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CHAOS KAI KOSMOS

Incontri e scontri di civiltà

Collana diretta da
Marco Cuzzi, Piero Graglia e Marzia Rosti
Argentina
1816-2016

a cura di
Marzia Rosti e Veronica Ronchi
Il presente volume è stato pubblicato con il contributo del Dipartimento di Studi
Internazionali, Giuridici e Storico-Politici e del Dipartimento di Studi Storici
dell’Università degli Studi di Milano.

Ciascun saggio è stato sottoposto a doppia procedura di referaggio (peer review)


effettuata da esperti della materia nazionali e internazionali.

Le opere pubblicate in questa collana


sono sottoposte a un processo di peer review anonima
che ne attesta la validità scientifica.

1a Edizione marzo 2018


ISBN 978-88-98490-79-0

Edizione digitale giugno 2020


ISBN 978-88-33830-97-1

I diritti di riproduzione e di adattamento


totale o parziale e con qualsiasi mezzo
sono riservati per tutti i Paesi.

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può essere riprodotta senza il consenso dell’Editore.

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INDICE

7 Presentazione di Marzia Rosti


Il fascino di una terra lontana: l’Argentina dall’indipendenza a oggi

25 Deborah Besseghini
“No me cruzaron el negocio, y esto basta”.
Autonomia, indipendenza e lo scambio di agenti informali tra
Londra e Buenos Aires (1813-1817)

47 Daniele Trabucco
I rapporti diplomatici tra Argentina e Santa Sede: una storia di
contrasti tra Presidenti e gerarchie ecclesiastiche.
Dalla dichiarazione di indipendenza del 9 luglio 1816 al Con-
cordato del 10 ottobre 1966

61 Andrea Pezzè
Modernità e tecnocrazia nell’opera di Eduardo L. Holmberg

73 Veronica Ronchi
Legami etnici per lo sviluppo economico: imprese e rapporti
commerciali tra Italia e Argentina nel tardo XIX secolo

87 Francesco Davide Ragno


La parabola della democrazia yrigoyenista, 1916-1994

99 Valerio Giannattasio
Il fascismo, gli italiani d’Argentina e “l’italianità”
115 Federica Bertagna
Il contributo italiano all’industrializzazione argentina
durante il primo peronismo (1946-1955)

127 Flavio Fiorani


Rodolfo Walsh: decostruire una verità falsificata
con l’intersezione tra i generi

137 Marco Sioli


Dall’11 settembre 1973 all’istituzionalizzazione del terrore.
La guerra sporca degli Stati Uniti in Argentina

149 Marco Cuzzi


Colonialisti o dittatori? La guerra delle Falkland-Malvinas
e i “giri di tango” della diplomazia italiana

185 Michelangelo De Donà


I rapporti diplomatici tra Argentina e Santa Sede: una storia di
contrasti tra presidenti e gerarchie ecclesiastiche da Giovanni
Paolo I a papa Francesco

209 Benedetta Calandra


Metamorfosi della cittadinanza in Argentina

221 Tiziana Bertaccini


La costruzione del partito Propuesta Republicana e la vittoria di
Mauricio Macri

237 Profili biografici

243 Indice dei nomi


a cura di Marzia Rosti
Presentazione

IL FASCINO DI UNA TERRA LONTANA:


L’ARGENTINA DALL’INDIPENDENZA A OGGI

Con la forma di un triangolo rovesciato, con la base verso l’alto se-


gnata dai fiumi Paraná e Pilcomayo e il vertice a sud dove s’incontrano
le acque del Pacifico e dell’Atlantico, l’Argentina risulta seconda per
estensione al Brasile in America Latina e ottava nel mondo; nei suoi
oltre 3.500 km da nord a sud offre paesaggi e climi diversi e nell’imma-
ginario collettivo è una terra ricca di risorse naturali, terra delle vaste
pianure e dei latifondi, terra d’immigrati soprattutto italiani, patria del
tango e vi sorge Buenos Aires, una metropoli1 che da sempre ha assorbi-
to le attività economiche, commerciali, sociali e culturali, oltre a essere
il centro della vita politica dell’area, sin dall’epoca coloniale.
Da modesto2 insediamento fondato nel 1580, dopo un primo tenta-
tivo nel 1536,3 Buenos Aires divenne capitale del Vicereame del Río
1
Il Censo Nacional de Población, Hogares y Viviendas del 2010 ha indicato
una popolazione di 40.412.376 individui e le stime per il 2017 sono di oltre
43.000.000 di abitanti. La città di Buenos Aires ha una popolazione di circa
3.000.000 di persone, che supera i 14.000.000 se si considera l’intero agglome-
rato urbano chiamato Gran Buenos Aires. Cfr. http://www.indec.gob.ar/.
2
Per tutto il periodo coloniale Buenos Aires rimase un modesto insediamento,
lontano dai grandi porti e dalle miniere di metalli preziosi di Bolivia e Perù e
lo stesso nome ‘Argentina’ contiene la falsa promessa di argento, che ingannò
i primi esploratori spagnoli incantati dai riflessi argentei del Río de la Plata e
da alcuni ricchi ritrovamenti. In realtà, il fiume offriva una via più rapida per
giungere nel cuore del continente e facilitava il contrabbando, che, insieme alla
concia delle pelli e al commercio di sego, fece sopravvivere la città e le zone
circostanti: i 2.000 abitanti del 1508 passarono a 24.200, nel 1779, e le 580
anime di Buenos Aires registrate nel 1580 salirono a 7.500, nel 1700.
3
Nel 1536 Pedro de Mendoza nei pressi del fiume Riachuelo nell’attuale ba-

7
de la Plata, creato nel 1776, e poi fu lo scenario dei moti rivoluzionari
contro la Spagna del 25 maggio 1810, inserendosi in quel fermento
rivoluzionario che si stava diffondendo nei territori coloniali spagno-
li dai primi dell’Ottocento e che si sarebbe concluso nel 1824 con la
frammentazione dei quattro vicereami4 spagnoli in Stati indipendenti
che si delinearono nel decennio successivo, cui si aggiunse il Brasile
nel 1822, colonia portoghese il cui percorso verso l’indipendenza fu
differente.5

rrio San Telmo fondò il forte Ciudad del Espíritu Santo y Puerto Santa María
del Buen Ayre, che fu però abbandonato dagli spagnoli stremati dalla fame e
dai continui assedi degli indigeni. Nel 1580 Juan de Garay, mentre scendeva da
Asunción lungo il fiume, in un punto poco a nord della Casa Rosada fondò la
Ciudad de la Santísima Trinidad e il suo Puerto de Nuestra Señora de los Buenos
Aires, in onore del Santuario di Nostra Signora di Bonaria di Cagliari patrona dei
viaggiatori e non al fatto che fosse battuta da venti dotati di qualche virtù benefi-
ca (‘arie buone’). Jason Wilson, Buenos Aires, Milano, Bruno Mondadori, 2005.
4
Nel 1535 e 1542 vennero creati – rispettivamente – il Vicereame della Nueva
España e del Perù, cui si aggiunsero nel 1717 il Vicereame di Nueva Granada
e, nel 1776, quello del Río de la Plata. Sulla storia dell’Argentina indipendente
la bibliografia è ampia e non è possibile per ragioni di spazio indicarla nel pre-
sente scritto, pertanto si rinvia ai testi segnalati dagli autori nei rispettivi saggi,
cui si aggiungono Carlos Alberto Floria, César A. García Belsunce, Historia de
los argentinos, Buenos Aires, Larousse, 1992; Marcos Novaro, Historia de la
Argentina, 1955-2000, Buenos Aires, Siglo XXI Editores, 2010; Flavio Fiora-
ni, I paesi del Rio de la Plata. Argentina, Uruguay e Paraguay in età contem-
poranea (1865-1990), Firenze, Giunti, 1992. Sull’America Latina si ricordano
i recenti testi di Raffaele Nocera, Angelo Trento, America Latina un secolo di
storia. Dalla rivoluzione messicana ad oggi, Roma, Carocci, 2013; Loris Za-
natta, Storia dell’America Latina contemporanea, Bari, Laterza, 2017, Daniele
Pompejano Storia dell’America latina, Milano, Bruno Mondadori, 2012; Car-
los Malamud, Historia de América, Madrid, Alianza Editorial, 2012. Inoltre,
Federica Morelli, Il mondo atlantico. Una storia senza confini (secoli XV-XIX),
Roma, Carocci, 2013, e L’indipendenza dell’America spagnola. Dalla crisi
della monarchia alle nuove repubbliche, Milano, Le Monnier, 2015.
5
La Corona dei Braganza si sdoppiò: nel 1822 Pedro I proclamò l’indipendenza del
Brasile, di cui venne incoronato imperatore e istituì una monarchia costituzionale,
mentre il padre João VI era rientrato a Lisbona su insistenza delle Cortes liberali.

8
San Miguel de Tucumán ospitò invece il Congreso de las Provincias
Unidas del Río de la Plata, che, il 9 luglio 1816, proclamò solenne-
mente l’indipendenza delle Provincias Unidas en Sud América,6 resa
più che mai necessaria dopo la restaurazione in Spagna nel 1814 di
Ferdinando VII, deciso a riconquistare le colonie, mentre il generale
José de San Martín – figura centrale dell’indipendenza latinoamericana
e soprattutto argentina – organizzava un esercito di circa 6.000 uomini
a Mendoza, principale città dell’area di Cuyo, che avrebbe condotto in
Cile valicando le Ande per liberare nel 1817 Santiago de Chile, ancora
nelle mani degli spagnoli.
Al Congresso di Tucumán – poi trasferitosi a Buenos Aires il 19
aprile 1817 – spettava anche il difficile compito di redigere una Carta
costituzionale che conciliasse le diverse posizioni in merito al modello
istituzionale da adottare che erano emerse sin dal 1810 e sintetizza-
bili nell’alternativa tra una forma di Stato federalista o unitaria e, per
quest’ultima ipotesi, tra una forma di governo monarchica7 o repubbli-

6
Acta de la Declaración de la independencia Argentina, 9 de julio de 1816,
in http://www.biblioteca.org.ar/libros/88767.pdf e Dardo Pérez Guilhou [et al.],
Actores y testigos de la Revolución de Mayo, Mendoza, Ex Libris Editorial, 2010.
7
Soprattutto nei primi anni convulsi dei moti rivoluzionari si diffuse la no-
stalgia per la monarchia come quella forma di governo già sperimentata in
epoca coloniale e che avrebbe potuto far ritornare la tranquillità nel paese,
reintroducendola però secondo il modello offerto dalla Gran Bretagna o dalla
Costituzione di Cadice. Fra i monarchici vi fu una ulteriore divisione sull’e-
ventuale candidato alla corona delle Provincias Unidas del Río de la Plata:
un discendente della dinastia degli Incas in linea col principio legittimista
dell’epoca oppure un esponente di dinastie europee. Nel 1818 vennero prese in
considerazione le figure di Luigi Filippo d’Orléans, cugino di Luigi XVIII, e
quella del duca di Lucca, figlio di Maria Luisa di Spagna, sposa di Ludovico I
re d’Etruria. Sul tema si rinvia al saggio di Besseghini, cui si aggiunge l’inte-
ressante testo di Dardo Pérez Guilhou, Las ideas monárquicas en el Congreso
de Tucumán, Buenos Aires, Depalma, 1966. Inoltre, sul dibattito sulla forma
di Stato e di governo da adottare si rinvia in italiano a Marzia Rosti, Modelli
giuridici nell’Argentina indipendente 1810-1910, Milano, Giuffrè, 1999; I mo-
delli giuridici del federalismo argentino, “Materiali per una storia della cultura

9
cana. Benché divisi, i trenta deputati di Tucumán riuscirono a redigere
per il 1819 la Constitución de las Provincias Unidas en Sud América
che, in 138 articoli, consacrò la divisione dei poteri, creò un governo
forte e centralizzato, organizzando una repubblica liberale8 ma unitaria,
in quanto nulla dispose sull’organizzazione delle province,9 che reagi-
rono rifiutando il testo e le istituzioni proposte, avviando così il paese
verso un periodo d’instabilità politico-istituzionale che si sarebbe pro-
tratto sino a metà Ottocento.
La scissione sia della classe politica sia della popolazione in unitarios
o porteños di tendenza liberale (unitari o abitanti della città di Buenos
Aires e propriamente della zona del porto) e federales o provincianos
più conservatori (federalisti o abitanti delle province, a loro volta divise
in occidentali e litorali) è l’elemento che caratterizzò – e che caratterizza
ancora oggi – la storia dell’Argentina e che ha avuto e ha risvolti non solo
politico-istituzionali, ma anche economici, sociali e culturali e che si ori-
gina dai differenti progetti economici e politici per il paese elaborati dalle
élites che guidarono il processo di emancipazione. Agli abitanti di Bue-
nos Aires (porteños), legati all’economia d’esportazione (commercianti
e allevatori interessati all’esportazione di carne salata), l’indipendenza
offriva la possibilità sia d’incrementare il commercio con l’Europa e non
solo, sia di sostituirsi al potere politico ed economico coloniale, man-

giuridica”, 2, (2001), p. 395-421, e I modelli costituzionali nei primi decenni


d’indipendenza latinoamericana: il federalismo nordamericano, in Tradizio-
ne, rivoluzioni, progresso. Studi in onore di Paolo Pastori, ed. S. Ciurlia, Fi-
renze, Edizioni del Poligrafico Fiorentino, 2012, t. II, p. 371-380.
8
La Costituzione introdusse il legislativo bicamerale e il Director Supremo o de
Estado, al quale era attribuito il potere esecutivo, mentre il sistema giudiziario
ricalcato sul modello statunitense aveva al vertice un’Alta Corte di Giustizia.
9
Sin dall’epoca coloniale i vicereami spagnoli furono suddivisi in province
(provincias) che corrispondevano alle zone d’influenza delle principali città,
alcune delle quali erano anche capitali delle stesse con un proprio Governatore
(Gobernador) e un cabildo, cioè una sorta di consiglio comunale. Tali suddi-
visioni territoriali si sono mantenute negli attuali Stati latinoamericani e, per
quanto riguarda l’Argentina, le province equivalgono agli Stati membri di una
Federazione/Confederazione e da tredici di metà Ottocento oggi sono ventitré.

10
tenendo la struttura economica e amministrativa centralizzata ereditata
dalla colonia (perciò furono chiamati anche unitarios). A essi si contrap-
ponevano gli allevatori delle province del litorale (Entre Ríos, Santa Fe e
Corrientes), anch’essi interessati a esportare la carne, ma che aspiravano
alla libera navigazione dei fiumi Paraná e Uruguay per inviare i prodotti
in Europa senza passare per il porto di Buenos Aires, e gli artigiani e gli
allevatori delle regioni interne più legati all’economia di sussistenza o ai
commerci con il Cile o con l’Alto Perù (l’attuale Bolivia), timorosi della
concorrenza dei prodotti europei. Fu dunque una naturale reazione per i
provincianos aderire al progetto di un’organizzazione federale del paese
offerta dal modello degli Stati Uniti, in cui Buenos Aires sarebbe stata
su un piano di parità con le altre province in opposizione al centralismo
proposto da quest’ultima.
Le tensioni furono così forti che, per sottrarsi all’influenza di Bue-
nos Aires, già nei primi anni dopo i moti del 1810 si staccarono tre
regioni che diedero origine ad altrettanti Stati: dalla provincia Banda
Oriental nacque l’Uruguay, dall’Intendenza di Asunción del Paraguay
il Paraguay e, nel 1825, dall’unione delle Intendenze di Charcas o Chu-
quisaca, di Potosí, di Cochabamba e di La Paz con la zona dell’Alto
Perù (parte del Vicereame omonimo) si formò la Bolivia. Il resto del
territorio andò a formare l’odierna Argentina.
Solo l’ultimo dei quattro Congressi Costituenti convocati in quegli
anni – 1813, 1816, 1825 e 1853 – riuscì ad approvare una Costituzione
ancora oggi vigente, benché sia stata riformata più volte,10 e che adottò
la forma rappresentativa repubblicana federale, risolvendo l’antica con-
troversia fra unitari e federalisti e dando origine a una forma peculiare
di federalismo, spesso definito “federalismo unitario” per il ruolo pre-
ponderante del Presidente della nazione, della città e della provincia di
Buenos Aires rispetto alle altre province.

10
La Costituzione del 1853 è ancora in vigore e le sono state apportate in più
di un secolo sette riforme: 1860, 1866, 1898, 1949, 1957, 1972 e 1994. Le più
incisive furono nel 1860 voluta da Buenos Aires, nel 1949 promossa da Perón
e la recente del 1994 proposta da Menem.

11
All’appuntamento con la Costituzione del 1853 la giovane nazione
giunse dopo aver attraversato la citata instabilità politico-istituzionale
che s’intrecciò, nei primi anni d’indipendenza, con le operazioni mi-
litari contro gli spagnoli; poi – dal 1820 al 1853 – la scomparsa delle
istituzioni nazionali, bilanciata dal rafforzarsi in ciascuna provincia dei
rispettivi organi di governo che, col tessere relazioni di carattere com-
merciale e alleanze militari, andarono a creare la base di quel sistema
federale che sarebbe stato poi accolto nella Carta del 1853. Infine, il
governo di Juan Manuel de Rosas, governatore della sola provincia di
Buenos Aires per quasi due decenni (1829-1832; 1835-1852), che si
dichiarò federalista, realizzando però l’amministrazione più unitaria e
centralizzata del paese grazie a una rete di alleanze con i governatori
locali, rassicurati che i rispettivi interessi economici non sarebbero stati
danneggiati, e che gli conferirono l’incarico di loro rappresentante delle
relazioni con l’estero, cioè una sorta di carica di Presidente della nazio-
ne. La fine del suo regime – decisa nel 1852 dalle stesse province che lo
avevano sostenuto (Pronunciamiento de Urquiza governatore di Entre
Ríos e battaglia di Caseros 1852) – favorì la convocazione a Santa Fe
di quel Congresso Costituente11 che, nell’aprile 1853, presentò il pro-
getto di Costituzione12 poi promulgato il 25 maggio, anniversario dei
moti per l’indipendenza: nasceva così la Confederación Argentina, che,
stemperati nel 1860 gli ultimi attriti con Buenos Aires, intraprese il per-
corso comunque non facile di costruzione dello stato e della nazione.
Le presidenze di Mitre (1862-1868), Sarmiento (1868-1874) e Avella-
neda (1874-1880) gettarono le basi del cosiddetto “miracolo economico”
argentino, poi guidato dalla nuova classe politica, il cui primo e più inci-
sivo esponente fu Roca, due volte presidente (1880-1886 e 1898-1904)
11
Composto dai rappresentanti delle province, a eccezione di Buenos Aires
che, nel settembre 1852, era uscita dalla Confederazione proclamandosi Stato
sovrano e indipendente. Vi rientrò nel 1859 e ottenne che venisse riformata la
Costituzione nel 1860.
12
Disponibile in http://www.cervantesvirtual.com/portales/amado_nervo/obra-visor
/constitucion-para-la-confederacion-argentina-del-1-de-mayo-de-1853/html/0ff-
c4f42-4620-490e-80ff-ae47aeeff6e5_2.html#I_0_.

12
e che traghettò il paese nel Novecento, secolo cui si affacciò offrendo
l’immagine di una nazione che – in occasione del Centenario della pro-
pria indipendenza – avrebbe festeggiato i notevoli obiettivi raggiunti
soprattutto negli ultimi cinquant’anni: un periodo di stabilità politico-i-
stituzionale, uno sviluppo economico e la presenza di investimenti stra-
nieri, il successo del progetto migratorio e, infine, l’assorbimento nella
propria sfera di sovranità delle aree un tempo abitate dagli indigeni,13
con la conseguente soppressione o assimilazione forzata di questi ulti-
mi alla società dominante.
Due anni dopo, nel 1912, l’approvazione della Ley Sáenz Peña in-
trodusse il suffragio universale maschile, che portò alla presidenza Hi-

13
È soprattutto dalla presidenza di Sarmiento (1868-1874) in poi che i governi
definirono una precisa politica di espansione territoriale per realizzare il pro-
getto di costruzione dello Stato e della nazione, che portò all’organizzazione
delle due note campagne militari – la Conquista del Desierto a sud e la Guerra
del Chaco a nord – che spostarono la frontiera della nazione e ridisegnarono
la politica con le popolazioni originarie (si rinvia agli studi di Hebe Clementi,
La frontera en América. Una clave interpretativa de la Historia Americana,
Buenos Aires, Editorial Leviatán, 4 voll.; Tullio Halperin Donghi, Una Nación
para el Desierto Argentino, Buenos Aires, Prometeo, 2005; Raúl J. Mandrini,
La Argentina aborigen. De los primeros pobladores a 1910, Buenos Aires,
Siglo XXI Editores, 2008; Carlos Martínez Sarasola, Nuestros paisanos los
indios. Vida, historia y destino de las comunidades indígenas en la Argentina,
Buenos Aires, Emecé, 1996, 4° ed., e Susana Bandieri, Historia de la Patago-
nia, Buenos Aires, Sudamericana, 2005; in italiano cfr. Vanni Blengino, Il val-
lo della Patagonia. I nuovi conquistatori: militari, scienziati, sacerdoti, scrit-
tori, prefazione di Ruggiero Romano, Reggio Emilia, Diabasis, 2003, e Flavio
Fiorani, Patagonia. Invenzione e conquista di una terra alla fine del mondo,
Roma, Donzelli Editore, 2009). Gli studi su questi passaggi fondamentali della
storia argentina sono molteplici e coprono varie prospettive: particolarmente
interessanti risultano essere le analisi dei discorsi presidenziali, dei dibattiti in
seno al Congresso e del dibattito fra gli intellettuali dell’epoca sulla necessità
o meno di “muovere guerra all'indigeno”, del destino sia di quei territori una
volta conquistati sia delle popolazioni lì presenti, e si rinvia alle pubblicazioni
di Pedro Navarro Floria, Mónica Quijada, Diana Lenton, Walter Mario Delrio
e Enrique Hugo Mases, che per ragioni di spazio non è possibile citare.

13
pólito Yrigoyen, leader dell’Unión Cívica Radical (UCR) primo partito
d’opposizione nato a fine Ottocento. A Yrigoyen si riconoscono tre pri-
mati: l’essere stato il primo presidente eletto col suffragio universale
maschile, il provenire dal primo partito d’opposizione, che spezzò il ci-
clo dei presidenti esponenti del Partido Autonomista Nacional (PAN),14
e l’essere stato il primo presidente rimosso dai militari che, nel 1930,
interruppero il suo secondo mandato15 inaugurando la tradizione, che
sarebbe durata sino al 1983, di una loro maggior presenza nella vita
politica del paese attraverso colpi di Stato, per deporre presidenti non
graditi, o frodi elettorali, per pilotare elezioni, in quanto si consideraro-
no investiti del compito di rifondare la nazione, di custodire l’ordine e
i valori nazionali offuscati dalla democrazia delle masse e di estirpare i
germi del comunismo e dell’anarchia.
La storia argentina contemporanea si snoda quindi fra temi e im-
magini forse più note e di maggiore richiamo in Europa e in Italia. Le
correnti nazionaliste degli anni Trenta e il peronismo, che rappresen-
tò per il sistema politico, economico e sociale argentino una sorta di
“rivoluzione copernicana” e la sua ideologia segnò la storia del paese
dalla metà del Novecento in poi e, ancora oggi, attorno a esso gravita
la politica argentina. Infatti, Juan Domingo Perón fu presidente della
nazione per ben tre volte (1946-1951, 1951-1955 e 1973-1974)16 e
costituì forse il caso più emblematico di populismo classico per i
suoi tratti autoritari e la capacità di mobilitare le masse urbane – sia
la classe lavoratrice, sino ad allora leale al socialismo, sia coloro
che con scarso interesse per la politica avevano sostenuto invece i

14
Sorto fra il 1874 e il 1878, rappresentò la prima forza politica egemone sino
alla comparsa dei radicali con l’Unión Cívica fondata fra il 1890 e il 1891 da
Leandro N. Alem, poi diventata Unión Cívica Radical dal 1891. Sul tema si
rinvia al saggio di Ragno e alla sua recente pubblicazione Liberale o populi-
sta? Il radicalismo argentino (1930-1943), Bologna, il Mulino, 2017.
15
Fu presidente dal 1916 al 1922 e dal 1928 al 1930.
16
Eletto con più del 52% dei voti nel 1946, fu riconfermato nel 1951 con oltre
il 63% dei consensi e, nel 1973, con più del 61% dei voti. Si rinvia per una
sintesi a Loris Zanatta, Il peronismo, Roma, Carocci, 2008.

14
conservatori – intercettando il loro consenso in cambio di un miglio-
ramento delle condizioni di lavoro, dei salari e di una legislazione so-
ciale. Dal punto di vista ideologico, ambì a creare una nazione unita
e senza conflitti con la realizzazione di tre obiettivi quali la giustizia
sociale, la sovranità politica e l’indipendenza economica; il Partito
Peronista (PP), fondato nel 1946, fu la macchina elettorale e d’indi-
rizzo di consenso che privò il sistema politico di dinamismo, com-
petitività e democraticità. I governi dei vent’anni successivi al 1955,
quando Perón venne rovesciato dai militari (Revolución Libertadora)
e il Partito Peronista fu proscritto,17 non riuscirono a cancellarne l’e-
redità, ma piuttosto ne alimentarono il mito e il ricordo in una società
fortemente polarizzata fra peronisti e antiperonisti, segnata da episo-
di di violenza, di repressione e di protesta, in cui il ruolo dei militari
al potere divenne sempre più incisivo con le derive autoritarie la cui
massima espressione fu la dittatura della Junta militar (1976-1983),
nota per aver dato origine al termine desaparecidos e per le immagini
delle Madres de Plaza de Mayo, che chiedevano notizie dei propri fi-
gli scomparsi davanti alla Casa Rosada con la loro marcia circolare.18
Gli anni della transizione alla democrazia guidati dal radicale Alfon-
sín (1983-1989) sono stati invece poco ricordati, quasi accantonati
dopo l’emozione iniziale, forse per la difficile situazione economica
ereditata dal regime o forse per l’impunità concessa ai militari re-
sponsabili dei crimini durante la dittatura, purché uscissero di scena
e la ritrovata democrazia ne fosse rinforzata.
La profonda crisi economica del 2001, con risvolti anche politici e
sociali, ha fatto riflettere sull’euforia degli anni Novanta, caratterizza-
ti dalla decennale presidenza di Menem (1989-1999), il quale, benché
17
Nel 1964 venne fondato il Partito Justicialista (PJ) nel tentativo di creare un “Pe-
ronismo senza Perón”; nel 1973 si presentò alle elezioni come FREJULI-Frente
Justicialista de Liberación, ma poi la morte del leader nel 1974 e il golpe militare
del 1976 fecero eclissare il partito nella clandestinità e molti suoi esponenti finiro-
no nei centri di detenzione del regime.
18
Si veda Benedetta Calandra, La memoria ostinata. H.I.J.O.S., i figli dei desa-
parecidos argentini, Roma, Carocci, 2004, in particolare il capitolo I.

15
peronista, abbandonò la tradizione d’intervento statale e di politiche
economiche espansive, per adottare invece una politica neoliberista, le
cui conseguenze emersero con tutta la loro drammaticità durante la bre-
ve presidenza di de la Rúa (2000-2001).19 Ci si interrogò solo allora su
come fosse potuto accadere che un paese così ricco, con un vasto terri-
torio con così tante risorse naturali, così “poco latino e tanto europeo”,
avesse potuto precipitare in quel modo e – in quei giorni – l’Argentina
divenne famosa per le cifre della disoccupazione salita al 15%, per la
fuga di capitali all’estero (più di 40 milioni di dollari), per il corralito,
cioè il blocco temporaneo dei depositi dei piccoli e medi risparmiatori
a favore delle banche private e per lo stato d’assedio imposto da de la
Rúa, cui risposero centinaia di cacerolazos,20 espressione della furia
della classe media che si era vista sottrarre i risparmi di tutta una vita,
mentre proseguivano i saccheggi di negozi e una folla in Plaza de Mayo
chiedeva le dimissioni di “tutti” (deputati, senatori, ministri, Presidente
e Corte Suprema) urlando “¡Que se vayan todos, que no quede ni uno
solo!”. Seguirono le immagini dei cartoneros (donne, uomini e bambini
che di notte rovistavano nell’immondizia per raccogliere carta e cartone
da rivendere alle cartiere), le notizie della pratica del trueque (il baratto
per la scarsità di moneta) e delle fabbriche recuperate e autogestite da-
gli operai un tempo dipendenti.
19
De la Rúa fu eletto nel 2000 come candidato della coalizione di stampo social-
democratico Alianza, stretta fra l’Unión Cívica Radical (UCR) e il Frente País
Solidario (FREPASO), con le promesse di lotta alla corruzione, di ripresa dei
processi ai militari e, soprattutto, di risollevare l’economia di un paese ormai in
mano agli investitori stranieri. Già nel 2001 però rassegnò le dimissioni per le
proteste di piazza del 19-21 dicembre e, in soli tredici giorni (dal 21 dicembre
2001 al 2 gennaio 2002), si susseguirono alla presidenza Ramón Puerta, Adolfo
Rodríguez Saá, Eduardo Camaño ed Eduardo Duhalde. A quest’ultimo, che con-
servò l’incarico sino all’elezione di Néstor Kirchner nel 2003, spettò l’ingrato
compito di svalutare il peso del 300%, determinando il passaggio da povertà a
indigenza di quasi 8 milioni di persone con vantaggi solo per i grandi esportatori
legati alle attività agricole, mentre veniva dichiarato il fallimento dello Stato.
20
Sono le manifestazioni di piazza in tutto il paese con tambureggiamento di
pentole e di coperchi.

16
Dalle ceneri di quella profonda crisi emerse nel 2003 il kirchneris-
mo, cioè quella corrente politica – declinazione o costola del peronismo
– che avrebbe governato il paese per dodici anni e che fu impersonata
dai coniugi che ricoprirono la carica di presidenti della nazione, cioè
Néstor Kirchner e Cristina Fernández de Kirchner, al potere – rispetti-
vamente – dal 2003 al 2007 e, per due mandati, dal 2007 al 2011 e dal
2011 al 2015.21
Quando assunse la presidenza il 25 maggio 2003, nel suo discorso
all’Assemblea Legislativa Kirchner promise agli argentini una “nuova
epoca”, dichiarò “de formar parte de una generación diezmada, casti-
gada con dolorosas ausencias”, precisò “me sumé a las luchas políticas
con valores y convicciones a las que no pienso dejar en la puerta de
entrada de la Casa Rosada” e concluse:

Vengo a proponerles un sueño que es la construcción de la verdad y la


justicia […]. Vengo a proponerles un sueño que es el de volver a tener una
Argentina con todos y para todos […]. Vengo a proponerles un sueño: quie-
ro una Argentina unida, quiero una Argentina normal, quiero que seamos
un país serio, pero además, quiero un país más justo.22

E in effetti durante il suo mandato con un programma socialdemo-


cratico e progressista conseguì quattro risultati fondamentali: innanzi-

21
Marzia Rosti, L’Argentina da Menem a Macri, in Democrazie inquiete. Viag-
gio nelle trasformazioni dell’America Latina, eds. V. Giannattasio e R. Nocera,
Milano, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, 2017, p. 25-35, in http://www.
fondazionefeltrinelli.it/article/ebook-democrazie-inquiete-9788868352714/;
Pedro A. Martínez Lillo, Pablo Rubio Apiolaza, América Latina actual. Del
populismo al giro de izquierdas, Madrid, Catarata, 2017, e José Angel Sotillo,
Bruno Ayllón (coords.), Las transformaciones de América Latina. Cambios
políticos, socioeconómicos y protagonismo internacional, Madrid, Catarata,
2017.
22
Discurso de asunción del Presidente Néstor Kirchner a la Asamblea Legis-
lativa el 25 de mayo del 2003, in http://www.cfkargentina.com/discurso-de-
asuncion-del-presidente-nestor-kirchner-a-la-asamblea-legislativa-el-25-de-
mayo-del-2003/.

17
tutto eliminò il modello neoliberista importato negli anni Novanta e re-
sponsabile della crisi del 2001; interruppe poi la dipendenza dalla Banca
Mondiale e dal Fondo Monetario Internazionale, restituendo a quest’ulti-
mo il credito ottenuto, rilanciò l’economia del paese puntando sull’espor-
tazione delle materie prime (carne e soprattutto soia) e, inoltre, aderì ai
progetti d’integrazione latinoamericana verso i quali l’Argentina – troppo
“europea” e poco “americana” – non aveva mai mostrato particolare in-
teresse. Infine, avviò una politica di maggiore attenzione, rispetto e tu-
tela dei diritti umani, promosse numerose iniziative volte a favorire la
memoria delle vittime della dittatura e ottenne l’abrogazione delle leggi
d’impunità dei militari e la riapertura dei processi a loro carico.
Passato il testimone nel 2007 alla moglie Cristina Fernández, che
mantenne e anche rafforzò nei suoi due mandati presidenziali i tratti
della politica inaugurata dal marito, la lunga stagione del kirchnerismo
si è conclusa nel 2015, quando alle elezioni presidenziali, non potendo-
si presentare per un terzo mandato, la Presidente ha indicato l’ex gover-
natore della provincia di Buenos Aires Daniel Scioli come suo succes-
sore. Il candidato del kirchnerismo è apparso però un po’ appesantito
dalle difficoltà del governo23 degli ultimi tempi e di ciò ha approfittato
Maurizio Macri, sindaco di Buenos Aires per otto anni, candidato della
coalizione Cambiemos, in cui si erano coagulate riorganizzandosi le
opposizioni (UCR e i gruppi di centro destra dell’economia e della poli-
tica), e leader del partito di centro-destra Propuesta Republicana (PRO),
che si è imposto su Scioli con una esigua differenza di voti24 confer-

23
Il cosiddetto ‘modello K’ si reggeva sul boom del prezzo delle materie prime in
particolare carne e soia, di cui l’Argentina è diventata uno dei principali produttori;
grazie alle ingenti somme a disposizione il governo ha creato un sistema di sussidi
per ridurre l’indigenza, la povertà, le disuguaglianze e la disoccupazione, ma che –
nel lungo periodo – ha innescato dinamiche assistenzialiste e clientelari che hanno
frenato la crescita economica, cui si è aggiunto il crollo dei prezzi delle materie
prime che ha ridotto le risorse a disposizione del governo per sostenerlo.
24
Macri ha vinto al ballottaggio con un 51,4% di voti rispetto al 48,6% raccolto
da Scioli, mentre al primo turno Scioli aveva ottenuto il 36,3% di consensi,
mentre Macri il 34,7%. Il ballottaggio – il primo nella storia costituzionale

18
mando l’immagine di un paese diviso e polarizzato fra kirchneristi e
anti-kirchneristi, già affiorata in campagna elettorale, nonostante i toni
concilianti e rassicuranti di Macri, che aveva preso le distanze dalla
destra e dallo spettro ultraliberista degli anni Novanta e che, fra le pro-
messe elettorali, aveva inserito proprio quella di “unire gli argentini”.
Sin dai primi giorni è emersa una politica di rottura rispetto al kirch-
nerismo, definito una “decade perduta” per le scelte in materia econo-
mica che avevano frenato la crescita e lo sviluppo del paese; Macri si è
presentato sulla scena internazionale con uno stile pacato, disponibile
e rassicurante per trasmettere l’immagine di un “nuova nazione” aperta
agli investimenti e a nuove relazioni politiche, economiche e culturali.
L’entusiasmo e l’ottimismo si sono però ridimensionati per la difficile
congiuntura economica e per le numerose proteste di piazza che hanno
caratterizzato il primo anno e mezzo di governo e l’obiettivo di un’Ar-
gentina in crescita e unita, senza timori e senza conflitti interni pare
ancora lontano,25 ma secondo il Presidente raggiungibile, come ha riba-
dito nel discorso per il Bicentenario dell’indipendenza, il 9 luglio 2016,
col ricordare lo stato d’animo dei protagonisti del 1816 ed esortare gli
argentini a prenderli come esempio:

Los ciudadanos de 1816 no eran superhombres. Seguro tuvieron miedo


y angustia, pero el coraje y la convicción fue más fuerte. Y tuvieron la
decisión de ser protagonistas de su futuro. […] Hoy les quiero pedir lo
mismo a todos los argentinos: seamos protagonistas, tengamos fe de
nuestra capacidad de crear y desarrollar. No tengamos miedo. No escu-
chemos a los que se han enfermado con el poder.26

dell’Argentina – è stato necessario in quanto al primo turno nessuno dei can-


didati aveva raggiunto il 45% dei voti e neppure il distacco fra i primi due
classificati era superiore al 10%.
25
“Mauricio Macri: 10 marchas atrás clave en un año y medio de gobierno”,
El País, 16 giugno 2017, https://elpais.com/internacional/2017/06/16/
argentina/1497627674_959386.html.
26
http://www.lanacion.com.ar/1916957-habla-mauricio-macri-por-los-200-anos-
de-la-independencia. Si aggiungono gli spot della Presidencia de la Nación

19
Nei suoi duecento anni d’indipendenza senza dubbio il paese ha spe-
rimentato molteplici ricette per uscire dalle ricorrenti crisi politiche,
economiche e sociali e, alle elezioni del 22 ottobre 2017 per il rinnovo
di un terzo del Senato e di metà della Camera dei deputati, gli argentini
hanno confermato la fiducia al presidente Macri con il suo progetto di
modernizzazione liberale, mentre per i peronisti il risultato non è stato
così soddisfacente, soprattutto per il kirchnerismo.27 Presentatisi divisi
in tre liste,28 l’appuntamento elettorale rappresentava, infatti, l’occasio-
ne per essere confermati o meno come forza politica in grado di tornare
al potere (soprattutto il kirchnerismo) e per avere la certezza che il go-
verno in carica fosse una “semplice parentesi”.

Il presente volume

Ripercorrere duecento anni di storia argentina nelle poche pagine de-


stinate a presentare un volume che raccoglie scritti di colleghi e di stu-
diosi su alcuni momenti di un così ampio arco temporale è un’impresa

confezionati in occasione del Bicentenario dell’Indipendenza in cui vengono


illustrati gli obiettivi raggiunti dalla nazione grazie al popolo unito e ricorre
l’esortazione a restare uniti per raggiungerne altri in futuro.
27
Cambiemos ha guadagnato seggi sia al Senato sia alla Camera dei Depu-
tati, superando in entrambe il 41%; anche il peronismo è cresciuto ma non è
avvenuto il tanto atteso sorpasso del centro-destra. Il kirchnerismo, invece,
con il Frente para la Victoria ha perso seggi in entrambe le camere e Cristina
Fernández è riuscita a conquistare il seggio al Senato per la provincia di Bue-
nos Aires con la lista Unidad Ciudadana, senza però i risultati attesi, perché ha
raccolto poco più del 37% di voti, posizionandosi dietro al candidato Esteban
Bullrich di Cambiemos, che ha ottenuto più del 41% di consensi. https://www.
infobae.com/elecciones-argentina-2017/.
28
Con Unidad Ciudadana Cristina Fernández si era candidata per il Senato
nella circoscrizione di Buenos Aires, aggiungendosi alle liste del Partito Jus-
ticialista di Florencio Randazzo e di Sergio Massa. I risultati delle elezioni
primarie del 13 agosto 2017 (PASO) avevano confermato Cambiemos come la
prima forza politica del paese e Cristina Fernández si era imposta sul candidato
oficialista Bullrich con una differenza di voti esigua, 33,95% contro 33,74%.

20
difficile, il cui risultato avrebbe potuto essere un testo troppo superfi-
ciale oppure uno scritto troppo esteso e sbilanciato rispetto ai contributi
pubblicati. Pertanto nelle pagine che precedono si è scelto di individuare
alcuni aspetti e momenti della storia argentina senza alcuna pretesa di
esaustività, ma con l’obiettivo di suscitare nel lettore interesse e curiosità
per un paese al quale noi studiosi europei spesso volgiamo lo sguardo
non solo per gli indissolubili vincoli etnici, sociali, politici ed economici
che la storia ha creato, ma perché rappresenta una sorta di laboratorio per
le trasformazioni politiche, economiche e sociali vissute e sperimentate.
Con questa prospettiva è stato confezionato il presente volume, che
ho il piacere di presentare e che raccoglie saggi29 che con differenti
approcci ci conducono per i duecento anni d’indipendenza, evidenzian-
done aspetti e passaggi significativi.
I contributi di Besseghini e di Trabucco ripercorrono proprio i primi
passi delle istituzioni del giovane governo rioplantense nel quadro delle
embrionali relazioni con le potenze dell’epoca: Besseghini ricostruisce,
nell’arco temporale 1813-1817, la genesi della decisione di Buenos Ai-
res di dichiarare l’indipendenza in relazione alla politica europea, in
particolare quella britannica, di cui è offerta una minuziosa ricostruzio-
ne dei mezzi e delle occasioni di azioni e di agenti informali, mentre
Trabucco illustra il percorso intrapreso con la Santa Sede, già indicato
dallo stesso Congresso di Tucumán e volto a limitare le attribuzioni e i
privilegi della Chiesa e che viene ricostruito nelle sue molteplici sfac-
cettature sino alla firma del Concordato del 1966.
Nell’Argentina della seconda metà dell’Ottocento proiettata verso
la modernità si collocano i saggi di Pezzè e di Ronchi: il primo con
un approccio proprio degli studi di letteratura ricostruisce la figura
29
Una prima versione dei saggi è stata presentata al Convegno Internazio-
nale “1816-2016 l’Argentina dalla dichiarazione d’indipendenza alla fine del
kirchnerismo”, svoltosi il 19-20 maggio 2016 presso l’Università degli Studi
di Milano e organizzato da Marzia Rosti, docente del Dipartimento di Studi
Internazionali, Giuridici e Storico-Politici, e da Veronica Ronchi, docente del
Dipartimento di Studi Storici. Ai fini della presente pubblicazione, i saggi sono
stati rielaborati dagli autori e sottoposti a doppio referaggio anonimo.

21
di Eduardo L. Holmberg, protagonista della cultura argentina fra i
due secoli, forse più noto per il suo ruolo di scienziato piuttosto che
di esponente del modernismo argentino, che nelle sue opere transitò
dall’esaltazione della modernità al timore per il progresso scientifico
come cardine della nazione. Ronchi, invece, riprende una delle clas-
siche linee di ricerca sui rapporti fra Italia e Argentina, cioè il contri-
buto degli immigrati italiani allo sviluppo economico della nazione
latinoamericana, evidenziando però l’apporto delle imprese fondate
nel paese da nostri immigrati nel settore metallurgico e alimentare e
come queste ultime – soprattutto – permisero di raggiungere l’indi-
pendenza del paese dall’importazione dei cereali.
I saggi di Ragno, Giannattasio e Bertagna ci conducono nel No-
vecento: Ragno, partendo dall’esperienza di governo di Yrigoyen, si
sofferma sulla declinazione yrigoyenista della democrazia che si è
snodata per tutto il secolo, modificandosi, adattandosi e soprattutto
caratterizzando tutta la famiglia radicale; Giannattasio riprende i rap-
porti fra Italia e Argentina collocando la sua analisi nell’epoca fasci-
sta e riscostruisce l’interesse del governo mussoliniano per gli italiani
in quella terra così lontana, perché visti come strumenti di politica
estera per influenzare il dibattito politico-culturale e rafforzare le re-
lazioni economiche. Bertagna, infine, ritorna sui temi dell’emigrazio-
ne italiana collocando però la propria analisi nel periodo successivo
alla seconda guerra mondiale, un’epoca poco studiata soprattutto per
quanto riguarda il rapporto tra immigrazione italiana e industrializza-
zione argentina durante il primo peronismo, quando l’apporto italiano
fu più rilevante di quanto non dicano le cifre su investimenti di capi-
tali e radicamento di multinazionali, perché avvenne prevalentemente
in una forma nuova, cioè il trasferimento al completo di decine di
imprese italiane, con migliaia di tecnici e di operai al seguito.
Fiorani, Sioli e Cuzzi si soffermano su aspetti e momenti propri
degli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, forse il periodo più
buio della storia argentina, segnato da violenza, terrore e militari al
potere, di cui è affiorata la verità grazie a molteplici fonti, tra le quali

22
la scrittura come attività militante, di cui Fiorani individua il principa-
le esponente in Rodolfo Walsh, impegnato nel decostruire una verità
falsificata attraverso lo scrivere. Perché nella scrittura giornalistica,
di finzione e nel reportage d’autore o nella narrativa testimoniale il
rapporto fra letteratura e politica era – ed è – al servizio di una istanza
di verità e di disvelamento delle cause della violenza politica del pa-
ese. Una verità sulla violenza che si ritrova anche nel saggio di Sioli,
che ricostruisce i tratti della cosiddetta “guerra sporca” in Argentina,
emersi grazie alla scelta del presidente Obama nel 2016 di desegre-
tare, dunque di “rivelare”, il contenuto di alcuni fascicoli di quel pe-
riodo, ripercorrendo la strada intrapresa da Clinton nel 1995 in merito
ad alcuni documenti sui crimini del regime di Pinochet in Cile. Infine,
Cuzzi ricostruisce la posizione del governo italiano guidato da Spado-
lini rispetto alla guerra delle Falkland/Malvinas, una vicenda australe
che per l’Italia fu meno periferica di quanto si possa immaginare, di
cui rivela pieghe e retroscena quasi fossero “giri di valzer o di tango”,
nati dalla collisione di due interpretazioni differenti del ruolo italiano
in Europa e nel mondo: la lealtà comunitaria e l’interesse nazionale.
Chiude il Novecento il contributo di De Donà, che riprende il tema
affrontato dal collega Trabucco sui rapporti diplomatici fra Argentina
e Santa Sede, ricostruendone gli aspetti principali nei pontificati di
Giovanni Paolo I, Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e dell’attuale
papa Francesco.
Alle dinamiche del nuovo Millennio sono dedicati i saggi di Ca-
landra e di Bertaccini: la prima con un’analisi della metamorfosi del-
la cittadinanza richiama l’attenzione del lettore sull’evoluzione del
genere come categoria della politica, inteso nella duplice accezione
di tensione astratta ai diritti delle donne e di partecipazione effetti-
va della componente femminile nelle nuove istituzioni democratiche.
L’esempio argentino delle quote rosa in politica, poi seguito da molti
altri paesi del subcontinente, ci induce pertanto a rileggere la cosid-
detta “decade perduta” latinoamericana come una fase di genesi sia
di un processo nuovo e originale di riformulazione della cittadinanza

23
stessa, sia di ricomposizione di quell’opposizione polverizzata duran-
te il kirchnerismo e che si è agglutinata nella coalizione Cambiemos,
guidata dall’attuale presidente Macri. A quest’ultimo processo è dedi-
cato il saggio di Bertaccini, che appunto ripercorre le dinamiche e le
strategie politiche che hanno portato nel 2015 alla vittoria di Mauricio
Macri e alla fine dei dodici anni di kirchnerismo, inserendosi in quel
cambiamento politico dell’intera regione che ha visto il tramonto de-
gli altri governi progressisti.
L’America Latina, in generale, e l’Argentina, in particolare, rap-
presentano dunque non più una sorta di specchio distorto del percorso
occidentale, bensì un laboratorio creativo cui guardare con attenzione
nella fase attuale.

Marzia Rosti

24
“NO ME CRUZARON EL NEGOCIO, Y ESTO BASTA”.
AUTONOMIA, INDIPENDENZA E LO SCAMBIO DI AGENTI
INFORMALI TRA LONDRA E BUENOS AIRES (1813-1817)
di Deborah Besseghini

Accade talvolta che per un evento di portata epocale venga ricono-


sciuta una principale causa “di breve periodo” e che vi sia sostanziale
accordo tra gli specialisti nel leggerla come punto di svolta nel dispie-
garsi degli avvenimenti. È il caso della crisi dell’impero spagnolo, la cui
causa scatenante è individuata nelle abdicazioni dei Borbone indotte da
Napoleone a Bayona nel 1808, che produssero la cosiddetta “acefalia”
quando le colonie non riconobbero Giuseppe Bonaparte come sovra-
no. Venne così a mancare l’elemento unificante della composita realtà
dell’impero: il re. Ciò diede avvio a quel processo di trasformazione
dello spazio iberoamericano che porterà all’indipendenza di gran parte
delle colonie e attraverso il quale nuove istituzioni e nuove identità si
definirono con lentezza, nel corso di quasi vent’anni di lotte e oltre.1
Jeremy Adelman ha suggerito di analizzare le indipendenze ispano-
americane alla luce della competizione tra le potenze per l’egemonia
nello spazio atlantico, come una guerra civile scatenata e alimentata
da una guerra globale, nel cui contesto si sarebbero sviluppate diverse

1
Cfr. François-Xavier Guerra, Modernidad e independencias. Ensayo sobre
las revoluciones hispánicas, Madrid, Fundación Mapfre Tavera, 1992; Jai-
me E. Rodríguez Ordóñez, La independencia de la América española: una
reinterpretación, “Historia Mexicana”, vol. XLII, n. 3 (1993), p. 571-620;
Michael Costeloe, Response to Revolution. Imperial Spain and the Spanish
American Revolution (1810-1840), Cambridge, Cambridge University Press,
1986; José María Portillo Valdés, Crisis Atlántica. Autonomía e indepen-
dencia en la crisis de la monarquía hispanica, Madrid, Marcial Pons, 2006;
Anthony McFarlane, War, Revolution and Independence in Spanish America,
New York, Routledge, 2014.

25
percezioni dell’idea di sovranità sulla base di identità ancora largamen-
te imperiali.2 Marcela Ternavasio ha analizzato le reazioni al vuoto di
potere creatosi, sottolineando gli elementi di continuità di tali reazioni
con la tradizione politica e giuridica iberica, pur nella assoluta novità
delle circostanze e delle inquietudini da esse prodotte.3 Tale processo
di disgregazione va interpretato anche tenendo conto di quei sommo-
vimenti geopolitici che la crisi dell’impero spagnolo inevitabilmente
provocava, della rivalità tra le potenze nel concorrere a definire uno
spazio le cui sembianze future erano divenute pericolosamente incerte.4
Il tema dell’influenza britannica nell’America Spagnola durante le
guerre napoleoniche e nei primi anni di indipendenza è presente nei
documenti dell’epoca e dibattuto nella storiografia, anche in relazio-
ne alla categoria di “imperialismo informale” resa celebre da Ronald
Robinson e John Gallagher.5 Uno degli elementi discussi è il grado in
cui la presenza di mercanti e avventurieri britannici nelle Americhe –
che comprendevano aiutanti di campo dei libertadores, come Daniel
O’Leary e James Paroissien, e comandanti di flotta come Thomas Co-
chrane – sia almeno indirettamente collegabile a calcoli e strategie del
governo britannico.6 Un tema connesso è il grado di influenza degli

2
Jeremy Adelman, The Age of Imperial Revolutions, “The American Historical
Review”, vol. CXIII, n. 2, 2008, p. 328. Cfr. Jacques Godechot, Robert Palmer,
Le Problème de l’Atlantique du XVIIème au XXème Siècle, in Relazioni del X
Congresso Internazionale di Scienze Storiche, V, Firenze (1955), p. 175-239.
3
Cfr. Marcela Ternavasio, Gobernar la Revolución. Poderes en disputa en el
Río de la Plata, 1810-1816, Buenos Aires, Siglo Veintiuno, 2007.
4
Cfr. Rafe Blaufarb, The Western Question: The Geopolitics of Latin American
Independence, “The American Historical Review”, vol. CXII, n. 3 (2007), p.
742-763.
5
Cfr. Ronald Robinson, John Gallagher, The Imperialism of Free Trade, “Eco-
nomic History Review”, s. II, vol. VI, n.1 (1953), p. 1-15; Christopher Platt,
The Imperialism of Free Trade: Some Reservations, “Economic History Re-
view”, s. II, vol. XXI, n. 2 (1968), p. 296-306.
6
Cfr. Robert Humphreys, Liberation in South America, 1806-1827: the Ca-
reer of James Paroissien, London, The Athlone Press, 1952; Matthew Brown,
Adventuring through Spanish Colonies: Simón Bolívar, Foreign Mercenaries

26
agenti del governo britannico nelle Americhe, come consoli e ufficiali
della Marina, cui la distanza conferiva ampia libertà di iniziativa e che
avevano a disposizione un certo margine di manovra, una “zona grigia”
tra le azioni che potevano porre in atto e ciò che di esse sarebbe stato
esplicitamente sconfessato dal governo britannico. Queste azioni pote-
vano avere influenza determinante nel definire la politica latinoameri-
cana dell’Inghilterra.7 È il caso di iniziative non autorizzate delle quali
il governo britannico era informato, ma che non ostacolava, in quanto
coerenti con gli interessi britannici, anche se non sempre con la politica
ufficiale britannica.
Tenendo conto di questi elementi, si vogliono qui analizzare nel
contempo l’influenza di alcuni agenti britannici sul processo che portò
all’indipendenza del 1816 e le iniziative argentine connesse. Si tratta
delle negoziazioni transatlantiche all’origine dell’indipendenza.

La crisi della monarchia spagnola e lo sguardo del War Office


sull’America del Sud

Dopo l’ascesa al trono di Giuseppe Bonaparte e la nascita della resi-


stenza antifrancese in Spagna, una delle principali preoccupazioni della
Gran Bretagna divenne quella di evitare che le colonie spagnole finisse-
ro anch’esse sotto il dominio francese.8

and the Birth of New Nations, Liverpool, Liverpool University Press, 2006;
Brian Vale, Cochrane in the Pacific: Fortune and Freedom in Spanish Amer-
ica, London-New York, I. B. Tauris, 2008; Andrés Baeza, Britain and Chile
in the Independence Era: A Cultural History, Tesi di dottorato, Università di
Bristol, 2016.
7
Rory Miller, Britain and Latin America in the XIXth and XXth centuries,
London, Longman, 1993, p. 48.
8
Cfr. Henry Ferns, Britain and Argentina in the Nineteenth Century, Oxford,
Clarendon Press, 1960, p. 17-51; John Street, Gran Bretaña y la independencia del
Río de la Plata, Buenos Aires, Paidós, 1967; Klaus Gallo, Great Britain and Argenti-
na: From Invasion to Recognition, 1806-1826, New York, San Martin’s Press, 2001.

27
Il governo britannico aveva precedentemente intessuto rapporti con
indipendentisti ispano-americani, come il caraqueño Francisco de Mi-
randa. Nel 1804, Miranda e Home Popham, commodoro della Marina
britannica, avevano preparato per Pitt il Giovane un piano per attaccare
e rendere indipendenti le colonie di Tierra Firme e La Plata. Nel 1806
Miranda aveva guidato una spedizione in Venezuela, che, come in se-
guito scrisse il ministro della Guerra Lord Castlereagh, aveva ricevu-
to dall’Inghilterra sostegno sufficiente per condividere con Miranda lo
smacco del suo fallimento, ma non per muovere gli americani a correre
il rischio della ribellione.9 Contemporaneamente Popham, forse ese-
guendo un ordine verbale di Pitt, aveva indirizzato un attacco vittorioso
contro Buenos Aires, che aveva fruttato un ricco bottino.10 Tuttavia, le
forze britanniche erano state respinte dopo alcune settimane, non aven-
do trovato appoggio nell’élite porteña.
In seguito a questi eventi, Castlereagh aveva affermato, in un memo-
randum di Gabinetto, che, nel caso in cui l’evoluzione della guerra in
Europa avesse minacciato gli interessi vitali della Gran Bretagna, l’emer-
genza avrebbe imposto di appoggiare in modo decisivo l’emancipazione
delle colonie spagnole in America, preferibilmente sulla base di un accor-
do previo con i sostenitori dell’indipendenza per stabilire nei nuovi stati
un regime monarchico.11 Quando il trattato di Tilsit e i decreti di Milano,
9
Charles, Lord Londonderry, Memoirs and Correspondence of Viscount
Castlereagh, 12 vol.; vol. VII, London, William Shoberl, 1951, p. 315, 319;
Cfr. Ian Fletcher, The Waters of Oblivion. The British Invasion of the Rio de
la Plata, 1806-1807, Royal Tunbridge Wells, Spellmount, 1991, p. 14-17; Ka-
ren Racine, Francisco de Miranda. A Transatlantic Life in the Age of Revolu-
tion, Wilmington, Scholarly Resources, 2003, p. 141-172; Carmen Bohórquez-
Morán, Francisco de Miranda. Precursore delle indipendenze dell’America
Latina, Roma, Nuova Cultura, 2010 (edizione spagnola 2006), p. 259.
10
Home Popham, A Full and Correct Report of the Trial of Sir Home Popham,
London, 1807, p. 14, 93; Cfr. J. Street, Gran Bretaña y la independencia, p.
27-54; Klaus Gallo, Las invasions inglesas, Buenos Aires, Eudeba, 2004; John
Grainger, The British Campaigns in South Atlantic 1805-1807, Barsley, Pen &
Sword Books, 2015, p. 69-89, 128.
11
C., Lord Londonderry, Memoirs and Correspondence, vol. VII, p. 314-324.

28
combinati all’embargo di Jefferson, minacciarono di impedire, insieme al
commercio britannico con l’Europa e gli Stati Uniti, l’accesso indiretto
all’argento ispanoamericano – ancor più strategico nel contesto di penu-
ria di metalli preziosi che interessava la Banca d’Inghilterra – e quando
le truppe francesi invasero la Spagna, il timore che le ricchezze america-
ne venissero monopolizzate dal nemico spinse Castlereagh a far allestire
una spedizione per attaccare e rendere indipendenti le colonie spagnole.12
Questa, con a capo Arthur Wellesley, il futuro Lord Wellington, salpò in-
vece verso la Penisola Iberica, in risposta a una richiesta di aiuto e allean-
za da parte delle giunte anti-francesi in Spagna e con l’ordine di trasferire
le truppe nell’America Spagnola solo in caso di sconfitta in Europa.13
Dopo le abdicazioni dei Borbone, la principessa Carlotta Gioacchina,
sorella del deposto re di Spagna e moglie del Principe Reggente del Por-
togallo, da poco rifugiatosi a Rio de Janeiro sotto la protezione britannica,
si propose come reggente dell’America Spagnola contro l’“usurpatore”
Bonaparte. Era stata incoraggiata e sostenuta in tale iniziativa dall’am-
miraglio britannico William Sidney Smith, che si comportava come un
agente di Castlereagh. Anche l’inviato di Castlereagh in America del Sud,
James Burke, e il parente e informatore di Castlereagh, Robert Staples,
appoggiarono la proposta carlotista. Il partito della principessa era ini-
zialmente formato da rioplatensi in esilio a Rio de Janeiro, che in alcuni

Cfr. H. Ferns, Britain and Argentina, p. 46-51.


12
C., Lord Londonderry, Memoirs and Correspondence, vol. VII, p. 319, 442-
448, vol. VIII p. 98-100. Sull’acquisto di argento americano da parte dell’In-
ghilterra e sul commercio dei neutrali, si vedano: Guadalupe Jiménez Codi-
nach, Veracruz, almacén de plata en el Atlántico. La Casa Gordon y Murphy,
1805-1824, “Historia Mexicana”, vol. XXXVIII, n. II (1988), p. 325-353;
Adrian Pearce, The Hope-Barings Contract: Finance and Trade Between Eu-
rope and the Americas, 1805–1808, “The English Historical Review”, vol.
CXXIV, n. DXI (2009), p 1324-1352; Javier Cuenca-Esteban, British ‘Ghost’
Exports, American Middlemen and the Trade to Spanish America, 1790-1819,
“The William and Mary Quarterly”, vol. LXXI, n. I (2014), p. 63-98.
13
Robert Sutcliffe, British Expeditionary Warfare and the Defeat of Napoleon,
1793-1815, Woodbridge, Boydel & Brewer, 2016, p. 186 e seguenti.

29
casi avevano parteggiato per gli invasori nel 1806, e dai loro contatti in
patria, oltre che da alcuni inglesi, come James Paroissien, futuro aiutante
di campo del libertador José de San Martín.14 Marcela Ternavasio ha so-
stenuto in modo convincente che il governo britannico non appoggiasse
questi piani.15 Tuttavia, l’interpretazione di John Street, secondo la quale
Castlereagh considerò per qualche tempo l’espansione portoghese nella
regione del Plata come un’opzione valida per rafforzare l’alleanza anti-
francese, sembra confermata dalle azioni dei suoi agenti.16
Nel 1808 Buenos Aires si dichiarò fedele ai Borbone, così come le
altre colonie spagnole. Castlereagh aveva fatto sapere al partito indi-
pendentista locale che l’Inghilterra avrebbe sostenuto l’emancipazione
della colonia solo in caso di sconfitta definitiva delle forze antifrancesi
in Spagna.17 È noto che la Rivoluzione di Maggio, nel 1810, venne in
parte provocata dall’arrivo di notizie catastrofiche dalla Spagna, ormai
quasi interamente in mani francesi. Anche i mercanti britannici, stabi-
litisi a Buenos Aires in quegli anni, avevano buoni motivi per deside-
rare un cambiamento. Nel novembre del 1809 il viceré Cisneros aveva

14
R. Humphreys, Liberation in South America, p. 27-31; Deborah Besseghini,
Commercio britannico e imperialismo informale in America Latina. Robert
P. Staples tra Río de la Plata, Perù e Messico (1808-1824), Tesi di dottorato,
Università di Trieste, 2016, p. 109-164.
15
Marcela Ternavasio, Candidata a la corona: la infanta Carlota Joaquina
en el laberinto de las revoluciones hispanoamericanas, Buenos Aires, Siglo
Veintiuno, 2015, p. 62-71.
16
Kew, Regno Unito, The National Archives, da qui in poi indicato con la sigla
TNA, FO 63/59, Strangford a Canning, 26 luglio 1808; FO 72/81, Narrative of
Col. Burke; FO 72/157, Staples a Castlereagh, 20 gennaio, 2 giugno 1810; C.,
Lord Londonderry, Memoirs and correspondence, vol. VI, p. 357-358, vol. VIII,
p. 99; J. Street, Gran Bretaña y la independencia, p. 99-100. L’ammiraglio Si-
dney Smith avrebbe confidato in seguito alla principessa che le sue iniziative in
Brasile erano state conformi alla volontà di Castlereagh, che, va detto, solo nel
dicembre del 1808 gli aveva comunicato che la Gran Bretagna non intendeva
immischiarsi in dispute di successione tra i Borbone (M. Ternavasio, Candidata
a la corona, p. 64; TNA FO 72/91, Smith a Castlereagh, 24 febbraio 1809).
17
Ivi, Castlereagh a Smith e Castlereagh a Burke, 4 agosto 1808.

30
permesso il commercio diretto con l’Inghilterra, ma a condizioni tali da
rendere assai difficile esercitarlo senza ricorrere al contrabbando. Gli
inglesi avevano conseguentemente ricevuto l’ordine di lasciare la città,
dopo vari rinvii, entro il 26 maggio 1810. Nei caffè di Buenos Aires
alcuni inglesi parlavano ormai da tempo apertamente contro il viceré.18
Tutti questi elementi concorsero alla rivoluzione che il 25 maggio depo-
se Cisneros e istaurò una giunta autonoma dal governo di Cadice.19 Gli
inglesi ottennero subito dal nuovo governo la garanzia di poter restare.20

Il difficile equilibrio inglese tra la Spagna e l’America

Stabilita su basi più certe la sua presenza commerciale sul Río de


la Plata, la Gran Bretagna aveva interesse a mantenerla, perché aveva
bisogno dell’argento americano e perché il commercio era un mezzo
per cementare localmente quella comunanza di interessi che poteva ar-
ginare l’espansione, anche informale, della Francia e degli Stati Uniti e
consentire la presenza di navi armate britanniche in un punto strategi-
co dell’Atlantico del Sud. Vennero dunque avviati contatti con il nuovo
regime, ma Londra non rispose ufficialmente alle comunicazioni della
Giunta sulla deposizione di Cisneros.21 Era nel frattempo divenuto prio-
18
TNA FO 72/107, Mackinnon a Canning, 4 febbraio, 12 agosto 1810; FO
63/85, Mackinnon et. al. a Strangford, 9 settembre 1810. Cfr. J. Street, Gran
Bretaña y la independencia, p. 162. Nel suo libro, John Street segue la disputa
tra i mercanti e Cisneros solo fino a febbraio del 1809, quando, per un momen-
to, essa sembrava essersi risolta. La disputa si riacutizzò in marzo e l’ordine di
espulsione venne confermato in aprile. Si veda anche: Gerald Graham, Robert
Humphreys, The Navy and South America, 1807-1823, London, Navy Records
Society, 1962, p. 46.
19
TNA FO 72/157, Staples a Catlereagh, 2 giugno 1810.
20
TNA ADM 1/1807, Fabian a Croker, 29 maggio 1810.
21
Cfr. Charles Webster, Britain and the Independence of Latin America, 1812-1830,
2 vol.; vol. I, Oxford, Oxford University Press, 1938, p. 8-13; Eugene Craine, The
United States and the Independence of Buenos Aires, “The Fort Hays Studies”, n. 2
(1961), numero monografico, p. 27-29; G. Graham, R. Humphreys, The Navy and

31
ritario, infatti, scalfire il predominio napoleonico in Europa sconfiggendo
i francesi nella Penisola Iberica, dove la Spagna antifrancese resisteva.
Quando nel 1811 Robert Staples, che aveva legami personali e politi-
ci con Castlereagh e con la famiglia Wellesley, venne nominato conso-
le britannico sul Río de la Plata, l’exequatur venne richiesto al governo
antifrancese in Spagna, non a quello di Buenos Aires. La Gran Bretagna
intendeva assicurarsi il commercio con la regione attraverso un accordo
con il governo di Cadice, che però non era disponibile in tal senso e non
concesse l’exequatur a Staples. Costui venne quindi sollecitato a chie-
derlo al governo di Buenos Aires, che non lo concesse, ponendo come
condizione del riconoscimento di Staples l’arrivo delle tanto attese ri-
sposte ufficiali britanniche alle comunicazioni inerenti la Rivoluzione di
Maggio.22
Nel luglio del 1812 si registrò il fallimento della prima e più impor-
tante proposta di mediazione britannica tra la Spagna antifrancese e le co-
lonie di fatto indipendenti, avvenuto anche per il rifiuto spagnolo di con-
cedere alla Gran Bretagna di commerciare con il Messico nella fase delle
trattative, e quindi di accedere più direttamente alle sue risorse minera-
rie. La Spagna, infatti, riteneva di poter controllare gli insorti messicani.
Guadalupe Jiménez Codinach sostiene che da allora la Gran Bretagna
abbia adottato un atteggiamento più amichevole nei confronti delle colo-
nie “ribelli”, e dunque più ambiguo nei confronti della Spagna. Tuttavia,
Londra non abbandonò il proposito della mediazione: ufficialmente fino
agli anni Venti, di fatto fino alla constatazione dell’indisponibilità di Fer-
dinando VII, una volta tornato sul trono di Spagna, a scendere a compro-
messi con gli indipendentisti.23 La Gran Bretagna intendeva favorire un

South America, p. 47-70; J. Street, Gran Bretaña y la independencia, p. 166-178;


William Robertson, France and Latin American Independence, New York, Octa-
gon Books, 1967 [1939], p. 73, 82-95; Id., Hispanic American Relations with the
United States, New York, Oxford University Press, 19692 [1923], p. 26.
22
D. Besseghini, Commercio britannico e imperialismo informale, p. 207-219.
23
Guadalupe Jiménez Codinach, La Gran Bretaña y la independencia de
México, 1808-1821, México, Fondo de Cultura Económica, 1991, p. 121; J.
Street, Gran Bretaña y la independencia, p. 122, 173. Cfr. David Waddell,

32
cambiamento che le consentisse di commerciare stabilmente con le co-
lonie. Un loro distacco formale dalla madrepatria in questo periodo non
era necessariamente la migliore soluzione e anzi avrebbe potuto portare
questi territori, per citare Castlereagh, “a divenire preda delle ambizioni
di compatrioti e invasori, dopo anni di guerre civili e disordini interni”.24
Sempre nel luglio del 1812 Castlereagh, ora ministro degli Esteri, in-
contrò a Londra Manuel Moreno, fratello dell’inviato rioplatense Maria-
no, deceduto in viaggio. Buenos Aires veniva così messa al corrente di
un’ulteriore proposta britannica per una mediazione tra Cadice e le co-
lonie, che garantisse loro sostanziale autonomia all’interno dell’impero,
evitando il ritorno allo status quo ante. Si esprimeva inoltre rammarico
per il fatto che il silenzio di Londra fosse stato interpretato a Buenos Ai-
res come segno di disinteresse per il destino della regione e che si fossero
nel frattempo affermati “altri punti di vista e altre relazioni”.25
Nelle informative che riceveva il Foreign Office in questo periodo
(ma toni simili si trovano anche nella corrispondenza dell’Ammiraglia-
to) si sottolineava, infatti, che in assenza di risposte da parte britannica
Buenos Aires stava costruendo più stretti legami con gli Stati Uniti e
forse con la Francia, che disponeva di agenti nelle Americhe. La ditta
Hullett Brothers, per esempio, in agosto suggerì al governo britannico,
attraverso Staples, di recuperare l’influenza persa dopo il 1811 appro-
fittando del prestigio guadagnato da Lord Strangford, l’ambasciatore
inglese a Rio de Janeiro, per la firma del trattato Rademaker-Herrera
tra Buenos Aires e il Portogallo e di contrastare attraverso l’azione di
un agente del governo britannico l’influenza che gli Stati Uniti si erano
guadagnati con la vendita di forniture militari.26

International Politics and Latin American Independence, in The Cambridge


History of Latin America, 11 vol.; vol. III, Ed. Leslie Bethell, Cambridge,
Cambridge University Press, 1985, p. 197-228.
24
C. Webster, Britain and the Independence of Latin America, p. 84. La tradu-
zione del passo dall’originale inglese è dell’autrice, come tutte le successive da
fonti in inglese e in spagnolo.
25
TNA FO 72/157, ff. 102-106v, Moreno a Castlereagh, 5 luglio 1812.
26
Ivi, Hullett a Staples, 20 agosto 1812; D. Besseghini, Commercio britannico

33
Poche settimane dopo cominciarono ad arrivare notizie catastro-
fiche dal Venezuela, che aveva dichiarato l’indipendenza nel 1811
sotto gli auspici di Miranda. Lo stesso Miranda era stato costretto a
capitolare ed era prigioniero degli spagnoli. Gli indipendentisti erano
vittime di una feroce repressione e molti presero la via dell’esilio.
Alcuni chiesero sostegno economico al governo britannico. L’invia-
to colombiano implorava l’Inghilterra di usare la sua influenza sulla
Spagna per favorire un’amnistia.27 Castlereagh si trovava di fronte
proprio quella condizione generalizzata di anarchia e guerra civile in
America meridionale che aveva dipinto come il peggiore tra i pos-
sibili risultati dell’appoggio ai movimenti di indipendenza nel suo
memorandum del 1807. L’unica regione dell’America Spagnola in
cui la Gran Bretagna poteva ancora esercitare la sua influenza, e di
qui tentare forse di indirizzare gli eventi nel resto delle Americhe, era
il Río de la Plata.
Nel 1813, dopo un lungo soggiorno a Londra, Robert Staples tornò
a Buenos Aires. Vi tornò come incaricato ufficiale del Tesoro britanni-
co per l’acquisto di oro e argento (funzione simile a quella che aveva
avuto Thomas Murphy in Messico qualche anno prima), non potendovi
risiedere ufficialmente come console, in assenza di una chiara presa di
posizione dell’Inghilterra a favore dell’indipendenza. La missione di
Staples fruttò al Tesoro britannico £230.229 in monete d’oro e argento,
e lingotti, trasportati dalla Marina britannica. Da allora, Staples esercitò
de facto anche le funzioni di console, venne informalmente accettato
come tale dai successivi governi rioplatensi e rimase in contatto costan-
te con il Foreign Office.28

e imperialismo informale, p. 219-258. Cfr. E. Craine, The United States, p. 28-


29; W. Robertson, France and Latin American Independence, p. 73.
27
TNA 72/157 Miranda a Wellesley, 2 giugno 1812; Molina a Hamilton, 4
settembre 1812; López Méndez a Castlereagh, 12 ottobre, 14 ottobre, 28 no-
vembre 1812; FO 72/178, 11 maggio 1814; K. Racine, Francisco de Miranda,
p. 211-242; C. Bohórquez-Morán, Francisco de Miranda, p. 292-318.
28
D. Besseghini, Commercio britannico e imperialismo informale, p. 220-242;
G. Jiménez Codinach, La Gran Bretaña y la independencia, p. 237-239.

34
Nel novembre di quell’anno Manuel García, ministro delle Finanze,
comunicò al capitano William Bowles della Marina britannica che, in
conformità coi desideri dell’ambasciatore Strangford, sarebbe stato in-
viato in Inghilterra un agente rioplatense. Buenos Aires e Londra avreb-
bero così comunicato, come scrisse il direttore supremo del Río de la
Plata, Gervasio de Posadas, “attraverso agenti il cui carattere rimarrà
riservato finché saranno in vigore gli impegni presi dall’Inghilterra”
con la Spagna.29 La scelta cadde su Manuel de Sarratea, che partì con
la stessa nave sulla quale era appena arrivato Staples.30 È possibile che
tale iniziativa sia stata almeno parzialmente il frutto delle conversazio-
ni che Castlereagh aveva avuto a Londra con Staples e dalle quali era
scaturita la decisione di rimandare l’agente britannico a Buenos Aires.
Sarratea era un commerciante con legami in Spagna, Gran Breta-
gna e Stati Uniti, cognato del defunto viceré Liniers, membro di un
precedente governo e già inviato in Brasile presso Strangford. La sua
missione aveva lo scopo di difendere, se possibile attraverso un accor-
do con la Spagna, l’autonomia di Buenos Aires in vista del probabile
ritorno di Ferdinando VII sul trono, evitando per ora il distacco formale
dalla madrepatria. Sarratea aveva anche l’incarico di comperare armi in
Inghilterra. “Si vis pacem para bellum”, scriveva al direttore Posadas.

Zone grigie nell’azione degli agenti britannici a Buenos Aires e di


Sarratea a Londra

Registrata l’indisponibilità al compromesso da parte del re, Sarratea


lavorò in sinergia con i liberali spagnoli in esilio per contribuire a orien-
tare l’opinione pubblica britannica contro la Spagna. A questo scopo
pagava alcuni giornalisti, come William Walton, che negli anni seguenti
risulta essere in contatto con i soci di Staples a Londra, che in alcuni

29
Buenos Aires, Archivo General de la Nación Argentina, da qui in poi indica-
to con la sigla AGNA X 1-1-2, Posadas a Sarratea, 19 novembre 1813.
30
G. Graham, R. Humphreys, The Navy and South America, p. 118.

35
casi lo finanziarono.31 Il trattato di alleanza tra Regno Unito e Spagna
del 1814 vietava la fornitura di aiuti militari alle colonie “ribelli”. Per
esportare armi dall’Inghilterra Sarratea ricorreva dunque a espedienti,
quali la corruzione di funzionari della dogana. Sappiamo che tali com-
merci erano intrapresi da ditte britanniche attraverso prestanome prez-
zolati, ma non con certezza quali fossero queste ditte. Sappiamo, però,
che tra i maggiori destinatari di carichi di armi a Buenos Aires vi erano
i soci della ditta di John McNeile, amico di famiglia di Robert Staples
e suo socio in affari.32 Sarratea, inoltre, sosteneva finanziariamente al-
cuni indipendentisti in Inghilterra, come il venezuelano Andrés Bello e
Servando Teresa de Mier, che stava contribuendo a organizzare, con il
sostegno di alcuni capitalisti inglesi legati all’opposizione (parlamen-
tari come Henry Brougham e affaristi come Edward Ellice e Hullett,
con cui erano in stretta relazione anche Thomas Kinder e McNeile, i
principali soci di Staples), la spedizione di Xavier Mina in Messico.33
Sarratea contribuiva insomma a finanziare l’indipendenza delle Ameri-
che, mentre ufficialmente cercava di trattare con la Spagna.
Nelle sue lettere al direttore Posadas, Sarratea aveva chiarito che
la sconfitta di Napoleone e l’apertura del Congresso di Vienna aveva-
no reso ancor più importante per la Gran Bretagna mantenere buoni
rapporti con la Spagna, per evitare un suo avvicinamento eccessivo ad
altre potenze. Non era dunque possibile che nell’immediato Londra uf-
ficializzasse i rapporti con Buenos Aires, nominando un rappresentante
diplomatico o un inviato plenipotenziario.34 Lo scambio di agenti rima-

31
D. Besseghini, Commercio britannico e imperialismo informale, p. 267-268,
413.
32
Rafael Demaría, Historia de las armas de fuego en la Argentina, 1530-1852,
Buenos Aires, Cabargon, 1972, p. 239-243.
33
G. Jiménez Codinach, La Gran Bretaña y la independencia, p. 298-303;
Malyn Newitt, War, Revolution and Society in the Rio de la Plata, 1808-1810,
Oxford, Signal, 2010, p. 4, 9-10; AGNA X 2-1-1, Sarratea a Álvarez Thomas,
15 novembre 1815; Buenos Aires, Museo Mitre, Archivo San Martín, Rollo 14,
Price a San Martín, 6 luglio 1818.
34
AGNA X 2-1-1, Sarratea a Posadas, 20 agosto 1814.

36
se informale e Londra non chiese più il riconoscimento della nomina a
console di Staples, che esercitò tale ruolo solo ufficiosamente.35 Sarra-
tea era però in contatto coi circoli governativi britannici e riceveva le
comunicazioni di Posadas da Buenos Aires attraverso il sottosegretario
William Hamilton, al Foreign Office.36
Un contributo cruciale alla sopravvivenza del regime di Buenos Ai-
res lo diedero i mercanti britannici nel 1814, vendendo armi e navi per
la flotta che attaccò Montevideo, città fedele a Cadice, comprese una
nave di Staples e una della Marina britannica.37 Sarratea accolse la noti-
zia della conquista di Montevideo sospendendo le attività a favore di un
accordo con la Spagna, che non riteneva più urgente.38 La possibilità di
ottenere con tale accordo l’autonomia per le colonie sarebbe però svani-
ta del tutto se Montevideo fosse rimasta spagnola. Per usare le parole di
Sarratea, “una condizione di notoria debolezza preclude qualsiasi pos-
sibilità di negoziare vantaggiosamente”39. Chiusa la guerra in Europa,
infatti, avrebbe potuto essere relativamente semplice per la Spagna ri-
conquistare Buenos Aires concentrando nella vicina Montevideo forze
sufficienti per attaccare. La Spagna aveva già manifestato chiaramente
questa intenzione e non quella di aprire un negoziato.40
Il capitano Bowles, massima autorità navale britannica sul Río de la
Plata, scelse di non ostacolare quello che formalmente era un attacco
contro un’alleata della Gran Bretagna, la spagnola Montevideo, anche
per consentire ai mercanti britannici di fare ottimi affari con l’arma-
mento della flotta bonaerense, che produsse parte delle monete e dei

35
AGNA X 1-3-11; TNA FO 72/157, 72/171, 72/215.
36
TNA FO 72/171, Bowles a Hamilton, 15 giugno; Staples a Hamilton, 10
agosto 1814; AGNA X 2-1-1, Sarratea a Posadas, 25 luglio 1814.
37
D. Besseghini, Commercio britannico e imperialismo informale, p. 242-258.
38
AGNA X 2-1-1, Sarratea a Posadas, 9 ottobre 1814.
39
Ivi, Don Manuel de Sarratea al Gobierno sobre gastos ordinarios extraor-
dinarios y secretos.
40
Nel 1813 erano state inviate truppe a Montevideo (Marzia Rosti, Come la
Spagna perse l’America. La Spagna di fronte all’indipendenza delle proprie
colonie sudamericane, 1800-1840, Milano, Unicopli, 1996, p. 87).

37
lingotti che Bowles avrebbe trasportato in Inghilterra a fine anno, a co-
ronamento della missione di Staples per il Tesoro. Venne lodato dai suoi
superiori per la gestione della crisi e rimandato a Buenos Aires dopo un
soggiorno in Inghilterra, durante il quale fu in contatto con Sarratea.41

La crisi della politica del compromesso di fronte al rischio del


ritorno al passato

Sul finire del 1814, su consiglio di Strangford, Bernardino Riva-


davia e Manuel Belgrano vennero inviati presso Ferdinando VII per
congratularsi per il suo ritorno al trono e ottenere il riconoscimento
dell’autonomia di Buenos Aires. Tuttavia, quando giunsero in Europa,
a maggio, era già salpata da Cadice una spedizione contro le colonie e i
due rimasero a Londra.42
Nel gennaio precedente, mentre giungevano le prime notizie sull’al-
lestimento della spedizione spagnola e quando già si sapeva della cadu-
ta del regime indipendente cileno (la Patria Vieja), riconquistato dalle
forze del viceré del Perù, maturò la scelta del direttore supremo Carlos
María de Alvear di mandare una comunicazione segreta a Castlereagh,
nella quale si chiedeva un protettorato britannico su Buenos Aires. Pare
improbabile che Alvear abbia preso una simile decisione senza essersi
prima consultato con Staples, l’agente del governo britannico, i cui le-
gami personali con Castlereagh erano ben noti a Buenos Aires e con il
quale Alvear era in buoni e frequenti rapporti. La decisione non giunse
comunque inaspettata al Foreign Office, che ricevette copia della lettera
di Alvear da Staples.43 Dalla stessa fonte, infatti, il Foreign Office aveva
41
AGNA X 2-1-1, Sarratea a Posadas, 25 luglio 1814; G. Graham, R. Hum-
phreys, The Navy and South America, p. 111, 126, 133, 137, 139.
42
Emilio Ravignani, Comisión de Bernardino Rivadavia ante España y otras
potencias de Europa, 1814-1820, Buenos Aires, Imprenta de la Universidad, 2
vol., vol. I, 1936, p. 15, 32.
43
Come notato da Bartolomé Mitre e come possiamo confermare, anche se il
documento riporta una data diversa da quella riportata da Mitre. Si vedano:

38
ricevuto nei mesi precedenti comunicazioni nelle quali si descriveva
l’orientamento del partito al potere a Buenos Aires ad accettare un do-
minio straniero che lo proteggesse dalla riconquista spagnola.44 Non
sappiamo come e se il Foreign Office abbia reagito a queste comuni-
cazioni. Sembrerebbe, in ogni caso, che la lettera di Alvear non abbia
mai raggiunto Castlereagh ufficialmente. Il documento venne portato a
Londra da Rivadavia, ma non venne consegnato né aperto. Riemerse
solo anni dopo. Si può ipotizzare che sia stato scritto con l’intento di
fornire alla Gran Bretagna un pretesto per intervenire nel caso in cui la
Spagna avesse attaccato Buenos Aires, cosa che non accadde, poiché la
spedizione venne mandata contro Venezuela e Nuova Granada.45
Nel frattempo l’iniziativa delle missioni diplomatiche era divenuta
un’arma nelle mani dei nemici di Alvear, che cominciarono a dipingerla
come un tradimento degli sforzi compiuti nelle guerre contro i parti-
giani di Cadice. Conseguentemente, una “crisi locale”, frutto almeno
parziale dell’influenza britannica, allontanò Alvear dal potere.46 Staples
e Strangford sollecitarono allora un cambio di strategia da parte di Lon-
dra, ma fu la mancata disponibilità della Spagna ad aderire al compro-
messo promosso in più forme dalla Gran Bretagna, non questa crisi,
a spingere la Gran Bretagna a favorire informalmente l’indipendenza
delle colonie negli anni seguenti.
La politica ufficiale di neutralità non era più sufficiente, se mai lo era
stata, a tutelare gli interessi britannici e divenne sempre più una politica
di facciata. Falliti i tentativi di mediazione e svanite le speranze legate al
ritorno del re, non restavano che l’indipendenza o la riconquista. La Gran
Bretagna non poteva aiutare la Spagna nella riconquista, nemmeno in cam-
bio di quei privilegi commerciali che la Spagna finì col proporle nel 1815,

TNA 72/178, Staples a Hamilton, 24 marzo 1815; Bartolomé Mitre, Historia


de Belgrano y de la independencia argentina, 3 vol., vol. II, Buenos Aires, F.
Lajouane, 1887, p. 297 nota.
44
TNA FO 72/171, Staples a Hamilton, 8 maggio, 10 agosto 1814.
45
AGNA X 2-1-1, Sarratea a Álvarez Thomas, 13 novembre 1815.
46
Cfr. Ronald Robinson, John Gallagher, Africa and the Victorians: The Offi-
cial Mind of Imperialism, London, Palgrave Macmillan, 1961.

39
perché ciò avrebbe danneggiato irreparabilmente le relazioni costruite dai
britannici nelle società ispanoamericane, messo in pericolo le vite e le pro-
prietà dei britannici nelle province “ribelli” e forse spinto gli Stati Uniti a
intervenire più profondamente nella contesa. Soprattutto, una tale scelta
avrebbe visto l’opinione pubblica britannica (alla quale non a caso Sarratea
aveva dedicato tanta attenzione) nettamente contraria, come la stampa e i
dibattiti parlamentari del periodo mostravano al mondo.47 La Gran Breta-
gna, allo stesso tempo, non poteva rinunciare a essere, pur indirettamente,
un attore in gioco, anche per evitare che altre potenze – gli Stati Uniti, certo,
ma si temevano anche la Francia e la Russia –48 intervenissero in America
contro i suoi interessi. Peraltro, notava Strangford, se avessero vinto, gli
indipendentisti si sarebbero ricordati se la Gran Bretagna li aveva aiutati,
oppure no.49 Sostenere informalmente le indipendenze rappresentava l’in-
vestimento più razionale per Londra, in quel momento.
La spedizione spagnola comandata da Pablo Morillo stava nel frattempo
abbattendo in Costa Firme quel che restava dell’esperienza indipendentista
riattivata da Simón Bolívar nel 1813. Ne risultò una guerra che durò anni
e che avrebbe portato Bolívar a liberare la Nuova Granada e il Venezuela,
per poi raggiungere le forze di San Martín in Perù. Presa Cartagena de
Indias, Morillo aveva permesso il commercio con tutte le nazioni, ammet-
tendo però solo navi dell’impero spagnolo. Questa soluzione sarebbe stata
proposta anche per Buenos Aires a Rivadavia, durante le sue trattative con
la Spagna, e non risultava accettabile per ragioni evidenti: non lo era per
l’Inghilterra, che aveva una possente marina mercantile, e non lo era per
Buenos Aires, che ormai ne aveva una ben esigua.50

47
AGNA X 2-1-1, Sarratea a Álvarez Thomas, 13 novembre 1815.
48
Cfr. W. Robertson, Hispanic America Relations with the United States, p.
26-31; Id., France and Latin American Independence, p. 163-171; R. Blaufarb,
The Western Question, p. 742-763; Russell Bartley, Imperial Russia and the
Struggle for Latin American Independence, 1808-1828, Austin, University of
Texas Press, 1978.
49
C. Webster, Britain and the Independence of Latin America, p. 84-100; TNA
FO 72/178, Staples a Hamilton, 10 maggio e 10 giugno 1815.
50
E. Ravignani, Comisión de Bernardino Rivadavia, p. 152.

40
La negligenza benevola inglese e la “zona franca” per gli agenti
rioplatensi

Sarratea stava cercando di far accettare all’Europa della Restaura-


zione la prospettiva dell’indipendenza assoluta, proponendo di inco-
ronare un principe di casa Borbone a Buenos Aires. L’idea era stata
proposta al Gabinetto britannico da Castlereagh nel suo memorandum
del 1807. Sarratea cercò di mettere in pratica un progetto simile, anche
se non identico, con il cosiddetto negocio de Italia, offrendo il trono
di Buenos Aires a un fratello minore di Ferdinando VII. I fondi della
missione Sarratea, finanziati anche da Staples e dai suoi soci attraverso
la ditta londinese Hullett Brothers,51 vennero dunque generosamente
utilizzati per pagare i viaggi a Roma del conte Cabarrús, figlio del cele-
bre banchiere. Qui viveva Carlo IV, cui il figlio aveva sottratto il trono
di Spagna nel 1808. Secondo i piani di Sarratea, Carlo avrebbe dovuto
chiedere alle potenze riunite a Vienna di sostenere la sua decisione di
dividere tra i figli il regno, del quale taluni lo consideravano ancora legit-
timo sovrano. Questo avrebbe garantito l’indipendenza di Buenos Aires
come monarchia con a capo un Borbone. Tuttavia, dopo la battaglia di
Waterloo, la famiglia reale non volle più mettersi contro Ferdinando.
Nel 1816 Rivadavia si trovava a Madrid per proporre, senza appa-
rente autorizzazione, che la Spagna nominasse un Borbone come viceré
a Buenos Aires, soluzione che non avrebbe portato all’indipendenza
formale della colonia. Sarratea da Londra si serviva invece di Cabarrús
in Spagna per far naufragare questa trattativa, che era probabilmente un
bluff per ritardare l’allestimento di una nuova spedizione contro Bue-
nos Aires. È da ricordare che i poteri di Rivadavia erano stati revocati
nel 1815, mentre nuovi poteri gli sarebbero giunti provvidenzialmente
in ritardo, il 10 luglio 1816, il giorno dopo la dichiarazione di indipen-
denza e mentre lasciava la Spagna.52

51
D. Besseghini, Commercio britannico e imperialismo informale, p. 369-371.
52
Ivi, p. 272-275, 369; E. Ravignani, Comisión de Bernardino Rivadavia, p.
34, 133-167.

41
Poco dopo, Rivadavia confidò al nuovo Direttore Supremo, Juan
Martín de Pueyrredón:

Le dirò solo che gli Spagnoli contavano tristemente molto sulla forza
irresistibile delle loro promesse di cariche e onori ed erano convinti che
la loro abilità politica fosse superiore a quella degli americani in modo
proporzionale all’età loro e nostra. Tuttavia, sull’uno e sull’altro aspetto,
hanno ricevuto una lezione di disinganno piuttosto sonora.53

Alla fine del 1815, Sarratea aveva scritto al Direttore Supremo che
la scelta spagnola di riconquistare militarmente le colonie avrebbe po-
tuto provocare interventi di altre potenze, Inghilterra compresa. Sarratea
sospettava, infatti, che una spedizione preparata a Cork, nello stesso pe-
riodo in cui Morillo salpava da Cadice, fosse stata pianificata per essere
diretta contro il Sud America. Era inoltre in possesso di informazioni ri-
servate su un piano inglese per conquistare avamposti nelle Americhe in
caso di guerra con la Spagna. Riportava, infine, le voci che circolavano
in Europa su un possibile scambio tra le potenze di territori europei con
territori americani. Si riferiva alla possibilità che Madrid scambiasse con
la corte dei Braganza il Río de la Plata con il Portogallo, idea che avreb-
be preso effettivamente corpo nel 1817, dopo la conquista portoghese
di Montevideo. Era dunque urgente dichiarare l’indipendenza, avvertiva
Sarratea, perché il Río de la Plata non fosse più considerato parte del
territorio spagnolo e dunque soggetto a conquista o cessione in caso di
conflitto o trattativa tra le potenze.54
Il Congresso Costituente di Tucumán era già stato convocato e il 9
luglio 1816 dichiarò l’indipendenza delle Province Unite del Río de
la Plata. Belgrano, rientrato a Buenos Aires in accordo con Sarratea
e Rivadavia, propose allora di incoronare un Inca (questo era il titolo
che nei progetti costituzionali di Miranda aveva il sovrano o presidente

53
Ivi, p. 166.
54
AGNA X 2-1-1, Sarratea a Álvarez Thomas, 13 novembre, 24 dicembre
1815.

42
delle Americhe), eventualmente da unire in matrimonio con una prin-
cipessa di casa Braganza. Il progetto di una monarchia, pur americana,
serviva a soddisfare un requisito di stabilità nel clima della Restaura-
zione, mentre il richiamo al passato pre-ispanico e l’idea di portare la
capitale a Cuzco dovevano legare le comunità indie e meticce della
Bolivia e del Perù al nuovo sistema. José de San Martín, futuro eroe
dell’indipendenza cilena, sostenne la proposta, che non si realizzò per
l’opposizione di Buenos Aires.55
Sarratea tornò in patria pochi mesi dopo: aveva contribuito a pa-
ralizzare l’iniziativa spagnola contro Buenos Aires, mostrandosi alter-
nativamente disponibile al compromesso e sfuggente e alimentando la
confusione a Madrid su chi fosse l’inviato rioplatense tra lui e Rivada-
via. Aveva inoltre potuto constatare che il governo britannico esercita-
va una negligenza benevola nei confronti delle sue iniziative, che pure
non appoggiava ufficialmente. A conclusione della missione scrisse a
García, che gli chiedeva se potesse contare sull’appoggio inglese: “La
risposta non può essere diretta, ma una risposta indiretta è pienamente
esaustiva. Non hanno ostacolato le mie attività e questo mi basta. Al
contrario, hanno ostacolato tutte le altre attività nelle quali era presente
un’influenza straniera”.56
Dal 1816 gli agenti britannici a Buenos Aires rinsaldarono i legami
con San Martín (con cui il commodoro Bowles aveva ottimi rapporti
dal 1813) e sostennero con armi e capitali il suo Piano Continentale per
la liberazione del Sud America, che era simile a precedenti piani britan-
nici e consisteva nel conquistare il Cile attraversando le Ande dal terri-
torio argentino, per poi attaccare il Perù via mare.57 Dopo la liberazione
del Cile, Staples informò il Foreign Office che San Martín aveva chiesto

55
Reubén Salas, Los proyectos monarquicos en el proceso de la independen-
cia argentina (1810-1820), “Ibero-amerikanisches Archiv”, s II, vol. XV, n. 2
(1989), p. 206.
56
AGNA X 2-1-1, Sarratea a García, 22 aprile 1816.
57
Rodolfo H. Terragno, Maitland & San Martín, Buenos Aires, Universidad
Nacional de Quilmes, 1998.

43
e ottenuto la sua collaborazione per il viaggio a Londra dell’inviato cileno
che doveva acquistare navi per la flotta che avrebbe attaccato il Perù, cuo-
re dell’impero spagnolo in Sud America. Durante questa missione venne
ingaggiato come ammiraglio per il Cile Thomas Cochrane, considerato
tra i migliori comandanti britannici, ma precedentemente espulso dalla
Marina britannica a causa di una frode finanziaria. Il Foreign Office, pur
essendone informato, non intervenne per bloccare l’iniziativa (come non
intervenne in altri simili casi) e almeno una delle navi acquistate a Lon-
dra ottenne persino un lasciapassare.58 L’Ammiragliato approvò inoltre la
scelta di Bowles di spostarsi con alcune navi della Marina britannica sul
Pacifico, su richiesta di San Martín, per proteggere il commercio britan-
nico col Cile, che comprendeva anche le armi vendute dai mercanti della
rete di Staples.59 La negligenza benevola dell’Inghilterra nei confronti
degli indipendentisti, o persino il suo supporto informale, era segno di
una partigianeria inconfessabile sulla scena internazionale. L’Inghilter-
ra, infatti, non poteva e non voleva rompere l’equilibrio del sistema del
Congresso e, nel caso peggiore, provocare un’altra guerra con le potenze
europee, nemmeno per l’America.

Conclusioni

Questa rapida analisi di mezzi e occasioni dell’azione informale bri-


tannica sul processo che portò all’indipendenza del 1816, e delle inizia-
tive argentine connesse, ci ha consentito di tratteggiare opzioni, intenti
e strategie alla base di eventi che cambiarono il volto dell’America.
Pur mantenendosi ufficialmente neutrale, pur in modo discontinuo e
talvolta riluttante, la Gran Bretagna finì col favorire l’emancipazione
della colonia.
Possiamo suggerire che, per quanto riguarda il momento della crisi
dell’impero spagnolo e della costruzione di nuove nazioni in America,

58
D. Besseghini, Commercio britannico e imperialismo informale, p. 309-338.
59
Ibidem; G. Graham, R. Humphreys, The Navy and South America, p. 199, 213.

44
lo spazio dentro cui è possibile rintracciare elementi propri dell’ana-
lisi di Robinson e Gallagher sull’imperialismo informale in America
Latina, cui accennavamo all’inizio – quello dove ha più senso cerca-
re una volontà britannica di controllo almeno parziale sugli esiti del
processo, allo scopo di “incoraggiare governi stabili come buoni rischi
d’investimento”60 – sia la zona grigia della politica non-ufficiale, del-
le azioni di agenti legati al governo britannico e almeno parzialmente
note a quest’ultimo, non tanto la politica ufficiale. Tale spazio di azio-
ne informale è parte integrante della politica britannica e come tale va
analizzato.
Al suo interno possiamo riconoscere una continuità sommersa tra
scelte politiche cui il dispiegarsi degli eventi aveva conferito un trat-
to di superficie contraddittorio, tra il progetto per l’America enunciato
nel memorandum di Gabinetto steso da Castlereagh alla vigilia dalla
crisi che avrebbe preso avvio con le abdicazioni di Bayona, e la poli-
tica del riconoscimento delle nuove nazioni intrapresa dopo il 1820.
Questa continuità si incarna anche nelle figure, quasi sconosciute alla
storiografia, di alcuni mercanti irlandesi che a Castlereagh erano perso-
nalmente legati, quelli della rete di Staples, che seppero trovare punti
di equilibrio tra i loro obbiettivi, quelli della Gran Bretagna e quelli dei
rivoluzionari rioplatensi. Possiamo rintracciare qui una convergenza di
interessi per un cambio di regime in Sud America, che per un certo
periodo sembrò delinearsi secondo linee simili a quelle previste da Ca-
stlereagh nel 1807.
Uno spazio particolarmente ampio si era aperto in America, nel con-
testo della guerra contro Napoleone e della formazione del nuovo equi-
librio europeo, tra ciò che gli agenti britannici potevano fare e ciò che
del loro operato il Foreign Office avrebbe disconosciuto e/o ostacolato.
Le iniziative di Staples non vennero ostacolate, pur essendo almeno
in parte note al Foreign Office e di segno quasi opposto rispetto alla
sua politica ufficiale, perché non contraddicevano gli autentici interessi
della Gran Bretagna. Sappiamo che Castlereagh mantenne una “buo-

60
R. Robinson, J. Gallagher, The Imperialism of Free Trade, p. 9.

45
na opinione” del suo agente anche dopo avergli ordinato di rinunciare
al titolo di console nel 1819.61 Le iniziative di Bowles vennero persi-
no plaudite. Altrettanto importante è il fatto che, parzialmente legata a
quest’area ambigua della politica britannica, esistesse un’ampia zona
franca per l’azione degli agenti sudamericani a Londra, come Sarratea,
e per il successo delle lotte indipendentiste in America. L’abilità di que-
sti agenti fu quella di sfruttare pienamente gli spazi aperti dalla volontà
e dalla necessità, strategica oltre che commerciale, della Gran Bretagna
di stabilire e mantenere un’influenza economico-politica nell’America
ispanica.

61
TNA FO 6/14, Planta a Staples, 22 maggio 1826. Sulla fine dell’incarico
di Staples a Buenos Aires, si veda la voce biografica di Manuel Llorca-Jaña
nell’Oxford Dictionary of National Biography.

46
I RAPPORTI DIPLOMATICI TRA ARGENTINA E SANTA SEDE:
UNA STORIA DI CONTRASTI TRA PRESIDENTI E GERARCHIE
ECCLESIASTICHE. DALLA DICHIARAZIONE DI INDIPENDENZA
DEL 9 LUGLIO 1816 AL CONCORDATO DEL 10 OTTOBRE 1966
di Daniele Trabucco

Dalla dichiarazione di indipendenza alla Costituzione del 1853

Fin dal Congresso di Tucumán, che proclamò l’indipendenza il 9 lu-


glio 1816 con il nome di Provincias Unidas en Sud América, ben undici
dei trenta deputati erano ecclesiastici. In realtà i rapporti dei governi di
Buenos Aires con la Santa Sede furono impostati, già dalla rivoluzione
del maggio 1810 che promosse la guerra di liberazione dagli spagnoli, a
una politica di limitazione delle attribuzioni della Chiesa.1 L’intenzione
era quella di intraprendere un’azione di forte laicizzazione dello spazio
pubblico, in particolare nel settore dell’istruzione, al fine di ridimensio-
nare il condizionamento religioso-cattolico nella vita pubblica. Questo
atteggiamento nei confronti della Chiesa, rispetto al passato coloniale,
rispecchiava molto bene le tendenze liberali dei politici argentini. In
questo senso è significativo un decreto del 23 marzo 1813 che soppres-
se il Tribunale dell’Inquisizione in tutte le città del territorio platense,
privando le autorità ecclesiastiche di un importante strumento di con-
trollo culturale.2 Tuttavia, se in nome dell’ideologia liberale si cercava
di ridurre l’influenza del clero nella società, sopprimerne i privilegi in
campo giudiziario e rimettere nel giro economico le ricchezze fondiarie
della Chiesa, al contempo tanto nella Costituzione delle Province unite
del 1819 (art. 1), quanto in quella della Repubblica Argentina del 1826

1
Cfr. Giovanni Armillotta, L’Argentina ed il Vaticano dall’indipendenza del
Paese andino alla vigilia del pontificato di Giovanni Paolo II, “Relaciones
Internacionales”, XXXIII (2007), p. 3-4. All’autore questo saggio deve molto.
2
G. Armillotta, L’Argentina ed il Vaticano, p. 4.

47
(art. 3), che non vennero mai applicate in quanto tendevano a realizza-
re progetti unitari, suscitando le reazione dei federalisti,3 si continuava
a riconoscere il cattolicesimo come religione di Stato. Lo scopo era
evidente: da un lato non rinunciare alla tradizione, che aveva le sue
origini nel periodo coloniale, di una vigilanza pignola sull’attività della
Chiesa, dall’altro ottenere dalla Santa Sede il riconoscimento ufficiale
del c.d. patronato.4 Il giuspatronato (in lingua latina ius patronatus) o
patronato ecclesiastico è un privilegio legale che si esprime soprattutto
in un diritto riguardo alle nomine per determinati uffici ecclesiastici.
Esso ebbe origine già nell’Alto Medioevo come manifestazione della
gratitudine della Chiesa verso i suoi benefattori e venne formalizzato
sotto il pontificato di papa Alessandro III (1159-1181) nel XII secolo.5
Nel primo ventennio dalla dichiarazione di indipendenza non ci fu-
rono relazioni ufficiali con la Santa Sede. Da parte dei vari Papi suc-
cedutisi in questo arco temporale, da Pio VII (1800-1823) a Gregorio
XVI (1831-1846), la preoccupazione principale era quella di non com-
promettere le relazioni con la Corona di Spagna,6 soprattutto dopo il
Congresso di Vienna. Il Pontefice Leone XII (1823-1829), nel suo Bre-
ve Etsi iam diu del 24 settembre 1824, indirizzato ai Venerabili Fratelli
Arcivescovi e Vescovi d’America, condannò il distacco-secessione dal
Regno di Spagna. Si legge nel documento pontificio che riecheggiava il
Breve Etsi longissimo del 30 gennaio 1816 di papa Pio VII:

In verità, col più acerbo e incredibile dolore, che nasce dal paterno
affetto col quale vi amiamo, abbiamo ricevuto le tristissime notizie
sulla deplorevole situazione dello Stato e sullo scompiglio delle cose
ecclesiastiche, per la zizzania che ha seminato costì un uomo nemico.

3
Cfr. Marzia Rosti, Argentina, Bologna, il Mulino, 2011, p. 28-31.
4
Cfr. Roger Aubert [et al.], Liberalismo e integralismo tra Stati nazionali e
diffusione missionaria 1830-1870, Milano, Jaca Book, 19932, p. 282.
5
Cfr. sull’evoluzione del diritto di patronato nel costituzionalismo argentino
fino alla riforma del 1994, Valerio Onida, Stato e religione in Argentina dopo
la riforma costituzionale del 1994, “Dir. eccl.”, n. 1 (2003), p. 146-174.
6
G. Armillotta, L’Argentina ed il Vaticano, p. 4.

48
Infatti conosciamo bene i pregiudizi che derivano alla Religione, quan-
do avviene che disgraziatamente si alteri la tranquillità dei popoli. In
conseguenza di ciò Ci lamentiamo amaramente perché la licenza dei
malvagi si manifesta impunemente; perché cresce la peste dei libri nei
quali si disprezzano e sono fatti oggetto di odio i poteri ecclesiasti-
ci e civili; infine perché sorgono, come locuste dal fumo di un pozzo,
quelle tenebrose aggregazioni delle quali, con San Leone, osiamo dire
che vi si riunisce tutto ciò che di blasfemo e sacrilego vi è nelle sette
ereticali, così come ogni genere di sudiciume in un’immonda sentina.
Questa indiscutibile verità, degna della massima commiserazione per
l’esperienza di quelle calamità che Ci hanno tormentato con i violenti
sconvolgimenti dell’epoca passata, e comprovata da tanti esempi, Ci
procura una fiera amarezza, poiché Ci accorgiamo che questo genere di
disordini minaccia enormi mali a codesta terra del Signore…Noi siamo
fermamente persuasi che voi, con l’aiuto di Dio, saprete condurre a
buon fine questo compito così gravoso se illustrerete al vostro gregge le
auguste e distinte virtù del Nostro carissimo figlio in Cristo Ferdinando,
re cattolico di Spagna, al quale nulla è più caro della Religione e della
felicità dei suoi sudditi; e se, con lo zelo necessario, porrete davanti agli
occhi di tutti gli illustri e immortali esempi degli Spagnoli residenti in
Europa, che non hanno esitato a sacrificare le fortune e la vita per mo-
strarsi sempre fedelissimi alla Religione e al potere legittimo.

Solo a partire dagli anni che precedettero l’approvazione della Co-


stituzione del 1853 si registra il tentativo di avvio di rapporti diploma-
tici con la Santa Sede. Nell’anno 1834 il procuratore della Repubblica,
Pedro José Agrelo (1776-1846), presentò alla Santa Sede una bozza di
Concordato che fu respinta, in quanto permeata di regalismo, quella
dottrina che presuppone un controllo da parte dell’autorità statale sulla
Chiesa con conseguente difesa dei suoi diretti e delle sue prerogative. Il
fallimento ebbe come conseguenza, durante il secondo periodo (1835-
1852) della dittatura di Juan Manuel de Rosas, l’introduzione, con un
decreto del 27 febbraio 1837, dell’exequatur per cui nessuna autorità
civile o ecclesiastica della Provincia di Buenos Aires poteva dar valore,
conformarsi e prestare obbedienza ai documenti pontifici a meno che

49
non avessero ricevuto il preventivo nulla-osta da parte del gabinetto
incaricato agli Affari esteri della Confederazione.7

Dalla Carta costituzionale del 1853 all’avvento al potere di


Juan Domingo Perón

La Costituzione del 1853 se da un lato, con l’affermazione (art.


2) dell’impegno da parte del Governo federale di sostenere il culto
cattolico apostolico romano,8 cercava di ottenere un riconoscimento
esterno9 del nuovo Stato da parte della Santa Sede,10 dall’altro, ripren-
dendo un istituto di antica tradizione coloniale, il giuspatronato, attri-
buiva al Presidente (art. 86, inc. 8), che fino alla riforma costituziona-
le del 1994 doveva professare la fede cattolica, il potere di esercizio
di uno stretto controllo sulla Chiesa, tramite soprattutto il diritto di
“presentazione” dei candidati all’episcopato, impegnando al contem-
po l’ordinamento statale alla sua protezione. Va precisato, comunque,
che questo regime di patronato ecclesiastico, pur non formalmente ac-
cettato dalla Chiesa cattolica, si tradusse in un modus vivendi attuato
con moderazione, se si pensa che l’unico conflitto originato da esso ri-
sale all’anno 1923 in seguito al mancato accordo tra Governo e Santa
Sede relativo alla nomina dell’Arcivescovo di Buenos Aires, sebbene,
come in seguito si vedrà, prima nel 1884 in occasione della laicizza-
zione della scuola pubblica e poi nel 1955 sotto Perón non mancarono
situazioni tese tra Chiesa e Stato.11 Questa prospettiva, che in realtà

7
G. Armillotta, L’Argentina ed il Vaticano, p. 4.
8
Non si parla più, però, di religione ufficiale di Stato: cfr. Juan G. Navarro Flo-
ria, Chiesa e Stato in Argentina, “Quaderni di diritto e politica ecclesiastica”,
I (2007), p. 29.
9
Cfr. Marcello Carmagnani, L’altro Occidente. L’America Latina dall’inva-
sione europea al nuovo millennio, Torino, Einaudi, 2003, p. 205.
10
Cfr. Verónica Roldán, Religione e Stato in Argentina: laïcité o religious free-
dom?, “Visioni LatinoAmericane” XV (2016), p. 21-22.
11
Cfr. José Luis Kaufmann, La presentación de obispos en el patronato regio y

50
perpetuava un’impostazione già presente nelle Carte costituzionali
del 1819 e del 1826, riuscì comunque, durante la presidenza di Justo
José de Urquiza y García (1852-1860), non solo a ottenere dal dele-
gato apostolico a Rio de Janeiro, mons. Vieira Borges, un Provicario
presso il governo di Paraná, ma anche ad avviare contatti con l’allora
segretario di Stato di Papa Pio IX (1846-1878), il cardinale Giacomo
Antonelli, per una bozza di Concordato che non ebbe alcun seguito.
In data 25 settembre 1855 il Capo dello Stato riuscì a ottenere dal
Congresso l’approvazione di un decreto in cui si cercavano di avviare
le pratiche per la creazione della Diocesi del Litorale, quale primo
passo per l’avvio di relazioni diplomatiche ufficiali con la Santa Sede.
A tal fine il generale de Urquiza decise, il 18 aprile 1857, di designare
il giurista Juan Bautista Alberdi (1810-1884) quale Ministro pleni-
potenziario presso la Santa Sede. Egli riuscì ad avere l’elevazione di
alcuni vescovadi e la provvisione per le sedi vacanti, presentando al
contempo alle autorità pontificie un memoriale che descriveva la fra-
gile e precaria situazione della Chiesa argentina. Sebbene la conclu-
sione di un Concordato non trovò realizzazione, de Urquiza constatò
che il Vaticano, nel 1857, aveva ordinato a mons. Marino Marini di
portarsi a Paraná, comunicando, in data 23 febbraio 1858, la propria
nomina a delegato apostolico al Vicario del Capitolo di Buenos Aires,
mons. Mariano José de Escalada Bustillo y Zeballos (1799-1870), e di-
chiarando che la sua giurisdizione comprendeva la Diocesi di mons.
de Escalada e di tutto lo Stato di Buenos Aires. All’indomani dei col-
loqui di mons. Marini con il Presidente della Repubblica di Argentina
le tre unità di Entre Ríos, Corrientes e Santa Fe, fino ad allora dipen-
denti dal Vescovado di Buenos Aires, vennero separate dallo stesso e
assoggettate al Vicariato apostolico di Paraná.12
Questa situazione non riuscì a portare a conclusione le trattative per
un Concordato con la Santa Sede già da tempo auspicato dai governi

su aplicación en la legislación argentina, Buenos Aires, Dunken, 1996.


12
Cfr. Manuel Juan Sanguinetti, La representación diplomática del Vaticano en los
países del Plata, Buenos Aires, Abecé, 1954, p. 55, 61 e 663 e passim note 1 e 4.

51
argentini e ciò sia per l’attenzione del Papato alle vicende dell’unifica-
zione nazionale italiana, sia per l’entrata in vigore, nel corso del primo
mandato presidenziale di Alejo Julio Argentino Roca Paz (1880-1886),
della Ley n. 1.420 de Educación Común (8 luglio 1884) che introdus-
se l’insegnamento laico e obbligatorio nelle scuole. Il provvedimento
legislativo vide la dura opposizione del Nunzio Apostolico, mons. Luis
Mattera, e determinò la rottura dei rapporti intessuti fino a quel momento
con Roma.13 Solo durante il secondo mandato del Presidente Roca (1898-
1904) si cercarono di riannodare le relazioni diplomatiche tra Buenos
Aires e la Santa Sede: il ministro degli Affari esteri, Amancio Alcorta,
dette l’incarico al plenipotenziario in Francia e in Belgio, Carlos Calvo
(1822-1906), di intraprendere alcuni contatti riservati con papa Leone
XIII (1878-1903) che portarono, con decreto 10 giugno 1899, all’esten-
sione della rappresentanza argentina alla Sede Apostolica.
Il ’900 segnò per l’Argentina, soprattutto dopo la prima guerra
mondiale (1914-1918), il tramonto dell’idea liberale, il venir meno
del sogno della Nazione aperta. L’approvazione del suffragio univer-
sale maschile, gli attriti sempre più forti tra capitale e lavoro nel nome
dell’anarchismo e del bolscevismo, l’origine degli immigrati che nel
90% dei casi provenivano da Italia e Spagna, Paesi a forte tradizione
cattolica, portarono,14 a partire dagli anni ’20 e per tutti gli anni ’30, a
un revival cattolico in campo sociale e intellettuale come momento di
forte identità e coesione.15 Questo spiega come mai, quando il 20 luglio
1932 l’Arcivescovo emerito della Diocesi di Buenos Aires, mons. José
María Bottaro y Hers (1859-1935), rinunciò al suo incarico pastora-
le per motivi di salute e presentò le proprie dimissioni direttamente ai
vertici vaticani e non al Presidente in carica Agustín Pedro Justo Rolón
13
Cfr. Isidoro Ruiz Moreno, Historia de las relaciones exteriores argentinas,
Buenos Aires, Perrot, 1961, p. 411-412.
14
Nacque proprio in questo periodo la Liga Patriótica Argentina, un gruppo
paramilitare piuttosto forte nel quale confluirono sacerdoti, nazionalisti e uffi-
ciali dell’esercito.
15
Cfr. Loris Zanatta, La nazione cattolica. Chiesa e dittatura nell’Argentina di
Bergoglio, Bari, Laterza, 2014, p. 7.

52
(1932-1938), il Governo preferì tenere un basso profilo nonostante mol-
ti settori anticlericali invocassero il giuspatronato.16 Anzi, il golpe del
1930, che inaugurò la c.d. decade infame, favorì rispetto al decennio
precedente l’apostolato della Chiesa in campo sociale. Lo scopo era
duplice: da un lato fornire di legittimità il Governo del Presidente Justo,
dall’altro ritornare a quell’equilibrio tra i corpi dell’organismo sociale
che il liberalismo aveva compromesso, o meglio “ristabilire l’ordine e
i valori nazionali offuscati dalla democrazia delle masse”.17 Lo stesso
Pio XII (1939-1958) favorì questo atteggiamento della Chiesa, vedendo
nell’Argentina, dove si era recato da cardinale nel 1934 come inviato
di papa Pio XI (1922-1939) al Congresso eucaristico internazionale,
l’avamposto della cristianità nell’America latina.18 A segnare il trionfo
della nazione cattolica e la disfatta del progetto liberale fu però il colpo
di Stato del 4 giugno 1943.

Dal primo peronismo al Concordato del 10 ottobre 1966

Questa data segna l’avvio del regime creato dalle Forze Armate con
l’intento di salvare il Paese dalla corruzione e dal comunismo. Era, per-
tanto, fondamentale, per perseguire questi obiettivi, un rapporto forte
e solido con il Vaticano. Di questo, almeno in una prima fase, fu con-
vinto il colonnello Juan Domingo Perón che, nel febbraio del 1946,
con il 56% dei voti vinse le elezioni.19 Il suo viscerale nazionalismo, la
volontà di chiudere la pagina liberale della storia argentina, l’amplia-

16
Cfr. Norberto Padilla, A treinta años del acuerdo con la Santa Sede, Prolu-
sione all’Università del Nord “Santo Tomás De Aquino”, San Miguel de Tucu-
mán, 13 maggio 1996, p. 14.
17
Cfr. Marzia Rosti, Prefazione. L’Argentina per Perón e Perón per l’Argenti-
na, in Peronismo e giustizialismo: dal Sudamerica all’Italia, e ritorno, Reggio
Emilia, Edizioni Diabasis, 2008, p. 10.
18
In questa direzione L. Zanatta, La nazione cattolica. Chiesa e dittatura
nell’Argentina di Bergoglio, p. 8.
19
Cfr. Loris Zanatta, Il peronismo, Roma, Carocci Editore, 2008.

53
mento delle basi del regime, ad esempio con la creazione di un unico
sindacato di lavoratori legato allo Stato, non potevano non richiedere il
sostegno diplomatico della Santa Sede20 e una politica di riaffermazione
del mito della “Nazione cattolica”21 ben testimoniata, ad esempio, dalla
legge di insegnamento religioso del 1947. I rapporti tra Chiesa e primo
peronismo, come scrive Zanatta, ebbero una svolta con la riforma costi-
tuzionale del 1949.22 La “Costituzione peronista” se da una parte segnò
l’apogeo dell’influenza di quel cattolicesimo intransigente, che riuscì
a riaffermare (art. 2) la cattolica come religione dello Stato, dall’altra
determinò l’inizio dell’affiorare di problemi con la Chiesa. Lo scoglio
dell’istituto del patronato nazionale e dell’exequatur sui documenti pa-
pali di natura generale23 fu il catalizzatore delle tensioni tra Governo e
Santa Sede. Da un lato vi era il rischio di una sempre maggiore identifi-
cazione della Chiesa con le politiche peroniste che ne compromettevano
la forza e l’autonomia, dall’altro alla Chiesa era sempre meno riservato
il ruolo di tutela sull’“ortodossia” dell’azione politica del Governo di
una Nazione cattolica come l’Argentina. I primi segnali erano in parte
già emersi alcuni anni prima, nel giugno del 1947, quando Tomás D.
Casares, giudice della Corte Suprema e molto legato al card. Santiago
Luis Copello (1880-1967), primo argentino elevato alla porpora car-
dinalizia e Arcivescovo di Buenos Aires dal 1932, si oppose ai suoi
colleghi che avevano autorizzato il Presidente a concedere il “passi”
alla Bolla pontificia che creava la Diocesi di San Nicolás, riaffermando

20
Cfr. Lila M. Caimari, Perón y la Iglesia católica. Religión, Estado y socie-
dad en la Argentina 1943-1955, Buenos Aires, Ariel Historia, 1995.
21
Cfr. Loris Zanatta, Storia dell’America Latina contemporanea, Bari, Later-
za, 2017, p. 134.
22
Sui rapporti tra Santa Sede e Argentina prima e dopo la riforma peronista del
1949 cfr. Loris Zanatta, Perón e la Santa Sede nella riforma costituzionale del
1949, “Contemporanea” III (1998), p. 473-495.
23
Già nell’anno 1925 la Corte di Giustizia aveva respinto il valore giuridico
del Codex iuris canonici del 1917, emanato sotto il pontificato di papa Bene-
detto XV (1914-1922), dichiarando legali nel territorio statale solo le leggi del
Concilio di Trento.

54
in questo modo i diritti del patronato nazionale. In realtà, il mito della
“Nazione cattolica” veniva strumentalizzato da Perón al solo e unico
scopo di circoscrivere la funzione della Chiesa a un ruolo meramente
collaborativo. Durante i lavori costituenti il Presidente aveva bene in
mente i negoziati tra Santa Sede e Spagna del giugno 1941, quando
il papa Pio XII riconobbe al generale Franco il diritto di ereditare i
privilegi del Concordato del 1851, e dunque anche i diritti di patrona-
to. Perón intendeva riproporre per l’Argentina la medesima soluzione,
ma la situazione politica era profondamente diversa. Infatti, nel caso
spagnolo, la Repubblica “rossa” abbattuta da Franco rappresentava una
minaccia ben più terribile dell’Unión Democrática sconfitta da Perón.
La promulgazione e l’entrata in vigore della riforma, nel marzo 1949,
segnarono “il dolore” di Pio XII e la reazione sdegnata della Segreteria
di Stato con la quale si riaffermavano i diritti della Santa Sede ma, nello
stesso tempo, si annunciava l’avvio di un sistema di “prenotificazione
ufficiosa” dei Vescovi che garantiva il Governo dalla nomina di prelati
non desiderati. La riforma ebbe, comunque, vita breve e tormentata,
rimanendo in vigore solo sette anni, in quanto il Governo de facto del
1956 la sospese.24 L’ultima parte del mandato presidenziale di Perón,
proprio alla luce dei problemi collegati alla riforma della Carta co-
stituzionale, fu caratterizzata da un raffreddamento dei rapporti di-
plomatici con il Vaticano. A metà degli anni ’50, infatti, si assistette
a una vera e propria campagna contro la Chiesa e l’Acción Católica
Argentina, accusando i Vescovi di Córdoba, La Rioja e Santa Fe di
intrighi contro lo Stato e attività antinazionali. Il 2 dicembre 1954 fu
abolito il Dipartimento dell’Istruzione religiosa presso il Ministero
dell’Istruzione e venne abrogata la già ricordata legge del 1947 che
aveva introdotto l’approvazione ecclesiastica per la nomina di nuovi
insegnanti; il 22 dello stesso mese e anno venne invece legalizzato il
divorzio. Il Governo, inoltre, ritirò i sussidi alle scuole cattoliche e
il 31 marzo 1955 furono private di effetti civili le festività religiose
dell’Epifania, Corpus Domini, Assunzione, Tutti i Santi e Immacolata

24
M. Rosti, Argentina, p. 41.

55
Concezione della Beata Vergine Maria. Il 16 giugno 1955 la Congre-
gazione Concistoriale (oggi denominata Congregazione per i Vesco-
vi) scomunicò latae sententiae tutti coloro, “mandanti e complici”,
che avevano usurpato i diritti della Chiesa.
Caduto Perón (16-19 settembre 1955), a seguito della c.d. Revo-
lución Libertadora,25 la Santa Sede riconobbe subito l’Esecutivo del
nuovo Presidente, gen. Eduardo A. Lonardi Doucet, che il 9 ottobre
1955 ripristinò le festività summenzionate. Formalmente, però, le re-
lazioni tra Vaticano e Argentina vennero riprese sotto la Presidenza
del gen. Pedro Eugenio Aramburu (1955-1958) che, nel marzo 1956,
provvide, come primo segnale di apertura verso la Santa Sede, a so-
spendere la legge sul divorzio e a chiudere le case di tolleranza.26 Da
parte ecclesiastica va registrata l’istituzione del Vicariato “castrense”
nel luglio del 1957 per volere di Pio XII. Il periodo compreso tra la
caduta di Perón e il golpe del 1966 fu improntato da parte della Chiesa
argentina e del Vaticano, soprattutto durante il pontificato di Giovanni
XXIII (1958-1963) e la prima parte del pontificato di Paolo VI (1963-
1978), a un duplice atteggiamento: da un lato scongiurare il risorgere
di un ordine liberale, dall’altro la necessità di un peronismo senza
Perón che si fondasse sui postulati della Nazione cattolica.27 Proprio
in ragione di questa tensione mancò il pieno appoggio ecclesiasti-
co alle Presidenze Frondizi (1958-1962), Guido (1962-1963) e Illia
(1963-1966), che coincidettero in buona parte con i lavori del Conci-
lio Ecumenico Vaticano II (1962-1965), e ciò contribuì a compromet-
tere i fragili rapporti tra Chiesa e Governo ricostruiti dopo la caduta di
Perón. La prima, infatti, puntava ancora “ad unire in un ordine cristia-
no le corporazioni che popolavano il suo immaginario” soprattutto in
chiave anticomunista (significativo in questo senso il pericolo rappre-

25
Cfr. Tiziana Salvino, L’Argentina tra democrazia e golpe, Milano, Franco
Angeli, 2012, p. 99-100.
26
G. Armillotta, L’Argentina ed il Vaticano, p. 15.
27
L. Zanatta, La nazione cattolica. Chiesa e dittatura nell’Argentina di Ber-
goglio, p. 23-24.

56
sentato dalla crisi di Cuba dell’ottobre 1962), ma questo proposito si
scontrava con un clima profondamente mutato dal vento del Concilio
apertosi l’11 ottobre 1962. Le stesse encicliche sociali quali la Mater
et Magistra del 1961 e la Pacem in terris del 1963 di Papa Giovanni
XXIII per finire con la Populorum Progressio del 1967 di Papa Paolo
VI contribuirono ad aumentare, specialmente nelle giovani genera-
zioni e in una parte del clero, un senso di profondo fastidio verso le
logiche della politica, anteponendo a esse l’ideale della rivoluzione
sociale. Il conflitto tra i “riformisti” fedeli alla gerarchia e quella parte
del mondo cattolico che spingeva invece per un’azione rivoluzionaria
sarebbe probabilmente rimasto confinato alla Chiesa se il dogma na-
zional-cattolico non fosse stato il perno dell’ordine politico argentino.
Questo clima di tensione fu all’origine del colpo di Stato del 28 giu-
gno 1966 guidato dal generale Juan Carlos Onganía (1966-1970) e fu
proprio durante la sua presidenza che, in data 10 ottobre 1966, venne
siglato il Concordato con la Santa Sede, “il primo frutto nel campo
delle relazioni tra Chiesa e Stato del Concilio Vaticano II” come disse
papa Montini.

Il Concordato del 1966 come “frutto” del Concilio Ecumenico


Vaticano II

Il 16 ottobre 1966, dopo di anni di negoziati, il ministro degli Af-


fari esteri, Nicanor E. Costa Méndez (1922-1992), firmò assieme a
mons. Umberto Mozzoni (1905-1983) un accordo attraverso il quale
si vararono nuove norme28 per la regolamentazione dei rapporti tra Ar-
gentina e Santa Sede e, il 28 gennaio 1967, nello Stato della Città del
Vaticano, avvenne lo scambio degli strumenti di ratifica. Con il Con-
cordato si poneva fine al diritto di giuspatronato da parte del Gover-

28
Sull’influenza del Concordato tra Italia e Santa Sede dell’11 febbraio 1929
su quello del 1966 si rinvia a Silvio Ferrari, Il modello concordatario post-con-
ciliare, www.olir.it, marzo 2004, p. 4.

57
no argentino,29 riconoscendo alla Chiesa il libero esercizio del potere
spirituale, di culto e giurisdizione nelle materie rientranti nella sua
competenza. Esso anticipò la riforma costituzionale del 1994. Questa,
infatti, non si limitò ad abrogare gli articoli della Carta fondamentale
del 1853 che si riferivano a tale istituto giuridico, ma eliminò anche
l’obbligo per il Presidente della Nazione di appartenere alla confes-
sione cattolica. La Corte Suprema, dal canto suo, ha sempre ritenuto
che l’art. 1 di questo accordo implicasse e implichi tutt’oggi “la più
piena applicabilità del diritto canonico” in materia di qualificazione,
amministrazione e disponibilità dei beni30 nonché in tema di discipli-
na interna e di statuto dei ministri di culto.31 La giurisprudenza ammi-
nistrativa, a sua volta, ha esteso il medesimo riconoscimento all’in-
tero ambito dell’organizzazione ecclesiastica.32 Se Paolo VI non fece
problemi sulla stipula del Concordato, in quanto il regime militare di
Onganía era stabile e godeva del consenso popolare, alcune perples-
sità provenivano dagli ambienti curiali che vedevano nel Governo in-
sediatosi nel giugno 1966 non certo la forma migliore “per accogliere
il Concilio” che si era chiuso da meno di un anno. L’accordo pattizio,
comunque, diede certamente impulso alla vocazione evangelizzatri-
ce dei militari, ma nello stesso tempo non impedì lo scontro sem-
pre meno latente tra Chiesa istituzionale e il clero rivoluzionario, che
29
A seguito della riforma del 1956 al Senato spettava il compito di formare
una terna dalla quale il Presidente sceglieva un candidato che desiderava pre-
sentare alla Santa Sede. Quest’ultima, fatta la presentazione, proseguiva con
l’indagine circa le qualità del candidato proposto. In caso di esito positivo la
Santa Sede emanava la bolla di nomina, viceversa, in ipotesi di non idoneità
del candidato, la sede rimaneva vacante finché il Governo non avesse presenta-
to un nuovo nome: cfr. Mykhaylo Tkhorovskyy, Procedura per la nomina dei
Vescovi. Evoluzione dal Codice del 1917 al Codice del 1983, Roma, Editrice
Università Gregoriana, 2004, p. 112.
30
Corte Suprema, caso Lastra c. Obispado de Venado Tuerto, “El Derecho”,
22 ottobre 1991, p. 145-495.
31
Corte Suprema, caso Rybar, Antonio c. Garcia Rómulo y Obispado de Mar
del Plata, 26 giugno 1992, ivi, p. 48-517.
32
Sul punto Juan G. Navarro Floria, Chiesa e Stato in Argentina, p. 33.

58
giustificava il ricorso alla lotta armata per ottenere sempre maggiori
rivendicazioni sociali, accusando la prima di non aver saputo tradurre
le riforme del Concilio Vaticano II in azione rivoluzionaria. La con-
ferenza dell’agosto 1968, a Medellín, in Colombia, “fu l’ultimo treno
dove clero rivoluzionario e Chiesa istituzionale sedettero insieme”.33

Le conseguenze del Concordato del 1966 nei rapporti tra Stato e


Santa Sede

Il Concordato del 1966, oltre che all’interno della Chiesa cattolica,


determinò un nuovo corso anche nei rapporti con lo Stato. Se dopo
Medellín la Chiesa argentina si era trovata davanti alla necessità della
riaffermazione della propria autorità attraverso una via riformista alla
luce del Concilio Vaticano II, e l’ascesa di Eduardo Francisco Pironio
(1920-1998), che sarà creato cardinale da Paolo VI nel 1976, ai vertici
del CELAM fu un segnale in questa direzione, il Governo di Onganía
ebbe il suo da fare per tenere a freno quelle spinte di ansia sociale sca-
turite dalla conclusione dell’assise ecumenica nel dicembre del 1965 e
che il Concordato non era riuscito a sopire. L’incapacità dell’Esecutivo
argentino di un’azione comune congiunta con l’autorità ecclesiastica
finì per “polarizzare ancor più la Chiesa tra Onganía e l’insurrezione”.34
La lettera del clero radicale, proprio nell’ottobre del 1966 (anno e mese
della stipula del Concordato), fu una dichiarazione di guerra sia alla
Chiesa istituzionale, sia al Governo.35 L’idea, lanciata da quella parte
del clero collocata su posizioni radicali, di “armare il braccio degli op-
pressi”36 costituì il terreno fertile sul quale fece leva Perón per il suo

33
L. Zanatta, La nazione cattolica. Chiesa e dittatura nell’Argentina di Ber-
goglio, p. 79.
34
Ivi, p. 56.
35
Carta abierta al Episcopado argentino, CYR, ottobre-novembre 1966.
36
Il 1° maggio 1967 il Comando Camilo Torres irruppe in cattedrale dove Cag-
giano e Onganía assistevano a una cerimonia, gridando contro l’ingiustizia.

59
ritorno sulla scena politica argentina, cavalcando l’onda rivoluzionaria
cristiana e marxista che né lo Stato, né la Chiesa erano riusciti a con-
vogliare verso forme di legalità costituzionale. Il 1966, quindi, vide il
contrapporsi di due visioni del mito della Nazione cattolica: da una par-
te quello di Onganía e del generale Alejandro Agustín Lanusse (1918-
1996) che utilizzavano il cattolicesimo come pretesto per giustificare
il golpe necessario per la realizzazione della loro visione di una nuova
società improntata sullo sviluppo e l’equità sociale, riconciliando in
questo modo il popolo peronista e Nazione (c.d. Revolución Argenti-
na),37 dall’altra quello del clero contestatore funzionale a una società di
eguali, sulla quale ebbe notevole influsso la c.d. teologia della libera-
zione,38 che doveva porsi come il superamento dei diritti individuali e
dello stesso Stato di diritto.
Su queste premesse si svilupperanno i rapporti tra Santa Sede e Ar-
gentina, tra Chiesa e Stato, sul finire degli anni ’60 del secolo scorso e
l’inizio degli anni ’70.

37
Cfr. Flora E. Buedo de Fontenla, La revolución argentina y la Ciudad de
Dios, Buenos Aires, 1971.
38
Cfr. José Ramos Regidor, La teologia della liberazione, Roma, Edup Edito-
re, 2004, p. 1-221 e Silvia Scatena, La teologia della liberazione in America
Latina, Roma, Carocci Editore, 2008, p. 1-110.

60
MODERNITÀ E TECNOCRAZIA NELL’OPERA DI EDUARDO
L. HOLMBERG
di Andrea Pezzè

Introduzione

Eduardo Ladislao Holmberg (1852-1937) è stato protagonista del-


la cultura argentina a cavallo tra il XIX e il XX secolo. Tuttavia, gli
studi sulla sua opera hanno preso forza solo a partire dalle ricerche di
Gioconda Marún sugli esponenti meno noti del Modernismo argenti-
no.1 Supponiamo che il lungo silenzio attorno all’opera dell’argentino
si debba a due fattori rilevanti: il primo, relativo al suo ruolo sociale di
scienziato; il secondo di carattere prettamente letterario.
Innanzitutto, come sottolineato, non è un letterato e a lungo la sua
opera narrativa è stata subordinata al suo lavoro di divulgazione scien-
tifica. Studente di Medicina nel decennio del 1870,2 si specializza in
botanica e zoologia fino a diventare direttore del Jardín Zoológico di
Buenos Aires tra il 1888 e il 1904. Compie cinque missioni di ricerca

1
Gioconda Marún, El modernismo argentino incógnito en La Ondina del Plata
y Revista Literaria (1875-1880), Bogotá, Instituto Caro y Cuervo, 1993.
2
Per le informazioni biografiche e sulla carriera di scienziato, cfr. Pablo Crash
Solomonoff, “Eduardo Ladislao Holmberg: eslabón perdido en Marte”, in E.L.
Holmberg, El viaje maravilloso del señor Nic-Nac al planeta Marte, Buenos
Aires, Colihue, 2006; Lola López Martín, “Lo sensible y lo suprasensible en
Eduardo Holmberg”, in La literatura hispanoamericana con los cinco senti-
dos. V Congreso internacional de la AEELH, ed. Eva Valcárcel, Universidad
de A Coruña, A Coruña, 2005, p. 375-382; Paula Bruno, Eduardo L. Holmberg
en la escena científica argentina. Ideas y acciones entre la década de 1870 y el
fin-de-siglo, “Saber y Tiempo”, 1 (2015), p.118-140.

61
nelle zone dell’interno del paese australe,3 partecipando in questo modo
alla grande opera di esplorazione, classificazione e organizzazione de-
gli elementi naturalistici presenti nel giovane stato argentino.
L’opera di Holmberg transita costantemente tra l’esaltazione della
modernità e il timore verso il progresso scientifico come cardine della
nazione. In una terra di forte contrasto con l’alterità, si pone il secola-
re dilemma dell’educazione del subalterno, leggasi gli indigeni. D’al-
tro canto, però, vive la condizione della subalternità latinoamericana
post-indipendenza, stretta nella morsa del neocolonialismo europeo
(britannico, francese, tedesco) e nordamericano.
Il secondo motivo dipende dai generi letterari utilizzati. Si tratta del-
la gamma completa di narrazioni cosiddette popolari o “basse” nate nel
XIX secolo. Il fantastico, sulla scia di Ernst T.A. Hoffman, nei racconti
“El ruiseñor y el artista” o “La pipa de Hoffman” (entrambi del 1876); il
poliziesco in La bolsa de huesos e, nell’incrocio col fantastico, in Nelly
e La casa endiablada (tutti e tre del 1896);4 la fantascienza, come nel
racconto “Horacio Kalibang o los autómatas” (1879). Sebbene Rubén
Darío, personaggio di spicco del Modernismo ispanoamericano, sia
stato cultore del tema gotico (alcuni racconti, tra cui ricordiamo “Ta-
natophobia” del 1893), il canone attribuito al movimento è rimasto a
lungo vincolato alla produzione poetica. La recente affermazione dei
generi popolari tra i critici accademici ha fatto di Holmberg, per la sua

3
Solomonoff segnala che parallelamente a tali attività Holmberg realizzò, nel
1872, una spedizione lungo il Río Negro, oltre la frontiera con il mondo in-
digeno. Percorse poi le province del nord del paese, risalendo il Río Luján
(1878), e partecipò alle spedizioni di Ameghino e del botanico Federico Khurtz
nel Chaco (1885) e a Misiones (1886), pubblicando un resoconto di ogni viag-
gio. Pablo Crash Solomonoff, Eduardo Ladislao Holmberg: eslabón perdido
en Marte, 2006, p.15.
4
La bolsa de huesos e La casa endiablada sono entrambi disponibili in tradu-
zione italiana. Il primo (Salerno, Arcoiris, 2012), a cura di Loris Tassi, è tra-
dotto da Agnese Guerra con il titolo di Le ossa; il secondo (Salerno, Arcoiris,
2014) è tradotto da Sara Palomba con il titolo di La casa indemoniata. D’ora
in avanti citeremo le traduzioni italiane.

62
capacità di trascendere la mera storia dell’indagine poliziesca (o fanta-
scientifica) a favore di spunti di riflessione “più rilevanti”, il più studia-
to tra i meno studiati autori argentini della fine del XIX secolo.5

Letteratura e biopolitica in Le ossa

Iniziamo valutando un esempio significativo di scrittura del genere


poliziesco. Le opere ascrivibili al genere sono cinque: oltre ai romanzi
citati Le ossa, Nelly e La casa indemoniata, ricordiamo i racconti “Don
José de la Pamplina” (1905) e “Más allá de la autopsia” (1906). In Nelly
e in La casa indemoniata sono evidenti le tematiche delle contrapposi-
zioni tra scienza e spiritismo. Tuttavia, Le ossa risulta interessante nel
momento in cui ci focalizziamo sui rapporti di forza tra società, Stato
e scienza.
Nel romanzo, un medico è appena rientrato a Buenos Aires da un
viaggio di ricerca naturalista nella pampa. In casa sua trova una borsa
con le ossa di uno scheletro umano al quale manca una costola. Nel
domicilio di un collega scopre poi un altro scheletro con la stessa ca-
renza. Di nessuno dei due è nota l’identità. Grazie alle conoscenze di
medicina, frenologia e altri riferimenti scientifici, il protagonista scopre
che le vittime erano studenti di medicina la cui scomparsa era già stata
segnalata. A quel punto inizia l’indagine che termina con l’accertamen-
to dell’identità del colpevole. Si tratta di Antonio Lapas, che in realtà è
Clara, una donna, medico autodidatta, sedotta e ingannata dalla prima
vittima. La conclusione del romanzo è sorprendente. Il medico suggeri-
sce, o impone, alla colpevole di suicidarsi usando lo stesso veleno che
5
A parte Olimpio Pitango de Monalia, di inizio ’900 ma pubblicato solo nel
1994, l’opera dell’argentino nel XX secolo è minore. Gioconda Marún, Edi-
ción príncipe de la novela Olimpio Pitango de Monalia (1915) de Eduardo L.
Holmberg: textualización de la modernidad argentina, “Revista iberoameri-
cana”, vol. LXII, n. 174 (1996), p. 85-102. Adriana Rodríguez Pérsico, ‘Las
reliquias del banquete’ darwinista: E. Holmberg, escritor y científico, “MLN”,
vol. 116, n. 2 (2003), p. 371-391.

63
aveva somministrato ai tre studenti (c’è un terzo omicidio che non è
interessante per questo lavoro).
Prima di proseguire, è necessaria una premessa. Il dispositivo bio-
politico che in queste pagine attribuiremo, a partire da una lettura de
Le ossa, in generale al funzionamento dello Stato, non è, nel roman-
zo, attribuito al potere politico. Va sottolineato che Holmberg dedica
il romanzo al capo della polizia di Buenos Aires, Belisario Otamendi.
L’ufficiale, cui Holmberg aveva sottoposto la bozza del romanzo breve,
aveva suggerito di sopprimere l’ultimo capitolo, in cui il medico esige
il suicidio di Clara.6 Secondo Paola Cortés Rocca, la critica si deve alla
sostituzione, operata nel romanzo, del poliziotto con il medico letterato.
Aggiunge che l’indagine è però concettualmente legittima, in quanto il
protagonista si propone di curare il corpo sociale.7 La proposta/imposi-
zione di pagare il proprio debito con la giustizia attraverso il martirio
volontario, per di più indotto dallo stesso veleno sconosciuto usato
per i due crimini, è quindi significativa anche se non concordiamo del
tutto con la tesi citata. Se da un lato, sin dai racconti di Poe, l’arbitrio
del detective è svincolato dalle dinamiche della polizia e dalla logica
dello Stato – il segugio indaga per conto suo e secondo il suo criterio
–, il caso in questione è più complesso. A nostro avviso, il problema
non risiede nell’indagine, ma nello scioglimento della storia, quando
il medico si sostituisce al giudice nel castigo. Il protagonista attua al
di fuori dalla legge, ma all’interno della norma. In poche parole, isti-
tuisce arbitrariamente lo Stato di Polizia da un punto di vista medico;
fa prevalere la scienza sul diritto. L’antagonismo tra Stato e scienza
non è mai velato nelle pagine de Le ossa. Otamendi compare anche
nel romanzo in veste di garante dell’ordine stabilito e delle procedure
di medicalizzazione.

6
Nuria Girona Fibla, Rastros y restos en los cuentos y los viajes de Eduardo L.
Holmberg, “Voz y escritura. Revista de estudios literarios”, 18 (2010), p. 38.
7
Paola Cortés Rocca, El misterio de la cuarta costilla. Higienismo y crimino-
logía en el policial médico de Eduardo Holmberg, “Iberoamericana”, vol. 3, n.
10 (2003), p. 70-71.

64
Se invece gli inquirenti avessero messo le mani su Clara, lei avrebbe
negato tutto, si sarebbe chiusa nel più assoluto silenzio, perché è una
fanciulla tutta d’un pezzo, e noi non avremmo mai saputo niente della
pianta da cui si estrae il meraviglioso veleno destinato, se ne accorgerà
presto, a far scoppiare una rivoluzione in campo terapeutico.8

Per le sue competenze, il medico si sostituisce al giudice, al legisla-


tore, al poliziotto; destituisce l’apparato di controllo e di narrativizza-
zione del potere a favore della medicalizzazione sociale; “Il narratore
trionfa nella misura in cui, come scrittore, descrive ciò che è fuori, a
margine o al di sopra della legge”.9 Il lettore, destinatario evidente della
narrazione, non ha gli strumenti per comprendere appieno la vicenda, e
il protagonista lo afferma chiaramente: “Prima di formulare un giudizio
sui tuoi simili, paziente lettore, fatti un esame di coscienza e, se non
sei medico, non esprimere alcun giudizio”.10 Men che meno la polizia
o lo Stato possono elaborare il castigo adeguato. Di nuovo il narratore
esprime in maniera eloquente la sua opinione in merito: “Come potevo
permettere che la giustizia ordinaria punisse con mano severa e impla-
cabile le azioni di una donna […], di una povera inferma, di un’infelice
nevrotica”.11 Solo il medico possiede le conoscenze adatte a regolare il
corpo sociale, anche nella repressione di alcune sue parti.12 Contro gli

8
Eduardo L. Holmberg, Le ossa, Salerno, Arcoiris, 2012, p. 102.
9
P. Cortés Rocca, El misterio de la cuarta costilla. Higienismo y criminología
en el policial médico de Eduardo Holmberg, p. 78. Dove non specificato, le
traduzioni dallo spagnolo sono dell’autore.
10
Eduardo L. Holmberg, Le ossa¸ p. 96.
11
Ivi, p. 107.
12
Con Roberto Esposito sottolineiamo che l’importanza del medico nella ge-
stione immunitaria della nazione diventa cardine nella politica nazista. Euge-
netica e igienismo sono basilari nella politica hitleriana e trovano nel Lager la
loro espressione più sinistra: per assicurare la vita è necessario sistematizzare
la morte. Tuttavia, come afferma proprio Esposito, il concetto di biopolitica in
termini immunologici appare già nella prima metà dell’800, ossia già prima
del periodo in cui è ambientato il romanzo. Possiamo quindi affermare che
la metafora relativa al “corpo sociale” fosse di ampio dominio, in particolare

65
elementi eccentrici della società, il borghese urbano è – o sembra esse-
re – il baluardo del sapere e la polizia il suo servitore (questo è ancor
più evidente in La casa indemoniata): “Quando si è nel bel mezzo di
un’indagine, il rispetto viene meno, e nell’animo germoglia una specie
di crudeltà serena, quasi un’incarnazione della giustizia”.13
Potremmo pensare, quindi, che l’opposizione da parte di Belisario
Otamendi (leggasi, da parte dell’istituzione) alla pubblicazione dell’ul-
timo capitolo dipenda anche dalla smaccata esibizione di un funziona-
mento tipico dello Stato, vale a dire lo stato di eccezione. Il problema di
fondo coincide con la descrizione del concetto di biopolitica elaborato
da Foucault. Sia Giorgio Agamben sia Roberto Esposito riflettono sulla
contraddizione, irrisolta nel francese, tra protezione della vita e sovrani-
tà su di essa. Il potere è cura del corpo, anche nel momento in cui viene
attribuita una pena, o impone un dominio oscuro su di esso (sociale,
individuale)? In che modo si articolano i due attributi della biopolitica
– difesa della vita attraverso la concezione della morte – nella società
contemporanea?14
Con Esposito notiamo che lo star fuori della legge del protagonista
di Le ossa non è un’eccezione, una devianza. Risponde in pieno al para-
digma immunitario, il dispositivo grazie al quale il filosofo napoletano
spiega la contraddizione del biopotere. Il medico inserisce nel corpo so-
ciale un vaccino. La stessa arma con cui Clara si è posta al di sopra della
legge è qui uno stato di eccezione del diritto, in grado di ristabilire l’or-
dine del sapere maschile e dell’istituzione. La quantità di morte che il
potere prevede per garantire la vita risponde, in Esposito, al concetto di
immunizzazione. Esiste quindi un confine sempre presente nel discorso
politico: per difendere la vita del corpo sociale, implicitamente ne deve
negare una parte. È nostra intenzione, nel prossimo paragrafo, vagliare

tra gli studiosi di medicina e di biologia. Cfr. R. Esposito, Immunitas, Torino,


Einaudi, 2004, p. 152-161 (§ 4.1).
13
Eduardo L. Holmberg, Le ossa, p. 43.
14
Giorgio Agamben, Homo Sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Torino,
Einaudi, 1995, p. 8 e anche R. Esposito, Immunitas, p. 25-26.

66
la possibilità di una narrativa biopolitica, una letteratura che si insinui
nella fenditura recondita che separa il biopotere dalla tanatopolitica.

Stato e complotto, una costante letteraria argentina

Alla luce di quanto scritto finora, ci sembra possibile articolare una


precisa relazione analitica tra visione del ruolo dello Stato e dell’élite
politica, culturale e scientifica, e le forme letterarie in gioco nella loro
narrativizzazione. Per fare questo, leggeremo il poliziesco di Le ossa
dal punto di vista del concetto di ficción paranoica, proposto dagli ar-
gentini Ricardo Piglia (1991) e Daniel Link (2012), e corroborato, per
entrambi, dal lavoro di Josefina Ludmer (1999).15
Molti elementi della trama si costituiscono come complotti narra-
tivi. Ovviamente, la prima macchinazione è quella costruita da Clara,
smascherata dal protagonista. Si nasconde nel suo travestimento e, da
autodidatta, attenta contro il sapere medico. Secondo Josefina Ludmer:

Clara, la prima assassina del giallo argentino, è sia una paziente di


Charcot che una bella Circe vendicativa edotta di medicina. Incarna
meglio di chiunque altro la modernità di fine secolo nella “letteratura
scientifica” del genere poliziesco: uccide uomini di scienza quando si
toglie gli abiti da uomo [...], proprio quando appaiono le prime donne
nella Facoltà di Medicina di Buenos Aires, vale a dire le prime donne
medico, che furono anche le prime femministe argentine.16

15
Ricardo Piglia, La ficción paranoica, “Clarín”, 19/1/1991, p. 5-6; Josefina
Ludmer, El cuerpo del delito. Un manual, Buenos Aires, Perfil, 1999; Daniel,
Link, Paranoia y ficción policial, conferenza plenaria nel “Segundo Coloquio
Latinoamericano de Literatura Policial Ciudades, Identidades y Literatura
Policial”, organizzato dall’Universidad Católica de Chile, Santiago de Chile,
21-24 settembre 2009 (il testo letto in occasione della plenaria è una cortesia
dell’autore).
16
J. Ludmer, El cuerpo del delito, p. 359.

67
In questo caso, il complotto mina le istituzioni dello Stato, le sue
conoscenze e il genere dei suoi rappresentanti.
Il secondo complotto riguarda le coordinate narrative e le modalità
interpretative. Si tratta di un complotto ermeneutico, in cui è impossi-
bile comprendere l’autorità dell’enunciatore, la sua esatta provenienza
e i suoi obiettivi. Le ossa è una meta-narrazione poliziesca in cui, te-
oricamente, noi stiamo leggendo “la realtà”, un’esposizione dei fatti:
“Certo, perché lei è convinto che si tratti di un’indagine, e invece è solo
un romanzo. […] Le prove che ho raccolto servono a rendere il raccon-
to verosimile. Se arriverò a una soluzione lo pubblicherò, altrimenti lo
darò in pasto alle tarme o lo brucerò”.17 Lo scopo del narratore è, come
lui stesso afferma più volte, indagare per scrivere un poliziesco. Quindi,
cosa stiamo leggendo esattamente? Un poliziesco, una novela testimo-
nio? Secondo Daniel Link,

chi narra la vicenda è uno scienziato e naturalista che “fa” il detective


per scrivere un romanzo che è di per sé un delirio paranoico. Ludmer
segnala che “l’uomo di scienza” di Le ossa [...] si trasforma in un de-
tective sia per indagare il mistero del genere femminile in nome della
legge (per lo Stato), sia soprattutto per scrivere un romanzo “che in-
ganni”.18

Difatti, in Le ossa leggiamo che “[a]lcuni diranno che è un romanzo,


per altri sarà una favola, per altri ancora un resoconto; qualcuno si con-
vincerà che si tratta di un’indagine poliziesca, molti diranno che è una
menzogna, pochi crederanno che sia la verità. E così nessuno saprà cosa
pensare”.19 Il narratore insiste sulla dimensione documentale del testo,
vuole che crediamo nel potere tanatologico del medico. Ci assicura la
seguente scrittura di un romanzo che si atterrà alle regole del genere,
ma per il momento abbiamo una storia compiuta e sinistra.

17
E.L. Holmberg, Le ossa, p. 36.
18
D. Link, Paranoia y ficción policial, s. p.
19
E.L. Holmberg, Le ossa, p. 102.

68
L’ultimo complotto dipende dalla relazione che il poliziesco intavo-
la con il concetto di interpretazione. Secondo Piglia il poliziesco istitui-
sce un rapporto paranoico coi segni: tutto è ermeneutica, ogni enunciato
nasconde un messaggio occulto che il detective è chiamato a decifrare.
La società è una rete di segni e solo il detective è in grado di decifrare
il codice segreto e di risolvere l’enigma. “Per questo motivo il romanzo
poliziesco è legato alla psicoanalisi e la psicoanalisi, così come dice
Octave Mannoni, non si sa se sia una conoscenza del delirio o il delirio
di una conoscenza”.20
Tale delirio si trasferisce dall’investigatore al lettore che, come af-
fermava Borges, viene pervaso dalla stessa necessità di sapere.21 Risulta
però interessante entrare nel merito del romanzo di Holmberg e riflet-
tere sul rapporto tra il soggetto destinatario del discorso immunitario
(Clara e, per estensione, il lettore) e il Potere (il medico, o lo Stato). In
altre parole, qual è la trama occulta, la minaccia, che siamo chiamati a
interpretare?
Torniamo quindi alle teorie biopolitiche accennate alla fine del pa-
ragrafo precedente, in cui avevamo parlato della contraddizione per cui
la biopolitica è allo stesso tempo difesa e soppressione della vita. A
nostro avviso, Le ossa esibisce proprio l’oscillazione della sovranità tra
protezione della vita e stato di eccezione, ossia la facoltà di decidere
la morte di un soggetto più o meno simbolico. In Homo sacer (1995),
Agamben cerca di sciogliere il nodo foucaultiano tra biopotere e potere
mortifero, argomentando come lo stato di eccezione del diritto, la pos-
sibilità di annichilire il corpo sociale e individuale, sia una caratteristica
intrinseca alla sovranità. “Lo stato di eccezione non è, cioè, tanto una
sospensione spazio-temporale, quanto una figura topologica complessa,
20
Ricardo Piglia, “La finzione paranoica”, trad. it. di Stefano Saverio Spadea, in
Sur, blog della casa editrice omonima http://www.edizionisur.it/sotto-il-vulcano
/22-07-2011/la-finzione-paranoica/, 22/07/2011, ultimo accesso, 03/03/17, ore
14:45 (corsivo nell’originale).
21
Jorge Luis Borges, Borges oral, Buenos Aires, Bruguera, 1983, p. 73. In
particolare, il lettore è definito “sospettoso delle parole”, come se queste na-
scondessero continuamente un mistero.

69
in cui non solo l’eccezione e la regola, ma anche lo stato di natura e il
diritto, il fuori e il dentro transitano l’uno nell’altro”.22 Un privilegio
occulto proprio del potere,23 nascosto dietro strategie retoriche quali il
benessere, il progresso o la difesa da minacce esterne.
Il protagonista, estremo difensore del corpo sociale, spinge, autorizza,
impone il suicidio della colpevole. In sintonia con il pensiero di Agam-
ben, Clara rappresenta il corpo dell’Homo Sacer, uccidibile ma insacri-
ficabile, su cui il potere applica lo stato di eccezione. Ed è proprio tale
esibizione che attiva, a nostro avviso, il sistema di segni paranoico. Il
lettore, partecipe del mondo del detective, si spinge oltre la frontiera del-
la difesa del corpo per approdare nel territorio della gestione sovrana;
rompe le narrazioni positive dello Stato per saggiarne l’ampio spettro di
azione, compresa la morte. La paranoia del poliziesco riguarda, quindi,
l’interpretazione della sovranità che il genere mette in mostra: la labilità
del concetto di sicurezza, la relazione tra salute e produttività dell’homo
æconomicus. La minaccia implicita nella domanda, se lo Stato uccide per
proteggermi, può uccidermi per proteggere? In Le ossa tale potere vive
una semplice traslazione. In sintonia con una forma ortodossa di pensiero
positivista, la tanatopolitica è trasferita dall’apparato politico all’istitu-
zione scientifica.

Conclusioni

Ricardo Piglia, Daniel Link, Josefina Ludmer, tutti lettori del com-
plottista Borges, attribuiscono al poliziesco uno statuto epistemologico.
Non la narrazione della verità, ma l’esposizione dei metodi di determi-
nazione della verità. Aggiungiamo che il genere è anche una mise-en-
scène delle condizioni di costruzione/falsificazione della verità, trame
segrete atte a subordinare la conoscenza al controllo, mistificazioni del

22
Giorgio Agamben, Homo Sacer, p. 44.
23
Cfr. Roberto Esposito, Communitas: origine e destino della comunità, Tori-
no, Einaudi, 1998.

70
concetto di salute e cura. Il poliziesco e la fantascienza esplorano i con-
fini delle strutture della modernità.
Assieme a Leopoldo Lugones, Horacio Quiroga (argentino d’ado-
zione) e altri, Holmberg può essere visto come uno dei fautori dell’i-
dentità letteraria rioplatense attuale. Josefina Ludmer lo definisce “l’a-
nello perfetto tra […] la coalizione statale patrizia e la bohém moder-
nista”.24 A nostro avviso, la congiunzione che Holmberg compie è più
ampia e riguarda un aspetto rilevante della letteratura argentina attuale
nella quale, tra le altre caratteristiche, spicca la narrazione del rapporto
paranoico e complottistico tra Stato e comunità.
Se nel caso delle élite successive all’indipendenza la discriminante
tra corpo dotato di diritti e corpo uccidibile correva lungo la frontiera
tra civilizzazione e barbarie e coinvolgeva creoli da una parte e indige-
ni, neri e gauchos dall’altra, nel caso di Holmberg questa prassi si rivela
generalizzata lungo frontiere fluttuanti e plurali, come quella di genere.
Holmberg si riappropria di un discorso di esclusione e lo pulisce da
ogni opacità. Il progetto di selezione sociale è evidente, così come la
sua dimensione occulta. A partire dalla generalizzazione della dimen-
sione necropolitica25 dello Stato e delle autorità scientifiche che lo sup-
portano, la letteratura argentina ha sviscerato il rapporto ambivalente
tra messaggio e interpretazione. La ficción paranoica che Holmberg
sembra inaugurare dipende dalla sua posizione di medico e scienziato
da un lato e bohémien dall’altro. Le narrazioni proteiche della moder-
nità e del positivismo si destrutturano per poi essere ripresentante da
un punto di vista nuovo, quello del complotto mortifero ai danni dei
cittadini, scritto attraverso l’uso di generi “popolari”. È facile vede-
re come gli elementi essenziali della letteratura di Holmberg possano
essere ricondotti, in qualità di precursori, a un modo argentino di trat-

24
J. Ludmer, El cuerpo del delito, p. 173. La relazione con Sarmiento, invece,
è decisamente più complessa. Cfr. Paula Bruno, Eduardo L. Holmberg en la
escena científica argentina.
25
Usiamo il termine nell’eccezione di Achille Mbembe, Necropolitica, a cura
di Roberto Beneduce, Verona, Ombre Corte, 2016.

71
tazione letteraria della modernità, sia nei contenuti sia nella forma. Le
speculazioni metafisiche di Borges, da parecchi decenni canone lettera-
rio del paese, sono generate e strutturate attraverso i generi popolari. Il
poliziesco e la fantascienza sono veicoli atti a transitare dal concetto di
potere a quello di cospirazione occulta, con il conseguente delirio inter-
pretativo. Anche Holmberg ha contribuito alla costruzione di questo ser
argentino, una forma originale di osservazione e di discorso sul mondo,
sulla scienza; una tipologia letteraria fondata sull’esibizione delle con-
traddizioni della modernità attraverso i generi letterari che proprio la
modernità ha prodotto.

72
LEGAMI ETNICI PER LO SVILUPPO ECONOMICO: IMPRESE
E RAPPORTI COMMERCIALI TRA ITALIA E ARGENTINA NEL
TARDO XIX SECOLO
di Veronica Ronchi

L’Argentina della belle époque

La favorevole congiuntura internazionale della fine del XIX secolo


spinse un movimento di grandi flussi di capitale e di persone attraverso
l’Atlantico. La trasformazione economica che l’Argentina sperimentò
a partire da quel momento la collocò in una posizione privilegiata con
l’arrivo di importanti investimenti diretti a opere infrastrutturali che di-
ventarono veicoli determinanti per lo sviluppo economico e con l’arrivo
di milioni di immigrati1 che, oltre all’impatto prodotto sul mercato del
lavoro, risultarono un fattore di modernizzazione sociale e culturale. La
sostenuta crescita delle esportazioni fece dell’Argentina il paese leader
della regione sia per gli scambi commerciali con il resto del mondo sia
per la crescita del reddito pro capite, tanto che essa fu una delle nazioni
più dinamiche nell’attrarre ingenti capitali stranieri: quelli inglesi furo-
no il 47% nel 1913, la Francia ne deteneva il 9%, mentre la Germania il
7. Gli Stati Uniti e l’Italia ne garantivano meno dell’1%.2
La Repubblica Argentina registrò il più alto numero di ingressi
dell’emigrazione italiana in Sud America tra la metà dell’Ottocento e
il 1915 (circa il 40% del totale): si trattava di più di 1 milione e 750

1
Francesca Fauri, Storia economica delle migrazioni italiane, il Mulino, Bo-
logna, 2015, p. 135.
2
Juan V. Sourrouille, Bernardo P. Kosacoff, Jorge Lucángeli, Transnacionali-
zación y política económica en la Argentina, Centro Editor de América Latina,
Buenos Aires, 1985, p. 18.

73
mila individui3 e negli anni di massimo afflusso (1881-1890 e 1901-
1910) circa i tre quarti del totale decise di fermarsi. Nella prima fase gli
immigrati provenivano principalmente dal Nord Italia. Infatti, fino al
1886 i meridionali in Argentina non arrivavano al 25%, mentre i setten-
trionali si stanziavano intorno al 66%, tuttavia da quella data in avanti
si nota una percentuale sempre crescente, fino alla prima guerra mon-
diale, di meridionali che sceglievano l’Argentina come approdo, infatti
“di mano in mano ai liguri s’andarono mischiando romagnoli, veneti,
dalmati e, più tardi, livornesi, pugliesi e siciliani”.4
Gli italiani giunti nel paese della prima metà dell’Ottocento si impie-
gavano soprattutto come artigiani e marinai, mentre tra il 1851 e la prima
guerra mondiale la maggioranza si diresse verso la colonizzazione di zone
della Pampa, a Santa Fe, installandosi sia come affittuari e braccianti nelle
campagne sia come afferenti al settore secondario e terziario nelle città.5
Le ragioni che principalmente attrassero gli italiani verso l’Argentina
furono la relativa disponibilità di terra e la possibilità di diventare proprie-
tari terrieri e quindi agricoltori indipendenti. Bisogna, infatti, rilevare che
la quantità di terre coltivate aumentava del 10% l’anno consentendo anche
ai gruppi di immigrati, e non solo ai grandi monopoli stranieri, di diventare
proprietari terrieri.6
L’immigrazione non fu una dinamica sempre lineare. In particolare i
momenti in cui si contrasse si riscontrano tra il 1870 e il 1871 a causa di

3
Mario C. Nascimbene, Historia de los italianos en la Argentina, Fundación
Hermanos Agustín y Enrique Rocca, Buernos Aires, 1986, p. 45.
4
Comitato della Camera Italiana di Commercio ed Arti, Gli italiani nel-
la Repubblica Argentina, Compañia Sud-Americana de Billetes de Banco,
1898, p. 3.
5
Argentina, Archivo General de la Nación, Movimiento Industrial en la Argen-
tina entre 1874 y 1880, sala VII, n. 463.
6
Le difficoltà in questo senso furono molte per la collettività italiana, in parti-
colare per le frodi a cui gli immigrati erano soggetti. Vedi per un approfondi-
mento: Luigi Barzini, Nelle campagne argentine i “coloni”, “Il Corriere della
Sera”, 24 agosto 1902.

74
un’epidemia di febbre gialla e dal 1874 al 18787 per la crisi economica e
per le lotte intestine della Repubblica: il turbine rivoluzionario che insan-
guinò l’Argentina nel 1880 e portò alla presidenza il generale Julio Roca
generò gravissimi danni alla collettività italiana, arrestando il movimento
immigratorio e provocando un ritorno significativo di lavoratori in patria.
Tuttavia dopo questo periodo e sotto il governo liberale che ne seguì, l’Ar-
gentina tornò a essere quel contesto di grande prosperità ricercato dagli
immigrati, con una sola ricaduta tra il 1889 e il 1891 per i disastri finanzia-
ri causati dal deprezzamento della moneta.8 L’immigrazione fu dunque la
grande forza di questa terra, il motore in grado di trasformare un paese ric-
co di materie prime ma fondamentalmente spopolato in una nazione che si
approcciava a un moderno sviluppo economico. I contemporanei prove-
nienti dalla collettività italiana così fotografavano l’Argentina dell’epoca:

La verità è che la spiegazione del nascere e dello sviluppo così dell’a-


gricoltura, come dell’industria e di ogni cosa, è da cercarsi solamente
nell’immigrazione, senza la quale gli argentini avrebbero forse combattu-
ta qualche guerra in più, ma non ottenuto un trionfo nelle arti della pace.
La grandezza dell’Argentina è la creazione del capitale inglese e del lavo-
ro straniero e massime italiano, effetto di cause che agirono con non altra
cooperazione quasi da parte di lei che quella di lasciare libertà di fare.9

Economia urbana

In Argentina gli italiani furono il primo gruppo ad arrivare in massa


e poterono così influenzare le norme e le modalità di integrazione. Nel

7
Sino al 1876 i dati statistici sono pochi, ma dopo quell’anno gli studi si mol-
tiplicheranno.
8
María C. Cacopardo e José L. Moreno, La emigración italiana a la Argentina
1880-1930. Las regiones de origen y el fenómeno del retorno, “Cuadernos de
historia regional”, Universidad de Luján, maggio 2003, p. 22-25.
9
Comitato della Camera Italiana di Commercio ed Arti, Gli italiani nella Repub-
blica Argentina, cit., p. 162.

75
1914 erano il 39% degli stranieri residenti, il 12% dell’intera popola-
zione,10 e proprietari del 56,6% degli stabilimenti meccanici, del 46,3%
dei cappellifici, cotonifici, maglierie, del 57% delle industrie alimentari
e del 78,6% delle industrie delle costruzioni nella città di Buenos Ai-
res.11 La limitata grandezza di queste attività economiche (sino al 1910,
nessuna impresa italiana appare fra le 241 imprese estere presenti nel
paese12 e la prima multinazionale italiana presente in Argentina con un
ufficio commerciale è Pirelli nel 189813) rende difficile reperire docu-
mentazione in merito.14
Fino alla prima guerra mondiale i fondatori delle imprese italiane in
Argentina provenivano quasi esclusivamente da altre regioni: Lombar-
dia (34,6%), Liguria (18,3%) e Piemonte (18,3%). Nelle speranze di
questi immigrati c’era la volontà di espandere l’industria italiana all’e-
stero giacché i mercati dell’America Latina, dalla fine del XIX secolo,
costituivano un’importante opportunità per gli imprenditori italiani sul-
la scia dell’immigrazione che lì vi si installava. Pur tuttavia poche fi-
gure imprenditoriali avevano, prima di emigrare, un’attività manifattu-
riera in Italia, la cui produzione era in parte esportata sui mercati latini:
tali imprenditori facevano parte di quel conglomerato che Luigi Einaudi
chiamava “colonizzatori industriali”. Essi esercitavano spesso in Ar-
gentina sia attività produttiva sia attività di importazione, in particolare
10
Mario C. Nascimbene, Los italianos y la integración nacional, Selección
editorial, Buenos Aires, 1988, p. 11.
11
Roberto Cortés Conde, El crecimiento de la economía, de las industrias, y
la inmigración italiana, in Los italianos en la Argentina, ed. Francis Korn,
Fundación Giovanni Agnelli, Buenos Aires, 1983, p. 27-35.
12
Andrea Goldstein e Andrea Lluch, The Italian Economic Presence in Ar-
gentina – The Contribution of Multinational Corporations, in https://www.
researchgate.net/publication/239597451_The_Italian_Economic_Presence_
in_Argentina_-_The_Contribution_of_Multinational_Corporations.
13
Veronica Ronchi, The Dawn of Italian Industry in Argentina: Pirelli in Bue-
nos Aires (1898-1910), Feem Nota di lavoro, 106.2013.
14
L’organismo che si occupava della promozione del commercio italiano in
Argentina, dal cui bollettino si possono trarre interessanti informazioni sulle
imprese italiane, è la Camera di Commercio, aperta nel 1884.

76
per quanto riguarda il settore alimentare. Non è certo da trascurare il
fatto che l’immigrato rimanesse fortemente legato ai sapori della sua
terra e che ricercasse in Argentina beni simili, alimentando un mercato
etnico che influenzerà enormemente, come vedremo, i consumi di tutta
la popolazione locale.
I restanti emigranti, che non avevano avuto particolari competenze
imprenditoriali in patria, spesso aprivano un negozio per fare fronte alle
vendite al minuto e alla produzione su commissione e consideravano
normale vendere merci prodotte in Argentina come straniere per mante-
nere vivo il ricordo della patria, copiando spesso i prodotti e falsifican-
done la composizione.15
Nonostante la crescente popolazione italiana residente in Argentina,
a partire dal 1901 l’Italia passò dal quarto al quinto posto come nazione
esportatrice all’Argentina, la Francia superò nelle vendite la penisola,
e le due nazioni si contesero il mercato argentino per lo smercio di
alimenti e bevande. L’Argentina importava nell’ordine da Inghilterra,

15
A titolo di esempio i provvedimenti contro l’adulterazione del burro: “È ri-
tornato innanzi alla Camera, modificato dal Senato, il disegno di legge sulla
contraffazione e adulterazione del burro del quale abbiamo altre volte discusso.
Con esso saranno impedite le frodi finora perpetrate a danno del pubblico, ma
che riuscivano anche dannose al nostro commercio e alla produzione del bur-
ro, screditando sui mercati esteri un articolo del quale si fa una ragguardevole
esportazione. Con questo disegno di legge viene stabilito che tutti coloro i quali
a scopo commerciale o di fabbrica, tengono in deposito o pongono in vendita, od
importano nel regno, burro preparato in tutto o in una parte con la margarina o
altre sostanze oleose o grasse non derivati dalla crema di latte devono:
a) Imprimere su ogni pezzo del prodotto l’esplicita e chiara formula “burro
artificiale” oppure “margarina”.
b) Indicare con caratteri grandi e chiari colla stessa formula la cura dell’artico-
lo sui recipienti e le carte involti.
c) Esprimere la qualità artificiale del burro e la composizione delle miscele nei
libri, fatture, lettere e polizze di carico”.
In Archivio Camera di Commercio Italiana in Buenos Aires, “Bollettino men-
sile della Camera di Commercio e Arti in Buenos Aires”, anno X, n. 114, 10
agosto 1894, p. 6.

77
Germania, Stati Uniti e Francia; dall’Italia comprava principalmente
tessuti, vini e vermouth, olio d’oliva, riso, formaggi e conserve alimen-
tari.16 Le esportazioni furono dunque scarse in quegli anni, e il saldo
commerciale fu estremamente favorevole all’Argentina,17 inoltre le ri-
messe degli immigrati rendevano il paese esportatore di capitali verso
l’Italia. Per fare un esempio il valore dei prodotti esportati comples-
sivamente dall’Italia in Argentina nel decennio 1880-1890 fu di 180
milioni di lire italiane, mentre il valore dei prodotti importati in Italia
dall’Argentina in tale decennio fu più di 300 milioni.
A questo proposito così si esprime la Camera di Commercio italiana
in Buenos Aires:

L’importanza ciò nonostante del nostro commercio con questa Repub-


blica è molto al disotto di quello che dovrebbe essere, in condizione dei
nostri connazionali qui stabiliti e la corta distanza che ormai ci separa
dall’Italia, data la frequenza e la rapidità delle relazioni che si sono
stabilite dall’uno all’altro paese.18

Le ragioni profonde risiedevano nel motto dirigista dell’epoca


“comprar a quien nos compra”: l’Argentina preferiva acquisire merci
dalle nazioni che in cambio acquistavano suoi prodotti anziché dover
pagare in contanti gli scambi commerciali. Inoltre, i prodotti che po-
tenzialmente l’Argentina avrebbe potuto esportare erano concorren-
ziali con quelli italiani, in primo luogo sul fronte cerealicolo. L’Italia
possedeva poi scarse infrastrutture per esportare con successo. Il regi-
me doganale non era sufficientemente protettivo per gli industriali per

16
A titolo di esempio vedi: Argentina. Archivo General del Ministerio de Rela-
ciones Exteriores y Culto, cassa n. 555, resoconti di importazione anno 1894.
17
A titolo di esempio vedi: Argentina. Archivo General del Ministerio de Re-
laciones Exteriores y Culto, cassa n. 535, lettera del 29 febbraio 1908 dal Vice
Consolato di Venezia al Ministro de las Relaciones Exteriores y Culto de la
República Argentina, statistica delle esportazioni argentine in Italia.
18
Argentina. Archivio della Camera di Commercio Italiana in Buenos Aires,
“Bollettino della Camera di Commercio”, 10 agosto 1894, p. 2.

78
cui essi, sentendosi sicuri in Italia, potevano affrontare i mercati este-
ri. Inoltre, gli industriali non conoscevano spesso le caratteristiche
dei mercati in cui si dirigevano a operare e gli usi commerciali, a cau-
sa degli scarsi servizi pubblici che l’Italia postunitaria, vessata dalla
povertà, poteva offrire. Si aggiungeva a questa difficoltà il gravoso
costo del nolo: da Genova a Buenos Aires era di 45 franchi al metro
cubo oltre ad extra noli relativi al peso. Per trasportare un’automobile,
esclusi i costi di carico/scarico, si poteva considerare un’imposta di
900 franchi, mentre al porto di Anversa il costo per lo stesso trasporto
era fra i 250 e i 300 franchi.19
Gli italiani ebbero dunque parte minima nella storia politica e nelle
imprese finanziarie dell’Argentina, esclusion fatta per la costituzione
del Banco de Italia y Río de la Plata, ma una grande influenza nello
sviluppo delle imprese metallurgiche e nell’ampliamento delle colture,
che consentirono un primo sviluppo industriale e resero indipendente
l’Argentina dall’importazione di cereali.

Alcuni casi d’impresa

“La storia di tutti questi industriali è la medesima: venuti qui senza un


soldo, senza molte cognizioni, con severe economie e lavoro indefesso ac-
cumularono il primo capitale, che andò centuplicandosi per un complesso
di circostanze fortunate”.20 Per circostanza fortunate si intende lo sviluppo
dei mercati che ricalcava la grande necessità di servire una popolazione
sempre crescente, tipica di quel momento storico. Di seguito si riporta una
statistica sulle attività economiche condotte da italiani estratta dal censi-
mento del 1895, che dà una chiara idea del fenomeno imprenditoriale.

19
Comitato nazionale per le esportazioni e le importazioni italiane all’estero (a
cura di), La partecipazione dell’Italia alle esposizioni internazionali di Buenos
Aires 1910, Roma, 1910, p. 34-35.
20
Comitato della Camera Italiana di Commercio ed Arti, Gli italiani nella Re-
pubblica Argentina, p. 156.

79
Statistica sulle imprese condotte da italiani nella Repubblica Argentina
(1895)
Italiani Altre nazioni
Botteghe 528 139
Caffè 103 46
Confetterie 80 97
Cappellai 33 21
Calzolai 281 218
Doratori 9 2
Fabbriche di mobili 100 43
Fabbriche di liquori e birra 34 21
Fabbriche di carri e di depositi 92 55
Fabbriche di paste 35 5
Fabbriche di letti in ferro 15 6
Fabbriche di fiammiferi 1 1
Farmacie e drogherie 41 40
Falegnami 160 85
Fabbri ferrai 133 28
Fonderie 30 20
Fornaci per mattoni 16 6
Fotografie 11 10
Ferretterie a colori 34 15
Giardinieri 17 7
Impresari di costruzioni 24 11
Imprese di carrozze 9 7
Lattai 65 12
Litografie 8 10
Mercerie 114 146
Muratori 20 2
Officine meccaniche 35 35
Osterie e spacci di vini 336 150
Orologerie e gioellerie 58 46
Sartorie 131 96
Fonte: Argentina. Archivo General de la Nación, Censo 1895.

80
I casi di imprese di italiani nella Repubblica Argentina sono certa-
mente numerosi e dunque proporrò qui solo alcuni esempi di società
artigiane a guida italiana di quegli anni. La quasi totalità delle imprese
edilizie, per esempio, era proprietà di italiani: infatti, “gl’italiani son
quelli che ingrandiscono la città, poiché sono essi che danno la spinta e
si fanno iniziatori delle nuove costruzioni nei quartieri più eccentrici, e
sono i primi proprietari rappresentanti l’80% di tutto quanto si va edifi-
cando nelle diverse parrocchie”.21
Dalle statistiche del 1895 si ricava che di 70 officine meccaniche, 35,
tra cui le più importanti, erano di italiani e 30 le fonderie di nostri conna-
zionali sulle 50 allora esistenti. Talune case italiane come Zamboni, Rez-
zonico, Vasena, Ottonello, Negroni, Merlo, Spinola, Merlini e Pasquali,22
con le loro succursali, costituivano più dei 3/5 del lavoro totale del ferro
di tutta la Repubblica Argentina.23 Si rilevavano anche casi di stabilimenti
metallurgici di impiantati, come per esempio quello di Carlo Berri a Men-
doza, adibito alla costruzione di sistemi per l’incanalamento dell’acqua.
Considerando le industrie metallurgiche, o quelle che ebbero con esse
stretta attinenza, è da notare che nel 1914 su 29 fabbriche di letti in ferro
proposti dalle statistiche, 25 erano di italiani e tra queste la più rilevante
era quella di Eugenio Cardini.24 Sebbene i letti in ferro fossero la parte
più importante del lavoro di queste fabbriche, la produzione era ampia-
mente diversificata. Il bisogno di questi mobili si fece sentire col crescere
dell’immigrazione: all’arrivo in Argentina gli immigrati avevano bisogno
di un letto, e comunemente, anche per le scarse possibilità economiche,
ne acquistavano uno di ferro. In queste fabbriche di letti si costruivano
anche le reti a maglia di ferro. L’importazione di questi articoli era dun-
que cessata quasi del tutto nei primi anni del XX secolo.
21
Gli italiani della repubblica argentina all’esposizione di Torino del 1911,
Comitato della Camera italiana di commercio ed arti di Buenos Aires, p. 13.
22
Dionisio Petriella, Los italianos en la historia del progreso argentino, Dante
Alighieri, Buenos Aires, 1985, p. 35-36.
23
Argentina. Archivo General de la Nación, Censo 1895.
24
Agricoltura, industria e commercio, “Bollettino mensile della Camera di Com-
mercio e Arti in Buenos Aires”, anno III, n. 3, 31 marzo 1914, p. 15.

81
Un’altra importante attività che vide coinvolta l’italianità fu quella
delle imprese metallurgiche. Rispetto delle grandi industrie meccaniche
che si creavano con ingenti capitali in forma di società per azioni come
la “Acero Platense” o “El Eje”, le imprese italiane avevano carattere
artigianale e venivano costituite con risorse certamente più limitate, pri-
vilegiando questa fase storica l’esportazione delle intelligenze piuttosto
che di grandi capitali. Gli italiani cominciarono a lavorare nelle vaste
proprietà rurali circondando le siepi con filo di ferro per trattenervi il
bestiame a pascolare, specializzandosi nella produzione di morse, piut-
tosto semplici da costruire, che andavano ad ancorare il filo sui pali.
Con l’avvento dell’agricoltura estensiva e dunque delle macchine agri-
cole, gli italiani si specializzarono nelle riparazioni delle stesse nella
costruzione di bindoli per abbeverare il bestiame.25 L’espansione dell’a-
gricoltura argentina era tale, nei primi anni del Novecento, da consenti-
re l’importazione ogni anno di circa 55.000 aratri, 5.000 rastrelli, 9.000
falciatrici, ma anche alcune centinaia di macchine più complesse come
le trebbiatrici e le tagliatrici.
L’Argentina era in completa costruzione: i fabbri si adoperarono nel-
le fabbriche di pasta, nei mercati, nei grandi stabilimenti industriali per
la costruzione di colonne per gli edifici e nei pilastri per l’illuminazio-
ne. Gli stabilimenti meccanici a Buenos Aires nel 1911 erano ben 150
e 38 possedevano una fonderia annessa. All’interno di questa massa vi
erano poi imprese specializzate sulle diverse macchine, per esempio la
fabbrica di Cantone era qualificata in stampe, litografie e fusioni, quella
del Coppola nei molini, del Rezzonico nei chiodi ecc. Buenos Aires era
poi disseminata di stabilimenti meccanici che fungevano perlopiù da
opifici di riparazione.
Volgendoci verso l’impresa alimentare, tra i prodotti più apprezzati
e consumati nell’Argentina dell’epoca sono certamente da rilevare le
bevande alcoliche alla cui base vi erano in generale i cereali, che si pre-
stano alla distillazione per via dell’alto contenuto di amido. Il cereale

25
Argentina. Archivo General del Ministerio de Relaciones Exteriores y Culto,
cassa n. 1061, “Argentina attuale”, 25 maggio 1908.

82
maggiormente utilizzato era il mais, sia per ragioni economiche sia per-
ché i residui, in virtù delle loro proprietà nutritive, venivano impiegati
come foraggio per il bestiame.26 Le distillerie preferivano questo tipo
di lavorazione, giacché dove si usavano gli acidi i residui diventavano
inservibili, limitando così i guadagni per gli imprenditori. Tale era la
quantità di distillerie presenti da richiamare l’attenzione dei contem-
poranei, che non si spiegavano come ce ne fosse tanta abbondanza,
giacché esse non potevano contare che sul consumo interno. La prima
grande distilleria fu impiantata a Buenos Aires dagli italiani Devoto e
Rocha: l’espansione delle attività porterà i due imprenditori ad aprirne
altre due e a trasformarle tutte adibendole alla lavorazione del malto,
al posto di quella ad acidi con cui erano partiti. Altre poi erano degne
di menzione come quelle più moderne di Griffero, Genoud, Benvenuto
Martelli ecc.27
Da ogni distilleria (nel 1911 se ne contavano 21 di cui 9 di italiani)
dipendevano poi numerose fabbriche di liquori: mentre nel 1895 se ne
registrano in totale 55 di cui 34 di italiani, si notano aumenti sino alla pri-
ma guerra mondiale: 47 diventavano quelle appartenenti a italiani su 120.
Questa espansione è dettata dal fatto che simili impianti richiedevano
poco capitale per essere costruiti, con il solo inconveniente che la fab-
brica, a causa dei cattivi odori, doveva essere installata fuori dall’abitato.
Tra i casi più significativi vi era la distilleria di Griffero con una ca-
pacità di produzione di 1 milione di litri di alcol al giorno,28 tuttavia si
trattava di un’industria con notevoli problematiche non solo dettate dal
contrabbando, ma anche dalle dispute sindacali interne. Esistevano poi
molte fabbriche di liquori con una distilleria loro annessa. Il consumo

26
Le distillerie di alcool, “Bollettino mensile della Camera di Commercio e
Arti in Buenos Aires”, Supplemento al n. 149 del bollettino, anno XIII, 10
luglio 1897, p. 2-4.
27
Ditte commerciali italiane iscritte alla camera italiana di commercio in Bue-
nos Aires, “Bollettino mensile della Camera di Commercio e Arti in Buenos
Aires”, anno XXII, 10 gennaio 1908, p. 9-11.
28
Francesco Scardin, Vita italiana nell’Argentina. Impressioni e note, Com-
pañía Sud-Americana de Billettes de Banco, Buenos Aires, 1899, p. 267-269.

83
era tale che i contemporanei evidenziavano come in talune province po-
tessero certo mancare panetterie, farmacie o altri esercizi commerciali
per le necessità di base, ma non una fabbrica di liquori o di rinfreschi,29
tanto che anche le grandi pasticcerie producevano liquori al loro in-
terno. I liquori venivano ben imitati e le marche più note falsificate. I
fabbricanti spesso aggiungevano al nome dei liquori il loro marchio, ma
a togliere quel contrassegno erano i rivenditori stessi, che preferivano
etichettare nuovamente il prodotto per renderlo più appetibile sul mer-
cato. I destinatari di questi liquori erano i numerosi negozietti di vendita
al dettaglio presenti in Argentina.
Un altro prodotto estremamente apprezzato era il pane. La coltiva-
zione di grano cresceva notevolmente in Argentina: per dare una chiara
idea dell’estensione, tra il 1909 e il 1911 le colture si ampliarono di 1
milione e mezzo di ettari, tanto da permettere nel 1911 all’Argentina di
superare gli Stati Uniti come esportatore di cereali, con un mercato ri-
volto principalmente al Brasile.30 La grande riforma era cominciata nel
1880 con l’introduzione del mulino Bauer e Siegel, che prevedeva l’u-
tilizzo di cilindri d’acciaio per la macinazione del grano e di porcellana
per la semola, secondo il cosiddetto sistema austroungarico. Tale rifor-
ma si estese in breve ai principali mulini della capitale e delle province
agricole. In questo settore gli italiani primeggiavano, tanto che nel 1911
dei 34 molini a Buenos Aires 21 appartenevano a italiani.
Il pane era generalmente di grano, ma ne esistevano altre varietà,
come il pane di solo glutine proposto dall’impresa Marchese: gli italiani
seppero imporre il proprio gusto sul mercato argentino, infatti si nota
come i panettieri italiani esistevano anche dove l’immigrazione fu scarsa,
come a Salta e a Jujuy.31 Il tipo di pane più diffuso, non a caso, era quello
29
Patricia Aguirre, Comida, cocina y consecuencias. La alimentación en Bue-
nos Aires, in Población y bienestar en la Argentina  del primero al segundo
centenario, ed. Susana Torrado, Edhasa, Buenos Aires, 2007, p. 469-476.
30
Thomas McGann, Argentina, Estados Unidos y el sistema interamericano
1880-1914, Eudeba, Buenos Aires, 1965, p. 281-286.
31
Mario C. Nascimbene, Los italianos y la integración nacional, Selección
editorial, Buenos Aires, 1988, p. 29-31.

84
di Milano, ma esistevano anche i grissini torinesi, non solo importati ma
anche di fabbricazione argentina, e il pane di Como. Il pane fresco era
quindi quasi tutto appannaggio degli italiani, mentre quello secco, delle
gallette, era gestito dalla collettività spagnola. Gli italiani primeggiavano
anche nella produzione e vendita dei biscotti: i più in voga all’epoca si
chiamano “Vedova Canale”,32 ma esistevano chiare imitazioni dei biscotti
di Novara, i biscottini alla vaniglia detti masitas, e gli amaretti prodotti
dai Lazzaroni di Saronno. Tutti questi articoli e vari panettoni e paste
frolle si vendevano comunemente nelle panetterie.
Queste piccole imprese artigiane con scarsità di capitali saranno
una caratteristica del tardo XIX secolo, mentre a partire dagli anni ’10
del Novecento l’industria entrerà in un periodo di transizione e la sto-
ria economica dell’Argentina sarà soggetta a un deciso cambiamento.
L’accumulazione di capitali creata dall’agricoltura e dell’allevamen-
to cominciò a trovare impiego nella costruzione di potenti società per
azioni, contro le quali solo gli stabilimenti più solidi potevano soste-
nersi. L’Argentina era pronta così per entrare a pieno in un processo
di sviluppo industriale che avrebbe contraddistinto la storia del paese
dopo la prima guerra mondiale.

32
Ministero degli Affari Esteri. Commissione per l’emigrazione, Bollettino
dell’emigrazione, Roma, anno 1907, n. 15, p. 75.

85
LA PARABOLA DELLA DEMOCRAZIA YRIGOYENISTA, 1916-1994
di Francesco Davide Ragno

Con le elezioni presidenziali del 1916, le prime svoltesi dopo l’ap-


provazione della Ley Saenz Peña che rendeva il suffragio segreto, libe-
ro e obbligatorio, Hipólito Yrigoyen, leader dell’Unión Cívica Radical,
entrava alla Casa Rosada. Yrigoyen ricordava così il giorno in cui salì al
potere, il 12 ottobre del 1916: “Mi è stata data la possibilità di assistere
al primo 12 ottobre di libertà sovrana e di liberazione redentrice della
Nazione”.1 In quel momento iniziò a prendere forma, in Argentina, una
peculiare declinazione della democrazia destinata a svilupparsi poi per
quasi tutto il corso del Novecento.
Questo saggio si pone l’obiettivo di tratteggiare le modalità con
cui la concezione yrigoyenista della democrazia si è strutturata ed
evoluta nel corso del tempo come un vero e proprio universo discorsi-
vo. Un discorso politico, questo, che non si limitò a influenzare il solo
partito di Yrigoyen, l’Unión Cívica Radical (UCR), ma attraversò tut-
ta la famiglia radicale che nel XX secolo visse momenti di importanti
e significative divisioni. L’analisi di questo modello fa emergere, tra
l’altro, una sorta di finto paradosso che ha portato una serie di espo-
nenti, che si definivano dichiaratamente anti-yrigoyenisti, a condivi-
dere proprio il paradigma discorsivo yrigoyenista: si fa strada, in par-
ticolar modo nella prima parte del Novecento, una sorta di ossimorico
“yrigoyenismo anti-yrigoyenista”.
Ma chi era e come è stato descritto questo leader politico che ha
detenuto la Presidenza dell’Argentina per oltre otto anni? “Uomo del

1
Hipólito Yrigoyen, Mí vida y mí doctrina, Buenos Aires, Ediciones El Aleph,
2000, p. 108-109.

87
mistero”, “enigmatico”, “personaggio eclettico”: sono solo alcune
delle definizioni dedicate al leader radicale Yrigoyen, la cui idea di
democrazia ha condizionato buona parte della democrazia argentina
durante il XX secolo. La concezione democratica di Yrigoyen, conso-
lidatasi nella prima parte del Novecento, è andata mutando nel corso
del tempo. Va da sé, infatti, che, considerando l’yrigoyenismo come
una visione del mondo, questa abbia dato peculiari risposte, in un
certo qual modo, alle pulsioni dello spirito dei tempi, adeguandosi a
istanze sempre nuove. E il concetto di democrazia che esprimeva la
Weltanschauung yrigoyenista rivela questo cambiamento.

1916-1930: yrigoyenismo di Yrigoyen

L’avvio della prima presidenza di Yrigoyen fu vissuta come “una


grande crociata che aveva dato forma all’argentinidad e aveva con-
sentito di riprendere un cammino (allora temporaneamente sospeso)
verso il recupero della tradizione storica proveniente dal Maggio”.2
Emergeva, quindi, un’idea che Yrigoyen aveva già espresso in pre-
cedenza secondo cui l’UCR rappresentava lo spirito della Nazione:
ne derivava un sistema politico dominato da due forze, l’una opposta
all’altra.

La prima [comprendeva] tutte le trasgressioni […] delle funzioni pub-


bliche […], calpestando la libertà e negando il diritto e la giustizia e ab-
battendo tutto lo spirito morale pubblico e amministrativo […]. L’altra
[rappresentava] tutto il potere pubblico […]. Dentro questa [tendenza]
[c’era] la stessa essenza dei più cari attributi della Nazione.3

2
Ivi, p. 189-190.
3
La Tercera Carta al Dr. Molina, trascritto in Carlos J. Rodríguez, Yrigoyen.
Su revolución política y social, Buenos Aires, Librería y Editorial La Facultad,
1943, p. 150-151.

88
Yrigoyen rappresentava, quindi, il sistema politico argentino diviso
tra un régimen, entro cui si raccoglievano tutti i movimenti politici a
eccezione dell’UCR, e “‘una causa’ rivendicatrice”, ossia il radicalismo
stesso. A difesa di questa causa, vi era il suffragio universale, obbliga-
torio e segreto che avrebbe assunto una funzione salvifica. Un suffragio
di questo tipo, infatti, diventava il principio di legittimazione per l’UCR
tanto durante gli anni in cui il partito restò escluso dal sistema rappre-
sentativo argentino (fino al 1916), quanto nella fase successiva.
Nell’ambito di questo processo Yrigoyen diventava, nella rappre-
sentazione elaborata dai suoi sostenitori, il “nume tutelare” della nazio-
ne, perché capace di coglierne l’essenza e di poterla sviluppare: “Come
per un genio tutelare della Patria”, si legge sulle colonne del quotidiano
radicale “La Época”, Yrigoyen “immagina la grandezza della Patria fu-
tura e la modella nelle proprie mani come se fosse argilla di eternità”.4
È facile leggere in tutto questo il segno di un elevato grado di persona-
lizzazione della politica: un elemento che investiva il partito radicale e,
dunque, il popolo argentino nel suo insieme, entrambi identificati con il
leader, Yrigoyen. Questi non era semplicemente il principale esponente
del radicalismo, ma “l’uomo-idea, l’uomo-incarnazione, l’uomo-ban-
diera, l’uomo-simbolo”.5 I partiti politici, del resto, secondo l’interpre-
tazione del deputato radicale Diego L. Molinari, non sviluppavano la
loro azione a partire da programmi politici, ma si concentravano sugli
ideali, sulla causa; grazie alla “causa” e al partito che era in grado di
interpretarla, “moltitudini ignoranti e, per così dire, moltitudini piene
di bisogni e di vizi […] si redimevano”.6 In tal senso, Yrigoyen, leader
indiscusso del partito “redentore”, “incarnava la volontà generale del

4
Páginas de bronce, “La Época”, 6 novembre 1929, p. 1.
5
Horacio Oyanarte, El Hombre, Buenos Aires, Librería Mendesky, 1916, tras-
critto in Carlos A. Giacobone e Edit R. Gallo, Radicalismo, un siglo al servicio
de la Patria, Buenos Aires, Dunken, p. 96.
6
Diego L. Molinari, Los Diplomas Sanjuaninos. Discurso pronunciado en el
Honorable Senado de la Nación en las sesiones del 31 de julio, 1 y 2 de agosto
de 1929, Buenos Aires, Ateneo Radical Diego Luís Molinari, p. 32.

89
Paese”.7 Nell’innegabile riferimento a Rousseau si sentiva echeggia-
re, ancora una volta, l’ideale unanimista che aveva condizionato buona
parte della cultura politica argentina.
Democrazia, infatti, nei termini yrigoyenisti, era un concetto e una
pratica che radicava nella nozione di popolo con una forte impronta una-
nimista, olistica: l’idea cioè che il popolo fosse un tutt’uno organizzato e
che qualsiasi divisione (fosse essa politica, sociale e, dunque, di classe),
era sostanzialmente innecessaria e fittizia e, dunque, irrilevante se non
perfino dannosa. Nella fattispecie il suffragio, che aveva permesso l’arri-
vo di Yrigoyen alla Casa Rosada, aveva determinato il ripristino dell’ar-
monia primigenia su cui si fondava la società argentina delle origini.
Quest’armonia originaria si fondava “sulle promesse di reparación
e di benessere sociale che proclamava il nostro partito”.8 Era proprio
su questa idea di comunità armoniosa che la democrazia yrigoyenista
poneva le basi del proprio discorso politico anche in materia politi-
co-istituzionale. Commissariando la provincia di Buenos Aires, in-
fatti, l’allora presidente della Repubblica Yrigoyen aveva sostenuto
perentoriamente che solo “le autonomie provinciali sono dei popoli
e per i popoli, e non appannaggio dei governi”.9 Tra le righe emer-
geva l’idea che la Presidenza della Repubblica incarnasse la volontà
del popolo, mentre le altre istituzioni (nazionali o regionali) potevano
essere frutto di colpi di coda del régimen. In ambito sociale, poi, i
governi radicali avrebbero dovuto promuovere pace, serenità e giusti-
zia sociale. Ciò era possibile “perché il radicalismo aveva portato in
seno al governo concetti nuovi e umani sul cui modello [era possibile]
regolare l’attività dello Stato nei conflitti sorti tra la manodopera e il
capitale che la contratta[va] e la paga[va]”.10
7
Diego L. Molinari, Al Cesar lo que es del Cesar, “Última Hora”, 26 giugno
1923 trascritto in “Avanzar”, 10 ottobre 1932.
8
Le parole sono del senatore di Santa Fe Armando Antille. Cfr. “El Orden”, 12
giugno 1928, p. 3.
9
Nota del presidente Yrigoyen trascritta in Gabriel Del Mazo, El radicalismo.
Ensayo sobre su historia y doctrina, Buenos Aires, Editorial Raigal, p. 142-143.
10
La acción social del radicalismo, “La Época”, 3 maggio 1930, p. 1.

90
In tal senso, il suffragio universale aveva favorito l’avvio della pri-
ma presidenza radicale, che aveva permesso all’“operaio [di smettere]
di essere schiavo imprigionato ai piedi delle macchine […] per diventa-
re l’uomo libero con diritto legittimo alla salute e al benessere”.11

1930-1946: yrigoyenismo di opposizione

Con la rivoluzione settembrina del 1930 ebbe inizio la seconda


tappa della declinazione yrigoyenista della democrazia. L’UCR die-
de avvio a un processo di lunga trasformazione abbandonando i tratti
del partito-nazione, mentre la cultura politica yrigoyenista divenne
minoritaria rispetto a quella liberale.12 Cionondimeno, la visione
unanimistica della democrazia yrigoyenista sembrava tutt’altro che
sopita. Difatti, anche dopo la rivoluzione del 1930, questa visione
ebbe modo di riemergere. Il leader della provincia di Córdoba, Ama-
deo Sabattini, rispolverava l’idea che l’UCR rappresentasse “l’anima
della nazionalità nell’esplosione indomita dei propri aneliti, […] l’a-
nima della nazionalità divenuta verbo perentorio: […] l’anima della
nazionalità divenuta protesta e monito”13. In quest’ottica, l’azione
dell’UCR doveva essere orientata alla rigenerazione del popolo non
solo sul piano politico stricto sensu, ma anche sul piano sociale.
Questo processo rigeneratore muoveva i primi passi grazie a una
leadership dai tratti personalistici. La centralità della figura del lea-
der, elemento cruciale per l’identità radicale, si fondava sulla capaci-
tà di costruire un‘empatia sentimentale con il popolo. In tal senso si
esprimeva anche Julio R. Barcos: “Mostrateci gli uomini-simbolo e li
seguiremo. Non propinateci uomini dediti alla retorica, spacciandoli

11
Testo tratto dal video “La Reparación”, elaborato in occasione della campa-
gna elettorale presidenziale del 1928.
12
Mi permetto di rimandare al mio Francesco D. Ragno, Liberale o populista?
Il radicalismo argentino, 1930-1943, Bologna, il Mulino, 2017.
13
“Crítica”, 2 luglio 1932, p. 6.

91
per sociologi, eruditi per saggi, critici per economisti”.14 Coloro che
fossero stati capaci di far risvegliare una passione (e di trarre ispira-
zione dall’osservazione diretta delle vicende politiche, economiche
e sociali) sarebbero diventati veri politici. Non erano certo “perso-
naggi snob [...], capaci di lasciare soltanto elogi bibliografici scritti
dall’uno a vantaggio dell’altro”.15 Ancora una volta a fare da punto
di riferimento era Yrigoyen. Nel fare ciò, è opportuno ricordare che
risale proprio a quegli anni l’operazione, portata avanti dall’espo-
nente del radicalismo cordobese Carlos J. Rodríguez, che per primo
associò la cultura politica di Yrigoyen alla filosofia krausista.16 Nel-
la prospettiva ultima di dare sempre maggior lustro al pensiero yri-
goyenista, Rodríguez sembrava animato dalla volontà di inserire la
tradizione yrigoyenista nell’alveo di un filone filosofico consolidato
in America Latina come quello krausista.
In tal senso, il cambiamento delle funzioni attribuite alla forma
di democrazia corrispondeva alla necessità di rigenerare la politica,
una volta che l’UCR fosse ritornata a governare il Paese. Honorio
Puerreydon durante la Convención Nacional dell’UCR nel 1940,
prendendo le mosse da una definizione binaria della democrazia
(formata dal connubio di una “parte ideal”, ossia la libertà, e una
“pragmática”), rilevava quanto fosse inutile “fare proclami vani dei
principi democratici a uomini che [giacevano] nella miseria e che
[vivevano] nell’angustia, uomini cui manca[va] tutto, mentre vi [era-
no] persone che [vivevano] nell’abbondanza”. Per Puerreydon si era
di fronte alla necessaria revisione del concetto di democrazia, ridu-
cendo “il suo campo politico, al fine di agire su quello sociale. La

14
Julio R. Barcos, Por el pan del pueblo, Buenos Aires, Librería Renacimien-
to, 1933, p. 16.
15
Ivi, p. 19.
16
Carlos J. Rodríguez, Yrigoyen. Su revolución política y social, Buenos Aires,
Librería y Editorial La Facultad, 1943. Non si dimentichi, inoltre, che in que-
sti anni fu pubblicata anche la biografia di Yrigoyen scritta dall’intellettuale
nazionalista, Manuel Gálvez. M. Gálvez, Vida de Hipólito Yrigoyen, Buenos
Aires, El Elefante Blanco, 1939.

92
democrazia sociale [era] e [doveva] arrivare ad essere la vera demo-
crazia e il fondamento della democrazia politica”.17 In altre parole,
la rappresentazione del radicalismo come “espressione dello spirito
dell’argentinidad” ben si coniugava con la volontà di promuovere
politiche di giustizia sociale, in coerenza con la dimensione rigene-
razionista della politica e con una definizione, in termini economici e
sociali, del regime democratico.

1947-1982: l’yrigoyenismo, alter-ego del peronismo

Con l’elezione di Juan Domingo Perón alla presidenza, l’yrigoye-


nismo entrava in una nuova tappa. A partire dalla sconfitta della coa-
lizione anti-peronista dell’Unión Democrática, riaffiorano tutte quelle
critiche interne che, durante tutti gli anni Trenta, avevano osteggiato
l’alleanza con altre forze politiche. La Profesión de Fe Doctrinaria del
1947, corroborando quanto esposto dal manifesto di Avellaneda del
1945, sosteneva che “il radicalismo è la corrente organica e sociale […]
che rivendica le basi morali della Nazione; è lo stesso popolo che, con
le sue gesta, diventa una Nazione, che guida il proprio patrimonio e il
proprio spirito”.18 Emergeva, ancora una volta, una funzione “naziona-
lizzante” dello stesso radicalismo, secondo cui la nazione argentina o
era radicale o non era. E allora come era stato possibile che soltanto nel
1946 il peronismo avesse sbancato le elezioni? Com’era possibile, in
altre parole, che il popolo (quel popolo monoliticamente rappresentato
come radicale dalla cultura politica yrigoyenista) avesse scelto di votare
per un altro partito politico? La risposta arrivava da uno dei principali
esponenti del radicalismo, Moisés Lebensohn, che sostenne la famosa
“tesis del engaño o del copamiento”, secondo cui il peronismo aveva
ingannato e raggirato le masse popolari proprio nel momento in cui

17
“Crítica”, 24 settembre 1940, p. 6.
18
Unión Cívica Radical, Primer Congreso Nacional del Movimiento de Intran-
sigencia y Renovación, agosto 1947, documento n. 41.

93
“il Paese sarebbe dovuto entrare nell’ordine dinamico della libertà”.
L’idea, dunque, è che vi fosse una sorta di “falsa democrazia”, rap-
presentata dal movimento peronista, che aveva illuso l’Argentina tutta
usurpandone il potere. Ciò era stato possibile perché, seguendo sempre
l’interpretazione di Lebensohn, “il radicalismo si era limitato alla difesa
esclusiva della libertà, […], sprovvista di una caratterizzazione sociale,
[…], incapace di scalfire gli interessi dei privilegi, mantenendo intatte
le strutture [sociali]. La qual cosa [aveva] generato, ancora una volta,
un regime di tipo dittatoriale”.19
Il peronismo diventava, pertanto, la nuova dittatura e il radicalismo,
riacquistata l’idea di rappresentare lo spirito dell’argentinidad, diven-
tava il custode delle pratiche democratiche. Riecheggiava, inoltre, la
rappresentazione manichea del sistema politico. Si riproponeva, in altre
parole, la sfida tra il bene e il male, tra il popolo e l’anti-popolo, tra la
patria e i vendepatrias. La sfida al peronismo, insomma, non era una
semplice competizione elettorale nella quale si sceglievano due o più
candidati opposti. Non era neppure una lotta tra due antitetiche visioni
del mondo. Il vero terreno di scontro era quello dell’occupazione, della
rappresentazione di un unico spazio politico: il milieu della Nazione. La
democrazia yrigoyenista, dunque, aveva trovato nel peronismo un mo-
vimento che ambiva a occupare lo stesso spazio politico. La concezione
democratica dell’yrigoyenismo aveva trovato nel discorso peronista una
rappresentazione speculare alla propria.20
Ciò era evidente non solo sul terreno della politica economico-so-
ciale, ma anche nel campo della politica estera. La cultura politica
yrigoyenista aveva promosso una dura critica alla ratifica del Tratado
Interamericano de Asistencia Recíproca (1950): Arturo Frondizi, in
particolare, fu uno dei più grandi oppositori alla Camera della ratifi-

19
Moisés Lebensohn, Presidiendo la Convención Nacional UCR, 1952, citato
in G. Del Mazo, El radicalismo, p. 181-182.
20
Nicolás Azzolini, Dime quién eres y te diré si puedes. La democracia en los
orígenes de la dicotomía entre peronistas y antiperonistas, “Identidades”, vol.
3 (2013), n. 5, p. 32-52.

94
ca. La concezione democratica yrigoyenista, insomma, declinava il suo
profondo anti-imperialismo in chiave anti-americana.
Ciò, però, non mise in salvo la dirigenza del radicalismo yrigoyenista
dalle critiche formulate da una nuova generazione, che individuava trop-
pe prossimità e contiguità tra il movimento radicale e i militari argentini.
Vi erano, infatti, gruppi di giovani radicali (Movimento de la Juventud
Radical o Junta Coordinadora Nacional de la Juventud Radical) che
intendevano rilanciare l’idea yrigoyenista del movimento nazionalista,
popolare e rivoluzionario (antitetico alla dittatura) in difesa del popolo
argentino. Questi movimenti si organizzarono entrando a far parte del
Movimento Renovación y Cambio, guidato da un giovanissimo Raúl
Alfonsín, nel 1972. L’obiettivo era quello di definire una “democrazia
vera”, ossia un regime capace di promuovere “la distruzione di un si-
stema capitalista, in vista di una società basata sulla giustizia, sull’au-
tentica libertà, dove un uomo non rappresenti ‘il lupo dell’altro’ ma
un amico, cioè, una società senza sfruttati e sfruttatori”.21 Emergevano,
ancora una volta, due tópoi ricorrenti nella concezione democratica yri-
goyenista: la ricerca dell’armonia sociale e la dimensione sociale del
regime democratico. La democrazia non era il sistema per scegliere la
classe dirigente, bensì quello per stabilire l’autentica libertà, la quale
altro non era che una sorta di fratellanza egalitaria.

1982-1994: Alfonsinismo, ovvero la fine dell’yrigoyenismo

Proprio questa generazione di “nuovi radicali” avrebbe guidato


l’UCR nella transizione alla democrazia. Nel maggio del 1981 fu dato
alle stampe il Manifiesto de una Generación Radical: la forma demo-
cratica in uno Stato che gli autori del manifesto concepivano

21
Junta Coordinadora Nacional de la Juventud Radical, La Realidad Nacional
– La Contradicción Fundamental. Documento básico de formación interna,
Cuaderno n. 2, La Plata, 1973, p. 4.

95
come aperto e pluralista, […] garantisce il dovuto rispetto alle libertà
inalienabili dell’uomo. Ma la democrazia [risiedeva] anche nei conte-
nuti dell’organizzazione sociale, che [superava] il capitalismo sfrenato
che [aveva] generato inesorabilmente disuguaglianze. [Gli esponenti
radicali] sapevano che buona parte della [loro] sfida [consistesse] nella
trasformazione dell’economia, nella distribuzione equitativa delle ri-
sorse, dei beni, dei servizi.22

Benché vi fossero ancora chiari riferimenti alla natura sociale dei


regimi democratici, l’esperienza della dittatura sembrava aver fatto
perdere i tratti monisti: il regime democratico non poteva che essere
pluralista, altrimenti non era. Si trattava di un’innovazione non da
poco all’interno della discorsività radicale e yrigoyenista. D’altro
canto si riproponeva, ancora una volta, la retorica manichea: l’an-
ti-popolo si incarnava nelle forze armate argentine e in tutti i gruppi
che a queste si avvicinavano (si legge, in questo, il riferimento alla
supposta alleanza tra sindacalisti e militari).
È proprio in opposizione al binomio militar-sindacalista che si co-
struì quella che Gerardo Aboy Carlés ha definito la frontiera dell’al-
fonsinismo.23 Oltre alla necessità di stabilire una cesura netta con il re-
cente passato, Alfonsín si mosse cercando di costruire una connessione
tra il movimento peronista (in particolar modo, i sindacati peronisti) e
le pratiche violente e antidemocratiche (che erano state la causa della
repressione anti-terrorista portata dalla mano dell’ultimo regime mi-
litare): l’idea era quella di stabilire una linea di demarcazione rigida
tra democrazia/pace, da un lato, e regimi autoritari/guerra, dall’altro.
Il ritorno alla democrazia nel 1983 definiva, così, un prima e un dopo
“che separava una tappa di decadenza e disgregazione da un futuro di
progresso e benessere in ambito democratico”.24 Si era di fronte, perciò,
22
Manifesto de una generación radical, 1981, p. 15.
23
Gerardo Aboy Carlés, Las dos fronteras de la democracia argentina: la re-
formulación de las identidades políticas de Alfonsín a Menem, Rosario, Homo
Sapiens, 2001.

24
Raúl Alfonsín, Mensaje del Señor Presidente de la Nación, R. Alfonsín, a la

96
a una riforma morale della politica argentina e del Paese intero: le “ali”
del popolo argentino erano state tarpate dall’ultimo regime militare,
sia in termini politici sia in termini economici. L’autoritarismo aveva
costituito, stando al discorso alfonsinista, un ostacolo sostanziale allo
sviluppo economico del Paese. Il che, va da sé, rappresentava l’humus
ideologica da cui aveva preso forma la fortunatissima espressione “con
la democrazia si mangia, si educa, si cura”.
Le vicende economiche dell’Argentina degli anni Ottanta furono
estremamente turbolente. In prima battuta, la Presidenza Alfonsín
sembrò incapace di frenare l’eccessivo indebitamento internazionale
del Paese e la spirale inflazionistica. Il Plan Austral del 1985 diede
solo un piccolo respiro all’economia argentina che, a partire dalla fine
del 1986, proseguì lungo la china che portò all’aumento del debito e
all’avvio di un circolo vizioso che avrebbe portato all’iperinflazione.
Questa crisi economica non solo dimostrava che il regime democrati-
co non fosse il migliore sistema per rilanciare lo sviluppo economico,
ma rivelava anche la fragilità della frontiera discorsiva alfonsinista.
Della stessa natura furono la Ley de Obedencia debida (1987) e la
Ley de Punto Final (1986). Le speranze della popolazione argenti-
na nei riguardi del sistema democratico si sciolsero rapidamente. Si
trattava di quelle speranze su cui aveva fatto leva la discorsività al-
fonsinista: quella stessa discorsività che sotterrò la concezione de-
mocratica dell’yrigoyenismo con i Pactos de los Olivos. A partire da
quel momento, l’UCR non si presentò quasi mai da sola alle elezioni,
riconoscendo implicitamente la dovuta legittimità ai propri avversa-
ri politici e, pertanto, rompendo uno dei “mantra” più duraturi della
cultura politica yrigoyenista, quello secondo cui non vi esisteva una
legittima opposizione. Quello, ancora, secondo cui il partito radica-
le raccoglieva tutto lo spettro della rappresentanza politica legittima.
Quello, infine, secondo cui, il radicalismo era il movimento che rap-
presentava la Nazione.

Honorable Camara Legislativa, Buenos Aires, Congreso de la Nación, 1983,


p. 18.

97
Conclusioni

Risulta arduo racchiudere in poche pagine la declinazione yrigoye-


nista della democrazia che, come si è visto, ha attraversato lungamente
la storia argentina del Novecento. Una concezione che, nel corso degli
anni, si è modificata, pur presentando alcuni tratti distintivi ben defi-
niti. È innegabile, infatti, che la democrazia yrigoyenista sia stata un
universo discorsivo estremamente leaderistico. La riprova sta nel fatto
che la periodizzazione presentata corrisponde all’uscita o all’ingresso
sulla scena politica di leader di rilievo nazionale: nel 1916 Yrigoyen di-
venta Presidente; nel 1930 lo stesso esce dalla scena politica; nel 1945
irrompono sulla scena politica nazionale i vari Balbín, Illia, Frondizi
che prenderanno in mano la leadership del radicalismo; nel 1982 Al-
fonsín prenderà le redini del radicalismo. Il tratto leaderistico rivela
una peculiare idea del partito politico: quest’ultimo non è inteso come
un organismo atto a veicolare la rappresentanza politica di un segmento
della società, bensì come un movimento capace di incarnarla in toto. Si
presenta, qui, la ben nota dicotomia tra partito e movimento che ha ca-
ratterizzato buona parte della vita politica democratica del Novecento.
Ed ecco che la democrazia, nella sua accezione yrigoyenista, non è un
sistema che seleziona la classe politica, ma diventa una scelta morale,
un modo per rigenerare la politica, prima, e la società, poi. Vi è, insom-
ma, una pulsione palingetica che, come si è visto, è un tratto distintivo
dell’universo discorsivo yrigoyenista. Una pulsione, questa, che cam-
mina sulle spalle dell’homo novus, quelle nuove leve della politica,
appena immacolate, in grado di incarnare uno spirito “antico” tradito
dalla classe dirigente coeva.

98
IL FASCISMO, GLI ITALIANI D’ARGENTINA E “L’ITALIANITÀ”
di Valerio Giannattasio

Argentina, sì, Argentina; ma se voi avvicinate quella cartina di tornaso-


le che è la nostra anima italiana a quell’aria, a quella vita, a quell’arte,
a quella politica perfino, voi sentite una risposta diretta al vostro tòcco:
non è Italia, è certo un altro paese; ma non è poi un’entità esagerata-
mente lontana, un’entità, un mondo senza rapporti col nostro. Al con-
trario, e soprattutto là dove la civiltà si compone ed esprime con i suoi
accenti più energici e più dinamici, noi italiani ci ritroviamo, ci rico-
nosciamo: ed allora sentiamo, con sicurezza e con gioia sentiamo, che
quei lontani germi si sono forse trasformati, ma morti, ma scomparsi,
assolutamente non sono.1

Le parole di Mario Puccini, scritte verso la fine degli anni Trenta,


sottolineano il contributo italiano alla formazione della nazione su-
damericana e la vicinanza tra i due popoli senza chiudere le porte ad
alcuna prospettiva di intese future, eppure risultano ammantate da un
velo di tristezza per quanto non si è determinato tra i due paesi nel cor-
so degli anni immediatamente precedenti. Sensazioni sintomatiche dei
sentimenti e delle visioni contrastanti che durante il ventennio fascista
attraversano gli ambienti culturali e politici italiani riguardo lo Stato
sudamericano. L’Argentina, infatti, rappresenta in modo esemplare le
aspirazioni, e, per converso, le delusioni, che il regime coltivava ver-
so le nazioni destinatarie di tanta emigrazione italiana.2 A conti fatti,
1
Mario Puccini, In Argentina, Roma, Società Nazionale “Dante Alighieri”,
1938, p. 52-53.
2
Sull’emigrazione italiana in Argentina e verso le Americhe si guardi: Fernan-
do J. Devoto, Storia degli italiani in Argentina, Roma, Donzelli, 2007 (per gli

99
l’impressione che si fa strada è che la vicinanza culturale, emotiva e
materiale – data l’antica e nutritissima presenza di peninsulari3 – non
siano state sufficienti a incrementare le relazioni politiche, economiche
e “spirituali” tra i due paesi, come auspicato dal fascismo.
Il regime, d’altronde, aveva cercato di trasformare il tema migra-
torio in “un aspetto della nostra politica estera”,4 considerando quanti
risiedevano all’estero “parte integrante” della rivoluzione fascista.5 Ri-
adattando la questione,6 provò a sfruttare le comunità italiane emigrate
come strumento di una politica estera imperialista ed espansionista.7
Certo non un imperialismo classico, ma di tipo pacifico (economico,
politico, culturale), che non per questo “non assumeva un’espressione
di potenza, consentendo di rafforzare il prestigio e l’influenza dell’I-
talia all’estero in quasi tutti i campi”.8 Questo progetto presupponeva,

anni tra le due guerre p. 334-340); Emilio Franzina, Gli Italiani al Nuovo Mon-
do: l’emigrazione italiana in America 1492-1942, Milano, Mondadori, 1995.
3
Tra gli anni Venti e Quaranta in Argentina erano presenti tra 1,7 e 1,8 milioni
di cittadini italiani. Eugenia Scarzanella, Il Fascismo italiano in Argentina:
al servizio degli affari, in Fascisti in Sud America, ed. Eugenia Scarzanella,
Firenze, Le Lettere, 2005, p. 115 e nota 8.
4
Espressione usata da Mussolini, Eduardo e Duilio Susmel (a cura di), Opera
omnia di Benito Mussolini, Firenze, La Fenice, 1952, vol. XXI, p. 52.
5
Ottavio Dinale, La rivoluzione che vince (1914-1934), Roma, Campitelli,
1934, p. 187.
6
Su fascismo ed emigrazione Philip V. Cannistraro e Gianfausto Rosoli, Fascism
Emigration Policy in the 1920’s: an Interpretive Framework, “International Mi-
gration Review”, 13 (1979), p. 673-692; Ornella Bianchi, Fascismo ed emigra-
zione, in La riscoperta delle Americhe. Lavoratori e sindacato nell’emigrazione
italiana in America Latina, 1870-1970, a cura di Vanni Blengino (et al.), Milano,
Teti, 1994, p. 96-114.
7
João Fabio Bertonha, Emigrazione e politica estera: la diplomazia sovversiva
di Mussolini e la questione degli italiani all’estero, “Altreitalie”, 23 (2001), p.
39-61; Matteo Pretelli, Il Fascismo e gli italiani all’estero, Bologna, CLUEB,
2010; Rubén Domínguez Méndez, Dos instrumentos en la propaganda exte-
rior del fascismo: emigración y cultura, “Hispania Nova. Revista de Historia
Contempóranea”, 10 (2012), p. 240-264.
8
Angelo Trento, Dovunque è un italiano, là è il tricolore. La penetrazione del

100
tuttavia, una politica diretta a conservare o far riemergere il sentimento
di attaccamento alla madrepatria. Un’operazione non inedita, ma che
il fascismo spinse verso nuovi limiti. Con esso l’italianità si trasformò
in una nozione “politicamente più compromessa”, tesa a esaltare ne-
gli italiani fuori d’Italia la volontà di preservare i vincoli con la terra
d’origine. 9 Si cercò, a tal fine, di legare indissolubilmente le comunità
espatriate alla “nuova Italia” e di garantirsene il monopolio ideologico,
ricorrendo a un’ampia e multiforme operazione di propaganda.10
L’Argentina, che per la grande collettività italiana era stata ogget-
to di attenzioni fin dalla fine dell’Ottocento, venne, pertanto, guardata
con notevole interesse11 e con la preoccupazione costante per la perdi-
ta dell’italianità da parte degli italiani. 12 Come emerso dalle parole di
Puccini, il paese suscitò sensazioni contrastanti, trattandosi di un terri-

fascismo tra gli immigrati in Brasile, in Fascisti in Sud America, p. 3.


9
Emilio Gentile, Emigración e italianidad en Argentina, en los mitos de po-
tencia del nacionalismo y del fascismo (1900-1930), “Estudios migratorios
latinoamericanos”, I, 2 (1986), p. 143-144.
10
Molto è stato prodotto sul tema, tra le opere più note menzioniamo: Stefano
Luconi e Guido Tintori, L’ombra lunga del fascio: canali di propaganda fa-
scista per gli “italiani d’America”, Milano, M & B, 2004; Emilio Franzina,
Matteo Sanfilippo, (a cura di), Il fascismo e gli emigrati. La parabola dei Fa-
sci italiani all’estero (1920-1943), Roma-Bari, Laterza 2003; Irene Guerrini e
Marco Pluviano, L’Opera Nazionale Dopolavoro in Sud America: 1926-1941,
Studi Emigrazione, XXXII, 119 (1995).
11
Circa le relazioni tra la penisola e l’Argentina cfr. Marco Mugnaini, L’Ame-
rica Latina e Mussolini. Brasile e Argentina nella politica estera dell’Italia
(1919-1943), Milano, Franco Angeli, 2008.
12
Simili preoccupazioni e, tra le altre cose, la volontà di garantirsi il controllo
della collettività italiana spinsero il regime a fare ricorso, anche nel contesto
rioplatense, a un’ampia azione di propaganda, cfr. Leticia Prislei, Los orígines
del fascismo argentino, Buenos Aires, Edhasa, 2008; Loris Zanatta, I Fasci in
Argentina negli anni trenta, in Il fascismo e gli emigrati, p. 140-151; Luis O.
Cortese, El fascismo en el Club Italiano, “RiME”, 6 (giugno 2011), p. 413-446;
María Victoria Grillo, El viaje del manganello. Los Fascistas a la conquista
de la Associazione Reduci di Guerra Europea de Buenos Aires (1921-1926),
relazione UBACYT programa 2004-2007.

101
torio in cui l’apporto italiano era stato determinante, ma dove esso ap-
pariva sempre meno distinguibile. Un certo pessimismo sull’italianità
prese corpo, soprattutto, negli anni Trenta, accompagnato da una dose
di rassegnazione derivante dalla scarsa diffusione del fascismo in seno
ai connazionali. Mussolini stesso, nel 1936, non aveva esitato ad affer-
mare che gli “italiani d’Argentina non ci comprendono né ci amano”,13
giudizio che risentiva, senz’altro, degli attriti tra l’Italia e la nazione
sudamericana seguiti all’invasione dell’Etiopia.14 Anche l’ambasciatore
Raffaele Guariglia si sarebbe in seguito espresso con sconforto finan-
che in merito alla mobilitazione degli immigrati italiani al Plata per la
guerra coloniale.15 Peraltro, il diplomatico fin dai primi tempi a Buenos
Aires non aveva manifestato grandi speranze circa la collettività italia-
na, definendola poco sensibile ai richiami del regime, nella sua parte
maggioritaria “amorfa” e “difficilmente raggiungibile”, un “agglome-
rato caotico ancora da plasmare”.16
Il disappunto si concentrava, soprattutto, sullo stato dell’italianità e
la progressiva argentinizzazione dei connazionali al Plata. Non avevano
inciso su quei giudizi le manifestazioni per la conquista dell’Abissinia
né tantomeno le celebrazioni per il primo anniversario della fondazio-
ne dell’impero (con la presenza di Alessandro Pavolini).17 Il distacco,

13
Raffaele Guariglia, Ricordi 1922-1946, Napoli, ESI, 1949, p. 333.
14
Ludovico Incisa di Camerana, L’Argentina, gli italiani, l’Italia. Un altro
destino, Spai, 1998, p. 476-481, e M. Mugnaini, L’America Latina e Mussolini,
p. 125-154. Sul tema si guardi, anche, quanto detto da Mussolini all’ambascia-
tore a Buenos Aires il 6 giugno 1936, Documenti Diplomatici Italiani [d’ora in
poi DDI], serie VIII, vol. 4, n° 195.
15
R. Guariglia, Ricordi, p. 332-333 (in generale non traspaiono annotazioni
molto positive nelle pagine dedicate al Sud America, p. 328-340).
16
Guariglia a Ciano, 22 aprile 1937, DDI, VIII, vol. 6, doc. 496.
17
R. Guariglia, Ricordi, p. 332; “Il Mattino d’Italia”, 7 maggio 1936; La colecti-
vidad italiana celebró la victoria del ejército peninsular, “La Nación”, 7 maggio
1936. Sulla visita di Pavolini, Ambasciata d’Italia a Buenos Aires a ministeri
degli Affari Esteri e Stampa e Propaganda, 11 maggio 1937, Archivio Centra-
le dello Stato (ACS), ministero della Cultura Popolare (Minculpop), Direzione
Generale per i Servizi della Propaganda (DGSP), “Argentina”, B. 7, fasc. 4/7/I .

102
mostrato specialmente dai figli degli italiani in Argentina verso l’Italia,
veniva ritenuto il maggior ostacolo a un incremento delle relazioni cul-
turali e politiche italoargentine. Una possibile soluzione sarebbe stata
quella di sfruttare il prestigio culturale e politico della nuova Italia e le
ampie simpatie di cui il regime godeva in alcuni ambienti politici, come
quelli nazionalisti.18
Ottenere dei vantaggi dal crescente nazionalismo dei paesi suda-
mericani fu una possibilità di maggiore realismo che affiorò tra alcuni
intellettuali dell’epoca, come Carlo Foà. L’invito era sostanzialmente
quello di non perseguire a ogni costo il mantenimento dell’italianità
laddove appariva ormai inevitabile un processo di assimilazione alla
nazione di adozione, ma di sfruttarne il potenziale, la vicinanza cultu-
rale e sentimentale per intessere relazioni politico-economiche sempre
più intense.19 Atteggiamento non dissimile aveva mostrato Gioacchino
Volpe, che, riguardo l’italianità tra i discendenti degli emigrati, ave-
va proposto una rilettura, che si spingeva oltre la mera conservazione.
In fondo quei paesi avevano assorbito un grande patrimonio di cultura
europea. Dunque, finanche nell’assimilazione si potevano scorgere pro-
spettive favorevoli date dall’emersione di una italianità profonda che,
se assecondata da una intensa politica di propaganda e diffusione della
cultura e delle eccellenze italiane – essenzialmente attraverso contatti
tra élite –, si sarebbe ripresentata in una nuova dimensione e avrebbe
fatto da volano per rilanciare le relazioni tra i due paesi.20
Queste posizioni finirono con l’essere minoritarie sia per il veloce
cambio di scenario internazionale, sia perché in Argentina il naziona-
lismo stava raggiungendo il suo apice, con l’approvazione di provve-
dimenti che sostanzialmente impedivano l’attività delle associazio-
18
Guariglia a Ciano, 19 luglio 1937, Archivio Storico Diplomatico del Mini-
stero degli Affari Esteri (ASMAE), Affari Politici (AP), Argentina, B. 20, fasc.
22.
19
Carlo Foà, Nazionalismi sudamericani, “Gerarchia”, 7, luglio, 1937, p. 477-
489.
20
Cfr. Gioacchino Volpe, Le relazioni politiche, economiche e spirituali tra
l’Italia e l’America Latina, Milano, I.S.P.I., 1936.

103
ni straniere.21 Permase, nondimeno, un “fattore italiano”, ovvero una
maggiore vicinanza politico-culturale con la penisola, che pesò sull’at-
teggiamento argentino nei confronti dell’Italia, sulla neutralità e sulle
relazioni diplomatiche tra i due paesi,22 ma la situazione dell’italianità
continuava a essere poco rosea. La verità, “anche se dolorosa” come la
definisce il console generale Vincenzo Tasco nel ’42, era che la comu-
nità risultava formata ormai da anziani con un ricordo “pallido” dell’I-
talia, i cui figli erano cresciuti nel solco del nazionalismo argentino,
dove anche le manifestazioni di italianità avevano un “riflesso chiaro e
nettamente percepibile di argentinità” e fascismo e antifascismo erano
forze residuali. Un fenomeno di lungo periodo, derivante dalla costante
esposizione alla forza assimilatrice “assidua, diligente, multiforme ed
ostinata degli argentini”. Dunque, non si poteva far altro se non basare
l’azione su piccoli gruppi preparati “che potranno esercitare effettiva
attrazione sulla massa che li circonda” e smettere di considerare le co-
munità peninsulari come formate da milioni di persone.23
Emigrazione, espansione dell’area d’influenza e italianità erano già
state individuate da Mussolini nel ’22 come temi di un’unica questione,
che il regime cercò costantemente di risolvere a suo favore. 24 Soprattut-
to, si pretendeva una mobilitazione dei connazionali che sarebbe stata
possibile solo con il richiamo spirituale ed era volta a trasformare que-
sta stessa italianità da qualcosa di immateriale a fattore “tangibile nelle
comunità italiane”.25 Un processo in cui il ruolo determinante spettava
al regime, che passava anche attraverso la rivalorizzazione della figura
del migrante e in cui forte enfasi doveva avere la propaganda cultura-

21
L. Zanatta, I Fasci, p. 145.
22
L. Incisa di Camerana, L’Argentina, gli italiani, p. 507-511.
23
Tasco al ministero degli Affari Esteri, 24 agosto 1942, ASMAE, AP, Argen-
tina b. 33, fasc. 1.
24
Roberto Cantalupo, Racconti politici dell’altra pace, Milano, I.S.P.I., 1940,
p. 304-305.
25
Matteo Pretelli, La risposta del fascismo agli stereotipi degli italiani all’e-
stero, “Altreitalie”, 28 (2004), p. 52.

104
le26 atta a proporre l’identificazione tra madrepatria e fascismo. Questo
doveva considerarsi unico “interprete e sintesi risolutiva dei caratteri
originali dell’italianità”,27 un orientamento totalitario che “si sviluppò
partendo dall’asserita identità fra italianità e fascismo e dalla sua prete-
sa di essere, in Italia e all’estero, l’unica autentica e legittima interprete
dell’anima e della volontà della nazione”.28 Un indubbio risultato fu
quello di ravvivare il dibattito sugli emigranti e l’italianità. Non sor-
prende, pertanto, che l’affievolimento o, addirittura, la perdita dell’ita-
lianità fossero oggetto frequente di attenzione e che l’Argentina, in tal
senso, risultasse un caso di particolare interesse. Eppure le forti pre-
occupazioni in merito, manifestate a ridosso della guerra, non rappre-
sentavano una novità. Prima della marcia su Roma, Franco De Felice
aveva sviluppato analisi per nulla ottimistiche sulle comunità italiane
in Argentina, in cui lo ius soli e la snazionalizzazione, che riguardava
maggiormente le seconde generazioni, erano individuati come princi-
pali problemi. Gli italiani in Argentina, quando “fanno fortuna, sono
perduti per la patria” e “non sono fattori di utile propaganda all’estero,
o se lo sono, l’Italia non può risentire alcun vantaggio”. In un simile
contesto solo il fascismo avrebbe potuto risollevare l’orgoglio di raz-
za” e “legare quelle povere forze disperse e farne un potente strumento
nazionale per la grandezza d’Italia”. 29 Poco positive furono, anche, le
impressioni di Ottavio Dinale,30 inviato nel paese dal duce. Riguardo

26
Francesca Cavarocchi, Avanguardie dello spirito. Il fascismo e la propagan-
da culturale all’estero, Roma, Carocci, 2010, p. 58-59 e 63-65.
27
Ivi, p. 13.
28
Emilio Gentile, La politica estera del partito fascista. Ideologia e organiz-
zazione dei Fasci italiani all’estero (1920-1930), “Storia Contemporanea”,
XXVI, 6 (1995), p. 899-900.
29
Franco De Felice, Gli italiani in Argentina, “Gerarchia”, 9, settembre 1922,
p. 516-517, 519.
30
Il compito di Dinale fu di mettere ordine nel neonato Fascio di Buenos Aires
e di fondare un periodico, Il Littore. Emilio Gentile, L’emigrazione italiana in
Argentina nella politica di espansione del nazionalismo e del fascismo, “Storia
Contemporanea”, XVII, 3 (1986), p. 389.

105
al “patriottismo dei nostri connazionali – diceva – bisogna rinunciare
all’ottimismo”,31 ma il fascismo poteva risollevarne le sorti solo con
“un’azione organica e riparatrice” che evitasse “mali irreparabili”.32
Durante la crociera commerciale e di propaganda della nave “Ita-
lia”33 la snazionalizzazione e la perdita dell’italianità in riva al Plata
emersero in tutta la loro forza. Il capo missione Giovanni Giuriati
(all’epoca Ministro dei Lavori Pubblici) ebbe modo di valutare in pri-
ma persona lo stato della collettività che lì risiedeva. A prescindere
dai discorsi pubblici tesi a esaltare la vicinanza tra le due nazioni e
la comune matrice culturale latina34 non esitò a manifestare le sue
preoccupazioni. Occorreva limitare l’emigrazione al Plata, poiché gli
immigrati lì erano destinati a “una sicura e rapida snazionalizzazio-
ne” e “i figli degli italiani diventano, salvo rare eccezioni, furibondi
nazionalisti argentini e spesso furibondi antitaliani”.35 Riconoscere il
problema della preservazione del sentimento nazionale doveva esse-
re il vero fondamento della politica di espansione, in cui grande im-
portanza dovevano avere le scuole, poiché “normalmente [i] figli di
italiani diventano fervidi argentini e quindi se non si crea coscienza
nazionalista forniremo [all’] Argentina [una] potenza che potrà essere
nemica”.36

31
Ottavio Dinale, Gli italiani in Argentina, “Gerarchia”, 9, settembre 1923, p.
1212.
32
Dinale a Mussolini, 20 febbraio 1923, ASMAE, Gabinetto del Ministro, Se-
rie Prima, B. 1, fasc. 913; Dinale a Mussolini, 11 aprile 1923, ASMAE, Min-
culpop, B. 739, fasc. 1179/58.
33
Cfr. Giovanni Giuriati, La Crociera Italiana nell’America Latina. Confe-
renza dell’On. Giovanni Giuriati tenuta in Roma alla presenza di S. M. il Re
d’Italia, Roma, AGAR, 1925.
34
Laura Fotia, La politica culturale del fascismo in Argentina (1923-1940),
Tesi di Dottorato in Studi Europei e Internazionali, Università degli Studi di
Roma “Tre”, 2015, p. 259-269.
35
Informativa riservata di Giuriati a Mussolini, sta in E. Gentile, Emigración
e italianidad, p. 166-168.
36
Giuriati a MAE, telegramma 30 maggio 1924, Gabinetto del Ministro, Parte
prima, serie prima, B. 1, “Missione diplomatica in America Latina (Giuriati)”.

106
In quella circostanza alcuni giornalisti al seguito dell’“Italia” mo-
strarono preoccupazioni del tutto simili, scorgendo nell’Argentina “il
grande crogiuolo dove tutte le nazionalità si fondono”.37 Il vigore e la
velocità del processo di assimilazione avevano impressionato.
Soprattutto chi frequentò la nazione sudamericana non poté eludere
la problematica del mantenimento del legame con la madrepatria. Un
contributo importante al dibattito lo diede Franco Ciarlantini, 38 il quale
mise in una nuova luce il problema dell’italianità, rilevando la neces-
sità di rinfocolarla attraverso un’opera di propaganda culturale tesa a
rinsaldare i legami tra le due nazioni, sulla comune base della latinità.39
La questione dell’identità nazionale riguardava gli italiani in Argenti-
na, ma soprattutto i loro discendenti, educati al nazionalismo locale.40
Conveniva accettare il processo di costruzione identitaria della nazione
argentina, ma non evitare per questo di tutelare l’italianità e provare a
risvegliarla sfruttando, semmai, l’integrazione.41 Si doveva approfittare
degli elementi complementari delle due nazioni e lottare insieme per
difendere la latinità,42 fare di tutti i rioplatensi “un popolo di italiofi-
li”. Ruolo fondamentale era assegnato alla cultura alta e alla diffusione
del pensiero e delle opere italiane, poiché queste una volta apprezzate
avrebbero consentito di accrescere tra connazionali e loro discendenti
l’orgoglio e il sentimento di attaccamento per la patria. 43
37
Enrico Rocca, Avventura sudamericana, Milano, Alpes, 1926, p. 158-159.
Anche Piero Belli insistette sulla forza del nazionalismo argentino, Piero Belli,
Al di là dei mari, Firenze, Vallecchi, 1925, p. 146-147.
38
Ciarlantini soggiornò in Argentina nel 1927 con lo scopo di intensificare i
rapporti culturali tra i due paesi e inaugurare, il 12 settembre, la Mostra del
libro italiano a Buenos Aires. Cfr. Mostra del libro italiano a Buenos Aires, “Il
Legionario”, 6 agosto 1927, e La missione fascista di Franco Ciarlantini nel
Sud America, ivi, 29 ottobre 1927.
39
Cfr. La missione fascista di Franco Ciarlantini, cit.
40
Franco Ciarlantini, Viaggio in Argentina, Milano, Alpes, 1929, p. 91, 157-
160, 195-201, 206.
41
Ivi, p. 198-200.
42
E. Gentile, Emigración e italianidad, p. 177-178.
43
F. Ciarlantini, Viaggio in Argentina, cit., p. 261, 281, 258-261.

107
Le considerazioni del propagandista marchigiano, almeno nell’im-
mediato, non servirono da stimolo per altri intellettuali che visitarono
la nazione sudamericana. Il noto scrittore Massimo Bontempelli, ad
esempio, evidenziò la necessità di accettare la rapida assimilazione dei
figli degli immigrati, che mai si definiscono italiani, ma riprese vecchie
considerazioni e stereotipi sull’emigrazione. La sua visione conduceva
a un certo pessimismo rispetto alla perdita dell’attaccamento alla na-
zione, ma, in parte come Ciarlantini, notava un possibile spiraglio di
influenza nella sfera culturale.44 Arnaldo Fraccaroli, invece, introdusse
una sorta di doppia visione degli italiani e dell’italianità in riva al Plata.
Nella capitale i vari elementi si fondevano, i tratti italiani si riconosce-
vano, ma l’italianità era sopita nella generale mescolanza culturale.45
L’Argentina rurale, invece, la pampa gringa, era italiana; perché qui i
figli degli immigrati continuavano a sentirsi parte della terra di partenza
dei loro genitori, di cui conservavano l’uso del dialetto.46
Tra la fine degli anni Venti e il principio dei Trenta la svolta (anti)
emigratoria e le restrizioni agli espatri furono accompagnati da consi-
derazioni realistiche da parte del governo in merito al caso argentino e,
più in generale, dall’emergere di una nuova concezione segnatamente
negativa della stessa emigrazione.47 Pertanto, in corrispondenza con
il progressivo arrestarsi dei flussi, la questione dell’attaccamento alla
patria d’origine in Argentina assunse una dimensione maggiormente
politica. Più evidente apparve la volontà di far passare l’equazione tra
italianità e fascismo, con una nuova declinazione della prima che, in

44
Massimo Bontempelli, Noi, gli Aria. Interpretazioni sudamericane, Paler-
mo, Sellerio, 1994 (ed. or. 1934), p. 72-78.
45
Cfr. Arnaldo Fraccaroli, Buenos Aires, Milano, Treves, 1931.
46
Arnaldo Fraccaroli, Pampa argentina, Milano, Treves, 1931, p. 88-112.
47
Maria Rosaria Ostuni, Leggi e politiche di governo nell’Italia liberale e fa-
scista, in Storia dell’emigrazione italiana (Partenze), ed. Piero Bevilacqua [et
al.], Roma, Donzelli, 2001, p. 317-322; Benito Mussolini, Il problema dell’e-
migrazione, in Scritti e discorsi, Milano, Hoepli, vol. III, 1934, p. 97; R. Can-
talupo, Racconti politici, cit., p. 319.

108
verità, era già stata abbozzata da alcuni fascisti locali.48 La questione
più urgente era relativa al monopolio che si pretendeva di esercitare
sull’italianità. 49
In Argentina, la stampa etnica, soprattutto, servì da cassa di risonan-
za. Il quotidiano della capitale “Il Giornale d’Italia”, ormai prossimo
al fascismo, all’inizio del 1930 appose sotto la testata la frase “Tutto
per l’Italia, per gli Italiani, per una fervida Italianità”, dove ovviamente
quest’ultima veniva assimilata al fascismo. Esplicitamente, dalle pagi-
ne de “Il Mattino d’Italia”, Piero Parini, responsabile della Direzione
Generale per gli Italiani all’estero del ministero degli Affari Esteri, in
visita in Argentina nel 1931 dichiarò: “Dobbiamo convincere tutti che
italianità e fascismo sono i termini di una stessa realtà” che il fascismo
chiede “fedeltà e devozione alla Patria e al suo Governo”,50 introducen-
do una sorta di normalizzazione del regime. C’era bisogno di coinvol-
gere la vecchia e la nuova emigrazione. I figli dovevano “svilupparsi e
48
Si guardi l’articolo del periodico del Fascio di Buenos Aires, Il Littore, del
2 dicembre 1923 intitolato Italianità, in E. Gentile, Emigración e italianidad,
p. 175.
49
Il gran numero di italiani e la presenza di molteplici tradizioni politiche
rendevano difficile per il fascismo proclamarsi unico interprete del sentimento
di amor patrio; pertanto, l’italianità risultò costantemente in disputa tra i soste-
nitori del littorio e gli antifascisti, i quali si opposero durante tutto il ventennio
alla sua nuova declinazione e alle manovre del regime volte a egemonizza-
re i termini della questione e la comunità peninsulare, María Victoria Grillo,
Creer en Mussolini. La proyección exterior del fascismo italiano: 1930-1939,
“Ayer”, 62 (2006), p. 235-36. Più in generale sull’antifascismo in Argentina:
María de Luján Leiva, Il movimento antifascista italiano in Argentina (1922-
1945), in Gli italiani fuori d’Italia, ed. Bruno Bezza, Milano, Franco Angeli,
1983, p. 549-582; Pietro Rinaldo Fanesi, El anti-fascismo italiano en Argen-
tina (1922-1945), “Estudios Migratorios Latinoamericanos”, IV, 12 (1989), p.
319-352.
50
I fascisti di Buenos Aires intorno a Piero Parini, “Il Mattino d’Italia”, 24
dicembre 1931. I discorsi di Parini vennero raccolti anche in un testo: Piero
Parini, Parole chiare agli italiani del Sud America: discorsi raccolti a cura
della Delegazione dei Fasci italiani in Argentina, Buenos Aires, “Optimus” A.
Cantiello & Cia, 1932.

109
andar fieri della nazione dove sono nati” i genitori perché “chi disprez-
za le origini è un disgraziato”, mentre quanti erano arrivati in passato
avevano il compito di fare da tramite tra vecchia “spiritualità italiana”
e quella nuova argentina.51
Mario Appelius si fece interprete di quel progetto “schiettamente ita-
liano”, inscrivendo “l’apologia del fascismo in quella dell’italianità”,52
convinto che una volta ristabilito un sentimento patriottico “l’italianità
dei connazionali si sarebbe polarizzata istintivamente verso il Fascismo,
il quale è […] soprattutto purissima e fervente italianità”.53 Attraverso “Il
Mattino” si continuò, tuttavia, a ragionare in maniera più problematica sul-
la questione dell’italianità degli immigrati e dei figli degli italiani. Le sol-
lecitazioni ribadite più volte da Appelius alla concordia in seno alla collet-
tività, alla responsabilità, a mostrarsi degni del nuovo corso mussoliniano,
se da un lato testimoniavano la necessità di superare i conflitti interni agli
ambienti immigrati, dall’altro erano sintomo della scarsa presa del fasci-
smo e, con essa, della perdita dell’italianità, che si cercava di rinfocolare
sbandierando i fasti dell’Italia mussoliniana.54 Ma alcune analisi lasciava-
no poco spazio all’ottimismo. La situazione era mutata rispetto al passato:
minor immigrazione, sfaldamento dell’élite coloniale e accrescimento del
sentimento nazionale argentino avevano diminuito enormemente le pos-
sibilità di operare per associazioni e scuole etniche. Era inutile insistere e
dissanguare le energie dei connazionali in vari rivoli, piuttosto, sostenne
Lamberti Sorrentino, si doveva privilegiare una stretta interrelazione tra
le élite per “mantenere intimi i rapporti fra le due nazioni, anche quando
la nostra collettività sarà numericamente decimata”, solo così si sarebbe

51
Piero Parini riassume i risultati del suo viaggio in un grande discorso agli
italiani d’Argentina, “Il Mattino d’Italia”, 24 gennaio 1932.
52
F.J. Devoto, Storia degli italiani, p. 363. Si trattava di un programma che
s’iscriveva pienamente nelle strategie e negli auspici di Vittorio Valdani, uno
dei principali finanziatori del giornale, nonché esponente di spicco dell’élite
economica italiana (e argentina) e sostenitore del regime.
53
Mario Appelius, Piccola storia di un giornale, “Il Mattino d’Italia”, 26 mar-
zo 1933.
54
Mario Appelius, Programma d’azione, “Il Mattino d’Italia”, 3 gennaio 1932.

110
potuto raggiungere lo scopo – nel lungo periodo – di “servire l’italianità e
l’amicizia italo-argentina”.55
Attraverso l’iniziativa de “Il Mattino d’Italia” “Cosa direste a Mus-
solini se aveste occasione di parargli?” (avviata il 7 giugno 1933), una
sorta di indagine sui pensieri della collettività italiana e italoargentina,
la questione emerge secondo una luce differente. L’inchiesta permette
di avere un’impressione di prima mano degli immigrati sugli avveni-
menti italiani e sulla realtà nazionale, ma, specialmente, sulle questioni
dell’identità, della lingua, dell’italianità e del rapporto padre/figlio ita-
liano/argentino. Dalle tante risposte, oltre 43.000, affiorò senz’altro una
mitizzazione di Mussolini (e il desiderio di averne uno “criollo”) e la
sua rappresentazione come quella di un capo spirituale che aveva fatto
dell’Italia un paese grande e rispettato. Il che era il prodotto, probabil-
mente, di uno scatto di orgoglio tra gli emigrati e i loro discendenti, che,
scossi dall’idea di grande civiltà propugnata dal fascismo, iniziavano
a manifestare un senso di appartenenza a una “nazione progredita e
potente”, fino ad allora assente.56 Ne conseguì l’esaltazione di un’italia-
nità che tuttavia “contrasta apparentemente con il rapporto precedente
degli italiani con la propria identità nazionale”,57 con la facilità con cui
venivano assimilati e con quella inconsistenza identitaria che portava
alla rapida snazionalizzazione annotata da più parti, ma che, altresì,
testimonia l’“iperbolica presunzione italica”, che traeva “linfa da un
glorioso passato”, incarnato, sfruttato ed esaltato dal fascismo fino ad
esasperare “la vanità nazionale”.58
Nonostante tutto ciò in Italia la situazione di quella collettività conti-
nuò a esser vista con una certa ambivalenza: quegli italiani erano consi-

55
Lamberti Sorrentino, Uno sguardo alla realtà, “Il Mattino d’Italia”, 3 mag-
gio 1932.
56
Camilla Cattarulla, «Cosa direste a Mussolini se aveste possibilità di par-
largli?». Un’inchiesta de «Il Mattino d’Italia», in Fascisti in Sud America, p.
202.
57
Vanni Blengino, La marcia su Buenos Aires («Il Mattino d’Italia»), in Fasci-
sti in Sud America, p. 225.
58
Ibidem.

111
derati quasi sempre perduti per la patria,59 sebbene in seguito all’azione
del duce potessero sentirsi, come gli altri italoamericani, sempre più fie-
ri della nazione d’origine.60 Ciò non celava la preoccupazione e, in al-
cuni casi, un certo disprezzo verso i connazionali e i loro discendenti.61
Con l’approssimarsi della guerra il pessimismo aumentò. Nonostante il
contributo dato allo sviluppo della nazione rioplatense, secondo Ettore
De Zuani “ormai i figli hanno già bell’e dimenticato i sacrifici dei loro
genitori”, processo, questo, che veniva correlato normalmente alla pre-
senza di un forte nazionalismo locale.62 Del resto si trattava di qualcosa
che era stato confermato dai diplomatici e dagli esponenti del regime
che si erano recati in loco. Tra questi il presidente del Senato Luigi Fe-
derzoni che, nel luglio 1937, nonostante le manifestazioni tributategli63
da una parte della collettività italiana in Argentina, non aveva esitato a
definire l’Argentina come un paese dalla “brutale e quasi irresistibile
capacità di assimilazione”. 64
È probabile che la sensazione di delusione fosse direttamente con-
nessa con l’impressione di una mancata avanzata del fascismo, deter-
minata da una discrepanza tra aspirazioni e risultati. In questo caso la
stessa sovrapposizione del concetto d’italianità col fascismo parrebbe
essere sfuggita di mano ai fascisti e aver alimentato la delusione. È

59
Carlo Umiltà, Gli italiani dell’era fascista in America Latina, “Gerarchia”,
3, marzo 1929.
60
Mario Labroca, La propaganda e gli italiani all’estero, “Critica Fascista”, 5
(1933), p. 85-86.
61
Sandro Volta, Lettera dall’Argentina – La scoperta dei sudamericani, “Cri-
tica Fascista”, 2 (1934), p. 37.
62
Ettore De Zuani, Lettera dall’America del Sud – L’Argentina e il Fascismo,
“Critica Fascista”, 7 (1940), p. 123-124.
63
Guariglia a Ciano, 19 luglio 1937 in ASMAE, AP, Argentina, B. 14, fasc. 1;
L’imponente adunata al Luna Park espressione di stile fascista e di capacità
organizzativa, “Il Mattino d’Italia”, 12 luglio 1937.
64
Luigi Federzoni, Resoconto di un viaggio in America Meridionale, in Istituto
dell’Enciclopedia Italiana (Roma), Fondo Luigi Federzoni, cassa 4 (paragrafo
“L’eredità garibaldina”), in Paolo Carusi, El Fascismo en Uruguay. Un testi-
monio de Luigi Federzoni, “Historia Actual Online”, 38 (3) (2015), p. 184.

112
innegabile, del resto, che l’italianità durante il ventennio fece ben po-
chi passi avanti. Ma la colpa non si poteva ascrivere completamente al
regime, il quale operò all’interno di una dinamica già avanzata, rispetto
alla quale, forse, non seppe frapporre un argine. D’altronde era in atto
in Argentina un “processo di ‘nazionalizzazione delle masse’ per certi
versi analogo a quello che il fascismo aveva perseguito in Italia”65 e per
il quale il modello italiano servì come fonte d’ispirazione. Fornendo
linfa a movimenti nazionalistici, che traevano spunto da esso, il regime
lasciò probabilmente in eredità un bagaglio culturale che, paradossal-
mente, servì a scardinare ancor di più quell’attaccamento alla patria che
aveva tentato di rinfocolare, scindendo definitivamente il nesso tra esso
e l’italianità.66
Ciononostante, qualcosa su cui probabilmente ci si deve interrogare
è in che misura il processo di identificazione tra fascismo e italianità
risultò inefficace. Senza dubbio il regime rappresentò per molti un’op-
portunità67 di riscatto, di relativa ascesa sociale, di costruzione e raf-
forzamento di interessi economici.68 Pur ottenendo maggior successo
dell’antifascismo, esso non riuscì a favorire un effettivo superamento
delle dinamiche locali, né, soprattutto, a far breccia nella vita della col-
lettività italiana. Allo stesso tempo, il fenomeno fu accolto con certo

65
L. Zanatta, I fasci, p. 148.
66
Sull’eredità del fascismo cfr. David Aliano, Mussolini’s National Project
in Argentina, Madison (NJ), Fairleigh Dickinson University Press, 2012; Fe-
derico Finchelstein, Fascismo trasatlántico. Ideología, violencia y sacralidad
en Argentina y en Italia, 1919-1945, Buenos Aires, FCE, 2010; Mario C. Na-
scimbene e Mauricio Isaac Neuman, El nacionalismo catόlico, el fascismo y la
inmigración en la Argentina (1927-1943): una aproximación teórica, “Revista
de estudios interdisciplinarios de América Latina y el Caribe”, vol. 4, 1 (1993),
p. 115-140.
67
Ronald C. Newton, ¿Patria? ¿Cuál Patria? Italo-Argentinos y Germano-Ar-
gentinos en la era de la renovación nacional fascista, 1922-1945, “Estudios
Migratorios Latinoamericanos”, 22 (1992), p. 401-423.
68
Ronald C. Newton, Ducini, Prominenti, antifascisti: Italian Fascism and the
Italo-Argentine Collectivity 1922-1945, “The Americas”, 51 (1994), p. 41-66
ed E. Scarzanella, Il fascismo italiano, p. 115-116.

113
favore sia nella sua forma di “nazionalismo difensivo”69 sia per il pre-
sunto – ed effimero – orgoglio che riuscì a infondere in molti degli im-
migrati. Tuttavia, altri elementi restano ancora da valutare. Innanzi tut-
to, emerge la necessità di un’indagine che scandagli le molteplici altre
realtà dell’interno, dove gli sviluppi appaiono a prima vista meno chiari
di quanto avvenuto nella capitale. Inoltre c’è la necessità di gettare uno
sguardo verso i destinatari del messaggio mussoliniano, interrogarsi su
cosa abbia significato quel richiamo nazionalista e identitario in un con-
testo in cui vi erano forze uguali e opposte e, infine, vedere come sia
cambiato – e rielaborato – il discorso fascista sull’italianità una volta
entrato a contatto con la realtà locale.

69
João Fábio Bertonha, Fascismo, antifascismo, y las comunidades italianas
en Brasil, Argentina y Uruguay, una perspectiva comparada, “Estudios Migra-
torios Latinoamericanos”, XIV, 42 (1999), p. 118-119.

114
IL CONTRIBUTO ITALIANO ALL’INDUSTRIALIZZAZIONE
ARGENTINA DURANTE IL PRIMO PERONISMO (1946-1955)
di Federica Bertagna

Nel 1961 fu ristampato Un principe mercante, il classico studio di


Luigi Einaudi dedicato all’imprenditore Enrico Dell’Acqua come em-
blema della penetrazione commerciale e industriale italiana in Suda-
merica a cavallo tra Otto e Novecento. Lo stesso Einaudi dichiarava
nell’introduzione che la ristampa del libro era stata promossa da un’or-
ganizzazione, la Techint, che ricollegava

le iniziative nuove a quelle antiche. Ma in forme e con mezzi diversi.


Non sono più gli emigranti scalzi ed incolti, i quali sbarcano in America
in cerca di lavoro e taluno riesce a compiere opera vantaggiosa a sé e al
paese che lo ha ospitato. Ora è un gruppo di tecnici, periti nelle industrie
e nella economia, che in patria hanno fatto le loro prove, che offre ai
paesi dell’America Latina il frutto della esperienza e delle relazioni di
affari, di commercio e di intrapresa che essi possedevano già in Italia.1

Nel 1961 il gruppo Techint era composto, segnalava ancora Einaudi,


“di 190 ingegneri, 510 periti, specialisti e tecnici, 670 amministrativi,
e cioè di 1370 persone, dislocate in numero di 340 in Italia, Europa
e bacino del Mediterraneo, 650 in Argentina, 280 in Brasile, 60 nel
Messico, Centro e Nord America e 30 negli altri paesi dell’America La-
tina”. Sessant’anni dopo aver analizzato “lo sforzo dei pionieri italiani
in America Latina”, Einaudi si compiaceva di constatare che i suoi voti
erano stati superati dalla realtà.

1
Luigi Einaudi, Un principe mercante. Saggio sulla espansione coloniale ita-
liana, Torino, Techint, 1961.

115
A partire dal parallelo stabilito da Einaudi tra emigrazione ed
“espansione commerciale e industriale” italiana in America Latina
negli anni della cosiddetta “prima globalizzazione”2 ed emigrazione e
penetrazione industriale del secondo dopoguerra, nel mio contributo
vorrei approfondire le caratteristiche, in parte nuove, di quest’ultimo
processo nel caso argentino e capire in che modo influì sullo sviluppo
economico del Paese.
Nella fase delle migrazioni di massa (1876-1914) dall’Europa, l’Ar-
gentina ricevette un flusso immigratorio inferiore solo a quello che inte-
ressò gli Stati Uniti. Vi approdarono circa 4,2 milioni di europei. Circa 2
milioni di essi erano italiani. Il peso demografico degli emigrati italiani in
Argentina in questi decenni fu notevolissimo: nel 1895 essi rappresenta-
vano il 12,5% della popolazione totale, nel 1914 il 12% (per avere un ter-
mine di paragone, negli Stati Uniti, loro principale destinazione transoce-
anica, gli italiani non superarono mai il 2,5% del totale della popolazione).
Ad attrarre gli immigrati in Argentina fu la prepotente crescita eco-
nomica del Paese, che dopo il 1880 conobbe una forte espansione legata
alla colonizzazione della frontiera e alla costruzione delle infrastrutture,
ferroviarie e urbane. Dati i numeri del flusso immigratorio, non sor-
prende che gli immigrati italiani fossero presenti già a fine Ottocento in
tutti i gruppi sociali e fornissero un contributo fondamentale al processo
di industrializzazione del Paese avviato tra Ottocento e Novecento: nel
1895 il 35% di quelle che nel censimento nazionale venivano definite
“industrie” aveva un proprietario italiano.3
La combinazione tra crescita demografica ed economica e presenza
in Argentina di folte colonie di emigrati fu vista in Italia come un’op-
portunità di “conquista pacifica” del Paese attraverso l’espansione del-
2
Da prospettive opposte, Kevin H. O’Rourke e Jeffrey G. Williamson, Globaliza-
tion and History. The Evolution of Nineteenth-Century Atlantic Economy, Cam-
bridge (MA) – London, Mit Press,1999, e Dani Rodrik, The Globalization Para-
dox, New York Norton & Company, 2011.
3
Fernando J. Devoto, In Argentina, in Piero Bevilacqua, Andreina De Clemen-
ti, Emilio Franzina (a cura di), Storia dell’emigrazione italiana, 2 vol.; vol. II,
Arrivi, Roma, Donzelli, 2002, p. 25-54.

116
la nostra industria. Un quarto di secolo prima che Einaudi celebrasse
i successi di “prìncipi mercanti” come Enrico Dell’Acqua, esponenti
della classe dirigente italiana avevano auspicato che l’Argentina potes-
se trasformarsi in un’“Australia italiana”,4 ovvero che l’Italia potesse
esercitare laggiù un’influenza politica, ma anche economica, simile a
quella dell’Inghilterra in Australia.
In realtà gli investimenti diretti italiani in Argentina rimasero di
scarsa entità fino alla seconda guerra mondiale: circa l’1% del totale
degli investimenti stranieri nel Paese.5 Nondimeno, tra fine Ottocento
ed età giolittiana aumentarono sia l’interscambio commerciale sia le
esportazioni italiane: queste ultime passarono dai poco più di 2 milioni
di lire del 1880 agli oltre 31 milioni di lire del 1910.6 In una misura
difficile da stimare, ma certamente non irrilevante, questa crescita era
legata alla presenza in Argentina di un mercato per i prodotti italiani,
quello costituito dalle comunità di emigrati.7
Inoltre l’Argentina fu una delle principali destinazioni nelle embrio-
nali strategie di internazionalizzazione delle imprese italiane tra età gio-
littiana e anni Venti.8 In particolare la Pirelli, già presente a fine Otto-
cento, aprì una casa commerciale a Buenos Aires nel 1910, la Fiat una
concessionaria nel 1923.9 Negli anni Dieci era italiano il 2% delle nuove

4
Cristoforo Negri, La grandezza italiana. Studi, confronti e desiderii, Torino,
Paravia, 1864.
5
Andrea Goldstein e Andrea Lluch, The Italian Economic Presence in Argenti-
na. The Contribution of Multinational Corporations, 2010, manoscritto.
6
María I. Barbero, Grupos empresarios, intercambio comercial e inversiones
italianas en la Argentina. El caso de Pirelli (1910-1920), “Estudios migrato-
rios latinoamericanos”, VI (1990), n. 15-16, p. 311-341.
7
Ercole Sori, L’emigrazione italiana dall’Unità alla seconda guerra mondiale,
Bologna, il Mulino, 1979; Amoreno Martellini, Emigrazione e imprenditoria.
Cinque ipotesi di studio, in Paola Corti e Matteo Sanfilippo, Storia d’Italia.
Annali 24. Migrazioni, Torino, Einaudi, 2009, p. 285-301.
8
Giuseppe Berta e Fabrizio Onida, Old and New Italian Multinational Firms,
Roma, Banca d’Italia, 2011, Quaderni di Storia economica, p. 7.
9
M.I. Barbero, Grupos empresarios, intercambio comercial e inversiones ita-
lianas, cit., p. 315.

117
imprese straniere che si stabilirono in Argentina; negli anni Trenta la per-
centuale italiana era salita al 7,4% dei nuovi insediamenti del decennio.10
La crescita degli investimenti diretti italiani in Argentina proseguì
negli anni Quaranta, in particolare dopo la fine della seconda guerra
mondiale: con 5 nuove imprese nel decennio, l’11,1% del totale, l’I-
talia era nel 1949 il settimo maggior investitore diretto in Argentina.11
In realtà, nel corso degli anni Quaranta la penetrazione industriale
italiana in Argentina fu più significativa e ricca di implicazioni di
quanto non dicano queste cifre, perché avvenne soprattutto attraverso
un’altra via. Tra 1948 e 1950, infatti, decine di imprese italiane si
trasferirono al completo in Argentina, portandosi dietro macchinari,
impianti e anche il personale.
Vediamo in quali contesti, in Italia e in Argentina, si produssero
questi trapianti, che rappresentavano quella saldatura tra capitale e la-
voro auspicata mezzo secolo prima da Einaudi (e dalla stessa élite del-
la collettività italiana di Buenos Aires). Cominciamo dall’Italia. Alla
fine della seconda guerra mondiale gli italiani ripresero a emigrare in
massa in Europa e oltreoceano. Circa 480.000 scelsero l’Argentina tra
il 1946 e il 1960, quando, a causa del deciso peggioramento delle con-
dizioni economiche, il ciclo immigratorio postbellico si concluse.12
I meccanismi di espatrio furono in parte nuovi. Innanzitutto perché
a livello mondiale non si tornò al regime di “emigrazione libera” che
era durato fino alla Grande guerra: dopo il 1945 i governi intervenne-
ro nella regolamentazione e gestione dei flussi, imponendo restrizioni
e stipulando accordi bilaterali.13 Italia e Argentina ne firmarono due,

10
Norma Lanciotti e Andrea Lluch, Foreign Direct Investment in Argentina:
Timing of Entry and Business Activities of Foreign Companies (1860-1950),
“Entreprises et histoire”, 54 (2009), p. 37-66 (il dato è a p. 46).
11
A. Goldstein e A. Lluch, The Italian Economic Presence in Argentina, cit., p. 5.
12
Fernando J. Devoto, Storia degli italiani in Argentina, Roma, Donzelli, 2007.
13
Michele Colucci, Lavoro in movimento. L’emigrazione italiana in Europa
1945-57, Roma, Donzelli, 2008; Elia Morandi, Governare l’emigrazione. La-
voratori italiani verso la Germania nel secondo dopoguerra, Torino, Rosen-
berg & Sellier, 2011.

118
nel 1947 e nel 1948. Alla tradizionale modalità di espatrio autogestita
dagli emigranti e basata sulle catene migratorie di paesani e parenti
si aggiunse questa cosiddetta “assistita” dai due Stati interessati.14 La
particolarità del flusso postbellico italiano verso l’Argentina fu tut-
tavia un’altra, ovvero l’importanza che ebbe, almeno fino al 1950,
un terzo meccanismo, a metà tra quello informale degli emigranti e
quello formale statale: il reclutamento di manodopera da parte di im-
prese private italiane che si trasferirono in Argentina con maestranze
al seguito.15 In realtà, il reclutamento di lavoratori da parte di imprese
private non era una novità in assoluto: era la versione “industriale”
dell’azione svolta tra Ottocento e Novecento dalle compagnie di co-
lonizzazione, che attraverso gli agenti di emigrazione avevano pro-
mosso l’espatrio di contingenti di contadini dalle campagne italiane
ed europee.
Le imprese che si trasferirono furono decine, e secondo le fon-
ti disponibili alcune decine di migliaia i lavoratori che le seguirono.
Alla base della decisione degli imprenditori di emigrare vi erano mo-
tivazioni diverse. Tra i fattori push, il difficile contesto economico
postbellico e i trascorsi di alcuni imprenditori durante il fascismo.16
Tra i fattori pull, la situazione economica in Argentina. Questa usciva
dal conflitto con ingenti riserve in oro e valuta17 e decisa a sfruttarle
per accelerare il proprio sviluppo economico. La politica economica
di Juan Domingo Perón, presidente dal 1946, puntava col Primo piano
quinquennale a promuovere l’industrializzazione del Paese attraverso
la sostituzione di importazioni, dopo che la guerra ne aveva rivelato

14
Lucia Capuzzi, La frontiera immaginata. Profilo politico e sociale dell’im-
migrazione italiana in Argentina nel secondo dopoguerra, Milano, Franco An-
geli, 2006.
15
Ludovico Incisa di Camerana, L’Argentina, gli italiani, l’Italia. Un altro
destino, Tavernerio (CO), SPAI, 1998.
16
Federica Bertagna, La patria di riserva. L’emigrazione fascista in Argentina,
Roma, Donzelli, 2006.
17
Una gran parte della valuta peraltro era costituita da sterline non convertibili
e quindi non utilizzabili fuori dall’area del Commonwealth.

119
la totale dipendenza dall’estero in settori come quelli meccanico e
metallurgico, e in genere quelli collegati all’industria bellica.18
Analogamente a quanto avvenuto in passato per la colonizzazione
della pampa, anche il trasferimento di imprese industriali fu regola-
to da apposita legislazione: con decreto dell’esecutivo il 5 febbraio
1948, infatti, fu creata la Comisión Nacional Radicación de Industrias
(Conri). La commissione era incaricata di selezionare le richieste di
industriali intenzionati a spostare in Argentina i loro impianti e il loro
personale e favorire quella che era definita una “preziosa incorporazio-
ne” per l’economia argentina mediante agevolazioni doganali e credi-
ti.19 In Europa, secondo le informazioni della Secretaría de Industria
y Comercio, c’era uno “stato d’animo propizio per il trasferimento di
imprese complete”.20
Sicuramente era così in Italia: dei 71 progetti di trasferimento appro-
vati alla fine del 1948 dalla Conri, 58 erano di imprese italiane. Circa
20.000 gli emigranti che secondo l’ambasciata italiana sarebbero partiti
al loro seguito entro la prima metà del 1949. Nello stesso 1949 furono
concessi 80 nuovi permessi di radicamento: 24.000 i lavoratori emigra-
ti, secondo i dati del Ministero degli Esteri italiano.21
Nella lista delle 58 imprese ammesse a usufruire delle agevolazioni
nel 1948 c’è un po’ di tutto ma prevalgono nettamente due comparti:
edile (imprese di costruzioni e di materiali da costruzioni) e meccanico
metallurgico (dalla fabbricazione di viti e chiodi a quella di macchinari
tessili). Tessile, chimico, fabbricazione della carta, produzione di mac-
chine da cucire, lavorazione del legno sono altri settori rappresentati.

18
Claudio Belini, La industria peronista 1946-1955: políticas públicas y cam-
bio estructural, Buenos Aires, Edhasa, 2009; Marcelo Rougier, La política
crediticia del Banco Industrial durante el primer peronismo (1944-1955),
Universidad de Buenos Aires, Facultad de Ciéncias Económicas, Instituto de
investigaciones económicas, Documento de trabajo n. 5, Buenos Aires, 2001.
19
Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero del Lavoro, b. 461, fasc. 78.
20
Ibidem.
21
Ludovico Incisa di Camerana, Il grande esodo. Storia delle migrazioni ita-
liane nel mondo, Milano, Corbaccio, 2003, p. 308.

120
Le dimensioni delle imprese sono pure estremamente varie. Lo rivelano
i dati sul personale da trasferire (si va dai 5 dipendenti della segheria di
Tito Cieri, ai 2920 dell’impresa di costruzioni Itac) e quelli sul capitale
e il valore del complesso industriale. Vediamo tre esempi.

1. Il primo è proprio la Techint di Agostino Rocca, da cui sono partita.


Rocca è un ex manager di Stato che lascia l’Italia nel febbraio 1946 dopo
l’assoluzione al processo per collaborazionismo. Con parte delle mae-
stranze che lo avevano affiancato nei vent’anni trascorsi alla Dalmine,
alla Banca Commerciale e all’Ansaldo avvia a Buenos Aires l’attività
della Compagnia Tecnica Internazionale, in seguito Techint. La Com-
pagnia si dedica inizialmente all’importazione dall’Italia di tecnologia
e macchinari, ma anche di ingegneri e tecnici: Rocca è convinto che ci
siano enormi possibilità in un Paese che attraversa una fase di tumultuo-
sa crescita e che per sfruttarle siano necessarie risorse umane adeguate.
Macchine e uomini “di qualità fuori di discussione”, scrive Rocca ai suoi
collaboratori in Italia, da fornire alle aziende argentine per costruirsi da
un lato credibilità e dall’altro una rete di relazioni che crei nuove oppor-
tunità di business.22 Per la Techint e per l’Italia: Rocca, come Einaudi,
pensa infatti a una penetrazione dell’Italia in Argentina attraverso un’im-
migrazione finalmente qualificata, di ingegneri, tecnici e operai.
La svolta arriva nel 1947, quando Techint si aggiudica l’appalto per
la fornitura di tubi e la posa in opera del Gasdotto del Sud, l’opera ban-
diera del Primo piano quinquennale peronista: 1700 km di tubazioni
che uniscono i giacimenti di Comodoro Rivadavia, in Patagonia, alla
capitale.23 Il modo in cui Techint ottiene l’appalto mostra come la rete

22
Carolina Lussana, 1946: la prima frontiera. Dalla corrispondenza argentina
di Agostino Rocca, Dalmine, Quaderni della Fondazione Dalmine, 1998, p.
122-131.
23
Claudio Castro, Desarrollo energético, estado y empresa. Algunas cuestio-
nes en torno a la construcción del Gasoducto patagónico durante el primer
peronismo, “América Latina en la historia económica”, 34 (2010), p. 161-190.

121
di relazioni vecchie e nuove immaginata da Rocca fosse già operante.
Il 12 dicembre 1946 Techint trasmette a Dalmine le prime notizie sul
gasdotto. Il 21 aprile 1947 Techint presenta ufficialmente la sua offerta,
il 22 aprile (il giorno dopo!) Techint firma con Gas del Estado, l’ente di
stato argentino, il contratto che prevede la fornitura di 33.000 tonnellate
di tubi prodotti a Dalmine.
Tra maggio e giugno Techint ottiene anche il contratto per la costru-
zione del ramo meridionale del gasdotto, inizialmente 770 km. Techint
cura progettazione e costruzione, opera e trasporti sono a carico della
Sadop, Sociedad Anónima de Obras Públicas. Il titolare è Luis Sebasti,
un ingegnere italiano giunto in Argentina nel 1942: sono anche la sua
mediazione e i suoi contatti a consentire a Techint di battere la concorren-
za americana e ottenere la commessa.24 I vantaggi derivanti alle imprese
italiane che giungono in Argentina dopo il 1945 dalla presenza in loco
di una comunità di affari italiana, e dai vincoli di questa con la politica
locale, appaiono evidenti da questo e da altri casi di radicamento (anche
qui ci sono analogie col passato: i casi di Pirelli e dell’Ansaldo studiati da
Barbero e Rugafiori).25 Quelli culturali, altrettanto: l’esperienza di Rocca
durante il Ventennio e la sua conoscenza dei meccanismi del capitalismo
di Stato risultano decisive. I lavori del gasdotto iniziano nell’agosto 1947,
l’opera è ufficialmente inaugurata il 23 dicembre 1949. Per la sua realiz-
zazione arrivano dall’Italia tecnici ex Dalmine e circa 150 operai spe-
cializzati, soprattutto saldatori ed elettricisti, in molti casi ex dipendenti
della Montubi, una consociata della Dalmine.

24
Per la sua “mediazione” Daniel Castro Cromwell, ex funzionario e grande
amico del Secretario de Industria Rolando Lagomarsino, ricevette un milione
di dollari, come ammise Agostino Rocca di fronte alla Commissione creata
dai militari che destituirono Perón nel settembre 1955 e incaricata di indaga-
re sugli illeciti commessi durante il suo governo: cfr. Comisión Nacional de
Investigaciones, Documentación, Autores y Cómplices de las Irregularidades
Cometidas durante la Segunda Tiranía, Buenos Aires, s. e.,1958, 5 vol.; vol. II.
25
M.I. Barbero, Grupos empresarios, intercambio comercial e inversiones
italianas, cit.; Paride Rugafiori, Ferdinando Maria Perrone. Da casa Savoia
all’Ansaldo, Torino, Utet, 1992.

122
Nella bella tesi dedicata alla vicenda di Enrico Capriolo, suo non-
no, Ugo Pruneri26 ci racconta le traiettorie successive di alcuni di loro.
Angelo Borroni rimane con Techint e lavora nei cantieri di Comodoro
Rivadavia e Punta Arenas, in Cile. Nel 1949 passa alla Sniafa, conso-
ciata argentina della Snia Viscosa di cui già era dipendente in Italia.
Enrico Capriolo si trasferisce a Buenos Aires e si impiega in un’officina
che lavora sempre per la Sadop. Nel 1950 va a lavorare in un’officina
meccanica per autoveicoli, anche questa di proprietà di un italiano. Nel
1951 un’impresa italiana che “fa lavori per il governo” lo assume come
capo officina. Nel 1956 rientra in Italia per motivi familiari e si impiega
nell’officina meccanica del cognato, per poi tornare a lavorare con la
Techint italiana nel 1963, quando partecipa alla costruzione dell’oleo-
dotto che unisce il porto di Genova alla raffineria di Cremona.

2. Prima della lista fornita dal Ministero degli Esteri al Ministero


del Lavoro, l’impresa Borsari ottiene nel 1948 l’autorizzazione per il
trasferimento di 312 dipendenti destinati a realizzare “costruzioni edili,
ferroviarie e stradali” da attuarsi “in tutto il territorio della Repubblica
Argentina”. In realtà l’impresa è forte di un contratto con il Ministero
della Marina argentino che la impegna in Terra del Fuoco, nell’estremo
sud dell’Argentina.27
I lavori, della durata di quattro anni, hanno lo scopo di trasformare
radicalmente dal punto di vista urbanistico e delle infrastrutture l’abi-
tato di Ushuaia, cambiando la destinazione d’uso della cittadina, fin
lì adibita a colonia penale e utilizzata come base navale di presidio ai
confini con il Cile. Ushuaia doveva diventare sede di impianti e di una
fabbrica di cellulosa per lo sfruttamento delle materie prime locali. La

26
Ugo Pruneri, L’emigrazione italiana in Argentina nel secondo dopoguerra.
Un caso di famiglia, Tesi di laurea, rel. Sandro Rinauro, Facoltà di Scienze
Politiche, Università degli Studi di Milano, 2012.
27
Rosa M. Travaglini, Da Bologna al fin del mundo. 1948. Una storia di emi-
grazione italiana, Bologna, Goodlink, 2008.

123
collocazione al fin del mundo e l’impatto degli immigrati – il cui nume-
ro totale sarà superiore alle 1000 unità, su una popolazione di Ushuaia
di 2000 anime – rendevano l’insediamento una moderna versione delle
vecchie colonie di popolamento agricolo.
Per il titolare dell’impresa, Carlo Borsari, è un salto di qualità di
grandi proporzioni: a Bologna, infatti, aveva una falegnameria che dava
lavoro a una trentina di operai. A renderlo possibile sono le relazioni
con il mondo politico argentino, che gli permettono di ottenere crediti
e appalto: questa dei rapporti con la politica emerge come questione
centrale da indagare.
Per i lavoratori le difficoltà sono grandi: inizialmente vivono in
baracche prefabbricate portate dall’Italia assieme ai materiali di co-
struzione e ai macchinari per la fabbrica da impiantare. Tra i reclutati,
ingaggiati dagli Uffici del lavoro in Emilia, Veneto e Friuli per fare
i muratori, c’è un po’ di tutto. Alcuni hanno precedenti per crimini com-
messi durante il fascismo, come il giornalista Arturo Abati. Molti parto-
no per ragioni economiche, come il bellunese Daniele Triches. Triches
ha 22 anni e un diploma di perito industriale edile. Si ferma fino al 1953
a Ushuaia, poi si trasferisce a Buenos Aires, dove fonda un’impresa di
costruzioni. Nel 1955 emigra in Venezuela; qui studia da ingegnere per
corrispondenza e dirige i lavori di un impianto per la desalinizzazione
dell’acqua. Negli anni Sessanta rientra a Belluno, dove fonda un’impre-
sa di costruzioni che ha grande successo.28

3. La Società Cementi Armati Centrifugati nasce nel gennaio del


1920 per iniziativa dell’industriale di Riva del Garda Ezzelino Zontini,
il quale, impressionato dai risultati che l’industria dei pali di cemento
armato centrifugato aveva raggiunto qualche anno prima in Germania,

28
Daniele Triches, 1948. La spedizione nella Terra del Fuoco. Inizio di una
emigrazione. Argentina-Venezuela 1948-1968, Belluno, s. e., 1997. Una copia
di questo prezioso diario-testimonianza è conservata presso l’Archivio diaristi-
co nazionale di Pieve S. Stefano.

124
stipula un accordo con l’industria madre e fonda a Mori Ferrovia, vici-
no a Rovereto, un primo stabilimento. Altri sono realizzati negli anni
tra le due guerre in provincia di Pavia, a Marghera, Firenze, Roma,
Bologna, Cagliari, Fano, Pescara e Cremona. Oltre ai pali vi si produco-
no elementi prefabbricati per costruzioni in cemento armato. Nel 1948
la Scac ottiene il permesso di radicamento a San Nicolás, sul fiume
Paranà, nell’estremo nord-est della provincia di Buenos Aires. I dipen-
denti da trasferire sono inizialmente 92, tutti trentini provenienti dallo
stabilimento di Mori Ferrovia.
Alcuni flash della storia aziendale Scac in Argentina. Negli anni
seguenti vengono aperti stabilimenti a Córdoba, Mendoza, Olavarría,
Tucumán, Cipolletti. Nel momento di massimo splendore la fabbrica di
San Nicolás dà lavoro a 250 persone. Ai trentini si sono aggiunti con-
nazionali provenienti da altri stabilimenti Scac in Italia, da Porto Mar-
ghera a Monterotondo. Da San Nicolás alcuni di loro si trasferiscono in
Brasile, dove la Scac si insedia nel 1960.29 Tutti gli stabilimenti Scac
argentini chiudono i battenti tra il 1982 e il 1984, in Italia la Scac porta
i libri in tribunale nel 1998. Attualmente restano attivi tre stabilimenti
in Brasile. Alcuni ex dipendenti Scac argentini si mantengono però in
contatto e sognano di rifare “una Scac argentina, è un’impresa ardua ma
siamo Scac”.30
In una prospettiva macroeconomica, il trasferimento di imprese
italiane in Argentina va inquadrato nell’ampliamento/diversificazione
dei processi di internazionalizzazione che si verificò nel secondo dopo-
guerra a livello mondiale e, su scala locale, nelle politiche del governo
peronista, che rafforzò le misure protezionistiche e approfondì il pro-
cesso di sostituzione delle importazioni avviato dai governi conserva-
29
Si veda il sito dell’impresa: http://www.scac.com.br, consultato l’8 aprile
2016.
30
Nel 2010 a una riunione del Circolo Trentino di San Nicolás erano presenti
otto soci facenti parte del gruppo originario emigrato nel 1950. Altri due, rien-
trati in Italia, inviarono i loro saluti via web: cfr. http://www.trentinos.com/it/
news-sannicolas/53-catnewssannicolas/56-los-trentinos-recuerdan-los-60-a-
nos-de-la-emigracion, consultato l’8 aprile 2016.

125
tori negli anni Trenta. Osservato a livello micro, tuttavia, il caso delle
imprese italiane in Argentina nel secondo dopoguerra può servirci ad
approfondire due aspetti: 1) il ruolo delle imprese come motori del-
la internazionalizzazione; 2) il protagonismo degli imprenditori come
vettori di trasferimento di tecnologie e know how. Delle due forme in
cui il processo si svolse – investimenti diretti e trasferimento di imprese
al completo – mi sembra che quest’ultima meriti di essere indagata più
a fondo. Se infatti l’insediamento di multinazionali comportò afflusso
di capitali, di tecnologie e di risorse imprenditoriali e manageriali, il
trapianto di imprese con migliaia di lavoratori al seguito generò in ag-
giunta anche flussi migratori quantitativamente rilevanti. Ne derivò una
disseminazione di risorse umane, con immigrati giunti come operai che
in alcuni casi si trasformarono in imprenditori: un processo che sembra
confermare quanto siano centrali nella storia argentina il rapporto tra
immigrazione e costruzione del tessuto industriale e il ruolo che vi gio-
carono gli italiani.

126
RODOLFO WALSH: DECOSTRUIRE UNA VERITÀ FALSIFICATA
CON L’INTERSEZIONE TRA I GENERI
di Flavio Fiorani

In tempi recenti è cresciuto l’interesse intorno all’opera di chi negli


anni Sessanta ha rotto le barriere che convenzionalmente separano la
narrativa di finzione dalla non fiction per affrontare la sfida della rap-
presentabilità di eventi tragici e oscuri della cronaca politica dell’Ar-
gentina. Il curatore degli scritti giornalistici di Rodolfo Walsh ha ricor-
dato ciò che questi aveva indicato nel 1964 come l’obiettivo prioritario
della propria attività di intellettuale: “Decidí que, de todos mis oficios
terrestres, el violento oficio de escritor era el que más me convenía”.1

1
Rodolfo Walsh, El violento oficio de escribir. Obra periodística, a cura di
Daniel Link, Prologo di Ernesto Ekaizer, Madrid, 451 Editores, 2011, p. 22.
Il percorso letterario, giornalistico e guerrigliero di Rodolfo Walsh sta tutto
nel ventennio contrassegnato dall’estrema polarizzazione e dalla conflittua-
lità sociale e politica seguita al golpe del 1955 che rovescia Juan Domingo
Perón e decreta la proscrizione del movimento che si richiama al suo nome.
Discendente di coloni irlandesi emigrati in Argentina, Rodolfo Walsh nasce
nel 1927 a Choele-Choel, nella provincia di Río Negro. Dopo gli studi in
un collegio irlandese, si stabilisce nella capitale e lavora nella casa editri-
ce Hachette, dove si occupa di narrativa poliziesca e traduce dall’inglese.
Pubblica racconti in riviste di ampia diffusione e li riunisce nelle raccolte
Variaciones en rojo (1953) e Los oficios terrestres (1965). Nel 1959 fonda a
Cuba l’Agenzia giornalistica Prensa Latina e prosegue l’attività di giornali-
sta e scrittore unendola all’impegno militante: nel 1968 aderisce al sindacato
della resistenza peronista “CGT de los Argentinos” e fonda e dirige il perio-
dico Semanario CGT. Seguirà l’adesione alle Fuerzas Armadas Peronistas
(1970) e più tardi la militanza nell’organizzazione armata Montoneros. Dopo
il colpo di stato del 1976 crea l’Agencia Clandestina de Noticias. Il 25 marzo
1977 invia a testate nazionali ed estere la sua Carta abierta de un escritor a

127
Scrivere non doveva costituire una mediazione rispetto alla violenza
del reale, ma un’attività militante che, nella scrittura giornalistica, di
finzione, nel reportage d’autore o nella narrativa testimoniale metteva
il rapporto tra letteratura e politica al servizio di un’istanza di verità, di
disvelamento delle cause della violenza politica in Argentina.
Nella biografia professionale di Walsh il momento di svolta è la te-
stimonianza che Juan Carlos Livraga, sopravvissuto alla fucilazione di
militanti peronisti ingiustamente accusati di aver partecipato alla ribel-
lione (giugno 1956) di un settore delle forze armate contro il governo
de facto, gli ha reso su quel tragico evento. Il risultato è un testo tanto
dirompente quanto inedito nel panorama letterario argentino, perché
supera le barriere tra i “generi”: Operación masacre (1957) costituisce
una svolta rispetto al Walsh autore di gialli e segna soprattutto quel
“salto en el vacío” considerato come un momento decostruttivo del ge-
nere poliziesco e l’inizio della narrativa testimoniale in Argentina.2 Uno

la Junta Militar, in cui denuncia i crimini del governo de facto e viene ucciso
in strada da militari in borghese.
2
Daniel Link, Cómo se lee y otras intervenciones críticas, Buenos Aires, Gru-
po Editorial Norma, 2003, p. 111. Cfr. inoltre Victoria García, Algunas reflexio-
nes y tres realizaciones en la narrativa argentina: Walsh, Urondo, Cortázar
(1957-1974), “Kamchatka”, n. 6 (2015), p. 11-38. Va ricordato che Operación
masacre non si presenta come la riscrittura di eventi da parte di un testimone
sopravvissuto, ma come indagine-denuncia su un crimine di stato. Il fatto che
quest’opera sia stata ascritta al corpus della letteratura testimoniale è il risulta-
to di un’operazione successiva, databile ai primi anni Settanta, quando Walsh,
dopo che il suo libro aveva ottenuto piena consacrazione in America latina,
ne solleciterà la rilettura come testo di denuncia politica dopo le due edizioni
(1971 e 1972) pubblicate a Cuba. Lo conferma la Nota (“Operación” en el
cine) aggiunta all’edizione del 1972 in cui Julio Troxler (uno dei sopravvissuti
alla fucilazione) narra la sua esperienza di militante e nel film diretto da Jorge
Cedrón (girato in clandestinità nello stesso anno) interpreta se stesso. Si ve-
dano in proposito Rodolfo Walsh, Operación masacre seguido de la campaña
periodística, edizione critica di Roberto Ferro, Buenos Aires, Ediciones de la
Flor, 2009, p. 315-319 e Victoria García, Testimonio literario latinoamericano.
Una reconsideración histórica del género, “exlibris”, n. 1 (2012), p. 371-389.

128
dei libri più straordinari della letteratura ispanoamericana, un vero e
proprio antesignano del new-journalism statunitense e del romanzo-ve-
rità basato su fatti di cronaca che decreterà il successo di Truman Ca-
pote e Norman Mailer, annuncia un’idea di letteratura che Walsh esplo-
ra mescolando il giornalismo di inchiesta, la scrittura militante, l’uso
dell’autofinzione che si definisce attraverso ciò che nega (la finzionalità
dichiarata) e mette in campo una scrittura che attinge all’autobiografia,
alla saggistica di taglio narrativo ed esibisce un forte tasso di autorialità.
La ricostruzione di un’esecuzione a sangue freddo in una discarica dei
rifiuti nella periferia di Buenos Aires da parte di un narratore che agisce
come un doppio dell’autore reale procede come un crudo resoconto dei
fatti confrontando documenti e testimonianze dei protagonisti.
Questi sono i fondamenti della modalità narrativa che Walsh adotta
nelle opere successive (¿Quién mató a Rosendo? del 1969 e El caso
Satanovsky del 1973) con una scrittura che transita con disinvoltura
sui margini del letterario e del politico, riduce la forbice tra verità e
finzione, respinge l’idea che letteratura e testimonianza siano polarità
incompatibili e ribadisce la necessità di una finzione che sia soprattutto
indagine scritta del reale.3 Il narratore-detective-giornalista si assume il
compito di decostruire la verità di casi oscuri e di mostrare quanto la ca-
pacità di dipanare l’intrigo presenti più di un tratto in comune con l’an-
ti-eroe Philip Marlowe e la hard-boiled novel di Raymond Chandler:
il crimine, il documento, la testimonianza, il rilevamento della scena,
l’indagine giudiziaria (con le sue lacune) sono la metafora di una vicen-
da molto più ampia e di una cultura e di un’epoca storica. Il ricorso alla
detective fiction serve per instaurare una relazione di complicità con
il lettore, una volta che quest’ultimo ha fatto proprie le regole di una
strategia investigativa che assicura un effetto di verità.4
Dodici anni dopo Operación masacre il proposito di smaschera-
re verità ufficiali in delitti a forte movente politico nel periodo in cui

3
Cfr. Ana María Amar Sánchez, El relato de los hechos. Rodolfo Walsh: testi-
monio y escritura, Rosario, Beatriz Viterbo, 1992.
4
Cfr. Tzvetan Todorov, Poetica della prosa, Milano, Bompiani, 1995.

129
esplodono i conflitti interni alla galassia del sindacalismo peronista –
quell’attore legale/illegale della politica considerato la “colonna verte-
brale” della resistenza ai governi civili e militari che si avvicendavano
alla guida del paese – dà luogo a un’inchiesta a puntate sul massacro di
tre militanti peronisti.5 Il racconto prende le mosse dalla sparatoria di
“12 secondi”, in cui il 13 maggio 1966 sono assassinati nella pizzeria
“La Real” di Avellaneda il dirigente sindacale Rosendo García e due
affiliati al sindacato metallurgico: Domingo “El Griego” Blajaquis e
Juan Zalazar. Nel polo industriale che concentra imprese metalmecca-
niche, automobilistiche, chimiche e tessili della capitale accade un fatto
di sangue che sembra appartenere più alla cronaca nera che alla lotta
politica: in realtà il massacro eccede la morte del “simpático matón y
capitalista de juego que se llamó Rosendo García”, perché il crimine ha
una portata politica ben più ampia e investe “el drama del sindicalismo
peronista a partir de 1955”.6
Il detective Walsh strizza l’occhio al lettore e non nasconde il carat-
tere congetturale della sua inchiesta: “Si alguien quiere leer este libro
como una simple novela policial, es cosa suya”.7 Fa proprie le regole
della detective fiction dilatandone i confini: è necessaria un’attenta in-
dagine della scena e della dinamica del crimine per dare significato al
suo racconto, ma quest’ultimo conterrà una sintassi, una trama che do-
vrà essere “una demostración abrumadora de la complicidad de todo el
Sistema con el triple asesinato de La Real de Avellaneda”.8 La ricostru-
zione della sparatoria dovrà svelare una trama politico-criminale e tro-
vare il filo conduttore con cui il lettore può addentrarsi nella nebulosa di
depistaggi, negligenze, silenzi, insabbiamenti, complicità che rendono

5
Gli articoli vengono pubblicati sul Semanario CGT a partire dal 16 maggio
1968 e l’anno successivo sono raccolti nel volume dal titolo ¿Quién mató a
Rosendo?, Buenos Aires, Editorial Tiempo Contemporáneo, 1969. I brani di
quest’opera sono tratti dalla più recente edizione Id., ¿Quién mató a Rosendo?,
Buenos Aires, Ediciones de la Flor, 200812.
6
Ivi, p. 7.
7
Ivi, p. 9.
8
Ivi, p. 11.

130
la vicenda qualcosa di molto più complesso di un omicidio provoca-
to da un alterco in pizzeria. Ricostruire la dinamica dell’assassinio a
mansalva non deve soltanto restituire dignità al “Griego Blajaquis un
auténtico héroe de sus clase” e a Juan Zalazar “un espejo de la desgra-
cia obrera”.9 È necessaria, in quanto il plot del massacro è la chiave di
accesso a un enigma di portata più ampia.
Il ricorso alle regole del genere poliziesco non costituisce soltanto
l’impianto del racconto. È lo schema stesso della relazione con il let-
tore, perché l’inchiesta deve soprattutto mostrare il ruolo che in questa
vicenda gioca il referente extraletterario: lo scontro tra opposte fazioni
nel sindacalismo peronista. Il ricorso alla detective fiction serve a sve-
lare i risvolti oscuri del massacro agli occhi del destinatario naturale
dell’inchiesta di Walsh: i lavoratori argentini. Il racconto si appella alla
capacità del lettore di trovare la soluzione del mistero della dinamica e
dei moventi in fattori che vanno ben al di là dell’insulto che ha scatena-
to la sparatoria: “Qué carajo mirás, guacho hijo de puta?”.10 Dipanare
l’intreccio del crimine porta alla conclusione che il vero deus ex machi-
na di questa tragica vicenda è il dirigente sindacale Augusto Vandor,
che cerca l’accordo con gli industriali ed è fautore di un “peronismo
senza Perón”, comanda l’apparato sindacale con modi gangsteristici,
ottiene l’impunità per gli esecutori materiali del massacro e cerca di
liquidare i militanti del sindacalismo di base. A quarantatré anni, una
perenne smorfia di disprezzo nel viso, “il lupo” Vandor, un’infanzia
povera nell’interno del paese, giunto nella capitale con un diploma di
scuola elementare, abile nel cambiare cavallo a seconda delle necessità,
ha ben compreso l’essenza del potere: “ese punto de equilibrio en que
nadie hace su voluntad, pero el más hábil opera con la voluntad ajena”.11
Il racconto di un crimine politico mescola l’ordine cronologico e
logico dei fatti (la fabula) con digressioni sulla vita dei personaggi del
dramma e l’assemblaggio di testimonianze orali. Alla giusta distanza

9
Ivi, p. 7.
10
Ivi, p. 59.
11
Ivi, p. 38.

131
dalla concitazione degli eventi, il detective compie un rilevamento del
terreno e fa irrompere nell’inchiesta le storie individuali dei tre assas-
sinati. La prima parte dell’indagine traccia la loro biografia, presenta
il contesto familiare, ne ripercorre la militanza sindacale e propone un
quadro partecipe e commosso della vita dei settori popolari nella cin-
tura industriale della capitale. In ciò il giornalismo narrativo di Walsh
si distanzia dalla convenzionale indagine di cronaca, perché narrativiz-
za il vissuto individuale dei protagonisti, ne fa dei narratori in prima
persona, li individualizza. Li rende soggetti e personaggi del racconto
strappandoli dall’anonimato dell’inchiesta giornalistica e stipula con
il lettore “un patto che lo impegna a considerare ciò che legge come
emesso da una voce reale, da una persona concreta che risponde con
nome e cognome”.12 Definendosi attraverso ciò che nega (la letteratura
di invenzione), la decostruzione dell’evento riconfigura anche le condi-
zioni di produzione del testo: queste ultime scaturiscono dall’interazio-
ne comunicativa tra chi scrive e i protagonisti della storia e dall’enfasi
posta sul carattere militante della scrittura che predispone allo slitta-
mento dello scrittore fuori dal suo testo.
Per dare un maggior tasso di autorialità all’indagine, Walsh mani-
pola la finzionalità della detective story: accumula testimonianze orali
e trasforma la narrazione in uno spazio di interscambio tra il reale e
il letterario, fa sì che i personaggi appartengano a entrambi gli spazi:
la testimonianza non sarà soltanto il racconto di quanti hanno visto e
vissuto l’evento, ma anche di chi ascolta e legge il loro racconto. Tipo-
graficamente attestato dal carattere in tondo e in corsivo, l’intercalare
delle testimonianze alla voce del narratore costituisce il punto di vista
interno ed esterno del racconto. E con tale simultaneità Walsh risale al
passato, al vissuto personale, alla militanza, all’autoidentificazione con
il peronismo militante combattivo, alla coscienza di classe, ai legami
familiari, al momento in cui molti di loro escono di casa o dalla fabbri-
ca per convergere verso la pizzeria la notte del massacro. Lontana da

Daniele Giglioli, Senza trauma. Scrittura dell’estremo e narrativa del nuovo


12

millennio, Macerata, Quodlibet, 2011, p. 53.

132
ogni generalizzazione distanziante del resoconto giornalistico, il rac-
conto mette a fuoco frammenti di vita, inserisce digressioni del narra-
tore, focalizza momenti chiave, attinge all’inchiesta ufficiale e strappa
i testimoni dal cliché di meri figuranti di un rapporto di polizia per
individualizzarli e renderli soggetti attivi del dramma.13
Con il rinvio a una dimensione deliberatamente lontana nel tempo,
Walsh vuole che il confronto tra le voci di chi è rimasto vivo e di chi
è morto avvicini il lettore ai personaggi in una sorta di focalizzazione
esemplare capace di dar conto di un vissuto culminato in tragedia. Oltre
che narratori di se stessi, i protagonisti del dramma sono parte di una
storia più complessa e rendono il lettore un co-creatore del testo, lo
sollecitano a comprendere i moventi della trama criminale. In tal modo
le categorie narrative di personaggio e autore risultano contaminate da
elementi referenziali (il vissuto individuale) e consentono il passaggio
costante dal reale al letterario e viceversa.14
Nella seconda parte (“La evidencia”) Walsh presenta il teatro del
massacro, elenca i tentativi di depistaggio da parte delle forze dell’or-
dine e degli assassini, smaschera la falsità della versione ufficiale e le
macroscopiche lacune dell’inchiesta giudiziaria, denuncia la cancella-
zione e la manipolazione delle prove, le pressioni condotte su alcuni
testimoni perché dichiarino il falso, smentisce una campagna di stampa

13
Ana María Amar Sánchez, La ficción del testimonio, “Revista iberoamerica-
na”, LVI, n. 151, aprile-giugno 1990, p. 447-461.
14
Nel sollecitare il lettore a elaborare un’interpretazione antitetica alla “verità”
ufficiale, il testo di Walsh mostra certe affinità con l’intento della “microsto-
ria” di presentare eventi e personaggi in un’ottica comparativa che respinge
paradigmi consolidati e apparenze ufficiali. Nella ricostruzione processuale
del contesto in cui è avvenuto il massacro, il racconto di Walsh fa interagire
il vissuto personale con la dimensione collettiva, l’identità di gruppo, i valori
condivisi e decodifica indizi, focalizza comportamenti e strategie individuali
nel magma dei racconti per riscattare il modo conflittuale di agire nel mondo
da parte delle vittime del massacro. Cfr. Nilda Susana Redondo, Las versiones
de ¿Quién mató a Rosendo? de Rodolfo Walsh, “Anclajes”, VIII, n. 8, dicem-
bre 2004, p. 277-332.

133
vergognosamente concorde nell’attribuire alle vittime la responsabilità
del massacro, punta il dito sulle perizie balistiche eseguite senza cri-
terio. Poi l’investigatore compie una selezione delle sequenze cruciali
dell’evento e le offre al lettore con un minuzioso rimontaggio che cul-
mina nella denuncia della responsabilità di Vandor nel crimine:

Esta es mi “conjetura” particular: que el proyectil número 4 fue dispa-


rado por Vandor, atravesó el cuerpo de Rosendo García e hizo impacto
en el mostrador de La Real, que hasta el día de hoy exhibe su huella.
Admitiendo que no baste para condenar a Vandor como autor directo
de la muerte de Rosendo, alcanza para definir el tamaño de la duda que
desde el principio existió sobre él.
Sobra en todo caso para probar lo que realmente me comprometí a pro-
bar cuando inicié esta campaña:
Que Rosendo García fue muerto por la espalda por un miembro del
grupo vandorista.15

Oltre al “lupo” Vandor, protetto dalle guardie del corpo José Pe-
traca e Norberto Imbelloni, e ai tre assassinati, gli altri personaggi del
dramma scorrono nelle pagine di un testo attraversato dalla tensione
tra realtà e finzione e la cui lettura produce un effetto di straniamento.
Sono Raimundo Villaflor, che riconosce a Blajaquis il carisma di un
combattente per la causa, di un leader sindacale che ha diffuso l’idea
che il peronismo

es un movimiento parecido al de otros pueblos que luchan por su libe-


ración… él nos explicó las causas por las que estábamos derrotados, el
papel del imperialismo, el papel de la oligarquía y el papel de la buro-
cracia en el peronismo: esos recitadores de los días de fiesta. Aprendi-
mos lo que significaban los movimientos de liberación en el resto del
mundo…16

15
Ivi, p. 129.
16
Ivi, p. 21-22.

134
Il fratello Rolando Villaflor (“que de simpatizante peronista se hizo
militante revolucionario”),17 il Negro Granato, l’operaio cui Evita ave-
va stretto la mano quando da bambino viveva in una baracca (“y, bue-
no, naturalmente, la casa de nosotros era bastante friolenta y yo tenía
frío, así que me acuerdo que la mano de Evita era muy caliente”),18 il
cameriere Jesús Fernández, Juan Taborda (l’autista di Vandor che dà
inizio alla sparatoria), l’avvocato Norberto Liffschitz, il commissario
De Tomás, il giudice del tribunale di La Plata Néstor Cáceres che, mes-
so alle strette dall’inquinamento delle prove e dagli esiti della perizia
balistica (che prova che almeno uno dei tre assassinati è stato colpito
mentre era seduto), è obbligato a riconvocare in tribunale il leader sin-
dacale ma senza disporre un confronto tra i presenti nella pizzeria. Sei
mesi dopo i fatti (febbraio 1967) la Corte Suprema dispone il trasfe-
rimento dell’inchiesta al tribunale di Bahía Blanca, che, esaminato il
quadro probatorio, dichiara il non luogo a procedere ed estingue il reato
che avrebbe motivato l’azione penale. Due anni dopo il massacro, nel
maggio del 1968, Norberto Imbelloni, dopo aver denunciato sui gior-
nali la responsabilità diretta di Vandor nell’assassinio, dichiara a Walsh
che Vandor con la sua pistola ha sparato alla schiena a Rosendo García
(l’autopsia stabilirà che un proiettile gli ha perforato la regione dorsale)
e che le altre due vittime (disarmate) sono state colpite mentre fuggono
dalla pizzeria. Nel locale è avvenuta una sparatoria a senso unico.
Nel paratesto finale (“El vandorismo”) – una ricostruzione stori-
co-giornalistica del sindacalismo peronista – è riaffermata l’idea del libro
come combattimento intorno alla verità. Dopo che le prime due sezioni
hanno chiarito la dinamica degli eventi e i moventi della trama, l’indagine
oltrepassa la dimensione del plot come zona recintata, chiusa, in cui le
complicità degli assassini con il potere impediscono di trovare la verità.19
Qui si arresta la detective story che ha sovrapposto due ordini temporali:

17
Ivi, p. 37.
18
Ivi, p. 53.
19
Cfr. in proposito Peter Brooks, Trame. Intenzionalità e progetto nel discorso
narrativo, Torino, Einaudi, 2004, p. 26-27.

135
il tempo del delitto e il tempo dell’inchiesta. La detection di moventi e
responsabilità è ora condotta a livello verticale, al sistema di relazioni,
al campo di forze che sono tenute insieme dalla “traición de un leader”
e dal “silencio de arriba”.20 È questo asse verticale che permette di com-
prendere ciò che si è narrato nella dimensione orizzontale (la dinamica
dell’evento) e di relazionarlo alla contingenza politica.
Le ragioni dell’assassinio di Rosendo sono tali solo se osservate re-
trospettivamente, in una lettura che prenda le mosse dal presente della
dittatura militare del generale Onganía. Perché la spiegazione del mi-
stero, la misura del dubbio intorno alla storia di questo delitto politico
sta nel peronismo e nella sua narrativa collusa con la menzogna del po-
tere. Spetta dunque al lettore decostruire il linguaggio monologico della
pretesa “verità” giudiziaria. Per mostrare la verità referenziale che sta
dietro il massacro in una pizzeria e nel conflitto interno al peronismo,
l’indagine di Walsh agisce nell’intersezione tra due impossibilità: non
può dichiararsi come narrazione di finzione (i fatti sono realmente acca-
duti), ma riconosce la propria impossibilità a essere specchio fedele di
quei fatti. È un’originale rielaborazione della complessità morfologica
del genere poliziesco – un modello di lettura estrema che con un’ope-
razione di straniamento permette di vedere le cose in un altro modo e
decifrare l’enigma – e della capacità di Walsh di superare l’antinomia
tra politica e letteratura rompendo gli schemi della finzione.21

20
¿Quién mató a Rosendo?, cit., p. 169.
21
Cfr. Laura Demaría, Rodolfo Walsh, Ricardo Piglia, la tranquera de Mace-
donio y el difícil oficio de escribir, “Revista Iberoamericana”, LXVII, n. 194-
195, gennaio-giugno 2001, p. 135-144.

136
DALL’11 SETTEMBRE 1973 ALL’ISTITUZIONALIZZAZIONE
DEL TERRORE. LA GUERRA SPORCA DEGLI STATI UNITI IN
ARGENTINA
di Marco Sioli

Per parlare di guerra sporca degli Stati Uniti in Argentina o “dirty


war”, come viene apertamente definita nei documenti desegretati dal
Dipartimento di Stato dopo il viaggio a Buenos Aires di Barack Obama
nel marzo del 2016, bisogna ritornare sui temi affrontati dal convegno
Le due Americhe, dalla morte di JFK al golpe in Cile. Il simposio, che
si è tenuto all’Università degli Studi di Milano il 21 e 22 novembre
2013 in occasione del 50° anniversario dell’uccisione di John F. Ken-
nedy e 40° anniversario del golpe in Cile, ci permette di allargare la
riflessione all’ennesima tragica ricorrenza che proprio Obama ha deciso
di sottolineare con il viaggio in Argentina. “C’è tutto un sottobosco da
ripulire” sono state le sue parole pronunciate all’arrivo alla Casa Rosa-
da, dove lo attendeva il presidente argentino Mauricio Macri.1
Con la scelta di rendere immediatamente disponibile una serie di
documenti relativi alla guerra sporca in Argentina, Obama ha ripercorso
una strada che un altro presidente democratico, Bill Clinton, aveva in-
trapreso con l’ordine esecutivo n. 12958 del 17 aprile 1995.2 Per effetto
di questa disposizione, nel giugno del 1999 erano stati desegretati i do-
cumenti sui crimini del regime di Augusto Pinochet in Cile. I materiali

1
Paolo Gallori, Obama promette agli argentini la verità sulle relazioni tra
Usa e dittatura militare, “La Repubblica”, 23 marzo 2016. Il programma del
convegno Le due Americhe, dalla morte di JFK al golpe in Cile è disponibile
al sito http://www.unimi.it/news/2304.htm.
2
Executive Order 12958 of April 17, 1995, “Federal Register”, vol. 60, n. 76,
April 20, 1995, Part IV, The President, p. 19823-19843, in https://fas.org/sgp/
clinton/eo12958.pdf.

137
rilasciati hanno raccontato una storia di violazione dei diritti umani e
di terrorismo internazionale, allargando il campo alla strategia com-
plessiva degli Stati Uniti in America Latina e ponendo i riflettori sulle
responsabilità delle diverse agenzie federali – il Dipartimento di Stato,
del Consiglio per la sicurezza nazionale, la CIA e il Dipartimento della
Giustizia –, che tuttavia si sono dimostrati riluttanti a rilasciare una
documentazione completa.
La volontà di Clinton è stata confermata dall’amministrazione Bush
e il 20 agosto 2002 il Segretario di Stato, Colin Powell, ha lanciato
l’Argentina Declassification Project con la pubblicazione di migliaia
di documenti molto vari relativi alle relazioni bilaterali tra Stati Uniti e
Argentina: telegrammi tra l’ambasciata a Buenos Aires e il Dipartimen-
to di Stato, petizioni al Congresso delle vittime, memorandum tra gli
ufficiali governativi e gli attivisti, i politici e i lobbisti.3 In seguito a que-
sta iniziativa, il 20 febbraio 2003, durante una trasmissione televisiva,
Powell ha definito la politica estera degli Stati Uniti nei primi anni Set-
tanta come “una parte della storia americana di cui non andiamo fieri”.4

Richard Nixon e l’altro 11 settembre

Powell non si riferiva tuttavia al comportamento degli Stati Uniti


nei confronti dell’Argentina, bensì al golpe in Cile e alla fine violenta
dell’esperienza politica di Salvador Allende. Questa frase, pronun-
ciata davanti alle telecamere della U.S. Black Entertainment Televi-
sion per rispondere alla domanda di uno studente, è divenuta subito

3
Benedetta Calandra, “It Is Not a Part of American History That We Are Proud
of.” Los proyectos de desclasificación estadounidenses (1993-2002), in Las lu-
chas por la memoria en América Latina. Historia reciente y violencia política,
eds. Eugenia Allier Montaño e Emilio Crenzel, Ciudad de México, Bonilla Arti-
gas, 2015, p. 329-358.
4
Secretary of State Colin L. Powell, Interview On Black Entertainment Tele-
vision’s Youth Town Hall, February 20, 2003 in https://2001-2009.state.gov/
secretary/former/powell/remarks/2003/17841.htm.

138
un’ammissione importante ed è stata ripresa nell’introduzione del li-
bro di Peter Kornbluh The Pinochet File, originariamente pubblicato
nel 2002, ma aggiornato nel 2013, proprio in occasione del quarante-
simo anniversario del colpo di stato militare messo in atto da Pinochet
l’11 settembre 1973.5
Il riserbo e i ritardi delle agenzie nel rilasciare i documenti erano
motivati da evidenti rischi giudiziari per gli agenti impegnati nelle ope-
razioni segrete, le cui responsabilità erano da tempo investigate a livel-
lo internazionale. In particolar modo erano la CIA e i suoi agenti, che
avevano fatto il lavoro sporco, a rischiare di più. La CIA, infatti, era in
possesso della documentazione sugli omicidi del regime e della polizia
segreta cileni, così come dei tentativi cileni di costituire un gruppo in-
ternazionale con incarichi operativi segreti, inserito nell’ampio spettro
dell’Operazione Condor in America Latina.6 Ecco perché, per occupar-
ci del golpe in Argentina del 1976, dobbiamo obbligatoriamente partire
dal golpe che ha segnato la caduta del governo Allende e l’inizio della
dittatura di Pinochet.
Il contributo dell’amministrazione di Richard Nixon e di Henry Kis-
singer, suo segretario di Stato e al contempo capo del Consiglio per la
sicurezza nazionale, alla sovversione economica e politica del governo
di Allende e alla creazione delle condizioni favorevoli per il golpe è or-
mai noto e ampiamente confermato dai documenti e dalla storiografia.
Quando il 9 novembre 1970 Kissinger firmò il memorandum n. 93 del
Consiglio per la sicurezza nazionale, che ripensava alla linea da tenere
nei confronti del Cile, intendeva proporre varie iniziative in linea con
le istruzioni di Nixon che aveva esplicitamente chiesto di “far piangere
l’economia” cilena.7 Nonostante le dichiarazioni ufficiali di Kissinger,
5
Peter Kornbluh, The Pinochet File. A Declassified Dossier on Atrocity and
Accountability, New York, New Press, 2013, p. ix.
6
John Dinges, The Condor Years. How Pinochet and His Allies Brought Terror-
ism to Three Continents, New York, New Press, 2004. In italiano si veda Stella
Calloni, Operazione Condor. Un patto criminale, Milano, Zambon, 2010.
7
National Security Council, National Security Decision Memorandum 93, Po-
licy Towards Chile, November 9, 1970 in http://nsarchive.gwu.edu/NSAEBB/

139
che negava un qualsiasi ruolo avuto dagli Stati Uniti nel sanguinoso
golpe che portò alla morte di Allende, una miriade di documenti ha mo-
strato il contrario, come ad esempio il rapporto della divisione navale
del contingente militare americano in Cile, scritto da Patrick Ryan, un
addetto militare della US Navy, che definisce l’11 settembre 1973 come
“il nostro D-Day”.8
Altri documenti mostrano come il governo americano fosse minu-
ziosamente informato sulle atrocità di Pinochet: in un rapporto del 16
novembre a firma del vicesegretario di Stato, Jack Kubisch, le esecuzio-
ni sommarie furono enumerate in 320 nei primi 19 giorni. Allo stesso
modo è documentato come ripartirono i prestiti statunitensi al Cile – 24
milioni di dollari per gli approvvigionamenti di grano – e i progetti
di riarmo per l’equipaggiamento di due navi destroyer. Nello stesso
rapporto Kubisch sollevò la questione di due cittadini americani uccisi
dai militari, due morti che comunque nei documenti successivi saranno
derubricate a questioni secondarie, perché rischiavano di rendere più
difficile la cooperazione.9
Per il giornalista Christopher Hitchens tutti i crimini commessi in
Cile vennero compiuti sotto la “sorveglianza” di Kissinger e tutti era-
no punibili secondo il diritto nazionale o internazionale o entrambi.
Quando sotto la presidenza di Clinton furono declassificati i documenti
riguardanti il golpe in Cile, essi riportarono alla luce anche una con-
versazione privata tra Kissinger e Pinochet avvenuta l’8 giugno 1976
a Santiago del Cile in occasione del meeting dell’Organizzazione degli
stati americani (OSA). Come ha scritto Hitchens, se nella sua biografia
Kissinger affermava che la maggior parte della conversazione era stata

NSAEBB8, si tratta del National Security Archives, da cui sono tratti tutti i
documenti relativi al Cile citati. Sulle istruzioni di Nixon si vedano le note
del direttore della CIA, Richard Helms, Notes on Meeting with the President
of Chile, September 15, 1970, in nsarchive.gwu.edu/NSAEBB/NSAEBB437/.
8
Department of Defense, U.S. Milgroup, Situation Report 2, October 1, 1973,
in http://nsarchive.gwu.edu/NSAEBB/NSAEBB8/nsaebb8i.htm.
9
Department of State, Chilean Executions, November 16, 1973, in http://
nsarchive.gwu.edu/NSAEBB/NSAEBB8/nsaebb8i.htm.

140
dedicata ai diritti umani, il memorandum desegretato ci restituisce in-
vece le reali parole del segretario di Stato:

Il discorso all’OSA riguarderà i diritti umani nel contesto mondiale. Le


recenti iniziative del Congresso me lo impongono […] Ma il discorso
non è rivolto al Cile. Volevo parlarvene. La mia opinione è che voi siate
vittime di tutti i gruppi di sinistra che sono in giro per il mondo e che il
vostro più grave peccato sia stato quello di rovesciare un governo che
stava diventando comunista.10

Pinochet dal canto suo menzionò in questo contesto per due volte
il nome di Orlando Letelier, leader in esilio dell’opposizione cilena,
accusandolo di ingannare il Congresso americano. Tre mesi più tardi a
Washington un’auto bomba uccise Letelier. Il responsabile dell’azione
era il generale Manuel Contreras della polizia segreta cilena – respon-
sabile della scomparsa, della tortura e della morte d’innumerevoli cit-
tadini cileni e non – che agì indisturbato con i suoi agenti sul territorio
statunitense. Di più, secondo un memorandum della CIA desegretato
nell’epoca di Clinton, Contreras era stato raccomandato nell’aprile
1975 per un rapporto continuo retribuito con la CIA di cui, però, rice-
vette solo un primo pagamento, poiché nell’attentato dinamitardo morì
anche un cittadino statunitense, un inghippo giudiziario che fermò gli
altri pagamenti.11 “Voglio veder migliorare le nostre relazioni e la nostra
amicizia” disse Kissinger a Pinochet nell’incontro dell’8 giugno 1976
“vogliamo aiutarvi, non indebolirvi”.12 L’appoggio al golpe in Argenti-
na era parte di questo aiuto.

10
Christopher Hitchens, Processo a Henry Kissinger, Roma, Fazi, 2003, p.
108.
11
P. Kornbluh, The Pinochet File, p. 5.
12
Department of State, Memorandum of Conversation, U.S.-Chilean Relations,
June 8, 1976 in http://nsarchive.gwu.edu/NSAEBB/NSAEBB437/docs/Doc%20
10%20-%20Kissinger-Pinochet%20memcon%20Jun%208%201976.pdf.

141
La guerra sporca degli Stati Uniti in Argentina

Eccoci dunque al golpe in Argentina che avvenne il 24 marzo 1976


portando al potere la giunta militare del generale Jorge Videla. Gli arresti
e le torture entrarono presto a far parte della vita quotidiana e per sette
lunghi anni più di ventimila argentini – ben descritti con il termine desa-
parecidos, che si sarebbe presto imposto nel linguaggio universale – fu-
rono rapiti e scomparirono in modo misterioso. All’inizio non svanivano
nel nulla: i cadaveri erano ritrovati come nel caso del generale Torres,
l’ex presidente della Bolivia, scomparso il 1° giugno 1976 e ritrovato,
nonostante un appello per la sua liberazione di famosi intellettuali come
Gabriel García Márquez, sotto un ponte nei dintorni di Buenos Aires.
Per la ricercatrice Stella Calloni Torres rappresentava un pericolo
per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti.13 Di questo era sicuro Kis-
singer, così come appare nei documenti desegretati da Obama. Nel pri-
mo documento che analizziamo, datato 11 dicembre 1975, il segretario
di Stato aveva richiesto al presidente Ford – Nixon si era dimesso l’8
agosto dell’anno precedente, dopo lo scandalo Watergate – l’aumento
degli stanziamenti in favore delle forze armate argentine per mante-
nere ottime relazioni con un paese “dove i militari stanno assumendo
crescenti responsabilità per governare”.14 In un rapporto segreto del 26
marzo 1976, due giorni dopo il golpe, il suo assistente per l’America
Latina, William Rogers, lo informò che, per avere un successo dure-
vole, i militari avevano bisogno di coinvolgere gli Stati Uniti “parti-
colarmente dal lato finanziario”. Kissinger rispose: “Sì, ma questo è
nel nostro interesse”. Rogers fu chiaro su quello che sarebbe succes-
so: “Dobbiamo aspettarci una massiccia repressione, probabilmente un
sacco di sangue in Argentina […] saranno duri non solo con i terroristi,

13
S. Calloni, Operazione Condor, p. 166.
14
Budget Appeal on Foreign Aid, 11 dicembre 1975, p. 2. Tutti i documenti
citati di seguito son tratti dal sito deI National Archives http://nsarchive.
gwu.edu/NSAEBB/NSAEBB545-Obama-brings-declassified-diplomacy-to-
Argentina-on-40th-anniversary-of-coup/.

142
ma anche con i sindacati e i loro partiti”. Ma Kissinger fu risoluto: “Li
voglio incoraggiare”.15
La repressione ipotizzata da Rogers divenne realtà. Nel maggio del
1976 numerosi argentini che lavoravano con le università americane o
che avevano una borsa di studio della Ford Foundation furono rapiti
dalle forze di sicurezza e tra questi c’erano anche dei cittadini ameri-
cani. Qui fa il suo ingresso nella storia l’ambasciatore statunitense a
Buenos Aires Robert Hill, un diplomatico ultraconservatore con solidi
legami con le oligarchie economiche dell’America Latina. In quanto
tale, Hill si impegnò per organizzare l’incontro tra Kissinger e l’ammi-
raglio Guzzetti, ministro degli Esteri argentino, il 10 giugno a Santiago
in Cile in occasione del meeting dell’OSA e poi nel mese di ottobre a
New York fornendo così un passaporto di legittimità ai golpisti argen-
tini, prima delle elezioni che avrebbero portato Carter alla presidenza
degli Stati Uniti.
Rimaniamo sul documento del Dipartimento di Stato del 25 maggio:
Hill fece presente a Ricardo Yofre, segretario di Videla, la sua preoc-
cupazione per la questione del rispetto dei diritti umani. Yofre replicò
che c’erano due complicazioni nel tenere sotto controllo il rispetto dei
diritti umani. In primo luogo il paese era in guerra contro la sovversione
e nel cuore della battaglia sarebbero state inevitabili alcune violazioni.
La seconda complicazione riguardava la presenza nel paese di gruppi
che stavano operando per loro conto: “Questi gruppi stanno operando in
violazione delle direttive e uno dei loro obiettivi potrebbe essere quello
di minare l’immagine dello stesso governo”.16
Il memorandum del 10 giugno ci conduce al primo incontro tra
Kissinger e l’ammiraglio Guzzetti. Più volte Hill aveva organizzato
un viaggio di Kissinger a Buenos Aires, ma abilmente il segretario di

15
Staff Meeting Transcripts Secretary of State Henry Kissinger, Chair-
man, Secret, March 26, 1976, p. 22, in http://nsarchive.gwu.edu/NSAEBB/
NSAEBB185/index.htm.
16
Conversation with Undersecretary of the Presidency, May 25, 1976, p. 3, in
http://nsarchive.gwu.edu/NSAEBB/NSAEBB73/index3.htm.

143
Stato aveva cancellato l’impegno. L’occasione venne con il già cita-
to meeting dell’OSA a Santiago del Cile. Mentre Guzzetti si aspettava
che Kissinger avrebbe sollevato subito il problema dei diritti umani, la
chiacchierata affrontò altri temi, in particolare la questione delle perso-
ne che erano entrate illegalmente in Argentina: secondo Guzzetti erano
mezzo milione e la maggioranza arrivava dal Cile. “Per la questione dei
diritti umani non possiamo rispedirli in Cile e molti di loro sono terrori-
sti” disse Guzzetti sollevando il tema. “Siamo consapevoli che siete in
un periodo difficile […] Comprendiamo che dovete stabilire la vostra
autorità” rispose Kissinger, che continuò: “Ma è anche chiaro che l’as-
senza di procedure normali sarà usata contro di voi […] se ci sono cose
che devono essere fatte, dovrete farle in fretta”.17
Per Robert Hill, Kissinger aveva dato via libera alla sezione argenti-
na dell’Operazione Condor. Più tardi l’ambasciatore discusse personal-
mente con Kissinger dell’incontro. Sebbene fiducioso della vittoria di
Ford alle elezioni di novembre, cosa su cui Hill non era d’accordo, Kis-
singer voleva che l’Argentina chiudesse il problema con il terrorismo
prima della fine dell’anno, prima del rinnovo del Congresso americano
nel gennaio 1977. Al suo ritorno a Buenos Aires in settembre, Hill ebbe
ben chiaro che i golpisti argentini non avrebbero risolto il problema nei
tempi auspicati. Il messaggio di fare in fretta era stato però trasmesso
da Guzzetti a Videla e agli altri ministri golpisti già inclini a usare il
metodo cileno. La repressione verso gli oppositori s’inasprì e fu diffi-
cile controllare gli eccessi delle forze di sicurezza. Terrorizzare l’oppo-
sizione con continui massacri era ormai la norma, anche se Hill aveva
fatto notare a Guzzetti che “l’uccisione di preti e gettare 47 cadaveri in
strada in un giorno non poteva essere visto come un modo per sconfig-
gere il terrorismo velocemente, al contrario questi atti sarebbero stati

17
“Memorandum of Conversation, June 6, 1976”, in http://nsarchive.gwu.edu/
dc.html?doc=2773969-Document-05-Memorandum-of-Conversation. Il docu-
mento riporta erroneamente la data del 6 giugno, ma l’incontro è avvenuto il
10 giugno.

144
probabilmente controproduttivi”.18 Dell’ampiezza del coinvolgimento
della popolazione argentina nei massacri, Kissinger era ampiamente in-
formato. Questo emerge dalla trascrizione di un precedente meeting del
9 luglio, dove il responsabile per l’America Latina, Harry Shlaudeman,
informò il segretario di Stato: “Penso che la loro teoria sia che possano
usare il metodo cileno – cioè quello di terrorizzare l’opposizione – an-
che uccidendo preti, suore e altri”.19
Eccoci così al secondo incontro tra Kissinger e Guzzetti, che avven-
ne il 7 ottobre al Waldorf Astoria Hotel di New York, durante una riu-
nione dell’assemblea generale dell’ONU. Guzzetti, euforico per il suo
viaggio negli Stati Uniti, confermò che le organizzazioni terroristiche
erano state smantellate. C’erano ancora dei tentativi isolati di ribellio-
ne, ma i responsabili sarebbero stati sopraffatti entro la fine dell’anno.
“Ho una visione old-fashioned che gli amici debbano essere aiutati.
Quello che non capiscono negli Stati Uniti è che da voi è in corso una
Guerra civile. Noi leggiamo del problema dei diritti umani ma non il
contesto”.20 Ancora una volta Kissinger diede mano libera al governo
militare argentino.

Jimmy Carter e i diritti umani

Quando un mese dopo Jimmy Carter fu eletto presidente, le cose


cambiarono, ma solo marginalmente, in Argentina. I sequestri di per-
sone continuarono, così come continuarono le torture – con colpi di
bastone, scosse elettriche e bruciature di sigarette – sempre con il ten-

18
Other aspects of September 17 conversation with Foreign Minister, Septem-
ber 20, 1976, in http://nsarchive.gwu.edu/NSAEBB/NSAEBB73/760920.pdf.
19
“Staff Meeting Transcripts. Secretary of State Henry Kissinger, Chairman,
July 9, 1976”, p. 32, in http://nsarchive.gwu.edu/dc.html?doc=2784369-
Document-09-20-Staff-20Meeting-20Transcripts.
20
Secretary’s Meeting with Argentine Foreign Minister Guzzetti, October 7,
1976, p. 4, in http://nsarchive.gwu.edu/dc.html?doc=2773976-Document-12-
Secretary-s-Meeting-with-Argentine.

145
tativo da parte delle forze di sicurezza governative di far scomparire
le prove gettando in mare i prigionieri. Un memorandum non datato
di Patricia Derian, nominata assistente segretario per i Diritti umani
da Carter, scritto al ritorno da Buenos Aires nell’aprile del 1977, fissò
definitivamente le responsabilità precedenti di Kissinger, riassumendo
in poche parole quello che era successo dopo un incontro con l’amba-
sciatore Hill. Come le riferì Hill, “Kissinger aveva dato agli argentini la
luce verde”.21 In un altro rapporto la Derian chiariva i metodi usati dal
governo argentino, che erano quelli “di prelevare le persone e portarle
nelle installazioni militari. Qui i detenuti sono torturati con acqua, elet-
tricità e metodi di disintegrazione psicologica”.22 Ora cosa dovevano
fare gli Stati Uniti? Abbandonare l’Argentina nella sua battaglia contro
il marxismo? Ma soprattutto, lasciare senza supporto gli uomini d’affari
americani nelle loro fabbriche in balia dei sabotaggi?
L’ambasciata americana a Buenos Aires si attivò per monitorare i
diritti umani in Argentina divenendo il punto di denuncia di sequestri
e torture, come testimoniano i lunghi elenchi di esecuzioni sommarie,
come quella di 19 lavoratori delle ceramiche uccisi a Campo de Mayo,
dove si trovava la scuola di meccanica della Marina (ESMA) nel no-
vembre 1978.23 Le sparizioni includevano non solamente terroristi so-
spetti e i leader sindacali, ma anche avvocati per i diritti umani, medici,
sacerdoti e le madri di persone in precedenza scomparse e due suore
francesi i cui corpi furono ritrovati sulla spiaggia.24

21
“Your conversation with Ambassadors Hill and Siracusa and other notes,
s.d.”, p. 1, in http://nsarchive.gwu.edu/dc.html?doc=2773979-Document-15-
Your-conversations-with-Ambassadors.
22
“Notes from U S State Department Human Rights Coordinator Patricia De-
rian, s.d.”, p. 5, in http://nsarchive.gwu.edu/dc.html?doc=2773980-Document-
16-Notes-from-U-S-State-Department.
23
Disappearance of Ceramics Workers in 1977, June 14, 1978. Questo e i
documenti che seguono sono disponibili al sito dei National Archives http://
nsarchive.gwu.edu/NSAEBB/NSAEBB73/.
24
Memorandum on Torture and Disappearance in Argentina, May 31, 1978, in
http://nsarchive.gwu.edu/NSAEBB/NSAEBB73/.

146
Interessante, in questo contesto, soffermarsi su un memorandum
della conversazione avvenuta il 7 agosto 1979 tra Jorge Contreras, nul-
la a che vedere con il precedente Manuel Contreras della polizia segreta
cilena, ma nome di battaglia di un referente dell’ambasciata americana,
intervistato da William Hallman, consigliere politico, e James Blysto-
ne, consigliere alla sicurezza regionale dell’Ambasciata americana a
Buenos Aires. Alla domanda se esistesse un grande numero di centri di
detenzione segreta, la risposta rimandava alla complessità del tema: da
un lato la necessità di reprimere il terrorismo-sovversione e dall’altro
le diverse entità coinvolte che lavoravano con staff e denari propri e
che agivano in segreto. La preparazione della visita in settembre della
Commissione interamericana per i diritti umani portava alla necessità di
chiudere l’ESMA, ormai non più usata per la detenzione e gli interroga-
tori. “Perché i centri sono stati chiusi?” chiedono i responsabili dell’am-
basciata americana: “Perché le scomparse erano diminuite nel 1978, e
ancor di più nel 1979” è la risposta. “E cosa è successo ai sei ragazzi rapiti
dalle forze di sicurezza il 12 maggio?” incalzano gli statunitensi; la rispo-
sta: “Non ho detto che sono tutti chiusi, ma che non c’era più bisogno di
mantenere un luogo in funzione per un grande numero di persone”.25
Il governo argentino riuscì a ritardare fino alla fine del 1979 la visita
della Commissione interamericana per i diritti umani, cercando di sposta-
re le persone arrestate da Buenos Aires in luoghi più nascosti, come l’i-
sola di El Silencio nel delta del fiume Paraná. Il processo di riabilitazione
avveniva sempre a cura degli agenti dell’ESMA, anche se spesso serviva
per estorcere informazioni alle vittime che, dopo un giro in elicottero,
scomparivano nell’oceano.26 Solo grazie alla memoria ostinata delle ma-
dri e dei figli dei desaparecidos la loro storia sarebbe stata raccontata per
ricomporre questo tragico momento della storia del Novecento.27

25
Nuts and Bolts of the Government’s Repression of Terrorism-Subversion,
August 7, 1979, p. 2, in http://nsarchive.gwu.edu/NSAEBB/NSAEBB73/.
26
Horacio Verbitsky, L’isola del silenzio, Roma, Fandango, 2006.
27
Benedetta Calandra, La memoria ostinata. H.I.J.O.S., i figli dei desapareci-
dos argentini, Roma, Carocci, 2004.

147
In questa realtà che ha visto la scomparsa di migliaia di persone,
torturate e gettare in mare, possiamo citare Hannah Arendt nel suo libro
La banalità del male, dedicato al processo di Adolf Eichmann a Geru-
salemme, che, ricordiamo, era riuscito a sfuggire al tribunale militare di
Norimberga ed era stato catturato in un sobborgo di Buenos Aires nel
1960: “Il grado in cui ciascuno dei tanti criminali era vicino o lontano
dall’uccisione materiale non significa nulla, per quanto concerne la mi-
sura della responsabilità. Al contrario, in generale il grado di respon-
sabilità cresce quanto più ci si allontana dall’uomo che usa con le sue
mani il fatale strumento”.28
Il trionfo delle squadre della morte che agivano indisturbate in Ar-
gentina esigeva che le vittime si lasciassero condurre dove si voleva
senza protestare, che fossero torturate fino a perdere completamente
coscienza della propria personalità, trovando sollievo solo nella denun-
cia di altre persone: una denuncia che avrebbe coinvolto altre persone
in questa tragedia e che solo ipoteticamente poteva salvare la vita di chi
denunciava. Tutto questo non poteva avvenire se non con l’approva-
zione del governo degli Stati Uniti e, come già nel 2001 aveva scritto
il giornalista Christopher Hitchens, “sappiamo che l’internazionalizza-
zione delle squadre della morte fu nota e approvata dai servizi segreti
americani e dai loro superiori politici attraverso due amministrazioni.
L’uomo chiave in entrambe le amministrazioni era Henry Kissinger”.29

28
Hannah Arendt, La banalità del male, Milano, Feltrinelli, 2001, p. 254.
29
C. Hitchens, Processo a Henry Kissinger, cit., p. 114.

148
COLONIALISTI O DITTATORI? LA GUERRA DELLE FALKLAND-
MALVINAS E I “GIRI DI TANGO” DELLA DIPLOMAZIA ITALIANA
di Marco Cuzzi

Un ambasciatore deve trarre vantaggio da tutto


per lavorare al benessere del suo Paese.

Napoleone (da Manuale del capo, Einaudi, Torino, 2009, p. 90)

“Una disputa per la sovranità su questo congelato pezzo di terra là sot-


to”. Questa fu la lapidaria definizione data da Ronald Reagan1 al conflitto
diplomatico e militare che tra l’aprile e il giugno 1982 vide contrappo-
ste l’Argentina e la Gran Bretagna per il controllo dell’arcipelago delle
Falkland-Malvinas, nell’Atlantico sud-occidentale. Dalle sprezzanti paro-
le del presidente emergeva il malcelato fastidio dell’amministrazione sta-
tunitense dinanzi a una crisi quasi indecifrabile e per molti aspetti incom-
prensibile, scaturita da un lontano passato e che sembrava inserirsi come
un corpo estraneo nelle dinamiche dell’ultima fase della Guerra fredda.
Dal 1979-80 si era assistito a una recrudescenza del confronto est-ovest, ca-
ratterizzata da un lato dall’invasione sovietica dell’Afghanistan, dall’altro
dall’intransigenza dimostrata dal nuovo presidente americano, insediatosi
nel gennaio 1981. La crisi degli euromissili aveva aggravato la situazione
e le cose sarebbero giunte nel 1983 ai limiti di un conflitto termonucleare
con le grandi manovre europee della NATO (operazione “Able Archer”).
In un contesto del genere, l’ultima cosa che Reagan e i suoi collaboratori
potevano desiderare era una guerra tra due Paesi che, in realtà diverse,
operavano nell’ambito del blocco occidentale.

1
Fabio Gallina, Le isole del purgatorio. Il conflitto delle Falkland-Malvinas:
una storia argentina, Verona, Ombre Corte, 2011, p. 109.

149
La Gran Bretagna, alleata degli Stati Uniti sin dal vertice di Terrano-
va dell’agosto 1941, rappresentava un importante partner strategico per
Reagan, sia nel Vecchio Continente sia nei numerosi teatri extraeuropei
già controllati dall’impero coloniale britannico. Inoltre, la presenza a
Downing street della conservatrice “lady di ferro” Margareth Thatcher,
eletta nel maggio 1979, significava per il nuovo presidente americano
un’imprescindibile sponda politica, per non dire ideologica, da questa
parte dell’Atlantico. Dal canto suo, l’Argentina rientrava nella nuova
politica dell’amministrazione repubblicana, molto raffreddata rispetto
all’era Carter circa la difesa dei diritti umani e più attenta a utilizzare
la repubblica platense – dominata da una giunta militare che nel Paese
aveva soppresso la democrazia con metodi drastici e brutali – come un
valido alleato nella lotta contro la penetrazione sovietica nel continente
latino-americano.2 Entrambi i contendenti erano vincolati a Washington
attraverso atti formali: Londra, collegata oltreoceano dal Patto atlanti-
co; Buenos Aires, inserita nel Trattato interamericano di assistenza re-
ciproca (che prevedeva la difesa militare di un Paese continentale nel
caso fosse attaccato da una forza esterna) e soprattutto nel più recente
«Piano Charlie» voluto da Reagan, che impegnava l’Argentina a met-
tere a disposizione forze militari e di intelligence nelle operazioni di
reconquista antisovietica e anticastrista in Centroamerica (Salvador,
Guatemala, Honduras e Nicaragua). Un ruolo reale ma forse soprav-
valutato, come peraltro avrebbe ricordato la Thatcher nelle sue memo-
rie: “Più tardi” è il sarcastico commento del premier britannico “risultò
chiaramente che gli argentini si erano fatta un’idea esagerata della loro
importanza per gli Stati Uniti”.3
In ogni caso, per tutte queste ragioni una guerra scoppiata al termine
di una vertenza che durava dal 1833 rappresentava per gli Stati Uniti

2
Deborah L. Norden e Roberto Russel, The United States and Argentina:
Changing Relations in a Changing World, New York-London, Routledge,
2002, p. 9 e segg.
3
Margareth Thatcher, Gli anni di Downing street, Milano, Sperling & Kupfer,
1993, p. 153.

150
un imbarazzante dilemma su quale posizione prendere, con il rischio
di scompaginare equilibri sino ad allora considerati consolidati e im-
mutabili. Soprattutto, vi era la concreta possibilità che tale conflitto ve-
desse quale unico beneficiario il temuto nemico sovietico, ad esempio
attraverso un clamoroso avvicinamento di Mosca a un regime di destra
come quello di Leopoldo Galtieri, al momento presidente del governo
golpista di Reorganización nacional. Dopo un tentativo di mediazione
del Dipartimento di Stato, si giunse alla dichiarazione del segretario di
Stato Alexander Haig del 30 aprile 1982, con la quale gli Stati Uniti
annunziarono le sanzioni economiche nei confronti dell’Argentina, ri-
badendo la solida alleanza con il partner europeo. Rinviando a studi più
dettagliati la complessa vicenda dei rapporti tra Stati Uniti e contenden-
ti,4 ci limitiamo a ricordare che in questa triangolazione tra Washington,
Londra e Buenos Aires si inserì la Comunità economica europea e con
essa l’Italia.
Anche la CEE si trovò dinanzi alla guerra delle Falkland-Malvinas
in una non invidiabile posizione. Una scelta di campo avrebbe compor-
tato comunque una crisi: se la Comunità si fosse schierata con la Gran
Bretagna, si sarebbero compromesse le relazioni commerciali con l’Ar-
gentina e anche con buona parte delle altre nazioni latino-americane
che nel frattempo stavano solidarizzando con essa (con la significativa
eccezione del Cile di Augusto Pinochet, storico alleato di Londra e a

4
La guerra nell’Atlantico sud-occidentale – che ha prodotto una vastissima
letteratura nei due Paesi ex nemici e negli Stati Uniti – è stata analizzata anche
da diversi studiosi del nostro Paese. Tra i contributi italiani sulla crisi delle
Falkland-Malvinas si segnala il già citato F. Gallina, Le isole del purgatorio,
cit.; e inoltre: Carlo De Risio, I 75 giorni delle Falkland, Milano, Mursia,
1982; Natalino Ronzitti, La questione delle Falkland-Malvinas nel diritto in-
ternazionale, Milano, Giuffré, 1984; Domenico Vecchioni, Le Falkland Mal-
vine: storia di un conflitto, Milano, Euro Press, 1987; Roberto Sala, Il conflitto
delle Falkland/Mavinas: un’analisi sistematica, Milano, Franco Angeli, 1996;
Alberto Caminiti, La guerra delle Falkland, Genova, Liberodiscrivere, 2008;
Marco Di Nunzio, La guerra della Falkland. 30mo anniversario, Milano, Li-
breria Militare, 2012.

151
capo di un Paese da sempre avverso al suo confinante), sino a spingersi
nel caso del Perù e del Venezuela a mettere a disposizione di Galtieri
i propri eserciti in caso di allargamento del conflitto.5 Viceversa un at-
teggiamento più prudente, per non dire solidale, verso l’Argentina e di
condanna dell’energica reazione britannica, avrebbe spinto la Thatcher
ad accelerare il processo di revisione della decennale adesione del Re-
gno Unito alla Comunità europea – uno dei principali argomenti pole-
mici del premier britannico – 6 con conseguenze altrettanto disastrose
per i futuri progetti di Bruxelles. Anche in questo caso rinviamo ad altri
studi l’analisi dei rapporti tra CEE, Gran Bretagna e Argentina7 e qui
concentreremo l’attenzione sulle posizioni espresse dall’Italia in merito
all’intera vicenda.
Come è noto, la crisi scoppiò il 9 marzo 1982, in seguito all’arre-
sto dell’uomo d’affari argentino Costantino Davidoff, accusato dalle
autorità britanniche delle Falkland di avere issato insieme ad alcuni ir-
redentisti la bandiera argentina a Leith Harbour, nel sistema disabitato
delle South Georgia/Geórgias del Sur (un sotto-arcipelago distante 800
miglia dalle terre contese). In quei giorni, a Palazzo Chigi sedeva il
repubblicano Giovanni Spadolini, che era succeduto al democristiano
Arnaldo Forlani travolto nel giugno 1981 dallo scandalo della Loggia
P2. Il primo presidente del Consiglio laico della storia della Repub-
blica italiana, a capo di un’inedita coalizione pentapartitica (DC, PSI,
PSDI, PRI, PLI) doveva affrontare una serie di emergenze che lui stesso
aveva individuato nelle questioni economica, morale, terrorista e in-

5
Ludovico Incisa di Camerana, L’Argentina, gli italiani, l’Italia. Un altro de-
stino, Milano, SPAI, 1998, p. 649.
6
M. Thatcher, Gli anni di Downing street, cit., p. 52 e segg.
7
Sul tema si veda il fondamentale: Lawrence Freedman, The official history of
the Falklands Campaign: War and Diplomacy, 2 voll. New York-London, Rout-
ledge, 2007. In lingua italiana si segnala per un’approfondita ricostruzione dei
rapporti tra Comunità europea e contendenti: Lorenzo Mechi, «Fra solidarietà
europea e vincoli di sangue». L’Italia e la crisi delle Falkland/Mavinas, “Annali
dell’Istituto Ugo La Malfa” – Vol. XVI [2001]. Il saggio è anche utile per rico-
struire la posizione italiana, come si evince dal titolo.

152
ternazionale. Se la questione morale trovava nell’“affare Gelli” la sua
espressione più emblematica, e l’emergenza del terrorismo vedeva la
Mafia, le Brigate Rosse e l’eversione neofascista sferrare sanguinosi
attacchi allo Stato e alla nazione, a livello economico e sociale il Paese
stava attraversando una difficile vertenza sindacale, aggravata dalla cri-
si generale scaturita dal conflitto Iran-Irak, dall’inflazione galoppante
e dall’astronomica, inarrestabile spesa pubblica: fattori che combinati
avevano contribuito alla perdita di competitività dei prodotti nazionali
sul mercato estero. Con lo scopo sia di rilanciare l’Italia come affidabile
partner internazionale sia di giustificare le impopolari scelte per risana-
re l’emergenza economica con imposizioni di organismi internazionali,
Spadolini aveva vieppiù legato il Paese alla NATO e alla CEE. L’obiet-
tivo era “l’immagine di un’Italia affidabile e sicura, conferendole un
prestigio internazionale mai raggiunto nel dopoguerra”.8 La crisi delle
Falkland-Malvinas avrebbe messo in stallo questa strategia ed ebbe ri-
svolti di instabilità anche sull’equilibrio politico interno al Paese, inau-
gurando il lungo duello tra Spadolini e il segretario del Partito socialista
Bettino Craxi, sempre più determinato ad affermare la centralità del PSI
nel sistema politico italiano. Da questo punto di vista la lontana vicenda
australe fu molto meno periferica di quanto si possa immaginare.
Nella notte del 1° aprile 1982 la junta di Buenos Aires diede il via
all’“Operación Azul”, l’occupazione militare della Malvinas mediante
l’impiego di corpi speciali della fanteria di marina argentina, e in poche
ore il governatore Rex Hull e la piccola guarnigione di presidio britan-
nica vennero catturati in un’azione pressoché incruenta (solo un morto
si registrò tra i militari platensi). Lo stesso giorno, il 2 aprile, il Con-
siglio dei Ministri della CEE convocato d’urgenza condannò con voto
unanime l’invasione. La Gran Bretagna richiese agli altri nove partner,
Italia compresa, di adottare nell’immediato sia un embargo totale del-
le forniture militari all’Argentina, sia un blocco delle importazioni sul
territorio comunitario di ogni prodotto proveniente dal Paese latino-a-
mericano. Inoltre veniva proposta la sospensione di ogni agevolazione

8
Ivi, p. 142.

153
creditizia verso Buenos Aires. Se la prima decisione era piuttosto scon-
tata, visti i rapporti di alleanza politico-militare tra Londra e i partner
europei, le altre sanzioni e la sospensione del credito rappresentavano
un dilemma di non facile risoluzione.
In primo luogo le barriere contro le importazioni dalla repubblica
platense rappresentavano un’arma devastante, vista la drammatica si-
tuazione economica in cui questa si trovava. Gli effetti di una decisio-
ne del genere avrebbe potuto avere risvolti sugli equilibri della Guerra
fredda, con Mosca disponibile ad approfittare dell’occasione, come sta-
va dimostrando la presa di posizione sovietica: se l’astensione del rap-
presentante dell’URSS al Palazzo di Vetro circa la risoluzione numero
502 votata dal Consiglio di sicurezza il 3 aprile (che chiedeva il ritiro
immediato delle truppe argentine dall’arcipelago e che venne approvata
con il solo voto contrario di Panama e l’astensione, oltre che dell’Unio-
ne Sovietica, di Cina, Polonia e Spagna) era stato un primo segnale, la
dichiarazione sovietica di condanna delle decisioni europee (“ricatto
imperialista contro un paese in via di sviluppo”)9 avvalorava l’ipotesi
di una disponibilità di Mosca a diventare il partner commerciale alter-
nativo per Buenos Aires. In sintesi, il rischio era di vedere l’“Impero del
Male”, secondo la celebre espressione reaganiana, accorrere in aiuto di
un Paese soffocato dalle sanzioni, e quindi estendere su di esso la pro-
pria influenza per poi allargarsi a tutto il continente latino-americano.
Lo avrebbe sottolineato l’ex ambasciatore italiano a Tokyo Carlo Per-
rone Capano, in un dibattito tenutosi al Circolo di Studi diplomatici di
Palazzo Borghese a Roma il 21 aprile, mentre la guerra sembrava ormai
prossima a scoppiare:

La crisi della Falkland rappresenta una manna per l’URSS ancor più del
Salvador e del Nicaragua, che avevano fatto passare in seconda linea
Afghanistan e Polonia, perché le consente di farsi spazio in quell’emi-
sfero sud da cui era stata tenuta lontana e dove, non dimentichiamolo,

9
ANSA, L’URSS condanna la posizione europea, “Corriere della Sera”, 13
aprile 1982.

154
al di là delle apparenze ed illusioni, esiste un terreno fertile, anzi ferti-
lissimo, per una sua folgorante penetrazione politica.10

Dello stesso avviso era Paolo Pansa Cedroni, ex ambasciatore a Wa-


shington e fondatore del Comitato atlantico italiano, il quale paventava
persino forniture militari sovietiche a Buenos Aires.11 Si profilava quin-
di il rischio di una “strana” alleanza tra l’Impero comunista e la junta
di estrema destra, con il primo che confermava l’incuranza ideologica
in nome di un realistico disegno strategico (nel solco di una tradizione
inaugurata con il patto nazi-sovietico del 1939), e la seconda prossima
a svolte “terzomondiste” e antimperialiste che l’avrebbero fatta avvici-
nare persino agli “agenti” sovietici nel continente, Cuba e Nicaragua in
testa, in nome di una “terza posizione” internazionale ereditata dall’e-
poca di Juan Domingo Perón.12
Tuttavia, ciò che rendeva la scelta di sanzionare l’Argentina preoc-
cupante era l’aspetto economico e commerciale. La repubblica platense
era un’interlocutrice di tutto rispetto, soprattutto per la Germania fede-
rale, l’Italia e la Francia. Roma poteva vantare interscambi con Buenos
Aires pari a poco più di 800 milioni di dollari, ponendosi a metà tra
Bonn (1,4 miliardi) e Parigi (500 milioni).13 A impensierire il mondo
economico italiano non erano tanto le esportazioni, piuttosto limitate
soprattutto se paragonate a quelle verso la Gran Bretagna (500 miliardi
di lire, un decimo di quelle verso il Regno Unito).14 Ciò che più conta-
va era che l’Italia aveva in essere contratti e commesse tecnologiche e
industriali molto importanti, come quelle siglate dall’Agusta, dalla Be-
retta e dall’Oto Melara per la fornitura di armi, valutate attorno ai 300

10
Carlo Perrone Capano, La controversia anglo-argentina: Falkland o Malvi-
nas?, “Dialoghi Diplomatici”, n. 102 [maggio-giugno 1982], p. 22.
11
Ivi, p. 30.
12
F. Gallina, Le isole del purgatorio, cit., p. 125 e segg.
13
Sanzioni CEE all’Argentina, “Relazioni internazionali”, n. 15-16 [24 aprile
1982].
14
Paolo Franchi, Bruno Manfellotto, Chiara Valentini, Il richiamo della Pam-
pa, “Panorama”, 31 maggio 1982.

155
miliardi di lire, e che giocoforza sarebbero state annullate o perlomeno
sospese dall’embargo.15 Numerose erano inoltre le società e le imprese
italiane in rapporti con il governo e le società private d’oltreoceano (Pi-
relli, Marelli, Italtel, Ferruzzi, Impresit): un rapporto di Confindustria
prefigurava per il futuro (guerra permettendo) un valore complessivo
di commesse pari a 7 miliardi di dollari (9 mila miliardi di lire dell’e-
poca).16
Si aggiungano inoltre le realtà italiane operanti sul territorio ar-
gentino: anzitutto la Techint di Roberto Rocca, diventata negli anni
un enorme impero economico nel Paese latino-americano; la Società
Condotte, che stava costruendo una diga del valore pari a 400 miliardi
di lire; l’Impregilo che, insieme a Torno, Italstrade e Recchi, era in cor-
sa per il gigantesco impianto idroelettrico di Yaciretà, sul Paranà: un
investimento calcolato in 1.700 miliardi di lire. Inoltre, un altro con-
sorzio di imprese (Ansaldo, Marelli, Impresit, Officine di Savigliano,
Techint) si trovava in gara per la costruzione della metropolitana della
capitale argentina (2.500 miliardi di lire). Infine, la FIAT aveva una
succursale nel Paese latino-americano (stabilimento Sevel, 11 mila
operai e impiegati) guidata dall’intraprendente ingegner Paolo Sabati-
ni, il quale, viste le condizioni traballanti della consociata soprattutto
nel comparto automobilistico, sperava negli appoggi finanziari della
junta Galtieri.17 Queste importanti commesse, che ponevano l’Italia
al secondo posto fra i Paesi investitori in Argentina, sarebbero state
pregiudicate dall’adesione italiana alla politica sanzionista: il governo
di Buenos Aires, dinanzi a una scelta del genere, avrebbe cancellato
ogni commessa, fatto saltare le trattative in corso e rifiutato qualsiasi
aiuto come ritorsione alle decisioni europee e italiane.
Inoltre, vi erano questioni d’ordine culturale e altre più politiche
che spingevano il governo Spadolini e i partiti, sia di maggioranza sia

15
L. Mechi, “Fra solidarietà europea e vincoli di sangue”, cit., p. 147, n. 20.
16
P. Franchi, B. Manfellotto, C. Valentini, Il richiamo della Pampa, cit.
17
Fabrizio Coisson, Ma noi siamo un popolo di traditori?, “L’Espresso”, 30
maggio 1982.

156
delle opposizioni, a valutare con perplessità le intransigenti richieste
della signora Thatcher. Un milione e 300 mila cittadini italiani erano
residenti in Argentina e a essi si aggiungeva quasi la metà di argentini
di recente o lontana origine italiana, a cominciare da molti esponenti
della junta Galtieri.18 A parte gli storici legami e i “vincoli di sangue”19
con il Paese latino-americano, risalenti alle grandi emigrazioni della
seconda metà del XIX secolo e agli ottimi rapporti di Perón sia con
l’Italia fascista sia con quella democratica, l’attenzione degli ambienti
politici italiani verso la repubblica platense si era rafforzata in vista di
possibili risvolti elettorali. Da tempo l’esponente del MSI-DN Mirko
Tremaglia stava conducendo una battaglia parlamentare per concedere
il voto agli italiani all’estero e il progetto di legge era al momento fermo
alla Commissione affari costituzionali della Camera: in via eccezionale
il voto agli emigrati era stato concesso in occasione delle prime elezioni
europee del 1979, e tutto sembrava far credere che presto la proposta
Tremaglia sarebbe stata approvata anche per le tornate di voto naziona-
li.20 Tal eventualità avrebbe comportato, si presumeva, un allargamento
della platea elettorale anche verso l’emigrazione in Argentina: in un
caso del genere, chi, tra i politici italiani, avrebbe avuto il coraggio di
inimicarsi il possibile voto dei connazionali d’oltreoceano (che nutriva-
no sentimenti di riconoscenza verso la patria d’adozione), per sostenere
le ragioni britanniche?
Infine, vi era dell’altro. Il “Venerabile” Licio Gelli sin dal 1973 ave-
va intessuto rapporti con Perón attraverso la discussa figura del ministro
di questi José López Rega, detto “el Brujo” (lo Stregone, per via delle
sue passioni esoteriche), capo della violenta Alianza Anticomunista Ar-
gentina (Tripla A) e il potente Gran Maestro della Gran Loggia d’Ar-
gentina César De La Vega.21 Gelli aveva così ottenuto la cittadinanza

18
L. Mechi, “Fra solidarietà europea e vincoli di sangue”, cit., p. 150.
19
Ivi, p. 139.
20
Questo era almeno l’opinione di “Panorama” (P. Franchi, B. Manfellotto, C.
Valentini, Il richiamo della Pampa, cit.).
21
Danilo Palmisano, Non solo affari: la strategia internazionale della P2, in

157
platense e un passaporto diplomatico. A ciò si aggiunse ben presto il
ruolo ufficiale di consigliere economico presso l’ambasciata argentina
a Roma.22 Da quel momento il capo della P2 aveva esteso una rete di
rapporti in tutta l’America Latina, che si era concretizzata nel 1975
con la nascita dell’“Organizzazione Mondiale del Pensiero e dell’Assi-
stenza Massonica” (OMPAM), presente anche in 14 Paesi sudamericani
e avente l’Argentina come fulcro.23 All’indomani del golpe del marzo
1976, Gelli era riuscito ad avvicinare diversi esponenti della junta, sino
a iscrivere alla sua loggia l’ammiraglio Emilio Edoardo Massera (nu-
mero d’iscrizione alla P2 478), uno dei più spietati esponenti del go-
verno militare, l’ammiraglio Juan Questa (numero P2 617), il generale
Carlos Suárez Mason (numero P2 609) e altre figure di primo piano
del governo di Reorganización nacional.24 Nel corso degli anni questi
stretti rapporti avrebbero fatto ottenere a vari affiliati italiani alla loggia
deviata ottime opportunità economiche, con la protezione della junta:
l’imprenditore Lucien Sicouri (numero P2 580) riceveva l’appalto per
la costruzione di una centrale nucleare insieme all’Ansaldo; il suo col-
lega Loris Corbi (numero P2 562) otteneva diverse commesse ferrovia-
rie; soprattutto l’ammiraglio Giovanni Torrisi (Capo di stato maggiore
della Marina militare italiana, numero P2 631) riusciva a vendere al suo

Affari nostri, diritti umani e rapporti Italia Argentina 1976-1983, (a cura di


Claudio Tognonato), Roma, Fandango, 2012, p. 198.
22
Relazione della Commissione parlamentare d'inchiesta sulla Loggia masso-
nica P2, in “Camera dei Deputati – Senato della Repubblica – IX Legislatura
– Disegni di legge e relazioni”, doc. XXIII n. 2, p. 131.
23
Testimonianza del Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia Lino Salvini,
Commissione d’inchiesta parlamentare sulla P2, volume III, Tomo VII, p. 133.
24
Commissione parlamentare d’inchiesta sulla loggia massonica P2, Elenco
degli iscritti alla loggia P2, in “Camera dei Deputati – Senato della Repub-
blica – IX Legislatura – Disegni di legge e relazioni”, Tomo XV (Documenti
trasmessi o consegnati alla commissione – Varie). L’amicizia di Gelli con Mas-
sera e l’iscrizione di quest’ultimo alla P2, così come gli ottimi rapporti con
Perón, vennero con orgoglio rivendicati da Gelli in una celebre intervista, forse
non casuale, rilasciata a “Panorama” alla fine di maggio 1982, durante la sua
latitanza (Pier Carpi, Parla Gelli, “Panorama”, 24 maggio 1982).

158
collega e confratello argentino Massera equipaggiamenti militari della
società Selenia (con a capo il futuro direttore generale della SIP Miche-
le Principe, numero P2 829). Infine, furono aperte in Argentina diverse
banche private, tra le quali il Banco Ambrosiano de América del Sur
di Roberto Calvi (numero P2 519) e il Banco Continental di Umberto
Ortolani (numero P2 494).25 Questi rapporti e queste presenze piduiste
vennero in seguito così riassunte dalla relazione Anselmi:

L’azione di Gelli ed Ortolani, quindi, di pari passo con il potenziamen-


to della struttura strumentale rappresentata dal “Gruppo Ambrosiano”
acquista connotazioni più precise e, all’estero, favorisce l’espansione
di istituzioni finanziarie collegate alla loggia nei paesi del Sudamerica
caratterizzati da regimi a spiccato orientamento conservatore.26

Pur non indugiando troppo su ragionamenti dietrologici, né su so-


pravvalutazioni del reale ruolo giocato da Gelli e dai suoi affiliati nei
rapporti italo-argentini, si può a ragione credere che il “Venerabile” non
sia stato inerte dinanzi ai rischi di una rottura tra il governo di Buenos
Aires e l’Italia. Ad esempio, l’oscura attività di monsignor Marcinkus,
presidente dell’Istituto per le opere religiose (IOR) e in stretti rappor-
ti con Calvi e Michele Sindona, avrebbe avuto una declinazione nella
vicenda Falkland-Malvinas attraverso l’indiretto finanziamento del go-
verno argentino per sostenerne l’economia durante la guerra, in una più
ampia visione di rafforzamento del fronte antisovietico internaziona-
le.27 In sintesi, i rapporti tra Gelli e la junta, gli interessi economici degli
affiliati alla loggia deviata e soprattutto la presenza di piduisti ai vertici
politici e militari del nostro Paese, pongono più di un interrogativo sulle

25
Affari nostri, diritti umani e rapporti Italia Argentina 1976-1983, cit., p. 40.
26
Relazione della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla Loggia masso-
nica P2, cit., p. 120.
27
Commissione d’inchiesta parlamentare sulla P2, volume III, Tomo VII, pp.
98 e segg. L’appoggio finanziario sarebbe stato esercitato dalla “Ambrosiano
Holding” di Nassau e poi dal Grupo Ambrosiano de Promociones y Servicios
(Danilo Palmisano, Non solo affari, cit., p. 192).

159
possibili pressioni compiute in vista delle decisioni che il governo ita-
liano avrebbe dovuto prendere.
Pertanto, anche questi imbarazzanti «giri di tango» (come li avrebbe
definiti in seguito il settimanale l’“Europeo”) compiuti da esponenti
italiani con “gli ammiragli della Plata”,28 avrebbero contribuito a porre
l’Italia in una posizione distinta dalla richiesta di solidarietà britanni-
ca. Lady Thatcher riassunse le difficoltà italiane con poche, lapidarie
parole: “Vi erano stretti legami fra l’Italia e l’Argentina. […] Più tardi
si vide chiaramente che su di loro [gli italiani insieme agli altrettanto
riluttanti spagnoli e irlandesi – NdA] non si poteva contare”.29
Spadolini tentò la strada della mediazione, con il comunicato del 1°
aprile che invitava i contendenti a evitare l’uso della forza, mentre il
ministro degli Esteri Emilio Colombo esprimeva la sua preoccupazione
nel vedere due “Paesi amici” giungere ai limiti del confronto armato.30
E lo stesso fecero altre nazioni del Vecchio continente, sostenendo gli
iniziali tentativi mediatori di Haig. Tuttavia, il rischio di una presa di di-
stanza italiana (o di altri, come Germania federale e Francia) per tutelare
interessi e legami di varia natura con Buenos Aires, si scontrava contro
il rischio di una reazione antieuropeista del governo di Londra. Da tem-
po la signora Thatcher aveva dichiarato di voler rivedere il contributo
finanziario britannico al bilancio comunitario (“I want my money back”
aveva dichiarato la lady di ferro).31 Nella già citata conferenza di Palaz-
zo Borghese del 21 aprile l’ambasciatore Roberto Gaja, direttore della
rivista “Affari Esteri”, avrebbe ricordato che, nel caso di una scelta filo
argentina del governo italiano “la scarsa maggioranza che è, in Inghil-
terra, a favore della permanenza nella Comunità Europea, si sarebbe

28
Luciano Santilli, Galtieri è un fratello, anzi un socio, in “Europeo”, 7 giugno
1982. Non era chiaro se il termine “fratello” si riferisse alle origini italiane del
dittatore argentino o all’appartenenza alla loggia deviata di molti membri della
sua junta.
29
M. Thatcher, Gli anni di Downing street, cit., p. 165.
30
L. Mechi, “Fra solidarietà europea e vincoli di sangue”, cit., p. 147.
31
F. Gallina, Le isole del purgatorio, cit., p. 146.

160
dileguata”.32 Londra metteva quindi sul piatto della bilancia la revisione
dei contributi britannici alla CEE con l’aggiunta della possibilità di non
approvare la regolamentazione dei prezzi agricoli mettendo a rischio
l’intera politica comunitaria nel settore.33 Si giunse quindi all’approva-
zione unanime delle sanzioni contro l’Argentina da parte dei dieci Paesi
europei, compresa l’Italia: le conseguenze dell’allontanamento britan-
nico della CEE, o per lo meno di un suo drastico ostruzionismo a ogni
decisione comunitaria, pareva prevalere su qualsiasi interesse nazionale
nella repubblica platense.
Il governo italiano proseguì comunque nel suo tentativo di media-
zione, attraverso l’incontro tra Colombo e l’incaricato d’affari argenti-
no a Roma (2 aprile), i colloqui tra il governo platense e l’ambasciatore
italiano a Buenos Aires e le contestuali dichiarazioni espresse a Gine-
vra dal delegato italiano al “Comitato sul disarmo delle Nazioni Unite”
Mario Alessi (8 aprile). In quest’ultimo caso Alessi, pur conferman-
do l’adesione italiana alle sanzioni comunitarie, chiedeva un ritorno al
confronto diplomatico tra Buenos Aires e Londra.34 Il 12 aprile Co-
lombo dichiarava il “dispiacere” dell’Italia nell’aver dovuto votare le
sanzioni, prefigurandone una durata limitata a un mese, nella speranza
di una ricomposizione del conflitto per il momento ancora diplomati-
co.35 Tuttavia, la reazione della junta fu energica: dalle gare d’appalto
vennero esclusi i consorzi europei, tra i quali quelli italiani per la diga
di Yaciretà e per la linea della metropolitana di Buenos Aires. Venivano
inoltre bloccati i pagamenti per le opere italiane in fase di realizzazione.
I timori espressi dal governo di Roma alla vigilia della crisi si stavano
pertanto concretizzando. Al contempo, la federazione di 490 associa-
zioni culturali italiane in Argentina (“Feditalia”), guidata dal capo della

32
C. Perrone Capano, La controversia anglo-argentina, cit., p. 21.
33
Si trattava di una minaccia sollevata per la prima volta nel 1980 ed evocata
alla bisogna (M. Thatcher, Gli anni di Downing street, cit., p. 67 e segg.).
34
L. Mechi, “Fra solidarietà europea e vincoli di sangue”, cit., p. 148.
35
Franco Papitto, La CEE blocca l’importazione di prodotti argentini, “La
Repubblica”, 13 aprile 1982.

161
DC italiana in Argentina Luigi Pallaro, aveva condannato la risoluzione
della CEE e con essa anche la posizione italiana, ritenuta contradditto-
ria.36 Nacque da questa iniziativa un “Comitato degli italiani dell’Ar-
gentina per una giusta pace”, che vide l’adesione oltre che di numerose
associazioni politico-culturali platensi anche di rappresentanti dei prin-
cipali partiti italiani in Argentina (soprattutto DC, PSI ed MSI).
Entrò in gioco la diplomazia dei partiti, soprattutto di quelli più ti-
morosi di una rottura con la comunità italo-argentina. L’opposizione
multipartidaria, ancorché perseguitata dalla junta, aveva dato all’in-
vasione/liberazione delle Falkland-Malvinas il suo incondizionato
appoggio, ma al contempo tentava di convincere l’Italia a dissociarsi
dal blocco sanzionista europeo: in questo senso andava letta la visi-
ta a Roma del presidente del Partito Democratico Cristiano argentino
Francisco Cerro al suo omologo italiano Flaminio Piccoli e al vicepre-
sidente dell’Internazionale democristiana Mariano Rumor.37 Cerro si
incontrava anche con monsignor Siro Silvestri, affinché sensibilizzasse
il Vaticano. Dal canto suo, Pallaro ebbe un colloquio con l’esponente
democristiano Giuseppe Pisanu, per perorare la causa platense.38 Anche
il PSI mosse la sua rete internazionale. Il 13 aprile giunse a Buenos
Aires Giorgio Benvenuto, segretario della UIL e figura di primo pia-
no del nuovo corso socialista. Il viaggio del dirigente sindacale aveva
come scopo quello di portare la solidarietà del suo partito ai socialisti
e ai sindacalisti argentini perseguitati dal regime militare, oltre che alle
madri dei desaparecidos riunite del movimento della Plaza de Mayo.
“Ma tutti gli parlano della guerra”, ricordava Fabrizio Coisson in un ar-
ticolo su “L’Espresso”, ed esprimevano un “risentimento violentissimo
contro l’Italia”. Benvenuto si incontrò quindi con l’ex presidente ar-
gentino, l’ex radicale passato alla destra Arturo Ercole Frondizi: “Tutti
mi dicono:” avrebbe spiegato Benvenuto “siamo contro la giunta, ma

36
F. Coisson, Ma noi, siamo un popolo di traditori?, cit.
37
A Roma il presidente della DC argentina, “Corriere della Sera”, 14 aprile
1982.
38
F. Coisson, Ma noi, siamo un popolo di traditori?, cit.

162
anche contro le sanzioni. Voi rompete con l’Argentina. Potevate avere
un’iniziativa vostra; far pesare le vostre posizioni sulla giunta”.39 Il rap-
porto del segretario generale della UIL e le relazioni inviate da Pasquale
Ammirati, intraprendente segretario della sezione del PSI in Argentina,
spinsero Craxi a muoversi.40 Il segretario del Partito socialista non era
stato informato dell’adesione italiana alle sanzioni CEE, e la cosa lo
aveva mandato su tutte le furie. Subito venne preparata una dichiarazio-
ne da pubblicare “Avanti!”:

Le sanzioni che l’Italia, insieme alla CEE, ha senz’altro deciso contro


l’Argentina, ma che altri paesi, come ad esempio il Giappone, hanno ri-
fiutato, suscitano molte riserve. L’occupazione delle Falkland ha certa-
mente costituito una violazione del diritto internazionale a danno della
Gran Bretagna, alla quale si doveva solidarietà politica e, come prima
e per il momento sufficiente conseguenza pratica, il blocco di ogni for-
nitura militare per il governo di Buenos Aires. Spingersi oltre, mentre
la diplomazia internazionale sta compiendo ogni sforzo per trovare una
soluzione pacifica, è un errore, perché non contribuisce certo all’esi-
genza di raffreddare la situazione, conservando il ruolo di interlocutori
verso chiunque sia disponibile alla mediazione.

L’articolo proseguiva sottolineando le perplessità del PSI in merito alla


decisione governativa.41 Le conclusioni di tale stato d’animo le avrebbe
tratte il vicesegretario del partito di imminente nomina Claudio Martelli,
che il 16 aprile avrebbe ufficialmente preso le distanze dal governo.42
Spadolini si trovò in una non facile situazione: il PSI aveva ormai
assunto una posizione contraria alle sanzioni, mentre la DC, attraverso
il ministro Giulio Bodrato, sottolineava l’incapacità del governo nell’a-

39
Si trattava di quello che Fabio Gallina ha definito con efficacia “la riconqui-
sta della piazza” e “il miracolo dell’unità” da parte della junta (F. Gallina, Le
isole del purgatorio, cit., p. 192 e p. 203).
40
F. Coisson, Ma noi, siamo un popolo di traditori?, cit.
41
Perplessità sulle sanzioni all’Argentina, “Avanti!”, 15 aprile 1982.
42
L. Mechi, “Fra solidarietà europea e vincoli di sangue”, cit., p. 150.

163
ver compreso la reale situazione. Nella sua relazione al congresso del-
la DC del maggio successivo, il presidente del partito Piccoli avrebbe
dichiarato un netto appoggio all’Argentina (“Anche il leone britannico
ha le sue colpe. Prolungare le sanzioni è un grave errore politico”),
suscitando l’irritazione dell’ambasciatore di Sua Maestà invitato ai la-
vori, che si sarebbe in modo polemico allontanato dall’assise.43 Per tutta
risposta il capogruppo dei deputati democristiani Gerardo Bianco definì
“incomprensibile” la posizione di Londra.44 Infine, il nuovo segretario
Ciriaco De Mita avrebbe chiamato il suo collega di partito Colombo,
ricordandogli che la posizione della DC era contro le sanzioni.45 A ciò
si aggiungevano le opposizioni. Il PCI, per voce di Giancarlo Pajetta,
criticava la scelta governativa;46 una posizione analoga la prese Sergio
Segre, del gruppo comunista a Strasburgo: secondo l’eurodeputato del
PCI le ritorsioni contro l’Argentina avrebbero dovuto limitarsi all’em-
bargo militare, che anzi avrebbe dovuto essere adottato ben prima della
crisi, allo scopo di indebolire la junta. L’analisi di Segre andava oltre
la vicenda specifica, facendo notare le analogie tra la dittatura platense
e i suoi modelli del passato: ogni volta che un dittatore si era trova-
to di fronte una crisi interna, economica o politica, aveva lanciato un
proclama e un’impresa militare per crearsi un nuovo consenso “pseu-
dopatriottico e nazionalistico”.47 Sull’altro versante il MSI giunse, at-
traverso l’europarlamentare Pino Romualdi, a presentare all’assemblea
di Strasburgo una proposta di risoluzione contenente l’abolizione non
solo delle sanzioni, ma anche dell’embargo militare. L’esponente mis-
sino stigmatizzava inoltre la differenza di trattamento fra l’Argentina
e il mondo comunista, il quale, nonostante l’invasione dell’Afghani-
stan e il putsch polacco di Jaruzelski, non aveva subito da parte della

43
P. Franchi, B. Manfellotto, C. Valentini, Il richiamo della Pampa, “Panora-
ma”, 31 maggio 1982.
44
Chiara Valentini, E tu da che parte stai?, “Panorama”, 10 maggio 1982.
45
F. Coisson, Ma noi, siamo un popolo di traditori?, cit.
46
Ibidem.
47
L. Mechi, “Fra solidarietà europea e vincoli di sangue”, cit., p. 152.

164
CEE lo stesso trattamento.48 Il clima infine si stava scaldando anche
tra l’opinione pubblica extraparlamentare, soprattutto nelle aree della
nuova sinistra, già mobilitata contro l’installazione degli euromissili e
sostenitrice del più convinto pacifismo, in questo caso permeato da un
rinnovato “terzomondismo”. Pur partendo da motivazioni diverse, le
forze contrarie alle scelte governative apparivano, dentro e fuori il par-
lamento, unite, vaste e combattive.
In un clima del genere, Spadolini si trovava su un difficile crinale. Il
Parlamento europeo aveva votato la proroga sia dell’embargo sia delle
sanzioni, almeno fino all’adesione dell’Argentina alla risoluzione 502
dell’ONU, fatto che aveva irritato ancora di più i socialisti. Nel frattem-
po, la crisi nell’Atlantico meridionale era giunta alla sua naturale con-
seguenza, con l’arrivo della Royal Navy nelle South Georgia/Geórgias
del Sur e l’inizio delle ostilità (25 aprile).49 L’“Avanti!” pubblicò il
giorno dopo un articolo di Francesco Gozzano, nel quale il giornalista
socialista accusava la Thatcher di neocolonialismo e di infischiarsene
delle risoluzioni delle Nazioni Unite circa l’autodeterminazione dei po-
poli.50 L’affondamento dell’incrociatore argentino General Belgrano da
parte del sottomarino britannico Conqueror e la morte di 323 marinai
(2 maggio)51 vennero accolte con sgomento dall’opinione pubblica ita-
liana: sentimento rafforzato dal successivo affondamento dell’incrocia-
tore britannico Sheffield a opera dell’aeronautica argentina (4 maggio,
20 vittime).52 Il 5 maggio fu la volta de “Il Popolo”, organo ufficiale
della DC, per il quale la Gran Bretagna stava conducendo una “guerra
d’altri tempi” a un prezzo “sproporzionato e intollerabile”: in ultima
analisi, il conflitto stava dividendo l’occidente.53 Spadolini e Colombo

48
Ivi, p. 151.
49
F. Gallina, Le isole del purgatorio, cit., p. 152.
50
Francesco Gozzano, Si deve evitare la guerra n. 405, “Avanti!”, 25-26 aprile
1982. Il numero era riferito alle guerre che erano scoppiate nel mondo dalla
fine dell’ultimo conflitto mondiale.
51
F. Gallina, Le isole del purgatorio, cit., p. 94.
52
Ivi, p. 95.
53
Marcello Gilmozzi, Lo scandalo della guerra, “Il Popolo”, 5 maggio 1982.

165
tentarono quindi una nuova mediazione, con l’appoggio del cancelliere
tedesco Helmut Schmidt e del presidente francese François Mitterand,54
facendo un appello al segretario generale dell’ONU Pérez de Cuellar
per un’immediata cessazione delle ostilità.
L’11 maggio si ebbe alla Camera il dibattito sulla vicenda. Furono
presentate quindici interpellanze e numerose interrogazioni al Gover-
no. Il ministro degli Esteri Colombo spiegò che le sanzioni della CEE
erano un “mezzo di pressione” per spingere il governo argentino a “ri-
tornare nei binari della legalità internazionale”, in modo da ripartire
con un’efficace azione d’arbitrato e di trattativa.55 Tuttavia i principali
gruppi parlamentari si dichiararono contrari al mantenimento dei prov-
vedimenti, che avrebbero dovuto scadere il 17 maggio. Le posizioni dei
partiti si potevano riassumere come segue. La DC si divideva per lo più
tra una richiesta di immediata negoziazione ribadente l’amicizia con
entrambi i contendenti (posizione ben espressa dall’onorevole Edoardo
Speranza), e una netta presa di distanza dalla Gran Bretagna, tesi soste-
nuta da Giuseppe Costamagna. Questi nella sua personale interpellanza
affermava infatti che “niente può vincolare l’Italia ad atti di solidarietà
con gli inglesi relativamente alla sovranità britannica su territori extra-
europei”.56 Il voto del Governo italiano a favore delle sanzioni era stato
per Costamagna “bizzarro”, ai limiti dell’abuso, visto che nessuna alle-
anza (NATO, CEE) lo vincolava in quel teatro.57 Poche, come si vedrà,
erano nel partito le voci a favore di Londra.

54
Nei confronti di Mitterand e di Schmidt la Thatcher riservò comunque paro-
le d’affetto, riconoscendone una scelta di campo piuttosto netta: il presidente
francese, scrisse il premier britannico nel suo diario, fu in quel frangente “tra
i nostri amici più fedeli”, mentre il cancelliere tedesco “mi assicurò perso-
nalmente tutto l’appoggio della Germania Federale”; non una parola venne
viceversa spesa per Spadolini (M. Thatcher, Gli anni di Downing street, cit.,
pp. 158 e 165).
55
Atti parlamentari, Camera dei Deputati, VIII legislatura, Discussioni, Seduta
dell’11 maggio 1982. Intervento di Emilio Colombo, p. 460002-460003.
56
Ivi, Interpellanza di Costamagna, p. 45981.
57
Ivi, Intervento di Giuseppe Costamagna, p. 45989.

166
Più aggressivo fu il Movimento sociale, che presentò ben quat-
tro interpellanze, la più articolata delle quali era quella del segretario
Giorgio Almirante seguito da un cospicuo numero di deputati dell’e-
strema destra secondo i quali, oltre a condannare l’affondamento del
Belgrano, bisognava far cessare le sanzioni economiche e tenere pre-
sente l’amicizia tra il popolo argentino e quello italiano, ribadendo
“l’appartenenza dell’Argentina al mondo occidentale”. Soprattutto,
il gruppo missino chiedeva al governo di favorire l’eliminazione del
focolaio del conflitto attraverso il “riconoscimento del diritto dell’Ar-
gentina all’acquisto della sovranità sulle isole”.58 Nella replica alle
risposte di Colombo uno dei firmatari, Nino Tripodi, compì una lun-
ga ricostruzione delle vicende storiche precedenti, sostenendo i di-
ritti argentini sulle Malvinas. Il vero aggressore, per Tripodi, era la
Gran Bretagna, e lo era dal 1833, mentre Buenos Aires aveva ogni
diritto di rivendicare l’arcipelago. Tripodi concludeva ricordando la
preoccupazione missina circa la politica governativa di “un colpo al
cerchio e un colpo alla botte”, aggravata dal fatto che “di colpi, in-
cauti e ingiusti, lei, signor ministro degli Esteri, ne abbia dati più al
‘cerchio argentino’ che alla ‘botte britannica’”.59 Si aggiunsero altre
tre interpellanze missine: una di Olindo Del Donno, che richiedeva
all’Italia un ruolo mediatore, respingendo la politica sanzionista; una
di Mirko Tremaglia, che auspicava un’attenzione ai “nostri connazio-
nali impiegati come oriundi nelle forze armate platensi”; e una isolata
di Pino Romualdi che, distaccandosi dal resto del suo partito, chiede-
va l’applicazione della risoluzione 502 e l’immediato ritiro argentino.
L’ex missino approdato al Gruppo misto Agostino Greggi presen-
tò un’interpellanza piuttosto colorita, di stampo atlantista, evocante un
“colpo di mano” argentino “di tipo hitleriano” e sottolineando l’appog-
gio sovietico a Buenos Aires, considerato dal deputato contraddittorio
visto il fronte ideologico “antifascista” dell’URSS.60 Greggi dimostrò

58
Ivi, Interpellanza di Almirante e altri, p. 45983.
59
Ivi, Intervento di Nino Tripodi, p. 46017.
60
Ivi, Interpellanza di Greggi, p. 45981.

167
una particolare vis polemica nei confronti di un parlamento che, “rigo-
rosamente antifascista”, sulla vicenda si stava dimostrando “molto silen-
zioso”. “Questo antifascismo” proseguiva Greggi “almeno in molti, non
ha nessuna radice seria, culturale, politica, ideologica e morale, ma è pu-
ramente strumentale!”.61 Quanto all’invasione delle isole da parte argen-
tina, si trattava di un “gesto pazzo”, paragonabile all’occupazione nazista
dell’Austria e alle rivendicazioni mussoliniane su Nizza e Corsica. L’in-
tervento del deputato scatenò un siparietto che vide come protagonista il
sempre pungente Giancarlo Pajetta. L’esponente comunista interruppe a
più riprese Greggi con frasi del tipo: “Questo sfogo contro Galtieri è un
po’ recente: quando si parlava di desaparecidos non vi ho sentito com-
battere!”; oppure “Avete sostenuto Galtieri fino all’altro giorno, e gli altri
prima di lui”; e anche “Li avete aiutati”, riferendosi ai predecessori del
generale argentino. Greggi rispose che in passato Galtieri era stato con-
siderato un “male necessario”, ma anche che la pace poteva essere rag-
giunta solo con la fine di ogni dittatura, di destra e di sinistra che fosse.62
Il gruppo del PDUP guidato da Lucio Magri espresse invece una so-
stanziale equidistanza sia dal governo platense (definito “regime fasci-
sta”), sia dall’iniziativa bellica inglese.63 La mozione venne sostenuta da
un altro pduppino, Eliseo Milani, che lamentando l’assenza di un’inizia-
tiva neutralista e pacifista del Governo, ne contestava l’ambiguità. Per
l’intero gruppo radicale – con l’eccezione di Marco Pannella ma con l’a-
desione del socialista Aldo Ajello – il governo britannico aveva adottato
una “politica delle cannoniere”; al contempo l’Italia doveva però dichia-
rarsi indisponibile a riconoscere la natura anticolonialista dell’impresa
della junta.64 Il PCI, con l’interpellanza di Giorgio Napolitano, chiedeva
che il Governo si adoperasse per l’immediata fine delle ostilità, ma anche
per la revoca delle sanzioni, intervenendo sui partner europei affinché
facessero altrettanto. Nel suo intervento a sostegno dell’interpellanza,

61
Ivi, Intervento di Agostino Greggi, p. 46006.
62
Ivi, Intervento di Agostino Greggi, p. 46008.
63
Ivi, Interpellanza di Magri e altri, p. 45982.
64
Ivi, Interpellanza di Ajello e altri, p. 45984.

168
Giancarlo Pajetta ribadì questa posizione. Di particolare impatto fu la ri-
chiesta di chiarimento del deputato radicale Roberto Cicciomessere, che
volle informarsi sulle forniture militari già consegnate all’Argentina da
aziende italiane (nove elicotteri, dieci aerei da caccia, altri dieci aeroplani
da trasporto, dodici cannoni di vario calibro, quattro sistemi missilistici,
quattro sistemi di controllo del fuoco). Si trattava di forniture dell’Agu-
sta, Aermacchi, Aeritalia, Breda/Bofors e di quella Selenia investita dalla
vicenda P2, e Cicciomessere citava un certo “J.F. Fabri” come agente
rappresentante di queste industrie strategiche a Buenos Aires, chiedendo
la natura dei suoi compensi.65 Nel suo successivo intervento, l’esponen-
te radicale evocava “certe posizioni assunte dai partiti italiani” che for-
se non erano “indifferenti” a interessi di natura economica.66 Inoltre, da
più parti venne ribadito il timore che le sanzioni avrebbero ricompattato
l’opinione pubblica attorno alla junta; il socialista Ajello faceva notare
le possibili “smagliature” che avrebbero reso meno efficace la politica
sanzionista:67 secondo un periodico molto critico verso le scelte gover-
native come “L’Espresso”, le industrie strategiche italiane, oltre ad ave-
re firmato in tutta fretta commesse prima dell’adozione delle sanzioni e
dell’embargo, avevano aggirato quest’ultimo fornendo tre aerei ad altri
Paesi latino-americani che poi li avrebbero “girati” all’Argentina.68
Ma l’intervento più importante fu quello del socialista Silvano La-
briola, primo firmatario di un’interpellanza che voleva conoscere le
ragioni della scelta italiana nell’ambito della CEE. Definendo signifi-
cativamente la crisi delle “Malvine già Falkland”, l’esponente del PSI
avrebbe affermato:

Noi non diciamo che questa invasione abbia turbato o strappato legit-
timi diritti, perché entreremmo nel merito se dessimo questo giudizio.
Diciamo che il metodo adoperato dalla Repubblica argentina all’ini-

65
Ivi, Interpellanza di Cicciomessere, p. 45986.
66
Ivi, Intervento di Roberto Cicciomessere, p. 45996.
67
L. Mechi, “Fra solidarietà europea e vincoli di sangue”, cit., p. 156.
68
F. Coisson, Ma noi, siamo un popolo di traditori?, cit.

169
zio della vicenda ha senza dubbio provocato una lesione dei principi
dell’ONU e dei principi di soluzione pacifica e politica delle controver-
sie internazionali […].69

Tuttavia, Labriola riteneva che la tesi della solidarietà europea tra-


sformata in solidarietà verso gli interessi di una singola nazione (ov-
vero in quel caso la Gran Bretagna) conservasse in sé «una punta di
pericolosità», in quanto avrebbe compromesso «gli interessi nazionali
e internazionali» d’Italia. Rivendicando l’autonomia del gruppo parla-
mentare del PSI rispetto al Governo, Labriola si dimostrò determina-
to nel chiedere lo sganciamento italiano dalla politica sanzionista, in
modo da favorire il ruolo mediatore ed equidistante del nostro Paese.
Inoltre, e questo non poteva non preoccupare Spadolini, l’esponente
del PSI lanciava un monito al governo, accusandolo di avere omesso
di informare i partner di maggioranza delle decisioni che si stavano
prendendo in Europa:

Dobbiamo sottolineare che le prossime scadenze, che su questa questio-


ne, come anche su altre, si pongono all’attenzione del governo, sugge-
riscono – e lo vogliamo dire molto apertamente ed esplicitamente per
la responsabile attenzione del ministro degli Esteri e del presidente del
Consiglio – un orientamento di tipo molto diverso.70

Più filo britanniche apparvero le posizioni del gruppo repubblicano e


di quello socialdemocratico, entrambi da sempre legati alla solidarietà at-
lantica e comunitaria, che venne ribadita dagli interventi del repubblicano
Pasquale Bandiera e del socialdemocratico Alessandro Reggiani, per il
quale in ogni caso nessun abitante delle isole era di nazionalità argentina.
Sia l’esponente del PRI sia quello del PSDI, pur auspicando una solu-
zione mediata, insistettero sugli obblighi internazionali che vincolavano

69
Atti parlamentari, Camera dei Deputati, VIII legislatura, Discussioni, Seduta
dell’11 maggio 1982. Intervento di Silvano Labriola, p. 45991 e p. 45993.
70
Ibidem.

170
l’Italia alla CEE, e quindi ribadirono in modo implicito la giustezza della
scelta sanzionista. I liberali, per voce di Aldo Bozzi, si dimostrarono al-
trettanto in linea con Spadolini, sebbene Bozzi a titolo personale dichia-
rasse la sua perplessità sull’efficacia della politica sanzionista.
In sintesi la stragrande maggioranza della Camera si dimostrò contra-
ria al prolungamento delle sanzioni. Del resto, anche la “società civile”
pareva attestarsi su posizioni analoghe: la Confagricoltura, i sindacati
confederali, quasi tutta la stampa (soprattutto quella legata al gruppo
FIAT) a eccezione de “L’Espresso” e de “La Repubblica” dichiararono
la loro opposizione al rinnovo. Spadolini si trovò quindi nel difficile
compito di armonizzare gli umori del Parlamento e del Paese con la
“solidarietà comunitaria” nei confronti della Gran Bretagna. I partiti più
refrattari alle sanzioni ebbero un significativo aiuto da una delegazione
del “Comitato” italo-argentino sorto in aprile e giunta a Roma alla metà
di maggio, composta da una compagine eterogenea: il socialista Ammi-
rati, il democristiano Pallaro, il presidente della camera di commercio
italo-argentina Giovanni Rossi, rappresentanti delle ACLI di Buenos
Aires, il presidente della società “Dante Alighieri” in Argentina, Dioni-
sio Petriella, il presidente dell’ospedale italiano di Buenos Aires Anto-
nio Macri, Fausto Brighenti, esponente della destra vicino ai missini, e
persino un falegname del PCI, Filippo De Benedetto. La comitiva prese
subito contatto con Craxi, Amintore Fanfani, Nilde Jotti, Pajetta, De
Mita, Colombo e con il presidente della Repubblica Sandro Pertini, sino
ad allora attento a non schierarsi apertamente.71
Il 17 maggio, data della scadenza delle sanzioni, Colombo accettò la
proposta dei partner europei di prorogare di tre giorni i provvedimenti
del 10 aprile, in modo di permettere al segretario generale dell’ONU
una nuova tornata di trattative. La decisione tuttavia avrebbe visto la
dura opposizione di Craxi. Questi era già sul piede di guerra con la
minoranza democristiana filo-britannica (Carlo Donat-Cattin, Calo-
gero Mannino) che, per voce di Beniamino Andreatta, aveva accusato

71
F. Coisson, Ma noi, siamo un popolo di traditori?, cit.

171
il segretario del PSI di “nazionalsocialismo” pro-argentino.72 Martelli
anticipò la posizione del suo segretario affermando che la scelta anti-
sanzionista era in linea con quella dell’Internazionale socialista (“Se
poi i socialisti francesi e tedeschi hanno cambiato idea è un problema
loro”).73 Spadolini si vide quindi costretto a un confronto diretto con
Craxi, che gli espresse il netto rifiuto socialista a sostenere la proroga,
ancorché limitata a pochi giorni. Perseverare su questa posizione, ag-
giungeva il segretario socialista, avrebbe comportato una mozione di
sfiducia del PSI.74 Sulla stessa linea si collocò anche il nuovo segretario
della DC De Mita.
La crisi era quindi alle porte e, come avrebbe commentato un’ano-
nima fonte di Palazzo Chigi, “il governo, purtroppo, si fa con Craxi
e Ciriaco De Mita. Non con la signora Thatcher”.75 Spadolini poteva
contare su poche forze: anzitutto la citata componente “londinese” della
DC; i socialdemocratici, unica forza compatta nel sostenere la proroga;
i propri compagni di partito repubblicani, che tuttavia non potevano
rischiare di vedere sfiduciato il primo presidente del Consiglio del PRI
e di conseguenza si muovevano con prudenza; i liberali di Renato Al-
tissimo, sebbene divisi, come aveva dimostrato l’antisanzionista Bozzi
durante il dibattito parlamentare. Si giunse pertanto alla decisione che
avrebbe rievocato antiche accuse all’Italia di incoerenza se non tradi-
mento. Nonostante le pressioni di Haig e della stessa Thatcher su Co-
lombo, al vertice europeo di Lussemburgo del 17 maggio, a meno di
un’ora dalla scadenza delle sanzioni, il ministro degli Esteri italiano si
dissociava, insieme a quello irlandese, dalla proroga, che venne trasfor-
mata in “decisione volontaria” dei singoli Paesi.76 Colombo si affrettò a

72
Ibidem.
73
P. Franchi, B. Manfellotto, C. Valentini, Il richiamo della Pampa, cit.
74
Quelle ore in cui si consumò il “giro di valzer”, “La Repubblica”, 21 maggio
1982.
75
P. Franchi, B. Manfellotto, C. Valentini, Il richiamo della Pampa, cit.
76
Arturo Guatelli, Argentina: sanzioni CEE (senza l’Italia), “Corriere della
Sera”, 18 maggio 1982. Del cambiamento di rotta italiano, la Thatcher non fa
tuttavia menzione (M. Thatcher, Gli anni di Downing street, cit., p. 192).

172
ribadire che la solidarietà verso la Gran Bretagna non era venuta meno,
ma, al di là delle dichiarazioni ufficiali di comprensione verso la nuova
presa di posizione italiana, l’opinione pubblica d’oltre Manica si sareb-
be scagliata contro una nazione “maestra nei giri di valzer”, condannan-
do senza riserve il “tradimento degli spaghetti boys”.77
Pur ricevendo comprensione da parte sia del governo statunitense
sia da quello francese, e registrando un tripudio tricolore in Argentina,
dove i nostri connazionali esultarono per il ritorno dell’Italia “accanto
ai suoi fratelli”,78 Spadolini dovette affrontare le diverse reazioni po-
litiche e dell’opinione pubblica. Craxi e il PSI ormai guidavano con-
vinti il fronte contrario alle sanzioni e pronto a rompere l’unità della
CEE, in nome di una solidarietà con il popolo argentino: il segretario
socialista aveva ottenuto, dopo il muscolare intervento su Spadolini,
il sostegno del “Comitato degli italiani dell’Argentina per una giusta
pace”.79 Al loro fianco si registrava il “vigoroso appoggio” dei comuni-
sti, nonostante i pessimi rapporti tra il leader del PSI e il segretario del
PC Enrico Berlinguer. A costoro si aggiungeva il democristiano Giulio
Andreotti, che avrebbe in seguito difeso la scelta compiuta in Lussem-
burgo dal Governo:

Se fosse stato possibile discutere più a fondo e senza fretta di una sca-
denza, che poteva benissimo essere interpretata in modo più elastico,
tutto avrebbe potuto procedere meglio e si sarebbero trovate eque su-
bordinate. Ma gli altri non hanno voluto […]. Dare un significato di
inversione di alleanze, di mancanza di solidarietà occidentale e simili a
questo episodio è del tutto fuori posto.80

Ma vi erano autorevoli voci dissenzienti. Al gruppo definito da Chiara


Valentini di “Panorama” dei “liberal filo inglesi” non poteva che essere

77
L. Mechi, “Fra solidarietà europea e vincoli di sangue”, cit., p. 159.
78
Ivi, p. 161.
79
Gli italiani d’Argentina ringraziano Craxi, “Avanti!”, 21 maggio 1982.
80
Giulio Andreotti, Bloc notes. Sud atlantico e Europa, “Europeo”, 7 giugno
1982.

173
iscritto Giorgio Bocca, che aveva inaugurato l’offensiva “liberal” para-
gonando la rivendicazione argentina a quella mussoliniana della Corsi-
ca, di Nizza e Savoia, definendo il regime di Galtieri “nazi-ispanico” e
giudicando l’invasione antistorica.81 Bocca pareva riprendere le posizioni
ufficiali britanniche, che non mancavano occasione per definire il conflitto
come un episodio fuori tempo massimo dell’antica lotta antinazifascista
del Regno Unito.82 Lo seguiva lo scrittore Raffaele La Capria, per il quale
nell’arcipelago “anche le pecore erano inglesi”, sebbene condannasse la
reazione irrazionale di Londra; per l’economista Federico Caffè, la Gran
Bretagna con l’intervento stava difendendo il diritto all’autodeterminazio-
ne dei popoli, ovvero della popolazione d’origine britannica dell’arcipela-
go.83 Tuttavia il più deciso fu Eugenio Scalfari, che il 19 maggio pubblicò
sul suo quotidiano “uno dei più violenti editoriali della sua carriera”.84
L’articolo del direttore de “La Repubblica” (dal titolo più che eloquente,
La strategia dei magliari) condannava il “terzomondismo d’accatto” di
democristiani e soprattutto socialisti, che in “un colpo solo” avevano ab-
bandonato sia gli Stati Uniti sia l’Europa, lasciando il nostro Paese “nella
non edificante compagnia di Galtieri e degli altri governi ‘gorilla’”, oltre
a collocarlo sulla “strategia imperiale dell’URSS”. Quanto a Spadolini,
con la sua scelta aveva tradito la tradizione laica e occidentale dello scom-
parso Ugo La Malfa.85 Per il politologo Gianfranco Pasquino, DC, PSI e
PCI avevano adottato una posizione “peronista, gretta, nazionalista, an-
tieuropea” e delineava visioni del futuro apocalittiche e imprevedibili.86
Sulla stessa linea si attestava Ernesto Galli della Loggia, che, dalle colon-
ne dell’“Europeo” – rivista sino a quel momento più attenta alle vicende
militari anglo-argentine che a quelle politiche interne – avrebbe definito la
politica estera italiana “inconsistente”, egoista e contraddittoria, legata alle
81
Giorgio Bocca, Nizza, Savoia, Corsica fatal, “L’Espresso”, 2 maggio 1982.
82
M. Thatcher, Gli anni di Downing street, cit., p. 161 e p. 166.
83
C. Valentini, E tu da che parte stai?, cit.
84
Chiara Valentini, Compagni e compañeros, “Panorama”, 31 maggio 1982.
85
Eugenio Scalfari, La strategia dei magliari, “La Repubblica”, 19 maggio
1982.
86
C. Valentini, Compagni e compañeros, cit.

174
“sciocchezze paleo-marxiste di Craxi sul ‘colonialismo britannico’”, sino
a evocare i tradizionali “giri di valzer” diplomatici del nostro Paese. Riba-
dire la soluzione negoziale, proseguiva Galli della Loggia, era “patetico”.
Infine, venivano ricordati quelli che per l’editorialista erano i reali interes-
si dietro il cambiamento di rotta: “[…] in questo modo si crea un vuoto
nel quale lobby economiche (soprattutto pubbliche), centrali affaristiche,
servizi segreti, interessi elettorali e sottoboschi di partito, finiscono per
diventare i veri protagonisti della nostra politica estera”.87 Il riferimento ai
traffici piduisti appariva esplicito.
L’ipotesi di interessi elettorali da parte degli avversari delle sanzioni
era ripresa dai vignettisti Tullio Pericoli ed Emanuele Pirella i quali,
nella rubrica satirica “Sorrida prego” de “L’Espresso” rappresentavano
un Craxi a cavalcioni di uno spuntone di roccia affacciato sul mare, con
in lontananza un convoglio militare in viaggio. Il segretario del PSI
– sfogliando i petali a una margherita – recitava “Malva…malvina…
l’elezione si avvicina”.88 Per quanto concerneva l’ipotesi di un egoistico
disegno economico, “L’Espresso” la riassumeva pubblicando la foto di
un Gianni Agnelli sorridente e quasi sghignazzante.89 La tesi dei “giri di
valzer” venne ripresa invece dallo storico Giuseppe Galasso, che in un
box sul “L’Espresso” ricostruiva i precedenti “tradimenti” italiani, dai
tempi del duca Vittorio Amedeo II (passato nel 1696 dalla Lega d’Au-
gusta allo schieramento di Luigi XIV, fino ad allora suo nemico), sino
ai cambiamenti di alleanza del 1915 e del 1943 (sebbene in questi due
casi Galasso li ritenesse necessari e moralmente corretti).90
L’aspetto affaristico evocato da Galli della Loggia venne invece ri-
preso dalla fronda sanzionista e filobritannica che all’indomani della
svolta del 17 maggio iniziò a fare sentire la propria voce anche in Parla-

87
Ernesto Galli della Loggia, La guerra delle Falkland l’ha persa l’Italia, in
“Europeo”, 31 maggio 1982.
88
Tullio Pericoli ed Emanuele Pirella, Sorrida prego, “L’Espresso”, 30 maggio
1982.
89
Giancesare Flesca, Adesso si muore, “L’Espresso”, 30 maggio 1982.
90
Giuseppe Galasso, Con questi precedenti.., “L’Espresso”, 30 maggio 1982.

175
mento. Il Partito liberale e quello socialdemocratico assunsero vieppiù
una posizione critica. In modo particolare il ministro dei Lavori Pubblici
del PSDI Franco Nicolazzi sottolineò le pressioni che sul governo erano
state esercitate da parte di “lobby politico-economiche” collegate con
le presenze in America Latina della P2.91 L’appartenenza alla loggia di
Gelli di alcuni principali fautori della svolta antisanzionista, a cominciare
dal socialista Labriola (numero P2 782) pareva deporre a favore di questa
tesi. In ogni caso, l’offensiva di Nicolazzi sembrava dettata dalle notizie
del coinvolgimento del segretario del suo partito, Pietro Longo, nella log-
gia deviata (numero P2 926), ma anche da una lealtà euro-atlantica che
era sempre stata la cifra di riferimento del partito fondato da Giuseppe
Saragat. Per quanto concerneva il PRI, questo abbandonò la prudenza
iniziale e, con il presidente del partito Bruno Visentini avrebbe emanato
un comunicato della direzione “schiettamente filo-britannico” che richie-
deva il ritiro immediato dei militari argentini dalle Falkland-Malvinas per
intraprendere le iniziative di pace accanto a Bonn e Parigi.92 Una voce
autorevole fu quella di Altiero Spinelli, il quale espresse su “La Repub-
blica” la sua amarezza per la decisione del governo, ma anche per l’av-
vicinamento all’Argentina di Galtieri: “Buenos Aires è imbandierata con
tricolori italiani. Più di una volta nella mia vita mi è capitato di provar
vergogna come italiano dinanzi a certi sventolii di bandiere. Questa è
una di quelle volte”.93 Quanto alla rivendicazione territoriale fatta dalla
junta, il padre dell’integrazione europea ribadiva quanto evocato da Boc-
ca: “L’azione di Galtieri è assolutamente identica a quella di Mussolini
quando invase l’Albania”. E i suoi compagni (Spinelli era eurodeputato
indipendente per il Partito comunista) avevano “sbagliato clamorosa-
mente”.94 Un’altra voce di dissenso rispetto alla linee “antimperialista”
91
Lucio Caracciolo, Non dovevamo rompere con l’Europa, “La Repubblica”,
21 maggio 1982.
92
Lucio Caracciolo, Il PRI si distingue dal governo Spadolini sul conflitto per
le Falkland, “La Repubblica”, 26 maggio 1982.
93
Altiero Spinelli, Avevamo in mente un’idea diversa, “La Repubblica”, 21
maggio 1982.
94
C. Valentini, Compagni e compañeros, “Panorama”, 31 maggio 1982.

176
sostenuta nel PCI da Pajetta fu quella di Salvatore Veca, per il quale “il
segnale che l’Italia ha mandato ai gorilla argentini” era “molto grave” e
altrettanto grave era quella che il filosofo riteneva essere una fuoriuscita
dell’Italia dal consesso europeo.95 Antonello Trombadori, deputato co-
munista, condannò l’invasione argentina sostenendo la validità delle san-
zioni.96 Anche nel PSI si ebbero perplessità e dissensi. La più autorevole
voce socialista fuori dal coro fu quella del commissario europeo Antonio
Giolitti, secondo il quale l’Italia aveva avuto un comportamento diplo-
matico “stravagante”.97 In un’intervista rilasciata all’“Espresso” Giolitti
lamentava nel suo partito l’assenza di una coerenza europeista, occiden-
tale e riformista, accusando il suo segretario di avere adottato il “vezzo
della diversità”, la stessa accusa che il PSI lanciava di continuo ai co-
munisti.98 Per Michele Tito, direttore del quotidiano d’area socialista “Il
Globo”, la scelta italiana era stata dettata da “vili interessi nazionali”. Il
filosofo Marco Mondadori, appartenente al think-tank di Martelli, conte-
stava il terzomondismo di un PSI che egli aveva “erroneamente” ritenuto
attestato su posizioni occidentali. Anche esponenti radicali e del gruppo
della Sinistra indipendente espressero la loro opposizione: per il deputato
pannelliano Massimo Teodori, l’Italia si era solo “coperta di ridicolo” nel
compiere la repentina retromarcia, affiancandosi a un dissidente eccellen-
te dei radicali, Marco Pannella.99 Il dissidente socialista Franco Bassani-
ni, da poco uscito dal PSI in polemica con Craxi, sosteneva le ragioni dei
1.800 abitanti delle Falkland, invitando tutti a mettersi nei panni di quella
gente, che si era vista invadere “dai soldati della peggior dittatura del Su-
damerica” e i nuovi comandanti militari delle isole erano noti torturatori
e artefici della sparizione di migliaia di oppositori sul contenente.100
Sul fronte opposto vi erano quelli che Chiara Valentini definiva i
95
Ibidem.
96
C. Valentini, E tu da che parte stai?, cit.
97
Sandro Viola, Ormai diffideranno dell’Italia. Intervista rilasciata da Antonio
Giolitti, “La Repubblica”, 21 maggio 1982.
98
F. Coisson, Ma noi, siamo un popolo di traditori?, cit.
99
C. Valentini, Compagni e compañeros, cit.
100
Ibidem.

177
“nazional-popolari”, ovvero i “terzomondisti” che stavano scoprendo
la solidarietà latina e l’antiamericanismo, associandoli a un riscoperto
“orgoglio nazionale”. Più numerosi dei precedenti, a essi contrapposti
ma simili per eterogeneità, questi potevano essere ben rappresentati
da Lucio Magri, segretario del PDUP: “Dio stramaledica gli inglesi”
avrebbe detto il leader della nuova sinistra con ironica goliardia, ag-
giungendo “Dopo essersi in trent’anni di grettezza mangiati un impero,
tirano sulla spesa della CEE e fanno le battaglie navali!”. Il vero ce-
mento tuttavia era l’idea di popolo. Lucio Colletti non ebbe problemi
a citare Stalin: “I governi passano, i popoli restano”, intendendo come
era ovvio il popolo argentino e l’auspicio di una prossima defenestra-
zione della junta: e quindi, la scelta di dire “no” alle sanzioni aveva
messo l’Italia “sulla strada giusta”. Oreste Del Buono si dimostrava
altrettanto felice della scelta, dichiarandosi entusiasta della “linea la-
tina che è venuta alla luce in Italia” e sorprendendosi nel trovarsi, per
la prima volta, “perfettamente d’accordo” con Craxi. Per Franco Forti-
ni, mâitre-à-penser della generazione sessantottina, “il recupero delle
identità nazionali” era “il nuovo filo rosso della storia”.101 Insieme a
costoro si potevano contare, sempre seguendo la suddivisione di Chia-
ra Valentini, i cosiddetti “Falklandesi”, per i quali i sudditi britannici
dell’arcipelago erano sempre stati “cittadini di serie B”, come avrebbe
dichiarato il radicale ed ex leader di Lotta Continua Marco Boato: l’in-
vasione li aveva “liberati” mettendoli sulla futura strada dell’autode-
terminazione. Sempre nell’ambito della sinistra, vi erano i cosiddetti
“strateghi”, che vedevano nella scelta filo-argentina l’inizio di un pro-
cesso che avrebbe collocato il Paese latino-americano in un’area non
allineata e “di sinistra”, mettendo in difficoltà Reagan. Infine vi erano
gli “sportivi”, per lo più gravitanti nel “Movimento” extraparlamen-
tare, come lo psicoanalista Elvio Facchinetti, per il quale la scelta tra
due schieramenti non amati era difficile (dittatori contro colonialisti).
Tuttavia, “la squadra inglese, col passare dei giorni, mi è diventata
antipatica, per il gioco duro, di strangolamento”, e quindi “tifava” per

101
Ibidem.

178
l’Argentina: una tesi che sembrava dominata, viste le metafore e i pa-
rallelismi, dall’imminente Mundial di Spagna.102 Infine il mondo intel-
lettuale non schierato, dall’attrice Franca Valeri allo scrittore Giovanni
Arpino, dalla regista Lina Wertmüller al sociologo Franco Ferrarotti,
espresse l’unanime disgusto verso una guerra ritenuta inutile e antisto-
rica, oltre a dichiararsi ostili tanto ai “gorilla di Galtieri” quanto alla
signora Thatcher, quintessenza del neo conservatorismo atlantico. Per
Arpino, inoltre, la cosa più ridicola era la “gazzarra stampa” in corso
in Italia, che considerava la guerra “come se si trattasse di un gioco”.103
Nonostante le polemiche che la scelta italiana aveva prodotto sia in
patria sia all’estero, il presidente Spadolini e il ministro Colombo non
si persero d’animo, anzi parvero rilanciare la loro iniziativa. Il primo
si sforzò di distinguere le sanzioni economiche, considerate inutili se
non dannose, dall’embargo militare, visto come la dimostrazione della
reale solidarietà italiana alla Gran Bretagna.104 Dal canto suo, Colombo
rilanciò l’Italia come forza di mediazione, in nome della risoluzione
502. Il 20 maggio il titolare della Farnesina convocava di conseguenza
l’ambasciatore britannico, Sir Ronald Arculus, e quello argentino, Ro-
dolfo Luchetta, ribadendo al primo che l’embargo fosse una sufficiente
prova di solidarietà, e chiedendo al secondo l’applicazione della riso-
luzione dell’ONU, facendo sempre affidamento sulla nuova mediazio-
ne intrapresa da Pérez de Cuéllar.105 L’ennesimo fallimento del segre-
tario generale comportò l’ulteriore acuirsi della crisi e, dal 21 maggio
(sbarco dei Royal marines e dei paracadutisti britannici a San Carlos,
sulla costa occidentale della East Falkland), lo guerra sucia divenne
guerra limpia:106 un aperto scontro tra i militari dei due schieramenti.
Subito dopo lo sbarco britannico, Spadolini chiese in via ufficiale al

102
Ibidem.
103
C. Valentini, E tu da che parte stai?, cit.
104
N. A. [Nello Ajello], E Spadolini si difende così, “L’Espresso”, 30 maggio
1982.
105
L. Mechi, “Fra solidarietà europea e vincoli di sangue”, cit., p. 164.
106
F. Gallina, Le isole del purgatorio, cit., p. 139 e segg.

179
governo di Buenos Aires di ritirare le forze e di riaprire i negoziati con
Londra. Il presidente Pertini e Giovanni Paolo II fecero lo stesso e l’opi-
nione pubblica italiana parve allinearsi in massima parte su queste posi-
zioni.107 Alla riunione del consiglio dei ministri della CEE di Bruxelles
(24 maggio) Colombo ribadì il rifiuto italiano alla proroga delle sanzioni,
che gli altri colleghi europei prolungarono sino all’avvenuto ritiro argen-
tino votando la decisione a maggioranza; tuttavia il titolare degli Esteri
sottoscrisse un documento comune di condanna dell’invasione, che, in-
sieme alla perentoria richiesta di Spadolini di ritirare le forze argentine,
fece rasserenare, almeno in parte, i rapporti tra Roma e Londra.108 An-
cora più efficace risultò il nuovo incontro tra il presidente del Consiglio
italiano e l’ambasciatore Luchetta, avvenuto lo stesso giorno del vertice
europeo, durante il quale Spadolini utilizzò con il diplomatico platense
parole di inconsueta durezza: il governo di Buenos Aires si era dimostra-
to irresponsabile e con l’invasione aveva violato il diritto internazionale
manu militari; inoltre, “per difendere in qualche modo l’Argentina” il
nostro Paese si era messo in “una delicatissima posizione” internaziona-
le: pertanto l’Italia aveva tutti i motivi per richiedere in modo perentorio
la piena applicazione della risoluzione 502 e quindi il ritiro immediato
delle forze armate di Buenos Aires dall’arcipelago conteso.109 Questo ir-
rigidimento italiano con l’Argentina, quasi un ponderato bilanciamento
della posizione anti-sanzionista, venne accolto con soddisfazione sia dal-
la CEE sia da Londra. Ma ciò che contribuì in modo più concreto al rav-
vicinamento con la Gran Bretagna fu l’asse tra Colombo e il suo omologo
tedesco-federale Genscher, i quali lavorarono in tandem per raggiungere
un compromesso sul tema del contributo britannico al bilancio della CEE
permettendo alla Gran Bretagna di uscire dall’isolamento nel quale si era
cacciata nelle settimane precedenti la crisi delle Falkland-Malvinas e che
la guerra e la risolutezza della signora Thatcher avevano acuito.

107
L. Mechi, “Fra solidarietà europea e vincoli di sangue”, cit., p. 165.
108
Giorgio Rossi, Un duro richiamo di Spadolini: “Ora Galtieri deve ritirar-
si”, “La Repubblica”, 25 maggio 1982.
109
Ibidem.

180
I nuovi tentativi di pace di Pérez de Cuéllar, alla sua terza missione,
e di papa Wojtyla, in visita a Londra il 28 maggio e a Buenos Aires l’11-
12 giugno, naufragarono come i precedenti,110 e analogo destino ebbe
l’ultima iniziativa per un cessate il fuoco, proposta da Italia, Francia
e Germania federale al vertice del G7 di Versailles (5-6 giugno). La
Gran Bretagna voleva “stravincere” sul campo e respinse anche questa
proposta.111 Il 14 giugno, con l’occupazione della capitale Port Stanley
da parte del corpo di spedizione britannico e la resa della guarnigione
argentina, cessava la guerra per il possesso delle Falkland-Malvinas.
Tra i Paesi europei, l’Italia fu quello che più di tutti subì il conflitto
del 1982. Al rischio di vedere contratti e rapporti economici (alla luce
del sole, riservati o “deviati”) compromettersi con l’iniziale sostegno
alla politica sanzionista, si aggiungeva il “vincolo di sangue” con la
comunità italiana presente nella repubblica platense: non solo motivi
sentimentali, ma anche economici e persino elettorali, spinsero i partiti
nazionali – soprattutto i più grandi – a compiere una svolta che a mol-
ti apparve come un mero opportunismo levantino. L’ex ambasciatore
a Londra Lorenzo Ducci avrebbe parlato di “incoerenza morale” del
costume e della diplomazia italiana.112 La crisi d’immagine ci fu, in-
dubbiamente. E come al solito, l’opinione pubblica straniera estrasse
il più becero armamentario dispregiativo per attaccare il nostro Paese:
come tanti Pulcinella opportunisti e Arlecchini multicolore gli italiani
erano, per l’appunto, i soliti “spaghetti boys”, inaffidabili interessati e
senza dignità.
Tuttavia, ancorché in modo disarmonico e pasticciato, la diplomazia
italiana attraversò le forche caudine della crisi delle Falkland-Malvinas
e la loro declinazione nazionale – rappresentata dalle prove di forza di
Craxi, dalle ambiguità di De Mita, dalle pressioni delle lobby economi-
che private e pubbliche, dai misteriosi intrighi di poteri occulti e deviati

110
M. Thatcher, Gli anni di Downing street, cit., p. 192.
111
L. Mechi, “Fra solidarietà europea e vincoli di sangue”, cit., p. 167.
112
Lorenzo Ducci, Considerazioni sulla crisi delle Falkland, “Affari Esteri”,
anno XIV, n. 55 [1982].

181
–, per raggiungere una sorta di “quadratura del cerchio”, un compro-
messo quasi impensabile. In sintesi, negli ultimi giorni del conflitto,
l’Italia adottò una politica bilaterale con la quale si sarebbe ritagliata
un futuro ruolo di mediazione e di incontro tra tutti i contendenti. At-
traverso questa abile operazione il nostro Paese sarebbe diventato il
principale interlocutore tra l’Europa e non solo l’Argentina ma l’intera
America Latina, contribuendo a riallacciarne le relazioni con la CEE;113
e questo, senza pregiudicare ma anzi rafforzando le relazioni con il
Regno Unito (“You are not magliaros” avrebbe detto lady Thatcher a
Spadolini durante la visita ufficiale a Roma del 7 luglio).114 Un piccolo
esempio di abilità diplomatica che forse non fu apprezzato dalla stampa
internazionale (né da quella “anglofila”, europeista e atlantista di casa
nostra), e che per alcuni pareva confermare l’“incoerenza morale” evo-
cata dall’ambasciatore Ducci.
Ma fu anche una diplomazia coerente con la strategia realistica, a
tratti spregiudicata, che avrebbe caratterizzato la politica internazionale
italiana degli anni Ottanta: quasi una “prova generale” di quel tentati-
vo “neoatlantico” che avrebbe avuto il suo principale paradigma nella
vicenda di Sigonella di tre anni dopo, con Craxi di nuovo protagonista
assoluto. In sintesi, fu un “giro di valzer” quello compiuto dal Governo
italiano dinanzi alla guerra delle Falkland-Malvinas? È indubbio, e quel
113
Dopo che alla fine di giugno la CEE abolì le sanzioni, il titolare della Far-
nesina Colombo compì un proficuo viaggio in Argentina, Brasile e Perù, rin-
saldano oltre che i rapporti con l’Italia anche quelli con la Comunità europea.
L’iniziativa del ministro degli Esteri italiano venne apprezzata anche dai set-
tori che ne avevano criticato l’ambiguità durante la crisi (Saverio Tutino, La
crisi delle Falkland ha portato l’Italia a un ruolo chiave in America Latina,
“La Repubblica”, 13 agosto 1982). Emilio Colombo fu il primo ministro degli
Esteri della CEE a visitare l’Argentina dopo il golpe del 1976, e, anche grazie
a quel viaggio, l’Europa comunitaria poté riallacciare i rapporti con il mondo
latino-americano (L. Mechi, “Fra solidarietà europea e vincoli di sangue”,
cit., p. 172-173).
114
Ivi, p. 168. Le relazioni italo-inglesi si sarebbero rafforzate anche con la vi-
sita del successore di Spadolini, Amintore Fanfani, a Londra il 24-25 febbraio
1983.

182
“valzer” (o meglio… “tango”) nacque dalla collisione di due interpreta-
zioni differenti del ruolo italiano in Europa e nel mondo: la lealtà comu-
nitaria e l’interesse nazionale. Dall’antitesi si passò alla sintesi e, al ter-
mine del sofferto processo, l’Italia riuscì ad armonizzare la lealtà con gli
interessi, ricostruendo la sua rete di relazioni, rafforzando il suo ruolo di
interlocutrice privilegiata tra il Vecchio continente e l’America latina e
tornando ad essere partner riconosciuto (e non subalterno) dell’Europa
comunitaria. Si può restare sorpresi, forse sconcertati, a trentacinque
anni di distanza, dalla scarsa attenzione che l’opinione pubblica e la po-
litica italiana riservò agli aspetti morali che la guerra sottintendeva: una
spietata e sanguinaria dittatura nazionalista contrapposta a un vecchio
impero in via di disfacimento, nostalgico dell’età delle cannoniere. Ma,
a torto o a ragione, il realismo e – tanto per restare nelle citazioni prese
da un altro conflitto ben più terribile – il “sacro egoismo” prevalsero su
tutto e una guerra lontana, asimmetrica e riemersa dalle nebbie di un
passato dimenticato dai più, si trasformò nell’occasione per la patria di
Machiavelli di ottenere il risultato migliore con, in sostanza, un costo
minimo.

183
I RAPPORTI DIPLOMATICI TRA ARGENTINA E SANTA SEDE:
UNA STORIA DI CONTRASTI TRA PRESIDENTI E GERARCHIE
ECCLESIASTICHE DA GIOVANNI PAOLO I A PAPA FRANCESCO
di Michelangelo De Donà

Introduzione

Il presente saggio intende proporre un approfondimento sul tema delle


relazioni diplomatiche tra Argentina e Santa Sede dal punto di vista storico,
politico e giuridico nei pontificati di Giovanni Paolo I (26 agosto – 28 set-
tembre 1978), Giovanni Paolo II (1978-2005), Benedetto XVI (2005-2013)
e Francesco, eletto nel Conclave del 2013. L’attuale pontificato assume pe-
raltro una connotazione ancor più interessante proprio perché Bergoglio
proviene dall’Argentina, paese dove ancora non si è recato in visita. Ecco le
parole per la benedizione apostolica Urbi et Orbi durante il primo saluto ai
presenti in piazza San Pietro il 13 marzo 2013: “Voi sapete che il dovere del
Conclave era di dare un Vescovo a Roma. Sembra che i miei fratelli Car-
dinali siano andati a prenderlo quasi alla fine del mondo, ma siamo qui”.
Si è visto in precedenza1 lo sviluppo delle relazioni bilaterali che
hanno portato alla firma dell’Accordo tra la Santa Sede e la Repubblica
Argentina (10 ottobre 1966). Senza avere la pretesa di esaustività pro-
pongo di seguito l’analisi di alcuni aspetti fondamentali. Negli studi
e nelle ricerche riguardanti i rapporti tra la politica e la religione in
Argentina, nel periodo tra il 1976 e l’avvento della democrazia, le re-
lazioni tra lo Stato e la Chiesa hanno ricevuto maggior enfasi rispetto
alle trasformazioni del cattolicesimo, anche se in forma frammentaria e
parziale per le difficoltà di accesso alle fonti.2

1
Si veda il saggio di Daniele Trabucco a p. 47.
2
Roberto Di Stefano e José Zanca, Iglesia y catolicismo en la Argentina. Medio
siglo de historiografía, “Anuario de Historia de la Iglesia”, XXIV (2015), p. 38-39.

185
Partendo dalla mediazione di Sua Santità Giovanni Paolo II per
evitare il conflitto nel Canale di Beagle, saranno poi analizzati i riferi-
menti a questo tema nel corso delle visite apostoliche in Argentina ne-
gli anni Ottanta. Non manca un cenno alla guerra delle Falkland-Mal-
vinas e ai continui richiami del Papa per la pace. Naturalmente una
parte importante sarà dedicata all’analisi dei rapporti tra la Chiesa
cattolica e la dittatura militare e i primi governi democratici fino alla
presidenza Macri, attingendo anche dalla stampa argentina. Tra i casi
che hanno creato tensione nei rapporti tra Argentina e Santa Sede
quello di mons. Antonio Juan Baseotto fino alla recente nomina del
nuovo Ordinario militare, mentre nuovi spazi di ricerca si potranno
senz’altro avere con l’apertura degli archivi vaticani relativi agli anni
cruciali della dittatura.

La mediazione per il Canale di Beagle, la guerra delle Falkland-Mal-


vinas e le due visite in Argentina di Giovanni Paolo II

Di particolare rilevanza nella presente analisi risulta la disputa ter-


ritoriale nella zona del Canale di Beagle e la mediazione tra Cile e Ar-
gentina da parte di Giovanni Paolo II e il suo delegato speciale card.
Antonio Samorè. In realtà già papa Albino Luciani il 20 settembre 1978
inviò una lettera ai Vescovi della Conferenza Episcopale di Argentina e
Cile, nella quale esortava governanti e governati a fare opera di pacifi-
cazione, perché era necessario creare un clima dove prevalesse la con-
cordia sull’odio o sulle divisioni.3 Il saggista Marco Roncalli ricorda:

A giudicare dal lessico […] un testo probabilmente scritto dalla Se-


greteria di Stato, ma del quale Giovanni Paolo I condivideva da tempo
necessità e contenuto. Già appena eletto, infatti, papa Luciani, era stato
informato della questione […]. Si può presumere che Giovanni Paolo
I non ne avesse accennato al presidente argentino Videla e al ministro

3
“L’Osservatore Romano”, 11 ottobre 1978.

186
degli Esteri cileno […] durante il saluto protocollare dopo la messa di
avvio del pontificato.4

Roncalli accenna ancora alle sollecitazioni che i vescovi argentini e


cileni riuniti a Mendoza (11-12 settembre 1978) inviarono a papa Lu-
ciani e al suo conseguente messaggio del 20 settembre che “contribuì
a gettare il seme della mediazione futura”.5 Si tratta di una questione
affrontata mentre nei due Paesi sono insediati regimi dittatoriali, infatti

nel 1976 il potere cadde di nuovo in mano delle Forze Armate. Le quali
fecero terra bruciata d’ogni forma d’opposizione ma fallirono ancora
una volta nel tentativo di consolidare il loro regime, che crollò per gli
scarsi risultati economici, le divisioni nell’esercito e la sconfitta nella
guerra delle Falkland-Malvinas del 1982.6

Il tema è trattato nell’Angelus del 28 ottobre 1979:

Come è ben noto, l’Argentina e il Cile hanno da risolvere un problema


che li divide circa la zona australe dei loro territori. Ho accettato, fin
dai primi mesi di quest’anno, l’invito ad assumere il compito di me-
diazione. Anche i Vescovi vanno adoperandosi per creare un clima di
distensione, in cui sia più facile il superamento del dissidio.

Il Pontefice richiama anche il dramma delle persone perdute o scom-


parse:

4
Marco Roncalli, Giovanni Paolo I. Albino Luciani, Milano, San Paolo, 2012,
p. 632-633.
5
M. Roncalli, Giovanni Paolo I, p. 633. Cfr. Juan Pablo I había intercedido por
la paz en Argentina y Chile, “Clarín”, 30 settembre 1978. Interessante risulta
anche l’intervista dell’Agenzia Zenit al vescovo emerito di Resistencia, mons.
Carmelo Juan Giaquinta Cómo se gestó la mediación que evitó la guerra entre
Argentina y Chile, “Zenit”, 11 gennaio 2009.
6
Loris Zanatta, Storia dell’America Latina contemporanea, Bari, Laterza,
2010, p. 171.

187
Non perdiamo la fiducia che problemi così dolorosi siano chiariti per
il bene non soltanto dei familiari interessati, ma anche per il bene e per
la pace interna di quelle comunità a noi tanto care. Chiediamo che sia
affrettata l’annunciata definizione delle posizioni dei carcerati e sia
mantenuto un impegno rigoroso a tutelare, in ogni circostanza in cui si
chiede l’osservanza delle leggi, il rispetto della persona fisica e morale
anche dei colpevoli o indiziati di violazioni.

La ricerca di “una soluzione soddisfacente basata sulla giustizia e il


diritto internazionale, che escluda la forza” non è stata però semplice.
Il 23 aprile 1982 Giovanni Paolo II ha fornito inoltre alcune indica-
zioni per procedere nella comprensione e nella concordia reciproca.
Egli ha suggerito di evitare “innovazioni che interessino l’oggetto del-
la controversia”. Ha chiesto che i rispettivi Governi “facciano in modo
di controllare sempre la gestione dei fatti suscettibili di arrivare a tra-
sformarsi in incidenti” e “assumano con ogni cura un atteggiamento di
prudenza”.
Nel trentesimo anniversario della mediazione, il Segretario di Sta-
to card. Tarcisio Bertone inviò un messaggio all’allora arcivescovo di
Buenos Aires Bergoglio, ricordando che

la mediazione di Beagle continua ad essere un paradigma da proporre


all’attenzione della Comunità internazionale. Essa ha dimostrato, in-
sieme alla pazienza e alla responsabilità delle Parti, come in ogni con-
troversia il dialogo non pregiudica i diritti ed amplia invece il campo
delle possibilità ragionevoli di composizione delle divergenze.7

Tra gli accadimenti che hanno rallentato e messo in pericolo i col-


loqui e la mediazione, va segnalata la guerra delle Falkland-Malvinas
tra Argentina e Gran Bretagna.8 Il Papa ne parlò nel corso del Regina

7
Tarcisio Bertone, La diplomazia pontificia in un mondo globalizzato, Città
del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2013, p. 440.
8
Fabián Bustamante Olguín, Un enfoque idealista de las relaciones internaciona-
les en el conflicto del Beagle entre Chile y Argentina. La mediación de la Santa

188
Coeli del 2 maggio 1982: “L’Argentina e la Gran Bretagna hanno ini-
ziato nell’Atlantico del sud un confronto militare che sembra andare
inasprendosi sempre più. Dolorosa e preoccupante realtà!”. Egli si ri-
feriva in particolare a tre aspetti: alla perdita delle vite umane, alle
ripercussioni del conflitto e all’incapacità di trovare una soluzione alle
vertenze nonostante l’esistenza di principi fondamentali e di strumenti
per la tutela della pace. Ecco quindi il suo appello per la pace:

Sentano tutti, non solo le Parti direttamente coinvolte, ma le Nazioni


loro amiche e l’intera Comunità internazionale, la loro responsabilità
storica e non si abbandonino, come scoraggiate, di fronte ad una si-
tuazione i cui sviluppi potrebbero apparire ormai quasi irreversibili.
E ridonino al mondo la speranza che il buon volere, l’intelligenza, la
magnanimità, la lungimiranza politica possono in ogni momento, an-
che il più difficile, riuscire a far superare la tentazione di tagliare con
la spada i nodi che mettono in pericolo la pacifica convivenza interna-
zionale.

Possiamo poi ricordare il richiamo alla pace doverosa e possibile


nell’omelia pronunciata durante la Santa Messa del 22 maggio, ma è
nell’udienza generale del 26 maggio successivo che il Papa fece riferi-
mento alla visita “da tempo prevista e preparata” in Inghilterra, Scozia
e Galles (28 maggio – 2 giugno 1982), con una significativa sottoline-
atura: “Le recenti, dolorose vicende del conflitto nell’Atlantico del Sud
hanno posto in forse l’attuazione di tale viaggio [...]. A seguito di ap-

Sede, 1979-1984, “Revista Cultura y Religión”, IV, (ottobre 2010), p. 67. L’au-
tore richiama anche il volume di Fernando Raúl Saenger Castaños, Cuestión
de límites entre Chile y Argentina. Los acuerdos de 1991, Santiago de Chile,
Ediciones Jurídica ConoSur, 1997, p. 50. Per un approfondimento del tema: Gio-
vanni Rulli, La guerra per le isole Falkland Malvine, “La Civiltà Cattolica”, MM-
MCLXVII (1982), p. 497-506; G. Rulli, Le conseguenze del conflitto anglo-argen-
tino, “La Civiltà Cattolica”, MMMCLXVIII (1982), p. 598-608; Ludovico Incisa
di Camerana, I caudillos. Biografia di un continente, Milano, Corbaccio, 1994, p.
346-351; L. Zanatta, Storia dell’America Latina contemporanea, p. 192-193.

189
profondite consultazioni con i maggiori responsabili di quelle Chiese,
ho deciso di compiere ugualmente la mia visita, pur apportandovi alcu-
ne modifiche”. Il Santo Padre spiegò le ragioni di questa decisione, che
poteva “creare qualche sorpresa o perplessità tra i cattolici della Chiesa
argentina”, in una lettera a loro indirizzata (datata 25 maggio 1982)
nella quale ribadiva il significato pastorale ed ecumenico della visita:
“Questo carattere [...] è talmente essenziale e prevalente che, date le
circostanze, i Rappresentanti del Governo di Sua Maestà si sono spon-
taneamente ritirati da tutti i contatti ormai previsti e che normalmente
hanno avuto luogo in altre circostanze durante simili visite”.
Giovanni Paolo II rese noto inoltre che il 10 giugno successivo sa-
rebbe partito per il viaggio pastorale in Argentina (10-13 giugno 1982).
All’aeroporto internazionale di Gatwick per la cerimonia di benvenuto
in Gran Bretagna le sue parole riportano comunque l’attenzione sul
conflitto nel Sud Atlantico:

Nelle ultime settimane sono stati fatti dei tentativi per comporre la
disputa attraverso negoziati diplomatici, ma nonostante i sinceri sforzi
di molti la situazione è precipitata fino a diventare quella di un con-
fronto armato, che ha già mietuto molte vittime umane e minaccia di
assumere dimensioni ancora più spaventose. Questa tragica situazio-
ne è stata motivo per me di gravissime preoccupazioni, ed ho chie-
sto ripetutamente ai cattolici di tutto il mondo ed a tutte le persone di
buona volontà di unirsi alle mie preghiere per una soluzione giusta e
pacifica. Ho anche fatto appello alle autorità delle nazioni coinvolte,
al Segretario Generale delle Nazioni Unite e ad altri influenti uomini
di stato, sforzandomi sempre di incoraggiare una soluzione che eviti
la violenza e lo spargimento di sangue. Oggi rinnovo qui davanti a voi
quell’appello dal fondo del mio cuore e prego perché si arrivi presto
ad una composizione della vertenza. In questo momento della storia,
abbiamo una urgente necessità di riconciliazione.

È interessante a questo punto segnalare i due viaggi compiuti da


Giovanni Paolo II in Argentina. Il primo nel 1982. Durante lo sca-

190
lo a Rio de Janeiro e nel corso della cerimonia di benvenuto l’11
giugno all’aeroporto di Buenos Aires rimarcò che la sua visita “era
contraddistinta dal carattere pastorale ed ecclesiale, senza nessuna
intenzione politica”. Egli fece riferimento al conflitto bellico tra
l’Argentina e la Gran Bretagna implorando la pace. Queste sottoline-
ature le ritroviamo il 12 giugno nella lettera alla nazione cilena e nel
discorso di congedo all’aeroporto della capitale argentina: “Questo
viaggio e quello compiuto in precedenza in Gran Bretagna mi hanno
consentito di […] interpellare le coscienze affinché, in momenti di
scontri bellici, si ristabiliscano nelle due parti in conflitto sentimenti
di pacificazione, che vanno al di là del silenzio delle armi”. Lo stesso
giorno nella messa per il popolo argentino aveva lasciato ai giovani
una consegna:

Unitevi anche ai giovani di Gran Bretagna, i quali nei giorni scorsi


hanno applaudito e sono stati parimenti sensibili a ogni invocazione
di pace e di concordia. A questo proposito, con vera gioia vi trasmet-
to un messaggio ricevuto per voi. Giacché essi medesimi mi hanno
chiesto, soprattutto nell’incontro di Cardiff, che facessi giungere a
voi il loro sincero desiderio di pace. Non lasciate che l’odio faccia
appassire le energie generose e la capacità di intendervi con tutti, che
portate dentro di voi. Fate con le mani unite – insieme con la gio-
ventù latino-americana, la quale a Puebla si affidò alla sollecitudine
speciale della Chiesa – una catena di unione più forte delle catene
della guerra.

Papa Wojtyla nel 1987, dal 31 marzo al 13 aprile, si recò in Uru-


guay, Cile e di nuovo in Argentina. Mi pare si possano evidenziare
due momenti. Il 31 marzo a Palazzo Taranco (Montevideo), dove il
Santo Padre tenne un discorso “per commemorare ciò che avvenne
quell’8 gennaio 1979, cioè la riaffermazione dei mezzi pacifici per
la soluzione delle controversie tra due paesi e la rinuncia esplicita
all’uso della forza”. Infatti i negoziati per evitare la guerra erano stati
suggellati da un trattato di pace e di amicizia tra il Cile e l’Argentina

191
firmato in Vaticano il 29 novembre 19849 ed entrato in vigore con lo
scambio degli strumenti di ratifica il 2 maggio seguente.
Un secondo discorso è quello tenuto ai dirigenti politici argentini10 il
6 aprile alla Casa Rosada, dove troviamo alcuni riferimenti interessanti.
Innanzitutto questo viaggio apostolico si caratterizza sempre per la “co-
stante motivazione pastorale” ma avviene “in tempo di pace” dopo la
“felice conclusione della mediazione papale”. In secondo luogo il Papa
parla di “piena ristabilizzazione delle istituzioni democratiche”, dove tut-
ti sono chiamati alla partecipazione responsabile alla vita pubblica. Infine
c’è il richiamo alla “legittima autonomia delle realtà temporali”. Ma c’è
di più perché “sono andate strutturandosi le condizioni propizie affinché
la collaborazione tra la Chiesa e la comunità politica sia particolarmente
feconda” e il Pontefice ha espresso l’auspicio che “si incrementi l’aiuto
reciproco, la comprensione e il rispetto”. Sono questi i mesi del dibattito
riguardante la legge sul divorzio che verrà approvata nel giugno 1987. “In
realtà, lo scopo principale del viaggio di Giovanni Paolo II in Argentina
sembrava essere quello d’impedire l’approvazione” di questa legge.11

9
Tarcisio Bertone, La diplomazia pontificia in un mondo globalizzato, p. 489-497.
Cfr. Benedetto XVI, Lettera del Santo Padre Benedetto XVI al Presidente della
Repubblica di Argentina per il 30° anniversario della mediazione pontificia tra
Argentina e Cile, “L’Osservatore Romano”, 6 dicembre 2008; Los frutos de la
paz. La mediación de Su Santitad Juan Pablo II en el diferendo austral entre Ar-
gentina y Chile, a cura di M. Camusso, Buenos Aires, Educa, 2009; Agostino Ca-
saroli, Nella Chiesa per il mondo. Omelie e Discorsi, Milano, Rusconi, 1987, p.
461-464; Giovanni Rulli, La mediazione della Santa Sede fra Argentina e Cile per
la zona australe dei due Paesi, “La Civiltà Cattolica”, MMMLXXXIX (1979), p.
470-479; Domenico Vecchioni, Il Canale di Beagle. Storia di una controversia,
“Rivista di Studi Politici Internazionali”, LXII (1995), p. 537-543. La questio-
ne Falkland/Malvinas è ancora di attualità: cfr. Piero Schiavazzi, Il rodaggio di
Francesco: da cardinale “malvinero” a papa “adulto”. L’estrema unzione alla
Thatcher segna il primo mese di pontificato, “L’Huffington Post”, 13 aprile 2013.
10
“L’Osservatore Romano”, 8 aprile 1987, p. 7. Il testo è inoltre consultabile in:
https://w2.vatican.va/content/john-paul-ii/it/speeches/1987/april/documents/
hf_jp-ii_spe_19870406_mondo-politico.html.
11
Carl Bernstein e Marco Politi, Sua Santità. Giovanni Paolo II e la storia segre-

192
La Chiesa Cattolica e la dittatura militare

Proseguendo l’analisi non va tralasciata l’attenzione per il silenzio


o le accuse di complicità della gerarchia ecclesiastica con la dittatura
militare e per la questione dei desaparecidos.12 Sono questi gli anni
legati a mons. Adolfo Tortolo quale presidente della Conferenza Epi-
scopale Argentina e ordinario militare, a mons. Christian von Wer-
nich, cappellano della polizia per la provincia di Buenos Aires, ma
anche a mons. Pio Laghi, nunzio in questo paese dall’aprile 1974 al
dicembre 1980.
Mons. Tortolo considerava necessario “l’intervento militare per li-
berare il paese dall’infiltrazione marxista”.13 Se escludiamo davvero
pochi vescovi14 “le autorità religiose optarono più per la convivenza
che per il confronto/contrasto con il governo militare”.15 Un caso sin-
golare fu quello del presbitero von Wernich, definito “il rappresentan-
te della Chiesa argentina che più di altri ha convissuto con la dittatura
e i suoi carnefici”.16
Molto ampia e complessa la vicenda del futuro cardinale Pio Laghi,
scomparso nel 2009. Il settimanale “El Periodista” (novembre 1984) ri-

ta del nostro tempo, Milano, Rizzoli, 1996, p. 482-483. Cfr. Juan Cruz Esquivel,
Estado e Iglesia católica en la Argentina reciente: los términos de una compleja
relación, “Ayer”, LXXIII (2009), p. 116-117.
12
Italo Moretti, In Sudamerica. Trent’anni di storie latinoamericane dalle dit-
tature degli anni Settanta al difficile cammino verso la democrazia, Milano,
Sperling & Kupfer, 2000, p. 145. Cfr. Andrea Riccardi, Giovanni Paolo II. La
biografia, Milano, San Paolo, 2011, p. 414-416; Loris Zanatta, El precio de la
nación católica. El Vaticano y el golpe de estado de 1976, “Puentes”, XXIII
(2008), p. 83-98.
13
J.C. Esquivel, Estado e Iglesia católica, p. 111. Cfr. I. Moretti, In Sudame-
rica, p. 186.
14
Si tratta dei vescovi Enrique Angelelli (ucciso il 4 agosto 1976), Jaime de
Nevares, Miguel Hesayne e Jorge Novak. Cfr. J. C. Esquivel, Estado e Iglesia
católica, p. 112. Cfr. I. Moretti, In Sudamerica, p. 186-188.
15
J. C. Esquivel, Estado e Iglesia católica, p. 111.
16
I. Moretti, In Sudamerica, p. 191-195.

193
portò che il suo nome era stato inserito nel rapporto della Commissione
Nazionale d’Inchiesta sulla scomparsa di persone,17 presieduta da Erne-
sto Sabato. Al prelato rivolsero pesanti accuse anche le Madri di Piazza
di Maggio, mentre un punto di vista da tenere in considerazione è quello
fornito da Emilio Mignone, fondatore del Centro di Studi Legali e Sociali e
componente dell’Associazione internazionale dei giuristi e della Lega per i
diritti dell’uomo dei New York.18 È lo stesso mons. Laghi, che nel frattem-
po era stato nominato nunzio apostolico negli Stati Uniti, a dichiarare che

tutto comincia dopo la presentazione del Rapporto Sabato (24 settembre


1984), […], la Commissione raccolse le accuse di sopravvissuti, familiari
e testimoni riuscendo a ricostruire la scomparsa di 8.961 persone. Ac-
canto al rapporto, Sabato consegnò una lista di 1.351 persone in qualche
modo chiamate in causa nella vicenda. In questa lista, all’inizio vi era
anche il mio nome. Poi Sabato e il presidente Raúl Alfonsín, di comune
accordo, lo tolsero, considerando le due testimonianze a mio carico, poi
ridottesi a una, inconsistenti.19

Ed è lo stesso mons. Laghi a precisare: “Forse non sono stato un eroe,


ma certo non sono stato un complice”.20 Le accuse a suo carico riemer-
gono ciclicamente:

17
Nunca más è il titolo del rapporto della Comisión Nacional sobre la Desapari-
ción de Personas, istituita il 15 dicembre 1983 con decreto del presidente Alfonsín.
18
Emilio Fermín Mignone è anche autore del volume Iglesia y dictadura: el
papel de la Iglesia a la luz de sus relaciones con el régimen militar, Buenos
Aires, Ediciones del Pensamiento Nacional, 1986.
19
Vicenda ingiusta e amara, a cura di L. Prezzi e G. Brunelli, “Il Regno”, XIV
(1997), p. 385. Cfr. I. Moretti, In Sudamerica, p. 198.
20
Ivi, p. 390. Vedi inoltre: Giuseppe De Rosa, Una difficile missione. Mons. Pio
Laghi, Nunzio in Argentina (1974-1980), “La Civiltà Cattolica”, MMMDXXVII
(1997), p. 458-465; Giancarlo Zizola, Il successore, Bari, Laterza, 1997, p.
254-257; Luis Badilla, Meriti ed errori di don Pio Laghi, nunzio di Paolo VI e
Giovanni Paolo II nell’Argentina della dittatura. I rapporti con l’episcopato,
i militari, le Madri di Piazza di Maggio, “www.terradamerica.com”, 5 aprile
2016.

194
Intorno a tale figura è stata fabbricata una vera e propria “leggenda
nera”. Laghi è – in base a tale narrativa, tuttora dominante – l’em-
blema del sostegno attivo e complice della Chiesa alla giunta [...].
Ora, la coraggiosa scelta del Vaticano – su esplicita richiesta di papa
Francesco – di aprire gli archivi segreti relativi al periodo della ditta-
tura argentina, con tutta probabilità, libererà definitivamente l’ormai
defunto Laghi dalle catene infamanti della “versione ufficiale”. Rive-
lando, addirittura, un’immagine opposta del vescovo-diplomatico.21

Un cenno va fatto anche al contesto che si era determinato con il


Concilio Ecumenico Vaticano II, quando la Chiesa latinoamericana
aveva orientato sempre più la propria attenzione e il proprio impe-
gno sociale a favore dei poveri, come del resto non erano mancati gli
atteggiamenti critici nei confronti delle dittature. In termini generali
l’ascesa al soglio pontificio di Giovanni Paolo II rappresentò una
nuova tappa per la Chiesa Cattolica e la “costruzione di un nuovo
progetto egemonico”.22 La sua prima enciclica Redemptor Hominis
(4 marzo 1979) è illuminante dello sviluppo che intende dare alla
sua azione pastorale: “La Chiesa […] non può rimanere insensibile a
tutto ciò che serve al vero bene dell’uomo, così come non può rima-
nere indifferente a ciò che lo minaccia”.23 Scrive lo storico Andrea
Riccardi:

Se il papa non approvava lo schieramento dei cristiani con le forze


di sinistra (per una serie di motivi, tra cui l’uso della violenza, il
marxismo, l’influenza sovietica), non era disposto a fare della sua
Chiesa un sostegno ai regimi conservatori. Cercava uno spazio ec-
clesiale, quello che appariva delineato dalla conferenza episcopale
dei vescovi latinoamericani di Puebla, per difendere i diritti umani.

21
Lucia Capuzzi, Il caso. Pio Laghi: cade la leggenda nera, “Avvenire”, 6
aprile 2016.
22
Martín Obregón, La Iglesia Católica argentina durante el “Proceso” (1976-
1983), “Prismas, Revista de historia intelectual”, IX (2005), p. 265.
23
Redemptor Hominis, n. 13.

195
Per lui già l’esistenza della Chiesa era uno spazio sottratto alla logi-
ca dei regimi liberticidi.24

Non mancano però giudizi molto duri, come quello del giornalista
Juan Arias:

La storia insegna che si può trovare molta umanità e generosità in am-


bienti non credenti, mentre è possibile trovare violenze, meschinità
umane, codardie e vili egoismi in molti credenti, anche praticanti.
Non va dimenticato che Franco si comunicava; e che pure lo fanno i
generali Videla e Pinochet. Ma a papa Wojtyla costa ammettere questo.
Per cui, dovendo scegliere, preferisce sicuramente un regime totalitario
cristiano a un governo democratico di sinistra o aconfessionale.25

Si può quindi ribadire l’inquietudine che creava in Vaticano e alla


Casa Bianca la diffusione della Teologia della Liberazione e del mo-
vimento delle comunità di base.26 Giovanni Paolo II nel corso dei suoi
viaggi in America Latina ammonì più volte il clero, i fedeli e i politici
dal rischio di false o contraddittorie interpretazioni sulla Chiesa:

Il papa di Cracovia non avrebbe mai permesso che i cattolici si schie-


rassero con i moventi marxisti in un battaglia per la giustizia sociale e
la democrazia […]. Il giovane polacco che durante l’occupazione na-
zista di Cracovia aveva pregato per la liberazione ma non aveva mai
partecipato alla resistenza stava ora imponendo il suo metodo al clero
dell’America Latina.27

24
Andrea Riccardi, Governo carismatico. 25 anni di pontificato, Milano, Mon-
dadori, 2003, p. 91-92.
25
Juan Arias, L’enigma Wojtyla, Roma, Borla, 1986, p. 45-46.
26
A. Riccardi, Governo carismatico, p. 89-91. Per una panoramica generale
sulla Teologia della Liberazione: Gustavo Gutiérrez e Gerhard Ludwig Müller,
Dalla parte dei poveri. Teologia della liberazione, teologia della chiesa, Pado-
va/Messaggero di Sant’Antonio Editrice-Bologna/Emi, 2013.
27
C. Bernstein e M. Politi, Sua Santità, p. 218-219.

196
Si potrebbe confrontare la visita compiuta da papa Wojtyla nel 1987
in Cile con quella in Argentina e a sua volta paragonarle con la situazio-
ne esistente in Polonia. Nel primo caso non c’era stata una guerra civile
e la Chiesa era preoccupata perché il governo di Allende intendeva dar
vita a uno Stato marxista.28 Tuttavia dopo il colpo di Stato del generale
Pinochet, il regime dittatoriale che, affermava il papa, “aveva causato
migliaia di vittime, poteva essere considerato meno dannoso del regime
polacco”29 anche perché in Cile questo regime era transitorio. Gli obiet-
tivi della visita erano due: la riconciliazione nazionale e la ricostruzione
della società civile.30
Il viaggio papale in Argentina presentava invece diverse complica-
zioni: la mancanza di solidità dell’adesione popolare alla democrazia,
le torture e le sparizioni di quanti si opponevano al regime militare e
non ultimo il “fatto che l’alto clero argentino non era stato tanto pronto
e deciso nella sua difesa dei diritti umani quanto lo era stato l’episco-
pato cileno”.31

La democrazia in Argentina

In linea generale le relazioni tra la Chiesa cattolica e i governi nel


processo verso la democrazia dell’Argentina, se guardiamo in partico-
lare ai settori dell’educazione, della morale familiare e sessuale, si pos-
sono considerare di “conflittualità” con Alfonsín e Kirchner, di “mutua
legittimità” con Carlos Menem.32

28
George Weigel, Testimone della speranza. La vita di Giovanni Paolo II, pro-
tagonista del secolo, Milano, Mondadori, 1999, p. 663.
29
C. Bernstein e M. Politi, Sua Santità, p. 478-479.
30
G. Weigel, Testimone della speranza, p. 667. Cfr. A. Riccardi, Governo ca-
rismatico, p. 171-176.
31
Ivi, p. 668.
32
J.C. Esquivel, p. 115. Cfr. Carlos Luis Custer, El Sesquicentenario del Inicio
de las Relaciones Diplomáticas con la Santa Sede, “Relaciones Internaciona-
les”, XXXII (2007), p. 10 e 13.

197
Nel discorso che, il 19 ottobre 1990, Giovanni Paolo II rivolse al
presidente Carlos Menem, vennero riaffermati gli stretti legami con la
Santa Sede e dopo aver ricordato che “il preambolo della vostra Costi-
tuzione invoca Dio come fonte di ogni ragione e giustizia” precisava
che i governanti non potevano dimenticarsi “di ispirare le proprie azioni
a tali princìpi”. Il Papa inoltre constatò dai viaggi in America Latina
“una crescente inquietudine morale, che si manifesta, a volte in forma
di crisi sociale a volte in altri fenomeni come violenza, disoccupazione,
emarginazione provocando squilibri e minacciando la pacifica convi-
venza. Neanche l’Argentina sfugge a questa problematica”. Non man-
ca, in questo discorso, un riferimento al fatto che

persistono le ferite e gli antagonismi di un passato ancora non lontano,


che rende difficile la coesione sociale e le legittime aspirazioni di pro-
gresso. Per questo, si rende ancor più necessario un rinnovato sforzo
per superare qualsiasi forma di scontro e fomentare una crescente soli-
darietà tra tutti gli argentini. Proprio qui si colloca il ruolo importante
che rivestono i valori spirituali.

Il 21 aprile 1992 avvenne lo Scambio di Note tra il Ministro dei


rapporti con l’estero e del culto di Argentina e il Nunzio apostolico
per la modifica dell’Accordo sulla giurisdizione Castrense e Assi-
stenza religiosa alle Forze Armate risalente al 1957.33 Questo ag-
giornamento si era reso necessario alla luce dei princìpi emersi dal
Concilio Ecumenico Vaticano II, dall’Accordo del 1966, dal nuovo
Codice di Diritto Canonico del 1983 e per la costituzione apostolica
Spirituali Militum Curae del 1986. Di interesse per cogliere invece la
situazione sociale e religiosa dell’Argentina colpita dalla crisi risul-

33
Cfr. Giovanna Giovetti, L’assistenza religiosa all’interno delle cd. Comunità
obbliganti nei Concordati di Giovanni Paolo II, “www.olir.it”, agosto 2004;
Jorge Enrique Precht Pizarro, La asistencia religiosa católica en las fuerzas
armadas de Argentina, Brasil y Chile, “Derecho Público Iberoamericano”, II
(2013), p. 237-246; Alberto M. Sánchez, La cuestión del obispado castrense,
“El Derecho” (Suplemento Derecho Administrativo), 29 aprile 2005.

198
tano anche le visite ad limina dei vescovi argentini, come quelle del
12 febbraio e del 5 marzo 2002.34
A conclusione del mandato presidenziale Eduardo Duhalde si recò
da papa Giovanni Paolo II il 7 aprile 2003. Nel suo discorso il San-
to Padre affermò: “Guardando all’Argentina formulo voti affinché il
patrimonio della Dottrina Sociale della Chiesa continui ad essere un
prezioso strumento di orientamento per superare i problemi che osta-
colano l’edificazione di un ordine più giusto, fraterno e solidale”.35 Per
far fronte all’esistenza di “un grave disordine morale” servono oltre alle

misure tecniche […] un insieme di riforme che favoriscano i diritti e i


doveri della famiglia come base naturale e insostituibile della società.
Parimenti, si deve dare impulso a progetti di difesa e di sviluppo a favo-
re della vita che tengano presente la dimensione etica della persona, dal
suo concepimento fino alla sua morte naturale.

La concordia nel Paese, aggiunse il Papa, “non può prescindere dal


rispetto e dalla tutela dei diritti fondamentali della persona umana. Pa-
rimenti, incoraggio tutti a continuare a lavorare instancabilmente per
la costruzione di una società che offra uguali opportunità e dissipi ogni
ombra di discriminazione fra i suoi membri”.

La vicenda di monsignor Baseotto e il caso dell’ambasciatore


Iribarne

Giovanni Paolo II nel novembre 2002 nominò Ordinario Militare


per l’Argentina monsignore Antonio Juan Baseotto. Il nome di que-
sto vescovo è legato alla vicenda sorta, nel marzo 2005, a seguito di
34
Cfr. Giovanni Marchesi, La Chiesa Cattolica in Argentina. Problemi e spe-
ranze per ricostruire il paese, “La Civiltà Cattolica”, MMMDCXLV (2002), p.
272-280; Pontificia Commissione per l’America Latina, Nueva Evangelización
en América Latina, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2003, p. 41-65.
35
“L’Osservatore Romano”, 7-8 aprile 2003, p. 7.

199
un’intervista che il ministro della salute aveva rilasciato a Página/12,
dove si dichiarava favorevole alla depenalizzazione dell’aborto e alla
quale mons. Baseotto aveva risposto con una lettera criticando questa
pratica. Il governo gli revocò il gradimento e lo stipendio chieden-
do alla Santa Sede che il presule rinunciasse al suo incarico. L’allora
direttore della Sala Stampa della Santa Sede, Joaquín Navarro-Valls,
dichiarò: “Ovviamente, se si impedisse di esercitare il ministero pasto-
rale ad un Vescovo legittimamente nominato dalla Santa Sede secondo
le norme del diritto canonico e degli accordi vigenti, ci si troverebbe
di fronte ad una violazione della libertà religiosa oltre che dei predetti
accordi”.
Al compimento dei settantacinque anni, come prescrive il Codice
di diritto canonico, mons. Baseotto presentò la sua rinuncia per ragio-
ni di età e questa venne accolta da Benedetto XVI nel maggio 2007.
Fino alla recente nomina del nuovo ordinario militare gli è succeduto
il vicario generale, mons. Pedro Candia, dal momento che il nome
a suo tempo proposto dalla Santa Sede non trovò il gradimento dei
vertici governativi.36
Un ulteriore elemento di tensione riguardò il caso del mancato gradi-
mento di un ambasciatore: “La Santa Sede nel 2007-2008 ha bloccato la
nomina ad ambasciatore dell’Argentina dell’ex ministro della giustizia
Alberto Iribarne, perché divorziato”.37 Una situazione di stallo che si

36
Norberto Padilla, Los acuerdos entre la República Argentina y la Santa Sede,
in Acuerdos y concordatos entre la Santa Sede y los países americanos, Juan
G. Navarro Floria [et. al.], Buenos Aires, Editorial de la Universidad Católica
Argentina, 2011, p. 57. Cfr. Kirchner sacó a Baseotto del obispado castrense,
“La Nueva”, 19 marzo 2005; Crecen tensiones entre Argentina y la Santa Sede,
“La Nación”, 21 marzo 2005; Caso Baseotto: vuelven los tironeos con la Igle-
sia, “El Día”, 23 aprile 2005; Baseotto: réplica de Bergoglio al Gobierno, “La
Nación”, 26 aprile 2005; Bergoglio analizó el caso Baseotto con altas autori-
dades del Vaticano, “Clarín”, 13 gennaio 2007; El Vaticano aceptó la renuncia
de Baseotto, “La Nación”, 15 maggio 2007.
37
Carlo Curti Gialdino, Lineamenti di diritto diplomatico e consolare, Torino,
Giappichelli, 2015, p. 90. Cfr. Silvina Premat, El Vaticano demora el plácet

200
protrasse per otto mesi fino a quando, il 5 dicembre 2008, l’ambascia-
tore dell’Argentina presso la Santa Sede, Juan Pablo Cafiero, presentò
le sue Lettere credenziali a Benedetto XVI.38 Nel suo discorso il Santo
Padre ha affermato:

La Chiesa, senza voler divenire un soggetto politico, aspira, con l’indi-


pendenza della sua autorità morale, a cooperare in modo leale e aperto
con tutti i responsabili dell’ordine temporale nel nobile disegno di in-
staurare una civiltà di giustizia, di pace, di riconciliazione e di solida-
rietà, e di quelle altre norme che non si potranno mai abolire né lasciare
alla mercé di consensi di parte, poiché sono incise nel cuore umano e
rispondono alla verità.

Chiaro quindi il riferimento alla famiglia basata sul matrimonio tra


uomo e donna, la difesa della vita, la lotta alla povertà e alla corruzio-
ne. Il papa cita inoltre la commemorazione del trentesimo anniversario
della mediazione del suo predecessore per il Canale di Beagle: “Il mo-
numento che verrà costruito nella località di Monte Aymond sarà una
testimonianza eloquente e servirà a rafforzare ancora di più i vincoli di
fratellanza e la volontà di intesa fra i due Paesi”.39

de Iribarne, “La Nación”, 28 gennaio 2008; Horacio Verbitsky, Asalto a la


modernidad, “Página/12”, 3 febbraio 2008; El Gobierno y la Iglesia dialogan
para descomprimir la crisis con el Vaticano, “Clarín”, 7 febbraio 2008; Elisa-
betta Piqué, Sorpresiva convocatoria del Vaticano a la Iglesia argentina, “La
Nación”, 22 maggio 2008.
38
Hernán Sergio Mora, Ambasciatore argentino: “Identificazione assoluta con
il pontificato e la sua linea”, “Zenit”, 30 dicembre 2013. Cfr. Martín Dinatale,
“Juampi” Cafiero, el equilibrista en el Vaticano, ante un nuevo desafío, “La
Nación”, 18 marzo 2013.
39
È invece del 29 novembre 2008 la Lettera del Santo Padre Benedetto XVI al
presidente della Repubblica di Argentina per il 30° anniversario della media-
zione pontificia nel contenzioso tra Argentina e Cile, pubblicata dal quotidiano
“L’Osservatore Romano”, 6 dicembre 2008.

201
Dall’era Kirchner a Macri

Papa Francesco non si è mai piegato a quanti si sono alternati al


potere, schierandosi sempre a difesa dei più deboli anche quando era
arcivescovo di Buenos Aires. Basti solo pensare alla polemica contro
il governo di Cristina Fernández de Kirchner circa i dati sulla povertà
della popolazione e la questione delle sfide etiche, in particolare sui
temi della famiglia e dell’aborto.
Ma anche, in precedenza, con Néstor Kirchner i rapporti con la Chiesa
cattolica non erano buoni: “Lo stile decisionista del Presidente non era
apprezzato dall’arcivescovo di Buenos Aires, cardinale Jorge Mario Ber-
goglio, che spingeva per una maggiore democratizzazione della politica
argentina”.40 Non è da dimenticare inoltre l’interruzione della tradizio-
nale partecipazione alle celebrazioni del Te Deum. Il riferimento è al 25
maggio 2004, quando Bergoglio sottolineò i rischi dell’autoritarismo: “I
Kirchner sedevano in prima fila e l’allora presidente si sentì attaccato a tal
punto da non presenziare più ad alcuna funzione officiata da Bergoglio.
[…] Questa frattura si è parzialmente ricomposta con Cristina”.41
Se Cristina Fernández vedova Kirchner ha accolto con freddezza
l’elezione del primo papa argentino, si può invece notare, sia in oc-
casione del 18 marzo 2013 con l’omaggio che fece a Bergoglio-papa
Francesco, sia nel secondo incontro del 17 marzo 2014 l’inizio di nuovi
buoni rapporti. Questo non significa

una modifica nella gestione governativa. Tuttavia la Casa Rosada ha


cercato di evitare qualsiasi scontro con la chiesa in questi mesi e non

40
Luciano Larivera, Cristina Fernández de Kirchner, presidente dell’Argenti-
na, “La Civiltà Cattolica”, MMMDCCCLXX (2007), p. 602-611.
41
Sergio Rubin, Ritratto del Bergoglio che conosco, “Limes”, III (2013), p.
106. Cfr. Jorge Bergoglio, Papa Francesco: il nuovo papa si racconta, Con-
versazione con S. Rubin e F. Ambrogetti, Milano, Salani, 2013, p. 15-16; Mas-
simo Franco, Il Vaticano secondo Francesco. Da Buenos Aires a Santa Marta:
come Bergoglio sta cambiando la Chiesa e conquistando i fedeli di tutto il
mondo, Milano, Mondadori, 2014, p. 56.

202
ha mai fatto menzione ufficiale della polemica che da subito cominciò
a circolare riguardo al comportamento di Bergoglio durante l’ultima
dittatura militare che governò il Paese dal 1976 al 1983.42

Mi pare però che la crescita della povertà (strutturale) e della dise-


guaglianza (persistente) siano gli argomenti prioritari. Bergoglio “fa-
cendo eco a un messaggio di Benedetto XVI nel quale il papa aveva
giudicato scandalosa la povertà in Argentina, valutava che i poveri rap-
presentassero il 40% degli argentini e denunciava che da molti anni le
autorità politiche non si prendevano cura di loro”.43
Di recente l’Università Cattolica Argentina nel rapporto dal titolo
Evoluzione della povertà e indigenza e disuguaglianze sociali persi-
stenti44 ha fornito la drammatica situazione sociale che deriva “da un
modello economico e produttivo concentrato e squilibrato”, in partico-
lare dall’inflazione e dall’eliminazione dei sussidi alla spesa energetica.
Questa attenzione alla povertà e la polemica con la Kirchner forse è
“scaturita anche da una coscienza più viva di questa realtà, maturata nel
contatto più intenso del clero con le zone di miseria della capitale”.45

42
Verónica Roldán, L’Argentina cattolica del 2000, prima e dopo papa Fran-
cesco, “Visioni LatinoAmericane”, 10 (2014), p. 51-52. Cfr. Nello Scavo, La
lista di Bergoglio. I salvati da Francesco durante la dittatura. La storia mai
raccontata, Bologna, Emi, 2013.
43
Ivi, p. 98.
44
Più poveri in Argentina. Uno studio dell’università cattolica, “L’Osservatore
Romano”, 10 marzo 2017. Altri interessanti articoli si possono consultare nell’e-
dizione argentina del quotidiano della Santa Sede attraverso il sito “http://www.
osservatoreromano.va/it/tag/argentina”: Povertà a due cifre. Illustrati dal presi-
dente dei vescovi i dati sulla realtà dell’Argentina, 13 giugno 2015; Equità e
solidarietà. L’arcivescovo Arancedo a conclusione della plenaria dei vescovi ar-
gentini, 19 aprile 2016; Grandi e urgenti i bisogni dei poveri in Argentina, Caritas
invita a uno sforzo di generosità in occasione della prossima colletta, 9 giugno
2016; Oltre un milione di nuovi poveri. Rapporto dell’Università cattolica argen-
tina, 13 agosto 2016. Tutti i documenti sulla povertà in Argentina sono inoltre
consultabili nel sito dell’Observatorio de la Deuda Social Argentina dell’UCA.
45
Riccardo Cannelli, Francesco e l’America Latina: quando la Chiesa va a

203
Si intravvede una possibilità di cambiamento importante in occasione
delle presidenziali argentine del novembre 2015. Il quotidiano ufficia-
le della Santa Sede, in vista del ballottaggio tra i due candidati Scioli e
Macri, titolava “Ballottaggio in un Paese già cambiato”.46 Qualche mese
dopo, il 27 febbraio 2016, papa Francesco riceveva in udienza il nuovo
presidente della Repubblica di Argentina Mauricio Macri. Il comunicato
della Sala Stampa della Santa Sede riferisce di “buono stato dei rappor-
ti bilaterali”, dei temi di mutuo interesse trattati (es. rispetto dei diritti
umani, lotta a povertà e narcotraffico) e del “contributo positivo offerto
dall’episcopato e dalle istituzioni cattoliche nella società argentina”.47 Un
secondo incontro tra papa Bergoglio e Macri il 15 ottobre 201648 alla
vigilia della Santa Messa e della canonizzazione, tra gli altri, del bea-
to José Gabriel del Rosario Brochero. Un aspetto da sottolineare è poi
la preoccupazione espressa dai sacerdoti delle periferie di Buenos Aires
sulle misure prese a fine gennaio in materia di immigrazione e cittadi-

trovare la gente, “Limes”, p. 100-101.


46
Ballottaggio in un Paese già cambiato. Presidenziali argentine, “L’Osserva-
tore Romano”, 21 novembre 2015.
47
Si vedano inoltre Francisco y Macri: un pasado con tensiones y diferencias en
temas sensibles, con la collaborazione di E. Piqué e M. Obarrio, “La Nación”, 27
febbraio 2016; Maurizio Stefanini, Pochi sorrisi e tanta freddezza nell’udien-
za concessa dal Papa al presidente argentino Macri, “Il Foglio”, 27 febbraio
2016. Cfr. Joaquín Morales Solá, Francisco: “No tengo ningún problema con
Macri. Es una persona noble”, “La Nación”, 3 luglio 2016.
48
Questi alcuni dei principali titoli proposti da “La Nación” il 15 ottobre 2016:
¿Cuánto duró la segunda audiencia de Mauricio Macri con el papa Francisco?;
De qué hablaron Mauricio Macri y el papa Francisco en su segunda audien-
cia; Santiago Dapelo, Con una reunión cordial, Macri y el Papa superaron la
frialdad, “La Nación”; S. Dapelo, La audiencia de Macri y el Papa: una reu-
nión para dejar atrás conjeturas, “La Nación”. Cfr. En el Vaticano, Macri si-
gue partecipando, “Página/12”, 16 ottobre 2016; Eduardo Sarandí, Papa-Ma-
cri. Un rapporto ancora da costruire. I prossimi passi del governo saranno de-
cisivi. Soprattutto sul terreno della lotta alla povertà e al narcotraffico, “www.
terredamerica.com”, 27 febbraio 2016; Luis Alberto Romero, La lejana tutela
del papa Francisco, “La Nación”, 8 novembre 2016.

204
nanza: “Rischiano dunque di aggravare la frammentazione e le divisioni,
distruggendo il nostro sogno nazionale di popolo”.49
La Conferenza Episcopale Argentina nella sua assemblea plenaria
(11-15 aprile 2016) ha elaborato un documento dal titolo Il Bicentena-
rio della Indipendenza. Tempo d’incontro fraterno per gli argentini.50
Non si tratta di “una analisi sociologica né teologica della realtà” ma di
“una riflessione pastorale” che identifica i mali del paese: la corruzione,
il narcotraffico e il non rispetto dell’ambiente. Viene smentita invece
dallo stesso Santo Padre, a ottobre 2016, la possibilità di un viaggio in
Argentina nel corso del 2017.51

Cenni su alcune tematiche con potenziali sviluppi

In conclusione mi pare necessario richiamare alcuni fatti che pos-


sono avere dei potenziali sviluppi. Il più recente in ordine di tempo
riguarda la nomina del nuovo Ordinario militare per l’Argentina dopo
dieci anni di sede vacante. Il 28 marzo 2017 il Papa ha infatti nominato
in questo incarico mons. Santiago Olivera. Si tratta di un fatto molto
importante nelle relazioni bilaterali, che colma una lunga lacuna dopo
la vicenda e le dimissioni di mons. Baseotto. Il nuovo ordinario ha di-
chiarato: “Dobbiamo lavorare per l’unione di tutti, per guardare la sto-
ria con verità e giustizia, riconoscendo le colpe e cercando di costruire
una patria più riconciliata e fraterna”.52

49
Immigrazione e razzismo, “L’Osservatore Romano” (edizione argentina), 11
marzo 2017.
50
Si tratta del documento Bicentenario de la Independencia. Tiempo para el
encuentro fraterno de los argentinos.
51
Mariano De Vedia, Problema de agenda y de tiempo más adecuados, “La
Nación”, 1° ottobre 2016. Cfr. El Vaticano nunca ha indicado un viaje del
Papa a Argentina para el 2018. Declaración del portavoz de la Santa Sede a
la agencia Télam, “Zenit”, 30 marzo 2017.
52
Andrés Beltramo Álvarez, Il nuovo ordinario militare dell’Argentina: “Dob-
biamo sanare le ferite e andare avanti”, “www.lastampa.it/vaticaninsider”, 30

205
Non possiamo dimenticare gli incontri di papa Bergoglio nel no-
vembre 2014 con Estela Carlotto, presidente dell’associazione Nonne di
Piazza di Maggio e, nel maggio 2016, con Hebe de Bonafini, fondatrice
e presidente delle Madri di Piazza di Maggio. Per quest’ultima risulta
interessante l’interpretazione fornita dallo storico Loris Zanatta che ha
parlato di un “incontro ecumenico in nome della riconciliazione”.53
Infine, ma non ultimo, rappresenta un elemento di grande impor-
tanza la “catalogazione del materiale conservato negli archivi vaticani,
riguardante i documenti risalenti al tempo della dittatura in Argentina
(1976-1983)”.54 Oltre ad aprire alla consultazione questi archivi, i cui
tempi e condizioni saranno studiati di intesa con la Conferenza Episco-
pale Argentina, “si cerca tuttavia di rispondere a domande specifiche
per questioni particolari di carattere giudiziario (rogatorie) o umani-

marzo 2017. Cfr. Sergio Rubin, Papa Francisco designó a Monseñor Olivera
como nuevo obispo castrense para Argentina, “Clarín”, 28 marzo 2017; S. Ru-
bin, El nuevo obispo castrense, a favor de la prisión domiciliaria a represores,
“Clarín”, 9 aprile 2017.
53
Marina Artusa, La visita de Hebe al Papa es un cachetazo al gobierno
actual. Lo dijo el historiador italiano Loris Zanatta. Opina que la reunión es
‘una viveza’ política de parte de Francisco, “Clarín”, 27 maggio 2016. Il tutto
viene ripreso da “Il Manifesto”, 28 maggio 2016.
54
Papa Francesco aveva già manifestato l’intenzione di aprire alla consulta-
zione gli archivi vaticani relativi al tempo della dittatura in Argentina (1976-
1983). La conferma è venuta dalle dichiarazioni di padre Federico Lombardi ai
giornalisti della Sala stampa della Santa Sede. Vedi: Papa aprirà archivi vati-
cani riguardanti la dittatura in Argentina, “www.radiovaticana.va”, 23 marzo
2016. Cfr. Vescovi argentini sul golpe di 40 anni fa: mai dimenticare, a cura di
I. Piro, “www.radiovaticana.va”, 24 marzo 2016; Elisabetta Piqué, El Vaticano
apura la apertura de archivos de la dictadura, “La Nación”, 24 marzo 2016;
E. Piqué, La apertura de los archivos del Vaticano revelaría el rol del nuncio
Pío Laghi durante la dictadura, “La Nación”, 30 marzo 2016; Alver Metalli,
Il tempo di più verità. Apertura degli archivi vaticani e dittatura argentina.
Giustizia per i desaparecidos, giustizia per Pio Laghi. Intervista al giornalista
Luis Badilla, “www.lastampa.it/vaticaninsider”, 10 aprile 2016; E. Piqué, Paul
Gallagher: “Es necesaria la voluntad de todos los argentinos para cerrar las
heridas”, “La Nación”, 23 aprile 2016.

206
tario”.55 Il 25 ottobre del 2016 la Conferenza Episcopale Argentina e
la Segreteria di Stato hanno comunicato la conclusione del “processo
di organizzazione e digitalizzazione” di questo materiale, mentre dal
maggio 2017 sono disponibili il protocollo e il modulo per l’inizio delle
consultazioni degli archivi.56

55
Papa aprirà archivi vaticani riguardanti la dittatura in Argentina, “www.
radiovaticana.va”, 23 marzo 2016. Cfr. Francesco Peloso, Il Vaticano apre gli
archivi sulla dittatura argentina, “www.internazionale.it”, 30 marzo 2016.
56
El Episcopado dio a conocer el protocolo para la consulta de archivos del
período 1976-1983, “Aica”, 18 maggio 2017. Protocolo para la consulta del
material archivistico relativo a los acontecimientos argentinos (1976-1983)
conservados en la Conferencia Episcopal Argentina, la Nunciatura Apostolica y
en la Secretaría de Estado de la Santa Sede: http://www.episcopado.org/portal/
actualidad-cea/oficina-de-prensa/item/1452-protocolo-para-la-consulta-de-
archivos.html.

207
METAMORFOSI DELLA CITTADINANZA IN ARGENTINA
di Benedetta Calandra

Questo saggio intende proporre alcuni elementi di riflessione sul-


le profonde modifiche che il complesso percorso della cittadinanza in
Argentina ha vissuto soprattutto in seguito alla frattura prodotta dall’ul-
tima dittatura militare (1976-1983) e la successiva ricomposizione e
riarticolazione nelle transizioni democratiche che a essa sono seguite.
Si tratta di processi portatori di una pluralità di istanze per molti versi
inedita, che testimonia la vivacità di una società civile in precedenza
schiacciata nell’esercizio dei diritti umani più elementari e attualmente
legata a nuove linee ideali di alleanze e appartenenze comuni fondate
sull’etnia, il genere, la difesa dell’ambiente.
In ultima analisi si vorrebbe prestare attenzione, seppur in termini
estremamente sintetici, all’evoluzione del genere come categoria del-
la politica, inteso nella duplice accezione di tensione astratta ai diritti
delle donne e di partecipazione effettiva della componente femminile
nelle nuove istituzioni democratiche. L’esempio argentino delle quote
rosa in politica, poi seguito da molti altri casi paese, ci potrebbe indurre
pertanto a rileggere il cosiddetto “decennio perduto” latinoamericano
come genesi di un processo nuovo e originale di riformulazione della
cittadinanza. In questo senso, l’America Latina rappresenterebbe non
più una sorta di specchio distorto del percorso occidentale, bensì un
laboratorio creativo cui guardare con attenzione nel presente.1

1
Daniele Pompejano, L’America Latina contemporanea. Tra democrazia e merca-
to, Roma, Carocci, 2006. Un momento importante di riflessione collettiva sulle te-
matiche esposte è stato in questo senso il Convegno Frontiere della globalizzazio-
ne: diritti, istituzioni, politica, Università di Messina, Intercenter, dicembre 2012.

209
Una cittadinanza disintegrata e ricostruita

Un paradosso diffuso relativo ai diritti umani, ci ricorda Antonio Cas-


sese, è che vengano invocati quasi sempre in caso di rottura di un ordine
prestabilito, di abusi perpetrati, di brusco e arbitrario sovvertimento di
uno stato di diritto: dunque, in tutti quei contesti in cui questi vengono
sistematicamente violati.2 Non è un caso che la comunità internazionale
inizi ad associare la difesa dei diritti umani elementari al contesto latinoa-
mericano nella cornice temporale delle più recenti dittature militari: espe-
rimenti autoritari di violenza inedita, sia dal punto di vista qualitativo sia
da quello quantitativo. Dalla metà degli anni Sessanta del Novecento il
caso del Guatemala, quello del Brasile, seguiti poi dai golpes di Uruguay,
Cile (1973), Argentina (1976),3 presentano tratti peculiari che segnano
una profonda rottura rispetto a numerosi precedenti di governi militari
e di uomini forti. È la prima volta che la repressione politica si esercita
con questo grado di scientificità, pianificazione assoluta. La famigerata
tecnica delle desapariciones, le scomparse forzate, ad esempio, incarna la
morte seriale e il crimine perfetto, quello senza cadavere, senza corpo del
reato, senza possibilità di compimento del lutto per i congiunti della vitti-
ma.4 Le cifre, inoltre, riportano a loro volta a una dimensione quantitativa
senza precedenti: decine di migliaia di vittime, quando non centinaia di
migliaia, come per il caso guatemalteco.
Il caso latinoamericano costituisce una implicita ma evidente con-
ferma di come il percorso dei diritti sia sempre storicamente determi-
nato, mai lineare, né scontato nel suo esito,5 proprio come sostiene

2
Antonio Cassese, I diritti umani nel mondo contemporaneo, Bari, Laterza,
1994, p. v.
3
Luis Roniger e Mario Sznajder, The Legacy of Human Rights Violations in
the Southern Cone. Argentina, Chile and Uruguay, Oxford, University Press,
1999.
4
Benedetta Calandra, La memoria ostinata. H.I.J.O.S.,i figli dei desaparecidos
argentini, Roma, Carocci, 2004.
5
Marcello Carmagnani e Chiara Vangelista, La cittadinanza in America latina,
in I nodi storici delle aree latino-americane, secoli XVI-XX, eds. C. Vangelista

210
Norberto Bobbio.6 Nella sua “involuzione”, il contesto argentino sem-
brerebbe smentire sistematicamente la possibilità concreta di applica-
re paradigmi di tipo “Marshaliano”.7 Non presenta infatti un percorso
progressivo e cumulativo lungo il quale la cittadinanza si arricchisce
continuamente di nuove conquiste civili, politiche, sociali.8 Nono-
stante ripetute svolte autoritarie, a Buenos Aires le donne votavano
dal 1947, un sistema di Welfare ereditato dal peronismo regolamen-
tava le dinamiche previdenziali e assistenziali del lavoro e l’opinione
pubblica godeva di una pluralità di mezzi di comunicazione. Una si-
tuazione che – senza sacrificare le specificità locali – poteva risultare
per diversi aspetti paragonabile ai parametri di sviluppo dei paesi oc-
cidentali. Eppure dal golpe del 1976 ogni comune cittadino, come mai
prima di quel momento, vede quotidianamente messi a repentaglio i
diritti più elementari, il diritto di opinione, di associazione, il diritto
all’integrità fisica e psichica. Lo spettro di partiti e associazioni viene
smembrato, i giornali censurati.9
La storiografia recente ha sottolineato, tuttavia, come la soppressione
dei diritti più elementari implicita nella cosiddetta guerra sporca con-
dotta da militari e paramilitari verso qualsiasi forma di dissenso abbia

e M. Carmagnani, Torino, Otto, 2001, p. 415-424.


6
“Dal punto di vista teorico ho sempre sostenuto, e continuo a sostenere, con-
fortato da nuovi argomenti, che i diritti dell’uomo, per fondamentali che siano,
sono diritti storici, cioè nati in certe circostanze, contrassegnate da lotte per la
difesa di nuove libertà contro vecchi poteri, gradualmente, non tutti in una vol-
ta, e non una volta per sempre”. Cfr. Norberto Bobbio, L’età dei diritti, Torino,
Einaudi, 1997, p. xiii.
7
Ci si riferisce al fortunato testo del sociologo inglese Thomas Humphrey Mar-
shall del 1952, Citizenship and Social Class, (trad. it. Torino, UTET, 1976),
in cui si teorizza un percorso di integrazione sociale per fasi successive, che
fonderà le basi per un duraturo dibattito internazionale su cittadinanza e diritti.
8
Raffaele Romanelli, Una lettura storica della cittadinanza politica, in Le
cittadinanze di fine secolo in Europa e America latina, eds. A. Annino e M.
Aymard, Soveria Mannelli, Rubbettino, 1996, p. 67-75.
9
Marguerite Feitlowitz, Lexicon of Terror. Argentina and the Legacies of Tor-
ture, Oxford, University Press, 1998.

211
prodotto anche molteplici forme di resistenza collettiva. I parenti dei
prigionieri politici e degli scomparsi si organizzano in associazioni che
nell’arco di pochi anni conquistano visibilità presso l’opinione pubblica
internazionale.10
Le donne, in particolare, vengono costrette a irrompere nello spazio
pubblico in risposta alle violente irruzioni subite nel loro spazio priva-
to, come i rastrellamenti notturni nelle loro case. E paradossalmente,
in molti casi, la progressiva acquisizione di identità politica avviene
in maniera del tutto imprevista. Da un lato, infatti – è il caso di Madri
e Nonne di Plaza de Mayo – non vengono percepite inizialmente nella
loro soggettività politica dai militari, che le chiamano “le pazze”, come
se le loro marce circolari non rappresentassero altro che uno sfogo di
dolore, privo di una precisa intenzionalità di denuncia.
Dall’altro, i soggetti femminili che si battono con coraggio in difesa
dei diritti umani non sono inizialmente consapevoli della portata delle
loro proteste, né vantano un percorso politico pregresso di consapevo-
lezza di diritti fondamentali e meno ancora di diritti di genere. Come ci
ricorda Jelin, i percorsi delle “donne per i diritti umani” e quelli delle
“donne per i diritti delle donne” sono percorsi paralleli (anche cronolo-
gicamente), ma che spesso non trovano punti d’incontro.11
È certo comunque che questa forte compressione esercitata dall’alto
dei regimi burocratico-autoritari12 ha comportato, come reazione di me-
dio periodo, un’espansione orizzontale di forme di aggregazione socia-
le. Le associazioni che nel momento dell’emergenza sono state create

10
Maria Rosaria Stabili, Il movimento delle madri in America latina, in A volto
scoperto: donne e diritti umani, ed. S. Bartoloni, Roma, Manifestolibri, 2002,
pp. 133-155. Benedetta Calandra, Le Nonne di Plaza de Mayo, “Storia delle
Donne”, 2 (2006), p. 231-242.
11
Elizabeth Jelin, Women, Gender, and Human Rights, in Constructing De-
mocracy. Human Rights, Citizenship and Society in Latin America, eds. E.
Jelin, Eric Hershberg, San Francisco, Westview Press, 1996, p. 178-193.
12
Guillermo O’Donnell, Modernization and Bureaucratic Authoritarianism,
Berkeley, University of California, 1973. Id., El estado burocrático-autoritario,
1966-1973: Triunfos, derrotas y crisis, Buenos Aires, Editorial de Belgrano, 1982.

212
attorno alla difesa di diritti umani più elementari, durante le successive
transizioni alla democrazia hanno visto un’articolazione in soggetti e
tematiche per molti versi inedite. Nel complesso processo di ricostruzio-
ne democratica degli anni Novanta del Novecento,13 lo scenario latinoa-
mericano più che l’immagine di un “Occidente estremo”14 sembrerebbe
piuttosto evocare quella di un originale laboratorio di nuove soluzioni po-
litiche, che vive di un rinnovato contratto sociale tra Stato e società civile.
Movimenti femministi, ecologisti, indigenisti, associazioni di quartiere
sono solo alcune delle vie della nuova cittadinanza latinoamericana, sem-
pre più plurale. Il cosiddetto “decennio perduto” per l’America Latina, gli
anni Ottanta della crisi del debito e della soppressione dei diritti, ha però
anche prodotto questo spettro di forze, che esulano dai tradizionali canali
di rappresentanza. In senso lato, molti studiosi li hanno ascritti ai cosid-
detti social movements, fenomeno di carattere transnazionale che di certo
non investe solamente l’America Latina,15 ma che vede in quest’area una
delle esponenti più feconde.

“Cittadinanza autonoma” e metamorfosi della rappresentanza


politica

A oggi, in America Latina, la mobilitazione passa dunque per nuove


soggettività e nuovi attori sociali, che in molti casi si esprimono al di
là delle forme partitiche. Molti dei partiti esistenti fino all’epoca del-

13
Evelina Dagnino [et al.], La disputa por la construcción democrática en
América Latina, México D.F., Ciesas/Universidad Veracruzana, 2006.
14
Alain Rouquié, L'America latina. Introduzione all’Estremo Occidente, Mila-
no, Mondadori, 2007, p. 12.
15
Alain Touraine, An Introduction to the Study of Social Movements, “Social
Research”, vol. 52, n. 4 (Winter 1985); Donatella Della Porta e Mario Diani,
Social Movements, Oxford, University Press, 1999; Joe Foweraker, Theorising
Social Movements, London, Pluto Press, 1995; Sidney Tarrow, National Pol-
itics and Collective Action: Recent Theory and Research in Western Europe
and the United States, “Annual Review of Sociology”, 14, (1988), p. 421-440.

213
le “compressioni autoritarie”, piuttosto, si sono trovati nelle fasi della
post transizione fortemente ridimensionati nel consenso, se non messi
in crisi. I processi di consolidamento democratico si giocano oramai su
una pluralità di istanze che vanno ben oltre la conquista del ritorno alle
urne. Il voto, ci ricorda Davide Grassi, costituisce una sorta di “condi-
zione necessaria”, ma certo non sufficiente, per parlare di democrazia
piena: quasi si trattasse di un prerequisito che, ristabilendo le basilari
regole del gioco della cittadinanza politica, deve necessariamente pre-
ludere a un percorso più completo.16
Il caso argentino si rivela esemplificativo. Ci troviamo di fronte
a una democrazia elettorale in cui, a detta di politologi come Isidoro
Cheresky, i poteri corporativi, specialmente le forze armate, sono par-
zialmente retrocessi, non sono più in grado di porre un veto alle orga-
nizzazioni sindacali e imprenditoriali, i cittadini votano regolarmente e
l’opinione pubblica è garantita da una pluralità di mezzi di comunica-
zione. Eppure, in accordo alla lettura di questo studioso, in questa stessa
cornice temporale, corrispondente essenzialmente ai mandati presiden-
ziali di Carlos Menem (1989-1999) e Néstor Kirchner (2003-2007), si
registra una crescente autonomia nel comportamento cittadino e una
progressiva mancanza di fiducia nei rappresentanti della politica.17
Probabilmente – ipotizza Cheresky – la debolezza cronica nei con-
fronti del regime repubblicano che l’Argentina ha mostrato nel corso di
diverse svolte autoritarie durante il Novecento ha contribuito alla crisi
dei partiti anche in questa fase, in cui il destino della nazione è evoluto
rapidamente in una macrocornice di cambiamenti. Si analizza dunque
un diffuso sentimento di sfiducia collettiva nonostante il diritto al vo-
to.18 Ed è proprio in questa crisi dei soggetti politici tradizionali che
16
Davide Grassi, La democrazia in America Latina. Problemi e prospettive del
consolidamento democratico, Milano, Franco Angeli, 1999.
17
Isidoro Cheresky, Representación política y contrademocracia, “Revista de
Ciencias Sociales de la Facultad de Ciencias Sociales”, n.78, (2011), Buenos Aires.
18
Isidoro Cheresky (ed.), Las urnas y la desconfianza ciudadana en la demo-
cracia argentina, Universidad de Buenos Aires-Instituto de Investigaciones
Gino Germani, 2009.

214
nell’esercizio del governo si vedono messi a dura prova nello spazio
pubblico, che emergono nuove possibilità di espressione della cittadi-
nanza. L’America Latina partecipa di fatto a un processo complessivo
di “trasformazione strutturale della sfera pubblica”, in cui si ridefinisco-
no profondamente i rapporti tra cittadinanza, rappresentanza politica e
legittimazione del nuovo sistema politico democratico.19
Nello spazio pubblico attuale assistiamo dunque a una riconfigurazio-
ne profonda delle identità politiche; sulla scia dell’analisi di Bernard Ma-
nin, la categoria di mutazione o metamorfosi della rappresentanza coglie-
rebbe magistralmente, secondo Cheresky, i tratti essenziali dello scenario
politico argentino. Questo mutamento radicale non andrebbe letto come
un fenomeno congiunturale o passeggero del sistema dei partiti, ma come
un vero e proprio sistema democratico diverso da quello instauratosi con
le prime libere elezioni seguite alla dittatura, nel 1983.20
Si tratta appunto di un sistema nuovo, cha trascende lo specifico
contesto nazionale perché inserito in una tendenza globale, condivisa di
fatto dalla maggior parte delle moderne democrazie occidentali. L’A-
merica Latina rappresenta in questo senso un laboratorio, che sembre-
rebbe addirittura anticipare l’andamento di processi già in atto altrove,
cioè la formazione di quel che è stata definita cittadinanza vigile, “al
centro della scena”.21 Con questa formula si allude a un tratto dell’at-
19
Jürgen Habermas, The Structural Transformation of the Public Sphere, Cam-
bridge, 1989. Pierre Rosanvallon, La légitimité démocratique. Impartialité, ré-
flexivité, proximité, Paris, Points Essais, Seuil, 2008. Alberto Olvera Rivera,
Democratización, Rendición de Cuentas y Sociedad Civil: Participación Ciu-
dadana y Control Social, México, Miguel Ángel Porrúa/CIESAS/Universidad
Veracruzana, 2006.
20
Guillermo O’Donnell, Acerca del estado, la democratización y algunos
problemas conceptuales. Una perspectiva latinoamericana con referencias a
países poscomunistas, “Desarrollo Económico”, Buenos Aires, vol. XXXIII,
n. 130, (1993).
21
Isidoro Cheresky, La ciudadanía en el centro de la escena, Encuentro de
Latinoamericanistas Españoles, Santander: Viejas y nuevas alianzas entre
América Latina y España, 2006, s.l., España. CEEIB, p. 827-834, 2006, in
https://halshs.archives-ouvertes.fr/halshs-00103845/document.

215
tuale scenario che sembra tutt’altro che passeggero, un costante e non
scontato processo di legittimazione cui il governo viene periodicamente
sottoposto a opera di una cittadinanza sempre più autonoma, rappresen-
tata da uno spettro di associazioni molto variegato (es. gruppi ambien-
talisti, consumatori critici etc.). La legittimazione non si esaurirebbe
allora con l’appuntamento elettorale, bensì andrebbe considerata come
un processo continuo.22
Cheresky rammenta come la situazione argentina oggi, più che in un
paradigma classico di democrazia (quella della polis greca, partecipativa,
dove la comunità prevale sull’individuo), rientra piuttosto in un paradig-
ma moderno, centrato su uno Stato di diritto che si fa garante dei singoli
di fronte all’insieme: un cittadino “governante”, più che governato.23
Diverse esperienze di democrazie occidentali sembrerebbero con-
fermare questa profonda metamorfosi24 della rappresentanza. Le forze
politiche tradizionali si vedono continuamente sfidate a riformulare i
vincoli che le legano ai cittadini, in uno spazio pubblico sempre più
esteso e profondamente trasformato. La sfiducia diviene sentimento
condiviso, secondo autori come Rosanvallon,25 mentre altri, come To-
rre, più che a una metamorfosi alludono a una vera e propria crisi della
cittadinanza, caratterizzata dalla distanza tra la vitalità delle aspettative

22
Isidoro Cheresky (ed.), Ciudadanía y legitimidad democrática en América
Latina, Buenos Aires, CLACSO-Prometeo, 2011.
23
Riferimenti su possibili paradigmi, classici o moderni di cittadinanza e de-
mocrazia in John G. Pocock, The Ideal of Citizenship Since Classical Times,
in Theorizing Citizenship, ed. R. Beiner, Albany, State University, 1995; Hugo
Quiroga, Déficit de ciudadanía y transformaciones del espacio público, in
Ciudadanía, Sociedad Civil y Participación Política, ed. I. Cheresky, Buenos
Aires, Miño y Dávila, 2006.
24
Alain Touraine, Comunicación política y crisis de la representatividad, in El
nuevo espacio público, eds. J. M Ferry e D. Wolton [et. al.], Barcelona, Gedi-
sa, 1995; Bernard Manin, Los principios del gobierno representativo Madrid,
Alianza, 1998.
25
Pierre Rosanvallon, La contrademocracia. La política en la era de la
desconfianza, Buenos Aires, Manantial, 2007.

216
democratiche e il comportamento effettivo dei partiti.26 Questi ultimi
si trasformano in depositari di forme di adesione fluttuante e non più
stabile, condizionata dai momenti e non più garantita e permanente. In
questo nuovo spazio allargato per i poteri politici, un nodo tutto in evo-
luzione diviene quindi la ricerca di legittimità dei cittadini consapevoli
e portatori di istanze sempre più specifiche e variabili: soggetti attivi e
regolatori della vita democratica.
Lo scenario latinoamericano viene oggi animato da una pluralità di
attori, molti dei quali rappresentano l’eredità creativa e resistente dei
decenni di autoritarismo. Tra le novità più interessanti si segnalano non
solo le associazioni in difesa dei diritti umani, tra le prime responsabi-
li a suggerire nuovi “codici” di rifondazione della politica, ma anche
gruppi ambientalisti, indigenisti e – la componente che forse maggior-
mente ha conquistato visibilità pubblica – quelli centrati su istanze di
genere. È in particolare su quest’ultima categoria, intesa come genere
femminile, e nella duplica accezione sia di tensione astratta ai diritti
delle donne, sia di partecipazione effettiva della componente femminile
nelle nuove istituzioni democratiche, che s’intende ora esprimere alcu-
ne brevi considerazioni.

L’irruzione del genere in politica: presidentas e quote rosa

Per un paradosso forse solo apparente, mai come oggi l’America


Latina presenta un panorama di eccezionale, inedito protagonismo fem-
minile e al contempo di efferati episodi di violenza perpetrati sulle don-
ne, che giungono sovente al femminicidio. Sarebbe opportuno in altro
contesto indagare sui possibili nessi tra i due fenomeni, approfondire
se, e ipoteticamente in che misura, possano considerarsi uno reazione
estrema all’altro. Tuttavia in questa sede vale la pena ricordare molto

26
Juan Carlos Torre, Los huérfanos de la política de partidos: sobre la natu-
raleza y los alcances de la crisis de representación partidaria, “Desarrollo
Económico”, 168, XLII (2003).

217
sinteticamente come la cittadinanza “in rosa” costituisca, per la sua ri-
levanza simbolica e materiale, un processo molto consistente nei primi
anni Duemila.
Come ci ricorda Stabili,

negli ultimi anni sono molte le donne che ricoprono la carica di sinda-
co nelle capitali e in importanti città della regione; cinque sono state
elette Presidenti della Repubblica (Violeta Barrios Chamorro in Nicara-
gua; Michelle Bachelet in Cile; Cristina Fernández in Argentina; Laura
Chinchilla in Costa Rica; Dilma Rousseff in Brasile).27

Cinque donne capi di Stato, numerose le esponenti sia nelle gran-


di capitali, sia a livello municipale. La visibilità di donne alle cariche
più elevate è stata ai primi anni Duemila al massimo storico, nel sub-
continente. Si tratta di una dinamica regionale di inedito protagonismo
femminile, soprattutto per quel che concerne le alte sfere della politica.
Per citare alcuni dati di carattere generale, basti riflettere ad esempio su
quelli del Foro Eurolatinoamericano de las Mujeres, “meccanismo ex-
tra-parlamentare riconosciuto dall’assemblea parlamentare EuroLat”,
consolidatosi anche grazie a diversi vertici internazionali (Siviglia,
maggio 2010, Amburgo, aprile 2012).28
In prospettiva regionale, se nel corso dei primi dieci anni del nuovo
millennio quasi il 42% dei paesi latinoamericani si trovano governati da
donne è dovuto in gran parte a una specifica legge di quote, approvata
per la prima volta dall’Argentina nel 1991 e successivamente da molti
altri stati. In particolare, Brasile, Costa Rica, Ecuador, Bolivia, Honduras,
Messico, Panama, Paraguay, Perú, Venezuela, Repubblica Dominicana e
Uruguay godono al momento attuale di una legislazione che contempla
precisi equilibri di genere in termini di candidature.

27
Maria Rosaria Stabili, Il protagonismo delle donne nell’America Latina del
Novecento, in Nuove frontiere per la storia di genere eds. L. Guidi, M.R. Pel-
lizzari, Salerno, Università di Salerno, 2013, p. 355.
28
http://www.cumbreacademica-alcue.cl/en/pdf/mujer.pdf.

218
Recavarren, ricercatrice del Foro, illustra con dati dell’Osservatorio
per l’uguaglianza di genere della Commissione Economica per l’Ame-
rica Latina (CEPAL) la partecipazione femminile nella sfera del Potere
Legislativo e del Potere Esecutivo nella regione. Stando ai dati forniti
nel Informe Anual 2011, si noti che il tasso medio di presenza femminile
nel Legislativo è del 23%. In ordine decrescente, i primi tre paesi sono
rispettivamente Cuba, con il 43,2%, seguita da Costa Rica (38,6%), Ar-
gentina (38,5%) ed Ecuador (32,3%); Colombia e Paraguay, agli ultimi
posti, si attestano attorno al 12%.29 Per quanto concerne invece l’Ese-
cutivo, troviamo ai primi posti il Nicaragua, con il 55,6%, il Costa Rica
col 45%, mentre tra gli ultimi si colloca la Repubblica dominicana con
poco più del 10%.
In conclusione, come sottolinea Stabili,

[…] tra il 1991 (Argentina) e il 1998 (Venezuela), dieci paesi dell’Ame-
rica Latina hanno approvato le quote rosa. Questa tendenza regionale
non ha precedenti nella storia mondiale. Nel 2009 occupano il 21% dei
seggi dei parlamenti latinoamericani su una media mondiale del 18%.
Si sono imposte, nella maggior parte dei casi, grazie al loro radicamen-
to nella società e non per designazioni avvenute dalle segreterie dei par-
titi. Tra grandi problemi e contraddizioni è ancora necessario percorrere
un lungo cammino ma la sensazione è che tale tendenza è, in qualche
modo, irreversibile.30

Considerazioni conclusive: il “laboratorio latinoamericano”

Compressa e schiacciata come una molla durante i decenni bui degli


anni Settanta e Ottanta, la cittadinanza latinoamericana sembra a oggi
spiccare un balzo e mostrare rinnovata vitalità al Vecchio Continente

29
Ibidem.
30
M.R. Stabili, Il protagonismo delle donne nell’America Latina del Novecen-
to, p. 355.

219
e al mondo intero. Nascono soluzioni inedite e originali, che in buona
parte esulano dai tradizionali paradigmi utilizzati per decodificare que-
sta realtà, ripetutamente vista come “Occidente del Terzo Mondo” o
“Terzo Mondo dell’Occidente”.
Molteplici sono gli aspetti di novità. Dal Forum di Porto Alegre del
2002 arrivano suggerimenti interessanti di gestione locale delle risorse,
come il bilancio partecipativo; la terribile crisi economica argentina di
inizio millennio ha dato vita, simultaneamente, a una nuova ondata di
povertà, a capillari forme di organizzazione collettiva come le impre-
se recuperate; dalla dorsale andina arrivano chiari segnali di nuove e
più articolate forme di movimenti indigenisti a carattere transnazionale,
centrate sulle risorse simboliche e immateriali, oltre che materiali, di
un territorio.31
La cospicua presenza di presidentas e le cifre appena esposte in
termini di quote rosa nella politica locale e nazionale, infine, sembra-
no fornire ulteriore conferma delle potenzialità di un continente che,
più che specchio deformante o deformato delle conquiste occidentali,
si presenta come un vero e proprio laboratorio creativo cui guardare
con grande attenzione, se non da considerare una realtà da cui prendere
esempio.

31
Federica Morelli, La sfida dell’etnonazionalismo. I casi di Bolivia, Ecuador
e Perù, “Giano”, n. 52, XVIII (2006), p. 165-178.

220
LA COSTRUZIONE DEL PARTITO PROPUESTA REPUBLICANA
E LA VITTORIA DI MAURICIO MACRI
di Tiziana Bertaccini

La vittoria di Mauricio Macri nelle elezioni del 2015 ha messo


fine a dodici anni di governo kirchnerista e ha segnato l’inizio di un
cambiamento politico in America Latina che vede il tramonto dell’era
dei governi progressisti. La nascita del partito Propuesta Republica-
na (PRO), fondato da Mauricio Macri, che in pochi anni è passato
dall’essere una formazione puramente locale a nazionale, costitui-
sce un fenomeno di grande rilievo nel sistema politico argentino ed
è anche espressione del processo di mutamento della politica vissuto
dall’America Latina.
A partire dalla transizione democratica del 1983 il sistema politi-
co argentino si era consolidato in un bipartitismo imperfetto dominato
dalle due principali forze politiche tradizionali: il Partito Justicialista
(PJ), o peronismo, e l’Unión Cívica Radical (UCR), o radicalismo, che
si sono alternati al potere. Nonostante l’esistenza di “terze forze” si
era trattato per lo più di formazioni con vita breve o di partiti a livello
provinciale.1 In questo scenario la nascita e la vittoria di un terzo partito
che compete e vince nell’arena politica nazionale ha rappresentato un
elemento di indiscussa novità.

1
Fra il 1983 e il 2003 radicali e peronisti si sono alternati al potere: il PJ ha
esercitato la presidenza durante 12 anni e l’UCR per 8 anni. Nel complesso,
secondo la definizione di Malamud (che distingue tre livelli: il sistema presiden-
ziale bipartitico, il senatoriale predominante e quello dei deputati pluralista mo-
derato) il funzionamento del sistema partitico è stato bipolare. Andrés Malamud,
El bipartitismo argentino: evidencia y razones de una persistencia (1983-2003),
“Revista uruguaya de Ciencias Políticas”, vol. XIV (2004), p. 137-171.

221
Sebbene le analisi sul PRO siano ancora piuttosto esigue data la sua
recente formazione, alcuni accademici e analisti politici lo hanno defi-
nito un partito di centro-destra vicino alla tradizione liberale-conserva-
trice.2 La sua vittoria ha suscitato reazioni avverse da parte dei leader
del blocco dei cosiddetti paesi progressisti della regione, che hanno
agitato lo spettro del “trionfo della destra” e del “ritorno al neoliberali-
smo”, e la stampa internazionale ha spesso riprodotto l’immagine di un
Macri derechista, conservador e neoliberal.
Bisogna ricordare che durante il XX secolo in Argentina è mancato
un grande partito di destra elettoralmente competitivo e le poche ec-
cezioni si sono presentate a livello locale e provinciale.3 Parte della
letteratura ha attribuito alla carenza di una destra partitica una delle
cause dei ripetuti colpi di stato e dei disordini nel paese, sebbene non sia
ancora del tutto chiara la relazione di causa ed effetto fra tali fenomeni.4
Il partito Propuesta Republicana è nato e si è sviluppato intorno
all’identità di essere un’espressione politica nuova.
Le origini della formazione di Propuesta Republicana si trovano
nel difficile contesto del 2001, segnato dal collasso del sistema bipar-
titico, con la disgregazione del sistema dei partiti a livello nazionale e
una forte frammentazione, che aprì una persistente crisi politica.5 Lo
stesso peronismo fortemente diviso al suo interno si era trasformato
in qualcosa di simile a una galassia di partiti a livello provinciale,
assomigliando più a una confederazione di partiti con leadership stret-
tamente territoriale che a un vero e proprio partito nazionale. Allo

2
Ernesto Bohoslavsky, Sergio Morresi, El partido Pro y el triunfo de la nue-
va derecha en Argentina, “Amérique Latine Historie et Mémoire. Les Cahier
ALHIM”, n. 32 (2016), http://alhim.revues.org/5619.
3
Alcuni studi raggruppano sinteticamente la destra argentina in due principali
famiglie: quella nazionalista-cattolica e quella liberale-conservatrice. Ibidem.
4
Per un approfondimento sulle destre nel Cono Sud vedi Ernesto Bohoslavsky,
Olga Echeverría (comps.), Las derechas en el Cono Sur, Siglo XX, Actas del
taller de discusión, Universidad Nacional de General Sarmiento, 2011.
5
Ricardo Sidicaro, El partido peronista y los gobiernos Kirchneristas, “Nueva
Sociedad”, n. 234 (2011), p. 75-94.

222
stesso tempo il fenomeno di depoliticizzazione della società raggiun-
geva il suo apice con una vertiginosa crescita di sfiducia verso le isti-
tuzioni, e in particolare verso i partiti politici, che nel 2002 toccò la
soglia minima del 4%.6
In questo scenario nel 2002 Mauricio Macri annunciò la sua candida-
tura al governo di Buenos Aires iniziando così il suo cammino politico
dalla dimensione locale, dalla capitale che era stata teatro delle recenti
proteste. Proprio lì la retorica “no hay voluntad de cambio suficiente en
la dirigencia política” poteva aver maggior presa sull’attivismo ancora
vivo nei barrios, nelle cooperative e nei movimento territoriali.7
Nel febbraio del 2003, alla vigilia delle elezioni, nacque ufficialmente
Compromiso para el Cambio (CPC), il partito del distretto porteño pre-
cursore del PRO. I soggetti da cui prese vita CPC erano la Fondazione
Creer y Crecer e il Grupo Sophia un think thank creato negli anni ’90.8
Un amalgama originale, dove la Fondazione Creer y Crecer svolgeva un
ruolo di primo piano. La Fondazione era nata nel 2001, nel momento
di massimo rifiuto della politica, e fu strategicamente pensata come uno
“strumento di interazione della politica”.9 Creer y Crecer era stata fondata
dall’imprenditore Francisco De Narváez e diretta da Mauricio Macri, fi-
glio di un importante imprenditore e soprattutto presidente della squadra
di calcio Boca Junior, incarico che gli dette non solo popolarità ma anche
6
Dal 38% nel 1987 al 4 % nel 2002. Ibidem.
7
“Non c’è una sufficiente volontà di cambiamento nella dirigenza politica”
in Macri bajó de la candidatura a presidente y peleará por la Ciudad, “La
Nación”, 15 luglio 2002.
8
Il Grupo Sophia fu fondato nel 1994 dal peronista Horacio Rodríguez Larreta
come organizzazione specializzata nel disegno di politiche pubbliche. Sulla for-
mazione del partito nella Città di Buenos Aires vedi Gabriel Vommaro, Sergio
Morresi, Unidos y diversificados: la construcción del partido PRO en la CABA,
“Rivista SAAP-Publicación de Ciencia Política de la Sociedad Argentina de
Análisis Político”, vol. VIII (2014), p. 357-417. Sul PRO vedi: Sergio Morresi
e Gabriel Vommaro (comps.), Hagamos Equipo: Pro y la construcción de la
nueva derecha en Argentina, Buenos Aires, UNGS, 2015.
9
Intervista con Julián Nuñez, militante del PRO, realizzata via Skype, 22 giu-
gno del 2016.

223
una legittimità fondata su attributi diversi da quelli imprenditoriali.10 Sin
dal nascere le figure di spicco furono Horacio Rodríguez Larreta, oggi
sindaco della città di Buenos Aires, e Marco Peña, oggi Capo di Gabi-
netto del governo e ideologo del partito. Durante la crisi del 2001 si era
“scongelato” il campo non peronista del sistema politico, così insieme a
questa fisionomia tecnica di imprenditori, di professionisti e di outsider,
Compromiso para el Cambio aveva attratto anche frammenti dei partiti di
centro-destra del vecchio sistema collassato.11
Grazie alla Fondazione fu possibile aggregare soggetti nuovi: gli
imprenditori, i giovani, che saranno un attore fondamentale nel PRO, e
le organizzazioni non governative. Grazie all’apporto economico degli
imprenditori la Fondazione ha potuto realizzare un’importante attivi-
tà sociale nei barrios della città. A ben vedere si trattò di una precisa
strategia, una maniera di fare politica senza essere un partito politico
tradizionale: “[…] arreglar plazas, armar una cancha de futbol nueva,
arreglar los juegos de un parque, ir a un comedor a dar una mano, se
hacía mucha contención social, era una manera de hacer política pero
sin ser político. Siempre con el sello de la Fundación”.12
A Buenos Aires il ruolo sociale della Fondazione si svolse prevalen-
temente durante i suoi primi momenti di vita. In seguito, con la nascita
di Compromiso para el Cambio, l’attività divenne più prettamente po-
10
Sulla biografia di Mauricio Macri vedi Norberto Galasso, Mauricio Macri
– La vuelta al pasado, Buenos Aires, Colihue, 2015. In seguito all’elezione
che ha portato Macri alla presidenza la letteratura giornalistica è aumentata a
dismisura. Sul processo di costruzione dell’immagine di Macri come leader
politico vedi Gabriela Mattina, De Macri a Mauricio, in S. Morresi e G. Vom-
maro (comps.), Hagamos Equipo, p. 71-109.
11
Partido Federal, Demócrata, Démocrata Progresista, Acción por la Repúbli-
ca. Sebastián Mauro, La transformación del sistema político argentino y sus
nuevos actores. La construcción propuesta republicana como partido político
nacional (2003-2013), “Analecta política”, vol. V, n. 9, p. 415.
12
“[…] sistemare le piazze, costruire un campo di calcio nuovo, aggiustare
un parco giochi, dare una mano in una mensa, si faceva molto contenimento
sociale, era una maniera di fare politica ma senza essere politico. Sempre con
il contrassegno della Fondazione”, Intervista con Julián Nuñez, cit.

224
litica e Creer y Crecer ha continuato a operare soprattutto all’interno
del paese. Anche se, come vedremo, la funzione sociale del partito non
scomparirà, al contrario continuerà ad avere un ruolo centrale durante il
governo di Macri nella capitale.13
In origine si trattò di un partito vecinal, cioè interamente indirizzato
alla politica locale anche se sin dall’inizio la capitale veniva presentata
nel discorso pubblico come simbolo “dell’avanguardia della ricostru-
zione e della rifondazione dell’Argentina”.14 Bisogna ricordare che la
Città Autonoma Buenos Aires (CABA) è il principale centro politico,
dove risiede il 90% dei partiti politici nazionali, economico e cultu-
rale del paese, ed è il secondo distretto elettorale.15 Inoltre nella capi-
tale l’elettorato è tradizionalmente non peronista, in quanto possiede
redditi maggiori della media nazionale. Infatti i movimenti di protesta
del 2001 si fecero sentire soprattutto nelle metropoli, al contrario nelle
province e nei municipi la politica tradizionale non fu tanto messa in
discussione. La strategia locale rivolta a Buenos Aires dipendeva anche
dal fatto che le dinamiche politiche a livello provinciale erano, e sono
ancor oggi, distinte. Spesso le province sono enclave “feudali”,16 dove
di fatto la democrazia è penetrata meno: lì l’egemonia del peronismo e
del radicalismo erano molto forti e vigeva più la continuità politica che
l’alternanza.17
13
Ibidem.
14
La Fundación Creer y Crecer tiene su nueva página en Internet, “Noticias
Urbanas”, 12 dicembre 2012, www.noticiasurbanas.com.ar.
15
S. Mauro, Coaliciones sin partidos. La ciudad de Buenos Aires luego de la
crisis de 2001, “Revista de Ciencia Política”, vol. L (2012), p. 145-166.
16
Per un approfondimento sulle dinamiche provinciali vedi Diego Rojas, El
Kirchnerismo feudal. La verdadera cara de Cristina en las provincias, Buenos
Aires, Espejo de la Argentina-Planeta, 2013.
17
Fra il 1983 e il 2003 più della metà delle province argentine ha avuto un
sistema di partiti predominante con continuità totale; cinque province hanno
cambiato una sola volta, tre verso peronismo e due verso radicalismo, e cinque
hanno cambiato una sola volta, ma sempre fra gli stessi due partiti. Solo tre
province hanno avuto più di due partiti al governo. A. Malamud, El bipartiti-
smo Argentino, p. 148-149.

225
Sebbene nel 2003 il risultato elettorale per le elezioni a sindaco di Bue-
nos Aires non fu favorevole a Mauricio Macri, il macrismo conquistò 5
seggi nella Camera dei deputati e in un contesto di frammentazione degli
attori politici e di instabilità delle alleanze riuscì a consolidare un numero-
so gruppo di potenti legislatori intorno alla figura del leader.18 Le elezioni
presidenziali del 2003 avevano modificato lo scenario politico porteño e
iniziarono ad aggregarsi al Compromiso para el Cambio alcuni dirigenti
del peronismo, specialmente vincolati al presidente provvisorio Eduardo
Duhalde (peronismo dissidente) e figure individuali del radicalismo.
Infine, durante le legislative del 2005, si conformò un’alleanza elettorale
fra il Compromiso por el Cambio di Macri e Recrear, un partito fondato nel
2002 dal radicale López Murphy che riuniva dissidenti del radicalismo ed
economisti ortodossi. Questa coalizione si presentava come un vero e pro-
prio blocco alternativo: “Estamos creando una alternativa para gobernar.
[…] No estamos haciendo un frente electoral; sino estamos construyendo
un bloque alternativo. Hay que romper el mito que la alternativa no puede
gobernar”.19 L’alleanza si trasformò in una fusione tra le due formazioni, da
cui prese vita il partito Propuesta Republicana. In termini di affiliati l’ap-
porto di Recrear, che a differenza di CPC aveva presenza in quasi tutto il
paese, si rivelò strategico.
Sebbene fosse ancora molto lontano l’interesse di Macri per formare un
vero e proprio partito nazionale, i primi timidi passi dei processi di costru-
zione del partito al di fuori della capitale avvennero a partire da alcune città
capitali di provincia. In un primo momento, all’incirca fra 2007 e il 2011, le
province furono abbastanza autonome nell’organizzazione del PRO a livello
locale poiché non erano una priorità nelle strategie politiche della capitale.20

18
S. Mauro, Coaliciones sin partidos, p. 156-157.
19
“Stiamo creando un’alternativa per governare. […] Non stiamo facendo un
fronte elettorale; ma stiamo costruendo un blocco alternativo. Bisogna sfatare
il mito che l’alternativa non possa governare”, in Vamos a estar listos para
gobernar, “La Nación”, 26 maggio 2005.
20
In particolare i primi passi si diedero in Paraná (provincia di Entre Ríos), Rosario
e Santa Fe (provincia di Santa Fe) e in Córdoba (provincia di Córdoba). Queste
ultime due città erano distretti altamente popolati. Intervista con Julián Nuñez, cit.

226
Nel 2007 quando Macri giunse al governo di Buenos Aires rimase
fedele alla promessa di fare una “nuova politica” formando un gabinetto
prevalentemente di outsider, alcuni imprenditori e soprattutto di mem-
bri delle ONG, personalità a lui legate da un forte vincolo personale.21
Sin dall’inizio il suo governo si focalizzò sul lavoro sociale, infatti
creò la Unidad de Gestión de Intervención Social (UGIS) all’interno del
Ministero de Desarrollo Económico, un organismo specificatamente de-
dicato a fornire servizi nelle villas povere. Questo permise di avvicinare
i funzionari del governo ai cittadini, un modus operandi che caratteriz-
zerà il partito anche nelle successive campagne elettorali. Si consolidò
la consuetudine di chiamare i funzionari del governo per nome, e non
più per cognome, un’abitudine che servì per trasformare l’immagine di
Mauricio in “qualcosa di più umano e terreno.”22
Successivamente, in occasione dei comizi del 2009 per la prima vol-
ta i funzionari del governo uscirono in strada per fare campagna eletto-
rale. Diedero così inizio al rituale di mettere le loro mesas (banchetti)
agli angoli delle strade per fare propaganda politica: “[…] salieron to-
dos los funcionarios a hacer campaña en la calle. Que no se había visto
nunca. Se lo veía a los ministros, a los secretarios en las mesas con las
camisas amarillas en la esquina repartiendo los volantes. Nunca lo hizo el
peronismo [...] empezó el ritual de la mesa de los funcionarios recorrien-
do la ciudad y estando bien cerca del vecino.”23

21
S. Morresi e G. Vommaro (comps.), Hagamos equipo, p. 404. Su 10 fun-
zionari di prima linea quattro non avevano nessuna esperienza in politica ma
erano direttamente vincolati a Macri: due erano stati suoi impiegati e due amici
personali; nel Ministeri di Giustizia e Salute nominò un giudice e un direttore
di ospedale. Dei 4 incarichi assegnati ai politici due furono ripartiti al Grupo
Sophia, uno a un ex radicale e l’altro a un comunista che in seguito dovette
rinunciare perché coinvolto in uno scandalo. S. Mauro, La transformación del
sistema político, p. 420-421.
22
Intervista con Sebastián Fernández Cerdeña, attuale direttore generale
dell’Agencia Nacional Seguridad Vial, Buenos Aires, 22 agosto 2016.
23
“[…] Tutti i funzionari andarono a fare campagna [elettorale]. Non si era
mai visto. Si vedevano i ministri, i segretari ai banchetti con le maglie gialle

227
Essendo un partito molto giovane, che aveva vinto anche grazie alle
alleanze esterne, localizzato nella città e praticamente quasi assente in
provincia, non possedeva ancora una militanza significativa, pertanto
il processo di costruzione del partito è avvenuto, almeno in parte, dal
governo al partito, cioè in maniera inversa a quella tradizionale, nella
quale normalmente sono i membri di un partito a occupare incarichi nel
governo e nell’amministrazione. Così sono stati i funzionari, come gli
impiegati municipali del governo, prima estranei al partito a diventare
militanti del PRO.24 Allo stesso tempo la costruzione della militanza è
avvenuta anche grazie all’installazione delle mesas durante le campa-
gne elettorali, che ha permesso di trovare nuovi iscritti e anche i vo-
lontari, figure molto importanti nel PRO. Questi ultimi erano persone
che non appartenevano formalmente al partito, ma che collaboravano
attivamente specialmente nelle attività sociali. L’esplosione della parte-
cipazione dei volontari sarà particolarmente significativa e importante
nelle elezioni del 2015.25
La campagna elettorale per le legislative del 2009 dette risultati sor-
prendenti con la sconfitta di Néstor Kirchner nella provincia di Buenos
Aires, il distretto elettorale più grande del paese, e la vittoria di Francisco
De Narváez,26 un candidato del peronismo dissidente non troppo cono-

mentre distribuivano volantini agli angoli delle strade. Il peronismo non lo ha


mai fatto. […] iniziò il rituale dei banchetti dei funzionari che percorrevano la
città e stavano a stretto contatto coi suoi abitanti.” Ibidem.
24
Questo aspetto si evince anche dall’intervista e dalla stessa traiettoria profes-
sionale di María Eugenia Wehbe, Directora General de Relaciones Institucio-
nales – Ministerio de Transporte. Intervista con Eugenia Wehbe, Buenos Aires,
22 agosto 2016.
25
Ibidem.
26
De Narváez è un imprenditore passato poi alla politica nel 2001, quando
con altri imprenditori aveva fondato il think thank Fundación Unidos del Sud
affiliandosi al Partido Justicialista. Nel 2007 era passato nelle fila del PRO
e nel 2008 aveva fondato il partito Unión Celeste y Blanco con referenti del
peronismo duhaldista. Nelle legislative del 2009 capeggiò la lista di deputati
di UNION-PRO. El sinuoso recorrido político de Francisco De Narváez desde
2001, “La Nación”, 20 ottobre 2015.

228
sciuto, con cui il Pro aveva stretto alleanza:27 “Hemos derrotado a la vieja
y mala política. Es momento de unir y no de dividir”.28 Il kircherismo non
attraversava un buon momento: fortemente provato dal conflitto agrario
del 2008 e dagli effetti della crisi internazionale, perse i 5 distretti più
importanti e con essi la maggioranza nel legislativo.29 Sembrava dunque
annunciarsi il deterioramento di quel modello personalista del “governo
del leader senza il partito” che era stato efficace fra il 2003 e il 2007 e
soprattutto della vitale relazione con il peronismo provinciale.30 In quel-
le elezioni il kirchnerismo perse anche alcuni distretti tradizionalmente
peronisti come il caso eclatante del municipio di Lanús.31 Il distretto
di Lanús era stato governato ininterrottamente dal peronismo: per 28
anni consecutivi dall’“eterno intendente” Manuel Quindimil, sopran-
nominato “Manolo”, un classico caudillo politico peronista di origine
sindacale e, dal 2007, da Darío Díaz Pérez, il candidato kirchnerista del
Frente para la Victoria.32
La tattica delle alleanze e delle candidature diversificate usata da Ma-
cri, che attuerà anche nelle successive elezioni, aveva giocato un ruolo
importante, ma non bisogna sottovalutare l’importanza delle ONG, un
soggetto politico insolito e di considerevole peso nella composizione
del PRO. Se da una parte le ONG sono state utili nello stabilire un le-

27
“En 2009 después de la campaña que hicimos en la ciudad para la elección
intermedia tenemos un resultado que sorprende, insisto en ese momento en
el mayor auge del Kirchnerismo, el PRO acá en la ciudad hace una excelente
elección si tener candidato fuerte de renombre.” Intervista con Sebastián Fer-
nández Cerdeña, cit.
28
“Abbiamo sconfitto la vecchia e cattiva politica. È il momento di unire e non
di dividere”, in Dura derrota de Kirchner, “La Nación”, 29 giugno 2008.
29
Il kirchnerismo perse nei cinque distretti più grandi: nella capitale federale,
provincia di Buenos Aires, Córdoba, Santa Fe e Mendoza. Ricardo Sidicaro, El
partido peronista, p. 92-94.
30
Ivi, p. 93-94
31
Perse anche in distretti quali San Isidro, Vicente López e in grandi città come
La Plata, Bahía Blanca y Mar de la Plata.
32
Lanús Elecciones 2009-Unión-Pro superó al kirchnerismo en Lanús y logra-
ría 5 bancas, in www.treslineas.com.ar/lanus-elecciones-2009.

229
game con la società civile, in particolare come abbiamo detto attraverso
l’attività sociale, dall’altra avevano anche uno specifico ruolo politico.
Infatti le ONG sono state utilizzate per penetrare nei barrios conurbati
bonarensi peronisti, che tradizionalmente erano controllati da un leader
locale denominato puntero, senza la cui autorizzazione era impossibile
accedervi in qualità di partito. Queste organizzazioni svolgevano atti-
vità sociali che allo stesso tempo permettevano di farsi conoscere nei
barrios e in seguito chiedere il voto in campagna elettorale:

[...] una manera de hacer la actividad a un barrio y no vamos como


PRO sino como la organización mencionada por lo cual políticamente
te pueden permitir entrar. [...] Ya me conocen. Como conocido, entre
comillas, del barrio, entonces al momento de la campaña electoral es
más fácil porque allí yo ya sigo con partido político con conocimiento
previo del barrio [...].33

Le parlamentari del 2009 sembravano aver annunciato la fine del


kirchnerismo ma non fu così e le primarie inaugurate con la nuova
legge (PASO)34 nell’agosto del 2011 aprirono la strada alla vittoria

33
“[…] un modo di fare attività in un quartiere in cui non andiamo come PRO,
ma come organizzazione riconosciuta, per cui politicamente ti possono per-
mettere di entrare […] Già mi conoscono. Come conosciuto, fra virgolette, nel
quartiere, al momento della campagna elettorale è più facile, perché lì io con-
tinuo ad agire come partito politico con una conoscenza previa del quartiere
[…]”. Intervista con Julián Nuñez, cit.
34
La decisione di varare una riforma politica fu annunciata dopo la sconfitta
del Frente para la Victoria nella Provincia di Buenos Aires nelle elezioni del
giugno 2009 e fu presentata come un mezzo per ridurre l’eccessiva presenza di
partiti politici. La riforma da una parte aumentò i requisiti richiesti ai partiti per
ottenere e mantenere il registro elettorale, dall’altra aveva lo scopo di separare
il conseguimento della personalità giuridica dal diritto di postulare candidati
nelle elezioni generali. A tal fine la riforma stabilì le primarie aperte simulta-
nee e obbligatorie (PASO), che funzionano come meccanismo di selezione dei
candidati ma impongono ai partiti di raggiungere una soglia del 1,5% per poter
presentare i loro candidati alle elezioni generali. Gerardo Scherlis, La política

230
di Cristina Fernández de Kirchner. Fra le molteplici spiegazioni del
trionfo è possibile annoverare l’eccessiva frammentazione dell’oppo-
sizione e l’assenza di un leader capace di agglutinare il consenso dei
cittadini. 35
Sino ad allora, nonostante il considerevole risultato ottenuto in
alcune province, come Santa Fe,36 e la vittoria nell’intendenza di Vi-
cente López, il PRO non aveva ancora sviluppato una vera e propria
strategia coerente di crescita a livello nazionale: “[…] se intentó a em-
pezar a trabajar por el 2011 para una candidatura de Macri: La realidad
nos pegó y nos demostró que el país era enorme para cubrirlo y para
ganar una elección […]”.37
In quegli anni il sistema politico argentino si era trasformato passan-
do dal bipartitismo al pluralismo estremo, come dimostrarono chiara-
mente le elezioni intermedie del 2013 che resero evidente la frammen-
tazione e la moltiplicazione dei raggruppamenti politici: nei 24 distretti
elettorali dove si dirimeva l’elezione dei deputati nazionali concorsero

de la reforma electoral en América Latina: entre la apertura y el cierre de los


sistemas políticos a través de la regulación electoral y de partidos, “Desarro-
llo Económico”, vol. LV, n. 215 (2015), p. 97-99.
35
Secondo l’analisi di Nicolás Cherny le determinanti politiche furono l’im-
patto della legge dei mezzi di comunicazione, la morte di Néstor Kirchner
(che aveva guidato la sconfitta elettorale del 2009) che creò un ‘immagine
idealizzata minimizzando i suoi lati negativi, un’opposizione troppo fram-
mentata e l’assenza di un leader. Il voto dell’opposizione si divise così quasi
in parti uguali fra Ricardo Alfonsín (UCR), Eduardo Duhalde (PJ Federal),
Hermes Binner (Socialismo), Alberto Rodríguez Saá (Peronismo dissiden-
te), nessuno dei quali superò il 12% dei voti. Nicolás Cherny, Una mirada
a las elecciones presidenciales argentinas de 2011, “Iberoamericana”, n. 44
(2011), p. 135-139.
36
Santa Fe: ganó Bonfatti y De Sel le impuso una dura derrota al Kirchneris-
mo, “El Clarín”, 25 luglio del 2011, www.clarin.com.
37
“[…] si era cercato di iniziare [nel 2009] a lavorare per il 2011 per una
candidatura [nazionale] di Macri: la realtà ci ha puniti e ci ha dimostrato che
il paese era enorme da coprire per vincere un’elezione […]”. Intervista con
Sebastián Fernández Cerdeña, cit.

231
circa 80 forze politiche fra partiti e alleanze.38 Il sistema mostrava non
solo la frammentazione dovuta al pluralismo estremo, ma anche una
forte territorializzazione della competizione politica, che di conseguen-
za aveva un carattere marcatamente locale.39
Dall’esecutivo porteño Macri, che aveva approfondito la diversifi-
cazione delle alleanze con il peronismo dissidente, con i radicali e con
i partiti provinciali, iniziò così la costruzione di una struttura partitica
nazionale. Attività che fu approfondita fra il 2013 e il 2015 quando, in
seguito agli esiti favorevoli delle intermedie, diventò finalmente chiaro
l’obiettivo di presentarsi alle successive presidenziali.
La strategia adottata fu interamente diretta dal centro verso le pe-
riferie. Gli incaricati del partito venivano inviati nelle province per
trovare dei referentes, cioè persone politicamente affini con il compito
di “riunire volontà”.40 Nella costruzione del partito a livello provin-
ciale il ruolo dei funzionari del governo fu nuovamente fondamentale,
in particolare di coloro che avevano un’esperienza politica consoli-
data, come Horacio Rodríguez Larreta: “Funcionarios muy aliados a
Mauricio, tenían más política que Mauricio...al principio de la gestión
le faltaba la parte política.”41 Dalla capitale federale i funzionari del
governo viaggiavano nell’interno del paese e attraverso i referentes
costruivano la militanza, dando sempre molta enfasi al contatto “uno
a uno” che induceva all’uso di pratiche come il famoso timbreo,42
cioè suonare i campanelli casa per casa per conversare con i cittadini.
Allo stesso tempo si generavano delle reti con “Con conocidos, con
empresarios en el interior del país y con otros políticos que eran afines

38
María Laura Tagina, Las Elecciones Legislativas 2013 en Argentina, “Revis-
ta Latinoamericana de Política Comparada”, vol. VIII (2014), p. 47-61.
39
Ivi, p. 49.
40
Intervista con Sebastián Fernández Cerdeña, cit., e con María Eugenia Wehbe,
cit.
41
“Funzionari alleati di Maurizio, che avevano più esperienza politica di
Maurizio […]”, Intervista con Sebastián Fernández Cerdeña.
42
Sul caso di Vicente López e la pratica del timbreo vedi l’intervista con Ignacio
Albor Vázquez, giovane militante PRO, San Isidro – Buenos Aires, 23 agosto 2016.

232
y a través de los cuales se fueron generando reuniones con algunos re-
ferentes ya del partido o incluso funcionarios del gobierno que también
estaban muy comprometidos con la gestión […].”43
Ancora oggi il PRO non è un partito realmente nazionale, in quanto
non ha una presenza in tutto il territorio, infatti nel 2015 Macri ha vinto
con la coalizione Cambiemos, un ampio raggruppamento di cui PRO
costituisce la colonna vertebrale.44
L’annuncio del gabinetto di governo evidenziava una presenza pre-
ponderante di politici. Nel potere esecutivo dominava la presenza del
PRO, fatto che rivela una propensione alla concentrazione del potere,
sebbene gli incarichi fossero distribuiti in maniera più equilibrata nella
Camera dei deputati e nel Senato.45 Al contrario, nelle province, dove il
PRO, come abbiamo detto, era meno consolidato, i radicali hanno man-
tenuto una presenza preponderante.46 Bisogna anche sottolineare che la
coalizione ha vinto soprattutto nelle province più ricche, che, avendo
maggiore disponibilità finanziaria, erano meno dipendenti dalle risorse
del governo federale.47

43
“Conoscenti, con imprenditori all’interno del paese e con altri politici che
erano affini e attraverso i quali si iniziarono a generare riunioni con alcuni re-
ferenti del partito o con funzionari del governo che erano molto coinvolti nella
gestione […].”, Intervista con María Eugenia Wehbe, cit.
44
I principali componenti della coalizione sono la Coalición Cívica para la
Afirmación de una República Igualitaria (CC-ARI), nata con la crisi di rappre-
sentanza del 2001, e l’Unión Cívica Radical (UCR), cui si aggiungono partiti
minori.
45
L’annuncio del gabinetto di governo è stato fatto il 25 novembre e ripor-
tato in vari periodici. Sebbene vi fossero alcuni posti ancora vacanti, era già
chiara la maggior parte della futura composizione del gabinetto. El gabinete
de Macri, “La Nación”, 29 novembre 2015. www.lanacion.com.ar; Macri pre-
sentó su gabinete, liberales y del sector privado, “El País”, 26 novembre 2015,
www.elpais.com.ar; Uno por uno, los 28 nombres del Gabinete de Mauricio
Macri, “El Cronista”, 25 novembre 2015, www.cronista.com.
46
Cambiemos, esa coalición de nuevo tipo, “La Nación”, 2 ottobre 2016.
47
Province del centro o regione pampeana, come Córdoba, Ciudad de Buenos
Aires, Mendoza, San Luis, Santa Fe, Entre Ríos y La Pampa. María Laura

233
Sin dal nascere il PRO si era proposto come una “terza via”, la de-
nominata “via PRO”, secondo una filosofia che prendeva le distanze dal
passato: in primis da ogni ideologia e dal sistema di partiti tradizionali,
proponendo una nuova forma di fare politica centrata sull’azione e sulla
rottura con le pratiche politiche tradizionali.48 Tuttavia modificare la cul-
tura politica di un paese non è un processo immediato, specialmente in
un contesto istituzionale ancora debole come quello argentino. Permane
il problema strutturale di un sistema politico in cui i partiti sono di fatto
appendici dello stato, da cui il PRO non sembra affatto essere esente. Il
partito Propuesta Republicana sembra riprodurre la stessa cultura politica
che diluisce i confini fra pubblico e privato. Per citare un esempio, si tende
a far coincidere gli incarichi pubblici e di partito: “Por ejemplo en la Ciu-
dad de Buenos Aires el presidente del PRO es Horacio Rodríguez Larreta
, que es jefe de gobierno de la ciudad también. Y en provincia de Buenos
Aires lo es María Eugenia Vidal, que es gobernadora del Partido”.49
Inoltre il denominato Partido de lo Nuevo, nonostante la critica vee-
mente verso la vecchia maniera di fare politica, è viziato anche da un’al-
tra debolezza intrinseca del sistema che si ripercuote sulla qualità stes-
sa della democrazia: la mancanza di democrazia interna. Si tratta di un
problema comune ai partiti politici dell’America Latina e forse ancora
troppo poco considerato dalla letteratura accademica. Il PRO è un partito
fortemente personalista, centrato intorno alla figura di Macri: “Il potere
del presidente nel partito centrale è molto ampio, il potere non è troppo
flessibile”.50 Sino a oggi non sono state realizzate elezioni interne e il par-

Tagina, Cambio de ciclo en Argentina, “Nucleo de Estudios y Análisis Interna-


cionales”, 2 dicembre 2015, http://neai-unesp.org.
48
Mauricio Devoto, La Via Pro, una aproximación a lo que somos, settembre
2014, in cpcambio.com.ar/wp-content/uploads/2015/01/LaViaPro.pdf.
49
“Nella città di Buenos Aires, il presidente del PRO è Horacio Rodríguez Larreta,
che è anche il capo di governo della città. E nella provincia di Buenos Aires lo è
María Eugenia Vidal, che è governatrice”. Intervista con Julián Nuñez, cit.
50
Interviste con Ricardo Rafael Mathé, fondatore di CPC nella provincia di
Entre Ríos e successivamente membro del PRO, realizzata via Skype il 21
giugno 2016 e a San Isidro-Buenos Aires il 23 agosto 2016.

234
tito è fortemente centralizzato, come dimostra la pratica dell’intervención
(intervento): una sorta di commissariamento che può essere applicato dal
PRO nazionale al PRO delle province per controllare la vita del partito a
livello locale e dunque anche le elezioni. Il caso di Entre Ríos è sicura-
mente il più eclatante: la provincia è stata intervenida nel maggio 2014
dall’attuale ministro degli Interni Rogelio Frigelio, che solo recentemente
è stato sostituito nell’incarico, e ancor oggi le promesse di normalizzare
la situazione continuano a essere disattese.51
La debolezza istituzionale si esprime anche nell’assenza di un organi-
smo federale elettorale autonomo e indipendente, infatti la Direzione Na-
zionale Elettorale è un organismo tecnico del potere esecutivo all’interno
del Ministero degli Interni. Inoltre la pratica della frode elettorale, che è
parte della storia politica del paese, continua a essere vigente e lo svolgi-
mento dei comizi è ancora oggi soggetto a varie forme di manipolazioni, fra
cui il furto delle schede nei seggi,52 con i conseguenti effetti sulla credibilità
dei processi elettorali e sul consolidamento delle istituzioni democratiche.53
L’Argentina, come altri paesi della regione, si trova oggi ad affron-
tare la sfida della governabilità, un problema ormai strutturale che si
relaziona non solo con la debolezza istituzionale e le mancate o insuf-
ficienti riforme politiche, ma anche con la crescita della sfiducia verso

51
Sul caso della provincia di Entre Ríos vedi ibidem. Ricardo Mathé è stato
presidente del dipartimento di San Salvador, dove ha formato vari dipartimenti.
52
María Eugenia Wehbe racconta: “Vos tenéis boleta de papel con los candi-
datos, cada partido tiene su boleta, y eso es muy fácil de borrar, porque hay un
cuarto obscuro donde entra el votante, y tiene las pilas con las boletas, entro
yo agarro toda la de los otros partidos me la pongo en mi cartera y me voy. En-
tonces el votante que viene atrás mío entra al cuarto oscuro y se encuentra con
una sola boleta”. Anche Sebastián Fernández Cerdeña accenna al problema del
furto nei seggi: “Porque nosotros acá tenemos problemas de robos de boleta”.
53
Fabrice Lehoucq, ¿Qué es el fraude electoral? Su naturaleza, sus causas y
consecuencias, “Revista Mexicana de Sociología”, vol. LXIX, n. 1 (2007), p.
1-38. Nonostante la manipolazione del voto non svolga un ruolo decisivo, ha
effetti sulla stabilità politica, spoglia i comizi di credibilità ed evita il consoli-
damento delle istituzioni democratiche.

235
le istituzioni,54 accompagnata da una scarsa approvazione dei governi,55
in società fortemente frammentate e politicamente polarizzate, che si
sentono defraudate dalla democrazia.56

54
Secondo i dati di Latinobarómetro, in America Latina la fiducia verso le isti-
tuzioni registra nel 2016 una diminuzione in tutte le istituzioni eccetto Forze
Armate e Polizia, nei partiti politici una decrescita dal 20% al 17%. Latino-
barómetro Informe 2016, p. 32, http://www.latinobarometro.org/.
55
Nei paesi della regione, con eccezione della Repubblica Dominicana, Ni-
caragua, Guatemala e Bolivia, l’approvazione dei governi è inferiore al 50%
e in sei paesi è inferiore a un terzo. In media dal 2010 a oggi l’approvazione
dei governi è passata dal 60% al 38% con una perdita di 22 punti. Il governo
argentino nel 2016 ha un’approvazione del 40%, due punti percentuali in meno
del 2015. Ivi, p. 35-36.
56
Nel 2016 il 73% dei cittadini latinoamericani credono che si governi per
beneficio di una ristretta élite, in 7 paesi la percentuale è intorno all’80% (fino
ai dati estremi dell’88% in Paraguay e 87% in Brasile e Cile), in Argentina
68%. Ivi p. 33-34.

236
PROFILI BIOGRAFICI
Tiziana Bertaccini è ricercatrice nel Dipartimento di Culture Politi-
che e Società dell’Università degli Studi di Torino, dove impartisce i
corsi Storia del ventesimo secolo latinoamericano e L’America latina
nel nuovo scenario globale. Le sue linee di ricerca sono la storia politi-
co-istituzionale e la transnazionalizzazione della politica del XX-XXI
secolo. Fra le sue pubblicazioni: Le Americhe Latine nel XX secolo,
Feltrinelli, Milano, 2014, e El régimen priista frente a las clases medias
(1943-1964), Conaculta, 2009.

Federica Bertagna è professore associato di Storia contemporanea


all’Università degli Studi di Verona. I suoi principali interessi scientifici
riguardano la storia delle migrazioni internazionali e la storia dell’Ame-
rica Latina. Tra le sue pubblicazioni La patria di riserva. L’emigrazione
fascista in Argentina, Donzelli, 2006. Di recente ha curato con Federico
Melotto il volume Resistenza e guerra civile, Cierre, 2017.

Deborah Besseghini è cultrice della materia in Storia della Spagna e


dell’America Latina presso l’Università degli Studi di Milano. Ha ot-
tenuto il titolo di dottore di ricerca nel 2016, presso l’Università degli
Studi di Trieste. Ha presentato i risultati delle sue ricerche in diversi
convegni internazionali in Italia, Germania, Spagna, Portogallo, Regno
Unito e Cina. Sono in uscita alcuni suoi contributi a volumi collettivi.

Benedetta Calandra insegna Storia dei paesi dell’America Latina


all’Università degli Studi di Bergamo; è Associate Fellow 2016-17 alla
Johns Hopkins University-Bologna Center. Interessi di ricerca: politi-
che della memoria nel Cono Sud; esilio politico; guerra fredda cultura-
le tra Stati Uniti e America Latina. Ha pubblicato diverse monografie,
curatele, saggi in volumi collettanei e riviste specializzate tra Europa,
Stati Uniti e America Latina.

Marco Cuzzi insegna Storia contemporanea all’Università degli Stu-


di di Milano e si occupa in particolare di storia d’Italia nel ’900, dei

239
Balcani e del Confine orientale, del fascismo e della Massoneria. È
membro della Rete Universitaria per la Giornata della Memoria e di
diversi comitati scientifici. È condirettore della collana «Storia, politica
e società» della Casa editrice Biblion e curatore della collana «Il Filo di
Clio» della casa editrice Alboversorio.

Michelangelo De Donà, laureato in Scienze Politiche presso l’Univer-


sità degli Studi di Padova, è attualmente dottorando in Storia presso
l’Università degli Studi di Pavia. Dall’a.a. 2016/2017 è docente a con-
tratto in Diritto dell’Unione Europea presso il Campus universitario
Ciels di Padova e l’Unimed di Milano. Iscritto all’Albo dei Giornalisti.

Flavio Fiorani insegna Letteratura ispanoamericana presso il Diparti-


mento di Studi Linguistici e Culturali dell’Università degli Studi di Mo-
dena e Reggio Emilia. È autore di saggi su diversi aspetti delle culture
ispanoamericane e di un volume sui racconti di viaggio in Patagonia.
Ha inoltre curato l’edizione italiana con testo a fronte della Brevissima
relazione della distruzione delle Indie di Bartolomé de Las Casas.

Valerio Giannattasio è assegnista di ricerca in Storia dell’America La-


tina presso l’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale” e docente
di Storia Contemporanea presso l’Università degli Studi di Campania. I
suoi campi di ricerca sono: l’emigrazione italiana in Argentina, la com-
prensione dell’America Latina durante il fascismo, la propaganda del
regime di Mussolini tra gli italiani d’Argentina e la diplomazia cultura-
le degli Stati Uniti in Cile e Argentina tra gli anni ’50 e ’60.

Andrea Pezzè è dottore di ricerca in Iberistica per l’Università degli


Studi di Napoli “L’Orientale”. È borsista post-dottorato presso l’Uni-
versità di Coimbra. Tra i suoi ambiti di ricerca, la letteratura poliziesca
ispanoamericana su cui ha pubblicato le monografie Marginalità della
letteratura poliziesca ispanoamericana (2009) e Lo barroco en lo po-
licial (2013).

240
Francesco Davide Ragno, dottore di ricerca presso l’Istituto di Scien-
ze Umane – Sum, attualmente è tutor di Storia Contemporanea presso la
Scuola di Scienze Politiche dell’Università di Bologna – sede di Forlì.
Fa parte della segreteria della rivista «Ricerche di Storia Politica». Tra
le sue ultime pubblicazioni: Liberale o populista? Il radicalismo argen-
tino (1930-1943), Bologna, 2017.

Veronica Ronchi è ricercatore in Storia Economica presso il Diparti-


mento di Studi Storici dell’Università degli Studi di Milano, dove inse-
gna Economia e Storia della Globalizzazione. La sua attività di ricerca
si concentra prevalentemente sulla storia contemporanea dell’America
Latina, con particolare riferimento a Messico e Argentina, sulla storia e
l’etnografia di impresa e in particolare sulle economie non di capitale.

Marzia Rosti insegna Storia e Istituzioni dell’America Latina e Storia,


Istituzioni e Diritti dell’America Latina presso l’Università degli Studi
di Milano. Dell’Argentina ha studiato la storia della cultura giuridica e
del pensiero politico e l’evoluzione politico-istituzionale dall’indipen-
denza a oggi; le sue linee di ricerca più recenti si orientano sui diritti
emergenti, quali i diritti indigeni e i diritti umani nei processi di transi-
zione alla democrazia e le forme di giustizia correlate, partendo sempre
dal caso argentino per inserirlo nel più ampio contesto regionale.

Marco Sioli insegna Storia dell’America del Nord e American History


and Politics presso l’Università degli Studi di Milano. Ha ricevuto il
premio per il miglior saggio in lingua non inglese dall’Organization
of American Historians. Tra le sue pubblicazioni più pertinenti al tema
trattato in questo volume: La parabola di Ronald Reagan (2006) e
American Golem. Lo spazio e il tempo degli Stati Uniti (2011).

Daniele Trabucco, laureato in Giurisprudenza presso l’Università de-


gli Studi di Parma, ha conseguito il dottorato di ricerca in Istituzioni
di Diritto Pubblico presso l’Ateneo di Padova. Dall’a.a. 2015-2016 è

241
professore a contratto di Storia delle Relazioni Internazionali presso il
Campus universitario Ciels di Padova e di Diritto Internazionale presso
Unimed di Milano e Unicollege di Mantova.

242
INDICE DEI NOMI

a cura di Marzia Rosti


Abati, Arturo, 124 Anselmi, Tina, 159
Aboy Carlés, Gerardo, 96, 96n Antille, Armando, 90n
Adelman, Jeremy, 25, 26n Antonelli, Giacomo, 51
Agamben, Giorgio, 66, 66n, 69, Appelius, Mario, 110, 110n
70, 70n Aramburu, Pedro Eugenio, 56
Agnelli, Gianni, 175 Arculus, Ronald, 179
Aguirre, Patricia, 84n Arendt, Hannah, 148, 148n
Agrelo, Pedro José, 49 Arias, Juan, 196, 196n
Ajello, Aldo, 168, 169 Armillotta, Giovanni, 47n, 48n,
Ajello, Nello, 179n 50n, 56n
Alberdi, Juan Bautista, 51 Arpino, Giovanni, 179
Albor Vázquez, Ignacio, 232n Artusa, Marina, 206n
Alcorta, Amancio, 52 Aubert, Roger, 48n
Alem, Leandro N., 14n Avellaneda, Nicolás Remigio
Alessandro III papa, 48 Aurelio, 12, 93
Alessi, Mario, 161 Ayllón, Bruno, 17n
Alfonsín, Raúl Ricardo, 15, 95- Aymard, Maurice, 211n
98, 96n, 194, 194n, 197 Azzolini, Nicolás, 94n
Alfonsín, Ricardo Luis, 231n
Aliano, David, 113n Bachelet, Michelle, 218
Allende, Salvador, 138-140, 197 Badilla, Luis, 194n
Allier Montaño, Eugenia, 138n Baeza, Andrés, 27n
Almirante, Giorgio, 167 Balbín, Ricardo, 98
Altissimo, Renato, 172 Bandiera, Pasquale, 170
Álvarez Thomas, José Ignacio, Bandieri, Susana, 13n
36n, 39n, 40n, 42n Barbero, María I., 117n, 122,
Alvear, Carlos María de, 38, 39 122n
Amar Sánchez, Ana María, 129n, Barcos, Julio R., 91, 92n
133n Barrios Chamorro, Violeta, 218
Ameghino, Florentino, 62n Bartley, Russell, 40n
Ammirati, Pasquale, 163, 171 Bartoloni, Stefania, 212n
Andreatta, Beniamino, 171 Baseotto, Antonio Juan, 186, 199,
Andreotti, Giulio, 173, 173n 200, 205
Angelelli, Enrique, 193n Bassanini, Franco, 177
Annino, Antonio, 211n Barzini, Luigi, 74n

245
Beiner, Ronald, 216n Bobbio, Norberto, 211, 211n
Belgrano, Manuel José, 38, 42 Bocca, Giorgio, 174, 174n, 176
Belini, Claudio, 120n Bodrato, Giulio, 163
Belli, Piero, 107n Bohórquez-Morán, Carmen
Bello, Andrés, 36 Luisa, 28n, 34n
Beltramo Álvarez, Andrés, 205n Bohoslavsky, Ernesto, 222n
Benedetto XV papa, 54n Bolívar, Simón José, 40
Benedetto XVI papa, 23, 185, Bonafini, Hebe de, 206
192n, 200, 201, 203 Bontempelli, Massimo, 108, 108n
Beneduce, Roberto, 71n Borges, Jorge Luis, 69, 69n, 70,
Benvenuto, Giorgio, 83, 162 72
Bergoglio, Jorge Mario vedi Borroni, Angelo, 123
Francesco papa Borsari, Carlo, 124
Berlinguer, Enrico, 173 Bottaro y Hers, José María, 52
Bernstein, Carl, 192n, 196n, 197n Bowles, William, 35, 37, 37n, 38,
Berri, Carlo, 81 43, 44, 46
Berta, Giuseppe, 117n Bozzi, Aldo, 171, 172
Bertaccini, Tiziana, 23, 24 Brighenti, Fausto, 171
Bertagna, Federica, 22, 119n Brochero, José Gabriel del
Bertone, Tarcisio, 188, 188n, 192n Rosario, 204
Bertonha, João Fabio, 100n, 114n Brooks, Peter, 135n
Besseghini, Deborah, 9n, 21, 30n, Brougham, Henry Peter, 36
32n-34n, 36n, 37n, 41n, 44n Brown, Matthew, 26n
Bethell, Leslie, 33n Brunelli, Gianfranco, 194n
Bevilacqua, Piero, 108n, 116n Bruno, Paula, 61n, 71n
Bezza, Bruno, 109n Buedo de Fontenla, Flora E., 60n
Bianchi, Ornella, 100n Bullrich, Esteban, 20n
Bianco, Gerardo, 164 Burke, James Florence, 29, 30n
Binner, Hermes, 231n Bush, George W., 138
Blajaquis, Domingo, detto El Bustamante Olguín, Fabián, 188n
Griego, 130, 131, 134
Blaufarb, Rafe, 26n, 40n Cabarrús y Galabert, Domingo
Blengino, Vanni, 13n, 100n, 111n Vicente, conte di, 41
Blystone, James, 147 Cáceres, Néstor, 135
Boato, Marco, 178 Cacopardo, María C., 75n

246
Caffè, Federico, 174 Carter, Jimmy, 143, 145, 146, 150
Cafiero, Juan Pablo, 201 Carusi, Paolo, 112n
Caggiano, Antonio, 59n Casares, Tomás Darío, 54
Caimari, Lila M., 54n Casaroli, Agostino, 192n
Calandra, Benedetta, 15n, 23, Cassese, Antonio, 210, 210n
138n, 147n, 210n, 212n Castlereagh, Robert Stewart
Calloni, Stella, 139n, 142, 142n marchese Londonderry visconte
Calvi, Roberto, 159 di, 28-30, 30n, 32-35, 33n, 34n,
Calvo, Carlos, 52 38, 39, 41, 45
Camaño, Eduardo, 16n Castro Cromwell, Daniel, 122n
Caminiti, Alberto, 151n Castro, Claudio, 121n
Camusso, Marcel, 192n Cattarulla, Camilla, 111n
Candia, Pedro, 200 Cavarocchi, Francesca, 105n
Cannelli, Riccardo, 203n Cedrón, Jorge, 128n
Canning, George, 30n, 31n Cerro, Francisco, 162
Cannistraro, Philip V., 100n Chandler, Raymond, 129
Cantalupo, Roberto, 104n, 108n Cheresky, Isidoro, 214, 214n,
Capote, Truman, 129 215, 215n, 216, 216n
Capriolo, Enrico, 123 Cherny, Nicolás, 231n
Capuzzi, Lucia, 119n, 195n Chinchilla, Laura, 218
Caracciolo, Lucio, 176n Ciano, Galeazzo, 102n, 103n,
Cardini, Eugenio, 81 112n
Carlo II di Borbone, duca di Ciarlantini, Franco, 107, 107n,
Parma, 9n 108
Carlo IV di Borbone, re di Cicciomessere, Roberto, 169
Spagna, 41 Cieri, Tito, 121
Carlo Ludovico di Borbone, Cisneros, vedi Hidalgo de
duca di Lucca, vedi Carlo II di Cisneros, Baltasar
Borbone, duca di Parma Ciurlia, Sandro, 10n
Carlotta Gioacchina di Borbone, Clementi, Hebe, 13n
regina di Portogallo, 29 Clinton, Bill, 23, 137, 138, 140,
Carlotto, Estela Barnes de, 206 141
Carmagnani, Marcello, 50n, Cochrane, Thomas, 26, 44
210n, 211n Coisson, Fabrizio, 156n, 162,
Carpi, Pier, 158n 162n-164n, 169n, 171n, 177n

247
Colletti, Lucio, 178 De La Vega, César, 157
Colombo, Emilio, 160, 161, 164- De Mita, Ciriaco, 164, 171,172,
167, 171, 172, 179, 180, 182n 181
Colucci, Michele, 118n De Narváez, Francisco, 223, 228,
Contreras, Jorge, 147 228n
Contreras, Manuel, 141, 147 De Risio, Carlo, 151n
Copello, Santiago Luis, 54 De Rosa, Giuseppe, 194n
Corbi, Loris, 158 De Tomás, Néstor, 135
Cortés Conde, Roberto, 76n De Vedia, Mariano, 205n
Cortés Rocca, Paola, 64, 64n, 65n De Zuani, Ettore, 112, 112n
Cortese, Luis O., 101n Del Buono, Oreste, 178
Corti, Paola, 117n Del Donno, Olindo, 167
Costa Méndez, Nicanor E., 57n Del Mazo, Gabriel, 90n, 94n
Costamagna, Giuseppe, 166 Dell’Acqua, Enrico, 115, 117
Costeloe, Michael Peter, 25n Della Porta, Donatella, 213n
Craine, Eugene Richard, 31n, 34n Delrio, Walter Mario, 13n
Crash Solomonoff, Pablo, 61n, Demaría, Laura, 136n
62n Demaría, Rafael, 36n
Craxi, Bettino, 153, 163, 171- Derian, Patricia, 146
173, 175, 177, 178, 181, 182 Devoto, Fernando J., 99n, 110n,
Crenzel, Emilio, 138n 116n, 118n
Croker, John Wilson, 31n Devoto, Mauricio, 234n
Cuenca-Esteban, Javier, 29n Di Nunzio, Marco, 151n
Curti Gialdino, Carlo, 200n Di Stefano, Roberto, 185n
Custer, Carlos Luis, 197n Diani, Mario, 213n
Cuzzi, Marco, 22, 23 Díaz Pérez, Darío, 229
Dinale, Ottavio, 100n, 105, 105n,
Dagnino, Evelina, 213n 106n
Dapelo, Santiago, 204n Dinatale, Martín, 201n
Darío, Rubén, 62 Dinges, John, 139n
Davidoff, Costantino, 152 Domínguez Méndez, Rubén, 100n
De Benedetto, Filippo, 171 Donat-Cattin, Carlo, 171
De Clementi, Andreina, 116n Ducci, Lorenzo, 181, 181n, 182
De Donà, Michelangelo, 23 Duhalde, Eduardo Alberto, 16n,
De Felice, Franco, 105, 105n 199, 226, 231n

248
Echeverría, Olga, 222n Fiorani, Flavio, 8n, 13n, 22, 23
Eichmann, Adolf, 148 Flesca, Giancesare, 175n
Einaudi, Luigi, 76, 115-118, Fletcher, Ian, 28n
115n, 121 Floria, Carlos Alberto, 8n
Ekaizer, Ernesto, 127n Foà, Carlo, 103, 103n
Ellice, Edward, 36 Ford, Gerald, 142, 144
Escalada Bustillo y Zeballos, Forlani, Arnaldo, 152
Mariano José de, 51 Fortini, Franco, 178
Esposito, Roberto, 65n, 66, 66n, Fotia, Laura, 106n
70n Foucault, Michel, 66
Esquivel, Juan Cruz, 193n, 197n Foweraker, Joe, 213n
Evita, vedi Perón, Eva Duarte de Fraccaroli, Armando, 108, 108n
Francesco papa, 23, 185, 188,
Fabri, J.F., 169 195, 202-204, 206, 206n
Fabian, Charles Montague, 31n Franchi, Paolo, 155n-157n, 164n,
Facchinetti, Elvio, 178 172n
Fanesi, Pietro Rinaldo, 109n Franco y Bahamonde, Francisco,
Fanfani, Amintore, 171, 182n 55, 196
Fauri, Francesca, 73n Franco, Massimo, 202n
Federzoni, Luigi, 112, 112n Franzina, Emilio, 100n, 101n,
Feitlowitz, Margherite, 211n 116n
Ferdinando VII di Borbone, re di Freedman, Lawrence, 152n
Spagna, 9, 32, 35, 38, 41, 49 Frigelio, Rogelio, 235
Fernández de Kirchner, Cristina Frondizi, Arturo Ercole, 56, 94,
Elisabet, 17, 18, 20n, 202, 203, 98, 162
218, 231
Fernández, Jesús, 135 Gaja, Roberto, 160
Fernández Cerdeña, Sebastián, Galasso, Giuseppe, 175, 175n
227n, 229n, 231n, 232n, 235n Galasso, Norberto, 224n
Ferns, Henry Stanley, 27n, 29n Gallagher, John Andrew, 26, 26n,
Ferrari, Silvio, 57n 39n, 45, 45n
Ferrarotti, Franco, 179 Galli della Loggia, Ernesto, 174,
Ferro, Roberto, 128n 175, 175n
Ferry, Jean-Marc, 216n Gallina, Fabio, 149, 151n, 155n,
Finchelstein, Federico, 113n 160n, 163n, 165n, 179n

249
Gallo, Edit R., 89n Girona Fibla, Nuria, 64n
Gallo, Klaus, 27n, 28n Giuriati, Giovanni, 106, 106n
Gallori, Paolo, 137n Godechot, Jacques, 26n
Galtieri, Leopoldo, 151, 152, 156, Goldstein, Andrea, 76n, 117n,
157, 168, 174, 176, 179 118n
Gálvez, Manuel, 92n Gozzano, Francesco, 165, 165n
Garay, Juan de, 8n Graham, Gerald Sanford, 31n,
García Belsunce, César A., 8n 35n, 38n, 44n
García, Manuel José, 35, 43, 43n Grainger, John Downie, 28n
García, Rosendo, 130, 134, 135 Granato, Francisco, detto El
García, Victoria, 128n Negro, 135
García Márquez, Gabriel, 142 Grassi, Davide, 214, 214n
Gelli, Licio, 153, 157-159, 158n, Greggi, Agostino, 167, 168
176 Gregorio XVI papa, 48
Genscher, Hans-Dietrich, 180 Grillo, María Victoria, 101n,
Gentile, Emilio, 101n, 109n
105n-107n, 109n Guariglia, Raffaele, 102, 102n,
Giacobone, Carlos A., 89n 103n, 112n
Giannattasio, Valerio, 17n, 22 Guatelli, Arturo, 172n
Giaquinta, Carmelo Juan, 187n Guerra, Agnese, 62n
Giglioli, Daniele, 132n Guerra, François-Xavier, 25n
Gilmozzi, Marcello, 165n Guerrini, Irene, 101n
Giolitti, Antonio, 177 Guidi, Laura, 218n
Giovanni VI di Braganza, re di Guido, José María, 56
Portogallo, 8n Gutiérrez, Gustavo, 196n
Giovanni XXIII papa, santo, 56, Guzzetti, César Augusto, 143,
57 144, 145
Giovanni Paolo I papa, 23, 185-
187 Habermas, Jürgen, 215n
Giovanni Paolo II papa, santo, Haig, Alexander, 151, 160, 172
23, 180, 181, 185, 186, 188, 190- Hallman, William, 147
192, 195-199 Halperin Donghi, Tullio, 13n
Giovetti, Giovanna, 198n Hamilton, William Richard, 34n,
Giuseppe Bonaparte re di Napoli 37, 37n, 39n, 40n
poi re di Spagna, 25, 27 Helms, Richard, 140n

250
Herrera, Nicolás Gregorio, 33 Kaufmann, José Luis, 50n
Hershberg, Eric, 212n Kennedy, John Fitzgerald, 137
Hesayne, Miguel, 193n Khurtz, Federico, 62n
Hidalgo de Cisneros, Baltasar, Kinder, Thomas Jr., 36
30, 31, 31n Kirchner, Néstor, 16n, 17, 197,
Hill, Robert, 143, 144, 146 202, 203, 214, 228, 231, 231n
Hitchens, Christopher, 140, 141n, Kissinger, Henry, 139-146, 145n,
148, 148n 148
Hoffman, Ernst Theodor Korn, Francis, 76n
Amadeus, 62 Kornbluh, Peter, 139, 139n, 141n
Holmberg, Eduardo Ladislao, 22, Kubisch, Jack, 140
61, 61n, 62, 62n, 64, 65n, 66n,
68n, 69, 71, 72 La Capria, Raffaele, 174
Hull, Rex, 153 La Malfa, Ugo, 174
Hullett, John, 33n, 36 Labriola, Silvano, 169, 170, 176
Humphreys, Robert Arthur, 26n, Labroca, Mario, 112n
30n, 31n, 35n, 38n, 44n Laghi, Pio, 193-195
Lagomarsino, Rolando, 122n
Illia, Arturo Umberto, 56, 98 Lanciotti, Norma, 118n
Imbelloni, Norberto, 134, 135 Lanusse, Alejandro Agustín, 60
Incisa di Camerana, Ludovico, Larivera, Luciano, 202n
102n, 104n, 119n, 120n, 152n, Lebensohn, Moisés, 93, 94, 94n
189n Lehoucq, Fabrice, 235n
Iribarne, Alberto, 200 Leiva, María de Luján, 109n
Lenton, Diana, 13n
Jaruzelski, Wojciech, 164 Leone XII papa, 48
Jefferson, Thomas, 29 Leone XIII papa, 52
Jelin, Elizabeth, 212, 212n Letelier, Orlando, 141
Jiménez Codinach, Guadalupe, Liffschitz, Norberto, 135
29n, 32, 32n, 34n, 36n Liniers y de Bremond, Santiago
João VI di Bragança, vedi de, 35
Giovanni VI di Braganza, re di Link, Daniel, 67, 67n, 68, 68n,
Portogallo 70, 127n, 128n
Jotti, Nilde, 171 Livraga, Juan Carlos, 128
Justo Rolón, Agustín Pedro, 52 Llorca-Jaña, Manuel, 46n

251
Lluch, Andrea, 76n, 117n, 118n Magri, Lucio, 168, 178
Lombardi, Federico, 206n Mailer, Norman, 129
Lonardi Doucet, Eduardo A., 56 Malamud, Andrés, 221n, 225n
Londonderry, Charles William Malamud, Carlos, 8n
Stewart terzo marchese di, Mandrini, Raúl J., 13n
28n-30n Manfellotto, Bruno, 155n-157n,
Longo, Pietro, 176 164n, 172n
López Martín, Lola, 61n Manin, Bernard, 215, 216n
López Méndez, Luis, 34n Mannino, Calogero, 171
López Murphy, Ricardo Hipólito, Mannoni, Octave, 69
226 Marchesi, Giovanni, 199n
López Rega, José, 157 Marcinkus, Paul, 159
Lucángeli, Jorge, 73n Maria Luisa di Borbone regina di
Luchetta, Rodolfo, 179, 180 Spagna, 9n
Luciani, Albino, vedi Giovanni Marini, Marino, 51
Paolo I papa Marlowe, Philip, 129
Luconi, Stefano, 101n Marshall, Thomas Humphrey,
Ludmer, Josefina, 67, 67n, 68, 70, 211n
71, 71n Martelli, Claudio, 163, 172, 177
Ludovico I di Borbone, re Martellini, Amoreno, 117n
d’Etruria, 9n Martínez Lillo, Pedro A., 17n
Lugones, Leopoldo, 71 Martínez Sarasola, Carlos, 13n
Luigi XIV re di Francia, detto il Marún, Gioconda, 61, 61n, 63n
Grande o il Re Sole, 175 Mases, Enrique Hugo, 13n
Luigi XVIII re di Francia, 9n Massa, Sergio, 20n
Luigi Filippo d’Orléans, 9n Massera, Emilio Edoardo, 158,
Lussana, Carolina, 121n 158n, 159
Mathé, Ricardo Rafael, 234n, 235n
Machiavelli, Niccolò, 183 Mattera, Luis, 52
Mackinnon, Alexander, 31n Mattina, Gabriela, 224n
Macri, Antonio, 171 Mauro, Sebastián, 224n-227n
Macri, Mauricio, 18-20, 18n, 24, Mbembe, Achille, 71n
137, 186, 204, 221-223, 224n, McFarlane, Anthony, 25n
225-227, 227n, 229, 231, 231n, McGann, Thomas, 84n
232n, 233, 234 McNeile, John, 36

252
Mechi, Lorenzo, 152n, 156n, Mozzoni, Umberto, 57
157n, 160n, 161n, 163n, 164n, Mugnaini, Marco, 101n, 102n
169n, 173n, 179n-182n Müller, Gerhard Ludwig, 196n
Mendoza, Pedro de, 7n Murphy, Thomas, 34
Menem, Carlos Saúl, 11n, 15, Mussolini, Benito, 100n, 102,
197, 198, 214 102n, 104, 106n, 108n, 111, 176
Metalli, Alver, 206n
Mier Noriega y Guerra, José Napoleone I Bonaparte
Servando Teresa de, 36 imperatore dei Francesi, 25, 36,
Mignone, Emilio Fermín, 194, 45, 149
194n Napolitano, Giorgio, 168
Milani, Eliseo, 168 Nascimbene, Mario C., 74n, 76n,
Miller, Rory, 27n 84n, 113n
Mina, Francisco Xavier, 36 Navarro Floria, Juan G., 50n,
Miranda, Sebastián Francisco de, 58n, 200n
28, 34, 34n, 42 Navarro Floria, Pedro, 13n
Mitre Martínez, Bartolomé, 12, Navarro-Valls, Joaquín, 200
38n, 39n Negri, Cristoforo, 117n
Mitterand, François, 166, 166n Neuman, Mauricio Isaac, 113n
Molina, Tomás, 34n Nevares, Jaime de, 193n
Molinari, Diego L., 89, 89n, 90n Newitt, Malyn, 36n
Mondadori, Marco, 177 Newton, Ronald C., 113n
Montini, Giovanni Battista, vedi Nicolazzi, Franco, 176
Paolo VI papa Nixon, Richard, 139, 140n, 142
Mora, Hernán Sergio, 201n Nocera, Raffaele, 8n, 17n,
Morales Solá, Joaquín, 204n Norden, Deborah L., 150n
Morandi, Elia, 118n Novak, Jorge, 193n
Morelli, Federica, 8n, 220n Novaro, Marcos, 8n
Moreno, José L., 75n Nuñez, Julián, 223n, 224n, 226n,
Moreno, Manuel, 33, 33n 230n, 234n
Moreno, Mariano, 33
Moretti, Italo, 193n, 194n O’Donnel, Guillermo, 212n, 215n
Morillo, Pablo, 40, 42 O’Leary, Daniel Florence, 26
Morresi, Sergio Daniel, O’Rourke, Kevin H., 116n
222n-224n, 227n Obama, Barack, 23, 137, 142

253
Obarrio, Mariano, 204n Peña, Marco, 224
Obregón, Martín, 195n Pérez de Cuéllar, Javier, 166,
Olivera, Santiago, 205 179, 181
Olvera Rivera, Alberto, 215n Pérez Guilhou, Dardo, 9n
Onganía, Juan Carlos, 57-60, Pericoli, Tullio, 175, 175n
59n, 136 Perón, Eva Duarte de, 135
Onida, Fabrizio, 117n Perón, Juan Domingo, 11n, 14, 15,
Onida, Valerio, 48n 15n, 50, 53, 55, 56, 59, 93, 119,
Ortolani, Umberto, 159 122n, 127n, 131, 155, 157, 158n
Ostuni, Maria Rosaria, 108n Perrone Capano, Carlo, 154,
Otamendi, Belisario, 64, 66 155n, 161n
Oyanarte, Horacio, 89n Pertini, Sandro, 171, 180
Petraca, José, 134
Padilla, Norberto, 53n, 200n, Petriella, Dionisio, 81, 171
Pajetta, Giancarlo, 164, 168, 169, Pezzè, Andrea, 21
171, 177 Piccoli, Flaminio, 162, 164
Pallaro, Luigi, 162, 171 Pietro I imperatore del Brasile,
Palmer, Robert Roswell, 26n IV come re di Portogallo, 8n
Palmisano, Danilo, 157n, 159n Piglia, Ricardo, 67, 67n, 69, 69n,
Palomba, Sara, 62n 70
Pannella, Marco, 168, 177 Pinochet Ugarte, Augusto, 23,
Pansa Cedroni, Paolo, 155 137, 139, 140, 141, 151, 196, 197
Paolo VI papa, beato, 56-59 Pio VII papa, 48
Papitto, Franco, 161n Pio IX papa, 51
Parini, Piero, 109, 109n Pio XI papa, 53
Paroissien, James, detto Diego, Pio XII papa, 53, 55, 56
26, 30 Piqué, Elisabetta, 201n, 204n,
Pasquino, Gianfranco, 174 206n
Pavolini, Alessandro, 102, 102n Piro, Isabella, 206, 206n
Pearce, Adrian, 29n Pirella, Emanuele, 175, 175n
Pedro I vedi Pietro I imperatore Pironio, Eduardo Francisco, 59
del Brasile, IV come re di Pisanu, Giuseppe, 162
Portogallo Pitt, William, il Giovane, 28
Pellizzari, Maria Rosaria, 218n Planta, Joseph, 46n
Peloso, Francesco, 207n Platt, Desmond Christopher

254
Martin, 26n Ramos Regidor, José, 60n
Pluviano, Marco, 101n Randazzo, Florencio, 20n
Pocock, John G. A., 216n Ravignani, Emilio, 38n, 40n, 41n
Poe, Edgar Allan, 64 Ryan, Patrick, 140
Politi, Marco, 192n, 196n, 197n Reagan, Ronald, 149, 150, 178
Pompejano, Daniele, 8n, 209n Recavarren, Isabel, 219
Popham, Home Riggs, 28, 28n Redondo, Nilda Susana, 133n
Portillo Valdés, José María, 25n Reggiani, Alessandro, 170
Posadas, Gervasio Antonio de, Riccardi, Andrea, 193n, 195,
35-37, 35n-38n 196n, 197n
Powell, Colin L., 138, 138n Rinauro, Sandro, 123n
Precht Pizarro, Jorge Enrique, Rivadavia, Bernardino, 38-43
198n Robertson, William Spence, 32n,
Premat, Silvina, 200n 34n, 40n
Pretelli, Matteo, 100n, 104n Robinson, Ronald Edward, 26,
Prezzi, Lorenzo, 194n 26n, 39n, 45, 45n
Price, Richard E., 36n Roca Paz, Alejo Julio Argentino,
Principe, Michele, 159 vedi Roca, Julio Argentino
Prislei, Leticia, 101n Roca, Julio Argentino, 12, 52, 75
Pruneri, Ugo, 123, 123n Rocca, Agostino, 121, 122, 122n
Puccini, Mario, 99, 99n, 101 Rocca, Enrico, 107n
Puerreydon, Honorio, 92 Rocca, Roberto, 156
Puerta, F. Ramón, 16n Rodríguez, Carlos J., 88n, 92, 92n
Pueyrredón, Juan Martín de, 42 Rodríguez Larreta, Horacio
Antonio, 223n, 224, 232, 234,
Questa, Juan, 158 234n
Quijada, Mónica, 13n Rodríguez Ordóñez, Jaime
Quindimil, Manuel, 229 Edmundo, 25n
Quiroga, Horacio, 71 Rodríguez Pérsico, Adriana, 63n
Quiroga, Hugo, 216n Rodríguez Saá, Adolfo, 16n
Rodríguez Saá, Alberto, 231n
Racine, Karen, 28n, 34n Rodrik, Dani, 116n
Rademaker, John, 33 Rogers, William, 142, 143
Ragno, Francesco Davide, 14n, Rojas, Diego, 225n
22, 91n Roldán, Verónica, 50n, 203n

255
Romanelli, Raffaele, 211n Salas, Reubén Darío, 43n
Romano, Ruggiero, 13n Salvino, Tiziana, 56n
Romero, Luis Alberto, 204n Samorè, Antonio, 186
Romualdi, Pino, 164, 167 San Martín, José de, 9, 30, 40,
Roncalli, Marco, 186, 187, 187n 43, 44
Ronchi, Veronica, 21, 21n, 22, 76n Sánchez, Alberto M., 198n
Roniger, Luis, 210n Sanfilippo, Matteo, 101n, 117n
Ronzitti, Natalino, 151n Sanguinetti, Manuel Juan, 51n
Rosanvallon, Pierre, 215n, 216, Santilli, Luciano, 160n
216n Saragat, Giuseppe, 176
Rosas, Juan Manuel de, 12, 49n Sarandí, Eduardo, 204
Rosoli, Gianfausto, 100n Sarmiento, Domingo Faustino,
Rossi, Giorgio, 180n 12, 13n, 71n
Rossi, Giovanni, 171 Sarratea, Manuel de, 35-38,
Rosti, Marzia, 9n, 17n, 21n, 37n, 35n-39n, 40-43, 40n, 42n, 43n, 46
48n, 53n, 55n Scalfari, Eugenio, 174, 174n
Rougier, Marcelo, 120n Scardin, Francesco, 83n
Rouquiè, Alain, 213n Scarzanella, Eugenia, 100n, 113n
Rousseff, Dilma, 218 Scatena, Silvia, 60n
Rúa, Fernando de la, 16, 16n Scavo, Nello, 203n
Rubin, Sergio, 202n, 206n Scherlis, Gerardo, 230n
Rubio Apiolaza, Pablo, 17n Schiavazzi, Piero, 192n
Rugafiori, Paride, 122, 122n Schmidt, Helmut, 166, 166n
Ruiz Moreno, Isidoro, 52n Scioli, Daniel, 18, 18n, 204
Rulli, Giovanni, 189n, 192 Sebasti, Luis, 122
Rumor, Mariano, 162 Segre, Sergio, 164
Russel, Roberto, 150n Shlaudeman, Harry, 145
Ryan, Patrick, 140 Sicouri, Lucien, 158
Sidicaro, Ricardo, 222n, 229n
Sabatini, Paolo, 156 Silvestri, Siro, 162
Sabato, Ernesto, 194 Sindona, Michele, 159
Sabattini, Amadeo, 91 Sioli, Marco, 22, 23
Saenger Castaños, Fernando Smith, William Sidney, 29, 30n
Raúl, 189n Sori, Ercole, 117
Sala, Roberto, 151n Sorrentino, Lamberti, 110, 111n

256
Sotillo, José Angel, 17n Thatcher, Margareth, 150, 150n,
Sourrouille, Juan V., 73n 152, 152n, 157, 160, 160n, 161n,
Spadea, Stefano Saverio, 69n 165, 166n, 172, 172n, 174n, 179,
Spadolini, Giovanni, 23, 152, 180, 181n, 182
153, 156, 160, 163, 165, 166n, Tintori, Guido, 101n
170-174, 179, 180, 182, 182n Tito, Michele, 177
Speranza, Edoardo, 166 Tkhorovsky, Mykhaylo, 58n
Spinelli, Altiero, 176, 176n Todorov, Tzvetan, 129n
Stabili, Maria Rosaria, 212n, 218, Tognonato, Claudio, 158n
218n, 219, 219n Torrado, Susana, 84n
Stalin, Iosif Vissarionovič, 178 Torre, Juan Carlos, 216, 217n
Staples, Robert Ponsonby, 29, Torres, Juan José, 142
30n, 31n, 32-39, 33n, 37n, 39n, Torrisi, Giovanni, 158
40n, 41, 43-45, 46n Tortolo, Adolfo, 193
Stefanini, Maurizio, 204n Touraine, Alain, 213n, 216n
Strangford, Percy Clinton Sydney Trabucco, Daniele, 21, 23, 185n
Smythe, VI visconte, 30n, 31n, Travaglini, Rosa M., 123n
33, 35, 38-40 Tremaglia, Mirko, 157, 167
Street, John, 27n, 28n, 30, Trento, Angelo, 8n, 100n
30n-32n Triches, Daniele, 124, 124n
Suárez Mason, Carlos, 158 Tripodi, Nino, 167
Susmel, Duilio, 100n Trombadori, Antonello, 177
Susmel, Eduardo, 100n Troxler, Julio, 128n
Sutcliffe, Robert Keith, 29n Tutino, Saverio, 182
Sznajder, Mario, 210n
Umiltà, Carlo, 112n
Taborda, Juan, 135 Urquiza, Justo José de, 12, 51
Tagina, María Laura, 232n, 234n Urquiza y García, Justo José de,
Tarrow, Sidney, 213n vedi Urquiza, Justo José de
Tasco Vincenzo, 104, 104n
Tassi, Loris, 62n Valdani, Vittorio, 110n
Teodori, Massimo, 177 Vale, Brian, 27n
Ternavasio, Marcela, 26, 26n, 30, Valentini, Chiara, 155n-157n,
30n 164n, 172n-174n, 176n, 177,
Terragno, Rodolfo Héctor, 43n 177n, 178, 179n

257
Valeri, Franca, 179 Wellesley, Richard, 34n
Vandor, Augusto Timoteo, 131, Wellington, Arthur Wellesley
134, 135 duca di, 29
Vangelista, Chiara, 210n Wernich, Christian von, 193
Veca, Salvatore, 177 Wertmüller, Lina, 179
Vecchioni, Domenico, 151n, Williamson, Jeffrey G., 116n
192n Wilson, Jason, 8n
Verbitsky, Horacio, 147n, 201n Wolton, Dominique, 216n
Vidal, María Eugenia, 234, 234n Wojtyla, Carol, vedi Giovanni
Videla, Jorge Rafael, 142-144, Paolo II papa, santo
186, 196
Vieira Borges, Antonio, 51 Yofre, Ricardo, 143
Villaflor, Raimundo, 134, 135 Yrigoyen, Hipólito, 14, 22, 87-
Villaflor, Rolando, 135 90, 87n, 90n, 92, 92n, 98
Viola, Sandro, 177n
Visentini, Bruno, 176 Zalazar, Juan, 130, 131
Vittorio Amedeo II, duca di Zanatta, Loris, 8n, 14n, 52n-54n,
Savoia, re di Sicilia, re di 54, 56n, 59n, 101n, 104n, 113n,
Sardegna, 175 187n, 189n, 193n, 206
Volpe, Gioacchino, 103, 103n, Zanca, José, 185n
Volta, Sandro, 112n Zizola, Giancarlo, 194n
Vommaro, Gabriel, 223n, 224n, Zontini, Ezzelino, 124
227n

Wehbe, María Eugenia, 228n,


232n, 233n, 235n
Waddell, David A.G., 32n
Walsh, Rodolfo, 23, 127-133,
127n, 128n, 133n, 135, 136
Walton, William, 35
Webster, Charles Kingsley, 31n,
33n, 40n
Weigel, George, 197n
Wellesley, Arthur, 29
Wellesley, famiglia, 32

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Pubblicato nel mese di giugno 2020

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