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Il Mulino - Rivisteweb

Federica Timeto
Il culturale è politico: gli studi culturali e il fem-
minismo a modo suo. Una conversazione con An-
gela McRobbie
(doi: 10.1405/104267)

Studi culturali (ISSN 1824-369X)


Fascicolo 1, aprile 2022

Ente di afferenza:
Università Venezia Cà Foscari (unive)

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INTERLOQUI

Il culturale è politico: gli studi


culturali e il femminismo
a modo suo
Una conversazione con Angela McRobbie
di Federica Timeto

The cultural is political. Cultural studies and feminism on its own terms. A conversation
with Angela McRobbie

This conversation follows the theoretical path of Angela McRobbie, a leading exponent of
British feminist cultural studies. In her research, which spans almost fifty years, McRob-
bie has analyzed representations of popular culture, from magazines to the music scene,
from dance to fashion, from film to television, investigating the contradictions of the
performance of femininity in the media landscape and the limits and possibilities of the
different forms of identification for female and feminist subjects. Since the mid-1990s, she
has focused on postfeminism in neoliberal culture, at a time when feminism found itself
simultaneously assimilated into common sense and emptied of its political efficacy. In
her latest book, Feminism and the Politics of Resilience (2020), McRobbie deepens her
analysis of contemporary representations of the feminine by showing their continuities
and ruptures with postfeminism, and the polarization of meritocracy cult and poverty-
shaming regulated by the governmentality of visual media.

Keywords: McRobbie, feminist cultural studies, cultural consumption, feminist politics,


visual media governmentality.

La conversazione che segue ripercorre gli snodi principali del percorso teorico di
Angela McRobbie, esponente di rilievo degli studi culturali femministi britannici,
che attualmente insegna al Goldsmiths College di Londra. McRobbie ha conseguito
un master al Centre for Contemporary Cultural Studies (CCCS) di Birmingham,
dove ha sviluppato la nota ricerca sulla rivista per le adolescenti Jackie (McRobbie
1978a), pubblicata in diverse lingue. Nella sua ricerca, che copre un arco tem-
porale di quasi cinquant’anni, McRobbie ha analizzato le rappresentazioni della
cultura popolare, dalle riviste per adolescenti alla scena musicale, dalla danza
alla moda, dal cinema alla televisione, indagando le contraddizioni della perfor-
mance della femminilità nei media, e i limiti e le possibilità dalle diverse forme di
identificazione che questo offre alle soggettività femminili e femministe. Nelle sue

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STUDI CULTURALI - ANNO XIX, N. 1, APRILE 2022, pp. 113-136 ISSN: 1824-369X, © Società editrice il Mulino
FEDERICA TIMETO

riflessioni, oltre che con autrici e autori del campo degli studi culturali, McRobbie
dialoga costantemente con le teorie di Butler, Foucault, Althusser, Laclau e Mouffe,
Deleuze e Guattari, per citare solo i riferimenti più ricorrenti, dei quali condivide
l’antiessenzialismo, l’attenzione per la performatività in senso ampio, una visione
del potere come normativo e produttivo insieme, la prospettiva incorporata.
A partire dalla metà degli anni Novanta, la sua ricerca si è soffermata in
particolare sul postfemminismo nella cultura neoliberale, in un periodo in cui
il femminismo si è trovato contemporaneamente assimilato nel senso comune
e svuotato della sua efficacia politica ormai data come passata dalle narrazioni
istituzionali. Queste ne hanno circoscritto spazialmente e temporalmente la pre-
sa sul reale, camuffando nel mito dell’empowerment la demolizione dello stato
sociale (con tutte le conseguenze del caso, in parte discusse in queste pagine).
È impossibile rendere conto della sterminata produzione, accademica e non,
di McRobbie, accademica e non, ma tra le sue monografie, nessuna delle quali
purtroppo tradotta in italiano, ricordiamo The Uses of Cultural Studies (2005), The
Aftermath of Feminism (2008), Be Creative (2015). Nel suo ultimo libro, Feminism
and the Politics of Resilience (2020), McRobbie approfondisce l’analisi delle rap-
presentazioni contemporanee del femminile nei media e nella cultura popolare
mostrandone le continuità e le rotture con il postfemminismo, e la polarizzazione
di culto della meritocrazia e poverty-shaming regolata dalla governamentalità dei
media visuali. Con questa espressione, McRobbie identifica «il convergere del
modello biopolitico della governamentalità sviluppato da Foucault, attento agli
spazi, agli sguardi, ai corpi, alle popolazioni e al controllo di condotte e azioni,
e della dimensione specificatamente mediale e di genere» (McRobbie 2020, 34).
Il nuovo dispositivo per la gestione mediale dei femminismi emergenti, che so-
stituisce l’ethos dell’individualismo postfemminista, si compone oggi, secondo
McRobbie, di tre categorie interconnesse: la perfetta, l’imperfetta, la resiliente (che
formano un vero e proprio dispositivo definito con l’acronimo p-i-r).
Diversamente dalla sociologia egemonica (informata principalmente dal
paradigma strutturalista-funzionalista), che per lungo tempo ha considerato
gli studi culturali come una invasione di campo, gli studi culturali non hanno
recepito l’arrivo del femminismo alla stessa stregua, nonostante le affermazioni
di Stuart Hall, riportate all’inizio della conversazione che segue, sembrerebbero
a prima vista indicare il contrario. Lo stesso Hall ha ricordato l’esistenza di una
sorta di «pre-femminismo» nel centro, di una sensibilità all’identità sessuale se non
ancora alla politica femminista, di una ricerca sui rotocalchi femminili avviata e
poi sfortunatamente andata perduta, ammettendo anche, tuttavia, che «quando
il femminismo si affermò e divenne autonomo fummo colti di sorpresa, proprio
perché – in modo patriarcale – avevamo cercato di dargli inizio. Queste cose
sono davvero imprevedibili… Poi il femminismo esplose nel Centre a modo suo»
(Hall 1996a, 280-281). Ma ciò che avvicinava il femminismo e gli studi culturali, in

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UNA CONVERSAZIONE CON ANGELA MCROBBIE

effetti, era che sia gli studi culturali (ancora senza femminismo) sia le femministe
(che si sarebbero riconosciute nella pratica degli studi culturali) rivendicavano e
difendevano come un posizionamento voluto la mancanza di chiusura delle pro-
prie scelte indisciplinari e indisciplinate; come il posizionamento del femminismo
nell’accademia era tacciato di mancanza di unitarietà, accusato di essere amorfo
e contraddittorio (Women’s Studies Group 1978), allo stesso modo il campo degli
studi culturali rifiutava definizioni descrittive e prescrittive, restando un «insieme
di discipline impegnate» (Hall 2005, 4).
Le studiose riunite nel Women’s Studies Group (WSG), formatosi nel 1974
per analizzare le rappresentazioni femminili nei media e poi confluito nel più
ampio Women’s Forum, rifuggivano la rispettabilità e le mode teoriche e asse-
condavano invece la diversità di prospettive e obiettivi, spesso contrastanti, come
una ricchezza da nutrire. L’antologia Women Take Issue (1978) che ne raccoglie
il lavoro, e dove appare il saggio di McRobbie (1978b) Working Class Girls and
the Culture of Femininity (uno studio sulle adolescenti della classe operaia fre-
quentatrici del club Mill Lane di Birmingham), era stata in realtà pensata come
l’undicesimo dei Working Papers del Centro, che presentavano annualmente le
ricerche individuali e collettive dei membri, ma che nell’arco delle dieci pub-
blicazioni precedenti aveva ospitato soltanto quattro articoli sulla condizione
femminile. Il gruppo era composito: per alcune di loro, il WSG era l’unico punto
di contatto con il movimento di liberazione, altre praticavano già l’attivismo fuori
dal contesto accademico. Una questione, quella del confronto fra teoria e pratica,
che permeava gli studi culturali come gli studi femministi, le cui radici, come
per i black studies, erano d’altra parte politiche, piuttosto che accademiche. A
questo proposito, sono ancora le parole di Hall a rendere senza mezzi termini il
conflitto politico sollevato dalle femministe nel centro. Le studentesse femministe
che chiedevano di includere, nei testi da studiare per il corso di dottorato, Julia
Kristeva al posto di Raymond Williams, non stavano ponendo una questione
personale, ma strutturale:

[Q]uando si è messa in discussione la reading list... è stato in quel momento


che ho scoperto veramente la natura “genderizzata” del potere. Solo pa-
recchio dopo, infatti, sono stato capace di pronunciare delle parole, mi
sono scontrato con la realtà di quelle profonde intuizioni di Foucault sulla
reciprocità individuale della conoscenza e del potere. Parlare della cessione
del potere è un’esperienza radicalmente diversa dall’essere messi a tacere.
Questo è un altro modo di pensare, e anche un’altra metafora per la teoria:
il modo in cui il femminismo ha fatto irruzione nei cultural studies e li ha
interrotti (Hall 1996b, 110).

Fin da subito, gli studi culturali femministi si caratterizzarono per una forte
autoriflessività circa le proprie condizioni di possibilità all’interno dell’accademia
e, per converso, all’interno del movimento di liberazione delle donne, lucidamente

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FEDERICA TIMETO

consapevoli della tensione dialettica e della necessità di negoziazione produttiva


tra margini e centro, inclusione ed esclusione, soggettività femminili e femministe.
Lo scambio di prospettive era il motore per l’elaborazione di conoscenze radicate
nell’esperienza, non perché a questa fosse ingenuamente attribuita la priorità
del reale, ma perché questa era il luogo dove le femministe potevano produrre
saperi situati, evitando di parlare al posto di o per, semmai con i loro s-oggetti di
studio, come spiega McRobbie già in Working Class Girls. Nella politica femmi-
nista, rinunciare all’oggettività non significava – né significa ancora – fare a meno
dell’esperienza, così come nell’epistemologia femminista rinunciare all’oggetti-
vità non significa fare a meno della verità. Ci sono però resoconti e saperi situati
in modi diversi, dunque esperienze a partire dalle quali certe rappresentazioni
significano qualcosa piuttosto che qualcos’altro: rinunciare alle verità universali
(al cosa) non comporta, insomma, ricadere nel relativismo, doppio speculare
dell’universalismo, ma partire dai saperi posizionati in precisi vissuti.
Nella sua «lettera d’amore» a Hall, Elspeth Probyn sottolinea, fra «le cose che
gli studi culturali femministi dovrebbero ricordare» (Probyn 2016, 295), il concetto
di articolazione della rappresentazione, l’apertura di spazi di differenza per l’i-
dentificazione e l’attenzione alle circostanze e alle storie in cui questa ha luogo e
prende forma, un presupposto fondamentale degli studi di genere che muovono
dalle riflessioni di Judith Butler, interlocutrice costante di McRobbie ma anche della
epistemologia femminista, che insistono entrambe sulla performatività in chiave
anti-essenzialista e anti-dualista. Le identità sono sempre costitutivamente culturali,
mai pure o date, né espressive di una qualche verità o essenza sottostante: si com-
pongono, piuttosto, in punti di identificazione, parziali e instabili – ma reiterabili e
così consolidabili – che si suturano insieme (Hall 1990), e che possono essere più
o meno conformi ai significati dominanti. I consumi culturali sono, per gli studi
culturali, il luogo privilegiato della produzione e riproduzione di mondi sociali
e modelli identitari. Potere produttivo e normativo, ripetizione e trasgressione,
abitudini e intenzioni coesistono e confliggono nella performance delle identità
di classe, genere e razza, che si costituiscono dentro e contro le rappresentazioni
culturali, senza che le si possa mai risolvere in una unità naturale: per le studiose
femministe nel campo degli studi culturali non vi è alcuna categoria di donna o di
femminilità cui il femminismo possa fare riferimento stabilmente, e d’altra parte
nessuna politica femminista può funzionare proponendo il raggiungimento di
costruzioni totali, sul piano sia individuale sia collettivo, ma deve sempre lavorare
a decostruire le totalità e i pericoli che comportano.
È impossibile accedere all’esperienza al di fuori della rappresentazione:
anche se a livello di analisi può essere necessario separare le rappresentazioni e
le ideologie dall’esperienza vissuta, gli studi culturali superano presto la dicoto-
mia fra testi e contesti: gli aspetti materiali e simbolici si intrecciano di continuo
nutrendosi gli uni degli altri (McRobbie 1982), e questo è ancora più vero ed

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UNA CONVERSAZIONE CON ANGELA MCROBBIE

evidente nell’economia postfordista della conoscenza. Non esistono in assoluto


rappresentazioni buone o cattive della realtà perché non esistono rappresentazioni
che riflettono la realtà, ma modi per fare senso che possono essere oppressivi o
liberatori, momenti di negoziazione, rottura, stabilizzazione. Non si tratta di fare
i costruzionisti radicali, ma di problematizzare costantemente la realtà. Come
non c’è un grado zero del linguaggio, o un «occhio nudo» (direbbe Bourdieu),
allo stesso modo non può esistere una «falsa coscienza», ovvero una impossibilità
per le classi dominate di accedere alla propria realtà preclusa dall’adesione all’i-
deologia dominante. Anche i significanti dominanti sono tali perché occultano il
lavoro e i processi che fanno sì che possano apparire plausibili e legittimi come
dati di fatto. Osservazione, quest’ultima, molto feconda per la pratica politica,
dal momento che qualsiasi processo è sempre contingente e potenzialmente
reversibile – come nota per esempio Nicholas Mirzoeff (2021) parlando della
triade «statua-stato-statico» a proposito dell’odierna iconoclastia. Compito dell*
studios* di studi culturali è ri-tracciare questi processi piuttosto che operare per
rovesciamento: non si tratta di sostituire il buono al cattivo, il corretto allo sba-
gliato, ma di operare con e attraverso le differenze proprio per riportare alla luce
le singolarità, senza appellarsi ad alcuna omogeneità o unitarietà categoriale.
Nella stessa direzione, per esempio, un’altra fondamentale esponente
femminista degli studi culturali, bell hooks, invita sempre a pensare un pensiero
complesso, un pensiero della complessità – maturato, negli studi culturali, an-
che attraverso il Marxismo di Gramsci, Althusser e ovviamente il femminismo,
che hanno reso possibili analisi intersezionali prima ancora che questo termine
fosse coniato (come rileva McRobbie in questa conversazione). È nel luogo della
rappresentazione che la specificità e insieme la complessità dei vissuti, sempre
posizionati e incorporati, emerge in modi che non solo non sono mai perfetta-
mente combacianti, ma non possono neppure essere confrontati per opposizio-
ne o sostituzione. Il luogo della rappresentazione è infatti anche il luogo delle
relazioni e delle tensioni dialettiche fra le diverse possibilità dell’identificazione:
uno spazio di apertura radicale che, proprio perché mai dato, può funzionare
in modi e direzioni molteplici. Rifiutare l’essenzialismo significa, dunque, anche
fare a meno dei dualismi: da qui, per esempio, muove la critica dall’interno di
bell hooks alla contrapposizione di forma e contenuto del Black Arts Movement
(hooks 1995), così come la critica che gli studi culturali hanno sempre condotto
contro le gerarchie culturali esistenti: McRobbie lo articola molto chiaramente in
Jackie: An Ideology of Adolescent Femininity (1978a), dove discute i pregiudizi
più comuni rispetto alla cultura popolare, tacciata di essere poco valida, poco
educativa o manipolata dall’alto, tutti giudizi di valore che precludono una effet-
tiva analisi delle pratiche di consumo e delle forme di appropriazione di questi
prodotti culturali.

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FEDERICA TIMETO

Chiedersi come funzionano le rappresentazioni, per gli studi culturali fem-


ministi, è una domanda profondamente politica che si accompagna a quella di chi
viene rappresentato e chi no, chi parla di cosa, quali invisibilità si celano dietro
ciò che appare: un esempio di questo slittamento di prospettiva è nel saggio di
McRobbie e Garber sulle sottoculture giovanili femminili, Le ragazze e le subcul-
ture (1975), che si apre con una serie di domande sul perché le adolescenti siano
pressoché assenti in questi studi: dipende dai soggetti (maschi) che fanno ricerca?
O dai soggetti (maschi) su cui si fa ricerca? O dalla definizione (maschile) delle
situazioni su cui si focalizza la ricerca? O da una secondarietà strutturale (struc-
tured secondariness) delle donne in questo campo? E questa marginalità, spesso
simile a una profezia che si autoavvera, a quali fattori sociali si lega? Da quali
immaginari mediali è veicolata e rinforzata? E laddove esistano degli immaginari
più accomodanti per le proiezioni dell’immaginario delle adolescenti, come quelli
mod e hippie, o della teeny bopper, per esempio, questi corrispondono a delle
sovversioni dei ruoli di genere oppure le aspettative sociali per le giovani donne
restano immutate se non indirettamente rinforzate? Insomma, tutta una serie di
domande a cascata caratterizzanti il metodo degli studi culturali e del femmini-
smo, che ritengono più importante porsi le domande giuste piuttosto che fornire
risposte definitive o esatte.
Dare priorità al come piuttosto che al cosa mina ulteriormente qualsiasi difesa
di ortodossia disciplinare (McRobbie 1982), spazzando via ogni rigidità positivista
delle scienze sociali escludenti rispetto alla radicalità politica. La presunta dico-
tomia – data come assunto – tra parola e azione che spesso ha logorato i dibattiti
femministi è andata contro gli interessi del femminismo stesso perché ha reciso
l’interdipendenza fra la teoria e la pratica femministe, dove le idee sono esse stesse
un mezzo di azione, se incorporate e situate nelle pratiche. Come ribadisce Anne
Balsamo (1991) tracciando una genealogia degli studi culturali femministi, c’è
stato un momento in cui il femminismo nel campo degli studi culturali ha lavorato
soprattutto per aprire uno spazio di potere dal quale consentire alle soggettività
femministe di parlare all’interno delle rappresentazioni dominanti, e ciò è valso
anche per il contesto accademico. Lo stesso lavoro intellettuale funziona dunque,
da questo punto di vista, come una pratica continuamente performata (Hall 2005),
che non consiste solo in ciò che si studia, ma nel come lo si fa, che crea il ruolo
che occupa senza necessariamente aderirvi per tradizione, come evidenzia qui
McRobbie. Il lavoro intellettuale non è una cosa mentale soltanto, anche perché è
informato dall’esperienza di chi lo pratica, e questa esperienza non può limitarsi
a restare nei confini di una disciplina: ogni esperienza si compone di attività e
relazioni molteplici, legate alle altre discipline con cui si dialoga ma anche alla
vita delle persone con cui si entra in relazione, inclusi i soggetti della ricerca, e
tutto questo interferisce con la purezza di qualsiasi campo difeso e confinato.

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UNA CONVERSAZIONE CON ANGELA MCROBBIE

Nella conversazione che segue, Angela McRobbie discute della governamen-


talità dei media visuali e delle caratteristiche del dispositivo p-i-r al centro del suo
ultimo libro, insieme a una serie di aspetti nodali del suo pensiero e del rapporto
fra il femminismo e gli studi culturali, articolati anche in questa introduzione.

FT: Ripercorrendo le eredità teoriche degli studi culturali, Stuart Hall, in


un passaggio incisivo che viene citato spesso, paragona a un raid il modo in cui
le donne hanno inizialmente preso la parola ed espresso il loro dissenso (come
indica anche il titolo della pionieristica raccolta Women Take Issue) nel campo
degli studi culturali, dicendo che il femminismo «ha fatto irruzione come il ladro
nella notte, interrompendo i silenzi, facendo un rumore indecente, sequestran-
do il tempo, cagando sul tavolo dei Cultural Studies» (Hall 1996a, 110): questa
affermazione evoca sia un esproprio che una profanazione. Qual è stata la tua
esperienza di quel processo, in quel momento?

AMR: Sì, stranamente è stato proprio Stuart a parlare in questo modo, tut-
tavia si è ampiamente scusato qualche tempo dopo. A leggerli sulla carta, questi
commenti sembrano ora molto più taglienti di quanto non lo fossero in quel
momento, in effetti. Penso che allora ci si aspettasse che, nel momento in cui le
studiose salivano a bordo e cominciavano a crescere di numero al CCCS, i loro
interessi potessero essere assorbiti senza soluzione di continuità e in modo rela-
tivamente indolore. Soprattutto perché eravamo tutti compagni, tutti impegnati
in un progetto radicale. Se si esclude Stuart, i ragazzi del centro erano stupiti che
potessimo sfidare i loro paradigmi – penso ai co-autori di Policing the Crisis (Hall
et al. 1978), e di Rituali di resistenza (Hall e Jefferson 1975). Erano tutti così dediti
al loro lavoro ed euforici per la ricchezza concettuale che stava emergendo… e noi
femministe abbiamo bucato [punctured] questo senso di comunità accademica.
Anche noi eravamo tese, insicure di noi, spesso sentivamo di non riuscire ad arti-
colare una posizione coerente. Non c’è da meravigliarsi, dato che il vocabolario
in quel momento, nel 1975, era ancora una volta interamente derivato dal Mar-
xismo continentale, da Althusser, Gramsci, poi Poulantzas e così via. Quando ho
intrapreso questo lavoro, avevo già di fronte a me a una mole straordinariamente
ricca e originale di argomentazioni sui giovani (cioè i giovani maschi) della classe
operaia che esprimevano gli antagonismi di classe dei genitori in termini simbolici,
attraverso la moda, gli stili musicali e il «rituale», quindi non c’è da meravigliarsi
che la mia risposta fosse incerta, esitante! Dopotutto mi sentivo in qualche modo
in linea con l’importante cambio di paradigma rappresentato da questo corpus di
ricerche, che costituiva anche un importante contributo alla sociologia e agli studi
culturali all’interno di una cornice neo-marxista. Domandare qualcosa come «E le
ragazze?» sembrava una cosa da «guastafeste femminista [feminist killjoy]» per usare
un’espressione di Sara Ahmed (2017). E in realtà credo che i ragazzi sentissero che

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FEDERICA TIMETO

la questione delle ragazze poteva essere accolta senza troppe difficoltà. Quello
che ricordo del mio dilemma era l’assenza di una bibliografia. Facevo riferimento
allo stesso insieme di testi con cui lavoravano gli altri colleghi del CCCS e anche
lì c’era davvero poco sull’esistenza del sesso femminile, penso per esempio alla
Scuola di Chicago degli anni Venti e Trenta. Ricordo di aver rovistato in giro alla
ricerca di chiunque avesse intrapreso qualche lavoro sociologico sulle giovani
donne, ma era dappertutto così disperso e frammentato, davvero… Per esempio,
c’erano alcuni volumi di sociologia sulle «ragazze in difficoltà», e nel complesso
anche io, come loro, mi sentivo «aggrappata a tutto». Ricordo di aver fatto ricerche
in biblioteca su argomenti come la storia delle riviste femminili o il posto delle
ragazze della classe operaia nella storia sociale, ma nel complesso riuscivo a
trovare davvero poco. Al contrario, c’era l’intero campo della cultura delle gang,
del panico morale nei media, della devianza, della teppa, per esempio, quindi
era difficile articolare un altro punto di partenza per la riflessione. Ovviamente
questo era anche il momento in cui femministe come Juliet Mitchell pubblicavano
opere rivoluzionarie, ma all’epoca, come studentessa del Master, mi confrontavo
con i paradigmi della scuola di Birmingham.

FT: Se seguiamo la ricostruzione di Anne Balsamo (1991), alcune questioni


chiave appaiono segnare gli studi culturali femministi nelle diverse decadi: l’at-
tenzione al quotidiano e alla sfera domestica negli anni Settanta, l’importanza di
aprire una posizione per le donne nel linguaggio negli anni Ottanta, i confronti
con la teoria critica della razza, gli studi postcoloniali e gli studi della scienza e
della tecnologia negli anni Novanta. Ha ancora senso adottare questo idioma
generazionale per il femminismo, e se sì, in che termini e per quali ragioni?

AMR: È una formulazione valida, ma penso che ognuna di noi abbia le


proprie traiettorie, e quando si tiene conto di quante poche donne ci fossero
ovunque nell’accademia e poi nelle scienze sociali, nelle arti, nelle scienze uma-
ne, per non dire in quel campo appena inventato che erano gli studi culturali, il
modello a cui ti riferisci comincia a diramarsi divenendo qualcosa di più vicino a
una fioritura disciplinare che si accompagna a una interdisciplinare, un processo
simile ai rizomi di cui parlano Deleuze e Guattari, che si propagano verso l’alto
e verso il basso. Peraltro, il modello in questione implica anche un percorso, in
cui vedo il lento ma sicuro stabilizzarsi di specializzazioni, e accanto a questo il
riconoscimento di questioni importanti man mano che diventano evidenti. Natu-
ralmente, detto questo, ci sono momenti chiave e tante concezioni di svolta che
punteggiano i nostri dialoghi condivisi, quindi per rispondere alla tua domanda
credo che bisognerebbe intrecciare l’idea di generazione attraverso e all’interno
di queste storie intellettuali e, quando lo facciamo, ci accorgiamo che il concetto
di generazione passa abbastanza in secondo piano, o decade del tutto. Mi pre-

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UNA CONVERSAZIONE CON ANGELA MCROBBIE

occupa anche il fatto che l’idea di generazione contenga e protegga le proprie


pratiche per definire il campo, quasi a giustificarle, piuttosto che per interrogarle.

FT: Quando le donne fecero il loro ingresso nel campo degli studi cultu-
rali, i rapporti di produzione furono trattati dando priorità alla classe come il
centro dell’analisi. Le femministe hanno presto incluso in queste analisi anche
il sesso/genere e i rapporti di riproduzione. Poi è arrivata la razza, che non era
semplicemente una categoria aggiunta, ma intendeva più radicalmente minare
il sistema dall’interno, alla base. Come hai accolto e sviluppato questa sfida in
quanto femminista bianca occidentale, nel tuo lavoro?

AMR: Prima di tutto devo dire che ho ammirato molto i primi lavori sulla
bianchezza e sul ruolo delle donne bianche nel riprodurre le pratiche razzializzan-
ti, come l’importante storia culturale di Vron Ware (1986). E poi a Birmingham nei
primi anni Ottanta studiose femministe nere come Hazel Carby avevano iniziato
a sfidare le categorie dominanti sia di classe che di genere e sessualità dando
un contributo diretto alle molte esclusioni sulla base della appartenenza razziale
che le studiose nere sperimentavano a ogni livello della loro vita, accademica e
non (Carby 1982). Paul Gilroy, naturalmente, ha intrapreso il coraggioso lavoro
di contestazione di molti dei saperi acquisiti negli studi culturali, per esempio
nel suo confronto con l’idea di appartenenza come appartenenza di classe di
Raymond Williams (Gilroy 1987). E naturalmente questi dibattiti si sono allargati
soprattutto sulle pagine di Feminist Review già prima che il concetto di interse-
zionalità fosse introdotto da Crenshaw (1989). Per quanto riguarda la politica
della razza, è vero che i primi lavori sulle ragazze erano incentrati sulle giovani
donne bianche. Allo stesso tempo la mia esperienza quotidiana delle sottoculture
a Birmingham era sempre quella di un mix multiculturale: penso soprattutto agli
eventi punk’n’reggae collegati a Rock Against Racism e alla Anti-Nazi League.
Io e poch* altr* andavamo costantemente a Handsworth, a feste in casa del tipo
recentemente ricordato da Steve McQueen nella sua serie televisiva Small Axe
(BBC 2020). Le mie osservazioni, nell’arco di trent’anni, sul fatto che la presenza di
donne non bianche nell’accademia fosse così limitata, mi hanno portato a sollevare
costantemente la questione nelle commissioni di nomina, a farne un caso senza
fine. Era sorprendente e significativo che all’inizio del secolo nel Regno Unito ci
fossero ancora così poch* professor* ner*. Non voglio apparire autoassolutoria,
ma la razza ha sempre informato la mia pedagogia: insegnavo bell hooks, Paul
Gilroy, Gayatri Spivak, Homi Bhabha, Stuart Hall (vedi McRobbie 2005). Penso
di aver fatto una delle prime, se non la prima intervista per il Regno Unito con
Gayatri per la rivista «Block» (McRobbie 1985), e ricordo quanto fossi tesa quando
l’ho incontrata a Londra, quando vivevo ancora a Birmingham ed ero fresca di
laurea, e il mio registratore si è inevitabilmente rotto. Inoltre, se ripenso ai miei

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FEDERICA TIMETO

scambi con Stuart, credo che a entrambi noi interessassero molto i giovani artisti
neri emergenti: avevo insegnato a Isaac Julien nel 1983 al Central Saint Martins
(e in quel contesto abbiamo discusso a lungo su Homi Bhabha), e in seguito ho
scritto spesso di questi artisti, specialmente Yinka Shonibare, ma anche note e
commenti su Chila Kumari Burman. Scrivevo spesso anche pezzi di taglio gior-
nalistico che pubblicavo su «Sight and Sound», «The Guardian», l’«Independent»
e il «New Statesman», recensendo per esempio i libri di Toni Cade Bambara o la
musica di Goldie. Con gli/le studenti ner* in classe si trattava di portare in primo
piano tutto questo lavoro. Da bell hooks a Tricia Rose, da Gayatri Spivak alla
mia collega Sara Ahmed. Al Goldsmiths ho sostenuto e supervisionato studenti
di dottorato afroamericani, afro-caraibici, turchi-tedeschi, tedeschi neri, in aree
anche in quel caso estremamente sottorappresentate.

FT: A proposito del concetto di classe, la questione irrisolta di Marx negli


studi culturali è stata molto divisiva e permea anche il dibattito femminista odier-
no, creando diversi schieramenti che spesso impediscono un dialogo fruttuoso,
e comportano una lunga serie di rotture a cascata. Come si può – se si deve –
conciliare l’antiriduzionismo degli studi culturali con Marx, su quali basi?

AMR: Il mio investimento nel Marxismo è sempre stato all’interno di una


cornice neo-marxista influenzata da Laclau e Mouffe (1987) attraverso il concetto
di «catena di equivalenza»1, attraverso la contingenza e la lotta quotidiana come
rivoluzione, ovvero la lotta per l’egemonia. Mi sembra che questo sia compa-
tibile con i nuovi femminismi degli ultimi anni, a parte il femminismo radicale
vecchio stile che non si è mai occupato della teoria marxista. Penso che il lavoro
di Judith Butler, qui, sia un faro di luce costante. Quanto al vocabolario marxista,
bisogna sempre interrogarne la terminologia e, se il caso, farne completamente
a meno. Trovo così importante il lavoro di Butler sulla violenza e la necessità
di fare disobbedienza civile in modi non violenti. Molti direbbero che la sua
scrittura è incompatibile con il marxismo, ma se prendiamo sul serio la lettura
post-strutturalista di Marx che fanno Laclau e Mouffe (e che ha anche influenzato
Hall), allora Butler può essere vista all’interno di una traiettoria politica analoga.
In un certo senso amplia il Neo-marxismo, nel suo lavoro sulle vite precarie,
sulla relazionalità e sulla dipendenza (Butler 2004). Come figura il Marxismo
nella mia ricerca recente? La risposta è: costantemente, ma non come un quadro
di riferimento fisso e immutabile. Per esempio, in tutte le ricerche che ho fatto
sul lavoro, la precarietà del lavoro autonomo nel settore creativo, mi confronto

1
Laclau e Mouffe (1987) sostengono che le configurazioni sociali emergono all’interno di un
campo discorsivo; i momenti chiave della costruzione dei significati in questo campo diventano punti
nodali, significanti di cui i soggetti sociali si servono e che mobilitano rispetto a esigenze diverse seppure
comparabili in una catena di equivalenze composta proprio da questi punti.

— 122 —
UNA CONVERSAZIONE CON ANGELA MCROBBIE

sicuramente con le categorie del Marxismo. Nel complesso, in Be Creative (2015),


le mie argomentazioni coniugano un focus marxista sul lavoro con il concetto
foucaultiano di dispositivo, e sostengo che il governo del New Labour del Regno
Unito è stato in grado di avviare, praticamente indisturbato, una massiccia riforma
del lavoro aggirando il «lavoro organizzato» e incoraggiando i giovani a diventare
creativi freelance «vivendo di quest’aria». Living on Thin Air era il titolo di un libro
dell’allora consulente di Tony Blair, Charles Leadbeter (1999), peraltro…

FT: Gli studi culturali condividono con la sociologia culturale l’idea che la
cultura è costitutiva della vita sociale e che il consumo culturale è produttivo di
identità, relazioni, distinzioni. Tuttavia, gli studi culturali mantengono una inter-
disciplinarità che le discipline più canoniche non hanno (e spesso continuano a
temere come una perdita di privilegi), e la loro eterodossia è ancora considerata
una mancanza di rigore scientifico, perlomeno in Italia. Questo crea tensioni e
alimenta dibattiti intorno alla definizione degli studi culturali e alle loro peculiarità,
storiche e geografiche. Ma, mi chiedo, questo periodico richiamo all’aggiorna-
mento delle definizioni non è forse una contraddizione in termini?

AMR: Sono totalmente d’accordo sul fatto che il campo interdisciplinare


degli studi culturali, negli ultimi due decenni, ha sofferto molto del «ritorno alla
disciplinarità» come strategia protettiva all’interno delle università. Soprattutto
perché sono finiti sotto tiro e hanno subìto, per esempio, l’esigenza di doversi
allineare con i valori neoliberali dell’università imprenditoriale. Poveri vecchi
studi culturali, hanno sempre la peggio (ovviamente sto facendo dell’ironia)!
Abbiamo dovuto lavorare in questo spazio indefinito, in una specie di amalga-
ma, solo per avere una cornice di riferimento per la ricerca, e poi quello che è
successo nel Regno Unito, almeno, è stato che quasi tutti i dipartimenti, delle arti,
delle scienze umane o sociali, hanno finito per fare studi culturali, col risultato di
attirare gli studenti, continuando però, nel frattempo, a mettere in primo piano
il lavoro convenzionale. Faccio un esempio: potrebbe capitare che una giovane
studiosa molto qualificata faccia domanda per fare con me una ricerca di dottorato
sulla serie di romanzi per adolescenti Twilight, e per fare questo lavoro nel mio
dipartimento interdisciplinare di Media e comunicazione. Ma in realtà sarebbe
più probabile che vinca una borsa di studio presso un dipartimento di Lingua e
letteratura inglese dove ci sarebbe un supervisor molto meno qualificato, cioè
qualcuno magari esperto di Blake o Shelley ma che ha appena un’infarinatura
degli studi culturali, che li mastica come una sorta di interessante passatempo.
Quindi sì, le discipline canoniche sono in una posizione di forza in tutto. Mi sono
spesso riavvicinata alla Sociologia, ma poi l’ironia è che viene fatta solo in corsi
undergraduate, a meno che non si tratti della Criminologia, ma lì è tutta una
questione che ha a che fare coi genitori che vogliono che i loro figli scelgano

— 123 —
FEDERICA TIMETO

indirizzi che offrono una prospettiva chiara di carriera, specialmente quando


pagano le tasse. Vorrei tornare a Inglese, che era la mia materia di laurea all’U-
niversità di Glasgow tra il 1970 e il 1974, ma non penso che mi vogliano! Anche
se la Letteratura inglese e comparata, oggi, è intrisa di studi culturali, e così pure
i corsi di laurea in Lingue Moderne.

FT: La traiettoria delle sottoculture femminili che con Jenny Garber deli-
nei in Le ragazze e le subculture parte dalla messa in discussione delle ragioni
dell’assenza delle donne dagli studi sulle sottoculture di quegli anni, tranne se
inquadrate in termini di eccesso o devianza (perlopiù sessuale). Più oltre, notate
anche come l’assenza delle donne in molti studi sulle sottoculture, per esempio
quelli di Paul Willis (1977) e Dick Hebdige (1979), fosse molto legata al fatto che
gli autori stessi prendevano parte (in modo sottaciuto e poi rimosso) alle relazioni
patriarcali del periodo... La partecipazione delle donne nelle sottoculture è stata
un modo per migliorare, o superare, la loro «secondarietà strutturale», per usare
una tua espressione, o era semplicemente un modo per affrontare in modo meno
faticoso le aspettative sul loro ruolo?

AMR: L’idea della secondarietà strutturale non è mai stata veramente esau-
stiva. Rimanda a ciò che ho detto prima sul disagio di cercare di adattarsi alla
cornice stabilita dagli studiosi maschi. Non mi ha mai davvero soddisfatta. Per
rispondere pienamente alla domanda che poni, all’epoca sarebbe stata necessaria
una ricerca etnografica sul campo. Nessuno la stava facendo. Io stessa ero impe-
gnata principalmente a studiare le riviste per le ragazze e quindi prendevo parte
all’ethos del gruppo del CCCS riguardo agli studi già avviati sulle sottoculture.
Il lavoro sulle ragazze e le giovani donne era ancora agli inizi, qualcuna stava
provando a occuparsi di argomenti come «le ragazze della classe operaia e la
scuola», altre stavano organizzando progetti per giovani donne nei centri esistenti
della città, e scrivevano le loro riflessioni nel frattempo. Questo guardare alle
attività della vita quotidiana attingeva implicitamente al «paradigma culturalista».
Nei miei primi lavori pubblicati, parlavo della «cultura della camera da letto», per
indicare come le amicizie tra ragazze, all’epoca, fossero spesso connesse alla casa
piuttosto che alla strada (McRobbie 1978b): significava leggere le riviste insieme
o fare lunghe chiacchierate con la migliore amica nella privacy della propria
stanza. Il percorso alternativo era considerare la questione delle ragazze e delle
giovani donne all’interno di una discussione più astratta, guidata dalle teorie sulle
sottoculture. Quello di «secondarietà strutturale» è un concetto sorto piuttosto
da questo secondo percorso. Quanto agli anni Settanta, che periodo! Proprio su
questi dibattiti sono ritornata di recente nel corso di un evento sulle sottocultu-
re a Düsseldorf. Stranamente avevano omesso del tutto il lavoro del centro di
Birmingham dal programma originale che iniziava più o meno con un focus su

— 124 —
UNA CONVERSAZIONE CON ANGELA MCROBBIE

media e arti, sottocultura e queerness attraverso il pensiero di Jack Halberstam.


Sentivo di essere invitata come una specie di dinosauro, o in omaggio ai tempi
andati, ma alla fine li ho veramente portati a riflettere in termini storici. Nel mio
discorso (McRobbie 2021) ho richiamato l’attenzione sulla critica iniziale di Paul
Gilroy alla sottocultura dalla sua prospettiva politica, e poi ho ripreso la mia critica
a Hebdige, Clarke e specialmente a Paul Willis. Ho ricordato al pubblico come
le ragazze nella scena punk fossero state trascurate dagli accademici (ora invece
interessano molti più settori dell’attuale popolazione femminista).

FT: In diversi passaggi dei tuoi testi viene messa in primo piano la funzione
politica dell’insegnamento femminista. Parli dell’importanza che le docenti femmi-
niste hanno nella loro funzione di intermediarie; sottolinei anche la funzione della
parola (in classe, ma anche intervistando, scrivendo, traducendo) come arma di
lotta politica; questo mi ha fatto pensare a Insegnare a trasgredire (1994) di bell
hooks che, seguendo la pedagogia di Freire, parla del processo radicale del porre
domande per aprire spazi analitici di resistenza all’interno delle rappresentazioni
dominanti. hooks mette anche in guardia contro un femminismo egemonico che
è indirettamente responsabile di rendere le attiviste sospettose e di allargare il
divario tra teoria e pratica. Qual è la tua idea di femminismo egemonico?

AMR: Penso che una delle priorità in quel mio articolo per «Feminist Review»
pubblicato nel 1982 (ma scritto nel 1980) fosse presentare i diversi contesti della
pratica femminista, uno dei quali era l’educazione, e nella fattispecie l’università.
Accanto a questo e a volte, ma non sempre, convergente con questo, c’erano poi
tantissimi gruppi e organizzazioni attiviste, in tutto il mondo. Il mio punto è che
l’insegnamento universitario e la ricerca che si conduce ci danno la possibilità
di lavorare davvero per operare un cambiamento nelle istituzioni. Questo può
avvenire prospettando delle opportunità per le donne che vivono in condizioni
economicamente svantaggiate e provenienti dalla classe operaia affinché possano
beneficiare dell’istruzione superiore e migliorare così le loro possibilità di vita e di
impiego, e sviluppare ancora maggiore consapevolezza sulla condizione femmi-
nile nel patriarcato. In questo senso mi interessava seguire il percorso intrapreso
da Stuart Hall per portare la pedagogia in stretta relazione con la ricerca, in modo
che entrambe in qualche modo si arricchissero nel processo. In un’ottica ancora
più ampia, d’altra parte, che era anch’essa già di Stuart e che bell ha ulteriormente
portato avanti, in molti casi gli studenti di magistrale e dottorato finivano per di-
ventare amici per tutta la vita oltre che colleghi di facoltà dove prima erano stati
studenti. Questo è uno dei veri piaceri dell’accademia: è ciò che crea la cultura
dell’università e si trasforma in una catena di amicizie a livello globale.

— 125 —
FEDERICA TIMETO

FT: Tra le pensatrici femministe con cui sei più costantemente in dialogo
nei tuoi tesi c’è sicuramente Judith Butler. Perché il suo contributo è così centrale,
secondo te, per gli studi culturali, e per il tuo lavoro soprattutto?

AMR: Stuart diceva spesso che Gramsci lo ha aiutato a sviluppare tutta la


sua opera, non avrebbe potuto pensare senza di lui. Mi sento di poter dire la
stessa cosa rispetto al lavoro di Butler. Sicuramente ho intrapreso la ricerca ac-
cademica nell’ambito degli studi culturali prima che i suoi testi chiave facessero
la loro comparsa, prima nel 1990 (Questioni di genere) e poi nel 1993 (Corpi
che contano). Tutto ciò che lei ha fatto mi ha davvero aiutato a pensare (vedi
per esempio il mio libro di testo The Uses of Cultural Studies). Ci vorrebbe una
discussione molto più lunga per ripercorrere la sua influenza in dettaglio. Spesso
ho recensito i suoi libri in modo da garantirle un pubblico più ampio (anche se
ovviamente questo non è più necessario dato che adesso parla al mondo), ma
ricordo una bella recensione su «Feminist Review» (McRobbie 2003) e dopo quella
varie recensioni, per esempio di Frames of War su «The Higher» (McRobbie 2009)
e del libro di Butler sul sionismo (Butler 2012) su «openDemocracy» (McRobbie
2016). Insomma, nello stile degli studi culturali, ho provato ad ampliare e forse
semplificare il suo pensiero in un momento in cui molti critici la accusavano di
essere incomprensibile. Continuo a pensare che La vita psichica del potere (Butler
1997) sia magnifico per l’intreccio che crea tra Althusser e la psicoanalisi. Ne ho
attinto a piene mani nel capitolo sulla «rabbia illeggibile» delle giovani donne in
The Aftermath of Feminism, uscito nel 2008. Il concetto era di Butler, ma passava
dalle riflessioni di Bhabha sulla malinconia post-coloniale e l’interiorizzazione
della rabbia che si instaurano quando una ribellione è stata «repressa». Butler ri-
prende questo tema in molte delle sue opere sulla malinconia, soprattutto quando
la vita stessa, per coloro che sono costretti a rimanere sessualmente illeggibili
a causa delle norme culturali e politiche dominanti, diventa quasi invivibile. La
rabbia si collega sempre a una critica sociale che viene resa indicibile e si sublima
e interiorizza in una sorta di macigno malinconico. Pensiamo anche al suo con-
cetto di «melanconia eterosessuale» (Butler 1990). Negli anni Duemila, l’epoca di
cosiddetto post-femminismo, ho sostenuto che le giovani donne erano spinte ad
abbandonare qualsiasi politica femminista come fuori moda, non più necessaria,
appartenente al passato. Il femminismo era fatto apparire come ripugnante, e le
giovani donne che si identificavano con il femminismo rischiavano di essere viste
come altrettanto repellenti. Questo portava a una interiorizzazione della rabbia,
perché le donne conoscevano il femminismo e sapevano il senso che dava alle
loro vite, ma si sentivano culturalmente obbligate a rinunciarvi, a farne a meno,
per essere socialmente accettabili. Era evidente nella frase, ripetuta sempre con
un fremito di ripulsa intorno agli anni 2000-2008: «Non sono femminista». In realtà

— 126 —
UNA CONVERSAZIONE CON ANGELA MCROBBIE

era una cosa molto comune anche in Italia, quando ai tempi di Berlusconi i media
diffamavano il femminismo di continuo.

FT: Descrivi il postfemminismo come un processo paradossale caratteriz-


zato da una serie di doppi intrecci (double entanglements). Pensi che oggi questi
si siano allentati o siano diventati ancora più annodati e strutturati nell’attuale
«governamentalità dei media visuali», come tu la definisci?

AMR: Il fattore decisivo di cambiamento, da quando ho sviluppato l’analitica


del post-femminismo, direi negli ultimi dieci anni circa, è la presenza palpabile
e irreversibile di tanti nuovi femminismi – consideriamo che ho scritto il libro
sul post-femminismo come un resoconto congiunturale del periodo 2002-2007
(poi pubblicato nel 2008). Come estendere questa analisi al momento attuale è
ciò che ho provato a fare in Feminism and the Politics of Resilience (2020). Il
post-femminismo durante il regime Trump è stato favorito da donne di destra
come Kellyanne Conway, politica e sondaggista statunitense del team Trump, che
come tale si è descritta. In un senso ampio, penso che si possa associare questo
termine al processo di individualizzazione femminile del «femminismo neolibe-
rale». Guardando indietro al concetto, ora mi accorgo che era più ferocemente
anti-femminista di quanto persino io suggerissi all’epoca. La mia argomentazione
si riferiva a un «doppio intreccio» in questo senso: nel vocabolario dell’allora go-
verno dei New Labour, il femminismo era invocato e menzionato per il ruolo che
aveva svolto «nel passato», ma solo per potere essere ripudiato, messo da parte
come non più rilevante. Era diventato qualcosa di disgustoso e ripugnante (un
doppio movimento molto popolare anche nell’Italia di Berlusconi). Si diceva,
più o meno: «Le donne sono potenti ora, non hanno bisogno di quel vecchiume
femminista, possono avere successo grazie ai loro propri sforzi», e cose simili.
Ho sviluppato una serie di figurazioni per portare avanti questa mia analisi: la
«mascherata post-femminista», la «ragazza fallica», e poi la «ragazza globale» che
ha adottato senza soluzione di continuità i valori occidentali ed era quindi una
delizia soprattutto per la cultura del consumo che si faceva strada a livello globale,
inventando cose come la ragazza ideale della Nike, la nuova ragazza per la rivi-
sta «Elle» in Cina e così via. La governamentalità dei media visuali descrive come
l’effetto dilagante dei social media ha intensificato il disciplinamento delle donne
che, come ho sostenuto in The Aftermath, assumeva la forma delle «luminosità»
deleuziane (Deleuze 1986). Ora è diventato qualcosa di ancora più intensamente
auto-attivato e costantemente recriminatorio per via del predominio dei social
media e Instagram sul vecchio mondo della carta stampata, che in realtà era più
blando con le sue lettrici.

— 127 —
FEDERICA TIMETO

FT: Durante gli anni Novanta, gli studi culturali femministi sembravano
incapaci di affrontare quello che definisci come un «complicarsi della reazione»
(complexification of backlash) (McRobbie 2008); tu stessa hai sentito il bisogno
di rivedere alcune delle tue idee – forse troppo ottimiste – sulla costruzione della
femminilità nei media popolari, e hai citato la critica socialmente impegnata delle
femministe materialiste, queer e postcoloniali come una risposta più efficace
alla depoliticizzazione delle rivendicazioni femministe. Queste tensioni esistono
ancora? Come vanno le cose oggi, secondo te?

AMR: Quello che sostenevo in The Aftermath era l’emergere di una modalità
viziata ed estesa di reazione abbastanza diversa da quella che avevano analizzato
autrici come Susan Faludi, per esempio. È vero che avevo espresso una posizione
più fiduciosa riguardo l’investimento delle giovani donne nell’educazione e nella
loro presenza assertiva nella cultura popolare che non sempre sembrava in linea
con le posizioni femministe dell’epoca. Sono sempre stata più ottimista sulla
femminilità punk e le forme culturali che derivavano dalle attività post-punk, e
anche come studiosa della moda sono sempre stata propensa a difendere scelte
piuttosto selvagge e provocatorie che il mainstream femminista disapprovava.
Questa era l’essenza della mia precedente posizione, anche perché come sociologa
ritenevo dovessimo essere capaci di guardare e ascoltare. La mia linea di pensiero
si estendeva, allora, a comprendere le idee di sottocultura punk-queer espresse
da Jack Halberstam, e in quel periodo si avvicinava agli interessi che anche bell
hooks mostrava, nei suoi scritti, al lavoro artistico di persone come Chila Kumari
Burman, alla produzione musicale delle artiste rap. Vorrei puntualizzare due cose,
a tal proposito: prima di tutto, ero forse troppo ansiosa di trovare espressioni
di una consapevolezza proto-femminista fra le giovani donne che suggerissero
modi di creare la propria autonomia senza necessariamente allinearsi alla secon-
da ondata del femminismo. Questo mi ha messo in difficoltà perché alcun* non
hanno visto di buon occhio il mio atteggiamento favorevole rispetto ad attività
che non erano direttamente anticapitaliste o antipatriarcali. Non è che io abbia
fatto marcia indietro o abbia rinunciato a quella prospettiva, il punto è che questo
tipo di autonomia è stata rapidamente e facilmente cooptata e trasformata in un
«processo di individualizzazione femminile». In secondo luogo, sembrava che
all’inizio degli anni Duemila le studiose femministe più anziane della mia gene-
razione si fossero stancate o si fossero rivolte a nuovi campi di ricerca, sicché la
grande attenzione sociologica a ciò che facevano le donne comuni si era un po’
affievolita. Grazie al cielo c’erano anche studiose più giovani di me, eccezioni
come Beverly Skeggs, e poi dai primi anni Duemila autrici come Rosalind Gill
che proveniva dalla psicologia sociale, e negli Stati Uniti il lavoro di Sarah Banet-
Weiser ha riportato rinnovata attenzione su molte di queste tematiche.

— 128 —
UNA CONVERSAZIONE CON ANGELA MCROBBIE

FT: Il sistema della moda, che come accennavi è stato al centro di molti tuoi
studi, mette insieme la questione dello stile e quella del lavoro, che a uno sguardo
approfondito spesso si richiamano. Quale posto occupa nella nuova economia
creativa la moda del riciclo e del riuso che passa dai mercati di seconda mano,
di strada e anche online, come per esempio la piattaforma Vinted?

AMR: Stiamo assistendo a uno sconvolgimento enorme dell’industria della


moda mainstream, in ogni suo angolo, che era atteso da tempo. Sono davvero
colpita da* giovani attivist* che hanno smascherato lo sfruttamento su cui poggia-
no le filiere della moda, così come le condizioni di lavoro inique dietro ai grandi
marchi di lusso. Alla fine, il settore stesso ha compreso che bisogna cambiare
rotta. Ma c’è il pericolo che l’adozione del vintage e della moda di seconda mano
o dell’upcycling portino a una sorta di «second-hand washing», come l’ho definito
in un recente articolo (McRobbie 2023). Vale a dire che l’industria celebra le pro-
prie credenziali ecologiste sviluppando tutti i tipi di strategie del vintage, mentre
allo stesso tempo evita di affrontare indubitabili pratiche dannose in altri settori
della filiera. Inoltre, sembra quasi che i grandi marchi sperino che l’attivismo e
il nuovo ambientalismo siano solo un «fuoco di paglia». Il vintage finisce per di-
ventare parte del capitalismo finanziario, basta guardare la quotazione dei futures
dell’ecommerce Depop o, per la gamma alta, di Vestiaire Collective. Ho lavorato
proprio su questi argomenti negli ultimi due anni e durante il lockdown. Bisogna
dire che il vintage non è l’unica soluzione per l’industria della moda quando si
tratta di affrontarne le responsabilità sul piano ambientale. Per cominciare, molti
altri ambiti della moda quotidiana non fanno propria l’estetica di seconda mano,
per esempio l’abbigliamento aziendale, le uniformi per l’equipaggio delle linee
aeree, l’abbigliamento da ufficio, la maggior parte dell’abbigliamento maschile.

FT: L’invito a essere creativi ha molti lati oscuri, che tu, come Boltanski e
Chiapello (1999) tra gli altri, evidenzi molto chiaramente, per esempio l’indivi-
dualizzazione e la precarizzazione estreme. Questo invito andrebbe riformulato,
o sarebbe meglio resistervi?

AMR: Direi che dobbiamo distinguere tra l’importanza di un’analisi appro-


fondita dei dispositivi della cultura del lavoro contemporanea e il modo in cui
noi accademici ci confrontiamo con i professionisti e i creativi stessi. Può essere
paternalistico vederli come volontariamente auto-sfruttati o peggio spiegare loro
in che modo sono vittime, per così dire, delle politiche e delle strategie di pre-
carizzazione istituzionali. Il punto, semmai, per chi si occupa di scienze sociali,
è escogitare nuovi modi di lavorare in modo collaborativo con i professionisti
della creatività, e immaginare altre forme di organizzazione del lavoro in tempi
neoliberali. Non è una cosa così inverosimile, le università sono un buon posto

— 129 —
FEDERICA TIMETO

per questi dibattiti che si svolgono con la partecipazione di imprenditori creativi


indipendenti, freelance, o progettisti su piccola scala. L’Arts and Humanities Rese-
arch Council ha finanziato una serie di progetti che lavorano in questa direzione,
per esempio con stilisti indipendenti, come il progetto Fostering Sustainable
Practices2 che ha sede al London College of Fashion.

FT: Il concetto di resilienza appare già in Jackie (1978a) e ritorna, approfon-


dito, nel tuo ultimo libro. Il sistema dei femminismi popolari emergenti, affermi,
si compone di tre categorie interrelate: la perfetta, l’imperfetta e la resiliente (il
dispositivo p-i-r). Come funzionano questi intrecci? Che tipo di inclusioni/esclu-
sioni sono create da tale sistema, secondo quali linee?

AMR: Grazie per avermelo fatto notare! Questa domanda mi richiede di


riprendere una cornice teorica utile a comprendere la gestione dei nuovi femmi-
nismi nell’ambito della cultura popolare femminile in epoca neoliberale. Come
può il capitalismo (e la sua cultura del consumo) mantenere il suo dominio
sulle giovani donne nei paesi del mondo occidentale di fronte a questo nuovo
momento femminista, apparentemente irreversibile? I dispositivi terapeutici o il
self-monitoring sono stati a lungo le «tecnologia del sé» privilegiate, notoriamen-
te analizzate non solo da Michel Foucault ma anche da Nikolas Rose. Nel mio
ultimo libro sostengo che l’esercizio della resilienza funziona come una sorta
di compromesso compatibile con la cultura dei consumi, dove gli elementi del
femminismo possono essere assorbiti e conservati, persino nominati e celebrati,
ma a condizione che sia mantenuto un senso normativo del sé e dell’identità
corrispondente agli ideali dominanti di ciò che significa essere una adolescente o
una giovane donna. E questo diventa parte del problema. Per tornare al modello
p-i-r la perfetta corrisponde alle istanze del neoliberismo che immaginava (gros-
solanamente) fosse sufficiente inculcare l’individualismo competitivo e celebrare
il successo femminile. Il fatto che fosse pensato come un modello per le donne
di classe media e bianca è stato contestato da artiste del calibro di Lena Durham,
la cui serie Girls (HBO 2012-2017) insisteva invece sull’imperfetta, restando però
sempre all’interno di quei binari. La resiliente abita questo stesso paesaggio, ma
modificato per apparire socialmente più impegnato e meno esclusivo. In realtà
questi dispositivi, e i regimi di controllo che implicano, sono sempre pratiche di
delimitazione, modi per creare gerarchie, pratiche divisive, come direbbe Foucault,
cosicché una «società della diseguaglianza» possa essere riprodotta all’infinito. In
definitiva, l’idea di resilienza è utile come sostituto del femminismo nelle mani
degli editori delle riviste che temono di perdere le entrate pubblicitarie con
contenuti femministi troppo sbandierati, ma non vogliono nemmeno perdere

2
Cfr. https://www.sustainable-fashion.com/fostering-sustainable-practices.

— 130 —
UNA CONVERSAZIONE CON ANGELA MCROBBIE

lettrici che oggi richiedono più contenuti femministi, per esempio sulla politica
delle mestruazioni o simili.

FT: L’appello individualista alla resilienza e il relativo immaginario mediale


dell’anti-welfarismo possono essere considerati come un ulteriore tentativo di
contenere l’antagonismo e l’azione collettiva e privare il femminismo della sua
politica della rabbia?

AMR: Sì, è esattamente così, hai detto bene. Crea e sostiene anche una
società fatta di odio, antagonismo, vergogna e crudeltà, una società priva di
compassione. Possiamo dire che si tratta di un effetto della polarizzazione sociale
che i teorici della politica hanno discusso durante e dopo il regime di Trump:
si tratta di come procede «il grande spettacolo della destra in movimento», per
dirla con Stuart Hall; inesorabilmente sembra, a meno che la mobilitazione e la
resistenza non continuino a trovare modi sempre nuovi di contestare le pretese
del capitalismo neoliberale. L’anti-welfarismo ha avuto un profondo e insoppor-
tabile effetto su tutta la società britannica: per esempio nel mercato immobiliare
coloro che non si possono permettere di stipulare un mutuo sono alla mercé delle
peggiori condizioni abitative da decenni a questa parte nel campo degli affitti, e
se una casa è decente è spesso economicamente inaccessibile, per cui le giovani
coppie della classe media non possono permettersi di avere un bambino perché
sono costrette a stare in minuscoli appartamenti in affitto, e hanno bisogno di due
redditi a tempo pieno solo per coprire le spese. Il poverty-shaming delle donne
si concentra sulle loro «vite mal gestite», come sottolinea Wendy Brown (2005), e
attira l’attenzione sul loro aspetto fisico attraverso la governamentalità dei media
visuali, come se la loro condizione svantaggiata fosse colpa loro. L’attivismo per
l’alloggio equo è diventato un’importante forma di lotta di classe, ma dopo anni
di de-regolamentazione e soprattutto con i profitti che arrivano nelle tasche dei
costruttori e il valore complessivo del capitalismo finanziario, che include tantis-
simi investimenti speculativi in progetti di edilizia abitativa, è difficile veder pro-
filarsi uno spazio per un cambiamento e per un ritorno della politica dell’edilizia
sociale come necessaria alla società.

FT: Per concludere, volevo chiederti una cosa che riguarda tutte noi che
lavoriamo nel campo degli studi culturali e che ci tocca molto da vicino per ragioni
affettive. Nella celebre raccolta Cultural Studies curata da Grossberg, Nelson e
Treichler (1992) sia il tuo testo che quello di Hall aprono con un riferimento al
saggio di Lidia Curti incluso nella stessa antologia. La sua esortazione a leggere
controcorrente, il suo cercare contraddizioni fruttuose, dove nulla è binario né
lineare, sono stati cruciali per lo sviluppo e il radicamento degli studi culturali
femministi in Italia che, sebbene ancora marginalizzati in ambito accademico,

— 131 —
FEDERICA TIMETO

sono molto praticati fuori dall’ambito universitario tra le attiviste femministe e le


ricercatrici indipendenti. La sua recente scomparsa rappresenta un’enorme perdita
per tutt* noi, ma anche un invito a continuare sulla strada che lei ha pionieristi-
camente aperto. Qual è il tuo ricordo di Lidia?

AMR: Che bel ricordo della straordinaria presenza di Lidia e del suo contri-
buto. Sì, Lidia era una teorica che cercava aperture e contraddizioni, che investiva
negli interstizi, come avrebbe detto Stuart Hall. Ha sempre animato le discussioni
teoriche con intensità ed energia e le urgenze dell’attivismo. Si tratta di un percorso
difficile da perseguire in quanto porta all’emarginazione accademica, come dici,
non solo in Italia – succede anche nel Regno Unito –, dove gli studi culturali sono
visti come non abbastanza precisi nelle loro indagini empiriche, non aderendo
a quella modalità accademica che si fa forte della propria expertise ristretta a un
ambito limitato della conoscenza. Oppure, quando anche se ne riconosce l’inter-
disciplinarietà, ci sono un sacco di ragioni per svalutarne i modi di indagine. Per
finire con una nota positiva, però, a volte arriva qualcuno che con il suo lavoro fa
tutte queste cose con un tale coraggio, una tale ampiezza e una tale energia, che
ci si sente vendicate per tutti i tentativi non andati a buon fine. Penso ad esempio
a Wayward Lives, Beautiful Experiments di Saidiya Hartman (2019). Sono sicura
che Lidia amava questo tipo di scrittura. È così triste che non sia più con noi per
leggere quel testo in una tavola rotonda all’Orientale di Napoli.

Angela McRobbie
Department of Media, Communications and Cultural Studies
Goldsmiths University of London
New Cross
London SE14 6NW UK
a.mcrobbie@gold.ac.uk

Federica Timeto
Dipartimento di Filosofia e Beni Culturali
Università Ca’ Foscari
Malcanton Marcorà – Dorsoduro 3484/D, Calle Contarini
I-30123 Venezia
federica.timeto@unive.it
https://orcid.org/0000-0003-2492-733X

— 132 —
UNA CONVERSAZIONE CON ANGELA MCROBBIE

Riferimenti bibliografici
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