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Ted Benton

Ian Craib

LA FILOSOFIA ANTICA
Itinerario storico e testuale

A cura di
Lorenzo Perilli, Daniela P. Taormina

Con contributi di:


Keimpe Algra, Eugenio Benitez, Marta Cristiani, Monique Dixsaut,
Dimitri El Murr, Therese Fuhrer, M. Laura Gemelli Marciano,
James Lennox, Dominic J. O’Meara, Jørgen Mejer,
Georg Petzl, Umberto Roberto, Paolo A. Tuci

e interventi di
Luca Canali, Tiziano Dorandi, Paolo Zellini
www.utetuniversita.it

Proprietà letteraria riservata


© 2012 De Agostini Scuola SpA – Novara
1ª edizione: febbraio 2012
Printed in Italy

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Anno: 2012 2013 2014 2015 2016
Indice

XI Prefazione
XV Lineamenti bibliografici

3 Capitolo 1 – Oriente e Occidente


M. Laura Gemelli Marciano
3 1.1 I presupposti: ex oriente lux e i suoi avversari. Paradigmi settecenteschi e ot-
tocenteschi e dispute moderne
4 1.2 Definizione del problema dei contatti. Equivoci e resistenze
6 1.3 Aree di contatto
9 1.4 Mediatori culturali
11 1.5 Plurilinguismo
13 1.6 Testi delle tradizioni non greche
15 1.7 Mappa cronologico-geografica di contatti e influssi dalla fine del VII sec. a.C.
fino ad Alessandro
16 1.8 Cosmogonia e cosmologia
1.8.1 La terra nasce dall’acqua, p. 17
19 1.9 Astronomia
1.9.1 Eclisse, p. 19 – 1.9.2 Mappe della Terra, p. 20 – 1.9.3 Ordine dei « cieli », p. 21
– 1.9.4 Stelle, icone degli dèi, p. 22 – 1.9.5 I « vincoli del cielo », p. 22 – 1.9.6 Pia-
neti, p. 22
24 1.10 Letteratura sapienziale e tradizioni esoteriche
25 1.11 L’arrivo dei magi
30 1.12 Sincretismo
30 Bibliografia

35 Capitolo 2 – La filosofia antica e la tradizione dossografica


Jørgen Mejer †
44 2.1 Biografia
47 Bibliografia
49 La trasmissione della filosofia antica

51 Capitolo 3 – Pietre per la filosofia. La filosofia antica attraverso lo specchio delle


iscrizioni
Georg Petzl
51 3.1 Il ruolo delle iscrizioni nell’antichità greco-romana; sophoi-philosophoi
52 3.2 Le Massime dei Sette Sapienti
VI Indice

56 3.3 Una situazione a tre vie (Y): Prodico, Pitagora, Platone


58 3.4 L’antagonismo delle scuole di filosofia
60 3.5 Conclusione
60 Bibliografia

62 Capitolo 4 – Storia e società in età arcaica: il contesto


Paolo A. Tuci
62 4.1 Dalle origini all’alto arcaismo
62 4.2 L’età arcaica
64 4.3 Atene in età arcaica
65 4.4 Sparta in età arcaica

67 Capitolo 5 – « Voi Greci siete sempre fanciulli »: l’infanzia della sapienza


Lorenzo Perilli
68 5.1 Mythos e logos
74 5.2 L’orfismo
78 Bibliografia

80 Capitolo 6 – I presocratici
Lorenzo Perilli
80 6.1 « Che cos’è la filosofia presocratica? »
82 6.2 Le fonti
83 6.3 I primi tentativi di descrivere il mondo: l’Oriente greco
6.3.1 Talete, p. 84 – 6.3.2 Anassimandro, p. 87 – 6.3.3 Anassimene, p. 90 – 6.3.4 Era-
clito, p. 93
96 6.4 Passaggio a Occidente
6.4.1 Senofane, p. 97 – 6.4.2 Pitagora, p. 100 – 6.4.3 Filolao, p. 105 – 6.4.4 Archita,
p. 108 – 6.4.5 Alcmeone, p. 111
112 6.5 La svolta eleatica
6.5.1 Parmenide, p. 112 – 6.5.2 Zenone, p. 120 – 6.5.3 Melisso, p. 125
129 6.6 In risposta a Parmenide: l’abbandono del monismo e la ricerca della causa del
movimento
6.6.1 Empedocle, p. 129
138 6.7 L’ultimo spostamento: Atene
6.7.1 Anassagora, p. 138 – 6.7.2 Archelao. Diogene di Apollonia, p. 146 – 6.7.3 De-
mocrito, p. 150
159 Bibliografia
165 Nuove scoperte di testi filosofici e scientifici antichi

170 Capitolo 7 – I sofisti e Socrate


Eugenio Benitez
171 7.1 Le fonti
7.1.1 I sofisti, p. 171 – 7.1.2 Socrate, p. 172
173 7.2 I sofisti
7.2.1 Chi erano i sofisti?, p. 173 – 7.2.2 Che cosa insegnavano i sofisti?, p. 175
180 7.3 I sofisti nel dibattito filosofico
7.3.1 Quali erano i metodi dei sofisti?, p. 181
Indice VII

182 7.4 Socrate


7.4.1 Chi era Socrate?, p. 182 – 7.4.2 Socrate filosofo, p. 187
190 Bibliografia
193 Gli esponenti della sofistica

194 Capitolo 8 – Storia e società nell’età classica ed ellenistica: il contesto


Paolo A. Tuci
194 8.1 Il V secolo
196 8.2 Il IV secolo
197 8.3 L’età ellenistica
199 Platone. Profilo biografico

200 Capitolo 9 – Platone


Monique Dixsaut
200 9.1 Introduzione: Platone tra platonismo e anti-platonismo
202 9.2 Scrivere dialoghi
9.2.1 Socrate e Platone, p. 202 – 9.2.2 Una condanna della scrittura? Lettera VII, Fe-
dro, p. 203 – 9.2.3 Il dialogo, p. 205 – 9.2.4 Parlare in una lingua. Cratilo, p. 206
208 9.3 Essenze e Forme
9.3.1 L’ipotesi delle idee e la partecipazione. Fedone, Parmenide, p. 209 – 9.3.2 La
reminiscenza. Menone, Fedone, p. 212 – 9.3.3 La potenza dialettica. Fedro, Filebo,
Leggi, p. 213
215 9.4 L’Uno, l’Essere e il Non-Essere
9.4.1 L’Uno e l’Essere. Parmenide, p. 216 – 9.4.2 L’Essere e il Non-essere. Sofista,
p. 218 – 9.4.3 L’immagine. Repubblica, Sofista, p. 220
223 9.5 Sapere
9.5.1 Sapere e opinione. Repubblica, p. 223 – 9.5.2 L’impossibile sapere del sapere.
Carmide, Teeteto, p. 225
229 9.6 L’anima
9.6.1 L’anima, la città, il Mondo. Fedro, Timeo, Repubblica, p. 230 – 9.6.2. La Caver-
na. Repubblica, p. 232 – 9.6.3 L’immortalità dell’anima. Fedone, Fedro, p. 234 –
9.6.4 L’anima e il corpo. Fedone, Timeo, p. 236 – 9.6.5 Nessuno è malvagio volon-
tariamente. Protagora, Gorgia, p. 237 – 9.6.6 La virtù. Dal Carmide alle Leggi, p. 238
241 9.7 La politica
9.7.1 Due stati di natura. Politico, p. 241 – 9.7.2 Dal governo dei filosofi alla scienza
politica. Dalla Repubblica al Politico, p. 243
245 9.8 Il Mondo
9.8.1 Cosmogonia. Timeo, p. 245 – 9.8.2 Il Vivente eterno. Timeo, p. 246
248 9.9 Conclusione: il Bene
249 Bibliografia

252 Capitolo 10 – L’Accademia da Platone a Polemone


Dimitri El Murr
253 10.1 Gli enigmi dell’antica Accademia
10.1.1 L’organizzazione istituzionale, p. 254 – 10.1.2 L’Accademia come casa edi-
trice?, p. 255 – 10.1.3 La questione delle fonti, p. 256
257 10.2 Il platonismo dell’Accademia da Speusippo a Polemone
264 Bibliografia
267 Filosofi accademici (IV-I sec. a.C.), di Tiziano Dorandi
VIII Indice

272 Capitolo 11 – Aristotele


James Lennox
272 11.1 Vita e opere
273 11.2 Distinguere i diversi tipi di conoscenza
275 11.3 La scienza della conoscenza scientifica
278 11.4 La filosofia prima: la scienza dell’essere in quanto essere
284 11.5 La filosofia seconda: la scienza della natura
288 Esempio I: la biogenesi
289 Esempio II: la respirazione
297 11.6 La filosofia pratica: la politica, la virtù e la vita buona
301 11.7 La politica: la scienza del più politico degli animali
305 11.8 La filosofia di Aristotele dopo Aristotele
306 Bibliografia

309 Capitolo 12 – La filosofia ellenistica


Keimpe Algra
309 12.1 Introduzione
312 12.2 Epicuro e l’epicureismo
12.2.1 Epicuro e la sua Scuola, p. 313 – 12.2.2 L’epistemologia epicurea, p. 314 –
12.2.3 Fisica e cosmologia in Epicuro, p. 320 – 12.2.4 Etica epicurea, p. 328
335 12.3 Lo stoicismo
12.3.1 Introduzione, p. 335 – 12.3.2 L’epistemologia stoica, p. 337 – 12.3.3 La logi-
ca stoica, p. 343 – 12.3.4 Ontologia, fisica e teologia stoiche, p. 346 – 12.3.5 L’etica
stoica, p. 357
366 12.4 Lo scetticismo ellenistico
12.4.1 Lo scetticismo accademico e Cicerone, p. 366 – 12.4.2 Sesto Empirico e lo
scetticismo neopirroniano, p. 370
374 12.5 Due movimenti socratici minori: cinici e cirenaici
12.5.1 Immagini di Socrate, p. 374 – 12.5.2 I cinici, p. 375 – 12.5.3 I cirenaici,
p. 378
380 Bibliografia

383 Capitolo 13 – Cenni sulla scienza antica


Lorenzo Perilli
383 13.1 L’età arcaica e classica
13.1.1 La medicina, p. 385 – 13.1.2 La matematica, p. 389 – 13.1.3 L’astronomia,
p. 394
397 13.2 Dall’età ellenistica all’età imperiale romana
13.2.1 Un panorama. Matematica, geometria, astronomia, p. 398
405 13.3 La medicina e il suo rapporto con la filosofia
412 Bibliografia
414 Logos e algoritmi, di Paolo Zellini

417 Capitolo 14 – La filosofia a Roma


Therese Fuhrer
417 14.1 L’importazione della filosofia greca a Roma
419 14.2 La tradizione delle scuole ellenistiche di filosofia a Roma
420 14.3 Il rilievo della filosofia per la vita concreta
Indice IX

421 14.4 Filosofia e politica


423 14.5 I concetti filosofici latini
425 14.6 I grandi autori della filosofia romana:
425 Lucrezio, Cicerone, Seneca
14.6.1 Lucrezio, p. 425 – 14.6.2 Cicerone, p. 429 – 14.6.3 Seneca, p. 435
439 Bibliografia
442 Lucrezio: la sovversione fallita, di Luca Canali

445 Capitolo 15 – Storia e società in età tardoantica: il contesto


Umberto Roberto

450 Capitolo 16 – Platonismo, pitagorismo, aristotelismo


Dominic J. O’Meara
450 16.1 Introduzione
451 16.2 Platonismo
16.2.1 Albino e Alcinoo, p. 452 – 16.2.2 Apuleio e Attico, p. 455
456 16.3 Pitagorismo
16.3.1 Eudoro di Alessandria, Moderato di Gada, p. 457 – 16.3.2 Numenio di Apa-
mea, p. 458
460 16.4 Aristotelismo
16.4.1 Andronico di Rodi, Boeto di Sidone, Nicola di Damasco, Adrasto di Afrodi-
sia, Aspasio, p. 461 – 16.4.2 Alessandro di Afrodisia, p. 462
464 Bibliografia

466 Capitolo 17 – Filosofia e filosofi di lingua greca nei sec. III-VI d.C. Da Plotino
agli ultimi commentatori di Alessandria
Daniela P. Taormina
466 17.1 Eredità comune e progetti dissonanti
17.1.1 I luoghi della filosofia e l’organizzazione dello spazio di insegnamento, p. 466
– 17.1.2 Curricula studiorum, p. 468 – 17.1.3 Platone e Aristotele: accordo o discor-
danza?, p. 469 – 17.1.4 Filosofi, ieratici e baccanti, p. 471
473 17.2 Plotino
17.2.1 Vita e opere, p. 473 – 17.2.2 Filosofia, p. 474 – 17.2.3 L’interpretazione del
Parmenide di Platone: la teoria dei principi, p. 478 – 17.2.4 Eternità e tempo, p. 481
– 17.2.5 La materia sensibile, p. 481 – 17.2.6 Le anime particolari, p. 482 –
17.2.7 La dottrina dell’anima non discesa, p. 483 – 17.2.8 L’Intelletto: la conoscenza
di sé, p. 484 – 17.2.9 « Bisogna farsi intelletto », p. 485
486 17.3 Scorci sul dibattito filosofico post-plotiniano
17.3.1 Interpretazioni del Parmenide, p. 486 – 17.3.2 Giamblico, Proclo e Damascio
sull’Uno assolutamente ineffabile, p. 489 – 17.3.3 Da Plotino a Proclo: tutto deriva
dall’unità, p. 491 – 17.3.4 La processione dall’Uno ai molti: Limitante, Illimitato,
Enadi, p. 493 – 17.3.5 Processione - permanenza - ritorno, p. 495 – 17.3.6 Un nuovo
vocabolario dell’ontologia, p. 496 – 17.3.7 Il dibattito sull’eternità del mondo: gli ar-
gomenti ontologici, p. 497 – 17.3.8 Il cosiddetto « albero di Porfirio ». Un elemento
preliminare alla lettura delle Categorie, p. 500 – 17.3.9 Protagonisti e argomenti del
dibattito post-plotiniano sullo statuto dell’anima individuale, p. 501 – 17.3.10 La ge-
rarchia delle virtù, p. 504 – 17.3.11 Proclo contro Plotino: il male e il suo modo di
esistenza, p. 505
507 Bibliografia
510 Protagonisti principali
X Indice

514 Capitolo 18 – Agostino d’Ippona e la nuova cultura cristiana


Marta Cristiani
514 18.1 Razionalità classica e rivelazione
515 18.2 Il romanzo di formazione
519 18.3 La mediazione della classicità nei Dialoghi
18.3.1 Contra Academicos o De Academicis; De beata vita, p. 520 – 18.3.2 Da un
itinerario di saggezza all’arte di convertire. Un nuovo progetto culturale dal De ordine
al De musica al De doctrina christiana, p. 522 – 18.3.3 Dio e l’anima. I Soliloquia, il
De immortalitate animae, il De quantitate animae, p. 529 – 18.3.4 Volontà e libertà:
Il De libero arbitrio. Il De magistro o dell’impossibilità di insegnare, p. 532
535 18.4 Dai Dialoghi alle Confessioni
18.4.1 Esegesi biblica ed esegesi paolina, p. 535 – 18.4.2 Le Confessioni, p. 537 –
18.4.3 La memoria, p. 540 – 18.4.4 Il tempo, p. 545
550 18.5 Dal Vangelo di Giovanni al De Trinitate
553 18.6 La grazia e il libero arbitrio
555 18.7 La teologia della storia della « città di Dio »
555 Bibliografia
558 Il testamento di Aristotele

561 Indice dei nomi


571 Indice selettivo dei concetti e delle nozioni principali
La filosofia antica
CAPITOLO 6

I presocratici
Lorenzo Perilli

I Greci sono i primi, almeno nel mondo occidentale, a saper rivolgere su se stessi uno sguar-
do critico, a saper riflettere analiticamente sul proprio fare e a prendere coscienza di cosa si-
gnifichi philosophein, « fare filosofia ». In condizioni sociali e materiali di prosperità e di contat-
ti con altre culture, viene facilitata l’evoluzione del pensiero arcaico in direzione di una spie-
gazione materialistica della physis, la natura nei suoi processi di generazione. Aristotele sta-
bilisce anche un punto di partenza: Talete; e separa sophia da philosophia, il mondo mitizzan-
te della tradizione da una ricerca che, semplificando, si è spesso definita « razionale ». Ma
l’universo dei cosiddetti presocratici presenta una varietà – geografica, storica, concettuale
– che non può essere ignorata in favore di una unitarietà solo immaginata. Diversi sono i con-
testi, gli approcci, i risultati; disuguali interessi e prospettive. Dottrine moniste e pluraliste,
ontologie e teologie, razionalismo e misticismo, procedono in parallelo e spesso si incrocia-
no, dando vita a visioni del mondo diverse ma accomunate da un intento: il desiderio di capi-
re, di dare risposta alla meraviglia che prova chiunque si interroghi sul mondo che lo circon-
da. C’è un dibattito, a volte una polemica, che si svolge spesso a distanza e coinvolge am-
bienti culturali collocati alle estremità opposte del mondo antico, attestando una efficace e
rapida circolazione della cultura. Ionia, Magna Grecia, Atene: i tre centri del pensiero antico
si succedono e si sovrappongono, ciascuno portando con sé caratteristiche sue proprie. È in
questo momento che si affrontano temi che resteranno centrali per il pensiero occidentale,
dando un impulso che solleciterà non solo Platone e Aristotele, ma la riflessione filosofica per
molti secoli a venire.


6.1 « Che cos’è la filosofia presocratica? »

Siamo alla fine del V secolo a.C., all’inizio del IV: Atene è ormai il centro del mondo, lì
la cultura, l’arte, la scienza, la politica, l’oratoria, raggiungono vertici ineguagliati. Uno
scambio continuo tra persone e discipline diverse, di provenienza greca e non greca, una
fruttuosa interazione che porta ad alcune tra le massime acquisizioni del pensiero occi-
dentale. E lì, nell’Atene tra la fine del V e l’inizio del IV secolo, nascono le prime ‘scuo-
le’ di filosofia, l’Accademia di Platone, poi il Liceo di Aristotele, luoghi d’incontro e in-
tenso scambio intellettuale tra persone dedite innanzitutto a capire. La meraviglia, dicono
Platone e Aristotele, è alle origini dell’interrogarsi del filosofo, e l’immagine avrà enorme
successo nei secoli a venire:

È caratteristico del filosofo questo stato d’animo, la meraviglia: perché il principio della filoso-
fia non è altro che questo.
(Platone, Teeteto 155d)
I presocratici 81

Già da coloro che per primi hanno praticato la filosofia, risulta chiaramente che la sapienza non
è destinata a produrre qualcosa. È a causa della meraviglia che gli uomini, sia all’inizio sia ora,
hanno cominciato a praticare la filosofia: da principio rimasero sorpresi dalle difficoltà a loro
più vicine, poi, procedendo a poco a poco, arrivarono a porsi questioni intorno alle cose più
grandi, per esempio sulle caratteristiche della luna, del sole, degli astri, e sulla nascita del tutto.
Chi si sente in dubbio e si meraviglia crede di non sapere: perciò, in un certo senso, anche chi
ama il mito è filosofo, poiché il mito è costituito da cose che suscitano meraviglia.
(Aristotele, Metafisica I 2, 982b11)

Ma Aristotele ritiene di poter individuare anche un preciso punto di partenza, di poter


fare nomi e cognomi, assegnare primati e conferire ruoli. Fu Talete, dice infatti, « l’inizia-
tore di questo tipo di filosofia » (Metaph. I 3, 983b20). Il primo libro della Metafisica pro-
cede così a una schematizzazione dei primi passi, a una separazione della filosofia dal mi-
to: una schematizzazione destinata a esercitare profonda influenza.
Sempre più chiaro è divenuto, tuttavia, che la ricostruzione aristotelica è parziale e in
qualche misura fuorviante. Culmine del percorso inaugurato da Aristotele è nel definitivo
imporsi della nozione di « presocratici ». Si tratta, in larga parte, proprio di quei pensatori
messi in sequenza nella Metafisica e in altre opere (l’inizio della Fisica, ad esempio, o del
De anima, o del De generatione et corruptione), tracciando una netta linea di demarca-
zione tra gli inizi mitici e sapienziali del sapere greco e gli sviluppi che egli considerava
lo stadio embrionale della filosofia. Ma la definizione di « presocratici », riferita ai pensa-
tori greci che precedettero Socrate, ha valore non più che convenzionale. Può apparire in-
fatti non del tutto congrua, a chi consideri che alcuni dei cosiddetti presocratici erano in
realtà contemporanei di Socrate, alcuni, come Democrito, gli sopravvissero persino: si ri-
corre talora, come già Nietzsche (che prima di essere filosofo era un filologo classico), ad
altre espressioni, in particolare a quella di filosofia preplatonica, che presenta però pro-
blemi analoghi se non maggiori, e a rigore dovrebbe comprendere lo stesso Socrate. « Che
cos’è la filosofia presocratica? » è stato il titolo di un convegno recente: un oggetto, dun-
que, ancora tutto da definire.
Ad introdurre il termine fu, nel 1788, uno storico tedesco della filosofia, Johann Au-
gust Eberhard, e lo riprese nel corso dell’Ottocento un filosofo del calibro dello Schleier-
macher, cui si dovette tra l’altro un’importante traduzione di tutto Platone; ma il termine
divenne canonico quando, nel 1903, il filologo tedesco Hermann Diels raccolse in un uni-
co corpus le testimonianze e i cosiddetti frammenti degli autori di scritti « filosofici » vis-
suti tra la fine del VII sec. a.C. e Socrate. Questa raccolta viene intitolata Fragmente der
Vorsokratiker: di qui la sempre maggiore diffusione del termine, parallela a quella dell’o-
pera, tuttora fondamentale per completezza ma anche per rigore scientifico, pur essendo
nata in realtà per puro scopo didattico1.
Nel tentativo di ovviare alle difficoltà insite nell’uso del termine, già Walther Kranz

1
Tuttora, i testi dei presocratici vengono citati secondo la classificazione e numerazione del Diels, in par-
ticolare quella risalente alla settima edizione, del 1954, curata da Walther Kranz (come le precedenti dalla
quinta del 1934 in poi), che vi aggiunse anche un utilissimo indice delle parole. L’opera è comunemente nota
come il « Diels-Kranz », e la numerazione comprende una lettera (A per le testimonianze indirette, cioè le in-
formazioni fornite da altri autori, e B per i frammenti considerati citazioni vere e proprie tratte dagli autori in
questione; per alcuni autori, ricorrono anche le lettere C e D, come è il caso dei pitagorici, a indicare materiali
diversi), seguìta dal numero della testimonianza o del frammento. Così, Anassagora A 17 o B 9 indicano ri-
spettivamente la testimonianza 17 e il frammento 9 di Anassagora; a volte si antepone alla lettera anche il nu-
mero che corrisponde all’autore; in questo caso avremmo 59A17, 59B9. Il numero prima della lettera è tutta-
via superfluo quando si indichi anche il nome dell’autore citato. Il Diels-Kranz contiene oltre novanta autori.
Dai testi citati in questo capitolo si omette di norma, dandola per intesa, la usuale sigla DK dopo l’indicazione
dei frammenti e delle testimonianze.
82 La filosofia antica

propose di intendere con « presocratici » i pensatori vissuti prima dei socratici: ma il sug-
gerimento non ebbe seguito. Si volle anche sottolineare, a più riprese, che non quello cro-
nologico era il criterio che univa insieme tanti autori diversi, ma quello teoretico e con-
cettuale: pensatori cioè che condividevano l’interesse per la natura, « naturalisti » o, alla
greca, physiologoi (da physis, « natura » nel senso originario di tutto ciò che va soggetto a
un processo di generazione). Autori quindi che si preoccupavano del mondo esterno,
mentre con Socrate si sarebbe giunti al passaggio all’uomo in quanto tale e nei suoi rap-
porti con gli altri e con il contesto socio-politico, la città, con la contestuale e decisiva
nuova curvatura data alle sue argomentazioni dal ricorso all’ironia, che sarà non mero
strumento retorico ma tratto sostanziale. Ma questo, se vale per molti, non vale per tutti:
tra i ‘presocratici’ il Diels aveva incluso ad esempio anche i sofisti, indispensabile prelu-
dio a Socrate e a Platone, e ai sofisti l’etichetta del naturalismo non si attagliava di certo,
tanto che alcuni interpreti di formazione hegeliana, ai primi del Novecento, avrebbero vo-
luto eliminare i frammenti dei sofisti dal novero di quelli dei cosiddetti presocratici. Ma
anche ai pitagorici l’etichetta di naturalisti può andare stretta.
Si tratta di problemi di cui erano consapevoli gli antichi. Scrive il medico Galeno, nel
II secolo d.C., nel suo commento all’opera di Ippocrate Sulla natura dell’uomo:

La prima cosa da considerare è che cosa si intende con il termine ‘natura’ (physis), per associa-
zione con il quale alcuni dei filosofi antichi furono chiamati ‘naturalisti’ (physikoi). Chiarirò
questo per quelli tra voi ai quali mi rivolgo, vale a dire coloro che non hanno familiarità con i
libri Sulla natura scritti da quelli [il titolo Sulla natura venne attribuito, spesso in epoca poste-
riore, a molte delle opere dei filosofi presocratici]; è chiaro infatti che essi cercano di esporre
che genere di cosa sia la sostanza prima (prote ousia), che essi dicono generata ed eterna, e sog-
giacente a tutti i corpi generati e distruttibili, e le proprietà che ciascuna delle cose generate e
distruttibili acquista in virtù della sua struttura (logos) individuale, dalla cui conoscenza dipen-
de la conoscenza di ogni cosa che appartenga a ciascuna sostanza (ousia) individuale, non in
virtù della sua individuale struttura. In questo modo l’esposizione della natura di ciascuna cosa
sarà completa, anche se si approfondiscono di ciascuna cosa soltanto uno o due attributi.
(Galeno, Commento a Ippocrate, Sulla natura dell’uomo XV 2ss. Kühn)

Per natura (physis) si intende qui non quel « principio interno del movimento » che vo-
leva Aristotele all’inizio del II libro della Fisica, ma la natura materiale, dalla quale si ge-
nerano tutte le cose, dotata ciascuna delle sue proprietà individuali che fanno sì che ogni
cosa sia precisamente ciò che è. In questi termini, dunque, gli antichi ponevano la que-
stione.


6.2 Le fonti

Della filosofia prima di Platone abbiamo soltanto testimonianze indirette, grazie alle ope-
re di autori posteriori, arricchite da materiali su papiro dovuti a straordinari rinvenimenti
anche molto recenti, e talora a epigrafi iscritte su pietra o su altri materiali. Rare sono le
eccezioni: di queste, un esempio è l’Encomio di Elena di Gorgia, tràdito per intero e au-
tonomamente su manoscritti medievali. I primi testimoni dei presocratici sono i presocra-
tici stessi, alcuni dei quali citano le dottrine dei loro predecessori o contemporanei, e lo
stesso fa la letteratura, tra cui spicca il contributo delle commedie di Aristofane e delle
tragedie di Sofocle e di Euripide, dove però si fa riferimento alle concezioni correnti sen-
I presocratici 83

za di norma associarle a un nome, lasciando al lettore di intendere. Con Platone e con Ari-
stotele le cose cambiano, riferimenti, citazioni, notizie si fanno ricorrenti, quando non,
come nel I libro della Metafisica di Aristotele, inquadrate in una vera e propria ricogni-
zione storico-filosofica, la prima dell’antichità, sia pure con un’angolazione specifica e di
attendibilità da valutare volta per volta. In seguito, con Teofrasto e gli altri allievi di Ari-
stotele, inizia la tradizione che usa chiamare dossografica: della quale si riferisce a parte,
così come delle nuove scoperte papiracee e delle iscrizioni (cfr. pp. 51-60 e 165-168). Da
allora, e fino alla fine dell’antichità, sarà un susseguirsi di vicende e di personaggi, il cui
ruolo e affidabilità richiedono di essere di volta in volta verificati: studi recenti (Mansfeld
e Runia, Aetiana) hanno riportato sotto la lente l’intricata questione, ferma si può dire da
oltre un secolo ai pur decisivi Doxographi Graeci di Hermann Diels. Un momento di
svolta si avrà in particolare con l’irrompere sulla scena del cristianesimo: contrapponen-
dosi alla cultura pagana, da un lato ne provoca una sorta di messa al bando; dall’altro, con
l’intento di discuterla o di confutarla, ne registra largamente i contenuti, che sono così ar-
rivati fino a noi. Alcune opere originali si leggevano ancora molti secoli dopo la loro
scrittura, fino almeno al V-VI sec. d.C.: e proprio a quest’epoca, in cui la radicale trasfor-
mazione del mondo classico si era ormai compiuta, risalgono alcune delle fonti per noi
più importanti, come Simplicio e Stobeo. Relativamente recente è l’indagine sulla diffu-
sione dei testi e delle dottrine dei filosofi presocratici nel mondo arabo, di interesse mag-
giore di quanto si sia a lungo sospettato: novità in qualche caso importanti ha offerto la
traduzione araba della dossografia di Aezio (il cosiddetto Aetius Arabus, cfr. Daiber,
1980), e lo studio della interazione del pensiero presocratico con la filosofia araba, ad
esempio in quella singolare opera alchemica che è la Turba philosophorum, scritta in ara-
bo prima del X sec. d.C. e rapidamente tradotta in latino e divenuta un’autorità per il pen-
siero ermetico (cfr. Plessner, 1975; Rudolph, 2007).


6.3 I primi tentativi di descrivere il mondo: l’Oriente greco

« Sono arrivati gli Ioni. Hanno dato battaglia » (dalla corrispondenza di Stato dei Re assi-
ri, anno 738 a.C.)2. Questa comunicazione, rinvenuta su una tavoletta in scrittura cunei-
forme nell’attuale Iraq (parte dell’antico impero persiano), è la più antica attestazione
scritta dei contatti diretti tra Greci e popoli mediorientali. I greci della Ionia, la zona cor-
rispondente all’attuale Turchia, erano giunti nel Vicino Oriente con intenzioni non sem-
pre pacifiche già poco dopo la metà dell’VIII secolo a.C. Con gli Ioni venivano identifi-
cati, in Oriente, i Greci, e la Ionia era la zona più prospera grazie alla posizione di passag-
gio tra Oriente e Occidente e ai frequenti scambi, commerciali e non solo.
Proprio in Ionia – e non è un caso –, nella città forse più importante e ricca dell’epoca,
madrepatria di numerosissime colonie (tra cui quella particolarmente importante di Nau-
crati in Egitto), definita da Plinio il Vecchio Ioniae caput (Nat. Hist. V 112), si situa quel-
la che secondo Aristotele è l’origine della filosofia: a Mileto infatti operano, nel VI sec.
a.C., Talete, Anassimandro, Anassimene. Atene, a quell’epoca, era una città marginale,
dopo essere stata un centro miceneo.

2
Cfr. H.W.F. Saggs, The Nimrud letters, London 2001: Parte VI, Iraq, 25, 1963, pp. 70ss.; Rollinger,
2001, 237. V. capitolo 1, ad es. p. 6. In proposito W. Burkert, La via fenicia e la via anatolica: Ideologie e
scoperte tra Oriente e Occidente, in Convegno per Santo Mazzarino, Roma 1998, pp. 55-73 (ora in Kleine
Schriften II – Orientalia, hrsg. L. Gemelli Marciano, Göttingen 2003, pp. 252-266).
84 La filosofia antica

È stato scritto e ripetuto che il dono maggiore dato dalla Ionia alla tradizione intellet-
tuale dell’Occidente è stata la elaborazione di una visione razionale del mondo. Ora, il ra-
zionalismo di questi primissimi pensatori è stato certamente esagerato, fino a considerar-
lo una sorta di vero e proprio illuminismo: quel che si può dire è che proprio con i Milesi
si ebbero i primi tentativi di descrivere autonomamente la natura del mondo ricorrendo a
principi materiali e rinunciando, almeno in certa misura, a ogni dimensione sovrannatu-
rale. Spesso sottovalutato è stato però lo stretto nesso che questi personaggi mantengono
con le interpretazioni arcaiche, mitiche, religiose, dell’universo, che hanno interiorizzato
e cercano di reinterpretare in modo a volte nuovo, a volte invece tradizionale. Nesso che
risulta tanto più evidente quando si richiamino gli stretti legami con le concezioni proprie
del mondo orientale, che solo in anni recenti hanno cominciato ad essere studiate in ma-
niera più diretta, sui testi originali rinvenuti in numerose tavolette, e interpretate in modo
più approfondito3. L’idea dell’acqua come fondamento della generazione delle cose e del
mondo in Talete, ad esempio, difficilmente potrà essere vista come l’innovazione di un
pensatore « razionale » contrapposto a un pensiero arcaico « tradizionale », del quale è
piuttosto una riproposizione.
Quello che siamo in grado di ricostruire, soprattutto attraverso la lente aristotelica e
della successiva dossografia, che da Aristotele e dal suo allievo Teofrasto fu profonda-
mente influenzata, è che i Milesi vollero isolare un principio unico, interno alla realtà ma-
teriale, da cui far derivare l’origine e la caratterizzazione dell’intera realtà. Il pensiero di
questi primi pensatori ionici fu dunque di impronta monista e materialista, e rappresentò
uno sviluppo dell’approccio genetico tipico delle genealogie di Esiodo e del pensiero gre-
co arcaico.

6.3.1 Talete
Di Talete sappiamo non solo da Aristotele ma già, molto prima di lui, dallo storico Ero-
doto. Nessun frammento ci è pervenuto dalle sue opere: probabilmente perché opere in
senso proprio non ne scrisse. Le fonti citano una Astrologia nautica, manuale di astrono-
mia per naviganti, uno scritto Sui principi, uno Sul solstizio e uno Sull’equinozio, ma tut-
ti erano di dubbia autenticità già per gli antichi. Nella Biblioteca di Alessandria, nel III
secolo a.C., sembra fosse conservato solo il primo trattato, ritenuto di autore incerto. Tut-
te le fonti di cui disponiamo, e con particolare evidenza Aristotele, sembrano parlare di
Talete sulla base di informazioni indirette, forse ricavate da una tradizione orale. Consi-
derato uno dei Sette Sapienti, una cioè di quelle figure esemplari distintesi per la propria
saggezza, Talete si interessò di astronomia, e Platone ce lo raffigura talmente intento a
guardare in su per osservare il cielo, da cadere in un pozzo, contribuendo non poco a
un’immagine almeno in parte distorta di un personaggio dalle notevoli abilità tecniche e
pratiche. Erodoto e altri testimoni ricordano che egli avrebbe previsto una eclisse totale di
sole (A 5), che gli studiosi, dopo lunghe controversie, sono inclini a collocare nell’anno
585 (28 maggio): questo rappresenta un dato importante per la datazione di Talete, la cui
data di nascita è posta ipoteticamente intorno al 624 a.C. Egli fu contemporaneo di Solo-
ne di Atene, e visse all’epoca di Ciro re di Persia. La sua famiglia, stando ad alcune testi-
monianze, era di origine fenicia, e le fonti dicono anche che egli avrebbe intrapreso un
viaggio in Egitto. Nonostante l’immagine fornita da Platone di un Talete distaccato dalla
vita quotidiana, egli viene raffigurato come uomo pratico, in grado di dare concreto se-

3
Su tutto questo, e la nuova immagine che ne emerge per i pensatori greci più antichi, si veda il cap. 1, che
va letto in stretto parallelismo con questo sui presocratici.
I presocratici 85

guito alle sue conoscenze « scientifiche ». Una raffigurazione, questa, che si ritroverà nel-
le commedie di Aristofane (cfr. p. 393).
Ma che egli disponesse delle conoscenze necessarie per predire un’eclisse è improba-
bile, non conoscendo né la sfericità della terra, né la necessità di calcolare la parallasse e
di tener conto quindi dell’angolo di osservazione; la fantasiosa ipotesi di Anassimandro
(cfr. p. 89) conferma lo stato delle limitate conoscenze dell’epoca. Erodoto (I 74), del re-
sto, sceglie bene le parole: Talete, dice, « indicò l’anno dell’eclisse », e non più di questo
egli fece, verosimilmente attingendo alle conoscenze orientali, babilonesi in particolare,
con le quali di certo ebbe familiarità. Anche per i Babilonesi del resto, prima del 300 a.C.
era possibile soltanto indicare se una eclisse di sole fosse possibile o da escludere nel cor-
so dell’anno, e non calcolarla con precisione. Questa interpretazione è stata di recente
confermata da una testimonianza di Aristarco di Samo (cfr. p. 19s. e Gemelli, 2007-2010,
I 7B). Talete avrebbe tentato una spiegazione delle inondazioni del Nilo (A 16), e la mi-
surazione dell’altezza delle piramidi mediante l’ombra da esse proiettata (A 21), ma an-
che una spiegazione dei terremoti, ricondotti al movimento dell’acqua che sostiene la ter-
ra, che vi galleggerebbe come un pezzo di legno o una zattera, probabile reminiscenza di
analoghe concezioni orientali (A 15: cfr. p. 18), e una identificazione delle stelle dell’Or-
sa Minore (A 3a). Comunque sia, la fama di Talete si accrebbe grandemente anche grazie
a notizie come quella della predizione dell’eclisse, e soprattutto alle loro esagerazioni at-
traverso i secoli e le testimonianze.
Talete fu poi esperto di geometria, al punto da fare, in quanto tale, la sua parodica
comparsa nelle Nuvole di Aristofane; un teorema porta tuttora il suo nome (Teorema di
Talete), e prevede che se un fascio di linee parallele è intersecato da due trasversali, a seg-
menti uguali sull’una corrispondono segmenti uguali sull’altra. Egli introdusse in Grecia
elementi del mondo egizio, soprattutto nel campo della geometria, e del mondo orientale,
soprattutto caldaico, nel campo dell’astronomia.

A A'

B B'

C C'

D D'

AB : A'B' = BC : B'C'

Il Teorema di Talete
86 La filosofia antica

Ma il ruolo fondamentale che a lui si attribuisce fu quello di aver individuato un prin-


cipio primo, una arché di tutte le cose, e di averlo identificato con l’acqua:

Talete, iniziatore di questo tipo di filosofia, dice che (principio delle cose che sono) è l’acqua, e
perciò egli mostrava anche che la terra sta sopra l’acqua, ricavando forse questa concezione dal
vedere che il nutrimento di tutte le cose è umido, e che perfino il calore si genera da esso e vive
di esso: ora, ciò da cui tutte le cose si generano è il principio di tutte le cose. Egli deriva dunque
tale concezione da queste considerazioni, e dal fatto che i semi di tutte le cose hanno natura
umida, e dall’essere proprio l’acqua, nelle cose umide, il principio della loro natura. E c’è chi
crede che gli antichissimi, che hanno teologizzato per lungo tempo prima dell’attuale genera-
zione e per primi, abbiano pensato nello stesso modo intorno alla natura, perché hanno fatto di
Oceano e Teti i padri della generazione.
(Aristotele, Metafisica I 3, 983b20 ss. = A 12)

Come si vede, Aristotele è piuttosto cauto nell’assegnare a Talete affermazioni preci-


se, e sembra non aver conosciuto direttamente la sua opera; il linguaggio che spesso a Ta-
lete si attribuisce è pienamente aristotelico, e aristotelico è anche il tentativo di spiegare
l’ipotesi dell’acqua con il raffronto con l’umido come base per il nutrimento di ogni cosa.
Certo l’idea dell’acqua come elemento primordiale generatore deriva da una lunga tradi-
zione mitologica, comune a tutte le teogonie del Vicino Oriente, dai Sumeri ai Caldei,
agli Egizi, ai Fenici, secondo i quali da un’acqua primordiale si sarebbe generato il co-
smo. Aristotele ricorda i più antichi tra i Greci, vale a dire innanzitutto Omero (Iliade
XIV 246): Oceano, che scorre intorno e sotto alla terra, è origine (γένεσις) di tutte le cose;
i miti orientali sono numerosi, il più noto è forse quello del Nilo, che, scaturendo dall’ac-
qua sotterranea, feconda la terra, ma anche secondo i poemi mesopotamici della creazio-
ne, come quello sumerico detto della Genesi di Eridu (ca. XVIII sec. a.C.), « in origine era
il mare »; e un testo assiro del 650 a.C. circa presuppone l’esistenza di tre Terre, quella
superiore dove dimorano le anime, quella inferiore dove dimorano gli dèi dei morti, e
quella di mezzo, dove ha sede il padre Ea, cioè l’acqua di sotterra4.
La differenza sta però nel fatto che l’acqua in Talete, stando ad Aristotele, verrebbe as-
solutizzata in quanto « principio », che è sì di ordine materiale, ma rimane costantemente
se stesso pur essendo all’origine di ogni trasformazione. A questo non è estranea l’idea,
ancora attribuita a Talete, di un’ « anima » in costante movimento e attribuita a tutte le co-
se, anche quelle tradizionalmente inanimate, come la pietra:

Sembra che anche Talete sia tra coloro che suppongono, a quanto si dice, che l’anima sia qual-
cosa che muove, se affermò che la pietra (il magnete) ha un’anima perché muove il ferro.
(Aristotele, De anima I 2, 405a 19 = A 22)

Nell’universo alcuni dicono sia mescolata l’anima, e di qui forse anche Talete credette che tutto
fosse pieno di essa.
(Aristotele, De anima I 5, 411a 7 = A 22)

Le fonti attribuiscono quindi a Talete una concezione animistica del mondo: la mate-
ria, e dunque l’acqua, non è inanimata ma vive e trasmette vita, così ponendosi all’origine
della generazione. O meglio, in questa fase del pensiero arcaico, in cui non c’è ancora una
chiara distinzione tra materia e vita, esse sono indistinguibili. Talete, per primo, ricerca

4
Cfr. A. Livingstone, Mystical and mythological explanatory works of Assyrian and Babylonian scholars,
Oxford 1984, pp. 78-91; W. Burkert, Orientalische und griechische Weltmodelle von Assur bis Anaximandros,
« Wiener Studien » 107/108, 1994, pp. 179-86.
I presocratici 87

per le raffigurazioni del mito e della tradizione un fondamento diverso, e nel far questo
pone effettivamente le basi di qualcosa di nuovo. Probabilmente – ma qui, in assenza di
opere scritte, si possono solo fare supposizioni – nuovo fu anche il modo di formulare le
proprie teorie, abbandonando l’impostazione mitologica della tradizione.
Risulta con una certa evidenza che le informazioni a noi giunte su Talete, come anche
su Anassimandro, ci rappresentano un personaggio che disponeva di notevoli competen-
ze tecniche, ben inserito nella linea del pensiero tradizionale, e al quale l’immagine di
« primo dei filosofi » fornita da Aristotele, che sembra non averne conosciuto personal-
mente le opere, si attaglia con qualche fatica. Certamente intorno a questi personaggi già
a partire dall’antichità si sono edificate costruzioni dalle fondamenta spesso incerte.

6.3.2 Anassimandro
L’influsso orientale, e la ricerca di un riferimento nuovo per la concezione del mondo, ar-
rivano in Anassimandro a sviluppi inattesi. Anche nel suo caso, le informazioni della tra-
dizione fanno prevalere l’immagine di un teorico dell’interpretazione dell’universo su
quella di un esperto cartografo e interprete di fenomeni naturali, mentre entrambe vanno
viste in parallelo e anzi in stretta connessione l’una con l’altra. Poco più giovane di Tale-
te, del quale Teofrasto e parte della dossografia successiva lo dicono « successore e allie-
vo » (A 9), Anassimandro nacque poco prima del 600 a.C., e fu una figura peculiare nel
panorama greco arcaico. Un solo frammento testuale si conserverebbe dalla sua opera,
scritta in prosa e ancora disponibile in età ellenistica, ad esempio nella biblioteca del Gin-
nasio di Taormina, come sembra attestare una iscrizione lì rinvenuta (cfr. fr. 3C Gemelli);
si dice fosse anch’essa intitolata Sulla natura. La sua dottrina, e in particolare quella più
nota relativa al cosiddetto apeiron, è affidata a testimonianze indirette. Anche a lui, come
a Talete, si attribuiscono con buona sicurezza competenze tecniche: egli disegnò una car-
ta della Terra, e costruì strumenti per la misurazione del tempo, come la meridiana di
Sparta, e sulla base del confronto con testimonianze mesopotamiche è possibile ipotizza-
re che proprio alla carta fosse connessa la sua interpretazione dell’universo. Secondo le
testimonianze degli autori greci che vanno da Aristotele in poi, fino a Simplicio, egli
avrebbe identificato tra loro il principio (arché) e l’elemento costitutivo (stoicheion) del-
le cose che sono, individuandolo nell’apeiron, l’indefinito o indeterminato. Conviene ri-
portare in parallelo le tre versioni, simili ma diverse, della dottrina anassimandrea dell’a-
peiron, risalenti tutte in ultima istanza a Teofrasto: esse sono anche un buon esempio del-
le caratteristiche dell’antica dossografia.
Testimone principale è Simplicio nel suo Commento alla Fisica di Aristotele (p. 24,13
= A 9); accanto alla sua testimonianza sono quelle di Ippolito (Confutazione di tutte le
eresie I 6,1-2 = A 11) e dello Pseudo-Plutarco (Stromata 2 = A 10)5.

La versione di Simplicio:
Anassimandro di Mileto, figlio di Prassiade, successore e discepolo di Talete, disse che princi-
pio (arché) ed elemento costitutivo (stoicheion) delle cose che sono è l’apeiron, e per primo in-
trodusse questo nome del principio. Egli dice che questo non è l’acqua né altro di quelli che si
chiamano elementi, ma una qualche altra entità generatrice (« natura », physis) che è apeiron,
dalla quale nascono tutti i cieli e i mondi in essi contenuti.

5
Su questi testimoni si veda il cap. 2.
88 La filosofia antica

La versione di Ippolito:
Discepolo di Talete fu dunque Anassimandro. Anassimandro di Mileto, figlio di Prassiade: [...]
costui disse che principio (arché) ed elemento costitutivo (stoicheion) delle cose che sono è l’a-
peiron, e per primo chiamò con questo nome il principio. Inoltre disse che il movimento è eter-
no, e che in ciò accade che nascano i cieli. [...] Egli disse che principio delle cose che sono è una
qualche entità generatrice (« natura », physis) che è apeiron, dalla quale nascono i cieli e il mon-
do in essi contenuto.

La versione di Pseudo-Plutarco:
... Anassimandro, compagno di Talete, disse che l’apeiron contiene tutta la causa della genera-
zione e della distruzione del mondo, da cui egli dice che si sono separati i cieli e in generale tut-
ti i mondi, che sono apeiroi.

Si osserva facilmente come da queste testimonianze la concezione di Anassimandro


affiori in modo tutt’altro che chiaro e univoco. Molte sono le difficoltà: quella centrale ri-
guarda significato e ruolo della nozione di ἄπειρον, e la parte avuta da Aristotele e dalla
tradizione peripatetica nella riformulazione di quella teoria.
Il termine è connesso etimologicamente con il sostantivo greco già omerico πεῖραρ,
poi πέρας (« limite, confine, estremità »), con l’avverbio πέρα(ν) (« al di là, oltre, dalla par-
te opposta »), con il verbo πɛρᾶν (« superare, attraversare », tipicamente il mare): significa
dunque propriamente ciò che non può essere attraversato da una estremità all’altra. Non,
tuttavia, « infinito », che è per i Greci piuttosto concetto negativo, potendo indicare il non-
finito, il non-compiuto, l’imperfetto; piuttosto, apeiron è l’indefinito, l’illimitato come
ciò che è privo di limite visibile, l’indeterminato come ciò di cui non è possibile tracciare
una linea di demarcazione precisa. Ma il concetto può avere senso spaziale (privo di limi-
te o di delimitazione nello spazio) o temporale (privo di limite nel tempo, dunque eterno),
e in entrambi i casi esso è posto in relazione con ciò che è ad esso esterno; vi è però anche
una terza possibilità, ed è quella che intende la indefinitezza come interna all’apeiron,
qualcosa cioè che sia privo al suo interno di delimitazioni, qualcosa le cui parti non sono
separate l’una dall’altra da una linea di demarcazione, restando indistinte. Un tutto uni-
forme, dunque. Gli studiosi non sono mai arrivati ad una interpretazione unitaria, ma è
probabile che la nozione di apeiron porti con sé almeno in parte tutte le tre connotazioni
ora suggerite: le fonti antiche informano in ogni caso che dall’apeiron nascono « tutti i
cieli e i mondi », che per Anassimandro come per gli atomisti sono infiniti di numero, l’a-
peiron dunque come sorgente, scaturigine di ciò che è (τὰ ὄντα), qualcosa di analogo al
Chaos esiodeo, l’indistinto che tutto abbraccia (A 11 e 15), concepito tuttavia non come
vuoto ma come pieno, come corpo, qualcosa che secondo Aristotele (De generatione et
corruptione II 5, 332a19) si trova a metà tra aria e acqua o tra aria e fuoco, ed è più spes-
so dell’aria e del fuoco, ma più sottile delle altre sostanze, come l’acqua. Ed anche qual-
cosa di unitario, dice ancora Aristotele (Fisica I 4, 187a12), un « uno » da cui tutti i con-
trari sono generati:

Dell’apeiron non v’è un principio (arché), perché questo ne costituirebbe un limite (peras). In
quanto principio, esso è ingenerato e indistruttibile, poiché ciò che è generato è necessario che
abbia una fine, e per ogni distruzione vi è un termine. Perciò, come noi diciamo, di questo non
sembra esservi principio, ma piuttosto essere esso principio delle altre cose e tutte abbracciarle
e tutte reggerle, come dicono coloro che non pongono altre cause oltre all’apeiron, come il nous
[Anassagora] o l’amicizia [Empedocle]. E questo ritengono che sia il divino, immortale e indi-
struttibile, come dice Anassimandro e la maggior parte dei naturalisti (physiòlogoi).
(Aristotele, Fisica III 4, 203b6 = A 15)
I presocratici 89

Non è facile distinguere, in queste testimonianze, quanto sia propriamente anassiman-


dreo da quanto riguarda più in generale le comuni dottrine professate dai pensatori dell’e-
poca, fino ad Anassagora; alcuni interpreti hanno però ritenuto di poter individuare in
questo passo persino delle formulazioni tratte dall’opera stessa di Anassimandro. Da un
corpo che è uno, privo di limiti interni ed esterni, ingenerato e indistruttibile, e in questo
senso « divino », tutto deriva per separazione, e tutti i processi sono governati. A quanto è
dato ricostruire, dapprima si genererebbe l’umido, l’acquoso, che separa tra loro la Terra
e l’involucro di fuoco che esternamente la avvolge. L’involucro, costituito da anelli, è a
sua volta racchiuso da cerchi come di ruota, cavi e dotati di aperture sulla circonferenza,
dai quali fuoriescono i bagliori delle fiamme, quelle che noi chiamiamo stelle fisse. Quan-
do le aperture sono ostruite, si generano le eclissi (A 10, 18, 21). Singolare è che il cielo
delle stelle fisse sia più vicino alla terra rispetto a luna e sole, una posizione altrimenti non
attestata in Grecia: essa è però chiaramente testimoniata in un testo assiro, che conferma
con chiarezza l’eredità orientale nella concezione dell’universo di Anassimandro, visibile
anche nella teoria dell’umido come origine degli esseri viventi, i primi dei quali furono i
pesci, dai quali l’uomo, l’unico tra gli esseri viventi che non sa nutrirsi da sé appena nato
e ha bisogno invece di un lungo periodo di evoluzione e adattamento, si sarebbe poi ge-
nerato, evolvendosi: una dottrina, questa, unica in Grecia, e attestata invece in Oriente
(cfr. p. 19). Una delle novità del pensiero di Anassimandro consiste nella sua rinuncia a
considerare la generazione delle cose come derivata dalla trasformazione di una sostanza
elementare, e nell’attribuirla invece al processo di separazione dei contrari ad opera di un
movimento eterno (Simplicio, Commento alla Fisica di Aristotele p. 24,13 = A 9).
Il movimento che determina la separazione delle sostanze è un moto rotatorio, che in
Empedocle, Anassagora e negli atomisti, ma forse anche in Anassimandro stesso, cresce
progressivamente in velocità fino a diventare un vortice, nel quale sono attive le due forze
centrifuga e centripeta, che operano nella separazione e nella unione della materia, spin-
gendo i corpi pesanti al centro, quelli leggeri alla periferia. Il ruolo del movimento è fon-
damentale nell’intero pensiero cosmologico greco, e questo del movimento rotatorio, che
in base alla velocità può trasformarsi in vortice, è concetto ricorrente. Non è un caso che
la forma tipicamente assegnata all’universo sia quella della sfera, figura perfetta e dunque
adeguata ai corpi celesti e al loro carattere divino, e direttamente connessa con un moto di
tipo rotatorio.
Una delle più brillanti intuizioni di Anassimandro è nella spiegazione della stabilità
della Terra, della ragione cioè per la quale essa non precipita nel vuoto. Già Talete si era
soffermato su questo interrogativo, affermando che la Terra poggia sull’acqua, e per que-
sto fu criticato da Aristotele, il quale osservava che non di una soluzione si trattava, ma di
uno spostamento del problema: perché restava da chiedersi su che cosa poggiasse l’ac-
qua. Anassimandro tenta una via del tutto differente, e unica. Egli osserva, che la Terra si
trova nel mezzo del « tutto », dell’universo, e risulta in ogni punto alla stessa distanza ri-
spetto alla periferia del tutto: la Terra è dunque in equilibrio, e questa è ragione sufficien-
te a spiegarne la stabilità (A 26). Essa non tende, non è attratta da una parte piuttosto che
dall’altra, ma da tutte allo stesso modo, e questo le impedisce di cadere verso il basso:

Vi sono alcuni che dicono che (la terra) resta ferma a causa dell’uguaglianza, come fra gli anti-
chi Anassimandro. (Dicono) infatti che ciò che è collocato in mezzo ed è ad uguale distanza da-
gli estremi non è affatto sollecitato a muoversi verso l’alto piuttosto che verso il basso o verso i
lati; ed è impossibile che compia al tempo stesso un movimento in direzioni contrarie, cosicché
di necessità sta fermo.
(Aristotele, De caelo II 13, 295b10 = A 26)
90 La filosofia antica

Non c’è più bisogno, dunque, di immaginare per la terra un sostegno materiale che sia
con essa in contatto diretto, mentre emerge la nozione di actio in distans, quell’azione a
distanza che soltanto molti secoli dopo sarà pienamente compresa, e non solo intuita co-
me qui.
Ad Anassimandro si fa risalire la più antica affermazione a noi giunta dalla filosofia
greca, ed è una formulazione che dimostra tutta la peculiarità dell’autore:

Ciò da cui deriva alle cose che sono la generazione, è ciò in cui si realizza anche la loro distru-
zione, ‘secondo necessità; poiché esse devono pagare l’una all’altra il fio e la pena dell’ingiu-
stizia secondo l’ordine [o: secondo la sentenza] del tempo’, come egli dice usando delle espres-
sioni piuttosto poetiche.
(Simplicio, Commento alla Fisica di Aristotele p. 24,13 = fr. 1)

Si tratta ancora una volta di un passo di difficile decifrazione, sul quale molto è stato
scritto6. Almeno i concetti, se non le parole, si possono considerare anassimandrei, e co-
stituiscono, secondo una definizione di W. Jaeger (1953, trad. it. p. 51), « qualcosa di più
di una spiegazione della natura nel senso della ‘scienza’ moderna: è la prima teodicea fi-
losofica ». L’esperienza della legge umana, caratterizzata dalla colpa e dall’espiazione,
viene trasferita sul piano cosmico, e diventa legge universale delle cose, per le quali la
colpa sarà forse da vedere nel loro stesso essere generate in quanto opposti, nel loro esse-
re separate dalla condizione primordiale indistinta, e nella loro continua lotta in quanto
contrari, in cui l’uno cerca di prevalere sull’altro, come chiunque si trovi a constatare os-
servando l’alternarsi di giorno e notte, di estate e inverno, insomma delle innumerevoli
coppie di contrari. Ciascuno di essi viene all’essere, ma la sua esistenza è limitata nel
tempo e determinata dal Tempo, che ne è giudice, in attesa di cedere il proprio spazio al-
l’altro. L’ingiustizia commessa richiede una espiazione, secondo una concezione di tipo
giuridico caratteristica della Grecia arcaica e classica, della quale le leggi di Solone di-
vennero il testo guida. Il diritto come norma immanente alla realtà.

6.3.3 Anassimene
Anassimandro, con il suo tenere insieme gli elementi della tradizione sia greca che orientale, cer-
ca di offrire una interpretazione coerente del costituirsi e della evoluzione dell’universo, e dei
processi che al suo interno hanno luogo, primi fra tutti quelli relativi alla vita. Su questa linea si
pone anche il terzo dei Milesi, Anassimene (floruit 545 a.C.), che come di consueto le fonti vo-
gliono discepolo di Anassimandro (dal quale per la verità la sua concezione sembra non poco di-
stante), e che a sua volta introduce un elemento nuovo nell’interpretazione dell’essere e dell’uni-
verso. Anch’egli, come Talete, vede in uno dei tradizionali elementi materiali, l’aria – dunque
qualcosa di qualitativamente determinato –, il fondamento di tutte le cose; ma più che in questo
cambiamento, che – pur ricco di conseguenze e con rilevanti addentellati presso i pitagorici come
più tardi in Diogene di Apollonia – di per sé può non dire molto, essenziale è il tentativo che
Anassimene fa per spiegare non solo quale sia il sostrato materiale e unitario delle cose, ma in
che modo esso svolga questo ruolo. La domanda, se il sostrato generi le cose in quanto si trasfor-
ma in qualcosa di altro da sé, o le generi restando se stesso e semplicemente dandosi in condizio-
ni diverse, è un tema centrale per Anassimene: che risponde sostenendo che elemento originario,

6
Un dettagliato quadro su questo frammento e in generale su Anassimandro è ora costituito da due ampi
interventi di Jaap Mansfeld, 2009 e 2010.
I presocratici 91

non finito spazialmente e temporalmente eterno, è l’aria, e che da aria tutte le cose sono costituite,
solo più densa o più rarefatta nei diversi casi. I due processi che determinano le sue trasformazio-
ni, condensazione e rarefazione, si spiegano, come già in Anassimandro e come sarà regolarmen-
te nel pensiero presocratico, con l’idea dell’eterno movimento rotatorio a cui l’aria è soggetta (A
5). Se l’aria diventa più rarefatta, si trasforma in fuoco; se diventa più densa, si trasforma progres-
sivamente in vento, nubi, acqua, terra, pietra (A 5), mutando anche di temperatura. L’aria tiene
anche sospesa la terra, impedendole di cadere verso il basso. L’aria risulta essere dunque un prin-
cipio vivo e vitale, essa costituisce, come l’acqua per Talete, anche l’anima dell’uomo (fr. 2), che
lo sostiene e abbraccia così come il soffio e l’aria circondano il mondo – una dottrina, questa, che
si ritrova anche nel Pitagorismo arcaico, e che, come anticipazione dell’idea di un’anima-respiro
del mondo, avrà notevole successo. Anassimene ricerca una spiegazione dettagliata dei fenome-
ni astronomici e meteorologici, non solo della posizione della Terra, che poggia sull’aria come un
coperchio e viene quindi da essa sostenuta, ma anche dei movimenti degli astri, influenzati dal
loro galleggiare sull’aria, e dell’alternarsi delle stagioni tra fredde e calde, giacché la lontananza
del sole in inverno rende l’aria fredda e densa, e il contrario accade in estate. E l’aria influenza le
nuvole, la nebbia, la pioggia, tuoni e fulmini, l’arcobaleno, che si verifica quando i raggi del sole
si scontrano con aria particolarmente densa.
Dicono i testi:

Anassimene di Mileto, figlio di Euristrato, che era stato discepolo di Anassimandro, dice
anch’egli, come lui, che il principio primordiale fondamentale è unico e senza limiti; ma non lo
dice, come lui, indeterminato, bensì determinato, e specifica che è l’aria.
(Simplicio, Commento alla Fisica di Aristotele p. 24,26 = A 5)
Proprio come la nostra anima, che è aria, ci sostiene, così il soffio e l’aria circondano il mondo
intero.
(fr. 2 = Aezio, I 3,4)
Essa è sempre in movimento, perché non presenterebbe tanti mutamenti quanti ne presenta, se
non fosse in movimento.
(Ippolito, Confutazione di tutte le eresie I 7,2 = A 7,2)
Così egli afferma l’eternità del moto, come causa del generarsi anche della mutazione [...].
(L’aria) si differenzia per via di rarefazione e di condensazione delle varie sostanze. E rarefa-
cendosi diventa fuoco, condensandosi invece diviene vento, poi nuvola, e ancor più densa di-
venta acqua, poi terra, infine pietra.
(Simplicio, loc. cit. = A 5)

Anassimene offre una interpretazione realmente innovativa, laddove propone un mo-


dello unitario che serve a spiegare ogni genere di processo, dalla generazione delle cose a
partire dal sostrato materiale originario, all’anima dell’uomo. È una spiegazione non solo
monista e materialista, come quelle degli altri Milesi, ma anche quantitativa e come tale
da essa distinta, con il suo ricorrere alla nozione di maggiore o minore densità, in cui la
quantità determina e controlla la qualità e i generi delle cose. Sebbene ancora raffigurata
seguendo l’alveo delle immagini del mito, essa si allontana però dalle raffigurazioni tra-
dizionali e sembra aprire la strada all’evoluzione che il dibattito cosmogonico e cosmolo-
gico via via assume. Non sarà un caso che tra le teorie più antiche proprio quella di Anas-
simene sarà ripresa e rielaborata verso la fine del V secolo, in particolare da Diogene di
Apollonia, e sarà ben presente all’autore di quel commento alle dottrine orfiche noto co-
me Papiro di Derveni.
Mileto dunque, grazie anche al contesto socio-politico e alla posizione di porta con
l’Oriente, aveva aperto la via allo sviluppo di quel modo di intendere la realtà e a quelle
92 La filosofia antica

risposte agli interrogativi sull’uomo e il mondo che diventeranno sempre più peculiar-
mente greche.

Poco a nord di Mileto era Efeso, città anch’essa ricca e vivace; e poco a nord di Efeso era
Colofone. Di fronte a entrambe, a poca distanza dalla costa sul mar Egeo: l’isola di Samo.
A Efeso nacque e fu attivo Eraclito; a Colofone nacque Senofane; Samo fu patria di Pita-
gora. In uno spazio di pochi chilometri, emergevano nel VI secolo le principali forze in-
tellettuali dell’epoca, che avrebbero dato vita a interpretazioni destinate a segnare l’intero
pensiero occidentale. Come il resto delle città della costa ionica, anche Mileto, Efeso, Co-
lofone, Samo, furono per molti anni in continua tensione e lotta con i Persiani, che le po-
sero progressivamente sotto il proprio dominio.
All’inizio del V secolo, stanche di quella dominazione, le città greche tentarono una
ribellione, ponendosi così all’origine di una serie di conflitti destinati a sfociare nelle
Guerre Persiane, culminate nelle battaglie di Maratona, Salamina, Platea e Micale, in cui
i Greci infine sconfissero, inaspettatamente, le ben più potenti e numerose armate persia-
ne. La situazione era dunque difficile. Nella seconda metà del secolo, dal 547 in poi, Ciro,
Re dei Persiani, conduce una inesausta campagna di conquiste, dopo di lui sarà Dario a
prenderne il posto. Tra gli Ioni, alcuni, non tollerando l’idea di essere fatti schiavi dal ne-
mico, abbandonano la loro patria; quasi tutti gli altri « vennero a battaglia con Arpago [lo
stratega e consigliere di Ciro], [...] e si comportarono valorosamente, combattendo cia-
scuno per la propria terra; sconfitti e resi servi, rimasero ciascuno nel proprio paese, ed
eseguirono quanto era imposto » (Erodoto, I 169). Vi fu solo un’eccezione: gli abitanti di
Mileto. Narra ancora Erodoto: « I Milesi, poiché avevano giurato il patto con Ciro, rima-
sero in pace. Così la Ionia fu asservita per la seconda volta ». Gli abitanti di Mileto aveva-
no dunque un rapporto privilegiato con il Re persiano: Ciro aveva mandato inizialmente
dei messaggeri invitando gli Ioni a ribellarsi al loro re Creso e appoggiare la nuova domi-
nazione, ma gli Ioni non avevano accettato. Poi, vista la mala parata, sono gli Ioni a cer-
care di stipulare un patto, sottomettendosi a Ciro: ma il Re rifiuta sdegnosamente. Questo
non vale però per i Milesi: « Solo con i Milesi, infatti, Ciro aveva stretto un giuramento »
(Erodoto, I 141; cfr. pp. 7ss.).
Le tensioni tra Oriente e Grecia si acuiscono. E proprio in questa contrapposizione,
come spesso è accaduto nella storia, matura nel mondo greco il senso della propria iden-
tità. La svolta fu decisiva.
Senofane e Pitagora simboleggiano nel modo più efficace il primo grande mutamento
del pensiero greco, uno spostamento nella sostanza e nel metodo, che andò in parallelo
con uno spostamento fisico, geografico: entrambi lasciano infatti la Ionia per trasferirsi
all’estremo opposto del mondo greco, nell’Italia del Sud. La Magna Grecia. Portano con
sé l’eredità del mondo ionico e i tratti fondamentali di quel pensiero, ma li integrano e li
arricchiscono con quelle che erano evidentemente propensioni diverse, tipiche della zona
occidentale delle colonie. Eraclito, da parte sua, resta invece saldamente radicato a Efeso,
ma anch’egli mostrerà sorprendenti contatti, per affinità e contrapposizione, con il mondo
magnogreco, rappresentato in particolare da Parmenide. L’espansione geografica era co-
minciata, e con essa una nuova era, legata sì a quella, così vicina, dei Milesi, ma proietta-
ta in avanti. E con Eraclito, sebbene sia cronologicamente di qualche anno posteriore,
converrà proseguire il percorso del pensiero ionico.
I presocratici 93

6.3.4 Eraclito
Efeso, tra la fine del VI e l’inizio del V sec. a.C. Intorno all’anno 500. La situazione poli-
tica e sociale nelle città della Ionia è tesa. Le battaglie culminanti delle guerre persiane
incombono. Eraclito ha poco più di quarant'anni, è dunque nel fiore della propria attività.
È di famiglia reale, secondo le fonti antiche (Diog. Laert. IX 1 = A 1), un contesto che
difficilmente poteva lasciarlo estraneo rispetto alle vicissitudini politiche del tempo. Nei
suoi scritti si evidenzia distacco e finanche disprezzo per « le masse », per quelle persone
che « vanno dietro ai cantori popolari e hanno come maestro la massa, perché non sanno
che i molti sono cattivi, e solo pochi sono i buoni » (fr. 104 = Proclo, Commento all’Alci-
biade di Platone p. 256, 2-5). Eraclito intende rivelare la sua verità, soltanto però a chi sia
in grado di intenderla. Lo fa scegliendo deliberatamente formulazioni criptiche, e deposi-
tando la sua opera nel grande tempio di Artemide a Efeso: un gesto che segna la sua in-
tenzione da un lato di preservare il suo testo, dall’altro di renderlo accessibile a chi fosse
in grado di intenderlo, poiché anche questa era la funzione degli antichi santuari, punto di
incontro e luogo per la conservazione e la circolazione della conoscenza. Luoghi in cui,
spesso, raccontano aneddoticamente gli antichi, Eraclito trascorreva il suo tempo, giocan-
do a dadi con i bambini, attività che riteneva più apprezzabile che non unirsi a chi ammi-
nistrava la città, persone che teneva in disprezzo (A 1).
Eraclito testimonia della circolazione del sapere dell’epoca, che fosse tecnico, sapien-
ziale, poetico o filosofico: poiché egli mostra di conoscere, e cita per nome, almeno Tale-
te, Senofane, Pitagora, naturalmente Omero ma anche Esiodo e Archiloco, e il logografo
Ecateo. Quasi certamente conobbe, per via diretta o indiretta, le dottrine di Parmenide,
delle quali si ritrovano nei suoi frammenti risonanze.
Eraclito non solo fu spesso al centro dell’attenzione di Platone, che in più di un caso
tratta con sarcasmo lui e i suoi seguaci, detti talora « i fluenti » (οἱ ῥέοντες, dalla teoria se-
condo cui « tutto scorre »); ma esercitò anche una grande influenza sul pensiero successi-
vo. A lui si rifanno direttamente gli stoici, che ne recuperano, rielaborandoli, gli assunti
centrali; i cinici, che ne apprezzavano l’altezzoso atteggiamento polemico; persino negli
scritti attribuiti ad Ippocrate si ritrova con chiarezza la sua influenza (ad esempio nel De
Victu, il trattato Sul regime di vita).
A differenza di quanto accaduto per i Milesi, di Eraclito sono giunti fino a noi nume-
rosi frammenti (oltre centoventi quelli in cui si sono riconosciute le sue parole), la cui in-
terpretazione tuttavia, anche a causa delle scelte criptiche dell’autore, è spesso tutt’altro
che agevole. Eraclito si esprime con frasi brevi di grande densità, spesso e impropriamen-
te definite aforismi, e con il suo stile si guadagnò il soprannome l’oscuro: già a Teofrasto,
il testo eracliteo dava una sensazione di incompiuto e di scarsa coerenza, e ciò non aiuta
a comprendere quale forma dovesse avere l’opera integrale.
Tornano in Eraclito i concetti cardine di quell’epoca del pensiero greco: quello dei
contrari, e del continuo movimento dell’esistente, del continuo trascorrere (χωρεῖν; o
scorrere, ῥεῖν, secondo alcune fonti: πάντα ῥεῖ) delle cose, al punto da rendere impossibi-
le immergersi due volte (neanche una volta soltanto, dirà anzi il seguace Cratilo) in uno
stesso fiume, poiché la seconda volta non sarà più lo stesso, né il fiume, né la persona (frr.
12 e 91a). I contrari non sono però intesi sul piano cosmologico, ma su quello del vissuto
quotidiano: giorno e notte, inverno e estate, guerra e pace, salute e malattia, fame e sazie-
tà, fatica e riposo, veglia e sonno, vecchiaia e giovinezza, vita e morte (frr. 67, 88, 111,
126). Il vissuto, l’esperienza immediata, è il contesto in cui l’uomo innanzitutto cerca di
conoscere, è il suo punto di partenza: « mi sono messo alla ricerca di me stesso » (fr. 101),
poiché « a tutti gli uomini è possibile conoscere se stessi ed essere saggi » (fr. 116). I con-
trari sono necessari l’uno all’altro, l’uno esiste in quanto esiste l’altro, « la malattia fa dol-
94 La filosofia antica

La Ionia e il Mar Egeo nel V secolo a.C.

ce la salute » (fr. 111), l’offesa fa sì che esista la giustizia (fr. 23). Si viene generati, si na-
sce, per essere destinati alla morte, la vita è vissuta nella tensione continua tra desiderio
di vita e nostaglia della morte, perché la morte come riposo dalle tensioni è il segreto de-
siderio di chi vive (cfr. fr. 20). E i contrari si permutano l’uno nell’altro, il caldo si raf-
fredda, ciò che è freddo si riscalda, in un continuo alternarsi e trasformarsi e identificarsi
l’uno con l’altro. Vedere, udire, fare esperienza, sono passi fondamentali nella ricerca
della conoscenza (fr. 55), e questo è nel solco della pura tradizione ionica: ma vedere,
udire, esperire, possono restare strumenti inservibili, se uniti a un animo barbarico, se
I presocratici 95

dunque privi della capacità di intendere quei dati, che l’esperienza ci riserva. Udire senza
comprendere è come esserci senza essere (παρεόντας ἀπεῖναι, fr. 34). Si deve saper inter-
pretare i segni che ci provengono dalla realtà, poiché « la natura ama nascondersi » (fr.
123), così come si interpretano i segni che ci provengono dall’oracolo di Delfi, il quale
« non dice e non nasconde, ma dà segni » (fr. 93). Il modo in cui l’uomo conosce se stesso
determina il modo in cui conosce ciò che lo circonda.
Fondamentale è per Eraclito la tensione verso l’unità: ciò che si contrappone va in
realtà insieme, proprio da ciò che differisce nasce l’armonia più bella (fr. 8), e « armonia »
è in greco innanzitutto commessura, incastro, combinazione di elementi diversi in un tut-
to proporzionato e funzionale. Unità e armonia possono darsi soltanto come unità e armo-
nia di forze contrapposte, nella misura in cui queste forze si frenano e si bilanciano reci-
procamente perché la tensione non giunga a rottura: comprendere « in che modo discordi
da se stessa e sia concorde: armonia in controtensione (παλίντονος ἁρμονίη), come
nell’arco e nella lira » (fr. 51). Arco e lira: l’arco, « che ha per nome vita e per opera mor-
te » (fr. 48), simbolo della contrapposizione creativa, in cui la freccia è scagliata verso il
bersaglio grazie alla opposta opera del legno e della corda, che tirano ciascuno in una op-
posta direzione ma insieme realizzano l’intento; e così la lira, sulla quale corde diversa-
mente tese originano suoni differenti che insieme generano armonia. Polemos – guerra,
scontro, tensione – « è padre e re di tutte le cose », e a ciascuno assegna il suo destino, agli
uni quello di dèi, agli altri quello di uomini; agli uni libertà, agli altri schiavitù (fr. 53),
come è sempre nell’esito delle guerre antiche, il vincitore è libero, lo sconfitto è schiavo.
E delle tensioni tra compiuto e incompiuto, tra sazio e insoddisfatto, in una continua ri-
cerca di appagamento e di unità, è il fuoco, che vive e si sazia in quanto distrugge, che
sempre è insoddisfatto e assale ciò che lo circonda: « Questo cosmo, che è lo stesso per
tutti, né un dio né un uomo l’ha creato, ma fu sempre ed è e sarà; fuoco eterno, che s’ac-
cende a misura e si spegne a misura » (fr. 30: sulle ascendenze orientali di questa conce-
zione cfr. p. 27). Fuoco come continua vicenda delle singole cose ma anche come ricor-
rente accadimento cosmico, sulla scia di quella concezione dei cicli cosmici penetrati nel
mondo greco da quello orientale caldaico: il fuoco sopravvenendo giudicherà e condan-
nerà infine tutte le cose (fr. 66), una idea di conflagrazione universale che i pensatori cri-
stiani, come Ippolito che cita il frammento, accosteranno al giudizio universale, operando
una forzatura del pensiero eracliteo ma al tempo stesso sottolineando quell’idea di ciclica
giustizia universale che già Anassimandro aveva efficacemente formulato. L’anima stes-
sa è fuoco (fr. 36).
L’intero universo è una connessione di contrari, tra i quali vige un preciso rapporto. I
contrari, le forze contrapposte, la tensione, tutto si riconduce in ultimo a unità. Tutto è in
rapporto con l’altro, con il diverso: e « rapporto » è, in greco, logos. Rapporto tra grandez-
ze matematiche, siano esse numeri o figure geometriche; e rapporto in quanto appartenen-
za di cose diverse a una stessa classe, a uno stesso novero, a un insieme. È il passaggio dal
continuo al discreto e viceversa, vigorosamente simboleggiato in Omero dal dio Proteo
(così Zellini 2010), dio delle infinite trasformazioni, che nell’Odissea (vv. 450ss.) esce
ogni giorno allo stesso momento dal mare, e conta (legein): conta le sue foche, ogni gior-
no, le enumera cinque per volta, e si distende (legein) poi egli stesso tra di loro, e si fa
dunque numero egli stesso, entra nel novero. Il passaggio dal mare, dall’acqua, simbolo
del continuo, al numero, alla serie, simbolo del discreto: questo è il logos. Logos è l’unità
di misura: e permette secondo Eraclito di misurare il mare (fr. 31): « il mare ... si misura
secondo lo stesso logos, quale era prima che fosse la terra ». Logos è il nesso, l’unione, e
la legge che la regola. Senza legge (nomos) non può esistere comunità umana, e la legge
degli uomini, la legge della città trae nutrimento dall’unica legge divina, e come la legge
comune a tutti regola la vita della città, così è necessario che chi sa parli seguendo ciò che
96 La filosofia antica

è comune a tutti (fr. 114). E comune a tutti è il logos (fr. 1 e 2). È grandezza dinamica e
ordinatrice. Eraclito fa del logos il perno centrale della sua argomentazione, e questa no-
zione ha dato origine alle interpretazioni più diverse. Logos è forse il concetto più com-
plesso e articolato dell’intero mondo greco, e diventa persino, come nell’esordio del van-
gelo di Giovanni, Parola di Dio e Dio stesso. Ma logos è anche, da sempre, narrazione,
racconto, discorso, ed Eraclito fa un uso assai sofisticato della polivalenza della nozione:
logos è allora anche il suo racconto, la sua esposizione, « questo logos qui », che si deve
ascoltare (fr. 1: p. 24), ma al tempo stesso esso è qualcosa di comune a tutti, ed è eterno,
qualcosa che tutti dovrebbero seguire ma che invece è spesso incompreso come se gli uo-
mini fossero addormentati. Esso si situa in profondità: ogni anima ha un logos, ed è un
logos che cresce (fr. 115), e nessuno potrà raggiungere i confini dell’anima, perché pro-
fondo è il suo logos7.
Con il logos di Eraclito, che influenzerà profondamente la più tarda dottrina stoica di
una legge naturale ma sarà in essa radicalmente rielaborato, il pensiero greco compie un
passo decisivo in direzione di una entità che è sì, ancora una volta, interna alla materia, e
tuttavia non è essa stessa materia, ma ne è il nesso unificante. La strada è aperta verso le
due forze contrapposte che in Empedocle regoleranno il ciclo degli elementi, verso quella
dimensione razionale (nous) che Anassagora porrà come principio del movimento e dun-
que del divenire, verso quella necessità intrinseca (ananke) che per gli atomisti regola il
mondo. Verso qualcosa, dunque, che sia profondamente connesso ai meccanismi del di-
venire della materia ma sia ad essa non conforme, o, per dirla con le parole di Anassago-
ra, qualcosa di « non mescolato », che si distingue nella universale mescolanza di cui è
costituita ogni cosa. Socrate, come racconta il Fedone di Platone (96c ss.), rimase affasci-
nato dall’intuizione di Anassagora, di qualcosa « d’altro », e di razionale, che sovrinten-
desse alle cose del mondo; ma fu la sua un’illusione, poiché Anassagora rimase materia-
lista e determinista, e non si spinse al punto che egli avrebbe desiderato: lo farà invece
Platone, e da lì in avanti l’intero pensiero occidentale avrà trovato uno dei suoi fonda-
menti.


6.4 Passaggio a Occidente

Nella stessa epoca, si verificò in Grecia uno spostamento radicale dell’asse geografico
della riflessione che noi diciamo filosofica, che coincise con un decisivo spostamento
concettuale. La forza simbolica del viaggio in Occidente di Senofane (dalla ionica Colo-
fone) e di Pitagora (dalla ionica Samo) non potrebbe essere maggiore. Se entrambi porta-
no con sé l’eredità ionica, che si manifesterà soprattutto nei metodi e nell’approccio, en-
trambi si dimostrano aperti agli stimoli provenienti da un mondo assai diverso. La dimen-
sione sacrale e religiosa, l’apertura al sovrannaturale, gli interessi per una teologia che
negli ionici era rintracciabile quasi solo indirettamente, una tensione che si può dire, in

7
Innumerevoli sono le trattazioni del concetto di Logos, in Eraclito e non solo, da parte dei filosofi, degli
storici della filosofia e degli antichisti in genere. Ma l’interpretazione più convincente è forse quella fornita da
un matematico: cfr. Zellini, 2010. Contributi chiave furono quelli di O. Toeplitz (Das Verhältnis von Mathe-
matik und Ideenlehre bei Plato, « Quellen und Studien zur Geschichte der Mathematik, Astronomie und
Physik », I, 1931, pp. 3-33) e J. Stenzel (Zur Theorie des Logos bei Aristoteles, ibid. pp. 34-66), ora anche ri-
stampati in L. Perilli (ed.), Logos, Darmstadt 2012.
I presocratici 97

senso letterale, meta-fisica, porta la riflessione a tratti lontano dagli interessi prevalente-
mente cosmologici e cosmogonici che in Ionia avevano e ancora avrebbero dominato.

6.4.1 Senofane
Senofane lascia la madrepatria Colofone nel periodo della nascita di Eraclito, intorno alla
metà del VI sec. I Persiani imperversavano sulle inermi città della costa orientale greca.
Se è assai probabile che Eraclito, a Efeso, oltre ad aver depositato il suo libro nell’archi-
vio del tempio ne facesse circolare anche oralmente i contenuti, Senofane è raffigurato
dagli antichi come un rapsodo girovago, un cantore che girava le città della Magna Grecia
– fu in Sicilia tra Zancle (l’odierna Messina), Catania e Siracusa, e quasi certamente an-
che più a nord, a Elea, la città di Parmenide, sulla cui fondazione, stando a Diogene Laer-
zio, avrebbe scritto un’opera – a declamare i suoi versi in vivace e polemica concorrenza
con gli altri poeti, e si parla di lui sia come un « filosofo » della natura (da Platone in poi),
sia come un poeta elegiaco e giambico (in particolare nei Deipnosofisti di Ateneo). Per-
ché Senofane scrive in versi: se uno dei contributi dei Milesi era stato quello di dare alla
prosa lo statuto di forma espressiva del sapere tecnico-scientifico, Senofane, come tra gli
altri faranno poi Parmenide ed Empedocle, torna alla forma poetica della tradizione,
quell’esametro omerico che così bene si prestava sia alla memorizzazione sia alla pubbli-
ca lettura o recitazione, ma anche il giambo, tipico dello scherno e della satira, che ben si
collocava nel contesto letterario della Sicilia e dell’Italia del sud. Anche la forma espres-
siva in versi di nozioni « filosofiche » è caratteristica della Magna Grecia.
Senofane, nel compiere il passaggio da un estremo geografico all’altro del mondo gre-
co, lascia trasparire l’eredità ionica nel suo confrontarsi con la cosmologia dei Milesi, con
le domande alle quali si era cercato in ogni modo di dare risposta, facendo incontrare
l’apporto originale greco con la tradizione orientale, soprattutto mesopotamica: Senofane
unisce concezioni popolari già note attraverso Omero ed Esiodo a osservazioni anche em-
piriche di un acume sorprendente. La Terra non cade nel vuoto non perché sia sostenuta
dall’aria o galleggi sull’acqua, ma perché si estende indefinitamente verso il basso (il li-
mite inferiore si estende illimitatamente, πεῖρας ... εἰς τὸ ἄπειρον, fr. 28), come avesse
delle radici, secondo la critica di Aristotele, che, dal suo personale punto di vista, secondo
il quale ogni ricerca doveva essere ricerca di cause, osserva come Senofane si fosse sot-
tratto a questo compito (Aristotele, De caelo II 13, 294a21 = A 47). Senofane polemizza-
va verosimilmente con le concezioni di quei poeti che, come Omero ed Esiodo, avevano
collocato le radici della Terra nel Tartaro, ed Esiodo aveva persino preteso di misurarne
la distanza dalla superficie (Teogonia 721-5). Senofane, assegnando alle radici della terra
una estensione indeterminabile, si sottrae a questo tipo di concezioni e fantasiose misura-
zioni (sulle risonanze orientali di questa concezione cfr. p. 18).
La terra stessa è anche elemento costitutivo, giacché « tutte queste cose vengono dalla
terra e nella terra tutte vanno a finire » (fr. 27), e « tutte le cose che nascono e crescono so-
no terra e acqua » (fr. 29), noi stessi « siamo nati tutti dalla terra e dall’acqua » (fr. 33), un
frammento che altro non è che una citazione del verso 99 del settimo canto dell’Iliade
omerica, una concezione dunque nel pieno della tradizione arcaica. Non si può tuttavia
trarre da questi versi la conclusione che Senofane ritenesse la terra elemento costitutivo
primo dell’universo: sono versi isolati, privi di contesto, che consentono di assegnare alla
terra, e alla sua combinazione con l’acqua, un ruolo nella generazione di almeno parte del
vivente. Senofane ci appare come un acuto osservatore e un puntuale critico di ogni con-
cezione che non trovasse ai suoi occhi adeguata giustificazione. Egli porta con sé in que-
sto senso l’evidente eredità di un certo razionalismo ionico, e così « quella che chiamano
98 La filosofia antica

Iride, anche questa non è che una nuvola, purpurea e di un rosso scuro e gialloverde a ve-
dersi » (fr. 32): egli tenta dunque una spiegazione puramente meteorologica dell’arcoba-
leno, analoga a quella che anche Anassimene aveva proposto, in sostituzione della conce-
zione greca di una divinità di nome Iride, la veloce Iride (Esiodo, Teogonia 265s.). Lo
stesso tipo di spiegazione si estende a fenomeni di ben maggiore portata, radicati nella
storia dell’uomo d’Oriente e d’Occidente, come il diluvio universale attestato nel libro
del Genesi così come nel racconto mesopotamico di Gilgamesh o in quello indù di Manu.
Senofane accetta l’idea di periodiche inondazioni della Terra, ma cerca di darne la prova
e ne propone quindi una sorprendente spiegazione induttiva:

afferma che il mare è salato [un altro degli interrogativi con cui il pensiero ionico si era spesso
confrontato] perché in esso confluiscono molte mescolanze [...]. Senofane ritiene che vi sia una
mescolanza della terra con il mare e che con il tempo la terra venga sciolta dall’umidità, dicen-
do di averne queste prove, cioè il fatto che in mezzo alla terra e sui monti si trovano conchiglie,
e a Siracusa, nelle cave di pietra, dice che sono state trovate impronte di pesci e di foche, e a Pa-
ro un’impronta di foglia d’alloro nella profondità della pietra, e a Malta placche (con impronte)
di ogni genere di esseri marini. E dice che ciò accadde perché un tempo tutto era coperto di fan-
go e nel fango le impronte si sono essiccate.
(Ippolito, Confutazione di tutte le eresie I 14,4-6 = A 33,4-6)

L’osservazione sulle conchiglie fossili si ritrova più tardi anche in Erodoto (II 11s.),
con riferimento all’origine della terra d’Egitto dal fango proveniente dal Nilo e poi accu-
mulatosi ed essiccatosi. Si tratta di un approccio fondato, per quanto possibile nel VI sec.
a.C., sulla ricerca di prove concrete e sull’osservazione, che si rifletterà anche sull’aspet-
to più rilevante del pensiero di Senofane: quello della riflessione critica nell’ambito della
religione e della teologia. Senofane è il solo tra i presocratici a dare centralità alla rifles-
sione sul divino, inteso non più soltanto nel senso panteistico di una presenza del divino
nelle cose. Egli si basa verosimilmente su osservazioni raccolte nel corso dei suoi viaggi,
secondo le quali ogni popolo ha le sue proprie rappresentazioni delle divinità. « Gli Etiopi
dicono che i loro dèi hanno il naso camuso e sono di colore scuro, i Traci invece che han-
no occhi azzurri e capelli rossi » (fr. 16): ma, osserva Senofane, queste altro non sono che
proiezioni antropomorfe: « Ma se i buoi e i cavalli e i leoni avessero le mani, e con le ma-
ni potessero disegnare e compiere opere come gli uomini, allora i cavalli disegnerebbero
figure di dèi simili a cavalli e i buoi simili a buoi, e gli assegnerebbero corpi di forma si-
mile a quella che essi stessi hanno » (fr. 15). Mentre il dio, e in particolare il dio sommo,
non ha con gli uomini nulla in comune. La descrizione del dio di Senofane è sorprenden-
te, e si sviluppa su numerose citazioni testuali, tramandate – come quelle appena citate –
soprattutto (non sarà un caso) dal vescovo Clemente Alessandrino (frr. 14, 23), e dallo
scettico Sesto Empirico (frr. 11, 12, 24), oltre che da Simplicio (frr. 25, 26):

Un solo dio è tra gli dèi il più grande, e non è simile né nel corpo né nel pensiero agli uomini (fr.
23), ma gli uomini ritengono che gli dèi siano stati generati, vestano i loro stessi vestiti e abbia-
no la stessa voce e lo stesso aspetto (fr. 14); Omero ed Esiodo hanno attribuito agli dèi qualun-
que cosa sia tra gli uomini degna di biasimo e di vergogna, il furto, l’adulterio e altre forme
d’inganno (fr. 11 e 12). Il dio vede come un tutt’uno, pensa come un tutt’uno, ode come un
tutt’uno (fr. 24), e senza fatica scuote tutte le cose con la capacità del suo pensiero [νόου φρενί,
una formula la cui traduzione è discussa e di fatto impossibile] (fr. 25), e rimane sempre nello
stesso luogo senza mai muoversi, e non gli si addice di spostarsi ora di qua, ora di là (fr. 26).

Da una precisazione fornita da Aristotele (Retorica 1399b 6 = A 12) apprendiamo che


gli dèi di Senofane non muoiono e non nascono, giacché in entrambi i casi si avrebbe un
I presocratici 99

momento in cui gli dèi non esistevano, e questo non può essere ammesso. Senofane rifiu-
ta da ogni punto di vista l’antropomorfismo degli dèi, ma ne rifiuta anche la tradizionale
struttura gerarchica: è vero, anche per lui si parla di dèi al plurale, e questa sarà stata una
concessione al pantheon tradizionale; ma al di sopra di questi c’è un solo dio, il dio più
potente, che governa il mondo senza far ricorso alla forza materiale o all’intervento fisico
su di esso. La novità è radicale, e avrà un impatto notevolissimo sul pensiero successivo.
Ma non si può non rilevare, in questa concezione, una chiara affinità con il pantheon me-
sopotamico, dove pure esiste un dio, Ahuramazda, più potente di tutti gli altri: non si han-
no elementi per affermare un rapporto diretto, ma non si può neanche negare una eviden-
te vicinanza (cfr. pp. 25ss. e Gemelli, 2007-2010, I p. 281 e 2005, pp. 118-134).
Vi è un aspetto ulteriore del pensiero di Senofane, sul quale molto si è dibattuto fin
dall’antichità: egli si inserisce nella riflessione gnoseologica sulle possibilità del sapere
dell’uomo, segnando una netta linea di demarcazione tra sapere divino e sapere umano,
con tutti i limiti che a quest’ultimo si devono riconoscere. Egli si direbbe assumere una
posizione di relativismo della conoscenza, quando dichiara che « se dio non avesse creato
il giallo miele, (gli uomini) direbbero che i fichi sono molto più dolci » (fr. 38); e in un
frammento molto noto afferma, nel modo reciso che gli è tipico, che su tutto si distende il
velo delle convinzioni personali, delle opinioni:

e non v’è nessuno che abbia visto con esattezza, e nessuno vi sarà che abbia visto e quindi sap-
pia a proposito degli dèi e di tutte le cose di cui io parlo; perché seppure a uno riesca mai di di-
re qualcosa di compiuto, pure costui non saprebbe; su tutto si stende l’opinione (δόκος).
(fr. 34 = Sesto Empirico, Adv. math. VII 49,110)

Il frammento è tramandato ancora una volta dal filosofo scettico Sesto Empirico: Se-
nofane fu infatti raffigurato come uno scettico da una parte non irrilevante della tradizio-
ne antica, e questa caratterizzazione gli sarà attribuita ripetutamente anche nel corso della
storia della filosofia. Scetticismo è certo eccessivo, e tale catalogazione si dovette allo
specifico interesse dei sostenitori di quella dottrina dall’età ellenistica in avanti; ma senza
dubbio Senofane prende posizione in un dibattito, se si può chiamarlo così, che vedrà la
partecipazione – per restare ai presocratici – almeno di Alcmeone di Crotone, presunto
pitagorico, di Anassagora, di Democrito, su un tema, quello delle capacità conoscitive
dell’uomo e dei suoi limiti rispetto al dio, che risale in realtà già ad Omero (Iliade I 343s.,
cfr. p. 70), e attraversa tutto il pensiero antico, filosofico e non. La posizione di Senofane
è chiara: egli intende sottolineare con forza i limiti dell’uomo, almeno per quanto riguar-
da « gli dèi e tutte le cose di cui io parlo », così come Alcmeone porrà come ambito sul
quale misurare quegli stessi limiti « le cose invisibili » (fr. 1 = Diog. Laert. VIII 83), e
« l’invisibile » sarà ciò su cui Anassagora cercherà un’apertura, uno sguardo, attraverso i
fenomeni (fr. 21a = Sesto Emp., Adv. math. VII 140).
Spicca però il termine che Senofane usa, in posizione di risalto, per chiudere la sua af-
fermazione: dokos. Spicca perché declinato al maschile, mentre il termine usuale era
quello di doxa o, alcuni decenni più tardi, dokesis. E spicca perché non è attestato altrove:
esso ha però un parallelo nella scelta di Empedocle di rappresentare il suo cosmo come
uno sphairos, lo sfero, invece che l’usuale sphaira, sfera (come era anche in Parmenide),
e di definire il vortice cosmico come dinos, piuttosto che l’usuale femminile dine. Si do-
vrà pensare, che il maschile era forma scelta non solo per distinguersi dall’uso comune,
per marcare un distacco, ma anche perché il maschile meglio si prestava a definire un
principio primo, a dare al termine valore assoluto.
100 La filosofia antica

6.4.2 Pitagora
Il passaggio dalla Grecia d’Oriente alla Grecia d’Occidente da parte di Senofane fu paral-
lelo, s’è detto, a quello di Pitagora. Entrambi mossero dalla Ionia, di cui portarono con sé
l’eredità, e giunsero in Magna Grecia, assorbendo di quest’ultima alcuni tratti peculiari.
Senofane si trasferì quando aveva circa venticinque anni, intorno al 545; Pitagora, suo
contemporaneo nato intorno al 570, fece lo stesso pochi anni dopo, verso il 532, a quanto
sembra per ragioni politiche, a causa della contrapposizione con il signore (tyrannos)
dell’isola di Samo, Policrate, che aveva preso il potere pochi anni prima, nel 540.
Pitagora è forse la figura più problematica dell’intero pensiero antico, anche per l’im-
patto che il personaggio ebbe sulla cultura occidentale. Se è difficile individuare con pre-
cisione quale fu il suo contributo al pensiero greco, improbabile è riuscire a separarlo da
quello dei suoi seguaci e affiliati, quelli che Aristotele nel primo libro della Metafisica
chiama « i cosiddetti pitagorici ». Pitagora non si lascia inquadrare nella categoria del « fi-
losofo », né in quella dello « scienziato ». Valga su di lui quanto scriveva Walter Burkert
nel preambolo di un libro fondamentale (Burkert, 1972):

Se Pitagora non si pone di fronte a noi nella chiara luce della storia come figura precisamente
delineata, ciò non si deve alla pura casualità della trasmissione. Fin dal principio la sua opera
si svolse in una sfera fatta di miracolo, segreto e rivelazione. In quel momento di frattura tra
antico e nuovo, quando i greci, fornendo un contributo unico alla storia del mondo, scoprirono
l’interpretazione razionale dell’universo e le scienze matematiche, Pitagora rappresenta non
l’inizio del nuovo, ma il continuare o il rivivere di una sapienza antica, prescientifica, fondata
su un’autorità sovraumana, che prende la forma di un vincolo rituale. La sapienza del numero
è multiforme e mutevole. Ciò che in seguito valse come filosofia di Pitagora, ha le sue radici
innanzitutto nella scuola di Platone. I tratti di una precoce riformulazione della dottrina pitago-
rica nello stile della physiologia del V secolo sono riconoscibili nei frammenti di Filolao. Con
il vicendevole compenetrarsi di antico e nuovo, l’immagine di Pitagora ha subìto uno sposta-
mento, finché con la vittoria della scienza razionale egli ne è apparso come il vero e proprio
precursore.

Nato a Samo intorno al 570, figlio di un intagliatore di gemme, quando giunse a Cro-
tone aveva ormai quasi quarant’anni. L’impatto che la sua presenza ebbe su quella parte
del mondo magnogreco fu fortissima: i seguaci si moltiplicavano anche tra le famiglie più
in vista, la fondazione di una setta, o di una comunità, contribuì a dare consistenza al mo-
vimento e regolarità allo scambio di idee. Pitagora e i pitagorici svolsero anche attività
politica, fino a ottenere il governo della città di Crotone, contribuendo significativamente
alla sua rinascita e all’ampliamento della sua sfera di influenza, fino alla sottomissione di
Sibari, a vent’anni dall’arrivo di Pitagora in città (510). Ma il ruolo di governo non fu pri-
vo di tensioni, e in città crebbe l’opposizione, fino allo scoppiare di una rivolta che portò
alla fuga di Pitagora. Rifugiatosi a Metaponto, vi restò fino alla morte, avvenuta verosi-
milmente nei primi anni del V secolo. Scomparso il Maestro, non scomparve il pitagori-
smo: inteso anche come gruppo di sodali che regolarmente si ritrovavano, e continuava-
no, come già era accaduto con il Maestro, a studiare e discutere di musica, astronomia,
teoria dell’anima, concezioni magico-religiose. Forse matematica e geometria, ma questo
è molto incerto, poiché le fonti più antiche, incluso Aristotele, non fanno alcun riferimen-
to a un insegnamento della matematica da parte di Pitagora o a una sua approfondita atti-
vità in questo ambito. Ulteriore campo di interesse era la politica. Fu intorno al 450 a.C.,
o poco prima, che l’ostilità nei confronti dei pitagorici raggiunse il culmine: la casa in cui
usavano ritrovarsi venne assalita e data alle fiamme, alcuni, non pochi, uccisi.
Ma neppure allora morì il pitagorismo, che si era ormai così radicato e diffuso da at-
I presocratici 101

traversare l’intera età classica ed ellenistica, fino alla rinascita in epoca romana, quando a
partire dal I secolo a.C. la dottrina tornò in auge con una marcata accentuazione degli
aspetti esoterici di un Pitagora taumaturgo, e con la redazione di opere a lui falsamente
attribuite (Pseudo-Pythagorica). I più tardi sviluppi ebbero un ruolo determinante nel
configurare l’immagine, spesso storicamente inattendibile, che di Pitagora è giunta fino
all’epoca moderna. Già tra i suoi contemporanei più giovani o tra gli autori di poco poste-
riori, egli valeva come figura simbolica, sia in positivo che in negativo: per Eraclito, che
lo biasima in quanto polymathes, cioè ricco di vuota erudizione attinta da opere altrui,

Pitagora, figlio di Mnesarco, spinse le sue ricerche più lontano di tutti gli altri uomini, e sce-
gliendo tra queste opere si fece una sua personale sapienza: erudizione, sapere vile.
(Eraclito fr. 129 = Diog. Laert. VIII 6)

mentre al contemporaneo Senofane non solo era familiare la teoria pitagorica della tra-
smigrazione delle anime, o metempsicosi, ma anche l’immagine avvolta di miracoloso di
un Pitagora « che sempre di volta in volta è rinato come un altro » (Diog. Laert. VIII 36,
cfr. Senofane fr. 7), e che

una volta, imbattutosi in un cane che veniva percosso, ne rimase commosso, e disse queste pa-
role: smettete di colpirlo, perché è l’anima di un uomo a me caro, che ho riconosciuto sentendo-
lo piangere.
(Senofane, fr. 7 = Diog. Laert. VIII 36)

L’anima per Pitagora è immortale, e vive successive reincarnazioni. La dottrina avrà


enorme influenza, e subirà rielaborazioni e sviluppi. Li riassume in qualche misura Sene-
ca, che fa dire al suo maestro Sozione, anch’egli un pitagorico:

Nessun’anima muore, né cessa se non per breve tempo, mentre da un corpo si trasfonde nell’al-
tro; vedremo quando e per quali vicende ritorni nell’uomo dopo aver attraversato svariati domi-
cili. Intanto egli (Pitagora) indusse negli uomini il terrore di commettere delitto e parricidio, se
mai inconsapevoli incorressero nell’anima del genitore, e violassero col ferro o coi morsi il cor-
po in cui fosse ospitato un qualche spirito parente.
(Seneca, Epistola 108, 19)

Una dottrina, quella della trasmigrazione delle anime, certo condivisa con gli orfici e
con alcune culture orientali, non però con quella egizia, alla quale vorrebbe farla risalire
Erodoto (II 123). Egli afferma che alcuni tra i Greci (e intendeva evidentemente Pitagora
ed Empedocle) facevano passare per propria quella concezione, che invece aveva altra
origine, e sebbene per gli Egizi, a cui Erodoto la attribuisce, essa non sia attestata, certo
era percepita in Grecia come aliena, e presumibilmente orientale.

Le fonti più antiche vedono in Pitagora il taumaturgo, « l’uomo dei miracoli »; l’erudito,
con il suo sapere enciclopedico; il personaggio esoterico e sotto l’influenza delle conce-
zioni e delle religioni orientali, con la sua dottrina dell’anima; il riformatore politico. Al
contrario, ai moderni è familiare piuttosto un Pitagora scienziato, con il suo « teorema » e
la sua dottrina dei numeri: che tuttavia prende a diffondersi, a quanto sappiamo, soltanto
dopo Platone, con la sua scuola ed esponenti di spicco della stessa quali furono Speusippo
e Senocrate, con i quali le dottrine pitagoriche acquistano centralità e assumono tratti che
le rendono compatibili con le concezioni dell’Accademia. I numeri assumono via via un
ruolo sempre più decisivo per l’interpretazione pitagorico-platonizzante dell’universo, le
102 La filosofia antica

grandezze geometriche di linea, superficie, corpo, che caratterizzano il mondo intelligibi-


le di Platone, vengono fatte corrispondere a entità numeriche (rispettivamente il 2, il 3 il
4), ogni cosa infine trova un corrispondente numerico e soprattutto l’armonia universale,
in analogia con l’armonia musicale (che si esplicita nei rapporti numerici di ottava, di
quinta, di quarta: cfr. p. 107), viene espressa in numeri, fino a che, con il platonismo pita-
gorizzante del I e II secolo d.C. quale rappresentato da Moderato di Gades e soprattutto
da Nicomaco di Gerasa, nonché da numerosi altri autori (di cui in Thesleff 1965), le teo-
rie dai tratti platonizzanti attribuite a Pitagora e ai pitagorici diventano una vera e propria
mistica dei numeri (cfr. pp. 457ss.). Tuttavia, nonostante le estremizzazioni, una dottrina
dei numeri, e finanche dei numeri come essenza delle cose, risale senza dubbio ai pitago-
rici almeno del V e del IV secolo a.C., ad un personaggio centrale come Filolao, ad esem-
pio, al quale attinse lo stesso Aristotele. Il grande studioso di teoria musicale e allievo di
Aristotele, Aristosseno di Taranto (IV sec. a.C.), vorrebbe far risalire l’interesse per i nu-
meri a Pitagora stesso:

Le ricerche sui numeri sembra che Pitagora le abbia considerate superiori a tutte le altre, e fatte
progredire oltre lo stato precedente, portandole al di là delle necessità del commercio.
(Aristosseno, Sulla matematica, in Stobeo I 20,1)

Da un uso dunque meramente pratico del numero come strumento per il computo di
merci, si sarebbe via via passati alla sua concettualizzazione come strumento per descri-
vere, e anzi concepire, il mondo.
È proprio Aristotele a dipingere il quadro che sarà decisivo nell’immagine che di Pita-
gora e dei pitagorici sarà trasmessa nei secoli successivi: ma Aristotele, lui, è ben attento
a distinguere il fondatore dai seguaci. Su Pitagora egli scrisse almeno un’opera, perduta,
nella quale a quanto sappiamo lo raffigurava mettendone in risalto la figura taumaturgica;
mentre nelle opere superstiti, e in particolare la Metafisica, egli parla sempre e soltanto di
pitagorici. Di più: di cosiddetti pitagorici. È a costoro che attribuisce quella dottrina dei
numeri, che sarà alla base dei ramificati sviluppi posteriori e dell’immagine che inevita-
bilmente si trasferirà sullo stesso Pitagora:

I cosiddetti pitagorici si dedicarono alle matematiche, e furono i primi a farle progredire; nutri-
tisi di esse, credettero che i principi di quelle fossero anche principi di tutte le cose. Poiché in
esse i numeri sono per natura primi, e nei numeri, più che nel fuoco o nella terra o nell’acqua,
essi credevano di vedere molte somiglianze con le cose che sono e coi fenomeni (per esempio,
quella data proprietà dei numeri sembrava loro la giustizia; un’altra l’anima o l’intelletto; l’altra
ancora l’opportunità; e per così dire ogni altra cosa allo stesso modo). E poiché ancora vedeva-
no nei numeri le proprietà (pathe) e i rapporti (logoi) delle armonie, e insomma sembrava loro
che tutta la natura fosse fatta a immagine dei numeri e che i numeri fossero primi tra tutta la na-
tura, così supposero che gli elementi dei numeri fossero elementi di tutte le cose che sono, e che
l’intero universo fosse armonia e numero. E tutte le corrispondenze che poterono mostrare nei
numeri e nelle armonie con le proprietà e le parti dell’universo e con il suo intero ordinamento,
le raccoglievano e le adattavano.
(Aristotele, Metafisica I 5, 985b23-986a6 = 58 A 4)

I numeri non si limitano a descrivere l’universo e le cose: l’universo è numero. Il nu-


mero dei pitagorici è sostanza, non attributo di un altro ente: i numeri sono le cose. In che
senso poi questo sia detto, in che modo numeri e cose siano tra loro in rapporto o, meglio,
l’uno con l’altro identificati, era oscuro già agli antichi, tale resta per noi: Aristotele ne te-
stimonia chiaramente:
I presocratici 103

I pitagorici dicono che le cose che sono esistono per imitazione dei numeri; Platone invece dice
per partecipazione, cambiando però soltanto il nome. Ma gli uni e l’altro tralasciarono di cerca-
re in che cosa consista questa imitazione, o partecipazione delle forme [...]. Come i pitagorici,
egli (Platone) disse che l’uno è sostanza esso stesso, e non attributo che si applichi ad altro ente.
(Aristotele, Metafisica I 6, 987b11 + 22; cfr. 58 A 12)

Il numero esprime il nesso intimo delle cose, il logos:

I pitagorici, ancora prima di Democrito, avevano definito alcune poche cose, di cui riconduce-
vano i logoi ai numeri, come ad esempio che cosa sia l’opportunità, o il giusto, o le nozze.
(Aristotele, Metafisica XIII 4, 1078b21 = 58 A 4, p. 452 DK)

Come nella musica i diversi suoni sono tra loro in un preciso rapporto (logos), deter-
minato in base alla lunghezza della corda vibrante sullo strumento; come gli accordi si
costruiscono secondo precisi criteri numerici; così ogni cosa diventa misurabile e descri-
vibile in termini numerici e geometrici, e l’armonia dei suoni corrisponde all’armonia
dell’universo. L’idea non abbandonerà più il pensiero occidentale. Questa nozione, che
raggiungerà con il tempo la sua forma più matura, si potrà comunque far risalire al pita-
gorismo più antico: la si ritrova infatti, da esso influenzata, in Eraclito (cfr. frr. 10 e 51),
così come nello scritto Sul numero sette attribuito a Ippocrate di Cos, fondatore della me-
dicina greca, opera impregnata di pitagorismo dove ricorre il concetto di medio armoni-
co. Straordinario fascino, perché rivelatrice della profonda capacità osservativa degli an-
tichi, ha la versione riportata da diverse fonti della scoperta pitagorica dell’armonia e dei
rapporti tra i suoni – vera o costruita che sia, non importa: in essa, Pitagora

ascoltando i suoni emessi dai martelli di un fabbro che batteva sopra l’incudine, [...] osservò
che la differenza nell’altezza dei suoni dipendeva dalla diversa grandezza dei martelli [...]. Tor-
nato a casa, tese quattro corde fatte dello stesso materiale e di uguale lunghezza [...], sospese a
ciascuna di esse un peso diverso [...] e facendo vibrare insieme le corde alternatamente a due a
due trovò gli accordi di cui abbiamo detto [...] e mostrava che l’accordo di ottava si basa sulla
proporzione 2:1.
(Nicomaco di Gerasa, Enchiridion harmonicum 6; anche in Giamblico, Vita di Pitagora 115-118)

Pitagora avrebbe dunque così individuato dei rapporti numerici semplici, che sono
quelli espressi dai numeri che compongono la tetraktys: 1, 2, 3, 4, i primi quatto numeri
naturali, la cui somma dà dieci, la decade, l’entità che contiene in sé il pari e il dispari
senza che una parte predomini sull’altra, e nella quale sono presenti tutti i tipi di numero,
il numero lineare, il numero quadrato, il numero cubo, poiché l’uno corrisponde al punto,
il due alla linea, il tre al triangolo (o la superficie), il quattro al solido. La tetraktys (« in-
sieme di quattro »), simbolo sul quale si dice i pitagorici prestassero giuramento, era rap-
presentata, come usuale tra i Greci, da pietruzze giustapposte:

La tetraktys è dunque l’insieme delle dimensioni dell’universo, rappresentato dal nu-


mero dieci in quanto somma di esse. I rapporti tra i numeri che compongono la tetraktys
104 La filosofia antica

ritornano nel cosiddetto tetracordo di Filolao, le cui corde erano in rapporto di 1:2 (o 6:12
– il diapason, o ottava, rapporto di un mezzo), 2:3 (6:9, 8:12 – diapente, o quinta, rappor-
to di due terzi), 3:4 (6:8 – diatessaron, o quarta, rapporto di tre quarti), rapporti secondo i
quali, tra l’altro, si accordava la lira. Quella stessa lira con la quale Apollo regolava, se-
condo gli antichi, i movimenti degli astri, e con la quale Orfeo poneva fine al dis-accordo.
Ai pitagorici si verrà attribuendo nel tempo una complessa numerologia, che sfocerà in
concezioni mistiche o cabalistiche, e del numero i pitagorici definiscono anche gli ele-
menti costitutivi, attribuendo centralità all’uno in quanto origine ed elemento costitutivo
di tutti i numeri (non conoscevano ancora, i Greci di quest’epoca, lo zero), e chiamandolo
parimpari (Filolao, fr. 5, Archita A 21, cit. a p. 106), in quanto aggiunto al pari dà il dispa-
ri, aggiunto al dispari dà il pari. Dispari e pari, limitato e illimitato: giacché se un numero
dispari viene diviso in due, si genera sempre come resto una unità, che rappresenta il li-
mite, mentre dividendo un numero pari nessun limite è generato. Sono, queste, le prime
due delle dieci fondamentali coppie di contrari secondo le quali i pitagorici organizzano i
loro principi:

Altri (dei cosiddetti pitagorici) affermarono che i principi sono dieci, articolati in serie: limite
illimite, dispari pari, uno molti, destro sinistro, maschio femmina, fermo mosso, retto curvo, lu-
ce buio, buono cattivo, quadrato rettangolo.
(Aristotele, Metafisica I 5, 986a23 = Alcmeone A 3)

Altri, come Alcmeone di Crotone, medico filosofo vicino ai pitagorici (di cui più avan-
ti), estesero ancora il concetto stesso di contrario « alla molteplicità delle cose umane »,
facendone il fondamento, poiché « la maggior parte delle cose umane sono duplici » (Ari-
stot. Metaph. 986a31 = Alcmeone A 3). Quella di contrario, del resto, è una nozione ri-
corrente nel pensiero antico, di cui esprime un tratto fondamentale, a partire da Omero (il
simile attrae il simile, e non il suo contrario) e per tutto il percorso intellettuale dei Greci.
Come acutamente riassume ancora Aristotele, essenziale però non è l’elenco di questi o
quei contrari, ma la convinzione che « i contrari sono i principi delle cose che sono » (Ari-
stotele, Metafisica 986b3).
L’anima, oltre che come immortale, è concepita dai pitagorici come continuamente in
movimento e forse essa stessa principio motore dei corpi, nei quali entrerebbe al momen-
to della nascita fuoriuscendone invece con la morte, cui consegue immobilità. Paragona-
ta, secondo la testimonianza di Aristotele (De anima I 2, 404a17 = 58 A 40), al pulvisco-
lo che si agita nell’aria, sempre in moto, l’anima e il suo collegamento con il moto si con-
fermano risalire ad età arcaica grazie alla testimonianza di Alcmeone che, pur non essen-
do propriamente un pitagorico, riflette alcune teorie dell’epoca, come quando dice, anco-
ra stando ad Aristotele, che

l’anima (è) immortale, perché assomiglia alle cose immortali; questa somiglianza consiste nel
muoversi sempre, poiché anche tutte le cose divine si muovono costantemente: luna, sole, astri
e il cielo tutto.
(Aristotele, De anima I 2, 405a29= Alcmeone A 12)

Dottrina fondamentale del pitagorismo, risalente anch’essa verosimilmente all’età più


antica, è anche quella del vuoto, che sarà centrale nel dibattito filosofico da Parmenide a
Democrito, e oltre: secondo il pitagorismo, il vuoto, considerato come un ente reale, è ciò
che separa un corpo dall’altro, e coincide anche con l’intervallo che separa un numero dal
successivo (Aristotele, Fisica IV 6, 213b22 = 58 A 30). Il vuoto coincide con la realtà in-
finita che avvolge tutti i corpi determinati, ivi compreso il mondo nella sua interezza: il
I presocratici 105

vuoto viene introdotto nel nostro mondo sublunare per distinguere i corpi l’uno dall’altro,
mediante una sorta di respirazione dall’infinito che lo circonda, come fosse un soffio, uno
pneuma, che penetra e si insedia tra le cose, separandole (cfr. Aristotele, Fisica III 4,
203a3 = 58 A 28).
Coloro che venivano ammessi nella cerchia del pitagorismo erano dapprima chiamati
acusmatici, poiché dovevano limitarsi ad ascoltare stando in silenzio: akousma è « ciò
che si ascolta », e nel pitagorismo si manifestava in forma di brevi sentenze, cioè regole o
divieti destinati agli adepti e chiamati anche symbola. Gli akousmata erano articolati in
tre gruppi, che rispondevano alle domande: « Che cos’è? », « Che cos’è meglio? », « Che
cosa si deve o non si deve fare? ». Una lista di domande appartenenti ai primi due gruppi
è tramandata da Giamblico (Vita di Pitagora 82 = 58 C 4), del genere: « Che cosa sono le
isole dei beati? » – « Il sole e la luna », oppure « Qual è la cosa più bella? » – « L’armo-
nia »; « Qual è la cosa più vera da dirsi? » – « Che gli uomini sono malvagi ». Il terzo grup-
po di questioni conteneva anche regole di vita, regole dietetiche, regole rituali, che in al-
cuni casi risalgono alla tradizione greca e si ritrovano anche, ad esempio, in Esiodo. È
molto difficile, tuttavia, ricostruire il preciso significato di queste regole nel più generale
contesto del pitagorismo e della cultura greca dell’epoca. Matematici venivano invece de-
finiti i seguaci del pitagorismo dopo che avessero appreso, nel silenzio e con l’ascolto, le
dottrine fondamentali e le conoscenze necessarie, quando acquisivano quindi la facoltà di
fare domande e di esprimere il proprio pensiero: mathema era infatti ciò che veniva ap-
preso, e in particolare, per i pitagorici, « geometria, musica, gnomonica e le discipline più
alte » (Aulo Gellio, Notti attiche I 9). Solo a questo punto si passava « a considerare l’o-
pera del mondo e i principi della natura, e allora infine venivano chiamati fisici » (ibid.).

6.4.3 Filolao
Con il tempo, e in particolare verso la fine del V e la prima metà del IV secolo a.C., il pi-
tagorismo raggiunge un notevole grado di sviluppo: per quanto riguarda sia la teoria dei
numeri, sia la cosmologia e lo sviluppo della concezione dell’armonia. Nel Fedone di
Platone, due degli interlocutori principali, Simmia e Cebete, pongono a Socrate, in attesa
che venga eseguita la condanna a morte, le domande più provocatorie, esprimendo dubbi
profondi. Entrambi erano stati allievi di un pitagorico: Filolao di Crotone. Fu, questi, l’e-
sponente forse più rappresentativo, certo per noi il più interessante, del pitagorismo che
seguì la dissoluzione della scuola a Crotone nella seconda metà del V secolo. Trasferitosi
nella Grecia continentale, a Tebe, sappiamo che al momento della morte di Socrate, nel
399, egli aveva fatto ritorno in Magna Grecia. Sebbene l’autenticità dei materiali a lui at-
tribuiti sia discussa, e l’interpretazione disagevole, dalle testimonianze e dai frammenti a
noi pervenuti è possibile ricostruire alcune tra le principali dottrine del pitagorismo
dell’epoca. Si ritiene che ventotto su oltre cinquanta tra frammenti e testimonianze siano
attendibili; dei frammenti veri e propri, i soli 1-7, 13, 16, 17. Coerentemente con la linea
tradizionalmente pitagorica, il sistema cosmologico di Filolao è incentrato sul concetto di
numero e su una estensione delle sue caratteristiche alla natura: il cosmo consiste di due
tipi di elementi fondamentali, i limitanti (περαίνοντα) e gli illimitati (ἄπειρα), dei quali
nei materiali a noi pervenuti non viene specificata la natura:

La sostanza (natura) del cosmo è composta di elementi illimitati e limitanti, e il cosmo tutto in-
tero e tutte le cose in esso.
È necessario che gli enti siano tutti o limitanti o illimitati, oppure limitanti e illimitati insieme;
ma non potrebbero essere solo limitanti o solo illimitati. Poiché dunque è evidente che gli enti
106 La filosofia antica

non constano solo di tutti elementi limitanti né di tutti illimitati, è chiaro che l’universo e le co-
se che sono in esso sono composte di elementi limitanti e illimitati. Ciò appare anche nei fatti:
giacché ciò che è composto di elementi limitanti è limitato, ciò che è composto di limitanti e il-
limitati è limitato e non limitato, ciò che è composto di illimitati appare illimitato.
(frr. 1 e 2 = Diogene Laerzio VIII 85 e Stobeo I 21,7, p. 187,14)

Limitanti e illimitati, in cui vanno riconosciuti innanzitutto i numeri (o forse figure


geometriche), sono la condizione della nostra possibilità di conoscere l’esistente:

L’essenza delle cose, che è eterna, e la stessa natura ammettono sì la conoscenza divina, ma non
l’umana oltre questo punto: che non potrebbe essere alcuno degli enti né venir conosciuto da
noi, se non esistessero le essenze delle cose, di cui consta l’universo, sia delle limitanti, sia del-
le illimitate.
Tutte le cose che si conoscono hanno un numero; perché senza questo non sarebbe possibile che
nulla fosse compreso né conosciuto.
(frr. 6 parz. e 4 = Stobeo I 21,7, p. 188,14 e 5)

E i numeri sono di tre specie (fr. 5 = Stobeo I 21,7, p. 188,9): pari, dispari, e « la terza
specie, risultante dalla mescolanza di entrambe, il parimpari ». Si proverà a spiegarlo Ari-
stotele:

Elementi del numero sembra che essi ritengano il pari e il dispari, e di essi uno è limitato, l’altro
illimitato, e l’uno poi composto di entrambi (poiché è pari e dispari); e ritengono che il numero
derivi dall’uno, e che di numeri, come si è detto, sia costituito l’intero universo.
(Aristotele, Metafisica I 5, 986a15)

Altra spiegazione, rimasta famosa, del perché l’uno partecipi sia del pari sia del dispa-
ri, cioè sia dell’illimitato sia del limitante, è quella fornita nel I sec. d.C. dal matematico
Teone di Smirne, che dice di attingerla dall’opera (perduta) di Aristotele intitolata Pita-
gorico, e che nella sostanza risale già al primo pitagorismo, essendo attestata ad esempio
per Epicarmo:

L’uno partecipa delle due nature. Infatti, aggiunto ad un numero pari ne genera uno dispari; ag-
giunto a un dispari ne genera uno pari, il che non potrebbe fare se non partecipasse di entrambe
le nature. Perciò l’uno è chiamato parimpari.
(Aristotele fr. 199 = Teone di Smirne p. 22,5 = Archita A 21)

Sugli elementi ultimi, sull’essere delle cose (lo ἐστώ del fr. 6), anche secondo Filolao
nulla possiamo affermare: tale conoscenza è riservata alla divinità. Era, questa, dottrina
già di Alcmeone, che sappiamo vicino al pitagorismo, e ricorrente nel pensiero greco, al-
meno a partire da Senofane. Gli illimitati sono elementi non definiti strutturalmente né
quantitativamente, e in essi vanno intesi forse i costituenti materiali del mondo, insieme
con spazio e tempo; limitanti sarebbero allora gli elementi strutturali, anzitutto la forma.
« Limiti dei corpi » erano chiamati, stando ad Aristotele, « la superficie, la linea, il punto
e l’unità », ed esse erano sostanze, tali da poter esistere senza il corpo, mentre il corpo non
può esistere senza di esse.
La connessione delle cose come dei numeri, dunque di ogni realtà, si deve a una armo-
nia, « unità delle mescolanze e accordo delle discordanze » (fr. 10 = Nicomaco di Gerasa,
Introduzione all’aritmetica II 19, p. 115,2), che permette che le cose, i principi del mon-
do, che sono in sé dissimili gli uni dagli altri e in quanto tali non potrebbero dar vita a un
I presocratici 107

insieme ordinato, si riuniscano in un cosmo (fr. 6 = Stobeo I 21,7, p. 188,14). Quello di


armonia è un concetto centrale, applicato da Filolao anche all’anima, come ricorda Plato-
ne nel Fedone (85-86) per bocca di Simmia. Anche l’anima è infatti armonia di elementi
opposti: una convinzione le cui implicazioni non sono facilmente ricostruibili per i pita-
gorici, ma che, connessa con l’idea dell’immortalità e con lo stretto nesso dell’anima con
il corpo e il suo temperamento, si ritroverà in parte della medicina contemporanea
(Alcmeone, Filistione di Locri), ma anche in Empedocle e soprattutto in Platone, che la
discute nel Fedone e che nel Timeo ne fa l’anima mundi, l’anima del mondo come armo-
nia e temperamento di contrari.
Armonia è unione di elementi opposti regolata da rapporti numerici esemplificati dalla
scala musicale, in cui il continuum sonoro è limitato, e definito, da rapporti numerici co-
me quello di ottava (2/1), di quarta (4/3) e di quinta (3/2). Conoscere i rapporti numerici
significa conoscere le cose stesse. Il rapporto dei numeri con il reale sarebbe meglio com-
prensibile richiamandosi al notevole fr. 11, però giudicato spurio, e in particolare al con-
cetto dello gnomone (cfr. von Fritz, 1973, col. 462; Zellini, 1999, e infra pp. 414ss.),
quella grandezza che aggiunta o sottratta a determinate figure geometriche (es. il quadra-
to) ne mantiene inalterata la forma, realizzando così una invarianza nel mutamento. Se lo
gnomone pitagorico (rappresentato visivamente con serie di ciottoli) è di quantità dispari
la forma rimane immutata, se pari la forma muta:

da un numero applicando si ottiene il numero quadrato


quadrato (2×2; 22), lo gnomone, successivo (3×3; 32).

La natura del numero è legge e guida e maestra ad ognuno di ogni cosa dubbia e ignota. A nes-
suno sarebbe manifesta alcuna delle cose né in se stesse né rispetto ad altre, se non fosse il nu-
mero anche la sostanza di questa. Ora questo, accordando relativamente all’anima tutte le cose,
le rende conoscibili al senso e in rapporto reciproco secondo la natura dello gnomone, dando
corpo e distinguendo, ciascuno separatamente, i rapporti (logoi: spesso reso con ‘ragioni’, o
‘determinazioni’) delle cose illimitate e delle cose limitanti. Puoi vedere la natura e la potenza
del numero con il suo vigore non solo nelle azioni dei dèmoni e degli dèi, ma anche in tutte le
azioni e le parole (logoi) degli uomini e in tutte le produzioni dell’arte e nella musica. Nessuna
falsità accoglie in sé la natura del numero né l’armonia, perché non è cosa loro propria. Menzo-
gna e invidia sono proprie della natura dell’illimitato e dell’inintellegibile e dell’irrazionale
(alogos) « privo di rapporto ». La falsità non spira in nessun modo nel numero, poiché è ostile e
nemica alla sua natura la falsità: la verità invece è propria e connaturata alla stirpe del numero.
(Filolao (?) fr. 11 = Teone di Smirne p. 106,10)

Innovativa è l’astronomia di Filolao: per la prima volta centro immobile dell’universo


non è più la Terra, che viene invece fatta ruotare con gli altri pianeti intorno a un fuoco
centrale; quindi, in cerchi concentrici, la luna, il sole, i cinque pianeti conosciuti, le stelle
fisse (cfr. Aristotele, De caelo II 13, 293a18 = 58 A 37, Aezio II 7,7 e III 11,3 = Filolao A
16 e 17). Alla Terra corrisponde un’antiterra, la cui funzione non è chiara – per Aristotele
serviva soltanto a portare a 10, numero perfetto, i corpi orbitanti intorno al fuoco. Alla na-
scita del cosmo è equiparata quella dell’uomo, poiché anche Filolao, come altri pitagori-
ci, mostra attenzione per i temi propri della scienza medica, ai quali estende però le cate-
gorie della propria concezione macrocosmica: come il cosmo si origina dal fuoco centra-
le e attrae dall’infinità che lo circonda il tempo, il vuoto e il soffio, così l’embrione è da
108 La filosofia antica

principio composto dal caldo, e dopo la nascita attrae a sé il soffio che lo raffredda. Tale
concezione del cosmo va considerata una innovazione notevolissima, ripresa e sviluppata
più tardi nelle teorie eliocentrice di Eraclide Pontico e di Aristarco di Samo (cfr. pp.
398ss.). È egregiamente descritta da Aristotele:

Mentre i più dicono che la terra è posta al centro (sono quelli che affermano che l’universo è li-
mitato), invece gli Italici, chiamati pitagorici, sostengono il contrario: poiché dicono che nel
centro c’è il fuoco, e che la terra, essendo uno degli astri, col muoversi in giro intorno al centro
produce la notte e il giorno. Inoltre costruiscono un’altra terra di fronte a questa, che chiamano
antiterra [...]. Poiché credono che al corpo più eccellente convenga occupare il luogo più eccel-
lente; e che il fuoco sia più eccellente della terra, e che il termine sia più eccellente che le cose
intermedie, e che l’estremo e il centro siano termine. Di modo che, ragionando da queste pre-
messe, non credono che al centro della sfera stia essa (la terra) ma piuttosto il fuoco.
(Aristotele, De caelo II 13, 293a18 = 58 A 37; cfr. Simplicio, Commento al De caelo di Aristo-
tele p. 511,26 = ibid.)

Tuttavia, se Aristotele è una delle fonti fondamentali per il pitagorismo antico, biso-
gna solo con molta cautela attingere alla sua testimonianza: egli aveva certo accesso allo
scritto di Filolao (il primo dei pitagorici ad aver redatto uno scritto, che è giunto, in qual-
che frammento, fino a noi), ma faceva altrettanto certamente ricorso ad altre opere, come
quelle del platonico Speusippo, che leggevano Pitagora e il pitagorismo con un’ottica tut-
t’altro che disinteressata. E lo stesso Aristotele cerca spesso di dare una dimensione più
propriamente ontologica anche a quei dati che sappiamo rimanere invece piuttosto sul
piano fenomenologico: un esempio di questa difficoltà consiste nel ricostruire in che mi-
sura Filolao affermasse che i numeri sono sostanza delle cose, e in che misura invece que-
sta non debba essere piuttosto considerata una sovrapposizione aristotelica imposta a una
teoria che vedeva nei numeri uno strumento per la conoscenza del reale.

6.4.4 Archita
Per i pitagorici l’universo deve considerarsi infinito: e anche questa è nozione che scardi-
na le concezioni correnti dell’epoca. Lo attesta un famoso passo di Archita, tramandato
da Eudemo come citato in Simplicio:

Una volta giunto all’estremità della sfera celeste, cioè a quella delle stelle fisse, potrei stendere
la mano o il bastone al di là, o no? Non poterli stendere, sarebbe assurdo; ma se posso stenderli,
vi sarà ancora corpo o spazio al di là. [...] E così sempre procederà nello stesso modo fino al li-
mite via via assunto, e porrà la stessa domanda. E se sempre vi sarà un qualcos’altro in cui sten-
dere il bastone, è evidente che sarà anche infinito.
(Eudemo, Fisica fr. 30 = Simplicio, Commento alla Fisica di Aristotele p. 467,26 = Archita A 24)

Il pitagorismo continuò a vivere nel IV secolo, e il suo influsso sul pensiero platonico
è evidentissimo, in particolare in alcuni dialoghi, come il tardo Timeo con la sua cosmo-
logia, ma già anche il Fedone. Il nesso non fu solo dottrinale: amico e pressappoco con-
temporaneo di Platone, del quale avrebbe salvato la vita intervenendo in suo favore nel
361 quando, a Siracusa, Dionigi intendeva condannarlo a morte, fu proprio Archita di Ta-
ranto, che dunque esula dalla cornice cronologica dei cosiddetti presocratici. Vale tutta-
via richiamarlo, poiché fornisce alcune chiavi importanti per intendere il pitagorismo, la
sua influenza sul pensiero successivo, e la linea di alto tecnicismo e specializzazione rag-
giunta tra la fine del V e la prima metà del IV secolo. Archita fu ammiratissimo dagli an-
I presocratici 109

tichi per le sue conoscenze, e detto vir magnus in primis et praeclarus da Cicerone. Tanto
più prezioso è quanto ci resta di lui come di Filolao, giacché del sapere tecnico-scientifico
dell’epoca e della sua interazione con la filosofia pochissimo si conserva. Archita fu uo-
mo politico di spicco, di carattere amabile, sotto la cui guida Taranto conobbe grande svi-
luppo. Platone ne parla nella VII Lettera (la cui autenticità resta dibattuta), Aristosseno ne
scrisse una biografia, Aristotele una monografia. Notevoli furono in particolare i suoi
contributi alla matematica, alla meccanica, alla musica. I titoli di opere a lui ricondotte
sono sempre avvolti dal dubbio di una attribuzione avventata; e come per Filolao, anche
per i frammenti di Archita l’attribuzione è assai controversa: si ritengono in genere auten-
tici almeno i frammenti 1-4 stampati in Diels-Kranz. Sia Archita che Filolao risultano
fortemente radicati nelle regioni di provenienza, più ancora di altri: questo appare con
chiarezza dalla scelta di scrivere usando il dialetto dorico, tipico delle regioni occidentali,
che rende i difficili frammenti superstiti ancora più impervi. Sotto il suo nome, come ac-
cadde per altri grandi, si andarono raccogliendo scritti d’ogni genere, d’età ellenistica e
successiva, e dunque ricco è l’elenco delle opere spurie a lui attribuite.
Alcune linee si possono tracciare con sufficiente attendibilità. Archita riteneva (pita-
goricamente) infinita l’estensione del cosmo, e giudicava la matematica la chiave per la
spiegazione del mondo, nel complesso e nelle singole componenti; pur riconoscendole
una certa autonomia tecnica, continuava ad interpretarla, come era nella tradizione greca,
in stretta correlazione con l’astronomia, la geometria, la scienza del calcolo (aritmetica) e
la musica, in sostanza una anticipazione del quadrivio (su cui cfr. pp. 524ss.):

Io ritengo che quelli che si sono dedicati alle matematiche abbiano acquisito ottime conoscen-
ze, e non è affatto strano che essi pensassero correttamente su ciascuna delle cose che sono: per-
ché, ben conoscendo la natura del tutto, dovevano veder bene anche su ciascuna delle cose che
sono. Così essi ci hanno fornito chiare nozioni sulla velocità degli astri e sul loro sorgere e sul
loro tramontare; e inoltre sulla geometria e sull’aritmetica e sulla scienza delle sfere e soprattut-
to sulla musica; perché queste scienze sembrano essere sorelle.
(Archita, fr. 1, parz. = Porfirio, Commento agli Armonici di Tolemeo p. 56)

Proprio in campo musicale a lui si dovettero rilevantissimi studi, ivi compresa l’indi-
viduazione dei rapporti numerici che regolano gli intervalli tra le note nelle tre scale cro-
matica, diatonica, enarmonica (Tolemeo, Armonici 2,13). Archita fece dell’armonia una
complessa e articolata teoria matematica, e propose un’acuta interpretazione del mecca-
nismo della produzione del rumore e del suono, che nello stesso fr. 1 riconduce a quella
che oggi chiamiamo lunghezza d’onda, vale a dire le vibrazioni prodotte dai corpi che si
urtano nell’aria, in base alla cui rapidità e intensità si ottengono rispettivamente i suoni
acuti e gravi, così come accade per la voce umana:

Videro dunque, anzitutto, che non ci può essere rumore se non c’è urto di cose tra loro. E
quest’urto dissero che avviene quando le cose in movimento si incontrano tra loro e si uniscono
[...]. E dei suoni che giungono alla nostra percezione, quelli prodotti da urti rapidi e <forti> ri-
sultano acuti, quelli prodotti lentamente e debolmente, gravi. Così, se uno prende una verga e la
scuote lentamente e debolmente, produce, col suo colpo, un suono grave; se invece la scuote ra-
pidamente e con forza, acuto. [...] Lo stesso accade anche per le voci: quelle prodotte da un for-
te soffio sono forti e acute, quelle prodotte da un soffio debole, flebili e gravi.
(Archita, fr. 1, prosieguo del brano precedente)

Per l’applicazione di basi matematiche alla meccanica, Archita fu considerato il fon-


datore della meccanica scientifica, campo in cui fu attivo sia sul piano teorico che opera-
tivo, realizzando anche congegni come una colomba « automatica » volante, basata sulla
110 La filosofia antica

presenza in essa di aria compressa la cui fuoriuscita era consentita da una valvola regola-
bile:

Fu il primo ad applicare i principi della matematica alla meccanica, in modo metodico; e il pri-
mo ad applicare il movimento meccanico al disegno geometrico, cercando attraverso la sezione
di un semicilindro due medi in proporzione tra loro, al fine della duplicazione del cubo. Per pri-
mo trovò la misura geometrica del cubo, come dice Platone nella Repubblica.
(Diogene Laerzio VIII 83 = A 1)

Archita venne ammirato per la bellezza e difficoltà della sua soluzione al problema
della duplicazione del cubo (di cui a p. 393), che ricorreva non a costruzioni di geometria
piana bidimensionale (come avrebbe fatto Eratostene), ma alla geometria solida e alla ter-
za dimensione, e a tre superfici di rotazione – cilindrica, toroidale, conica – il cui punto di
intersezione era quello necessario a costruire i due medi (Eutocio, Commento al Sulla sfe-
ra e il cilindro di Archimede 2,84,12; Eudemo fr. 141 W.). In questa dimostrazione fu
usata per la prima volta quella che sarebbe rimasta nota come « curva di Archita », la pri-
ma curva gobba (cioè, che non giace in un piano) della storia della matematica8. Stando a
Plutarco (Simposio VIII 2, 718E), Platone avrebbe criticato Archita per aver contaminato
la geometria con la meccanica, poiché la geometria era disciplina rivolta al regno dell’in-
telligibile e non del sensibile.
Anche a tali competenze meccaniche di Archita, ben applicabili alle macchine belli-
che, si è ipotizzato che fosse dovuto il suo prolungato ruolo di stratego. Il calcolo (logi-
smos) era per lui strumento tanto dell’aritmetica quanto della vita sociale e politica, di cui
rappresentava il concetto chiave, favorendo l’accordo e impedendo di trarre ingiusti van-
taggi:

Quando il calcolo (logismos) è stato trovato, esso controlla le fazioni politiche e accresce la
concordia, poiché in sua presenza viene meno l’ingiustizia e regna l’uguaglianza. Con il calco-
lo si attenuano le differenze nei nostri rapporti gli uni con gli altri. Grazie ad esso i poveri pren-
dono dai potenti, e i ricchi danno ai bisognosi, poiché entrambi hanno fiducia in esso per otte-
nere una parte uguale.
(fr. 3 = Stobeo IV 1,139)

Stando a quanto le nostre fonti ci trasmettono, e nella misura (assai limitata) in cui si
può distinguere tra la figura e il contributo di Pitagora e quello dei suoi seguaci, ne emer-
gono differenze sostanziali. Pitagora risulta personaggio strettamente legato a una dimen-
sione magico-religiosa, che nell’antichità greca era tutt’altro che inusuale. Appare agli
antichi come dotato di capacità taumaturgiche, divinatorie, magiche, legato alla ritualità
e alle concezioni dell’orfismo e tuttavia dotato di straordinarie conoscenze (in che cosa
però queste consistessero, non è possibile determinare), con un ruolo di educatore e mae-
stro che rinuncia al medium della scrittura, e svolge un precipuo ruolo politico; mentre un
Filolao o un Archita sembrano appartenere a un’età ormai diversa, in cui il dibattito passa
attraverso gli scritti e le competenze si fanno specialistiche: quelle aritmo-geometriche, e
di teoria musicale, di entrambi risultano fin sorprendenti. Le dottrine, dal fascino che sarà
inesauribile, del pitagorismo trovano riscontro immediato tra i contemporanei. Eraclito,
Alcmeone, Parmenide, Empedocle: si va delineando un dibattito, tra prese di posizione e

8
La soluzione è troppo complessa e tecnica per essere qui approfondita: se ne veda una adeguata trattazio-
ne in Huffman, 2005, pp. 342-360, e cfr. K. Saito, Doubling the cube, « Hist. Math. » 22/2, 1995, pp. 119-37.
I presocratici 111

polemiche, che mostra come la circolazione delle idee già nell’età più antica fosse sor-
prendentemente rapida, puntuale, efficace.

6.4.5 Alcmeone
Di Alcmeone si è già fatta menzione. A lungo ci si è interrogati, se fosse da considerare
un medico, o un più tradizionale « fisiologo » presocratico, ma la domanda è impropria:
una netta distinzione di questo tipo tra le due figure era di là da venire, e persino per un
Parmenide si è dovuta constatare l’appartenenza alle cerchie dei medici di Elea. Alcmeo-
ne, nella prima metà del V sec., ebbe chiari interessi medici, e si dice che per primo scris-
se un’opera Sulla natura. Fu in contatto con i pitagorici, ma non ne fece parte stando al
modo in cui Aristotele nel primo libro della Metafisica parla di lui, dopo aver esposto il
pensiero dei pitagorici e la loro concezione dei contrari:

In questo modo sembra che pensasse anche Alcmeone di Crotone, sia che sia stato lui ad attin-
gere da loro questa concezione, sia loro da lui. Alcmeone [...] professò una dottrina simile a
questi (i pitagorici), dicendo che duplici sono le molteplici cose umane, ponendo però i contra-
ri non come costoro, che li definivano con precisione, ma come capitavano.
(Aristotele, Metafisica 986a26 = A 3)

Se ne ricava, prosegue Aristotele, che per lui come per i pitagorici i contrari rappresen-
tano i principi delle cose che sono; non si tratta però, in Alcmeone, di contrari determina-
ti, ma del concetto stesso di contrarietà. L’importanza di Alcmeone, che già emerge dalla
trattazione aristotelica della Metafisica dove il suo nome spicca nel magma indistinto del
pitagorismo, è confermata dall’aver Aristotele stesso scritto un’opera, perduta, contro le
sue dottrine (Diog. Laert. V 25,8). Alcmeone è stato via via considerato, con entusiasmo
forse eccessivo, il padre della medicina greca, della biologia, della fisiologia, dell’em-
briologia: egli ebbe certo un ruolo significativo nell’evoluzione del pensiero scientifico
antico. Sostenne la separazione tra sapere umano e divino (fr. 1), riservando agli dèi la
conoscenza certa e all’uomo il procedere per indizi, idea che avrà ampio seguito, e una
precisa eco in Senofane (fr. 34: cfr. p. 99)

Alcmeone di Crotone, figlio di Piritoo, disse questo a Bro(n)tino, a Leonte e a Batillo: delle co-
se invisibili, delle cose mortali la conoscenza sicura (saphèneia) l’hanno gli dèi; agli uomini
(resta) il congetturare (tekmairesthai).

L’uomo non dispone di conoscenza rivelata, deve invece costruire da sé un percorso,


fatto di indizi (tekmèria) e di indagine razionale, di inferenze: è, qui, il fondamento di
quello che sarà il metodo epistemologico della scienza ippocratica, mentre il fatto che il
testo sia indirizzato « a Bro(n)tino, Leonte e Batillo », tre pitagorici, informa di quale fos-
se il contesto in cui Alcmeone si muoveva: il tono può essere interpretato anche come po-
lemico, quasi volesse Alcmeone spiegare ai suoi interlocutori come realmente stessero le
cose. Si ricorderà, che Crotone era il centro del pitagorismo.
Quello di Alcmeone fu un orientamento molto aderente al concreto, un precoce empi-
rismo, che egli avrebbe affermato esplicitamente se si può attribuire a lui (invece che ad
Alcmane come vuole la tradizione), il credo « l’esperienza è principio della conoscenza »
(Scolio alle Istmiche di Pindaro, I 56). Egli mostrò interesse per la cosmologia e l’astro-
nomia (i pianeti vanno da Occidente a Oriente, e hanno carattere divino ed eterno), per la
concezione dell’anima (immortale e sempre in movimento, simile al divino) e dell’uomo
112 La filosofia antica

(che muore « perché non sa congiungere il principio con la fine », fr. 2 = Ps.-Aristotele,
Problemi XVII 3, 916a33). Si pronunciò in dettaglio sugli organi di senso, e per primo
stabilì che le sensazioni sono trasmesse da questi al cervello, che è elemento guida
dell’uomo e fonda la conoscenza (Ippocrate, La malattia sacra 16), concezione ripresa da
Ippocrate e apprezzata da Platone, non invece da Aristotele, su cui si dirà ancora (pp. 141,
386s.). Ciò Alcmeone affermò forse per osservazione diretta del percorso del nervo otti-
co, effettuata mediante dissezione, pratica del tutto eccezionale per l’epoca: per il tardo
Calcidio (Commento al Timeo di Platone 279), fu il primo a praticarla. Importante fu an-
che l’impulso da lui dato all’embriologia: affermando il nesso tra seme e cervello e soste-
nendo che per prima, nell’embrione, si forma la testa perché contiene l’organo guida, egli
avrebbe aperto la via a un dibattito destinato ad attraversare larga parte del pensiero anti-
co, e la sua tesi sarebbe stata ripresa, con altri argomenti, da Democrito. Ricorrendo al
lessico politico dell’epoca, e forse per analogia con quanto avveniva in alcune situazioni
sia in Magna Grecia che in Ionia, ad esempio a Samo, sostenne (fr. 4) che la malattia de-
riva da uno squilibrio nell’organismo dovuto al prevalere (monarchia) di un elemento su-
gli altri, mentre la salute si deve all’equilibrio (isonomia: che è però anche uguaglianza di
diritti politici) delle forze che agiscono sul corpo:

Alcmeone dice che la salute dura fintantoché i vari elementi, umido secco freddo caldo amaro
dolce e gli altri, sono in equilibrio (isonomia), e che la malattia è causata dal prevalere di uno
sugli altri (monarchia). Il prevalere dell’uno o dell’altro elemento, dice, è causa di distruzione.
[...] La salute è l’armonica mescolanza (krasis) delle qualità.
(fr. 4 = Aezio V 30,1)


6.5 La svolta eleatica

6.5.1 Parmenide
La dimensione mistico-esoterica che era propria del pitagorismo riaffiora, ma con moda-
lità tutte personali, in una delle vette raggiunte dal pensiero greco della regione occiden-
tale, destinata a influenzare profondamente la storia del pensiero filosofico: con Parmeni-
de viene a maturazione una nuova dimensione della ricerca e della riflessione sull’uomo
e sul mondo. Siamo al passaggio tra VI e V sec., verso il 500 a.C., un momento centrale
di evoluzione del pensiero greco, pochi anni prima di quelle vicende che cambieranno de-
finitivamente il volto della Grecia antica: le guerre persiane, la vittoria sul gigante orien-
tale. Elea, del resto, era una colonia greca fondata proprio dagli abitanti della Ionia fuggi-
ti sotto la pressione degli invasori Persiani.
Parmenide assurge da subito a misteriosa chiave di volta. Così lo descrive Platone,
sottolinendo la difficoltà di intenderne il pensiero:

Parmenide, per dirla con Omero, mi appare venerando e insieme terribile. Io lo incontrai quan-
do lui era molto vecchio, e io molto giovane, e m’è parso che egli avesse una profondità di pen-
siero davvero straordinaria. Io temo dunque che noi non riusciamo a capire le sue parole, e an-
cor più che ci sfugga il senso di ciò che egli disse.
(Platone, Teeteto 183c-184a).
I presocratici 113

Parmenide risulta associato al dio Apollo, come attesta una breve ma importante iscri-
zione rinvenuta intorno al 1960 a Velia in Campania, l’antica Elea dove il filosofo nacque
e fu attivo. L’iscrizione è incisa su un’erma priva della testa, e recita: « Parmenide figlio
di Pireto, Uliade, physikos ». Il contesto è di tipo medico, forse una corporazione. In Ulia-
de (Οὐλιάδης) s’intende adepto di Apollo Oulios, cioè guaritore, un attributo coerente
con l’attività svolta dal dio nel campo della medicina; in physikos si dovrà vedere il me-
dico, un uso frequente del termine (anche se va ricordato che in tre altre iscrizioni colle-
gate alla nostra per dire medico si usa l’inequivoco iatros), o più in generale colui che si
occupa della physis. Il caso è complesso (cfr. Vecchio 2003; in breve Gemelli, 2007-2010
II, pp. 43-6), ma Parmenide è chiaramente inserito in un contesto di pratica medica colle-
gata alla divinità, forse vicina a quelle tipiche dei santuari del dio della medicina Ascle-
pio. Dunque un medico, forse un taumaturgo? Certo dovette essere adepto di una associa-
zione, con una precisa quanto significativa collocazione nella società del suo tempo. Non
è un caso che egli intraprenda, è lui stesso a dirlo, un viaggio sotto la guida della divinità:
una dimensione spesso trascurata dagli interpreti, o intesa in senso puramente metaforico,
una sorta di velo del mito steso sul « vero » contenuto del pensiero parmenideo. Egli narra
di come fu trasportato su un carro trainato da due cavalle fino a giungere, attraversata una
porta, al cospetto di una dea, dalla quale ricevette la rivelazione. È vero, l’esordio del
Poema filosofico di Parmenide, scritto nel verso di Omero e dell’epica, l’esametro, con-
suona con l’apertura e con altri versi (ad es. 746-754) della Teogonia di Esiodo, con l’al-
tra delle Olimpiche di Pindaro: ma è proprio la lettura comparata a dare non solo le somi-
glianze, ma anche le evidenti difformità. Parmenide si pone, come è ovvio che sia, sulla
linea espressiva della tradizione, di topoi diffusi; ma questa egli unisce a una dimensione
di misticismo, non nuova se si pensa al pitagorismo e all’orfismo, che sembra fungere non
da contorno bensì da tratto essenziale per intendere la sua interpretazione della realtà. Co-
sì esordisce:

Le cavalle, che mi portano fin dove vuole il mio cuore,


mi conducevano, dopo avermi guidato sulla via che molto racconta,
la via della dea, che per ogni dove porta l’uomo che sa.
Su di essa ero portato, su di essa mi portavano le cavalle dal molto senno
che trainavano il carro; fanciulle ne guidavano il percorso.
(Parmenide fr. 1, 1-5 = Sesto Empirico, Adv. math. VII 111ss.)

Il prescelto, colui che sa, viene condotto sulla via della conoscenza, della verità (ale-
theia), lontano dagli accidentati e ingannevoli percorsi dell’uomo comune. La dea (forse
da identificare con la Notte, cfr. Primavesi, 2011), lei sola, è garanzia di verità. Le caval-
le sono da sempre simbolo del viaggio verso la conoscenza, e di intelligenza, Platone use-
rà la medesima immagine – lì però ormai solo metafora, per quanto potente – dei due ca-
valli bianco e nero che guidano, sotto il controllo dell’auriga, il carro alato verso la con-
templazione della verità delle forme/idee nell’iperuranio.

L’asse nei mozzi mandava un suono come di flauto,


avvampando (era infatti mosso da entrambi i lati
da due ruote che vorticosamente giravano) quando svelte lo
accompagnavano le fanciulle del Sole, una volta lasciata la dimora della Notte
verso la luce, scostato il velo dal capo.
(fr. 1, 6-10)
114 La filosofia antica

L’articolata descrizione, l’attenzione ai dettagli, il richiamo alla sonorità dei mozzi del-
le ruote, la menzione della luce e della notte, fanno piuttosto pensare alle cerimonie magi-
co-religiose del tempo, sembrano riportare la descrizione di un viaggio (estatico?) nell’al-
dilà, come alcuni interpreti hanno saputo vedere, un aldilà del mondo che non è necessa-
riamente una discesa nel « mondo di sotto », l’Ade, come nella Nekyia omerica, ma un
viaggio lontano, agli estremi. Un’esperienza mistica, dunque, piuttosto che una letteraria
allegoria, accompagnata da topoi espressivi già o in seguito presenti nel mondo greco.

Lì sono le Porte del cammino della Notte e del Giorno,


e un’architrave le racchiude e una soglia di pietra all’estremità;
ed esse nell’etere sono completate da grandi battenti;
di queste possiede la chiave, che ora apre ora chiude, la Giustizia che molto punisce.
A lei rivolgendosi le fanciulle con dolci parole
la persuasero abilmente a spingere rapida
via dalla porta la sbarra inchiavardata; e il vuoto immenso
dei battenti si aprì, ruotando uno dopo l’altro
nelle cavità i cardini di bronzo
con borchie e chiodi ben connessi. Lì, dritte attraverso di essi
le fanciulle guidarono lungo la via carro e cavalle.
(fr. 1, 11-21)

La scena del cammino, la descrizione della grande porta aperta, o serrata, dalla severa
Dike, non è secondario dettaglio descrittivo rispetto a quella ontologia che si considera
contributo più significativo di Parmenide: senza l’una, non si intenderà l’altra. La rinun-
cia al mondo sensibile, a ciò che si può vedere, udire, toccare, l’affermazione dunque di
una aporia, la scelta di una via senza uscita che sbalordirà il pensiero greco successivo e
lo costringerà a una sfida decisiva, non sarebbe pensabile senza cogliere la visione anche
mistica del percorso.
La dimensione dell’esperienza sensibile si sposta allora sullo sfondo, al centro della
scena sale invece il nudo attributo: « è, o non è ». È ancora la dea a rivelare a Parmenide
che la via della verità è quella che dice « è »:

Ora, ecco, ti dico – e tu ascolta e fanne tesoro –


le vie della ricerca che sole si possono pensare:
l’una, che « è » e che non è possibile « non essere »,
cammino di Persuasione, che si accompagna a Verità;
l’altra, che « non è » e cui è necessario « non essere »,
un sentiero che ti dico non portare alcuna notizia,
poiché quel che non è non puoi conoscerlo, non essendo compiuto,
né dirlo.
(Parmenide fr. 2 = Proclo, Commento al Timeo di Platone I p. 345,18)

La dea si fa garante e rivela la Verità (Aletheia), compagna di Persuasione (Peithò: di-


venterà centrale per i sofisti, che la vorranno invece indipendente da Aletheia), e lo fa con
l’aiuto di Legge e Giustizia (Themis e Dike), le quali guidano l’uomo sul cammino che,
solo, potrà condurlo alla Verità incrollabile, un cammino che è fuori dai consueti tracciati:

Con favore mi accolse la dea, la mano destra mi prese


nella sua, e disse parole e così a me si rivolse:
O giovane, compagno di aurighi immortali,
di cavalle che ti portano alla nostra dimora,
benvenuto! Non fu un cattivo destino a guidarti
I presocratici 115

lungo questa via, posta fuori dal percorso degli uomini,


ma Legge e Giustizia. Tutto bisogna dunque che tu sappia,
tanto il cuore incrollabile della rotonda Verità,
quanto le opinioni dei mortali, nelle quali non v’è fede sicura.
(Parmenide, fr. 1, 22-30)

Quel che non è, dice nel fr. 2, non può essere detto: ma neanche conosciuto né pensato,
poiché « pensare (νοεῖν) ed essere sono la stessa cosa » (fr. 3 = Clemente Alessandrino,
Stromata VI 23), e

È necessario che dire e pensare siano qualcosa che è; è possibile infatti


che esso sia, mentre il nulla non è; questo ti porto a considerare.
Da questa prima via di ricerca io ti tengo lontano,
e poi dall’altra, che i mortali dalla doppia testa, che nulla sanno,
si creano: la mancanza di risorse nel loro petto guida
la mente che vaga; e si lasciano trasportare,
sordi e ciechi, storditi, stirpe che non sa giudicare,
dai quali essere e non essere è giudicato la stessa cosa
e non la stessa cosa; e il cammino di tutte le cose ritorna su se stesso.
(Parmenide fr. 6 = Simplicio, Commento alla Fisica di Aristotele p. 117,2)

L’esordio del frammento è apodittico, privo di ogni elemento discorsivo: il χρή incipi-
tario (« è necessario ») condiziona l’intero argomento, esprime una necessità che non con-
sente alternative. L’immagine della via, del cammino, del sentiero, è in Parmenide osses-
siva presenza; il percorso di « colui che sa », colui che ha visto (fr. 1,3), l’iniziato, è un cam-
mino reso difficile dagli inganni dei sensi, dall’incapacità di valutare e di cogliere ciò che
distingue « è » da « non è », e per conseguenza il nesso che lega l’essere al pensare e al dire.
Che ruolo ha dunque quel mondo con il quale noi siamo soliti entrare in rapporto attraver-
so i sensi? Per quale via possiamo giungere a cogliere, a comprendere, ciò che è? Parme-
nide nega l’attendibilità della conoscenza sensibile, oppone vista e udito al logos, alla ca-
pacità cioè di stabilire relazioni e così classificare e comprendere il reale:

Mai infatti questo potrà essere imposto: che siano le cose che non sono.
Tu invece da questa via di ricerca tieni lontano il pensiero,
né l’abitudine delle molte esperienze ti costringa su questa via
a coltivare l’occhio che non vede e l’udito che rimbomba
e la lingua, ma giudica con il logos l’argomento controverso
che io espongo.
(Parmenide fr. 7 = Platone, Sofista 237a (vv. 1-2) + Sesto Empirico, Adv. math. VII 114)

Già Eraclito aveva messo a confronto i sensi con la conoscenza del logos, ma è solo
con Parmenide, in questo frammento e nel successivo, che i primi vengono del tutto sva-
lutati come strumento di conoscenza. Il seguace di Parmenide, Melisso, farà proprio an-
che questo aspetto (cfr. Melisso fr. 8), oltre a riprendere e portare alle estreme conseguen-
ze, insieme con Zenone, gli altri attributi da Parmenide assegnati all’essere.
È solo leggendo per intero anche il testo di uno dei più lunghi frammenti a noi giunti
dell’intera produzione filosofica precedente Platone (testi di estensione ancora maggiore
abbiamo per il solo Empedocle, dopo la scoperta del Papiro di Strasburgo), che ci si può
fare un’idea dell’andamento e del contenuto dell’argomentare parmenideo. Il brano ci è
testimoniato nella sua interezza da Simplicio, e parzialmente da altre fonti antiche: in
Simplicio, esso è esempio della consapevolezza del proprio ruolo nella preservazione del-
116 La filosofia antica

le antiche dottrine, una coscienza che diremmo in certo senso storica e ‘dossografica’,
giacché è egli stesso a spiegare che quel testo, di cui ha con sé una copia, sarà opportuno
citarlo per intero, giacché ormai difficile a reperirsi. E così recita dunque il nucleo centra-
le del pensiero di Parmenide, suddiviso in una prima sezione su Aletheia e una seconda su
Doxa, la Verità garantita dalla divinità e l’Opinione degli uomini priva di persuasivo ri-
scontro:

Resta ora soltanto da pronunciarsi sulla via dello « è ». Su di essa sono moltissimi
segni, che essendo ingenerato è anche indistruttibile,
perché è tutt’intero e immobile e non incompiuto;
né mai esso è stato né mai sarà, poiché è, ora, tutto insieme,
uno, continuo.
(Parmenide fr. 8,1-6 = Simplicio, Commento alla Fisica di Aristotele p. 144,29)

L’esordio elenca gli attributi fondamentali dell’essere, che saranno poi uno per uno ar-
gomentati, in buon ordine, nel prosieguo. Con una eccezione: mai si ha infatti in Parme-
nide una dimostrazione del fatto che l’essere sia « uno » (v. 6) – caratteristica assunta in-
vece in seguito da Melisso come fondamentale, da questi ripetutamente ribadita e ben
presente a Platone, che nel Parmenide assegna all’eleatismo il credo « tutto è uno » (ἓν τὰ
πάντα) – al punto che tra gli studiosi non è mancato chi volesse correggere qui il testo di
Parmenide eliminando il riferimento all’uno, che pur ponendo difficoltà corrisponde però
all’immagine complessiva che Parmenide dà dello « è ». Parmenide, a quanto sappiamo
dalle fonti superstiti, afferma non che tutto è uno, bensì che ciò che è, è. Lo « è » di Par-
menide resta però assolutamente unitario, finito in quanto perfetto, esistente da sempre e
per sempre ma in realtà sottratto al tempo, che è sempre presente, e allo spazio, nel quale
non si muove e che riempie totalmente di sé, sempre identico a se stesso. Lo « è », in
quanto tale, è sottratto alle leggi del divenire, alle quali sottostà invece il mondo sensibile
quale si presenta alla nostra (ingannevole) percezione. La logica dell’argomentazione è
stringente: chi ne accetti i presupposti non potrà che far proprie anche le conclusioni.

Il primo argomento: l’essere è ingenerato e indistruttibile, imperituro.


Difatti, quale origine gli vuoi cercare?
Come e da dove si sarebbe originato? « Dal non essere » non ti permetterò
né di dirlo né di pensarlo; perché non è possibile né dire né pensare
« non è ». E quale necessità avrebbe potuto forzarlo
a nascere dopo o prima, se avesse avuto inizio dal nulla?
Così dunque è necessario o che sia del tutto, o che non sia affatto.
Né mai la forza della convinzione permetterebbe che dal non essere
nasca qualcos’altro oltre a esso; per questo né nascere né dissolversi
gli permette la Giustizia, sciogliendolo dalle catene,
ma lo tiene fermo. Su queste cose il giudizio sta in questi termini:
« è » o « non è ». Si è giudicato dunque, com’era necessario,
di lasciare la via impensabile e inesprimibile (infatti non è quella vera),
di considerare invece l’altra come esistente e vera.
In che modo ciò che è potrebbe essere nel futuro? In che modo sarebbe stato generato?
Se infatti fosse stato generato, non è, e neppure se sta per essere nel futuro.
Così la generazione è spenta, e della distruzione non v’è più traccia.
(fr. 8,6-21)

Il secondo argomento: l’essere è indivisibile e uniforme.


I presocratici 117

Neppure è divisibile, perché è tutto quanto uniforme,


né v’è da qualche parte un di più che gli impedisca di essere contiguo,
né un di meno, ma tutto è pieno di essere (τὸ ἐόν: ciò che è; l’essere, o l’ente).
Perciò è tutto contiguo: infatti l’essere (τὸ ἐόν) è a contatto con l’essere (τὸ ἐόν).
(fr. 8,22-25)

Il terzo argomento: l’essere è immobile, tenuto da potenti legami (cfr. p. 22).

Ma immobile, nei limiti di potenti legami,


senza inizio, senza fine, poiché generazione e distruzione
sono state risospinte lontano, scacciate dalla convinzione vera.
E rimanendo identico nell’identico posto sta in se stesso
e così rimane lì immobile.
(fr. 8,26-30)

Il quarto argomento: l’essere è finito, perché perfetto.

la potente Necessità infatti


lo tiene nei legami del limite che lo stringe tutto intorno,
poiché è giusto che ciò che è non sia incompiuto;
è infatti non manchevole: se lo fosse, mancherebbe di tutto.
(fr. 8,30-33)

Il quinto argomento: l’essere è in diretto rapporto con il pensiero e con la parola, ne è og-
getto e ne rappresenta la possibilità stessa. Esso è ciò che solo si può pensare ed esprime-
re, mentre la varietà dei nomi che gli uomini assegnano alle cose sensibili non sono altro
che inganno.

È la stessa cosa pensare e ciò per cui si dà il pensiero;


perché senza ciò che è, in cui esso è espresso,
non troverai il pensare: nient’altro è o sarà
al di fuori di ciò che è, poiché il Destino lo ha legato
ad essere tutto intero e immobile. Perciò solo nome saranno tutte le cose
che i mortali hanno stabilito persuasi che fossero vere,
nascere e perire, essere e non essere,
e cambiar luogo e mutare lo splendente colore.
(fr. 8,34-41)

Omero risuona, qui e altrove, nei versi parmenidei, che acquistano via via solennità: e
il Destino che lega il reale e lo costringe immmobile è quello stesso che lega Ettore a re-
star fermo fuori dalle mura di Troia, invece che fuggire al sicuro insieme con gli altri tro-
iani, in attesa di Achille e della morte.

Il sesto argomento: l’essere è compiuto, uniforme, inviolabile, identico a se stesso, in


equilibrio.

Ma poiché vi è un limite estremo, è compiuto


da ogni parte, simile alla massa di una sfera ben rotonda,
equivalente dal centro in ogni direzione; che non sia maggiore
o minore in un punto o in un altro è necessario.
Né infatti è possibile che qualcosa che non è gli impedisca
di raggiungere il suo simile, né è possibile che qualcosa sia essere
118 La filosofia antica

qui più là meno, poiché è tutto inviolabile.


Poiché è uguale a se stesso da ogni lato, sta ugualmente nei limiti.
(fr. 8,42-49)

Che « ciò che è » sia in equilibrio (« equivalente dal centro in ogni direzione ») era sta-
ta anche capitale affermazione di Anassimandro (A 26, cfr. p. 89), con il quale Parmenide
condivide non solo questo aspetto ma anche la centralità di Dike, la Giustizia, che tale
equilibrio garantiva. L’essere è compatta sfericità: la figura perfetta, dall’equilibrio invio-
labile in cui il centro è ad uguale distanza da ogni punto della periferia esterna, la figura
propria del divino, dei corpi celesti, il cui movimento è quello circolare, perfetto a sua
volta, senza inizio né fine (come già aveva detto Eraclito per il cerchio), dunque coerente
con l’immagine dello « è » parmenideo. Assegnare all’essere l’attributo della sfericità po-
neva un difficile problema: come negare che se l’essere è finito, dotato di forma sferica,
potesse esistere qualcosa al di fuori della sfera stessa. Per Parmenide, in realtà, è incon-
gruo il fatto stesso di porre una simile domanda: la sfera esaurisce l’orizzonte dell’essere,
dunque non esiste un « al di là », « al di fuori » della sfera stessa. Il problema sarà infine,
nell’ambito dell’eleatismo posteriore, superato da Melisso (v. infra), con l’affermazione
che l’essere è illimitato.
A questo punto del suo percorso, Parmenide dichiara di porre fine all’esposizione del-
la Verità, garantita dalla divinità, e di riferire invece le ingannevoli, proteiformi parole
dei mortali. Dalla Aletheia, egli passa alla Doxa:

Con ciò interrompo il logos degno di fede e il pensiero


intorno alla verità; le opinioni dei mortali da questo punto
impara, ascoltando l’ordine ingannevole delle mie parole.
(fr. 8,50-52)

I versi che seguono sono quanto sopravvive, nel fr. 8, della descrizione del kosmos, la
contrapposizione tra luce e buio, fuoco e terra, giorno e notte, che ritroviamo anche nel
Proemio e che dunque non sono presenze marginali:

Essi stabilirono infatti di dare nome a due forme,


una delle quali non era necessaria – e in ciò hanno errato;
le distinsero per l’aspetto, e posero segni diversi
per l’una e per l’altra: da una parte il fuoco etereo in fiamma,
lieve, leggerissimo, identico a se stesso da ogni parte,
ma non identico all’altro; e poi anche l’altro posto in sé,
opposto, notte senza luce, dalla figura densa e pesante.
Io ti espongo per intero questo ordinamento per come esso appare,
cosicché non vi sia conoscenza dei mortali che possa superarti.
(fr. 8,53-61)

La descrizione della concezione dei mortali è ancora attestata in altri più brevi fram-
menti, e dovette avere nella costruzione parmenidea un ruolo più significativo di quanto
oggi appaia. Parmenide riferisce di una concezione del mondo, che va dalle sfere celesti:

I cerchi più stretti sono pieni di fuoco non mescolato, e quelli dopo di loro sono pieni di notte,
e in mezzo si spande una porzione di fiamma. Nel mezzo di questi cerchi è la divinità che tutto
governa.
(fr. 12, 1-3 = Simplicio, Commento alla Fisica di Aristotele p. 39,12)
I presocratici 119

alla generazione dell’uomo:

ella (divinità) che sempre presiede al parto doloroso e all’unione,


spingendo la femmina all’unione col maschio e di nuovo
il maschio all’unione con la femmina.
(fr. 12,4-6 = ibid. p. 31,10)

Altri passi (fr. 16 = Aristot. Metaph. IV 5, 1009b21) informano di una riflessione di


Parmenide sulla mescolanza delle membra del corpo, e del rapporto tra corpo e pensiero/
mente (νόημα, νόος); e della sua concezione di una terra radicata nell’acqua (ὑδατόρριζον,
fr. 15a = Scoli a Basilio, 25). Sono passi importanti: perché attestano il radicamento di
Parmenide nella cultura del suo tempo e della sua terra, e in particolare riflettono le con-
cezioni pitagoriche, la teoria dei contrari, l’opposizione luce/tenebra, caldo/freddo, la teo-
ria del fuoco centrale e delle sfere celesti, le dottrine del temperamento degli elementi
quali attestate in Alcmeone. Parmenide è un pensatore della Magna Grecia, e della Ma-
gna Grecia conosce e in certa misura condivide le dottrine, salvo però distaccarsene in
modo radicale quando si volge al fondamento ultimo di tutto, spogliato di ogni ulteriore
attributo sensibile: lo « è ».
Esso induce a ripudiare la sensazione come strumento di conoscenza, privilegiando in
sua vece il logos, che costituisce l’unità del reale; l’alternativa « è » / « non è » si fa crite-
rio del vero e del falso, del dicibile e dell’indicibile, del pensabile e, in ultima istanza, del
reale stesso. Solo nella consapevolezza dell’esistenza di due dimensioni, quella dello « è »
e quella del « sembra », dello « appare verosimile », le due dimensioni della Verità e della
Opinione, si può intendere che esse sono due modi per cogliere, per rappresentarsi l’unica
realtà. Dell’una è garante la divinità, che la rivela all’iniziato; nella rete dell’altro sono
presi i mortali, privi di strumenti di giudizio e affidati alle parole che non dicono, mentre
una sola cosa si può davvero esprimere: « è ». Doxa è la rappresentazione con cui gli uo-
mini si raffigurano il mondo, suddiviso in singoli oggetti dotati di nomi diversi, che mu-
tano e si muovono: per essa valgono le parole di Simone Weil, « l’apparenza ha la pienez-
za della realtà, ma in quanto apparenza. In quanto altra cosa che apparenza, essa è errore »
(Cahiers III, p. 39); « altro che apparenza » è Aletheia, esperienza diretta della realtà nella
sua identità, compiutezza, stabilità, accessibile soltanto grazie a una rivelazione divina.
Eppure Parmenide è lontano dalle interpretazioni idealistiche che, a partire da Plotino
e Clemente Alessandrino, si sono imposte attraverso il pensiero cristiano e fino all’età
moderna, giungendo a vedere nel pensatore di Elea un precursore di Cartesio e di Kant
che professava l’identità di pensare ed essere; egli intende nel reale l’unica cosa che pos-
sa essere concepita ed espressa, afferma che pensare una cosa significa pensarla come esi-
stente e che se il reale, e solo il reale, può essere pensato, allora ciò che è pensato è reale.
Si è fatto di lui il padre dell’ontologia, caricando però con ciò stesso di significati proble-
matici, perché estranei, la sua concezione di « essere ». Vero è che dalla dottrina parmeni-
dea scaturisce direttamente la teoria delle forme, o idee, di Platone, che alle aporie parme-
nidee cerca di dare risposta mettendone a frutto i contenuti (cfr. p. 211), così come Ari-
stotele ne recupererà i tratti formulando la sua concezione di dio; ma già il sofista Gorgia,
prima ancora di Platone, si era fatto di Parmenide beffe, con ciò stesso riconoscendone la
centralità, componendo uno scritto intitolato Su ciò che non è (Περὶ τοῦ μὴ ὄντος), e con-
fermando che il modo in cui gli antichi interpretavano le argomentazioni parmenidee non
era quello idealistico. Lo « essere » di Parmenide non richiede iniziale maiuscola: non ha
dimensione trascendente, né divina, né personalistica, esso è realtà materiale, tutta la real-
tà, e si inserisce appieno nel pensiero dell’epoca, in quel VI secolo nel quale i concetti
astratti, propri della filosofia successiva, non avevano ancora fatto in Grecia la loro com-
120 La filosofia antica

piuta apparizione. Aristotele lo aveva ben visto (cfr. De caelo 298b14), mentre Platone,
separando le idee come entità sovrasensibili dal mondo sensibile, ignora la dimensione
della doxa parmenidea, e spiega piuttosto l’aporia del contrasto essere/non essere soste-
nendo che anche « non essere » si può affermare di qualcosa, in quanto, relativisticamen-
te, ogni cosa « è » se stessa e « non è » altro da sé – il non-essere come essere-diverso –
giustificandosi così l’esistenza del molteplice.
Parmenide segna un discrimine decisivo nel pensiero greco e occidentale in genere, e
non sarà un caso se la filosofia, da Empedocle a Platone ad Aristotele, per finire con Mar-
tin Heidegger e Karl Popper nel Novecento, si troverà a fare i conti con lui. Determinante
è, in particolare, la sua affermazione che l’essere è immobile, che in qualche modo riassu-
me in sé tutte le altre peculiarità: immobile, ἀκίνητον, ha per i Greci di quest’epoca un du-
plice significato, implica immobilità secondo lo spazio – l’essere non può muoversi, per-
ché avrebbe bisogno di spazio in cui recarsi, ma lo spazio vuoto non esiste poiché tutto è
pieno di essere – e immobilità secondo la qualità – l’essere è ed è sottratto alle leggi del
divenire, non muta, rimane sempre identico a se stesso, dunque non può nascere né mori-
re né diventare altro da sé poiché diverrebbe, in questo caso, non-essere. Saranno i pro-
blemi fondamentali del pensiero antico: esistenza del non essere, esistenza del vuoto, esi-
stenza del movimento e del divenire, esistenza della realtà sensibile sottoposta a continuo
mutamento, mondo dell’essere e mondo dell’uomo. Lo aveva affermato Eraclito: tutto si
trasforma continuamente, niente « è »; lo nega Parmenide: niente si trasforma, il divenire
è inganno. Parmenide mette in crisi l’intera costruzione di chi lo aveva preceduto, e in
particolare il ricorso ad un’unica sostanza originaria (che fosse aria, o acqua, o terra, o
fuoco) dalle cui trasformazioni spiegare il generarsi del molteplice. È la fine del moni-
smo, l’atto di nascita del pluralismo, che avrà in Empedocle, Anassagora, Democrito gli
esponenti di spicco, tutti presi a confrontarsi con le medesime aporie parmenidee, portate
alle estreme conseguenze dai due seguaci che ne difesero a oltranza le dottrine: Zenone di
Elea, con la sua logica paradossale, e Melisso di Samo, strenuo sostenitore dell’unità e
unicità dell’essere e della rinuncia ai sensi come strumento di conoscenza. Entrambi scri-
vono in prosa, a differenza dell’ispiratore, e non hanno di lui quell’afflato mistico-religio-
so così evidente nel Proemio e in altri passi.

6.5.2 Zenone
Nessuno dei filosofi presocratici è così legato all’altro, secondo le fonti, come Parmenide
a Zenone. Per quanto inattendibile sia la tradizione biografica antica, sono questi i soli fi-
losofi di cui si dica che l’uno (Parmenide) ha adottato l’altro (Zenone). « Adottato » nel
senso che questo termine aveva nelle antiche technai, in cui il rapporto tra maestro e al-
lievo era strettissimo, come attesta, esempio principe, il Giuramento attribuito a Ippocra-
te, che rappresenta un contratto tra maestro e allievi, ammessi in una cerchia ristretta e ri-
servata. Zenone, anch’egli di Elea (l’altro seguace dell’eleatismo, Melisso, era invece
della lontana isola di Samo, all’estremo opposto del mondo greco), nasce al passaggio tra
VI e V secolo. Platone (Parmenide 127b) ci dice che fu ad Atene verso la metà del secolo,
e la notizia non è del tutto priva di verosimiglianza (che invece con lui fosse anche Par-
menide appare assai improbabile), ed è ribadita da Diogene Laerzio. Socrate sarebbe sta-
to, allora, « giovanissimo », essendo nato nel 469. Di grande intelligenza, Zenone prese
parte attiva alla vita politica della sua città natia, morendo, secondo alcune fonti tarde, nel
contrapporsi eroicamente al tiranno del posto, Nearco. Ed è ancora Platone ad informare
che Zenone avrebbe composto il suo scritto per « venire in aiuto » del maestro Parmenide.
La logica delle sue argomentazioni è ancor più stringente di quella del maestro, le cui
I presocratici 121

dottrine egli difese col massimo rigore, portandole fino a esiti paradossali. A lui risalgono
infatti le argomentazioni più estreme contro l’esistenza del molteplice, del movimento e
dello spazio: ne sono sopravvissute rispettivamente due, quattro e una – i cosiddetti para-
dossi di Zenone. Suo obiettivo era quello di dimostrare che, come si imputavano a Parme-
nide argomentazioni destinate a esiti paradossali, altrettanto paraddosali erano gli esiti di
chi ammettesse l’esistenza del movimento e della molteplicità. I suoi paradossi sono sì
una difesa delle tesi parmenidee, ma queste sembrano a volte ridursi a poco più che occa-
sionali sollecitazioni, per un pensiero non privo di originalità. Essi hanno impegnato gli
studiosi, a partire già da Platone e soprattutto da Aristotele, per oltre due millenni: tra i
più noti fu Bertrand Russell, ma anche Lewis Carroll, l’autore di Alice nel paese delle me-
raviglie, logico competente e matematico, ne fu attratto; e solo grazie ai progressi com-
piuti dalla matematica del diciannovesimo secolo quei paradossi possono considerarsi in
qualche modo superati. Cionostante, non solo provocarono, grazie ai numerosi tentativi
di soluzione, riflessioni che portarono a risultati comunque rilevanti, ma sono ancora oggi
oggetto di discussione.
Zenone da un lato perfeziona la tecnica dimostrativa, già parmenidea, della reductio
ad absurdum – un’assunto, che conduca a una conclusione assurda o a due diverse con-
clusioni tra loro contraddittorie, deve essere rigettato –, dall’altro introduce quella del re-
gressus ad infinitum, in cui l’argomento si dimostra assurdo poiché se accolto avvierebbe
una catena senza fine di passi successivi. Polemista arguto, Aristotele lo considerava il
creatore della dialettica, Platone diceva di lui che « discorreva con tale arte, che agli udi-
tori le stesse cose sembravano simili e dissimili, uno e molti, ferme e in movimento » (Fe-
dro 261d).
Il molteplice non esiste, poiché assumendone l’esistenza si giunge a conclusioni con-
traddittorie tra loro:

Se le cose sono molte, è necessario che siano tante quante sono, e né più né meno di tante. Ma se
sono tante quante sono, sono finite di numero. Se le cose sono molte, sono infinite: infatti in mez-
zo a esse ve ne sono sempre altre, e ancora altre in mezzo a queste. Così le cose sono infinite.
(Zenone fr. 3 = Simplicio, Commento alla Fisica di Aristotele p. 140,27)

In più, se il molteplice esiste, riassume Simplicio, esso è grande e piccolo: grande fino
ad essere infinito in grandezza, piccolo fino a non avere grandezza alcuna. E aggiunge,
che secondo Zenone ciò che non possiede né grandezza, né spessore, né massa, non esiste:

Se infatti venisse aggiunto a un altro essere non lo renderebbe per nulla maggiore. Perché, non
avendo grandezza alcuna, quando venga aggiunto non è possibile che nulla aumenti in grandez-
za. E così senz’altro ciò che venne aggiunto non sarebbe nulla. Se poi, quando venga sottratto,
l’altro essere non diventerà per nulla minore, e neppure, d’altro canto, quando quello venga ag-
giunto questo diventerà maggiore, è chiaro che non era nulla né ciò che venne aggiunto né ciò
che venne sottratto.
(Zenone fr. 1 = Simplicio, Commento alla Fisica di Aristotele p. 139,5)

I molti in quanto tali non sono dunque che nomi, definizioni: come Parmenide aveva as-
serito. Zenone nega con ciò stesso la tesi, di ambiente pitagorico, secondo cui esistono pun-
ti materiali costituenti le cose dotati di una certa estensione. Né lo spazio non esiste come
ente reale, poiché, se esistesse, si troverebbe a sua volta in uno spazio, e così ad infinitum:
122 La filosofia antica

Se lo spazio (topos) fa parte delle cose esistenti, dove si troverà? L’aporia di Zenone richiede
una qualche spiegazione: se infatti tutto ciò che esiste si trova in uno spazio, è chiaro che vi sa-
rà uno spazio dello spazio, e così via all’infinito.
(Aristotele, Fisica IV 1, 209a23s. = A 24)

Lo spazio vuoto, negato da Parmenide, era uno dei fondamenti del pitagorismo, e lo
sarà di nuovo per gli atomisti. Il movimento (traslazione nello spazio) non esiste:

Quattro sono i logoi di Zenone sul movimento, che presentano difficoltà di soluzione. Il primo
è quello dell’impossibilità di muoversi, perché è necessario che l’oggetto mosso raggiunga la
metà (del percorso) prima di giungere alla fine.
(Aristotele, Fisica 239b9 = A 25)

Il primo argomento è quello detto della dicotomia dello spazio: un corpo in movimen-
to non raggiungerà mai la fine del percorso perché deve prima raggiungere la metà, e poi
la metà della metà, e così via all’infinito. Dovrebbe dunque raggiungere un numero infi-
nito di punti in un tempo finito: il che è impossibile. Infatti,

Se bisogna dapprima superare la metà, e queste metà sono in numero infinito, e se è impossibi-
le superare l’infinito. [...] ritenendo di dover numerare di volta in volta ciascuna metà superata
nel corso del movimento, una volta giunti al termine si sarà numerato un numero infinito; il che
è per comune ammissione impossibile.
(Aristotele, Fisica VIII 8, 263a3 = A 25)

Si immaginino due punti A e B come estremi di un segmento di retta: prima di passare


da A a B, un corpo dovrà raggiungere il punto mediano A’; ma prima di giungere ad A’,
bisognerà raggiungere il punto mediano tra A e A’, che chiameremo A”, e così via. Lo
spazio, divisibile all’infinito, rende così impossibile il passare da un punto all’altro, e
dunque il movimento. Aristotele cercherà in vario modo, tanta era la difficoltà di accetta-
re conclusioni così controintuitive, di superare le aporie zenoniane, non senza ripensa-
menti e mai giungendo a una soluzione definitiva.

Il secondo (logos) è il cosiddetto Achille. Consiste nell’affermare che il più lento non sarà mai
raggiunto, nella corsa, dal più veloce. È necessario infatti che chi insegue giunga dapprima al
punto da cui chi fugge è partito, di modo che necessariamente il più lento precederà sempre di
un po’. Questo è lo stesso argomento della dicotomia: ma ne differisce per il fatto che la gran-
dezza assunta non viene divisa in due. La conclusione dell’argomento è che il più lento non vie-
ne raggiunto.
(Aristotele, Fisica VI 9, 239b14 = A 25)

Il pie’ veloce Achille, dunque, non riuscirà mai a raggiungere la tartaruga: se la tarta-
ruga parte con un vantaggio anche minimo, Achille per raggiungerla dovrà prima rag-
giungere il punto da cui essa è partita; ma nel frattempo, la tartaruga avrà proceduto an-
cora un po’, e Achille dovrà dunque raggiungere il nuovo punto a cui essa è arrivata; ma
essa di nuovo si sarà mossa; e così via.

C’è un limite ultimo alla divisibilità? si chiede poi Zenone. Su questo interrogativo si ba-
sano i due ulteriori argomenti contro la possibilità del movimento, i cosiddetti argomenti
della freccia e dello stadio:
I presocratici 123

Il terzo sostiene che la freccia in movimento è immobile. Deriva dall’assumere che il tempo sia
composto di tanti ‘adesso’; se non si concede questo, l’argomentazione non potrà reggere.
Se infatti ogni cosa, egli dice, è in quiete quando si trovi in uno spazio che è uguale a se stessa
(κατὰ τὸ ἴσον), e ciò che è in movimento si trova sempre nell’‘adesso’, allora la freccia in mo-
vimento è immobile.
(Aristotele, Fisica VI 9, 239b30 e VI 8, 239b5 = A 27)

Aggiunge Aristotele subito dopo: « Questo però è falso, perché il tempo non consiste
di grandezze indivisibili, così come nessun’altra grandezza ». Zenone, dicendo che il tem-
po è costituito da una serie di « adesso », cioè di istanti, fissa una entità temporale minima;
affermando che il tempo è costituito da entità ultime non ulteriormente divisibili, ne con-
segue che qualunque cosa sia in movimento si troverà in ciascun istante fermo in una de-
terminata posizione, di modo che il movimento diventa una successione di immobilità: il
che è contraddittorio. Le parole di Aristotele, e le sue controargomentazioni, non sono
chiare, né molto aiutano altre testimonianze, ad esempio quelle di Simplicio o di Diogene
Laerzio: gli argomenti di Zenone, già di per sé difficili, acquistano invece in oscurità,
dando luogo a interpretazioni e riformulazioni.

Il quarto è quello dei corpi uguali che si muovono nello stadio in direzione contraria rispetto a
corpi uguali, gli uni dalla fine dello stadio, gli altri dalla metà, con uguale velocità, in cui crede
che sia provato che un tempo metà sia uguale a un tempo doppio.
(Aristotele, Fisica VI 8, 239b33 = A 28)

Il quarto argomento è formulato in modo ancora più oscuro dei precedenti. Aristotele
soggiunge una dettagliata spiegazione, e amplissima sarà quella di Simplicio (Commento
alla Fisica di Aristotele, pp. 1016-1019), che si possono così riassumere: un corpo che,
considerato rispetto ad un punto fermo, si muova a una certa velocità, si muoverà a velo-
cità doppia se considerato invece rispetto ad un altro corpo in movimento che proceda
nella direzione opposta al primo e alla sua stessa velocità.
Numerose altre aporie formulò Zenone, il quale dimostra come già all’inizio del V se-
colo il dibattito avesse assunto dei tratti esclusivamente logico-argomentativi, del tutto
svincolati dall’esperienza empirica e dall’intuizione come strumenti di conoscenza, e an-
zi ad essa contrapposti. La rigorosa consequenzialità logica introdotta da Parmenide vie-
ne portata alle estreme conseguenze, ponendo problemi di logica che occuperanno, come
detto, gli interpreti fino al XIX secolo. Se già Parmenide aveva delegittimato i concetti di
movimento e mutamento, facendone attributi per i quali non si poteva dire « è » – l’unica
cosa che, invece, fosse lecito affermare –, rimuovendo così gli elementi centrali sia del
mondo dell’esperienza sia della riflessione filosofico-naturalistica allora corrente, Zenone
dimostra, su di un piano di pura coerenza argomentativa, che il movimento non si lascia
né coerentemente pensare, né realizzare. Tutto è ricondotto all’immobilità dello « è », sot-
tratto alla dimensione del divenire. Il nodo concettuale centrale e ricorrente può essere vi-
sto nell’idea che una grandezza continua sia composta dalla somma di un numero infinito
di particelle infinitamente piccole. Pur non essendo, a quanto sappiamo, un matematico,
Zenone pose uno dei problemi centrali nella storia della matematica: quello del rapporto
tra continuo e discreto. E anche il concetto di infinito assume una esplicita problematicità,
e sarà guardato dai Greci sempre con sospetto.
Si è accennato, come solo con la matematica moderna si ottengano gli strumenti per
un’adeguata analisi, ed eventuale confutazione, dei paradossi zenoniani. Nella seconda
metà dell’Ottocento, Georg Cantor affermò che il numero di punti contenuti in un seg-
mento è uguale al numero di punti di un segmento di grandezza diversa o di una linea in-
124 La filosofia antica

finita, di un piano e di qualsiasi spazio matematico, e soprattutto considerò gli insiemi in-
finiti come entità compiute: esistono insiemi, o « molteplicità », infiniti che possono esse-
re considerati come « attuali », nel senso che il numero dei loro elementi è precisamente
determinabile. Essi sono costituiti cioè da un numero infinito ma attuale di elementi, che
Cantor chiamò numeri transfiniti. In questo modo, gli insiemi infiniti possono essere clas-
sificati in base al « numero » degli infiniti elementi che li compongono, vale a dire in base
alla loro « potenza ». L’aspetto del lavoro di Cantor più strettamente connesso alla rifles-
sione sui paradossi zenoniani consiste proprio nella distinzione tra la potenza del conti-
nuo, che caratterizza lo spazio e dunque il movimento, e la potenza del numerabile, tipica
dei numeri razionali e da Zenone sovrapposta a quella del continuo.
Karl Weierstrass, all’incirca negli stessi anni in cui Cantor sviluppava quelle teorie
che tanti contrasti gli procurarono, precisava invece le nozioni matematiche di limite e di
convergenza di una serie, anch’esse indispensabili per meglio intendere le difficoltà delle
argomentazioni zenoniane. Nel paradosso della dicotomia, non si arriva mai, come s’è
detto, da un punto al successivo – poniamo, da 0 a 1 – giacché prima di arrivare a 1 è ne-
cessario arrivare alla metà del percorso, 1/2; ma per arrivare da 0 a 1/2 è necessario prima
raggiungere la metà del percorso, dunque 1/4; quindi 1/8; poi 1/16, e così via, fino a 1/2n.
Dunque, poiché tali intervalli sono in numero infinito, risulta impossibile superarli in un
tempo finito. Tuttavia, l’unità di lunghezza rappresentata dall’intervallo 0-1 è finita: l’in-
sieme infinito dei sottointervalli è contenuto in una totalità limitata, passibile di intuizio-
ne; chi viaggi a velocità costante percorrerà quella lunghezza in un tempo finito, pur es-
sendo impossibile enumerare tutte le sue singole componenti. Proprio la possibilità che
una somma di infiniti termini abbia valore finito è alla base della teoria delle serie conver-
genti, formalizzata in termini pressoché definitivi dal lavoro del matematico francese A.-
L. Cauchy e poi di Weierstrass.
Già Aristotele (Fisica VI 2, 233a24) aveva cercato di ovviare al problema della nozio-
ne di infinito pensandolo in due modi diversi: infinito per addizione (si aggiunge una uni-
tà di lunghezza a se stessa infinite volte, ottenendo una distanza non percorribile in un
tempo finito) e infinito per divisione (l’unità di lunghezza, finita, viene suddivisa in un
numero infinito di intervalli, ottenendo una infinità superabile in un tempo finito). In que-
sto modo egli intendeva confutare i primi due paradossi zenoniani del movimento: la sud-
divisione all’infinito è ammissibile in quanto il tempo, il movimento e la distanza, che so-
no continui, possono sì essere divisibili all’infinito, ma nel senso di un infinito potenziale
(tale cioè che da poter crescere al di là di ogni limite, assumendo però sempre valori fini-
ti, come nel caso della progressiva suddivisione a metà di un segmento) e non attuale (ta-
le cioè da essere costituito da un numero effettivamente illimitato di elementi, impossibi-
le da numerare con un numero finito). La stessa distinzione si ritroverà in Kant, che chia-
merà progressus in infinitum l’infinito per divisione, e progressus in indefinitum l’altro,
non contenibile nei limiti di una totalità definita (I. Kant, Critica della ragion pura. Dia-
lettica trascendentale, II 2, 8-9; citato in Zellini 1980, p. 45).
Straordinaria è l’affinità di alcuni dei paradossi zenoniani (la divisibilità di un segmen-
to e la freccia) con quelli che si trovarono al centro della discussione in Cina alla fine del
IV secolo a.C. (intorno al 320; cfr. J. Needham, Science and civilization in China, vol. 2,
Cambridge 1956, pp. 190ss.; Guthrie, 1965, II 100):

Se un’asta lunga un piede viene divisa ogni giorno a metà, dopo 10.000 generazioni ne resterà
ancora qualcosa ;
Capita che una freccia in volo non sia né in movimento né in quiete.
I presocratici 125

È stato evidenziato da studi recenti (ad es. in Lloyd-Sivin, 2002) come sia possibile
comparare le vicende della riflessione filosofico-scientifica in Grecia e in Cina tra il IV
sec. a.C. e il II sec. d.C., pur trattandosi di civiltà molto lontane tra loro e prive di contat-
ti e di influenze dimostrabili. Contesti differenti, temi sorprendentemente affini: innega-
bile è la profonda affinità della riflessione e dei meccanismi argomentativi e dialettici. Il
paradosso della freccia, nella formulazione cinese, appare come osserva Guthrie ancora
più sottile di quello zenoniano, poiché postula per la freccia una terza condizione che non
sia né moto né quiete. Anche in India, regione con cui i Greci ebbero contatti diretti, non
mancano paralleli, come ad esempio nelle Madhyamaka kaˉrikaˉ (Le stanze del cammino di
mezzo) del monaco e filosofo buddhista Naˉgaˉrjuna nel II sec. d.C., in cui il movimento è
dimostrato essere contraddittorio. Forse una circolazione di idee, forse la condivisione di
problemi che nelle diverse culture condussero a riflessioni analoghe.
Per un approfondimento sugli sviluppi dei paradossi zenoniani nella storia della filo-
sofia, della logica e della matematica si dovrà ricorrere alla letteratura specifica: bastino
qui queste poche riflessioni per comprendere quanto fruttuoso e provocatorio fu il contri-
buto del « figlio adottivo » di Parmenide, spesso trattato come stravagante se non margi-
nale, per il pensiero filosofico e scientifico, non solo antico. Resta da stabilire, se davvero
i paradossi di Zenone siano stati « superati » o « confutati »: o se, piuttosto, la sua propen-
sione a intendere la realtà materiale come una sequenza di elementi infinitesimali non
sembri « invulnerabile, nella sua intenzione ancor più che nel suo specifico svolgimento
dialettico, da ogni confutazione che faccia uso del limite. Essa introduce un metodo gene-
rale di riduzione all’assurdo che fu ripreso anche da chi si preoccupò di neutralizzarne
l’efficacia » (Zellini, 1980, p. 41).

6.5.3 Melisso
La lezione di Parmenide trovò in Melisso, nato e vissuto sull’isola di Samo, ulteriori svi-
luppi. Il fatto che, forse un decennio dopo Zenone o poco più (Melisso fiorì, secondo le
fonti antiche, intorno al 441 a.C., sarebbe nato dunque intorno al 480), all’estremo oppo-
sto del mondo greco, in Ionia, quelle dottrine nate ben lontano trovassero un seguito di-
retto, testimonia la sorprendente circolazione del sapere filosofico e scientifico, presumi-
bilmente anche in forma scritta, nel mondo antico. Di Melisso sappiamo, da Aristotele e
Plutarco, che fu un importante uomo politico a Samo, e che guidò la flotta samia nella
guerra contro Atene, sconfiggendola grazie ad un errore tattico commesso da Pericle di
cui Melisso seppe approfittare. La battaglia in questione, informa Tucidide, ebbe luogo
nel 441 a.C. La piena attività di Melisso coincise dunque con la primavera del mondo gre-
co, quell’età di Pericle che tanto contribuì allo sviluppo del sapere in ogni aspetto, e an-
che alla maturazione politica dei sistemi di governo con la nascita di quella che fu chia-
mata democrazia. È l’epoca di Zenone, Empedocle e Anassagora, di Socrate e di Arche-
lao, di Leucippo e del primo atomismo, di Erodoto e della tragedia greca: e con molti di
questi pensatori Melisso si confrontò, anche se l’incertezza dei dati cronologici non con-
sente di stabilire relazioni precise. Aristotele rivolge aspre critiche a Melisso, le cui teorie
sono riportate, oltre che da vari testimoni, nello scritto Su Melisso, Senofane, Gorgia
(MXG: cfr. pp. 171, 180), sulla cui attendibilità molto si è discusso, ma che per la sezione
relativa a Melisso conferma le informazioni delle altre fonti.
Melisso radicalizza la posizione di Parmenide. Simplicio, che possedeva le opere di
entrambi, osserva: « Melisso dice semplicemente che il divenire non esiste affatto, mentre
Parmenide dice che esso esiste in apparenza ma non secondo verità » (Commento al De
caelo di Aristotele, p. 556,12). Melisso accoglie e difende le tesi dell’unità e unicità della
126 La filosofia antica

realtà, della sua immobilità (nel duplice senso parmenideo di immobilità nello spazio e di
assenza di divenire) ed eternità, dell’inattendibilità della sensazione per la conoscenza. A
lui si deve in particolare l’assoluta centralità assegnata alla nozione di « uno », quell’attri-
buto dell’essere che invece in Parmenide ricorreva in un solo verso del fr. 8, e non scevro
da dubbi. Le sue argomentazioni appaiono in polemica con quelle a lui precedenti e con-
temporanee, in particolare con il pitagorismo e con Empedocle, ma rapporti diretti sono
stati individuati anche con il primo atomismo, senza che sia possibile però determinare
chi rispose a chi. Anche rispetto a Parmenide, di cui condivide in essenza il pensiero e il
metodo argomentativo, Melisso introduce innovazioni nient’affatto irrilevanti.
Unico e prezioso testimone degli undici frammenti superstiti dell’opera di Melisso è
Simplicio, che nei commenti alla Fisica e al De caelo di Aristotele cita testualmente e
senza risparmio di spazio: in particolare i lunghi frammenti 7 e 8, insieme al fr. 8 di Par-
menide, permettono di cogliere al meglio il modo di argomentare dei filosofi dell’epoca.
Integrato con le informazioni fornite da Aristotele e dal MXG, il quadro è sostanzialmen-
te coerente.
Simplicio afferma che secondo Melisso l’essere coincide con la natura. Lo provereb-
be quello che doveva essere il titolo dell’opera: Sulla natura, o sull’essere, che a suo pa-
rere stabilisce una evidente equivalenza. I titoli delle opere antiche sono spesso di dubbia
autenticità, o comunque posteriori rispetto all’autore, non valgono dunque come saldo
punto d’appoggio: ma l’osservazione di Simplicio attesta come gli antichi intendevano il
pensiero di Melisso. Il problema non è secondario: identificare « ciò che è » come un « è »
materiale, come natura (physis), porta con sé conseguenze tutt’altro che neutrali, anche
per l’interpretazione di Parmenide.
La realtà è dunque, come anche in Parmenide, una e indivisa; non generata e non de-
stinata a perire; omogenea; priva di movimento e non sottoposta a mutamento (divenire,
cioè crescita o trasformazione); libera da qualsiasi forma di turbamento, dolore, passione,
che ne ridurrebbe il grado di unità e immobilità. Melisso introduce però una caratteristica
fondamentale, che lo allontana da Parmenide: la realtà (ciò che è) è non limitata (e in que-
sto senso infinita) ed eterna.
Parmenide aveva affermato, dell’essere, che « né mai esso è stato né mai sarà, poiché
è, ora, tutto insieme » (fr. 8,5); Melisso sostiene, al contrario, che « esso è, sempre è stato
e sempre sarà » (fr. 2, init. = Simplicio, Commento alla Fisica di Aristotele p. 29,22).
Inoltre, se in Parmenide esso era tenuto « nei legami del limite » (fr. 8,31), sfera « perfet-
ta » e in quanto tale finita (questo il valore del latino perficere: portare qualcosa a compi-
mento, al suo punto finale di sviluppo), in Melisso (fr. 2) è apeiron, privo di limite, nello
spazio e nel tempo: non manca dunque originalità, e per diversi aspetti Melisso sembra
rifarsi ad Anassimandro piuttosto che all’eleatismo. Egli mette a frutto tradizione ionica
e tradizione eleatica, nonostante lotte e contrasti dividessero da lungo tempo Samo e Mi-
leto. Melisso abbandona la dimensione puramente logico-argomentativa, e porta l’eleati-
smo in direzione di una ontologia più sostanziale. Egli supera anche, dell’eleatismo par-
menideo, la dicotomia tra mondo dell’aletheia e mondo della doxa, che pure tanto frutto
avrebbe portato con Platone e le sue forme/idee trascendenti: la dimensione del sensibile
non ha spazio, neppure quello spazio di apparenza ingannevole. Le cose sensibili sono
semplicemente inconcepibili, poiché

se ci fossero molte cose, dovrebbero essere tali quali io dico essere l’uno. Se infatti c’è la terra
e l’acqua e l’aria e il fuoco e il ferro e l’oro e una cosa è viva e l’altra morta, e nera e bianca e
quante altre cose gli uomini dicono essere vere, se dunque tutto questo esiste e noi correttamen-
te lo vediamo e udiamo, bisogna che ciascuna di queste cose sia tale quale ci parve la prima vol-
ta e che non muti né diventi una cosa diversa, ma che ciascuna sia sempre quale propriamente
I presocratici 127

è. Ora noi diciamo di vedere, udire e intendere correttamente. Però ci sembra che il caldo diven-
ti freddo e il freddo caldo, il duro molle e il molle duro, e che il vivente muoia e provenga dal
non vivente e che tutte queste cose si trasformino e che ciò che era e ciò che è ora non siano per
nulla uguali [...] Cosicché ne consegue che noi né vediamo né conosciamo le cose che sono. [...]
È chiaro dunque che non correttamente vedevamo e che non correttamente quelle cose sembra-
no essere molteplici; infatti non si trasformerebbero se fossero vere, ma ciascuna sarebbe tale
quale sembrava. Nulla è infatti superiore a ciò che veramente è. Se invece si trasforma, allora
l’essere perì e il non essere nacque. Così dunque se ci fossero molte cose esse dovrebbero esse-
re tale quale è appunto l’uno.
(Melisso fr. 8 = Simplicio, Commento al De caelo di Aristotele p. 558,19)

In questa reductio ad absurdum del concetto di molteplicità, Melisso dice in sostanza


che, perché una cosa possa essere pensata ed esistere, essa deve essere sempre identica a
se stessa, giacché se subisse un mutamento anche minimo non sarebbe più se stessa ma
qualcos’altro; dunque dovrebbe avere le caratteristiche dell’uno, essere l’uno; ma l’uno,
in quanto tale, non può essere molteplice, né può esistere altro all’infuori di esso:

Se infatti è <illimitato> (apeiron) deve essere uno: perché se fosse due, i due non potrebbero
essere illimitati, ma avrebbero limiti l’uno nell’altro.
(fr. 6 = Simplicio, Commento al De caelo di Aristotele p. 557,14)

L’essere è illimitato sia quanto al tempo (non ha origine né fine), sia quanto allo spazio
(è illimitato per dimensione), come esplicitamente si afferma nel fr. 3 (« illimitato per di-
mensione », ἄπειρον τὸ μέγεθος). Ciò che è

sempre era ciò che era e sempre sarà. Infatti se fosse nato è necessario che prima di nascere non
fosse nulla. Ora, se non era nulla, in nessun modo nulla sarebbe potuto nascere dal nulla.
(fr. 1 = Simplicio, Commento alla Fisica di Aristotele p. 162,24)

In questo modo dunque è eterno e illimitato (apeiron) e uno e tutto quanto uguale. E non può né
perire né diventare maggiore né subire modificazioni (μετακοσμεῖν), né soffre né prova pena.
Perché se provasse qualcuna di queste cose, non sarebbe più uno. Infatti, se si trasforma, neces-
sariamente non è uguale, ma deve perire ciò che prima era e ciò che non è deve nascere. Ora, se
in migliaia di anni dovesse trasformarsi anche di un solo capello, in tutta la durata dei tempi an-
drà distrutto totalmente. Ma neppure che subisca modificazioni è ammissibile: infatti l’ordina-
mento (kosmos) che c’era prima non perisce e quello che non c’è non nasce. Ma dal momento
che nulla si aggiunge né perisce né diventa diverso, come potrebbe, una volta subita una modi-
ficazione, far parte ancora di ciò che è? Se infatti una cosa diventasse diversa, avrebbe già subi-
to una modificazione. [...] E non esiste alcun vuoto: perché il vuoto non è nulla, e non può esi-
stere ciò che appunto non è nulla. Neanche si muove, perché non può in alcun modo ripiegare,
ma è pieno. Giacché se ci fosse il vuoto ripiegherebbe nel vuoto: non essendoci il vuoto non ha
dove ripiegare. Non può essere denso o rado, perché non è possibile che il rado sia pieno allo
stesso modo del denso, ma il rado, in quanto tale, è più vuoto del pieno. Questa è la distinzione
che bisogna fare tra pieno e non pieno: se qualcosa cede e contiene, non è piena, se non cede né
contiene, è piena. Cosicché è necessario che sia pieno se il vuoto non c’è. Se dunque è pieno
non si muove.
(fr. 7 = Simplicio, Commento alla Fisica di Aristotele p. 111,18)

Melisso non solo esclude la possibilità che da un’unica sostanza materiale (l’aria di
Anassimene, ad esempio) possano determinarsi, per maggiore o minore densità, quelle
cose diverse che costituiscono, stando alla nostra percezione sensibile, la realtà; ma sem-
bra anche ben consapevole della possibilità di spiegare le trasformazioni del reale ricor-
128 La filosofia antica

rendo al concetto di mescolanza di elementi diversi che, pur restando identici a se stessi,
grazie alla mescolanza danno origine al molteplice. È la dottrina sviluppata da Empedo-
cle, da Anassagora, dagli atomisti: Melisso sembra già averne recepita l’eco, forse le pri-
me avvisaglie di un dibattito che di lì a poco si sarebbe largamente sviluppato.
L’immobilità, nel fr. 7, è dedotta dalla negazione del vuoto, per il quale egli usa lo spe-
cifico termine kenòn, assente in Parmenide, e sembra essere il primo a formulare il con-
cetto in modo compiuto. Quello di vuoto, negato comunque da Parmenide sia pure senza
pienamente formalizzare la nozione, era concetto presente nei pitagorici, che ritenevano
che il cosmo fosse circondato dal vuoto che veniva « inspirato » e serviva a separare le co-
se le une dalle altre, e sarà fondamentale per gli atomisti, che faranno del vuoto la condi-
zione stessa della realtà.
Anche l’immobilità dell’essere viene da Melisso argomentata in modo originale: « Se
infatti l’essere è divisibile, si muove; ma se si muove, non è » (fr. 10 = Simpl. ibid. p. 109,
32). Per intendere questa singolare affermazione si deve tener presente l’uso che questi
autori fanno del concetto di movimento (κίνησις) e di immobile (ἀκίνητον): « si muove »
va inteso ancora una volta in senso sia locale, come traslazione nello spazio, sia come
movimento secondo la qualità, dunque come trasformazione qualitativa, come divenire.
Se « si muove », diviene; dunque « non è ».
Un ultimo attributo che Melisso assegna alla realtà è anche il più problematico, e ha
dato luogo a interpretazioni contrapposte. Recita, stando a Simplicio: « Se dunque è, bi-
sogna che esso sia uno; ma se è uno, bisogna che esso non abbia corpo ». Esso non ha
« corpo », ma neanche spessore, consistenza palpabile: « Se avesse spessore, avrebbe del-
le parti, e non sarebbe più uno » (fr. 9 = Simplicio, ibid. p. 109, 34 e 87,5).
Simplicio riassume: esso è dunque incorporeo (ἀσώματον). La parola, sia in greco che
in traduzione, ha portato serie difficoltà interpretative. All’epoca di Melisso, prima di Pla-
tone e Aristotele, non esisteva ancora il concetto di incorporeo come noi lo intendiamo.
Dice bene Aristotele (De caelo III 1, 298b21), a proposito di Parmenide e Melisso: « Essi,
poiché non concepivano l’esistenza di qualcosa che andasse al di là della sostanza degli
oggetti sensibili, e rendendosi conto per la prima volta che, perché fossero possibili cono-
scenza o sapienza, erano necessarie delle entità (physeis) di questo tipo, trasferirono agli
oggetti sensibili la descrizione di ciò che è al di là ». Il termine per dire corpo, σῶμα, nel
greco arcaico di Omero significa il cadavere. Ancora nel V secolo, « corpo » è qualcosa
che ha grandezza, spessore, ed è dotato di membra, di parti diverse che formano una uni-
tà. Significa una entità percepibile e contenuta entro determinati limiti spaziali. « Privo di
soma » è dunque qualcosa di non direttamente percepibile, di intangibile, di privo di limi-
ti spaziali (cioè apeiron), e corrisponde bene alla descrizione dell’essere di Melisso. Ave-
re un soma significa essere dotato di parti diverse, ed essere quindi divisibile – il che per
Melisso è impossibile. Nella negazione di una corporeità antropomorfa egli non era iso-
lato: era stato preceduto infatti almeno da Senofane, considerato non a caso, e già da Pla-
tone, come l’antesignano dell’eleatismo (cfr. frr. 24 e 26, a p. 98).
Ma Melisso nega anche che l’essere abbia una consistenza rilevabile sensorialmente,
uno spessore (πάχος), attributo che invece Zenone aveva assegnato a tutto ciò che fosse
dotato di esistenza. Entità propriamente incorporee, in quanto unicamente intelligibili e al
di là della dimensione spazio-temporale, si avranno, è vero, solo a partire da Platone e
Aristotele: i quali dovranno però proprio allo straordinario progresso concettuale dell’e-
leatismo la possibilità di compiere quel balzo che tanto dovette influenzare, e ancora in-
fluenza, il pensiero successivo.
I presocratici 129

Permanenza e mutamento, essere e divenire, sono i due poli attorno ai quali ruota l’inter-
pretazione della realtà a partire dal momento in cui il pensiero greco considera ormai ac-
quisita la spiegazione cosmologica ionica – un principio materiale interno alla realtà ne
spiega le trasformazioni e la finale configurazione –, e su questo esercita la propria rifles-
sione. Se permanenza e mutamento per gli ionici si integravano a vicenda, agivano, per
così dire, di comune accordo, ciò non è più ammesso invece dagli eleati, per i quali o l’u-
na, o l’altro. Platone con la consueta efficacia raffigura il bipolarismo del pensiero a lui
precedente assumendo a campioni delle due squadre gli eleati e gli eraclitei: gli uni defi-
niti stasiotai (immobilizzatori, ma anche rivoluzionari, dal duplice valore del termine sta-
sis), gli altri reontes, i fluenti, quelli per i quali « tutto si muove », come nello scorrere del-
l’acqua del fiume.
Le questioni così poste occuperanno in larga misura il pensiero successivo, lungo due
percorsi, due tentativi di soluzione del problema parmenideo di una unica entità priva di
qualificazioni, fuori della portata dei sensi, conoscibile soltanto al termine di un processo
puramente intellettivo: la via del pluralismo di Empedocle, Anassagora, Democrito, che
sfuggiva alla trappola eleatica modificandone il presupposto – non una, ma più entità ori-
ginarie; e la via della dicotomia dell’esistente postulata da Platone, in cui si cercava di
salvare i fenomeni assegnandoli a un grado inferiore di realtà rispetto alla dimensione che
sola permette la conoscenza vera e risponde alle caratteristiche rivendicate da Parmenide,
quelle della pura intellezione.

∣∣
6.6 In risposta a Parmenide: l’abbandono del monismo
e la ricerca della causa del movimento

Chi voglia seguire il percorso del pensiero greco presocratico può rintracciare linee diver-
se di evoluzione. Il progressivo passaggio dalla materia alla forma; il graduale sposta-
mento da una sostanza materiale autosufficiente a cause esterne che ne determinano le
trasformazioni; la sensazione come strumento di conoscenza e il rapporto sensi/ragione;
lo spostamento dell’attenzione verso la dimensione etico-politica; il passaggio dall’ « af-
fermare » dei primi filosofi all’ « argomentare » degli eleati. Non meno rivelatore, tuttavia,
è prestare attenzione alla concreta storicità delle persone, per quanto sia possibile ricono-
scerne i tratti nei meandri della tradizione. Personalità forti, dai lineamenti marcati: non
semplici momenti di una evoluzione intellettuale lineare, di « magnifiche sorti e progres-
sive » dell’umanità di leopardiana memoria. Di questo non si può non tener conto. Soprat-
tutto in un caso come quello di Empedocle: figura complessa, personaggio considerato ai
limiti del divino, dai tratti coloriti ma non per questo meno significativi; « il filosofo tra-
gico, il contemporaneo di Eschilo », lo dirà un giovane Nietzsche.

6.6.1 Empedocle
Il primo tentativo di soluzione delle difficoltà poste dagli argomenti di Parmenide è rap-
presentato da Empedocle. Siamo ancora in Magna Grecia, in Sicilia, poco prima del defi-
nitivo spostamento del centro dell’attività filosofica alla sua destinazione finale: la Grecia
continentale, Atene. Empedocle riassume in sé sia i tratti della riflessione naturalistica io-
nica, con il ricorso agli elementi materiali di base della realtà – aria, acqua, terra, fuoco –
sia quelli della dimensione magico-sacrale italica, che aveva avuto in Pitagora, Senofane
130 La filosofia antica

e Parmenide esempi ragguardevoli. Nato da famiglia in vista ad Agrigento, colonia dori-


ca, negli anni intorno al 485, vissuto secondo Aristotele fino a sessant’anni, fu attivo co-
me Melisso in quei medesimi anni in cui la Grecia, e Atene in particolare, progressiva-
mente raggiunse una vivacità culturale, politica, artistica che mai più si sarebbe ripetuta.
Fu anche epoca difficile, racchiusa com’era tra le guerre persiane (e, in Sicilia, la guerra
contro Cartagine negli stessi anni) e la guerra del Peloponneso.
Empedocle fu anche l’ultimo dei grandi pensatori presocratici a usare la forma poetica
– ancora una volta l’esamentro dattilico di Omero – per dar forma ai propri pensieri. Pos-
sediamo molti versi (quasi duecento sono i frammenti testuali, alcuni dei quali molto lun-
ghi) e numerose testimonianze, alle quali si aggiunge una delle due più sensazionali sco-
perte riguardanti la filosofia antica nell’ultimo secolo, insieme ai testi orfici di Derveni: il
Papiro di Strasburgo (p. 165s.). Studi recenti, inoltre, hanno dimostrato che gli scoli ad
Aristotele contenuti in manoscritti bizantini conservano testimonianze altrimenti ignote,
e nuove analisi di manoscritti di difficile decifrazione, anche grazie a nuove risorse tecno-
logiche (analisi multispettrale), hanno aggiunto ulteriori informazioni. Empedocle è, tra i
presocratici, quello sul quale maggiori sono le novità emerse negli ultimi due decenni, e
sul quale più gli studiosi si sono da ultimo esercitati.

Filosofo, medico, mistico, poeta, uomo politico: un carattere multiforme, non inusuale
nella Grecia dell’epoca e ancor più ai suoi confini occidentali, ma qui particolarmente
evidente. Empedocle inaugura un periodo caratterizzato dagli sforzi dei filosofi naturalisti
di sfuggire all’inaccettabile conclusione di Parmenide, secondo cui il mondo come appa-
re ai nostri sensi non esiste. Bisognava « salvare i fenomeni » (σῴζειν τὰ φαινόμενα, se-
condo una formula più tarda), e per far ciò non bastavano più le spiegazioni basate sul
monismo della causa materiale, messe definitivamente in crisi dall’eleatismo. Empedo-
cle, Anassagora, Democrito: impegnati a confrontarsi con Parmenide, essi vedono nel ri-
corso al pluralismo degli elementi materiali la soluzione all’aporia eleatica. Non manca,
anche, in particolare per i primi due, il ricorso alla nozione di causa esterna, di causa mo-
trice, che costituisce un ulteriore snodo fondamentale.
Empedocle, unendo la ricerca sul fondamento della natura delle cose con una prospet-
tiva religiosa, assegna poi un ruolo centrale alla natura e al destino dell’anima umana, una
concezione mistica che la vede come spirito decaduto sotto la spinta di un destino crude-
le, destinata a liberarsi però, infine, dalle afflizioni terrene. Egli sostituì all’unico princi-
pio dei Milesi quattro sostanze prime, gli elementi o radici: terra, acqua, aria e fuoco. Tut-
ti avevano già fatto la loro comparsa, separatamente, nel pensiero sia greco che orientale:
la chiave è ora nelle modalità della loro combinazione. Ma la filosofia si trovava posta,
ancora a causa dell’intransigenza parmenidea, di fronte al problema di una causa motrice.
Se da principio era parso sufficiente ereditare dalle concezioni tradizionali e dal mito l’i-
dea che l’entità fisica originaria avesse in sé il principio delle proprie trasformazioni e
fosse in questo senso « divina », mentre la distinzione tra sostanza materiale e spirito era
di là da venire, emerge ora la consapevolezza che tutto questo aveva bisogno di una spie-
gazione, che il movimento/mutamento richiedeva una specifica causa. Far coincidere ciò
che è mosso e ciò che muove, operazione apparsa problematica già con Eraclito, appare
ora del tutto insufficiente. Parmenide aveva « fermato il mondo »: nelle parole del Teeteto
di Platone (180d), egli era stato uno στασιώτης, termine che riassume in sé, con fine iro-
nia e senso della lingua, il duplice significato di « immobilizzatore » ma anche « rivoluzio-
nario », valenze entrambi presenti nel concetto di στάσις. Proprio nell’aver « fermato il
mondo » consiste, nelle parole di Platone, la rivoluzione di Parmenide. Questi ribadiva
così che il movimento non è un fenomeno che si possa considerare intrinseco alla mate-
ria, ma ha bisogno di una sua propria spiegazione: di qui il passaggio a una pluralità di
I presocratici 131

elementi fisici, ma anche l’emergere di una causa che muove dal di fuori, separata dagli
elementi che si muovono.
Empedocle ipotizzò non una ma due cause, che chiamò, nel linguaggio immaginifico
che lo caratterizza, Amore (Philìa) e Contesa (Neikos). Sul piano fisico, esse determinano
rispettivamente l’unione e la separazione, uno con l’altro, dei quattro elementi, mediante
cui il cosmo viene all’essere. Sul piano della concezione religiosa, esse spiegano un dua-
lismo morale, per cui amore e contesa corrispondono alle cause del bene e del male. Nel-
la cosmologia empedoclea queste due componenti corrispondono alle opposte forze, cen-
trifuga e centripeta, che si esercitano nel movimento del vortice della materia, addotto per
spiegare la strutturazione dell’universo e la sua attuale conformazione attraverso il con-
vergere e il separarsi degli elementi. Empedocle sviluppava in tal senso in maniera perso-
nale spunti già presenti nel pensiero dei Milesi, e che avranno ulteriore evoluzione da
Anassagora a Democrito, e fino ad Epicuro. Le due forze, o cause, di Empedocle non pos-
sono però in alcun modo essere ridotte unicamente a forze che agiscono meccanicistica-
mente nell’universo, poiché ben più vasta è la loro dimensione; né tali forze sono esterne
agli elementi materiali, o trascendenti, ma agiscono dall’interno.
Ad Empedocle si attribuiscono due opere: una, dal titolo Purificazioni (Katharmoí);
l’altra dal titolo, più convenzionale, di Sulla natura (Peri Physeos o Physiká). Entrambi i
titoli sono attestati già a partire dal IV sec. a.C., e, cosa inusuale, le opere furono disponi-
bili nella loro interezza ancora nella tarda antichità; sembra che un esemplare del testo
delle Purificazioni esistesse ancora in età umanistica, nel XV secolo. In quest’opera, che
constava, pare, di circa duemila versi in due libri, un dio si rivolge in forma di epistola ai
mortali a lui cari, ed è Empedocle stesso che parla, presentandosi come dio, indovino e
guaritore; nella seconda opera, per circa tremila versi in tre libri, un maestro parla al suo
discepolo prediletto, Pausania, per il quale si invoca l’aiuto delle Muse. Grazie ad alcuni
testimoni che dichiarano la provenienza delle proprie citazioni dall’una o dall’altra opera,
è possibile assegnare ad entrambe, con un buon grado di attendibilità, anche i numerosi
frammenti restanti9.
Nei Katharmoí, intesi alla purificazione dell’anima, viene rivelata agli amici di Agri-
gento la divina legge della colpa e dell’espiazione, che fa riferimento alla storia di Apol-
lo, esiliato per punizione sulla terra. Scriveva Werner Jaeger (1953, trad. it. p. 209): « Nel
carme della natura [il Peri Physeos] si direbbe che ogni particolare s’inserisca nel quadro
di un’unica costruzione con la logica ferrea del vero filosofo. Ma non appena udiamo i
primi versi del canto lustrale [i Katharmoí], ci troviamo in un regno dominato da un mo-
do di pensare tutto diverso, cioè mistico-teologico ». E così suona quell’esordio:

Amici cari, che la grande rocca presso il biondo fiume di Agrigento


abitate sulla sommità della città, dediti ad opere buone,
porto fidato per gli ospiti, ignari di malvagità,
salve! Io tra voi come un dio immortale, non più come un mortale,
mi aggiro, fra tutti onorato, come a me si addice,
coronato di bende e di corone fiorite.
(Empedocle, fr. 112,1-6, da Diogene Laerzio e Clemente Alessandrino)

Secondo la legge di cui narra Empedocle (« c’è una sentenza della Necessità, un antico
decreto degli dèi, valido in eterno », fr. 115,1), un dio reso impuro dal sangue della vitti-

9
Per la ricostruzione delle opere di Empedocle e per il testo greco attingo ampiamente allo specifico capi-
tolo redatto per la nuova edizione dei Vorsokratiker di Jaap Mansfeld da O. Primavesi: con il quale sono in
debito per il privilegio di aver potuto consultare il lavoro prima della stampa. Cfr. Mansfeld-Primavesi, 2011.
132 La filosofia antica

ma viene esiliato sulla terra perché possa purificarsi partecipando all’incarnazione delle
anime dei mortali, anche sotto forma di pianta o animale. In questa sua condizione il dio
è chiamato Daimon, e tale il narratore dice di essere stato lui stesso:

« Anch’io sono uno di questi, esule scacciato dalla cerchia divina e vagante, / io che ho dato fi-
ducia a Contesa furente ».
(fr. 115,13s. = Ippolito, Confutazione di tutte le eresie VII 29,14ss.)

L’ultima incarnazione del Daimon, prima del ritorno alla comunità degli dèi, è quella
di indovino, poeta e guaritore (fr. 146-147 = Clemente Alessandrino, Stromata IV 150 +
122). È la condizione a cui il narratore dichiara di appartenere. Nella tradizione successi-
va, tali tratti peculiari furono spesso associati a Empedocle, sulla cui morte si tramanda-
no racconti favolosi ma di forte valore simbolico, ripresi anche in letteratura ad esempio
da Friedrich Hölderlin o da Bertolt Brecht: che vanno certo presi con molta cautela, ma
non del tutto sottovalutati. Si dice infatti che Empedocle, dopo aver eseguito la guarigio-
ne miracolosa di una donna (o, secondo un’altra versione, dopo aver posto rimedio ad
una pestilenza a Selinunte), sarebbe salito sull’Etna gettandosi nel cratere del vulcano,
per deificarsi. Gli antichi raccontavano però che si trattava di un inganno: lo avrebbe di-
mostrato un sandalo di bronzo, di quelli che il filosofo era solito indossare, e che era ri-
masto fuori del vulcano. Ma il simbolo del sandalo di bronzo non è casuale: esso è infatti,
secondo i rituali attestati dai papiri magici di epoca successiva, il segno che permette l’a-
pertura delle porte dell’aldilà da parte della dea Ecate (Kingsley, 1995, cap. 16-17; Ge-
melli, 2007-2010, II, p. 320). Quella che viene tramandata come la straordinaria morte di
Empedocle sarebbe dunque un rituale di katabasis, di discesa nell’aldilà, un tema presen-
te in numerose religioni e civiltà antiche. Questo, e così altre testimonianze più o meno
leggendarie su Empedocle, lo collocano su una linea di tradizione magico-religiosa che
non va trascurata: non la trascurava del resto un dissacratore come il sofista Gorgia, suo
contemporaneo e conterraneo (veniva da Leontini, vicino Siracusa), e forse scolaro, che
dichiarava di aver assistito personalmente alle imprese miracolose di Empedocle, della
cui teoria recupera alcuni tratti, come la concezione dei « pori » (cfr. p. 136). Non manca-
no, nei Katharmoí, consonanze pitagoriche, quando si chiede di porre fine ai sacrifici di
animali in onore degli dèi, usanza centrale nel mondo della religione greca, poiché nella
vittima potrebbe celarsi la reincarnazione di una persona cara o persino di un familiare.
Nel Peri Physeos ci si attenta al recupero e al superamento delle caratteristiche che
Parmenide aveva attribuito all’essere: esso non nasce e non muore, ma sempre è (v. fr. 12,
cit. a p. 135). Ciò deve però riconciliarsi con l’esistenza del mondo fenomenico quale noi
esperiamo ogni giorno, e questa riconciliazione ha luogo grazie ai quattro elementi e alle
due forze, di cui si è detto. Amore lega insieme gli elementi; Contesa scioglie i legami.
Gli elementi ridiventano allora liberi, e ciascuno di essi torna ad essere pienamente se
stesso, eterno e immutabile. L’azione degli elementi e delle forze che li determinano ca-
ratterizza il ciclo cosmico, la raffigurazione cioè che Empedocle propone dell’evoluzione
dell’universo e dell’eterno ritorno dell’identico, ricostruibile ora con maggior precisione
grazie alla combinazione delle testimonianze indirette (Simplicio in particolare) con il ri-
scoperto Papiro di Strasburgo.
Secondo tale concezione, l’esistenza e l’evoluzione del mondo sono caratterizzatate
dall’alternarsi di periodi in cui predomina la forza positiva, Amore, che unisce (quando
prevale la forza centrifuga del vortice, che si espande e spinge Contesa verso la periferia),
e di periodi in cui a prevalere è invece la forza che separa, Contesa (quando prevale la di-
rezione centripeta, che dall’esterno tende a costringere Amore nel punto centrale della
sfera). Le due forze sono sempre attive, Amore all’interno, Contesa all’esterno, in un uni-
I presocratici 133

verso tendenzialmente sferico, la cui forma però tende ad allungarsi e appiattirsi all’alter-
narsi del predominio delle due forze. Il percorso si compie quando si raggiunge la condi-
zione di divina compiutezza del cosmo, uno stato di quiete ed equilibrio, in cui i quattro
elementi sono equamente mescolati a dar vita al dio sferico, che Empedocle chiama, con
efficace neologismo, Sfero (per l’uso del maschile Sphairos in luogo del corrente femmi-
nile Sphaira, cfr. pp. 99, 145):

Ma dappertutto uguale <a se stesso> e assolutamente privo di limiti


è lo Sfero circolare, che gode dell’immobile solitudine che tutto l’avvolge.
Dal suo dorso infatti non si slanciano due braccia,
né ha piedi, né veloci ginocchia, né membra per la generazione,
ma era Sfero e <da ogni parte> uguale a se stesso.
(fr. 28 + 29 = Stobeo, I 15, 2a-b + Ippolito, Confutazione VII 29,12)

Presenta indubbie somiglianze con l’uovo originario dell’orfismo, ma risuona con evi-
denza delle istanza antiantropomorfe di Senofane, al quale appare rifarsi direttamente:
ancor più nella versione tramandata da Ammonio (Sull’interpretazione, p. 249,1-10 = fr.
134), che aggiunge alla fine i versi: « ma è soltanto mente (φρήν) sacra e ineffabile, che
con i suoi pensieri veloci si slancia per tutto il cosmo ». Viene anche chiamato Apollo
(stando ad Ammonio stesso, nelle righe introduttive), e coincide con il dio dei Katharmoí.
Il predominare invece di Contesa riconduce il tutto a una condizione di movimento sem-
pre più veloce e persino violento, un movimento circolare, il vortice, nel quale i quattro
elementi tornano a separarsi e a recuperare ciascuno la sua purezza originaria. I quattro
elementi sono masse sferiche concentriche, più all’interno la terra, circondata progressi-
vamente dalle sfere di acqua, aria, fuoco. Anche le masse dei quattro elementi, come la
loro mescolanza nello Sfero, corrispondono a delle divinità, rispettivamente Era, Nesti
(Persefone), Ade, Zeus (cfr. fr. 6), e questo non è marginale. Essi non possono essere in-
terpretati soltanto come elementi materiali, ma vanno restituiti a quella dimensione reli-
giosa che per Empedocle è fondamentale. Le cose dunque, tutte le cose, costituite dalla
mescolanza delle quattro radici, contengono in sé il divino, sono manifestazioni delle di-
vinità sempiterne, che svolgono un ruolo, sotto diversi nomi, nella cosmogonia, nella zo-
ologia, nella biologia.
La combinazione dei frammenti 17, 20, 21 (da Simplicio) e 76 (da Plutarco), confer-
mata e integrata dal Papiro di Strasburgo (1665-66 a-c: cfr. Primavesi, 2008 = fr. 66 Ge-
melli), restituisce i vv. 232-330 del Peri Physeos, una lunga descrizione del cosmo empe-
docleo che dà anche un’idea del suo argomentare:

Farò un doppio discorso: una volta un solo tutto crebbe come unico essere
da più cose, un’altra volta di nuovo si divise, per diventare da una molte.
Doppia è la generazione dei mortali, doppia la loro scomparsa:
la prima è generata e distrutta dall’unione di tutte le cose,
la seconda dopo essersi prodotta si dissipa quando esse di nuovo si separano.
E queste cose non cessano di mutare continuamente,
ora ricongiungendosi tutte in uno, grazie all’Amore,
ora portate in direzioni diverse dall’inimicizia della Contesa.
Così come ha imparato a diventare da più cose uno,
e come di nuovo, dissolvendosi l’uno, si realizzano più cose,
così esse divengono, e la durata della loro vita non è stabile.
E come non cessano di mutare continuamente,
così sempre sono immobili nel ciclo.
(fr. 17,1-20 = Physika 232-243)
134 La filosofia antica

Poco dopo prosegue alla maniera di Parmenide, offrendo la propria soluzione:

Ma tu ascolta l’andamento non ingannevole del mio discorso.


Tutte queste cose sono uguali e della stessa età,
ma ciascuna ha il suo diverso pregio, ognuna il suo carattere,
e a vicenda predominano nel volgere del tempo.
E oltre ad esse nessuna cosa si aggiunge o cessa di esistere;
se infatti si distruggessero continuamente, non sarebbero più.
E che cosa potrebbe accrescere questo tutto, e venuto da dove?
E dove esso potrebbe distruggersi, dal momento che nulla è vuoto di loro?
No, esse sono quelle che sono, e corrono le une attraverso le altre,
diventando ora l’una ora l’altra, sempre eternamente uguali.
(fr. 17,25-34 = Physika 257-266)

Secondo il testo del Papiro di Strasburgo (prosieguo del fr. 66 Prim. = fr. 27 Gemelli), che
presenta però ai vv. 267s. alcune lacune ed è di incerta ricostruzione, Empedocle prosegue:

[Nell’Amore] (gli elementi) si uniscono in un solo cosmo,


[nella Contesa] si separano, per diventare da uno molti,
essi, dai quali tutto è costituito, ciò che era, ciò che è e ciò che sarà in seguito:
e ne scaturirono alberi e uomini e donne,
animali e uccelli e i pesci nutriti dall’acqua
e gli dèi dalla lunga vita ricchissimi di onori,
e mai cessano di erompere continuamente,
in vortici fitti.
(Physika 267-275 = Pap. Strasb. 1665-66 a (i) 6-9 + a (ii) 1-4)

È, questa, la prima formulazione della teoria dei quattro elementi, del continuo loro
mescolarsi nel dare generazione a ogni cosa. Una continua vicenda ciclica di unione e se-
parazione, di trasformazione senza sosta, al cui fondamento è però l’eterna immutabilità
delle radici o elementi. La realtà contiene dunque in sé il continuo divenire e l’eterna im-
mobilità:

E così, come l’uno ha appreso a nascere da più cose,


e di nuovo poi, dividendosi l’uno, a diventare più cose,
in tal modo essi divengono, e la loro vita non è durevole:
e come non cessano mai di mutare continuamente,
così restano sempre immobili nel ciclo.
(fr. 26,8-12 = Simplicio, Commento alla Fisica di Aristotele p. 33,4)

Mutare e restare immobili (ἀκίνητοι: immobili nello spazio e nella sostanza, cfr. p.
120) sono nient’altro che due facce della stessa medaglia. Empedocle accoglie e rielabora
(con straordinario acume solo velato da un linguaggio immaginifico che rende a volte
inaccessibile al lettore moderno la profondità del pensiero) i dettami di Parmenide e quel-
li di Eraclito, gli spunti del pitagorismo e dell’orfismo come della tradizione misterica:
egli si fa punto di confluenza di correnti diverse, formulando su quelle basi un pensiero di
grande originalità.
Nel ciclo cosmico, la durata delle fasi di passaggio, in cui prevalgono alternatamente
Amore e Contesa, è di seimila anni ciascuna; quattromila anni dura invece ciascuna delle
altre due fasi, quella dello Sfero e quella del vortice, cioè dei quattro elementi separati e
puri, sottratti alle dinamiche del divenire. Le cose mortali sono risultato dell’unione dei
I presocratici 135

diversi elementi tra loro; di queste, tuttavia, non si può dire che sono (l’eredità parmeni-
dea si fa evidente) (cfr. fr. 17 cit., vv. 25-34): l’attributo « è » pertiene esclusivamente ai
quattro elementi (chiamati Daimones, come Daimon era il dio in esilio dei Katharmoí)
presi singolarmente, non mescolati; o meglio, delle cose mortali si può dire che sono solo
in quanto sono in esse i quattro elementi. Tanto lo Sfero quanto ciascun singolo elemento
presentano le caratteristiche fondamentali proprie dell’uno eleatico, compensate dalla vi-
sione pitagorica del reale come armonia di opposti. Ma Empedocle ha una forte e perso-
nalissima visione, e non può essere semplicemente rappresentato come erede dell’una o
dell’altra tradizione o come polemista. Delle linee di spicco che lo precedettero riprende
il filo, e a volte, con sottile distinguo e fine abilità linguistica, le mette in crisi alludendo
ad esse in modo esplicito, come accade con Parmenide. Si confrontino a titolo di esempio
i due versi: Parmenide, fr. 8,52 (nel passare alla sezione sulla doxa): « impara ascoltando
l’ordine ingannevole (ἀπατηλόν) delle mie parole »; Empedocle, fr. 17,26: « tu ascolta
l’andamento non ingannevole (οὐκ ἀπατηλόν) del mio discorso ».
Il riscontro è indubbio, e conferma un dibattito in pieno svolgimento, un fecondo
scambio intellettuale basato sulla circolazione di idee e opere. Più spesso le parole di Em-
pedocle riecheggiano in positivo, talvolta anche nell’andamento linguistico e argomenta-
tivo, quelle di Parmenide: ad esempio i frammenti 11 e 12 (= Plutarco, Contro Colote 12,
p. 1113C e Ps. Aristotele, De Melisso Xenophane Gorgia 975b1),

Pazzi, che non hanno pensieri che giungono lontano,


e si aspettano che qualcosa che prima non è venga all’essere,
o che qualcosa muoia e si distrugga del tutto

poiché è impossibile che qualcosa nasca da ciò che non è,


ed è cosa impossibile da realizzare e mai udita che ciò che è si distrugga;
sempre infatti sarà là, dove uno sempre si poggi.

Il cui sviluppo è nel fr. 8, che il testimone Plutarco (adv. Col. 10, p. 1110F) dice pro-
venire dal primo libro Peri Physeos:

Ma un’altra cosa ti dirò: non vi è nascita di nessuna delle cose


mortali, né fine alcuna di morte funesta,
ma solo c’è mescolanza e separazione di cose mescolate,
ma il nome di nascita, per queste cose, è usato dagli uomini.

Ognuno dei passaggi citati ha puntuale riscontro in Parmenide, persino il riferimento ai


vuoti nomi usati dagli uomini: nuova è invece la finale introduzione del concetto di mesco-
lanza, che vuole risolvere l’aporia da Parmenide denunciata. Non vi è nascita né morte, ma
solo trasformazione di sostanze sempre identiche a se stesse. Era ormai tempo di abban-
donare la via del monismo milesio, che aveva portato alla negazione di ogni cosmogonia
e di ogni fenomeno sensibile, e di introdurre il nuovo corso: « Ascolta innanzitutto le quat-
tro radici di tutte le cose ... » (fr. 6,1 = Sesto Empirico, Adv. math. X 315 e Aezio I 3,20).
Empedocle sviluppò anche una propria teoria biologica riguardante la generazione e la
conformazione degli esseri viventi, e questo egli fece in stretta relazione con la concezio-
ne del ciclo cosmico. L’intera concezione di Empedocle è vitalistica, vedendo egli in tut-
to ciò che è corporeo una intrinseca forza vitale, una animazione; così anche la sua dottri-
na degli organismi viventi. Nei periodi di progressiva affermazione di Amore e del suo
indebolimento, si vanno formando singoli organi del corpo di uomini e animali, singole
membra, teste senza collo, braccia senza spalle, occhi senza fronti:
136 La filosofia antica

Ad essa (la terra) spuntarono molte tempie senza collo


e prive di spalle erravano braccia nude
e occhi solitari vagavano senza fronti.
Ma quando più si andava mescolando demone a demone,
queste membra si accordavano insieme, come ciascuna s’incontrava,
e molte altre, oltre queste, continuamente nascevano.
(fr. 57 e 58 = Simplicio, Commento al De caelo di Aristotele p. 586,29 e 587,18)

In una fase subito successiva tali membra si uniscono insieme casualmente, a formare
esseri mostruosi, uomini a due teste, buoi con teste di uomini, esseri misti maschio/femmi-
na; la progressiva mescolanza degli elementi operata sulla spinta di Amore realizza infine
la condizione dello Sfero. Con il successivo disgregarsi della mescolanza degli elementi e
dunque dello Sfero, dovuta al prevalere di Contesa, il fuoco si allontana dalla terra e porta
alla superficie degli esseri viventi uniformi, omogenei, non articolati (terzo stadio), fino a
raggiungere il quarto e ultimo stadio, quello in cui noi ci troviamo a vivere, caratterizzato
dall’aumentare della forza di separazione, dalla differenziazione delle creature per sessi,
dal prevalere in ciascuna di esse di una sola delle radici, o elementi (ad esempio il preva-
lere dell’acqua per i pesci) (Pap. Strasb. 1665-66, d 11-16 = fr. 87 Prim. = fr. 94 Gemelli).
Nell’interpretazione empedoclea dell’universo e del vivente, la mescolanza delle quat-
tro radici avviene secondo precise proporzioni, ed è in questo modo che ogni cosa riceve
la propria individualità. Le ossa sono composte da due parti di acqua, due parti di terra e
quattro di fuoco; mentre il sangue, sede del pensiero e dell’attività razionale, puro, è in
perfetto equilibrio e in esso le quattro radici sono in un rapporto di uno a uno. La teoria
del sangue come sede del pensiero eserciterà grande influenza sulle dottrine successive
per secoli, mettendo in ombra quella, ben più fondata stando ai canoni moderni, secondo
la quale il centro di elaborazione razionale era da vedere nel cervello (Alcmeone, Ippo-
crate). Per Empedocle non esiste più neppure il problema, tutto eleatico, della inattendi-
bilità della sensazione come strumento di conoscenza: essendo l’uomo della stessa natura
del mondo, coestensivo ad esso, parte di un tutto omogeneo, animato dalle stesse radici e
condizionato dalle stesse forze, esso è il mondo, e dunque a rigore non ha neppure biso-
gno di conoscerlo come se fosse qualcosa di esterno – il che sposta i termini del problema
gnoseologico, senza tuttavia superarlo. Essendone parte, riflette a livello microcosmico il
macrocosmo universale. La conoscenza di ciò che gli è esterno avviene attraverso effluvi
di elementi (fr. 89, in Plutarco, Questioni naturali 19, p. 916D: « vi sono effluvi di tutte le
cose che nascono », con il commento di Plutarco: « non soltanto dagli animali e neppure
soltanto dalle piante, dalla terra e dal mare, ma anche dalle pietre, dal bronzo e dal ferro
sgorgano continuamente molte correnti »); questi seguono il principio dell’attrazione del
simile con il simile (cfr. Teofrasto, Sulla sensazione I 2 = A 86): ogni corpo emette efflu-
vi che raggiungono il soggetto senziente attraverso dei « pori », dei canali (poroi), che
possono avere dimensione diversa. Ne abbiamo un esempio dettagliato a proposito della
vista, nel resoconto che ne fa Teofrasto:

Riguardo a tutte le sensazioni, Empedocle [...] sostiene che la sensazione avviene mediante l’a-
dattamento a quei pori (canali) che sono propri di ciascuna sensazione [...]. Egli cerca poi di di-
re anche quale sia la natura della vista; e afferma che il suo interno è fuoco e la sua parte esterna
terra e aria, attraverso le quali il fuoco, essendo sottile, passa, come la luce nelle lanterne. I po-
ri del fuoco e dell’acqua sono alternati, e noi possiamo distinguere il bianco mediante quelli del
fuoco e il nero mediante quelli dell’acqua: vi è infatti un adattamento di ciascuna ai rispettivi
pori. E anche i colori sono portati alla vista mediante questo effluvio.
(Teofrasto, Sulla sensazione 7-8 = A 86, parz.)
I presocratici 137

La spiegazione vuole essere dettagliata: l’occhio contiene al suo interno fuoco (respon-
sabile della percezione del chiaro) e acqua (responsabile della percezione dello scuro), ed
è avvolto da membrane, consistenti di aria e terra e dotate di canali (πόροι). Dall’oggetto
percepito si dipartono degli effluvi di fuoco e acqua, che si ricongiungono con il corrispon-
dente elemento all’interno dell’occhio, secondo il principio dell’attrazione del simile con
il simile, fino a raggiungere l’equilibrio tra la concentrazione di fuoco o acqua all’esterno
e all’interno. Il processo della visione dipende dal passaggio di una quantità maggiore
dell’elemento che, all’interno dell’occhio, è meno presente, dunque gli esseri viventi che,
come l’uomo, hanno all’interno più acqua che fuoco, vedono meglio alla luce che al buio.
Pur dedicando specifica attenzione ai processi della percezione, Empedocle è consape-
vole dei limiti della conoscenza sensibile. Essa non è strumento pienamente attendibile,
come non lo è la parte razionale (nous) dell’uomo: di entrambi riconosce egli stesso i li-
miti insuperabili, già individuati da Alcmeone ed Eraclito, oltre che dagli eleati:

Deboli sono i poteri diffusi per le parti del corpo,


molti invece i mali che ottundono i pensieri.
Gli uomini vedono, nel loro vivere, solo una piccola parte della vita,
poi destinati a rapida morte si dileguano volando via come fumo,
convinti solo di ciò in cui ciascuno a caso si imbatte,
e sospinti in ogni direzione si vantano di scoprire il tutto.
(fr. 2,1-6 = Sesto Empirico, Adv. math. VII 122-124)

Seppure insufficienti, i sensi svolgono tuttavia un ruolo, e tutti hanno lo stesso peso
nell’aiutare l’uomo nel suo percorso conoscitivo:

Orsù dunque, osserva con ogni tuo potere come ogni cosa è chiara,
senza accordare più fiducia alla vista che all’udito
o all’orecchio risonante più che alla chiara testimonianza del gusto
e non negare fede a nessuno degli altri organi, dovunque siano vie per conoscere,
ma considera ogni cosa per quanto è chiara.
(fr. 3,9-13 = Sesto Empirico, Adv. math. VII 124)

La dottrina dei quattro elementi avrà un’influenza enorme, nonostante il rifiuto opposto
ad Empedocle dall’incipiente razionalismo di un Anassagora o di un Ippocrate, così come
influente sarà la visione organicistica dell’universo. I quattro elementi si rifletteranno nel-
la capitale dottrina medica greca (avviata da Ippocrate e perfezionata nel II secolo d.C. da
Galeno, e rimasta centrale fino al Novecento) dei quattro umori che caratterizzano il corpo
umano, i suoi equilibri e squilibri. Non sarà un caso, che Empedocle fosse anche attivo co-
me medico o almeno come iatromante, e che a lui si attribuisca la fondazione della scuola
italica di medicina, di cui rappresentanti furono ad esempio Acrone e Filistione. Né sarà
casuale che Empedocle sia menzionato per nome nel corpus di opere mediche ricondotto
al nome di Ippocrate: contro di lui si scaglia l’autore della fondamentale opera L’antica
medicina, nel capitolo 20, il più studiato. È la prima menzione del nome di Empedocle,
collocato tra quei medici e sapienti orientati piuttosto alla « filosofia » che al metodo scien-
tifico, coloro che pretendevano di spiegare che cos’è l’uomo, come ha avuto origine, e da
che cosa è costituito:

Dicono certi medici e sapienti (sophistài) che non sarebbe possibile conoscere la medicina per
chi non sa ‘che cosa è l’uomo’, e che questo deve comprendere chi intende curare correttamen-
te gli uomini. Ma il loro discorso ricade così nella filosofia, com’è il caso di Empedocle e di al-
tri, che hanno scritto sulla natura (peri physios), descrivendo dal principio che cos’è l’uomo e
138 La filosofia antica

come si è originato e di quali elementi è costituito. Dal canto mio io penso che quanto da questi
sapienti o medici è stato detto o scritto sulla natura, attiene più alla pittura che alla medicina.
(Ippocrate, Antica medicina 20)

Il quadro tratteggiato da Empedocle è il più completo di cui disponiamo per il pensiero


presocratico, e dà un’idea illuminante di come potesse presentarsi l’opera di un pensatore
del V secolo impregnato di poesia, mito, filosofia, religione, scienza. Egli propone una
potente interpretazione complessiva che intende spiegare l’intera realtà, superando le di-
stinzioni tra l’uomo e il mondo esterno, e tra il mondo e il divino; e fa questo prendendo
spunto dall’osservazione diretta del quotidiano – dal battito del cuore al meccanismo del-
la visione e della respirazione, dal fenomeno dell’evaporazione al travaso dei liquidi alla
forza centifuga – e ritraendolo con un linguaggio immaginifico. Le due opere di Empedo-
cle, Purificazioni e Sulla natura, rispondono alla duplice prospettiva della sua costruzio-
ne, e sono strettamente interrelate. Ma non sempre questo è apparso con chiarezza, come
ormai si deve ammettere anche a seguito delle nuove scoperte papiracee: studiosi di pri-
mo piano hanno visto nelle due opere di Empedocle due mondi separati e non comunican-
ti. Essi sono in realtà i due piani dai quali si possono osservare e descrivere le forze che
agiscono nel mondo, viste da una parte come divinità, dall’altra come elementi materiali;
sempre però in un percorso ciclico di generazione e corruzione, in vista di uno stato idea-
le di quiete da raggiungersi periodicamente solo al termine di lunghi patimenti, rappre-
sentati da un lato dalla caduta degli dèi, dal peccato, dall’errore, dall’altro dal contrasto,
dalla divisione, in attesa di tornare all’uno, all’equilibrio, allo Sfero.


6.7 L’ultimo spostamento: Atene

6.7.1 Anassagora
Racconta Platone che al giovane Socrate un giorno, passeggiando per Atene, capitò di as-
sistere alla lettura pubblica di un testo molto particolare, contenente teorie rivoluzionarie,
che lo affascinò a tal punto da fargli pensare di aver trovato la soluzione ai problemi teo-
retici che da tempo lo affliggevano. Racconta Socrate:

Avendo udito una volta un tale che, a quanto diceva, stava leggendo un libro di Anassagora, e
affermava che è l’intelletto l’ordinatore e la causa di tutte le cose, mi rallegrai di tale causa e mi
parve che in certo modo stesse bene che causa di tutte le cose fosse l’intelletto e pensai che, se
la cosa era in questi termini, l’intelletto, ordinando tutte le cose, disponesse ciascuna di esse nel
modo migliore [...]. Ragionando così, credevo tutto contento di aver trovato in Anassagora il
maestro della causa degli esseri secondo il mio intendimento, e che egli mi avrebbe detto in pri-
mo luogo se la terra è piatta o rotonda, e, dopo avermelo detto, me ne avrebbe spiegato la causa
e la necessità, indicandomi il meglio e che è bene per essa essere così [...]. Non avrei mai pensa-
to in realtà che lui, dicendo che tutte queste cose sono ordinate dall’intelletto, aggiungesse ad
esse un’altra causa se non questa, che cioè il meglio per loro è di stare come stanno [...]. E non
avrei ceduto queste speranze a nessun prezzo, ma presi quei libri con somma cura e quanto più
presto potei, li lessi per imparare prima possibile quel che è il meglio e il peggio. Ed ecco, amico
mio, che da quella meravigliosa speranza crollai trascinato giù, perché andando avanti nella let-
tura vedevo che il mio eroe non si serviva affatto dell’intelletto e non gli attribuiva nessuna cau-
sa nell’ordinamento delle cose e ricorreva all’aria, all’etere, all’acqua e a molte altre cose strane.
(Platone, Fedone 97b ss. = A 47)
I presocratici 139

Anassagora, immigrato dalla Ionia, apparve ai suoi contemporanei come un innovato-


re: al punto da suscitare le speranze di chi si aspettava da lui quel mutamento radicale che
sarebbe stato di fatto introdotto soltanto da Platone. Il radicale mutamento di prospettiva
che Platone, attraverso Socrate, gli attribuisce consiste nell’aver postulato nel mondo una
causa esterna, di natura non materiale: il nous (« intelletto », è la resa più fedele sebbene
insoddisfacente). Socrate dice tuttavia di essere rimasto profondamente deluso: nonostan-
te Anassagora avesse intravisto la giusta via, non ne aveva tratte le dovute conseguenze,
e invece di identificare quella causa esterna da lui chiamata nous con il bene, era rimasto
fermo a un sistema di tipo meccanicistico in cui le cause materiali (« aria, etere, acqua e
molte altre cose ») continuavano a svolgere il loro ruolo. Anche Aristotele, pure più sen-
sibile alle istanze di un approccio empirico, non tollera la presenza in Anassagora del
nous se il sistema deve al fondo restare meccanicistico:

Anassagora si serve dell’intelletto come di un deus ex machina per rendere conto della costru-
zione del mondo, e quando non sa spiegare per quale motivo una cosa è tale per necessità, allo-
ra lo fa intervenire, mentre per gli altri casi indica come causa tutto fuorché l’intelletto.
(Aristotele, Metafisica I 4, 985a18 = A 47)

Il campo d’azione del nous è limitato, e richiede di essere integrato con le cause mate-
riali. Eudemo, allievo di Aristotele, fornisce un’ulteriore precisazione:

Anassagora, trascurando l’intelletto, come dice Eudemo, mette insieme le cose ricorrendo an-
che alla spontaneità (αὐτοματίζων).
(Simplicio, Commento alla Fisica di Aristotele p. 327,26 = A 47)

Il principio della spontaneità (automaton), tipicamente aristotelico, esprime qui la co-


esistenza di un agente intrinseco alla realtà materiale che opera laddove non è richiesto
l’intervento del nous, che risulta per costituzione diverso rispetto a tutto ciò che esiste.
Ad Anassagora, erede della tradizione milesia di Anassimandro e Anassimene (con il
quale ultimo condivideva ad esempio l’idea che la Terra avesse forma piatta sostenuta
dall’aria), si deve l’introduzione della « filosofia » ad Atene, e lo spostamento dell’asse
dell’attività intellettuale: quale decisiva importanza questo abbia avuto non è necessario
sottolineare. Nasce a Clazomene, in Ionia, non lontano dalla Colofone di Senofane e dal-
la Efeso di Eraclito, tra il 500 e il 497; si trasferisce ad Atene (sotto il cui controllo Cla-
zomene si trovò a lungo nel V sec.) ed entra a far parte della cerchia di Pericle, di cui fu
amico e maestro, una cerchia di intellettuali, artisti, politici che diede una impronta deci-
siva al massimo centro della grecità dalla metà del secolo in avanti. È l’epoca delle con-
quiste artistiche di Fidia e del Partenone, della narrazione storica di Tucidide – che con-
tribuirà non poco al mito di Pericle –, della tragedia di Sofocle e di Euripide, della sofisti-
ca; le coordinate in cui si forma Socrate, e con le quali interagiscono le conquiste della
scienza medica di Ippocrate e le sue riflessioni sul metodo scientifico, che qui e ora trova
la propria consapevole definizione.
Anassagora è attore tra i principali di questo passaggio epocale. Egli ebbe un peso de-
terminante non solo per la filosofia, ma anche per l’evoluzione politica della città. E ne
pagò le conseguenze. La spregiudicatezza politica di Pericle, uno degli uomini più in vi-
sta dell’Atene del tempo, salito in quegli anni al potere, rifletteva il progressismo anassa-
goreo: a pieno titolo si può ora parlare di razionalismo, di un atteggiamento che è stato
detto illuministico e che portò Anassagora da un lato a condividere i più avanzati progres-
si della scienza del tempo, quella di Ippocrate; dall’altro, in tribunale. Come Socrate, in-
fatti, egli fu offerto in sacrificio alla potente cerchia dei conservatori, che fu in Atene
140 La filosofia antica

sempre molto influente e il cui predominio fu interrotto proprio e solo dall’età periclea,
per poi restaurarsi alla fine del V secolo con una feroce oligarchia di cui cadde vittima,
nel 399, Socrate. A differenza di Socrate, Anassagora scampò alla condanna a morte gra-
zie all’intervento di Pericle (siamo negli anni immediatamente precedenti la sua morte,
avvenuta nel 429); costretto all’esilio, finì i suoi giorni nella ionica Lampsaco, dove morì
poco dopo, nel 428. Nel processo, a lui intentato in realtà anche per colpire Pericle, egli
venne accusato di empietà, per aver affermato che il sole non è altro che una pietra lumi-
nosa, e la luna fatta di terra (lo ricorda anche Platone nell’Apologia, 26d) e priva di luce
propria, debitrice al sole della sua luminosità (Plutarco, De facie in orbe lunae 229B).
Negava dunque, Anassagora, il carattere divino dei corpi celesti e con esso la religione
tradizionale, andando con ciò contro il decreto formulato dall’indovino e interprete di
oracoli Diopite, presumibilmente quello stesso personaggio che nel 399 andava diffon-
dendo a Sparta oracoli contro la controversa ascesa al trono di Agesilao II, impegnandosi
a fare uso di un sapere oracolare e religioso per condizionare le vicende politiche. Il de-
creto fu emanato dall’assemblea del popolo nel 438/7, e prevedeva che

devono essere condotti in tribunale coloro che non credono al divino o che nel loro insegna-
mento diffondono teorie sui corpi celesti.
(Plutarco, Pericle 32,1 = A 17)

Su questa base poggiava la condanna di Anassagora. Annota Plutarco: « Attraverso


Anassagora, rivolgeva i suoi sospetti contro Pericle ». Ma il decreto ci informa anche – ed
è la fonte più antica di cui disponiamo in proposito – di una vera e propria attività di inse-
gnamento da parte dei filosofi, e attesta i contrasti sempre più acuti tra il trionfante razio-
nalismo e il ruolo delle cerchie conservatrici degli indovini e degli autoproclamatisi « sa-
pienti », ben organizzate e influenti. A simboleggiare la nuova quanto pericolosa atmosfe-
ra è un altro seguace di Anassagora, il tragediografo Euripide, che giunge a scrivere un
Inno a Terra e Etere (fr. 839 K.) in cui si ha chiaro il risuonare delle teorie cosmogoniche
contemporanee (nell’esordio della sua opera, fr. 1, Anassagora scriveva che « su tutte le
cose predominavano aria ed etere »), che prendono il posto delle più tradizionali interpre-
tazioni, e che Lucrezio tradurrà nel secondo libro del De rerum natura:

Si muove all’indietro, / quel che dalla terra nasce ridiventa terra, / quel che scaturisce dalla stir-
pe dell’etere / di nuovo torna alla volta del cielo; / nulla muore di ciò ch’è nato, / ma separando-
si una cosa dall’altra / acquistano forma diversa.
(Euripide, fr. 839,9-14 Kannicht)

Lo stesso vale per le invocazioni alla Necessità, Ananke, novella musa del razionali-
smo (democriteo in particolare, cfr. fr. 289), che si sostituisce agli dèi tradizionali:

Chiunque dei mortali ceda di fronte ad Ananke / è per noi saggio e conosce le cose divine.
(Euripide, fr. 965,5-6 Kannicht)

Oltre ad Anassagora, un altro membro della cerchia di Pericle, esponente di spicco


della nuova linea, era lo scultore Fidia, artista sommo e sovrintendente alle opere d’arte
pubbliche: anch’egli condotto in tribunale, accusato di corruzione per essersi appropriato
dell’oro e dell’avorio destinato alla statua di Atena ospitata nel Partenone, si narra che la
fece smontare per poter pesare i due metalli e dimostrare la sua innocenza; ma, dato il ca-
rattere politico del processo, fu comunque condannato per empietà per aver raffigurato se
stesso e Pericle sullo scudo della statua. Lo stesso si narra del sofista Protagora, a sua vol-
I presocratici 141

ta membro della cerchia periclea e a sua volta, sembra, accusato di empietà e cacciato da
Atene. Sono vicende che con chiarezza dicono quale fosse l’impatto dei nuovi modi del
pensare e dell’agire politico, quali tensioni animassero la città e la vita quotidiana.
Il meccanicismo anassagoreo, che non prevedeva quel finalismo che sia Platone che
Aristotele auspicavano, riconduceva ogni evento alla sua causa meccanica, naturale. Lo
esemplifica il caso del meteorite caduto su Egospotami e venerato per il presunto caratte-
re divino, che Anassagora invece insistette a spiegare come dovuto a un terremoto o a una
frana su un corpo celeste e al conseguente distacco di un masso (Plutarco, Lisandro 12). Ma
soprattutto indicativa del nuovo clima e del nuovo metodo dell’indagine – un’indagine che
acquista via via carattere di empirismo scientifico – è la vicenda riportata ancora da Plutar-
co (che sia o meno storicamente attendibile ha qui scarso rilievo; essa resta comunque mol-
to significativa dell’atmosfera del tempo), di una dimostrazione pubblica di fronte a Pericle,
in cui Anassagora si contrappone ad un famoso indovino e per spiegare un fenomeno incon-
sueto ricorre alla più empirica e, dato il contesto, dissacratoria delle osservazioni:

Si racconta che una volta fu portata a Pericle dalla campagna la testa di un montone con un cor-
no solo, e che l’indovino Lampone, non appena vide il corno forte e robusto che spuntava dal
centro della fronte disse che, essendoci in città due partiti, quello di Tucidide e quello di Peri-
cle, il potere sarebbe passato nelle mani di uno solo, quello al quale era capitato il presagio. Ma
Anassagora, aperto il cranio dell’animale, mostrò come il cervello non riempiva la sua sede na-
turale, bensì da tutta la cavità s’era raccolto aguzzo come un uovo in quel luogo da dove partiva
la radice del corno.
(Plutarco, Pericle 6,2 = A 16)

Di nuovo è attestata la contrapposizione con il tradizionale sapere degli indovini, con-


tro il quale combatte, in parallelo, anche la scienza di Ippocrate nell’elaborare un coeren-
te metodo gnoseologico. La portata della dimostrazione attribuita ad Anassagora e del
suo ruolo nella scienza del tempo è notevolissima, e si chiarisce confrontando il testo di
una delle più importanti opere del Corpus Hippocraticum, La malattia sacra, dedicata a
desacralizzare e spiegare empiricamente la più inquietante delle malattie, l’epilessia, di
cui era assicurata l’origine divina. Qui si trova l’affermazione della centralità del cervello
nella elaborazione delle sensazioni e nella facoltà di comprendere dell’uomo (cfr. pp.
386ss.). Il parallelo con il testo di Anassagora è palmare, il filosofo non fa che mettere il
pratica quel che il medico raccomanda:

Nel bestiame che viene attaccato da questa malattia, e soprattutto nelle capre [...] se apri la testa
e la osservi, troverai che il cervello è molle, pieno di liquido e che ha cattivo odore.
(Ippocrate, La malattia sacra 11 = XIV Jones)

Anassagora, Ippocrate, Tucidide, procedono in parallelo, contribuendo ciascuno nel


suo campo alla configurazione del nuovo metodo d’indagine. È nell’ambito della gnoseo-
logia, della fiducia nelle capacità dell’uomo e della distinzione tra sfera umana e divina
che Anassagora il φυσικότατος, « fisicissimo », dà uno dei suoi contributi più cospicui: la
conoscenza sensibile, utile ma insufficiente a distinguere appieno verità e realtà, si fa
punto di partenza per un processo induttivo-deduttivo che mira non solo a conoscere la
realtà fisica, ma a intervenire su di essa. « A causa della opacità dei sensi non siamo in
grado di giudicare il vero » (fr. 21 = Sesto Empirico, Adv. math. VII 90); ma per chi sap-
pia far uso di tutti gli strumenti disponibili, e in particolare di quelli dei processi inferen-
ziali (il tekmairesthai), che Alcmeone aveva rivendicato come distintivi dell’uomo rispet-
to alla divinità,
142 La filosofia antica

ciò che appare (τὰ φαινόμενα) è uno sguardo su ciò che non si vede.
(fr. 21a = Sesto Empirico, Adv. math. VII 140)

Si ha qui la formalizzazione del definitivo passaggio dal pensiero analogico al pensie-


ro inferenziale, un’istanza che troverà in tutta la cultura greca risonanze continue. Ma
l’uomo è anche colui che sul mondo è in grado di intervenire fattivamente, e non solo di
osservarlo. Egli dispone delle mani, che lo rendono superiore agli altri animali: per Anas-
sagora, « l’uomo è il più sapiente degli esseri viventi perché ha le mani » (Aristotele, Sul-
le parti degli animali IV 10, 687a7; Galeno, Sull’utilità delle parti III 5 = A 102), una af-
fermazione che Aristotele e Galeno rifiuteranno proprio per il suo radicale empirismo, e
che dunque capovolgeranno dicendo che no, al contrario, si dovrà dire piuttosto che l’uo-
mo ha le mani in quanto è il più sapiente, perché la natura dà ogni cosa a chi può usarla.
La teleologia aristotelica si sentiva messa in crisi da una concezione come quella anassa-
gorea, che dava all’uomo il suo primato solo in funzione della capacità di intervenire con-
cretamente sul reale. Una capacità fatta di « esperienza, memoria, sapere, techne » (fr. 21b
= Plutarco, De fortuna Romanorum 3), in una progressione che non può essere casuale e
mette al sommo la techne, l’ars dei latini, termine che servirà a definire ad esempio la me-
dicina, ars medica. Techne è più che « tecnica » ed è diverso da « scienza », è capacità che
dispone di conoscenze teoriche e metodologiche tali da poter operare sul reale, di partire
dai singoli dati dell’esperienza, gli ἔκαστα, e di tornare ad essi dopo il necessario proces-
so di esame razionale. La progressione anassagorea della conoscenza, che Plutarco tra-
manda in modo così esangue, ritrova vita nel Fedone di Platone, che la riconduce non ca-
sualmente alle teorie sul cervello di contro alle precedenti ipotesi, incentrate sul ruolo del
sangue, dell’aria o del fuoco per la conoscenza:

L’elemento con cui pensiamo è forse il sangue, o l’aria o il fuoco? Oppure nessuno di questi,
ma è piuttosto il cervello che fornisce le sensazioni dell’udire, del vedere, dell’odorare, dalle
quali derivano memoria e opinione, e dalla memoria e dall’opinione, una volta acquisita stabi-
lità, nasce la scienza?
(Platone, Fedone 96c4)

I dati dell’esperienza, con cui siamo in contatto diretto, devono essere elaborati da un
organo a ciò deputato: giunti al cervello, essi devono trovare stabilità, consolidarsi, farsi
memoria, essere dunque recuperabili, per diventare infine episteme, un punto d’arrivo che
va oltre la più operativa techne anassagorea. Anassagora, che aveva sottoposto ogni sen-
sazione a un esame dettagliato (così Teofrasto, De sensu 27ss. = A 92) restituisce la
physis, la natura dei physiologoi presocratici, alla sua concretezza: la concretezza dell’e-
sperienza, la infinita varietà del reale, la tangibile materialità del mondo. Già Empedocle
aveva voluto salvare i fenomeni dall’attacco eleatico; Anassagora completa il percorso.
Di Empedocle egli mette a frutto alcuni fondamentali spunti: la rinuncia a un principio
unico per spiegare il mondo, e il ricorso a una pluralità di componenti; la necessità di una
causa motrice, che è distinta dal mondo pur restando ad esso interna, e che pur non essen-
do immateriale in senso platonico apparve a Platone un primo passo in quella direzione;
l’idea di un velocissimo movimento circolare, il vortice, che opera la strutturazione della
materia in un cosmo, una configurazione ordinata.
I concetti fondamentali del pensiero anassagoreo si lasciano esprimere in termini di
mescolanza originaria; di semi innumerabili intesi come lucreziani primordia rerum; di
vortice come principio motore della separazione delle cose dalla mescolanza primeva; di
relatività del grande e del piccolo; di nous come principio di razionalità che dà avvio al
movimento circolare e con ciò alla ordinata strutturazione del tutto; di meccanicismo del-
I presocratici 143

le cause dei fenomeni; di gnoseologia basata sui fenomeni percepibili come attendibile
strumento di conoscenza del visibile e, attraverso l’inferenza, dell’invisibile.

Possiamo ricostruire con una certa attendibilità parte dell’opera di Anassagora, giacché
Simplicio riporta numerosi frammenti del primo libro del suo scritto intitolato (come tan-
ti) Sulla natura. L’inizio dell’opera fu largamente noto e ripetutamente citato nell’anti-
chità, e disvela grande efficacia retorica, fissando subito un punto fondamentale nella in-
distinzione della massa originaria, e nel triplice significato di illimitato/infinito (per di-
mensione, per numero, per mancanza di limite che segni il confine tra l’una e l’altra):

ὁμοῦ χρήματα πάντα ἦν. Insieme erano tutte le cose, senza limite (ἄπειρα) sia per numero che
per piccolezza perché anche il piccolo era senza limite. E stando tutte insieme, nessuna era
chiaramente distinguibile, a causa della piccolezza; su tutte dominavano aria ed etere, entrambi
senza limite. Queste sono infatti, nell’insieme di tutte le cose, le più grandi per quantità e per
grandezza.
(fr. 1 = Simplicio, Commento alla Fisica di Aristotele p. 155,23)

La situazione originaria si ripropone tal quale nel mondo delle molteplici cose distinte:

Poiché le parti del grande e del piccolo sono uguali in quantità, anche perciò in ogni cosa saran-
no tutte le cose; e non è possibile che siano separate, ma tutte le cose hanno parte in ciascuna. E
non essendo possibile che vi sia il più piccolo in assoluto, non potrebbe nemmeno venir separa-
to, né venire ad essere di per sé; ma come era in principio, così anche ora tutte le cose sono in-
sieme (καὶ νῦν πάντα ὁμοῦ). E in tutte sono contenute molte cose, e la quantità delle cose sepa-
rate è uguale nelle maggiori e nelle minori.
(fr. 6 = Simplicio, Commento alla Fisica di Aristotele p. 164,25)

Tutto è in tutto, né i diversi elementi sono separabili gli uni dagli altri come voleva la
tradizionale dottrina dei contrari, poiché le qualità si presentano nel mondo fisico sempre
nella globalità della sintesi, come la scienza ippocratica si andava incaricando di ribadire.
La realtà ha, in ogni sua parte, tutta se stessa10. La condizione originaria, sulla scia del
precedente pensiero ionico di Anassimandro e Anassimene, è quella di una massa primor-
diale indistinta per la quale di nuovo si usa il termine apeiron, che vale illimitatezza ma
anche indistinzione interna, senza limiti cioè che separino le diverse componenti. Queste
sono infatti in perfetto equilibrio, in modo tale che nessuna prevalga sull’altra e che la
massa originaria non assuma alcun carattere specifico a scapito di altri: il prevalere di una
qualità, di un seme, fa sì che nel mondo delle distinzioni una cosa sia quella che a noi ap-
pare, nonostante che in essa restino comunque presenti tutte le componenti fondamentali,
i semi (spermata), in una terminologia di chiara derivazione biologica.

Così stando queste cose, bisogna supporre che in tutti gli aggregati siano presenti molte cose e
di vario genere, e semi di tutte le cose, aventi forme di ogni genere e colori e sapori [...]. Prima
che queste cose si separassero, quando erano tutte insieme, nessun colore era distinguibile,
giacché vi si opponeva la mescolanza di tutte le cose, dell’umido e del secco, del caldo e del
freddo, del luminoso e dell’oscuro, e della molta terra lì contenuta, e i semi senza limite per

10
È, questa, una descrizione del reale con la quale mostra casuale ma sorprendente affinità la moderna teo-
ria geometrico-matematica dei frattali di Benoit Mandelbrot, « figure geometriche che possono essere suddivi-
se in parti, ciascuna delle quali è, almeno approssimativamente, una copia a scala ridotta del tutto », figure che
trovano corrispondenza negli oggetti naturali.
144 La filosofia antica

quantità, nessuno simile all’altro. Perché nessuna delle cose è simile all’altra; e se così è, biso-
gna supporre che nel tutto vi siano tutte le cose.
(fr. 4 = Simplicio, Commento alla Fisica di Aristotele p. 34,28)

L’eredità di Parmenide, l’attualità delle sue obiezioni si fa di nuovo sensibile quando


Anassagora, come già aveva fatto Empedocle, nega che nascere e morire si diano in senso
proprio:

Del nascere e del perire i greci non hanno una giusta concezione, perché in realtà nessuna cosa
nasce e nessuna perisce, ma da cose esistenti ogni cosa si compone e si separa. E così dovreb-
bero chiamare propriamente il nascere comporsi e il perire separarsi.
(fr. 17 = Simplicio, Commento alla Fisica di Aristotele p. 163,18)

Innumerevoli sono i semi, dalla cui composizione le cose « nascono » e dalla cui scom-
posizione « muoiono »: non più l’unica sostanza degli ionici, non più le quattro radici di
Empedocle, ma l’infinito numero delle sostanze e delle qualità, che apre la strada all’ato-
mismo. Invisibili, i semi sono congetturati sulla base dell’esperienza sensibile, se si deve
credere ad Aezio, che attribuisce ad Anassagora quanto segue:

Noi usiamo di un nutrimento semplice e di una sola specie, come il pane di Demetra, e beviamo
acqua, e di questo si nutrono i peli, le vene, le arterie, la carne, i nervi, le ossa e tutte le altre par-
ti. Di fronte a questo fatto bisogna riconoscere che nell’alimento da noi assunto sono tutte le co-
se, e che tutte le cose nascono da cose che esistono. In quell’alimento sono dunque particelle
generatrici del sangue, dei nervi, delle ossa e delle altre parti; le quali particelle si possono co-
gliere solo con la ragione (logos).
(Aezio I 3,5 = A 46)

Queste particelle, prosegue Aezio, Anassagora le avrebbe chiamate omeomerie, dicen-


do che erano principi delle cose, così chiamate « perché le parti (mere) esistenti nel cibo
sono uguali (homoia) a ciò che da esse si produce ». Omeomerie è termine che non ricor-
re mai nei frammenti testuali da Anassagora (che tuttavia non sono molti: circa venticin-
que), e gli studiosi sono propensi a credere che non fosse suo ma appunto aristotelico, co-
me è probabile; tuttavia, il fatto che sia Epicuro che Lucrezio lo citino come anassagoreo,
induce a non abbandonare l’ipotesi che esso fosse originale. Tanto più che l’opera di
Anassagora circolava a Roma ancora dopo Lucrezio, come dichiara Galeno, che ne pos-
sedeva una copia nel II sec. d.C., andata perduta nell’incendio della sua biblioteca (cfr. fr.
17 Mansfeld, dall’arabo: dal De indolentia, cfr. p. 166).
I semi anassagorei conservano ciascuno il carattere che Parmenide attribuiva all’esse-
re, Empedocle alle radici, e che riaffiorerà anche nelle forme/idee platoniche: essi non na-
scono e non muoiono, né mutano mai la propria natura, ma restano sempre identici a se
stessi, anche se, mescolandosi in proporzioni diverse, danno origine alle cose come noi le
conosciamo. Ma tutto è in tutto, in ogni seme sono in linea di principio tutti i semi, in ogni
cosa tutte le cose, ora come in principio, ed è l’intervento del nous che « mette ordine »
(così Diogene Laerzio II 6 = fr. 1), dando avvio a un movimento di rotazione (περιχώρησις:
un neologismo) che aumenta progressivamente in velocità fino a diventare un vortice, av-
viando il processo meccanico decisivo nella formazione del mondo sensibile. Ma il nous
non resta costantemente attivo nell’attività rotatoria: esso dà l’impulso e la direzione ini-
ziale, per poi lasciare che sia la successione delle cause meccaniche a determinare gli sta-
di successivi. Il mondo ha dunque origine da un impulso razionale, il quale resta poi pre-
sente all’interno della materia, ma è affidato a se stesso quanto alle proprie determinazio-
I presocratici 145

ni per progressiva differenziazione. Se quella di vortice è nozione già centrale in Empe-


docle e probabilmente presente fin da Anassimene, Anassagora fa un passo in più: la de-
signa non con il tradizionale termine femminile δίνη, già omerico, ma con l’innovativo
maschile δῖνος (cfr. p. 99), più adatto ad esprimere un principio primo, come Empedocle
aveva fatto con lo Sphairos. Dinos (che vale « vortice » ma anche « vaso » e « vertigine » e
ben si prestava a giochi di parole) è protagonista non a caso della sarcastica ripresa di Ari-
stofane, che in una delle sue commedie filosoficamente più impegnate nel mettere alla
berlina le « nuovissime » concezioni, quelle Nuvole di cui è protagonista Socrate, attesta
l’impatto della teoria anassagorea, che nelle parole del comico sostituiva Dinos a Zeus:

– Soltanto le Nuvole sono dee, tutto il resto sono ciance.


– Ma il nostro Zeus, per la santa Terra, quello dell’Olimpo, non è dio?
– Quale Zeus? Non dire sciocchezze: non esiste Zeus.
– Che vai dicendo? E allora, chi piove? Spiegami questo, prima di tutto.
– Le Nuvole, naturalmente.
[...]
– Ma i tuoni, chi li fa, spiegami; è questo che mi fa tremare.
– Loro: si rotolano e tuonano.
[...]
– Ma a muoversi allora chi le obbliga, se non Zeus?
– Lui non c’entra: è l’etereo Vortice.
– Vortice? Questa proprio non la sapevo!
– Non c’è più Zeus, e al suo posto ora è il Vortice che regna!
(Aristofane, Nuvole 365-381)

Dieci anni prima, Anassagora era stato condannato per empietà.


Dinos e nous, forza meccanica e forza razionale, sono strettamente connessi. Il nous
presenta delle caratteristiche sue proprie che Simplicio ci permette di leggere nel testo
originale, che cita subito prima del fr. 6 già riportato:

Le altre cose hanno parte a tutto, mentre il nous è senza limite e dotato di forza propria e non è
mescolato a nessuna cosa, ma esiste da solo, per se stesso. Se non fosse per se stesso, ma fosse
mescolato ad altro, parteciperebbe di tutte le cose, se fosse mescolato ad una di esse. Perché in
ogni cosa c’è parte di ogni cosa, come prima ho detto: le cose mescolate ad esso lo impedireb-
bero, in modo che non avrebbe potere su nessuna cosa come lo ha essendo solo in se stesso. È
infatti la più sottile delle cose, e la più pura, ha cognizione completa di tutto e il più grande do-
minio, e di quante cose hanno vita, quelle maggiori e quelle minori, su tutte ha potere il nous. E
su tutta la rotazione il nous ebbe potere, cosicché diede ad essa principio. E dapprima ha dato
inizio alla rotazione dal piccolo, poi la rotazione diventa più grande e diventerà sempre più
grande. E le cose che si mescolano insieme e si separano e si dividono, tutto ha conosciuto il
nous. E qualunque cosa doveva essere e qualunque altra sarà, tutte il nous ha ordinato, anche
questa rotazione che adesso seguono gli astri, il sole, la luna, l’aria, l’etere che si vanno sepa-
rando. Proprio questa rotazione li ha fatti separare, e dal raro per separazione si forma il denso,
dal freddo il caldo, dall’oscuro il luminoso, dall’umido il secco. In realtà molte cose hanno par-
te a molte cose. Ma nessuna si separa o si divide del tutto, l’una dall’altra, ad eccezione del
nous. Il nous è tutto uguale, quello più grande e quello più piccolo.

In ogni cosa c’è una parte di ogni cosa, tranne che del nous, ma ve ne sono alcune in cui è anche
il nous.
(fr. 12 + 11 = Simplicio, Commento alla Fisica di Aristotele p. 164,24 e 156,12 + 164,22)
146 La filosofia antica

Il nous, pur restando un principio interno alla materia, è da essa nettamente distinto e
in qualche misura la trascende, è l’unica entità che « esiste da sola e per se stessa » e « non
è mescolata con alcuna cosa », mentre tutte le cose sono mescolate tra loro. Esso è mate-
ria, di un genere tuttavia a sé stante, che può unirsi alle altre cose pur essendo di natura da
esse diversa. Non è un principio razionale astratto, non è spirituale né divino, né si tratta
di una entità che pianifichi razionalmente e finalisticamente la strutturazione del mondo
(questa era stata la critica platonica), e al lettore moderno non è chiara la ragione per cui
Anassagora lo chiamò nous, intelletto, se non forse per analogia con il corpo umano in cui
l’intelletto è « motore », e così dunque anche nel corpo cosmico. Resta che l’immagine
così evocata è di rara efficacia. Tale da colpire Platone forse più d’ogni altra dottrina dei
physiologoi presocratici, e da far rilevare già a Simplicio come la critica platonica al mec-
canicismo di Anassagora fosse fuori luogo:

Quel che Socrate nel Fedone rimprovera ad Anassagora, non aver fatto egli uso del nous nelle
singole spiegazioni causali ma solo di spiegazioni materialistiche, era in realtà appropriato nel-
la scienza della natura. Persino Platone stesso nel Timeo adduce la causa motrice di tutte le cose
in un senso generale, mentre nello specifico dice che causa del caldo e del freddo sono le diffe-
renze delle masse e delle forme, e così anche in altri casi.
(Simplicio, Commento alla Fisica di Aristotele p. 177,9ss. = fr. 86 Mansfeld)

Una spiccata modernità e autonomia di pensiero, anche di fronte all’autorità di un Pla-


tone, caratterizza il nostro principale testimone delle dottrine di Anassagora: anch’egli
evidentemente colpito dalla forza del pensiero di un ateniese d’adozione.

6.7.2 Archelao. Diogene di Apollonia


Con il convergere del dibattito filosofico su Atene, le possibilità di dialogo e di interazio-
ne divennero ancora maggiori. L’incontro di Socrate con il pensiero di Anassagora prelu-
deva a sviluppi impensati. Ne fu principale e non solo simbolico tramite Archelao di Ate-
ne. Allievo di Anassagora e maestro di Socrate, egli è l’anello di congiunzione tra il mon-
do che siamo soliti chiamare presocratico e le nuove prospettive che si andavano aprendo
a seguito delle provocazioni socratiche e degli effetti che queste avrebbero avuto sui più
ricettivi dei suoi seguaci. Archelao si occupò di filosofia della natura, elaborando una det-
tagliata cosmologia che era in debito con i primi ionici, con Empedocle, con Anassagora
soprattutto; ma anche l’etica, che sarebbe stata al centro delle riflessioni socratiche e pla-
toniche, ebbe in lui un rilievo non marginale, anche se quasi nulla sappiamo di dettaglio:
nel suo filosofare si occupò infatti, dice Diogene Laerzio, « di leggi, del bene e del giu-
sto », e affermò che « giusto e sbagliato sono non per natura, ma per convenzione (no-
mos) » (Diogene Laerzio II 16 = A 1).
Si tratta con tutta evidenza del principio sofistico oggetto del dibattito corrente, del
confronto nomos / physis, nel quale Archelao doveva essere, come tutti, immerso. Dioge-
ne Laerzio si sofferma a precisare, che l’attribuzione a Socrate della introduzione dell’e-
tica nel discorso filosofico è impropria, e che egli l’avrebbe piuttosto ripresa da Archelao,
del quale secondo alcune testimonianze sarebbe stato l’amante per anni, una notizia, que-
sta, risalente all’allievo di Aristotele Aristosseno, e riportata anche da Porfirio (A 3). Del-
la sua cosmologia abbiamo una dettagliata descrizione:

Egli sosteneva la mescolanza della materia come Anassagora e anche i principi erano gli stessi:
diceva però che nell’intelletto è fin dall’inizio immanente una certa mescolanza. Origine del
movimento era la separazione l’uno dall’altro del caldo e del freddo, dei quali il primo si muo-
I presocratici 147

ve, l’altro sta fermo. L’acqua una volta liquefatta fluisce verso il centro, e lì poi, bruciata, di-
venta aria e terra, delle quali l’una è trasportata in alto, l’altra si ferma in basso. Per queste ra-
gioni la terra ha origine, sta ferma e giace al centro, parte per così dire insignificante dell’uni-
verso. L’aria, prodotta dalla conflagrazione domina l’universo, e dalla sua originaria combu-
stione deriva la sostanza dei corpi celesti. Il più grande di essi è il sole, il secondo la luna, men-
tre gli altri sono ora più piccoli, ora più grandi. Sostiene che la volta celeste è inclinata, e che
così il sole può far luce sulla terra, rendendo l’aria trasparente e la terra asciutta. Questa infatti
era in origine una palude, elevata alla periferia, cava al centro.
(Ippolito, Confutazione di tutte le eresie I 9,1-4 = A 4)

Emergono con chiarezza gli elementi delle riflessioni precedenti e contemporanee, di


cui Archealao tenta la medizione: la principale innovazione anassagorea, l’intelletto, non
è più puro come era in Anassagora, ma anch’esso mescolato, reso dunque a pieno titolo
parte del mondo materiale. Il movimento di cui si parla è quello stesso, rotatorio, che si
aveva fin dalle origini del pensiero greco e che aveva acquisito centralità con Empedocle
e Anassagora, e le conseguenze della rotazione – forza centrifuga e centripeta – si ritrova-
no anche qui nella distribuzione di terra e aria in basso e in alto (cfr. p. 89). Il processo di
separazione appare semplificato, e ricondotto alla pura scissione di due dei contrari, ri-
nunciando, si direbbe, al ruolo problematico del nous a questo proposito, e facendone
piuttosto una componente condivisa dall’uomo come dagli animali (« L’intelletto è innato
in tutti gli esseri viventi allo stesso modo, e ciascuno di essi ne fa uso chi più rapidamen-
te, chi meno », ibid. I 9,6). I principi originari sono, anche qui, quattro, come in Empedo-
cle, aria acqua terra e il calore del fuoco, e chiaro appare il tentativo di mediare tra le di-
verse teorie se si tiene conto che Archelao faceva anche ricorso all’idea delle omeomerie,
« principi primi in numero illimitato e di genere diverso » (Simplicio, Commento alla Fi-
sica di Aristotele p. 27,23 = A 5).
Ippolito prosegue nel suo resoconto informando sia degli interessi zoogonici di Arche-
lao, sia delle sue concezioni in tema di origine dell’ordine etico e politico. È evidente il
ricorso ad Anassimandro e alla sua concezione dell’origine dell’uomo e degli esseri vi-
venti (su cui cfr. cap. 1 e p. 89):

A proposito degli animali, egli sostiene che quando la terra iniziò a riscaldarsi nella regione in
basso dove il caldo e il freddo erano mescolati, apparvero numerosi esseri viventi e anche gli
uomini, tutti con lo stesso modo di vivere, traendo nutrimento dal fango: avevano vita breve,
ma più tardi cominciarono a generarsi gli uni dagli altri. E gli uomini si distinsero dagli altri e
stabilirono governanti, leggi, arti, città e tutto il resto.
(Ippolito, Confutazione di tutte le eresie I 9,4-6 = A 4)

La teoria della Terra madre riporta alla dimensione mitopoietica arcaica e orientaleg-
giante, in uno con le riflessioni più propriamente indigene che da quella scaturirono a par-
tire dai più antichi pensatori ionici. Archelao, al quale è stato spesso rimproverato un
eclettismo privo di originalità, dovette essere un personaggio influente nell’Atene dell’e-
poca, e non solo il rapporto con Anassagora e Socrate conferma la sua appartenenza alla
cerchia più in vista degli « intellettuali », ma la sua lettura delle dottrine precedenti risulta
spesso tutt’altro che banale; egli fu uno dei pochi, prima di Democrito, ad aver elaborato
un sistema articolato di pensiero che cercava di far interagire le questioni naturalistiche
con quelle etiche e politiche. Teofrasto, non a caso, gli dedicò uno scritto monografico.
Il dibattito si ramificava, intanto, e non mancarono ulteriori tentativi di mediazione tra
le concezioni più influenti, al centro delle quali era ancora una volta Anassagora e la sua
dottrina del nous, ma anche i progressi delle altre discipline, come la scienza medica. Ri-
148 La filosofia antica

facendosi alle tradizioni ioniche di Anassimene, così come in Archelao era presente
Anassimandro – dottrine antiche ma che evidentemente ancora circolavano ed erano te-
nute nella dovuta considerazione nell’Atene di Pericle –, Diogene di Apollonia propose
una personale reinterpretazione del pensiero anassagoreo. Proveniente da Creta o, più
probabilmente, dalla Pisidia in Asia minore (l’attuale Turchia) e anch’egli residente ad
Atene, raggiunse nella seconda metà del V sec. una certa notorietà. Come per Anassago-
ra, anche per i suoi frammenti testuali la nostra fonte principale è Simplicio, con l’ecce-
zione di un lungo e importante frammento (fr. 6) testimoniato da Aristotele. Egli attribui-
sce la razionalità del nous anassagoreo all’aria di Anassimene, ritiene che il principio di
razionalità, per poter esplicare la propria azione, debba essere presente nelle cose, come
voleva Archelao, e non da esse separato come voleva Anassagora. Diogene è dunque so-
stenitore di una sorta di monismo rispetto al dualismo anassagoreo di nous e mondo ma-
teriale, e afferma l’aria, identificata con l’elemento razionale, essere presente in tutte le
cose e portare in esse il necessario principio ordinatore:

Io ritengo che ciò che possiede l’intelligenza (noesis) sia ciò che gli uomini chiamano aria, e
che da questa tutte le cose siano governate e che tutto essa domini. Questa io ritengo che sia dio,
e giunga dovunque e tutto disponga e in tutto sia. E neppure una cosa esiste che non partecipi di
essa. È multiforme, più calda e più fredda, più asciutta e più umida, più ferma o dotata di più
veloce movimento, e ci sono in essa molte altre differenziazioni e un numero infinito di sapori
e di odori. [...] Poiché la differenziazione è multiforme, multiformi devono essere anche gli es-
seri viventi e molti.
(fr. 5 = Simplicio, Commento alla Fisica di Aristotele p. 152,21)

La funzione vitale della respirazione per gli esseri viventi fu per Diogene la conferma
delle sue tesi sull’aria. Ma per un aspetto egli si pone a metà del percorso che porta da
Anassagora a Platone e sembra prevenire la critica del Fedone platonico: si fa infatti so-
stenitore di un esplicito finalismo, quando afferma che

non sarebbe possibile che senza intelligenza le cose si dividessero in modo tale da avere misu-
ra, inverno e estate, notte e giorno, piogge, venti e bel tempo. E tutte le altre cose, a rifletterci
su, si troveranno essere disposte nel miglior modo possibile.
(fr. 3 = ibid. 152,11)

Una posizione teleologica, questa, che deriva a Diogene presumibilmente da una ri-
flessione sul contributo di Eraclito, a cui sembra far chiaro riferimento il tema della misu-
ra (cfr. p. 95), rappresentata in quello dal logos, e che aveva nel fuoco, in quanto espres-
sione del logos stesso, una forza in grado di indirizzare le cose. Ma Diogene va oltre: alla
presenza dell’intelletto (nous, noesis) nelle cose viene assegnato un ruolo di consapevole
finalismo, per cui ogni cosa che accada nella natura è determinata dalla presenza dell’ele-
mento razionale nella sostanza di base, comune a tutto. L’aria è divina e governa ogni co-
sa, assumendo forme diverse, e ad essa Diogene attribuisce anche il pensiero (φρονεῖν) e
la sensazione (αἴσθησις), dunque la vita (Teofrasto, De sensu 39ss. = A 19).
Simplicio leggeva direttamente il testo di Diogene (ancora un Sulla natura), di cui
possedeva un esemplare (« lo scritto di Diogene che è giunto fino a me »), in cui si legge-
va chiaramente che « l’aria è ciò da cui tutto il resto trae origine » (Commento alla Fisica
di Aristotele p. 25,1 = A 5), per via di condensazione e trasformazione qualitativa, un’a-
ria che è illimitata (apeiron) ed eterna. Tutto è trasformazione di un’unica sostanza fon-
damentale (fr. 2 = ibid. 51,31), tutte le cose, pur sottoposte a continuo mutamento, con-
servano una fondamentale identità della loro essenza; sarebbe in caso contrario impossi-
I presocratici 149

bile che l’una derivasse dall’altra o che si mescolassero tra loro, cosa che invece si com-
prende facilmente se tutte sono trasformazioni della stessa sostanza e ad essa anche ritor-
nano (ibid.). Si ha in Diogene un tentativo evidente di recuperare una forma di monismo
a fronte del pluralismo di Empedocle e di Anassagora, mentre gli interrogativi posti da
Parmenide non sembrano qui ricoprire quel ruolo decisivo che ancora Platone assegnerà
loro.
Ma Diogene spicca soprattutto per il suo contributo scientifico. Egli era forse un me-
dico, che studiò in dettaglio la possibilità di effettuare diagnosi in base all’esame della
lingua e del colorito del paziente (A 19, Teofrasto; A29a, Pseudo-Galeno), e l’esordio
della sua opera risponde in misura persino sorprendente a quelli di scritti ippocratici co-
me Antica medicina, Sulle arie, le acque e i luoghi o Prognostico. Recita:

Chi incomincia una qualunque argomentazione deve, io ritengo, fornire un inizio indiscutibile,
e una spiegazione semplice e sobria.
(fr. 1 = Simplicio, Commento alla Fisica di Aristotele p. 151,20)

Quando poi egli riconosce che l’aria ha qualità diverse nelle diverse condizioni e zone
climatiche, e che un certo tipo di clima e di aria condiziona l’intelligenza di coloro che in
quei climi vivono, di nuovo si pone sulla linea di una delle più importanti opere del Cor-
pus Hippocraticum, il trattato Sulle arie, le acque e i luoghi, che spiega la relazione tra i
diversi climi e zone geografiche e il carattere e le malattie degli uomini. Straordinaria è
soprattutto la descrizione, conservata per intero da Aristotele, che Diogene fa del percor-
so e delle caratteristiche delle vene nel corpo dell’uomo, e che gli ha procurato la defini-
zione di master of ducts (Lloyd, 2006). Si tratta, dice Simplicio (fr. 6 = Commento alla
Fisica p. 153,13), di « una accurata anatomia delle vene »:

Le vene nell’uomo sono così disposte. Ce ne sono due più grandi di tutte, che si stendono attra-
verso l’addome lungo la spina dorsale, una a destra, l’altra a sinistra, ciascuna verso la gamba
corrispondente e in alto verso il capo lungo la clavicola attraverso la gola. Da queste si diparto-
no le vene per tutto il corpo, da quella di destra quelle che vanno a destra, da quella di sinistra
quelle che vanno a sinistra, e due, molto grandi, arrivano al cuore presso la spina dorsale stessa,
altre, un pò più in alto, attraverso il petto sotto le ascelle, corrispondenti a ciascuna delle due
mani: l’una si chiama splenica, l’altra epatica. Ciascuna di esse all’estremità si scinde, e una
parte va verso il pollice, l’altra verso la palma, e da queste se ne staccano altre, sottili e ramifi-
cate verso il resto della mano e le dita. Dalle prime vene altre (due) si diramano, più sottili, da
quella di destra verso il fegato, da quella di sinistra verso la milza e i reni. Quelle che si stendo-
no verso le gambe si scindono in due all’attaccatura e corrono attraverso tutta la coscia. La più
grande di essa corre nella parte posteriore della coscia e appare grossa; l’altra, che corre nel
mezzo della coscia, appare un po’ meno grossa di questa [...]. Da quelle si dipartono altre vene
sottili verso l’addome e i fianchi. Quelle che si stendono verso la testa attraverso la gola appaio-
no grandi nel collo. Da ciascuna di esse poi al punto terminale se ne staccano molte in direzione
della testa [...].
(fr. 6 = Aristotele, Historia animalium III 2, 511b30)

Il testo si prolunga per altrettanto spazio, il resoconto è estremamente preciso e, in


quanto tale, non può trattarsi di un « inciso » in un’opera filosofica o cosmologica: Dioge-
ne ha precise competenze mediche, egli parla del resto anche del seme e dell’embrione,
come altri prima di lui. Sembra porsi sulla medesima linea ad esempio di un Alcmeone,
ma anche Empedocle aveva avuto precisi interessi per la medicina, che aveva probabil-
mente praticata, e per lo stesso Anassagora si ha analoga notizia, più ancora per Democri-
to. Sbaglia chi ritiene un frammento come questo di Diogene di importanza secondaria
150 La filosofia antica

perché puramente tecnico: esso rivela invece molto più di quanto a prima vista non appa-
ia, giacché informa dell’ambiente in cui questi personaggi venivano educati, delle loro
prospettive, della mancanza di una separazione tra « filosofia » e « scienza », quale sarà la-
mentata infatti al momento della conquista della piena autonomia della medicina ad
esempio all’inizio dell’Antica medicina di Ippocrate. L’interpretazione del cosmo era
sempre stata, e ancora lo sarà a lungo, condizionata dalla concezione del corpo umano,
microcosmo e macrocosmo permettevano uno sguardo ciascuno sull’altro, e da questa di-
mensione non si può prescindere nel valutare anche la speculazione filosofica.
Chi confronti, del resto, con la descrizione di Diogene, quella quasi altrettanto ampia
anch’essa relativa alle vene presente in Democrito (Eliano, De natura animalium XII 18
= A 153), e quella di Ippocrate (La malattia sacra III 2-5 Jouanna, cfr. Perilli, 2007, pp-
173-175), constaterà un intrico di temi e problemi e un sorprendente interscambio tra
campi del sapere spesso tra loro più affini, per l’antichità greca, di quanto non si sia por-
tati a pensare.

6.7.3 Democrito
Archelao e Diogene, per quanto da rivalutare sia il loro contributo, testimoniano però an-
che di quanto fosse ormai divenuto difficile elaborare una interpretazione originale del
mondo, tale da rappresentare un progresso rispetto ai contributi forniti dalle riflessioni di
quasi due secoli. Sarebbe stato necessario aspettare il genio di Democrito, comparabile
per ampiezza di interessi e per capacità di innovazione solo a quello di Aristotele: la lista
delle opere di Democrito redatta da Trasillo nel I sec. d.C., nella forma a noi giunta in
Diogene Laerzio (IX 45-49), è sbalorditiva, e comprende complessivamente circa settan-
ta titoli di opere sui più diversi argomenti, suddivise in tredici tetralogie e raccolte sotto
cinque grandi gruppi tematici (etica, fisica, matematica, musica, tecnica), più uno di ope-
re non classificate e altri scritti dubbi. Questo catalogo comporta non poche difficoltà, pri-
ma fra tutte quella della sua attendibilità (se si pensa che il lessico bizantino Suda ritiene
autentiche, di Democrito, soltanto due opere), ma offre una buona idea della molteplicità
degli interessi e delle straordinarie competenze di Democrito, confermate del resto da al-
tre fonti. Di Democrito si conservano numerosissime testimonianze e frammenti, oltre
800 nella edizione più completa (quella russa di Lur’e: erano circa 500 in Diels-Kranz),
di attendibilità diversa e comunque del tutto inadeguati per rendere la ricchezza dell’ope-
ra; se ne ricava l’idea di un sistema di pensiero articolato, che spaziava dalla cosmologia
alla natura dell’uomo, dalla geometria alla matematica, dalla geografia alla poetica e alla
musica, dalla zoologia alla medicina, dalla pittura all’agricoltura alla tattica e tecnica mi-
litare.
L’affermarsi dell’atomismo scandisce la più matura sistemazione del pensiero natura-
listico e cosmologico arcaico. Il nome di Democrito è associato a quello del predecessore
Leucippo, forse suo maestro (così volevano Aristotele e Teofrasto), del quale pochissimo
è noto: fin dall’antichità (Epicuro, che pure all’atomismo era molto interessato), e poi in
alcuni studi moderni (E. Rohde alla fine dell’Ottocento, altri in seguito), si è voluto nega-
re che Leucippo fosse realmente esistito. A lui si riconduce però l’origine della teoria ato-
mistica, concezione dai tratti potenzialmente rivoluzionari che si pose con il tempo alla
base di dottrine che sarebbero apparse sovversive, come quella dell’epicureismo e di Lu-
crezio. Leucippo, originario forse di Mileto, forse di Abdera, sarebbe stato contempora-
neo di Anassagora e di Empedocle, e il suo nome è raramente ricordato in modo autono-
mo dalle fonti; Democrito nacque tra il 470 e il 460 nell’estremo nord, ad Abdera, in ori-
gine colonia ionica fondata dai Clazomenii, già città natale del sofista Protagora; egli fu
I presocratici 151

dunque all’incirca contemporaneo di Socrate, al quale sopravvisse essendo morto in tarda


età, forse intorno al 380. Con Democrito si chiude il percorso della filosofia detta – in spi-
rito se non per cronologia – presocratica, il « periodo eroico »; e, come in Archelao, anche
in Democrito emergono già con chiarezza i temi che sarebbero andati sostituendosi allo
studio del mondo naturale nel IV sec., come l’etica e la politica, prima che in Aristotele
essi tornassero a essere oggetto di un sistema complessivo.
Platone ne rimuove completamente il nome. Mai fa menzione di lui o delle sue teorie,
e questo non può essere considerato casuale in un autore così attento a confrontarsi con le
concezioni altrui, tanto più che Democrito da Abdera si recò ad Atene, come lui stesso ri-
corda (« giunsi ad Atene, e nessuno mi conosceva »: fr. 116 = Diog. Laert. IX 36, cfr. Cic.
Tusc. V 36,104), e venne dunque a contatto diretto con il centro del dibattito culturale e
filosofico. Gli argomenti ex silentio non hanno per solito cittadinanza scientifica: tuttavia
è difficile resistere all’impressione che il bando operato da Platone fosse dovuto alla mi-
naccia da questi percepita nelle teorie atomistiche. È Aristotele, del resto, a sottolineare la
distanza tra le due concezioni, e vale leggerne la preziosa comparazione:

Platone, in realtà, si esprime in modo ben diverso da quello di Leucippo: quest’ultimo conside-
ra gli indivisibili corpi solidi, Platone figure piane, per l’uno ciascuno dei corpi indivisibili si
definisce attraverso infinite figure, per l’altro attraverso figure in numero determinato; e questo
benché entrambi parlino di corpi indivisibili e definiti da figure. Da questi le generazioni e le
disgregazioni sarebbero avvenute, per Leucippo, in due modi: attraverso il vuoto e attraverso il
contatto (se c’è contatto, infatti, ogni cosa è divisibile), per Platone, invece, solo attraverso il
contatto: egli dice infatti che il vuoto non esiste.
(Aristotele, De generatione et corruptione I 8, 325b26 = Leucippo A 7, p. 73,20 DK)

Aristotele mostra di conoscere bene Leucippo, e di assegnargli un preciso ruolo nell’e-


laborazione della teoria atomistica; e, a differenza di Platone, considera Democrito come
uno degli interlocutori con cui soprattutto merita confrontarsi e giunge a dichiararlo supe-
riore a Platone per alcuni aspetti (si veda a pp. 153ss. il passo di De gen. et corr. 315b25-
316a10); si può immaginare che, non fosse stato per il silenzio platonico, egli avrebbe po-
tuto dedicare all’atomismo spazio e attenzione ancora maggiore.
L’atomismo è dottrina marcata dal determinismo e puramente materialista: che al ma-
terialismo ricorre per ricondurre a unità l’interpretazione ionica dell’universo e l’ontolo-
gia magnogreca di Parmenide, e lo fa « con un metodo superiore » agli altri, come osserva
Aristotele (De gen. et corr. I 8, 325a1), e proponendo un’unica spiegazione per tutti i fe-
nomeni. Tutto nasce dal confronto con Parmenide, come Aristotele sottolinea (ibid.),
dall’idea eleatica « che l’essere fosse necessariamente uno e immobile, che il vuoto non
esista » e dunque neanche il movimento, né la molteplicità, poiché « il tutto è uno, immo-
bile, illimitato ». Leucippo, prosegue Aristotele (ibid. 325a23ss.), vuole invece salvare la
sensazione, la generazione, la dissoluzione, il movimento, la pluralità delle cose che sono:

Della teoria di coloro che sostengono l’uno, egli accetta che non può esistere movimento senza
vuoto e che il vuoto è non essere, e che, dell’essere, niente è non essere: giacché ciò che è esse-
re in senso proprio è assolutamente pieno; ma un tale essere non è uno, ma è infinito di numero
e invisibile per la piccolezza degli elementi. Questi esseri si muovono nel vuoto (infatti per lui
il vuoto esiste) e unendosi producono generazione, separandosi distruzione. Il loro agire e il lo-
ro subire azioni si verificano per il loro venire a contatto (in questo senso non sono uno) e, com-
binandosi e intrecciandosi, danno luogo alla generazione.
(Aristotele, De generatione et corruptione I 8, 325a27-34 = A 7, p. 73,4 DK)
152 La filosofia antica

L’atomismo parte dunque da Parmenide: trovando all’interno dello stessa interpreta-


zione parmenidea del mondo la chiave per scardinarla. Le caratteristiche da Parmenide
attribuite all’essere, che era per lui uno e non molti, vengono dagli atomisti spostate sulle
particelle ultime e non ulteriormente divisibili (atomi), che costituiscono ciò che esiste.
Convinti, come Parmenide e secondo quanto già Empedocle e Anassagora avevano accet-
tato, della impossibilità di un nascere e di un perire assoluti, e della impossibilità che
qualcosa che è nasca da ciò che non è, essi intendono però salvare il mondo esterno quale
si presenta alla nostra percezione. Se, stando a Parmenide, per far questo bisognerebbe af-
fermare che il non essere esiste, gli atomisti sono disposti ad accettare la provocazione: il
non essere esiste tanto quanto l’essere, e non c’è in questo contraddizione:

Lo ‘ente’ non ha affatto più realtà del ‘ni-ente’ (μὴ μᾶλλον τὸ δὲν ἢ τὸ μηδὲν εἶναι),
(fr. 156 = Plutarco, Contro Colote 4, 1109A)

dice con un gioco di parole Democrito, intendendo che ente (δέν: parola che non esiste in
greco, e deriva dal rimuovere la negazione μη- che compone la parola niente, μηδέν, si
pensi all’inglese no-thing) è ciò che riempie spazio, è il pieno, il corpo; niente, o non-en-
te, è il vuoto, ciò che i corpi accoglie. Il pieno e il vuoto dunque, come ancora Aristotele
acutamente rileva nel primo libro della Metafisica (985b4 = Leucippo A 6), sono non sol-
tanto le condizioni dell’essere, ma essi stessi parti costitutive della realtà, « elementi » di
essa. In un passo dell’opera perduta di Aristotele Su Democrito, conservato da Simplicio,
si legge:

Democrito chiama lo spazio coi nomi di ‘vuoto’ e di ‘niente’ (οὐδέν) e di ‘infinito’, mentre dà
a ciascuna delle sostanze il nome di ‘ente’ (δέν) e di ‘solido’ e di ‘essere’. Queste sostanze [...]
lottano e si muovono nel vuoto, a causa della loro diseguaglianza e delle altre differenze ricor-
date, e nel muoversi s’incontrano e si legano in un collegamento tale che le obbliga a venire in
contatto reciproco e a restare contigue, ma non produce però con esse veramente una qualsiasi
natura unica: perché certo è assurdo pensare che due o più possano mai diventare uno.
(Aristotele, Su Democrito fr. 208 R., in Simplicio, Commento al De caelo di Aristotele p.
294,33 = A 37)

Il pieno è in ultima istanza a-tomos idea, forma in-divisibile, o atomon soma, corpo
indivisibile, o semplicemente atomo: « In realtà esistono solo atomi e vuoto », afferma
Democrito nell’unico frammento a lui attribuito in cui ricorra l’aggettivo (sostantivato)
atomos (fr. 9 = Sesto Empirico, Adv. math. VII 135), corpuscoli in numero infinito, non
soggetti ad alcuna trasformazione sostanziale ma sempre identici a se stessi, come il « ciò
che è » di Parmenide e come già accadeva con le quattro radici di Empedocle e i semi di
Anassagora, giacché « due non può diventare uno »; privi di generazione, « non nati » ma
esistenti da sempre, e non soggetti a dissoluzione, dunque eterni.
Recuperando la concezione pitagorica del vuoto che avvolge l’universo e penetra
dall’esterno a separare i corpi, gli atomi sono separati l’uno dall’altro dal vuoto e ciascu-
no di essi non è ulteriormente divisibile poiché occupa interamente il proprio spazio e non
contiene vuoto al suo interno:

Essi (gli atomisti) dicevano che i principi sono infiniti di numero e ritenevano che fossero ato-
mi, cioè indivisibili, ed inalterabili per il fatto di essere solidi, cioè di non contenere vuoto,
giacché dicevano che la divisione è possibile nei corpi a causa del vuoto che è in essi.
(Simplicio, Commento al De caelo di Aristotele p. 242,15 = Leucippo A 14)
I presocratici 153

Peculiarmente atomistica, ma sempre di derivazione parmenidea, è invece la nozione


della indivisibilità, dell’atomo come punto finale d’arrivo nella scomposizione delle cose,
che non accetta le paradossali argomentazioni di Zenone: « Gli atomisti ritenevano di do-
versi fermare a corpi non più composti di parti e che non vi fosse divisione all’infinito »
(Aezio I 16,2 = A 48). Democrito, stando a una testimonianza di Aristotele non del tutto
perspicua ma sufficiente per dare una indicazione, era consapevole di questa difficoltà
fondamentale del suo sistema: combinare la nozione di corpi dotati di forma e dimensio-
ne con quella di non-divisibilità, laddove qualsiasi corpo dotato di estensione, quale che
essa sia, deve poter essere concepito (con Zenone) come ulteriormente divisibile. Demo-
crito avrebbe allora segnato una linea di demarcazione tra una prospettiva di tipo mate-
matico e una di tipo fisico: se da un punto di vista matematico si può concedere la infinita
divisibilità dei corpi, da un punto di vista fisico è necessario ipotizzare l’esistenza di cor-
pi minimali non ulteriormente divisibili, poiché il punto d’arrivo della divisibilità mate-
matica è costituito da punti privi di estensione, che non possono essere i costituenti di ba-
se di corpi estesi. Così Aristotele (in un passo che, individuato da V. E. Alfieri, fu aggiun-
to nella quinta edizione della raccolta di Diels-Kranz: che Democrito, di cui si fa il nome
poco sopra, sia l’autore della dimostrazione, è confermato dal commento di Giovanni Fi-
lopono al testo):

C’è una grave difficoltà se si ammette che esista un corpo e una grandezza totalmente divisibile
e che ciò sia possibile. Che cosa infatti ci sarà, che sfugga alla divisione? [...] Se una cosa è per
natura totalmente divisibile, e viene divisa, non ci sarà nulla d’impossibile, neppure se si trat-
tasse di dividerla in diecimila volte diecimila [...]. Poiché dunque il corpo è in tutto e per tutto
tale, lo si divida. Che cosa resterà? Una grandezza? Non è possibile, perché allora vi sarebbe
qualcosa di non diviso [...]. Ma ammesso che non resti né corpo né grandezza, e tuttavia si pro-
ceda alla divisione, o il corpo consterà di punti e le parti di cui esso è composto saranno prive
di grandezza, oppure queste parti saranno nulla affatto: sicché, se risulterà o sarà composto di
nulla, anche il tutto sarà nient’altro che apparenza. E similmente, se consterà di punti, non vi
sarà quantità [...] Anche se si riuniscano tutti i punti, essi non faranno una grandezza [...] Sic-
ché, se è impossibile che le grandezze constino di contatti o di punti, è necessario che esistano
corpi e grandezze indivisibili.
(Aristotele, De generatione et corruptione I 2, 316a14-b16 = Democrito A 48b)

Che la prospettiva di Democrito sia quella della fisica è detto da Aristotele poco prima,
in un passo dal quale emerge la sua profonda simpatia nei confronti dell’Abderita, da lui
preferito di gran lunga a Platone per questioni sulle quali quest’ultimo è giudicato ine-
sperto e criticato in modo tagliente:

Il punto di partenza consiste nel chiedersi se le cose si generano, si alterano, si accrescono [...]
perché consistono di grandezze prime indivisibili, oppure se invece non esistono grandezze in-
divisibili. [...] E ancora, se si ammette che sono grandezze, è da chiedersi se siano corpi, come
per Democrito e Leucippo, oppure superfici, come nel Timeo. Come abbiamo già detto altrove,
quest’ultima tesi è infondata, che cioè la divisione prosegue fino alle superfici. È quindi più ra-
gionevole che i corpi siano indivisibili, ma anche questa ipotesi porta con sé molte difficoltà:
permette però di spiegare [...] l’alterazione e la generazione mediante trasformazioni dello stes-
so oggetto in base alla posizione, all’ordine e alla differenza delle forme (gli atomi), come fa
Democrito [...]. Ciò non accade con chi divide i corpi in superfici: così infatti nulla si genera ad
eccezione dei corpi solidi; non tentano infatti in alcun modo di spiegare la generazione delle af-
fezioni a partire da esse (le superfici). Causa della scarsa capacità di riconoscere ciò che è gene-
ralmente accettato è la mancanza di esperienza. Perciò, quanti hanno maggiore dimestichezza
con i fatti fisici riescono meglio a porre quei principi che permettono di spiegare un maggior
154 La filosofia antica

numero di cose. Gli altri, invece, resi incapaci di osservare dai troppi discorsi, considerati pochi
fenomeni manifestano le loro opinioni con una certa faciloneria.
(Aristotele, De generatione et corruptione I 2, 315b25-316a10)

È alla fine di questo confronto tra Democrito e il Platone del Timeo, del quale ultimo
si demolisce la fantasiosa concezione, e dopo l’accettazione dell’idea democritea dell’e-
sistenza di corpi indivisibili come una buona spiegazione, pur con le difficoltà che com-
porta, degli enti e delle loro qualità, che Aristotele precisa la differente prospettiva da cui
osservare l’interpretazione degli atomisti:

Anche da questo si può vedere quanto differiscono coloro che indagano con gli strumenti dello
studio della natura da coloro che lo fanno con gli strumenti della dialettica: circa l’esistenza di
grandezze indivisibili, gli uni affermano che, se non fosse così, il triangolo in sé sarebbe molte-
plice; Democrito, invece, sembra essere stato persuaso da argomenti più appropriati, quelli
dell’indagine della natura.
(Aristotele, De generatione et corruptione I 2, 316a11-14)

Considerata fisicamente, la realtà si spiega dunque pensando il « pieno » come compo-


sto da un numero infinito di corpi minutissimi (e i semi di Anassagora costituivano di
questa ipotesi la controparte), i quali pur avendo dimensione non possono essere percepi-
ti nella loro individualità a causa della piccolezza e si combinano con altri a formare i cor-
pi composti che noi invece percepiamo grazie alla emanazione di flussi di atomi che da
essi si dipartono, come è ben illustrato in particolare a proposito della vista (di cui già
Empedocle aveva tentato una spiegazione, cfr. pp. 136ss.):

Il vedere, secondo Democrito, è prodotto dall’immagine. Su questo egli si esprime con una sua
teoria: che l’immagine non si forma direttamente sulla pupilla, ma che l’aria che si trova tra
l’organo della vista e l’oggetto veduto, venendo compressa per opera dell’oggetto veduto e del
soggetto che vede, riceve una conformazione; da ogni cosa infatti promana continuamente un
effluvio; questo poi, fattosi consistente, con i suoi diversi colori si riflette nell’umido degli oc-
chi, e l’elemento denso non l’accoglie, mentre l’umido lo lascia penetrare. Perciò gli occhi umi-
di, per la capacità visiva, sono migliori di quelli asciutti [...]; perché ciascuno conosce meglio
ciò che gli è omogeneo.
(Teofrasto, De sensu 50 = I 135 §50)

Le qualità sensibili invece, « il dolce, l’amaro, il caldo, il freddo, il colore » sono solo
per convenzione (nomos, qui interpretabile con Sesto Empirico anche come « opinione »:
fr. 125 cit.), sebbene dipendano anch’esse dalle caratteristiche dei diversi atomi. Gli ato-
mi, con il loro numero infinito, sono dunque « ciò che è », essere non singolo ma infinita-
mente frantumato, che non esiste però in sé e per sé ma trova la propria collocazione nel-
lo spazio vuoto, che è infinito a sua volta e sempre rimane se stesso. Esso « è » alla pari
dei corpi, è il « non-essere » di Parmenide, condizione dell’esistenza dei corpi e del loro
movimento-mutamento, condizione dunque per salvare il mondo fenomenico.
Gli atomi si distinguono l’uno dall’altro per forma e grandezza (ῥυσμός, « configura-
zione »), come la lettera A dalla lettera N; per posizione (τροπή, « direzione »), come Z ri-
spetto a N; per ordine (διαθιγή, « contatto »), come AN rispetto a NA: l’esempio delle let-
tere, che è testimoniato da Aristotele (Metaph. I 4, 985b10) ma risale verosimilmente a
Democrito, è quantomai appropriato, poiché la parola greca per « lettera », στοιχεῖον, si-
gnifica al tempo stesso « elemento » costitutivo. In ciascuno di questi casi la diversa for-
ma o posizione dà alle lettere, e dunque agli atomi, un significato e un ruolo diverso (Ari-
stotele, Metafisica A 4, 985b4 = Leucippo A 6). Le loro forme possono essere infinita-
I presocratici 155

mente diverse e irregolari, non limitate alle comuni figure geometriche ma, ad esempio,
uncinate o forate: la nozione di atomo è dunque lungi dal coincidere con la regolarità che
si immagina propria delle entità matematiche. Gli atomi sono anche dotati di peso propor-
zionalmente al loro volume, mentre lo stesso non accade per i corpi composti, nei quali
può accadere che corpi più piccoli pesino più di corpi più grandi, come il bronzo rispetto
alla lana: in questo caso, gli atomisti attribuiscono la causa della minore pesantezza a una
maggiore presenza di vuoto all’interno dei corpi (Aristotele, De caelo IV 2, 309a1 e Sim-
plicio, Commento al De caelo p. 569,5 e 721,27 = A 60 e 61). Essi sono inoltre caratteriz-
zati da un continuo movimento, che ne è caratteristica decisiva: attraverso di esso posso-
no infatti incontrarsi gli uni con gli altri, secondo il principio del simile con il simile, o gli
uni dagli altri separarsi. Questo spiega l’origine e la dissoluzione dei corpi composti, gli
unici che i nostri sensi siano in grado di cogliere.
A governare l’intero universo che da tali convergenze di corpuscoli scaturisce è un du-
plice principio, affermato nel solo frammento in cui la tradizione ci permette di leggere
gli ipsa verba di Leucippo:

Nessuna cosa si produce senza motivo (μάτην), ma tutto secondo un rapporto (ἐκ λόγου: spesso
reso con ‘per una ragione’) e sotto l’azione della necessità (ὑπ᾿ ἀνάγκης).
(Leucippo, fr. 2 = Aezio I 25,4)

Il testo è di densità concettuale pari alla brevità: l’elemento « razionale », logos – nel
senso primo di ratio, rapporto, che non esclude ma implica quello di « razionalità » – e
quello della necessità (già centrale almeno in Pitagora, Parmenide ed Empedocle, e ormai
nuova divinità del razionalismo, cfr. p. 140) vengono assunti come decisiva coppia di de-
terminanti; sono però articolazione di un unico principio, « razionale » e pertanto necessa-
rio. Esso regola ogni accadimento (πάντα), e determina quella imprevedibile catena di
azioni e reazioni, messa in moto dalla collisione degli atomi, che dà vita all’esistente.
Tutto è subordinato all’azione della necessità: ma questa va identificata in Democrito con
il vortice, principio motore già antico.

Tutto si genera secondo necessità, poiché causa della generazione di tutte le cose è il vortice,
che egli chiama necessità.
(Diogene Laerzio IX 45 = Democrito A 1 §45)

Il vortice assurge dunque a determinante assoluto: ma a differenza di quanto accadeva


in Empedocle e in Anassagora, in cui esso era determinato da agenti esterni (che fossero
Amore e Contesa, o l’intelletto), nell’atomismo diventa un puro principio meccanicistico
della cosmogonia, a cui danno luogo i numerosi corpuscoli di forma svariata che si rac-
colgono nel « grande vuoto » (μέγα κενόν), con il loro radunarsi e convergere, il loro
scontrarsi e respingersi in base all’affinità (simile cum simili). Nel vortice tutti gli atomi
vengono ricompresi, ma ciascuno conserva il moto casuale e disordinato ad esso inerente.
Nel loro rapido moto rotatorio si determinano le fondamentali commistioni:

Gli atomi, che nel vuoto infinito sono separati tra loro [...] si muovono nel vuoto, e sopraggiun-
gendo gli uni sugli altri si urtano, e gli uni rimbalzano come capita, gli altri si allacciano fra lo-
ro a seconda della corrispondenza delle forme, delle grandezze, delle posizioni e disposizioni,
e restano uniti insieme, e così si compie la generazione delle cose composte.
(Simplicio, Commento al De caelo di Aristotele p. 242,15 = Leucippo A 14)
156 La filosofia antica

Questo processo vale anche per l’origine dei mondi che sono infiniti, in conseguenza
dell’essere infinite le cause da cui essi si generano, e cioè gli atomi o elementi: del resto,
come affermava l’allievo di Democrito, Metrodoro di Chio, già noto all’inizio del IV
sec., sarebbe assurdo che fosse nata una sola spiga in un vasto campo, e un solo mondo
nell’illimitato (Aezio I 5,4 = Metrodoro A 6).

I mondi si generano così: molti corpi di ogni forma, mediante una netta separazione dall’illimi-
tato (ἄπειρον) vengono portati in un grande vuoto e, raccoltisi insieme, producono un unico
vortice, nel quale urtandosi e volteggiando in ogni direzione si separano, i simili unendosi con
i simili.
(Diogene Laerzio IX 31 = Leucippo A 1 §31)

Esiste dunque nella cosmogonia atomistica un duplice stadio dell’evoluzione degli


atomi, uno stadio precosmico, precedente l’ordinamento delle cose nel mondo che noi ve-
diamo, in cui gli atomi esistono da sempre senza che sia necessario ipotizzarne né un’ori-
gine, né una causa (la qual cosa sarà criticata da Aristotele) e nel quale essi si muovono di
moto casuale e disordinato; e una fase cosmogonica, in cui gli atomi vengono presi nel
vortice a cui essi stessi danno origine, e che conduce al kosmos. Il movimento circolare è
connesso per sua natura con la forma sferica del mondo, un « sistema sferoidale »
(σύστημα σφαιροειδές) che è avvolto da una membrana esterna che si assottiglia progres-
sivamente, anch’essa trasportata dal vortice. Ques’ultimo produce la terra e gli astri, ha
dunque azione anche macrocosmica, e resta attivo anche successivamente, come si vede
dal movimento dei corpi celesti.
Gli atomi democritei mantengono però almeno in parte la propria tendenza al moto ca-
suale e irregolare, e il contatto tra atomi contigui dà origine a successivi agglomerati. Que-
sto sarà rifiutato da Epicuro, per il quale è necessario ipotizzare la caduta verticale degli
atomi secondo linee parallele, essendo questi dotati di peso, imbris uti guttae, come gocce
di pioggia, secondo l’immagine che ne darà Lucrezio: l’elemento della necessità, che fa
del sistema atomistico un determinismo, viene sostituito con la casualità del lucreziano
clinamen (greco παρέγκλισις), la deviazione casuale dalla verticale, che avviene « non si
sa dove, non si sa quando, non si sa perché », e dà inizio agli scontri tra atomi, garantendo
al tempo stesso la possibilità del libero arbitrio ma anche della responsabilità dell’uomo.
Quella di vortice sarà nozione fruttuosa nel tempo a venire: centrale nel III libro dei Prin-
cipia philosophiae di Cartesio, così come nella concezione del suo amico C. Huygens, che
fanno esplicito riferimento agli antichi, ricorre – ma solo come superficiale assonanza –
nella cosmologia contemporanea per la spiegazione del movimento delle galassie.
La teoria atomistica evoca per sua natura consonanze con la scienza moderna: che non
devono però andare oltre una generica per quanto suggestiva affinità, che il fortunato ter-
mine atomo si incarica di evidenziare. La dottrina atomistica non è, del resto, unicamente
una teoria naturalistica, una teoria che serva a chiarire dati empirici di osservazione, ma
una teoria ontologica orientata a interpretare i rapporti essenziali generali.
Il radicale materialismo degli atomisti viene coerentemente esteso a ogni aspetto della
vita del mondo e dell’uomo, e proprio questo tratto della dottrina sarà denso di conse-
guenze quando Epicuro e poi ancora Lucrezio faranno propria quella medesima conce-
zione: di atomi, infatti, è costituita anche l’anima, e specificamente di atomi di fuoco, i
più mobili perché piccoli e tondeggianti:

Democrito dice che l’anima è un composto di elementi percepibili solo con la ragione, aventi
forma sferica e carattere igneo, giacché essa è corporea.
I presocratici 157

Alcuni ritennero l’anima composta di fuoco; perché è il fuoco tra tutti gli elementi quello com-
posto di particelle più sottili e il più incorporeo; inoltre esso possiede come proprietà originaria
quella di muoversi e di mettere in moto le altre cose. Democrito poi ha trovato una soluzione
ancora più sottile, per spiegare perché l’anima possiede entrambe queste proprietà. Anima e in-
telletto infatti sono la stessa cosa e questo elemento sarebbe composto di corpi primi indivisibi-
li e atto a produrre il movimento a causa della piccolezza delle particelle che lo compongono e
della loro forma; aggiunge che, delle forme, quella sferica è la più adatta a produrre il movi-
mento; e tanto l’intelletto quanto il fuoco hanno questa composizione.
(Aezio IV 3,5 e Aristotele, De anima I 2, 405a5 = A 101)

L’anima è dunque ricondotta alle medesime leggi delle cose materiali, essendo mate-
ria essa stessa; ed è identificata con l’intelletto, come ribadiscono altre fonti, nel senso
che « pensare e sentire sono la stessa cosa » (Filopono, Commento al De anima di Aristo-
tele p. 35,12 = A 105), che « non vi è differenza alcuna tra la verità e l’apparenza sensibi-
le » (ibid. p. 71,19 = A 113): esse si riconducono a una sola e medesima facoltà, diffusa
per tutto il corpo, la quale ha inoltre la funzione di « mettere in movimento » il corpo stes-
so, di determinarne cioè spostamenti e alterazioni. L’anima-fuoco è nel corpo ma in certo
senso anche fuori di esso, ed è connessa non solo alle funzioni conoscitive ma anche a
quelle biologiche di vita e di morte: infatti,

nell’aria c’è un gran numero di quegli atomi che egli chiama intelletto: quindi, quando si respi-
ra e l’aria penetra in noi, gli atomi di questo genere, entrando insieme con essa [...] impediscono
all’anima, che è contenuta negli esseri viventi, di dissolversi. E di conseguenza, dall’inspirazio-
ne ed espirazione dipendono la vita e la morte: [...] la morte non è altro che la fuga di questi ato-
mi dal corpo per la pressione esercitata dall’aria ambiente.
(Aristotele, De respiratione IV, 471b30 = A 106)

Di numerosi ambiti specifici, a volte anche molto tecnici, dei quali Democrito si sareb-
be occupato, sappiamo troppo poco per trarne un quadro affidabile; qualcosa di più è noto
circa il suo interesse per la zoologia e per la medicina, settori nei quali diede un significa-
tivo contributo di sistemazione del sapere, in campo embriologico, fisiologico, anatomi-
co. Egli si mostra al corrente dei risultati della più avanzata scienza del suo tempo, e non
è un caso se in epoca posteriore, nelle spurie Epistole del Corpus Hippocraticum, sarà co-
struita l’immagine di un Democrito ormai preda della pazzia, il quale, emaciato, pallido,
seduto all’ombra degli alberi fuori dalle mura di Abdera, seziona corpi di animali a scopo
di studio, per trovare le origini fisiologiche della follia, che egli ricerca nella posizione e
nella natura della bile. Lì lo incontra il padre della medicina, Ippocrate, invocato dai suoi
concittadini per curarlo, e trova un Democrito che ride violentemente, ride « dell’uomo
con la sua insensatezza, privo di opere rette, infantile in tutti i suoi progetti » (Epist. 17, §
45), dedito ad accumulare inutili ricchezze, ai piaceri senza controllo, opinioni conferma-
te dal fr. 191 (= Stobeo III 1, p. 210) di Democrito, dove si invita alla moderazione, al non
curarsi della fama e dell’ambizione. Ne emerge la dimensione del Democrito etico, che fa
proclami radicali e dà un’immagine fosca, rimasta famosa, della vita dell’uomo: (§ 55)
« Alla nascita, l’uomo non è che malattia: bambino, è inutile e supplica che lo si aiuti; cre-
scendo, diventa presuntuoso, stolto, sotto la guida dei suoi maestri; ormai maturo, è arro-
gante; al momento del declino, è pietoso e raccoglie i mali che la sua stessa insensatezza
ha seminato ». Ippocrate nella finzione letteraria delle epistole racconta in prima persona
la storia, si dichiara in conclusione messaggero di Democrito, « il vero saggio, l’unico in
grado più d’ogni altro di rendere savi gli uomini »:
158 La filosofia antica

C’era oltre la torre una collina elevata, ombreggiata da pioppi alti e folti. Di là si vedeva la casa
di Democrito e, ai piedi di un ampio platano che scendeva fino a terra, lui stesso, Democrito,
vestito di una rozza tunica, solo, sporco, seduto su un sedile di pietra, pallido, emaciato, la bar-
ba lunga. Accanto a lui, sulla destra, un corso d’acqua [...]. (41) Sulle ginocchia egli teneva con
grande cura un libro, alcuni altri erano sparsi da una parte e dall’altra, e c’era un cumulo di ani-
mali interamente sezionati. [...] (43) [Democrito a Ippocrate:] ‘Questi animali che vedi qui, li
seziono non perché odio l’opera divina, ma perché indago la natura e la sede della bile; sai bene
infatti che è questa ad offuscare la mente degli uomini, quando è sovrabbondante’.
(Pseudo-Ippocrate, Epistola 17, 40-43)

Si ha qui un’eloquente testimonianza dell’immagine che di Democrito si era andata


costruendo nel corso dei secoli (le Epistole pseudoippocratiche sono datate tra il I sec.
a.C. e il I d.C.), e della sua celebrità nell’antichità, documentata in una ricca tradizione
dossografica. Che l’epistola ora citata si soffermi largamente su temi etici e sul giudizio
che Democrito dava dell’uomo, non è casuale: il numero di gran lunga maggiore di fram-
menti ‘testuali’ di Democrito deriva infatti dagli scritti etici a lui attribuiti, conservati per
lo più da Stobeo e la cui attendibilità è da sempre discussa (un numero consistente, frr.
35-115, è tramandato sotto il nome di un Democrate), così come non chiaro è l’eventuale
nesso con la teoria fisica atomistica.
Nel complesso l’etica a noi giunta consiste principalmente di detti di sapore sapienzia-
le o di massime di comportamento, che rivelano un’attenzione rivolta a tutti gli aspetti
della vita dell’uomo sia come individuo sia nella vita associata della polis. Il fine è nell’ar-
monia interiore, nello « star bene » con se stessi, nell’evitare tutto ciò che può metterla a
rischio, nell’essere liberi dalle paure: temi che si ritroveranno in seguito nell’epicurei-
smo. L’etica che le fonti ritengono democritea è un’etica della misura, che consiste nella
sophrosyne:

La tranquillità dell’animo ci è procurata dalla misura nei godimenti e dalla moderazione in ge-
nerale nella vita: il troppo e il poco sono facili a mutare e quindi a provocare grandi turbamenti
nell’animo [...]. Si deve dunque rivolgere la mente alle cose possibili e contentarci di quello che
si ha [...] paragonando la nostra vita con quella di coloro che si trovano in condizioni peggiori,
e pensarci fortunati;
La temperanza aumenta il numero di cose che ci possono procurare godimento e rende maggio-
re anche il sapere nostro nell’averle.
(fr. 191 = Stobeo III 1, p. 210, + fr. 211 = Stobeo III 5, p. 27; cfr. frr. 70-74)

Il piacere è da ricercare piuttosto dentro di sé che nei beni esteriori: « La felicità non
consiste nelle greggi e neppure nell’oro; l’anima è la dimora della nostra sorte » (fr. 171 =
Stobeo II 7 3i, p. 52). Socraticamente, l’etica attribuita a Democrito assegna all’uomo il
compito primario di dominare se stesso, e all’ignoranza di ciò che è meglio la responsa-
bilità del peccato (fr. 83 = Democrate fr. 49 Orelli). La legge richiede il massimo rispetto,
e anche questo sembra consonare con quanto Socrate aveva testimoniato a prezzo della
stessa vita:

È bene obbedire alla legge, all’autorità e a chi è più sapiente;

La legge ha come scopo quello di procurare vantaggio all’esistenza degli uomini; ma può pro-
curarlo solo se gli uomini sono disposti ad adattarsi alle condizioni vantaggiose. La legge infat-
ti dimostra la propria efficacia a chi accetta di obbedirle.
(fr. 47 = Democrate fr. 13 Orelli + fr. 248 = Stobeo IV 1, 33)
I presocratici 159

Non mancano riflessioni di ordine politico, che all’epoca in cui Democrito visse (l’età
della guerra del Peloponneso, con tutte le sue conseguenze), dovettero essere particolar-
mente attuali e sentite:

La guerra civile è dannosa a entrambe le parti in lotta, perché è una rovina per i vincitori e per i
vinti allo stesso modo;
Soltanto se c’è concordia si possono compiere grandi opere e le città riescono a vincere le guer-
re, altrimenti è impossibile;
La povertà sotto un governo democratico è tanto preferibile al cosiddetto benessere che offrono
i governi tirannici, quanto è da preferirsi la libertà alla schiavitù;
È necessario porre l’interesse dello stato al di sopra di tutti gli altri [...], perché uno stato ben
governato è il più grande presidio, e quando vi è questo vi è tutto [...], e se questo perisce tutto
perisce.
(fr. 249 = Stobeo IV 1, 34, p. 10 + 250 = ibid. 40, p. 12; + 251 = ibid. 42, p. 12 + 252 = ibid. 43,
p. 12)

Infine, Democrito anticipò quel sogno del cosmopolitismo che avrebbe trovato realiz-
zazione politica con Alessandro Magno, proclamando patria del saggio il mondo intero,
un mondo che egli aveva del resto ben conosciuto direttamente, a seguito dei numerosi
viaggi resi possibili dalle ricchezze di una famiglia in vista, quale era la sua:

All’uomo sapiente ogni paese della terra è aperto: perché la patria dell’anima buona è l’univer-
so intero.
(fr. 247 = Stobeo III 40, 7 p. 738)

Stimato da Aristotele, assunto come modello da Epicuro e Lucrezio, poliedrico e ge-


niale, non è avventato affermare che, non fosse stato per le vicende legate alla trasmissio-
ne dei testi, dominate dalle figure di Platone e di Aristotele, e per il silenzio fatto scende-
re su di lui da Platone, Democrito avrebbe giocato per il pensiero filosofico e scientifico
antico un ruolo paragonabile a quello dello stesso Aristotele. Con lui si conclude il per-
corso dell’età detta presocratica: e siamo ormai già all’eredità socratica, allo sviluppo del
platonismo; muore Democrito, e nasce Aristotele.

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