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Cap.

1
Finestra e cornice
Il film La finestra sul cortile di Hitchcock mette in scena due qualità fondamentali del cinema, che la teoria
filmica ha interpretato con le metafore della finestra e della cornice: il protagonista possiede si una
posizione privilegiata rispetto agli eventi, poiché li osserva dalla sua finestra, ma allo stesso tempo mantiene
una certa distanza da essi, non potendo interagirvi in prima persona.

Le “finestre” del cinema sono: la lente della macchina da presa e del proiettore; la finestra della sala di
proiezione e l’occhio come “finestra” sul mondo.

Il rapporto tra spettatore e proiezione è ben diverso da quello del mondo del teatro (soprattutto alcuni tipi di
teatro contemporaneo), poiché lo spettatore è del tutto escluso da quanto avviene nel film e non deve dunque
aver timore di essere coinvolto nell’azione, e non si vede nemmeno costretto ad intervenire (come
accadrebbe nella vita reale).
Nella concezione di cinema come finestra/cornice, il cinema è oculare/speculare (quindi determinato
dall’accesso ottico), transitivo (poiché si osserva qualcosa) e disincarnato (poiché lo spettatore non entra in
contatto in prima persona con gli eventi, se non con il senso della vista).

Si guarda attraverso una finestra ma all’interno di una cornice.

Cronologicamente il concetto di cornice si colloca con le teorie costruttiviste, mentre quello di finestra con
quelle di orientamento realistico.
Questi due concetti originariamente sono molto utili per rispondere al complesso di inferiorità che il cinema
nutriva nei confronti di pittura e teatro, i quali si fondano sulla rappresentazione di un osservatore che si
mantiene molto distante dagli eventi, poiché per una simile ricezione c’è bisogno di distanza, e quindi di una
cornice.

Per Leo Braudy distinguiamo i film chiusi, ovvero quelli che non contengono altri elementi oltre a quelli
strettamente necessari, come per esempio i film di Melies, ma anche quelli di Lang e Hitchcock, insomma,
quei film che non vanno oltre il mondo presente all’interno di essi (la diegesi); mentre il film aperto si
estende sempre al di là di se stesso, nel mondo non-diegetico. La forma aperta offre dunque uno spaccato di
vita che sembra andare oltre quello rappresentato dalla macchina da presa, come nel caso dei film dei
Lumiere, di Renoir ma anche di Rossellini.
In sintesi la forma chiusa è centripeta e tende verso l’interno, poiché il mondo nella sua totalità termina ai
confini della cornice visiva, mentre la forma aperta è centrifuga e tende all’esterno, poiché la cornice
rappresenta una porzione modificabile di un mondo potenzialmente sconfinato.

Lo stile classico simula la trasparenza, con un costrutto che appaia realistico alla maggioranza degli
spettatori. Nel cinema classico lo spettatore è invisibile, in quanto tale per la storia che si sta svolgendo, e
questo stile è l’unico a possedere la visione d’insieme, con lo spettatore che da un lato, proprio perché
all’esterno, non può intervenire, e dall’altro se non vuole sentirsi totalmente estraneo ai fatti deve dipendere
da un suo sostituto all’interno del film, ovvero dal protagonista; questo accadeva nei film dei Lumiere, che
davano allo spettatore con la scena del treno la sensazione di entrare nello spazio degli spettatori di quella
scena, o nella saga di Guerre Stellari di George Lucas, che con il sistema Dolby dava agli spettatori la
sensazione di appartenere allo spazio dell’astronave.

Rudolf Arnheim sviluppa le differenze che intercorrono tra “cinema e realtà visiva”, ossia tra percezione
quotidiana e il modo in cui il film si mostra allo spettatore. La tesi di Arnheim afferma che il film, piuttosto
che raffigurare o imitare la realtà, produce un mondo ed una realtà affatto peculiari: il cinema offre
un’illusione parziale, dandoci l’impressione della vita reale, ma assomigliando ad un quadro assai più del
teatro, per via dell’assenza di colore, di tridimensionalità e della rigida limitazione imposta dallo schermo,
che tolgono al cinema ogni realismo.

Sergej Ejzenstejn non fa distinzione tra lavoro pratico a un film e teorico a un testo, teoria e prassi si
condizionano a vicenda. La riflessione filmica di Ejzenstejn è legata principalmente al concetto di

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montaggio. Egli si attinge soprattutto alle forme di rappresentazione dell’arte giapponese, ribellandosi al
metodo occidentale di mettere in scena un’azione per la macchina da presa, la cui cornice appare come un
dato di fatto, scegliendo invece uno spaccato tramite il quale la macchina conquista il mondo. Per Ejzenstejn
l’inquadratura è una cellula del montaggio, e “questo viene caratterizzato dalla collisione tra due pezzi che
si trovano l’uno accanto all’altro”. Lo scopo di un film è quello di “modellare lo spettatore attraverso una
serie di pressioni sulla sua psiche”; con ciò il film diviene un’organizzazione di elementi - le attrazioni - che
sviluppano nello spettatore una precisa reazione calcolata con esattezza (matrice costruttivista),
indirizzando l’emozione dello spettatore verso il fine che lo spettacolo si pone.
Egli delineò cinque metodi di montaggio:
-il montaggio metrico è una misura puramente temporale che si basa sulle “lunghezze assolute dei tempi di
montaggio”.
-il montaggio ritmico pone in rapporto le lunghezze temporali delle inquadrature con il loro contenuto (es.
scena scalinata Corazzata Potemkin).
-il montaggio tonale e quello armonico si costruiscono entrambi sulla base di movimenti e forme interni
all’inquadratura ma intesi in un’accezione più ampia.
Queste quattro forme danno appunto vita al montaggio delle attrazioni.
-la quinta categoria prevede il montaggio intellettuale, ovvero l’ultimo passo verso la forma complessa di
pensiero, e la volontà di rendere accessibili anche al cinema forme complesse di linguaggi quali metafore,
analogie, sineddochi ecc.
Se il montaggio delle attrazioni ambisce alla partecipazione emotiva del pubblico, quello intellettuale
ambisce ad una presa di posizione dello spettatore, che non deve limitarsi a subire le immagini, ma deve
attribuirgli un ruolo ben preciso.

André Bazin fornisce un enorme contributo alla teoria filmica nel periodo successivo alle guerre, quando
inizia a teorizzare sul cinema come strumento succube dei totalitarismi, che se ne erano serviti per la
propaganda, ritenendo che da esso si potesse ripartire per la ricostruzione della società. Da qui il suo positivo
approccio al Neorealismo italiano, distinguendolo dal realismo proprio perché si oppone all’analisi politica,
morale sociale ecc. della società e dei personaggi, a differenza del realismo appunto, “lo scopo del
Neorealismo è quello di descrivere globalmente la realtà attraverso una presa di coscienza globale”. Il film
convenzionale crea cose e fatti, mentre il film neorealistico vi si sottomette completamente, è passivo rispetto
al racconto, andando così a fornire una vera e propria finestra che si affaccia sulla realtà: “Non si manipola
più la realtà rappresentata, ma se ne fornisce una visione non falsata, non ci sono più attori, non c’è più una
storia o una messa in scena: niente più cinema”.
Realismo convenzionale —> pietre che compongono un ponte
Neorealismo —> blocchi di pietre sparpagliate sul letto di un fiume, esse si possono utilizzare per
attraversarlo, ma non sono state create a quello scopo
Bazin è anche il tramite tra Neorealismo e Novelle vague francese

David Bordwell teorizza un particolare modo di mettere in scena la profondità, importante perché diversi
livelli agiscano insieme, oppure lavorino l’uno in contrapposizione con l’altro, come quando accadono più
cose ma su diversi piani di profondità. Egli lavora dunque sulla “inversione della gerarchia visiva”, che può
conferire ruoli importanti anche ai personaggi sullo sfondo.

Cap.2
Porta e telo
Prendendo d’esempio il film Sentieri selvaggi, tipico western all’americana che tematizza già i vari aspetti
della cinematografia legata all’American Way of Life, vediamo come sia fondamentale il ruolo della soglia,
momento iniziale del film nel quale il cinema riflette su se stesso, in un momento comune a quasi ogni film,
ovvero il passaggio da un mondo ad un altro, l’esistenza di due mondi congiunti e separati allo stesso tempo
dalla soglia. Il film è dunque sospeso fra mito e realtà, e l’attore fra ruolo e immagine, perché esso (John
Wayne in questo caso) richiama, ancor prima che lo spettatore ne riconosca il ruolo nel film, gli ideali di
virilità e AWoL tipici di questo filone cinematografico. Altro ruolo di separazione giocato dal genere
western è quello legato alla soglia che separava i due mondi reali ma idealizzati come tali: vecchio west e
colonie; il primo abitato dagli indiani (simbolo della natura sconfinata) e dunque dall’inciviltà, il secondo

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dai coloni, i cowboy, simbolo di cultura e volontà di conquistare i territori dei “nemici”. Queste ideologie
basate sul classico rapporto buono-cattivo sono bastate per creare negli americani il pensiero che gli indiani
fossero veramente il nemico e che la conquista del selvaggio west fosse stata simbolo positivo di virilità e di
appartenenza dei coloni come reale popolo americano, basandosi principalmente sulla separazione culturale
data dai nuovi stereotipi introdotti dai coloni, che contrastavano quelli dei nativi.

All’inizio del film lo spettatore si trova tra due poli: la proiezione, grazie alla quale egli si può lanciare
dentro il film rinunciando volontariamente alla propria soggettività, e l’identificazione, che gli permette
invece di fare suo il film e viverlo come soggetto immaginario.
A riguardo Edgar Morin esamina come i personaggi dei film siano dunque una sorta di “sosia” dello
spettatore, il quale può sostituirsi ad essi per “partecipare” al film. Questa teoria però rappresenta un aspetto
non poco inquietante, secondo il quale i personaggi in cui ci riconosciamo altri non sarebbero che
l’incarnazione di ciò che è troppo intimo e temuto in noi stessi.

L’effettivo punto di frattura tra spettatore e film della sala cinematografica in sé è però il telo. Già dal punto
di vista etimologico questa parola ci si presenta come ambigua, poiché “screen” sarebbe sia lo schermo che
ci mostra la finzione, sia un qualcosa che piuttosto che avvicinare ci nasconde la realtà e ci obbliga a
rispettare una sorta di distanza di sicurezza.
Quando guardiamo un film oltrepassiamo sempre un confine ritrovandoci in un mondo diverso dal nostro,
delimitato sia fisicamente che da varie soglie semantiche e simboliche.

Il cinema quale complesso architettonico può essere visto da vari lati, come scambio economico, dato che
si paga per accedervi, come istituzione sociale, come fenomeno culturale ecc.
Dal punto di vista puramente architettonico invece, la facciata di un cinema prima si mostrava spesso con un
aspetto che la facesse distinguere dal resto degli edifici nella strada.
“A film opens at a cinema” è la tipica frase inglese che significa che il film si apre al cinema e che
metaforicamente rappresenta la soglia per entrare nel film stesso.
Il film si apre anche in altri modi, attirano il pubblico a sé con elementi paratestuali: come il titolo, che
talvolta richiama ad un logo o un marchio ben conosciuto (es. fumetti, videogiochi ecc.) oppure richiama
all’appetibilità dell’azione, della tensione o del sesso; la locandina, che in una sola immagine richiama
l’essenza del film; gli elementi di sponsorizzazione del merchandising oppure i trailers che devono
racchiudere in pochi minuti le scene salienti che attirino l’attenzione dei potenziali spettatori.
Poi comincia il film. Dopo i vari loghi di case di produzione e quant’altro comincia la credit sequence, che
col tempo si è evoluta per importanza, diventando talvolta un mini-film che introduca quello intero, sin dai
tempi di Hitchcock ma fino ad arrivare alla celebre sequenza di Seven nel 1995.
Tutti questi elementi precedenti al film ci fanno notare come esso inizia a lavorare sullo spettatore molto
prima della sua reale trasposizione.

A film iniziato è opportuno che esso scopra le proprie carte, definendo regole, scopo e terreno di gioco,
andando a far intuire allo spettatore la linea logica del film.
Per quanto riguarda la narratologia del film si distinguono due scuole di pensiero a partire dagli anni 70:
cognitivo-(neo)formalistica e (post)strutturalistica, la prima si occupa della razionalità e della logica della
distribuzione delle informazioni, la seconda invece dell’instabilità del significato. Per i neoformalisti il film
consiste in una rete di cues (suggerimenti), che lo spettatore utilizza per creare il film vero e proprio tramite
un atto di costruzione mentale. Dal materiale grezzo del plot, nella mente dello spettatore nasce la story, il
primo rappresenta l’ordine casuale in cui ci vengono rappresentati i fatti, la seconda è invece la messa in
ordine di tali fatti per comprendere il senso del film (es. Pulp Fiction).
Il post-strutturalismo presuppone che il significato del film sia sapere instabile, non finalizzabile e
suscettibile di decostruzione. Esso mostra come la differenza di significato di due segni richiami sempre altri
segni, cosicché in ogni atto linguistico anche i segni non verbali vibrano armonicamente tra di loro. Dal
punto di vista del post-strutturalismo l’incipit del film finge di presentarsi in medias res, come se fosse
un’istruzione per l’uso, l’esordio appartiene all’oggetto come una parte costitutiva che lo descrive, ma ne è
allo stesso tempo separata. Secondo la teoria di Thierry Kuntzel lo spettatore viene messo al corrente di tutti
i dati sin dall’inizio, seppur in una forma così cifrata da poter essere compresa solo retrospettivamente.
Vi è poi accanto a queste scuole di pensiero la teoria classica del dramma, una sorta di base teorica
secondo la quale la trama si divide in tre atti che fungono rispettivamente da esposizione, conflitto e
scioglimento, con il punto drammatico di svolta rappresentato dal plot Point. Nei blockubster le parti
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diventano 4, con l’aggiunta del climax finale che porta ad un breve epilogo, tutte dalla durata di circa
mezz’ora.

Ulteriori teorie sul come lo spettatore si immerga nel film ci vengono fornite da Michail Bachtin,
riassumendo il concetto di “eteroglossia”, secondo il quale ogni forma di espressione artistica sia un
richiamo ad una precedente, che sia tramite una citazione, un omaggio ecc. Questo porta dunque a
presupporre espressioni precedenti e ad anticipare espressioni future. I momenti di passaggio, le soglie, sono
quindi espressioni di una catena attraverso la quale il film dialoga con opere passate e future, ma necessita
anche di una continua attualizzazione e prosecuzione da parte dello spettatore.

Esempi di espressione dell’uso della porta sono per esempio il buco della serratura, che sfrutta l’idea dello
sguardo che non viene riconosciuto, come in Psycho. Ma anche dal punto di vista della differenza tra
percezione acustica e visiva, come in Roma, città aperta quando nel quartier generale tra le due stanze
separate dalla porta socchiusa vi sono continui collegamenti ottici o acustici fra spazi in realtà separati. O
ancora in Quarto potere quando la porta sbarra l’accesso nella scena del “No trepassing”, atto di autonoma
trasgressione.

Cap.3
Specchio e volto
Lo specchio inteso come momento in cui lo spettatore, guardando un film, si trova di fronte al proprio stesso
volto.
Secondo Bela Balazs il cinema tenta di riportare l’immediatezza comunicativa che un volto o un immagine
può dare rispetto alla scrittura, che egli contesta per aver preso il ruolo di comunicatore per eccellenza con
l’invenzione della stampa.
Nella teoria filmica distinguiamo inoltre tre paradigmi riguardanti il tema dello specchio:
-nel primo paradigma della fase classica il cinema si concepiva come specchio dell’inconscio, nel senso di
un qualcosa in più che lo specchio poteva rivelare. E’ stato il paradigma centrale tra gli anni 60 e gli anni 80,
e si distingue in due posizioni che si sovrappongono: da un lato l’impiego delle teorie freudiane
dell’inconscio, dall’altra l’idea lacaniana dello stadio dello specchio, ovvero la fase della prima infanzia che
è decisiva per la formazione della soggettività. Alla base di queste teorie c’è il pensiero che al cinema il
corpo regredisca ad uno stato precedente, poiché nell’oscurità della sala il riferimento con la realtà va
perduto, il telo del sogno interiore diviene il telo reale della sala;
-nel secondo paradigma la metafora dello specchio acquisisce la funzione del raddoppiamento riflessivo,
che nella teoria filmica ha un significato più di allontanamento che non di svelamento;
-nel terzo paradigma il cinema viene accostato anche allo specchio mimetico dell’altro, identificato dagli
studiosi comportamentisti quale parte della comunicazione umana.

Christian Metz è stato certamente la personalità dominante della filmologia degli anni 70. Il suo pensiero
può dividersi in due fasi; nella prima egli si interrogava sulle analogie del linguaggio umano e del cinema
(com’è possibile che a una successione arbitraria di immagini si possano ascrivere significati ben
determinati?), ritenendo che “ciò che deve essere compreso è che i film sono compresi”;
nella fase psicoanalitico-poststrutturalista, nel quale introduce il concetto di significante immaginario, nel
quale tratta gli elementi che rendono simili cinema e specchio, ossia la ricchezza percettiva (come la
pienezza di dettagli), ma anche la grande irrealtà dell’immagine (il fatto che non si tratti di altro che luce su
superficie bidimensionale). Il concetto fondamentale a cui Metz arriva con le sue riflessioni è quello che
porta a distinguere tra cinema e specchio per il semplice motivo che in una proiezione non avviene mai la
riflessione dell’immagine, infatti lo spettatore potrà riconoscersi nei personaggi, ma questo causa un
malinteso dato che egli non è il personaggio in questione.
RAPPORTO CINEMA-SPECCHIO = SIMILE MA CREA MALINTESO

James Lacan ci fornisce la teoria definita stadio dello specchio, con la quale si indicherebbe la fase
evolutiva del bambino tra i 6 e i 18 mesi, nella quale egli non è in grado di controllare a pieno i suoi
movimenti, ma riconosce il suo riflesso sullo specchio. Lacan ritiene che questa fase determini l’ingresso del

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bambino nelle strutture sociali, poiché questo si percepisce dall’esterno come entità completa, andando a
creare un Io reale che sta alla base di identificazioni più complesse alle quali il soggetto arriverà crescendo.

Jean Louis Baudry si rivolse invece alle condizioni esterne della proiezione. Egli voleva chiarire come
mai il realismo (inteso come movimento artistico) producesse un “effetto di realtà”, e perché tale effetto si
spieghi con il concetto di “effetto-soggetto”. Per fare ciò Baudry collega le circostanze della proiezione
cinematografica alle condizioni sociali e alle tecniche di realizzazione del film, mettendo al centro della sua
visione l’idea che “il dispositivo cinematografico determini artificialmente uno stato di regressione”;
paragona la visione del film al mito della caverna, per spiegare la condizione di impossibilità di distogliere
l’attenzione dello spettatore, e di slegarsi da ciò a cui assiste, entrando in uno stato di trance (teoria
dell’apparato), concezione tragica del cinema.

Il cinema ci riporta all’infanzia, imitando il processo di formazione del soggetto, anche se restano attive la
fobia e la paura della perdita, proprie del soggetto adulto.

Le nuove ondate tedesche e francesi degli anni 60-70 hanno posto al centro dell’attenzione la funzione del
raddoppiamento riflessivo: il cinema moderno non si limita a raccontare una storia, ma racconta anche
sempre di sé, riflette ed esibisce se stesso, non si vuole più solo raccontare dunque, ma il fatto medesimo che
si tratti di narrazione deve entrare a sua volta nel racconto ( metacinema).
Già dal neorealismo è evidente come i temps morts, ovvero quegli intervalli di tempo che trascorrevano da
un azione all’altra nei primi film di Antonioni, dimostrassero come la rappresentazione della realtà non fosse
possibile senza che la fabula si decomponesse nei propri singoli elementi. Sono tipici di questo periodo film
che racchiudano nei propri stessi protagonisti il film in sé, come per Blow-Up e 8 e 1/2.
Successivamente, dagli anni 60, Bertolt Brecht ambiva ad impedire un comportamento consumistico-passivo
da parte del suo spettatore, e a minare alla base dell’esistenza di un modo artificiale autonomo dalla realtà.
Tuttavia con l’affermarsi del postmoderno ciò è andato scemando.

Lo specchio, il volto e il primo piano si possono mettere in relazione con il fenomeno dei neuroni a
specchio, ovvero la scoperta di tali neuroni che fanno scoprire il processo di apprendimento umano
attraverso l’emulazione. Per i neuroni a specchio non esiste differenza tra vedere e fare, e qui risiede il loro
fascino per la teoria filmica, poiché comprendono anche empatia ed immedesimazione che si può
indifferentemente attivare nei confronti di altre persone.

———————————— PARADOSSI————————————

Cap.4
Occhio e sguardo
Per comprendere l’importanza del cinema delle origini e il motivo del suo immediato successo bisogna
riflettere sul concetto di cinema come sguardo. Il cinema delle origini portò alla vista delle persone per la
prima volta luoghi e cose sconosciuti, sostituendosi all’occhio umano, andando oltre le limitazioni di quel
periodo e mostrando il mondo come era fatto realmente. Già i primi film dei Lumiere mostravano l’arrivo
della locomotiva nella stazione, ma un grande esempio ci viene fornito qualche anno dopo con l’occhio
filmico di Dziga Vertov nel film L’uomo con la macchina da presa, che altro non fa che mostrare in tutto e
per tutto, senza limitazioni visive, come era fatta la città di Mosca, con una serie di “effetti speciali” che
rendono questo occhio quasi onnipotente. Walter Benjamin infatti celebrerà questo film non tanto per il
realismo, ma per la capacità di violare la vita quotidiana.

Per comprendere questo argomento bisogna richiamare la teoria dell’apparato di Baudry, che si basava
sull’analisi della disposizione rigida ed immutabile degli spettatori (privati del corpo e prigionieri inermi),
dello schermo (fisso) e del proiettore (nascosto), tutti elementi che stanno in un rapporto spaziale reciproco;
tale disposizione dava un’architettura di sguardi sullo schermo rendendolo specchio immaginario del
desiderio degli spettatori.

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Dalle varie analisi di Baudry su questa teoria, che rimandano a concetti di Platone, Marx, Freud e Lacan su
tutti, emerge il problema della distinzione tra Io e Io ideale, che sarebbe sottomesso allo sguardo dell’Altro,
e ciò ci fa comprendere come lo sguardo di altri su di noi non possa mai coincidere con il nostro sguardo su
noi stessi. Questa visione negativa della soggettività umana viene importata nella teoria filmica da Baudry,
che con ciò cercava di dimostrare che l’apparato cinematografico non solo corrisponde in modo inquietante
all’idealismo filosofico occidentale, ma mette anche in scena l’originaria frammentazione, la mancanza di
coordinazione motoria e l’incapacità di sopravvivere autonomamente del poppante umano.

A sfatare questa teoria così pessimistica sul mezzo cinematografico ci sono alcune ideologie:
-la funzione della narrazione: cosa ne è delle discontinuità e fratture che si manifestano nel taglio filmico? Il
montaggio ha il compito di coinvolgere lo spettatore nella finzione filmica. Tale processo viene definito
dagli anni 70-80 come suture, che è l’utilizzo critico delle regole di continuity della Hollywood classica allo
scopo di “cucire” talmente lo spettatore al racconto, da produrre un’illusione di coerenza e continuità sia
nell’azione esteriore sia sulla soggettività interiorizzata.
Il Continuity-System è un sistema grazie al quale la discontinuità spazio-temporale della narrazione non
venga notata dallo spettatore, tramite il montaggio; questo ci fa comprendere come il cinema sia un medium
narrativo e non di pura visibilità, come invece era nel cinema delle origini o delle avanguardie. Le suture
servono per “cucire il soggetto al film”, e vi sono varie tecniche di montaggio molto frequenti che creano
soddisfazione agli occhi dello spettatore, proprio perché grazie a tali tecniche la visione non è disturbata da
imperfezioni e da un senso di controllo sul mondo rappresentato; tra i vari esempi ci sono l’estabilishing
Moment, ovvero l’inquadratura iniziale di un piano sequenza che ci mostra i personaggi della scena e la loro
posizione nello spazio, serve per dare un’idea spaziale allo spettatore e a seconda della lunghezza della
sequenza ne possiamo trovare un secondo prima della fine della scena; ancora più conosciuta è la regola dei
180°, utilizzata nei dialoghi, quindi molto frequentemente, che ci mostra gli interlocutori alternati e ci da un
senso di realtà durante lo scambio verbale; oppure l’eyeline match, ovvero quando il personaggio fissa un
qualcosa con molta intensità suggerendoci che cosa stia guardando e poi ciò ci viene mostrato
nell’inquadratura successiva.
-la rilevanza e la funzione della sessualità nel sistema filmico: il nascente femminismo si interrogava su tale
funzione. Soprattutto Laura Mulvey va ricordata per le sue teoria riguardo tale argomento. Innanzitutto
riconosceva tre tipi di sguardo filmico, quello della cinepresa, quello dello spettatore e quello diegetico dei
personaggi; essa riteneva che senza il coinvolgimento dello spettatore nella narrazione e dunque senza l’uso
delle suture il risultato sarebbe di un “cinema del non piacere”. Un altro ruolo importante nel successo del
cinema è giocato, secondo la Mulvey, dall’aspetto voyeuristico del cinema, ossia dall’architettura della sala
che presuppone il buio totale e l’illuminazione dello schermo data da una cinepresa non identificabile
(nascosta), che fa si che lo spettatore “spii” i personaggi, che altro non sono che “oggetti”.
Tornando al tema del femminismo nascente, la Mulvey fu la più grande rivoluzionaria in ambito
cinematografico di questa corrente, dato che volse una critica in blocco al cinema classico, “nel cinema
hollywoodiano l’uomo guarda e la donna è guardata”; questo perché riteneva che il cinema fosse uno
strumento prettamente maschile e maschilista, in quanto nei vari generi è l’uomo ad essere non solo
protagonista ma anche “spettatore tipo”, infatti la maggior parte dei film, ancora oggi, presuppone uno
spettatore maschio che non solo si riconosca nel protagonista, ma che veda ciò che un uomo deve e vuole
vedere. Questo tagliava fuori il pubblico femminile, che restava confinato a generi quali la soap opera e i
“film da fazzoletto”, che inoltre davano una visione masochista poiché caratterizzati da un finale tragico.
A queste teorie sono state mosse molte critiche, tra chi accusava la Mulvey di favoreggiare il patriarcato
proprio attribuendogli così tanta importanza, oltre che le varie critiche di stampo omofobico legate a film
come Il silenzio degli innocenti, che è un importante esempio di decostruzione dello sguardo maschile e
del ruolo della donna nel cinema horror/thriller, con la protagonista che è costantemente osservata
consapevolmente e senza poter cambiare questo stato, che tuttavia può essere visto positivamente in quanto
simbolo di una donna che si muove positivamente in un ambito lavorativo prettamente maschile; mentre le
critiche del movimento omosessuale sono perlopiù rivolte alla figura di Buffalo Bill, il cattivo del film, un
transessuale mancato travestito e sadico, che nella scena madre appunto spia la protagonista nella sua
caverna.
-ruolo della storicità e immaginario storico: aspetti esclusi dalla totale astoricità di Baudry. Questo sviluppò
la sua teoria nel momento in cui il cinema perdeva il suo predominio, per via della diffusione della
televisione. In questi stessi anni vennero posti interrogativi storicistici sulla materia filmica, “Si può
identificare lo sguardo dello spettatore come un qualcosa che cambia a seconda dell’aspetto storico e sociale
al quale lo spettatore appartiene?”: il ruolo della storicità dello sguardo ci porta all’identificare lo sguardo
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come gaze, ossia sguardo come “guardare fisso”, che non si può ricollegare a un luogo o a una persona
precisa, e che rimanda sia alla dimensione storica che a quella strutturale.
Il regime dello sguardo comprende, avvolge e domina tutti gli sguardi individuali, non è visibile ma
percepibile come superiore e capace di sottrarsi a qualunque attribuzione. L’esempio preferito da Lacan per
spiegare il rapporto tra sguardo e regime dello sguardo è il dipinto Gli ambasciatori di Hans Holbein, nel
quale abbiamo una prima sensazione di controllo, fino a che non scopriamo la macchia a forma di teschio
che guarda l’osservatore. Slavoj Zizek, seguace di Lacan, spiega tra le sue teorie più importanti per l’analisi
del rapporto sguardo-regime dello sguardo, quella sul film La donna che visse due volte di Hitchcock: nella
scena dove Scottie vede per la prima volta Madeleine al ristorante con suo marito, due inquadrature
sembrano non combaciare al punto di vista dello stesso Scottie, cosa notata da Zizek, che legge tale eccesso
come “soggettività senza un soggetto-agente”, ovvero lo sguardo diviene oggetto libero, senza un soggetto
specificato.

Cap.5
Pelle e contatto
Secondo Claudia Benthien la pelle è divenuta in letteratura luogo di innumerevoli discorsi e immagini,
creando problematiche identitarie e politicamente scottanti (colore della pelle).
La pelle è un organo percettivo, e dunque non si può assumere nei suoi confronti la posizione di osservatore
esterno. Inoltre essa rappresenta un punto di passaggio tra la superficie esterna e quella interna d’incertezza,
è un elemento che si sopraeleva all’uomo circondandolo interamente e tocca la ricorrente tematica filmica
dello scambio e del rapporto tra interno ed esterno.
La pelle possiede una vita propria (arrossiamo e impallidiamo involontariamente), può mutare (sbucciandosi
o invecchiando), evoca l’incisione (cicatrice o tatuaggio) e possiede culturalmente una forte connotazione di
genere: la pelle dell’uomo è una corazza e vi si riconoscono cicatrici, quella femminile deve essere liscia ed
elastica, poiché è per la donna strumento di visibilità.

Tale importanza emerge nel tempo andando a incrementare le critiche verso il paradigma oculocentrico,
tutto alimentato da una serie di film che ne amplificano l’importanza ad un punto tale da sfiorare la parodia
(Blade Runner su tutti, ma anche Arancia meccanica), con eccessivi richiami e rappresentazioni.
Ne Il silenzio degli innocenti tali richiami sono fatti invece in modo talmente sapiente da poter essere inteso
come parodia. Il ruolo della donna, come abbiamo già detto, gioca un ruolo fondamentale nel film, con la
protagonista che è oggetto di sguardo maschile, ma che si impone su di esso sconfiggendo il nemico che
indossava occhiali a infrarossi di forma vagamente fallica, e finendo schiacciato come un insetto, andando
dunque a rendere evidente l’imposizione della donna sull’uomo. Hannibal Lecter invece possiede il potere
assoluto sebbene non abbia alcuno sguardo (panoramico), e lo si nota anche dai suoi vari richiami
citazionistici. Per quanto riguarda la pelle invece il film ha come tema centrale quello della trasformazione:
Buffalo Bill è interessato alla pelle degli altri, e anche la protagonista può essere paragonata ad una crisalide
che si evolve in farfalla.
Rivoluzionario è anche l’ideale di sguardo che muta in contatto del post-colonialista Terrence Malick nel
film The New World, capolavoro che ci mostra come l’impossibilità di comunicare verbalmente tra indigeni
e coloni amplifichi il contatto fisico mettendolo su un piano centrale e superiore rispetto a quello linguistico,
sottolineando i veri effetti portati da tali contatti (malattie e alcolismo), rispetto a quelli analizzati nei vecchi
western (la battaglia eroica e i commerci fraudolenti per esempio).

Tutti questi esempi ci portano a capire come la sostituzione del paradigma sguardo-occhio con quello
contatto-pelle non porti a effetti positivi, tutt’altro. Ma come si affronta allora la riflessione sulla pelle? La
pelle non è altro che un involucro inespressivo sotto al quale si nasconde l’essenziale: la carne, gli organi, lo
spirito. Si può però anche dire che l’essenziale sia la pelle stessa, da essa si capiscono molte cose sui
soggetti, sia politicamente che culturalmente il colore e la presenza di tatuaggi, cicatrici o simili è più che un
indizio.

Attraverso la fenomenologia di Maurice Merleau-Ponty, abbiamo la teoria di Vivian Sobchack, che


attraverso un chiasmo definisce il film come espressione di un esperienza che viene a sua volta esperita
convertendosi in espressione di un’esperienza attraverso l’esperienza. Questo porta ad una

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comunicazione intersoggettiva fra cineasti, film e spettatori, resa possibile da strutture condivise
dell’esperienza incarnata, le sole a rendere possibile la percezione dell’esperienza e l’esperienza della
percezione. Noi assimiliamo i film somaticamente con tutto il nostro corpo, assimilandone i dati ancor
prima di elaborarli cognitivamente o di essere interpellati dall’identificazione inconscia.
La Sobchack ci fornisce la sua personale visione del film Lezioni di piano, che l’ha colpita molto per questo
processo di identificazione somatica con le dita del personaggio che descrive essere “soggettivamente qui”
(sue) e “oggettivamente li” (nel film), nonostante alcune inquadrature precedenti alle scene analizzate
predispongano la “quasi cecità” dello spettatore.

A questo modello del rapporto tra film e spettatore se ne sommano svariati altri, come quello del già citato
Christian Metz che distingueva tra identificazione primaria e secondaria. La primaria riguarda l’atto di
percezione in cui il film viene innanzitutto creato, la secondaria invece riguarda l’identificazione con i
personaggi dell’azione.
L’esperienza filmica si può intendere come incarnata solo in quanto fondamento di ogni esperienza, poiché
la percezione presuppone un corpo vivente dotato di soggettività. L’immagine filmica e il corpo dello
spettatore non si possono mettere a confronto o essere distinte gerarchicamente; di ciò si occupa Steven
Shaviro, che ritiene essere più importante non tanto la distinzione tra i due gradi di esperienza, quanto più la
percezione delle relazioni in costante trasformazione tra ciò che di norma descriviamo come corpi e
immagini: stasi e movimento, azione e sofferenza, pienezza e vuoto, luce e oscurità. E’ dunque per Shaviro
ben più importante la relazione tra le reazioni fisiologiche e affettive del proprio corpo riguardo a ciò che
avviene sullo schermo.
Tuttavia la costante evocazione del corpo quale elemento centrale della teoria non sancisce ancora
necessariamente una riduzione della distanza tra film e spettatore.

Altre teorie, queste derivanti dalle correnti avanguardistiche dei primi decenni del ‘900:
-Laszlo Moholy-Nagy delineò una teoria secondo la quale, in un mondo in cui la modernità avanzava in
modo esponenziale, l’unica cosa che potesse interpellare il soggetto in modo integrale e consentendogli di
mantenere il passo con il progresso tecnologico e culturale è l’arte, attraverso l’educazione del corpo da
parte di arte e film, coinvolgendo tutti i sensi. Nagy si concentra di più sul soggetto ricevente che sul
materiale filmico, ritenendo l’esperienza estetica più importante dell’artefatto in sé.
-un altro esempio è quello del Tapp- un Tastkino (“Cinema da tastare e palpare”), del 1968, nel quale si
manifestano soprattutto istanze femministe. Attraverso una scatola dotata di siparietto e sistema sul seno
(nudo), come a riprodurre la vista frontale in una sala cinematografica, i passanti potevano tastare i seni
dell’artista senza però vederli, configurando la visione del cinema in aptica (tramite il tatto) e rendendo
percepibile la reificazione del corpo femminile nel cinema commerciale.
-un terzo esempio è quello dell’installazione di Anthony McCall, Line Describing a Cone (“Linea che
descrive un cono”), in uno spazio buio, che viene riempito di nebbia o di fumo, si proietta un film nel quale a
poco a poco compare un cerchio che tramite i vapori, che rendono visibile il raggio luminoso del proiettore,
cresce diventando un cono intero. Questo fa si che la luce venga percepita come elemento palpabile dagli
spettatori che in questo caso riescono ad attraversare il cono.

Un ulteriore terreno sul quale si sono formulate varie teorie riguardanti rapporto tra spettatore e film è quello
dei generi cinematografici. Basandosi su una ricerca sui tre generi considerati più bassi (meló, horror e
porno), Linda Williams ha evidenziato come la caratteristica che li accomuna sia quella di toccare in prima
persona lo spettatore, basando il proprio successo sulle sensazioni mimate dal pubblico. Li definisce body
genre, e vanno oltre l’eccesso, distaccandosi molto dalla tradizione narrativa filmica, e mettendo in risalto un
corpo, in genere femminile, che è soggetto a comportamenti e sentimenti ingovernabili. Sono considerabili
generi aptici per il rapporto che si crea tra i “liquidi” protagonisti di questi film che in prima persona
coinvolgono lo spettatore.
Anche nel cinema delle origini è presente la questione aptica, nei cosiddetti rube film (film zotici), delle
commedie nelle quali perlopiù i campagnoli scambiavano per realtà ciò che accadeva sullo schermo. Anche
questi vanno quindi considerati “educativi” in quanto esplicavano alle nuove masse il comportamento
corretto da seguire nei confronti del cinema, mettendo in ridicolo i personaggi.

Per Laura Marks la pelle del film è una metafora per sottolineare il modo in cui il film crea significato
attraverso la propria materialità, tramite un contatto tra percepente e oggetto rappresentato, alludendo al fatto
che la stessa vista può essere tattile, come se potessimo toccare un film con i nostri occhi “io la chiamo
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visualità aptica”; per esempio la visione della pelle d’oca evoca ricordi nello spettatore di entità latente
attualizzandoli. Tuttavia Claire Perkins ci fa notare come la Marks fraintenda l’idea di Deleuze, riguardo il
soggetto a cui è rivolta l’immagine filmica, infatti se per la Marks le opere analizzate sono fatte per un
osservatore che cerchi di penetrarle e di dar loro un fondamento, per Deleuze tali immagini costitutive del
film non sono rivolte a nessuno, esse sono un’apparenza.

Cap.6
Orecchio e suono
Come esempio per comprendere l’importanza del passaggio dal muto al sonoro nel cinema, possiamo
analizzare il caso Lamont-Selden del 1928; Lina Lamont era una famosa attrice del cinema muto non adatta
al sonoro per la sua voce stridula, così venne doppiata per qualche tempo da Kathy Selden, finché non venne
invitata a cantare ad uno spettacolo e li il sipario rivelò a tutti la vera entità della voce della Lamont.

Uno dei baluardi per eccellenza del nuovo cinema sonoro è probabilmente il musical Singing in the rain del
1952, coronamento del duo Kelly/Donen ma soprattutto critica ironica e autoriflessiva proprio del passaggio
da muto a sonoro. Esso mette in scena il cortocircuito tra corpo e voce in vari modi, per richiamare al
periodo in cui critici e artisti si opponevano a tale nuova tecnologia. Tuttavia serve anche per far
comprendere l’importanza del suono, che è sempre una percezione spaziale rispetto alla direzionalità data
dalla vista; questo anche perché la fotografia (e dunque l’immagine, la vista) si abitua sempre di più al fatto
che il cinema sia un esperienza plurisensoriale.
“Il ruolo dell’udito è stabilizzare il nostro corpo nello spazio, aiutarlo nell’orientamento e soprattutto
garantirne la sicurezza nello spazio, soprattutto per quanto riguarda ciò che non possiamo vedere o che
accade alle nostre spalle. L’orecchio è l’organo della paura.”
Grazie all’introduzione del suono lo spettatore non è più ricettore passivo, ma viene automaticamente
coinvolto in prima persona nell’esperienza filmica, per il fatto che l’udito sia il senso della collocazione
spaziale e dell’equilibrio, cosa che in un film coinvolge a pieno lo spettatore.

1^PARTE - NASCITA DEL SONORO


Il film muto non è mai stato in realtà del tutto muto, anzi; i film prodotti prima del 1930 erano pieni di effetti
sonori dal vivo, dall’orchestra all’annunciatore al rumorista. L’obiettivo di tali suoni poteva essere doppio:
sincronizzare suono e immagine o mettere i due in contrasto o in relazione. Tuttavia il deficit della mancanza
del sonoro non era precedentemente percepito come tale dai registi dell’epoca, infatti nei film muti esistono
vari esempi di suono visualizzato, ossia primi piani di orecchie in ascolto, strumenti musicali, campane e
oggetti rumorosi. E al contrario ci sono anche i contestatori del sonoro, i teorici del tardo film muto per
esempio, che ritenevano il suono come causa della perdita di purezza ed espressività.
Per molti spettatori degli anni 20 il sonoro non rappresentava la perfezione del film come forma artistica, ma
del film come illusione (di vita); insieme al muto essi persero la capacità del cinema di “ silenziare” ciò che
era già abbastanza rumoroso nella modernità della vita reale. Tutto ciò era però destinato ad avere successo
per via delle grandi case di produzione.

2^ PARTE - SUONO NEL CINEMA CLASSICO


Questo ci porta alla fase del suono nel cinema classico. Qui il suono si analizza solo in relazione
all’immagine: è considerabile on-screen o off-screen a seconda della visibilità sullo schermo della fonte
sonora in questione, ma anche diegetico o extra-diegetico se la fonte rientra o meno nello spazio narrativo.
L’analisi del suono è spesso strutturata in termini di una lotta di potere con l’immagine, come un rapporto di
dipendenza e predominio dato dalla narrazione alla quale si subordinano tutti gli elementi (montaggio,
riprese e suono in primis). Tornando a Cantando sotto la pioggia, esso è anche tema di mercificazione della
voce umana nell’era della radio. James Lastra dimostra come qualsivoglia relazione tra suono e immagine è
sempre difficile in quanto coinvolge obiettivi in apparenza incompatibili come registrazione e
rappresentazione.
Michel Chion ci parla della teoria degli acousmetres, ossia le voci disincarnate del cinema, che non hanno
apparente origine ma sono onnipresenti. L’acusmetro è quel personaggio la cui posizione rispetto allo
schermo si colloca in un’ambiguità e in un’oscillazione particolare, come se non fosse né dentro e né fuori
(in rapporto all’immagine); esso è onniveggente e onnisciente, agendo su ogni cosa (Es. il mago di Oz, AL

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9000 ecc.). Altra tecnica di simile richiamo è il ventriloquismo “presente” anche al cinema in film come
L’esorcista.
Il rapporto tra bidimensionalità e tridimensionalità colpisce gli spettatori in quanto il suono riecheggia in
tutta la sala e torna così la domanda: il film si colloca “dentro” o “fuori" rispetto al corpo?

3^PARTE - NASCITA DEL BLOCKBUSTER


La nascita del Blockbuster quale nuovo prodotto chiave dell’industria hollywoodiana fu dato anche dalle
ultime tecnologie audio. Film come Apocalypse Now e Guerre Stellari trasformarono l’ascolto musicale e
sonoro da atto privato e individuale ad esperienza fisica ed atto collettivo.
Tecnologie come l’effetto Dolby, permettevano l’isolamento di alcuni suoni e la composizione di colonne
sonore sovrapposte, creando un maggiore coinvolgimento emotivo anche grazie all’uso di altoparlanti
distribuiti per tutta la sala. Ora inoltre il suono filmico dispone anche di rumori che non hanno origine in
natura, ma che sono interamente creati al computer, cosa che porta alla nascita di nuovi ruoli in una troupe
cinematografica e ad una maggiore spesa per gli effetti sonori.
Secondo il già citato Zizek, l’udito non solo ci aiuta ad orientarci e stabilizzarsi, ma anche ci disorienta e
destabilizza; esso è più cruciale della vista per questi scopi, anche in senso fisiologico, è con il suono che
veniamo per la prima volta in contatto col mondo esterno. Uno dei registi che maggiormente sfrutta il suono
più dell’immagine nei suoi film è David Lynch, che in numerose scene famose crea “apparizioni uditive”,
veri e propri effetti fantasmagorici, mentre l’immagine è sovente sul punto di scomparire e sfocarsi perdendo
la forma prestabilita.

4^PARTE - L’AVVENTO DEL WALKMAN


Il walkman porta nuovo scompiglio in ambito sonoro perché ciò che fino ad all’ora era stato condiviso
pluralmente dall’individuo, ora poteva essere direttamente “ generato” nella propria testa e quindi
l’esperienza tornava ad essere individualizzata.

Cap.7
Mente e cervello
Emblematico per questo tema è il film Se mi lasci ti cancello del 2002; se nel cinema classico ad un uomo
sarebbe bastata una sbornia per dimenticare la donna amata che lo ha lasciato, oggi la questione è trattata in
modo ben diverso. Nel suddetto film assistiamo ad un perpetuo moto circolare nel quale il protagonista si fa
togliere la memoria per tornare indietro e poter ricominciare quella relazione da capo. Con ciò il film si
riallaccia alla nostra domanda fondamentale: riguardo allo spettatore il cinema è interno o esterno?
La percezione visiva è scorporata (quindi puramente visiva) o incorporata (richiedendo dunque una
coscienza)?
Quando parliamo di cinema nel cervello possiamo suddividere l’argomento in cinque concetti differenti
(IMMAGINI MENTALI):
-Nel primo comprendiamo i casi nei quali l’immagine astrae dalle proprie caratteristiche fisiche per creare un
legame metaforico in cui, tramite una serie di inquadrature, la sequenza filmica diviene un concetto (e qui si
riprende il montaggio già da Ejzenstejn).
-Il secondo collegamento si riferisce alla tesi formulata da Hugo Münsterberg, secondo la quale cinema e
mente appartengono ad un’analogia reciproca, dato che molte delle tecniche cinematografiche emulano il
modo di lavorare della mente umana (Es. il flashback che emula il ricordo e le emozioni). Tuttavia molti film
riproducono immagini che non esistono “veramente”, come nel caso di personaggi mentalmente disturbati a
cui vengono attribuite immagini soggettive distorte e che non sicuramente possiamo definire immagini
mentali e alle quali non possiamo attribuire con certezza uno status.
-Un terzo tipo di immagine mentale è più auto-riflessivo e meta-cinematografico: mente, cinema e coscienza
convergono in modo che attraverso una determinata immagine lo spettatore divenga consapevole dell’atto
stesso di osservare un’immagine, e dunque dei propri processi di coscienza (Es. film meta-cinematografici),
ma non si tratta solo di saper riconoscere il voyeurismo, bensì saper riconoscere una scena che invita ad
un’ulteriore auto-riflessività attraverso pura attività cerebrale. I cosiddetti mind game movies, nelle scene in
cui le immagini detengono uno status “spettrale”, il principio di tali film è quello di trascinare lo spettatore
nel mondo del protagonista, senza che la narrazione contestualizzi l’eroe attraverso le sue condizioni
spirituali o corporee. Esempio tipico di questo terzo grado di immagine sono i film postmoderni nei quali il

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protagonista è appena morto o appena sopravvissuto alla propria morte (simbolica), come in Memento, Fight
Club o American Beauty; il clou di queste pellicole sta nel fatto che possiedono immagini a due facce, e che
il significato viene svelato sul finale (senza essere necessariamente risolto), tenendo così lo spettatore in un
continuo stato di “schizo-logica” (Deleuze).
-Un quarto tipo di immagine mentale è una rappresentazione che appunto è tale, ma non è una visione
(dunque non attribuibile ad alcun soggetto o osservatore dalla cui prospettiva guardare un oggetto o una
scena), come nella scena de La donna che visse due volte nella quale ci viene mostrato il sentimento di
Scottie nei confronti di Madeleine in quanto tale (ES. ZIZEK)
-Un quinto ed ultimo tipo di immagine mentale non è né reale né illusionistico, né oculare né aptico: cosa
significherebbe ricavare un’immagine mentale da una rappresentazione? Non si avrebbe più referenzialità,
ma si manterrebbe una sorta di coerenza che rilancerebbe nuovamente la domanda riguardo alla corporalità
delle immagini che suscitano reazioni forti (incorporate o scorporate).

L’interesse di Deleuze per il cinema si basa sul suo desiderio di superare quello scarto fra soggetto e oggetto,
coscienza e contenuto di coscienza, elemento costitutivo della fenomenologia; si ribella a tutte le idee di
trascendenza che ritengono possibile una posizione esterna e dunque una via d’uscita per il soggetto,
attaccando perciò le tre “H” che secondo lui permettono questa sicurezza trascendentale: Hegel, Husserl e
Heidegger. Per Deleuze l’immagine filmica esiste in sé come materia e non come oggetto di una percezione
intensificata o tanto meno come segno cui significato alberghi dentro o dietro la stessa immagine; per
Deleuze la coscienza si annida nelle cose o va cercata nella loro superficie.
Secondo Deleuze il cinema non è un medium per raccontare storie come per Bordwell, o di un medium del
montaggio come per Ejzenstejn, appartiene piuttosto alla filosofia moderna, poiché specula con mezzi
propri su movimento e tempo.
Distingue dunque immagine-movimento, che indica un cinema di attenti e azioni (personaggio reagisce alla
percezione di una situazione compiendo un’azione che produce a sua volta un’altra situazione e così via),
cosa che si verifica nel cinema hollywoodiano fino ali anni 50. E immagine-tempo, che compare nel
dopoguerra e che comprende il trasformarsi dei personaggi da portatori d’azione a osservatori: “con il
Neorealismo i personaggi non sanno più reagire alle situazioni, ma ne son sovrastati, poiché si tratta sempre
di qualcosa di troppo spaventoso o troppo bello”.

Nel cinema d’avanguardia lo spettatore assume un atteggiamento diverso dal precedente di passività.
Annette Michelson è dalla parte di quegli autori che ritengono che il cinema possa generare nuova
conoscenza sul mondo, una conoscenza di tipo unico e non conseguibile in altro modo. Prende d’esempio un
film come 2001: Odissea nello spazio, che pur essendo commerciale mostra il medesimo potenziale di teoria
cognitiva di un film d’avanguardia. Secondo la Michelson la modernità si è allontanata dalla riproduzione
della realtà per interrogarsi sulla possibilità di generare conoscenza. Il cinema dunque, e più in particolare il
film (inteso come opera d’arte moderna), si approprierebbe più sull’interrogativo riguardo la coscienza del
mondo, piuttosto che limitarsi alla mera illustrazione di esso. Nel film di Kubrick il regista riesce a
trasmettere al corpo il dato fisico dell’assenza di gravità non tanto grazie alla nuova tecnologia (IMAX),
bensì grazie a piccole ma sostanziali modifiche della coscienza dello spettatore al cinema. Con 2001 il
cinema comincia a localizzare la mente in modo nuovo e ad abituarla a fare a meno del suo classico
orientamento e organizzazione: è il corpo nello spazio (del mondo) come esperienza aptica che smentisce il
concetto di evoluzione come “progresso”.
Per Deleuze e la Michelson non è il corpo a governare la mente, non è una mente a dominare un film, si
tratta bensì di un corpo-cervello o un cervello-corpo, una rete neuronale che riunisce coscienza e corpo in
un’unità indivisibile.

Il cognitivista Torben Grodal ha dimostrato come i nostri concetti di cultura alta e arte di massa traggano
origine dal modo in cui riflettiamo su impressioni e percezioni sensoriali e da come i nostri corpi si
comportano in rapporto al cinema d’arte europeo (significato scorporato, astratto e permanente - anima) e
al cinema d’azione americano (significato incorporato, concreto e “transitorio” - corpo). Grodal distingue
tre livelli del Sé: il Sé comatoso (che governa le funzioni vegetative), la coscienza incorporata centrale
(che reagisce agli stimoli ambientali ed esiste soltanto al presente) ed il Sé autobiografico, raccontato (nel
quale si forma un’identità tra proiezione nel passato tramite ricordi trama ecc. e nel futuro con progetti,
speranze ecc.); secondo Grodal il cinema d’arte segna la frattura del passaggio tra coscienza centrale e Sé
autobiografico: o le istanze dell’identità non sono più raccontabili con le esperienze presenti e incorporate, o
il Sé autobiografico blocca con eventi traumatici qualsiasi possibilità di esperienza della coscienza centrale.
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I cognitivisti sono interessati a comprendere la coscienza e non il cinema, che serve come campione per le
teorie del Sé incorporato; essi infatti affermano che la percezione filmica non si distingua più da quella
quotidiana.

Nel cinema post-classico è il cervello, in senso autobiografico, a dover essere


assente, affinché sia il corpo a divenire luogo di nuova incarnazione e
spiritualità (come nei mind games movies sopracitati); questa sarebbe la visione
positiva del cinema.
Secondo invece una prospettiva più negativa foucaultiana, il cinema
rappresenterebbe una parte del dispositivo della società moderna che esercita il
controllo su di noi: ottenere disciplina attraverso il divertimento.
Tutti questi film post moderni sarebbero film post-mortem, nei quali il corpo è
non morto e il cervello conduce una sorta di vita postuma o esistenza spettrale.
Con tali teorie torniamo alla domanda fondamentale del libro: come agisce il film sullo spettatore? Come
struttura mentale pura che viene rielaborata dal cervello e poi spedita al corpo, o come esperienza corporea
che si lascia organizzare razionalmente e controllare soltanto in una seconda fase dal cervello?

FILM DA VEDERE:
-L’uomo con la macchina da presa (D. Vertov, 1929)
-The  Crowd (La folla, K. Vidor, 1928)
-Cat People (Il bacio della pantera, J. Tourneur, 1942)
-Cat People (Il bacio della pantera, P. Schrader, 1982)
-Singin’ in the Rain (S. Donen e G. Kelly, 1952)
-Ladri di biciclette (V. De Sica, 1948)
-Il coltello nell’acqua (R. Polanski, 1962)
-Io la conoscevo bene (A. Pietrangeli, 1965)
-Il conformista (B. Bertolucci, 1970)
-Il fantasma del palcoscenico (B. de Palma, 1974)
-Lezioni di piano (J. Campion, 1993)

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