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La via della schiavitù (1944),

di Friedrich A. Von Hayek

2.1. Da Vienna a Londra: il pericolo disconosciuto

Friedrich August von Hayek (1899-1992) fu uno studioso


eclettico di vasta cultura, i cui studi non si limitarono al
campo dell’economia, per i quali fu insignito nel 1976 del
premio Nobel, ma affrontarono compiutamente temi di
filosofia politica, diritto, epistemologia, etica, psicologia 1.
Allievo di Hans Kelsen, Othmar Spann e Friedrich von
Wieser, presso la facoltà di Giurisprudenza di Vienna, von
Hayek, dopo aver terminato gli studi, nel 1921, conseguì
quasi subito la laurea in Scienze Politiche. Tra i professori
più autorevoli vi era Ludwig von Mises del quale seguirà i
seminari privati e diverrà uno dei principali collaboratori.
L’incontro con von Mises segna una svolta nel suo percorso
intellettuale e politico, con l’abbandono del socialismo
fabiano e l’adesione alle dottrine liberali. Dal 1923 al 1924
lavorò come assistente di Jeremiah Jenks alla New York
University, per poi collaborare con il governo austriaco al
calcolo dei dettagli economici e legali dei trattati
internazionali che segnarono la fine della Prima guerra
mondiale. Mises lo aiutò ad organizzare l’“Istituto austriaco
per lo studio del ciclo economico”, che von Hayek diresse

1
JACK BIRNER, RUDY VAN ZIJP (eds.), Hayek. Coordination
and Evolution. His Legacy in Philosophy, Politics, Economics
and the History of Ideas, London-New York, Routledge, 1993.
assieme a Oskar Morgenstern.
Le prime opere sul ciclo economico, Teoria monetaria e
teoria della congiuntura (1929), C’è un “controsenso del
risparmio”? (1929), colpirono l’attenzione di molti studiosi
europei, tra cui Lionel Robbins, il direttore del dipartimento
di Economia della London School of Economics, che lo
volle proprio alfiere nella battaglia delle idee che intendeva
condurre contro l’emergente teoria keynesiana in auge nella
scuola economica di Cambridge. Dopo alcuni anni di
collaborazioni seminariali, nel 1933, Hayek entra
nell’organico con la cattedra di economia politica 2. La
querelle tra Hayek e Keynes, condotta con rispetto
reciproco, si era accesa con le critiche del Trattato sulla
moneta e le controrepliche sulla rivista Economica della
LSE 3.
Presso la London School of Economics, Hayek fu
incaricato, nel 1934, curare la riedizione delle opere di Carl
Menger, al cui studio si era già dedicato con Von Mises, e
fa la conoscenza del concittadino Karl Popper, i cui studi gli

2
RAIMONDO CUBEDDU, F. A. Von Hayek, Roma, Borla, 1995.
3
FRIEDRICH A. HAYEK , Reflections on the Pure Theory of
Money of Mr. J.M. Keynes, in «Economica», XI, 33, 1931; ID.,
The Pure Theory of Money. A Rejoinder, in «Economica», XI,
34, 1931; JOHN M. K EYNES, The Pure Theory of Money. A Reply
to Dr. Hayek, in «Economica», XI, 1931, 34; FRIEDRICH A.
HAYEK , Reflections on the Pure Theory of Money of Mr. J.M.
Keynes. Part II, in «Economica», XII, 35, 1932. Quasi
contestuale fu il confronto con l’italiano Pietro Sraffa, critico della
teoria hayekiana dei cicli di commercio e poi conquistato dalla
keynesiana The General Theory of Employment, Interest and
Money (1936): PIETRO SRAFFA, Dr. Hayek on Money and
Capital, in «Economic Journal», XLII, 165, 1932; FRIEDRICH A.
HAYEK , Money and Capital: A Reply, in «Economic Journal»,
XLII, 166, 1932; PIETRO SRAFFA, A Rejoinder, in «Economic
Journal», XLII, 166, 1932.
confermano i motivi dell’adesione all’individualismo
metodologico nel campo delle scienze politiche e sociali.
Negli anni Trenta e Quaranta, la London School of
Economics era un’importante fucina di teorie e ricerche,
non solo di matrice liberale, con la presenza di Hayek e
Popper, ma anche di matrice socialdemocratica, grazie ad
Harold J. Laski, Richard H. Tawney, Graham Wallas e alla
direzione generale di William Beveridge, tra il 1919 e il
1937, i cui “Rapporti” (1942-44) saranno il fondamento della
moderna concezione delle politiche Welfare State.
In questo clima intellettuale, sullo sfondo dei grandi
eventi che segnano la storia europea tra le due guerre, Von
Hayek opera un graduale passaggio verso gli studi politici,
dedicandosi alla rifondazione dei presupposti di una
filosofia sociale ispirata al liberalismo e, per converso, alla
critica serrata delle dottrine socialiste e fasciste, accomunate
nell’idolatria della pianificazione politica statale.
La pubblicazione de La via della schiavitù4, nel 1944, è il
momento più rilevante di questo programma politico-cul-
turale. Le vicende del libro sono quanto mai travagliate.
Riguardo all’elaborazione, il testo fu scritto tra il 1940 e il
1943, a partire dalla rielaborazione di un memorandum per
William Beveridge, apparso, con il titolato Libertà e sistema
economico, come articolo nella Contemporary Review
nell’aprile 1938, e ripubblicato, l’anno successivo, in
versione ampliata come uno dei Public Policy Pamphlets,
curati da Harry G. Gideonse per la University Chicago Press.
Una volta ultimato, il libro fu dapprima rifiutato da molti
editori, con varie motivazioni di carattere economico o

4
FRIEDRICH A. V ON HAYEK , The Road to Serfdom, London,
Routledge & Kegan Paul, 1944; Chicago, The University of
Chicago Press, 19722; trad. it. Remo Costanzi, Verso la schiavitù,
Milano, Rizzoli, 1948; nuova trad. di Dario Antiseri e Raffaele De
Mucci, La via della schiavitù, Milano, Rusconi, 1995.
politico, per un best-seller in Inghilterra e, sopratutto, lo
stesso anno, negli Stati Uniti, facendo assurgere l’Autore a
intellettuale di fama internazionale, con traduzioni del libro
in innumerevoli lingue, recensioni su giornali a vasta
tiratura come il New York Times, compendi sul Reader’s
Digest e commenti di molti studiosi eminenti, da
Schumpeter a Pigou. Il favore dell’opinione pubblica
coincise, però, con l’ostilità degli ambienti accademici
europei, in cui dominava la fama di Keynes, scomparso
prematuramente nel 1946. Le ragioni del diffuso dissenso
verso lo studioso austriaco sono note. Il libro è originato dal
timore che la Gran Bretagna seguisse la parabola percorsa
dalla Germania di Weimer, con la crisi delle istituzionali
liberali, la diffusione del socialismo in campo economico,
la deflagrazione delle contraddizioni interne al sistema
pianificato e la via di uscita politica attraverso un regime
totalitario di tipo fascista. Von Hayek non dubitava della
buona fede degli “amici e colleghi inclini a simpatizzare
con la sinistra”, riguardo alle loro idee sul nesso tra il
benessere e la giustizia di interventi statali. E, come
ricorderà in seguito, nella dedica del libro – «Ai socialisti
di tutti i partiti» – non vi era «alcun intendimento ironico
sociale e la necessità di programmare piani»5. Tuttavia, il
“totale fraintendimento” dei circoli progressisti della natura
dei regimi nazi-fascisti e il loro rapporto con la
pianificazione, a giudizio di Von Hayek, esponeva anche la
civile Inghilterra ai gravi ed incombenti pericoli.
Le critiche non furono accolte bene dai colleghi, tra i
Laski, con cui Hayek si frequentava e condivideva la
passione per il collezionismo di libri, era certamente uno
dei più cari. La pubblicazione del libro incrinò
irrimediabilmente i loro rapporti, visto che Laski si

5
FRIEDRICH A. V ON HAYEK , La via della schiavitù, cit., 13.
convinse che le critiche del collega erano rivolte
principalmente a lui. In un clima intellettuale e scientifico
intriso di cultura interventista ed ostile al liberalismo, molti
altri studiosi, allora, rivolsero all’opera di Von Hayek
manifestazioni di scherno. Come ricorda Antonio Martino,
«Nel 1944 il liberalismo classico costituiva una sorta di
curiosità storica e il numero di cultori era irrisorio. [...]
Quando nel 1947 Hayek decise di fondare la Mont Pèlerin
Society con lo scopo di riunire «un gruppo di persone che
siano d’accordo sui princìpi fondamentali» di una società
libera, la sua valutazione sul numero di liberali era
pessimistica: «il numero di coloro che in un dato paese
sono d’accordo su quelli che a me sembrano i principi
liberali è piccolo». [...] Gli faceva eco Schumpeter che, nel
1949, commentando l’efficacia delle riunioni della Mont
Pèlerin Society, scriveva: «Credo che ci sia una montagna in
Svizzera dove si sono tenuti congressi di economisti che
disapprovano quasi tutte queste politiche socialiste. Ma
questi anatemi non hanno nemmeno suscitato critiche»6.
Questo commento ben documenta la distanza tra l’in-
terpretazione dominante negli ambienti scientifici e politici
anglosassoni, sempre meno ostili al socialismo, e la
ricostruzione che Von Hayek proponeva della storia europea,
avvertendo i colleghi e i lettori dei rischi incombenti. Certo,
egli non poteva dimostrare le proprie previsioni
scientificamente. E, del resto, nella concezione hayekiana del
sapere, gli eventi storici dischiudono sempre «terre
sconosciute» e, nel tempo presente, «solo raramente
possiamo percepire qualche barlume di quanto giace nel
futuro»7. La storia non si ripete mai e nessuno sarà mai in
grado di prevedere con precisione il corso inevitabile degli

6
A NTONIO M ARTINO, Introduzione all’ edizione italiana, in
FRIEDRICH A. V ON HAYEK , La via della schiavitù, cit., pp. 6-7.
7
FRIEDRICH A. V ON HAYEK , La via della schiavitù, cit., p. 45.
eventi. Ciononostante, l’interpretazione delle situazioni
passate, alla luce delle condizioni storiche e degli sviluppi
che si sono prodotti a partire da quelle, può insegnarci molto.
Tanto più che si tratta di una comparazione ravvicinata nel
tempo tra ciò che è accaduto nella Germania degli anni
Venti e Trenta, che l’Autore ha vissuto in prima persona, e
quello potrebbe accadere, a distanza di due decenni, in paesi
pur più evoluti, economicamente e politicamente, come
l’Inghilterra e gli Stati Uniti d’America:

È qui necessario affermare la sgradevole verità, per cui


noi ci troviamo, in qualche misura, davanti al pericolo di
ripercorrere la via già battuta dalla Germania. Il pericolo
non è immediato, è vero, e le condizioni dell’Inghilterra
e degli Stati Uniti sono ancora molto lontane da quelle
che abbiamo visto negli ultimi anni in Germania,
cosicché è difficile credere che ci stiamo muovendo
nella medesima direzione. Eppure, sebbene la strada sia
lunga, essa è una strada dalla quale diventa sempre più
difficile tornare indietro man mano che si procede in
avanti 8.

Di fronte alle somiglianze tutt’altro che superficiali,


secondo Von Hayek, allora, «non c’è bisogno di essere
profeti per accorgersi dei pericoli incombenti su di noi».
Pericoli che destano tanta più preoccupazione perché
disconosciuti da coloro che combattendo in buona fede tute
le manifestazioni aberranti del nazismo, in realtà, senza
esserne consapevoli «lavorano per ideali, la cui
realizzazione condurrebbe direttamente all’aborrita
tirannia»9. In un brano successivo, egli rappresenta il
dramma in atto: «Si può immaginare una tragedia maggiore
8
Ivi, p. 46.
9
Ivi, p. 48.
di quella per cui, nel nostro sforzo fatto intenzionalmente
per foggiare il nostro futuro secondo altri ideali, noi di
fatto possiamo produrre involontariamente proprio l’esito
opposto a quello che ci eravamo sforzati di ottenere?»10.
Gli ideali, la cui implementazione nelle politiche
creerebbe le condizioni di caduta nel fascismo, sono quelli
socialisti che tanta parte delle élites e delle masse popolari
comincia a ritenere il punto di vista e d’intervento più
avanzato di uno sviluppo socio-economico inarrestabile.
Viene così presentata la tesi che maggiormente indignò gli
intellettuali dell’epoca, ovvero che il fascismo non fosse
stato originato da una reazione al diffondersi delle idee
socialiste, bensì il prodotto conseguente della traduzione in
politiche di intervento di quest’ultima dottrina.
Giustamente, Von Hayek avverte il lettore che «L’interpreta-
zione degli sviluppi degli eventi in Germania e in Italia che
verrà proposta in questo libro è assai differente da quella
data dalla maggior parte degli osservatori stranieri e dagli
esuli provenienti da quei Paesi. Ma se questa
interpretazione è corretta, essa spiegherà anche la ragione
per cui è quasi impossibile per quanti, al pari degli esuli e dei
corrispondenti stranieri dei giornali inglesi e americani,
sostengono le concezioni socialiste oggi prevalenti, vedere
questi avvenimenti nella giusta prospettiva»11.
È difficile ammettere che i regimi totalitari in Germania
e Italia non siano universi completamente diversi bensì i
prodotti di un’evoluzione di pensiero alla quale le sfere
pubbliche democratiche stanno attivamente partecipando.
Tuttavia, non è corretto incolpare la natura malvagia delle
popolazioni e delle classi dirigenti tedesche e italiane per
l’avvento del fascismo. Questi paesi, sino a non molto tempo
fa, erano parte di una comune civiltà europea che ha subito
10
Ivi, p. 50.
11
Ivi, p. 52.
gli attacchi di un medesimo fattore di disgregazione, i cui
effetti si sono manifestati prima nelle aree meno progredite
sul piano sociale e che ora investono tutti.

2.2. La strada abbandonata e la grande utopia

All’origine della nascita dei regimi totalitari, secondo Von


Hayek, vi è il progressivo allontanamento dalle idee sulle
quali è stata edificata la civiltà occidentale. Da una
prospettiva storica di lungo corso, un filo rosso lega questa
esperienza, fondata dalla cultura greca e romana e dal
cristianesimo e che è cresciuta e si è dispiegata nel
Rinascimento e nel liberalismo del diciannovesimo secolo.
Quelle idee sono condensate nel concetto di
“individualismo” che, a dispetto delle opinioni prevalenti,
non significa affatto egoismo, attaccamento ai soli propri
interessi:

i tratti essenziali di quell’individualismo [...] sono dunque


il rispetto dell’uomo singolo in quanto uomo, cioè il
riconoscimento che le sue idee e i suoi gusti sono supremi
nella sua propria sfera per quanto strettamente questa
possa essere limitata, e la credenza che è desiderabile che
gli uomini sviluppino i loro talenti e le loro inclinazioni
individuali 12.

La concezione individualista alla base della fiducia nel


libero mercato non sostiene, come spesso si è affermato,
che per la natura egoista dell’essere umano non devono
essere posti limiti al suo controllo, al di là della protezione
della vita, delle proprietà e delle condizioni di libertà.
Semplicemente, tale dottrina afferma il principio che, al

12
Ivi, pp. 59-60.
netto di inevitabili limiti, agli individui dovrebbe essere
permesso di seguire i loro propri valori e interessi piuttosto
che quelli imposti da una qualche autorità esterna. Tutte le
limitazioni alla loro sovranità devono trovare il loro
fondamento in finalità sociali che essi stessi hanno deciso di
perseguire attivando forme di collaborazione:

Ciò che costituisce l’essenza della concezione


individualista è il riconoscimento dell’individuo comune
giudice ultimo dei propri fini, la convinzione che per
quanto possibile le sue opinioni debbano governare le
sue azioni. Una concezione del genere non esclude,
ovviamente, il riconoscimento di finalità sociali, o
piuttosto di una coincidenza di fini individuali tali da
rendere consigliabile ai singoli un accordo per
perseguirli. Ma essa limita tale azione comune ai casi in
cui le vedute individuali coincidono 13.

Al pari di altre forme di organizzazione, anche l’autorità di


quella statuale deve essere finalizzata e limitata ai fini e ai
mezzi che gli individui hanno deciso di riconoscergli, per
quanto rispetto alle altre sia molto più potente e vasta.
Proprio perché vi sono certe decisioni coercitive su cui non
vi può essere l’unanimità tra i cittadini ma soltanto
l’accordo di una maggioranza o il conflitto tra valori e
interessi minoritari, dove non c’è un tale accordo, la
tolleranza è il principio che può favorire la convivenza
pacifica. L’alternativa è la soppressione della libertà delle
minoranze da parte di un potere statale asservito a una
parte. Ciò che la dottrina liberale ha combattuto, cercando di
limitare le funzioni del governo a quei campi in cui l’accordo
poteva esser raggiunto con la libera discussione.

13
Ivi, pp. 109-110.
Questa idea della libertà individuale e della tolleranza tra
persone che cercano, ciascuna a modo proprio, di foggiare la
loro esistenza scegliendo tra diverse condotte personali e
forme associate, è strettamente collegata allo sviluppo del
commercio. Dalle città dell’Italia del Nord, la nuova
concezione di vita si diffuse, al crescere dei traffici,
attraverso la Francia e la Germania sud-occidentale, fino ai
Paesi Bassi e alla Gran Bretagna, potendo beneficiare qui
dell’assenza di un potere dispotico che la soffocasse e
finendo per diventare la base della vita sociale e politica.
Ancora da qui, sul finire del XVIII secolo e per tutto
l’Ottocento l’individualismo si diffuse, in una forma più
matura, verso il Nuovo Mondo e il continente europeo, in cui
l’oppressione politica l’aveva parzialmente distrutto. Le tre
grandi rivoluzioni dell’epoca moderna, quella scientifica,
quella industriale e quella liberale, sono strettamente
connesse tra loro dal legame all’individualismo. Il
liberalismo ha esteso a tutte le classi la coscienza della
libertà e dei benefici personali e collettivi del suo uso,
creando quindi le condizioni culturali per uno sviluppo
economico e sociale che elevò il benessere, la sicurezza e
l’indipendenza, per un numero sempre più crescente di
soggetti, a livelli inimmaginabili nei secoli precedenti. La
fede nelle possibilità di migliorare la propria sorte era
testimoniata dal successo già ottenuto da altri individui. E la
storia del genere umano ci insegna, in effetti, che i migliori
progressi materiali e spirituali sono stati possibili perché vi
è stata una riduzione della sfera in cui le azioni individuali
erano disciplinate da regole stabilite per imperio.
Il principio organizzativo che ha coordinato
intenzionalmente l’insieme interdipendente di relazioni tra i
soggetti singoli e associati è stata la concorrenza in un
mercato soggetto il meno possibile alla coercizione politica.
Fu questa libertà in campo economico che accrebbe gli
spazi di libertà personale e politica come mai in passato. A
favore della libera concorrenza intervenne, infatti, la
constatazione che la pianificazione pregiudicava l’attesa
generalizzata di un progresso verso il meglio e lo stimolo per
il miglioramento futuro in termini benessere e libertà. Von
Hayek ritiene, infatti, che se «l’innalzarsi del livello di vita
portò subito a scoprire nella società difetti molto gravi,
difetti che gli uomini non erano più disposti a tollerare
ancora, non ci fu probabilmente nessuna classe che non
traesse sostanziali benefici dal progresso generale»14.
Questo progresso, tuttavia, fu inevitabilmente lento e le
aspettative che lo stesso liberalismo aveva generato gli si
ritorsero contro. Oramai le classi subalterne non erano più
disposte a tollerare le diseguaglianze e discriminazioni né
ad aspettare che il ciclo economico di produzione e
distribuzione della ricchezza facesse il proprio corso. Per di
più, come riconosce lo stesso Von Hayek, montava una
“giusta indignazione” contro quanti usavano la fraseologia
liberale in difesa di privilegi antisociali pregressi. Quando
divenne chiaro che la posizione sociale non era determinata
da “forze impersonali” – la provvidenza, la natura, il
mercato, etc. – ma da decisioni deliberate delle istituzioni
politiche, cominciò l’assalto al loro potere15.
Fu così che, sul volgere del XIX secolo, la fede nei
princìpi del liberalismo fu progressivamente abbandonata a
favore di dottrine e politiche di orientamento socialista, che
la maggior parte dell’intellighenzia abbracciò quali eredi
legittime e completamento della tradizione liberale. Per
contro, a giudizio di Von Hayek, il socialismo rappresenta
una “rottura” non solo rispetto al liberalismo ottocentesco
bensì all’intera evoluzione della civiltà occidentale.
Rievocando gli ammonimenti di Tocqueville e Lord Acton,
14
Ivi, p. 62.
15
Ivi, p. 160.
egli ritiene che il socialismo è “schiavitù” 16. Del resto, sin
dalle formulazioni della tradizione francese, il socialismo
moderno fu “chiaramente autoritario” e incompatibile con
le basi individualiste della democrazia:
Gli scrittori francesi che posero del socialismo moderno
non avevano alcun dubbio loro idee potevano venir
messe in pratica soltanto da un forte governo dittatoriale.
Per loro, il socialismo significava un tentativo di
«portare a termine la rivoluzione» per mezzo di una
intenzionale riorganizzazione della società progettata su
basi gerarchiche e ad opera dell’imposizione di un
«potere spirituale» coercitivo. Per quel che concerneva
la libertà, i fondatori del socialismo non nascosero
affatto le loro intenzioni 17.

Per giustificare la preminenza del collettivo sugli individui,


il socialismo cominciò a fare sempre di più uso della
promessa di una “nuova era”, intesa marxianamente come il
salto dal regno della necessità a quello della libertà.
L’assicurazione di un imminente avvento di un mondo in
cui la crescita della ricchezza materiale avrebbe visto una
eguale distribuzione dei frutti del lavoro e la fine delle
disparità tra gli uomini fu una delle armi più incisive della
propaganda socialista, e non v’è dubbio che la fede che il
socialismo porti a questo regime di libertà è sincera. Tuttavia
– nota Von Hayek – proprio questa autentica convinzione
non fa che accrescere la tragedia in cui ci troviamo, visto
che quella promessa di una nuova “Via della libertà” in
realtà era la “Via maestra della schiavitù” 18.
L’intento dell’opera è, infatti, quello di dimostrare che il
socialismo democratico – la “grande utopia delle ultime

16
Ivi, p. 58.
17
Ivi, p. 70.
18
Ivi, p. 73.
generazioni” –, non soltanto è inattuabile ma che lo sforzo
di raggiungerlo produce esiti completamenti opposti alla
crescita del benessere, della pace e della libertà, essendo la
premessa per il passaggio a regimi totalitari.
2.3. Il socialismo e la pianificazione “inevitabile”

Lo studioso austriaco definisce, in primo luogo, il concetto


di socialismo, come il sistema che prevede l’abolizione
della proprietà privata dei mezzi di produzione a favore di
una forma di economia pianificata nella quale la
concorrenza tra imprese che operano al fine di conseguire
profitti è sostituita dalle direttive di un organismo centrale
che detiene e organizza tutti i fattori produttivi 19. Non sono
soltanto le finalità di giustizia sociale che connotano il
socialismo – come credono molti suoi sostenitori che
ingenuamente non si interessano né capiscono come tali fini
possano esser conseguiti. Altrettanto essenziali sono i metodi
caratteristici del socialismo moderno, che vedono
nell’economia pianificata lo strumento principale. Anzi
alcune altre forze sociali, non avversano il socialismo proprio
perché è di gran lunga la più importante specie di
pianificazione, indipendentemente dai suoi fini sociali
contribuendo così accentuare la confusione concettuale20. In
effetti, quel che unisce i “socialisti di sinistra e di destra” è la
comune ostilità contro la concorrenza e il loro comune
desiderio di rimpiazzarla con un’economia dirigista che
convogli tutti gli sforzi per uno scopo sociale predefinito:

I vari tipi di collettivismo, comunismo, fascismo ecc.


differiscono tra di loro nella natura dello scopo diverso
cui intendono dirigere gli sforzi della società. Ma tutti
differiscono dal liberalismo e dall’individualismo per la

19
Ivi, p. 77.
20
Ivi, p. 81.
ragione che vogliono organizzare la società nella sua
interezza e tutte le sue risorse in vista di questo fine
unitario, e per la ragione che si rifiutano di riconoscere
sfere autonome nelle quali i fini degli individui sono
sovrani. In breve, essi sono totalitari nel vero senso di
questo nuovo termine 21.

Quando si parla di “pianificazione” non ci si riferisce,


quindi, a quell’orientamento di azione per cui è opportuno
che «i nostri comuni problemi siano affrontati nel modo più
razionale possibile e, nel far ciò, dovremmo usar tanta
preveggenza quanta ce ne possiamo permettere. In questo
senso, ogni uomo che non sia un perfetto fatalista fa i suoi
piani, ogni atto politico è (dovrebbe essere) un piano e ci
possono essere differenze solo tra piani buoni e cattivi, tra
piani saggi e preveggenti e piani folli e di corte vedute»22.
Nessuna persona previdente che procede metodicamente
nella condotta potrebbe essere contrario a tale pianificazione.
E tanto meno dovrebbe esserlo un economista, il cui compito
consiste nello studio di come gli uomini nelle loro imprese
economiche o nelle decisioni politiche pianificano o
potrebbero pianificare le azioni. Non è questo però il
significato dato al termine da tutti entusiasti di una società
pianificata in cui vi sia una «direzione centrale di tutte le
attività economiche secondo piano unico, il quale determini
il modo in cui le risorse della società dovranno essere
“consapevolmente dirette” per servire a particolari fini in una
in una maniera stabilita»23.
Prima di esaminare la natura totalitaria di questa
concezione, con i suoi esiti funesti per la libertà e il
benessere, Von Hayek esamina la posizione di coloro che si

21
Ivi, pp. 106-107.
22
Ivi, p. 82.
23
Ibidem.
schierano a favore del dirigismo centralista dell’economica,
non tanto perché lo ritengano desiderabile bensì perché
ritengono di non avere oramai alcuna possibilità di scelta.
Vi è, infatti, una tesi diffusa che egli intende contestare,
secondo cui circostanze al di là del nostro controllo
impongono di sostituire la pianificazione alla competizione:

Tra i diversi argomenti usati per dimostrare l’inevitabilità


della pianificazione, uno dei più frequenti è che i
mutamenti tecnologici hanno reso impossibile la
concorrenza in un numero di ambiti sempre più ampio e
che l’unica scelta che ci resta è quella tra il controllo della
produzione da parte di monopoli privati e la produzione
da parte dello Stato 24.

Secondo lo studioso austriaco, per contro, non sono i


mutamenti tecnologici che provocano la soppressione della
libera concorrenza ma una politica alimenta questa
mitologia al fine di dominare attraverso la pianificazione e la
collusione con le grandi imprese tutta la società civile25.
Se consideriamo l’estendersi della pianificazione
centralizzata alle relazioni economiche, Von Hayek
contesta la tesi per cui essa è l’unica risposta alle sfide
generate dalla complessità della moderna civiltà industriale.
Certamente, durante l’era liberale, la progressiva divisione
del lavoro ha creato una situazione in cui pressoché ognuna
delle nostre attività è parte di un grande processo sociale.
Ma l’idea che la concorrenza sia appropriata solo per
strutture sociali relativamente semplici si basa su di una

24
Ivi, pp. 91-92.
25
Tra i fautori dello sviluppo inevitabile dei monopoli Von
Hayek cita in particolar modo da Werner Sombart, mentre per la tesi
della necessità di politiche di pianificazione fa riferimento a Karl
Mannheim.
valutazione completamente sbagliata del suo funzionamento.
Al contrario, proprio la grande complessità dell’odierna
divisione del lavoro fa sì che il regime di concorrenza sia
l’unico metodo di coordinamento delle azioni umane, e ciò
attraverso i meccanismi di determinazione dei prezzi che
mettono i soggetti economici in grado di adattare
reciprocamente le loro aspettative e condotte:

E siccome la decentralizzazione diventa necessaria per la


ragione che nessuno può scientificamente soppesare
(balance) tutte le considerazioni che portano alle decisioni
di così tanti individui, è allora ovvio che la coordinazione
può realizzarsi non mediante un «controllo centralizzato
intenzionale», quanto piuttosto tramite meccanismi
(arrangements) che trasmettono ad ogni agente le
informazioni che egli deve possedere per poter adattare
efficacemente le sue decisioni a quelle degli altri. E
poiché tutte le informazioni dettagliate dei cambiamenti
relativi alle condizioni della domanda e dell’offerta dei
differenti beni non sono essere mai completamente
conosciute o raccolte e diffuse abbastanza rapidamente da
un qualsiasi organo centrale, ciò di cui si ha bisogno è un
qualche apparato registratore che prenda nota di tutti gli
effetti rilevanti delle azioni individuali e le cui indicazioni
siano nello stesso tempo la risultante e la guida di tutte le
decisioni individuali. Ebbene, questo è esattamente ciò
che fa il sistema dei prezzi in regime di concorrenza, e che
nessun altro sistema neppure promette di poter fare 26.

Il coordinamento delle azioni in un sistema complesso non


può essere guidato da un organo centrale perché esso
dovrebbe essere in grado di individuare e operativizzare in

26
Ivi, p. 98.
disposizioni articolate e concrete il “fine sociale” in
funzione del quale la società deve essere organizzata. Come
ben argomenta Von Hayek, dirigere tutte le nostre attività
secondo un unico piano presuppone che «a ognuno dei nostri
bisogni sia assegnato il suo posto in un ordine di valori che
dev’essere sufficientemente completo da rendere possibile
decidere tra tutte le differenti vie che il pianificatore ha da
scegliere. Presuppone, in poche parole, l’esistenza di un
codice etico completo in cui a tutti i differenti valori umani
sia assegnato il posto ad essi dovuto»27. Ora, chi è davvero
in grado di ricostruire questa enorme mappa dei valori e
degli interessi di tutti gli attori sociali? Inevitabilmente, ci
troveremo alle prese con lacune vistose e, soprattutto,
interpretazioni erronee e capziose.
Per un verso, orientare la pianificazione centralizzata in
base a un codice etico completo non è ragionevolmente
possibile: «Non solo noi non possediamo una simile
onnicomprensiva scala di valori, ma sarebbe impossibile per
qualsiasi mente umana comprendere l’infinità varietà dei
differenti bisogni dei diversi individui che competono per le
risorse disponibili, e attribuire a ciascuno un peso
determinato»28. La coscienza di questo fatto ineludibile
rappresenta il fondamento di tutta la filosofia individualista.
Pur essendo incredibilmente più “rozzo”, “primitivo” e
“limitato nella sua portata”, il metodo della direzione
centralizzata dell’economia continua ad avere un crescente.
Von Hayek si pone, quindi, il problema di capire come mai
un così grande numero di scienziati e tecnici si trovi in prima
linea affianco del partito della pianificazione. Al fondo delle
loro convinzioni vi sarebbe la frustrazione delle loro attese
che li spinge a “rivoltarsi contro l’ordine esistente”. Ogni
persona vorrebbe ottenere, nel breve arco di tempo della
27
Ivi, p. 107.
28
Ivi, p. 109.
propria vita, almeno la maggior quantità di cose che
desidera, non potendo certo averle tutte. La sovrapposizione
del proprio sistema di rilevanze a quello che si forma
spontaneamente nella dinamica sociale, spinge coloro che
più di altri si interessano ai fenomeni di rilevanza pubblica
a parteggiare per la pianificazione, sperando di poter
instillare nei dirigenti politici le loro idee circa il valore di
particolari valori e obiettivi. Ma questa illusione
eminentemente forte nello specialista è un retaggio culturale
presente in molti cittadini, con l’esito di far deflagrare il
conflitto tra partiti contrapposti:

Nelle nostre predilezioni e nei nostri interessi noi tutti


siamo in qualche misura degli specialisti. E noi tutti
pensiamo che il nostro personale ordine di valori non sia
un ordine puramente personale e soggettivo; noi, in realtà,
pensiamo che in una libera discussione tra persone
ragionevoli saremo in grado di convincere gli altri che il
nostro ordine di valori è l’unico giusto. [...] Sennonché, e
la cosa è ovvia, l’adozione di quella pianificazione da essi
invocata può unicamente far esplodere il contrasto latente
che esiste tra i loro scopi 29.

Per tale ragione, se fossimo in grado di stabilire una


gerarchia di valori e interessi rappresentativa delle aspettative
di tutti i soggetti coinvolti nelle decisioni, siamo davvero
convinti che le politiche conseguenti siano desiderabili?
Il fatto ineludibile è che la pianificazione richiede più
accordo di quello che esista nella realtà delle dinamiche
sociali e il rimando al concetto di “benessere comune” non
fa che nascondere la mancanza di un vero accordo sui fini e
ancor più sugli obiettivi specifici e sui piani attuativi 30. La
29
Ivi, pp. 103-104.
30
Ivi, p. 112.
sostituzione della pianificazione alla concorrenza
richiederebbe una la centralizzazione del potere decisionale
e di quello coercitivo in misura molto più grande di quanto
non sia mai successo nelle organizzazioni passate.

2.4. Il passaggio dal socialismo alla tecnocrazia e alla


dittatura

Se il consenso alla pianificazione è così forte nei paesi


democratici ciò si deve al fatto che è rimasto ancora sul
piano delle aspirazioni ideali, mentre laddove tale metodo
di coordinamento è stata applicato l’emergere di conflitti tra
interessi e valori antagonisti ne hanno mostrato tutti i limiti,
mascherati unicamente dalla coercizione. Von Hayek
ricostruisce, quindi, la dinamica che mette in crisi un sistema
democratico che introduca una direzione centralizzata
dell’economia e delle relazioni sociali, e che crea le
condizioni per una svolta verso regimi totalitari.
In primo luogo, ciò che si manifesta è un deficit di
decisione causato dall’impossibilità di trovare pacificamente
un accordo sui fini, gli obiettivi e gli strumenti dei piani.
Infatti, non è possibile governare aspetti specifici perché la
pianificazione richiede una visione e un accordo unitari. Non
può venir conseguita una pianificazione coerente
spezzandola in parti che il parlamento voti
indipendentemente, a seconda degli equilibri politici che si
creano.
Di fronte all’incapacità delle assemblee democratiche di
realizzare quanto hanno promesso all’elettorato, allorché
hanno ottenuto il mandato, l’insoddisfazione popolare
produrrà una crisi di legittimazione del ceto politico e, in
seconda battuta, delle stesse istituzioni democratiche. Von
Hayek descrive in maniera realistica tale situazione di stallo
politico e la conseguente via di uscita tecnocratica:
I parlamenti verranno considerati come «lavatoi» dove si
fanno chiacchiere inutili, istituzioni incompetenti o
incapaci di realizzare i compiti per i quali sono stati
eletti. E così prende corpo la convinzione per cui se deve
essere attuata una pianificazione efficace, la direzione
deve essere «tolta ai politici» e posta nelle mani di
esperti funzionari stabili o autonomi organismi
indipendenti. [...] Il difetto non è né nei singoli deputati
né nelle istituzioni parlamentari in quanto tali, quanto
piuttosto nelle contraddizioni insite nel compito al quale
esse sono preposte. Ad esse non si richiede di agire nei
campi dove è possibile l’accordo, ma di produrre l’ac-
cordo su tutto; di imporre la direzione totale delle risorse
della nazione. Sennonché, per un compito del genere il
sistema delle decisioni a maggioranza non è adatto 31.

Una volta che si passi al sistema della pianificazione è


inevitabile il trasferimento dell’esercizio della sovranità
dagli organi rappresentativi a quelli tecnico-esecutivi. La
legge deve conferirgli il potere di prendere e far eseguire
decisioni in circostanze che non possono venir previste e in
base a princìpi che non possono venir stabiliti in forma
generica. Quindi, la conseguenza è che, man mano che la
pianificazione si estende, si fa sempre più comune la delega
di poteri legislativi ai diversi ministeri o autorità.
Quest’ultimi possono scegliere a quali fini, obiettivi e
interventi in conflitto dare preferenza senza dover
rispondere direttamente al popolo da cui discende la
sovranità. Von Hayek sottolinea la delega agli esperti viene
giustificata in virtù della natura tecnica del compito da
realizzare ma ciò è la conseguenza di una situazione di

31
Ivi, pp. 112-113, 114.
impotenza politica che lo stesso parlamento ha creato. Per
tale ragione, egli scrive che «Opporsi alla delega in quanto
tale equivale ad opporsi ad un sintomo invece che alla
causa»32.
Questa sottrazione di potere legislativo agli organi
costituzionali elettivi introduce nell’ordinamento statale un
snaturamento del carattere generale della norma giuridica.
Infatti, i problemi in discussione, oggetto della delega, non
possono venir regolati da disposizioni generali, ma tramite
decisioni discrezionali da prendere caso per caso: «la delega
significa che ad una qualche autorità è stato dato il potere di
dare forza di legge a quelle che, sotto ogni aspetto, sono
decisioni arbitrarie (o che di solito vengono descritte con
l’espressione «giudicare il caso nel merito») 33.
La delega di particolari compiti tecnici a specifici
organismi regolarmente costituiti è però il primo passo del
processo con cui una democrazia che sceglie la politica della
pianificazione abbandona progressivamente i suoi poteri.
Infatti, affinché la direzione dell’economia sia efficace è
necessario coordinare gli organismi a cui è stato delegato il
potere di intervento su settori specifici perché «Molti piani
separati non costituiscono una pianificazione unitaria (a
planned whole); e, in effetti, come gli stessi pianificatori
dovrebbero ammettere per primi, avere tanti piani separati
può essere peggio che non averne nessuno»34. Ma è
immaginabile che l’organo legislativo abbandoni del tutto
ogni decisione sugli indirizzi generali a favore di questa
sorta di comitato centrale della pianificazione?
È molto probabile, allora, che il nuovo stallo provochi
nell’elettorato una richiesta sempre più forte e insistente
perché al governo o ad un qualche leader carismatico sia dato

32
Ivi, p. 117.
33
Ibidem.
34
Ivi, pp. 117-118.
il potere di agire in base alla propria responsabilità:

In questo stadio ci sono la domanda generalizzata di


un’azione di governo rapida e decisa, che è l’elemento
dominante della situazione, e l’insoddisfazione per il
corso lento e ingombrante delle procedure democratiche,
che fa desiderare l’azione per l’azione come fine a sé. È
allora che esercitano la maggiore attrazione l’uomo o il
partito che sembrano forti e risoluti abbastanza per
«mettere le cose a posto». [...] Quello che cerca la gente
è qualcuno con appoggi tanto solidi da ispirare fiducia
sul fatto che possa realizzare qualsiasi cosa voglia. È qui
che entra in gioco un nuovo tipo di partito, organizzato
su basi militari 35.

D’altra parte, secondo Von Hayek, la maggior parte dei


pianificatori che hanno analizzato con serietà il loro compito
«non hanno dubbi sul fatto che un’economia
centralisticamente diretta venir condotta, sostanzialmente,
sui binari dittatoriali: che il complesso sistema di attività
interrelate, se mai ha da essere deliberatamente diretto, deve
essere diretto da un unico comitato (Staff) di esperti, e che
la responsabilità ultima e il potere rimangono nelle mani di
un comandante supremo le cui azioni non devono venir
ostacolate dalla procedura democratica»36.
I governi e i loro capi giustificano il potere attribuito,
affermando che sino a quando il parlamento mantiene il
controllo finale del loro operato la democrazia è salva. Tale
argomento non convince affatto Von Hayek, secondo cui il
parlamento potrebbe controllare l’esecuzione dei compiti
unicamente se esso avesse stabilito il fine generale. In realtà,
i rappresentanti politici non ne hanno la minima cognizione
35
Ivi, p. 192.
36
Ivi, p. 140.
visto che proprio perché non sono riusciti a trovare unitarietà
di intenti hanno delegato al governo o al capo il potere di
scegliere tra finalità in conflitto. Ciò che rimane del potere
legislativo è la scelta delle persone che dovranno avere poteri
assoluti e un voto di fiducia su atti che devono essere
accettati nel loro complesso sullo sfondo di una discussione
parlamentare puramente retorica che «può venir mantenuta
come un’utile valvola di sicurezza e ancor più quale mezzo
adatto a diffondere le risposte ufficiali alle critiche e alle
rimostranze»37. Se nessuna forza politica è in grado di
proporre un piano alternativo che trovi un ampio consenso
parlamentare, la funzione dei rappresentanti rispetto al potere
esecutivo si ridurrà alla formulazione di critiche di parti
marginali dei provvedimenti proposti e di denuncia di alcuni
abusi flagranti o palesi ingiustizie inessenziali a cui porre
rimedio.
Questo assetto istituzionale non può essere più
considerato una democrazia bensì una “dittatura
plebiscitaria” in cui «il capo del governo è di volta in volta
confermato nella sua posizione dal voto popolare, in cui
però egli ha tutti i poteri a sua disposizione in modo da
poter essere certo che il voto andrà nella direzione
desiderata»38. Se un’organizzazione sociale coordinata
attraverso la pianificazione ha più probabilità di
trasformarsi in una dittatura ciò è dovuto al fatto che
quest’ultima è il più efficace strumento di imposizione di
finalità, obiettivi e interventi. La soppressione della libertà è
un requisito per il funzionamento della direzione centrale
delle attività pubbliche 39.
Per tale ragione, la concezione liberale indica non nella
fonte del potere – la sovranità popolare – ciò che gli

37
Ivi, pp. 119-120.
38
Ivi, p. 120.
39
Ivi, p. 122.
impedisce di essere arbitrario ma la limitazione dello stesso.
Nulla più distingue più chiaramente, a giudizio di Von
Hayek, la situazione di un sistema politico sottoposto a un
governo arbitrario da quello in cui è mantenuta l’osservanza
del principio conosciuto come “sovranità della legge” (rule
of law). Con tale espressione si intende che «il governo in
tutte le sue azioni è vincolato da norme stabilite e
annunciate in anticipo: norme che rendono possibile
prevedere con ragionevole certezza in che modo l’autorità
userà i suoi poteri coercitivi in determinate circostanze, e che
rendono possibile agli individui programmare i propri affari
sulla base di tale conoscenza»40. Le norme astratte e formali
si riferiscono a situazioni tipiche senza riferimenti a tempi, a
luoghi o determinate persone. In un sistema di pianificazione
pubblica, per contro, l’autorità che progetta i piani non può
vincolarsi in anticipo a regole generali e formali che vietino
l’arbitrio poiché essa deve continuamente stabilire
graduatorie valoriali di merito tra le necessità di differenti
persone e assumere corrispondenti decisioni. La
discrezionalità lasciata agli organi esecutivi che detengono
il potere coercitivo determina il fatto che alla fine «sarà
l’idea di qualcuno a decidere quali interessi sono più
importanti; e questa idea dovrà diventare parte della legge
del Paese. Ci troviamo così di fronte ad una nuova
distinzione di rango che viene imposta sulla gente
dall’apparato coercitivo dello Stato»41.
La selezione di ciò che ha valore e ciò che non ne ha e la
misura del riconoscimento ha inevitabilmente una
dimensione etica che trasfigura le funzioni dello stato
liberale. Il governo, infatti, deve, imporre le proprie
valutazioni ai cittadini e, invece di aiutarli nella
realizzazione dei loro particolari fini, deve scegliere per
40
Ivi, p. 123.
41
Ivi, p. 125.
loro i fini legittimi:

Lo Stato cessa di essere un pezzo di un meccanismo


utilitario destinato ad aiutare gli individui a sviluppare
più pienamente possibile la loro personalità e diventa
una istituzione «morale»; e qui «morale» non è usato in
contrasto con immorale, ma descrive una istituzione che
impone ai suoi membri le proprie idee su tutte le
questioni morali, opinioni che possono essere morali o
altamente immorali. In questo senso lo Stato nazista o
qualsiasi altro Stato collettivista sono «morali», mentre
non lo è lo Stato liberale 42.

La pianificazione non può essere affatto ridotta unicamente


alle materie economiche. È falsa, infatti, la rassicurazione
che la perdita di libertà in tali ambiti di azione è necessaria
per accrescere maggiore autonomia in altri in cui più
proficuamente potremmo far sentire “la nostra voce”. Non
esistono dittatori in campo economico che non lo siano
anche in ogni settore della sfera pubblica e privata43.
Così come la scelta di decidere che cosa per noi è più o meno
importante in materia economica è una parte essenziale della
nostra libertà individuale. Giustamente, Von Hayek scrive
che «la questione sollevata dalla pianificazione economica
non consiste, dunque, semplicemente nel sapere se saremo in
grado di soddisfare, nel modo da noi preferito, quelli che noi
consideriamo come i nostri bisogni più o meno importanti.
Consiste nel vedere se saremo noi a decidere quello che per
noi è più o meno importante, o se questo debba venir deciso
dal pianificatore»44. Introducendo la direzione centralizzata
nel campo economico, per soddisfare in misura maggiore ed

42
Ivi, p. 128.
43
Ivi, p. 141.
44
Ivi, p. 141.
equa i bisogni collettivi, i socialisti hanno così aperto la
strada al controllo su ogni aspetto della vita da parte del
totalitarismo.
Non soltanto ogni aspetto deve essere disciplinato ma
non appena lo Stato prende su di sé il compito di pianificare
l’intera vita sociale, il problema della posizione che spetta
in tale ordine ai diversi individui e gruppi finisce
inevitabilmente per diventare il nodo politico centrale. Ogni
questione diviene politica perché chi detiene il potere potrà
far prevalere le proprie idee e interessi su tutti:

Chi pianifica per gli altri?; chi dirige e domina gli altri?
chi assegna alle altre persone il loro posto nella vita?; e
chi è che ha da farsi fissare da altri quel che deve fare?
Questi diventano, di necessità, i problemi centrali che il
potere supremo deve decidere senza interferenze da parte
di nessuno 45.

2.5. Le radici socialiste del fascismo

Coloro che hanno osservato da vicino il passaggio dal


socialismo al fascismo sono più consapevoli della
connessione tra i due sistemi di pensiero e azione di quanto
non sia la maggioranza della gente che vive in paesi
democratici. Non deve ingannare lo scontro violento tra i
socialisti e i fascisti, in Italia prima del 1922 e in Germania
prima del 1933. Entrambi lottavano per guadagnarsi
l’appoggio dello stesso tipo di mentalità e se si odiavano
reciprocamente con lo stesso odio con cui si avversano gli
eretici, per entrambi il vero nemico – colui con il quale essi
non avevano niente in comune e che non potevano
minimamente sperare di convertire, era il liberale vecchio

45
Ivi, p. 162.
stampo46. L’avversione alla libera concorrenza è il comune
denominatore dei “socialisti di sinistra e di destra”, il cui
intendo è quello di organizzare e dirigere centralisticamente
tutte le forze sociali in vista dei rispettivi fini costitutivi.
Un’ulteriore linea di continuità tra il socialismo e il
fascismo è data dalla condivisione delle medesime forme di
indottrinamento e irregimentamento delle masse popolari,
attraverso l’instillazione di una visione del mondo, da cui
discendono idee, valori e norme di condotta, e la creazione di
partiti, associazioni e iniziative volte a reclutare, mobilitare e
controllare gli aderenti e combattere i nemici. Una
pianificazione che abbia successo, infatti, richiede
un’opinione comune favorevole sui fini essenziali e
un’organizzazione che sovraordini alla messa in opera delle
azioni. A tale scopo, i partiti socialisti per primi hanno
dedicato particolari sforzi al proselitismo tra le masse
popolari e all’educazione dei giovani. L’adesione necessaria
per giustificare la pianificazione sociale però non richiede
convinzioni razionali ma l’accettazione di un “credo”. In
quest’opera volta a produrre un movimento politico di
massa sostenuto un’unica visione del mondo e un comune
ordine di valori, i socialisti crearono per primi la maggior
parte degli strumenti pervasivi di indottrinamento e
irregimentamento di cui si avvalsero, in seguito e contro di
essi, i movimenti fascisti in Italia e Germania:

L’idea di un partito politico che abbracci tutte le attività


dell’individuo dalla culla alla tomba, che esiga di guidare
le sue opinioni su qualsiasi cosa, e goda nel trasformare
tutti i problemi in questioni di Weltanschauung di partito,
fu un’idea che per la prima volta venne messa in pratica
dai socialisti. [...] Non furono i fascisti ma i socialisti che

46
Ivi, p. 76.
cominciarono a riunire i fanciulli sin dalla più tenera età
in organizzazioni politiche per assicurarsi che crescessero
da buoni proletari. Non furono i fascisti ma i socialisti che
per primi pensarono di organizzare sport o giochi, partite
di pallone e gite, in circoli di partito in cui i membri non
sarebbero stati infettati dalle idee di altri. Furono i
socialisti ad insistere per primi che i membri del partito si
distinguessero dagli altri per il modo di salutare e
attraverso le formule adoperate nel rivolgersi il discorso.
Furono i socialisti che con l’organizzazione di cellule e
dispositivi per il controllo continuo della vita privata
crearono il prototipo del partito totalitario. Balilla e
Hitlerjugend, Dopo- lavoro e Kraft durch Freude,
uniformi politiche e formazioni militari di partito non
sono nient’altro che imitazioni di istituzioni socialiste
più vecchie 47.

Se queste sono le similitudini, Von Hayek cerca di spiegare


perché in Italia e Germania non furono i socialisti ma i
fascisti e i nazisti a instaurare dei regimi totalitari.
Allorché i partiti socialisti riuscirono a introdurre forme
di pianificazione nelle politiche degli stati liberali tra la fine
dell’‘800 e gli inizi del ‘900, la soluzione al problema di
definire il principio generale che uniformasse tutti gli
interventi pubblici non fu quella dell’eguaglianza assoluta
degli individui in tutti gli ambiti soggetti al controllo. Una
simile eguaglianza non era tollerabile non soltanto da parte
dei ceti abbienti ma neppure per quelli popolari. A tale
riguardo, Von Hayek rimarca che «Nessun movimento
socialista che abbia mirato ad una eguaglianza completa ha
mai guadagnato un consenso significativo»48. Ciò che i
socialisti rivendicavano come criterio guida
47
Ivi, pp. 168-169.
48
Ivi, p. 163.
dell’interventismo statale era piuttosto una distribuzione più
equa della ricchezza prodotta e l’allargamento dei diritti
civili, politici e sociali ai soggetti che rappresentavano. Né
mai si spesero veramente per realizzare una direzione
pubblica di tutte le attività economiche, sia per la difficoltà
del compito sia per il timore di limitare troppo le libertà. Il
socialismo operaio, che era cresciuto in un mondo liberale,
finì per “abbracciare”parecchi ideali del liberalismo e
istituzionalizzare lo scontro all’interno del parlamento. La
soluzione fu una specie di “via intermedia” fra i principi di
concorrenza e di pianificazione che configurò una sorta di
organizzazione “sindacalista” o “corporativa” che non
rispondeva a logiche liberali e neppure comuniste ma poneva
lo stato in balia dell’azione congiunta dei monopolisti e degli
operai dei settori produttivi organizzati 49.
Per un verso, l’opposizione al mercato concorrenziale
diede nuovo vigore a forze che, in maniera collusiva con
l’apparato pubblico, cercavano di ristabilire posizioni di
privilegio e rendita che l’epoca liberale aveva limitato. Se,
infatti, consideriamo lo sviluppo dei monopoli in quel
periodo, la loro formazione non discende dalla superiorità
sulle piccole delle grandi aziende, che attraverso una
organizzazione più razionale e tecnologicamente avanzata
erano in grado di aumentare la produzione a costi
decrescenti per unità e, quindi, eliminare la concorrenza
fornendo le merci a prezzi che le piccole non potevano
contrastare. Se vi erano certamente tendenze verso la
concentrazione dei mercati settoriali intorno a una azienda o
al massimo poche aziende giganti, è pur vero che altri fattori
agivano in direzione opposta. La costituzione di oligopoli o
monopoli in Italia e Germania fu soprattutto il prodotto di
collusioni tra il capitale e la pianificazione. Ne è una prova

49
Ivi, p. 88.
il fatto che se tali concentrazioni fossero state il risultato
necessario dell’evoluzione del capitalismo, avremmo
dovuto aspettarci la loro comparsa nei Paesi con sistemi
sociali più avanzati invece che in quelle economie
emergenti con fragili istituzioni democratiche50. Ora la
creazione di grandi corporation soggette a controlli pubblici
diretti o indiretti seppur private nel capitale rientrava nella
concezione classista della dottrina socialista. Quest’ultima,
infatti, era basata sull’idea di una divisione della società in
due classi con interessi comuni ma in contrasto sulla
distribuzione della ricchezza prodotta dal settore industriale: i
vecchi capitalisti e la nuova forza lavoro. In tale dottrina non
vi era spazio per altre forze sociali. Le grandi imprese, tanto
più se monopoliste, riuscirono ad assicurarsi l’appoggio
dello Stato persuadendo molti che la loro posizione
dominante fosse nell’interesse di tutti. Anche i sindacati e i
partiti socialisti trovarono conferma a tale mistificazione
negli alti salari che le grandi imprese dominanti erano in
grado di pagare ai loro dipendenti 51.
Il “congelamento” di questa configurazione di interessi
corporativi fu all’origine della nascita di un possente
movimento ostile alla pianificazione socialista e animato non
tanto dai capitalisti, con cui già si era trovato una specie di
accordo, ma dalla nuova classe media – lo sterminato
esercito di impiegati, amministratori e insegnanti,
commercianti e piccoli funzionari –, dagli occupati in lavori
più modesti e dalla massa montante di nullatenenti. Fu
questo il blocco che sconfisse l’avanzata dell’élite dei
lavoratori dell’industria e i loro rappresentanti politici52.
Von Hayek ricorda che, per un certo tempo queste classi,
fornirono molti dei leader del movimento operaio. Ma

50
Ivi, p. 94.
51
Ivi, p. 253.
52
Ivi, p. 170.
allorché si fece chiaro che la loro posizione peggiorava a
favore dei lavoratori dell’industria, queste categorie si
rivolsero ad altri movimenti politici che disprezzavano
egualmente il regime liberale, ma garantivano la difesa dei
loro interessi di classe, sempre più distanti da quelli di un
movimento operaio organizzato che percepivano parte della
classe sfruttatrice piuttosto che di quella sfruttata:

C’è proprio molto di vero nell’affermazione tanto spesso


ripetuta, secondo la quale il fascismo e il nazismo sono
una specie di socialismo della classe media, solo che in
Italia e in Germania i sostenitori di questi nuovi
movimenti non sono più, economicamente, classe media.
Si tratta in larga misura di una rivolta una nuova classe di
poveri contro l’aristocrazia operaia creata dal movimento
operaio dell’industria 53.

I movimenti fascisti furono capaci di attrarre tutti coloro


che, d’accordo sul controllo statale sull’attività economica,
divergevano per interessi dall’aristocrazia dei lavoratori
dell’industria, dai sindacati e dai partiti socialisti. I leader di
queste organizzazioni non seppero comprendere il risenti-
mento di ampie classi di vecchi e nuovi poveri e furono
sopraffatti da leader e militanti che avevano addestrato essi
stessi nelle fila delle loro organizzazioni: «Chiunque abbia
osservato la crescita di questi movimenti in Italia o in
Germania è stato colpito dal numero degli uomini a capo di
questi movimenti, da Mussolini in giù (non escludendo Laval
e Quisling), i quali cominciarono come socialisti e finirono
come fascisti o nazisti. E quel che è vero dei capi è ancor più
vero dei gregari del movimento»54. Gli aderenti a questi
movimenti erano totalmente pronti ad adottare i metodi del
53
Ivi, p. 171.
54
Ivi, pp. 75-76.
vecchio socialismo, ma pensavano di impiegarli al servizio
di una classe differente 55. E a differenza dei socialisti,
assorbiti nelle procedure della negoziazione all’interno
delle istituzioni democratiche, il fascismo e il
nazionalsocialismo non avevano nessuna illusione sulla
capacità del compromesso di decidere le questioni
concernenti gli interessi dei diversi gruppi sociali e proposero
una visione del mondo e una strategia politica volte a
difendere con la forza i privilegi dei sostenitori:

Essi sapevano che il gruppo più forte che avesse


arruolato abbastanza sostenitori a favore di un nuovo
ordine gerarchico della società, e apertamente avesse
promesso privilegi alle classi alle quali faceva appello,
avrebbe probabilmente ottenuto l’appoggio di tutti i delusi
a motivo del fatto che era stata loro promessa
l’eguaglianza e videro che avevano semplicemente
favorito l’interesse di una classe particolare56.

L’avvento di regimi fascisti non soltanto alla scarsa


resistenza dei ceti borghesi ma anche alla rinuncia da parte
dei partiti socialisti di utilizzare la forza per conquistare il
potere, invece che affidarsi al consenso elettorale. In effetti,
essi avevano masse di militanti guidate da organizzazioni
politiche a carattere paramilitare ma non le impiegarono.
Diversamente fecero i movimenti fascisti raccolti attorno a
una struttura politica più piccola ma più organizzata e che
pretendeva un’adesione assoluta e incondizionata. La loro
vicenda, ancora recente ai tempi di The Road to Serfdom,
rappresenta un importante insegnamento storico:

La probabilità di imporre un regime totalitario ad un


55
Ivi, p. 172.
56
Ivi, pp. 173-174.
intero popolo dipende dalla tempestività con cui il capo
raccolga attorno a sé un gruppo di persone disposte
volontariamente a sottomettersi a quella disciplina
totalitaria che a loro volta imporranno con la forza a tutti
gli altri 57.

Nel paragrafo – intitolato significativamente Perché


emergono i peggiori – Von Hayek prosegue spiegando
perché in un tale gruppo sarà probabilmente formato non
dai migliori ma dai peggiori elementi della società civile. Tre
sono i fattori negativi che non lasciano alcuna speranza. In
primo luogo, se all’interno del gruppo vi è un grado elevato
di uniformità di vedute, ciò è dovuto alla circostanza che
sono condivise le inclinazioni più “primitive” e “comuni”.
E ciò avviene perché la maggior parte degli uomini che ne
fanno parte hanno presumibilmente bassi livelli di
istruzione, visto che «quanto cresce l’intelligenza e
l’educazione degli individui, tanto più si differenziano le
loro opinioni e i loro gusti e tanto meno è probabile che essi
convengano su una particolare gerarchia di valori»58.
Tuttavia, un “dittatore potenziale” non può far affidamento
unicamente su questi esseri simili fra loro per la natura
schematica e primitiva dei propri istinti. Egli dovrà
ampliare la base di consenso “convertendo” il maggior
numero di persone alla propria visione del mondo. A tale
scopo, egli cercherà di ottenere in misura preferenziale il
«sostegno delle persone docili e credulone le quali non
hanno per sé solide convinzioni, ma sono disposte ad
accettare un sistema di valori bello e fatto, solo che lo si
ripeta forte e spesso, quanto basta, alle loro orecchie»59. La
propaganda è, quindi, il mezzo più efficace per ottenere che

57
Ivi, p. 193.
58
Ivi, p. 194.
59
Ivi, pp. 194-195.
essi si pongano al servizio dell’organizzazione perché
credono in quel sistema di valori. Von Hayek sottolinea che
«Se nei Paesi totalitari il senso di oppressione è in generale
assai meno acuto che non nei Paesi liberali, è per via del fatto
che i governi totalitari riescono molto bene a far pensare la
gente come vogliono loro. Il che è ottenuto, in effetti,
attraverso varie forme di propaganda»60. La conseguenza
della propaganda totalitaria, volta tutta a influenzare gli
individui nella stessa direzione politica, è la distruzione
delle convinzioni morali e del rispetto della stesso della
verità su questioni di fatto che impegnano in diverso modo
l’intelligenza degli uomini. Dal momento che c’è un capo
supremo che determina da solo i fini sociali, quelli che sono
i suoi esecutori non devono avere convinzioni morali e
opinioni proprie. La critica pubblica o perfino le espressioni
di dubbio devono essere soppresse perché tendono a
indebolire il sostegno generale. I seguaci devono affidarsi
senza riserve alla persona del capo; ma la cosa più
importante, dopo questa, è che essi siano assolutamente
senza principi e letteralmente capaci di tutto. Per far sì che
un’adesione così poco motivata si tramuti in
un’appartenenza attiva, seppure nella forma della
sottomissione incondizionata al partito, il leader deve,
infine, creare un senso di identità immediato ed escludente:
«Il contrasto sto fra «noi» e «loro», la lotta comune contro
quelli che tanno fuori dal gruppo, sembra essere l’in-
grediente essenziale di ogni dottrina che voglia unificare
strettamente un gruppo in vista di un’azione collettiva»61. Su
questa contrapposizione, tanto più se irresolubile, fanno
leva i movimenti che non ricercano unicamente l’adesione
di simpatizzanti a una data politica bensì la mobilitazione
delle masse per uno “scontro di civiltà”, sia esso condotto a
60
Ivi, p. 208.
61
Ivi, p. 195.
difesa degli interessi superiori di un’etica particolarista di
tipo nazionalista, razzista o classista. La conseguenza
obbligata di queste concezioni è che una persona è degna
solo in virtù della sua appartenenza al gruppo e non
semplicemente per il fatto di essere uomo. Laddove queste
finalità governano l’intera società è inevitabile che la
crudeltà possa diventare un dovere e «siccome ci sarà
bisogno di azioni cattive di per sé, che tutti coloro ancora
influenzati dalla morale tradizionale saranno riluttanti a
compiere, la sollecitudine a fare cose cattive diventa la via
per ottenere promozioni e potere»62.

2.6. Il liberalismo correttamente inteso

La dottrina liberale sostiene che il miglior impiego dei fattori


produttivi avvengo in un sistema concorrenziale selezioni le
scelte e regoli la cooperazione tra gli individui. In tale
sistema, lo Stato dovrebbe limitarsi a stabilire regole che si
applicano a tipi generali di situazioni e lasciare agli
individui la libertà di azione, per la ragione che unicamente
gli interessati nei singoli casi possono conoscere a pieno tali
circostanze e adattare ad esse le loro azioni. Von Hayek
avverte che la scelta politica che dobbiamo compiere non è
tra un sistema – quello socialista – in cui ognuno ottiene
quel che merita secondo standard universali di giustizia e un
sistema – quello capitalista – nel quale la diseguaglianza è
un elemento ineliminabile. Il vero dilemma è tra un regime
di pianificazione in cui è la volontà di poche persone a
decidere chi deve avere e che cosa deve avere e uno
concorrenziale in cui ciò dipende almeno in parte
dall’abilità e dall’intraprendenza delle persone e in parte da
circostanze casuali imprevedibili. Certamente, nel sistema

62
Ivi, pp. 206-207.
capitalistico di libera impresa le opportunità sono
condizionate dalla proprietà privata la cui origine discende
in parte considerevole dall’eredità. Tuttavia quale altra
organizzazione lascia anche al povero la possibilità di
elevare la propria posizione sociale?

Sebbene in regime di concorrenza la probabilità che un


uomo che parte povero consegua una grande ricchezza è
molto minore di quella di chi erediti delle proprietà, non
solo per il povero è possibile arricchirsi nel sistema
concorrenziale, ma questo sistema è l’unico in cui tale
arricchimento dipende soltanto da lui e non dal favore
dei potenti, e in cui nessuno può vietare ad un altro di
provare a conseguire questo risultato 63.

A differenza di quanto comunemente si crede, anche tra i


più fervidi sostenitori del liberalismo, ciò non significa che
si debba “lasciare andare le cose così come sono”. Infatti, il
principio fondamentale, secondo cui dobbiamo valorizzare
il più possibile le forze spontanee della società e ricorrere il
meno possibile alla coercizione non è riassumibile nella
formula del laissez faire, per quanto tale principio sia stato
una bandiera sotto cui si sono raccolti tutti coloro che hanno
lottato contro il dominio politico. Von Hayek sottolinea,
quindi, la differenza “marcata” tra l’accettare passivamente
“così come è” una situazione in si confrontano soggetti con
interesse spesso conflittuali e il creare intenzionalmente un
sistema all’interno del quale la concorrenza funzioni in
modo da produrre più benefici possibili. Una dottrina
liberale correttamente intesa, pur indicando nella
concorrenza la forma di organizzazione sociale che meglio
sviluppa e alloca le risorse, non preclude certi tipi di

63
Ivi, p. 156.
interferenza coercitiva nella vita economica da parte delle
istituzioni politiche, nella misura in cui tali interventi
possono aiutarne il funzionamento:

Essa si fonda sulla convinzione che là dove può essere


creata una concorrenza efficace, questa, nei confronti di
altre soluzioni, è la via migliore per indirizzare gli sforzi
individuali. Essa non nega, anzi sottolinea che, affinché
la concorrenza funzioni in modo da arrecare benefici, è
necessario un quadro legislativo pensato con cura, e che
né le leggi attuali né quelle del passato sono esenti da
gravi difetti. Né essa nega che dove è impossibile creare
le condizioni necessarie per rendere la concorrenza
efficace, dobbiamo ricorrere ad mezzi per guidare
l’attività economica. Il liberalismo economico si oppone,
comunque, a che la concorrenza venga sostituita da altri
metodi, ad essa interiori, di coordinazione degli sforzi
umani 64.

Il primo compito è quello di assicurare che tutti siano liberi


di produrre, vendere e comprare sul mercato, al prezzo per il
quale possono trovare un partner per la transazione. Ogni
tentativo di controllare la tipologia, le quantità e i prezzi dei
beni e dei servizi depriva la concorrenza del potere di
stabilire una coordinazione efficace degli sforzi individuali
perché, come già aveva sostenuto Von Mises, in quel caso
viene falsata l’unità di valutazione delle scelte. Per tale
ragione, Von Hayek indica come prima condizione
«essenziale che l’accesso a qualsiasi attività economica sia
aperto a tutti alle medesime condizioni, e che la legge
tolleri nessun tentativo da parte di individui o di gruppi
limitare tale accesso con la forza, palese o larvata»65. Per
64
Ivi, p. 83.
65
Ivi, p. 84.
tale ragione, il funzionamento della concorrenza richiede un
appropriato sistema di leggi progettato in modo tale da
preservarla e farla funzionare nel modo più proficuo, così
come l’organizzazione di istituzioni quali la moneta,
mercati e i canali di informazione che spesso non possono
essere fornite in maniera adeguata dall’impresa privata.
Fondamentale risulterà quindi la prevenzione e la
repressione della frode e lo sfruttamento doloso
dell’ignoranza.
L’intervento pubblico sarà necessario, poi, nei casi in cui
il risarcimento dei danni causati ad altri da determinati usi di
una proprietà non possano essere messi a carico del
possessore di quella proprietà oppure nei casi in cui i soggetti
privati non abbiano interesse a produrre o distribuire in certe
aree dei beni o servizi indispensabili al benessere collettivo,
come certe infrastrutture e trasporti. Come aveva già previsto
Adam Smith, discutendo i “doveri fondamentali del
sovrano”, si tratta di erigere e mantenere gli enti pubblici e
quelle opere pubbliche che, per quanto possano essere al
massimo grado vantaggiosa per una grande società, sono,
tuttavia, di natura tale che il profitto non potrebbe mai
rimborsare la spesa a qualsiasi individuo o piccolo numero
di individui.
Inoltre, sono del tutto compatibili con la conservazione
della concorrenza le misure volte a proibire l’uso o a
imporre precauzioni nel trattamento di sostanze tossiche, la
limitazione dell’orario di lavoro, la richiesta di accorgimenti
in materia sanitaria e di sicurezza personale. E ancora,
parimenti non lesive del principio di concorrenza, secondo
Von Hayek, risulta l’esistenza di un “ampio” sistema di
servizi sociali. Non c’è ragione alcuna perché in una società
che ha raggiunto livelli generali di benessere, un certo
livello di sicurezza economica non debba essere garantito a
tutti senza danneggiare la libertà di tutti. Egli ritiene, certo,
che la determinazione del livello di sicurezza che dovrebbe
essere garantito non è semplice e un’incauta soluzione di
tali questioni sociali potrebbe produrre problemi politici seri
e, forse, persino dannosi. Tuttavia, non c’è una ragione di
principio per cui lo Stato non debba assicurare quel minimo
di cibo, abitazione e vestiario sufficienti a preservare la
salute. A tal fine, le istituzioni pubbliche dovrebbero altresì
offrire assistenza in caso di malattia o infortunio e
organizzare un vasto sistema di assicurazioni per
fronteggiare i rischi diffusi della vita così come quelli
cagionati da eventi eccezionali e catastrofici come i
terremoti, le inondazioni, etc. Non solo. Von Hayek
sostiene che non sia incompatibile con il regime di libera
concorrenza neppure un sistema di ammortizzatori sociali
che faccia fronte alle fluttuazioni generali dell’attività
economica e alle ricorrenti ondate di disoccupazione su
larga scala che le accompagnano 66.
Fatte tutte queste concessioni alla possibilità di
intervento statale, Von Hayek ribadisce che «il fatto che noi
dobbiamo ricorrere, come surrogato, alla regolamentazione
diretta da parte delle autorità dove non è possibile creare le
condizioni per un funzionamento efficace della
concorrenza, non prova che noi dobbiamo sopprimere la
concorrenza quando essa può venir fatta funzionare»67.
Nessuna concessione, infatti, deve essere accordata a quella
pianificazione che ha effetti insidiosi sulla libertà, perché
volta a proteggere dalla competizione individui o gruppi
con interessi precostituiti. La diminuzione dei redditi che
possono subire i lavoratori di certe professioni, ad esempio,
è sicuramente un evento drammatico che però non giustifica
forme di protezionismo politico. Il regime di libera
concorrenza consente, infatti, di valutare cosa convenga fare
66
Ivi, pp. 176-177.
67
Ivi, p. 86.
utilizzando lo strumento più intelligibile per misurare
l’importanza delle occupazioni: «Per sapere se convenga
lasciare un lavoro e un ambiente graditi per un altro, in
conseguenza di un cambiamento, è necessario che il nuovo
valore sociale di queste occupazioni trovi espressione nelle
remunerazioni offerte»68. Se si mantengono artificialmente
condizioni diseconomiche che non hanno alcuna relazione
con l’utilità sociale non si fa altro che creare situazioni di
privilegio della sicurezza a favore ora a questo ora a
quest’altro gruppo che sarà in grado di condizionare
direttamente o collusivamente gli organi politici che
definiscono la pianificazione, a discapito dei lavoratori
concorrenti e dei consumatori 69.
La difesa protezionistica di interessi corporativi, sia essi di
imprenditori o dipendenti, rappresenta una forma di
discriminazione che pregiudica il benessere collettivo e
offende il senso di giustizia che si deve ai soggetti più deboli:

Solo chi ne abbia avuto esperienza può capire come sia


assolutamente senza speranza la posizione di chi sia
lasciato fuori dalla schiera delle posizioni protette in una
società diventata rigida, e può capire la grandezza
dell’abisso che separa costoro dai fortunati che hanno un
lavoro e che, grazie al fatto di essere protetti dalla
concorrenza, non sentono la necessità di muoversi
neanche di quel tanto che basta per far posto a chi è
privo di lavoro. [...] Non c’è mai stato sfruttamento
peggiore e più crudele da parte di una classe sull’altra
che quello messo in atto ai danni dei membri più deboli
o meno fortunati di un gruppo di produttori da parte di
quelli che godono di una posizione stabile, resa possibile

68
Ivi, p. 181.
69
Ivi, p. 184.
dalla « regolazione » della concorrenza 70.

Come abbiamo visto nella ricostruzione storica dell’afferma-


zione dei movimenti fascisti su quelli socialisti, questa
situazione di palese ingiustizia è pericolosa. Al crescere
della differenza tra la sicurezza dei privilegiati e l’insicurez-
za degli altri, l’esclusione dallo status sociale così
determinato politicamente può essere contrastata unicamente
lottando contro le istituzioni che ne sono le artefici: non può
esserci pace sociale in un sistema protezionistico.
L’intento di Von Hayek è quello di riaffermare il
principio guida, secondo cui «una politica di libertà per
l’individuo è la sola politica veramente progressista»71. Ciò
che maggiormente interessa lo studioso austriaco è
diffondere la conoscenza degli errori teorici e pratici in cui
sono incorsi coloro che hanno abbandonato la strada del
liberalismo per il socialismo credendo di realizzare
materialmente quella libertà solo formalmente riconosciuta.
Le vicende del recente passato insegnano che il punto di
arrivo della pianificazione è, per contro, la restrizione della
libertà, con il rischio di sostituire la dittatura alla democrazia.
Il potere di disposizione e coercizione conferito dalla
pianificazione allo Stato, infatti, è un potere che in una
società basata sulla libera concorrenza nessuno possiede.
Questa è la garanzia più rilevante della libertà personale:

È unicamente a motivo del fatto che il controllo dei mezzi


di produzione è diviso tra molti individui, che agiscono
indipendentemente l’uno dall’altro, che nessuno ha un
potere completo su di noi, e che in quanto individui
possiamo decidere cosa fare di noi stessi. Se tutti i mezzi
di produzione fossero riuniti in una sola mano, sia
70
Ivi, pp. 185-186.
71
Ivi, p. 289.
nominalmente la mano della «società» nella sua totalità o
quella di un dittatore, chiunque eserciti tale controllo ha il
completo potere su di noi72.

Von Hayek avverte il pericolo che l’enormità dei misfatti


compiuti dai governi totalitari, invece di accrescere il
timore che un tale sistema possa riprodursi anche nelle
democrazie liberali, sembra aver rafforzato la convinzione
che nulla del genere possa accadervi. Eppure, egli ricorda
che appena quindi anni prima nessuno o quasi in Germania,
tra i tedeschi e gli osservatori stranieri, avrebbe immaginato
il nuovo regno instaurato dal nazionalsocialismo. Per tale
ragione, Von Hayek è preoccupato che le analogie strutturali
e culturali con la Germania di Weimar vengano sottovalutati
dagli studiosi e politici inglesi, ai quali richiama la lezione
della loro migliore tradizione, quella dei Lord Morley,
Henry Sidwick, Lord Acton o A.V. Dicey, ammirati nel
mondo in quanto esempi eminenti dell’Inghilterra liberale e
diventati per la generazione attuale personaggi antiquati
dell’epoca vittoriana 73.
Per la sua adesione al liberalismo inglese originario, Von
Hayek fu considerato un “tedesco” più inglese d’un inglese,
ottenne la cittadinanza nel 1938 e sei anni più tardi fu eletto
membro della prestigiosa British Academy. La permanenza
non durò però molto lungo. Nel ‘50, egli si trasferì a
Chicago su invito dell’Università a far parte del corpo
docente. Ma, di nuovo, l’opposizione degli economisti
interni, i quali consideravano The Road to Serfdom un testo
troppo popolare, gli precluse il ruolo e consigliò di ripiegare
sull’insegnamento della scienza morale e sociale
nell'ambito del Committee on Social Thought. Nella
seconda metà degli anni Cinquanta lavorò all’altra sua opera
72
Ivi, p. 158.
73
Ivi, p. 239.
fondamentale, The Constitution of Liberty (1960) 74, in cui
tenta di riaffermare il liberalismo classico dell’800.
A partire dal 1962, Von Hayek fece ritorno in Europa,
per trascorrere un lungo periodo all’Università di Friburgo.
Diede alle stampe Law, Legislation and Liberty, opera
divisa in tre volumi (1973, 1976 e 1979)75 e ricevette una
crescente attenzione da parte del mondo intellettuale, sempre
più interessato al recupero della dottrina liberale.
Quando, nel 1974, von Hayek ottenne, insieme a Gunnar
Myrdal, il premio Nobel per il lavoro sulla teoria monetaria,
sulle fluttuazioni economiche e per le fondamentali analisi
sull'interdipendenza dei fenomeni economici, sociali e
istituzionali, da diversi anni i deficit di razionalità e
legittimazione investivano l’interventismo pubblico e,
quindi, aveva screditato le dottrine di matrice keynesiane.
Nel discorso che lo studioso austriaco tenne davanti al re di
Svezia, fu chiaro che la critica si allargava non solo a
Keynes ma a tutte le teorie della pianificazione che, in
forme diverse, sostengono tutti gli economisti che cercano
di seguire nel campo dei fenomeni sociali le metodologie e
gli interventi seguiti dalle scienze fisiche. Avendo come
fine il successo personale e di categoria, attraverso carriere,
consulenze e altre prebende e onori, essi contribuiscono a
diffondere la falsa concezione che sia possibile pensare di
costruire scientemente la società.
Queste convinzioni furono condivise dai molti che
videro nell’opera di Von Hayek e, in particolare in The
Road to Serfdom una “pietra miliare” del liberalismo:
«l’inizio il “rinascimento liberale” che ha caratterizzato la
storia dell’ultimo mezzo secolo» e che «ha portato il

74
FRIEDRICH A. V ON HAYEK , trad. it. La società libera, Firenze,
Vallecchi, 1969.
75
FRIEDRICH A. V ON HAYEK , trad. it. Legge, legislazione e
libertà, Milano, Il Saggiatore, 1986.
liberalismo classico da minoranza isolata ad un ruolo di
avanguardia nel dibattito politico contemporaneo» 76. Tra i
politici, Margaret Thatcher 77 che, per il suo “servizio agli
studi economici”, lo fece nominare, nel 1984, membro
dell'Order of the Companions of Honour (Ordine dei
Compagni di Onore) di Elisabetta II del Regno Unito. E un
anno prima morte, ottenne dal presidente degli Stati Uniti
George W. Bush la Presidential Medal of Freedom, una delle
maggiori onorificenze civili degli Stati Uniti.

76
A NTONIO M ARTINO, Introduzione all’ edizione italiana, in
FRIEDRICH A. V ON HAYEK , La via della schiavitù, cit., p. 5.
77
Margaret Thatcher dichiarò spesso di considerare Von Hayek
un punto di riferimento importante nella propria visione dei
compiti della politica rispetto alla sfera privata delle relazioni
economiche e sociali. E, sin dal primo incarico nel 1979, la “lady
di ferro” nominò Segretario di Stato per l'industria Keith Joseph, il
presidente dell'Hayekian Centre for Policy Studies.

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