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Lettura 10
Lettura 10
Federica Timeto
Il culturale è politico: gli studi culturali e il fem-
minismo a modo suo. Una conversazione con An-
gela McRobbie
(doi: 10.1405/104267)
Ente di afferenza:
Università Venezia Cà Foscari (unive)
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INTERLOQUI
The cultural is political. Cultural studies and feminism on its own terms. A conversation
with Angela McRobbie
This conversation follows the theoretical path of Angela McRobbie, a leading exponent of
British feminist cultural studies. In her research, which spans almost fifty years, McRob-
bie has analyzed representations of popular culture, from magazines to the music scene,
from dance to fashion, from film to television, investigating the contradictions of the
performance of femininity in the media landscape and the limits and possibilities of the
different forms of identification for female and feminist subjects. Since the mid-1990s, she
has focused on postfeminism in neoliberal culture, at a time when feminism found itself
simultaneously assimilated into common sense and emptied of its political efficacy. In
her latest book, Feminism and the Politics of Resilience (2020), McRobbie deepens her
analysis of contemporary representations of the feminine by showing their continuities
and ruptures with postfeminism, and the polarization of meritocracy cult and poverty-
shaming regulated by the governmentality of visual media.
La conversazione che segue ripercorre gli snodi principali del percorso teorico di
Angela McRobbie, esponente di rilievo degli studi culturali femministi britannici,
che attualmente insegna al Goldsmiths College di Londra. McRobbie ha conseguito
un master al Centre for Contemporary Cultural Studies (CCCS) di Birmingham,
dove ha sviluppato la nota ricerca sulla rivista per le adolescenti Jackie (McRobbie
1978a), pubblicata in diverse lingue. Nella sua ricerca, che copre un arco tem-
porale di quasi cinquant’anni, McRobbie ha analizzato le rappresentazioni della
cultura popolare, dalle riviste per adolescenti alla scena musicale, dalla danza
alla moda, dal cinema alla televisione, indagando le contraddizioni della perfor-
mance della femminilità nei media, e i limiti e le possibilità dalle diverse forme di
identificazione che questo offre alle soggettività femminili e femministe. Nelle sue
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STUDI CULTURALI - ANNO XIX, N. 1, APRILE 2022, pp. 113-136 ISSN: 1824-369X, © Società editrice il Mulino
FEDERICA TIMETO
riflessioni, oltre che con autrici e autori del campo degli studi culturali, McRobbie
dialoga costantemente con le teorie di Butler, Foucault, Althusser, Laclau e Mouffe,
Deleuze e Guattari, per citare solo i riferimenti più ricorrenti, dei quali condivide
l’antiessenzialismo, l’attenzione per la performatività in senso ampio, una visione
del potere come normativo e produttivo insieme, la prospettiva incorporata.
A partire dalla metà degli anni Novanta, la sua ricerca si è soffermata in
particolare sul postfemminismo nella cultura neoliberale, in un periodo in cui
il femminismo si è trovato contemporaneamente assimilato nel senso comune
e svuotato della sua efficacia politica ormai data come passata dalle narrazioni
istituzionali. Queste ne hanno circoscritto spazialmente e temporalmente la pre-
sa sul reale, camuffando nel mito dell’empowerment la demolizione dello stato
sociale (con tutte le conseguenze del caso, in parte discusse in queste pagine).
È impossibile rendere conto della sterminata produzione, accademica e non,
di McRobbie, accademica e non, ma tra le sue monografie, nessuna delle quali
purtroppo tradotta in italiano, ricordiamo The Uses of Cultural Studies (2005), The
Aftermath of Feminism (2008), Be Creative (2015). Nel suo ultimo libro, Feminism
and the Politics of Resilience (2020), McRobbie approfondisce l’analisi delle rap-
presentazioni contemporanee del femminile nei media e nella cultura popolare
mostrandone le continuità e le rotture con il postfemminismo, e la polarizzazione
di culto della meritocrazia e poverty-shaming regolata dalla governamentalità dei
media visuali. Con questa espressione, McRobbie identifica «il convergere del
modello biopolitico della governamentalità sviluppato da Foucault, attento agli
spazi, agli sguardi, ai corpi, alle popolazioni e al controllo di condotte e azioni,
e della dimensione specificatamente mediale e di genere» (McRobbie 2020, 34).
Il nuovo dispositivo per la gestione mediale dei femminismi emergenti, che so-
stituisce l’ethos dell’individualismo postfemminista, si compone oggi, secondo
McRobbie, di tre categorie interconnesse: la perfetta, l’imperfetta, la resiliente (che
formano un vero e proprio dispositivo definito con l’acronimo p-i-r).
Diversamente dalla sociologia egemonica (informata principalmente dal
paradigma strutturalista-funzionalista), che per lungo tempo ha considerato
gli studi culturali come una invasione di campo, gli studi culturali non hanno
recepito l’arrivo del femminismo alla stessa stregua, nonostante le affermazioni
di Stuart Hall, riportate all’inizio della conversazione che segue, sembrerebbero
a prima vista indicare il contrario. Lo stesso Hall ha ricordato l’esistenza di una
sorta di «pre-femminismo» nel centro, di una sensibilità all’identità sessuale se non
ancora alla politica femminista, di una ricerca sui rotocalchi femminili avviata e
poi sfortunatamente andata perduta, ammettendo anche, tuttavia, che «quando
il femminismo si affermò e divenne autonomo fummo colti di sorpresa, proprio
perché – in modo patriarcale – avevamo cercato di dargli inizio. Queste cose
sono davvero imprevedibili… Poi il femminismo esplose nel Centre a modo suo»
(Hall 1996a, 280-281). Ma ciò che avvicinava il femminismo e gli studi culturali, in
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UNA CONVERSAZIONE CON ANGELA MCROBBIE
effetti, era che sia gli studi culturali (ancora senza femminismo) sia le femministe
(che si sarebbero riconosciute nella pratica degli studi culturali) rivendicavano e
difendevano come un posizionamento voluto la mancanza di chiusura delle pro-
prie scelte indisciplinari e indisciplinate; come il posizionamento del femminismo
nell’accademia era tacciato di mancanza di unitarietà, accusato di essere amorfo
e contraddittorio (Women’s Studies Group 1978), allo stesso modo il campo degli
studi culturali rifiutava definizioni descrittive e prescrittive, restando un «insieme
di discipline impegnate» (Hall 2005, 4).
Le studiose riunite nel Women’s Studies Group (WSG), formatosi nel 1974
per analizzare le rappresentazioni femminili nei media e poi confluito nel più
ampio Women’s Forum, rifuggivano la rispettabilità e le mode teoriche e asse-
condavano invece la diversità di prospettive e obiettivi, spesso contrastanti, come
una ricchezza da nutrire. L’antologia Women Take Issue (1978) che ne raccoglie
il lavoro, e dove appare il saggio di McRobbie (1978b) Working Class Girls and
the Culture of Femininity (uno studio sulle adolescenti della classe operaia fre-
quentatrici del club Mill Lane di Birmingham), era stata in realtà pensata come
l’undicesimo dei Working Papers del Centro, che presentavano annualmente le
ricerche individuali e collettive dei membri, ma che nell’arco delle dieci pub-
blicazioni precedenti aveva ospitato soltanto quattro articoli sulla condizione
femminile. Il gruppo era composito: per alcune di loro, il WSG era l’unico punto
di contatto con il movimento di liberazione, altre praticavano già l’attivismo fuori
dal contesto accademico. Una questione, quella del confronto fra teoria e pratica,
che permeava gli studi culturali come gli studi femministi, le cui radici, come
per i black studies, erano d’altra parte politiche, piuttosto che accademiche. A
questo proposito, sono ancora le parole di Hall a rendere senza mezzi termini il
conflitto politico sollevato dalle femministe nel centro. Le studentesse femministe
che chiedevano di includere, nei testi da studiare per il corso di dottorato, Julia
Kristeva al posto di Raymond Williams, non stavano ponendo una questione
personale, ma strutturale:
Fin da subito, gli studi culturali femministi si caratterizzarono per una forte
autoriflessività circa le proprie condizioni di possibilità all’interno dell’accademia
e, per converso, all’interno del movimento di liberazione delle donne, lucidamente
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UNA CONVERSAZIONE CON ANGELA MCROBBIE
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UNA CONVERSAZIONE CON ANGELA MCROBBIE
AMR: Sì, stranamente è stato proprio Stuart a parlare in questo modo, tut-
tavia si è ampiamente scusato qualche tempo dopo. A leggerli sulla carta, questi
commenti sembrano ora molto più taglienti di quanto non lo fossero in quel
momento, in effetti. Penso che allora ci si aspettasse che, nel momento in cui le
studiose salivano a bordo e cominciavano a crescere di numero al CCCS, i loro
interessi potessero essere assorbiti senza soluzione di continuità e in modo rela-
tivamente indolore. Soprattutto perché eravamo tutti compagni, tutti impegnati
in un progetto radicale. Se si esclude Stuart, i ragazzi del centro erano stupiti che
potessimo sfidare i loro paradigmi – penso ai co-autori di Policing the Crisis (Hall
et al. 1978), e di Rituali di resistenza (Hall e Jefferson 1975). Erano tutti così dediti
al loro lavoro ed euforici per la ricchezza concettuale che stava emergendo… e noi
femministe abbiamo bucato [punctured] questo senso di comunità accademica.
Anche noi eravamo tese, insicure di noi, spesso sentivamo di non riuscire ad arti-
colare una posizione coerente. Non c’è da meravigliarsi, dato che il vocabolario
in quel momento, nel 1975, era ancora una volta interamente derivato dal Mar-
xismo continentale, da Althusser, Gramsci, poi Poulantzas e così via. Quando ho
intrapreso questo lavoro, avevo già di fronte a me a una mole straordinariamente
ricca e originale di argomentazioni sui giovani (cioè i giovani maschi) della classe
operaia che esprimevano gli antagonismi di classe dei genitori in termini simbolici,
attraverso la moda, gli stili musicali e il «rituale», quindi non c’è da meravigliarsi
che la mia risposta fosse incerta, esitante! Dopotutto mi sentivo in qualche modo
in linea con l’importante cambio di paradigma rappresentato da questo corpus di
ricerche, che costituiva anche un importante contributo alla sociologia e agli studi
culturali all’interno di una cornice neo-marxista. Domandare qualcosa come «E le
ragazze?» sembrava una cosa da «guastafeste femminista [feminist killjoy]» per usare
un’espressione di Sara Ahmed (2017). E in realtà credo che i ragazzi sentissero che
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FEDERICA TIMETO
la questione delle ragazze poteva essere accolta senza troppe difficoltà. Quello
che ricordo del mio dilemma era l’assenza di una bibliografia. Facevo riferimento
allo stesso insieme di testi con cui lavoravano gli altri colleghi del CCCS e anche
lì c’era davvero poco sull’esistenza del sesso femminile, penso per esempio alla
Scuola di Chicago degli anni Venti e Trenta. Ricordo di aver rovistato in giro alla
ricerca di chiunque avesse intrapreso qualche lavoro sociologico sulle giovani
donne, ma era dappertutto così disperso e frammentato, davvero… Per esempio,
c’erano alcuni volumi di sociologia sulle «ragazze in difficoltà», e nel complesso
anche io, come loro, mi sentivo «aggrappata a tutto». Ricordo di aver fatto ricerche
in biblioteca su argomenti come la storia delle riviste femminili o il posto delle
ragazze della classe operaia nella storia sociale, ma nel complesso riuscivo a
trovare davvero poco. Al contrario, c’era l’intero campo della cultura delle gang,
del panico morale nei media, della devianza, della teppa, per esempio, quindi
era difficile articolare un altro punto di partenza per la riflessione. Ovviamente
questo era anche il momento in cui femministe come Juliet Mitchell pubblicavano
opere rivoluzionarie, ma all’epoca, come studentessa del Master, mi confrontavo
con i paradigmi della scuola di Birmingham.
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UNA CONVERSAZIONE CON ANGELA MCROBBIE
FT: Quando le donne fecero il loro ingresso nel campo degli studi cultu-
rali, i rapporti di produzione furono trattati dando priorità alla classe come il
centro dell’analisi. Le femministe hanno presto incluso in queste analisi anche
il sesso/genere e i rapporti di riproduzione. Poi è arrivata la razza, che non era
semplicemente una categoria aggiunta, ma intendeva più radicalmente minare
il sistema dall’interno, alla base. Come hai accolto e sviluppato questa sfida in
quanto femminista bianca occidentale, nel tuo lavoro?
AMR: Prima di tutto devo dire che ho ammirato molto i primi lavori sulla
bianchezza e sul ruolo delle donne bianche nel riprodurre le pratiche razzializzan-
ti, come l’importante storia culturale di Vron Ware (1986). E poi a Birmingham nei
primi anni Ottanta studiose femministe nere come Hazel Carby avevano iniziato
a sfidare le categorie dominanti sia di classe che di genere e sessualità dando
un contributo diretto alle molte esclusioni sulla base della appartenenza razziale
che le studiose nere sperimentavano a ogni livello della loro vita, accademica e
non (Carby 1982). Paul Gilroy, naturalmente, ha intrapreso il coraggioso lavoro
di contestazione di molti dei saperi acquisiti negli studi culturali, per esempio
nel suo confronto con l’idea di appartenenza come appartenenza di classe di
Raymond Williams (Gilroy 1987). E naturalmente questi dibattiti si sono allargati
soprattutto sulle pagine di Feminist Review già prima che il concetto di interse-
zionalità fosse introdotto da Crenshaw (1989). Per quanto riguarda la politica
della razza, è vero che i primi lavori sulle ragazze erano incentrati sulle giovani
donne bianche. Allo stesso tempo la mia esperienza quotidiana delle sottoculture
a Birmingham era sempre quella di un mix multiculturale: penso soprattutto agli
eventi punk’n’reggae collegati a Rock Against Racism e alla Anti-Nazi League.
Io e poch* altr* andavamo costantemente a Handsworth, a feste in casa del tipo
recentemente ricordato da Steve McQueen nella sua serie televisiva Small Axe
(BBC 2020). Le mie osservazioni, nell’arco di trent’anni, sul fatto che la presenza di
donne non bianche nell’accademia fosse così limitata, mi hanno portato a sollevare
costantemente la questione nelle commissioni di nomina, a farne un caso senza
fine. Era sorprendente e significativo che all’inizio del secolo nel Regno Unito ci
fossero ancora così poch* professor* ner*. Non voglio apparire autoassolutoria,
ma la razza ha sempre informato la mia pedagogia: insegnavo bell hooks, Paul
Gilroy, Gayatri Spivak, Homi Bhabha, Stuart Hall (vedi McRobbie 2005). Penso
di aver fatto una delle prime, se non la prima intervista per il Regno Unito con
Gayatri per la rivista «Block» (McRobbie 1985), e ricordo quanto fossi tesa quando
l’ho incontrata a Londra, quando vivevo ancora a Birmingham ed ero fresca di
laurea, e il mio registratore si è inevitabilmente rotto. Inoltre, se ripenso ai miei
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scambi con Stuart, credo che a entrambi noi interessassero molto i giovani artisti
neri emergenti: avevo insegnato a Isaac Julien nel 1983 al Central Saint Martins
(e in quel contesto abbiamo discusso a lungo su Homi Bhabha), e in seguito ho
scritto spesso di questi artisti, specialmente Yinka Shonibare, ma anche note e
commenti su Chila Kumari Burman. Scrivevo spesso anche pezzi di taglio gior-
nalistico che pubblicavo su «Sight and Sound», «The Guardian», l’«Independent»
e il «New Statesman», recensendo per esempio i libri di Toni Cade Bambara o la
musica di Goldie. Con gli/le studenti ner* in classe si trattava di portare in primo
piano tutto questo lavoro. Da bell hooks a Tricia Rose, da Gayatri Spivak alla
mia collega Sara Ahmed. Al Goldsmiths ho sostenuto e supervisionato studenti
di dottorato afroamericani, afro-caraibici, turchi-tedeschi, tedeschi neri, in aree
anche in quel caso estremamente sottorappresentate.
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Laclau e Mouffe (1987) sostengono che le configurazioni sociali emergono all’interno di un
campo discorsivo; i momenti chiave della costruzione dei significati in questo campo diventano punti
nodali, significanti di cui i soggetti sociali si servono e che mobilitano rispetto a esigenze diverse seppure
comparabili in una catena di equivalenze composta proprio da questi punti.
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UNA CONVERSAZIONE CON ANGELA MCROBBIE
FT: Gli studi culturali condividono con la sociologia culturale l’idea che la
cultura è costitutiva della vita sociale e che il consumo culturale è produttivo di
identità, relazioni, distinzioni. Tuttavia, gli studi culturali mantengono una inter-
disciplinarità che le discipline più canoniche non hanno (e spesso continuano a
temere come una perdita di privilegi), e la loro eterodossia è ancora considerata
una mancanza di rigore scientifico, perlomeno in Italia. Questo crea tensioni e
alimenta dibattiti intorno alla definizione degli studi culturali e alle loro peculiarità,
storiche e geografiche. Ma, mi chiedo, questo periodico richiamo all’aggiorna-
mento delle definizioni non è forse una contraddizione in termini?
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FEDERICA TIMETO
FT: La traiettoria delle sottoculture femminili che con Jenny Garber deli-
nei in Le ragazze e le subculture parte dalla messa in discussione delle ragioni
dell’assenza delle donne dagli studi sulle sottoculture di quegli anni, tranne se
inquadrate in termini di eccesso o devianza (perlopiù sessuale). Più oltre, notate
anche come l’assenza delle donne in molti studi sulle sottoculture, per esempio
quelli di Paul Willis (1977) e Dick Hebdige (1979), fosse molto legata al fatto che
gli autori stessi prendevano parte (in modo sottaciuto e poi rimosso) alle relazioni
patriarcali del periodo... La partecipazione delle donne nelle sottoculture è stata
un modo per migliorare, o superare, la loro «secondarietà strutturale», per usare
una tua espressione, o era semplicemente un modo per affrontare in modo meno
faticoso le aspettative sul loro ruolo?
AMR: L’idea della secondarietà strutturale non è mai stata veramente esau-
stiva. Rimanda a ciò che ho detto prima sul disagio di cercare di adattarsi alla
cornice stabilita dagli studiosi maschi. Non mi ha mai davvero soddisfatta. Per
rispondere pienamente alla domanda che poni, all’epoca sarebbe stata necessaria
una ricerca etnografica sul campo. Nessuno la stava facendo. Io stessa ero impe-
gnata principalmente a studiare le riviste per le ragazze e quindi prendevo parte
all’ethos del gruppo del CCCS riguardo agli studi già avviati sulle sottoculture.
Il lavoro sulle ragazze e le giovani donne era ancora agli inizi, qualcuna stava
provando a occuparsi di argomenti come «le ragazze della classe operaia e la
scuola», altre stavano organizzando progetti per giovani donne nei centri esistenti
della città, e scrivevano le loro riflessioni nel frattempo. Questo guardare alle
attività della vita quotidiana attingeva implicitamente al «paradigma culturalista».
Nei miei primi lavori pubblicati, parlavo della «cultura della camera da letto», per
indicare come le amicizie tra ragazze, all’epoca, fossero spesso connesse alla casa
piuttosto che alla strada (McRobbie 1978b): significava leggere le riviste insieme
o fare lunghe chiacchierate con la migliore amica nella privacy della propria
stanza. Il percorso alternativo era considerare la questione delle ragazze e delle
giovani donne all’interno di una discussione più astratta, guidata dalle teorie sulle
sottoculture. Quello di «secondarietà strutturale» è un concetto sorto piuttosto
da questo secondo percorso. Quanto agli anni Settanta, che periodo! Proprio su
questi dibattiti sono ritornata di recente nel corso di un evento sulle sottocultu-
re a Düsseldorf. Stranamente avevano omesso del tutto il lavoro del centro di
Birmingham dal programma originale che iniziava più o meno con un focus su
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UNA CONVERSAZIONE CON ANGELA MCROBBIE
FT: In diversi passaggi dei tuoi testi viene messa in primo piano la funzione
politica dell’insegnamento femminista. Parli dell’importanza che le docenti femmi-
niste hanno nella loro funzione di intermediarie; sottolinei anche la funzione della
parola (in classe, ma anche intervistando, scrivendo, traducendo) come arma di
lotta politica; questo mi ha fatto pensare a Insegnare a trasgredire (1994) di bell
hooks che, seguendo la pedagogia di Freire, parla del processo radicale del porre
domande per aprire spazi analitici di resistenza all’interno delle rappresentazioni
dominanti. hooks mette anche in guardia contro un femminismo egemonico che
è indirettamente responsabile di rendere le attiviste sospettose e di allargare il
divario tra teoria e pratica. Qual è la tua idea di femminismo egemonico?
AMR: Penso che una delle priorità in quel mio articolo per «Feminist Review»
pubblicato nel 1982 (ma scritto nel 1980) fosse presentare i diversi contesti della
pratica femminista, uno dei quali era l’educazione, e nella fattispecie l’università.
Accanto a questo e a volte, ma non sempre, convergente con questo, c’erano poi
tantissimi gruppi e organizzazioni attiviste, in tutto il mondo. Il mio punto è che
l’insegnamento universitario e la ricerca che si conduce ci danno la possibilità
di lavorare davvero per operare un cambiamento nelle istituzioni. Questo può
avvenire prospettando delle opportunità per le donne che vivono in condizioni
economicamente svantaggiate e provenienti dalla classe operaia affinché possano
beneficiare dell’istruzione superiore e migliorare così le loro possibilità di vita e di
impiego, e sviluppare ancora maggiore consapevolezza sulla condizione femmi-
nile nel patriarcato. In questo senso mi interessava seguire il percorso intrapreso
da Stuart Hall per portare la pedagogia in stretta relazione con la ricerca, in modo
che entrambe in qualche modo si arricchissero nel processo. In un’ottica ancora
più ampia, d’altra parte, che era anch’essa già di Stuart e che bell ha ulteriormente
portato avanti, in molti casi gli studenti di magistrale e dottorato finivano per di-
ventare amici per tutta la vita oltre che colleghi di facoltà dove prima erano stati
studenti. Questo è uno dei veri piaceri dell’accademia: è ciò che crea la cultura
dell’università e si trasforma in una catena di amicizie a livello globale.
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FT: Tra le pensatrici femministe con cui sei più costantemente in dialogo
nei tuoi tesi c’è sicuramente Judith Butler. Perché il suo contributo è così centrale,
secondo te, per gli studi culturali, e per il tuo lavoro soprattutto?
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UNA CONVERSAZIONE CON ANGELA MCROBBIE
era una cosa molto comune anche in Italia, quando ai tempi di Berlusconi i media
diffamavano il femminismo di continuo.
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FT: Durante gli anni Novanta, gli studi culturali femministi sembravano
incapaci di affrontare quello che definisci come un «complicarsi della reazione»
(complexification of backlash) (McRobbie 2008); tu stessa hai sentito il bisogno
di rivedere alcune delle tue idee – forse troppo ottimiste – sulla costruzione della
femminilità nei media popolari, e hai citato la critica socialmente impegnata delle
femministe materialiste, queer e postcoloniali come una risposta più efficace
alla depoliticizzazione delle rivendicazioni femministe. Queste tensioni esistono
ancora? Come vanno le cose oggi, secondo te?
AMR: Quello che sostenevo in The Aftermath era l’emergere di una modalità
viziata ed estesa di reazione abbastanza diversa da quella che avevano analizzato
autrici come Susan Faludi, per esempio. È vero che avevo espresso una posizione
più fiduciosa riguardo l’investimento delle giovani donne nell’educazione e nella
loro presenza assertiva nella cultura popolare che non sempre sembrava in linea
con le posizioni femministe dell’epoca. Sono sempre stata più ottimista sulla
femminilità punk e le forme culturali che derivavano dalle attività post-punk, e
anche come studiosa della moda sono sempre stata propensa a difendere scelte
piuttosto selvagge e provocatorie che il mainstream femminista disapprovava.
Questa era l’essenza della mia precedente posizione, anche perché come sociologa
ritenevo dovessimo essere capaci di guardare e ascoltare. La mia linea di pensiero
si estendeva, allora, a comprendere le idee di sottocultura punk-queer espresse
da Jack Halberstam, e in quel periodo si avvicinava agli interessi che anche bell
hooks mostrava, nei suoi scritti, al lavoro artistico di persone come Chila Kumari
Burman, alla produzione musicale delle artiste rap. Vorrei puntualizzare due cose,
a tal proposito: prima di tutto, ero forse troppo ansiosa di trovare espressioni
di una consapevolezza proto-femminista fra le giovani donne che suggerissero
modi di creare la propria autonomia senza necessariamente allinearsi alla secon-
da ondata del femminismo. Questo mi ha messo in difficoltà perché alcun* non
hanno visto di buon occhio il mio atteggiamento favorevole rispetto ad attività
che non erano direttamente anticapitaliste o antipatriarcali. Non è che io abbia
fatto marcia indietro o abbia rinunciato a quella prospettiva, il punto è che questo
tipo di autonomia è stata rapidamente e facilmente cooptata e trasformata in un
«processo di individualizzazione femminile». In secondo luogo, sembrava che
all’inizio degli anni Duemila le studiose femministe più anziane della mia gene-
razione si fossero stancate o si fossero rivolte a nuovi campi di ricerca, sicché la
grande attenzione sociologica a ciò che facevano le donne comuni si era un po’
affievolita. Grazie al cielo c’erano anche studiose più giovani di me, eccezioni
come Beverly Skeggs, e poi dai primi anni Duemila autrici come Rosalind Gill
che proveniva dalla psicologia sociale, e negli Stati Uniti il lavoro di Sarah Banet-
Weiser ha riportato rinnovata attenzione su molte di queste tematiche.
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UNA CONVERSAZIONE CON ANGELA MCROBBIE
FT: Il sistema della moda, che come accennavi è stato al centro di molti tuoi
studi, mette insieme la questione dello stile e quella del lavoro, che a uno sguardo
approfondito spesso si richiamano. Quale posto occupa nella nuova economia
creativa la moda del riciclo e del riuso che passa dai mercati di seconda mano,
di strada e anche online, come per esempio la piattaforma Vinted?
FT: L’invito a essere creativi ha molti lati oscuri, che tu, come Boltanski e
Chiapello (1999) tra gli altri, evidenzi molto chiaramente, per esempio l’indivi-
dualizzazione e la precarizzazione estreme. Questo invito andrebbe riformulato,
o sarebbe meglio resistervi?
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FEDERICA TIMETO
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Cfr. https://www.sustainable-fashion.com/fostering-sustainable-practices.
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UNA CONVERSAZIONE CON ANGELA MCROBBIE
lettrici che oggi richiedono più contenuti femministi, per esempio sulla politica
delle mestruazioni o simili.
AMR: Sì, è esattamente così, hai detto bene. Crea e sostiene anche una
società fatta di odio, antagonismo, vergogna e crudeltà, una società priva di
compassione. Possiamo dire che si tratta di un effetto della polarizzazione sociale
che i teorici della politica hanno discusso durante e dopo il regime di Trump:
si tratta di come procede «il grande spettacolo della destra in movimento», per
dirla con Stuart Hall; inesorabilmente sembra, a meno che la mobilitazione e la
resistenza non continuino a trovare modi sempre nuovi di contestare le pretese
del capitalismo neoliberale. L’anti-welfarismo ha avuto un profondo e insoppor-
tabile effetto su tutta la società britannica: per esempio nel mercato immobiliare
coloro che non si possono permettere di stipulare un mutuo sono alla mercé delle
peggiori condizioni abitative da decenni a questa parte nel campo degli affitti, e
se una casa è decente è spesso economicamente inaccessibile, per cui le giovani
coppie della classe media non possono permettersi di avere un bambino perché
sono costrette a stare in minuscoli appartamenti in affitto, e hanno bisogno di due
redditi a tempo pieno solo per coprire le spese. Il poverty-shaming delle donne
si concentra sulle loro «vite mal gestite», come sottolinea Wendy Brown (2005), e
attira l’attenzione sul loro aspetto fisico attraverso la governamentalità dei media
visuali, come se la loro condizione svantaggiata fosse colpa loro. L’attivismo per
l’alloggio equo è diventato un’importante forma di lotta di classe, ma dopo anni
di de-regolamentazione e soprattutto con i profitti che arrivano nelle tasche dei
costruttori e il valore complessivo del capitalismo finanziario, che include tantis-
simi investimenti speculativi in progetti di edilizia abitativa, è difficile veder pro-
filarsi uno spazio per un cambiamento e per un ritorno della politica dell’edilizia
sociale come necessaria alla società.
FT: Per concludere, volevo chiederti una cosa che riguarda tutte noi che
lavoriamo nel campo degli studi culturali e che ci tocca molto da vicino per ragioni
affettive. Nella celebre raccolta Cultural Studies curata da Grossberg, Nelson e
Treichler (1992) sia il tuo testo che quello di Hall aprono con un riferimento al
saggio di Lidia Curti incluso nella stessa antologia. La sua esortazione a leggere
controcorrente, il suo cercare contraddizioni fruttuose, dove nulla è binario né
lineare, sono stati cruciali per lo sviluppo e il radicamento degli studi culturali
femministi in Italia che, sebbene ancora marginalizzati in ambito accademico,
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AMR: Che bel ricordo della straordinaria presenza di Lidia e del suo contri-
buto. Sì, Lidia era una teorica che cercava aperture e contraddizioni, che investiva
negli interstizi, come avrebbe detto Stuart Hall. Ha sempre animato le discussioni
teoriche con intensità ed energia e le urgenze dell’attivismo. Si tratta di un percorso
difficile da perseguire in quanto porta all’emarginazione accademica, come dici,
non solo in Italia – succede anche nel Regno Unito –, dove gli studi culturali sono
visti come non abbastanza precisi nelle loro indagini empiriche, non aderendo
a quella modalità accademica che si fa forte della propria expertise ristretta a un
ambito limitato della conoscenza. Oppure, quando anche se ne riconosce l’inter-
disciplinarietà, ci sono un sacco di ragioni per svalutarne i modi di indagine. Per
finire con una nota positiva, però, a volte arriva qualcuno che con il suo lavoro fa
tutte queste cose con un tale coraggio, una tale ampiezza e una tale energia, che
ci si sente vendicate per tutti i tentativi non andati a buon fine. Penso ad esempio
a Wayward Lives, Beautiful Experiments di Saidiya Hartman (2019). Sono sicura
che Lidia amava questo tipo di scrittura. È così triste che non sia più con noi per
leggere quel testo in una tavola rotonda all’Orientale di Napoli.
Angela McRobbie
Department of Media, Communications and Cultural Studies
Goldsmiths University of London
New Cross
London SE14 6NW UK
a.mcrobbie@gold.ac.uk
Federica Timeto
Dipartimento di Filosofia e Beni Culturali
Università Ca’ Foscari
Malcanton Marcorà – Dorsoduro 3484/D, Calle Contarini
I-30123 Venezia
federica.timeto@unive.it
https://orcid.org/0000-0003-2492-733X
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UNA CONVERSAZIONE CON ANGELA MCROBBIE
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