You are on page 1of 9

Dario Fabbri,

l’incompreso
Un’analisi del pensiero del mattatore geopolitico,
tra psicologia collettiva e spirito delle nazioni.

Alessandro Lolli è nato a Roma nel 1989. Suoi scritti sono apparsi su Not,
Prismo, Pixarthinking, VICE, L’Indiscreto e altri. È autore del saggio "La
guerra dei meme" (Effequ, 2017).

Share   Share

C’
è una cosa che si dice di certi autori famosi:
“tanto letto quanto poco capito”. A dirla sono
di solito cultori dell’autore medesimo che
vogliono spingere la loro personale
interpretazione, alle volte con buone ragioni:
pensiamo a quegli autori molto controversi
come Nietzsche, o a quelli particolarmente
oscuri come Deleuze. Si sostiene, in merito a questi autori, che ci sia una verità in bella
vista che non viene capita o addirittura processata dai lettori. Ecco, non trovo nessuno cui
questo detto si addica di più che a Dario Fabbri, lo studioso e divulgatore di geopolitica
passato, poco prima della guerra, dalla redazione di Limes agli studi di La7 e al successo
nazionalpopolare. Esiste tutta una serie di cose che Dario Fabbri dice, e dice esplicitamente
e ripetutamente, che sembrano non essere neppure recepite – altro che fraintese! –
dall’ampio seguito che ha costruito negli ultimi anni. Queste cose sono per sua stessa
ammissione il fondamento filosofico che giustifica tutte le sue riflessioni, il fondamento
filosofico di ciò che chiama “geopolitica”.

Partiamo dall’inizio, chi è Dario Fabbri? Si dice che nasca in Italia nel 1980 ma non è nota
né la data né la località. Si sa che ha vissuto negli USA ed è bilingue. Ampie zone della sua
vita sono protette da una spessa coltre di riservatezza. Sappiamo che è laureato in scienze
politiche e che è diventato giornalista nel 2013. Da allora ha collaborato con numerose
testate e organizzazioni come analista geopolitico, tra le quali possiamo citare Gnosis,
rivista italiana di intelligence, il think tank Macrogeo e soprattutto Limes, il più noto
periodico di geopolitica in Italia, dove ha costruito la sua prima fama. Dalla fine degli anni
dieci, Fabbri inizia a comparire come ospite in varie trasmissioni televisive, mostrando già
delle caratteristiche comunicative peculiari che faranno la sua fortuna negli anni seguenti.
Con la pandemia, si intensificano i suoi collegamenti da casa in vari studi televisivi ma è
proprio Limes a lanciare definitivamente il Fabbri-personaggio, destinato a esploderle tra
le mani di lì a poco. Nell’autunno del 2021 Limes sbarca su Youtube e il direttore Lucio
Caracciolo mette subito in chiaro chi è il capocannoniere della squadra: non lui, ma
proprio Fabbri. Limes si propone infatti con due format: uno con Dario Fabbri, uno con
tutti gli altri. Ogni settimana esce “L’approfondimento del giovedì di Dario Fabbri” e poi
una tavola rotonda con tutti gli altri, a rotazione. Il direttore sembra vedere in Fabbri
qualcosa di speciale, di eccezionale. E in effetti tale quid è ben evidente a chiunque lo
segua: Dario Fabbri è un mattatore.

Cos’è la geopolitica per Dario Fabbri? Lui


stesso ci avverte che questo termine viene
utilizzato in modo molto ampio e, a suo dire,
improprio.

Oltre le cose interessanti che dice, c’è come le dice. È assertivo ma caldo, divulgativo senza
mancare di precisione e chiarezza, nei confronti degli interlocutori è diplomatico pur non
arretrando di un millimetro – ma soprattutto Dario Fabbri fa ridere, fa tanto ridere. Lo fa
usando quello che gli inglesi chiamano dry o deadpan humour: serve le battute con
espressione impassibile, senza alterazioni di tono. Tra i più seri dei discorsi, Fabbri
inserisce queste fucilate caustiche perfettamente integrate nella tessitura vocale
dell’eloquio: “Come quando c’era il Recovery Fund che in Italia si chiama Recovery Found
perché evidentemente l’idea che calasse dal cielo e quindi diventasse un participio passato,
‘trovato’, ‘found’, era funzionale”. Ecco, l’ho scritto e non fa ridere, ma è uno dei suoi
cavalli di battaglia che ha ripetuto centinaia di volte nell’ultimo anno, ogni volta piazzato a
tradimento dentro un’argomentazione stratificata.

La popolarità del Fabbri-personaggio cresce nei mesi fino all’irreparabile: nel Gennaio
2022, con un tweet, Fabbri annuncia che “Dopo 9 anni si conclude la mia esperienza
a Limes. Le mie analisi non appariranno più nei vari canali della rivista. È il momento di
nuovi progetti. Restate sintonizzati. Grazie per l’attenzione”. Fabbri si è presentato al suo
appuntamento con la Storia con una puntualità quasi inquietante: il mese seguente la
Russia invade l’Ucraina. “I nuovi progetti” cui alludeva prendono forma dal corso degli
eventi e l’analista geopolitico del momento viene convocato d’urgenza in tv per partecipare
a un’impresa di cui non si vede la fine. A chiamarlo è un giornalista che non ci trova nulla
di strano nel farsi 48 ore di diretta a ogni tornata elettorale e che quindi ha pensato bene
che la terza guerra mondiale richiedesse uno sforzo ulteriore. Per oltre tre mesi, ogni
giorno, Enrico Mentana e Dario Fabbri si presentano agli Italiani alle cinque di pomeriggio
per lasciarli verso ora di cena. Un duo dinamico che trae forza dalle reciproche differenze:
da un lato l’eloquio marziale di Fabbri, il fascino dell’uomo tutto d’un pezzo con lo sguardo
fisso all’orizzonte, dall’altro il parossistico carisma del “Direttore” fatto di balbettii,
incertezze, discorsi a braccio che si perdono e si ritrovano, espressione della certezza
assoluta del ruolo che ricopre e che neanche questa ostentata superficialità può mettere in
discussione. L’alchimia funziona e i due si fanno oltre cento giorni di luna di miele
televisiva, imponendo definitivamente il volto di Fabbri alla coscienza degli italiani.

In questo periodo Fabbri lancia due nuovi progetti, prima l’inserto settimanale Scenari con
il quotidiano Domani e poi Domino, un mensile di geopolitica diretto da lui e edito dallo
stesso Mentana. Nel corso del 2022, specialmente una volta liberatosi dell’impresa dei 100
giorni su LA7, Dario Fabbri ha attraversato l’Italia con una intensa attività di
conferenziere. Queste conferenze sono particolarmente interessanti proprio perché di
ampio respiro, in senso tematico e in senso temporale: Dario Fabbri parla tanto e parla di
quello che vuole lui. E quando Dario Fabbri parla di quello che vuole lui, parla della
filosofia della geopolitica. Quello che ci interessa in questa sede, infatti, non sono le
opinioni “contingenti” di Fabbri, come chi vincerà la guerra russo-ucraina, quali sono gli
interessi della Germania, cosa dovrebbe fare l’Italia, gli obiettivi di medio termine degli
Stati Uniti e così via; tutti argomenti che Fabbri tratta sempre e lo fa con dovizia e
chiarezza. Ci interessa perché Fabbri pensa queste cose, il fondamento filosofico della sua
lettura della realtà, un fondamento che non dobbiamo dedurre noi, ma che lui stesso ama
snocciolare non appena ne ha la possibilità.

In un paio di queste conferenze (qui e qui) il tema è esplicitamente la prospettiva sul


mondo della filosofia geopolitica. Preme ricordare che, tuttavia, le affermazioni che per ora
definiremo “singolari” che troviamo in queste conferenze, Dario Fabbri non le ha mai
lesinate in ogni suo intervento, dalle prime apparizioni in tv della fine degli anni dieci,
passando per l’angolo del giovedì di Limes, fino ai lunghi pomeriggi di guerra da Mentana.
Solo che in questi interventi vi troviamo una trattazione organica che merita di essere
esposta e discussa. Riprendiamo la domanda iniziale, da dove parte Fabbri: che cos’è la
geopolitica? O meglio: cos’è la geopolitica per Dario Fabbri? Lui stesso ci avverte che
questo termine, soprattutto oggi che va di moda, viene utilizzato in modo molto ampio e, a
suo dire, improprio. Nel linguaggio comune, la geopolitica è un’attitudine un po’ cinica e
cattivella alle relazioni internazionali. Si premette che si fa un “discorso geopolitico” per
mettere da parte la morale, o i moralismi, e analizzare con presunta asetticità i
comportamenti delle grandi potenze in genere in conflitto. Nelle parole di Fabbri: “la
geopolitica in tv: carri armati, confini, un’invasione anziché un’altra, molta tattica
scambiata per strategia, molti discorsi riguardanti questo o quell’obiettivo”.

I popoli per Fabbri sono letteralmente come


degli individui ed è molto irritato dal senso
comune che li vede come una cosa più
complessa e stratificata.

C’è da dire che di questi discorsi ne fa anche Fabbri. Esiste un aspetto pratico e contingente
delle sue analisi, orientato verso i comportamenti delle potenze qui ed ora. Ma la filosofia
che la informa, dice Fabbri e noi concordiamo, è un’altra cosa. La geopolitica propriamente
detta, cui si richiama, nasce alla fine dell’Ottocento in Germania ed è una teoria molto
precisa su cosa siano le nazioni, cosa siano le comunità umane e infine cosa sia l’uomo
stesso. Una vera e propria filosofia – sistematica nelle ambizioni – che pretende di
spiegare molto più delle relazioni tra Stati, vuole definire cos’è la società umana in quanto
tale. Va al di là delle mie competenze e dello scopo di questo articolo verificare se quanto
dice Fabbri coincida o meno con le prime teorizzazioni di Rudolf Kjellén e Karl Haushofer;
atteniamoci quindi alla sua definizione e discutiamo questa.

Sostiene Fabbri che la geopolitica è “quella disciplina che studia l’interazione fra
aggregazioni umani in uno spazio geografico specifico”. Questa definizione minima sembra
molto vaga e un po’ oscura, ma procedendo nel discorso si scopre che alla base della
disciplina geopolitica ci sono molti più assunti, molti dei quali abbastanza
singolari. Intanto si postula – o si osserva – che l’interazione tra comunità umane è sempre
conflittuale. Ammettendo e non concedendo questa ipotesi, ciò che è davvero interessante
è il motivo per cui lo è. Perché si fanno le guerre?, si chiede retoricamente Fabbri. “Per lo
stesso motivo per cui quando si gioca a calcetto ci si picchia a margine della partita”. È una
battuta ma non è una battuta. La geopolitica di Fabbri sostiene una perfetta coincidenza
tra comportamento delle nazioni e comportamento dei singoli, tra psicologia sociale e
psicologia individuale, tra uno e molti. Se anche la geopolitica si limitasse a sostenere
questo, sarebbe già una disciplina straordinaria, straordinaria in senso letterale giacché
nessuna scienza umana oggi si azzarda a porre un’analogia simile. Fabbri la argomenta
così: “Le nazioni sono composte soltanto ed esclusivamente da esseri umani, non c’è
nient’altro dentro”. I popoli per Fabbri sono letteralmente come degli individui ed è molto
irritato dal senso comune che li vede come una cosa più complessa e
stratificata. “Pretendiamo dalle nazioni qualcosa che da un singolo essere umano non
pretenderemmo mai: le pretendiamo perfettamente razionali, ricche, senza debiti,
seducenti, colte, pacifiche, inclini al negoziato. Tutto ciò che noi non siamo mai nella vita”.

Ribadisco: se avete anche solo sfiorato le scienze umane nella nostra vita, vi renderete
conto che siamo di fronte a una teoria fuori dal comune. Esplicitiamola: non solo
psicologia individuale e psicologia collettiva sono perfettamente sovrapponibili, ma la
psicologia collettiva è il movente primo del comportamento politico di istituzioni enormi
come le nazioni. Questi soggetti, le collettività di cui si occupa la geopolitica che sono
sempre organizzate e dotate di un’identità (“popoli, nazioni, imperi, chiamateli come
volete”) sono anche intelligibili nella loro psicologia. Infatti un altro modo indicato da
Fabbri stesso per sintetizzare cosa fa la geopolitica è: psicologia dei popoli. Se questa
locuzione vi evoca l’ideologia alla base dell’innominabile novecentesco: non vi preoccupate,
siete sani. Lo sa anche Fabbri che lamenta il declino della geopolitica dopo la Seconda
Guerra Mondiale, per delle ragioni che promette sempre di approfondire ma non gli ho mai
visto fare.

Fabbri è anche convinto che la psicologia dei popoli sia il vero fine nobile dell’etnografia
che sostiene sia praticamente scomparsa o corrotta: “Oggi l’etnografo va a vedere come
intrecciano il caucciù nella foresta amazzonica, una volta si occupava della psicologia
collettiva dei popoli”. Ora, a me è capitato di studiare antropologia all’università e mi pare
di ricordare che l’etnografia sia nata proprio studiando “come intrecciano il caucciù nella
foresta amazzonica” ovverosia studiando le società allora dette primitive o selvagge. E lo
faceva con un intento opposto alla psicologia dei popoli, un intento universalistico che
vedeva in queste comunità una sorta di fotografia della preistoria di tutto il genere umano:
studiare gli altri per scoprire noi stessi. Ironia della sorte vuole che nella seconda metà del
Novecento questo presupposto alla base dell’antropologia sia stato anch’esso accusato di
razzismo, più precisamente di etnocentrismo. Questo non ha tuttavia fatto tornare in voga
la Völkerpsychologie, ma andiamo avanti. 

Dicevamo quindi che la psicologia dei popoli non solo esiste ma è anche intellegibile, ed è
intellegibile da Fabbri stesso. I suoi interventi sono costellati di definizioni lapidarie della
mentalità di questo o quel popolo. Ultimamente, per ragioni ovvie, parla spesso dei Russi
che a suo dire sarebbero caratterizzati da due tratti: una grande insicurezza e una
sovradimensionata idea di sé stessi. La grande insicurezza, dice Fabbri – e qui finalmente
scopriamo il senso del suffisso “geo” –, deriva dall’abitare sulla più grande pianura del
mondo, il bassopiano sarmatico. Senza confini naturali, i Russi hanno sempre vissuto nel
terrore delle invasioni e sono, in effetti, stati invasi spesso. Sulla sovradimensionata idea di
sé stessi, invece, non abbiamo particolari eziologie geografiche ma sembra un tratto che
Fabbri attribuisce un po’ a tutti i popoli che sono o sono stati grandi potenze. Infatti, di
questi ritratti psicologici lapidari, Fabbri ne produce a rotta di collo, per ogni popolo del
pianeta. Degli Iraniani, per esempio, scopriamo innanzitutto che sono Persiani e lo sono
sempre stati. Poi questo profondo spirito persiano trasmette anche a loro una
sovradimensionata idea di sé che li pone ancestralmente in conflitto con l’egemone
occidentale di ogni periodo storico:  “Perché la Persia è sempre stata antagonistica della
massima espressione imperiale d’occidente. Per informazioni, citofonare a Greci e
Romani”. Qui spiegava le ragioni della rivoluzione iraniana del 1979 che a quanto pare
risalgono a un’attitudine mentale serbata dalla battaglia delle Termopili in su.

La geopolitica di Fabbri è in polemica


continua con almeno tre visioni del mondo e
della storia: il leaderismo, l’economicismo e
il marxismo.

Bisogna appunto sottolinearlo: questi ritratti psicologici non sono facezie, non sono easter
egg, curiosità che ci dona a margine dei discorsi seri, da prendere un po’ come vengono.
Fabbri è convinto che siano le ragioni profonde e reali dei conflitti attuali e passati. La
geopolitica di Fabbri è infatti in polemica continua con almeno tre visioni del mondo e
della storia: il leaderismo, l’economicismo e il marxismo. Il leaderismo è l’impostazione
egemone nella didattica della storia per cui i grandi leader, da Giulio Cesare a Putin,
passando per Napoleone e Hitler, sono gli unici agenti storici reali e lo studio della storia è
in effetti una cascata di nomi di sovrani che fanno questo e quello. Una critica molto
condivisibile che non è tuttavia appannaggio esclusivo della geopolitica, è infatti la base
della storia sociale di impostazione marxiana o meno. Ma questo è l’unico punto di
contatto tra prospettiva marxiana e la geopolitica, che sono ai ferri corti su tutto il
resto. Intanto il marxismo viene criticato per l’economicismo, sebbene non ne sia il solo
alfiere. L’economicismo per Fabbri è credere che le motivazioni economiche siano ciò che
guida le nazioni, soprattutto in casi di conflitto “fanno la guerra per il petrolio, o per le
terre rare”. Sostiene che siano sciocchezze e che le grandi potenze facciano la guerra per un
solo scopo: per la gloria, per finire nei libri di storia.

C’è poi la critica diretta al marxismo che sta a difesa del cuore della dottrina geopolitica
perché il marxismo postula qualcosa che la psicologia dei popoli non può accettare:
l’esistenza delle classi. La classi dilaniano la comunità nazionale al suo interno e
addirittura ambiscono ad affratellare internazionalmente gli appartenenti alla stessa
classe, sia essa la borghesia o il proletariato. Dario Fabbri ha problemi con questa realtà;
da un lato non può disconoscerne totalmente l’esistenza (in un recente numero
di Domino divide la società russa in 4 classi: abitanti delle metropoli, abitanti delle città di
medie dimensioni, la Russia rurale profonda e la Russia delle minoranze etniche),
dall’altro le ritiene irrilevanti perché l’identità nazionale sopravviene e annulla sempre
quella di classe. Non solo oggi, ma da sempre. È per esempio convinto che la Rivoluzione
d’Ottobre sia scoppiata per riscattare la gloria dall’impero russo dalla disfatta nella guerra
russo-giapponese del 1905 e “Non la lotta di classe in quanto tale che è una boiata, per
dirlo in francese, perché non esiste una comunità che si batte per ragioni di classe perché
dentro ne ha tante e non le annulli”. Ai Russi serviva una nuova missione che desse
benzina alla loro ambizione imperiale e l’hanno trovata nell’universalismo marxista, usato
però in modo meramente strumentale.

Le divisioni interne della società tornano a fargli problema quando deve per esempio
rendere conto della rivolta delle donne in Iran. Ogni volta che ne parla, dopo aver
premesso che sono lotte giustissime, che le donne hanno ragione eccetera eccetera, afferma
con l’aria di chi sta facendo un gol a porta vuota: “Si sente dire è colpa del regime. Ma il
regime iraniano è composto da iraniani. Queste donne che scendono in piazza dovrebbero
manifestare contro i loro mariti, parenti eccetera che esprimono il regime che non si è
calato da Marte ma è comunque espressione della società iraniana”. Ma questo è piuttosto
un autogol verso la sua stessa dottrina, non solo perché tutti i movimenti delle donne
hanno sempre saputo di dover combattere contro i maschi delle loro famiglie ma
soprattutto perché sta a Fabbri doverci spiegare da dove sono state calate queste donne. Da
Venere forse? Non sono anche loro iraniane e pertanto espressione dello spirito ancestrale
persiano fatto così e cosà? Insomma, l’identitarismo etnico della geopolitica sembra offrire
il fianco a obiezioni interne ed esterne, ma resta comunque da scoprire come Fabbri venga
a conoscenza dell’indole di ogni popolo della terra. Quando se lo domanda da solo, si
risponde così: “Come fai tu a determinare qual è la psicologia collettiva? Beh facendoti un
giro per strada per esempio. Mediamente già basta”.

A prendere sul serio questo uscita arriveremmo alla conclusione che non solo la geopolitica
ha certezze più granitiche della maggior parte delle discipline umanistiche, ma che la
metodologia con cui ha accumulato il suo corpus di conoscenze è questa forma selvaggia di
inchiesta sociologica: fermare la gente per strada. A essere generosi con Fabbri e con la sua
disciplina, invece, rintracciamo almeno altri due metodi utilizzati per portare alla luce la
psicologia profonda dei popoli. Il primo è quello che Fabbri chiama lo studio della
“pedagogia nazionale”, ovvero il punto di vista espresso dai libri di storia della scuola
primaria e secondaria che riflette l’idea – semplificata e pertanto incisiva nelle menti dei
giovani – che una nazione ha della sua storia e di sé stessa. Il secondo, più caratterizzante,
è l’analisi dello spazio geografico abitato da un dato popolo, e da qui il prefisso geo- di
questo particolare approccio politico-antropologico. Abbiamo visto già che l’indole russa
viene dedotta proprio a partire dal bassopiano sarmatico che li renderebbe
contemporaneamente paranoici e esaltati. Ora, un metodo del genere pone delle
problematicità evidenti: territori grandi quanto le nazioni sono caratterizzate da un’unica
geografia? Come fa a derivarne una sola identità? L’Italia ha: mari, montagne, pianure,
isole, climi freddi, climi caldi, metropoli, città di medie dimensioni, piccoli centri, paesi e
così via. Quale sarebbe il territorio che influisce sulla psiche degli italiani? Eppure Fabbri
ama ripetere che, al contrario di quanto gli Italiani pensino di se stessi, siamo
assolutamente un popolo unito. Perché? Perché siamo tutti cattolici, risponde, ed ecco
spuntare un nuovo criterio che nulla ha a che fare con la geografia. Insomma, il sistema di
pensiero che propone Dario Fabbri è tanto originale quanto per lo meno aperto a obiezioni.
Ma il punto non è qui. Il punto è che tali obiezioni non sono mai state poste. Mai. Per
meglio dire, ciò che strabilia del personaggio Dario Fabbri è la sua ricezione. Questo
edificio teorico così assertivo e così in conflitto sia col senso comune che con l’accademia
viene accolto senza batter ciglio. Anzi, si direbbe che non viene neppure udito.

Questo edificio teorico così assertivo e così


in conflitto sia col senso comune che con
l’accademia viene accolto senza batter
ciglio.

Alcuni esempi. Aprile 2019, Omnibus, La7 “Ricordiamoci che esiste anche una parte
sentimentale – che noi italiani facciamo fatica a comprendere – tra Stati Uniti e Francia. È
rarissimo che gli Stati Uniti vadano contro la Francia in generale, che considerano l’unico
paese che ha pari dignità alla loro a livello intellettuale, forse hanno anche un complesso di
inferiorità nei loro confronti”. Un anno dopo, sempre a Omnibus “La Francia si immagina
alla testa di un Impero latino che utilizza come piattaforma per poi trattare con i
tedeschi”. Ancora a Omnibus una settimana dopo “Sono un paese [gli USA] che è abituato
a questo tipo di ingiustizie, che le pretende, perché è convinto che in quelle ingiustizie ci
sia la sua anima. È un paese belligerante che fa guerra da sempre. Teme che se avesse un
modello di assistenza sanitaria scandinavo perderebbe quell’elemento di belligeranza, di
ingiustizia e di crudeltà profonda che lo caratterizza”. Ancora avanti di un anno,
commentando Euro2020 sostiene che “Boris Johnson è tremendamente inglese, per usare
un’espressione scozzese”. O più di recente qui, quando nel pieno della guerra ci ricorda che
non possiamo capire i Russi perché siamo Italiani, e che loro hanno una idea “velleitaria di
sé stessi”.

Nessuno gli chiede come faccia a conoscere l’anima latina della Francia o quella brutale
degli Stati Uniti, lo speciale rapporto sentimentale che intercorre tra di loro o cosa voglia
dire essere Inglese relativo a Boris Johnson. E ho evitato tutte le occasioni in cui “giocava
in casa”, cioè sul canale di Limes, dove approfondisce i dettagli spirituali e ontologici di
ogni popolazione del pianeta. Qui potete sentire dei Giapponesi, figli della divinità e
autoreferenziali, qui i Francesi con un’idea di sé molto più elevata di quella degli Italiani e
con in testa il già menzionato Impero latino e qui la centralità delle “tribù” etnicamente
troppo diverse che formano la Germania e della schizofrenia che li contagia per via della
posizione che occupano in Europa.

A concorrere alla singolarità di questo ascolto selettivo ci sono, a mio giudizio, due aspetti:
uno individuale e uno generalizzabile. Di quello individuale abbiamo già detto: Dario
Fabbri è un mattatore nato. L’assertività calma di Fabbri sprigiona una sicurezza tale che
ciò che dice non arriva come una serie di opinioni ma come una valanga di dati di
fatto. L’aspetto generale lo cogliamo invece nelle parole di chi lo introduce e lo qualifica,
una qualifica che è stata centrale negli ultimi due anni di vita del nostro paese, sebbene
applicata a un’altra disciplina: “Ascoltiamo l’esperto Dario Fabbri”. Dario Fabbri è un
esperto. Di cosa? Di geopolitica. Cos’è la geopolitica? Eeeh, sarebbe lungo da spiegare… Ma
è più o meno come va il mondo all’altezza delle grandi potenze. Fine. Le parole dell’esperto
si ascoltano, si ponderano, si soppesano ma raramente si giudicano e ancora meno si
contestano. L’esperto acquista l’obiettività delle scienze dure, anche quando non sono il
campo in questione. Sia detto per inciso che, ogni volta che ne ha modo, Fabbri specifica
che la geopolitica è disciplina umanistica e non scienza, ma gli effetti di questa percezione
non sono sotto il suo controllo. Al contrario di politici, giornalisti e opinionisti, l’esperto è
lì per spiegare le cose, non per difendere una posizione.

Le parole dell’esperto si ascoltano, si


ponderano, si soppesano ma raramente si
giudicano e ancora meno si contestano.

Ora, l’esperto non è onnipotente e può vedere messo in dubbio il suo status. Succede
quando la sua opinione si rivela come tale perché troppo in contrasto con la linea politica
tenuta in un dato contesto. Ne abbiamo visti di esperti del genere, degradati in diretta
durante la pandemia e qualcuno anche sul tema guerra, un esempio su tutti: Alessandro
Orsini. Orsini si avvale dello stesso status di Fabbri ma con esiti non paragonabili:
partendo anch’egli da una disciplina che vorrebbe scolpita nella pietra (“la sociologia
comprendente di Weber”…), giunge però a delle conclusioni che sono incompatibili con la
linea che ha assunto il suo paese e che ritrova in molti studi televisivi. La posizione di
Fabbri, invece, è allineata ma ancora una volta in modo molto singolare. Se da un lato
abbiamo chi spinge per i negoziati in vista dell’interesse nazionale (carovita,
coinvolgimento nel conflitto, timore dell’escalation nucleare etc) e dall’altro chi sostiene
l’Ucraina in difesa di diritti universali, astratti e inviolabili; Fabbri riesce a compiere un
chiasmo: sostiene l’Ucraina per l’interesse nazionale italiano che, al di là del breve termine,
si troverebbe più in pericolo con una Russia aggressiva e vincente. Per chi scrive, entrambi
esprimono solo la loro – legittima – visione delle cose ed è anche triste vedere le discipline
umanistiche tirate per la giacca come fossero ricette che prescrivono questa o quella
lettura, quando sono solo il precipitato di un dibattito in corso da millenni. E sarebbe bello
che le teorie che informano questo dibattito venissero illuminate di tanto in tanto, siano
esse la sociologia del terrorismo di ascendenza weberiana di Orsini o l’elusiva dottrina
geopolitica di Fabbri che abbiamo provato ad affrescare in questo articolo.

La fonte dei loro saperi non è occulta o inaccessibile, e il caso di Fabbri lo mostra in modo
esemplare: ne parla lui, ogni volta che può. Allora forse che questa misteriosa ritrosia ad
ascoltare non sia proprio una nostra reazione psicologica che tutela la sua figura di
esperto? Fabbri – come tutti gli altri esperti – svolge il suo ruolo solo e soltanto se rimane
esoterico, perlomeno limitatamente ai principi primi da cui muovono le sue analisi. La
società è parte attiva nel processo che rende l’esperto tale proprio perché si rifiuta di
scoprire cosa c’è sotto questo status. È un prestigio e, come nell’omonimo film di Nolan,
viene fuori che: “Ora state cercando il segreto ma non lo troverete, perché in realtà non
state davvero guardando. Voi non volete saperlo. Voi volete essere ingannati”.

You might also like