunicazione. Si può supporre che vi siano state due linee evolutive parallele,
rispettivamente per la forma di linguaggio vocale e per quella a base di segni; è quel che
suggerirebbero i lavori di alcuni antropologi che indicano la coesistenza di una lingua parlata
e di una lingua segnata in alcune tribù primitive. Così i sordi e la loro lingua ci mostrano
non solo la plasticità del sistema nervoso ma anche le sue potenzialità latenti.
Assolutamente unico è nella lingua dei segni l’uso linguistico dello spazio: qui sta la
differenza rispetto a tutte le altre lingue e a tutte le altre attività mentali. Questo spazio
linguistico risulta inafferrabilmente complesso a un occhio ‘normale’ che non è in grado di
vedere, tanto meno di capire l’intrico delle sue configurazioni spaziali.
Vediamo nei segni - a livello lessicale, a quello grammaticale e a quello sintattico – un
uso linguistico dello spazio: un uso terribilmente complesso, perché quasi tutto ciò che nel
parlato è lineare, sequenziale, temporale, nei segni diviene simultaneo, presente a più livelli,
concomitante. La ‘superficie’ dei segni può apparire semplice all’occhio, (come quella del
gesto o della mimica) ben presto ci si accorge che quest’ultima impressione è ingannevole:
quel che appare tanto semplice è straordinariamente complesso, il risultato del concatenarsi

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di innumerevoli schemi spaziali tridimensionalmente annidato uno dentro l’altro. Quando si


sono appresi i Segni o quando l’occhio ha imparato a riconoscerli si vede che essi hanno
carattere fondamentalmente diversi dai gesti e non è più possibile neppure per un momento
confondere questi con quelli. Me ne resi conto con chiarezza durante una recente visita in
Italia. Qui come si sa il gesticolare è ampio, esuberante, melodrammatico; la lingua dei segni
italiana invece è rigorosamente contenuta entro uno spazio convenzionale, vincolata da tutte
le regole grammaticali e lessicali di una lingua segnata per nulla ‘italianizzante’. Balza subito
all’occhio anche non istruito la differenza tra il paralinguaggio dei gesti e la vera lingua dei
segni.
Le meraviglie di questa grammatica spaziale affascinarono i ricercatori degli anni ’70 e
ne assorbirono talmente l’impegno tanto che solo nel decennio successivo si è rivolta pari
attenzione all’aspetto temporale. La presenza di un’organizzazione sequenziale nei segni era
già stata riconosciuta, ma era stata considerata trascurabile dal punto di vista fonologico,
fondamentalmente perché non si sapeva ‘leggerla’. Ci vollero le intuizioni di una nuova
generazione di linguisti, essi stessi sordi o spesso cresciuti usando fin da piccoli la lingua dei
segni, quindi capaci di distinguerne le sottigliezze in base alla propria esperienza personale,
dall’interno, per fare emergere l’importanza di queste sequenze dentro i segni e tra i segni…
Gli studiosi vedono il segnare non già come una successione di configurazioni
istantanee, congelate nello spazio, ma come una modulazione nel tempo, ricca e continua:
una dinamica di movimenti e di pause paragonabili a quelle della musica o del discorso
parlato. Essi hanno dimostrato che nell’American Language of Sign (ASL) sono presenti
molti tipi di sequenzialità: sequenze di configurazioni delle mani, di luoghi, di segni non
manuali, di movimenti locali, di movimenti alternati a pause; hanno anche dimostrato la
presenza di una segmentazione interna (fonologica) nei segni. Un modello strutturale
simultaneo non è in grado di rappresentare tali sequenze, anzi può occultarle. Si son dovute
sostituire quindi le vecchie nozioni e descrizioni statiche con notazioni dinamiche nuove,
spesso molto elaborate che somigliano un po’ alle notazioni impiegate per la danza o per la
musica.
Stokoe studioso della lingua dei segni: «Il parlato ha una dimensione sola – la sua
estensione nel tempo; la scrittura ne ha due; i modelli tre; solo le lingue dei segni dispongono
di quattro dimensioni: le tre dimensioni spaziali accessibili al corpo del segnante e la
dimensione temporale. E i Segni sfruttano a pieno le possibilità sintattiche offerte dal proprio
canale di espressione quadridimensionale». Come conseguenza, ritiene Stokoe, confortato
dalle intuizioni di artisti, scrittori di teatro e attori segnanti), la struttura della lingua dei segni
non è solo narrativa, prosastica, ma è anche – e soprattutto – cinematica: «In una lingua
segnata …la narrazione non è più lineare, ad andamento di prosa: l’essenza di tale lingua è il
continuo passaggio da un punto di vista normale a un punto di vista ravvicinato, poi a una
prospettiva a distanza, per tornare ancora alla visuale ravvicinata, e così via, includendo
perfino le scene del passato e immagini del futuro: esattamente come fa un regista
cinematografico nel montaggio.. La narrazione nei segni è strutturata più come quella di un
film montato che come quella di un racconto scritto e ciascun segnante è situato in un modo
che ricorda la cinepresa: il campo visuale e l’angolo prospettico sono controllati, ma
variabili, e non solo il segnante, ma anche il suo interlocutore è perfettamente consapevole,
in ogni momento, dell’orientazione visiva del segnante rispetto a ciò a cui si riferisce il
segno» (1979).
Così dopo tre decenni di ricerca, alla lingua dei segni si riconosce, infine, pari dignità
rispetto al parlato (per la fonologia, per gli aspetti temporali, per l’andamento e le sequenze)
con in più alcune peculiarità uniche di natura spaziale e cinematica: la si considera come
un’espressione e un’elaborazione del pensiero estremamente complessa eppure trasparente.
Penetrare in una struttura quadrimensionale di una simile complessità può richiedere la
strumentazione più formidabile e l’intuizione di un genio, eppure un bambino segnante di tre

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anni vi riesce senza sforzo, senza nemmeno rendersene conto. L’apprendimento del
linguaggio è un compito prodigioso, anche se inconscio; e nonostante le differenze di
modalità l’acquisizione della Lingua dei segni da parte dei bambini sordi presenta notevoli
somiglianze con l’acquisizione della lingua vocale da parte dei bambini udenti. In particolare
appare identica l’acquisizione della grammatica che avviene relativamente all’improvviso: è
una riorganizzazione, una discontinuità nel pensiero e nello sviluppo, allorché il bambino
passa dal gesto alla lingua, dall’indicazione o gesto prelinguistico a un sistema linguistico
completamente grammaticizzato; e avviene alla stessa età e nello stesso modo (all’incirca tra
il ventesimo e il ventiquattresimo mese) sia che il bambino parli, sia che usi i Segni. Che
cosa accade nella sua mente? Che specie di hardware c’è nella sua testa? Qual è dunque la
base neurologica?
Dopo aver dedicato gli anni ’70 all’esplorazione della struttura delle lingue dei segni
Ursula Bellugi e i suoi collaboratori sono passati a esaminare i substrati neurali, impiegando
anche il metodo classico della neurologia, cioè l’analisi degli effetti prodotti da lesioni del
cervello; nel nostro caso l’analisi degli effetti sulla lingua dei segni e sull’elaborazione
spaziale in generale, quali si possono osservare in segnanti sordi che abbiano subito un ictus
o altra lesione cerebrale.
Da più di un secolo (cioè dalle enunciazioni di Jackson attorno al 1870) si ritiene che
l’emisfero cerebrale sinistro sia specializzato nei compiti analitici, in special modo
nell’analisi lessicale e grammaticale che rende possibile la comprensione del linguaggio
parlato. Si ritiene che la funzione dell’emisfero destro sia complementare alla prima che esso
si occupi della totalità, anziché delle parti costitutive, delle percezioni sincrone anziché delle
analisi sequenziali e soprattutto del mondo visivo e spaziale. Le lingue dei segni
evidentemente superano frontiere così nette – perché esse hanno sì struttura lessicale e
grammaticale, ma d’altra parte questa struttura è sincrona e spaziale. A motivo di tali
particolarità, ancora un decennio addietro non si sapeva con certezza se la lingua dei segni
fosse rappresentata nel cervello unilateralmente, come la parola – e in questo caso in quale
emisfero – o bilateralmente. …
Questi erano alcuni dei problemi che la Bellugi e i suoi collaboratori dovettero
affrontare all’inizio della loro ricerca. Il risultato a cui pervennero, fondamentale per gli
sviluppi successivi, fu che l’emisfero sinistro del cervello è indispensabile per l’uso dei
segni, proprio come lo è per l’uso del linguaggio vocale; inoltre che la lingua dei segni fa uso
di alcuni dei percorsi neuronali usati per elaborare la grammatica della lingua vocale, ma che
in più fa uso di alcuni percorsi normalmente associati all’elaborazione visiva. ..I segnanti
mostrano la stessa lateralizzazione cerebrale dei parlanti, anche se il loro linguaggio ha
natura esclusivamente visivo-spaziale (e perciò ci si aspetterebbe che fosse elaborato
nell’emisfero destro). A ben considerarlo questo risultato è insieme sorprendente e ovvio…
Conferma a livello neurologico che quello dei segni è un linguaggio e come tale è trattato dal
cervello, anche se è visivo anziché uditivo, organizzato spazialmente anziché
sequenzialmente nel tempo. In quanto linguaggio è elaborato nell’emisfero sinistro del
cervello che è biologicamente specializzato per tale funzione.
Il fatto che i Segni siano elaborati nell’emisfero sinistro, malgrado la loro
organizzazione spaziale, suggerisce che nel cervello vi sia una rappresentazione dello spazio
‘linguistico’completamente distinta da quella dello spazio ordinario ‘topografico’.

[O. Sacks, Vedere voci. Un viaggio nel mondo dei sordi, Milano, Adelphi 1990; adattamento
dalle pp. 130 -33]

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