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DNA

FUNZIONE

Per svolgere il suo compito, il DNA deve soddisfare almeno 4 esigenze:


1. DEVE TRASMETTERE L’INFORMAZIONE GENETICA DA CELLULA A CELLULA, E DA GENERAZIONE A
GENERAZIONE. Inoltre, deve trasmettere l’intero patrimonio genetico, dunque deve essere in
grado di trasportare un gran numero di informazioni.
ES: escherichia coli ha qualche milione di nucleotidi, il genoma umano è costituito da 3,2 miliardi
di coppie di basi.
2. DEVE CONTENERE L’INFORMAZIONE PER PRODURRE UNA COPIA ESATTA DI SÉ STESSO, in modo
da poter distribuire alla discendenza sia cellulare sia generazionale l’intero contenuto del
patrimonio genetico iniziale, senza errori. La duplicazione del DNA è il momento in cui tutto il DNA
viene utilizzato per la sua duplicazione e non può, quindi, essere utilizzato per la sintesi proteica
che serve alla cellula per vivere e per sopravvivere alle attività nocive dell’ambiente. Deve essere,
perciò, una duplicazione precisissima e, per quanto possibile, rapida.
3. ESSERE CHIMICAMENTE STABILE, ovvero non deve subire mutazioni al variare della temperatura a
causa di cambiamenti ambientali o in presenza di eventi ambientali sia intra che extracorporei;
infatti, la molecola a doppia elica si denatura solo a 100° circa.
4. DEVE POTER MUTARE, PERCHÉ LA MUTAZIONE DEL DNA DEVE PERMETTERE L’ADATTAMENTO
DELLA SPECIE ALL’AMBIENTE CHE CAMBIA IN CONTINUAZIONE. Quando un gene muta, cioè
quando viene commesso un errore, l’errore deve essere copiato fedelmente. Senza questa capacità
non ci sarebbe sufficiente variazione genetica e, di conseguenza, non ci sarebbe l’evoluzione.
Queste mutazioni devono essere trasmissibili alle cellule e alle generazioni figlie.
Vedremo come nella maggior parte dei casi queste mutazioni hanno un effetto negativo su un
organismo.

STRUTTURA

Il DNA (acido desossiribonucleico) è una delle macromolecole


presenti nel nostro organismo, le cui molecole sono costituite da
catene di NUCLEOTIDI.
Il filamento di CROMATINA, contenuto nel nucleo, è il sistema
attraverso il quale le molecole di DNA sono impacchettate
ordinatamente dentro il nucleo. Ogni cellula contiene circa 2
metri di DNA e riescono ed essere contenute nella cellula (grande
dai 20 ai 40 µm) grazie a particolari proteine, le cui principali
sono gli ISTONI.

Nel 1869 (pressappoco l’epoca in cui Mendel stava ottimando la stesura delle sue leggi) Friedrich Miescher
isolò e identificò per la prima volta il DNA, non conoscendo, però, la sua funzione, il suo “significato” e lo
definì una “sostanza bianca, zuccherina (contiene infatti una molecola di zucchero a 5 atomi di carbonio: il
desossiribosio), leggermente acida e contenente fosforo”.

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Venne chiamato inizialmente “nucleina”, poi “acido nucleico” e successivamente “acido
desossiribonucleico”. Veniva concepito come sostanza giallina e appiccicosa, e si trovava nel pus delle ferite
dei soldati coinvolti nelle guerre.
Nel 1914 Robert Feulgen scoprì una forte affinità del DNA per la fucsina, una sostanza che colora, a livello
citologico, specificatamente, il DNA.
Gli studi che hanno portato a scoprire il DNA come la molecola fondamentale per le
cellule eucariotiche e per tanti altri organismi molto più semplici si accumularono,
però, dal secolo successivo, intorno al 1920 circa, finché non si arrivò, infine, nel
1953, a identificare la sua struttura base di elica costituita da due emieliche
combinate tra di loro.
Negli anni Venti P.A. Levene dimostrò che il DNA era composto da:
- uno ZUCCHERO a 5 atomi di carbonio,
- un GRUPPO FOSFATO
- 4 BASI AZOTATE: adenina e guanina (purine a 2 anelli), e timina e citosina
(pirimidine ad 1 anello).
Il DNA, dunque, è costituito da catene polimeriche di nucleotidi.
Ogni NUCLEOTIDE ha una struttura base in cui si possono riconoscere tre “zone”:
acido ortofosforico collegato al carbonio 5’ della molecola di desossiribosio
(zucchero a 5 C), la quale a sua volta è legata, tramite legame covalente, ad una base
azotata. La molecola di acido ortofosforico è la molecola che permette di costruire
dei polimeri nucleotidici, ovvero delle catene di acidi nucleici.

DOSAGGI DI ERWIN CHARGAFF


Nel primo ventennio del secolo scorso, Erwin Chargaff scoprì la correlazione tra le moli di purine e
pirimidine all’interno di una molecola di DNA, dimostrando come esse siano presenti nella stessa quantità:
la quantità di adenina è pressoché uguale alla quantità di timina, e lo stesso vale per guanina e citosina. Il
rapporto tra le 4 basi azotate è specifico per ogni specie, in particolare negli umani abbiamo:
- 40-42% G E C
- 58-60% A E T
Grazie alla tecnologia odierna è stato possibile dimostrare che le percentuali, talvolta, presentano alcune
differenze di piccola entità. Un caso particolare è il batterio di E. coli che presenta una differenza superiore
all’1%. La regola della complementarità si è rivelata di basilare importanza per cercare di comprendere
come fosse organizzata la molecola del DNA.

IL MODELLO DI WATSON E CRICK


Watson e Crick sono i padri della genetica molecolare moderna.
Dal 1953 si sono accumulate un’infinità di informazioni riguardo il funzionamento del DNA e le attività ad
esso correlate, che hanno affermato questa molecola come la responsabile della trasmissione dei
caratteri, e del mantenimento della specie di generazione in generazione.
Gli studi hanno portato alla designazione della molecola di DNA in tutte le sue parti.
La struttura di DNA è conseguenza del legame fosfodiesterico (legame covalente) che si genera tra una
molecola di acido ortofosforico legato al carbonio 5’ di un nucleotide e il carbonio 3’ del desossiribosio del
nucleotide precedente.

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Questa apparentemente complicata descrizione del legame fosfodiesterico è la conseguenza di una serie di
informazioni che si sono accumulate dopo la scoperta di Watson e Crick che hanno messo in risalto quanto
rilevante sia stabilire il VERSO che assume la catena del DNA poiché tale verso è correlato direttamente con
tanti altri processi biologici che riguardano gli acidi nucleici: non solo gli enzimi implicati nel processo di
duplicazione, ma anche, ad esempio, molti antivirali sono basati sull’interferenza di questi legami a livello
del genoma del virus responsabile della malattia. Perciò, la conoscenza anche di dettagli che sembrano
inutili chiarisce, in realtà, il meccanismo di funzionamento dei farmaci.
Il verso della catena singola di acidi nucleici è 5’ →3’. Per convenzione:
- il nucleotide iniziale è quello che ha l’acido ortofosforico, collegato al carbonio 5’ del
desossiribosio, non legato al nucleotide precedente,
- il nucleotide finale è quello che ha il C3 del desossiribosio non legato al nucleotide successivo.
Nelle cellule eucariotiche il DNA è costituito da due catene assemblate tra loro rispettando delle “regole”
precise che giustificano il rapporto di COMPLEMENTARITÀ esistente tra le basi azotate A-T e C-G: le due
catene appaiate tramite i legami tra C-G e A-T sono definite tra loro complementari.
Tra adenina e timina l’appaiamento è dato da due legami deboli detti ponti a idrogeno che si formano tra
le basi complementari A e T, mentre per guanina e citosina si formano tre ponti a idrogeno.

! Perché si sviluppano solo legami A-T e C-G?


Perché solo queste due coppie di basi riescono a sviluppare un numero di ponti a idrogeno sufficiente e
sufficientemente a lungo per fa sì che si possa sintetizzare la catena di DNA; infatti, se si appaiassero
forzatamente G e T essi stabilirebbero un unico ponte a idrogeno che non è sufficiente a tenerli insieme per
il tempo necessario alla DNA polimerasi a legare i nucleotidi uno dopo l’altro (ciò ostacolerebbe il processo
di sintesi), mentre A e C non riescono proprio a formare un legame.
I legami idrogeno sono importanti in quanto, durante la replicazione del DNA, la catena di stampo viene
copiata con la sua catena complementare neosintetizzata. Il primo passaggio è quello di far appaiare

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singolarmente i vari nucleotidi liberi con le basi sulla catena di stampo. Questo appaiamento è basato su
ponti idrogeno per cui, quando ne sono presenti due o tre, sono sufficientemente prolungati per far sì che la
DNA polimerasi possa collegarli tra di loro nella nuova catena. Se c’è un solo ponte idrogeno la DNA
polimerasi non fa in tempo a catalizzare il legame fosfodiesterico lungo la catena nascente.

Trattandosi di legami deboli, come riescono questi a conferire al DNA quella stabilità “infallibile” tale per cui
una catena a doppia elica deve essere portata a 100° o poco meno per essere denaturata?
Ciò accade perché ciascuna molecola di DNA presente nelle cellule eucariotiche è costituita da un numero
elevatissimo di coppie di basi appaiate, per cui il numero di ponti a idrogeno è molto elevato e questo
determina la grandissima stabilità della molecola di DNA e contemporaneamente, proprio perché tali
legami di per sé sono labili, conferisce alla molecola di DNA anche un’eccezionale flessibilità che gli
permette di impacchettarsi ordinatamente all’interno del nucleo (grande circa 4-5 μm).
I due filamenti appaiati hanno verso opposto, poiché una catena ha come nucleotide iniziale quello con il
carbonio 5’ libero che si appaia con la sua base azotata a quella complementare sull’altra molecola di DNA
presentante l’ultimo nucleotide con il carbonio 3’ libero; perciò, i due filamenti sono detti ANTIPARALLELI.
Gli enzimi che duplicano il DNA e che effettuano le riparazioni laddove esso sia danneggiato agiscono
sempre e solo in direzione 5’-3’, altri enzimi invece lavorano in direzione 3’-5’, ma sono più rari; la lettura di
un gene avviene sempre in direzione 5’-3’.
È usanza assimilare la struttura della doppia elica ad una scala a pioli avvolta su sé stessa mantenendo i
pioli perpendicolari all’asse di rotazione. In questa metafora:
- i montanti della scala sono rappresentati dagli acidi ortofosforici e dagli zuccheri pentosi,
- i pioli sono le basi azotate legate tra loro mediante legami idrogeno.
Si creano un SOLCO MAGGIORE e un SOLCO MINORE, cioè degli avvallamenti (alcuni farmaci modulano
l’attività del DNA legandosi solo ad uno dei due oppure ad entrambi).
La catena di DNA assume una struttura elicoidale con avvolgimento destrorso.
Un giro completo della molecola di DNA contiene 10 coppie di basi che si estende per 3,4 nm; di
conseguenza, se 10 coppie di basi occupano 3,4 nm, la distanza tra una coppia di basi e la successiva è di
0,34 nm, mentre lo spessore della doppia elica sulla struttura più frequente è, complessivamente, di 2 nm.
È bene ricordare questi valori, in quanto essi devono essere rispettati per evitare l’insorgere di mutazioni.
Introducendo delle basi azotate modificate chimicamente (largamente utilizzate nelle terapie oncologiche),
si otterrà una distorsione della doppia elica e conseguentemente, un rallentamento della replicazione
cellulare.
La struttura più frequente della molecola di DNA a doppia elica è il DNA DI TIPO B (corrisponde a quella
identificata da Watson e Crick), caratterizzata da:
- andamento elicoidale (armonico),
- avvolgimento destrorso,
- solchi maggiori e minori
- lunghezze di 0,34 nm tra due basi e 3,4 nm per un avvolgimento completo intorno al proprio
asse.
Tuttavia, questa non è l’unica struttura tridimensionale che può assumere il DNA poiché esistono altre due
forme, sempre più comuni, ma più rare rispetto a quello di tipo B. Queste altre strutture possono essere
modificate e si possono interconvertire tra di loro, a seconda della specifica funzione che svolge un
determinato tratto di DNA.

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Esistono anche:
• A - DNA: si caratterizza per la presenza di solchi molto meno profondi (appena accennati), per una
morfologia più compatta e l’avvolgimento rimane sempre destrorso. Confrontando il B-DNA e il A-
DNA, a parità di spazio occupato da un certo numero di nucleotidi nel B-DNA, nella struttura di tipo
A il numero sarà ovviamente di gran lunga maggiore, infatti ci sono 11 nucleotidi per ogni
avvolgimento anziché 10. Si ha una molecola più grossolana ma più compatta, occupa meno spazio
in lunghezza. Il DNA di tipo A è una struttura rara in natura, la si può riprodurre in laboratorio.
Raramente può andare ad interferire con i
meccanismi di trascrizione o replicazione. Il A-
DNA a parità di spazio occupato da un certo
numero di nucleotidi nel B-DNA, nella
struttura di tipo A il numero sarà ovviamente
di gran lunga maggiore. Questo tipo di DNA è
tipicamente il DNA delle zone eterocromatiche
del genoma.
• Z - DNA: come il DNA di tipo A, anche in
questo i solchi sono appena evidenti e ciò
rende il profilo del Z-DNA più snello e
disordinato. L’avvolgimento, invece, è
sinistrorso (levogiro), non più caratterizzato da
una linea che decorre in modo continuo, ma devia in continuazione con andamento non
armonioso, irregolare, secondo una linea spezzata, ha un andamento a zig-zag (da cui il nome). E’
presente in natura, si può trovare a monte delle forche di replicazione nella bolla di duplicazione,
dove la molecola da duplicare si super-avvolge in senso contrario. Confrontando il B-DNA e il Z-DNA
a parità di spazio occupato da un certo numero di nucleotidi nel B-DNA, nella struttura di tipo Z il
numero sarà ovviamente minore. Inizialmente si pensava che fosse una struttura rilevabile solo in
ambito sperimentale, mentre è ormai stata resa evidente la sua presenza all’inizio delle forcelle di
replicazione o nei tratti di DNA intergenico.
• DNA A TRIPLA ELICA: Formato da 3 catene di acidi
nucleici, 2 sono canoniche e appaiate con i classici
ponti ad idrogeno mentre la terza può associarsi
utilizzando altri gruppi chimici delle basi azotate di
una delle 2 catene, dando luogo così alla possibilità
di associare un terzo filamento di DNA o RNA alla
molecola a doppia elica. Questo fenomeno può
essere sfruttato anche a scopo terapeutico per
agganciare una molecola che possa regolare
l’espressione di un determinato gene. Legando il
DNA ad una terza catena, diventa molto difficoltoso per l’RNA polimerasi poter leggere la sequenza
genica di una delle due catene che è già avvolta dalla terza catena di acido nucleico. Questi ponti ad
idrogeno che si vengono a formare sono detti ponti ad idrogeno di Hoogsteen. Come si può notare,
in questo caso l’adenina stabilisce i due normali ponti a H con la timina della doppia elica e
contemporaneamente lega anche un’altra timina appartenente ad un altro filamento. (Ciò avviene
anche per la guanina). Questo comporta che un’altra catena di acido nucleico possa entrare in
relazione con un DNA a doppia elica. Tale meccanismo è stato utilizzato per sviluppare molecole di
acido nucleico con funzione di regolazione della trascrizione o duplicazione del DNA. Oggi si sa che
il DNA a tripla elica favorisce la regolazione tra RNA non codificanti e regioni a monte dei geni.

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• ACIDO NUCLEICO A QUADRUPLA CATENA: Questa molecola si sviluppa quando su una catena di
acido nucleico di DNA o RNA ci sono almeno 8 guanine in successione, che possono combinarsi in
modo da dar luogo ad un ripiegamento multiplo di DNA. Si formano infatti ponti ad idrogeno di
Hoogsteen tra guanine contigue sullo stesso
filamento di DNA, stabilizzati tramite un catione
posto al centro. (Le zone verdi nella figura
rappresentano i pentosi dei vari nucleotidi).
Questa struttura, data da almeno 2 tetradi di
guanine, può trovarsi in corrispondenza
dell’estremità 5’non tradotto della sequenza di un
gene, cioè tra il TATA box (la sequenza più ricorrente
che permette la trascrizione attraverso il
riconoscimento del gene da parte della RNA polimerasi) e l’ATG (che codifica per metionina), nelle
regioni telomeriche dei cromosomi e anche in alcune regioni ricche di guanina al confine tra esoni
e introni (nelle regioni di “splicing” del RNA-eterogeneo/preRNA DNA).

DUPLICAZIONE DEL DNA

Watson e Crick si accorsero che era possibile teorizzare un meccanismo di duplicazione.


Essi introdussero il MODELLO SEMICONSERVATIVO della duplicazione del DNA, in cui le due emieliche
si separano e ognuno dei filamenti funge da stampo per la sintesi di un nuovo filamento, in conformità
con la regola di appaiamento delle basi (complementarità), infatti su queste si adagiano per
complementarità nucleotidi trifosfati che poi vengono legati da un enzima detto DNA polimerasi.
I primi esperimenti volti a capire come funzionasse questo meccanismo di duplicazione si svolsero sui
procarioti, più semplici rispetto alle cellule eucariotiche, rispetto ai quali vi era già un buon grado di
conoscenza e in cui la molecola di DNA è unica, circolare e contiene qualche milione di nucleotidi.
Le immagini sono immagini di auto-radiografie, cioè immagini ottenute utilizzando nucleotidi marcati
radioattivamente. Analizziamo le varie immagini:
a) Quella specie di “ovale/castone” sulla sommità
rappresenta proprio lo sdoppiamento del DNA a
doppia elica (forca replicativa). Sui due filamenti
sdoppiati sta dunque iniziando la sintesi del nuovo
DNA, ma la molecola neosintetizzata non è visibile
poiché non presenta al suo interno nucleotidi
radioattivi.
b) Rappresenta la molecola di DNA di un altro
batterio. Si nota come la forca di replicazione si sia
ormai estesa a quasi la metà di tutto il filamento di
DNA che si presenta ormai diviso. Resta solo una
porzione ancora non replicata.
c) Abbiamo una ulteriore progressione della duplicazione (quella sulla destra è la porzione ancora da
duplicare).
d) La duplicazione è quasi arrivata al termine.

Mentre nei procarioti la replicazione inizia in un unico sito di origine, nelle cellule, invece, essendoci
un genoma migliaia e migliaia di volte più grande rispetto ai procarioti, i siti di replicazione sono

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necessariamente molti di più. Nelle cellule eucariotiche il processo di duplicazione non inizia su ciascun
cromosoma in un punto preciso, ma ci sono tantissimi siti di inizio replicazione. Questi sono così
numerosi perché il genoma eucariotico è molto più abbondante, da 50 a 1000 volte più abbondante di
quello dei batteri. Nei batteri il genoma è costituito da qualche milione di nucleotide, ha un’unica bolla
di replicazione. Nelle cellule eucariotiche su uno stesso filamento di un cromosoma ce ne sono
numerose, nell’uomo la media è 1 sito di replicazione ogni 80.000 basi, cioè ogni 80.000 nucleotidi. E
quindi ogni cromosoma avendo milioni di nucleotidi presenta numerosi siti di replicazione.
Inoltre, la presenza così elevata di tutti questi siti si rende necessaria per velocizzare il processo di
replicazione anche perché, al momento della duplicazione del DNA durante la fase S dell’interfase, la
cellula è assai più debole nei confronti dell’ambiente circostante poiché impegnata nella sintesi del
nuovo DNA e dunque non si rende disponibile nella trascrizione di mRNA per sintetizzare enzimi o
proteine che possano proteggerla: è un processo che impedisce alla cellula di fare qualsiasi altra cosa,
quindi deve essere breve e preciso.

In base al modello della replicazione semiconservativa, ciascuna nuova molecola di DNA che si verrà
a formare conterrà un intero filamento vecchio e un intero filamento di nuova sintesi.
La regione di sintesi appare come una BOLLA DI REPLICAZIONE, alle cui estremità ci sono le 2 forcelle di
replicazione, ad Y. La duplicazione avviene in entrambe le direzioni, con le due forche che si spostano in
direzioni opposte.
La doppia elica del DNA viene dapprima srotolata presso una specifica sequenza di nucleotidi che
costituiscono il SITO DI ORIGINE, ricco di basi A-T.
La bolla di replicazione è presente in regioni ricche di coppie A-T perché ci sono meno legami rispetto
alle coppie C-G e ciò comporta un dispendio energetico minore.
Tramite l’interazione con un enorme complesso proteico, detto complesso di replicazione, costituito
da particolari proteine di attivazione ed enzimi conosciuti con il nome di ELICASI che despiralizzano la
doppia elica rompendo i legami a idrogeno tra le varie basi, si forma la cosiddetta “bolla di
duplicazione”. Ai margini della bolla di duplicazione troviamo invece le cosiddette “forcelle di
duplicazione”, regioni a livello delle quali sta avvenendo la separazione graduale della molecola di DNA
a doppia elica, in modo da esporre catene singole di DNA.
Nel momento in cui la
doppia elica viene aperta
dall’elicasi, interviene una
single-strand binding
protein (dall'inglese,
proteina legante il DNA a
catena singola), nota anche
come SSB o SSBP o
proteina stabilizzante
l'elica, che è una proteina
in grado di legare le regioni
di DNA a singolo filamento,
al fine di prevenirne il
riappaiamento con un altro
singolo filamento. Poiché i
singoli filamenti di DNA tendono spontaneamente ad appaiarsi in una doppia elica, il legame delle SSB
aiuta enzimi come le elicasi a stabilizzare l'elica denaturata, condizione necessaria per procedere alla
replicazione del DNA. Le due emi-eliche sono ora abbastanza stabili per essere duplicate.

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Tutto ciò si rende necessario per permettere l’allontanamento dei due filamenti stampo affinché siano
disponibili all’appaiamento con nuove basi (nuovi nucleotidi). I nuovi nucleotidi si uniscono a ciascun
nuovo filamento in crescita secondo una sequenza determinata dall’appaiamento per complementarità
con le basi del filamento stampo. La formazione dei legami fosfodiesterici (un fosfato che lega due
zuccheri) è catalizzata dagli enzimi DNA POLIMERASI. La DNA polimerasi è estremamente precisa, copia
in maniera fedele le due catene di DNA, fa 1 errore ogni 20-50 milioni di nucleotidi copiati (elevata
precisione, difficilmente ci sono errori che hanno effetti patologici).
La DNA-polimerasi lega tra loro nucleotidi solo se, a monte del tratto che deve copiare, c’è già un tratto
a doppia elica. Infatti le DNA polimerasi sono capaci di allungare un filamento polinucleotidico legando
in modo covalente un nucleoide per volta a un filamento preesistente, ma non riescono ad iniziarne
uno dal nulla. Per questo serve un filamento di avvio detto primer (innesco), cioè un breve filamento
singolo di RNA (circa 10 nucleotidi di RNA) che si appaia momentaneamente. Il primer è sintetizzato
dall’enzima RNA-primasi. Quando il primer è completato, la DNA polimerasi si lega e sintetizza nuovo
DNA in direzione 5’-3’. L’enzima DNA polimerasi aggiunge un altro deossinucleotide al gruppo -OH in
corrispondenza dell’estremità 3’ del filamento in direzione 5’-3’.

SOLUZIONE DI OKAZAKI
L’allungamento procede in modo diverso sui due filamenti antiparalleli di DNA.
Il filamento che ha l’estremità 3’ libera verso la forcella, cioè ha andamento 3’-5’, viene duplicata in
modo continuo ed è detto filamento guida-veloce. Viceversa sulla emielica complementare, che ha
andamento opposto (5’-3’), il filamento è prodotto in modo discontinuo e si generano una serie di
piccole sequenze di DNA (100-300 nucleotidi) inizialmente separate le une dalla altre (frammenti
Okazaki): è detto filamento in ritardo-lento.
La DNA polimerasi che sintetizza il tratto di DNA a valle dell’innesco a RNA svolge anche un’altra
funzione, quella di degradare i primer disposti all’origine di ogni frammento di Okazaki con funzione
ribonucleasica quando viene a contatto con la loro estremità 5’. Questo fa sì che si producano tanti
frammenti un po’ più lunghi di quelli iniziali che però continuano a rimanere separati tra loro sulla
catena duplicata in ritardo. Tali sequenze vengono compattate dalla DNA ligasi, specifica per
catabolizzare il legame fosfodiesterico tra due tratti consecutivi.
Esistono diverse categorie di DNA Polimerasi, ognuna svolge una funzione particolare. Ad esempio, la
DNA Polimerasi II si occupa di correggere le bozze riempiendo zone della molecola di DNA non
complete, oppure corregge gli appaiamenti con errori, sintetizzando nuovamente il tratto.

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Durante la duplicazione del DNA negli eucarioti, essendoci molti siti di origine, la bolla di replicazione si
propaga nelle due direzioni fino ad incontrare una bolla adiacente. Tutto il cromosoma è duplicato nel
momento in cui si incontrano tutte le bolle di duplicazione.
Man mano che le forche di replicazione di ogni bolla progrediscono in direzione opposta scorrendo
lungo il DNA si esercitano delle forze di torsione sulla doppia elica che causano un superavvolgimento
con conseguente aggrovigliamento della doppia elica stessa a monte delle forche di ogni bolla (esempio
elastico). Queste crescenti forze di torsione
comporterebbero la rottura della molecola di DNA
(frantumazione) se non fosse per l’intervento di altri
enzimi, chiamati topoisomerasi, che hanno la capacità
di tagliare il DNA su una o entrambe le catene in modo
da allentare la forza di torsione e successivamente
catalizzare di nuovo il legame fosfodiesterico che è
stato inizialmente idrolizzato ristabilendo la continuità
della catena di DNA.
Tutti questi enzimi ovviamente sono codificati e
tradotti da gene; quindi, se uno di questi geni presenta mutazioni, queste ultime si rifletteranno anche
sulle funzioni delle proteine codificate da questi geni. Questo discorso può essere applicato anche ai
geni che codificano per le topoisomerasi che quindi poi non riusciranno a stabilizzare la doppia elica
con conseguente frammentazione della molecola di DNA. Le topoisomerasi vengono utilizzate anche
come farmaci per interrompere la duplicazione del DNA in cellule che si stanno replicando troppo
rapidamente (Cellule Tumorali); contrariamente esistono farmaci che impediscono che le topoisomerasi
possano agire.

Una molecola di DNA polimerasi sintetizza il filamento guida, mentre l’altra DNA polimerasi sintetizza i
singoli frammenti in direzione opposta a quella di apertura della forca di duplicazione. Questi due
fenomeni sono presenti in contemporanea in entrambe le forche.

ESPERIMENTO DI HERSHEY E CHASE

FOROSFORO E ZOLFO RADIOATTIVI


Alla fine dell’Ottocento si conosceva molto bene la struttura delle proteine e si riteneva che fossero
proprio loro a trasportare l’informazione genetica e il fenotipo da una generazione all’altra.
Questa convinzione era dovuta al fatto che il DNA appariva come una molecola troppo semplice per avere
un ruolo così decisivo nella trasmissione dei caratteri e, vista la grande variabilità degli aspetti dei vari esseri
viventi, si riteneva più probabile che fossero le proteine gli elementi fondamentali della conservazione
dell’aspetto di ogni specie, in quanto gli amminoacidi costituenti le proteine si presentano più numerosi
rispetto alle 4 basi azotate del DNA.

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Tuttavia Alfred Hershey e Martha Chase nel 1952 condussero un esperimento per verificare se
l’informazione genetica dei un batteriofago era associata alla sua componente proteica o ai suoi acidi
nucleici.
I batteriofagi sono virus che hanno come bersaglio le cellule batteriche, hanno il capside poliedrico e una
specie di “piede” da cui fuoriescono strutture proteiche con cui si agganciano alla superficie del batterio. Si
sapeva che i batteriofagi atterravano sulla superficie del batterio che, in seguito al contatto, esplodeva
perché il virus sfrutta il suo apparato biosintetico per replicarsi.
Gli scienziati esaminarono batteriofagi in cui erano riconoscibili:
- LA COMPONENTE PROTEICA
- GLI ACIDI NUCLEICI.
Il DNA è ricco di fosforo, un elemento normalmente assente nelle proteine. Il fosforo presenta un isotopo
radioattivo, 32P. Così i ricercatori fecero sviluppare un di batteriofago T2 in una coltura batterica
contenente 32P, in modo da marcare con questo isotopo radioattivo il DNA virale.
Questi virus marcati con isotopi radioattivi vennero poi messi in
contatto con dei batteri.
Dopo pochi minuti dall’infezione, le soluzioni contenenti i batteri
infettati furono prima agitate in un frullatore, in modo abbastanza
energico da staccare dalla superficie batterica le parti del virus che
non erano penetrate nel batterio (ma non così tanto da provocare la
lisi del batterio.
Poiché le particelle virali sono molto più leggere, nel fondo della
provetta c’erano i batteri, nel surnatante le parti virali che non erano
entrate in contatto con essi.
La radioattività (misurata con contatore Geiger) si trovava tutta sul
fondo (dove c’erano i batteri): i batteri erano stati infettati dagli
acidi nucleici del virus.
Fecero un’ulteriore prova. Le proteine contengono zolfo (negli
amminoacidi cisteina e metionina), un elemento che non compare
nel DNA. Lo zolfo presenta un isotopo radioattivo, 35S. Hershey e
Chase fecero sviluppare il batteriofago T2 in una coltura batterica
contenente 35S, in modo da marcare con questo isotopo radioattivo
le proteine delle particelle virali risultanti.
Misero nuovamente in contatto batteriofagi e batteri e videro che,
dopo la centrifugazione, la radioattività si trovava nel surnatante.
Questi risultati suggerivano che a trasferirsi nei batteri era stato il DNA: quindi era proprio questa la
sostanza capace di modificare il programma genetico della cellula batterica.

DIPLOCOCCHI E TOPI
Venne poi condotto un esperimento su diplococchi patogeni che causano la polmonite. Nel sangue dei topi
morti a causa di questa infezione troviamo i patogeni vivi. Se invece i topi prendono la forma non patogena
del diplococco, non muoiono e non succede nulla.
Gli scienziati si chiedono quale molecola distingue la forma patogena da quella non patogena. Nel
tentativo di scoprire questo elemento, provano a prendere la coltura di patogeni, esporla al calore (bollirla)
e inocularla nel topo. La cottura ha “sterilizzato” il batterio.

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Unirono un’aliquota di batteri patogeni cotti e una di non patogeni vivi, e inocularono il tutto nel topo: il
topo muore e nel suo sangue trovarono i patogeni vivi, come se fossero risorti.
Gli scienziati provarono poi a mescolare i non patogeni vivi con le diverse componenti (proteine e acidi
nucleici) dei patogeni cotti. Quando utilizzarono le proteine, i topi sopravvissero MENTRE quando
utilizzarono gli acidi nucleici, i topi morirono e i batteri non patogeni erano diventati patogeni. ERANO
QUINDI GLI ACIDI NUCLEICI A TRASFORMARE I NON PATOGENI IN PATOGENI.

11
RNA

DIFFERENZE CON IL DNA:


- Al posto del desossiribosio c’è il ribosio.
- Al posto della timina c’è l’uracile
- C’è un singolo filamento; questo significa che non ci sono due emi-eliche singole ma può esserci o
una singola elica o una doppia elica (in cui però le basi complementari appartengono alla stessa
elica)
-
DOGMA CENTRALE DELLA BIOLOGIA

Nell’immagine è sintetizzato il dogma centrale della biologia e della genetica, considerata una vera e
propria regola, fino alla fine degli anni 80 dello scorso secolo. Secondo questa
regola, esisteva la molecola di DNA, a singola e/o a doppia elica, ed era la
depositaria dell’informazione genica della specie.
La molecola di DNA era in grado di duplicare sé stessa e di trascrivere per
molecole di RNA. Queste molecole di RNA fungevano, a loro volta, da
messaggero per trasferire l’informazione genica dal nucleo, al citoplasma, dove
poteva avvenire la sintesi di proteine, tramite un processo definito traduzione.

Dalla fine degli anni ’80 in poi, si registrarono numerosi studi, che portarono al
consolidamento di nuove scoperte:
1. l’RNA poteva esistere come molecola depositaria dell’informazione
genica.
Basti pensare ai retrovirus, che hanno come molecola principale l’RNA, in cui sono, di fatti,
contenute tutte le informazioni per la loro replicazione e per le loro funzioni.
Queste nuove conoscenze mettevano in discussione il flusso da DNA a RNA (come prevedeva il
dogma centrale della biologia), perché in questo caso l’RNA può tornare a DNA, in modo da far
integrare il genoma virale, inizialmente a RNA, con quello della cellula eucariote (cellula ospite), che
ha un genoma a DNA. Nel nostro genoma, infatti, ci sono molte sequenze che somigliano molto al
genoma virale e testimoniano quanto scoperto.
2. Le molecole di RNA non necessariamente devono essere tradotte in proteine. Si parla di RNA non
codificanti. Queste molecole di RNA vengono prodotte da cellule eucariote, e possono funzionare
per qualche attività cellulare, non solo per la sintesi di proteine.
Ne sono un esempio l’RNA ribosomiale o rRNA, componente strutturale del ribosoma, e l’RNA di
trasporto o tRNA. Entrambi questi tipi di molecole sono molecole di RNA che NON vengono
codificate in proteine.
Negli ultimi decenni, sono stati scovati, nel nostro genoma, alcuni geni per gli RNA non codificanti. Questi
geni hanno diverse dimensioni, vengono trascritti in RNA e possono intervenire in alcuni processi cellulari,
come ad esempio la maturazione di mRNA, duplicazione del DNA, meccanismi di mitosi e meiosi, e
meccanismi di regolazione genica.
Oggi si è scoperto che a fronte dei 20.000 geni, ce ne sono altrettanti per gli RNA non codificanti.
Con queste informazioni nuove, il Dogma Centrale della Biologia venne accantonato perché sia DNA, che
RNA, possono contenere l’informazione genica e possono svolgere funzioni molteplici.

12
I TIPI DI RNA

Gli RNA principali sono:


- tRNA: partecipa alla sintesi proteica
- rRNA: elemento strutturale dei ribosomi, favorisce la traduzione
- mRNA: molecole che regolano l’assemblaggio degli amminoacidi all’interno della proteina
sintetizzata nel ribosoma.
Il tRNA e l’rRNA, sono molecole traducenti, cioè stimolano la traduzione.
Queste molecole di RNA sono caratterizzate da una grande stabilità, a differenze degli mRNA, che sono
invece labili e devono essere tali, perché dopo aver svolto la loro funzione devono essere eliminati nel giro
di qualche ora/giorno. Quando ciò non avviene, può registrarsi un’alterazione della fisiologia della cellula
stessa (molti casi oncologici si basano appunto, sulla permanenza di mRNA messaggero oltre il tempo
dovuto).
La grande stabilità dei tRNA e degli rRNA, fa sì che essi siano le tipologie più abbondanti nella cellula,
rispetto agli mRNA.
I tre tipi di RNA si distinguono anche per la localizzazione intracellulare:
• gli rRNA si trovano nei ribosomi
• i tRNA sono diffusi nel citoplasma
• i mRNA vengono sintetizzati nel nucleo, a livello dell’eucromatina (cromatina meno condensata), ma
svolgono la loro funzione nel citoplasma quando si legano ai ribosomi.

Funzione nella Caratteristiche Sede nel


Classe % dell’RNA totale
traduzione metaboliche citoplasma
tRNA Traducenti Stabili Citosol 10-20%
rRNA Traducenti Stabili Ribosomi 80-90%
mRNA Traducibili Labili Poliribosomi 2-5%

LA TRASCRIZIONE DELL’MRNA

La trascrizione dell’RNA somiglia per alcuni aspetti alla duplicazione del DNA.
L’enzima RNA polimerasi riconosce il promotore del gene che deve essere trascritto lungo la catena di
DNA: questa regione si chiama TATA BOX.
Il legame della polimerasi sul sito del promotore induce il distacco della
doppia elica con conseguente avvio dell’appaiamento dei nuovi
ribonucleotidi complementari sulla base di una sola delle due emieliche,
usata come stampo.
A questo punto si ha la sintesi di RNA messaggero, fino a quando l’RNA
polimerasi, non incontra alcune sequenze specifiche, che arrestano la
trascrizione. Così l’emielica del DNA usata come stampo si riappaia e
ricostituisce la struttura a doppia elica.
L’immagine qui a destra, rappresenta uno dei segnali che inducono il
distacco del filamento di mRNA, ovvero la formazione di un tratto di mRNA
a doppia elica (struttura a cappio), che causa un ingombro sterico,

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esercitando una trazione sul filamento di mRNA sintetizzato e inducendolo a distaccarsi più facilmente
poiché rimane solo una piccolissima parte legata al filamento stampo di DNA.

Esistono diversi tipi di RNA polimerasi quelle più abbondanti sono quelle di I, II e III tipo.
• RNA polimerasi di tipo I trascrive la maggior parte (tre delle quattro) di molecole di rRNA
• RNA polimerasi di tipo II trascrive gli RNA messaggeri più alcuni piccoli RNA, gli small nuclear RNA
(snRNA);
• RNA polimerasi di tipo III trascrive il tRNA, la quarta molecola di rRNA e altre molecole di piccole
dimensioni.

VITA MEDIA DI ALCUNI MRNA


Le molecole di mRNA sono quelle più labili, cioè durano meno.
Queste molecole possono durare da alcune decine di ore fino a qualche minuto. Difficilmente una molecola
di mRNA supera i 3-4 giorni nella cellula. La maggior parte vengono eliminate nella giornata stessa in cui
vengono prodotte. L’emivita dell’mRNA va da 30 minuti a circa 130 ore.
Se però si hanno problemi nella regolazione del numero di filamenti di mRNA si possono avere diversi
problemi a livello dell’organismo. Ciò comporterebbe infatti la sintesi continua di una determinata proteina
e un’eccessiva stimolazione proliferativa delle cellule. Come risultato si ha l’espansione cellullare e un
aumento del numero di cellule che riportano la determinata anomalia e lo sviluppo di un tumore.

TRNA

Le molecole di tRNA sono RNA traducenti (che facilitano la traduzione) costituite da circa 70-90 nucleotidi
disposti lungo un filamento che si ripiega in una struttura a CROCE/TRIFOGLIO. Il filamento di tRNA si
ripiega a doppia elica in quattro zone, chiamate bracci di tRNA, alle estremità dei quali ci sono dei tratti di
RNA a singola elica, definite anse.
Possiamo individuare 4 zone distinte:
- il BRACCIO ACCETTORE: si tratta di un filamento a singola elica non ripiegato ad ansa. È
caratterizzato dalla sequenza CCA all’estremità 3’ (comune a tutti i tRNA), dove avviene il legame
tra amminoacido e tRNA. Esistono poco meno di 500 geni per i tRNA e sono raggruppati in 49
famiglie. Ciò significa che quasi ogni combinazione di triplette che codifica per un amminoacido ha
un proprio tRNA specifico.
- l’ANSA T, che ha lo scopo di posizionare correttamente il tRNA nel sito A del ribosoma.

14
- l’ANTICODONE, che contiene la tripletta complementare a quella che appare nel mRNA sul
ribosoma. Attraverso l’appaiamento tra mRNA e
anticodone avviene il riconoscimento
dell’amminoacido che deve essere inserito durante
la sintesi proteica.
- l’ANSA D che permette il riconoscimento
dell’amminoacido e il suo legame al braccio
accettore (grazie all’enzima amminoacil-tRNA-
sintetasi).
Nello spazio tridimensionale, il tRNA assume una forma a L MAIUSCOLA ROVESCIATA.

Anche i geni per i tRNA, se subiscono una mutazione puntiforme, danno luogo all’insorgenza di malattie
(sebbene rare). I tRNA sono sintetizzati dai geni per i tRNA, che sono geni ripetuti in tandem, cioè zone del
genoma in cui ci sono tante ripetizioni dei medesimi geni. Si possono verificare delle mutazioni anche a
carico di questi geni, che possono causare,
una serie di malattie come:
• disordini intellettuali X-linked;
• diabete di tipo II;
• problemi di comportamento;
• disordini mitocondriali;
• cardiomiopatia ipertrofica infantile;
• miopatie e disordini respiratori;
• encefalopatia ed epilessia mioclonica;
• anemia sideroblastica.

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RRNA

L’rRNA è una molecola traducente che va a costituire strutturalmente i ribosomi, organuli presenti sia nelle
cellule procariotiche che eucariotiche (anche se nei procarioti sono più piccoli).

I RIBOSOMI
I ribosomi sono strutture rotondeggianti e al microscopio ottico sono visibili solo come dei piccoli puntini
(sono praticamente invisibili al microscopio ottico). Per poterli osservare si usa il microscopio elettronico, in
quanto il microscopio elettronico.
Quando gli oggetti sono al di sotto del potere di risoluzione dell’occhio (0,1-0,2 mm), occorre il microscopio
ottico, che permette di vedere oggetti grandi fino a 1 micron. Per vedere qualcosa di ancora più piccolo,
come gli organuli citoplasmatici, occorre uno strumento che abbia lunghezza d’onda minore di quella della
luce (sfruttata dal microscopio ottico), infatti si utilizza il microscoio elettronico che, sfruttando gli elettroni,
ha una lunghezza d’onda molto più piccola e riesce a vedere oggetti 1000 volte più piccoli rispetto a quelli
visibili con il microscopio ottico.
Ciò che differenzia i ribosomi eucariotici e quelli procariotici sono le dimensioni degli stessi.
I ribosomi procariotici hanno una massa inferiore rispetto a quelli eucariotici e sono costituiti al 50% da
rRNA e 50% di ribonucleoproteine, mentre i ribosomi degli eucarioti sono costituiti al 40% da rRNA e al 60%
da ribonucleoproteine.
Un’altra differenza, legata alle dimensioni dei ribosomi, riguarda il coefficiente di sedimentazione.
Il coefficiente di sedimentazione è una misura ottenuta tramite un’ultracentrifugazione.
L’ultracentrifugazione è un metodo di centrifugazione utilizzato per gli organuli citoplasmatici, che essendo
molto piccoli, necessitano di elevatissime velocità per poter essere separati ed analizzati.
Lo Svedberg è l’unità di misura del coefficiente di sedimentazione e indica la velocità con cui il corpo
precipita sul fondo della provetta durante l’ultracentrifugazione. Maggiore sarà la massa, maggiore sarà S.
I ribosomi procariotici hanno un coefficiente di sedimentazione di 70S, mentre gli eucariotici hanno un
coefficiente di sedimentazione di 80S. Sia i ribosomi eucariotici, sia i ribosomi procariotici, sono costituiti da
due subunità, che possono essere separate e a loro volta analizzate tramite la centrifugazione, dando
diversi coefficienti di sedimentazione.
Per i ribosomi eucariotici la subunità maggiore ha un coefficiente di sedimentazione di 60S e per quelli
procarioti, vale 50S.
Per la subunità minore invece, per i ribosomi eucariotici vale 40S e per quelli procariotici vale 30S.
Se si considerano i coefficienti di sedimentazione totali dei ribosomi, si nota che sono diversi dalla somma
algebrica dei coefficienti di sedimentazioni delle due subunità. Si deduce, quindi, che la velocità con cui
viene sedimentato il corpo interno, è diverso dalla somma, delle velocità delle singole subunità.
Le subunità maggiori e minori sono separate se il ribosoma è a riposo, mentre si associano se arriva un
mRNA che si appoggia sulla subunità minore.

I TIPI DI RRNA
L’RNA ribosomiale (rRNA) può essere di 4 TIPI, di cui 3 vengono ottenuti dalla
stessa sequenza genica, mentre uno è trascritto a partire da un gene diverso, a
sé stante. I 3 tipi che derivano da un’unica sequenza genica sono localizzati sul
braccio corto della sequenza acrocentrica dei 5 tipi di cromosomi acrocentrici,
così chiamati perché hanno il centromero ad una estremità. Hanno un braccio
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corto costituito da piccole strutture di cromatina, chiamate satelliti, su ognuna delle quali ci sono centinaia
di copie dei geni per la trascrizione di rRNA.
Tale organizzazione è fondamentale in quanto garantisce alla cellula, ai tessuti, agli organi e, più in
generale, all’organismo di avere sempre a disposizione rRNA (n.d.r. da cui derivano i ribosomi) da utilizzare
per la sintesi proteica; infatti, anche se qualcuna di queste regioni andasse perduta o subisse errori di
trascrizione, la trascrizione di rRNA non verrebbe compromessa perché sui cromosomi ce ne sono tante
altre a disposizione per “vicariare” (n.d.r. compensare) la perdita che si è verificata su uno di questi
cromosomi acrocentrici.

Le 3 “lische di pesce” che si notano nella foto rappresentano la sintesi di rRNA a partire dal suo gene posto
nel DNA. Al centro distinguiamo l’asse principale (il filo) costituito dal DNA contenente il gene per rRNA,
mentre da questa si riparte una miriade di filamenti, ovvero gli rRNA attivamente sintetizzati. Da questa
struttura si può capire l’inizio e la fine del gene: a sinistra ci sono frammenti di RNA corti (molecole di RNA
ribosomiale appena avviate alla sintesi), mentre a destra si hanno filamenti di RNA sempre più lunghi,
perché nello scorrere delle RNA polimerasi la gran parte della sequenza è stata già copiata. La struttura a
felce in figura conferma quindi che la direzione e il verso di trascrizione vanno da sinistra verso destra (5’-
>3’) in quanto i filamenti, da più corti, mano a mano si allungano.
L’immagine rappresenta il lavoro di diverse RNApolimerasi che operano in contemporanea; quindi, a
sinistra ci sono i filamenti più corti perché la RNApolimerasi ha letto meno geni, mentre quelli di destra
sono più lunghi perché l’enzima ha già letto anche i geni successivi.
Inoltre, tra una copia e la successiva è presente un tratto di DNA detto spaziatore, ovvero una sequenza
non codificante che non viene trascritta e che separa due tratti codificanti.
Questa è un’immagine ottenuta da una struttura tridimensionale appiattita di una cellula in attiva sintesi.
Tuttavia, nel momento in cui è stata analizzata al microscopio elettronico ha cambiato conformazione.
Infatti, la struttura a spina di pesce è data proprio dal fatto che il nucleo della cellula, quando è stato
preparato il materiale per l’analisi al microscopio, si è dovuto appiattire sopra al supporto con il quale verrà
poi inserito nel microscopio per essere illuminato dalla sorgente luminosa.

Le molecole di RNA neosintetizzate giungono poi a maturazione non tramite il processo di taglia e cuci dello
splicing, ma attraverso un processo per cui l’RNA primario, ottenuto dalla trascrizione per intero dal gene,
17
viene tagliato in modo tale che, da ogni copia di RNA
primario, si formano 3 differenti rRNA sulla base della
differente grandezza e velocità di sedimentazione
(coefficiente S): 5.8 S, 18 S, 28 S.
Questi 3 elementi si combineranno tra di loro a formare la
componente di rRNA delle subunità maggiore e minore
dei ribosomi, in particolare:
- 18S costituisce la subunità minore insieme alle
ribonucleoproteine
- 5.8S e 28S costituiscono la subunità maggiore
insieme alle ribonucleoproteine e al 5s.
18S, 5.8S e 28S vengono sintetizzati nel nucleolo a livello
dei geni presenti sui cromosomi acrocentrici, mentre il 5S
viene invece sintetizzato nella matrice nucleare da un
gene specifico sul cromosoma 1.
Tutte queste 4 molecole, una volta sintetizzate, vengono raccolte nel nucleolo che è una regione ricca di
proteine, contrariamente al resto del nucleo. Anche le ribonucleoproteine, sintetizzate nel citoplasma,
arrivano al nucleolo (attraverso i pori nucleare) e lì vengono assemblate con i vari tipi di rRNA. Una volta
assemblate, le subunità vengono trasportate separatamente nel citoplasma, in particolare nel reticolo
endoplasmatico rugoso, dove avviene la sintesi proteica. L’associazione delle due subunità avverrà solo
quando la subunità minore verrà a contatto con l’mRNA.
Ciò descrive ciò che accade nelle cellule eucariotiche, tuttavia, nelle cellule procariotiche il processo è un
po’ più semplice in quanto è assente questo passaggio “compartimentalizzato” da una regione all’altra della
cellula (n.d.r. nei procarioti l’RNA non richiede un processo di maturazione ma viene direttamente
chiamato a svolgere le sue funzioni nel citoplasma, luogo in cui avviene anche la sua sintesi, dal momento
in cui i procarioti mancano di un nucleo. È assente, perciò, una separazione “compartimentalizzata” dei
processi di trascrizione, maturazione e traduzione).

STRUTTURA DEL RIBOSOMA


La subunità minore sembra un disco ed è sovrastato dalla subunità maggiore, che ha la forma di una calotta
sferica. Il ribosoma è costituito da 3 parti fondamentali, dove avviene l’assemblaggio delle catene
peptidiche:
- Sito A (sito amminoacidico): sito in cui il tRNA trasportante l’amminoacido si inserisce all’interno del
ribosoma
- Sito P (peptidico): sito peptidico in cui avviene l’assemblaggio degli amminoacidi uno dopo l’altro,
infatti qui il primo tRNA trasferisce il proprio amminoacido sul secondo tRNA (presente nel sito A)
- Sito E (exit): sito di uscita dove il tRNA ormai privo di amminoacido esce dal ribosoma e dal
complesso.
L’mRNA scorre sulla superficie della subunità minore, mentre la catena polipeptidica esce da un canale
posto tra le due unità.

18
IL PROCESSO DI TRADUZIONE

Le due subunità maggiore e minore in condizioni normali di riposo sono separate.


1. L’mRNA si aggancia alla subunità minore del ribosoma tramite una sua porzione al 5’ che non
partecipa alla sintesi vera e propria della proteina di cui porta l’informazione genetica.
2. Tale appaiamento per complementarietà garantisce che la prima tripletta codificante dell’mRNA
(AUG) si posizioni in corrispondenza della base del sito P. La prima tripletta che deve essere
tradotta in amminoacido si deve trovare nel sito P, la seconda nel sito A.
3. Il tRNA con il giusto anticodone (complementare alla prima tripletta dell’mRNA) si appaia ad essa
nel sito P attraverso ponti a idrogeno e si ha la liberazione di una serie di fattori di attivazione e di
allungamento della catena.
4. A quel punto, la subunità maggiore “atterra” sulla subunità minore attivando definitivamente la
sintesi proteica.
5. Un tRNA che porta un anticodone complementare alla sequenza che si trova nel sito A si lega in
quest’ultimo.
In questo modo, entrambi i siti P e A sono occupati e i due amminoacidi (portati dai due tRNA) si
trovano in una posizione tale da potersi legare mediante un legame peptidico.
6. L’amminoacido del tRNA nel sito P si sgancia dal proprio tRNA e si lega all’amminoacido presente
nel sito A grazie all’enzima peptidil-transferasi.
7. Una volta privato del suo amminoacido (metionina), il tRNA nel sito P si trasferisce nel sito E, dove
lascerà il complesso, tornando tra il pool di tRNA per poter essere nuovamente utilizzato. Nel
citoplasma, infatti, avverrà nuovamente il legame (n.d.r. a idrogeno) tra il tRNA e l’amminoacido (in
questo caso una nuova metionina poiché il tRNA in questione è specifico per la metionina).
8. Si libera quindi il sito P, il ribosoma scorre di una tripletta e avviene la traslocazione del secondo
tRNA (che ora ha due amminoacidi) dal sito A al sito P.
9. Il sito A si libera nuovamente e contiene la terza tripletta di mRNA pronta a legarsi all’anticodone
complementare del prossimo tRNA.
In questo modo, dunque, il processo continua fino alla formazione di vere e proprie catene peptidiche.
Il processo termina quando, nel sito A, troviamo una tripletta per la quale non esiste nessun tRNA con
anticodone complementare: si tratta di una tripletta di stop. Quest’ultima non riesce a trovare un tRNA
recante l’anticodone complementare, per cui arriva un fattore di rilascio, cioè una molecola che si inserisce
nel sito A determinando il distacco della proteina dal ribosoma, dunque l’arresto della sintesi proteica, il
distacco delle due subunità del ribosoma e la liberazione dell’mRNA che, poi, potrà essere riutilizzato da
altri ribosomi o andare incontro a degradazione.
La durata del processo di traduzione varia a seconda del peptide che deve essere formato ma solitamente
non si protrae per più di qualche minuto.

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IL CODICE GENETICO
L’insieme degli amminoacidi e dei rispettivi anticodoni dei tRNA che li portano, forma il CODICE GENETICO
(esso non ha niente a che fare con il genoma o patrimonio genico di una cellula), formato da combinazioni
di 64 triplette di nucleotidi, organizzate in modo da codificare per i 20 amminoacidi differenti.
Il codice genetico, raffigurato in tabella, rappresenta il
linguaggio attraverso il quale si riesce a tradurre il
linguaggio in nucleotidi dell’DNA o RNA nel linguaggio
in amminoacidi; tale processo, infatti, è noto come
traduzione in quanto si occupa di “tradurre” un
linguaggio in un altro.
Tra queste triplette ve ne sono 3, chiamate triplette di
stop, attraverso la quali la traduzione si interrompe;
quindi, le triplette di nucleotidi effettivamente
codificanti sono 61.
Le 61 combinazioni di triplette di nucleotidi, tuttavia,
sembrano eccessivamente abbondanti rispetto ai 20
amminoacidi (sarebbero state sufficienti 20 combinazioni): in realtà, l’abbondanza di triplette di nucleotidi
rispetto al numero di amminoacidi costituisce un meccanismo di riserva e di protezione nei confronti della
sintesi proteica. In particolare, ci sono almeno 2 triplette specifiche per ogni amminoacido, ad eccezione di:
• Metionina (AUG): essa può essere codificata da un solo codone perché, essendo la tripletta di inizio
traduzione, è alla base della produzione di tutti gli amminoacidi e dunque deve essere codificata in modo
univoco.
• Triptofano (UGG): esso ha un unico codone poiché probabilmente è l’amminoacido evolutivamente più
recente e non ha ancora avuto tempo di “trovarsi” altre triplette in grado di codificarlo.
Il fenomeno per cui uno stesso amminoacido viene codificato da più di una tripletta prende il nome di
DEGENERAZIONE O RIDONDANZA DEL CODICE GENETICO (es: la leucina è un amminoacido che ha ben 6
differenti codoni che lo identificano).
Questo meccanismo ha due vantaggi:
- La degenerazione del codice genetico costituisce un sistema di protezione che pone un limite al
rischio di eventi mutageni che comprometterebbero la sintesi proteica. Infatti, se una di queste
triplette dovesse subire una mutazione della terza base, è molto probabile che comunque continui a
codificare per lo stesso amminoacido.
- La degenerazione del codice genetico fa sì che il tRNA, una volta entrato nel sito A, possa avere
complementarità anche solo con 2 basi dell’mRNA e non obbligatoriamente con tutte e 3. Ciò
permette comunque di aggiungere il giusto amminoacido alla catena proteica. In questo modo si
rende la sintesi proteica più veloce e “sbrigativa” poiché non c’è bisogno di aspettare che arrivi un
tRNA con l’anticodone esattamente complementare al codone affacciato nel sito A. Tale processo
prende il nome di vacillamento dell’appaiamento.
Inoltre, il codice genetico funziona (teoricamente) per tutti gli esseri viventi sulla Terra allo stesso modo, sia
procarioti che eucarioti: si definisce, infatti, universale. In realtà, però, non è sempre così al 100%.

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Osserviamo ora la schematizzazione
della sintesi proteica a sinistra. Si può
notare come il ribosoma accolga, a
mano a mano, l’mRNA dall’estremità
5’ all’estremità 3’, determinando
l’allungamento della catena
polipeptidica. In prossimità della
sequenza di stop il polipeptide si
stacca dal ribosoma e raggiunge il
citosol.
A destra, invece, troviamo una
raffigurazione dello stesso processo
ma attraverso una radiografia, in cui si evidenzia come un trascritto di mRNA possa essere
contemporaneamente tradotto da più ribosomi, che si legano a regione diverse di quest’ultimo.

In questa autoradiografia, invece, si può notare come le molecole di ribosoma si aggancino all’mRNA nel
processo di traduzione. Si può immaginare che il terminale 5’ della catena di DNA si trovi a destra, dato che
verso quella direzione il trascritto primario di mRNA è più corto, e andando verso sinistra si allunghi.

Da questa immagine si evincono catene di


ribosomi che si agganciano
contemporaneamente allo stesso RNA
messaggero, le cosiddette catene
poliribosomiche (o polisomiche), dove,
interposto tra i ribosomi, si può notare il
filamento di mRNA da tradurre. Queste sono le
classiche strutture citologiche attraverso le quali
avviene la sintesi proteica e rappresentano il
metodo più efficace per produrre le proteine da
uno stesso mRNA; tali catene rendono la sintesi
proteica molto più veloce, riducendo più di 10
volte il tempo necessario ad un unico ribosoma a
far avvenire il processo di traduzione.

21
Quest’immagine schematizza tutto il processo che
porta dal DNA alla proteina, dove il DNA da una
parte codifica per i tRNA che andranno a cercare gli
amminoacidi a loro compatibili, dall’altra codifica
per il trascritto primario di mRNA che sta già per
essere attaccato dai ribosomi prima di completare
la trascrizione. Inoltre, dall’immagine sovrastante si
può notare che si sta parlando di una cellula
procariotica, dal momento che i ribosomi stanno
cominciando a tradurre le proteine senza che la
trascrizione sia terminata, cosa che, per una
questione di sicurezza, negli eucarioti non si verifica
mai, poiché il trascritto di mRNA deve prima uscire
dal nucleo per poter essere, poi, tradotto.

L’IMPORTANZA DEI RIBOSOMI


Il ribosoma costituisce il supporto rigido entro cui far avvenire la sintesi proteica in modo ordinato.
È fondamentale per due motivi:
- selezione della tripletta/codone: evita ogni tipo di dubbio sulla posizione e distingue triplette
codificanti e non codificanti.
- lettura in sequenza dei codoni: mantiene allineata tutta la struttura e permette di leggere due
triplette contigue alla volta, facendo sì che possano essere combinati insieme solo quei tRNA
consecutivi.
Se il ribosoma NON ci fosse, il filamento di mRNA da tradurre potrebbe ripiegarsi e ottenere così una
proteina più corta e tossica.
Infatti, ammesso che tutti i tRNA riescano per un motivo “miracoloso” ad appaiarsi con i rispettivi codoni
nell’esatta sequenza, senza il ribosoma potrebbe accadere quello che si vede nell’immagine sottostante. Il
filamento di mRNA può piegarsi nello spazio tridimensionale e due tRNA distanti, (esempio: uno con
l’anticodone corrispondente alla tripletta 21 e l’altro con anticodone corrispondente alla tripletta 57) siano
ad una “distanza critica” tale che la peptidil-transferasi possa funzionare. Quindi, si forma un legame tra il
21esimo amminoacido e NON il 22esimo (corrispondente alla tripletta successiva), ma il 57esimo. Il
risultato è che tutto il messaggio presente nell’ansa va perso, la proteina è più corta e può risultare tossica.

22
RIBOSOMI E ANTIBIOTICI
Il ribosoma interagisce favorendo l’attacco dell’amminoacil-tRNA sull’mRNA. Piccole modificazioni della sua
struttura determinano gravi alterazioni nella sintesi proteica.
Ci sono molti antibiotici che esercitano la propria attività anti-batterica agendo sulla traduzione delle
proteine attraverso l’alterazione dell’interazione del ribosoma con i tRNA e l’mRNA:
- Streptomicina: blocca la sintesi proteica al 1° amminoacido, impedendo il legame tra l’anticodone
del tRNA e la tripletta dell’RNA messaggero (AUG) e altera la specificità di appaiamento.
- Tetracicline: inibiscono l’attacco del tRNA nel sito A; il primo tRNA si inserisce nel sito P, inizia il
processo di traduzione ma si ferma al secondo tRNA che NON riesce ad appaiarsi con il secondo
codone.
- Cloramfenicolo/Lincomicina: inibiscono la peptidil-transferasi; impediscono che i due amminoacidi
legati ai due tRNA dentro al sito P e al sito A possano stabilire il legame peptidico.
- Eritromicina: uno dei farmaci meno tossici, può essere usato anche in gravidanza e blocca la
traslocazione del pp-tRNA (polipeptide già sintetizzato collegato al tRNA) dal sito A al sito P.
DA RICORDARE: se prendiamo in considerazione due antibiotici che utilizzano lo stesso meccanismo e uno
dei due non funziona, difficilmente funzionerà l’altro. Al contrario, se gli antibiotici interferiscono con la
sintesi proteica in due punti diversi, la loro combinazione sviluppa un effetto potenziato.

Le azioni di interferenza degli antibiotici sulla sintesi proteica hanno un metodo selettivo, hanno cioè
effetto solamente sui batteri e non sulle cellule eucariotiche dell’individuo portatore. La selettività è legata
alle piccole differenze esistenti tra cellula batterica e cellula eucariotica nella struttura dei ribosomi e degli
enzimi utilizzati per la sintesi proteica. Gli antibiotici, tuttavia, determinano effetti inibitori anche sui
mitocondri che filogeneticamente sono assai più vicini ai batteri che alle cellule eucariotiche che li
ospitano.
Questo è il motivo per cui, quando siamo sotto antibiotici e dobbiamo fare uno sforzo fisico, ci sentiamo
subito stanchi. I mitocondri, archeobatteri che sono entrati in simbiosi con le cellule eucariotiche, sono a
tutti gli effetti batteri e quindi la loro funzione respiratoria è rallentata. Per questo motivo è fortemente
sconsigliato fare uno sforzo fisico quando si è sotto antibiotici, poiché ci si espone ad una alterazione delle
fibre muscolari che, iper-stressate dall’attività fisica, vanno incontro a infiammazione e, a lungo andare,
trasformazione del tessuto muscolare in tessuto connettivale (fibroso), quindi non più mobile. Esse sono
irrecuperabili e si ha una perdita della potenza muscolare.
Qui sono evidenziate le differenze tra il codice genetico eucariotico in giallo e quello procariotico in blu.

23
IL GENOMA

ORGANIZZAZIONE DEL GENOMA

Il genoma umano ha un’organizzazione molto particolare e complessa, diversa da quella dei batteri.

Nella diapositiva vengono comparati i genomi di 4 organismi di riferimento, nello specifico si tratta di quelli
che sono stati utilizzati abbondantemente in genetica oltre che in biologia per comprendere come da una
sequenza di DNA si arrivi alla sintesi della proteina e al funzionamento dell’organismo stesso. Un gene è,
mediamente, una sequenza di 1200 nucleotidi. Se un gene è fatto di 1200 nucleotidi, la proteina da esso
codificato sarà di circa 400 amminoacidi (1200:3).
L’ E. COLI ha un genoma di circa 4 milioni di nucleotidi, una lunghezza della molecola di 1,4 millimetri e ci
sono al massimo 3000 geni codificati dal suo genoma. Oggi, infatti, possiamo dire che la cifra corrisponde
orientativamente a questa. L’ipotesi alla base del ragionamento è di prendere l’organismo più complicato e
considerare che questo, possedendo più DNA nelle cellule, avrebbe di conseguenza più geni che sono
importanti per la vita dell’organismo stesso.
Il LIEVITO, invece, ha un genoma che è circa il triplo di quello del batterio Escherichia Coli, questo significa
che ovviamente prendendo i nucleotidi e mettendoli insieme uno dietro l'altro (le coppie di basi) si avrà un
pezzo di DNA di 4,5 mm. Proprio questi 4,5 millimetri di DNA dovrebbero codificare per 11000 geni. A
partire da questo punto sorge un problema, dal momento che non c’è corrispondenza tra il numero di
proteine differenti presenti nelle cellule di lievito e la stima ottenuta facendo il paragone con quello che
accade nel batterio, infatti le proteine presenti nel lievito sono di gran lunga inferiori a quelle stimate.
Nella DROSOFILA, le cellule contengono 165 milioni di nucleotidi che dovrebbero costituire un DNA 5,6 cm
e dovremmo avere 138 mila geni codificati. Si tratta di una cifra esorbitante.
Nell’UOMO, il genoma è costituito da più di 3 miliardi di nucleotidi, ha un DNA di circa 2 metri e
teoricamente dovrebbe codificare per oltre 1 milione e mezzo di geni (cifra assolutamente non veritiera).
Questo sta ad indicare che man mano che gli organismi diventano complessi (passando dai batteri
all’uomo), non tutto il genoma viene utilizzato alla stessa maniera, non tutto è codificante ma al contrario,
salendo di complessità, la porzione codificante diventa sempre minore fino a rappresentare una minima
parte di tutto il genoma della cellula. Naturalmente queste conoscenze sono arrivate un po’ alla volta negli
ultimi vent’anni, man mano che il progetto genoma si è andato delineando e realizzando.

24
IL GENOMA PROCARIOTICO

Il DNA di una cellula procariotica è contenuto più o meno al centro in una zona meno elettrondensa al
miscroscopio elettronico, detta nucleoide.
È costituito da un’unica molecola di DNA circolare a doppia elica che presenta un unico sito di replicazione.
Tutti i geni sono in associazione, cioè localizzati sul filamento di DNA, infatti non ci sono né zone
centromeriche né telomeriche, dal momento che i telomeri non possono essere presenti proprio per via
della circolarità (della molecola) e quindi non ci sono estremità. I telomeri infatti sono delle strutture
classiche che servono a mantenere l’integrità dei singoli cromosomi e rappresentano una caratteristica
tipica dei cromosomi eucariotici lineari. Invece i centromeri sono delle regioni di DNA presenti sui
cromosomi che svolgono principalmente la funzione di regolare la corretta ripartizione del materiale
genetico nelle cellule vive qualunque sia il processo di divisione cellulare con cui si ha a che fare.
I geni sono principalmente organizzati in strutture dette operoni che sono invece particolarmente rare nelle
cellule eucariotiche; questi sono formati da sequenze geniche per proteine che sono coinvolte nella stessa
via metabolica. Per semplificare la loro sintesi, l’evoluzione ha fatto sì che venissero trascritte in un unico
RNA messaggero sotto il controllo di un gene regolatore più a monte.
Le sequenze ripetute sono molto rare nel genoma dei batteri a differenza del genoma eucariotico ed inoltre
sono rarissimi anche gli introni.
Nelle cellule batteriche esiste un genoma secondario (esterno a quello principale) che può essere
considerato come opzionale proprio perché i batteri non necessitano di questa molecole aggiuntive, ma in
determinate condizioni ambientali, quest’ultimo favorisce la sopravvivenza del batterio stesso. Il genoma
secondario è costituito da DNA circolare indipendente da quello principale, chiamato plasmide, e presenta
una lunghezza di circa qualche centinaio o migliaio di nucleotidi (quindi mille volte più piccolo del genoma
principale della cellula batterica); inoltre ha la grande caratteristica di essere una molecola di acido nucleico
trasferibile da cellula a cellula o direttamente grazie all’utilizzo di un vettore virale. L’aspetto più o meno
temibile della trasferibilità di questo pezzo del DNA è correlato alle insorgenze di ceppi batterici resistenti ai
chemioterapici, in particolar modo alla diffusione di queste resistenze in ambito ospedaliero.
Il gene di un procariote è costituito prevalentemente dall’ORF (Open reading Frame), ovvero il tratto di
DNA dell’operone che viene effettivamente tradotto dai ribosomi batterici. Costituisce infatti la finestra di
lettura in cui riusciamo a riconoscere la triplette che codificano gli amminoacidi di una specifica proteina. A
monte e a valle dell’ORF troviamo:
- sequenze non trascritte, come la sequenza del promotore, che favorisce il riconoscimento da parte
dell’RNA polimerasi del tratto di DNA batterico che deve essere letto e trascritto.
- sequenze trascritte ma non tradotte, come l’operatore, che è un altro elemento di regolazione della
trascrizione, e la sequenza del terminatore, che determina la fine della sintesi proteica e il distacco
delle due subunità del ribosoma.

25
IL GENOMA UMANO

Il genoma eucariotico è costituito da un numero di nucleotidi molto più grande rispetto a quello
procariotico (circa 2000 volte): l’organizzazione del genoma umano è quindi molto più complessa. Nel
nostro genoma possiamo individuare 2 compartimenti:
- Il GENOMA NUCLEARE,
- Il GENOMA MITOCONDRIALE.
Il genoma nucleare contiene 21 mila geni che codificano per un numero (circa) triplo di proteine. Di questo
genoma:
- Il 30% è costituito da sequenze geniche, associate ai geni,
- Il 70% è costituito da sequenze extrageniche. Le sequenze extrageniche sono abbondanti e
costituite:
• maggiormente da:
o sequenze uniche
o sequenze a basso numero di copie
• in minore quota da:
o sequenze altamente ripetitive
o sequenze moderatamente ripetitive. Queste hanno una lunghezza (ogni copia) che
varia da 2/3 nucleotidi ripetuti milioni di volte fino a 500/1500 nucleotidi ripetuti
alcune decine di migliaia di volte nel nostro genoma.
TRA LE SEQUENZE GENICHE, SOLO IL 10% È COSTITUITO DA SEQUENZE CODIFICANTI VERE E PROPRIE,
MENTRE IL 90% È COSTITUITO INVECE DA DNA NON CODIFICANTE.
Sapere che il nostro genoma è abbondantemente più grande dei geni che effettivamente vengono espressi
non è un fatto trascurabile. Poco dopo che era stato concluso il progetto genoma, si riteneva che gran parte
di questo genoma in più rispetto alla parte codificante fosse JUNK DNA, ma poi si è scoperto che contiene
dei geni inaspettati, cioè i GENI PER GLI RNA NON CODIFICANTI, numerosi almeno quanto i geni codificanti.
La quota maggiore sono quindi le sequenze non codificanti, cioè:
- i tratti intronici,
- i frammenti genici che si sono accumulati durante l’evoluzione del nostro genoma, cioè tratti di DNA
che hanno subito mutazioni per cui il gene a cui appartenevano non è più funzionante; perciò quel
tratto di DNA è rimasto nel genoma perché non c’è pressione selettiva per la sua eliminazione, ma
resta inutilizzato e si accumula,
- gli pseudogeni, cioè sequenze che derivano da geni funzionanti ma che, avendo subito qualche
cambio nucleotidico, sono stati inattivati. Questi pseudogeni hanno il grande svantaggio di
interferire con la diagnosi genomica delle malattie genetiche.
Il GENOMA NUCLEARE è molto più abbondante di quello mitocondriale, da qualche decina di milione di
nucleotidi fino a qualche centinaio di miliardi di nucleotidi. La sua lunghezza è variabile (fino a qualche
decina di metri) in base alla quantità di nucleotidi che, a differenza del genoma mitocondriale, è variabile.
Variazioni anche rilevanti nella quantità di nucleotidi possono non avere apparentemente nessun effetto
fenotipico patologico per il nostro organismo. Nonostante questa tolleranza del nostro organismo, basta un
semplice nucleotide sbagliato in uno dei geni per causare una malattia anche mortale. Presenta siti di
replicazioni multipli, per garantire precisione e rapidità.

26
Il GENOMA MITOCONDRIALE non è opzionale, a differenza del genoma secondario dei procarioti. E’ 100
volte più piccolo del genoma nucleare, è più semplice anche di quello batterico; contiene 16 mila nucleotidi
che costituiscono 37 geni, tra i quali riconosciamo:
- 2 geni necessari per l’rRNA, dal momento che anche i mitocondri hanno i propri ribosomi simili a
quelli batterici,
- 22 geni necessari per il tRNA (mentre nel DNA nucleare i geni per il tRNA sono quasi 500)
- 13 geni codificanti per le proteine.
Il genoma mitocondriale è costituito da molecole di DNA circolare, può essere omogeneo o eterogeneo,
cioè ci possono essere molecole con dei mitocondri con DNA diversi tra loro all’interno della stessa cellula.
Gli effetti di queste variazioni possono essere o meno trascurabili (esistono anche le malattie genetiche
mitocondriali). Fortunatamente le nostre cellule contengono più mitocondri, per cui se avviene la
mutazione di qualche molecola di DNA mitocondriale, nella maggior parte dei casi la cellula non riscontra
problemi poiché negli altri mitocondri ci sono altre molecole di DNA mitocondriale che compensano questo
difetto.
Le molecole di DNA mitocondriale sono presenti in numero variabile in base alle necessità energetiche delle
cellule, ce ne possono essere qualcuna fino a qualche migliaio.

STRUTTURA DEL GENE EUCARIOTICO


Con il termine cromosoma, inizialmente, si indicavano
gli elementi che troviamo nelle metafasi. Con l’evolversi
delle conoscenze, il termine è arrivato ad indicare più
genericamente una molecola di DNA di un certo
organismo, indipendentemente dal fatto che questa
molecola sia associata o meno a delle proteine.

Il genoma umano è costituito da 23 coppie di


cromosomi organizzate in base alle dimensioni
decrescenti dei cromosomi stessi, dal cromosoma 1, il
più grande e contenete 250 milioni di nucleotidi, fino al
cromosoma 21, il più piccolo, contenente 55 milioni di nucleotidi.
Circa 80 anni fa, nella citogenetica, il cromosoma 22 sembrava più piccolo del 21 ma oggi sappiamo che
contiene qualche milione di nucleotidi in più rispetto al 21. Quell’apparenza era dovuta al fatto che la
cromatina del cromosoma 22 è molto decondensata, quindi poco colorabile e appare molto più chiara al
microscopio ottico rispetto al cromosoma 21.
Queste molecole lineari sono avvolte attorno a proteine istoniche sottoforma di cromatina.
Questi cromosomi lineari, nel caso delle cellule eucariotiche, hanno:
- i centromeri, cioè regioni dove ci sono particolari sequenze genomiche che favoriscono
l’attaccamento delle fibre del fuso (mitotico o meiotico) al cromosoma
- i telomeri, alle estremità di ciascun braccio di cui è costituito ogni cromosoma.
Il genoma è costituito da sequenze:
- singole, fanno riferimento ai geni veri e propri
- duplicate, presenti in un certo numero molto basso di copie
- ripetute, che fanno riferimento a tratti di DNA molto abbondanti, sono migliaia o addirittura milioni
di copie dello stesso tratto di DNA (per questo si distinguono dalle sequenze duplicate).

27
Il gene eucariotico è costituito da:
- sequenza strutturale, che codifica la proteina
- sequenza di regolazione (a monte della sequenza strutturale), più complicata della sequenza
strutturale perché, a seconda dei geni, è più o meno ricca di funzioni.

La sequenza strutturale è organizzata in introni ed esoni.


Le sequenze esoniche sono quelle che, trascritte e maturata, daranno effettivamente luogo alla sequenza
amminoacidica della proteina da loro codificata. Le sequenze introniche, invece, sono interposte tra quelle
esoniche e, al loro interno, possono contenere anche altre sequenze regolatorie o addirittura altri geni (sia
di regolazione del gene all’interno del quale si trovano, sia di funzionamento differente).
Gli introni, mediamente, sono 8-9 volte più lunghi degli esoni del gene stesso. C’è quindi una grande
discrepanza atra la quantità di un gene effettivamente utilizzata per la sintesi proteica e la quantità di
nucleotidi di quel gene che, invece, rimarrà senza essere trascritta e tradotta.
Normalmente, a monte della porzione strutturale c’è una porzione regolatoria.
La sequenza regolatoria è costituita dal promotore del gene. Il promotore, dislocato al 5’ della sequenza
genica, presenta caratteristicamente una sequenza ricca di timine e adenine: la TATA BOX. Questa
sequenza si trova circa 20-30 nucleotidi a monte del primo esone, per cui viene anche indicata come -25.
Questa sequenza può essere preceduta (nell’85-90% dei casi) da un’altra sequenza, ricca di citosina e
adenina: la CAAT BOX. Essa di torva molto più lontano, a -80 nucleotidi dal primo esone del gene che
controlla.
Solo nel 75% dei geni, a -100 dal primo esone troviamo la GC BOX o ISOLA CPG, ricca di guanina e citosina.
Questa sequenza, a seconda che la citosina sia nella forma classica o metilata, determina un
comportamento completamente diverso della possibilità di trascrivere il gene a valle.
Le TATA BOX e CAAT BOX hanno la funzione di promuovere e accelerare la trascrizione, facilitando il
riconoscimento della sequenza genica da trascrivere da parte della RNA polimerasi.
L’ISOLA CPG:
- nella forma con citosine normali determina la trascrivibilità del gene
- nella forma metilata determina l’inibizione totale della trascrizione del gene a valle. Con l’ISOLA CPG
metilata si ha la scomparsa della trascrizione come se la sequenza genica fosse assente, deleta. E’ un
potentissimo meccanismo di regolazione genica, ci sono malattie ad esso associate e ci sono farmaci
che sono in grado di modificare lo stato di metilazione con la possibilità di inibire o attivare la
trascrizione, attraverso l’aggiunta o la rimozione di gruppi metile.
La metilazione delle isole CPG, la metilazione degli istoni e i microRNA sono i 3 elementi che
interagiscono nella regolazione dell’espressione genica, studiati nell’epigenetica.

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MATURAZIONE DELL’MRNA
Trascritto in mRNA, esso viene detto mRNA eterogeneo o pre-mRNA, perché contiene sequenze
corrispondenti sia agli esoni che agli introni. Il processo di maturazione prevede l’eliminazione delle
sequenze introniche, ovvero il processo di SPLICING. Lo splicing avviene attraverso l’intervento di una serie
di proteine e RNA non codificanti e fa sì che il filamento di mRNA si ripieghi su se stesso in corrispondenza
delle sequenze introniche. Questo controllo è mediato da particolari sequenze con senso, ricorrenti nella
maggioranza dei geni al confine:
- tra un esone e l’introne successivo
- tra l’introne e l’esone successivo.
Queste sequenze con senso regolano la posizione di questi
microRNA che facilitano lo splicing, in modo da ripiegare su se
stesso il tratto di RNA intronico e far avvicinare le due
estremità esoniche contingue. Alla fine si ottiene la
liberazione del frammento di RNA intronico e il
ricongiungimento dell’RNA esonico, utilizzando parte delle
sequenze consenso poste all’estremità di ciascun esone.

Il CAPPING consiste nell’aggiunta di una guanina trifosfata rovesciata attraverso un legame che non è il
classico legame tra il C5 di un nucleotide e il C3 del nucleotide precedente: è un legame 5’-5’ tra il primo
ribosio della molecola di mRNA appena sintetizzato e il C5 della guanina aggiunta. Questa aggiunta ha lo
scopo di proteggere (da ciò deriva il nome “cap”) l’estremità 5’ della molecola di RNA dall’azione
5’esonucleasica di alcuni enzimi citoplasmatici che degraderebbero l’mRNA. Questi enzimi intervengono
per modulare e limitare nel tempo l’azione e la traduzione dell’mRNA. Nel tentativo di evitare una
prematura degradazione del mRNA nel citoplasma, l’evoluzione ha fatto sì che venisse protetta l’estremità
5’ dell’mRNA maturato attraverso questo capping.
All’estremità 3’ invece, in corrispondenza di una particolare sequenza trascritta ma che non verrà tradotta,
vengono aggiunti qualche centinaio di adenine, a formare la CODA POLI A. Questa poliadenilazione ha lo
scopo di proteggere l’estremità 3’ dell’mRNA, in modo che le ribonucleasi 3’ dipendenti (enzimi che
idrolizzano i legami fosfodiesterici tra i nucleotidi dell’estremità 3’) cominceranno a smontare prima il
tratto poliadenilato e, solo dopo, la parte codificante di mRNA. Inoltre, la coda poli A favorisce la
traslocazione dell’mRNA dal nucleo (dove viene maturato) al citoplasma.
Negli ultimi anni si è scoperto che i confini tra 5’ e 3’, tra gene e gene, tra introni ed esoni, non sono molto
rigidi perché si è scoperto che si formano mRNA che contengono contemporaneamente esoni di più geni. Si
dice quindi che i geni hanno limiti sfuocati. La proteina codificata conterrà quindi amminoacidi derivanti da
due geni contigui o (addirittura) anche distanti.

LUNGHEZZA DEI GENI EUCARIOTICI


I geni del nostro genoma hanno una lunghezza molto variabile. Ci sono geni:
- che occupano poco spazio, solo qualche migliaio di nucleotidi, hanno una lunghezza inferiore a 10
mila nucleotidi. Sono ad esempio i geni per gli istoni, per l’insulina, per la betaglobina (una delle
due proteine che fanno parte dell’emoglobina).
- che arrivano fino a 100 mila nucleotidi. Tra questi troviamo l’allumina sierica (fondamentale per
numerosissimi processi biologici, come il trasporto dei nutrienti e dei farmaci dall’apparato
digerente al circolo del sangue), alcuni elementi del collagene, come il tessuto connettivo, osseo e
cartilagineo. Tra questi, ci sono poi anche alcuni geni che codificano per proteine coinvolte nel
metabolismo dei lipidi.

29
- che vanno da qualche centinaio di migliaio a qualche milione di nucleotidi. Il gene di taglia gigante
meglio conosciuto è il gene della distrofina che occupa oltre 2,5 milioni di nucleotidi. Inizialmente
questa proteina era considerata il componente del tessuto muscolare striato e quindi il suo gene era
ritenuto responsabile di alcune distrofinopatie (come la distrofia di Duchenne). Oggi sappiamo che
questa proteina è correlata non solo alla struttura del sarcolemma del muscolo striato, ma viene
utilizzata anche in zone completamente prive di tessuto muscolare al loro interno, come alcune
zone del tessuto nervoso, della milza e del rene.

LE SEQUENZE DUPLICATE

Le sequenze duplicate sono presenti al massimo in qualche decina di copie e possono svolgere funzioni
differenti. Nel nostro genoma, a differenza di quello dei batteri, ci sono così tante sequenze duplicate.

L’ORIGINE DEGLI STUDI


Gli studi sono partiti dall’analogia tra alcuni geni e i loro rispettivi prodotti proteici.
Ci sono 3 geni:
- per albumina,
- per l’α fetoproteina,
- per la proteina GC
che codificano per 3 proteine che si sono localizzate nello spessore della membrana plasmatica.
Queste tre proteine sono immerse nella membrana con una porzione si affaccia all’esterno della cellula,
una porzione intra-membranaria e una porzione che si affaccia all’interno dello spazio citoplasmatico. Tutte
e tre hanno la stessa posizione.
Quando si vanno a guardare i rispettivi geni, si scopre che in realtà questi geni somigliano anche per
l’organizzazione genomica. Infatti:
- hanno lo stesso numero di introni ed esoni,
- la lunghezza degli introni è sovrapponibile
- il contenuto nucleotidico degli esoni è in larga parte sovrapponibile
I ricercatori sono arrivati alla conclusione che, essendoci tutte queste analogie di funzione e di
organizzazione strutturare, questi tre geni derivano da una duplicazione intervenuta durante l’evoluzione di
un gene ancestrale.
Questi geni derivano dalla duplicazione di un unico gene ancestrale che si è triplicato per errore durante
la riproduzione cellulare o durante la divisione meiotica. Guardando all’organizzazione e alla distribuzione
di introni ed esoni nella porzione 5’, nella porzione intermedia e nella porzione 3’, si è scoperto che in tutti
e tre i geni la sequenza nucleotidica è sovrapponibile in tutte e tre le porzioni di ciascuno dei tre geni. Da
qui è venuta in mente l’idea che anche il gene ancestrale deriva dalla triplicazione di un gene primordiale
costituito da 4 esoni e i relativi introni: a seguito di questa triplicazione, si è allungato, dando luogo ad un
gene ben più grande, che per successive duplicazioni e modificazioni ha dato origine ai geni come li
conosciamo.
Due dei tre geni esaminati codificano per proteine che svolgono praticamente la stesse funzione ma in età
diverse della vita. L’albumina, infatti, è la proteina di trasporto classica dell’età adulta, mentre
l’αfetoproteina è una delle proteine che svolgono la funzione dell’albumina in epoca fetale ed è presente in
età adulta solo nella gravidanza e in alcune forme di tumore che comportano la riattivazione del gene. La
proteina GC svolge invece una funzione legata al signaling. Queste sequenze duplicate sono quindi la
conseguenza dell’evoluzione subita dal genoma.

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LE FAMIGLIE GENICHE
Il fenomeno della duplicazione è diffuso a tal punto che ci sono regioni genomiche che hanno a che fare con
la stessa tipologia di geni. Questi geni vanno a costituire le famiglie geniche o super famiglie geniche, a
seconda di quanti sono i geni che le costituiscono. Questi geni sono presenti sui cromosomi:
- in regioni specifiche dove sono raccolti tutti gli elementi della famiglia imparentati tra di loro
- sparpagliati sull’intero genoma.
La presenza di queste sequenze duplicate determina il vantaggio di permetterci di avere copie in più che, se
mutate, non portano effetti dannosi per la nostra vita. Tuttavia si è visto che l’abbondanza di queste
sequenze duplicate può avere effetti deleteri perché, durante la meiosi, regioni duplicate possono
comportare errori nei processi.
I geni per il tRNA sono quasi 500 organizzati in 45 famiglie.
Ci sono geni per l’ormone della crescita, organizzati tutti nel cromosoma 17 e collegati con lo sviluppo dei
vari distretti del nostro organismo.
Abbiamo poi le famiglie geniche per i recettori olfattori, presenti in centinaia di copie. Si tratta delle stesse
copie presenti anche negli animali, anche se gli animali hanno conservato una maggiore sensibilità agli
odori perché, di tutte queste copie, la maggioranza è in forma attiva (a differenza delle nostre cellule, dove
solo il 30% di queste copie è ancora attivo e trascrivente). Questo è dovuto al fatto che la nostra specie ha
sviluppato altri sistemi, che si affiancano all’odorato, per la sopravvivenza.
Abbiamo poi gli omeogeni, che hanno un compito fondamentale nell’omeostasi durante lo sviluppo
embrionale. Sono quei geni che permettono la corretta morfogenesi degli organi di un feto (ES. mano).
Questa famiglia di geni fu scoperta in drosofila, perché
molti moscerini presentavano curiose variazioni: alcuni
moscerini avevano 2 coppie di ali anziché una, alcuni
avevano occhi bianchi anziché rossi, alcuni avevano una
coppia di antenne sul torace e a zampe sulla testa
(antennapedia).
I ricercatori scoprirono che, andando a guardare il DNA
di uno dei cromosomi del moscerino, sembrava che
alcuni geni avessero cambiato posizione nel cromosoma.
Nell’antennapedia, si scoprì che un gene che
normalmente controlla lo sviluppo delle antenne,
anziché essere localizzato al 3’ del filamento di DNA, era
disposto al centro del tratto di DNA; viceversa, un gene che controlla il torace, la posizione delle zampe e
delle ali, anziché trovarsi al centro, era posizionato al termine 3’ del filamento. SI scoprì quindi che sul
cromosoma 3 c’erano geni che controllavano differenti regioni della struttura della drosofila, a partire
dall’addome (estremità 5’), poi la zona toracica e infine la testa (estremità 3’). Si scoprì che anche le altre
varianti avevano difetti dovuti al mal posizionamento di questi geni. Tutti questi geni presenti sul
cromosoma 3 che controllano le varie regioni del moscerino avevano al loro interno un tratto di una
sessantina di nucleotidi uguale tra di loro: questa regione fu chiamata omeobox ed è l’elemento distintivo
dei geni omeotici.
Il nostro genoma contiene una condizione quadruplicata rispetto a quella della drosofila: ci sono 4
cromosomi diversi in cui, in un certo tratto di DNA, ritroviamo alcune copie di geni imparentati con quelli
della Drosophila. Ciò perché durante l’evoluzione aumentano le sequenze tra loro imparentate, con un
meccanismo che è correlabile con la replicazione del DNA e con i processi di ripartizione di materiale
genetico durante la divisione cellulare.
Nelle nostre cellule, gli omeogeni non controllano direttamente alcune regioni del nostro organismo ma
hanno a che fare con le regioni più antiche del nostro sistema nervoso centrale, perciò la loro attività è

31
fondamentale: con l’evoluzione quindi, queste sequenze sono
state conservate e utilizzate per funzioni più evolute rispetto a
quelle di partenza.
Le sequenze duplicate nel nostro genoma sono sterminate nel
loro numero.
Le linee blu dell’immagine collegano le sequenze identiche
presenti sullo stesso cromosoma. Il cromosoma 1 ne ha una
quantità enorme, un po’ meno il cromosoma 2 (anche se
comunque molto abbondanti), il cromosoma 7 è ricchissimo di
sequenze duplicate, lo stesso accade nella regione centromerica
del cromosoma 9.

ANOMALIE CROMOSOMICHE
Queste zone sono soggette all’insorgenza di anomalie cromosomiche (delezione, duplicazione) e, queste
alterazioni cromosomiche, sono associate a patologie geniche. Tra queste ricordiamo:
- nel cromosoma 22, appena al di sotto del centromero, ci sono regioni ripetute legate alla sindrome
DiGeorge, alla sindrome dell’occhio di gatto, ad alcune forme di ritardo mentale;
- nel cromosoma 15 le regioni duplicate sono legate alla sindrome di Prader-Willi e di Angelman e a
forme di ritardo mentale
- nel cromosoma 17 (ricchissimo di sequenze duplicate) le regioni sono associate a malformazioni e
alterazioni nello sviluppo del cervello.
Quest’abbondanza di sequenze ripetute in realtà non è specifica per un tipo di cromosoma, esistono infatti
sequenze tra loro pressoché identiche, dette altamente omologhe, anche tra cromosomi differenti.

Le linee rosse che si vedono sono i collegamenti tra sequenze tra loro altamente omologhe che sono presenti
sia sul cromosoma 22 (quello centrale) sia sul 2, sul 3, 4 ,7, 8 e via dicendo.
Si è visto che queste sequenze, si è visto, che possono essere a base di fenomeni di riarrangiamenti
genomici: possono essere il punto di errore durante l’appaiamento delle sequenze tra loro omologhe in
meiosi nella profase 1, quando si forma la tetrade. Nella tetrade i cromosomi omologhi si avvicinano,
prendono contatto fra loro in modo tale da stare perfettamente in asse e i due cromatidi dei due omologhi
possono scambiare materiale genetico. Ciò avviene per omologia di sequenza ed altri parametri. In una
situazione come quella descritta, in cui un cromosoma presenta sequenze totalmente identiche rispetto ad
un altro cromosoma da esso differente, può capitare che i due cromosomi rimangano a contatto durante
la profase 1. Tale evento è ovviamente anomalo ma se si verifica c’è uno scambio di materiale tra i due
cromosomi non omologhi: avviene la traslocazione reciproca, cioè un segmento cromosomico finisce in un
altro cromosoma e viceversa, comportando uno scambio di materiale genetico.

32
LE SEQUENZE RIPETUTE

SEQUENZE RIPETUTE IN TANDEM


Esistono delle ripetizioni particolari chiamate RIPETIZIONI IN TANDEM perché sono simili tra di loro e
orientate nello stesso verso (come chi sta in tandem).
L’esempio più classico di queste sequenze è quello
del gene per 3 dei 4 tipi di RNA ribosomiali. Queste
sequenze sono dislocate a livello di una porzione,
chiamata satellite, del braccio corto di tutti e cinque i
cromosomi acrocentrici. In questa porzione, le copie
identiche dello stesso gene si vanno a disporre l’una
dietro l’altra con lo stesso verso sulla stessa emielica
di DNA, per cui vengono definite “sequenze ripetute
in tandem” in quanto ricordano la struttura di tale
bicicletta.
Tutte queste unità di trascrizione sono separate da
un tratto non trascritto definito spaziatore, che fa da separatore tra un elemento e l’altro delle copie. Tutte
queste sequenze, in linea generale, possono essere utilizzate per la sintesi degli RNA ribosomiali.
Il fatto che queste regioni possano andare perdute non causa problemi nell’individuo perché ci sono
tantissime altre copie sugli altri cromosomi.

SEQUENZE MEDIAMENTE E ALTAMENTE RIP ETUTE


Le sequenze mediamente e altamente ripetute sono molto più corte e di origine direttamente o
indirettamente virale. L’incontro delle nostre cellule con un virus, anticamente, ha prodotto una serie di
alterazioni che si sono accumulate nel nostro genoma dando origine a lunghissime sequenze tra loro
ripetute o cortissime sequenze tra loro ripetute, sparpagliate su tutto il genoma o clusterizzate
(accumulate) su una particolare regione di un cromosoma.

SEQUENZE MEDIAMENTE RIPETUTE

LINES SINES
20% del genoma 13% del genoma
Lunghezza media 6mila nucleotidi Lunghezza media 300 nucleotidi
Famiglia più rappresentativa: L1 Famiglia più rappresentativa: ALU
Sequenze codificanti Non codificanti
Proteine per promotore polimerasi II Troviamo una sequenza SINES ogni 1000-3000
nucleotidi
Trascrittasi inversa e endonucleasi
Retrotrasposoni

Le sequenze mediamente ripetute si distinguono per essere piuttosto abbondanti nel nostro genoma e
possono contenere tratti di DNA sia non codificanti sia codificanti per proteine. Le principali sequenze
mediamente ripetute sono le sequenze LINES e SINES.
33
Le LINES sono sequenze che singolarmente sono costituite da 6mila nucleotidi, sono presenti duplicate in
migliaia di copie tanto che costituiscono almeno il 20% del nostro genoma.
La famiglia più importante (e meglio studiata) è la L1. All’interno di queste sequenze ci sono:
- copie non codificanti, che sono circa 10 volte quelle codificanti.
- tratti codificanti per:
• proteine che hanno a che fare con la replicazione del DNA e l’orientamento dei
cromosomi durante l’anafase (ossia proteine che vanno ad agire sui geni per la DNA-
polimerasi II favorendone la trascrizione)
• Trascrittasi inversa: si tratta di un gene che non appartiene tipicamente alla cellula
eucariotica, ma che era proprio della cellula procariotica (virus) e che è rimasto “incastrato”
nel DNA eucariotica a seguito del contatto del nostro genoma con quello di qualche virus.
Le sequenze LINES sono legate all’attività dei retrotrasposoni.
Le sequenze SINES corrispondono al 13%, probabilmente anche più, del nostro genoma, sono molto più
corte delle LINES, ogni ripetizione ha la lunghezza media di 200 paia di basi, sono molto più abbondanti
come numero totale rispetto alle LINES: c’è una sequenza SINES ogni 1000-3000 nucleotidi. La più
rappresentativa è la sequenza ALU, il cui nome ha a che fare con un enzima di restrizione che ha come
bersaglio una sequenza contenuta nella sequenza ALU.
L’enzima di restrizione si chiama così perché ha come bersaglio una specifica sequenza nucleotidica. Quando
trova questa sequenza nel genoma, la taglia. Siccome questa sequenza è molto abbondante, l’enzima
finisce per restringere i tratti di DNA perché li riduce di lunghezza.
Tra i geni che sono stati identificati nelle sequenze SINES, ce ne sono alcuni di origine virale e alcuni
corrispondenti a RNA non codificanti di piccole dimensioni (quindi microRNA).

Nonostante gli ultimi studi moderni, il 2% del genoma umano deve essere ancora codificato perché le
regioni ripetute del genoma sono molto difficili da analizzare. In passato, le sequenze ripetute che
costituiscono gran parte del nostro genoma erano state considerate sequenze spazzatura. In realtà si è poi
scoperto che gran parte di queste sequenze codificano per RNA non tradotti in proteine. Ora l’obiettivo è
capire come si fa a identificare un gene che codifica per il RNA non tradotto. Tutti i geni dovrebbero
cominciare con la prima tripletta per il primo esone che viene trascritta in AUG sul mRNA (poi tradotta in
metionina). Per un mRNA che non è tradotto in proteina, non sappiamo quale sia la legge che governa
l’inizio e la fine del gene che codifica questo mRNA.
Probabilmente l’80% del DNA ripetuto non è DNA spazzatura ma DNA corrispondente a sequenze geniche
per RNA non tradotti in proteine.

Oltre a queste sequenze ripetute di grandi dimensioni, ci sono altre sequenze piuttosto abbondanti, ovvero
le sequenze LTR, che hanno a che fare con particolari ripetizioni di pochi nucleotidi che si pongono ai confini
di queste sequenze ripetute.
Questi frammenti alle estremità permettono al pezzo di DNA di spostarsi e muoversi all’interno del genoma.
Ci sono infatti pezzi di DNA che si spostano in continuazione senza causare danni al nostro organismo
(generalmente).
Queste regioni servono anche a produrre anticorpi che siano più facilmente adattabili alle molecole nuove
con cui il nostro corpo entra in contatto: noi riusciamo a difendersi alle nuove sostanze che compaiono goni
giorno nell’ambiente grazie alla plasticità delle regioni genomiche corrispondenti alle regioni dove ci sono i
geni per la risposta immunitaria.
Le LTR contengono i pre-geni che permettono a virus e retrovirus di duplicarsi e diffondersi, sono quindi pezzi
più o meno integri di genoma di origine virale. La grande abbondanza di queste sequenze sparse nel genoma

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è la testimonianza di un passaggio, in tempi passati, di virus che entrando a contatto con la cellula eucariotica,
hanno duplicato il proprio patrimonio inserendo alcune copie all'interno del genoma.

I TRASPOSONI
I trasposoni sono le sequenze in grado di “saltare” da una regione all’altra grazie all’azione della trasposasi,
un enzima il cui gene è contenuto all’interno degli stessi trasposoni.
Queste sequenze sono presenti sia in procarioti sia in eucarioti, possono essere:
- semplici, se contengono solo i geni per spostare le sequenze di DNA nel nostro genoma,
- complesse, se contengono anche altri geni, oltre a quelli specifici per lo spostamento.
I confini di queste regioni sono costituiti da sequenze tra loro identiche e invertite alle due estremità, che
permettono al segmento di poter trovare altre regioni dove potersi inserire, cioè dove poter integrare il tratto
di DNA trasportato. Queste estremità sono tipicamente sequenze presenti nei virus e sono proprio quelle
sequenze che permettono al genoma virale di integrarsi nel genoma, anziché rimanere separato all’interno
del nucleo. Quest’integrazione ha diverse conseguenze.
I trasposoni sono le “cicatrici” del passaggio di un pezzo di virus nel nostro genoma.
I geni per la resistenza ai farmaci sono trasposoni, e così si spiega la velocità della loro propagazione.
I trasposoni meglio studiati e su cui abbiamo maggiori informazioni sono quelli che vengono prima copiati
in RNA, poi ancora in DNA, e infine vengono integrati in una zona diversa del genoma: si tratta dei
RETROTRASPOSONI o RETROPOSONI.
Gli elementi trasponibili nel nostro genoma ci vengono direttamente dai retrotrasposoni. Questi elementi
prendono il prefisso “retro” perché, nella loro attività, sono mediati dalla trascrittasi inversa. In generale,
questi elementi contengono due geni:
- uno che codifica per una proteina strutturale che serve al RNA trascritto da questa sequenza
trasponibile di essere trasferito dal citoplasma al nucleo
- uno che codifica per la trascrittasi inversa (classico enzima dei retrovirus necessario per la
produzione di DNA a partire dall’RNA che funge da stampo).
Le sequenze LTR presenti a livello della sequenza del retrotrasposone permettono di inserire fisicamente il
tratto di DNA in una zona del genoma. Queste individuano quindi, lungo il filamento di DNA che ospiterà la
nuova sequenza, la posizione lungo la catena dove può essere inserito agevolmente il segmento.
In pratica la sequenza di DNA (in blu) viene
trascritta in un filamento di RNA (in verde)
che è capace di comportarsi sia da RNA
messaggero, traducendo quindi le due
proteine, sia come filamento stampo per
sintetizzare una sequenza di DNA a singola
elica. Quest’ultima sarà integrata ad una
delle due emieliche di DNA e,
successivamente, tramite una DNA
polimerasi verrà sintetizzata una catena
complementare a questo tratto.
Nell’immagine, l’ovale rappresenta il nucleo,
la parte esterna è il citoplasma e i due
filamenti blu sono la regione L1 contenente 2
ORF (cioè due geni): un gene per la
trascrittasi inversa e un gene per la proteina
strutturale di trasporto dell’mRNA. Questa

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regione si trova vicino ad un tratto ricco di coppie T-A. L’elemento L1 viene trascritto in mRNA (verde), che
viene poi maturato, poliadenilato e trasportato dal nucleo al citoplasma.
Qui viene raggiunto dai ribosomi che cominciano la sintesi delle due proteine (per trasporto e trascrittasi
inversa). Successivamente, la proteina di trasporto agguanta l’mRNA insieme alla trascrittasi inversa e li
porta all’interno del nucleo.
Nel nucleo, una nucleasi va a tagliare un tratto di DNA di una delle due emieliche in corrispondenza di una
sequenza ricca di timine, che si appaierà alla coda di poli A dell’mRNA.
A partire dall’mRNA, la trascrittasi inversa sintetizza un segmento di DNA che si inserisce proprio a partire
dalla sequenza di timine. Una delle due emieliche si è quindi allungata rispetto alla condizione iniziale.
A fronte di questa emielica più lunga rispetto a quella complementare, arriva una DNA polimerasi che avvia
la sintesi di una catena di DNA complementare a quella appena copiata dall’mRNA. Questa catena
terminerà proprio con una sequenza di poli A complementari alla catena di timine. Arriva la ligasi, cuce tutti
gli elementi e, così, abbiamo ottenuto l’inserimento di una nuova copia dell’elemento L1 in una regione
diversa o dello stesso cromosoma o su cromosomi diversi.
Questo è il funzionamento dei trasposoni, che non eliminano il segmento di partenza ma semplicemente
aggiungono segmenti altrove. Il meccanismo dei retrotrasposoni è il responsabile del 75% delle sequenze
mediamente ripetute presenti nel nostro genoma, mentre il restante 25% è dovuto ai trasposoni.

PSEUDOGENI
In realtà, con questi retrotrasposoni si generano anche le duplicazioni di tratti contenenti geni codificanti
per proteine. Questo ha portato all’origine degli pseudogeni.
Gli PSEUDOGENI sono sequenze geniche appartentemente simili (se non uguali) ai geni codificanti per
proteine, ma non sono codificanti a loro volta. I meccanismi all’origine di questi pseudogeni, che
appartengono al genoma non codificante, sono molto numerosi.
In generale, uno dei meccanismi è legato alla duplicazione genica vera e propria: un errore durante la
duplicazione del DNA porta alla presenza di due copie dello stesso segmento di DNA contenete un gene. Se
per il nostro genoma è in realtà sufficiente una sola copia di quel gene, la presenza di copie aggiuntive fa sì
che queste contengano mutazioni sia prive di significato, sia che
cambiano il significato della tripletta in cui si sono verificate
determinando l’inattivazione della trascrizione o della traduzione
dell’mRNA copiato da questa copia mutata. Avremo quindi:
- una copia normale (più a sinistra)
- delle copie aggiuntive (più a destra) generate durante la
duplicazione di DNA che, avendo accumulato mutazioni,
permangono nel nostro genoma e con l’evoluzione sono
andate incontro a parziale distruzione, in modo che nel nostro
genoma ci sono i relitti genici, ovvero sequenze che
contengono solo alcuni degli esoni e degli introni del gene di
origine (o anche soltanto gli esoni).

Ci sono invece le duplicazioni tipicamente determinate dall’intervento della trascrittasi inversa. Un gene
viene normalmente trascritto in mRNA, ma questo viene poi intercettato dalla trascrittasi inversa. Così, a
partire da questo mRNA, si genera un DNA copia (cDNA) identico al segmento originale da cui deriva
l’mRNA. Questo segmento copia può inserirsi in un’altra regione del genoma: tuttavia, questo cDNA è privo

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di funzionamento, cioè non viene trascritto, infatti esso non ha il promotore,
poiché deriva dall’mRNA e sull’mRNA non ci sono sequenze di regolazione.
Normalmente questo DNA copiato da un mRNA maturo non viene utilizzato
ma, talvolta, queste copie si possono inserire in prossimità di un promotore di
un gene differente.
Bisogna tenere conto del fatto che le sequenze promotrici e le isole CPG sono
in grado di agire in tutte e due le direzioni, regolando:
- sia le sequenze alla loro estremità 3’
- sia le sequenze alla loro estremità 5’
Questo fa sì che il gene privo di introni (perché deriva da un mRNA maturo)
torna ad essere trascritto in maniera erronea, determinando l’insorgenza di alterazioni.
Alcuni di questi geni possono trascrivere anche microRNA che, per la loro complementarità di sequenze
con il gene da cui sono originati, possono interferire con la trascrizione dei geni normali. Quindi questi
pseudogeni sono letti e trascritti in RNA che hanno un effetto di controllo della trascrizione, perché si
appaiano con gli RNA già trascritti dal gene normale. Infatti, quando un mRNA si appaia con un microRNA
per complementarità di basi, la sua traduzione sarà impedita.

SEQUENZE ALTAMENTE RIPETUTE


Costituiscono il 10% del genoma, sono molto più piccole di quelle mediamente ripetute, sono costituite da
brevi catene ripetute anche milioni di volte, che si possono trovare o sparpagliata sull’intero genoma a
livello di regioni specifiche dei cromosomi, come le regioni centromeriche o telomeriche.
Le sequenze centromeriche si trovano a livello di tutti i centromeri dei cromosomi. Esse hanno sia tratti
comuni a tutti i cromosomi sia tratti che sono specifici di un solo o di molti cromosomi: sono le sequenze di
DNA satellite.

Le sequenze telomeriche non sono codificanti e sono meno abbondanti delle centromeriche. Le sequenze
telomeriche, in larga parte, sono comuni a tutti i tipi di cromosoma; infatti, sono determinate dalla
ripetizione, in centinaia di copie, di un esanucleotide (GGGGCC -> identico per tutti i cromosomi) che ha la
funzione di proteggere le estremità del cromosoma.
Ciascun cromosoma contiene una catena di DNA a doppia elica dove ogni filamento avrà un’estremità 5’ e
una 3’. Queste estremità di per sé sono chimicamente molto reattive e tenderebbero quindi a stabilire
legami con altre molecole di DNA per effetto di enzimi che catalizzano legami fosfodiesterici. Questo è un
processo da limitare perché porterebbe alla fusione di segmenti cromosomici di origine differente, che
causerebbero un’alterazione della forma e dei meccanismi di ripartizione cromosomica, con conseguenze
più o meno gravi. Per evitare ciò intervengono proprio le sequenze telomeriche che, ripetendosi migliaia di
volte, collegano l’estremità 5’ di un’emielica con l’estremità 3’ dell’emielica complementare generando
un’ansa a singola elica, che rende impossibile il legame tra le estremità di un cromosoma e quella di
un’altra sequenza, o della sequenza dell’altro braccio dello stesso cromosoma. Quest’ultimo evento è
quello che si verifica quando, a seguito della perdita delle regioni telomeriche, si forma un legame tra le
due estremità di un cromosoma (cromosoma ad anello), che può essere un evento sia costituzionale, cioè
che si genera già durante la formazione dei gameti, oppure che si forma a seguito di duplicazioni di un
determinato tessuto e, in questo secondo caso, dà luogo più drasticamente a una cellula alterata
tipicamente tumorale.
Esistono inoltre le sequenze microsatellite, che sono molto brevi (da 2 a 6 milioni di nucleotidi ciascuna) e
che si ripetono milioni di volte nel nostro genoma. Queste sequenze permettono di costruire le impronte
genetiche di ciascuno di noi, infatti vengono utilizzate nelle ricerche poliziesche.

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! Non confondere il DNA satellite con i satelliti dei cromosomi acrocentrici

Centromeri Telomeri Microsatelliti


Ripartizione del materiale Integrità dei cromosomi (no Utili per riconoscimento
cromosomico all’anafase della fusioni telomeriche) individuale (impronte digitali di
mitosi e della meiosi DNA)

CONFROTNO TRA SEQUENE MEDIAMENTE E ALTAMENTE RIPETUTE


Se vogliamo fare un paragone tra sequenze mediamente e altamente ripetute:
- cambia il numero di ripetizioni: nelle sequenze mediamente ripetute il numero di ripetizioni va da
qualche centinaia a decine di migliaia di copie, mentre nelle altamente ripetute va da qualche
centinaio di migliaio di volte fino a qualche decina di milione di volte.
- cambia la lunghezza delle sequenze: nelle mediamente ripetute abbiamo da 150 fino a 6-8mila
nucleotidi, mentre nelle altamente ripetute ogni sequenza è composta da 5-10 nucleotidi.
Più è piccola la sequenza ripetuta, maggiore è il numero di copie sparpagliate in tutti i
cromosomi.
- Le sequenze mediamente ripetute possono contenere geni che vengono trascritti e (talvolta)
tradotti, mentre nelle sequenze altamente ripetute sono rari e i tratti trascritti sono solitamente per
microRNA.
- Le sequenze più lunghe sono più complesse in quanto costituite da copie ridotte, danneggiate,
delete; mentre quelle più corte hanno una struttura più semplice e raramente contengono
mutazioni al loro interno.
- Entrambe possono essere o raccolte in una determinata regione cromosomica o sparpagliate
sull’intero genoma

Caratteristica Mediamente ripetuta Altamente ripetuta


103 − 105 , lunghezza 150-8000
Numero di ripetizioni 105 -107 , lunghezza 5-10 pb
pb
Trascrizione Alcune sequenze sono trascritte Raramente o mai trascritta
Struttura della sequenza Complessa Solitamente semplice
Raggruppata (in cluster),
Disperse e raggruppate (in localizzate principalmente a
Organizzazione nel genoma
cluster) livello dei centromeri e dei
telomeri
Sia eterocromatina che
Distribuzione nella cromatina Eterocromatina condensata
eucromatina
Tempo di replicazione Con le sequenze codificanti Tardivo
Molte come pseudogeni o
Origine evolutiva Sconosciuta
elementi trasponibili
Alcune funzionali come geni per
mRNA o RNA accessori; altre La maggior parte o tutte con
Funzione
come segnali di regolazione, funzione ignota
trascrizione e maturazione

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SEQUENZE MINI E MICRO SATELLITE
Ci sono poi le cosiddette sequenze MINISATELLITE IPERVARIABILI, cioè sequenze che variano nel numero
delle copie e nella presenza o meno di qualche mutazione al loro interno. Queste sequenze comunemente
vengono utilizzate come impronte del DNA.
Anche le SEQUENZE MICROSATELLITE sono utilizzate con le stesse finalità medico-legali, ma vengono
studiate anche perché possono essere coinvolte nell’insorgenza di anomalie della sequenza genomica.
Le due tipologie di sequenze si distinguono per la dimensione del segmento ripetuto.
Le minisatellite vanno da 9 a 64 nucleotidi ripetuti molte volte; le sequenze microsatellite, invece, sono
proprio piccole e, addirittura, ci sono alcuni polimorfismi del DNA che riguardano 1 solo nucleotide
(chiamati SNPs “Single Nucleotide Polimorphisms”).
Sono ad esempio quelle variazioni di sequenza che non danno un effetto fenotipico evidente ma sono alla
base della maggiore o minore tolleranza a dei nutrienti/farmaci. Esse, infatti, possono far sì che non si abbia
nessun effetto ad una molecola farmacologica o, al contrario, avere un effetto tossico gravissimo; infatti,
per alcuni farmaci oggi è imperativo chiedere prima l’indagine genetica e poi dare il farmaco al paziente.

ORGANIZZAZIONE DEL GENOMA NELL’UOMO

Nel nostro genoma i geni codificanti per proteine sono circa 20mila, anche se gli RNA codificanti sono
molto più numerosi, circa 4-5 volte più numerosi. Questo accade perché un gene può dare luogo a più
trascritti, mediamente 4-5, e questi trascritti sono distinguibili tra di loro perché sono più o meno lunghi,
contengono tutti o meno i tratti esonici (talvolta contengono anche tratti intronici) e codificano per
proteine completamente diverse.
I geni che vengono trascritti in RNA ma non vengono tradotti in proteine sono circa 20mila, ma questa
cifra è in continuo aumento (nonostante le numerose difficoltà nel loro studio del RNA non codificante).
Quindi, il nostro genoma è costituito solo per una piccola frazione da sequenze codificanti per le proteine,
mentre tutto il resto del genoma è costituito da sequenze più o meno estese, più o meno duplicate che
derivano dall’interazione di pezzi di geni virali (meglio ancora retrovirali) e il nostro genoma;
quest’interazione è avvenuta durante l’evoluzione (risale a 500 milioni di anni fa fino a circa 10 milioni di
anni fa). Le sequenze più grandi sono quelle che si sono duplicate più recentemente da un punto di vista
evolutivo e queste sequenze molto spesso possono contenere geni più o meno integri che sono copia di
geni normalmente già presenti nel genoma prima della conoscenza dei retrovirus.

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Quest’immagine mostra le differenze nell’organizzazione tra il genoma nucleare e il genoma mitocondriale
e, come si può notare dai due diagrammi, tale organizzazione risulta molto differente.
Nel genoma mitocondriale, 180mila volte più piccolo del nucleare, 2/3 del genoma è utilizzato per
codificare proteine e la restante porzione è costituita quasi solo da sequenze geniche per RNA.
Nel genoma nucleare la situazione è completamente diversa, i geni codificanti per proteine sono un piccolo
spicchio nel diagramma (1-2%) rispetto a tutte le altre sequenze che codificano per RNA non tradotti.
La parte rossa è quella codificante per proteine.
Se fisicamente confrontiamo le dimensioni del genoma nucleare e quelle del genoma mitocondriale, quello
mitocondriale sarebbe il puntino nel cerchio verde.

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IL CICLO CELLULARE

L’immagine è ottenuta con il microscopio


elettronico a scansione e mostra la struttura
tridimensionale di fibroblasti in diversi periodi
della vita cellulare.
Nell’immagine, le cellule in G1 presentano una
superficie coperta da rilievi più o meno
grossolani e la cellula presenta un aspetto
poligonale.
Quando da G1 passa ad S, la superficie della
cellula si allunga e diventa molto più liscia: la
cellula sta pensando solo a duplicare il
genoma.
Nella fase successiva, G2, torna a risollevarsi la
struttura tridimensionale ma i rilievi sono molto meno pronunciati rispetto alla G1.
Infine, le forme “a castagna/a riccio di mare” sono le cellule in mitosi e hanno questa struttura perché, a
differenza delle cellule in G1 e G2 (che devono rimanere immobili), queste cellule devono dar luogo a due
cellule figlie e devono spostarsi. Per questo si sollevano dalla superficie su cui stanno crescendo, rimanendo
però ancorate ad essa grazie a delle estroflessioni citoplasmatiche.

L’INTERFASE

Il CICLO CELLULARE prevede:


- l’interfase, piuttosto lunga
- la mitosi o meiosi
Nell’INTERFASE possiamo distinguere peridi diversi:
- G1, chiamato anche intervallo 1 o gap 1, può durare molte ore (fino a 24 ore)
- S, fase di sintesi del DNA, dura circa 7 ore
- G2, chiamato anche intervallo 2 o gap 2, leggermente più breve della fase S.

Nella G1 la cellula si organizza per duplicare il proprio


patrimonio genetico, oltre che per sintetizzare le
proteine, gli enzimi ed i complessi organici necessari
per la sopravvivenza della cellula.
Nella S avviene solo la sintesi del DNA, anche se ci
sono alcune regioni del genoma che codificano per
piccoli RNA.
Nella G2, arrestata la duplicazione del DNA, riprende
l’attività sintetica e la cellula produce gli enzimi e le
proteine strutturali necessarie per duplicare (non il
DNA ma) i cromosomi all’interno dei quali si trova la
molecola di DNA.
Questa è l’interfase delle CELLULE LABILI.

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Esistono però cellule che, dopo un certo numero
di duplicazioni, vanno in pausa: esse si trovano
nel periodo G0. Queste cellule smettono di
replicarsi ma, se necessaria una nuova
duplicazione per sostituire le cellule vecchie,
sono capaci di tornare in G1 e riprendere la
divisione cellulare. Esempi di cellule in G0 sono
le cellule epiteliali, epatiche o i globuli rossi.
Queste cellule vengono definite CELLULE
STABILI.
Ci sono altre cellule che, una volta che hanno
fatto un certo numero di duplicazioni, smettono
di replicarsi definitivamente: vanno in GZ. Sono cellule arrivate a differenziazione completa e che non
riprenderanno più la duplicazione. Esempi di cellule in Gz sono le cellule del tessuto muscolare, i
cardiomiociti (ricominciano a proliferare solo in alcune circostanze patologiche) e i neuroni.
Esse vengono definite cellule PERENNI.
I differenti tipi cellulari possono avere differenze nella durata dei vari periodi del ciclo cellulare.

LA MITOSI

PROFASE
Durante l’interfase, all’interno del nucleo troviamo una sostanza granulare, la
cromatina, in cui possiamo individuare una zona più densa, ovvero il nucleolo.
Quando la cellula passa alla mitosi e ha inizio la PROFASE, il principale
cambiamento che si verifica a livello del nucleo è la condensazione della
cromatina in modo che il DNA, associato alle proteine istoniche di ciascun
cromosoma, si condensi dando luogo a dei lunghi filamenti. Questi filamenti
tenderanno a diventare sempre meno estesi e sempre più spessi, dando luogo ai
cromosomi così come li conosciamo.
Nel citoplasma, nello stesso tempo, avviene la duplicazione dei centrioli,
strutture fondamentali per la formazione dei microtubuli del fuso mitotico, cioè
una sorta di struttura a gabbia, di forma ovalare, all’interno della quale
rimarranno ingabbiati i 46 elementi del nostro corredo cromosomico.
I centrioli sono strutture proteiche di forma tubulare; sono costituiti da 9 triplette di microtubuli disposti a
raggiera. All’interno di ogni cellula i centrioli si trovano in numero di 2, uniti tra loro e disposti in modo
perpendicolare l’uno all’altro.
La duplicazione dei centrioli è dovuta al fatto che le due strutture originatesi migreranno ai poli opposti del
nucleo e, durante la migrazione, tenderanno ad estendere tra di loro delle fibre del fuso.

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METAFASE
Alla fine della profase, avviene la risoluzione/degradazione della membrana nucleare: la scomparsa della
membrana nucleare indica il passaggio da profase a METAFASE. Con la scomparsa della membrana
nucleare si ha la commistione tra le strutture citoplasmatiche e le strutture
nucleari. Il fuso mitotico si organizza in maniera definitiva andando a contenere i
vari cromosomi che, nel frattempo, sono diventati più corti e spessi (tanto da
essere chiaramente visibili anche al microscopio ottico).
La struttura data dalla coppia di centrioli e l’origine del fuso si chiama aster. Un
fuso mitotico contiene due aster alle sue estremità.
Nella metafase, i cromosomi sono posizionati equidistanti dai poli del fuso stesso
perché le fibre del fuso, originate dai due poli, esercitano la stessa forza sui due
cromatidi dello stesso cromosoma; quindi, ciascun cromosoma bicromatidico è
sottoposto a due trazioni di uguale intensità ma di verso opposto.
Alcune fibre passano da un estremo all’altro del
fuso, collegando i due centrioli. Altre fibre si agganciano ai cromosomi,
impiantandosi nel centromero, una zona ricoperta esternamente da
nucleoproteine che appartengono alla famiglia dei cinetocori. I cinetocori
prendono contatto con una specifica porzione di DNA, cioè con il DNA
altamente ripetitivo delle regioni satellite centromeriche. Ogni
cromosoma ha due cinetocori, cioè “piastre” di nucleoproteine ed acidi
nucleici, in modo che i due cromatidi siano legati a due microtubuli
diversi.

ANAFASE
I due cromatidi, nel passaggio da metafase ad anafase, vengono staccati e
allontanati uno dall’altro.
Una volta che i cromosomi sono stati catturati, avviene il passaggio dalla
metafase all’ANAFASE. In anafase avviene la degradazione di alcune proteine
(coesine) che tenevano insieme i due cromatidi fratelli e questo fa sì che le forze
esercitate dalle fibre del fuso sui due cromatidi fratelli, abbiano la meglio e che i
cromatidi comincino a migrare verso uno dei due poli. In questa fase si ha quindi la separazione dei
cromatidi che compongono i cromosomi bicromatidici uniti nella porzione centromerica e poi
successivamente la loro totale migrazione verso i poli.

43
TELOFASE E CITODIERESI
Segue quindi la TELOFASE. Una volta che i cromatidi fratelli hanno raggiunto i due poli, nella telofase inizia
la decondensazione della cromatina di ciascun cromosoma monocromatidico. Anche questo processo è
dovuto alla degradazione di alcune proteine che compattano la cromatina, le condensine. Inizia la
ricostituzione della membrana nucleare intorno al materiale cromosomico ai due poli del fuso e, una volta
che si ha la completa riformazione della membrana nucleare, si ha anche la completa decondensazione
della cromatina che costituiva i cromatidi fratelli e la ricomparsa del nucleolo.
A livello citoplasmatico, alcune fibre contrattili del citoscheletro cominciano a
strozzare la cellula in posizione mediana, in modo che il citoplasma di quella che era
la cellula madre si vada a suddividere nelle due cellule figlie. Quest’ultimo passaggio
prende il nome di CITODIERESI.
Le nuove cellule formate, si troveranno nella fase G1 del ciclo cellulare successivo.

LE COESINE E LE CONDENSINE
Condensazione e decondensazione dei filamenti di DNA sono mediate da proteine che appartengono alla
famiglia delle:
- CONDENSINE, che fanno compattare tra di loro i ripiegamenti del dominio d’ansa della cromatina
- COESINE, che fanno rimanere adesi i due cromatidi fratelli di ogni cromosoma.
Queste due proteine:
- intervengono a partire dalla profase: compaiono prima le condensine (profase) e poi le coesine (tra
profase e metafase)
- sono maggiormente presenti nella metafase, quando il cromosoma raggiunge il massimo grado di
compattezza
- scompaiono in anafase e telofase, quando i cromatidi si separano e la cromatina si decondensa,
tornando alla sua struttura “finemente dispersa”, tipica dell’interfase: scompaiono prima le coesine
(anafase) e poi le condensine (telofase).
Entrambe le proteine:
- hanno una struttura a V e agiscono come delle pinze,
- agiscono consumando energia,
- si presentano sottoforma di dimeri.

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Tuttavia, differiscono per la funzione, infatti le coesine costituiscono a ponte tra i due cromatidi fratelli
e, come una pinza, cercano di avvicinarli il più possibile; le condensine, invece, cercano di compattare la
struttura della cromatina, avvicinando tra di loro le varie anse e favorendone l’accorciamento della
lunghezza di ciascun cromosoma.
I geni codificanti per queste due proteine, se subiscono mutazioni, possono portare a un’anomala
divisione del materiale genetico con possibilità di insorgenza di cellule con un numero alterato di
cromosomi o con frammenti cromosomici, dovuti alla mancata condensazione di tratti della cromatina.

LA STRUTTURA DEL DNA NEL CICLO CELLULARE

I nucleotidi del genoma umano sono 6,4 miliardi nei corredi diploidi.
In fase G1 una cellula ha:
- 6,4 miliardi di nucleotidi
- 46 cromosomi monocromatidici
- 46 cromatidi
- 46 molecole di DNA a doppia elica (ogni
cromosoma ha una doppia elica).
In G2 contiene:
- 12,8 miliardi di nucleotidi
- 46 cromosomi dicromatidici
- 92 cromatidi
- 92 molecole di DNA a doppia elica identiche tra di
loro.
Nell’anafase, i due cromatidi fratelli si allontanano,
perciò si ottengono due cellule figlie, identiche alla cellula in fase G1.
! Ogni cromatidio contiene una molecola di DNA

45
LA CROMATINA

Nelle cellule eucariotiche, i 2 metri di DNA sono fortemente associati a proteine, principalmente istoni, a
formare la struttura “a collana di perle” dove le perle sono dei blocchetti di proteine attorno ai quali si
avvolge la molecola di DNA per circa due giri.
La spiralizzazione fa in modo che il DNA occupi uno spazio 10 milioni di volte più piccolo rispetto a quello
che occuperebbe se fosse despiralizzato: passa da 2 metri a 200 nanometri. Questa associazione permette
la compattazione del contenuto nucleotidico dei cromosomi all’interno di una struttura, il nucleo, che
solitamente ha un diametro di 5 o 6 micron (può arrivare fino a 10), l’associazione è così ben organizzata
che i singoli cromosomi occuperanno dei “cassetti” specifici dentro di esso.
La cromatina si distingue in:
- Eucromatina: cromatina diffusa nello spazio nucleare, meno condensata, al microscopio appare più
chiara o comunque meno colorata rispetto all’eterocromatina;
- Eterocromatina: particolarmente addensata, più facilmente rilevabile al microscopio.
L’eucromatina costituisce il 60% di tutta la cromatina nucleare ed è quella più ricca in geni espressi.
L’eterocromatina, che costituisce il 40% del materiale nucleare, è costituita principalmente da DNA
altamente ripetitivo (quindi sequenze centromeriche, telomeriche, sequenze satelliti, microsatelliti) e dal
DNA mediamente ripetitivo. La cromatina prende il nome dal fatto che ha particolari caratteristiche
cromatiche, ovvero si lega a coloranti specifici per essa.

GLI ISTONI
Gli ISTONI sono uno degli elementi che partecipano all’epigenetica.
Essi sono piccoli polipeptidi i cui geni sono privi di introni, non hanno dei rispettivi RNA messaggeri e sono
molto poveri di sequenze di Poli-A. Sono peptidi caricati positivamente, perciò sono basici, e di
conseguenza si legano più facilmente alla molecola di DNA, che è acida, carica negativamente e che libera
H+.
Gli istoni vengono sintetizzati durante la fase S del ciclo cellulare e appartengono a 5 famiglie di proteine
istoniche, ciascuna rappresentata da un tipo di istone:
- H1,
- H2A,
- H2B,
- H3,
- H4.
Tranne l’istone H1, le sequenze amminoacidiche sono altamente conservate nei diversi organismi. L’istone
H3 del pisello differisce per soli 4 amminoacidi su 135 da quello della mucca.

IL NUCLEOSOMA
Il primo livello di organizzazione del DNA è il NUCLEOSOMA, cioè un ottamero istonico (costituto da
molecole uguali a due a due) attorno a cui si avvolge la molecola di DNA per 2 giri. Ad eccezione dell’H1, gli
altri quattro tipi sono i peptidi che prendono direttamente rapporto con la molecola di DNA per formare i
nucleosomi.

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L’H1, invece, è una proteina istonica che tiene agganciati tra loro i due giri e che collega due nucleosomi
lungo la struttura della cromatina.
La catena di DNA che si avvolge attorno all’ottamero è costituita da 140-160 nucleotidi, mentre tra un
nucleosoma e quello successivo c’è un tratto di DNA libero dall’associazione con gli istoni di circa 30-60
nucleotidi denominato DNA linker, cioè DNA di connessione tra un nucleosoma e un altro. La distanza tra i
nucleosomi è di circa 7nm e il diametro di ogni perla è di 10-11 nm.
Questa struttura è l’unità fondamentale della collana di perle, una struttura che in realtà non esiste in
natura. È stata prodotta in laboratorio per comprendere quale fosse l’organizzazione che sussiste tra il DNA
di un certo tratto di cromosoma e gli istoni.

LA FIBRA DI CROMATINA
Nella struttura reale presente nelle cellule eucariotiche in interfase (il periodo della vita
della cellula interposto tra una divisione mitotica e quella successiva) notiamo che la
FIBRA DI CROMATINA, al microscopio elettronico, appare come una struttura di 30nm,
molto più spessa di quella a collana di perle, poiché c’è un ulteriore avvolgimento dei
nucleosomi. Non si sa con esattezza quale conformazione assumano, probabilmente si
associano in una sorta di struttura avvolta su se stessa come in una scala a chiocciola.

I DOMINI AD ANSA
Il filamento cromatidico, a sua volta, si ripiega su se stesso a formare dei DOMINI AD
ANSA, cioè tratti di cromatina ripiegati e messi uno dietro l’altro grazie alla proteina dell’impalcatura
istonica (proteina acida, non basica, perché grazie alle carica negativa riesce a formare un legame robusto
con le proteine istoniche). Oltre alla proteina acida, intervengono le condensine, che facilitano la
stabilizzazione del ripiegamento della struttura. Questo ripiegamento ordinato permette di formare la
struttura del cromatidio.

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Livelli di condensazione:
- MOLECOLA DI DNA: spessa 2nm
es. 15 nucleotidi
- NUCLEOSOMI: spessi 11 nm, a parità di lunghezza abbiamo il
quintuplo di nucleotidi presenti nella molecola di DNA
es. 75 nucleotidi
- FIBRA DI CROMATINA - SOLENOIDE: spessa 30 nm, a parità di
lunghezza con il DNA, abbiamo quindici volte il numero di nucleotidi
es. 225 nucleotidi
- DOMINI AD ANSA – SUPER SOLENOIDE: spessi 300 nm
es.2250 nucleotidi
- CROMOSOMA CONDENSATO: in cui cromatine ad ansa si
sovrappongono tra di loro con uno spessore di 700nm
es. 4500 nucleotidi, così dà origine a zone con diversa
condensazione/sovrapposizione della cromatina. Dove è meno
condensata, la trascrizione dei geni contenuti è facilitata e maggiore
- CROMOSOMA IN METAFASE (massima condensazione): spesso
1400 nm
es. 9000 nucleotidi, se tale stima è piuttosto vaga perché dipende dai
livelli di condensazione che presenta una diversa densità a seconda
delle regioni cromosomiche.
! in tutte queste strutture, il DNA è sempre a doppio filamento
Dal momento che i
nucleosomi
caratterizzano lo stesso
tipo di cromosomi, se per
pratiche prettamente
diagnostiche occorre
distinguere tra loro i
cromosomi, è congeniale
l’utilizzo degli istoni.
Per esempio, il
cromosoma X, nelle
donne, ha la cromatina
intercondensata per
l’85% tanto che si forma il
corpo di Barr che si pensa
che sia usato per
compensare il diverso dosaggio genico tra i due sessi. Il cromosoma X, infatti, ricorre ad una serie di
stratagemmi funzionali per aumentare il grado di condensazione di alcune regioni dello stesso come, ad
esempio, il fatto che in una regione specifica l’istone H2A sia sostituito dall’ H2A MACRO che, appunto,
permette una maggiore condensazione. L’istone H2A MACRO è usato solo sul cromosoma X ed è uno dei
meccanismi che si adotta per operare sui processi di regolazione dell’espressione genica, quindi
fondamentalmente è utile per l’epigenetica. Questo tipo di istone viene usato solo ed esclusivamente sul
cromosoma X e solo sulle regioni che devono essere spente. La variazione del tipo di istone presente a
livello della cromatina in determinate regioni cromosomiche è uno dei meccanismi attraverso i quali si
opera una regolazione genica. Anche le modifiche chimiche dei nucleotidi e degli istoni, attraverso
l’aggiunta di gruppi solfuro e gruppi metile, sono utili per determinare, all’occorrenza, una maggiore o
minore associazione del DNA intorno al nucleosoma. Tale associazione non è sempre uguale qualunque sia
il cromosoma o il tratto del cromosoma ma molto dipende dal tipo di avvolgimento del tratto istonico
specifico.
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PROTEINE NON ISTONICHE
Oltre alle proteine istoniche esistono le PROTEINE NON ISTONICHE, tra cui:
- Enzimi coinvolti nella sintesi del DNA e dell’RNA,
- proteine di regolazione che facilitano o inibiscono la trascrizione,
- enzimi riparatori di DNA, che hanno compiti rilevanti nel controllare la corretta sequenza dei
nucleotidi lungo ciascun cromosoma
- ci sono enzimi necessari per la duplicazione del DNA nella fase S del ciclo cellulare, cioè elicasi,
topoisomerasi, ligasi, ecc.
Ci sono poi le PROTEINE SCAFFOLD, cioè le
proteine acide che tengono insieme i vari
ripiegamenti dei domini ad ansa a che
costituiscono l’impalcatura del cromosoma
metafasico. Tali proteine sono quelle sulle quali si
appoggiano le anse di cromatina per permettere
al cromosoma di assumere una struttura ordinata
e regolare.
Se dal cromosoma metafasico eliminassimo gli
istoni, al microscopio elettronico riusciremmo a
vedere la sua impalcatura costituita da proteine
Scaffold, che appare come uno “scheletro” nero
avente la stessa forma di un cromosoma
bicromatidico. Questa impalcatura sarebbe circondata da una nuvola (rosa) di nucleotidi organizzati in
lunghissimi filamenti.
Una struttura priva di istoni però non consentirebbe una giusta organizzazione dei vari tratti contenenti
geni differenti, e ciò comporterebbe errori nella regolazione/attivazione dei diversi geni.

DOMINI CROMOSOMICI

La cromatina può essere osservata nel nucleo interfasico sottoforma di regioni costituite solo dalla
cromatina di uno specifico cromosoma. Queste regioni prendono il nome di DOMINI CROMOSOMICI.
Tessuti diversi, presentano una diversa disposizione dei vari domini cromosomici; questa disposizione può
cambiare anche tra cellule dello stesso tipo, a seconda se esse sono sane o patologiche. L’essere patologico
è conseguenza quindi di una diversa disposizione
che hanno tra di loro i domini cromosomici,
comportando così scambi anomali di materiale
genetico tra molecole di DNA appartenenti a
cromosomi diversi. Infatti due domini diversi
possono entrare a contatto, poiché esiste una
vicinanza tra la sequenza enhancer di un
cromosoma e il promotore di un gene su un
cromosoma differente.
Queste immagini, ottenute dal microscopio
confocale attraverso l’utilizzo dei software,
permettono di ricostruire la posizione della
cromatina nei vari cromosomi distinti per colore.

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Una delle problematiche principali che la modifica dei domini può comportare si riscontra durante la
trascrizione di un tratto di DNA in mRNA.
Se il DNA è associato ad istoni, non può essere trascritto perché le due emieliche non possono separarsi.
Quando arriva la RNA polimerasi e si aggancia al tratto di DNA da trascrivere, si ha la dislocazione di un
dimero istonico, in modo da indebolire il legame tra il DNA e l’ottamero istonico e da liberare un breve
tratto di DNA (rendendolo trascrivibile). Quando il processo di lettura di questo primo giro di molecola è
terminato, avviene la ri-associazione degli istoni che si erano liberati inizialmente. Se il gene da trascrivere
continua nel secondo giro del nucleosoma, si avrà la liberazione dei successivi istoni. Al termine della
trascrizione, la struttura del nucleosoma viene ricomposta completamente.

Qualcosa di simile avviene in corrispondenza delle forche di duplicazione durante la duplicazione del DNA.
Le forche o forcelle, ovvero le porzioni inziali e finali della bolla, si staccano temporaneamente dagli istoni
che, una volta terminata la duplicazione, si riassemblano ridando luogo alla struttura che sarà quella
definitiva. Durante la duplicazione, però, è necessaria la presenza di un contenuto doppio di istoni perché il
DNA si è duplicato e, quindi, si riutilizzano gli istoni già presenti e se ne sintetizzano dei nuovi per
consentire l’assemblaggio del nuovo filamento.

LA CROMATINA

La CROMATINA si divide in: eucromatina e eterocromatina, le quali si differenziano tra loro per vari aspetti.
L’EUCROMATINA:
• più lassamente associata ad istoni
• E’ costituita da DNA a singola copia (non ripetitivo) o a basso numero di duplicazioni,
• viene replicata più velocemente in fase S, in quanto è scarsamente associata ad istoni ed è quindi
più attivamente trascritta.
• E’ ricca di citosine e guanine che rappresentano “un marchio replicativo” dei geni più attivamente
trascritti. Le isole CPG, che sono molto presenti, si trovano a -100 nucleotidi e sono fortemente
coinvolte nella regolazione dell’espressione genica. La guanina, delle isole CPG, a seconda
dell’aggiunta o meno di un gruppo metile, permette l’attivazione o la disattivazione della
trascrizione.
• Codifica per mRNA,
• è costituita da cromatina dispersa nel nucleo in interfase (poiché scarsamente associata ad istoni).

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L’ETEROCROMATINA:
• è costituita da DNA ripetitivo,
• si replica più tardivamente in fase S, essendo più condensata,
• le isole CpG sono molto più rare,
• codifica scarsamente per mRNA,
• si trova nelle regioni centromeriche e telomeriche.
• Può essere
- Costituitiva:
o caratterizzata da uno stato di condensazione stabile
o priva di geni trascritti e tradotti
o ricca di DNA altamente ripetuto e polimorfo, cioè presenta un’alta varietà della sequenza
nucleotidica. Questa grande variabilità di sequenze è da ricondurre alla variazione del
numero di ripetizioni di poche unità di nucleotidi che si ripetono in maniera variabile tra i
due cromosomi della coppia (mini e microsatelliti).
o tipica delle regioni centromeriche
o positiva alla bandeggiatura C, quel tipo di colorazione dei cromosomi metafasici che è
tipico del centromero.
- Sostitutiva/facoltativa:
o Può cambiare il proprio stato di condensazione in base al tipo di tessuto o della vita della
cellula, se ci si trova, ad esempio, in epoca fetale prenatale, postnatale o addirittura adulta.
o contiene geni attivati solo in determinati momenti/fasi della vita della cellula
o principalmente presente nel cromosoma X (per condensare i tratti di cromosoma del corpo
di Barr rendendolo inattivo),
o tipicamente associata all’iperacetilazione degli istoni, che fa variare la stabilità del legame
tra istoni ed il filamento di DNA che gli si avvolge attorno.

LA MEIOSI

La MEIOSI è un processo di divisione del materiale genetico che interviene nelle cellule germinali (i gameti
si formano dopo la meiosi). Dopo una serie di divisioni mitotiche, queste cellule vengono avviate alla
meiosi. La finalità della meiosi è far passare le cellule germinali da un corredo diploide ad un corredo
aploide, composto da 23 cromosomi monocromatidici, di cui 22 autosomi e un cromosoma X o Y.
Il processo meiotico prevede due divisioni
cellulari. Nella MEIOSI I distinguiamo:
- PROFASE I
- METAFASE I
- ANAFASE I
- TELOFASE I

Nella MEIOSI II abbiamo:


- PROFASE II
- METAFASE II
- ANAFASE II
- TELOFASE II

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Da ciascuna cellula che si avvia alla meiosi II, otteniamo due cellule. Al termine della meiosi II, da ogni
cellula otteniamo un GAMETE.
Nel maschio ciascun gamete va incontro ad un processo di maturazione e diventa uno spermatozoo (nel
maschio)
Nelle donne, solo una delle quattro cellule diventerà un ovocita maturo, mentre le altre tre cellule saranno
delle mini-cellule chiamate globuli polari o polociti.

PROFASE I
In questa fase la cromatina comincia a
condensarsi. I cromosomi, da una matassa
di materiale cromatidico, si organizzano in
lunghi elementi filamentosi che, mano a
mano che prosegue la profase I, diventano
più corti e spessi, per via dell’aumento
della condensazione della cromatina che li
costituisce.
E’ una fase molto lunga che può essere
suddivisa in 5 stadi:
- Leptotene
- Zigotene
- Pachitene
- Diplotene
- Diacinesi
Nel LEPTOTENE c’è la graduale condensazione dei filamenti di cromatina di ciascun cromosoma. Nella
profase I i cromosomi sono bicromatidici, perché in precedenza c’è stata la fase S. Il nome leptotene deriva
dal fatto che questi cromosomi sono estremamente lunghi. In questo stadio i due cromatidi fratelli di ogni
cromosoma sono ancora parzialmente separati.
Nello ZIGOTENE comincia l’appaiamento dei cromosomi bicromatidici omologhi, processo che tende a
procedere dalle estremità telomeriche delle coppie dei cromosomi omologhi verso le zone più centrali del
cromosoma. Questo fenomeno non si sviluppa nella profase della mitosi, bensì è tipico solo della profase
meiotica. La formazione delle tetradi è propedeutica alla possibilità di far avvenire lo scambio di materiale
cromosomico tra i due cromosomi omologhi, nel fenomeno detto crossing over.
Si è forma così la tetrade, costituita da 4 cromatidi a due a due omologhi, a due a due fratelli.

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Nel PACHITENE si completa la formazione del complesso
sinaptinemico e si ha il completo appaiamento tra i quattro
cromatidi, a formare la tetrade: è solo in questa fase che si realizza il
crossing over a livello molecolare.
Nel pachitene avviene il crossing over, grazie all’intervento del
complesso sinaptinemale che regola il corretto scambio di materiale
genico e che porta a modificare il contenuto genetico dei vari
cromatidi. I quattro cromatidi non sono più a due a due identici tra
di loro, bensì sono tutti diversi: due restano così com’erano all’inizio
della profase, due (uno per ogni tipo di cromosoma omologo)
presentano tratti di origine paterna e tratti di origine materna.
Nel DIPLOTENE non avviene il crossing-over ma si osserva solo dove
accade. Il nome stesso fa capire come ci sia uno sdoppiamento della
struttura, che non è più una tetrade, bensì si tornano a vedere i due
cromosomi omologhi separatamente. In questa fase non può più
avvenire uno scambio di materiale genetico altrimenti si corre
rischio che un segmento cromosomico vada perso nel nucleo e non
trovi la corrispondente regione sul cromosoma omologo. I
cromosomi omologhi restano collegati tra di loro in corrispondenza
delle regioni di crossing-over, dove si vedranno delle strutture a X,
chiamate chiasmi.
Dal diplotene si passa alla DIACINESI, dove aumenta la
condensazione della cromatina ed è sempre maggiore la distanza tra
gli omologhi (ancora uniti nelle regioni di chiasma).
Nella diacinesi si forma il fuso meiotico. Il fuso meiotico si organizza
duplicando le coppie di centrioli, che migrano ai poli opposti e
producono le fibre che intrappolano i cromosomi. Il fuso meiotico è
diverso da quello mitotico. A partire da un polo, le fibre si agganciano ai cinetocori dei due cromatidi fratelli
di ciascun cromosoma; mentre sul cromosoma omologo si agganciano le fibre
che provengono dal polo opposto. Questo fa sì che nell’anafase i due
cromosomi omologhi migreranno verso poli opposti. Mentre in mitosi ciascun
cromosoma bicromatidico viene agganciato dalle fibre di entrambi i poli, in
meiosi I i cromatidi fratelli di un cromosoma vengono agganciate dalle fibre
provenienti dallo stesso polo del fuso. In questo modo, in ogni polo migreranno
cromosomi bicromatidici, e non monocromatidici.
La diacinesi è l’ultimo stadio della profase I e si conclude con la dissoluzione
della membrana nucleare. Quando accade questo, dalla profase I si passa alla
metafase I.

COMPLESSO SINAPTINEMICO E CROSSING OVER


L’appaiamento avviene in prossimità della superficie interna della membrana nucleare, dove si formano le
piastre d’attacco. I due cromosomi bicromatidici si organizzano in modo che le due regioni che poggiano
sulla superficie interna della membrana nucleare si avvicinino l’una all’altra, in corrispondenza delle due
estremità telomeriche. Una volta che le due piastre d’attacco (una per ciascuna estremità telomerica dei
due cromosomi) si sono fuse, otteniamo un’unica struttura in cui ci sono i due cromosomi bicromatidici
perfettamente appaiati: ad ogni regione su un cromosoma corrisponde esattamente la stessa regione sul
cromosoma omologo.

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Attraverso dei ponti, un’ansa di uno dei due cromatidi di origine
materno (ad esempio) può collegarsi alla corrispondente regione
su uno dei cromatidi fratelli di origine paterna: ciò porta alla
formazione di un nodulo di ricombinazione.
Il nodulo di ricombinazione è la regione dove sta avvenendo il
crossing over e, al microscopio elettronico, appare più
elettrondenso della struttura circostante.

Un elemento che interviene per accelerare l’appaiamento dei


cromosomi omologhi sono i cromomeri, cioè strutture inspessite
della cromatina di ciascun cromosoma bicromatidico tipiche di
ogni tipo di cromosoma. Questo permette alle coppie di
cromosomi omologhi di iniziare l’appaiamento zona per zona,
inspessimento per inspessimento, in modo da produrre alla fine l’appaiamento dei cromosomi omologhi.
La regione di crossing over diventa però visibile solo nel diplotene.
Il crossing over non si verifica in diplotene, perché la struttura del
complesso sinaptinemico si verifica solo nel pachitene. Nel diplotene i
due cromosomi omologhi bicromatidici si separano tra di loro, quindi
non può esserci alcuno scambio di materiale genetico. Ci sarebbe infatti
il rischio che un segmento cromosomico si perda nel nucleo e non
ritrovi la corrispondente regione sul cromosoma omologo. In questa
fase, gli omologhi restano uniti tra di loro solo nelle regioni dove è
avvenuto il crossing over: diventano quindi visibili delle strutture a X
chiamate chiasmi. Quindi: il crossing over è visibile nel diplotene ma
avviene nel pachitene.

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METAFASE I
Una volta che la meiosi è passata alla METAFASE I, i cromosomi (come nella mitosi) si dispongono
equidistanti dai due poli del fuso. Una differenza tra la metafase della meiosi e quella della mitosi sta nel
fatto che:
- nella mitosi i cromosomi sono effettivamente equidistanti dai due poli,
- nella meiosi non sono i centromeri ad essere equidistanti dai due poli bensì i chiasmi, che non sono
ancora del tutto risolti. Sul piano trasversale al fuso meiotico quindi non ritroviamo i centromeri
(come nella mitosi) bensì le regioni di chiasmo.
Si tratta di un processo che va in progressione e che porta all’anafase I

ANAFASE I
Nell’ANAFASE I si ha la ripartizione del materiale genetico, infatti i cromosomi omologhi bicromatidici
migrano ai poli opposti, grazie ai processi di eliminazione delle coesine e trazione delle fibre del fuso.

TELOFASE I
Durante la TELOFASE I, ai due poli si forma nuovamente la membrana nucleare, la cromatina torna a
condensarsi parzialmente e avviene la separazione delle due cellule figlie, che contengono entrambe:
- 23 cromosomi
- 46 cromatidi
- 6,4 miliardi di nucleotidi
La prima divisione meiotica viene definita riduzionale perché da una cellula diploide se ne ottengono due
aploidi.
Dalla telofase I si passa alla seconda divisione meiotica.

MEIOSI II
La meiosi II ha inizio con una sorta di PROFASE, che viene definita virtuale, in quanto molto breve. La
cromatina torna a condensarsi e si forma nuovamente il fuso meiotico che, in questo caso, è sovrapponibile
in forma e struttura a quello mitotico; infatti, i due cromatidi fratelli si agganciano a fibre provenienti da
poli opposti. Tutti i cromosomi sono allineati sulla piastra equatoriale del fuso con i centromeri equidistanti
dalle due origini del fuso. Si passa all’ANAFASE II, dove avviene la separazione dei due cromatidi di ciascun
cromosoma che migrano verso poli opposti.

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Da ciascuna cellula ottenuta dalla meiosi I, si ottengono due cellule figlie al termine della meiosi II. Ciascuna
cellula figlia finale contiene un cromatidio di ciascun cromosoma omologo della cellula di partenza. Per un
certo tipo di cromosoma, al termine della meiosi II avremo quindi 4 diverse forme, infatti:
- due cellule avranno un contenuto genetico interamente di tipo parentale (corrispondente ad uno
dei due genitori), nello specifico:
• Una cellula conterrà esattamente la stessa organizzazione e sequenza dei geni presenti nel
cromosoma di origine materna
• Una cellula conterrà esattamente la stessa organizzazione e sequenza dei geni presenti nel
cromosoma di origine paterna
- due cellule, sempre per quel tipo di cromosoma, a causa del crossing over, conterranno dei
cromosomi che avranno:
• Una parte delle sequenze trasmesse dalla madre
• Una parte delle sequenze trasmesse dal padre
Per questo motivo, queste due cellule che si ottengono alla fine della meiosi II avranno un
contenuto cromosomico ricombinato (e non parentale).
In telofase II, da ogni cellula madre, abbiamo la formazione di due cellule che contengono ciascuna 23
cromosomi monocromatidici, cioè:
- 23 cromosomi
- 23 cromatidi
- 3,2 miliardi di nucleotidi
Poiché queste cellule hanno lo stesso numero di cromosomi delle cellule della meiosi I, la meiosi II viene
definita equazionale.

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DIFFERENZE TRA MEIOSI MASCHILE E FEMMINILE

Ci sono delle differenze tra la meiosi maschile e quella femminile.


Nel maschio la meiosi prosegue classicamente. Alla fine della meiosi II di ogni cellula si ottengono 4
spermatidi. Questi, per poter acquisire il flagello e attivarsi per il movimento, andranno incontro a processi
di maturazione che porteranno alla formazione di 4 SPERMATOZOI.

OVOGENESI
Nella femmina, invece, alla fine del processo meiotico, si produce una sola cellula effettivamente efficace
per la fecondazione.
I primi stadi della profase I sono sovrapponibili a quella maschile, ma nel diplotene si comincia a visualizzare
un incremento del volume del liquido citoplasmatico nella cellula. Infatti, la meiosi viene
momentaneamente arrestata, poiché viene riattivata la
trascrizione, con la decondensazione della cromatina, la
comparsa del nucleolo e la sintesi di mRNA. Lo scopo di questa
trascrizione è accumulare nel citoplasma sostanze nutritive ed
enzimi necessari nei primi stadi della vita dello zigote nel caso di
un’eventuale fecondazione dello zigote.
Il periodo breve in cui avviene questo accumulo è anche
chiamato FASE LAMPBRUSH, perché la cromatina si slega dagli
istoni e mostra le sue anse (forma a “spazzola”), facilmente
trascrivibili in RNA messaggero.
Questa fase è caratterizzata da:
- Massiva decondensazione della cromatina dei
cromosomi;
- Riattivazione temporanea della trascrizione;
- Ricomparsa del nucleolo;
- Accumulo continuo di materiale nel citoplasma.
Questo accumulo di materiale citoplasmatico prosegue fino alla
diacinesi, quando termina la trascrizione, la cromatina si ricondensa, i cromosomi e i chiasmi sono
nuovamente visibili.
Segue poi la metafase I, con la formazione del fuso meiotico, e poi si passa all’anafase I, con il distacco dei
due cromosomi omologhi dicromatidici. In telofase I il citoplasma viene suddiviso in maniera ineguale visto
che una cellula lo trattiene quasi del tutto, mentre il corredo genetico viene dimezzato egualmente. Ciò
porta alla formazione di:
- Un ovocita di primo tipo
- Un globulo polare / polocita, cioè una sorta di mini cellula che contiene soltanto il materiale
genetico e qualche piccola quantità di materiale citoplasmatico.
Nella seconda divisione meiotica si ha la migrazione ai poli opposti dei singoli cromatidi fratelli (anafase II)
e, al suo termine, si ha un’ineguale ripartizione del citoplasma e la ripartizione standard del materiale
genetico. Si formerà:
- Un OVOCITA MATURO con il materiale genetico incluso nel nucleo e separato dall’abbondantissimo
citoplasma.
- un SECONDO POLOCITA, che ha la stessa quantità di cromosomi e nucletoidi dell’ovocita (corredo
aploide).

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Bisogna sottolineare che solamente l’ovocita potrà essere fecondato. Talvolta, anche il polocita derivante
dalla prima divisione può andare incontro alla meiosi II e dar luogo ad altri due polociti di secondo tipo.
L’ovocita maturo diventa così grande da poter essere visibile attraverso un’ecografia: normalmente una
cellula ha un diametro di qualche micron, mentre l’ovocita è grande qualche millimetro.
Con questi processi otteniamo dunque un singolo ovocita con un corredo aploide di cromosomi
monocromatidici.

DIFFERENZE NELLE QUANTITÀ


Nei maschi la produzione dei gameti inizia dopo la pubertà e, nel periodo fertile, ogni individuo produce
miliardi e miliardi di spermatozoi.
Nella donna invece la produzione di cellule gametiche è limitata. Ha inizio già in epoca fetale, a partire dal 4
mese di gravidanza, ma la divisione di queste cellule si arresta prima della nascita in metafase I. Ogni
individuo ha inizialmente 2 milioni di cellule potenzialmente disponibili per la meiosi ma, col passare del
tempo, questo numero si riduce. La divisione meiotica di queste cellule riprende solo dopo la nascita. A
partire dalla pubertà, ogni 28 giorni, una o più cellule gametiche si avviano alla seconda divisione meiotica,
arrestandosi però alla metafase II. Queste cellule restano in tali a meno che non vengono fecondate.
Le cellule gametiche femminili non sono infinite (come nei maschi): dalle due ovaie iniziali si produrranno
circa qualche milione di cellule. Questo numero è destinato a ridursi nell’attesa che si arrivi alla pubertà (in
epoca infantile abbiamo circa 200000 cellule). Dunque un numero considerevole dei gameti femminili è
destinato ad andare incontro a degenerazione, poiché il processo di maturazione degli ovociti, nella
stragrande maggioranza dei casi, non è coordinato con il processo ciclico di alternanza degli ormoni
ipofisari e ovarici che si verifica naturalmente dopo la pubertà nella donna.
A partire dalla pubertà e nel corso dell’età fertile, resteranno a disposizione solo circa 200 ovociti per
ovaio, fino all’arrivo della menopausa.
La disponibilità di un numero ristretto di cellule fertili è un aspetto rilevante quando bisogna esporre una
paziente donna a RADIAZIONI. Le radiazioni sono uno dei meccanismi fisici che causano mutazioni nel DNA.
Già in epoca fetale un organismo può essere sottoposto a radiazioni ed esposto a mutazioni. Queste
mutazioni finiscono sul DNA e vi rimangono, accumulandosi ad altre modificazioni nel corso degli anni,
anche se non producono nessun effetto. I sistemi di riparazione del DNA non riescono sempre ad
eliminarle.
Negli uomini, poiché c’è un’abbondantissima produzione di cellule gametiche, nel caso in cui delle cellule
subiscano mutazioni, queste vengono subito eliminate, proprio come avviene per qualsiasi altra cellula
dell’organismo.
Nella donna invece la situazione è differente. Mentre negli altri distretti del corpo femminile le cellule
mutate vengono eliminate e sostituite, negli ovociti questo non accade, poiché sono molto limitati.
Infatti, anche se subiscono mutazioni, gli ovociti vengono eliminati molto meno frequentemente. Quando si
espone ad una radiografia una donna, dunque, deve essere sempre consenziente, informata del rischio,
interrogata circa la possibilità che si possa trovare nelle prime fasi di una gravidanza e protetta nella
maniera più appropriata durante l’esposizione. Le mutazioni prodotte dai raggi X tendono ad accumularsi,
perciò tutti gli esami radiologici a cui uno si sottopone possono causare mutazioni (questo vale per qualsiasi
esame, anche per i raggi odontoiatrici).

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VARIABILITÀ GENETICA

La meiosi è il processo che introduce VARIABILITÀ GENETICA nel nostro genoma.


Le nostre cellule diploidi hanno metà del genoma ereditato da un genitore e metà dall’altro ma, durante la
meiosi, i cromosomi materni e paterni vengono continuamente ripartiti senza una regola particolare. Alla
fine della meiosi I avremo cellule che contengono cromosomi di origina materna e paterna, comportando
un nuovo tipo di assortimento dei geni. Alla fine della meiosi II questo diventa ancora più evidente. Questo
è un primo evento che determina una variabilità genetica.
L’altro processo che aggiunge variabilità al genoma è il crossing over. I due cromosomi dicromatidici che si
trovano in pachitene, dando luogo a dei crossing over, finiscono per determinare cromosomi che
risulteranno contenere geni in parte di origina materna e in parte di origine paterna. Questo vale per ogni
cellula gametica che si produrrà, sia nel maschio sia nella femmina.
I due livelli di variabilità si moltiplicheranno per avere il risultato di grande variabilità complessiva nel nuovo
individuo generato, avente un nuovo assortimento dei 20 mila geni. E’ impossibile che due individui
abbiano lo stesso patrimonio genico, ad eccezione dei gemelli omozigoti.

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EREDITARIETA’ MENDELIANA

L’EREDITARIETÀ PRIMA DI MENDEL

Che ci fosse qualcosa di genetico e trasmissibile era noto anche prima di Mendel. Si trovano tracce del
concetto di ereditarietà già in alcuni libri storici ebraici che parlano della pratica della circoncisione. Ai
bambini che, sottoposti alla pratica della circoncisione, presentavano un prolungato sanguinamento venne
proibito di avere figli. Si pensava che il problema fosse nella coagulazione del sangue e che potesse essere
trasmesso alle generazioni successive (emofilia).
Ad oggi sappiamo che le caratteristiche di un individuo sono determinate dall’azione combinata di:
- FATTORI ESTERNI: ambiente, ad effetto non ereditabile (ES. alimentazione);
- FATTORI INTERNI: ereditabili (geni), determinano uno o più caratteri e il loro effetto è modulabile
dall’ambiente.
Ciascun carattere può presentarsi in forme alternative o allelomorfiche che sono dipendenti da geni
“alternativi” o alleli, corrispondenti alla stessa regione cromosomica ma aventi sequenze nucleotidiche
diverse. Un gene con le sue forme alleliche occupa una specifica regione di un cromosoma detta locus.

GLI STUDI DI GREGORIO MENDEL

GREGORIO MENDEL nasce nel 1822 in Moravia (oggi Repubblica Ceca) da una coppia di agricoltori. Alle
elementari dimostra grande intelligenza e intuito, perciò il parroco del paese propone ai genitori di fargli
proseguire gli studi (a pagamento). Si trasferisce in una scuola privata e poi in un monastero, tanto che nel
1847 viene ordinato monaco. Dal 1851 al 1853 frequenta l’Università di Vienna, continuando a frequentare
l’ambiente del monastero, dove c’erano grandi eminenze scientifiche.
A contatto con queste, Mendel approfondì le sue conoscenze e, poiché conosceva bene i processi di
coltivazione, fu responsabilizzato della cura dell’orto del monastero. Al fine di rendere l’orto più produttivo,
iniziò a fare una serie di esperimenti per ottenere le migliori qualità di ortaggi a disposizione. Nel tentativo
di migliorare la produzione, nel 1854 iniziò a studiare il Pisum Sativum.
Mendel cercò di capire come alcuni caratteri vengono trasmessi attraverso le generazioni e scelse di
studiare la pianta pisello odoroso perché:
- ha un’impollinazione controllabile
- è facile da coltivare
- ha un ciclo riproduttivo molto breve
- ha caratteristiche morfologiche definite e distinguibili in due forme alternative (due forme
allelomorfiche)
- ha la possibilità di autofecondazione
I segreti del suo successo sono stati:
- un approccio metodologico e quantitativo
- l’analisi dei dati con leggi matematiche
- fortuna

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LEGGI DI MENDEL

La prima genialata di Mendel fu quella di stabilire gli individui come INDIVIDUI PURI o di RAZZA PURA.
Aveva piante con semi di colore diverso, rami di lunghezze diverse, altezze diverse. Queste caratteristiche
non erano controllabili tutte insieme, perciò ebbe l’idea di sfruttare il controllo della fecondazione per
selezionare per ciascun carattere esaminato solo piante che, di generazione in generazione, non
cambiavano più quella caratteristica.

Si definisce LINEA PURA una popolazione che presenta una data caratteristica morfologica, trasmessa
inalterata alle generazioni successive.

Le leggi di Mendel sono state formulate studiando la distribuzione di uno o più caratteri nella discendenza
ottenuta dall’incrocio tra due individui puri che differiscono per una o più coppie di caratteri allelomorfi.

Si poté stabilire che in ciascun individuo esistono due condizioni:

- Una esterna, detta FENOTIPO, che corrisponde all’insieme dei caratteri manifesti
- Una interna, detta GENOTIPO, che è la costituzione genetica
vera e propria dell’individuo.

Scelse di studiare 7 caratteri con 2 varietà ciascuno (2 linee pure) e


che sembravano essere trasmessi nella stessa maniera:

- Forme del seme: liscio o grinzoso


- Colorazione dei cotiledoni: gialli o verdi
- Colore del fiore e del tegumento del seme: fiore e tegumento
colorato o fiore bianco e tegumento incolore
- Forme del legume: a cavità unica (semplice) o concamerato
(composto)
- Colorazione del legume immaturo: giallo o verde
- Posizione dei fiori sui rami: laterali o terminali
- Altezza delle piante: normali o nane (1/5 circa delle normali).

LEGGE DELLA DOMINANZA


Per ciascun carattere si accorse che due piante di razza pura che
differivano per uno solo di questi caratteri davano sempre una
discendenza con un unico fenotipo, definito dominante. Questo
fenotipo della generazione F1 permise di stabilire la LEGGE DELLA
DOMINANZA / I LEGGE DI MENDEL.
I Legge di Mendel: Incrociando due individui di razza pura
che differiscono per un solo carattere, si otterrà una
discendenza in cui sarà presente uno solo dei due caratteri.
Esso verrà definito come carattere dominante sull’altro che
verrà detto recessivo.

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LEGGE DELLA SEGREGAZIONE
Successivamente Mendel prese due piante della generazione F1 a fenotipo dominante e le incrociò. Esse
avevano entrambe il fenotipo dominante, perciò, Mendel si aspettava di avere piante di seconda
generazione anch’esse con fenotipo dominante. Tuttavia, inaspettatamente, non generarono tutte figlie
con lo stesso fenotipo:
- ¾ delle figlie presentava il fenotipo dominante della F1
- ¼ delle figlie presentava un carattere che era presente nella pianta pura non dominante, cioè un
carattere che non si manifestava in nessuna delle due piante della F1.
Davanti a questo risultato inaspettato, grazie alle sue
conoscenze in matematica e statistica, ipotizzò che i caratteri
dovevano essere controllati non da un solo fattore interno
specifico ma da una coppia di fattori specifici.
Mendel concluse che per la generazione pura, il carattere
dominante fosse costituito da due fattori dello stesso tipo,
chiamati AA (lettere in forma maiuscola), mentre il carattere
recessivo era determinato da una coppia di fattori di tipo
recessivo, rappresentati con aa (lettere in forma minuscola).
L’intuizione eccezionale di Mendel fu che durante la formazione
dei gameti, i due elementi della coppia si separano (segregano)
l’uno dall’altro in gameti differenti.
Ipotizzando che il carattere sia determinato da una coppia di
fattori, diventa possibile:
- confermare la dominanza dei caratteri (I legge) nella F1
- spiegare come mai in F2 compare un fenotipo recessivo assente nella F1.
Formulò così la SECONDA LEGGE / LEGGE DELLA SEGREGAZIONE.
I caratteri allelomorfi sono controllati da coppie di fattori (alleli) che nella gametogenesi segregano l’uno
dall’altro e passano, singoli, in gameti differenti. Le coppie di fattori si ricostituiscono nel momento della
fecondazione con una combinazione casuale a due a due, grazie al contributo di entrambi i gameti. Di
conseguenza, se ciascun genitore della F1 produce gameti con il fattore interno recessivo (non visibile
perché accoppiato al dominante), nella generazione successiva F2 è possibile che si manifesti la forma
recessiva.

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Mendel, per cercare di sostenere le sue tesi, scelse 7 caratteri e per tutti annotò quasi 20 mila incroci.
Osservando l’ultima riga della tabella, e confrontando i dati dei dominanti e recessivi, si scopre che c’è
rapporto 3:1 tra i fenotipi dominanti e quelli recessivi. Per ciascun fenotipo si hanno le forme dominanti
con una frequenza del 75%, mentre quelle recessive, dello stesso carattere, hanno una frequenza del 25%.
Con questa quantità esorbitante di dati raccolti si presentò all’Accademia delle Scienze di Vienna nel
tentativo di promuovere le sue intuizioni. Gli scienziati presenti rimasero annoiati perché non pensavano
che un monaco di origini umili potesse fare scoperte così rivoluzionarie.
All’epoca non si sapeva cosa fossero i cromosomi, come avvenisse la fecondazione e quale fosse la funzione
del gamete femminile o maschile. Gli scienziati del tempo ritenevano che la fecondazione tra gamete
maschile e femminile fosse semplicemente un meccanismo per cui la testa dello spermatozoo, che già
conteneva il futuro individuo già con le sembianze (HOMUNCULUS), una volta nell’ovocita si ingrandiva,
come se l’ovocita avesse solo funzione nutritiva.
La legge della segregazione, invece, comportava una serie di conseguenze rivoluzionare. Diventava
evidente, infatti, che l’apporto di entrambi i genitori era egualitario e a questo si aggiungeva che veniva
riconosciuto lo stesso valore genetico ai gameti maschili e ai gameti femminili.
Le leggi di Mendel caddero quindi in disgrazia e vennero confermare a livello citologico soltanto a partire
dal Novecento.

LA LEGGE DELL’INDIPENDENZA
Davanti a questo risultato deludente ottenuto presso l’Accademia della Scienza, Mendel iniziò a combinare
la trasmissione di due o più caratteri contemporaneamente, per verificare se questi si influenzassero a
vicenda nella trasmissione delle due caratteristiche nella discendenza. Prese due linee pure, le incrociò e si
accorse che, nella F1, entrambi i caratteri non allelomorfi si presentavano nella forma dominante,
confermando la prima legge.
Quando però incrociò due piante della F1, nella F2 si ritrovò 4 fenotipi diversi di cui:
- 2 presenti nelle generazioni precedenti, in particolare uno totalmente dominante e uno totalmente
recessivo
- 2 non presenti nelle generazioni precedenti, poiché erano combinazioni del tutto nuove.
Analizziamo l’immagine. I due individui delle linee puri presentano 2 caratteri distinti per il colore e
l’aspetto esterno:
- Giallo e liscio, dal genotipo dominante omozigote LLGG
- Verde e rugoso, dal genotipo dominante recessivo llgg
La pianta omozigote dominante può produrre gameti aventi alleli LG.
La pianta omozigote recessivo, invece, può produrre gameti aventi
alleli lg.
! Non possono produrre LL o gg perché i due elementi L o g devono
segregare in gameti differenti, per via della II legge.
Tutti i loro figli della F1 avranno tutti
- fenotipo dominante per entrambi i caratteri, per via dei gameti LG ereditati dal genitore dominante
omozigote
- genotipo eterozigote per entrambi i caratteri LlGg.

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Queste piante della F1 possono essere autofecondate o incrociarsi tra di loro, producendo 4 tipi di gameti
con alleli dominanti o recessivi per ogni carattere:
- LG
- Lg
- lG
- lg
I vari tipi di gameti vengono prodotti con la probabilità del
25% ciascuno. La pianta partner produrrà lo stesso tipo di
gameti.
Disponendo questi 4 tipi di gameti sui due lati del quadrato
di Punnet, diventa possibile combinare i contenuti allelici
dei due partner, prevedere il genotipo per i due caratteri e,
conseguentemente, il fenotipo. Possiamo avere 16
COMBINAZIONI, organizzate in modo che:
- 1 presenta entrambi i caratteri in forma recessiva
- 9 hanno entrambi i caratteri in forma dominante,
perché hanno un genotipo in cui c’è sempre almeno
un allele dominante per ogni carattere
- 3 hanno l’aspetto esterno recessivo e il colore
dominante
- 3 hanno l’aspetto esterno dominante e il colore
recessivo

Conteggiando questi vari fenotipi, Mendel formulò la TERZA LEGGE / LEGGE DELL’INDIPENDENZA:
incrociando individui che differiscono per più coppie allelomorfe di caratteri, ciascuna coppia viene
ereditata indipendentemente dalle altre.
Mendel teorizzò questa legge analizzando separatamente come si distribuivano i fenotipi dominanti e
recessivi per ciascun aspetto:
- nella F2, considerando il colore:
• ¼ hanno il colore recessivo, infatti 4 piante su 16 hanno semi verdi
• ¾ hanno il colore dominante, infatti 12 piante su 16 hanno semi gialli

- Nella F2, considerando l’aspetto esterno:


• ¼ hanno l’aspetto recessivo, infatti 4 piante su 16 hanno semi rugosi
• ¾ hanno l’aspetto dominante, infatti 12 piante su 16 hanno semi verdi
Il rapporto tra il carattere recessivo e quello dominante è sempre 1:3.

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Mendel cominciò a pensare ad un calcolo matematico per prevedere la distribuzione delle combinazioni
anche prendendo in considerazione più di due caratteri. Ottenne
la funzione matematica per calcolare il numero e la probabilità dei
vari fenotipi. Andando ad analizzare la distribuzione si osserva
che:
- 9 sono a fenotipo dominante per entrambi i caratteri,
- 3 a fenotipo dominante per un carattere e recessivo per
l’altro,
- 3 in cui dominante e recessivo sono invertiti
- 1 recessivo per entrambi i caratteri.
In totale 9 + 3 + 3 + 1, che si può semplificare in 32 + 2x3 + 12. Il
tutto ricorda il quadrato di un binomio (𝟑 + 𝟏)𝟐 .
Prendendo la solita somma 3 + 1 ed elevandola al numero di
caratteri diversi non allelomorfi considerati
contemporaneamente, Mendel ottenne così la funzione
matematica con cui calcolare quanti e come sarebbero stati i vari fenotipi considerando 3, 4, 5 caratteri non
allelomorfi contemporaneamente.

TEST CROSS

Il TEST CROSS è un’indagine utilizzata per stabilire il genotipo di un individuo a fenotipo dominante.
È possibile scoprirlo incrociando questo individuo a fenotipo dominante con un individuo a fenotipo
recessivo. L’individuo recessivo fenotipicamente ci garantisce già che ha un genotipo omozigote recessivo e
che produce solo gameti recessivi per quel carattere.
Consideriamo l’individuo analizzato.
Se l’individuo è omozigote dominante, produce solo gameti con allele dominante; questi, combinati con
quelli recessivi, produrranno solo figli con fenotipo dominante, anche se genotipicamente eterozigoti.
Questo incrocio ricorda l’incrocio che ha portato Mendel a formulare la legge della dominanza.
Se invece l’individuo è eterozigote, produrrà 2 tipi di gameti (recessivo e dominante) con il 50% di
probabilità ciascuno. Dall’incrocio otterremo quindi:
- 50% dei figli che avranno un allele dominante e uno recessivo, con fenotipo dominante
- 50% dei figli che avranno un entrambi gli alleli recessivi, con fenotipo recessivo.
Questo test cross permette di scoprire il contenuto genotipico di un certo carattere in un individuo.

RELAZIONE TRA COPPIE DI FATTORI E COPPIE DI CROMOSOMI

Nei decenni successivi ci si accorse che c’era corrispondenza tra le coppie di fattori Mendel e le coppie di
cromosomi. Questa relazione era data da:
- Presenza in ciascun individuo della discendenza di circa il 50% dei caratteri paterni e il 50% dei
caratteri materni
- Solo il nucleo dei gameti maschili e femminili poteva essere responsabile del trasferimento dei
caratteri, perché era l’unica parte costante dei due tipi di cellule gametiche.

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- I cromosomi sono il costituente più costante e continuo
nel nucleo. Essi sono presenti in coppie, come i fattori
(geni), e derivano uno dal padre e uno dalla madre. I
gameti contengono un numero
aploide di cromosomi.
Osserviamo l’immagine: è la rappresentazione in parallelo tra le
leggi di Mendel, e la corrispondente rappresentazione
citologica che venne circa quaranta anni più tardi, quando si
scoprì che nel nucleo vi erano i cromosomi. Si scoprì che
c’erano incredibili analogie tra il comportamento dei
cromosomi e i fattori interni di Mendel.
Sulla destra si vede l’incrocio di tipo puro, AA x aa: osservando i
cromosomi sulla sinistra, si ha una coppia di cromosomi
omologhi che presentano sullo stesso locus l’allele in forma
dominante, (individuo a fenotipo dominante), e l’allele in forma
recessiva (individuo a fenotipo recessivo). I gameti che
producono sono 100 % A, nel caso dell’omozigote dominante, e
100% a, nel caso dell’omozigote recessivo. Combinando i due
gameti, è possibile prevedere che cosa succederà nella
generazione filiale.
Dalla generazione F1, si produrranno per il 50% gameti con l’allele in forma dominante, e 50% in forma
recessiva.
Nella generazione F2, si ha una combinazione a due a due casuale tra i due gameti, e la formazione di
quattro possibili combinazioni, come possiamo osservare nell’immagine. Fenotipicamente si ritrova
nuovamente il rapporto 3:1 per fenotipo dominante e recessivo.

GRUPPI DI ASSOCIAZIONE E LINKAGE GENICO

Le leggi di Mendel, tuttavia, presentano dei limiti nell’applicazione al genoma umano. Mendel aveva scelto
di studiare dei caratteri che venivano ereditati con le stesse modalità, ma questo non si verifica sempre
quando analizziamo gli umani. I nostri 20mila geni (presenti in duplice copia) sono contenuti in 23
cromosomi presenti in duplice copia: è quindi impossibile che ogni cromosoma contenga il locus di un solo
gene. Quando abbiamo a che fare con geni diversi presenti sullo stesso cromosoma, la terza legge di
Mendel non viene più rispettata perché interviene il processo di CROSSING OVER.
I gruppi di associazione sono costituiti da tutti i geni il cui locus si trova sul medesimo cromosoma.
Ciascuno di questi geni si dirà IN ASSOCIAZIONE o CONCATENATO o IN LINKAGE con tutti gli altri di quel
gruppo di associazione.
Il linkage può essere:
- Assoluto: nei gameti non si verifica mai il crossing over (presente in alcune specie animali meno
complesse), quindi i caratteri associati non possono essere mai trasmessi separatamente;
- Parziale: condizione di gran lunga più frequente (presente nell’uomo). In tale situazione, alla meiosi
un numero variabile di cellule germinali presenta crossing over tra i cromatidi di cromosomi
omologhi e questo può dar luogo ad un nuovo assortimento.
Nell’uomo si verificano mediamente 52 crossing over per cellula germinale, ma nella gametogenesi
femminile il numero è quasi doppio di quello maschile, infatti si verificano circa 90-95 crossing over per
ogni divisione meiotica. C’è quindi maggiore variabilità genetica nella produzione di gameti femminili.

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Consideriamo due caratteri C e D, determinati dalle coppie di alleli Cc e Dd. Questi geni hanno i rispettivi
loci in linkage sullo stesso cromosoma. Le due coppie di alleli possono presentare due configurazioni
alternative sui cromosomi omologhi:
- CIS / in coupling: su un cromosoma sono presenti i due alleli in forma dominante mentre,
sull’omologo sono presenti i due alleli in forma recessiva
- TRANS / in repulsion: su un cromosoma sono presenti un allele in forma dominante e uno in forma
recessiva e, sull’omologo (ovviamente) sono presenti i due alleli reciproci.

Se comprendiamo quale configurazione assumono i geni in linkage che stiamo analizzando, riusciremo a
prevedere come verranno trasmetti gli alleli per i due caratteri.

I coniglietti hanno 2 caratteri:


- L’altezza del pelo (corto dominante - C, lungo recessivo - c)
- Il colore del pelo (maculato dominante - P, bianco recessivo - p)
Incrociamo un omozigote dominante per entrambi i caratteri (PPCC)
con un omozigote recessivo per entrambi i caratteri (ppcc).
Per riuscire a capire come sarà la discendenza, dobbiamo individuare
che tipo di gameti sono in grado di generare i due soggetti della linea
parentale. Essendo entrambi omozigoti per entrambi i caratteri,
andranno a generare un solo tipo di gameti ciascuno, quindi:
- L’individuo doppio dominante produce solo gameti con il
cromosoma avente entrambi gli alleli dominanti (PC);
- l’individuo doppio recessivo produce solo gameti con il cromosoma
avente entrambi gli alleli recessivi (pc).
Dunque, nel rispetto della legge della dominanza, la generazione F1:
- dal punto di vista fenotipico, avrà entrambi i caratteri in forma
dominante, per via dell’eredità del genitore dominante
- dal punto di vista del genotipo, sarà doppio eterozigote PpCc.

Per comprendere quale sarà il comportamento di questi geni in linkage, andiamo ad effettuare un incrocio
tipo test-cross, facendo incrociare questo doppio eterozigote (PpCc) con un doppio omozigote recessivo
(ppcc). Analizzando i tipi di gameti prodotti, capiamo che l’individuo PpCc produce due tipi di gamete:
- un tipo di gamete con entrambi gli alleli dominanti (PC)
- un tipo di gamete con entrambi gli alleli recessivi (pc)
! Non produce gameti Pc perché i due geni hanno configurazione CIS; quindi, gli alleli in forma dominante
devono essere trasmessi insieme (lo stesso accade per quelli in forma recessiva).
Il doppio recessivo (ppcc), invece, produce solo gameti con i due alleli in forma recessiva (pc).
Tuttavia, la F2 ha un fenotipo sorprendente rispetto a quello previsto dalle leggi di Mendel.

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Avremmo dovuto vedere solo 2 fenotipi:
- Dominante per entrambi i caratteri (50%)
- Recessivo per entrambi i caratteri (50%)
Nella F2, invece, oltre a questi due fenotipi, troviamo (in minore quantità) anche individui che presentano
due nuove combinazioni, in cui un carattere
dominante si manifesta insieme ad uno recessivo.
Questa situazione è dovuta al fenomeno del
CROSSING OVER, che si è verificato tra il locus per P e
quello per C sulla coppia di omologhi dei gameti della
F1. Si nota, dunque, che non ci sono più alleli dello
stesso tipo sullo stesso cromosoma (come in
partenza), ma ci sarà un allele in forma recessiva e
l’altro in forma dominante, o viceversa.
I gameti che hanno conservato la configurazione
parentale (in questo caso CIS) e che hanno dato
origine a fenotipi uguali ad uno dei due genitori,
vengono detti parentali.
I gameti che invece, per via del crossing over,
presentano una nuova combinazione degli alleli (con
configurazione TRANS) e hanno dato origine a fenotipi
“ibridi”, vengono detti ricombinati.
I gameti con configurazione ricombinata vengono
prodotti con molta meno frequenza rispetto a quelli
con configurazione parentale. Questo dipende dal
fatto che il crossing over è un fenomeno casuale, può capitare 1, 2 o 0 volte su uno stesso cromosoma.
Mediamente accade 2 volte, ma in posizioni diverse da gamete a gamete, per quel tipo di cromosoma,
coinvolgendo loci diversi.

Nella parte sinistra dell’immagine possiamo osservare ciò che accade secondo la terza legge di Mendel
quando si ha indipendenza dei caratteri nella loro trasmissione alla discendenza e, quindi, quando i loci per
i due caratteri sono localizzati su coppie di cromosomi differenti; sulla destra, invece, in una situazione di
linkage, i loci per i due caratteri presi in considerazione sono localizzati sulla stessa coppia di cromosomi.

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Nel primo caso si effettua un incrocio tra un doppio
eterozigote dominante AaBb e un doppio omozigote
recessivo aabb (test cross), per caratteri indipendenti tra
loro.
Quali gameti produrranno?
- il doppio omozigote recessivo: produrrà con una
probabilità del 100% gameti in forma omozigote recessiva
(ab)
- il doppio eterozigote dominante: produrrà quattro
tipi di gameti diversi in contenuto allelico al
o 25% AB
o 25% Ab
o 25% aB
o 25%ab (seguendo perfettamente la terza legge di
Mendel)
combinandoli insieme otteniamo la discendenza che darà
luogo a 4 fenotipi differenti esattamente come
l'esperimento dei conigli di prima.
Essendo indipendenti essi avranno uguale probabilità di esprimersi nella discendenza e come possiamo
notare dall'immagine avremo:
• 25% AaBb(AB) PARENTALE poiché è simile al genitore doppio eterozigote dominante
• 25% Aabb (Ab)
• 25% aaBb(aB)
• 25% aabb(ab) PARENTALE poiché è la stessa che ritroviamo nel genitore doppio omozigote recessivo.

Analizziamo ora l’incrocio tra geni in linkage (considerando


l’immagine a sinistra)
Andiamo ad incrociare un doppio eterozigote dominante
CcDd con un doppio omozigote recessivo ccdd (test cross).
La differenza sta nel fatto che i geni si trovano sullo stesso
cromosoma, ovvero sono in associazione, e il doppio
eterozigote (CcDd) potrà presentare una forma CIS con
entrami gli alleli dominanti sullo stesso cromosoma e i
rispettivi recessivi sull’omologo.
Andando ad analizzare i gameti che verranno prodotti. Il
doppio eterozigote dominante produrrà, a causa del
crossing over:
• 44% gameti in forma CD (parentali)
• 44% gameti in forma cd (parentali)
• 6% gameti in forma Cd (ricombinati)
• 6% gameti in forma cD (ricombinati)
questo ovviamente avverrà solo se il crossing over verrà
effettuato tra i locus C e D e non al di sotto come tra il
locus D e il centromero o al di sotto del centromero durante la profase 1 della meiosi.

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Dall'incrocio otterremo 4 tipi di discendenze con le percentuali che confermano l’andamento casuale del
crossing over, infatti, per l’88% avremo individui che non hanno subito ricombinazione ma che hanno
ereditato i cromosomi parentali per intero mentre per il 12% avremo individui ricombinati ovvero che
derivano da gameti che hanno subito il crossing over, smentendo la terza legge di Mendel.

FREQUENZA DI RICOMBINAZIONE

La FREQUENZA DI RICOMBINAZIONE dipende da 5 fattori:


- Distanza tra i due loci:
- Presenza di un crossing over nelle vicinanze
- Doppi scambi
- Disposizione dei loci in regioni critiche del genoma
- Sesso

DISTANZA TRA I DUE LOCI


Maggiore è la distanza, maggiore è la frequenza di ricombinanti: la frequenza della discendenza
ricombinante è proporzionale alla distanza dei loci genici considerati.
La frequenza dei fenotipi ricombinati è quindi capace di esprimere la distanza tra i due loci, consentendo di
mappare i cromosomi. Morgan, uno studioso del Novecento, ha stabilito una correlazione tra la distanza fra
i due loci e la probabilità che si verifichi crossing-over fra gli stessi (vinse il premio Nobel per questo).
La distanza tra due loci viene espressa in base alla percentuale di ricombinazione (osservabile nella
discendenza) in unità di mappa o centiMorgan (cM).
L’unità di mappa o il centiMorgan (cM) è un’unità di misura funzionale:
1 cM corrisponde all’ 1% di ricombinazione.
Quindi, se la frequenza di combinazione è dell’1%, i due loci sono ad una distanza di 1 cM.
Per approssimazione, traducendo questa misura funzionale in una misura fisica, si ha:
1cM = 1Mb = 𝟏𝟎𝟔 pb
! Nel calcolo della distanza bisogna considerare la frequenza complessiva dei ricombinati e non delle singole
ricombinazioni, poiché i loci scambiati sono solo due e la distanza da calcolare è una sola.
Ad esempio, se analizziamo la figura precedente, si può notare come la frequenza di ricombinanti (cioè degli
individui Cd e cD, indicati in verde) è del 12%, poiché bisogna fare la somma algebrica fra il 6% di Cd e il 6%
di cD. La distanza tra i loci del gene C e del gene D è quindi di 12 cM.
Questa relazione tra la frequenza di ricombinazione e la distanza tra i loci vale solo entro valori del 10-15%
di ricombinazione.

PRESENZA DI UN CROSSING OVER NELLE VICINANZE


Un altro fenomeno che interferisce con la relazione tra distanza dei loci e frequenza di ricombinazione è la
PRESENZA DI UN CROSSING OVER NELLE VICINANZE. Per loci vicini interviene un fenomeno, detto
INTERFERENZA, che rende ancor meno probabile uno scambio tra 2 dei 4 cromatidi della tetrade allorché
sia già avvenuto uno scambio nelle immediate vicinanze.

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L’ipotesi più accredita per spiegare il perché si verifichi l’interferenza è quella secondo cui, poiché durante
un crossing over le due molecole di DNA vengono tagliate attraverso l’idrolisi del legame fosfodiesterico, si
instaura una situazione di rischio per la normale costituzione del filamento di DNA.
Tagliare una doppia elica di DNA su due cromatidi di cromosomi omologhi non è un evento banale, poiché
bisogna fare in modo che il ricongiungimento delle estremità tagliate avvenga senza perdere nucleotidi. Se
dovesse intervenire un altro crossing over in quei paraggi, potrebbe accadere che un cromatidio ha due
rotture vicine e il frammento compreso tra le due rotture potrebbe subire dei danni, andare incontro a
perdita o venire riparato in maniera approssimativa. Perciò non possono avvenire due crossing over nelle
immediate vicinanze.
Per distanze maggiori è possibile che più scambi intervengano tra i due loci, ma che essi non determinino
ricombinazione per i due geni considerati, venendo così meno la relazione tra ricombinazione e distanza tra
loci (doppi scambi).

DOPPI SCAMBI
I DOPPI SCAMBI si verificano invece quando i loci genici dei caratteri considerati sono sullo stesso
cromosoma ma molto lontani tra di loro. In questi casi possono verificarsi due crossing over nel tratto di
DNA compreso trai due loci dei caratteri che vogliamo analizzare.
In questo caso la frequenza di ricombinazione non è più affidabile per stabilire una correlazione con la
distanza effettiva dei due loci per i due caratteri.

Nella figura è rappresentata una tetrade per un tipo di cromosoma


durante la meiosi di un individuo. Ciascuna linea corrisponde ad un
cromosoma monocromatidico: i due rossi sono i cromatidi fratelli di
origine materna, quelli in verde sono di origine paterna.
Su ciascuno dei due cromosomi vengono evidenziati i loci genici per i
caratteri C, D, E.
Sui due cromosomi dicromatidici appaiati, la banda verticale (rossa e
verde) corrisponde al centromero. L’individuo è triplo eterozigote con configurazione CIS. Analizziamo i
loci per C ed E. Siccome sono molto lontani, possono verificarsi due crossing over nel tratto compreso tra
questi due loci.

Prima possibilità

- il I e IV cromatidio fanno un crossing over tra D ed E, scambiando gli alleli per E


- il II e III cromatidio fanno un crossing over tra C e D, scambiando gli alleli per D ed E
Al termine della meiosi I avremo tutti e 4 i cromatidi con configurazione TRANS per i geni C ed E. Nella
meiosi II, avremo come risultato 4 gameti ricombinati.

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Seconda possibilità

I due crossing over si verificano coinvolgendo solo 3 dei 4 cromatidi, perciò uno resta intatto. In questo
caso:
- il I e III cromatidio fanno un crossing over tra D ed E, scambiando gli alleli per E
- il II e III cromatidio fanno un crossing over tra C e D, scambiando gli alleli per D ed E
Alla fine della meiosi I, considerando i geni per C ed E, avremo:
- i cromatidi I e III con configurazione TRANS
- i cromatidi II e IV con configurazione CIS (il IV non è stato neanche coinvolto nel crossing over)
Alla fine della meiosi II, avremo quindi 2 gameti ricombinati e 2 gameti parentali.

Terza possibilità

La situazione è del tutto speculare a quella descritta in precedenza con la sola differenza che, in questo
caso, è il secondo cromatidio a contrarre un doppio scambio con i cromatidi fratelli del cromosoma
omologo. Quindi:
- il II e IV cromatidio fanno un crossing over tra D ed E, scambiando gli alleli per E
- il II e III cromatidio fanno un crossing over tra C e D, scambiando gli alleli per D ed E
Al termine della meiosi I, analizzando i geni per C ed E avremo:
- il I e il III cromatidio con configurazione CIS (anche se il terzo ha subito crossing over)
- il II e il IV cromatidio con configurazione TRANS.
Al termine della meiosi II otterremo quindi 2 gameti ricombinati e 2 gameti parentali.

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Quarta possibilità

Il doppio crossing over coinvolge solo una coppia di cromatidi, in particolare i cromatidi II e III fanno:
- un crossing over tra C e D, scambiando gli alleli per D ed E
- un crossing over tra D ed E, scambiando gli alleli per E.
Al termine della meiosi I, analizzando i geni per C ed E avremo tutti e 4 i cromatidi con configurazione CIS
(nonostante siano avvenuti due crossing over). Al termine della meiosi II, quindi, si formeranno 4 gameti
parentali.

Riassumendo: per i loci C ed E, la FREQUENZA


DI RICOMBINAZIONE è data dal rapporto tra il
numero di gameti ricombinati (8) e il numero
di gameti totali (16). Il 50% dei gameti, sarà
parentale mentre la frequenza di
ricombinazione è del 50%.

Per geni molto distanti, la percentuale di


ricombinazione si avvicina al 50%, cioè il
numero di individui ricombinati e il numero di
individui parentali è simile:
CcEe x ccee
CE 25% cE 25% Ce 25% ce 25%
Tale situazione equivale geneticamente ad una
condizione di indipendenza dei geni; infatti,
questo risultato non è differente da una
situazione in cui i loci per due caratteri sono
posizionati su cromosomi differenti, cioè i due
geni non sono in linkage.
In tal caso non è possibile stabilire se i due geni
presi in considerazione sono in linkage o realmente indipendenti perché su coppie di cromosomi differenti.
Generalmente, possiamo stabilire se i due geni sono sullo stesso cromosoma o su coppie di cromosomi
differenti analizzando il fenotipo della discendenza, in particolare osservando la percentuale di sequenze
ricombinate e si sequenze parentali.
Se i geni sono indipendenti, i fenotipi ricombinati hanno la stessa frequenza dei fenotipi parentali.
Se invece i geni sono in linkage, i fenotipi ricombinati sono meno frequenti rispetto a quelli parentali.
Se però i loci sono molto distanti e la frequenza di ricombinazione è del 50%, i fenotipi ricombinati
avranno la stessa frequenza dei fenotipi parentali anche se i geni sono in linkage.

73
In questi casi possiamo chiarire se i loci sono in linkage o indipendenti, ricorrendo ad un terzo carattere D’
che è già noto essere in linkage con uno dei due caratteri C o E.
In questo caso è in linkage con C, con una percentuale di ricombinazione del 20%, quindi i due loci sono
distanti di 20cM. Con un incrocio di tipo test cross, cioè tra un individuo doppio eterozigote con un doppio
omozigote recessivo, otteniamo una discendenza in cui il 12%+13% ha un fenotipo ricombinato e non
parentale. La frequenza di ricombinazione è quindi del 25%, mentre il 75% presenta un fenotipo parentale
(37+38%).

D’d’Ee x d’d’ee
D’E 37% d’E 12% D’e 13% d’e 38%

Questo porta a concludere che i loci per E ed D’ sono in linkage con una frequenza di ricombinazione del
25%, quindi i loci per E e D’ distano 25 cM. Poiché D’ è in linkage con C, allora anche E in linkage con C.
Sappiamo quindi che i loci per D’ ed E sono distanti 25cM, mentre I loci per C e D’ sono distanti 20 cM.

Se volessimo stabilire la distanza tra C ed E avremmo due opzioni:


- Una che porta ad una frequenza di ricombinazione del 5%, ponendo i loci nella sequenza D’ C E
- Una che porta ad una frequenza di ricombinazione del 45-50%, ponendo i loci nella sequenza E D’ C.

Si può pensare che i loci genici per C ed E siano dalla stessa parte rispetto a D’. In tal caso, la distanza fra C
ed E sarebbe di 5 cM (frequenza di ricombinazione del 5%). Però questo non può essere corretto poiché in
questo caso C ed E presentano una frequenza di ricombinazione del 50%, in modo da giustificare le
frequenze osservate nella discendenza. Pertanto, risulta corretta la seconda disposizione in cui l’elevata
distanza tra C ed E (= 45-50 cM).
Il mappaggio a tre punti ha consentito la realizzazione delle prime mappe dei nostri geni.

DISPOSIZIONE DEI LOCI IN REGIONI CRITICHE DEL GENOMA


Le regioni critiche sono i CENTROMERI e i TELOMERI

SESSO
Femmina : Maschio = 2 : 1

74
EREDITARIETA’ MONOGENICA
La genetica mendeliana applicata all’uomo prende il nome di EREDITARIETÀ MONOGENICA: è la branca
della genetica che studia le malattie determinate da un solo gene. In realtà, le malattie monogeniche sono
molto più rare delle malattie dovute all’azione di più geni.

COSTRUZIONE DELL’ALBERO GENEALOGICO

Bisogna premettere che risulta impensabile applicare le regole mendeliane all’uomo: l’autofecondazione,
l’abbondanza di dati raccolti ottenuti incrociando le varie linee o la pratica del test cross, ad esempio, sono
tecniche non plausibili per studi sull’uomo e, più in generale, sugli animali.
Non potendo ricorrere a tutte le tecniche utilizzate da Mendel, l’unica cosa che resta da fare è costruire un
ALBERO GENEALOGICO quanto più grande possibile per permettere di chiarire se il carattere che si sta
studiando è individuabile nella linea parentale e in che modalità viene trasmesso.
Gli alberi genealogici vengo realizzati utilizzando una serie di simboli.
Gli individui vengono distinti in maschi (□) e femmine
(○). Esistono poi individui che vengono rappresentati
con un rombo (◊); questo accade quando chi
racconta l’albero non ne conosce il sesso, pur
conoscendone l’esistenza e il grado di parentela.
Ogni simbolo viene colorato in pieno se il carattere è
manifesto, mentre è bianco se il carattere non è
manifesto. Gli eterozigoti hanno il simbolo colorato
solo a metà (in diagonale o in verticale).
La persona che racconta l’albero genealogico viene
indicata con una freccia laterale, talvolta anche con
la lettera P, e viene chiamato PROBANDO /
PROBANDA.
Gli individui deceduti vengono indicato con una
diagonale che trapassa il simbolo corrispondente.
Eventuali aborti vengono rappresentati con i simboli
del sesso (o il rombo nel caso sia ignoto, ad esempio
se l’aborto avviene nei primi mesi di gravidanza) ma
di piccole dimensioni e di colore nero.
Le unioni tra individui sono rappresentate da una barra orizzontale che li lega (continua in caso di
matrimonio, tratteggiata in caso di unione senza matrimonio). E’ importante segnalare i matrimoni tra
consanguinei attraverso una doppia barra.
I gemelli sono uniti da due linee oblique (gemelli dizigoti, originati da zigoti diversi), o da due linee oblique
e una orizzontale (gemelli omozigoti, aventi lo stesso genoma poiché originati da uno stesso zigote, che è
andato incontro a una divisone per cui una o più cellule totipotenti si distaccano dallo zigote allo stadio di
morula o blastocisti, andando a collocarsi in una zona diversa dell’utero dando origine a un altro individuo
identico). Se la situazione è incerta, bisogna porre un ? nel mezzo, fino a quando non si svolgono opportune
indagini.
Le diverse generazioni si distinguono in righe diverse indicate con numeri romani, mentre sulla stessa riga
vengono rappresentati in ordine decrescente per età da sinistra verso destra i fratelli.

75
Un’unione senza discendenza viene rappresentata con un trattino e la scritta senza prole (anche questo
può essere un dato utile all’indagine genetica in corso).

EREDITARIETA’ AUTOSOMICA DOMINANTE

L’ereditarietà AUTOSOMICA DOMINANTE presenta 4 caratteristiche:


- Il carattere è trasmesso verticalmente nell’albero genealogico dai genitori ai figli
- C’è assenza di salto di generazione, cioè almeno un individuo in ogni generazione presenta il
carattere
- I due sessi presentano il carattere in proporzioni uguali, non c’è una maggiore predisposizione per
un sesso
- I due sessi trasmettono il carattere a figli maschi e a figlie femmine con la stessa probabilità
Per geni frequenti non invalidanti è relativamente elevata la percentuale di individui omozigoti dominanti
(10-70%); tra questi ricordiamo i geni per:
- Calvizie
- Fossetta sul mento
- Brevità della falange intermedia.
Per geni rari (malattie) l’individuo che trasmette il carattere è quasi sempre eterozigote con fenotipo
dominante (Aa) e generalmente si incrocia con un omozigote recessivo sano (aa). In certi casi, infatti, la
manifestazione del carattere in forma omozigote dominante (AA) può essere letale. Siamo quindi davanti a
una sorta di test cross in cui il 50% della discendenza presenterà il carattere in considerazione:
P Aa x aa
F1 2Aa : 2aa
Solitamente l’incrocio è con un omozigote recessivo perché è molto improbabile che due persone con
carattere autosomico dominante patologico generino un figlio.
Da un punto di vista cromosomico-citologico accade questo. Il primo
genitore presenta un allele dominante mutato e un allele recessivo
(eterozigote Aa), il secondo presenta entrambi gli alleli sani recessivi
(omozigote aa).
I due individui daranno luogo a 4 gameti di cui:
- 1 contiene l’allele dominante mutato
- 3 contengono l’allele recessivo sano
Come si può ben capire dal quadrato di Punnet,
dall’incrocio di questi gameti si otterrà una prole:
- al 50% sana (aa)
- al 50% malata (Aa)
Le forme più frequenti di malattie autosomiche dominanti sono:
- ipercolesterolemia 1 : 500
- polidattilia 1 : 100/700
- acondroplasia 1 : 10000, legata ad una patologia di un gene per il collagene; chi ne è affetto ha testa
e tronco normali per l’età, mentre gli arti sono molto più corti.

76
Analizziamo l’albero genealogico di una famiglia in cui
ricorre l’ipercolesterolemia.
I numeri in alto a dx indicano la posizione dell’individuo
nell’albero genealogico dal punto di vista cronologico. Il
numero in basso indica l’età dell’individuo. I coniugi sani
vengono solitamente esclusi dall’albero.
L’albero genealogico presenta tutte le caratteristiche per
determinare una malattia autosomica dominante:
- il carattere è trasmesso verticalmente,
- non ci sono salti generazionali,
- colpisce in ugual misura sia uomini che donne
- viene trasmesso ai figli di entrambi i sessi nello
stesso modo da madri o padri.
L’ultimo punto, però, potrebbe risultare incerto in quanto
non è evidenziato alcun caso di trasmissione per via materna. Tuttavia, ciò è imputabile al fatto che l’albero
genealogico è molto ridotto.
Un ulteriore dubbio potrebbe riguardare il parametro secondo cui viene rispettato il rapporto 50/50 tra
discendenti sani e malati; infatti, la donna della seconda generazione non trasmette il carattere dominante
ai suoi due figli. Poiché si tratta di un albero ridotto, bisogna prendere in considerazione la discendenza di
tutti gli individui malati nella II generazione. La prima donna ha 2 figlie sane, il fratello ha 3 figli malati, e il
rapporto quindi è di 2:3 (quasi 50/50) dato accettabile per stabilire definitivamente che si tratti di una
malattia autosomica dominante.
L’individuo esaminato è eterozigote perché altrimenti avrebbe dovuto avere entrambi i genitori (I 3 e I 4)
malati.

EREDITARIETÀ AUTOSOMICA RECESSIVA

Si può notare come l’albero genealogico di lato non


rappresenti un’ereditarietà autosomica dominante poiché ci
sono pochissimi malati e sono frequenti i salti di generazione.
Si tratta infatti di un’ereditarietà AUTOSOMICA RECESSIVA.

Questa tipologia di ereditarietà presenta i seguenti parametri:


- I genitori non presentano, in genere, il carattere e sono così entrambi eterozigoti
- 1⁄4, cioè il 25%, della discendenza sarà positiva per il carattere (conseguente al primo punto,
nonché alla seconda legge di Mendel)
- La frequenza nei matrimoni tra consanguinei è più alta rispetto a quella nella popolazione generale.
È più probabile che, se presente un’unione tra due parenti lontani, entrambi i genitori abbiano
ereditato da un unico avo lo stesso allele recessivo e che, per una questione di casualità, lo abbiano
trasmesso nella loro discendenza mediante la combinazione dei loro gameti, entrambi aventi l’allele
recessivo in questione.
- Ci sono i salti di generazionale
È bene mettere in risalto la differenza tra caratteri ad alta frequenza e caratteri a bassa frequenza:
- Per i caratteri ad alta frequenza, gli individui omozigoti recessivi sono numerosi e i salti
generazionali sono piccoli
- Per i caratteri a bassa frequenza (malattie), gli omozigoti sono rarissimi e la patologia è aggressiva
77
Esempi di queste patologie sono:
• Enfisema polmonare da deficit di alfa 1-antitripsina (1/20 eterozigoti)
• Fibrosi cistica (1/37 eterozigoti): questa patologia, anche chiamata mucoviscidosi, porta ad avere
mucose molto dense, che in alcuni casi portano addirittura alla morte: Oggi ci sono terapie che
permettono di curare almeno alcune forme, le più lievi, di questa malattia
• Anemia falciforme: è una delle più note tra le patologie dovute alla mutazione di un singolo
nucleotide e consiste in un’anomalia riscontrabile nella forma dei globuli rossi, i quali risultano
essere falciformi
• Morbo di Tay-Sachs: malattia rarissima legata al metabolismo degli acidi grassi; essa sottolinea
l’importanza dei matrimoni tra consanguinei poiché è solitamente riscontrabile in alcuni gruppi di
popolazione in cui c’è la tendenza a sposarsi tra parenti.
Nella rappresentazione citologica della trasmissione di un carattere
autosomico recessivo, l’allele patologico è raffigurato in nero, mentre quello
normale è in grigio.
Entrambi i genitori sono eterozigoti (con fenotipo sano), ciascuno dei quali
produrrà per il 50% gameti con allele dominante e per il restante 50% alleli con
gamete recessivo (patologico). Quindi, combinando casualmente un gamete di
un partner e uno dell’altro, si ottiene la seguente discendenza:
- 25% omozigoti affetti
- 25% omozigoti sani
- 50% eterozigoti, dunque sani

L’immagine mostra un caso di


ereditarietà autosomica recessiva.
La coppia di eterozigoti presente nella II generazione ha
avuto tre figli sani e due malati. Questi ultimi
trasmetteranno alla loro discendenza la malattia da cui
sono affetti soltanto qualora dovessero sposare una
persona con la stessa malattia.
Questo è vero a meno che, in un matrimonio tra un
individuo sano e uno malato (malattia autosomica
recessiva), durante il processo di formazione dei gameti
nel partner sano, si verifichi la mutazione di quel gene
(evento eccezionale).
È possibile, inoltre, notare come nella IV generazione la discendenza generata dal maschio malato,
appartenente alla III generazione, non presenti in alcun caso la malattia. I tre figli dell’ultima generazione
sono inoltre tutti eterozigoti, risultato della prima legge di Mendel.
Nell’immagine si evidenzia come l’insorgenza della malattia
nell’individuo in IV è data anche dalla consanguineità dei
genitori sani nella III.

78
Nell’immagine si vede come, dall’analisi
dell’albero genealogico, i due coniugi hanno
scoperto di essere parenti. L’albero completo è
stato costruito infatti dopo aver fatto questa
scoperta.
Dall’analisi storica delle due famiglie salta fuori
che queste erano lontanamente imparentate,
anche se tale parentela era andata dimenticata
a causa dell’allontanamento geografico delle
due. Questo spiega come mai la coppia di genitori eterozigoti (apparentemente sani) in generazione III
presenta un figlio, in generazione IV, con la stessa malattia.

EREDITARIETÀ X E Y LINKED

L’ALBERO GENEALOGICO DELLA REGINA VITTORIA


Come si evince dalla rappresentazione, la regina Vittoria ebbe una discendenza piuttosto copiosa, per
poter organizzare così una serie di matrimoni con lo scopo di unire tutte le casate regnanti in un unico
gruppo.
Ebbe infatti 8 figli, i quali in larga parte
sposarono principi o eredi di altre casate
per unire tutta l’Europa e assumere così
un peso politico importante.
La regina non poteva però controllare un
fenomeno genetico originato da lei stessa:
era portatrice dell’allele recessivo per
l’EMOFILIA.
Questo ha fatto sì che i figli maschi
potevano ereditare al 50% la malattia
dalla madre, mentre le figlie femmine
erano al 50% portatrici. Tale malattia, presente nei maschi, ne determinava la morte in giovane età per
emorragie prolungate poiché i fattori di coagulazione non erano in grado di arrestare neppure le perdite di
piccoli vasi. Questa malattia, infatti, decimò i maschi delle casate regnanti.
Si tratta di una malattia X-LINKED di tipo RECESSIVO.

CARATTERI X LINKED DOMINANTI


L’albero genealogico in figura mostra come la trasmissione di un carattere X LINKED DOMINANTE presenti
tre delle quattro peculiarità dell’ereditarietà autosomica dominante:
- Trasmissione verticale
- Assenza di salto generazionale
- Sia maschi che femmine affetti
Non viene rispettato però il quarto parametro, dal momento in cui
maschi e femmine non trasmettono la malattia nella stessa
proporzione. Nello specifico:
- la femmina trasmette l’allele patologico al 50% dei figli,
indipendentemente dal loro sesso,
79
- i maschi lo trasmettono al 100% delle figlie femmine e non ai maschi.
Questo si verifica perché i maschi (XY) trasmettono alla prole maschile il cromosoma Y e a quella femminile
il cromosoma X. In questo modo, essendo situato l’allele patologico sul cromosoma X, questo verrà
trasmesso necessariamente alle figlie. D’altro canto, le donne (XX) trasmettono uno dei due cromosomi X ai
figli di entrambi i sessi, pertanto l’allele patologico può essere trasmesso con la stessa probabilità tanto ai
figli maschi quanto alle femmine.
L’immagine riporta un caso particolare: la donna trasmette la
malattia soltanto alle figlie femmine.
Questo accade poiché, in alcuni casi, avendo i maschi un solo
cromosoma X, se quel cromosoma presenta la mutazione hanno
minore probabilità di sopravvivenza, per questo muoiono ancor
prima della nascita. Le femmine invece, avendo due cromosomi
X, hanno probabilità di sopravvivenza di gran lunga più elevate.

CARATTERI X LINKED RECESSIVI


L’ereditarietà di caratteri X LINKED RECESSIVI ha le seguenti caratteristiche:
- La stragrande maggioranza degli uomini presenta il carattere. Ci sono caratteri patologici, ma non
sono sempre gravi (1-8% maschi con daltonismo, distrofia di Duchenne)
- Salto di generazione
- Gli uomini trasmettono l’allele solamente alle figlie femmine, che saranno tutte eterozigoti e dette
portatrici obbligate (o sane). Sono necessariamente portatrici di quell’allele perché, per generare
una figlia femmina, è necessario il cromosoma x del padre.
- Le donne portatrici sono sane ma trasmettono l’allele al 50% della discendenza maschile, che
manifesterà il carattere, mentre il 50% della discendenza femminile sarà portatrice.
- La caratteristica segregazione dal nonno al nipote maschio con salto di generazione, tramite una
femmina portatrice, viene detta zig-zag o criss-cross (verticalmente si avrà, di generazione in
generazione, un maschio malato, una donna portatrice, un maschio malato, una donna portatrice)
- I maschi che presentano un allele sul cromosoma X non sono né omozigoti, né eterozigoti, bensì
saranno detti emizigoti, avendo un solo cromosoma X.
L’immagine riportata la rappresentazione citologica di questa ereditarietà,
tenendo bene a mente che i cromosomi sessuali sono diversi dagli autosomi.
Mediante i corrispettivi quadrati di Punnet è possibile predire la discendenza
derivante da una femmina eterozigote, dunque portatrice, e un maschio
sano.
La madre eterozigote produrrà due tipi di gameti, uno normale e uno con
l’allele patologico. Il padre produrrà invece entrambi i gameti sani. Dalle
combinazioni casuali di un gamete materno e un gamete paterno si otterrà la
seguente discendenza:
- 25% maschi sani, avendo ereditato dalla madre il cromosoma X sano e
da padre il cromosoma Y, non coinvolto nella trasmissione della
malattia presa in considerazione
- 25% maschi malati, avendo ereditato dalla madre il cromosoma X
malato
- 25% femmine portatrici, avendo ereditato dalla madre l’allele
recessivo
- 25% femmine sane con genotipo normale, avendo ereditato i
cromosomi X sani da entrambi i genitori

80
Analizziamo invece la discendenza di tra una femmina sana e un maschio
affetto.
La madre sana, dunque omozigote dominante, produrrà gameti entrambi
sani, mentre il padre affetto, dunque emizigote con l’allele recessivo
patologico sul suo unico cromosoma X, produrrà un gamete X malato e uno
Y sano, poiché non presenta il carattere considerato. Da questo incrocio
deriverà la seguente discendenza:
- 100% femmine portatrici obbligate, eterozigoti con l’allele recessivo
su uno dei due cromosomi X
- 100% maschi sani, poiché dal padre affetto ereditano soltanto il
cromosoma Y, che non presenta l’allele in questione
Come emerge dal quadrato di Punnet, i figli manifestano tutti un fenotipo
sano.

CARETTERI Y LINKED

Analizziamo l’albero genealogico in figura.

Non essendoci salto di generazione ed essendoci


una trasmissione verticale, si tratta sicuramente di
una condizione dominante.
Non può essere autosomica poiché i due sessi non
presentano il carattere in proporzioni uguali, né lo
trasmettono ad entrambi i sessi nella prole.
Non può neanche essere un carattere legato al
cromosoma X dal momento in cui l’ultimo individuo della generazione II, maschio affetto, ha trasmesso la
malattia ad entrambi i figli maschi; se la malattia fosse x linked, non potrebbe essere trasmessa dal padre ai
figli maschi poichè essi ereditano solo il cromosoma Y. Lo stesso vale per il maschio della generazione I, il
quale genera 3 figlie femmine sane e 4 figli maschi malati.
Si tratta quindi di un carattere trasmesso con il cromosoma Y, ovvero Y LINKED, per cui:
- Risultano affetti esclusivamente i maschi, infatti il maschio con la patologia trasmetterà la
condizione solo ai propri figli maschi.
- I maschi affetti possono avere il padre affetto, se la patologia non è dovuta ad una mutazione.
- Tutti i figli maschi affetti potranno presentare anche in forma più grave o meno grave la condizione
presentata dal padre, ma necessariamente tutti i figli maschi del maschio affetto presenteranno
quella condizione.
Le principali malattie y linked non sono gravi, nè limitanti per la vita.
Questi geni sono specialmente legati alla fertilità, alla produzione di spermatozoi e alla realizzazione dei
caratteri sessuali del maschio.
La domanda che potrebbe sorgere è: se queste patologie sono correlate con l’infertilità dei maschi, come
fanno questi a riprodursi? Si riproducono perché il danno non è assoluto, non determina una completa
scomparsa dei protozoi. Questi individui affetti producono degli spermatozoi “acciaccati”, claudicanti, e di
conseguenza ci sarà una minore fertilità ma senza arrivare all’infertilità. È questo il motivo per cui ci può
essere la trasmissione di un carattere Y linked.

81
Analizziamo l’albero genealogico in figura.
Non può essere un carattere Y linked, perché il figlio maschio 1 della
generazione II è sano, nonostante sia nato da padre affetto. Se fosse
una malattia Y linked, questo individuo dovrebbe esserne affetto, a
meno che non si sia verificata una mutazione nello spermatozoo che
lo ha generato.
Non può essere una malattia autosomica dominante perché,
sebbene non ci sia il salto generazionale, non c’è la trasmissione
verticale, infatti l’individuo 1 della generazione I non trasmette la
malattia a nessuno dei suoi figli nella generazione II.
Potrebbe essere una malattia autosomica recessiva: c’è infatti un salto di generazione. Inoltre, l’individuo 1
della generazione I potrebbe essere omozigote recessivo e questo spiegherebbe perché, in seguito
all’unione con un partner sano, nella discendenza scompare la manifestazione della patologia.
Probabilmente, infatti, la madre I 2 è sana. Se fosse una condizione autosomica recessiva, però, l’individuo
II 4 potrebbe avere un figlio con la stessa condizione solo se la madre II 3 è una portatrice sana eterozigote.
Potrebbe essere una malattia X linked dove:
- la mamma I 2 è portatrice sana (eterozigote),
- il padre I 1 è emizigote
- la figlia II 3 è portatrice obbligata.
- Questa si è unita con un individuo emizigote (anche la madre I 4 è portatrice) e dà l’x recessivo al
figlio nella generazione III, che sarà quindi emizigote.
In questo albero genealogico c’è un’apparente contraddizione perchè, sebbene si tratti di una malattia x
linked recessiva, il padre II 4 e il figlio nella III hanno la stessa condizione. Ciò sarebbe impossibile perchè i
maschi affetti da una malattia X linked non trasmettono mai ai propri figli maschi la stessa malattia.
Tuttavia, in questo caso l’individuo della III eredita la malattia dall’allele della madre, che è portatrice
obbligata, e non dal padre affetto.
Il maschio I 1 ha la malattia X linked, la trasmette obbligatoriamente a tutte le proprie figlie femmine, una
delle quali ha un figlio malato (non per effetto del padre II 4) per il proprio effetto.

EREDITARIETA’ MITOCONDRIALE

Analizziamo l’albero genealogico in figura 1. Si potrebbe trattare di una malattia autosomica dominante,
poiché:
- c’è trasmissione verticale
- c’è assenza di salti generazionali
- maschi e femmine sono affetti ugualmente.

82
In realtà, non ci sono casi di malattia tra gli individui della generazione II, nonostante essi siano nati da
padre malato; ma ciò può essere determinato dal fatto che il padre, essendo eterozigote, ha
“fortunatamente” trasmesso loro l’allele recessivo.

Se la generazione I fosse stata composta solo dal maschio malato e avessimo dovuto analizzare soltanto la
sua discendenza, non saremmo giunti a questa conclusione. È questo il motivo per cui le valutazioni devono
essere condotte su più alberi o su un albero genealogico numeroso.

Tuttavia, i maschi e le femmine affette non trasmettono in egual misura la malattia ai propri figli. Infatti:
- le figlie femmine trasmettono a tutti i propri figli, indipendentemente dal loro sesso;
- i maschi apparentemente non trasmettono la malattia.
Questo tipo di trasmissione non corrisponde né a quella dei geni autosomici né a quella dei geni X linked.
Inoltre, possiamo escludere che il carattere sia Y linked perché troviamo femmine affette.
Si tratta di un carattere che non dipende dal genoma nucleare, bensì da quello mitocondriale.
L’EREDITARIETÀ MITOCONDRIALE è determinata dalla presenza di DNA circolare (estremamente simile a
quello batterico) nei mitocondri della cellula uovo che ha contribuito alla formazione dello zigote.
Un gene che determina una malattia mitocondriale non rispetta a pieno le leggi di Mendel poiché viene
trasmesso solo dalla madre, in condizioni di fecondazione naturale. Il citoplasma dell’ovocita, infatti,
contiene i mitocondri della madre e, al momento della fecondazione, lo spermatozoo mette dentro
all’ovocita solo la testa con il contenuto nucleare paterno, mentre i mitocondri restano fuori.
Oggi, tuttavia, abbiamo un utilizzo piuttosto esteso della fecondazione assistita (specie con la tecnologia
ICSI) e, in questi casi, dentro l’ovocita viene iniettato l’intero spermatozoo. Con la fecondazione assistita
avremo quindi uno zigote che contiene sia mitocondri materni sia mitocondri paterni. Questo fatto è
correlato con una maggiore frequenza di alcune alterazioni dell’epigenetica.
Il fatto che i geni mitocondriali siano a carico esclusivamente del patrimonio materno spiega perché tutti i
figli di una madre affetta presenteranno la malattia; infatti, tutti ereditano il citoplasma dell’ovocita
contenente i mitocondri mutati.

Le malattie tipicamente mitocondriali sono quelle a carico dei tessuti energivori, cioè che utilizzano
maggiormente l’energia prodotta dalla respirazione cellulare (processo che avviene nei mitocondri). Tra
questi troviamo principalmente i tessuti dell’apparato neuromuscolare, come il tessuto nervoso della
retina degli occhi.
I mitocondri, inoltre, possono essere variamente numerosi all’interno della cellula in funzione del suo stato:
se la cellula è quiescente, ha un numero ridotto di mitocondri ma, se torna in attività, questo numero
aumenta.
Questo è ciò che accade, ad esempio, quando i tubuli renali devono concentrare l’urina. Per poter fare ciò
senza perdere l’acqua e i sali minerali (cioè senza disidratare l’individuo), devono usare le pompe di
membrana che compiono trasporto attivo, consumando l’energia prodotta dai mitocondri. Lo stesso vale
quando l’organismo deve produrre massivamente anticorpi trasformando i linfociti B in plasmacellule. Le
plasmacellule, dovendo produrre quantità enormi di proteine per poter difendere l’organismo, consumano
molta energia; al contrario, il linfocita B da cui deriva è una cellula praticamente quiescente che ha uno
scarso consumo energetico.

La prima malattia dovuta ad un gene mitocondriale che è stata scoperta è la neuropatia ottica di Leber,
legata alla trasmissione del segnale luminoso sottoforma di segnale elettrochimico dalla retina al cervello.
Troviamo poi varie forme di mioclonie, epilessie e miopatie correlabili con la scarsa abilità dei mitocondri a
seguito di una mutazione.

83
Le caratteristiche di una malattia mitocondriale sono:

- la madre affetta trasmette il carattere sia ai figli maschi sia alle figlie femmine
- solo le figlie femmine possono trasmettere la malattia
- penetranza ed espressività variabili.

Penetranza ed espressività sono riferite all’intensità della probabilità che un certo fenotipo si manifesti in
un individuo portatore dell’allele corrispondente. Le malattie mitocondriali sono caratterizzate da una
grande variabilità nella loro manifestazione, anche nell’ambito di uno stesso albero genealogico. Infatti, vari
fratelli, che hanno ereditato una malattia mitocondriale dalla madre affetta, possono manifestare la
patologia in modi diversi da quelli degli altri fratelli e da quello della madre malata. Questo fenomeno è
dovuto al fatto che le malattie mitocondriali possono presentare una condizione di:

- omoplasmia, per cui le mutazioni sono presenti in tutti i mitocondri della cellula
- eteroplasmia, per cui le mutazioni sono presenti solo in una frazione dei mitocondri di una cellula.

Nell’immagine è rappresentata una cellula


che presenta una condizione di
eteroplasmia, cioè che contiene solo
qualche mitocondrio il cui DNA è mutato.
Quando questa cellula prolifera, i
mitocondri al suo interno si dividono con un
meccanismo (simile a quello utilizzato dai
batteri) totalmente indipendente dalla
divisione cellulare. Quindi può capitare che
alcune cellule figlie diventeranno
ricchissime di mitocondri mutati, mentre
altre avranno la maggior parte dei
mitocondri non mutati, nonostante siano
derivate tutte dalla stessa cellula. Se questa cellula si sta avviando alla divisione cellulare tipica della via
germinale della donna, potremmo avere:
- degli ovociti in cui ci saranno pochi mitocondri con la mutazione. Se questi vengono fecondati, i figli
potranno anche non presentare affatto il fenotipo malato.
- degli ovociti, invece, in cui la maggioranza dei mitocondri è mutata. Se questi vengono fecondati, i
figli presenteranno la patologia in forma grave o gravissima.

L’immagine rappresenta una madre con pochi


sintomi o addirittura assenza della malattia,
poiché la maggioranza dei mitocondri non
presenta mutazioni.
Questa cellula si avvia alla meiosi, perciò alcune
cellule figlie conterranno pochissimi o nessun
mitocondrio mutato, mentre altre presenteranno
la maggioranza dei mitocondri con la mutazione.
Questo porta alla formazione di cellule gametiche
che differiscono per il numero di mitocondri con la
mutazione. Quando questi ovociti vengono fecondati, avremo una grande variabilità nel fenotipo del figlio:
da un fenotipo grave o gravissimo (quando tutti o quasi tutti i mitocondri dell’ovocita sono mutati) ad
un’assenza della malattia (quando l’ovocita ha pochissimi mitocondri mutati).

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In sintesi:

- quando abbiamo una condizione di omoplasmia, cioè quando tutti i mitocondri all’interno della
cellula presentano la mutazione, avremo il rischio di generare figli malati;
- quando abbiamo una condizione di eteroplasmia, cioè quando una parte dei mitocondri è sana o è
tornata sana (attraverso un processo di conversione genica), avremo qualche possibilità di avere figli
con scarsi sintomi della malattia.

ANALISI DI ALBERI GENEALOGICI

Analizziamo l’albero genealogico in figura. Rappresenta una condizione dominante perché non c’è salto
generazionale (nonostante siano analizzate ben 7 generazioni).
Non può essere un carattere Y linked perché si manifesta anche nelle femmine.
Non può essere neppure mitocondriale perché è trasmesso anche dai maschi.
Non può essere X linked perché ci sono padri che trasmettono il carattere a figli maschi, come nel caso del
II 2 (n.d.r. i padri trasmettono ai figli maschi soltanto il cromosoma Y).
Si tratta quindi di una condizione autosomica dominante per un carattere non correlato con una malattia,
considerando che gli individui affetti da una condizione patologica dominante difficilmente riescono a
riprodursi. Infatti, l’albero genealogico in figura rappresenta una famiglia finlandese e il carattere in
questione è relativo ai capelli crespi.

L’albero genealogico in
figura comprende due
famiglie differenti che
vengono rappresentate
insieme poiché due dei loro
membri hanno dato origine
ad una discendenza insieme.
Tutti gli altri fratelli, in
entrambe le famiglie, hanno
avuto una discendenza
normale, mentre gli individui considerati hanno discendenti malati.
Il gene per il carattere in questione non è mitocondriale, nè Y linked, perchè colpisce anche le donne.
Non può essere X linked perché nella generazione II c’è un maschio portatore sano.
Si tratta di una condizione autosomica recessiva. A partire da questo albero genealogico, potremmo
ipotizzare che le due famiglie siano consanguinee.

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L’albero genealogico in figura 6 rappresenta una malattia
mitocondriale poiché:

- viene trasmessa solo dalle donne


- tutti i figli di madri malati ne sono affetti, mentre tutti i figli
dei maschi affetti non presentano la malattia.

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ECCEZIONI E PARTICOLARITA’ DELLE LEGGI DI MENDEL
Esistono condizioni che non rispettano pienamente le leggi di Mendel.
Una di queste è il linkage, cioè quando i caratteri in questione hanno i loci concatenati sullo stesso
cromosoma, e costituisce un’eccezione alla terza legge di Mendel. Altre eccezioni alle leggi di Mendel
possono rendere più difficile l’interpretazione della trasmissione di un carattere nell’albero genealogico.

PENETRANZA

L’albero genealogico in figura non presenta salto


generazionale, quindi non può essere relativo alla trasmissione
di un carattere recessivo.
Non si tratta di un carattere Y linked, poiché nella generazione
II c’è una donna affetta.
Non è mitocondriale, poiché nella generazione II c’è una donna
affetta che trasmette il carattere solo ad uno dei due figli.
È altamente improbabile che si tratti di un carattere dovuto ad
una mutazione, poiché la stessa mutazione avrebbe dovuto
colpire ben quattro persone all’interno dello stesso albero
genealogico.
Potrebbe essere una malattia autosomica dominante ma il primo discendente nella generazione IV ha il
padre e il nonno che non presentano la sua stessa situazione (si tratta di una condizione che non può
verificarsi nel caso di un carattere autosomico dominante).
Si tratta di una condizione di PENETRANZA INCOMPLETA.
La PENETRANZA è quel fenomeno per cui, tra tutti gli individui portatori di un allele dominante, ce ne
sono alcuni che non manifestano il corrispondente fenotipo.
La Corea di Huntington è una malattia dominante caratterizzata da penetranza quasi completa; infatti, più
del 95% dei portatori dell’allele dominante patologico manifesteranno questa malattia tra i 40 e i 50 anni.
Spesso un individuo portatore si accorge di avere l’allele per questa malattia nel momento in cui un
genitore, ormai adulto, manifesta i sintomi. Il nome corea significa “danza” e deriva dal fatto che i soggetti
affetti non riescono a controllare i movimenti degli arti, muovendoli in maniera inconsapevole. Con il
progredire della malattia, subentrano anche la demenza e, infine, il decesso.
La situazione è invece diversa per i geni BRCA 1 e BRCA 2, cioè i geni della predisposizione al tumore della
mammella e delle ovaie. Non tutte le portatrici di questo allele dominante mutato presentano
effettivamente la malattia. Per quanto riguarda il gene della predisposizione al tumore della mammella, il
70-75% delle donne portatrici svilupperà la malattia entro gli 80 anni di età.
Per quanto riguarda il gene della predisposizione al tumore delle ovaie, invece, solo il 60% delle donne
portatrici svilupperà la malattia.
Questi due geni hanno quindi una penetranza incompleta:
- del 75% per il gene per il tumore alla mammella
- del 60% per il gene per il tumore alle ovaie.
Altre condizioni che presentano penetranza incompleta sono:
- la brachidattilia, cioè la presenza di dita più corte del normale,
- la polidattilia, ovvero la presenza di un dito in più all’estremità degli arti,
- la calvizie.

87
ESPRESSIVITÀ

Un’altra eccezione alle leggi di Mendel è relativa alla maggiore o minore intensità con cui un fenotipo si
può manifestare considerando la stessa tipologia di gene.
Nell’immagine sono rappresentate tre generazioni di
una famiglia con una malattia mitocondriale. La donna
I 1 affetta presenta 3 dei 4 fenotipi associati alla
mutazione del DNA mitocondriale (manca la
demenza). La miopatia mitocondriale e la sordità sono
completamente espresse, mentre l’epilessia
mioclonica è nella forma lieve. Tutti i figli presentano
la mutazione mitocondriale ma:
- le 3 figlie femmine presentano gli stessi effetti
fenotipici della madre, tutti però in forma grave
- il maschio presenta solo uno dei 3 fenotipi della
madre in forma grave, mentre gli altri due sono in
forma lieve.
Ovviamente tutti i figli del maschio II 4 saranno sani,
mentre la discendenza delle figlie II 1 e 3 presentano:
- una condizione gravissima con le 4 manifestazioni
fenotipiche della malattia completamente espresse (nel caso della III 1)
- solo qualche sintomo in forma lieve (nei casi III 2, 3 e 4)
C’è quindi una grandissima variabilità nelle modalità e nelle intensità delle manifestazioni fenotipiche. Il
tipo di fenotipo è determinato dalla maggiore o minore presenza di mitocondri mutati nell’ovocita che
viene fecondato. Questa variabilità della manifestazione fenotipica rientra nel fenomeno che viene
denominato ESPRESSIVITÀ.
L’espressività è l’intensità con cui un dato carattere si manifesta con un dato genotipo, in variabile
specialmente negli eterozigoti. Già normalmente, il 5-20% dei geni vengono espressi in maniera differente
tra i due alleli. Questo implica una serie di conseguenze che si possono verificare durante un trattamento
farmacologico o che possono avere un effetto quando si assumono determinate sostanze nutrienti: ci sono
alcune persone che hanno grandi effetti con l’assunzione di un farmaco, mentre altri non hanno alcun
effetto o, addirittura, hanno un effetto tossico. Ciò è determinato da variazioni della sequenza nucleotidica
che, sebbene permettano di produrre lo stesso peptide, possono essere più o meno espresse perché
cambia il legame che i fattori che regolano l’espressione formano con la molecola di DNA.
Un esempio di espressività è la brachidattilia, malattia per
cui le ossa delle dita sono più o meno lunghe. La malattia si
può presentare sia su tutte le dita dei quattro arti oppure su
qualcuna delle dite di qualche arto. Quindi è estremamente
variabile così come la polidattilia, infatti il dito
soprannumerario può avere sia tutto l’apparato osseo,
tendineo e muscolare, sia esserne privo e consistere in
un’escrescenza sul profilo della mano. Tutte queste forme
in cui si manifesta la polidattilia rientrano nello spettro di
un’espressività variabile.
Nell’immagine è rappresentato un albero genealogico di
individui affetti da distrofia miotonica. Si tratta di una
malattia dovuta ad una mutazione, simile a quella della
corea di Huntington, per cui c’è un’espansione di un’ansa di tre nucleotidi. Quando la ripetizione diviene

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eccessiva all’interno del gene, quest’alterazione disattiva la trascrizione del gene impedendo la produzione
di un RNA messaggero funzionale. E’ una patologia che, di generazione in generazione, compare sempre più
precocemente nell’individuo:
- nelle prime due generazioni, nessuno ne è affetto;
- nella III, la malattia compare su un ramo della famiglia in età giovanile;
- nella IV, la malattia compare sull’altro ramo solo in età adulta;
- nella V la mattia è già presente nella nascita, poiché ha assunto una forma congenita.
Questa variazione dell’età d’insorgenza della condizione patologica è dovuta al fatto che la presenza di
questa tripletta in copie multiple è una condizione fisiologica e le persone, normalmente, non presentano
un effetto. Tuttavia, questa regione tende a generare errori durante la duplicazione del DNA, per cui il
numero di copie di questa tripletta che si ripete tende a crescere di generazione in generazione.
Aumentando il numero di ripetizioni tra una generazione e la successiva, accade che l’accumulo di
materiale prodotto da quel gene diventa sempre maggiore con il passare dell’età dell’individuo. Per cui,
superata una certa soglia di accumulo (100 copie), compare la malattia: se questo accumulo è inizialmente
molto basso alla nascita, la malattia comparirà molto più avanti negli anni; se, invece, l’individuo presenta
già un accumulo elevato alla nascita, manifesterà la malattia in età giovanile. L’espressività variabile, in
questo caso, è legata all’età. I numeri in basso nell’albero genealogico esprimono il numero di ripetizioni
della tripletta specifica per queta malattia su due alleli (cioè sui cromosomi omologhi dove si trova il gene).
ES: nell’individuo II 1 avremo 24 ripetizioni su un cromosoma e 69 sull’omologo
Mano a mano che aumenta il numero di ripetizioni, aumenta la possibilità che si manifesti la malattia più
precocemente. Questo aumento della ripetizione della tripletta è legato ad errori durante le duplicazione
del DNA in fase S, prima della gametogenesi. Le due emieliche, quella stampo e quella nascente, durante la
duplicazione possono separarsi temporaneamente per poi riappaiarsi. Siccome si tratta di triplette uguali
tra loro, il riappaiamento può essere critico, per cui può capitare che triplette della catena neosintetizzata si
riappaiano con triplette complementari posizionate non più perfettamente in fase, ma slittate. Di
conseguenza, il meccanismo di sintesi aggiungerà un’altra tripletta (aggiuntiva) sulla catena neosintetizzata.
Probabilmente esiste anche il meccanismo opposto per cui, a seguito del distacco delle due emieliche, la
catena di stampo si riappaia in maniera errata, per cui la catena neosintetizzata conterrà una catena in
meno.

COMPLEMENTAZIONE

Nell’albero genealogico vengono


rappresentati due individui sordomuti in una
forma autosomica recessiva. Vuol dire che,
per quella condizione, sono entrambi
omozigoti recessivi. Tuttavia, i loro 4 figli
sono tutti normo udenti. Questo fenomeno
è dettato dal fatto che il fenotipo malattia
non è determinato solo da un locus genico
ma da locus genici multipli. Quando un
fenotipo può essere determinato da geni
differenti si parla di eterogeneità di locus.
Il sordomutismo ne è un classico esempio perché l’organo dell’udito (il mutismo è conseguenza della
sordità) è estremamente complesso, infatti coinvolge i geni che devono controllare:
- la corretta costruzione degli ossicini dell’orecchio interno,

89
- il collegamento nervoso tra la membrana del timpano e l’area del cervello a cui arriverà il segnale
dell’udito e verrà elaborato,
- la costruzione della struttura ossea dell’apparato dell’udito all’interno dell’osso temporale.
Moltissimi di questi geni, più di cento, se mutati hanno lo stesso effetto fenotipico, cioè danno sordità.
Questi due individui sono sordi a causa di due geni posizionati su loci diversi. Il marito è omozigote
recessivo per il locus del gene A ma è omozigote dominante per il locus B. La coniuge è omozigote
dominante per il locus A e omozigote recessiva per il locus B. Essendo omozigoti (dominanti o recessivi),
produrranno un unico tipo di gameti ciascuno:
- il maschio aB
- la femmina Ab
I figli che si otterranno dalla fecondazione degli ovociti materni con lo spermatozoo paterno saranno tutti
eterozigoti per entrambi i geni, quindi non saranno sordi. Questo fenomeno prende il nome di
COMPLEMENTAZIONE: gli allei dominanti di un individuo complementano (compensano) i corrispondenti
alleli recessivi del partner. A causa della complementazione, mutanti per geni diversi che hanno effetto
fenotipico simile correggono vicendevolmente i difetti della discendenza.
La complementazione si verifica nel sordomutismo, nell’albinismo, nell’emofilia e nel daltonismo.
Più il carattere è complesso, cioè correlabile all’azione di più geni differenti, maggiore è la possibilità che si
verifichi il fenomeno della complementazione. È più evidente per i geni in forma recessiva ed è più difficile
da comprendere nei casi di malattie dovute a geni dominanti.

DOMINANZA INTERMEDIA

L’immagine rappresenta delle


bocche di leone. Queste piante
possono essere di colori
differenti: se incrociamo due
piante omozigoti, una con i
petali rossi e una con i petali
bianchi, a differenza della prima
legge di Mendel, la generazione
F1 non dà luogo a piante rosse
(carattere dominante), bensì a
fiori rosa. Due piante di questa
generazione produrranno una
discendenza F2 che, dal punto di vista fenotipico, non è suddivisibile in:
- ¼ fenotipo recessivo
- ¾ fenotipo dominante.
Abbiamo infatti:
- ¼ rosso (omozigote dominante)
- ¼ bianco (omozigote recessivo)
- ½ rosa (eterozigote)
Si tratta di un caso di DOMINANZA INTERMEDIA. Gli alleli per il colore rosso e per il colore bianco non sono
tra loro dominanti, per cui le due piante omozigoti danno una discendenza con i fiori rosa: il fenotipo è
determinato dalla manifestazione di entrambi gli alleli, tra loro non dominanti che si esprimono con pari
intensità.

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La manifestazione fenotipica è quella che in anatomia viene definita manifestazione macroscopica. Se, con
il microscopio, andiamo a vedere queste piante, scopriamo che il colore rosa è determinato dalla presenza
di pigmento rosso e bianco di piccolissime dimensioni depositato sui petali. In questo modo si ha un effetto
simile a quello con cui vengono generate le immagini attraverso i pixel.

POLIALLELIA

La POLIALLEIA è quel fenomeno per cui un carattere è determinato non da una coppia di fattori, come
quelli identificati da Mendel, ma da più di due forme alleliche alternative. Un esempio è il sistema del
gruppo sanguigno AB0. I gruppi sanguigni sono delle manifestazioni fenotipiche dovute alla posizione degli
antigeni sui globuli rossi. Nel sistema AB0, sui globuli rossi troviamo antigeni di tipo A, di tipo B o di nessuno
dei due tipi (0). Questa disposizione degli antigeni è controllata genicamente da alleli che specificamente
possono produrre 4 tipologie di manifestazione sulla superficie dei globuli rossi. Ci saranno quindi:
- individui di gruppo A che hanno alleli per l’antigene A
- individui di gruppo B che hanno alleli per l’antigene B
- individui di gruppo 0 che hanno alleli che non permettono di produrre né l’antigene A né l’antigene
B
- individui di gruppo AB che hanno la coppia di alleli AB, per cui uno determina l’antigene A e l’altro
l’antigene B.
Di conseguenza si possono generare 4 fenotipi che sono il risultato dell’interazione tra di loro di 3 alleli
diversi per lo stesso locus.
L’individuo con gruppo 0 non ha antigeni A e B sulla
superficie del globulo rosso, per cui (per una
condizione innata) nel siero del suo sangue sono
presenti anticorpi anti-A e anti-B.
L’individuo con gruppo A presenta antigeni A, per cui
nel siero presenta anticorpi anti-B.
L’individuo con gruppo B presenta antigeni B, per cui
nel siero presenta anticorpi anti-A.
L’individuo con gruppo AB presenta antigeni A e B, per
cui nel siero non presenta anticorpi.
Se un individuo A viene trasfuso con il sangue di un
individuo B, si ha l’agglutinazione dei globuli rossi di
tipo B, perché gli anticorpi anti-B (dell’individuo A) aggrediscono i globuli rossi dell’individuo B.
L’agglutinazione porta alla rottura dei globuli rossi e alla loro eliminazione.
Lo stesso accade se l’individuo A viene trasfuso con il sangue di un individuo AB.
L’individuo B farà lo stesso se viene infuso con il sangue di un individuo A o AB.
L’individuo AB, invece, viene definito accettore universale perché, qualunque sia il gruppo dell’individuo
donatore, le emazie saranno sempre ben accette.
L’individuo 0 viene detto donatore universale perché può ricevere solo da individui 0, ma può donare a
individui di qualsiasi altro gruppo.
Questi anticorpi, essendo capaci di agglutinare i globuli rossi contro cui sono orientati, prima ancora che
venissero definiti anticorpi, vennero chiamati agglutinine. La caratteristica di questi anticorpi è che sono
innati (presenti già dalla nascita), infatti non è necessario che il sistema immunitario dell’individuo venga a
contatto con l’antigene estraneo contro cui, successivamente, produrre anticorpi.

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Il POLIMORFISMO è una variante della sequenza di DNA, più rara di quella normale, che non è inferiore
all’1%. E’ un’altra sequenza di DNA presente nella popolazione generale senza effetto fenotipico in più
dell’1% degli individui. Quando la variazione della sequenza è inferiore all’1%, si passa dal polimorfismo alla
mutazione.

CODOMINANZA

La dominanza intermedia viene anche chiamata non dominanza perché i due alleli non sono dominanti tra
di loro. Mentre in questo caso il fenotipo dell’eterozigote è intermedio, nel caso della CODOMINANZA i due
alleli si manifestano entrambi e sono chiaramente distinguibili. La codominanza è relativa al gruppo
sanguigno AB. L’individuo AB, infatti, presenta gli antigeni sia A che B perché possiede entrambi gli alleli
dominanti rispetto all’allele 0, perciò è il risultato di una codominanza tra la manifestazione fenotipica
dell’allele e la manifestazione fenotipica dell’allele B.

PLEIOTROPIA

La PLEIOTROPIA si ha quando la mutazione di un gene non determina solo un fenotipo, ma agisce su


differenti manifestazioni fenotipiche. Ne sono degli esempi:
- l’albinismo
- la talassemia
Gli individui albini hanno la mancanza di pigmento sugli annessi
cutanei (peli e capelli) e sulla pelle. La pelle, quindi, non possiede la
pigmentazione che protegge l’individuo dall’azione nociva dei raggi
ultravioletti: un’esposizione a questi ultimi determina alterazioni
cutanee che possono portare fino allo
sviluppo di tumori (melanomi e
adenocarcinomi della pelle). Inoltre,
gli individui albini hanno un’iride semi
trasparente, perché non c’è
deposizione di pigmento che permette di avere i colori tipici dell’iride e
che, oltre ad avere un effetto estetico, servono a filtrare i raggi
ultravioletti che raggiungono la retina. Si rischia quindi che la retina
rimanga abbagliata o danneggiata dall’azione di questi raggi.
Tutti questi fenotipi diversi dipendono dalla mutazione di uno dei geni responsabili dell’albinismo.

La talassemia è una forma di anemia dovuta all’alterazione dell’emoglobina che può riguardare sia la catena
α sia la catena β. Questa mutazione, dal punto di vista fenotipico, comporta:
- la presenza di emoglobina alterata e degradazione dei globuli rossi
- sviluppo di anemia, poiché i globuli rossi vengono distrutti
- Senza globuli rossi, il tessuto è privo dell’apporto di ossigeno,
perciò l’individuo è astenico, privo di forza, ha difficoltà a svolgere
lavori leggermente faticosi.
- Espansione di eritroblasti (precursori dei globuli rossi) nel midollo
osseo, perché il midollo osseo cerca di compensare la carenza di
globuli rossi producendo nuove cellule della serie rossa
(eritroblasti).

92
- Questa produzione è così imponente che si ha l’eliminazione degli altri elementi emopoietici della
serie bianca per fare posto agli eritroblasti. Poiché gli elementi della difesa dell’individuo che fanno
capo all’ematopoiesi (globuli bianchi, linfociti) sono stati ridotti di numero per favorire la produzione
di globuli rossi, si verifica una riduzione delle difese immunitarie. Si verificano quindi frequenti
infezioni.
- L’espansione massiva della serie rossa nelle strutture spugnose delle ossa produce il caratteristico
cranio a spazzola. La testa del bambino, sottoposta ad un esame radiografico, appare ricoperta di
filamenti. La struttura del tessuto spugnoso delle ossa del cranio è così ipertrofica (a spese del tessuto
compatto delle stesse ossa) a che le trabecole ossee assumano la forma di lunghi filamenti. Il tessuto
osseo diventa quindi più fragile, perché la parte compatta è ridotta notevolmente di spessore.
Tutti questi fenotipi sono determinati dalla stessa mutazione all’interno dei globuli rossi.

INTERAZIONE GENICA

L’INTERAZIONE GENICA è l’opposto della pleiotropia. Si tratta del fenomeno


per cui un fenotipo è determinato dall’azione cooperativa di più loci genici. Ne
è un esempio il sordomutismo, dato dall’interazione di circa 100 loci genici. La
complementazione è quindi un effetto dell’interazione genica, specialmente
per quei geni che si manifestazione nella forma patologica quando sono in
omozigosi. Altri esempi di interazione genica sono:
- l’albinismo, determinato da almeno 24 geni diversi
- l’ellittocitosi, ovvero una condizione per cui i globuli rossi diventano
ellittici. E’ determinata da due geni diversi posizionati sul cromosoma 1:
un locus si trova quasi all’estremità del braccio corto, l’altro si trova
all’interno del braccio lungo. La mutazione di uno di questi due geni
determina lo stesso fenotipo a carico dei globuli rossi. Gli eritrociti
vengono deformati, divenendo meno flessibili. Ciò può causare
un’ostruzione dei capillari più sottili, determinando dei microinfarti periferici.
Sia nel caso dei geni per l’ellissocitosi, sia per l’albinismo o per il sordomutismo, il fenotipo in questione è
determinato dall’azione cooperativa di più loci genici.

POLIMERIA E CARATTERI QUANTITATIVI

La POLIMERIA è quel fenomeno per cui un fenotipo è determinato dall’azione additiva (combinata) di più
loci genici. Può essere considerato un caso particolare di interazione genica.
Il fatto che l’effetto di questi geni sia additivo vuol dire che più sono numerosi i geni che partecipano alla
manifestazione di un certo carattere, più quest’ultimo è evidente o intenso.
I fenotipi caratterizzati da polimeria presentano infatti una serie infinita di manifestazioni. Questi loci sono
coinvolti, per esempio, nel carattere del colore della pelle o nella statura degli individui. I caratteri
polimerici vengono definiti a variabilità continua, non è possibile individuare precisi gruppi fenotipici. Per la
statura si contano oltre 100 loci genici che contribuiscono a determinare il fenotipo. Se uno o alcuni di
questi geni subiscono mutazioni e, quindi, non partecipano alla determinazione del fenotipo, l’individuo
avrà un fenotipo “meno intenso” ma non patologico, ad esempio avrà la pelle più chiara o sarà più basso. I
diversi fenotipi sono determinati dalla quantità di loci genici che partecipano al carattere (es. deposizione
dei pigmenti cutanei).
La mutazione di un gene per un carattere quantitativo avrà un effetto molto meno intenso rispetto alla
mutazione di un gene per un carattere monogenico. Nel caso dei caratteri quantitativi, infatti, un singolo
gene contribuisce solo in minima parte alla determinazione del fenotipo. Proprio per questo l’ambiente
93
agisce notevolmente sulla manifestazione del fenotipo. Caratteri poligenici (ovvero dovuti a polimeria)
combinati con l’ambiente determinano i cosiddetti caratteri multifattoriali, che subiscono sia l’influenza
dell’ambiente sia l’azione dei vari loci genici.
Ad esempio, l’effetto dei geni responsabili del carattere statura è modulato dalla quantità e dalla qualità
dell’alimentazione del singolo individuo, come hanno dimostrato alcuni studi sui gemelli monozigoti. Fino a
circa sessanta anni fa, soprattutto in ambiente rurale, la nascita di una coppia di gemelli costituiva un
rischio per la famiglia, in quanto la contemporanea nascita di due bambini faceva sì che la madre non
potesse più partecipare alla gestione dell’allevamento di animali o dell’agricoltura. Ciò comportava un
abbassamento delle potenzialità di reddito della famiglia. All’epoca le coppie che avevano avuto una coppia
di gemelli davano in adozione uno dei due figli a dei parenti che non erano riusciti ad avere figli o che
avevano condizioni di vita migliori, specialmente in un altro Paese. I due gemelli monozigoti, avendo lo
stesso patrimonio genetico, ma vivendo in ambienti decisamente diversi, finivano per avere addirittura
stature diverse in età adulta. Questo è un chiaro esempio dell’effetto ambientale sulla manifestazione del
carattere statura dell’individuo.
Per questo motivo, i caratteri polimerici vengono definiti CARATTERI QUANTITATIVI. I caratteri quantitativi:
- presentano variabilità continua della manifestazione fenotipica, perciò vengono definiti caratteri
continui
- presentano una somiglianza tra consanguinei, perché essi hanno lo stesso gruppo di geni che
partecipano alla manifestazione di quel carattere
- possono essere rappresentati con una curva gaussiana poiché hanno una distribuzione normale.
I caratteri monogenici Mendeliani possono presentarsi in due sole forme; quindi, la popolazione può essere
divisa in:
- omozigoti recessivi
- omozigoti dominanti
- eterozigoti, generalmente almeno il doppio degli omozigoti presi singolarmente
Se invece analizziamo un carattere determinato da
due loci diversi, la popolazione sarà divisibile, da
punto di vista fenotipico, in 5 gruppi, ciascuno dei
quali sarà numericamente inferiore a quello più
numeroso nel caso del carattere monogenico.
Se analizziamo un carattere a 3 loci differenti, la
popolazione è suddivisibile in molti gruppi, tutti di
ridotta dimensione numerica.
Se aumentano i loci genici che partecipano alla
manifestazione di un certo carattere, si avrà una
situazione in cui i gruppi genotipici sono
numerosissimi, ciascuno dei quali, tuttavia, è poco
popolato da individui. Quindi si ha una distribuzione dei vari genotipi che rispecchia l’andamento di una
curva normale o gaussiana. Ciò accade, ad esempio, per il carattere statura (determinato da oltre 100 loci
genici differenti). Questo carattere infatti è continuo, in quanto non esiste in due forme alternative, ma vi è
una notevole variabilità.
Nei caratteri quantitativi, infatti, si ha una manifestazione a variabilità continua, come accade anche per il
colore della pelle. Per quest’ultimo carattere, maggiore è il numero di alleli dominanti maggiore è la
pigmentazione della pelle. Man mano che si riducono i geni che permettono la pigmentazione, si riduce la
colorazione della pelle, fino ad arrivare ad una pigmentazione estremamente chiara della cute, come
accade negli individui che hanno i capelli rossi. Anche in questa condizione sembra che i loci genici si

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comportino come nel caso della statura: più i loci presentano alleli dominanti più il carattere pigmentazione
è intenso.
Un effetto ambientale cui è associato il carattere colore della pelle è rappresentato dall’esposizione ai raggi
ultravioletti, che favorisce una maggiore pigmentazione, arrivando addirittura a selezionare, nel corso del
tempo, popolazioni situate in territori a diverse distanze dall’equatore e con differenti colorazioni della
cute. Gli individui che vivono in aree geografiche più vicine all’equatore, infatti, subiscono un’esposizione
decisamente maggiore ai raggi ultravioletti rispetto a coloro che vivono in territori vicino ai poli della Terra.
La riduzione dell’esposizione ai raggi solari da parte di un individuo che ad esempio proviene da un’area
geografica vicina all’equatore, può incorrere in danni organici, come ad esempio la quasi totale incapacità
di fissare la vitamina D nelle ossa, in quanto l’iperpigmentazione scherma l’organismo dai pochi raggi
ultravioletti che arrivano ai poli terrestri.
Riassumendo quanto detto precedentemente, i caratteri quantitativi o a variabilità continua sono
estremamente variabili e non sono di tipo dicotomico, ad eccezione di alcuni casi. I consanguinei sono
somiglianti (e non identici, come si potrebbe pensare per un carattere mendeliano) e ciò sottolinea la base
genetica di un determinato carattere.
I caratteri quantitativi hanno una distribuzione nella popolazione di tipo gaussiano, in cui è possibile
distinguere la media e la deviazione standard, e sono associati ad un effetto ambientale rilevante,
evidenziato nei gemelli monozigoti.

CARATTERI SEMIQUANTITATIVI

Tra i caratteri polimerici o quantitativi si trovano dei caratteri che curiosamente si manifestano come in una
condizione mendeliana, cioè dicotomica: si tratta dei cosiddetti CARATTERI SEMIQUANTITATIVI. Questi
ultimi possono o non possono essere manifesti, come i caratteri monogenici; tuttavia, non è possibile
prevedere la discendenza degli individui utilizzando le leggi di Mendel. Questi, infatti, sono legati all’azione
additiva di più loci genici che non agiscono direttamente incrementando l’intensità con cui un dato
carattere si manifesta, ma agiscono aumentando la predisposizione alla manifestazione di un certo
carattere.
Patologie legate a questo tipo di caratteri sono ad esempio:
- la stenosi del piloro
- la labiopalatoschisi
La manifestazione del carattere patologico si
verifica solo quando una larga parte di geni che
agiscono in maniera polimerica per la regolare
manifestazione del carattere non funziona adeguatamente (è inattiva). Di
conseguenza, il numero di geni che contribuiscono al carattere “normale” è
troppo ridotto da permettere la manifestazione di quest’ultimo.

Esiste una sorta di soglia, un “cut-off” tra numero di geni attivi e numero di geni inattivi. Quando il numero
di geni inattivi supera una certa soglia, tra tutti i geni che dovrebbero partecipare al fenotipo normale,
compare la malattia. Quando questi geni sono perlopiù in forma dominante, e quindi attivi, il fenotipo è
normale, quando invece comincia a ridursi la quantità dei geni attivi, aumenta il rischio che il feto, alla
nascita, presenti la patologia.
Quest geni, infatti, agiscono fondamentalmente durante l’embriogenesi e lo sviluppo fetale.
La quantità di geni inattivi nel fato è determinata dall’apporto di geni inattivi trasmessi da entrambi i
genitori (a loro volta predisposti).
Per la stenosi del piloro, la manifestazione della malattia è dicotomica (funzione normale/ipertrofia).

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In sintesi, le caratteristiche dei caratteri semiquantitativi sono:
- fenotipi chiaramente distinguibili e dicotomici ma non legati alle leggi di Mendel
- caratteri parzialmente continui
- caratteri da effetto soglia, dovuti a molteplici fattori di suscettibilità
- influenza di sesso, gravità della malattia o intensità del carattere, consanguineità dei coniugi,
grado di parentela, numero di parenti affetti
Nel grafico viene rappresentata la distribuzione di un
numero di geni che partecipano polimericamente alla
manifestazione di un carattere. Quando il numero di
geni che vengono inattivati per quel determinato
carattere è molto elevato, la probabilità che il
carattere si manifesti è sempre maggiore.
Si può dunque comprendere che queste malattie
presentino una base genetica dal fatto che, se si
confronta una curva di distribuzione per una
determinata malattia nella popolazione generale con
una curva di distribuzione della stessa malattia tra
famiglie in cui è già nato un individuo affetto dalla
patologia in questione, si osserva che la probabilità
che nascano altri individui con la stessa malattia
aumenta notevolmente nei gruppi di persone nelle cui famiglie sono già presenti individui affetti dalla
patologia. Ciò vuol dire che entrambi i genitori di un individuo affetto presentano un numero così elevato di
geni inattivi che, al momento della fecondazione, la probabilità che il numero di geni inattivi sia molto
elevata è maggiore rispetto a quella di due soggetti qualsiasi presi dalla popolazione generale.
Si può osservare anche un effetto del sesso dell’individuo, infatti il rischio di generare individui con una
patologia caratterizzata da un effetto soglia è diverso se, nel gruppo familiare, è già nato un individuo di
sesso maschile o un individuo di sesso femminile affetto. Nel caso della labiopalatoschisi e della stenosi del
piloro, gli individui di sesso maschile malati sono molto più numerosi rispetto a quelli di sesso femminile,
con un rapporto 2:1.
Se si confrontano famiglie in cui è nato un maschio malato con famiglie in cui invece è nata una femmina
malata, la probabilità che nasca un altro individuo malato è maggiore nelle famiglie in cui è nata una
bambina piuttosto che nelle famiglie in cui è nato un bambino. Questo significa che, nella famiglia in cui è
nata una femmina malata, il numero di geni inattivi è
estremamente più alto. Quindi, è possibile concludere
che le donne hanno una maggiore resistenza, ovvero
sono meno predisposte a sviluppare la malattia;
perciò, la loro soglia di geni inattivi è più alta. Se in
una famiglia c’è una femmina malata, vuol dire che il
numero di geni inattivi è molto alto, maggiore del
numero di geni inattivi in una famiglia con un maschio
malato.
Il primo grafico in alto nell’immagine mostra la
distribuzione della predisposizione ad una certa
patologia nella popolazione generale. È possibile
osservare che la soglia di geni inattivi oltre la quale si
manifesta la malattia è diversa per i maschi e per le
femmine: negli individui di sesso femminile è
necessario un numero di geni inattivi maggiore
rispetto agli individui di sesso maschile.

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Nelle altre due distribuzioni, nell’ambito di gruppi familiari, si osserva che i maschi affetti sono più
numerosi rispetto alle femmine affette. Tuttavia, nel momento in cui da una coppia nasce una bambina
malata, il rischio che la coppia abbia altri figli malati è maggiore rispetto a quello delle coppie con un figlio
maschio malato. In altre parole, le coppie che hanno generato un bambino maschio malato, genereranno
un secondo figlio malato con:
- una probabilità 40-50 volte maggiore rispetto alla popolazione generale
- una probabilità 5 volte minore rispetto a coppie che hanno avuto una bambina malata.
Se aumenta il grado di parentela rispetto all’individuo affetto (es. cugino), la probabilità di generare un
figlio malato diminuisce. È il patrimonio condiviso tra probando e parente malato a determinare la
probabilità che il probando manifesti la malattia. Nel caso di gemelli omozigoti, la probabilità è altissima,
poiché i due individui condividono lo stesso patrimonio genetico.

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REGOLAZIONE DELL’ESPRESSIONE GENICA
Sebbene il nostro genoma contenga circa 20.000 geni codificanti per proteine, vengono codificate solo
80/90 mila proteine, poiché i geni possono essere trascritti e processati in modi, tessuti e momenti della
vita differenti.
Ci sono una serie di geni definiti housekeeping che devono essere sempre trascritti e tradotti, in qualunque
cellula ed epoca di vita dell’organismo, altri invece vengono trascritti solo in alcuni tipi cellulari, benché in
ogni cellula somatica vi sia lo stesso corredo cromosomico e quindi la stessa informazione genica. Questo
accade grazie ai meccanismi di regolazione genica; per esempio, l’ormone dell’insulina non viene prodotto
nel cervello, così come la calcitonina non viene trascritta nella retina.

REGOLAZIONE GENICA NEI PROCARIOTI

Nei batteri furono inizialmente scoperti due fenomeni di regolazione della trascrizione, che permettevano
di attivare o inattivare la sintesi di determinate proteine da parte del batterio, a seconda dell’ambiente in
cui esso si trovava:
- l’INDUZIONE
- la COREPRESSIONE
Nel genoma batterico, i geni coinvolti nello stesso processo metabolico sono vicini tra di loro, a formare gli
operoni. Entrambi i meccanismi sono legati ad una via metabolica e sono innescati da una sostanza
esogena:
- nell’induzione, la sostanza esogena attiva una via metabolica per scomporre un composto (ES.
lattosio);
- nella corepressione, la sostanza esogena spegne una via metabolica per arrestare la sintesi di un
composto (ES. triptofano).

L’INDUZIONE
Nel caso dell’INDUZIONE, la trascrizione di uno o più geni viene attivata nel momento in cui la cellula
batterica ha la necessità di produrre proteine a causa di una variazione dell’ambiente.
Fu osservata per la prima volta nel metabolismo del
LATTOSIO, utilizzato dall’E. coli come fonte energetica, ma
normalmente assente nell’ambiente in cui vive il batterio.
Per questo motivo, normalmente gli enzimi necessari a
metabolizzare il lattosio in galattosio e glucosio non
vengono prodotti, per non disperdere energia. Questa
disattivazione genica avviene grazie ad un gene regolatore
inibitorio (posto a monte del promotore) che codifica per
una proteina con grande affinità per il promotore dei geni
che trascrivono per l’enzima lattasi. In assenza di lattosio, il
gene regolatore codifica queste proteine, che si legano
stabilmente al promotore dell’operone del lattosio,
impedendo all’RNA polimerasi di legarsi al promotore e quindi di trascrivere per i geni dell’operone stesso.
In assenza di lattosio, le proteine bloccano la trascrizione dei geni per la metabolizzazione del lattosio.
Quando invece c’è carenza di glucosio e il lattosio è presente in coltura, l’allolattosio penetra nel batterio e
viene riconosciuto da questo. Il lattosio si lega alle proteine inibitorie del promotore e ne modifica la
conformazione; perciò, le proteine perdono l’affinità per il promotore. Quest’ultimo risulta quindi libero e

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può essere riconosciuto dalla RNA polimerasi, che potrà trascrivere un unico mRNA per tre differenti
proteine (β-galattosidasi, permeasi, transacetilasi) necessarie per metabolizzare il lattosio. Quando
quest’ultimo inizia a scarseggiare, alcune proteine tornano libere e la trascrizione dell’operone Lac viene
disattivata.
Questo meccanismo pende il nome di induzione genica perché è il lattosio stesso ad indurre la sintesi degli
enzimi per la sua metabolizzazione.

LA COREPRESSIONE
La COREPRESSIONE rappresenta il meccanismo speculare all’induzione. Interviene nella sintesi del
TRIPTOFANO, un amminoacido raro da cui dipende la sintesi delle proteine, e dunque il batterio è
normalmente costretto a produrlo da sé con dispendio energetico. Se però l’amminoacido diventa
disponibile nell’ambiente, il batterio ne arresta la sintesi per risparmiare energia.
Nel caso della corepressione, a monte del promotore
per il triptofano, c’è anche un gene regolatore che
codifica proteine senza affinità per il promotore. Il
batterio può quindi produrre costantemente
l’amminoacido da solo, utilizzando appunto l’operone
del triptofano. Se, invece, il triptofano viene aggiunto in
coltura, si lega alle proteine regolatrici facendo
acquisire loro affinità per il promotore del triptofano. Il
legame tra le proteine regolatrici e il promotore
impedisce all’RNA polimerasi di trascrivere i geni
dell’operone e, quindi, si ha l’arresto della sintesi degli
enzimi per la sintesi del triptofano.
Quando tutto il triptofano disponibile viene consumato, le proteine regolatrici a cui si legava tornano libere,
perdono l’affinità per il promotore, riprende la trascrizione dell’operone e il batterio ricomincia a
sintetizzare triptofano.
Utilizzando questo sistema di controllo, il batterio modula la sintesi di triptofano attraverso un meccanismo
a feedback negativo.

REGOLAZIONE GENICA NEGLI EUCARIOTI

Nelle CELLULE EUCARIOTICHE, dove ci sono miliardi di cellule da controllare, i meccanismi sono molto più
complessi e le regolazioni dipendono da tanti fattori (età individuo, momento della vita dell’individuo,
presenza di periodi come la gravidanza, assunzione di sostanze che possono agire sul genoma alterando la
normale attività metabolica). La cellula deve poter scegliere in qualsiasi distretto se attivare o meno un
certo gene. Ci sono vari livelli id regolazione, cioè:
- REGOLAZIONE TRASCRIZIONALE
• strutture geniche, livello che riguarda il singolo gene in questione
• strutture genomiche, livello che riguarda una regione genomica dove si trovano uno o più
geni da regolare.
- REGOLAZIONE POST-TRASCRIZIONALE, per cui l’mRNA o la proteina neosintetizzata vengono
modificati in modo da aumentare o diminuire la loro funzione

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REGOLAZIONE TRASCRIZIONALE

STRUTTURE GENICHE

Per quanto riguarda le STRUTTURE GENICHE, si fa riferimento alle:


- sequenze promoter
- sequenze enhancer
- elementi cis

La sequenza del PROMOTER comprende:


- la TATA box, a -25 dal primo esone del gene
da trascrivere, che promuove e quindi
accelera la trascrizione nel gene; inoltre è
capace di inibire la trascrizione se mutata o
mancante.
- le CAAT box, a -80 dal primo esone del gene
da trascrivere, che determinano un
aumento della velocità di trascrizione.
- le isole CpG, a -100 dal primo esone del gene da trascrivere. Queste sequenze sono meno
abbondanti della TATA box, infatti si trovano nel 75% dei geni eucariotici. Modulano la trascrizione,
infatti possono favorirla quando le citosine all’interno della sequenza sono standard, oppure
possono inibirla quando vengono metilate, comportandosi quindi come repressori.
Ancora più a monte del promoter troviamo le SEQUENZE ENHANCER, che svolgono un ruolo potenziatore,
favorendo la trascrizione e accelerando la
velocità con cui l’RNA polimerasi e i fattori di
trascrizione identificano il promotore. Sono
sequenze di DNA bersaglio di proteine di
regolazione, infatti vengono raggiunte da una
proteina affine ad uno dei fattori di trascrizione.
Quando il filamento di DNA si ripiega, la proteina
legata all’enhancer si avvicina alla regione del
promotore (centinaia di nucleotidi più a valle)
dove sono inseriti altri fattori di trascrizione;
allora si forma una struttura complessa ad ansa,
che costruisce un sito di legame molto stabile
con l’RNA polimerasi. L’enhancer rende quindi
più semplice il riconoscimento del gene che deve
essere trascritto dall’RNA polimerasi, promuovendo la trascrizione.

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Nelle figure autoradiografiche in basso è osservabile a sx il polimero proteico già legato in corrispondenza
dell’enhancer, mentre a dx le due proteine già assemblate tra loro, pronte ad attivare la trascrizione da
parte dell’RNA polimerasi, è infatti ben visibile la formazione dell’ansa.
Gli ELEMENTI CIS si trovano a monte del gene, ma a distanze rilevanti (fino a migliaia di nucleotidi), e
possono promuovere o rallentare la trascrizione del gene. La loro azione è mediata da una serie di proteine
che si vanno a legare con determinate regioni o strutture
del DNA.
Una di queste proteine è quella che, ripiegando su se stessa,
produce strutture che somigliano al polpastrello di un dito e
che vengono quindi chiamate a dita di zinco. Si tratta di una
struttura che si sviluppa a partire da un filamento peptidico
che si ripiega in modo originale su sé stesso, per effetto di
uno ione zinco che si lega ad una coppia di lisine e cisteine
in posizione strategica. Tale ripiegamento fa sì che questo
tratto di proteina acquisisca una particolare struttura che
porta alla formazione di dimeri, composti da due peptidi tra
loro identici. Queste strutture a dita di zinco favoriscono
l’interazione tra le due catene proteiche del dimero con il solco maggiore del filamento di DNA.
Dunque, due proteine con questa struttura tridimensionale a dita di zinco si associano e acquisiscono
affinità per una molecola di DNA; infatti, una volta formato il dimero, riescono a sistemarsi all’interno del
solco maggiore del DNA, rendendo quel tratto più stabile e di conseguenza meno facilmente trascrivibile,
poiché diventa più difficile separare le due emieliche: si tratta quindi di un meccanismo di repressione.
Questi elementi agiscono in CIS poiché sono situati sullo stesso filamento di DNA che contiene il gene che
verrà trascritto.
Altri elementi addizionali per il controllo della trascrizione sono le zip di leucina. Queste sono dimeri
proteici (dello stesso tipo o di tipi differenti) caratterizzati dalla presenza in superfice di numerose leucine
sporgenti, che conferiscono alla superficie della proteina un comportamento idrofobico. Quando due
peptidi presentano questa particolare superficie sullo stesso lato, si possono associare, grazie al fatto che
queste leucine si incastrano tra di loro come i dentini di una chiusura lampo. Questa struttura prende
rapporto con un tratto di DNA e le due estremità delle proteine tenute insieme dalla cerniera di leucina si
vanno a posizionare come i rebbi di una forchetta sul DNA. Anche in questo caso il bersaglio è il solco
maggiore, e le due emieliche diventano quindi inapribili per l’avvio della trascrizione.
Ci sono anche altre strutture dovute a ripiegamenti di proteine, come ad esempio:
- il ripiegamento Helix-Turn-Helix (elica-giro-elica): è un
parziale ripiegamento del filamento proteico che
prede posizione nel solco maggiore del DNA,
stabilizzandolo,
- struttura Helix-Loop-Helix (elica-ansa-elica): controlla
l’apertura della doppia elica in modo meno incisivo
dell’altra struttura, ma comunque fa sì che tutta la
proteina si adagi lungo un tratto di DNA. Siccome il
rapporto con la molecola di DNA è meno stretto, la
trascrizione è meno ridotta.
Alcuni farmaci interferiscono con l’azione di queste proteine
o le mimano.

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In figura è rappresentato un altro meccanismo di regolazione della
trascrizione, tipico degli ormoni steroidei. La molecola ormonale
identifica sulla membrana cellulare un recettore e vi si aggancia. Il
recettore cambia conformazione e penetra nel citoplasma, trascinando
con sé l’ormone steroideo. Questo complesso è capace di superare la
membrana nucleare e, una volta entrato nel nucleo, il cambiamento
conformazionale dettato dal legame ormone-recettore, fa sì che il
complesso sia specifico per un elemento CIS lungo il DNA.
Si tratta di un complesso dalla grande rilevanza, poiché gli ormoni
steroidei, a differenza della gran parte delle altre molecole, sono in
grado di controllare direttamente la trascrizione genica attivandola o
disattivandola. Il complesso ormone-recettore, infatti, arriva
direttamente sulla molecola di DNA, mentre le altre molecole esterne
alla cellula agiscono sul recettore generando reazioni a cascata. È quindi
intuibile quanto sia più rapida e potente l’azione degli ormoni.

STRUTTURE G ENOMICHE

Ci sono inoltre STRUTTURE GENOMICHE che regolano la trascrizione, queste fanno riferimento a 3 processi:
- l’impacchettamento differenziale del filamento del DNA in zone con cromatina maggiormente o
meno condensata,
- la metilazione degli istoni
- l’organizzazione in loops della cromatina stessa.
L’IMPACCHETTAMENTO DIFFERENZIALE del DNA effettua una distinzione tra:
- regioni del DNA dove ci sono geni attivati solo in certi tessuti/momenti
- regioni del DNA dove ci sono geni housekeeping sempre attivi
Queste regioni genomiche vengono attivate grazie ad una modulazione del legame tra DNA e istoni,
realizzata con modifiche chimiche a carico degli istoni che modificano l’affinità tra questi e il DNA:
- l’acetilazione e la demetilazione degli istoni favoriscono l’allontanamento del DNA dagli istoni e
permettono la trascrizione di quel tratto;
- la metilazione e l’ipoacetilazione degli istoni hanno l’effetto contrario, determinando una maggiore
condensazione della cromatina e riducendo la probabilità che quel segmento di DNA venga
trascritto.
La METILAZIONE è un meccanismo più generale di regolazione a distanza. Interviene non solo sul DNA ma
anche sulle proteine, influenzando il ripiegamento di nucleosomi adiacenti. inibisce. L’aggiunta di gruppi
metile, quindi, favorisce l’addensamento della cromatina (ha un ruolo nella formazione
dell’eterocromatina), poiché i nucleosomi si ripiegano gli uni sugli altri, nascondendo i tratti di DNA
trascrivibili. I gruppi metile collaborano con la proteina HP1 e la loro presenza o assenza determina lo stato
di condensazione della cromatina.

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La CONFORMAZIONE IN LOOPS è responsabile della caratteristica condensazione cromatinica che
ritroviamo nei cromosomi in metafase. Quando si deve addensare, il filamento di cromatina si dispone in
anse (loops) o dominii d’ansa, tutti ancorati ad una proteina non istonica, la proteina dello Scaffold (non
istonica).
I domini ad ansa influenzano la trascrivibilità dei geni in essi contenuti. Più i geni saranno vicini alla proteina
dello Scaffold, più difficilmente potranno essere letti. È più probabile che vengono trascritti i geni che si
trovano lungo l’ansa, mentre quelli alla base delle proteine Scaffold (in prossimità dei punti d’ancoraggio
delle proteine e del filamento) vengono trascritti molto meno.

REGOLAZIONE POST TRASCRIZIONALE

La regolazione post-trascrizionale è costituita da processi e modifiche che l’mRNA subisce da quando è


sintetizzato a quando è tradotto in proteina.

SPLICING E PROMOTORI DIFFERENZIALI


Per quanto riguarda la regolazione post trascrizionale, c’è la possibilità di regolare l’espressione utilizzando
promotori o siti di splicing alternativo.

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Analizziamo il meccanismo dei
PROMOTORI ALTERNATIVI.
Nell’immagine possiamo vedere la
struttura di esoni e introni del gene
per la distrofina (il più grande gene ad
oggi noto). Questo viene espresso in
molti tessuti come ad esempio: nel
tessuto muscolare, nel rene, nel
cervello, nella milza, nell’intestino
tenue, nella colecisti.
Questo gene viene trascritto in
un’ampia varietà di tessuti,
apparentemente distanti, perché
contiene una quantità elevata di promotori differenti:
- Il promotore che utilizza questo gene nel rene si trova al centro della sequenza di DNA (dove si trova
questo gene);
- Il promotore che utilizza questo gene nel muscolo, si trova all’inizio della sequenza di DNA;
- Il promotore che utilizza questo gene nel polmone, si trova ancora più a monte;
- Il promotore che utilizza questo gene nella colecisti, si trova quasi al termine della sequenza.
Questo significa che è trascritta solo la porzione del gene dopo il promotore. Nel caso della colecisti, la
parte trascritta sarà dal promotore fino alla fine della sequenza, dunque all’incirca dal sessantacinquesimo
esone al settantanovesimo esone.
Questo fenomeno prende il nome di: promotori alternativi di uno stesso gene. Ciò spiega per quale
motivo, a fronte dei 21.000 geni del nostro genoma, sono recuperabili nel citoplasma e nei liquidi corporei,
all’incirca centomila proteine differenti. In pratica, con l’utilizzo di promotori alternativi è possibile produrre
un numero maggiore di proteine rispetto a quello che ci si aspetterebbe prendendo in considerazione solo
il numero di geni. Difatti, ciascun gene può essere trascritto in varie forme alternative grazie all’utilizzo di
questi promotori alternativi.
Esistono poi sistemi di SPLICING ALTERNATIVI.

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Prendiamo in considerazione un gene che contiene sequenze esoniche e sequenze introniche. A seconda
del tessuto, solo alcuni esoni saranno utilizzati per la sintesi dell’mRNA maturo. In altri tessuti saranno
utilizzati esoni differenti dello stesso gene dando origine a proteine con sequenza amminoacidica
differente, sebbene tradotte a partire da questo stesso gene.
Nell’immagine vediamo il gene della calcitonina, che contiene 5 esoni. Il quinto esone è presente in due
forme alternative:
- Nella tiroide, il gene viene trascritto in pre-mRNA, che subisce il capping (l’aggiunta di un GTP
metilato che si lega al 5’ dell’mRNA ed espone il 3’ del proprio ribosio, cosicché le ribonucleasi 5’-
dipendenti presenti nel citoplasma non attacchino l’acido nucleico) e la poliadenilazione in 3’ (lunga
catena di adenine che favorisce lo spostamento del trascritto dal nucleo al citoplasma). A questo
punto, il pre-mRNA deve subire lo splicing, ovvero l’eliminazione degli introni, ma si può notare che
già in questa fase il quinto esone non è stato trascritto. L’mRNA, quindi, viene maturato ed è pronto
per essere tradotto in un polipeptide precursore. Se andassimo a controllare la corrispondenza tra
gli amminoacidi del polipeptide precursore e i nucleotidi dell’mRNA cui è stato tradotto,
scopriremmo che manca completamente la sequenza di amminoacidi corrispondente all’esone 1.
Ciò significa che è avvenuta un’ulteriore modifica.
Come spesso accade per le proteine, dei processi post-traduzionali di regolazione trasformano il
precursore nella proteina attiva, che corrisponde all’ormone calcitonina. La calcitonina avrà però
una sequenza amminoacidica che deriverà esclusivamente dalla sequenza del quarto esone del
gene iniziale.
- Il gene calcitonina viene utilizzato anche dal tessuto nervoso. Qui, infatti, il gene viene trascritto in
un pre-mRNA che contiene le sequenze corrispondenti a tutti e 5 gli esoni.
Quando esso viene maturato, per un processo di splicing alternativo, il quarto esone viene eliminato
dalla sequenza dell’mRNA (viene eliminato l’esone che codifica per la calcitonina).
Il polipeptide precursore avrà una sequenza amminoacidica che corrisponderà solo a 3 esoni: il
secondo esone, il terzo esone, il quinto esone. Questo significa che il primo esone non ha codificato
per nessuna sequenza polipeptidica. Da questo precursore, dopo delle modifiche che comprendono
l’eliminazione del secondo e del terzo esone, si ottiene la proteina attiva: la proteina CGRP.
Quest’ultima ha una funzione nella trasmissione dei segnali tra i neuroni e corrisponde solo al
quinto esone.
A seconda di come viene maturato l’mrna in un tessuto o in un altro, lo stesso gene è utilizzato anche con
finalità diverse. L’ormone che noi conosciamo come calcitonina ha una sequenza amminoacidica che è
totalmente assente dalla proteina CGRP, che si trova nel tessuto nervoso e che è stata generata proprio a
partire dallo stesso gene per la calcitonina. Questi processi sono ricorrenti in numerosissimi geni. Con
questo processo e quello dei promotori alternativi, il numero di proteine che si possono generare dallo
stesso gene cresce. Più è esteso il gene a livello cromosomico, maggiori saranno le possibilità che questo
venga letto in maniera diversa in tessuti differenti tra di loro.

L’EDITING DELL’MRNA
L’EDITING DELL’MRNA è altro fenomeno di regolazione post trascrizionale, che è stato scoperto pochi anni
fa e che ha ulteriormente smentito il dogma centrale della biologia. Si è scoperto, infatti, che dopo la
maturazione di un mRNA (ottenuto per trascrizione di un gene che si riteneva fosse nella sequenza
definitiva), poteva avvenire un altro processo: la sostituzione di un nucleotide con un altro o
l’aggiunta/eliminazione di un nucleotide. Inizialmente questi processi erano stati verificati solo nei lieviti,
ma si è riscontrato che questi accadono anche nei batteri e nelle cellule eucariotiche degli organismi più
complessi come l’uomo.

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In questa immagine possiamo vedere un esempio di un
mRNA maturo che si lega con un’altra molecola di RNA,
detto RNA guida. Questa presenta una serie di nucleotidi
complementari a quelli dell’mRNA, tranne uno:
l’adenina, che non ha una base complementare lungo la
sequenza dell’mRNA; infatti, in quella posizione c’è una
guanina. La base corrispondente che si trova sull’mRNA
(guanina), fa parte proprio del nucleotide che deve
essere corretto.
Si attiva un meccanismo per cui nell’mRNA maturo viene introdotto un nucleotide complementare a quello
apparentemente spurio presente sull’RNA guida, chiamato così perché guida la modifica sull’mRNA.
Esistono poi degli enzimi correttori che identificano la sequenza di mRNA specifica per un solo gene.
A livello di quella sequenza di mRNA, l’enzima scinde la catena di RNA e favorisce l’inserimento di un altro
nucleotide o la modifica biochimica di uno già presente. Queste proteine correttrici hanno
una forma tridimensionale che si adatta alla
molecola ad elica dell’RNA e aderisce ad essa
solo se quell’RNA presenta la sequenza tipica
per quel gene.
Questo fenomeno prende il nome di EDITING
DELL’MRNA. L’esempio riportato in figura
riguarda l’editing del gene che traduce
l’alipoproteina-B, correlata al metabolismo
degli acidi grassi. Quest'ultima è ottenuta a
seguito della trascrizione del gene
corrispondente e della modifica determinata
dall’enzima correttore.

Nell’immagine sopra vediamo un altro esempio di questo processo. Prendiamo in considerazione il gene
della Apoliproteina-B, che può subire una modifica dell’mRNA.
- Nel fegato, l’mRNA prodotto da questo gene presenta una lunghezza corrispondente al gene stesso
e viene tradotto nella proteina attesa in base alla struttura del gene;
- Nell’intestino viene utilizzato questo stesso gene ma qui, a differenza del fegato, a circa metà della
sequenza dell’mRNA, avviene una modifica: l’enzima citidina deaminasi trasforma una citosina della
tripletta CAA in uracile UAA. Quest’enzima riesce a identificare l’esatta posizione sulla molecola di
mRNA grazie al riconoscimento della sequenza nucleotidica su ambedue i lati della sequenza da
correggere. La specificità viene garantita poiché questa sequenza di riconoscimento di 21 bp non è
presente altrove sull’mRNA per l’Apoliproteina-B.
Questa sequenza sembra essere assente in altri mRNA umani, cosicchè la deaminasi non corregga,
per errore, la sequenza di mRNA sbagliata.

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La tripletta a cui apparteneva la citosina codificava CAA, mentre ora diventa una tripletta di stop
UAA a seguito della modifica. Quando l’mRNA della lunghezza attesa in base al gene finisce nei
ribosomi delle cellule epiteliali dell’intestino, verrà letto fino a quella tripletta di stop, perdendo
completamente il messaggio presente dopo quella tripletta. Quindi si produce una proteina che è la
metà di quella prodotta nel fegato.
Ci sono vari processi, come questo, che permettono di produrre varie proteine a partire da uno stesso
gene:
- si possono utilizzare promotori differenti dislocati anche dentro il gene tra un esone e l’altro,
- si possono produrre proteine differenti a partire dallo stesso gene, facendo un utilizzo differente
delle sequenze esoniche da tessuto a tessuto,
- si può produrre lo stesso effetto modificando l’mRNA maturo in un tessuto piuttosto che in un altro,
cambiando un nucleotide al suo interno.
In sintesi, a partire dalla stessa sequenza genica, noi otteniamo proteine diverse a seconda del tessuto di
cui questi geni vengono utilizzati.

CRISPR/CAS9
Il meccanismo dell’editing dell’mRNA è stato scoperto studiando i batteri. Infatti, questi utilizzano l’editing
del genoma come meccanismo di difesa dai batteriofagi e da alcuni plasmidi “aggressivi”. Quando vengono
infettati, i batteri attaccano il genoma dell’agente infettante e lo “spezzettano”, ottenendo dei tratti
discontinui. Questi tratti vengono condotti nel genoma del batterio, precisamente in regioni contenenti
sequenze ripetute, in modo tale che la cellula batterica abbia una sorta di “archivio” delle caratteristiche
genomiche appartenenti ai suoi agenti infettanti. Così facendo, la prossima volta che subirà un attacco, avrà
un sistema di difesa più efficiente.
Il sistema utilizzato dai batteri per difendersi dagli agenti infettanti è chiamato CRISPR, e si basa sul
riconoscimento di un DNA estraneo (che verrà agganciato e degradato) rispetto a quello batterico. I
protagonisti di questo processo sono un filamento di RNA e un enzima, di solito Cas9, che vi si associa.
L’RNA è costituito da una porzione a doppia e una a singola elica, entrambe associate all’enzima. Il
complesso RNA-enzima viaggia all’interno del protoplasma, fino a che non riconosce una sequenza di
genoma appartenente ad un DNA estraneo. Questa sequenza viene riconosciuta poiché è complementare
ad una sequenza contenuta nella porzione di RNA a singola elica (RNA guida): questa porzione di RNA a
singola elica è stata sintetizzata proprio partendo da quei tratti di genoma che il batterio aveva “rubato”
dall’invasore. Una volta che l’RNA guida ha riconosciuto la sequenza di DNA estraneo a lui complementare,
la porzione a oppia elica del filamento, cioè quella restante piegata ad ansa, fa sì che il complesso sequenza
RNA guida-DNA estraneo sia riconosciuto da un enzima. Questo ha capacità endonucleasiche, ovvero può
agire su entrambe le emieliche, rompendo i legami fosfodiesterici tra i nucleotidi e degradando la sequenza
di DNA estraneo complementare all’RNA guida.
Si ha, quindi, un DNA estraneo ora incapace di svolgere la sua funzione perché mancante di una porzione,
degradata da Cas9. A questo punto si possono seguire due strade:
- nel caso dei batteri, il DNA sarà lasciato disattivato (perché apparteneva ad un organismo infettante
e nocivo),
- il DNA viene tagliuzzato e corretto, aggiungendo dei nucleotidi diversi da quelli appartenuti alla
sequenza degradata. Questo è il caso in cui, in medicina, si deve intervenire su un acido nucleico
manipolandolo a livello nucleotidico.
Proprio con questa idea dell’mRNA editing, nove anni fa due gruppi, contemporaneamente, hanno messo a
punto una nuova tecnologia: si tratta del DNA editing o processo mediato dalle molecole CRISPR. Oggi con
questa tecnologia è possibile modificare non solo un tratto di RNA, come avviene regolarmente nei batteri,
ma anche un tratto di DNA di una cellula:

107
- cambiando un solo nucleotide,
- tagliando la molecola di DNA in una certa posizione lungo un gene,
- sostituendo un tratto di
catena di DNA all’interno di
un gene con un’altra.
In pratica si può ricostruire, o meglio
correggere, un gene con una
sequenza mutata. Grazie a questa
tecnica genomica, se una cellula ha
una mutazione dannosa in un gene,
è possibile identificare solo quel
tratto di DNA dove c’è la mutazione
e, grazie ad un enzima associato a
CRISPR (nella maggior parte dei casi
Cas9) e un RNA guida, è possibile
sostituire il tratto di DNA
contenente l’errore con un'altra
sequenza.
L’RNA guida ha il compito di indicare alla cellula il punto in cui deve modificare l’RNA messaggero e può
essere fabbricato in laboratorio, utilizzando le conoscenze sulla posizione nel genoma del tratto di DNA
dove c’è la mutazione.
Questa scoperta risultò fondamentale per manipolare il DNA nella terapia genica, dato che fino ad allora
non c’era stata la possibilità di manipolare agevolmente a basso costo e con rischi ridotti il genoma di un
organismo. Questo meccanismo è stato infatti usato per correggere geni responsabili della talassemia o
dell’anemia falciforme (mutazione del gene per la beta globina). Inoltre, si può introdurre una tripletta di
STOP subito prima di una sequenza patologica, oppure si può eliminare e sostituire la sequenza patologica
stessa.
Il meccanismo che sta alla base della correzione di una mutazione utilizzando il sistema CRISPR funziona
utilizzando diversi elementi:
- un DNA bersaglio,
- dei nucleotidi trifosfati liberi
- un RNA guida, la cui sequenza è stabilita da noi in base al tratto di sequenza di un gene che vogliamo
andare a modificare.
- una struttura a RNA avente alcuni tratti complementari al DNA bersaglio, per cui si forma una
molecola di DNA parzialmente a doppia elica, fondamentale per il funzionamento di tutto il
processo.
- L’enzima Cas9 specifico per gli acidi nucleici.
L’RNA guida, legato con una struttura a cappio, trova il tratto a lui complementare lungo il DNA e vi si lega.
Il DNA bersaglio, grazie al cappio dell’RNA guida, attiva l’enzima Cas9 che, in corrispondenza della posizione
dell’RNA guida, taglia le due emieliche del DNA bersaglio.
Si ottiene così una separazione in due del tratto di DNA, che può essere lasciato così, impedendo al gene
mutato di funzionare (in maniera anomala), oppure possiamo approfittare di questo taglio per inserire il
deossiribonucleotide giusto nella catena di DNA.

108
A partire dal 2013, sono stati portati a termine una serie di esperimenti per cercare di rendere il processo il
più preciso possibile in numerose applicazioni: ad esempio è stato applicato questo processo per
correggere una mutazione per il gene della ẞ-globina. Uno di questi esperimenti ha portato alla modifica di
un gene all’interno dei due ovociti per ottenere due zigoti (in teoria) resistenti all’HIV: dopo una
fecondazione in vitro, essi sono stati fatti crescere, diventando prima morule e poi blastocisti, infine sono
stati trasferiti nell’utero di una donna. Questi bambini sono anche nati (tutto questo è un processo illegale
che ha portato all’arresto degli inventori). Ad oggi, non esiste la possibilità di applicare direttamente
all’uomo questa tecnologia, dato che ogni tecnologia che deve essere applicata all’uomo deve essere
valutata, per evitare che l’utilizzo possa danneggiare l’individuo. Questi due bambini, nati per effetto di
questa tecnica genomica, potrebbero avere dei danni in qualche altra parte del genoma, dato che è difficile
comprendere le conseguenze a livello generale dell’organismo quando si modifica un gene.
La tecnologia CRISPR può essere usata:
- per manipolare o spegnere un gene
109
- a scopo diagnostico.

ALTRI PROCESSI DI REGOLAZIONE


Ci sono poi altri livelli di regolazione che intervengono ancora più successivamente. Uno di questi è la
velocità con cui l’RNA messaggero viene degradato nel citoplasma: meno dura l’RNA messaggero nel
citoplasma, minore sarà la quantità di proteina che verrà tradotta da esso. Alcune mutazioni fanno sì che
l’RNA messaggero sia più duraturo e meno attaccabile dagli enzimi RNAsici presenti nel citoplasma.
Altri processi invece intervengono dopo la traduzione Quando il gene porta alla sintesi di una pre-proteina
o una proteina inattiva, questa subisce il clivaggio, che la taglia o modifica nella sua struttura.
Ad esempio, l’insulina viene prodotta come pre-insulina che, nelle cellule, viene modificata in due peptidi
più piccoli, i quali producono insieme l’effetto del metabolismo del glucosio.

L’IMPRINTING
L’IMPRINTING è correlato con l’epigenetica, è cioè un meccanismo generale di regolazione dell’espressione
che non dipende dalla sequenza nucleotidica all’interno di un esone, ma che agisce al di sopra dei geni, per
questo appartiene all’“epi”genetica. L’imprinting agisce attraverso:
- modifiche chimiche del DNA, prevalentemente la metilazione delle citosine;
- modifica biochimica degli aminoacidi degli istoni;
- produzione di istoni tessuto-specifici o cellulo-specifici, alternativi a quelli che già conosciamo
(esistono istoni speciali che si trovano solo sugli spermatozoi o solo sul cromosoma X inattivo,
parenti delle classiche 4 molecole istoniche che compongono il nucleosoma).
Siamo soliti pensare che le due coppie all’alleliche che noi abbiamo per un gene vengono trascritte e
tradotte nella stessa maniera e con la stessa velocità: in realtà ciò non è vero nel 30% dei geni codificanti le
proteine. Ci sono infatti tantissimi livelli nella regolazione dell’espressione genica.
Può accadere che un gene per un carattere autosomico dominante viene trascritto, e dunque si
manifesta, solo se deriva dal cromosoma ereditato da un genitore piuttosto che dall’altro: questo effetto
parentale è detto proprio IMPRINTING, per cui le due copie del gene funzioneranno in base al tipo di
"marcatura" paterna o materna che esse hanno.
Il modello più studiato di imprinting è quello a carico del DNA prodotto dalla metilazione di sequenze ricche
di citosina e guanina. Queste regioni, dette anche isole CPG, sono tipicamente localizzate a monte del
promotore del gene e sono metilate dalle DNA metiltransferasi. La metilazione può riguardare anche la
cromatina, perché si può realizzare a carico degli amminoacidi terminali.
Uno dei primi esempi in cui è stato studiato l’effetto dell’imprinting sono due malattie:
- sindrome di Prader-Willi
- sindrome di Angelman
Queste due malattie completamente diverse sono collegate entrambe con il fenomeno dell’imprinting
poiché derivano da un’alterazione dello stesso tratto di cromosoma.
Sono due patologie derivanti dalla modificazione dell’espressione della stessa regione, presente sul
cromosoma 15, in prossimità del centromero. Il meccanismo con cui vengono indotte queste malattie, la
maggior parte delle volte, è la delezione, ovvero l’eliminazione, di circa 4 milioni di nucleotidi nella regione
precedentemente citata. Ma se il meccanismo di induzione è lo stesso, perché si hanno due malattie
diverse? Per conoscere la risposta bisogna prendere in considerazione l’origine del cromosoma che
conteneva la zona deleta: se il cromosoma 15 alterato è di origine paterna, allora si avrà la sindrome di
Prader-Willi; se, invece, sarà di origine materna, avremo la sindrome di Angelman.

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La SINDROME DI PRADER-WILLI, che interviene 1 ogni 15 000 nati, è dovuta in larga parte ad una delezione
di 4 milioni di nucleotidi sul cromosoma 15 di origine paterna. Questa condizione è caratterizzata da
bulimia, ipogonadismo e ritardo mentale. La delezione è conseguenza di una presenza di dupliconi
(sequenze duplicate) sul cromosoma 15, le quali sono anche alle base della generazione di cromosomi
sovrannumerari.
La SINDROME DI ANGELMAN interessa la stessa regione cromosomica, deriva sempre da una delezione
ma, questa volta, sul cromosoma 15 di origine materna. Il segmento deleto è sempre quello coinvolto in
una regione ricca di dupliconi. Le regioni duplicate possono generare delezioni o duplicazioni poiché,
durante la meiosi 1, nel pachitene sbagliano ad appaiarsi. Ci sono infatti più segmenti cromosomici che
hanno quasi la stessa identica sequenza di DNA e, quindi, i meccanismi di corretto appaiamento tra i due
cromosomi dicromatidici della tetrade possono subire degli errori.
Questa condizione è caratterizzata da ritardo mentale più grave della sindrome di Prader-Willi, difficoltà di
linguaggio e un comportamento gioviale caratteristico.
La stessa regione deleta produce due malattie diverse perché è diverso il tipo di trascrizione dei geni se
questi hanno origine materna o paterna.

Nell’immagine, i geni in azzurro sono i geni attivi solo sul cromosoma 15 paterno, mentre su quello materno
sono inattivi, spenti, come se non ci fossero. Viceversa, i geni in rosso sono attivi solo sul cromosoma 15
materno, mentre su quello paterno sono inattivati. Di conseguenza, in base al cromosoma 15 deleto, si

111
svilupperanno due malattie diverse. Se abbiamo, ad esempio, un cromosoma materno in cui avviene la
delezione dei geni attivi solo sul cromosoma paterno, non abbiamo alcun effetto dannoso. La malattia si
manifesta solo se vengono eliminati i segmenti dei geni attivi.

La sindrome di Prader-Willi può avere diverse origini:


- la condizione più frequente alla base della sindrome di Prader-Willi è la
delezione di un segmento cromosomico sul cromosoma 15 di origine
paterna.

- La malattia può manifestarsi in seguito ad una disomia uniparentale del


cromosoma 15. Durante una delle due divisioni meiotiche, è possibile che
un errore porti alla formazione di un gamete contenente due copie dello stesso cromosoma, invece
di una. Nel caso in cui questo errore avvenga durante la meiosi femminile e nel caso in cui riguardi il
cromosoma 15, lo zigote conterrà due copie del cromosoma materno e una copia di quello paterno;
quindi, si avrà una condizione di trisomia del cromosoma 15. A questo punto lo zigote può
prendere più vie: se continuerà a duplicarsi in condizioni trisomiche, la compatibilità con la vita
non sarà più possibile e si andrà incontro ad un aborto spontaneo; è possibile, però, che
avvenga anche un fenomeno di trisomy rescue, ovvero la cellula prova a correggere la
condizione trisomica, cercando di eliminare uno dei tre cromosomi. Se la cellula è fortunata, ad
essere eliminato sarà uno dei due cromosomi materni, ristabilendo una condizione fisiologica;
se, invece, viene eliminato l’unico cromosoma paterno, si avrà una coppia di cromosomi
materni. I due cromosomi, essendo entrambi di origine materna, non presentano la regione
critica di origine paterna coinvolta nell’imprinting, quindi si manifesta la sindrome. Questa
condizione si chiama disomia uniparentale e consiste nella presenza di due cromosomi dello
stesso tipo ma di comune origine parentale.

- Può accadere che i due cromosomi 15 sono presenti, apparentemente sono normali
ma, per uno scambio tra i cromatidi dei due cromosomi omologhi, il segmento
critico per Prader-Willi è di origine materna anche se si trova all’interno di un
cromosoma prevalentemente di origine paterna.
Nello schema accanto si può osservare come si può
generare la situazione della disomia uniparentale.
L’embrione presenta tre cromosomi 15 (trisomia), due per il gene
materno e uno paterno, questo perché l’ovocita conteneva due
cromosomi 15, a causa di un errore durante la meiosi. Una volta che
l’ovocita è stato fecondato da uno spermatozoo, questo avrà
contribuito con il proprio cromosoma 15 e, allora, si potrà andare
incontro a tre situazioni:
- un aborto spontaneo nel primo trimestre di gravidanza, se questa
trisomia per il cromosoma 15 permane nell’embrione;
- possono intervenire meccanismi di rescue, cioè meccanismi che cercano di salvare l’individuo
dall’aborto spontaneo. Questi meccanismi però non sono capaci di selezionare quale, tra i tre
cromosomi 15, è quello da eliminare, perciò:
• se il sistema individua correttamente il cromosoma di origine materna, si ristabilisce un
corredo con 46 cromosomi e una coppia di cromosomi 15 (uno paterno e uno materno).
• se, nel tentativo di recuperare la situazione, viene eliminato il cromosoma 15 di origine
paterna, l’embrione presenta due cromosomi 15, entrambi di origine materna. L’embrione
arriverà alla nascita, ma il bambino avrà la sindrome di Prader- Willi.

112
LA METILAZIONE
Un altro livello di regolazione che interviene nell’imprinting è quello legato agli istoni; quindi, alla cromatina
di cui sono costituiti i cromosomi. Si può verificare una modificazione degli amminoacidi istonici che può
modificare la capacità del DNA compreso nel cromosoma di essere o meno trascritto. Questa modificazione
avviene attraverso una METILAZIONE.
La metilazione della cromatina più frequente è quella legato all’inattivazione di circa l’85% dei geni del
cromosoma X degli individui in cui ci sono almeno due copie di questo cromosoma. Questo significa che la
metilazione interviene in tutti i soggetti con un cariotipo con due cromosomi X (ma anche in alcune
condizioni aggiuntive).
L’inattivazione del cromosoma X negli individui di sesso femminile avviene nelle prime fasi di sviluppo
dell’embrione, a livello della blastocisti. Ad un certo punto, i due cromosomi X del corredo subiscono un
differente processo di inattivazione: casualmente, il 50% delle cellule inattiva il cromosoma X di origine
paterna e l’inattivazione verrà trasmessa a tutte le cellule che deriveranno da queste. Il restante 50% delle
cellule dell’embrione inattiverà il cromosoma X di origine materna e tutte le cellule che deriveranno da
queste avranno cromosoma X materno inattivato.
Il gatto detto di tipo calico o arlecchino è
una manifestazione dell’inattivazione
casuale di uno dei due cromosomi X
(materno o paterno). In pratica, il gatto
presenta il mantello con colori differenti
in diverse regioni, a livello del dorso e
delle zampe. Il diverso colore è dovuto ad
un gene che si trova sul cromosoma X. Nei
gatti eterozigoti per questo gene, a
seconda del cromosoma X inattivato, si
avrà una colorazione scura oppure
ambrata della regione del mantello in cui
queste cellule si trovano.
Il gatto arlecchino è un effetto
dell’inattivazione casuale di uno dei due
cromosomi X. Esso presenta un mantello
con colori diversi sul dorso e sulle zampe. Questo diverso colore è dovuto ad un gene presente sul
cromosoma x. Nei gatti eterozigoti per questo gene, a seconda del cromosoma inattivati, in ogni zona
avremo un colore scuro o ambrato (cambia anche il colore degli occhi). L’inattivazione può essere talmente
precisa per cui metà del muso del gatto presenta una colorazione con pelliccia di colore scuro e l’altra metà
di colore ambrato. Inoltre, nelle due porzioni della testa, il colore degli occhi è differente: da un lato
risultano verdi e dall’altro azzurri. Tutte le cellule che hanno contribuito alla formazione di questa
emistruttura hanno inattivato lo stesso cromosoma X.
L’Inattivazione del cromosoma X è un processo molto caratteristico: sul braccio lungo del cromosoma X,
esiste un gene detto XIC (X Inactivation Center) che ne determina l’inattivazione. Questo gene trascrive per
un RNA detto Xist, il quale non codifica per alcuna proteina ma ha un ruolo fondamentale nell’inattivazione
del cromosoma X.

113
In pratica, le molecole di RNA Xist si diffondono e si depositano sui
vari domini ad ansa, vicini al gene XIC. Successivamente, molecole di
RNA Xist continuano a diffondersi in tutte e due le direzioni, sia verso
il telomero del braccio lungo, sia verso il telomero del braccio corto,
determinando gradualmente una condensazione di tutta la cromatina
del cromosoma X. A questo poi si aggiungono altri processi che
contribuiscono a compattare la cromatina del cromosoma X in cui è
presente il gene XIC, come ad esempio la metilazione e
l’ipoacetilazione massiva degli istoni H3. Negli stadi finali interviene
anche una proteina di eterocromatinizzazione e, nei nucleosomi del
cromosoma X, l’istone H2A viene sostituito con l’istone MACRO H2A.
In questa immagine è presente il cromosoma X schematizzato. Dal
locus per il gene XIC (colorato in giallo) vengono trascritte le molecole
di RNA Xist, che si depositano in gran parte delle regioni del
cromosoma X mentre le altre, invece, sono costituite da cromatina
associata alla proteina HPI, cioè eterocromatina inattivante.
L’azione
di queste due componenti (RNA Xist e proteina
HPI) e la metilazione massiva di numerose lisine
negli istoni H3 determinano la condensazione
massiccia della cromatina del cromosoma X da
inattivare. Si forma una struttura ovalare, che
corrisponde al nucleo di una cellula in cui
avviene l’inattivazione. La regione brillante
corrisponde proprio al cromosoma X
ipercondensato che occupa il nucleo. Tra le
modifiche istoniche interviene anche l’istone
MACRO H2A.
Tutti questi eventi contribuiscono a inattivare il cromosoma X.

GLI INSULATORS
Oltre ai promotori, esistono nel genoma altri tipi di sequenza che regolano l’espressione genica:
- gli enhancers, regioni potenziatrici dell’espressione, composte di più elementi di sequenza leganti
fattori di trascrizione. Questi possono agire su più geni, a distanza variabile ed in entrambi gli
orientamenti
- i silencers, elementi silenziatori, possono inibire l’attività trascrizionale
- gli insulators, proteine che si legano al DNA e hanno la funzione di isolanti, delimitando e separando
le zone di influenza di altri elementi.
Nell’immagine possiamo osservare:
- una regione genomica dove abbiamo due geni (in
azzurro),
- una regione di potenziamento (in giallo) per la
trascrizione
- a monte e a valle della struttura, troviamo due
sequenze isolanti (in rosso). Queste sequenze
vengono raggiunte da proteine che impediscono all’enhancer e ai promotori di promuovere la
trascrizione di geni particolarmente distanti da essi, consentendo di regolare solo i geni a loro

114
adiacenti. Questo con lo scopo di evitare che il promotore di un gene possa attivare geni che non
sono di sua competenza.

I DOMINI CROMATIDICI
La presenza degli insulators permette determina l’organizzazione del genoma in domini cromatinici
contigui, che modula l’interazione tra i geni e gli elementi regolatori. Questi domini suddividono il genoma
in segmenti funzionali detti Topologically Associating Domains (TAD’s) che costituiscono tratti genomici di
connessione tra sequenze regolatrici e promotori genici.
Pochi anni fa sono stati scoperti i domini di associazione topografici, detti TAD’s, i quali hanno la funzione di
identificare una regione della sequenza di DNA che deve essere posta sotto controllo, senza che questa
possa determinare alterazioni o espressioni o repressioni di geni in altre regioni limitrofe.
Nell’immagine possiamo osservare
due sequenze di DNA con due geni (in
verde). In corrispondenza delle regioni
tra un gene e quello più a valle, è
dislocata normalmente una sequenza
insulator, cioè una sequenza che
impedisce al promotore del gene (in
rosso) di agire anche sull’altro gene.
Se, per un errore o per una mutazione,
la regione di isolamento viene
eliminata, la regione controllata
dall’enhancer e dal promotore si
estende anche sul gene limitrofo. Questo è ciò che si verifica quando c’è una traslocazione con effetto
patogenico.
Nell’immagine possiamo osservare una situazione dovuta ad
una perdita di differenti insulator, in una regione che controlla
la normale composizione delle dita di una mano.
Abbiamo una TAD che controlla un gene, il quale è sottoposto
all’azione di un enhancer del cromosoma. Questo gene in
condizioni normali, durante l’embriogenesi, fa in modo che si
costituisca la corretta struttura della mano, con le cinque dita e
il normale metacarpo. Se l‘insulator (rosso) viene alterato,
l’enhancer diventa capace di agire anche sul gene più a valle. Di
conseguenza si ha una malformazione a carico delle dita della
mano: le prime due dita risultano più tozze, più separate e
condividono una radice in comune. Se invece viene inattivato
l’elemento insulator a monte del gene, allora, avremo
l’attivazione di due geni più a monte rispetto a quello che
controlla la morfogenesi. Nell’embrione questo determina:
- o una fusione tra l’estremità distale delle prime due dita della mano
- o la polidattilia a livello delle mani.
Un fenotipo patologico, quindi, può essere causato non solo da una mutazione all’interno del gene stesso
codificante per la proteina. Possono intervenire, infatti, anche fenomeni che non coinvolgono direttamente
il gene stesso.

115
STRUTTURA DEI CORMOSOMI UMANI
La compattazione della cromatina mediata da nucleosomi porta alla formazione di cromosomi. Questi
furono scoperti (e contati) nel 1956, anno in cui si definì il corredo cromosomico della cellula somatica
umana.
All’epoca, i ricercatori decisero di utilizzare dei parametri per classificare e distinguere i vari cromosomi,
ovvero:
- la posizione del centromero, quindi si osserva se è equidistante dalle estremità, più spostato ad una
estremità o se trova all’estremità stessa del cromosoma;
- la dimensione complessiva del cromosoma
Più nello specifico i parametri sono:
- Lunghezza del cromosoma in percentuale sulla lunghezza totale del normale assetto aploide (22
autosomi + cr. X)
- Rapporto delle braccia cromosomiche: il rapporto tra la lunghezza del braccio lungo e quella del
braccio corto.
- Indice centromerico: il rapporto della lunghezza del
braccio corto su tutta la lunghezza del cromosoma.
L’utilizzo di questi parametri permise di costruire il
cariogramma, cioè il corretto posizionamento dei vari elementi
così come ci si aspetterebbe si disponessero in una cellula
eucariotica umana (somatica).
Ci sono 23 coppie di cromosomi che vengono ordinati dal più
grande al più piccolo (N.B. il più piccolo per l’epoca era il
cromosoma 22). Risulta però complicato utilizzare questi
parametri per classificare cromosomi che risultano simili, ad
esempio per i cromosomi 4 e 5.
L’unica cosa certa era che la cellula avesse 46 elementi organizzati in 23 coppie e che le cellule maschili e
femminili erano distinguibili per la presenza di cromosomi XY o XX.
Si cercò di stabilire un certo ordine nel posizionamento dei vari elementi del cariogramma, utilizzando una
schematizzazione per gruppi (dalla A alla G).
• Metacentrico = centromero in posizione centrale (bracci corti e lunghi uguali)
• Submetacentrico = centromero spostato verso un’estremità (bracci corti e lunghi diversi)
• Acrocentrico = centromero in posizione telomerica
• Satellite = quello che resta del braccio corto nei cromosomi acrocentrici
In ciascun gruppo è possibile distinguere i cromosomi secondo poche specifiche caratteristiche:
- il GRUPPO A è costituito da tre cromosomi, i più grandi per dimensione. Due di questi presentano il
centromero equidistante dalle due estremità (cromosomi 1 e 3) e per questo vengono definiti
metacentrici. Il cromosoma 2 ha il centromero leggermente spostato verso un’estremità, perciò
viene denominato submetacentrico.
- GRUPPO B: i cromosomi 4 e 5 sono anch’essi submetacentrici, pur avendo il centromero
leggermente più spostato verso un’estremità, ma sono più piccoli di dimensioni.
- I cromosomi del GRUPPO C sono tutti submetacentrici di medie dimensioni. In questo gruppo è
compreso anche il cromosoma X.
- I cromosomi del GRUPPO D sono caratterizzati da un centromero quasi all’estremità del cromosoma
e da grandi dimensioni, per questo vengono detti acrocentrici di tipo grande.
- Il GRUPPO E è costituito dal cromosoma 16 che è metacentrico e dal 17 e 18 che sono invece
submetacentrici di piccole dimensioni.
116
- Nel GRUPPO F sono presenti i cromosomi 19 e 20 che sono piccoli e metacentrici.
- Le coppie di cromosomi 21 e 22 sono acrocentrici ma di dimensioni minori rispetto a quelle dei
cromosomi del gruppo D. Il cromosoma Y, per le sue dimensioni, è stato incluso nel GRUPPO G,
sebbene non sia acrocentrico, bensì un piccolo submetacentrico.

LA BANDEGGIATURA

BANDEGGIATURA G
Intorno alla fine degli anni 60, per ovviare alle difficoltà di identificazione dei due elementi di ogni coppia
dei cromosomi, specialmente per il gruppo C, sono state sviluppate una serie di tecniche di colorazione dei
cromosomi che, lungo l’asse principale del cromosoma, rilevano un’alternanza di zone chiare e scure.
Questa alternanza è stata definita striatura dei cromosomi ed è caratteristica di ogni coppia di cromosomi.
Con questo alternarsi di zone chiare e scure, è diventato possibile identificare e riconoscere in maniera
univoca ciascun elemento di ogni coppia di cromosomi
ed è diventato molto più semplice riconoscere le
alterazioni della struttura del cromosoma. Infatti, la
presenza di zone più chiare o più scure che normalmente
non sono presenti su quel tipo di cromosoma identifica
delle possibili mutazioni.
Ad esempio, la coppia di cromosomi 10 è distinguibile
perché sul braccio lungo sono presenti tre regioni più
scure caratteristiche solo di questo cromosoma. I
cromosomi 7 hanno due bande molto intense sul braccio
lungo e una o due molto meno evidenti verso l’estremità
telomerica del braccio lungo stesso.

117
Tutte queste regioni oggi sono state catalogate con sistemi automatici che riconoscono al 90% i vari
elementi del corredo cromosomico, accelerando il processo di analisi del cariogramma e quindi
l’elaborazione del cariotipo. Per cariotipo si intende la descrizione sintetica del tipo di alterazione, se
presente, nelle cellule dell’individuo.
La bandeggiatura più utilizzata per l’elaborazione del cariotipo è la bandeggiatura G, dove G deriva
dall’iniziale del colorante usato per liberarla, il giemsa (pronunciato “ghimsa”).

BANDEGGIATURA Q
Esiste un altro tipo di bandeggiatura detta Q, fluorescente e
fotosensibile, la cui denominazione deriva dalla quinacrina.
La quinacrina è un colorante visibile solo se il preparato viene
illuminato con una luce ultravioletta. Questa illuminazione
permette di verificare un’alternanza di zone chiare e scure,
che è sovrapponibile come modello generale alla
bandeggiatura di tipo G.

BANDEGGIATURA R
La bandeggiatura di tipo R evidenzia le zone che sono poco evidenziate con i due precedenti tipi di
bandeggiatura; questa bandeggiatura evidenzia in particolar modo le estremità dei cromosomi, che invece
tendono ad essere sempre piuttosto grigie e poco dettagliate
con la bandeggiatura di tipo G.
Con il passare degli anni, questa tecnologia è stata sempre
meno utilizzata perché è più complessa da realizzare e oggi
infatti sono pochissimi i laboratori che la usano.
Questo bandeggio prende il nome di bandeggiatura R, non
dal colorante, ma dal fatto che le zone messe in evidenza
(quelle più brillanti) corrispondono alle zone meno evidenti
con la bandeggiatura G. La “R” sta ad indicare proprio questo
fenomeno, che evidenzia le bande al contrario, quindi con
una bandeggiatura “Reverse”.

BANDEGGIATURA C
La bandeggiatura tipo C evidenzia:
- le regioni centromeriche di tutti i cromosomi,
- le regioni pericentromeriche sulle coppie di
cromosomi 1, 9 e 16
- la regione eterocromatica del braccio lungo
del cromosoma Y, caratterizzata da DNA
altamente ripetuto.
Queste regioni hanno la caratteristica di poter variare
nella quantità di sequenze ripetute che esse
contengono senza apparentemente avere effetto
fenotipico (polimorfismo).

118
DIFFERENZE TRA LE BANDEGGIATURE
L’ideogramma è lo schema a cui si fa riferimento quando bisogna classificare
i cromosomi dopo che sono stati bandeggiati. Il numero di bande su uno
stesso cromosoma può cambiare a seconda dello stato di condensazione
della cromatina: quanto più il cromosoma è decondensato tanto più la
risoluzione è maggiore. In cellule patologiche e tumorali si hanno dei
cromosomi fortemente condensati ed è difficile avere una buona risoluzione.
L’immagine riporta l’ideogramma per la bandeggiatura G. In ogni cromosoma
si possono distinguere:
- la regione del centromero,
- il braccio corto P
- il braccio lungo Q.

Nell'immagine sono rappresentate tre tipologie di


schematizzazione del cromosoma 7, ottenute
mediante tre diverse bandeggiature. Quello che
cambia è il numero di bande evidenziate:
- nella prima tipologia, contando tutte le regioni
chiare e scure di tutti i 46 cromosomi, si ha un
risultato di 400 bande visibili;
- nella seconda tipologia, si ha una risoluzione di
550 bande
- nella terza tipologia, si ha una risoluzione
esagerata di 850 bande. L'ultima tipologia è un
tipo di bandeggiatura molto difficile da
realizzare e ancora più difficile da analizzare.
Questi tre livelli di distinzione delle bande sono legati a una crescente lunghezza dei cromosomi, quindi ad
una minore condensazione, al momento dell’osservazione al microscopio.
I cromosomi, quindi, possono cambiare le loro dimensioni, facendo cambiare il numero di bande visibili.
Proprio questa variazione permette di capire a che livello di risoluzione del bandeggio ci si trova.
Le differenze di bandeggiatura sottendono una differente organizzazione della cromatina e una differente
funzione del DNA contenuto in queste regioni. Si è scoperto, infatti, che:
- le regioni più scure nella bandeggiatura G sono le regioni eterocromatiche ricche di adenina-
timina e sequenza ripetute:
• sia le regioni eterocromatiche costitutive, caratterizzate dalla cromatina sempre
condensata,
• sia quelle caratterizzate da eterocromatina facoltativa cioè regioni che, a seconda del
periodo e del momento della vita della cellula, possono essere più o meno condensate e
quindi possono permettere o meno l’espressione dei geni in esse contenuti.
- Le regioni più chiare nella bandeggiatura G sono le regioni che contengono il maggior numero di
geni attivamente trascritti; sono infatti quelle regioni che vengono rivelate dalla bandeggiatura R (il
suo alternarsi di zone chiare e scure è infatti l’opposto della bandeggiatura G).
Le regioni ricche in coppie di basi GC sono negative (cioè chiare) nella bandeggiatura G e sono proprio
quelle che contengono più isole CPG e più geni attivamente trascritti. Queste regioni differiscono dalle
regioni positive nella bandeggiatura G, che sono invece più ricche in adenina e timina. Quindi, dietro questa
alternanza di zone chiare e scure, è presente anche una differente funzione di queste regioni genomiche
all’interno del cromosoma.

119
Ci sono alcuni cromosomi che sono scarsamente colorati e bandeggiati, cioè i cromosomi 17, 22 e 19, che
hanno una larga regione piuttosto chiara o, al massimo, grigia; lo stesso vale per i cromosomi 22 o 19. Il
cromosoma 19 è quello con il maggior numero di geni trascritti attivamente; infatti, l’unica regione scura
alla bandeggiatura G è quella del centromero. Questi tre tipi di cromosomi sono poco colorati in quanto la
cromatina è più decondensata, per favorire la trascrizione dei geni in essa contenuti. Quindi la
bandeggiatura G, che tipicamente risulta positiva per le zone di eterocromatina, non sarà presente in questi
cromosomi che invece sono attivamente trascritti (non possono essere ricchi di eterocromatina ma per lo
più di eucromatina).

LA COLORAZIONE SCE (SISTER CHROMATID EXCHANGE)


La COLORAZIONE SCE (Sister Chromatid Exchange) è un altro tipo di colorazione dei cromosomi e permette
di distinguere i due cromatidi fratelli di ogni cromosoma, come se fossero diversi. I due cromatidi fratelli di
un cromosoma hanno la stessa sequenza nucleotidica al loro interno, perché derivano dalla fase S del ciclo
cellulare, quindi, dovrebbero essere perfettamente identici. Tuttavia, con questa colorazione, appaiono con
un aspetto diverso.
A livello della coltura cellulare, avviene un
processo per cui i cromatidi fratelli vengono
colorati con due colori diversi. Se i cromatidi
chiari e scuri cambiano posizione nella
piastra metafasica, significa che c’è stato uno
scambio tra i due cromatidi fratelli, anche in
mitosi.
Nell'immagine si può notare una freccia in
alto a sinistra che mostra che i due cromatidi
fratelli, uno scuro e l'altro chiaro, a un certo
punto cambiano di posizione (questo accade
anche su molti altri cromosomi). Anche in
mitosi (e non solo in meiosi), si possono verificare degli scambi tra i due cromatidi fratelli come se fossero
dei crossing-over. Questo fenomeno è naturale e si verifica nella stragrande maggioranza delle divisioni
cellulari.

120
Nell'immagine si possono distinguere due piastre metafasiche differenti:
- quella di destra è molto più ricca di scambi (addirittura in un cromosoma troviamo 6 regioni
piccolissime alternate tra cromatidio nero e cromatidio chiaro),
- nell’altra solo qualche cromosoma mostra lo scambio.
La situazione della cellula di sinistra è una condizione di normalità. Nel terreno di coltura della cellula di
destra, invece, è stata aggiunta una molecola farmacologica che ha indotto una quantità elevatissima di
scambi. Se aumentano gli scambi tra i due cromatidi fratelli, può esserci un effetto dannoso per la cellula
perché ci possono essere errori nel riposizionamento delle sequenze. Questa sostanza farmacologica (una
volta effettuato questo test e ottenuti risultati decisamente alterati) fu ritirata dalla sperimentazione,
poiché era eccessivamente mutagena: con tutti quegli scambi era molto probabile che, prima o poi, in una
di quelle regioni si generasse una mutazione, che poteva inattivare o attivare in maniera incontrollata la
produzione di un gene e quindi determinare la trasformazione della cellula sana in una patologica.
Il test SCE è uno dei test a cui vengono sottoposte le sostanze nuove che devono venire a contatto diretto
con l’uomo, per esempio integratori alimentari, nutrienti artificiali, molecole farmacologiche di nuova
produzione, componenti per le resine che si utilizzano per risaldare le ossa oppure per curare lo smalto dei
denti.

L’immagine raffigura un cromosoma 2 che presenta


numerosissimi scambi causati da una sostanza immessa
nella coltura. Questi cromosomi, per via di questo
andamento a scacchiera che assume la colorazione della
cromatina dei due cromatidi, vengono anche detti
Cromosomi Arlecchino (poiché ricordano il costume di
Arlecchino con le varie pezze di colori differenti alternate).

121
LE ANOMALIE CORMOSOMICHE
Le anomalie cromosomiche costituiscono il livello più alto
di alterazioni del nostro genoma. Sono alterazioni che
riguardano:
- l’intero corredo cromosomico
- uno o più cromosomi singoli
- un segmento cromosomico
Dal punto di vista clinico, hanno un’incidenza rilevante alla
nascita: un bambino ogni 154 ha un’alterazione di tipo
cromosomico. Queste alterazioni possono influire sul
numero o sulla struttura dei gameti o degli autosomi. Le
alterazioni di struttura sono un po’ meno frequenti rispetto
a quelle che riguardano interi cromosomi. La patologia
cromosomica costituisce un buon 25% di patologie che
presentano i bambini.

I MECCANISMI DELLE ANOMALIE CROMOSOMICHE E DELLO SB ILANCIAMENTO GENOMICO

I meccanismi delle anomalie cromosomiche sono schematizzabili in:


- SEGREGAZIONE CROMOSOMICA ANOMALA: anomalia che ricorre tipicamente nella meiosi o nella
mitosi. Il meccanismo che la determina è la non-disgiunzione, ovvero una non corretta ripartizione
dei due elementi della coppia nelle due cellule figlie (mancata separazione dei due elementi nelle
due cellule figlie). Questa anomalia è alla base delle aneuploidie come
• la trisomia del cromosoma 21,
• la sindrome di Klinefelter (per questa anomalia, in un corredo con il cromosoma Y e un
fenotipo maschile ci sono due cromosomi X anziché uno)
• la disomia uniparentale (di cui si è trattato prima a proposito delle cause che determinano
l’insorgenza della sindrome di Prader-Willi o di Angelman).
- SINDROMI CROMOSOMICHE RICORRENTI: sono sindromi rare, ma ben note, che hanno una base
genomica come meccanismo di generazione; possono essere dovute proprio a un errore di
ricombinazione durante la meiosi. Esse danno luogo alla sindrome di duplicazione o delezione
(quindi riguardano un segmento cromosomico e non un intero cromosoma) e portano come
conseguenza un’alterazione di quello che viene chiamato il dosaggio genico, cioè la quantità di copie
che un gene presenta in quel corredo cromosomico.
- ANOMALIE CROMOSOMICHE IDIOPATICHE: anomalie rarissime, che hanno meccanismi specifici di
origine e possono dar luogo a patologie quali
• la sindrome del cri-du-chat,
• la sindrome da delezione 1p36
• la sindrome di DiGeorge.
Queste sono tutte condizioni che sono legate a un’alterazione della cromatina di vario tipo, spesso mediate
da dupliconi, cioè da larghi segmenti di DNA, molto estesi (si parla di centinaia di migliaia di nucleotidi), tra
loro identici sparpagliati nel genoma.
- ANOMALIE FAMILIARI SBILANCIATE: anomalie che portano a una patologia nel bambino. I genitori
hanno un’alterazione cromosomica che però non determina loro un difetto fenotipico, ma, al
momento della divisione cellulare, comporta una malformazione dei loro gameti. Gli elementi
coinvolti in questa alterazione finiscono per non essere più tra loro compensati; quindi, ci sono delle
situazioni in cui, per effetto di un riarrangiamento cromosomico in un genitore, è possibile generare

122
gameti con un corredo cromosomico alterato come numero o struttura dei cromosomi che porta
all’insorgenza di malattie nei figli.
- SINDROMI ASSOCIATE A IMPRINTING GENOMICO: alcune regioni di un genoma hanno la
caratteristica di essere espresse o meno, in base all’origine parentale di esse.

Le anomalie cromosomiche possono essere:


- numeriche
- di struttura

ANOMALIE CROMOSOMICHE DI NUMERO

Le anomalie cromosomiche di numero le classifichiamo in:


- DIPLOIDIA: 46 cromosomi → corredo 2n
• euploidia: individui normali diploidi che hanno due elementi per ogni tipo di cromosoma
e il corredo sarà indicato sinteticamente come 2n;
• pseudodiploidia: un individuo ha 46 cromosomi nelle cellule ma questi non hanno tutti una
forma normale, per cui non corrispondono alle normali 23 coppie
- APLOIDIA: 23 cromosomi → corredo n (condizione dei gameti maturi)
- POLIPLOIDIA: 69 o 92 cromosomi → corredo 2n + un multiplo del corredo aploide n
• triploidia: 69 cromosomi → 3n
• tetraploidia: 92 cromosomi → 4n

123
POLIPLOIDIA
Gli individui con corredi poliploidi, in gran parte, vengono abortiti spontaneamente tra il primo e il secondo
trimestre; solo in casi eccezionali arrivano alla nascita, ma muoiono poco dopo o nascono già morti.
Cause triploidia:
- Un feto con un corredo 3n, nella maggior parte dei casi (66%), è dovuto alla contemporanea
fecondazione di un ovocita, a corredo aploide, da parte di due spermatozoi, anch’essi aploidi.
Quando uno spermatozoo si fonde con l’ovocita, immette solo la
testa e si scatena immediatamente una reazione per cui si forma
una sorta di sbarramento lungo tutta la circonferenza dell’ovocita,
che impedisce il passaggio di qualsiasi altro spermatozoo. Se ci
sono, però, due spermatozoi, che contemporaneamente stanno
tentando, in due punti diversi della membrana dell’ovocita, di
penetrare all’interno dell’ovocita, si può generare un corredo 3n,
dovuto proprio alla combinazione dei corredi aploidi delle tre cellule
gametiche che stanno mettendo in atto la fecondazione. Questi due
spermatozoi, infatti, aggirano il normale meccanismo di “blocco”
dell’ingresso di altri spermatozoi.
- Più raramente (24%) un feto con un corredo 3n può essere dovuto a
un ovocita che viene fecondato da uno spermatozoo che non ha
fatto una delle due divisioni meiotiche; infatti, risulta avere un
corredo cromosomico 2n.
- Ancora più raramente (10%) avviene il contrario: è l’ovocita che non
ha fatto una delle due divisioni meiotiche (infatti risulta avere un corredo cromosomico 2n), che
viene fecondato da uno spermatozoo che invece è aploide.
Cause tetraploidia:
- Per quanto riguarda i corredi tetraploidi (4n), l’evento più probabile è rappresentato dalla
cosiddetta endomitosi: una volta che è avvenuta regolarmente la fecondazione, la cellula raddoppia
in fase S il proprio contenuto cromosomico, ma non dimezza successivamente il materiale nelle due
cellule figlie; perciò si forma una cellula con 4 corredi aploidi.
- Più raramente, invece, un ovocita, che non ha fatto una delle due divisioni meiotiche, viene
fecondato da uno spermatozoo che pure lui non ha fatto una delle due divisioni meiotiche; infatti,
entrambi risultano avere un corredo cromosomico 2n.
La poliploidia nella stragrande maggioranza dei casi non è compatibile con la vita, solo in casi eccezionali si
osserva la nascita di neonati vivi che però vanno incontro a morte nelle prime ore di vita.

ANEUPLOIDIA
L’aneuploidia è una condizione per cui l’individuo ha un corredo cromosomico non diploide, per la presenza
e/o l’assenza di uno o più cromosomi. Le aneuploidie si dividono in:
- nullisomia: assenza dei 2 cromosomi omologhi. Non è compatibile con la vita e la si può ritrovare
nelle linee cellulari tumorali e molto raramente in cellule ottenute direttamente da un tessuto
tumorale.
- monosomia: assenza di un cromosoma in una delle coppie di cromosomi come nella sindrome di
Turner in cui vi è la monosomia del cromosoma X. La monosomia è una condizione più nota ed è
compatibile con la vita solo quando essa coinvolge i cromosomi sessuali, (X o Y). Altrimenti si
possono trovare monosomie solo in alcuni tessuti, in alcuni distretti dell’organismo e quelli possono
essere stati generati o subito dopo lo zigote o più tardi. Inoltre, si possono trovare in alcune forme
tumorali.
124
- trisomia: presenza di un cromosoma sovrannumerario rispetto alla coppia normale. È una
condizione più nota, quella più famosa è
quella del cromosoma 21 (Trisomia 21) o
sindrome di Down poiché è presente un
cromosoma in più nella ventunesima coppia.
Tra i tratti caratteristici della trisomia 21
abbiamo:
• viso a luna piena, molto
rotondeggiante
• bocca spesso aperta a causa di un
edema della lingua e di un’alterazione
del palato
• plica palmare unica
• dita del piede molto distanti tra loro
• orecchio malformato
• occhi a mandorla
Dai 37 anni in su, il rischio dui concepire un
bambino con la sindrome di Down comincia ad essere rilevante (1 su 300), aumentando sempre più
con l’età, fino ai 40-42 anni quando il rischio è 1 su 4. La maggioranza di bambini con sindrome di
Down viene abortita spontaneamente entro la 15esima settimana di gravidanza.

Un’altra forma di trisomia è la Trisomia-13 o


Sindrome di Patau, caratterizzata da una serie
di alterazioni molto gravi, sia morfologiche sia
negli organi interni (occhi a fessura, dito
sovrannumerario). I bambini non sopravvivono
regolarmente alla nascita, muoiono dopo poche
ore ma possono in rari casi arrivare all’età
adolescenziale. Qualche anno fa è’ stata fatta
una stima a livello mondiale ed è risultato che
non ci sono più di 10 persone al mondo con
questa sindrome.
Abbiamo poi la Trisomia 18 o Sindrome di Edwards: dove si
ha come segno caratteristico
l’artrogriposi, ovvero la sovrapposizione delle dita come gli
artigli di un rapace e il piede a piccozza
con un angolo retto tra la gamba e il piede. Queste due
caratteristiche sono individuabili anche in
ecografia.

- tetrasomia: presenza di 2 cromosomi omologhi


sovrannumerari in uno o più coppie di cromosomi. Queste
condizioni sono di per sé rare o rarissime. Sono compatibili
con la vita solo tetrasomie parziali cioè di pezzi di
cromosomi e non di cromosomi interi.

125
ORIGINE DELLE ANOMALIE CROMOSOMICHE DI NUMERO

Le anomalie cromosomiche di numero si generano dalla non disgiunzione, condizione per cui al momento
della prima o seconda divisione meiotica non avviene la corretta ripartizione
degli elementi tra le due cellule figlie.
Nell’immagine a sinistra vediamo come l’errore della ripartizione del
materiale cromosomico interviene in prima divisione meiotica.
Accade che in una coppia di cromosomi bicromatidici, in prima divisione
meiotica in condizioni normali, i due elementi finiscono in 2 cellule diverse. Se
si verifica una non disgiunzione, tutte e due gli elementi cromatidici della
stessa coppia finiscono nella stessa cellula mentre l’altra è priva di quel tipo
di cromosoma.

La prima cellula va incontro a divisione meiotica II per cui, per un certo


cromosoma, nel gamete finale avremo due elementi anziché uno; quindi,
dopo la fecondazione si ha una trisomia. La cellula che invece era priva di
quel tipo di cromosomi, ammesso che faccia la meiosi II, quando viene fecondata da un gamete normale dà
luogo ad uno zigote che per quel tipo di cromosoma risulta monosomico.
Risultato finale: nel caso di non disgiunzione nella prima divisione meiotica non si avrà nessun gamete
normale, quindi, non verrà generato nessuno zigote normale ma trisomici o monosomici.

126
Nell’ immagine a destra vediamo invece cosa accade se
l’errore avviene nella seconda divisione meiotica.
La prima divisione meiotica decorre normalmente, i due
elementi bicromatidici si separano e finiscono in cellule
diverse. Può accadere che una delle due cellule figlie fa anche
la seconda divisione meiotica in maniera normale, per cui per
quel tipo di cromosoma, le due cellule che derivano da essa
conterranno un unico elemento monocromatico;
partecipando alla fecondazione con un gamete normale,
daranno luogo a due zigoti normali.
Al contrario, l’altra la cellula incorre in un errore di
suddivisione del materiale genetico nella seconda divisione,
perciò otterremo cellule che per quel tipo di cromosoma:
- contengono 2 cromatidi tra loro identici: se fecondata,
genera uno zigote trisomico
- non contengono nessun elemento: se fecondata, genera uno zigote monosomico.
Conclusione: nel caso di non disgiunzione nella seconda divisione meiotica il 50% degli zigoti sarà normale
dai gameti prodotti da quella divisione errata in seconda meiosi e 50% darà luogo o a zigoti monosomici
o trisomici.

La maggioranza delle trisomie degli autosomi è


di origine materna, mentre per quanto
riguarda i cromosomi del sesso gli errori si
verificano più frequentemente anche nel
maschio. I motivi per cui questo accade non
sono tuttora noti. Per le trisomie 13, 18 e 21 si
fa riferimento al fatto che nella donna la meiosi
inizia molto presto e, siccome la maggior parte
degli errori si verifica in meiosi I, si ritiene che
nella grande distanza tra le due divisioni
meiotiche dell’ovocita (quella iniziale e quella
successiva ad un’eventuale fecondazione) ci
possano essere errori nella ripartizione del
materiale cromosomico.

LE PRINCIPALI ANEUPLOIDIE
Gli stessi effetti sortiti da un errore durante la divisione meiotica possono verificarsi anche in seguito ad un
errore durante la divisione mitotica, quanto più questo errore interviene appena dopo la formazione dello
zigote, tanto più sarà estesa l’alterazione nell’individuo in sviluppo. Se invece l’alterazione si verifica dopo la
nascita o in età adulta, tipicamente riguarda solo una particolare regione dell’organismo, come ad esempio
un tessuto: in questo caso si parla di un’alterazione che si manifesta sotto forma di una neoplasia.
Considerando gli autosomi, le trisomie siano gradualmente più rare dalla Sindrome di Down (Trisomia 21)
che ha incidenza 1/700 (in Italia 1/800): la Trisomia 13 o sindrome di Patau alla nascita è dieci volte più rara
e venti volte più rara è invece la nascita di un bambino con la Trisomia 18 o sindrome di Edwards.
Il 90% dei bambini affetti da Trisomia 13 e 18 muore poco dopo la nascita, (nel caso di Trisomia 13 questo
avviene nel 95-97% dei casi).

127
Nel caso di aneuploidie dei cromosomi sessuali, cioè degli eterocromosomi, queste possono essere distinte
in aneuploidie dei cromosomi sessuali nelle femmine e aneuploidie dei cromosomi sessuali nei maschi.
Per quanto riguarda la monosomia del cromosoma X sia ha la Sindrome di Turner X0 con frequenza alla
nascita di 1/5.000 nati. I soggetti affetti da questa sindrome hanno un quoziente intellettivo nella norma
con difetti fisici dovuti alla bassa statura, senza un trattamento con l’ormone della crescita queste donne
non raggiungono 1.50m e possono presentare alcune deformità ossee. Sono sterili perché mancando un
cromosoma X non si producono gli ovociti nelle ovaie. A causa di questi danni a carico delle ovaie queste
donne sono caratterizzate da amenorrea primaria, cioè non hanno mai il menarca. La frequenza è 1/5000
alla nascita, spesso i feti affetti da questa sindrome vengono abortiti spontaneamente.
Abbiamo poi la condizione di 47 cromosomi XYY o sindrome di Jacob: questa condizione, meno frequente
della sindrome di Down, è associata a un fenotipo normale. Questi individui sono sterili perché non
producono ovociti. Si avranno bambini più alti del normale perché sui cromosomi del sesso ci sono dei geni
per la statura e hanno una potenza superiore a quella attesa in base alla popolazione di appartenenza.
Questi individui erroneamente sono stati associati a una patologia comportamentale aggressiva,
delinquenziale, ma in realtà queste informazioni sono state confutate. Ci fu uno studio condotto in un
manicomio criminale in Danimarca dove sono stati trovati un numero di individui con questo corredo
cromosomico superiore da quello atteso e si è correlato automaticamente la patologia con l’atteggiamento
dell’individuo. In realtà è stato dimostrato che ci fu un errore di calcolo statistico. Purtroppo questa
informazione sbagliata continua a circolare anche in ambito medico.
Abbiamo la condizione XXY che dà luogo alla Sindrome di KLINEFELTER, Le persone con questa alterazione
sono più alte della media e hanno un comportamento molto “accomodante” ma sono infertili; non riescono
a produrre gameti funzionanti, sono azospermici (spesso i pazienti scoprono di essere affetti nel momento
in cui vogliono avere bambini ma non ci riescono).
La trisomia XXY, le tetrasomie XXYY e XXXY, la pentasomia XXXXY e l’esasomia XXXXXY sono condizioni che
comportano un ritardo mentale, che aumenta all’aumentare dei cromosomi sovrannumerari. L’eccesso di
cromosomi X nel corredo è generalmente associato a ritardo mentale.
La Trisomia del cromosoma X o “sindrome della superfemmina” (XXX) determina una serie di
caratteristiche, tra cui l’alta statura e la presenza di una vertebra in più a livello toracico. In generale le
donne con questa condizione (47 cromosomi) sono perfettamente normali ma possono avere qualche
problema nella produzione dei gameti. Questi problemi si hanno perché, durante la meiosi, si possono
formare dei gameti che contengono non un solo cromosoma sessuale, ma due (XX): questi causeranno la
formazione di uno zigote con un’alterazione dei cromosomi del sesso, con aborti ripetuti.

128
L’INATTIVAZIONE DEL CROMOSOMA X

I cromosomi X vanno incontro ad inattivazione e sono visibili al microscopio sottoforma di strutture


rotondeggianti all’interno del nucleo: i corpi di Bar, che si formano a causa della condensazione ad opera
dell’istone H2A e dei gruppi metile.
Quando abbiamo un corredo femminile normale, abbiamo 1 corpo di Bar. Quando abbiamo la trisomia, si
formano 2 corpi di Bar. Quando abbiamo 4 cromosomi X, abbiamo la formazione di 3 corpi di Bar ma,
poiché l’inattivazione riguarda solo l’85% dei geni presenti sul cromosoma X, i geni rimanenti (in 3 copie X
iniziano a far manifestare effetti patologici sul portatore (poiché si tratta del 15% di 3 cromosomi).
Nel maschio avviene la stessa cosa: se c’è 1 cromosoma X quello rimane attivo indipendentemente dal
numero di cromosomi Y presenti nel corredo, se ci sono più cromosomi X rimane attivo sempre e solo 1,
mentre gli altri vengono disattivati, mentre i cromosomi Y non vengono disattivati in quanto su essi sono
presenti i geni legati alla fertilità, per la produzione degli spermatozoi.
L’inattivazione del cromosoma X interviene in maniera selettiva allo stadio di blastocisti, per cui le cellule
spengono uno dei cromosomi x. La metà delle cellule inattiva quello materno, l’altra metà quello paterno.

Questa inattivazione può essere anche più variabile, per cui si può avere un’inattivazione non casuale:
- Il 75% degli inattivati è paterno, il 25% materno
- Il 75% degli inattivati è materno, il 25% paterno
129
Se un cromosoma X presenta un allele recessivo di tipo patologico, se inattivato, non succede nulla. Se il
75% delle cellule contiene quel cromosoma in forma attiva, può capitare che si possa avere la
manifestazione (parziale) della malattia legata allo stato recessivo di quel gene.
Se uno dei due cromosomi X subisce un’anomalia di struttura, tendenzialmente ci sono 3 possibili tentativi
della cellula di recuperare una funzione normale nell’utilizzo dei geni del cromosoma X attraverso
un’inattivazione selettiva, in modo da causare il minor danno possibile all’individuo:
- Se abbiamo un cromosoma X anomalo (a sinistra in figura), anziché avere
un’inattivazione al 50:50 dei due cromosomi, viene prevalentemente
inattivato il cromosoma X anomalo lasciando attivo quasi sempre il
cromosoma X normale. La situazione opposta viene evitata perché, favorendo
l‘inattivazione del cromosoma X, si determinerebbe l’attivazione di geni in più
copie presenti su entrambi i bracci del cromosoma X alterato, con un
conseguente sbilanciamento del materiale genetico. I meccanismi evolutivi
hanno sviluppato un sistema che predilige l’inattivazione del cromosoma
inalterato rispetto a quello normale.

- Può avvenire che un cromosoma X è coinvolto in una traslocazione bilanciata,


(al centro in figura), ovvero un cromosoma X scambia segmenti cromosomici con
uno dei 22 cromosomi autosomici. In questo caso, avremo un meccanismo che si
potrebbe definire “opposto” a quello affrontato nel caso precedente, in quanto si
inattiva il cromosoma X normale, quello che non partecipa alla traslocazione,
mentre viene favorita l’attivazione de cromosoma X coinvolto nella traslocazione.
Il problema sorge nel momento in cui il cromosoma X riarrangiato (quello che
contiene il segmento dell’autosoma) può andare incontro ad inattivazione,
comportando l’insorgenza di una patologia in quanto si andrebbero a disattivare
anche i geni autosomici presenti su esso. Al contempo i geni del cromosoma X
presenti sull’autosoma continuerebbero a funzionare insieme al cromosoma X
normale, in quanto non andrebbero incontro a disattivazione. Questo
comporterebbe un eccesso di funzione dei geni presenti nella regione traslocata
del cromosoma X, in quanto avremmo sia quelli presenti sul cromosoma
autosomico, sia quelli presenti sul cromosoma X normale.

- Se il cromosoma X è coinvolto in una traslocazione sbilanciata (a destra in figura), accade la


condizione opposta alla precedente. Un cromosoma X è normale mentre
l’altro presenta del materiale che deriva da un altro cromosoma. In questo
caso la traslocazione non è bilanciata, in quanto questo cromosoma anomalo
è generalmente stato trasmesso da un genitore che già aveva questa
traslocazione bilanciata, ma nella formazione dei gameti non c’è la presenza,
nello stesso gamete, di entrambi gli elementi coinvolti nella traslocazione,
ma solo di uno dei due (in particolare, del cromosoma X). Per evitare danni
in questa situazione viene disattivato il cromosoma X riarrangiato.
Adottando questa strategia si va a perdere del materiale genetico di un
autosoma, andando incontro ad un evento simile a quello che prende il
nome di delezione cromosomica, cioè la perdita di materiale genetico di un
tratto di cromosoma.

130
CONSEGUENZE CLINICHE DELLE ANOMALIE CROMOSOMICHE DI NUMERO

Possiamo vedere le conseguenze cliniche più frequenti delle anomalie cromosomiche:


- Nel caso delle Triploidie questi individui raramente arrivano alla nascita e non sopravvivono a lungo.
- Aneuploidie cromosomiche di tipo autosomico
• Le Nullisomie sono letali allo stadio preimpianto, ma anche ammesso che un gamete riesca
a fecondare un ovocita e si abbia un corredo cromosomico con una Nullisomia, questo
zigote muore prima ancora di raggiungere la tuba dove impiantarsi.
• Nel caso della Monosomia l’unica compatibile con la vita è quella del cromosoma X
(Sindrome di Turner), tutte le altre sono letali durante lo sviluppo embrionale.
• Le Trisomie sono invece compatibili con la vita dell’embrione. La trisomia del cromosoma X
è perfettamente compatibile con un’attesa di vita normale. Gli individui con Sindrome di
Down (trisomia 21) possono diventare adulti e avere aspettative di vita sempre più vicine a
quelle di chi non ne è affetto. I feti con trisomia 13 o 18 in alcuni casi possono arrivare alla
nascita, anche se è raro, ma comunque le aspettative di vita sono di poche ore o pochi
giorni.
- Aneuploidie dei cromosomi sessuali

131
• Gli individui con cromosomi sessuali aggiuntivi, quando essi sono non più di 3, hanno tutti
una vita normale o comunque molto vicina alla normalità. Possono avere dei problemi di
riproduzione più o meno rilevanti, ma queste anomalie non sono incompatibili con la vita
normale.
• Mancanza di un cromosoma sessuale: nel caso di mancanza di un cromosoma Y non c’è
possibilità di sopravvivenza della cellula che va incontro a morte, mentre nel caso di
mancanza di un X il 99% degli zigoti viene abortito spontaneamente. Gli individui che
sopravvivono hanno un’intelligenza normale ma possono avere alcuni dismorfismi come
patologie cardiache, bassa statura nel caso della sindrome di Turner e infertilità (Amenorrea
primaria).

ANOMALIE CROMOSOMICHE DI STRUTTURA

Le anomalie di struttura sono alterazioni della forma di un cromosoma, per cui un segmento può essere
mal posizionato o assente. Possono essere:
- Inversioni
- Delezioni
- Traslocazioni
- Duplicazioni
- Cromosomi ad anello
- isocromosomi

INVERSIONI
Nelle INVERSIONI, un segmento cromosomico appare ruotato di 180°.
Possono essere:
- Pericentriche se si sviluppano attorno al centromero, possono
cambiare la forma del cromosoma, infatti, un cromosoma sub
metacentrico può diventare un cromosoma metacentrico.
- Paracentriche se riguardano un segmento privo di centromero, non
cambiano la struttura fondamentale del cromosoma.
Il segmento che viene rovesciato è detto breakpoint.
Nella figura troviamo a sinistra il cromosoma 9
normale, mentre, a destra, quello con
l’inversione. Questa è una inversione
pericentrica, infatti, si sposta il centromero. In
questo caso non si ha nessun effetto fenotipico,
infatti questa alterazione è detta para-fisiologica
o polimorfismo. Questo accade perché la regione
interessata dall’inversione non contiene geni
rilevanti per la nostra specie.

Al contrario, l’inversione pericentrica del cromosoma 10 è patologica, perché a livello di rottura vengono
interrotti uno o più geni. Come conseguenza si ha un’alterazione del funzionamento di questi geni e quindi
dell’effetto patologico del fenotipo.

La figura presenta una inversione pericentrica che coinvolge il segmento in arancio. La X rossa indica che in
quella zona si sta verificando un crossing-over e questo si può effettuare perché il tratto invertito del

132
cromosoma, grazie al ripiegamento su se stesso, riesce ad allinearsi quasi correttamente con i loci genici del
cromosoma omologo normale. In figura possiamo osservare due cromosomi omologhi, di cui uno è
normale mentre l’altro ha subito un’inversione. Il problema di possedere questa anomalia cromosomica
strutturale emerge durante la profase I della meiosi, dove la presenza di un’inversione pericentrica
sconvolge la tetrade, la quale per accoppiarsi correttamente compie delle contorsioni. Grazie al
ripiegamento, alla fine della meiosi, si ha che dei 4 cromatidi di partenza si hanno:
- Un cromatide normale che appartiene al
cromosoma normale (non coinvolto nel crossing- over).
- Un cromatide invertito perché è uno dei due
cromatidi fratelli del cromosoma con l’inversione ma non ha
subit il crossing over (e quindi anche questo individuo è
normale e portatore dell’inversione). Se questo cromatide
finisce in un gamete e riesce a dare luogo ad una
fecondazione, non si avrà nessun effetto fenotipico al 99,9%
dei casi.
- Un cromosoma che ha subito una delezione, cioè il
cromatidio che contiene i due telomeri per il braccio corto;
- Un cromosoma che ha subito una duplicazione e
corrisponde al cromatidio che contiene i due telomeri per il
braccio lungo.
Se questi 4 cromatidi si posizioneranno in 4 cellule
gametiche diverse, il 50% dei gameti conterrà uno dei due
cromosomi anomali e quindi sarà a rischio di generare aborti molto precoci (a seconda di quanto è
grande la regione invertita) o aborti più o meno precoci o la nascita di un bambino con difetti legati alla
presenza o all’assenza di alcune regioni (infatti si nota che nei due cromatidi alterati si ha uno che ha
un’abbondanza di geni per il braccio lungo e un’assenza di geni per il braccio corto e nell’altro
viceversa).

Nelle inversioni paracentriche, ovvero inversioni dove non viene


coinvolto il centromero, la situazione è più complicata,
contrariamente a come si pensa. Il danno dei gameti che
contengono cromosomi alterarti è talmente grave che i gameti
stessi, che dovrebbero contenere cromosomi alterati,
difficilmente saranno funzionali oppure andranno a formare uno
zigote che morirà molto precocemente. Supponiamo che un
individuo portatore di questa tipologia di anomalia
cromosomica strutturale abbia un cromosoma normale ed uno
invertito; se un cromatide con l’inversione fa crossing – over con
uno dei cromatidi normali del cromosoma omologo, otteniamo:
- Un cromosoma normale, non coinvolto nel crossing –
over;
- Un cromosoma invertito, identico a quello iniziale, che
non determina nessun effetto fenotipico;
- Un cromosoma che a seguito del crossing – over presenterà due centromeri (dicentrico) e avrà
perso una grande parte del braccio lungo del cromosoma. La presenza di due centromeri è un
evento drammatico perché se essi vengono raggiunti dalle fibre del fuso meiotico provenienti dai
due poli, si otterrà una trazione sulle due strutture che porteranno alla rottura cromosomica.

133
- Un cromosoma acentrico, risultato dal crossing – over, e non è altro che un frammento che contiene
parte del braccio lungo di entrambi i cromosomi e assenza del centromero. Questo cromosoma se
non viene riparato (ciò accade solo in casi eccezionali) con la generazione di un neocentromero, non
potrà essere orientato nel fuso meiotico e di conseguenza, non essendo raggiunto dalle fibre del
fuso, o finisce in una delle due cellule figlie oppure viene dapprima isolato da una membrana a
doppio strato e successivamente degradato, oppure la cellula tenta di reinserirlo con una serie di
processi.

DELEZIONI
Le delezioni consistono nell’eliminazione di un segmento cromosomico: il
cromosoma che subisce la delezione è quindi più corto dell’omologo. Le
delezioni visibili in metafase sono talmente ampie che si accompagnano sempre
a effetti fenotipici patologici: l’effetto patologico è correlato all’estensione della
regione deleta, maggiore è la regione e maggiore è il danno. Un altro fattore è il
contenuto genetico perso, infatti se ci sono geni attivati o housekeeping (geni
che vengono attivamente trascritti e tradotti, fondamentali in tutte le cellule), il
danno sarà grave, mentre se ci troviamo in una regione povera di geni, che
vengono attivati solo in determinate condizione della vita, ci potrebbe essere
un effetto fenotipico meno evidente; dunque solo delezioni in alcune regioni del genoma e di piccole
dimensioni possono essere superate senza una manifestazione patologica.
Esempi di delezione sono:
- Delezione del braccio corto del cromosoma n.5 che
porta alla manifestazione della sindrome del cri du
chat o del pianto di gatto o del catcraying, perché i
bambini con questa sindrome oltre al ritardo
mentale ed altre alterazioni, hanno una
malformazione che riguarda la laringe per cui quando
il bambino piange emette versi simili al miagolio di
un gatto.
- Delezione interstiziale, o delezione interna al
cromosoma. Una porzione che è presente sul
cromosoma di sinistra è invece assente su quello di
destra, ed è una condizione associata ad aprassia,
(incapacità di parlare correttamente e presenza di
problemi motori). Quando questa delezione colpisce
il cromosoma 15, al di sotto del centromero, di
origine paterna determina la sindrome di Prader-
Willi, quando invece risulta deleta sul cromosoma
materno, determina la sindrome materna sindrome
Angelman (in questo caso è una microdelezione,
difficilmente visibile al microscopio).

134
TRASLOCAZIONI
Le traslocazioni consistono nel trasferimento reciproco (o, meno
frequentemente, non reciproco) di segmenti cromosomici tra
cromosomi diversi. Se le porzioni scambiate dei cromosomi
coinvolti hanno dimensioni differenti, un cromosoma risulterà
molto più corto rispetto a quello di partenza e, viceversa, l’altro
cromosoma risulterà più lungo.
Le traslocazioni reciproche sono abbastanza frequenti, sono
causa di abortività ripetuta e infertilità, sebbene in larga parte
non siano accompagnate da effetto fenotipico nel portatore:
- Traslocazione tra i cromosomi
11 e 22. E’ una delle più
frequenti e consiste nel
trasferimento reciproco di
segmenti dei cromosomi 11 e 22.
Si verifica nel braccio lungo del
cromosoma 11 e nella porzione
distale del cromosoma 22.
Questa condizione è priva di
effetto fenotipico ma, quando
l’individuo portatore produce
gameti, si può generare la
sindrome di Emanuel. Questa
sindrome è dovuta al trasferimento in un gamete di un cromosoma 11 normale (di uno dei due che
ha il portatore) e, contemporaneamente, per il cromosoma 22, si ha il trasferimento sia del
cromosoma 22 normale sia di quello con il riarrangiamento. Questo determina uno sbilanciamento
genico, poiché:
• Ci sono 3 copie di una larga porzione del 22,
• si perde la porzione più lontana dal centromero del cromosoma 22, cioè il braccio lungo che
si era originariamente scambiato con il cromosoma 11 e che è quindi assente in quelle
regioni.
Il bambino avrà quindi un eccesso di sequenze della regione terminale del braccio lungo del
cromosoma 11 e un eccesso di sequenze vicine al centromero per il cromosoma 22. La sindrome
di Emanuel comporta orecchie distaccate dal cranio, atteggiamento gioviale, ritardo mentale e
altre anomalie.
- Traslocazione tra i cromosomi 8 e 14. La traslocazione 8-14 si può ritrovare in una serie di leucemie
e tumori delle cellule ematopoietiche. Non si tratta di una traslocazione costituzionale, bensì viene
acquisita durante la vita. A seguito di questa
traslocazione, un oncogene MYC (che partecipa ai
meccanismi di controllo della riproduzione
cellulare) dal cromosoma 8 si trasferisce sul 14 in
prossimità del promotore del gene IGH, che
codifica per le catene pesanti delle
immunoglobuline. A seguito della traslocazione la
porzione terminale MYC si trasferisce sul
cromosoma 14 e la porzione terminale del 14 va
sul cromosoma 8.
A seguito della traslocazione, la posizione
dell’oncogene MYC in prossimità del promotore
del gene IGH (il cui promotore è molto potente,
135
infatti viene definito super-promotore, dato che è un promotore che deve scatenare la sintesi delle
immunoglobuline quando l’organismo deve rispondere ad un agente estraneo) fa sì che il gene MYC
venga iper-espresso, determinando lo sviluppo di forme avanzate di mieloma, leucemia linfatica
cronica, tumori alle cellule ematopoietiche. Tutte queste condizioni sono conseguenza diretta della
traslocazione tra questi due cromosomi, quindi il portatore di questa traslocazione non ha un
fenotipo normale; generalmente questo tipo di traslocazione si verifica a livello somatico, solo in un
determinato tipo di cellule che derivano tutte da una in cui è avvenuta il fenomeno della
traslocazione, a differenza di ciò che accade nella sindrome di Emanuel dove la traslocazione che era
presente già in uno dei genitori, si riversa sul feto.
Non si tratta di una condizione costituzionale, l ’individuo non è stato concepito con
questa traslocazione.
- Traslocazione tra i cromosomi 9 e22. E’ un’altra traslocazione reciproca sbilanciata che porta alla
formazione del cromosoma Philadelphia (il nome
deriva dalla città in cui è stato scoperto), ovvero il
cromosoma 22 che è più piccolo del normale dato che
manca una porzione che si è spostata sul telomero del
braccio lungo del cromosoma 9. In questa traslocazione
un oncogene (ABL) viene in parte trasferito sul
cromosoma 22 e si forma, a livello del cromosoma
Philadelphia, un gene “di fusione” che non esiste in
natura, e determina un’attivazione continua della
proliferazione dei globuli bianchi, evento che porta
all’insorgenza di leucemie differenti. Questa è la prima
traslocazione ad essere stata scoperta in un tumore nell’uomo, negli anni 70’, anche se inizialmente
si pensava fosse una semplice delezione ma alcuni anni più tardi si comprese fosse una traslocazione
reciproca.
- Traslocazione tra i cromosomi 15 e 17. il cromosoma 15 è più
lungo rispetto al 17 e si viene a formare una traslocazione
reciproca sbilanciata. Abbiamo un trasferimento del gene PML
dal cromosoma 15 al 17, dove si fonde con il gene RARα
(recettore per i derivati della vitamina A). Porta allo sviluppo di
una leucemia promielocitica acuta.
a scoperta del coinvolgimento di questi geni ha portato allo sviluppo delle prime terapie mirate / targeter /
biologiche, cambiando l’aspettativa di vita di questi pazienti. È stato realizzato un farmaco (gleevec) per la
leucemia mieloide cronica che impedisce che il gene di fusione sul cromosoma 22 scateni
l’iperproliferazione cellulare, poiché il farmaco ha un’affinità per una regione specifica della proteina
codificata dal gene di fusione (proteina BCR-ABL, il cui nome deriva dai due geni coinvolti). Il farmaco,
legandosi a questa proteina, impedisce che essa attivi processi per portano all’iperproliferazione cellulare.
Per quanto riguarda la traslocazione 15-17, la scoperta del coinvolgimento del gene RARα ha fatto sì che,
l’utilizzo di un derivato della vitamina A, combinato con un'altra sostanza, permette di degradare il
prodotto proteico del riarrangiamento, impedendo il blocco maturativo dei pro-mielociti (cosa che avviene
con la malattia), precursori dei globuli bianchi che, rimanendo bloccati in una fase precoce,
continuerebbero a proliferare senza controllo. Il farmaco sblocca i meccanismi di maturazione, quindi i
promielociti diventano globuli bianchi maturi.

136
Il professore mostra un cariogramma e domanda dove
è localizzata l’anomalia: solitamente nei cariogrammi il
cromosoma normale della coppia è messo a sinistra
mentre quello mutato a destra. In questo caso
abbiamo il cromosoma 6 più lungo rispetto al normale
e un cromosoma 8 più corto rispetto all’omologo, si
tratta di una traslocazione reciproca bilanciata senza
effetto fenotipico, venuta alla luce a seguito di
continui aborti della paziente.

Le traslocazioni reciproche hanno effetti nella meiosi.


ADIACENTE 1: c’è l’appaiamento dei 4 cromosomi durante la meiosi, di cui 2 sono
coinvolti nella traslocazione. In un gamete quindi ci sarà un cromosoma normale
(azzurro) e un cromosoma coinvolto nella traslocazione (rosso) che contiene parte del
cromosoma omologo (azzurro) ed è privo di una propria porzione: questo gamete è
quindi sbilanciato. Lo stesso sarà per l’altro gamete, che presenta la situazione
speculare.
ALTERNATA: Abbiamo la formazione di un gamete normale che
contiene i cromosomi di ciascuna coppia che non sono coinvolti nella
traslocazione. Ovviamente, se da un lato abbiamo questa situazione, dall’altro il secondo
gamete conterrà il cromosoma azzurro coinvolto nella traslocazione con il rosso e quello
rosso coinvolto in traslocazione con quello azzurro. Questo gamete avrà contenuto
genetico normale perché il materiale che non risulta presente sul cromosoma azzurro, è
presente sul rosso e viceversa. Questo gamete ha dunque un corredo genetico bilanciato.
Questo quindi è ciò che accade ad una persona che è nata con la traslocazione e non ha
nessun effetto fenotipico.
Bisogna saper distinguere una traslocazione reciproca, che significa
trasferimento/scambio reciproco di materiale genetico tra due
cromosomi. Questa descrizione non entra nel contesto delle
conseguenze però. Lo scambio può esser privo di effetto fenotipico e
allora la traslocazione sarà reciproca bilanciata; qualora dovesse avere
effetto fenotipico (quindi ci dovesse essere lo sviluppo di un effetto fenotipico patologico)
la traslocazione sarà reciproca ma non bilanciata. Una persona che ha una traslocazione
reciproca e sta bene, è soggetta a traslocazione reciproca bilanciata. Questa persona
può avere figli ma la probabilità di avere figli normali è bassa e potrebbe avere aborti
ripetuti. Una persona che ha una traslocazione reciproca con effetti fenotipici è soggetta
a traslocazione reciproca non bilanciata. Se un bambino ha una traslocazione reciproca
non nota in precedenza, si va a vedere se uno dei due genitori è portatore della stessa
traslocazione. Se un genitore è portatore della traslocazione, quasi certamente non si
avrà una manifestazione fenotipica perché molte regioni del genoma sono sottoposte a controlli epigenetici
tipo imprinting.
ADIACENTE 2: Abbiamo una traslocazione reciproca per 1/3 dei gameti sono normali o bilanciati e 2/3
sbilanciati. In relata, bisogna vedere quello che effettivamente accade nella formazione dei gameti e
l’eventuale successo della fecondazione dei gameti sbilanciati. Si tratta quindi di proporzioni teoriche.

137
Nella figura abbiamo un individuo con traslocazione reciproca che darà luogo a:
- Un gamete con corredo normale (23 cromosomi),
- Un gamete bilanciati (con la traslocazione presente per quei due tipi di cromosoma, sia il viola che il
giallo)
- Due gameti sbilanciati o per il cromosoma in viola
o per il cromosoma in giallo.
Quando uno di questi gameti dà luogo a fecondazione
con gamete partner normale, avremo:
• un corredo cromosomico normale, a
seguito dell’uso del gamete contenente
cromosomi in forma normale del
portatore della traslocazione
• un figlio che ha la stessa traslocazione del
genitore, con una traslocazione bilanciata
• un feto in cui avremo una coppia di
cromosomi normale, in giallo, e una
coppia di cromosomi in viola con una
parziale delezione (c’è trisomia parziale
per il giallo e monosomia parziale per il
viola)
• un feto in cui avremo una coppia di
cromosomi normale, in viole, e una coppia di cromosomi in giallo con una parziale delezione
(c’è trisomia parziale per il viola e monosomia parziale per il giallo).
Oltre alle traslocazioni reciproche ci sono altre traslocazioni, le traslocazioni robertsoniane.

138
Queste sono dovute alla fusione di due cromosomi acrocentrici. Il nostro corredo cromosomico presenta 5
tipi di cromosomi acrocentrici: 13,14,15,21,22. Questi cromosomi hanno il centromero ad un’estremità, con
un braccio corto molto piccolo costituito solo da regioni satelliti (quelle che contengono i geni per gli rRNA).
Può capitare che due di essi si fondano a livello del centromero. L’individuo fenotipicamente sano avrà
apparentemente non 46 cromosomi ma 45, perché 2
cromosomi sono uniti a livello del centromero. Nella
maggior parte dei casi le regioni satelliti vengono perdute
senza effetto fenotipico perché in esse sono presenti
sequenze ripetute necessarie per la sintesi del RNA
ribosomiale e la perdita di questo materiale genetico non
comporta effetti fenotipici particolari visto che questi geni
sono ripetuti su tutti gli altri cromosomi. I portatori di
questa traslocazione hanno un rischio quando decidono di
avere figli perché essa potrebbe portare alla produzione di
gameti a contenuto genico sbilanciato.
Il professore mostra questo cariogramma nel quale
apparentemente manca il cromosoma 21. Tuttavia, questa persona è in ottima salute; il cromosoma 21, in
realtà, è fuso con il cromosoma 14. La signora ha sia un cromosoma 14 normale sia un cromosoma 21
normale e poi un cromosoma che è dato dalla fusione tra il 14 e il 21.

In una persona con un corredo cromosomico di questo tipo, quando si avvia la gametogenesi, si possono
formare gameti con contenuto cromosomico vario:
- Caso A: Nello stesso gamete possono finire i due cromosomi normali, i
quali daranno luogo ad un gamete con contenuto genetico normale.
Nell’altro gemete, ci sarà il cromosoma con la traslocazione
robertsoniana e avrà un corredo genico normale (sebbene non
risulteranno né un cromosoma 21 né un 14, anche se il materiale
genico è integro): si tratta di un gamete bilanciato.

139
- Caso B: Possono formarsi gameti sbilanciati. Nel primo gamete avremo il cromosoma 21 normale
ma il cromosoma 14 con la traslocazione robertsoniana (quindi “si porta
dietro” anche una copia di 21, causando un eccesso di geni per il
cromosoma 21 e dando origine ad un gamete sbilanciato). Ne consegue
che l’altra cellula che si ottiene conterrà solo il cromosoma 14 normale
e non conterrà alcun cromosoma 21. Ovviamente questo secondo gamete sarà fortemente
sbilanciato.
- Caso C: Un gamete contiene il 14 normale e il 21. L’altra cellula figlia
conterrà solo il 21 e sarà privo del 14: in questo caso lo sbilanciamento
è molto grave perché il 14 è ricco di geni.

Teoricamente, la persona che è portatrice di una traslocazione robertsoniana ha un 30% di chances di avere
un figlio normale, o per lo meno con traslocazione bilanciata, e un 60/70% di
probabilità di generare un feto con uno sbilanciamento cromosomico più o
meno grave.
Dal punto di vista pratico, però, la situazione cambia. Se il gamete con
corredo normale viene fecondato da un gamete normale, darà luogo ad un
feto normale. Se invece un gamete normale feconda un gamete bilanciata
contenente la traslocazione, allora questo avrà un figlio in cui ci sarà la
stessa traslocazione del genitore (ma il fenotipo sarà sempre normale).

Se ad esser fecondato è il gamete che ha il cromosoma con corredo sbilanciato


( ha il 14 con il 21 attaccato e il 21 libero), questo gamete, combinandosi con il
gamete del partner normale, darà origine a una cellula figlia con 3 cromosomi
21 e 2 cromosomi 14. Questo bambino sarà patologico e presenterà la
sindrome di Down.

Il professore prende ora in


considerazione gli ultimi 3 gameti:
- Se il gamete normale del partner si combina con il gamete
che contiene solo il cromosoma 14 avremo un feto con 2
cromosomi 14 e un solo cromosoma 21: questa situazione
non è compatibile con la vita.
- Il gamete che ha due cromosomi 14 ed un cromosoma 21, fecondato con un gamete del partner
normale, dà luogo ad una cellula con 2 cromosomi 21 e 3 cromosomi 14. La trisomia del cromosoma
14 è incompatibile con la vita.
- Il gamete con un solo cromosoma 21 è fortemente sbilanciato e non è in grado di dar luogo a
fecondazione. Anche questa situazione è dunque incompatibile con la vita.
Un portatore di traslocazione robertsoniana genera quindi 2/3 dei figli con fenotipo normale perché, o
hanno corredo cromosomico normale, o hanno la traslocazione bilanciata, e 1/3 con fenotipo patologico
(sindrome di Down). Bisogna tener conto anche del fatto che entro la 15esima settimana un feto con la
sindrome di Down va incontro ad aborto spontaneo nella maggioranza dei casi, quindi questa probabilità è
anche minore.

140
questo è il cariotipo di una bambina con la sindrome di
down. Grazie a questo si è scoperto che la madre di questa
bambina aveva una traslocazione robertsoniana. Il
cromosoma 14 ha il cromosoma 21 attaccato.

DUPLICAZIONI
Le duplicazioni consistono nella duplicazione di un segmento cromosomico. Di uno stesso
segmento, ci saranno 3 copie (trisomia
parziale).
L’immagine raffigura la duplicazione
interstiziale del cromosoma 7.
Quando ci sono queste alterazioni nel numero di copie di
una regione cromosomica, si parla di un effetto dose
associato agli sbilanciamenti cromosomici. Quest’effetto ha
conseguenze immediate (effetti primitivi) che sono
costituite da un aumento o diminuzione, in caso di
delezioni, della sintesi dei prodotti dei geni coinvolti nel
segmento anomalo. Ci sono poi effetti secondari correlati
alle funzioni che questi geni duplicati determinano. Quando abbiamo un riarrangiamento di una regione

141
cromosomica, dobbiamo analizzare i geni presenti in quella regione per prevedere gli effetti
dell’alterazione.

CROMOSOMI AD ANELLO
I cromosomi ad anello sono cromosomi dovuti alla perdita delle regioni telomeriche del cromosoma su
entrambi i bracci. A seguito di queste perdite, si generano estremità del DNA molto
reattive chimicamente (sticky ends) e il cromosoma si ripiega su se stesso, generando
un’adesione tra le due estremità. Il cromosoma ad anello è difficile da dividere nelle
cellule figlie dopo che è avvenuta la fase S, perciò può presentare al suo interno una
duplicazione del contenuto. Questo si riflette nel rallentamento del processo di
duplicazione cellulare, che porta ad un ridotto accrescimento in epoca embrionale e
fetale dell’individuo con cromosoma ad anello, qualunque esso sia. Questo ha
ripercussioni anche nella vita post-natale ma non determina necessariamente un fenotipo patologico.
Più il punto di rottura è vicino all’estremità telomerica maggiore è la conservazione dei geni e perciò non ci
saranno, tendenzialmente, malattie gravi. Per perdite di geni molto estese le alterazioni sono talmente
gravi che l’embrione viene abortito in epoca precoce.

Nella figura si vede il cromosoma 13 che si è circolarizzato.


Nella figura più a sinistra il cromosoma 13 ad anello presenta un solo centromero. Mentre, nella seconda
immagine il cromosoma 13 ad anello presenta due centromeri perché, essendo i cromosomi ad anello
difficili da orientare, durante la metafase e l’anafase, può succedere che i due cromatidi fratelli del
cromosoma restino insieme e migrino nella stessa cellula originando una cellula con un eccesso di geni per
quel cromosoma e ad un’altra cellula che invece è priva di quel cromosoma.
L’effetto fenotipico del cromosoma ad anello dipende da quanto è estesa la regione andata perduta
insieme alle regioni telomeriche. Maggiore è la regione perduta maggiore è l’effetto fenotipico ma
comunque resta correlato, qualunque sia il cromosoma coinvolto, al rallentamento delle divisioni cellulari
perché il cromosoma ad anello è difficile da separare e si arriva al punto che la gravidanza procede ma il
bambino comunque è più piccolo rispetto al tempo di gestazione. Questo ridotto accrescimento resterà
anche dopo la nascita. Questa condizione determinerà un ritardo mentale più o meno grave.

GLI ISOCROMOSOMI
Gli isocromosomi sono cromosomi che si generano con meccanismi molto complessi. Normalmente, un
cromosoma nell’anafase viene suddiviso nei due cromatidi fratelli. A volte, c’è un errore nella ripartizione
del materiale genetico per cui i due bracci corti vanno in una cellula e i due bracci lunghi nell’altra. Si
ottengono delle cellule figlie con corredo cromosomico sbilanciato:
- una ha una monosomia per tutti i geni del braccio corto mentre ha una trisomia per i geni del
braccio lungo,
- l’altra cellula ha la situazione speculare: 3 copie dei geni per il braccio corto e una copia per i geni
del braccio lungo.

142
Poiché negli sbilanciamenti cromosomici è meglio l’abbondanza che la mancanza, la cellula con la trisomia
per il braccio lungo è più avvantaggiata.
Gli isocromosomi sono noti nelle cellule tumorali.
Sul braccio corto del cromosoma 17 c’è il gene guardiano del genoma (gene DP53) che controlla la normale
attività della cellula e blocca quelle che presentano alterazioni.
Questo gene è coinvolto nel processo di apoptosi, è un gene
difensore perché impedisce lo sviluppo delle cellule neoplastiche
e, quando si perde una copia di questo, la cellula diventa
predisposta allo sviluppo di alterazioni, e quindi di tumori e
neoplasie, che sono molto più aggressive. Se le anomalie
compaiono nelle cellule germinali, otteniamo un gamete non
funzionante o un aborto spontaneo. Si può anche arrivare alla
nascita di un bambino plurimalformato più o meno grave. Se
invece insorgono nelle cellule somatiche, possono determinare o
la morte cellulare, cosa che capita molto frequentemente, o la
selezione per vantaggio proliferativo, ovvero, la cellula con
l’alterazione cromosomica prolifera autonomamente ed
indipendentemente rispetto alle cellule normali. La popolazione
con anomalia cromosomica tenderà a prendere il sopravvento e a sostituire le cellule normali (leucemie e
tumori).
Volendo riassumere quello che accade quando vi è un corredo cromosomico sbilanciato si può guardare
l’immagine sottostante.

Gli effetti dipendono dal momento in cui si verifica lo sbilanciamento:


- Se questo si verifica già nelle cellule germinali, si possono avere gameti non funzionanti, l’aborto
degli zigoti oppure la nascita di un bambino plurimalformato (ma questo è un caso molto raro);
- Se, invece, lo sbilanciamento si genera dopo la nascita le cellule possono andare incontro a morte
ma si ha anche il caso in cui lo sbilanciamento determina nella cellula un vantaggio proliferativo
rispetto alle cellule normali ed è questo il meccanismo con cui si sviluppano leucemie e tumori.
Ci sono due cariotipi particolari:
- mosaicismo
- chimerismo

143
MOSAICISMO
Il mosaicismo consiste nella contemporanea presenza di cellule derivate da cellule progenitrici
cromosomicamente differenti (linee cellulari differenti) a loro volta originatesi da uno stesso zigote.
E’ quella condizione per cui uno stesso individuo presenta due o più linee cellulari con cariotipo differente,
sebbene derivino dallo stesso zigote, per via di errori di ripartizione dei cromosomi nei primi stadi di
divisione mitotica dopo la formazione dello zigote. L’esempio più frequente è quello del mosaicismo del
cromosoma X.

Consideriamo uni zigote XX. Può accadere che in una divisione mitotica i cromosomi X, anziché ripartirsi
equamente nelle due cellule figlie, sono più sbilanciati in una cellula rispetto all’altra; per cui si forma una
cellula a 47 cromosomi con 3 cromosomi X (corredo cromosomico tipico della trisomia X o delle “super
femmine”) mentre l’altra cellula figlia sarà priva di un cromosoma X e quindi avrà 45 cromosomi con un
solo cromosoma X (corredo cromosomico tipico della sindrome di Turner). La non disgiunzione è mitotica,
non meiotica in questo caso.
L’errore di non disgiunzione mitotica, nelle cellule femminili, può dar luogo a due cellule figlie:
- XXX
- X0
Qui la mancata presenza di un fenotipo normale dipenderà da quale sarà la maggiore popolazione. Se
prevarranno le cellule con monosomia X, si potrebbe avere un fenotipo turneriano (ricorda una sindrome di
Turner attenuata) e la persona è fertile. Se invece prevale la trisomia X, si avrà un fenotipo normale della
persona anche se in presenza di un mosaicismo.
In questa circostanza la popolazione cellulare con un solo cromosoma X tenderà a proliferare meno rispetto
alla popolazione cellulare con la trisomia X, quindi, nel tempo, durante lo sviluppo embrionale, le cellule
con la monosomia del cromosoma X tenderanno ad essere minoritarie; addirittura tenderanno ad essere
sempre meno anche dopo la nascita. Dunque, è una popolazione cellulare che andrà a scomparire man
mano che prosegue la vita dell’individuo. L’altra popolazione cellulare, quella con la trisomia X (super
femmine), invece, avrà sempre maggiore effetto, si svilupperà, e si verificherà il classico fenotipo di donna
con alta statura, rilevante struttura muscolare e ossea, con qualche problema eventualmente al momento
della riproduzione.
Può anche capitare, più raramente, che in una mitosi molto precoce, dopo la formazione dello zigote, uno
dei cromosomi X vada perso (vedi figura 3 parte cerchiata) ; quindi, la cellula dividendosi darà luogo a una
popolazione cellulare normale e a una popolazione di nuovo con un corredo a 45 cromosomi con un solo
cromosoma X, con la sindrome di Turner. In questa situazione, l’effetto clinico della patologia sarà
sicuramente maggiore, perché, non è chiaro il motivo, questa popolazione cellulare con un solo cromosoma
X tende a permanere nella donna anche dopo la nascita (a differenza dell’esempio analizzato
precedentemente). Nel caso in cui questa popolazione fosse particolarmente abbondante potrebbe

144
verificarsi la manifestazione di alcune caratteristiche come la statura inferiore, rispetto a quella che ci si
aspetterebbe vista la statura dei genitori.
Inoltre, nel caso in cui la donna abbia un mosaicismo per il cromosoma X, cioè abbia due linee cellulari di
cui una a 45 cromosomi con un solo cromosoma X, potrebbe anche esserci una riduzione della fertilità con
una anticipata menopausa proprio perché tenderanno ad essere pochi gli ovociti che si formeranno nelle
ovaie.

Nella figura, si ha uno zigote XY che nella prima divisione mitotica sbaglia a ripartire il materiale
cromosomico e genera due cellule figlie, una contenente XXY e un’altra contenente una sola YO, la quale
non essendo vitale va incontro a morte. Accade che lo zigote maschio diventa un individuo con la sindrome
di Klinefelter per una non disgiunzione mitotica.
Lo stesso può accadere anche nel caso in cui si generano due cellule figlie che possono avere:
- XYY
- XO
Queste due popolazioni cellulari tenderanno a proliferare e si avrà un individuo a fenotipo maschile e
l’effetto della linea cellulare con un solo cromosoma X sarà mitigato perché l’individuo ha comunque ha a
disposizione le cellule normali anche se contengono due cromosomi Y.

Nella figura è possibile vedere le conseguenze del mosaicismo quando non si verifica alla prima divisione
mitotica ma alle successive divisioni mitotiche (comunque sempre molto precocemente). In questo caso è
possibile che si formino anche più popolazioni con un corredo cromosomico diverso pur appartenendo allo
stesso zigote. Il risultato clinico (fenotipico), sarà sempre conseguenza dell’abbondanza delle varie
popolazioni cellulari che sono state generate. Queste varie popolazioni cellulari che si formeranno derivano
tutte da un comune zigote che ha un cariotipo (corredo cromosomico) normale.

145
In figura vediamo cerchiato il caso di una femmina che dopo una prima divisione normale genera delle cellule
con un corredo cromosomico alterato dello stesso tipo visto nel primo caso analizzato per quanto riguarda il
mosaicismo alla prima divisione. Dunque, questo embrione femminile potrà avere tre differenti corredi
cromosomici:
- normale
- con trisomia X
- con monosomia X
Tutte e tre le linee cellulari possono essere reperite anche dopo la nascita. La stessa cosa possiamo notarla
con un corredo cromosomico maschile normale (porzione nel riquadro). Nello zigote, in una delle prime
divisioni cellulari, una delle cellule in mitosi va in contro ad errori e si generano tre popolazioni che
riguardano, in questo caso, il cromosoma Y. Esso infatti può essere assente, dando luogo ad una popolazione
cellulare 45 X, ma può dare luogo anche ad una popolazione cellulare con XYY.
L’effetto di queste tre popolazioni sarà manifesto solo se queste con corredo cromosomico alterato saranno
sufficientemente numerose; in questo caso, le cellule con due cromosomi Y a 47 cromosomi hanno un
comportamento dal punto di vista fenotipico sovrapponibile alle cellule con un corredo cromosomico
normale. Bisognerà, quindi, vedere quanto abbondante sarà la popolazione di cellule con il corredo a 45
cromosomi con un solo cromosoma X, tenendo presente che siamo di fronte a una situazione a fenotipo
maschile e difficilmente questa linea cellulare potrà avere un effetto rilevante nel fenotipo finale del
bambino.
Dunque, il mosaicismo consiste nella presenza di due o più popolazioni cellulari dello stesso individuo tutte
originate dallo stesso zigote.

CHIMERISMO
Il chimerismo è la contemporanea presenza di
uno stesso individuo di due o più popolazioni
cellulari differenti ma che derivano da due
zigoti differenti. Il chimerismo si differenzia dal
mosaicismo poiché il si genera quando un
individuo viene sottoposto a un trapianto di
cellule da un donatore. Questi individui
avranno il loro corredo cromosomico iniziale
negli altri tessuti ma nell’organo trapiantato
(cuore, fegato, rene...) avranno il corredo
cromosomico del donatore
Se il donatore fosse un gemello monozigote,
non si potrebbe rilevare il chimerismo, a meno
che non si analizza il DNA mitocondriale (che
varia anche tra gli omozigoti).
Un paziente che viene sottoposto a un trapianto di cellule staminali ematopoietiche poiché affetto da
talassemia o da anemia falciforme, nelle cellule della linea del sangue presenterà un cariotipo che
corrisponderà a quello del donatore (poiché stiamo parlando di cellule ematopoietiche).
Se il donatore è dello stesso sesso noi non vedremo nulla, tuttalpiù potremo andare a vedere nel genoma,
nel DNA delle cellule del sangue, se ci sono le differenze che ci si aspetta tra le caratteristiche del genoma
del ricevente (malato) e le caratteristiche genomiche presenti invece nel donatore. Se invece cambia il
sesso (tipicamente il trapianto si esegue tra fratelli), dunque se il paziente è maschio e la donatrice è la
sorella, facendo un’analisi del cariotipo su sangue periferico del paziente che ha subito il trapianto,
146
riscontreremo due linee cellulari. Queste linee cellulari saranno quella del paziente e quella della donatrice,
quindi avrà due cromosomi X.
Questo chimerismo viene proprio utilizzato per stabilire se il trapianto ha avuto successo. Se nel paziente,
nel sangue periferico, si trovano solo cellule della donatrice, possiamo tranquillizzare il paziente poiché il
trapianto ha avuto successo completo.
Dunque, il reperimento delle sequenze polimorfiche nei due cromosomi X nel paziente servirà come test
per verificare la stabilità della linea cellulare trapiantata. Se invece il paziente presenta nel sangue
periferico il 50% di cellule a cariotipo femminile e il 50% di cellule a cariotipo maschile, siamo difronte a una
situazione un po’ preoccupante poiché vorrebbe dire che le cellule trapiantate hanno grande difficoltà a
colonizzare tutto il tessuto ematopoietico del paziente (molto importante quando questo tipo di trapianto
viene applicato per alcune forme di leucemia).
Quando in un paziente con una leucemia mieloide acuta sottoposto a trapianto, con la speranza di
eradicare tutte le cellule malate e sostituirle con quelle del donatore, viene analizzato il cariotipo e si
scopre che le cellule della donatrice sono il 25-40%, questo rappresenta un pessimo segnale di come sarà
l’evoluzione del trapianto nel paziente.
Quando si fa un trapianto di questo genere normalmente il paziente viene sottoposto ad una terapia, in
genere con radiazioni ionizzanti, che distrugge la popolazione cellulare del midollo osseo in modo da
eliminare tutte le cellule neoplastiche presenti, o la stragrande maggioranza; a quel punto il paziente viene
sottoposto a infusione di cellule staminali del donatore. Quello che ci si aspetta è che entro tre mesi, dal
momento in cui è avventa l’infusione, le cellule della donatrice colonizzino il tessuto ematopoietico del
paziente sostituendo completamente le cellule malate del paziente con quelle sane della donatrice. Se
dopo tre o, massimo, sei mesi questo non accade, bisogna iniziare a pensare che il trapianto probabilmente
non andrà a buon fine.
Dunque, si dovrà trovare un altro donatore o ripetere il trattamento per il trapianto di cellule
ematopoietico (trattamento pericoloso per la vita del paziente perché vengono eliminate tutte le cellule
delle difese immunitarie e bisogna aspettare che le cellule staminali trapiantate colonizzando il sistema
ematopoietico ricomincino a funzionare anche come cellule della linea bianca che producono anticorpi e in
generale linfociti b e t necessari per la difesa dell’organismo).
Quindi un soggetto sottoposto a trapianto di cellule per un certo organo conterrà sia cellule proprie
derivate dallo zigote (quando lui è stato concepito), sia cellule dei tessuti che gli sono stati trapiantati.
Una condizione particolare può essere la presenza di due linee cellulari derivate da due zigoti diversi in un
individuo che non è stato soggetto al trapianto. Questo si può verificare se la gravidanza in realtà era
cominciata come gravidanza gemellare; durante l’evoluzione della gravidanza può avvenire il
riassorbimento di uno dei due embrioni e questo può determinare il passaggio di cellule dell’embrione
riassorbito, attraverso il circolo placentare, all’embrione che invece sopravvive. Per questo può succedere
che l’individuo quando nasce avrà qualche tessuto che contiene sia cellule con il proprio patrimonio
genetico derivante dal proprio zigote, sia cellule che derivano dall’ex fratellino gemello morto durante i
primi stadi della gravidanza.

CLONE
Con il termine clonia si intende la presenza di cloni in un quadro clinico. L’insieme di cloni è una
popolazione di cellule derivanti da una singola cellula originale che, per un errore genetico, si è potuta
trasformare da normale a neoplastica: da questa deriva una popolazione di cellule destinate purtroppo a
dare vita ad un tumore.

147
MODA CROMOSOMICA
Per moda cromosomica si intende il numero di cromosomi più frequente nell’ambito di un tessuto
analizzato. Anche questo è un evento che tipicamente ricorre nelle cellule tumorali o nei tessuti tumorali
dove in fase avanzata c’è un’estrema eterogeneità cellulare, poichè tante cellule hanno subito una serie di
mutazioni per via della loro instabilità genica e presentano quindi un corredo cromosomico e genico
diverso. Ci sono quindi numerose cellule che hanno un patrimonio genetico differente sebbene derivino
tutte da un'unica cellula iniziale trasformata da normale a tumorale. Un esempio sono le forme più
avanzate di leucemia acute, che spesso hanno corredi cromosomici alquanto bizzarri con numeri
cromosomici per cellula variabili da 23/24 cromosomi fino a 150 cromosomi con alterazioni strutturali.

CONSULENZA GENETICA
Non tutte le aneuploidie hanno una conseguenza grave per il portatore. La tabella riporta l’evoluzione delle
anomalie dei cromosomi del sesso a seguito di un’analisi pre-natale.
Nel caso di feti con XXX, nel 36% dei casi di diagnosi i genitori hanno scelto di interrompere la gravidanza
volontariamente. Nel caso della sindrome di Turner (X0) il numero di interruzioni è maggiore perché spesso
l’aborto avviene spontaneamente.
Si tratta di interruzioni per gravidanze che avrebbero portato alla nascita di bambini sostanzialmente sani;
quindi, si tratta di interruzioni che si sarebbero potute evitare.

Tipo di aneuploidia n. casi n. interruzioni %


XXX 162 57 36
XXY 127 51 40
XYY 111 31 28
X0 13 7 54
XXYY 4 3 75
Varianti 2 1 50

148
149
150
SEQUENZE DUPLICATE
Le anomalie cromosomiche si originano perché nel nostro genoma ci sono tante sequenze di dimensioni
variabili (anche molto estese) duplicate, identiche tra di loro, con un’omologia del 97-98% della sequenza
nucleotidica. Questo fatto rappresenta una causa di anomalie cromosomiche.
Nell’immagine (a) vengono rappresentati due cromosomi omologhi
in meiosi. Essi dovrebbero essere perfettamente appaiati a
formare la tetrade, ma la presenza di due tratti di DNA identici
sullo stesso cromosoma fa sì che l’appaiamento non sia corretto e
in fase. Infatti, la sequenza A-B si appaia con quella c-d (anziché a-
b) del cromosoma omologo in un tentativo di crossing- over poiché
hanno lo stesso contenuto nucleotidico (si tratta di sequenza
diplicate). Così il piccolo segmento che va da d fino al telomero (del
cromosoma di destra) viene trasferito sul cromatide del
cromosoma di sinistra; mentre i geni B C D presenti su di questo si
trasferiscono sul secondo cromatide (nonostante questo presenti
già l’allele per i geni B e
C). Il risultato è un cromatide più corto del normale (delezione) e
un cromatide che contiene 2 alleli dei geni B e C (duplicazione).
Quando il gemete contenete questo cromatide verrà fecondato,
esso conterrà ben 3 alleli per i geni B e C anziché 2. I due
cromatidi che non partecipano al crossing over restano invariati.
Nella figura (d) viene rappresentato un errore nello scambio di
regioni non omologhe tra due cromatidi fratelli, evidenziato dalla
colorazione SCE. Questo comporta il distacco dei due segmenti
cromosomici a valle del crossing over, lo scambio del materiale
tra i due cromatidi fratelli e la generazione di un cromatide deleto

151
e uno duplicato. In questo caso si possono generare, per un appaiamento ineguale o non omologo,
alterazioni delle regioni cromosomiche sbilanciate.

La figura (g) rappresenta un terzo esempio. In presenza di


ripiegamenti, le sue sequenze duplicate presenti nello stesso
cromatide possono scambiarsi tra loro in un processo simile al
crossing over. Ciò porta al distacco dei due segmenti e il
ricongiungimento, con la generazione di un cromosoma deleto
e di un anello privo di centromero (quindi eliminato con le
successive divisioni cellulari, infatti genera cellule
monosomiche per quel tipo di cromosoma).

152
CITOGENETICA MOLECOLARE E CITOGENOMICA
Negli anni si è cercato di ottenere immagini sempre più dettagliata dalle varie
bandeggiature, ma queste presentano numerosi limiti. Infatti, per allungare i
cromosomi cercando di avere un’immagine più dettagliata in bandeggiatura G,
si finisce per renderli quasi illeggibili. Inoltre, ogni banda cromosomica, per
quanto sia stata decondensata, contiene numerosissimi nucleotidi, quindi la
scomparsa di una banda altera profondamente l’analisi.
In figura 1 si mostra il cromosoma 1 nei suoi gradi crescenti di decondensazione.
Si nota che, se a bassa risoluzione si individua una grossa banda che caratterizza
il cromosoma in questione, man mano che aumenta la decondensazione della
cromatina ci si accorge che questa grossa banda in realtà è costituita da
sottobande o più precisamente da aree. In definitiva, si evince che è possibile rilevare una serie di
localizzazioni differenti attraverso la decondensazione della cromatina. Purtroppo, non è detto che questo
processo fornisca informazioni come sembra promettere, perché i cromosomi diventando più decondensati
e dunque più lunghi divengono più difficili da analizzare. Infatti, in queste condizioni essi tendono ad
arrotolarsi rendendo difficoltosa l’analisi delle varie aree chiare e scure di cui sono caratterizzati.
Per facilitare l’analisi dei cromosomi e la rilevazione di geni e/o alterazioni di questi ultimi si è ricorsi alla
combinazione di due tecnologie: quella della citogenetica e quella della genetica molecolare. Queste ci
permettono di analizzare più in profondità le alterazioni di piccole dimensioni. Tale approccio si basa sulla
capacità di sequenze tra loro complementari di appaiarsi spontaneamente.

IBRIDIZZAZIONE MOLECOLARE
Se prendiamo il nostro DNA, lo purifichiamo e lo mettiamo ad alta temperatura in acqua, raggiunta una
certa temperatura si denatura e le due emieliche si separano. Se lasciamo raffreddare la soluzione, quando
la temperatura scende di 25°-30°, le catene complementari cominciano a riappaiarsi spontaneamene,
iniziando dalle regioni ricche di sequenze ripetute, fino alla ri-naturazione completa. Questo fenomeno è
stato sfruttato nell’ibridizzazione molecolare, che confronta acidi nucleici di origine diversa tra loro. E’
grazie a questo sistema che si è scoperta la presenza di introni ed esoni poiché l’appaiamento tra DNA e
RNA dello stesso tessuto risultava essere irregolare. Infatti, facendo ibridare le molecole di DNA genomiche
con gli RNA di una cellula, si scoprì che gran parte delle molecole di DNA non si ibridavano con quelle di
RNA della stessa cellula (contrariamente a quanto si pensava) a sottolineare che esistevano all’interno di
sequenze geniche dei tratti che non venivano rappresentati negli RNA: per l’appunto, gli introni.
Mescolando due acidi nucleici di origine diversa, se essi contengono tratti complementari, si possono
produrre molecole a doppia elica ibride, date cioè dall’appaiamento per complementarità delle basi di
catene singole di origine differente (DNA-DNA, DNA-RNA, RNA-RNA).
Con tale metodica si può verificare la presenza di un gene in un dato genoma ibridizzando quest’ultimo con
una copia completa o parziale del gene stesso (sonda molecolare). L’avvenuta ibridizzazione sarà
visualizzabile se la sonda impiegata sarà stata precedentemente marcata. La presenza della marcatura,
espressione dell’ibridizzazione, rivelerà la presenza di quel gene nel genoma oggetto dell’analisi.
Nella figura vediamo (in nero e in rosso) DNA di origini diverse, che vengono denaturati fino ad ottenere
tutte catene singole. Quando, abbassando la temperatura, le lasciamo ri-naturare, sequenze
complementari (anche se di origine diversa) cominciano a riapparsi portando all’ibridazione degli acidi
nucleici. Questa tecnologia è stata abbondantemente usata a partire dagli anni 80 e su di essa si basa l’uso
della PCR, del sequenziamento genomico e di altre tecnologie.

153
IBRIDAZIONE IN SITU FLUORESCENTE (FISH)
La tecnologia dell’ibridazione fu trasferita dagli acidi nucleici liberi ai cromosomi. Si pensò di far avvenire
l’ibridazione dell’acido nucleico contenuto nei cromosomi metafasici con una sequenza di DNA, libera, di
nostro interesse. Entrambi i DNA vengono denaturati e in seguito si riesce a verificare se la sequenza di un
certo gene è presente nel genoma dell’individuo o meno. Tale tecnologia prende il nome di ibridazione in
situ in fluorescenza o FISH. Questo processo avviene direttamente all’interno dei cromosomi, dei nuclei o
delle sezioni istologiche, senza dover spostare il DNA del paziente che intendiamo valutare. Tale
caratteristica permette di capire in quale regione di una sezione istologica si ritrova la mutazione e dove
invece quest’ultima non è presente.
Il processo parte col marcare, mediante una sostanza fluorescente, la sequenza di DNA che porta il gene
che intendiamo analizzare. Si procede poi con la denaturazione della sequenza di rilevamento detta
sequenza sonda, la quale viene diluita in una soluzione tampone per poi farla sgocciolare su vetrini, sui
quali sono attaccate le piastre metafasiche. Dopo una notte di incubazione a 37° si osservano i vetrini con
un microscopio a fluorescenza. Le zone in rosso sono le zone che sono state marcate dalla sonda. In questa
maniera si può andare a vedere dove sono localizzati i geni di nostro interesse.

154
Si valutano alcuni esempi di ibridazione in situ per cromosomi in metafase.
Nella figura affianco i cromosomi si trovano in metafase: sulla
coppia di cromosomi 1 notiamo segnali in giallo che
corrispondono a una sonda che all’epoca era necessario
mappare per uno studio.
Grazie alla FISH è stato possibile capire in che regione
cromosomica si trovasse il gene di cui si volevano studiare le
caratteristiche. La tecnica FISH fu immediatamente utilizzata
anche per scopi clinici. Esiste infatti una sindrome
denominata sindrome di DiGeorge, una condizione

caratterizzata da cardiopatia congenita, dovuta alla


delezione di circa 3 milioni di nucleotidi sul cromosoma 22.
Questa delezione è rilevabile solamente con la tecnica FISH.
Si tratta di una cardiopatia congenita spesso associata ad
un dismetabolismo del calcio, ad anomalie facciali (il nasino
dei bimbi ha la radice schiacciata e narici più allargate), alla
labiopalatoschisi nell’8% dei casi, al ritardo psicomotorio
assai variabile (da nullo a gravemente patologico,
comprendendo anche casi di autismo). E’ possibile quindi
per una stessa coppia di genitori, di cui uno dei due
presenta la delezione sul cromosoma 22, di avere sia figli
malati che figli sani.

Posiamo quindi vedere dove sono localizzati i geni.

In figura si ha una piastra metafasica osservata in


fluorescenza in cui si riconoscono due cromosomi 22
che hanno segnali fluorescenti. Di questi due, solo
uno presenta il segnale rosso che corrisponde
proprio alla regione che si è persa e rappresenta la
testimonianza della presenza della Sindrome di
George nell’individuo. Infatti, si ha un cromosoma
22 avente un segnale verde in corrispondenza del
telomero del braccio lungo (che serve per
riconoscere velocemente all’esame di fluorescenza il
cromosoma di interesse e per effettuare un
controllo interno) ed uno rosso. Si osserva poi un
altro cromosoma 22 sul quale è presente la
sequenza di controllo in verde ma manca quella
rossa a testimoniare che si è verificata una
microdelezione del cromosoma 22 nella regione chiamata q11 ossia quella che quando va persa determina
la Sindrome di DiGeorge.

155
L’immagine rappresenta la metafase in
un’amniocentesi. Facendo l’amniocentesi ad una
signora quarantenne in gravidanza si scoprì che
il feto aveva 47 cromosomi anziché 46. Con la
FISH fu possibile scoprire che il
quarantasettesimo cromosoma aveva solo le
sequenze centromeriche di un cromosoma 15
mentre la regione che, se perduta, determina la
Sindrome di Prader – Willi o la Sindrome di
Angelman è normalmente presente sui due
cromosomi 15 (in figura questa regione è in
rosso mentre le sequenze centromeriche sono evidenziate in verde). Si scoprì presto che questo
cromosoma aggiuntivo se privo delle sequenze corrispondenti a quelle nella Sindrome di Prader – Willi o
nella Sindrome di Angelman non ha alcun effetto fenotipico. Questo permise di dare alla signora una
consulenza benigna nonostante fosse presente un cromosoma in eccesso.

In figura troviamo di nuovo una diagnosi prenatale con 47


cromosomi, questa volta però su di esso non è presente
solamente la regione centromerica del cromosoma 15 ma ci
sono anche le regioni Prader-Willi. In questo caso il ritardo
psicomotorio è certo.
Si tratta di una
metafase di un
paziente
adulto che
effettuò
l’analisi cromosomica avendo avuto una serie di aborti
ripetuti. Dall’analisi si scopre che il soggetto in questione ha
nel 50% delle sue cellule del sangue un cromosoma
Aggiuntivo. Con l’analisi in FISH si scopre che questo deriva
dal braccio corto del cromosoma 5, in pratica è un
isocromosoma 5 presente nel 50% delle sue cellule del
sangue. Questo cromosoma si è originato probabilmente
dall’alterazione di uno dei due cromosomi 5 durante la fase S della cellula, per un errore commesso dalla
DNA polimerasi.

156
È il caso di una coppia sterile che non riesce ad avere
bambini. Facendo l’analisi del corredo cromosomico si
evidenza come la donna abbia un corredo cromosomico
normale e dunque sia 46 XX, e l’uomo abbia un corredo
cromosomico 46 XX. Il professore afferma che in un primo
momento si pensò ci fossero stati errori dovuti al
mescolamento di provette ma successivamente, dopo aver
richiamato la coppia a ripetere il prelievo, si comprese che
l’uomo risultava essere effettivamente 46 XX. Questa
situazione era dovuta al fatto che durante la meiosi, quando
era stato prodotto il gamete maschile nelle cellule del
testicolo del padre dell’uomo, si era avuto uno scambio tra la
regione del braccio corto dell’X e la regione del braccio corto
dell’Y dove c’è il gene SRY che è il gene per la mascolinità
(che determina quindi il fenotipo maschile dell’individuo).
L’interessato è dunque fenotipicamente maschio, ma l’SRY è localizzato sul cromosoma X: in pratica, non
produce spermatozoi perché l’unico elemento “maschile” che possiede è costituito dal gene SRY.

Qui osserviamo un’altra alterazione cromosomica


associata al fatto che una signora ha aborti ripetuti.
Facendo l’analisi in FISH, si scopre che un cromosoma
18 ha due sequenze di cui una in rosso e una in verde
(in figura) come ci si aspetterebbe, l’altro cromosoma
18 presenta due copie delle sequenze in rosso e due
delle sequenze in verde. Quindi la signora su uno dei
due cromosomi 18 ha una duplicazione del braccio
corto che è normalmente associata ad un lieve ritardo
mentale e nient’altro. Il professore afferma che il fatto
che la coppia non fosse riuscita ad avere figli fu un
bene poiché la moglie avrebbe potuto trasmettere
questa condizione (se non peggiore) al 50% dei figli.

Qui abbiamo un’alterazione scoperta in una


leucemia. Il gene MLL è tipicamente
associato con alcune forme aggressive di
leucemia acuta. Esso può fondersi con oltre
40 differenti geni sparpagliati sull’intero
genoma ma c’è invece un’altra tipologia di
alterazione legata alla sua amplificazione. Le
regioni colorate che è possibile osservare
sono copie del gene MLL, si nota in maniera
evidente come su uno dei due cromosomi
11 questo gene sia presente in numerose
copie, rendendolo di gran lunga più grande
del cromosoma 11 normale. Questo
esempio di amplificazione genica (molto più
di una semplice duplicazione) è una
condizione assai grave perché determina
una precipitazione della patologia dell’individuo.

157
FLUORESCENCE ACTIVATED CELL SORTER - FACS

Esiste una macchina chiamata FACS che permette di separare da una miscela i singoli tipi di cromosoma.
Il DNA dei cromosomi in metafase può essere estratto e purificato. I cromosomi vengono fatti scorrere in
un capillare e, attraverso dei laser, è possibile riconoscere i vari cromosomi, identificandoli uno ad uno.
Grazie a questo sistema si riescono a fare collezioni di centinaia di cromosomi per ogni tipo di cromosoma.
Queste collezioni vengono trattate per estrarre DNA di cromosomi metafasici e per colorare per intero
ciascun tipo di cromosoma. Utilizzando i fluorocromi, aumenta di almeno 10 volte la capacità di risoluzione
dei microscopi ottici, consentendo il rilevamento di anomalie che coinvolgono brevi segmenti.

In figura è possibile notare come un cromosoma 18


presenta un tratto in rosso che deriva da un
cromosoma 1. In pratica il paziente ha una
duplicazione di un segmento del cromosoma 1.

Ci troviamo di fronte ad una cellula tumorale. E’


possibile notare come alcuni pezzi del cromosoma 5
(in verde) siano sparpagliati su altri cromosomi, la
stessa cosa si verifica in relazione al cromosoma 17
(in fucsia).

La FISH ha permesso di fare citogenetica senza avere


a disposizione cellule in proliferazione. Infatti, la
citogenetica interfasica sfrutta qualsiasi periodo

158
della vita ella cellula per poterla analizzare, senza che sia necessariamente in attiva duplicazione
(metafase).

In figura vediamo il nucleo di una cellula di liquido amniotico con


sequenze in verde per il cromosoma 21 e sequenze in rosso per il
cromosoma 18.

In figura sono visualizzati tre nuclei di una


bambina di bassa statura utilizzando una
sonda per il centromero del cromosoma Y
e una per il gene SHOX, uno dei potenti
geni presenti sui cromosomi del sesso (più
precisamente sul braccio corto dei
cromosomi sessuali) che controllano la
statura. Si scopre che la bambina ha una
sola copia del gene SHOX (in rosso),
corrispondente quindi a uno solo dei due
cromosomi sessuali (riconosciuti dai
segnali in verde).

L’immagine rappresenta una diagnosi prenatale di un


amniocita. Viene utilizzato un marker rosso per il
cromosoma 21 e uno verde per il 18. Come è possibile
notare, la cellula presenta una trisomia del cromosoma 21.

In figura si mostra una metafase normale con in rosso i


geni per ABL, un oncogene sul cromosoma 9, e in verde
i due cromosomi 22 con una sonda per un gene
chiamato BCR. Abbiamo due copie dei geni per il 22 e
due copie dei geni per il cromosoma 9: siamo quindi in
condizione di normalità.

159
Quando insorge però una leucemia
mieloide cronica la situazione si
stravolge. In metafase, nell’immagine
centrale, si notano:
- un cromosoma 22 (verde) e un 9
(rosso) entrambi normali
- un cromosoma 9 che presenta sia il
segnale rosso che il segnale verde
che, per combinazione, può risultare
giallo
- un cromosoma 22 apparentemente
evidenziato solamente in verde ma
che in realtà presenta un piccolo segnale rosso che, in condizioni normali, dovrebbe trovarsi
solamente sul cromosoma.
Questa è la testimonianza di una traslocazione tra il cromosoma 9 e il cromosoma 22 come risultato della
leucemia mieloide cronica.

In figura confrontiamo il nucleo di una


cellula normale e quello di una cellula
di un paziente leucemico (a destra). In
questo si vede chiaramente:
- un segnale verde per il
cromosoma 9 normale,
- un segnale rosso per il
cromosoma 22 normale
- due segnali verde/rosso che
corrispondono ai due partner
della traslocazione, per cui il 9
presenta parte del materiale
del 22 e viceversa. Infatti un
pezzo del gene ABL si è fuso
con la regione 5’ del gene BCR, dando origine ad un gene di fusione che codifica per una proteina
che attiva la proliferazione incontrollata dei globuli bianchi.

160
In figura abbiamo il quadro di una donna operata per un tumore alla mammella che, sottoposta ad
un’analisi istologica classica, ha dato un risultato dubbio per una proteina, chiamata HER 2. Se il risultato
fosse stato positivo la signora avrebbe avuto l’amplificazione dell’espressione del gene HER 2, ma la
paziente in questione si trova in una via di mezzo tra una condizione di normalità e una di chiara positività.
In queste pazienti si fa l’esame in FISH sulle cellule del tessuto tumorale e si vanno a valutare le copie del
gene HER 2 all’interno dei nuclei. Il marker rosso evidenzia il gene HER 2 mentre il verde evidenzia il
centromero del cromosoma 17, il cromosoma sul quale è mappato il gene HER 2. Se il numero di copie del
gene HER 2 (rosso) è di molto superiore al numero di copie del centromero del cromosoma 17 (verde), si
arriva alla diagnosi di tumore alla mammella con amplificazione del genere HER 2. In questo caso si può
intervenire con una terapia con un farmaco chiamato Herceptina, il quale è stato il primo farmaco biologico
al mondo messo a punto per combattere un’alterazione genomica. Questa terapia è capace di aumentare
di molto l’aspettativa di vita delle pazienti riducendo la capacità delle cellule tumorali di dare metastasi.

CARIOTIPIZZAZIONE MULTICOLOR

La cariotipizzazione a colori è un tipo di cariotipizzazione che viene eseguita mediante FISH utilizzando da 2
a 24 fluorocromi e che permette di identificare ciascuna delle coppie di omologhi in differenti colori, o
sequenze di colori.
Questa tecnica è chiamata Multiplex-FISH (M-FISH). Per ottenere 24 colori simultaneamente è necessario
utilizzare un “cocktail” di 5 fluorocromi:

161
-FITC -DEAC
-Cy3 -FITC
-Cy3.5 -Spectrum orange
-Cy5 -Texas red
-Cy7 -Cy5
In figura è rappresentata la tecnica M-
FISH/SKY. Il procedimento avviene sempre
attraverso il macchinario FACS, con il quale
otteniamo 24 provette ciascuna delle quali
contiene il DNA per un cromosoma preciso.
Ciascun DNA viene marcato con alcuni colori,
in modo che ad ogni tipo di cromosoma
corrisponda un mix di fluorocromi diverso al
microscopio essi emettano radiazioni differenti tra loro.
Utilizzando questa tecnica
ci ritroviamo con una
situazione come quella
illustrata nella figura qui
accanto. Tutte le coppie di
cromosomi hanno un
colore diverso e diventa
quindi molto più semplice
identificare un’eventuale
alterazione. Nel cariotipo
mostrato in figura è
possibile notare una
traslocazione avvenuta tra
il cromosoma 20 ed il
cromosoma 18.
Utilizzando la stessa
tecnica, è possibile anche
riconoscere le regioni dei
domini cromosomici.

162
il

In figura abbiamo un esempio pratico di questa tecnica. La signora fa l’amniocentesi e si scopre che la
bambina possiede 47 cromosomi. E’ possibile, attraverso questa visualizzazione, notare che il cromosoma
in eccesso corrisponde a un pezzo di cromosoma 9. Questa regione aggiuntiva è però caratterizzata da
sequenze centromeriche e pertanto ha un effetto fenotipico nullo.

La situazione qui
rappresentata è quella di
una traslocazione
complessa scoperta in
diagnosi prenatale. E’
possibile notare come 4/5
cromosomi siano coinvolti
nello stesso processo di
riarrangiamento. Ad
esempio il cromosoma 1
presenta un pezzo di
cromosoma 3, uno del
cromosoma 2 e uno del
cromosoma 9; lo stesso
vale per quelli appena
elencati.
Tutte queste alterazioni
sono state generate a
partire da un unico evento
mutageno. Analizzando i genitori si è scoperto che anche la mamma presentava la stessa alterazione, tale
osservazione ha permesso di dare una consulenza con esito benigno poichè, miracolosamente, non si è
rotto nessun gene e non c’è fenotipo patologico.

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In figura abbiamo il cariotipo
complesso di una cellula tumorale.
Notiamo ad esempio tre
traslocazioni (19-14, 17-14,20-13)
ed un cromosoma aggiuntivo al 20.

Nell’immagine si ha una serie di alterazioni in


un paziente con leucemia mieloide cronica.
Oltre alla traslocazione tra il cromosoma 9 e il
22 troviamo un cromosoma 8 con pezzi del
cromosoma 1 inseriti qua e là, l’altro
cromosoma 8 pure esso coinvolto in una
traslocazione reciproca con un cromosoma 1,
una traslocazione 20-21 che determina il
rimaneggiamento di un altro oncogene oltre a
quello ABL sul 9 nonché l’accelerazione della
malattia.
Il paziente in questione doveva essere
sottoposto ad un trapianto ma fu ricondotto a
una terapia genica prima di sottoporsi a
quest’ultimo. Senza questa analisi il paziente
sarebbe andato in contro ad un trapianto con un elevato rischio di fallimento.

In figura sulla sinistra è indicato dalla freccia rossa un cromosoma aggiuntivo chiamato marker
cromosomico ossia un cromosoma a cui non si riesce ad attribuire l’origine. Facendo l’analisi cromosomica
multicolor si scopre che l’anomalia è dovuta al cromosoma 18 ossia un isocromosoma del braccio corto del
cromosoma 18 che è associato ad un lieve/moderato ritardo mentale. In figura a destra, invece, si ha un
altro marcatore cromosomico di dubbia origine. Sottoponendo l’indagine all’analisi multicolor, si scopre che
il cromosoma aggiuntivo dipende dal cromosoma 12. Questa alterazione è un isocromosoma del braccio

164
corto del 12 che determina una Sindrome conosciuta ossia quella di Pallister - Killian che è molto
complicata anche da diagnosticare poiché le cellule del sangue tendono ad eliminare l’alterazione e bisogna
quindi andare a fare un prelievo di un tessuto cutaneo.

FISH SU FIBRA CROMATINICA O DI DNA


Per osservare i tratti di DNA si può decondensare la
cromatina in lunghi filamenti. La procedura è abbastanza
banale : si fa uno striscio del materiale cromosomico su di
un vetrino con l’utilizzo di un agente decondensante, come
ad esempio l’NaOH. Si ottengono così numerosi tratti di
fibra di cromatina tutti paralleli tra loro; è possibile
riconoscere inoltre le regioni geniche grazie all’utilizzo di
due sonde (rosso/verde), le quali corrispondono appunto a
determinate regioni geniche.

Nella figura accanto abbiamo invece una molecola di


DNA circolare di batterio in cui si riconoscono le
varie regioni geniche.

In figura si mostrano contemporaneamente la fibra


cromatinica strisciata e la struttura di due geni
presenti in continuità su questa stessa fibra. In pratica
stiamo osservando il DNA, cosa che non dovrebbe
essere possibile con il potere di risoluzione degli
strumenti di osservazione.

In figura è riportata l’intera sequenza genica del cromosoma Y sotto forma di un’unica fibra cromatinica,
con i geni disposti l’uno di fianco all’altro.

Si ha un altro esempio di amplificazione del gene MLL. È descritto il caso di un paziente sfortunato con tre
cromosomi di forma particolare che la cariotipizzazione a colori indicava appartenere al cromosoma 11.
Usando la sonda per l’MLL si scopre che questi tre cromosomi di forma anomala sono completamente

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dipinti dalla sonda MLL per cui si pensa ci sia una gigantesca amplificazione del gene su tutti e tre gli
elementi cromosomici.
Usando la FISH per scoprire se questi cromosomi contengono solo la sequenza MLL, si evince che si hanno
fibre con la sonda a due colori per il 5 ’e 3 ’dello stesso gene; queste fibre di DNA sono completamente
coperte dalla sonda. Si osserva in basso una sequenza normale corrispondente al cromosoma 11 normale
cioè una porzione al 5 ’e una al 3 ’mentre sopra ad essa si ha una fibra di DNA che deriva da uno dei tre
cromosomi anomali (costituito in pratica solo da ripetizioni del gene MLL a testimonianza di una mega
amplificazione della malattia nel paziente).

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