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Caroline Criado Perez

Invisibili
Come il nostro mondo ignora le donne in ogni campo Dati alla mano.

Traduzione di Carla Palmieri


La rappresentazione del mondo come tale è opera dell’uomo; egli
lo descrive dal suo punto di vista, che confonde con la verità
assoluta.

SIMONE DE BEAUVOIR 1.
Prefazione

La storia dell’umanità, cosí come ci è tramandata, è un enorme


vuoto di dati. A cominciare dalla teoria dell’Uomo cacciatore, gli
studiosi del passato hanno lasciato poco spazio al ruolo delle donne
nell’evoluzione culturale o biologica. Al contrario: si è deciso che le
vite degli uomini dovessero rappresentare il percorso di tutto il
genere umano. E cosí non sappiamo nulla di come vivesse l’altra
metà: sulle donne, spesso, non vi è altro che silenzio.
Ed è un silenzio onnipresente, che pervade tutta la nostra cultura.
Cinema, giornalismo, letteratura, scienza, urbanistica, economia: le
storie che ci raccontiamo riguardo al nostro passato, al presente e al
futuro sono tutte contrassegnate – deturpate – da una «presenza-
assenza» che ha la sagoma di un corpo femminile. È il gender data
gap: la mancanza di dati di genere.
Ma il problema non finisce qui. Quei silenzi, quei vuoti, hanno
effetti che si ripercuotono sulla vita quotidiana delle donne in modi
che a volte potrebbero sembrare marginali: ci sono donne che
tremano dentro uffici la cui temperatura è regolata in base alle
esigenze maschili, altre che devono fare acrobazie per raggiungere
un ripiano comodissimo per un uomo di statura media, ma troppo
alto per loro. Sono cose antipatiche, di sicuro anche ingiuste, ma
almeno non si rischia la pelle. Non è come avere un incidente su
un’auto con dispositivi di sicurezza che non tengono conto delle
misure femminili. Non è come avere un attacco di cuore che non
viene diagnosticato perché i sintomi sono considerati «atipici». In
situazioni come queste, vivere in un mondo costruito a misura di
maschio può costare la vita.
È importante chiarire sin d’ora che l’assenza di dati di genere non
è sempre malevola, e neppure premeditata. Spesso è solo la
conseguenza di un modo di pensare che esiste da millenni e che, in
un certo senso, è un modo di non pensare. Una duplice inerzia del
pensiero, se vogliamo: gli uomini si dànno per scontati, e delle
donne non si parla neanche. Perché quando diciamo «umanità»,
tutto sommato, intendiamo l’insieme degli individui di sesso
maschile.
Non è un’idea nuova. L’aveva già esposta Simone de Beauvoir
nel 1949, in un suo famoso passo: «L’umanità è maschile e l’uomo
definisce la donna non in quanto tale ma in relazione a se stesso;
non è considerata un essere autonomo. […] Egli è il Soggetto,
l’Assoluto: lei è l’Altro 2». La novità è che oggi le donne continuano a
essere «l’Altro» nel contesto di un mondo che si affida sempre piú ai
dati e ne è sempre piú schiavo. Tutti abbiamo sentito parlare dei
famosi Big Data, l’enorme patrimonio di informazioni continuamente
setacciate dai Grandi Algoritmi alla ricerca di Grandi Verità. Ma se i
Big Data sono contaminati da silenzi altrettanto grandi, le verità che
se ne possono ricavare saranno, nel migliore dei casi, mezze verità.
A volte nemmeno quelle, se si tratta di donne. Del resto lo dicono
anche gli informatici: Garbage in, garbage out. Ovvero, se i dati che
fornisci al computer sono privi di valore, anche i risultati lo saranno.
Nel mondo contemporaneo, dunque, la necessità di colmare il
vuoto dei dati di genere diventa ancor piú urgente. Al giorno d’oggi
l’intelligenza artificiale aiuta i medici a formulare le diagnosi, esamina
i curriculum e talvolta intervista i candidati per un posto di lavoro: il
problema è che i dati di cui dispone sono molto lacunosi. E poiché gli
algoritmi sono spesso protetti in quanto software proprietario,
nessuno può sapere se l’incompletezza dei dati è stata in qualche
modo tenuta in considerazione. A giudicare dalle prove che abbiamo
sotto gli occhi, non sembra affatto cosí.
Numeri, tecnologie, algoritmi sono elementi cruciali delle realtà
che racconteremo in questo libro, ma sono solo metà della storia. La
parola «dati» non è che un sinonimo di «informazioni», e le
informazioni, si sa, provengono da molte fonti. Le statistiche, certo,
ma anche l’esperienza umana. Per questo io sostengo che se
vogliamo progettare un mondo che funzioni per tutti c’è bisogno
anche delle donne. Se le decisioni che condizionano la nostra vita
vengono prese soltanto da maschi con la pelle bianca, di sana e
robusta costituzione, nove volte su dieci di nazionalità americana,
anche questo è un vuoto di dati; proprio come lo è, nel campo della
ricerca medica, l’assenza di informazioni sul corpo delle donne.
Senza contare che l’esclusione a priori della prospettiva femminile
alimenta una sorta di involontaria propensione al maschile che
vorrebbe, spesso in buona fede, spacciarsi per assenza di
connotazioni di genere. È questo che intendeva Simone de Beauvoir
quando diceva che gli uomini tendono a confondere il loro punto di
vista con la verità assoluta.
Gli aspetti dello specifico femminile che gli uomini non tengono in
considerazione si riferiscono a svariate dimensioni, ma con il
procedere della lettura vi accorgerete che ci sono tre temi ricorrenti:
il corpo delle donne, il carico di lavoro non retribuito che grava sulle
loro spalle, la violenza maschile. Tre questioni di grande importanza,
che si ripercuotono su quasi tutti gli aspetti della vita e condizionano
le nostre esperienze in moltissimi ambiti: dai trasporti pubblici alla
politica, senza dimenticare i luoghi di lavoro e gli ambulatori medici.
Ma gli uomini, non avendo corpi femminili, non se ne preoccupano
affatto: assumono su di sé una quota di lavoro non retribuito di gran
lunga inferiore a quello svolto dalle donne, e se pure subiscono
violenza da parte di altri maschi, ne risentono in modo diverso. Cosí
le differenze vengono ignorate, e si continua a credere che il corpo
maschile e le relative esperienze di vita valgano per tutti, senza
distinzione di genere. Il risultato è che le donne vengono
discriminate.
In questo libro parlerò diffusamente di «sesso» e di «genere».
Userò il termine «sesso» in relazione alle caratteristiche biologiche
che distinguono gli individui maschi dalle femmine: in pratica, le
coppie cromosomiche XX e XY. Quando invece parlerò dei significati
sociali che si sovrappongono al dato biologico, cioè del trattamento
che le donne ricevono in quanto percepite come femmine, userò il
termine «genere». A differenza del sesso, il genere è una creazione
umana, ma entrambi sono dati di realtà, con conseguenze
importantissime per le donne che affrontano un mondo costruito
sugli standard maschili.
Pur conservando questa distinzione, nelle prossime pagine
parlerò sempre e soltanto di mancanza di dati di genere, perché se
le donne sono estromesse dall’universo dei dati non è colpa del
sesso, bensí del genere. Nel dare un nome al fenomeno che arreca
un danno cosí grave alle vite di tante donne, mi sembrava
importante chiarirne la causa profonda, e malgrado le molte
dichiarazioni contrarie che leggerete in queste pagine, il problema
non è il corpo femminile in sé. Il problema è il significato sociale che
attribuiamo a quel corpo, e il fatto che per ragioni di natura sociale
quel corpo non viene preso in considerazione.
Invisibili è una storia di assenze – e come tale, non è stato facile
scriverla. Se già scarseggiano i dati per la popolazione femminile in
generale (perché non li raccogliamo, oppure non li separiamo da
quelli dei maschi), quando si tratta di donne di colore, o disabili, o di
estrazione proletaria, l’assenza di dati diventa totale. Non è che non
vengano raccolti: il problema è che non vengono distinti (o
«disaggregati») dalle informazioni relative agli uomini. Per esempio,
le statistiche sulla rappresentanza proporzionale in vari ambiti, dalle
cattedre universitarie ai ruoli cinematografici, sono suddivise in base
al sesso o alla provenienza etnica, ma le donne che appartengono
alle etnie minoritarie finiscono sempre per confondersi nei gruppi piú
ampi. Nei rari casi in cui i dati erano disponibili li ho sempre forniti:
ma si tratta, per l’appunto, di casi sporadici.
Questo non è un libro di psicoanalisi. Non ho alcun accesso ai
pensieri reconditi di chi perpetua nel tempo il vuoto dei dati di
genere, e di conseguenza non potrò spiegare con prove
inoppugnabili perché quel vuoto esista. Ciò che posso fare è
presentare i dati e chiedere a voi lettori di valutare le prove. Non mi
interessa sapere se il produttore di questo o quell’attrezzo a misura
di maschio sia o non sia un sessista in pectore: le motivazioni
personali sono irrilevanti, perché ciò che conta davvero è lo schema
di fondo. Ciò che conta davvero è stabilire se, dopo aver esaminato
la mole dei dati che intendo fornire, sarà ancora tollerabile affermare
che l’assenza di dati di genere sia del tutto casuale.
La mia tesi è che non lo è. La mia tesi è che il vuoto dei dati di
genere sia al tempo stesso causa ed effetto di quella sorta di non-
pensiero che concepisce l’umanità come quasi soltanto maschile. Vi
mostrerò quanto sia frequente e diffuso questo inganno, e in che
modo esso distorca i dati apparentemente oggettivi che
condizionano una parte sempre piú ampia delle nostre vite. Vi
mostrerò che persino nel nostro mondo iperrazionale guidato da
inflessibili supercomputer le donne sono ancora in buona parte il
«secondo sesso» di cui parlava Simone de Beauvoir, un secondo
sesso che rischia di essere trattato – quando va bene – come una
sottocategoria dell’umano.
Invisibili

per le donne che non mollano:


siate sempre maledettamente difficili.
Introduzione
Il maschile predefinito

Vedere nel maschio l’essere umano predefinito è uno dei


fondamenti della struttura sociale umana. È una vecchia abitudine
che ha radici profonde: profonde come le teorie sull’evoluzione della
nostra specie. Nel IV secolo avanti Cristo, Aristotele fu il primo a
sostenere senza mezzi termini che l’umanità era maschile per
default: «Il primo inizio è nascere femmina e non maschio», scrisse il
filosofo nel suo trattato sulla riproduzione degli animali, pur
ammettendo che questa «anomalia» era necessaria alla natura.
Duemila e passa anni piú tardi, nel 1996, l’università di Chicago
organizzò un simposio sulle società primitive di cacciatori-raccoglitori
intitolato Man the Hunter. Piú di settantacinque studiosi di
antropologia sociale giunsero da ogni parte del mondo per discutere
l’importanza della caccia ai fini dell’evoluzione e dello sviluppo
dell’uomo: tutti concordarono nel dire che sí, era abbastanza
importante 1. Una delle relazioni presentate al congresso e in seguito
raccolte in un volume sosteneva che «il nostro debito verso i
cacciatori di quel lontano passato comprende tutti gli aspetti
biologici, psicologici e consuetudinari che ci differenziano dalle
scimmie». Ipotesi senz’altro suggestiva, non fosse che, come
sottolinearono le femministe, poneva un piccolo problema relativo
all’evoluzione della donna. Il libro diceva molto chiaramente che la
caccia era un’attività maschile. Ma se «le nostre intelligenze,
interessi, emozioni, e i fondamenti della vita sociale sono prodotti
evolutivi dell’adattamento alla caccia», che cosa possiamo dire a
proposito dell’umanità delle donne? Se sono gli uomini a trainare
l’evoluzione della nostra specie, siamo davvero sicuri che le donne
siano umane?
La prima a sfidare il mito dell’Uomo cacciatore fu l’antropologa
Sally Slocum, nel suo famoso saggio del 1975 intitolato Woman the
Gatherer 2. Gli antropologi, sosteneva Slocum, «studiano il
comportamento maschile e sostengono che basti a spiegare ogni
cosa». Ma per smontare quel mito bastava una sola, semplice
domanda: che facevano le donne mentre i maschi erano fuori a
caccia? Risposta: raccoglievano erbe, radici e frutti commestibili,
svezzavano e crescevano figli che restavano a lungo dipendenti dai
genitori. Al pari della caccia, anche quelle attività richiedevano un
certo grado di cooperazione. Assodato ciò, concludeva Slocum,
«l’idea che il desiderio maschile di cacciare e uccidere sia stato un
comportamento adattativo fondamentale dà un’eccessiva importanza
all’aggressività, la quale dopo tutto non è che un aspetto della vita
umana».
A piú di quarant’anni dalla presa di posizione di Sally Slocum, le
teorie sull’evoluzione non hanno ancora ricusato la propensione al
maschile. «Secondo gli scienziati, l’istinto di violenza è un prodotto
dell’evoluzione umana», annunciava nel 2016 un articolo
dell’«Independent» 3 dedicato a uno studio accademico intitolato The
phylogenetic roots of human lethal violence, in cui si sosteneva che
l’evoluzione avesse reso la nostra specie sei volte piú letale per i
propri simili rispetto alla media dei mammiferi 4.
Questo è senz’altro vero per la specie umana nel suo complesso,
ma in realtà la violenza dell’uomo sull’uomo è in gran parte
appannaggio dei maschi. Da uno studio sugli omicidi commessi in
Svezia nell’arco di trent’anni è risultato che nove su dieci sono
compiuti da maschi 5; il dato collima con le statistiche di altri Paesi,
tra cui l’Australia 6, la Gran Bretagna 7 e gli Stati Uniti 8. Nel 2013 uno
studio su scala mondiale delle Nazioni unite è giunto alla
conclusione che il novantasei per cento 9 dei colpevoli di omicidio è
maschio. Dunque è il genere umano nel suo complesso a coltivare
istinti omicidi, oppure solo la parte maschile? E se in linea di
massima le donne non sono delle assassine nate, che idea
dovremmo farci delle loro «radici filogenetiche»?
Questa sorta di propensione al maschile-ove-non-altrimenti-
indicato sembra contagiare tutti i campi della ricerca etnografica.
Pensiamo per esempio ai graffiti preistorici scoperti in tante grotte:
raffigurano animali che erano oggetto di caccia, e poiché erano i
maschi a cacciare, i ricercatori sono giunti alla conclusione che lo
fossero anche gli autori dei graffiti. Peccato che in tempi piú recenti
le analisi delle impronte di mani che compaiono accanto alle
raffigurazioni animali in alcune grotte della Francia e della Spagna
abbiano rivelato che la maggior parte dei disegni è opera di
donne 10.
Persino i resti ossei non si sottraggono alla teoria del maschile-
ove-non-altrimenti-indicato. Pensavate che la determinazione del
sesso degli scheletri umani si fondasse su criteri oggettivi? Ebbene,
non è cosí. Per piú di cent’anni si è creduto che lo scheletro vichingo
del X secolo noto come «guerriero di Birka», benché evidentemente
dotato di un bacino femminile, appartenesse a un uomo, per la
semplice ragione che era stato sepolto accanto a un ricco corredo di
armi e a due cavalli uccisi in sacrificio 11. Tutto ciò dimostrava senza
ombra di dubbio che l’occupante della tomba era un guerriero 12, e
«guerriero» significa «maschio»: per gli archeologi, infatti, le
numerose eroine combattenti della tradizione vichinga sono semplici
figure mitologiche 13. Ma se le armi prevalgono sull’anatomia del
bacino, non è detto che possano imporsi sul Dna: e cosí nel 2017 le
indagini hanno confermato che quello trovato a Birka era proprio lo
scheletro di una donna.
Problema risolto? No, semplicemente riformulato 14. A quel punto
si è cominciato a supporre che le ossa fossero state mescolate, o
che ci fossero altre ragioni per seppellire una donna accanto a delle
armi. Nessuna delle due congetture è del tutto improbabile, anche se
gli autori dello studio originale le contestano entrambe appellandosi
alla disposizione dei resti e degli oggetti all’interno della tomba.
Comunque sia, la questione è sintomo di una dinamica alquanto
significativa, giacché in circostanze analoghe nessuno solleva mai
dubbi sugli scheletri di sesso maschile 15. Vero è che quando gli
archeologi riportano alla luce i siti funerari trovano quasi sempre
molti piú resti maschili, il che, come faceva notare con una certa
ironia l’antropologo Phillip Walker in un suo scritto del 1995, «non
corrisponde a quanto sappiamo sulla distribuzione per sesso delle
popolazioni umane esistenti» 16. E sapendo che le donne vichinghe
potevano possedere beni immobili, ereditare e persino esercitare
con successo la professione di mercante, vi sembra cosí impossibile
che potessero anche combattere 17?
In fin dei conti non sarebbero nemmeno le uniche: «Svariati
scheletri di donne che presentavano cicatrici da battaglia sono stati
rinvenuti nelle steppe eurasiatiche, dalla Bulgaria alla Mongolia», ha
scritto Natalie Haynes sul «Guardian» 18. Presso le antiche
popolazioni scitiche, che combattevano a cavallo con armi e frecce,
non vi era motivo per credere nella superiorità innata dei guerrieri
maschi, e i test del Dna effettuati in piú di mille tumuli funerari,
dall’Ucraina all’Asia centrale, su cadaveri che avevano armi nel loro
corredo, hanno dimostrato che fino al tre per cento delle donne e
delle ragazze scitiche era combattente attivo 19.
La prevalenza del maschile-ove-non-altrimenti-indicato nei nostri
schemi mentali potrebbe apparirci meno sorprendente se si pensa a
quanto sia radicata in uno degli elementi fondanti della società
umana, ovvero il linguaggio. Nella sua critica all’orientamento
maschile degli studi antropologici, Sally Slocum aveva in effetti
sottolineato che il pregiudizio è evidente «non solo
nell’interpretazione dei pochi dati disponibili, ma nello stesso
linguaggio utilizzato». La parola uomo, scriveva, «è usata in modo
talmente ambiguo che è impossibile stabilire se si riferisca ai maschi
oppure alla specie umana in generale». Questo crollo del significato
portava Slocum a supporre che «nella mente di molti antropologi, la
parola uomo, che in teoria dovrebbe riferirsi all’intera specie, sia in
realtà un sinonimo esatto di maschio». Come vedremo, le prove
dimostrano che il sospetto era fondato.
Nella poesia di Muriel Rukeyser intitolata Mito, un Edipo ormai
vecchio e cieco domanda alla Sfinge: «Perché non riconobbi mia
madre?» Perché, spiega la Sfinge, la risposta all’enigma che ti posi
era sbagliata. Quando ti domandai chi fosse colui che camminava
con quattro gambe al mattino, con due al pomeriggio e con tre la
sera, tu mi rispondesti «l’uomo». Non parlasti della donna. «Ma la
parola uomo comprende anche le donne. Lo sanno tutti», replica
Edipo.
In effetti la Sfinge ha ragione, ed è Edipo a essere in torto. La
parola «uomo» non «comprende anche le donne», anche se
teoricamente tutti sanno che è cosí. Numerosi studi condotti negli
ultimi quarant’anni hanno dimostrato che in molte lingue il cosiddetto
«maschile generico» (l’uso di sostantivi maschili senza connotazione
di genere) non è inteso come generico 20 bensí, nella stragrande
maggioranza dei casi, come maschile.
Quando si usa il maschile generico si è piú inclini a citare esempi
di uomini famosi 21, a credere che in un certo ambito professionale vi
sia una netta predominanza maschile 22, a indicare politici e
professionisti maschi come candidati ideali per certi incarichi 23.
Inoltre è piú raro che le donne rispondano agli annunci e facciano
bella figura nei colloqui per l’assunzione di figure professionali
indicate con il maschile generico 24. In alcuni casi la forza del
maschile generico è soverchiante al punto da avere la meglio su altri
stereotipi assai comuni, sicché persino la professione di estetista, di
solito considerata appannaggio delle donne, viene tutt’a un tratto
pensata al maschile 25. Il fenomeno è talmente diffuso da falsare i
risultati degli studi scientifici, creando un vuoto di dati che trascende
i generi: uno studio del 2015 sullo stato di salute percepito nelle
indagini psicologiche ha dimostrato che l’uso del maschile generico
nei questionari condizionava le risposte dei soggetti femminili, con
una potenziale alterazione dei punteggi e del loro significato 26. Gli
autori dello studio ne hanno dedotto che l’uso del maschile generico
«potrebbe rappresentare differenze inesistenti tra uomini e donne, le
quali non verrebbero rilevate in altre versioni dello stesso
questionario che utilizzino forme neutre o declinate in base al genere
del soggetto che risponde».
Eppure, nonostante sia assodato da decenni che il maschile
generico è tutt’altro che chiaro, le politiche linguistiche ufficiali di
molti Paesi insistono nel dire che si tratta di una pura formalità, da
preservare per amor di… chiarezza. Ancora nel 2017 l’Académie
française (massima autorità nazionale in materia di lingua francese)
tuonava contro «l’aberrazione della “scrittura inclusiva”», sostenendo
che le varie scappatoie per eludere il maschile generico
rappresentassero un «pericolo mortale» per l’idioma nazionale.
Controversie analoghe sono sorte anche altrove, per esempio in
Spagna 27 e in Israele 28.
Poiché l’inglese non ha generi grammaticali, il cosiddetto
maschile generico ha un peso piuttosto limitato nell’uso linguistico
moderno. Termini come doctor e poet, un tempo intesi come
genericamente maschili e declinati al femminile (di solito per
dileggio) come doctoress e poetess, al giorno d’oggi sono
considerati neutri. Ma se nei registri linguistici piú formali il maschile
generico resiste soltanto negli scritti dei pedanti che si ostinano a
usare il pronome maschile he nel senso di he or she, negli ultimi
tempi il linguaggio colloquiale lo vede riemergere nell’uso
apparentemente neutro di certi americanismi come dude o guys,
nonché dell’inglese britannico lads, ora impiegati per rivolgersi a
persone di entrambi i sessi. Sembra poi che in Inghilterra vi siano
ancora molti sostenitori del maschile per default: lo dimostra l’accesa
controversia scatenatasi nel 2017 quando Dany Cotton, prima
comandante donna dei pompieri di Londra, propose di sostituire il
termine fireman, all’epoca usato per indicare i vigili del fuoco, con il
piú neutro (e molto piú stiloso, ammettiamolo) firefighter. Ora
quest’ultimo termine è entrato nell’uso corrente, ma all’epoca Cotton
fu sommersa di contumelie 29.
Altre lingue, come il francese, il tedesco e lo spagnolo,
presentano invece una flessione per genere, e i concetti di maschile
e femminile si annidano nella struttura stessa dell’idioma, poiché tutti
i nomi sono o maschili, o femminili. In spagnolo, per esempio, un
tavolo è femminile (la mesa roja) ma un’auto è maschile (el coche
rojo). Nel caso di nomi che si riferiscono a persone, laddove esistono
sia il maschile sia il femminile, il genere standard è sempre il
maschile. Chiedete a Google come si dice «avvocato» in tedesco: vi
risponderà Anwalt, parola che letteralmente significa «avvocato
maschio» ma è anche usata in senso generico per chiunque eserciti
quella professione. Per riferirsi in modo specifico a un avvocato di
sesso femminile si usa Anwältin (per inciso, il fatto che – come in
questo caso – i termini femminili derivino spesso da quelli maschili è
un altro esempio di rappresentazione del femminile in quanto
deviazione dal modello maschile, in quanto – per dirla con de
Beauvoir – semplicemente Altro). Il maschile generico è anche usato
per indicare un insieme di persone quando non si sa di quanti
maschi o femmine sia composto. In spagnolo, per esempio, un
gruppo di cento insegnanti di sesso femminile sarebbe las
profesoras; ma basta aggiungere un solo maschio ed ecco che
l’appellativo corretto diventa los profesores. Il maschile per default
reclama sempre la parte del leone.
Nelle lingue che hanno il genere grammaticale, il maschile
generico è tuttora diffusissimo. Le ricerche di personale – soprattutto
se si tratta di posizioni di responsabilità – sono annunciate nella
forma maschile 30. Da uno studio recente condotto in Austria sul
linguaggio degli annunci per la selezione di ruoli dirigenziali è
risultato che le formulazioni al maschile sopravanzano quelle
«paritarie» (che usano sia il termine maschile, sia il femminile) con
una proporzione di ventisette a uno 31. Il parlamento europeo ritiene
di aver trovato una soluzione al problema, e dal 2008 raccomanda di
utilizzare nei bandi per la selezione del personale la sigla M/F a
indicare, per l’appunto, «maschile/femminile» nelle lingue che ne
sono provviste. L’idea è che quelle due consonanti, rammentando a
chi legge l’esistenza delle donne, rendano piú «equo» il maschile
generico. È una buona intuizione, ma non è sostenuta dai fatti:
quando ai ricercatori è parso finalmente il caso di testarne gli esiti,
hanno scoperto che in termini di effetto discriminante non c’era
alcuna differenza tra quella pratica e l’uso esclusivo del maschile
generico. Il che dimostra ancora una volta che sarebbe meglio
prendere iniziative dopo aver raccolto i dati e non prima 32.
Questo gran discutere di parole ha un qualche effetto sulla vita
reale? Si direbbe di sí. Nel 2012 un’indagine del Forum economico
mondiale ha evidenziato che nei Paesi dove si parlano lingue con i
generi grammaticali, e di conseguenza quasi tutti gli enunciati
presentano un’idea forte di maschile e femminile, le disuguaglianze
tra i sessi sono piú marcate 33. La cosa strana, però, è che le
condizioni di maggiore parità tra maschi e femmine non si
riscontrano nei Paesi con lingue che non distinguono i generi
(l’ungherese e il finlandese, per esempio) bensí in un terzo gruppo di
Paesi, i cui idiomi si limitano a distinguere il genere naturale di alcuni
sostantivi. Lingue come l’inglese, che ad esempio consente di
applicare a ogni nome una marca di genere (female teacher, male
nurse) ma nella maggior parte dei casi non la codifica nel nome
stesso. Secondo gli autori dello studio, l’impossibilità di marcare il
genere impedisce di «correggere» il pregiudizio implicito della lingua
facendo notare che «al mondo ci sono anche le donne». E dunque,
visto che il maschile va sans dire, non poter dire il femminile, in
fondo, è già qualcosa.
Sarebbe facile cedere alla tentazione di considerare la
propensione al maschile del linguaggio una semplice reliquia di
epoche piú retrograde, ma ci sono prove che smentiscono questa
teoria. Pensiamo agli emoji, «l’idioma umano in piú rapida
crescita» 34, utilizzato da oltre il novanta per cento della popolazione
mondiale che si connette a Internet 35. Nato in Giappone negli anni
Ottanta, questo mezzo espressivo è usato soprattutto dalle donne 36:
vi ricorre il settantotto per cento dell’utenza femminile complessiva,
contro il sessanta per cento di quella maschile 37. Eppure fino al
2016 il mondo degli emoji è stato bizzarramente popolato da soli
uomini.
Gli emoji che abbiamo sugli smartphone sono selezionati da un
gruppo dall’altisonante nome di Unicode consortium, un organismo
collaborativo che riunisce varie organizzazioni interessate alla
diffusione di parametri universali e internazionali nei software. Se il
consorzio decide di introdurre un nuovo emoji (per esempio
«investigatore»), deciderà anche a quale codice di caratteri
abbinarlo. A quel punto ogni azienda produttrice di smartphone e
ogni gestore di piattaforme social progetterà l’emoticon che a suo
giudizio somiglia di piú a un «investigatore», ma il codice sarà
sempre lo stesso, cosicché gli utenti che comunicano tramite
piattaforme diverse abbiano la certezza di dire grossomodo la stessa
cosa: una faccina con gli occhi a cuore è sempre una faccina con gli
occhi a cuore.
Per tradizione, Unicode non ha mai specificato il genere della
maggior parte dei suoi emoji. Quello che in passato molte
piattaforme raffiguravano come un uomo intento a correre non si
chiamava man running, ma soltanto runner. Allo stesso modo, la
descrizione Unicode per l’emoji del poliziotto era police officer, non
policeman. Sono state le piattaforme, ognuna per conto proprio, a
dare raffigurazioni maschili a quelle denominazioni neutre.
Nel 2016 Unicode decise di prendere provvedimenti: avrebbe
rinunciato alla neutralità e attribuito un genere esplicito a ogni emoji
che raffigurava persone 38. Cosí quel runner al quale tutti avevano
dato l’aspetto di un maschio fu sostituito da due codici diversi,
esplicitamente corrispondenti a un podista e a una podista. Oggi tutti
gli emoji relativi a sport e professioni hanno una versione maschile e
una femminile. Possiamo considerarla una piccola ma significativa
vittoria.
È facile tacciare di sessismo i fabbricanti di telefoni cellulari e gli
sviluppatori di social media (come vedremo piú avanti, l’accusa è
fondata, benché spesso si tratti di un sessismo inconsapevole), ma
la realtà è che se anche fossero riusciti a disegnare un podista «di
genere neutro» molti di noi lo avrebbero comunque interpretato
come maschio, perché è cosí che facciamo: leggiamo le cose al
maschile, a meno che non siano marcate in modo esplicito come
femminili. E cosí, pur continuando a sperare che un giorno o l’altro
anche i grammatici piú biliosi si convincano che sostituire il «lui»
universale con «lui e lei» (o persino, Dio ci scampi, «lei e lui») non
sia la peggior disgrazia del mondo, la verità è che quella contro il
maschile generico è solo metà della battaglia: la propensione al
maschile ha radici profonde nella nostra psiche, al punto che persino
le parole indiscutibilmente neutre vengono lette come maschili.
Uno studio del 2015 ha individuato le cinque parole utilizzate con
maggiore frequenza nei documenti scientifici per descrivere persone
coinvolte nell’interazione uomo-computer: user, participant, person,
designer e researcher, tutte e cinque (almeno a prima vista) di
genere neutro 39. Grazie, scienziati! Ma ahimè, era troppo bello per
essere vero. Quando i partecipanti allo studio furono invitati a
riflettere per dieci secondi su ognuna di quelle parole e a illustrarla
con un disegno, si scoprí che quei vocaboli in apparenza neutri non
erano percepiti come ugualmente riferibili a un uomo o a una donna.
Secondo l’opinione dei soggetti maschi, soltanto designer poteva
essere maschile in meno dell’ottanta per cento dei casi (con una
percentuale comunque di poco inferiore al settanta). Quanto a
researcher, i soggetti che lo disegnavano come «né maschio né
femmina» erano piú numerosi di quelli che gli attribuivano un’identità
femminile. Le donne intervistate nell’ambito dello studio, benché in
apparenza piú libere da preconcetti, tendevano a leggere come
maschili parole che in realtà erano neutre, con la sola eccezione di
person e participant, termini che le donne suddividevano in parti
uguali tra i due sessi mentre l’ottanta per cento dei soggetti maschi
l’aveva interpretato come maschile.
Questi risultati, già di per sé abbastanza scoraggianti, sono
purtroppo confermati da decenni di test «Disegna uno scienziato»
somministrati a bambini di entrambi i sessi: i bambini, purtroppo,
disegnano quasi sempre un uomo. Un preconcetto enorme e ben
radicato, tanto da indurre i media di tutto il mondo a celebrare con
accenti trionfali il fatto che oggi il ventotto per cento dei bambini
disegni una scienziata femmina 40. Un’altra – e forse piú inquietante
– conferma viene da un’indagine del 2008 condotta su un campione
di scolari pakistani tra gli otto e i nove anni, invitati a rappresentare
con un’immagine il concetto di «noi» 41. Un «noi» che per tutti i
maschietti e per la stragrande maggioranza delle bambine era
composto esclusivamente da individui di sesso maschile.
La nostra percezione del mondo come realtà abitata soprattutto
da maschi si estende persino al di là del genere umano: quando i
partecipanti a uno studio sono stati invitati a riconoscere come
femmina un animaletto di peluche privo di connotati di genere, si è
constatato che sia i bambini sia i genitori e le altre figure di
accudimento continuavano a riferirsi all’animaletto con il pronome
maschile 42. Gli autori dello studio hanno cosí scoperto che solo un
peluche di aspetto «superfemminile» poteva sperare di essere
identificato come «lei» da poco meno della metà dei partecipanti allo
studio.
La cosa, siamo onesti, non è del tutto irragionevole: nella maggior
parte dei casi, è davvero un «lui». Da uno studio internazionale
condotto nel 2007 su 25 439 personaggi televisivi per l’infanzia è
risultato che solo il tredici per cento dei soggetti non umani era
femmina. Le cose andavano un po’ meglio nella categoria dei
personaggi umani, in cui la quota femminile saliva a un comunque
modesto trentadue per cento 43. Un’analisi dei film destinati a un
pubblico infantile usciti nelle sale tra il 1999 e il 2005 ha messo in
luce che solo il ventotto per cento dei ruoli parlanti era assegnato a
personaggi femminili, e che – dato ancor piú sintomatico di un’idea
di umanità composta per definizione da maschi – nelle scene di folla
le figure femminili erano solo il diciassette per cento del totale 44.
Non soltanto ci sono piú ruoli per gli uomini; anche il loro tempo
sullo schermo è quasi il doppio, e sfiora addirittura il triplo di quello
destinato alle parti femminili quando (come succede quasi sempre) il
film ha un protagonista maschile 45. Il divario si colma solo se c’è
una protagonista donna: in questi casi i personaggi maschili e
femminili occupano lo schermo per la stessa quantità di tempo
anche se, a rigor di logica, le attrici dovrebbero essere in posizione
di preminenza. Come se non bastasse, i ruoli maschili hanno anche
piú battute: nel complesso i maschi parlano il doppio delle donne (il
triplo se il protagonista è un uomo), anche nei film che assegnano il
ruolo di coprotagonisti a una coppia uomo-donna. Ancora una volta,
la parità si raggiunge solo nei pochi film in cui il ruolo principale
spetta a un’attrice.
La disuguaglianza di genere non è soltanto nei film e alla tv: è
ovunque.
È nelle opere scultoree, per esempio: ho passato in rivista tutte le
statue elencate nel database della Public Monuments and
Sculptures Association e ho scoperto che (se si escludono le
raffigurazioni simboliche di figure femminili e le aristocratiche di
sangue reale) in tutto il Regno Unito ci sono piú statue di uomini di
nome John che statue di donne. Le donne riescono a battere i John
solo con l’aiuto delle componenti della famiglia reale: ecco perché,
nonostante tutto, ho grande stima della regina Vittoria, nota
disseminatrice di statue a sua immagine e somiglianza.
La disuguaglianza di genere è sulle banconote: nel 2013 la Bank
of England ha annunciato di voler sostituire l’unica figura storica
femminile rappresentata sulle banconote (la filantropa Elizabeth Fry)
con l’ennesimo uomo: ho combattuto l’idea con una campagna che
ha avuto molto successo ed è stata «esportata» anche altrove, per
esempio in Canada e negli Stati Uniti 46.
La disuguaglianza di genere è nel giornalismo mediatico: dal 1995
il Global Media Monitoring Project valuta ogni cinque anni l’immagine
delle donne nei mezzi d’informazione (radio, tv e giornali) di tutto il
mondo. Stando all’ultimo rapporto, pubblicato nel 2015, le donne
rappresentavano solo il ventiquattro per cento delle persone rilevate
nelle notizie di stampa, radio e tv: la stessa percentuale rilevata nel
2010 47.
La disuguaglianza di genere è anche nei testi scolastici: trent’anni
di studi sui manuali di lingua e grammatica in uso nelle scuole di
molti Paesi tra cui Germania, Stati Uniti, Australia e Spagna hanno
dimostrato che nelle frasi di esempio la presenza maschile è
dominante, con una proporzione di tre a uno rispetto a quella
femminile 48. Da un’analisi di diciotto manuali di storia pubblicati tra il
1960 e il 1990 e ampiamente diffusi nei licei degli Stati Uniti risulta
invece che il rapporto donne/uomini nelle immagini identificate da
una didascalia è di diciotto a cento, e che solo il nove per cento dei
nomi citati negli indici analitici appartiene a donne; il dato è rimasto
inalterato anche nell’edizione 2002 di uno dei libri di testo utilizzati
per la ricerca 49. Piú di recente, un’indagine del 2017 su dieci
manuali introduttivi per studenti di scienze politiche ha accertato che
le pagine di ciascun testo in cui si faceva riferimento a donne erano
mediamente il 10,8 per cento del totale, con percentuali che in alcuni
casi non superavano il 5,3 50. Livelli analoghi di propensione al
maschile sono stati rilevati dalle analisi dei libri di testo adottati in
Armenia, Malawi, Pakistan, Taiwan, Sudafrica e Russia 51.
Il preconcetto culturale a favore della rappresentazione maschile
è cosí diffuso che i creatori della serie di videogiochi fantascientifici
Metroid se ne sono serviti per fare colpo sul pubblico. In una recente
intervista hanno dichiarato: «Eravamo in cerca di novità e ci stavamo
domandando se fosse il caso di togliere l’elmo e la tuta a Samus
Aran [il personaggio principale della saga]. Poi qualcuno ha detto:
“Pensa che colpo se si scopre che Samus è una donna!”» 52 E per
essere sicuri che tutti capissero, l’hanno disegnata con un bikini rosa
e una posa provocante.
Metroid era – ed è tuttora – un caso a sé nel mondo dei
videogiochi. Benché un rapporto del Pew Research Center 53 abbia
accertato che gli utenti di videogiochi sono equamente distribuiti in
entrambi i sessi, nel 2016 solo il 3,3 per cento 54 dei giochi presentati
alle conferenze stampa dell’Electronic Entertainment Expo (la piú
importante fiera del settore, anche nota come E3) aveva
protagoniste femminili. Un dato addirittura inferiore a quello dell’anno
precedente, che secondo le attiviste del sito Feminist Frequency
aveva raggiunto il nove per cento 55. Come se non bastasse, quando
i personaggi di sesso femminile riescono a farsi largo in un
videogioco, la loro femminilità è spesso una caratteristica accessoria
al pari di tante altre. Lo ha mostrato Todd Howard, regista di Fallout
4, presentando il suo gioco durante l’E3 2015: trasformare in donna
un personaggio maschile e restituirgli poco dopo l’identità di maschio
era un giochetto da nulla 56. «Gli eroi sono maschi per definizione»,
ha commentato a malincuore Feminist Frequency 57.
Il risultato di questa dominazione culturale dei maschi è che
l’esperienza e la prospettiva maschili hanno finito per assumere una
dimensione universale, mentre l’esperienza femminile – quella cioè
di metà della popolazione mondiale, in fin dei conti – è diventata… di
nicchia. L’ennesima prova di questa ipotetica universalità del
maschile l’abbiamo avuta quando una docente della Georgetown
University ha deciso di tenere un corso sui White Male Writers, gli
scrittori maschi bianchi: ne ha parlato persino il «New York Times»,
mentre dei molti corsi dedicati alla scrittura femminile non si è mai
occupato nessuno 58.
Dunque il maschile è universale e il femminile è di nicchia: ecco
perché un film sulla lotta delle donne inglesi per il diritto di voto è
stato definito (dal «Guardian», peraltro) «bizzarramente avulso dal
contesto storico» per mancanza di riferimenti al primo conflitto
mondiale 59: un’ulteriore prova, se mai ce ne fosse bisogno,
dell’attualità di quanto scriveva Virginia Woolf nel lontano 1929:
«Ecco un libro importante, pensa il critico, perché parla di guerra.
Quest’altro invece è un libro insignificante perché ha a che fare con i
sentimenti delle donne in un salotto» 60. È la stessa ragione per cui
V. S. Naipaul bolla come «angusta» la visione del mondo di Jane
Austen, mentre nessuno pretende che The Wolf of Wall Street
accenni alla Guerra del Golfo, o che lo scrittore norvegese Karl Ove
Knausgård parli di altro fuorché di sé stesso (o citi piú di una
scrittrice donna) nella sua monumentale autobiografia in sei volumi
che pure, secondo i critici del «New York Times», dà voce alle
«ansie universali» dell’umanità.
Ed è sempre per questo che su Wikipedia la pagina della
nazionale inglese di calcio parla esclusivamente della nazionale
maschile, mentre la pagina della nazionale femminile si intitola
England Women’s National Football Team. Sempre Wikipedia, nel
2013, divideva ancora i romanzieri del Nuovo Mondo in American
Novelists e American Women Novelists. Uno studio del 2015 sulle
pagine in varie lingue della famosa enciclopedia online ha inoltre
scoperto che le voci dedicate alle donne contengono spesso
vocaboli come «donna», «femminile» o «signora», mentre nelle
pagine sugli uomini non c’è scritto «uomo», «maschile» o
«gentiluomo»: il maschile, ormai è chiaro, si dà per scontato 61.
I libri di storia chiamano «Rinascimento» il periodo storico
compreso tra il XIV e la fine del XVI secolo anche se, come ha
sottolineato la psicologa sociale Carol Tavris in un suo saggio del
1991 intitolato The Mismeasure of Woman, a rinascere sono stati
soltanto i maschi, giacché le donne erano ancora in gran parte
escluse dalla vita intellettuale e artistica del tempo. Chiamiamo
«Illuminismo» il XVIII secolo anche se l’espansione dei «diritti
dell’uomo» fu compensata da una drastica limitazione dei diritti delle
donne, che si videro negare il controllo sui beni di loro proprietà e sui
relativi proventi, nonché il diritto di acquisire un’istruzione superiore
e/o una formazione professionale. E infine: pensiamo all’antica
Grecia come alla culla della democrazia, tralasciando il fatto che alla
metà femminile del popolo era esplicitamente negato il diritto di voto.
Nel 2013 il tennista inglese Andy Murray fu lodato da tutti i media
perché la sua vittoria a Wimbledon interrompeva «un’attesa durata
settantasette anni»: peccato che Virginia Wade avesse vinto il torneo
nel 1977. Tre anni dopo Murray si sentí definire da un giornalista
sportivo «il primo tennista ad aver vinto due ori olimpici». In realtà,
come lo stesso Murray fece notare, «Venus e Serena ne hanno vinti
piú o meno quattro a testa» 62. La nazionale di calcio degli Stati Uniti
non ha mai vinto la Coppa del mondo, né è mai arrivata in finale: lo
sanno anche i sassi, ma non è cosí. La squadra femminile è stata
campione del mondo per ben quattro volte 63.
Negli ultimi anni si è tentato in qualche modo di abbattere
quest’incrollabile propensione culturale al maschile, ma ci sono state
molte reazioni ostili. Quando la Marvel Comics ha reinventato Thor
dandogli un’identità femminile i fan sono insorti 64, eppure – come ha
fatto giustamente notare «Wired» – nessuno aveva battuto ciglio
quando l’eroe era stato rimpiazzato da una rana 65. Analoga sorte è
toccata anche alla premiata ditta di Guerre Stellari, che ha prodotto
ben due film con una protagonista femminile: i siti web dei machisti
hanno urlato allo scandalo 66. Come è noto, una delle serie piú
durature della tv inglese, Doctor Who, ha per protagonista un alieno
mutante che di tanto in tanto si trasferisce in un nuovo corpo: dopo
dodici incarnazioni maschili, nel 2017, per la prima volta, il dottor
Who ha preso possesso di un corpo femminile. Peter Davison,
l’attore che aveva impersonato il quinto Dottore, aveva manifestato
qualche dubbio sull’opportunità della decisione 67, sostenendo che
preferiva pensare al dottor Who come a «un maschietto» e
piangendo la perdita di un modello di riferimento per tanti ragazzi.
Altri spettatori sconvolti hanno messo mano a Twitter per invitare al
boicottaggio della serie, accusando gli ideatori di eccessiva
correttezza politica e conformismo ipocrita nei confronti del pensiero
«liberal» 68.
Colin Baker, l’attore che aveva impersonato il sesto Dottore, ha
espresso un parere diverso: in fin dei conti erano già cinquant’anni
che i ragazzi avevano un modello di riferimento. E comunque dove
sta scritto che i modelli di riferimento debbano funzionare solo per gli
individui dello stesso sesso? «Non si può essere esemplari in quanto
persone e basta?» Be’, non proprio: come abbiamo visto, la gente
legge «persona» e pensa «maschio». E se è vero che le donne
possono, in una certa misura, scegliersi un uomo come fonte di
ispirazione, è difficile che gli uomini prendano a modello una donna.
Le donne comprano libri scritti da uomini che parlano di uomini, ma i
lettori maschi non sembrano disposti a rendere il favore (non molto
spesso, almeno) 69. Nel 2014, quando i creatori della serie di
videogiochi Assassin’s Creed annunciarono che non sarebbe stato
possibile giocare in modalità multiplayer con un personaggio di
sesso femminile, gli utenti maschi approvarono 70. Giocare in veste
di donne, dicevano, non li appassionava per niente.
La giornalista Sarah Ditum avanzò qualche obiezione. «Oh,
insomma! – protestò. – Siete riusciti a essere un riccio blu, un
marine spaziale con superpoteri cibernetici, un addestratore di
draghi… E adesso non vi capacitate che la protagonista di un
videogioco sia una donna dinamica dalla personalità
interessante?» 71 In teoria, Ditum ha perfettamente ragione:
immaginare di essere una donna dovrebbe essere piú facile che
credersi un riccio blu. Ma in realtà ha torto, perché quel riccio blu e i
suoi giocatori hanno in comune una caratteristica essenziale, ben
piú importante dell’appartenenza alla stessa specie biologica: Sonic
the Hedgehog è un maschio. Lo si capisce dal fatto che non è rosa,
non ha i capelli legati col fiocco e non distribuisce sorrisetti melensi.
Lui è del genere standard, quello senza segni caratteristici: non è
atipico.
Questa specie di reazione negativa alla presenza delle donne è
comune a tutto il panorama culturale. Quando nel 2013 avviai la
campagna per far stampare l’effigie di una figura storica femminile
sul retro delle banconote inglesi, alcuni individui si lasciarono
sopraffare dall’ira a un punto tale da augurarmi di essere stuprata,
mutilata, uccisa. Va da sé che non tutti gli uomini contrari alla mia
iniziativa si sono abbandonati a simili eccessi, ma anche le reazioni
piú equilibrate manifestavano un evidente senso di ingiustizia. «Ma
come! Ormai ci sono donne dappertutto!» ha protestato qualcuno.
Cosa di sicuro non vera, altrimenti non avrei dovuto impegnarmi cosí
tanto per far mettere il ritratto di una donna sulle banconote. Ma era
comunque interessante che alcuni uomini sentissero come iniqua
una presenza femminile, per quanto minoritaria. Le forze in campo,
secondo loro, erano già equilibrate, e quella formazione tutta al
maschile sulle nostre banconote non era che un’obiettiva
rappresentazione del merito.
Anche la Bank of England, prima di cedere, tentò la carta
meritocratica: le figure storiche rappresentate sulle banconote erano
scelte secondo «criteri oggettivi». I requisiti per entrare nell’aureo
consesso delle «figure-chiave del nostro passato» erano i seguenti:
vasta notorietà; presenza di materiale iconografico di alto livello;
assenza di valutazioni controverse; aver dato «un contributo
durevole e universalmente riconosciuto» alla Storia nazionale. Con
dei parametri di valore cosí poco oggettivi, non c’era da stupirsi che
la nostra banca centrale avesse messo in circolazione cinque
banconote con i ritratti di altrettanti maschi bianchi: l’assenza di dati
di genere nella storiografia rendeva quasi impossibile che una donna
fosse considerata idonea.
«Un tempo credevo di avere un talento creativo, ma ho rinunciato
a questa idea; una donna non deve desiderare comporre – nessuna
è stata capace di farlo, perché dovrei esserlo io?» Cosí scriveva nei
suoi diari la compositrice Clara Schumann, nel 1839. Il dramma è
che si sbagliava: certe donne prima di lei ne erano state capaci;
anzi, tra loro vi erano alcuni dei piú celebrati, influenti e prolifici
talenti compositivi del XVII e XVIII secolo 72. È solo che non erano mai
riuscite a conquistarsi una «vasta notorietà», perché una donna è
condannata all’oblio non appena lascia questo mondo, e la sua
opera, grazie all’assenza dei dati di genere, finisce spesso per
essere attribuita a un uomo.
Felix Mendelssohn, per esempio, pubblicò a proprio nome sei
opere composte da sua sorella Fanny Hensel; nel 2010 è stato
dimostrato che il manoscritto di un’altra sonata prima attribuita a lui
era in realtà di Fanny 73. Per anni i latinisti hanno discusso sulla vera
identità della poetessa romana Sulpicia: i suoi versi erano troppo
belli – e troppo sconci – per essere stati vergati da una mano
femminile 74. La pittrice olandese Judith Leyster fu una delle prime
donne ammesse in una corporazione di artisti: da viva aveva persino
goduto di una certa fama, ma dopo la morte (nel 1660) fu
completamente dimenticata e le sue opere furono attribuite al marito.
Nel 2017 sono stati esposti alcuni nuovi paesaggi di un’acquerellista
canadese dell’Ottocento, Caroline Louisa Daly: in precedenza erano
stati attribuiti a due uomini, uno dei quali non era nemmeno un
pittore 75.
Agli albori del XX secolo, l’ingegnera, fisica e inventrice inglese
Hertha Ayrton (premiata con la medaglia Hughes della Royal
Society) scriveva che gli errori sono «duri a morire, ma un errore che
attribuisce a un uomo ciò che in realtà è opera di una donna ha piú
vite di un gatto». Aveva ragione. I libri di testo continuano a parlare
di Thomas Hunt Morgan come dello scienziato che scoprí l’origine
cromosomica del sesso, trascurando sia il fatto che furono gli
esperimenti di Nettie Stevens sui vermi della farina a individuare il
fenomeno, sia il contenuto della corrispondenza tra i due scienziati,
dal quale risulta evidente che è Morgan a chiedere a Stevens di
spiegargli in dettaglio l’esperimento 76. E fu Cecilia Payne-
Gaposchkin, non il suo supervisore maschio, a scoprire che il sole è
fatto perlopiú di idrogeno 77. Ma forse l’esempio piú macroscopico di
questo tipo di ingiustizia è la storia di Rosalind Franklin, che grazie ai
suoi esperimenti con i raggi X e alle misurazioni della cella
elementare accertò che il Dna è composto da due catene piú una
spina dorsale zucchero-fosfato, permettendo a James Watson e
Francis Crick (che vinsero il Nobel e oggi sono famosi in tutto il
mondo) di «scoprire» il Dna.
Con ciò non intendo dire che la Bank of England abbia
intenzionalmente deciso di tagliar fuori le donne, ma soltanto che a
volte dietro un’apparente obiettività può nascondersi un alto tasso di
propensione al maschile: nel caso specifico, la diffusissima e ben
consolidata tendenza ad attribuire agli uomini il merito del lavoro
fatto dalle donne. La conseguenza è che per queste ultime diventa
molto piú difficile raggiungere i requisiti che la nostra banca centrale
reputa necessari per essere raffigurate su una banconota. Il
problema di fondo è che il merito è una questione di opinioni, e le
opinioni sono plasmate dalla cultura. In una cultura a misura di
maschio come la nostra, il pregiudizio nei confronti delle donne è
inevitabile. Addirittura predefinito.
Il caso della Bank of England e dei suoi criteri tutt’altro che
oggettivi dimostra inoltre come la preferenza per il maschile possa
essere al tempo stesso causa e conseguenza del vuoto dei dati di
genere. Poiché non tenevano conto dell’assenza di dati di genere
nella storiografia, le procedure con cui la banca selezionava i
personaggi storici da raffigurare sulle banconote erano tagliate a
pennello per il tipo di successo quasi sempre conseguito dai maschi.
Ciò vale persino per un criterio in apparenza innocuo come
l’assenza di giudizi controversi: per citare la famosa frase della
storiografa Laurel Thatcher Ulrich, «le donne ammodo raramente
fanno la Storia». E cosí la Bank of England, mancando di
compensare il blackout dei dati storiografici, finiva di fatto per
perpetuarlo.
Di valutazioni soggettive mascherate da giudizi obiettivi è pieno il
mondo. Nel 2015 una liceale inglese di nome Jesse McCabe notò
che delle sessantatre opere musicali menzionate nel suo programma
di studi non ce n’era nemmeno una che fosse stata scritta da una
donna. La commissione esaminatrice, interpellata in proposito, le
rispose cosí: «Data l’importanza secondaria delle compositrici nella
tradizione classica occidentale (come in tutte le altre, del resto), le
musiciste degne di considerazione sarebbero ben poche». È da
notare il modo in cui è stata formulata la risposta: poiché era
impossibile dire che non ci sono compositrici donne (la sola
International Encyclopedia of Women Composers ne elenca piú di
seimila), la commissione di esame si è appellata al canone, ovvero
al corpus delle opere considerate fondamentali nella genesi della
cultura occidentale.
L’opinione corrente è che il canone sia un derivato oggettivo dei
trionfi e degli insuccessi conseguiti sulla scena musicale, ma in
verità non è che l’ennesimo giudizio soggettivo formulato da una
società iniqua. Le donne sono state estromesse in blocco dal
canone perché nel corso della Storia quello che si considera
successo in campo musicale è sempre stato al di fuori della loro
portata. La loro musica, se mai gli era concesso di comporla, veniva
eseguita soltanto in audizioni private negli ambienti domestici. La
realizzazione di grandi opere orchestrali, cosí importanti per la
reputazione di un musicista, gli era vietata perché
«sconveniente» 78. Per le donne la musica era un «ornamento», non
una carriera 79. Non piú tardi del secolo scorso Elizabeth Maconchy
(la prima donna della Storia a presiedere l’associazione dei
compositori britannici) veniva frustrata nelle sue ambizioni da editori
come Leslie Boosey, che «da una donna accettavano solo
canzoncine».
E se anche le «canzoncine» che gli era permesso comporre
fossero state sufficienti a guadagnare loro un posto nel canone, le
donne non avrebbero comunque avuto le risorse o la posizione
sociale necessarie per mantenerlo. Nel saggio intitolato Note dal
silenzio, Anna Beer mette a confronto Barbara Strozzi, prolifica
compositrice seicentesca che «nel corso della sua vita riuscí a
stampare piú musica di ogni altro compositore del tempo» 80 con uno
dei suoi contemporanei maschi, Francesco Cavalli. Nella sua veste
di Maestro della cappella ducale di San Marco a Venezia (incarico a
quei tempi inaccessibile alle donne) Cavalli aveva soldi e prestigio
sufficienti a far sí che tutte le sue opere, comprese le molte ancora
non pubblicate, fossero custodite presso una biblioteca. Poteva
permettersi di pagare un archivista che se ne prendesse cura, e
persino dare disposizioni affinché dopo la sua dipartita le messe da
lui composte fossero eseguite negli anniversari della morte. Non
disponendo di altrettante risorse, Barbara Strozzi e la sua musica
erano destinate all’oblio: per questo dico che insistere sul valore di
un canone che esclude le donne equivale a perpetuare le ingiustizie
del passato.
L’esclusione delle donne dalle posizioni di potere, se da un lato ne
spiega l’apparente assenza dalla storia culturale, dall’altro viene
utilizzata come scusa per giustificare un insegnamento della Storia
che si concentra in modo quasi esclusivo sulle vite degli uomini. Nel
2013 si è scatenata in Inghilterra una vera e propria battaglia su
questo tema. Uno degli schieramenti in campo, capeggiato dall’allora
segretario di Stato per l’Istruzione Michael Gove, proponeva di
rinnovare i programmi scolastici per l’insegnamento della Storia
favorendo un «ritorno all’essenziale» 81. Come un’armata di novelli
Thomas Gradgrind, lui e i suoi accoliti sostenevano che agli scolari si
dovessero insegnare i «fatti» 82; che gli si dovessero fornire «le basi
della conoscenza».
Peccato che quell’insieme di «fatti» essenziali, di «fondamenti
dello scibile» che ogni scolaro inglese avrebbe dovuto apprendere,
contasse tra i suoi numerosi difetti la quasi totale assenza di figure
femminili. Nel programma di storia Livello due (per i bambini dai
sette agli undici anni) non compariva nessuna donna all’infuori delle
due regine Tudor. Nel Livello tre (tra gli undici e i quattordici anni) i
personaggi storici femminili erano soltanto cinque, quattro dei quali
(Florence Nightingale, Mary Seacole, George Eliot e Annie Besant)
raggruppati in un’unità didattica intitolata Il nuovo ruolo delle donne:
il che lasciava intendere, non a torto, che nel resto del programma si
sarebbe parlato solo di uomini.
Nel 2009 l’autorevole storico inglese David Starkey rimproverò ad
alcune sue colleghe di dedicare eccessiva attenzione alle mogli di
Enrico VIII, tralasciando la figura del monarca che, a suo dire,
avrebbe dovuto essere «al centro del palcoscenico» 83. Mostrando
disinteresse per la «soap opera» della vita personale di Enrico VIII,
Starkey rivolgeva la propria attenzione alle conseguenze politiche
del suo regno e sosteneva che «a raccontarla nel modo corretto, la
storia europea (esclusi gli ultimi cinque minuti) è essenzialmente una
storia di maschi bianchi, perché il potere è sempre stato nelle loro
mani, e qualsiasi altra teoria non è che una mistificazione».
L’affermazione di Starkey si basava sul presupposto che quanto
accade nella sfera privata sia irrilevante. Ma è davvero cosí?
Consideriamo per esempio la vita privata di Agnes Huntington, per
come ci viene rivelata dagli incartamenti processuali relativi ai suoi
due matrimoni 84. Scopriamo che Agnes aveva subito ripetute
violenze domestiche, e che il suo primo matrimonio era stato
avversato dalla famiglia di lei, contraria all’unione. La sera del 23
luglio 1345 Agnes fugge dalla casa del secondo marito, che l’ha
appena aggredita e che piú tardi si presenta armato di coltello a
casa del fratello di Agnes, per «convincerla» a tornare a casa.
Credete ancora che le violenze subite da una donna del XIV secolo
(e la sua impossibilità di autodeterminarsi) siano questioni private di
nessuna importanza? E se fossero invece l’ennesimo episodio di
una lunga storia di sudditanza femminile?
Tanto piú che la spartizione della vita in una sfera «pubblica» e
una «privata» sembra arbitraria e priva di un reale fondamento,
poiché pubblico e privato non fanno che contaminarsi a vicenda.
Katherine Edwards, un’insegnante di storia che ha svolto un ruolo di
primo piano nella lotta alle riforme di Gore, mi ha esposto i risultati di
alcune recenti ricerche sul ruolo delle donne ai tempi della Guerra di
secessione americana. Altro che irrilevanti! Secondo Edwards, «le
donne e la loro concezione del ruolo femminile hanno seriamente
nuociuto all’impresa bellica dei Confederati».
Le donne delle élite, sostiene Edwards, cresciute nel mito della
propria inettitudine, erano del tutto incapaci di lasciarsi alle spalle
un’idea del lavoro come tipica attività non-femminile: non riuscendo
a sostituirsi ai loro uomini nelle mansioni che costoro avevano
abbandonato per arruolarsi nell’esercito, scrivevano ai mariti
implorandoli di disertare e tornare a casa. Le donne delle classi
povere, dal canto loro, erano molto attive nella resistenza
organizzata alle politiche della Confederazione, «non foss’altro
perché morivano di fame e avevano necessità di nutrire le loro
famiglie». Dunque un’analisi della Guerra di secessione che non
tenga conto delle donne è due volte compromessa: non solo
dall’assenza di dati di genere, ma anche da una comprensione
lacunosa dei fenomeni che hanno portato alla nascita degli Stati
Uniti. Questo sí che è un fatto degno di attenzione.
La storia del genere umano. La storia dell’arte, della letteratura,
della musica. La storia dell’evoluzione. Ci sono state presentate
come fatti oggettivi, ma in realtà nascondono un inganno, giacché
sono distorte dalla mancata percezione di metà del genere umano, e
persino dalle stesse parole che vorrebbero esprimere quelle mezze
verità. Una mancata percezione che ha creato vuoti informativi, che
ha alterato ciò che pensiamo di sapere su noi stessi e alimentato il
mito dell’universalità maschile. E anche questo è un fatto.
Il mito dell’universalità maschile continua a condizionare
l’immagine che abbiamo di noi stesse, e se c’è una cosa che è
apparsa chiara negli ultimi anni è che il modo in cui ci vediamo non è
affatto un problema secondario. L’identità è una forza poderosa: se
scegliamo di ignorarla o travisarla, lo facciamo a nostro rischio e
pericolo. Per citare tre esempi recenti: Trump, la Brexit, l’Isis sono
fenomeni globali che hanno sconvolto l’ordine mondiale e sono
anche, nel profondo, fenomeni identitari. Ma l’ottenebrante
mascolinità camuffata da universalità senza distinzioni di genere ci
induce a travisare o ignorare la nostra identità.
Un tale con cui sono stata brevemente fidanzata tempo addietro
pretendeva di avere l’ultima parola nelle discussioni, accusandomi di
essere accecata dall’ideologia. In quanto femminista, diceva, ero
incapace di vedere il mondo in maniera oggettiva o razionale:
misuravo ogni cosa con il metro della mia ideologia. Quando gli
facevo notare che anche lui, in quanto «libertario» (cosí si definiva)
vedeva la realtà da una prospettiva ideologica, protestava sempre
con vivacità. Il suo era semplice, oggettivo buon senso: la «verità
assoluta» di cui parla Simone de Beauvoir. Il suo modo di vedere il
mondo era universale, mentre il mio femminismo era «di nicchia».
Ideologico.
Ho ripensato a quella persona nelle settimane successive alle
elezioni presidenziali statunitensi del 2016, quando tutti noi eravamo
sommersi da discorsi, editoriali e tweet (scritti perlopiú da maschi
bianchi) che condannavano a gran voce le cosiddette «politiche
identitarie». Dieci giorni dopo la vittoria di Donald Trump, il «New
York Times» fece uscire un articolo a firma di Mark Lilla, docente di
discipline umanistiche alla Columbia University, in cui si
rimproverava a Hillary Clinton di «aver fatto un esplicito appello
all’elettorato femminile, e in particolare alle donne afroamericane,
latinoamericane e al mondo Lgbt» 85. Cosí facendo, sosteneva Lilla,
Clinton aveva emarginato «la classe operaia bianca». Nel
presentare la «retorica della diversità» della candidata democratica
come incompatibile con «una prospettiva di largo respiro», Lilla
tracciava un parallelo tra quella visione «angusta» (è ovvio che il
professore aveva ben presente la condanna di Jane Austen
pronunciata da V. S. Naipaul) e la mentalità di molti suoi studenti. Gli
universitari di oggi, diceva, erano talmente condizionati a pensare in
termini di diversità «da avere ben poco da dire – il che è
sconcertante – su temi immortali come la società divisa in classi, la
guerra, l’economia e il bene comune».
Due giorni dopo la pubblicazione di quell’articolo, Bernie Sanders,
ex candidato democratico alle presidenziali, partecipò a un evento di
presentazione del suo libro 86 e dichiarò quanto segue: «Non basta
che qualcuno dica: “Sono una donna! Votate per me!”» 87. E mentre
Paul Kelly, direttore del quotidiano «The Australian», sosteneva che
la vittoria di Trump fosse «una rivolta contro le politiche
identitarie» 88, il parlamentare laburista inglese Richard Burgon
sentenziava via Twitter che l’affermazione di Trump era «quel che
succede quando i partiti di centrosinistra rinunciano ai progetti di
trasformazione del sistema economico per affidarsi alle politiche
identitarie» 89.
Sarebbe stato Simon Jenkins del «Guardian» a concludere
l’annus horribilis 2016 con una diatriba contro gli «apostoli
dell’identità», che oltrepassando ogni limite nella loro difesa delle
minoranze avevano di fatto ucciso il liberalismo. «Non appartengo
ad alcuna tribú», scriveva Jenkins, affermando di non potersi «unire
all’isteria dilagante». Il suo sogno era «far rivivere la gloriosa
rivoluzione del 1832» che aveva esteso il diritto di voto a qualche
centinaio di benestanti (ovviamente maschi) 90. Bei tempi, come no.
I maschi bianchi di cui sopra la pensavano allo stesso modo su
alcune questioni, vale a dire:

1. le politiche identitarie sono tali fintantoché riguardano l’etnia e il


sesso;
2. etnia e sesso non hanno niente a che fare con i temi di piú
ampia portata come «l’economia»;
3. appellarsi in modo specifico agli interessi dell’elettorato
femminile e di colore è sintomo di una mentalità «angusta»;
4. per «classe operaia» si intende l’insieme degli operai maschi
bianchi.

Peccato che secondo i dati del Bureau of Labor Statistics degli


Stati Uniti gli occupati nel settore dell’estrazione del carbone, che nel
periodo delle elezioni presidenziali erano diventati la classe operaia
per antonomasia, siano in tutto 53 420 (ovviamente maschi), con
una retribuzione media annua di 59 380 dollari 91, a fronte di ben 924
640 impieghi nel settore delle pulizie, affidati a una forza lavoro in
maggioranza femminile con un reddito annuo medio pari a 21 820
dollari 92. Quale sarebbe, dunque, la vera classe operaia?
E poi, naturalmente, quei maschi bianchi avevano in comune il
fatto di essere maschi bianchi. Insisto su questo punto perché è
proprio il loro essere maschi bianchi a fargli proclamare a gran voce
l’assurdità logica secondo cui l’identità è una condizione che
riguarda soltanto chi non è né maschio, né bianco. Quando si è
abituati da tutta una vita a dare per scontato il fatto di essere maschi
e bianchi, è comprensibile che ci si possa dimenticare che anche
quella è un’identità.
Nel 1977 Pierre Bourdieu scrisse che «ciò che è essenziale
rimane implicito perché è indiscutibile: la tradizione rimane silente,
non da ultimo sul suo essere una tradizione» 93. La condizione del
maschio bianco è silenziosa proprio perché non ha bisogno di
essere espressa. L’essere bianco e l’essere maschio sono dati
impliciti. Non vanno messi in discussione, perché sono predefiniti.
Questa è l’inevitabile realtà che attende chiunque abbia un’identità
non predefinita, chiunque abbia esigenze e punti di vista di cui è
normale dimenticarsi. Chiunque sia abituato a combattere con un
mondo non progettato per la sua identità e le sue esigenze.
Quando penso al modo in cui bianchezza e maschilità sono dati
per scontati mi torna sempre in mente il mio fidanzato di un tempo (e
va bene, i miei fidanzati di un tempo), perché è da qui che nasce la
fede mal riposta nell’obiettività, nella razionalità, in quello che
Catharine MacKinnon chiama il «non-punto-di-vista» del maschio
bianco. Quella prospettiva non è dichiarata come maschile e bianca
per la semplice ragione che non ce n’è bisogno: è la norma, e in
quanto tale la si presume non soggettiva. Quella norma è oggettiva.
Addirittura universale.
È una presunzione infondata. La verità è che «maschio e bianco»
è un’identità, né piú e né meno che «nera e femmina». Da un’analisi
delle opinioni e delle preferenze dell’elettorato bianco americano è
risultato che l’affermazione elettorale di Trump sarebbe frutto di una
«politica dell’identità bianca» che, secondo gli autori della ricerca,
«tenta di proteggere attraverso il voto gli interessi collettivi degli
elettori bianchi» 94. E l’identità bianca, in conclusione, «è un
importante fattore predittivo della preferenza per Trump». Lo stesso
dicasi per l’identità maschile. Altri ricercatori hanno scoperto che «gli
elettori piú ostili nei confronti delle donne sono anche quelli piú
propensi a votare per Trump» 95. Nella graduatoria degli elementi
che lasciavano presagire un voto a favore dell’attuale presidente, il
pregiudizio sessuale era in effetti poco al di sotto dell’affiliazione al
Partito repubblicano. E l’unica ragione per cui questo dato ci sembra
sorprendente è che ormai siamo assuefatti al mito dell’universalità
maschile.
La presunzione che ciò che è maschio sia universale è una diretta
conseguenza del vuoto dei dati di genere. Bianchezza e maschilità
sono date per scontate per la semplice ragione che la maggior parte
delle altre identità non viene mai presa in considerazione. D’altro
canto, però, l’universalità maschile è anche una causa del vuoto dei
dati di genere: poiché le donne non sono né viste né ricordate,
poiché i dati declinati al maschile formano gran parte del nostro
sapere, ciò che è maschile finisce per essere considerato universale
e le donne, ovvero l’altra metà della popolazione globale, assumono
il ruolo di minoranza: una minoranza con un’identità di nicchia e un
punto di vista soggettivo. Il loro destino è di essere dimenticabili,
ignorabili, eliminabili: dalla cultura, dalla Storia, dai repertori di dati. E
cosí diventano invisibili.
Invisibili racconta quel che succede quando ci si dimentica di
prendere in considerazione metà del genere umano. Denuncia i
danni provocati dall’assenza di dati di genere lungo il corso piú o
meno normale della vita di ogni donna. Pianificazione urbana,
politica, lavoro: questi sono alcuni dei settori dove il danno è piú
evidente. Per non parlare della sorte che, in un mondo costruito su
dati maschili, attende le donne a cui le cose vanno male. Le donne
che si ammalano, o che perdono la casa in seguito a
un’inondazione, o che da quella casa devono allontanarsi per colpa
di una guerra.
Ma in questo libro c’è anche molta speranza, perché quando i
corpi e le voci delle donne riescono a uscire dall’ombra, le cose
cambiano. Le lacune si colmano. Nella sua essenza piú profonda,
Invisibili è anche un appello al cambiamento. Per troppo tempo le
donne sono state considerate un’aberrazione rispetto alla norma, e
come tali costrette all’invisibilità. È ora di cambiare prospettiva.
È ora che le donne diventino visibili.
Parte prima
Vita quotidiana
I.
Spazzare la neve è sessista?

È cominciato tutto con uno scherzo. Nel 2011 la giunta comunale


della cittadina svedese di Karlskoga stava sudando sotto il peso di
una normativa sulla parità di genere che la costringeva a
riesaminare ogni provvedimento in quell’ottica. Mentre le delibere
degli amministratori venivano soppesate col bilancino, un improvvido
funzionario pensò bene di scherzare sul fatto che «quelli fissati con
la parità dei sessi» avrebbero di sicuro chiuso un occhio sul piano
neve. Purtroppo per lui, il commento arrivò alle orecchie di «quelli
fissati con la parità dei sessi», che subito si domandarono: si può
fare del sessismo anche spazzando la neve?
Come avviene quasi dappertutto, i servizi di sgombero neve di
Karlskoga erano organizzati in modo da dare la precedenza alla
ripulitura delle strade piú trafficate, lasciando per ultimi i marciapiedi
e le piste ciclabili. Ma l’organizzazione del servizio aveva effetti
diversi sui cittadini, a seconda che fossero uomini e donne, perché
uomini e donne hanno modalità di spostamento diverse.
Purtroppo non disponiamo dei dati disaggregati per sesso per
ogni Paese, tuttavia le informazioni che abbiamo ci dimostrano
senza ombra di dubbio che le donne tendono a spostarsi a piedi o
con i mezzi pubblici molto piú di quanto non facciano gli uomini 1. In
Francia l’utenza dei servizi di trasporto pubblico è composta per due
terzi da donne; a Philadelphia e a Chicago le percentuali sono
rispettivamente pari al sessantaquattro 2 e sessantadue 3. Gli uomini
preferiscono prendere l’auto 4, e quando in famiglia c’è una sola
automobile ne dispongono in via preferenziale 5, persino in
quell’utopia femminista che è la Svezia 6.
Le differenze non si fermano alla scelta del mezzo di trasporto,
ma riguardano anche i motivi per cui ci si sposta. Gli itinerari degli
uomini tendono a essere semplici: dalla periferia al centro e
viceversa, due volte al giorno. Le donne, invece, seguono traiettorie
piú complicate. Come è noto, in tutto il mondo il settantacinque per
cento del lavoro di cura non retribuito ricade sulle spalle delle donne,
e ciò condiziona le loro esigenze di spostamento. Una donna
potrebbe, per esempio, lasciare i bambini a scuola prima di andare
al lavoro, oppure accompagnare un parente anziano dal medico o
fare un po’ di spesa prima di rientrare a casa. È quello che gli esperti
chiamano trip-chaining: una modalità di viaggio comune alle donne
di tutto il pianeta e composta da piú tappe concatenate.
A Londra le donne hanno il triplo di probabilità di accompagnare i
figli a scuola rispetto agli uomini 7, e il venticinque per cento di
probabilità in piú di fare spostamenti a tappe concatenate 8; la
percentuale sale al trentanove se in famiglia c’è un bambino al di
sopra dei nove anni. Le disparità tra uomini e donne in termini di trip-
chaining sono comuni a tutte le nazioni europee, e nelle famiglie
composte da due adulti lavoratori le donne hanno il doppio delle
probabilità di dover includere nel loro itinerario quotidiano due
passaggi a scuola, per lasciare e riprendere i bambini. Il divario è
maggiore nelle famiglie con piú figli in tenera età: una lavoratrice
madre di un bambino al di sotto dei cinque anni vedrà aumentare del
cinquantaquattro per cento i suoi spostamenti a tappe concatenate;
per un lavoratore nella stessa condizione, l’incremento sarà solo del
diciannove per cento 9.
Alla luce dei diversi modelli di mobilità, diventa chiaro come a
Karlskoga i servizi di viabilità invernale, benché in apparenza
inappuntabili, non rispettassero affatto la parità dei sessi: gli
amministratori rimediarono all’errore invertendo la sequenza delle
operazioni in modo da dare priorità ai pedoni e agli utenti del servizio
pubblico. Dopo tutto il costo del piano neve non sarebbe cambiato, e
guidare un’auto, anche con sette o otto centimetri di neve, è
comunque piú facile che condurre un passeggino (o una sedia a
rotelle, o una bicicletta) su un marciapiede altrettanto innevato.
Ciò che nessuno si aspettava è che la nuova organizzazione del
servizio finisse addirittura per generare risparmi. Dal 1985 le aree
piú settentrionali della Svezia raccolgono dati sui ricoveri ospedalieri
dovuti a incidenti, e secondo le statistiche la categoria piú
rappresentata è quella dei pedoni: sulle strade sdrucciolevoli o
ghiacciate, chi va a piedi rischia di farsi male tre volte piú spesso
degli automobilisti 10, e sono sempre i pedoni ad assorbire metà del
tempo ospedaliero complessivo dedicato alla cura degli infortuni
stradali 11. La maggior parte di loro sono donne. Uno studio dei
sinistri che hanno coinvolto uno o piú pedoni sul territorio urbano di
Umeå, in Svezia, ha evidenziato che il settantanove per cento degli
incidenti si verifica nei mesi invernali, e che il sessantanove per
cento dei pedoni che si infortunano da soli (cioè senza che altri ne
abbiano colpa) è donna. Due terzi di loro si fanno male scivolando e
cadendo su superfici ghiacciate o coperte di neve, e nel quarantotto
per cento dei casi le conseguenze sono da modeste a gravi: perlopiú
fratture e slogature. Ma gli infortuni delle donne tendono a essere piú
seri.
Un secondo studio quinquennale per la Scania (un’altra contea
della Svezia, questa volta a sud) ha evidenziato tendenze molto
simili e calcolato i costi di quel genere di infortuni in termini di spesa
ospedaliera e mancata produttività sul lavoro 12. Stando alle stime
dei ricercatori, in un solo inverno le cadute dei pedoni avrebbero un
costo complessivo di trentasei milioni di corone svedesi, pari a 3,4
milioni di euro. E può anche darsi che la stima sia troppo prudente:
non tutti gli ospedali forniscono dati al registro nazionale degli
incidenti stradali, e il calcolo non comprende le persone che si
rivolgono al proprio medico di base o preferiscono curarsi da sé. In
sostanza, tanto la spesa sanitaria quanto la perdita di produttività
potrebbero essere ancora maggiori.
Volendo comunque considerare realistica una stima che si
immagina prudente, il risultato è che gli infortuni pedonali sulle
superfici ghiacciate costano il doppio dei servizi di viabilità invernale.
A Solna, nei pressi di Stoccolma, la proporzione è addirittura di uno
a tre, mentre altre fonti sostengono che sia ancora maggiore 13.
Quale che sia la differenza tra le due voci di spesa, è chiaro che
prevenire gli infortuni organizzando piani neve che diano la priorità ai
pedoni è, in termini economici, un’operazione del tutto sensata.
C’è una breve appendice a questo racconto d’inverno: è stata
scritta nel 2016, nella blogosfera della destra alternativa 14.
Quell’anno le autorità di Stoccolma ebbero qualche difficoltà
nell’organizzare il passaggio a un piano di sgombero neve rispettoso
della parità tra i sessi: dopo una nevicata insolitamente copiosa,
molti pendolari rimasero confinati in casa perché le strade e i
marciapiedi erano impraticabili. Peccato che, nella fretta di celebrare
il fiasco di una politica femminista, i commentatori delle piattaforme
digitali si siano «dimenticati» di dire che a Karlskoga il sistema
funzionava benissimo già da tre anni.
Ci fu anche qualche imprecisione nel racconto. Secondo il sito
Heat Street 15 la prova del fallimento dell’iniziativa stava nel fatto che
«gli infortuni che necessitavano di cure ospedaliere» fossero
«aumentati a dismisura»: non si diceva però che l’aumento aveva
interessato proprio gli infortuni pedonali 16: dunque il problema non
stava nell’aver dato la priorità alle esigenze dei pedoni, bensí
nell’inefficienza complessiva del servizio di sgombero neve.
Inefficienza che avrà creato qualche problema agli automobilisti,
ovvio, ma anche al resto della popolazione.
L’inverno successivo le cose sono andate decisamente meglio:
parlando con Daniel Helldén, funzionario dell’assessorato al Traffico
di Stoccolma, sono venuta a sapere che sui duecento chilometri di
piste ciclabili e pedonabili della città, oggi servite da speciali
macchine sgombraneve «che le lasciano pulite come se fosse
estate», gli incidenti si sono ridotti del cinquanta per cento. «Quindi
l’effetto è molto positivo».

Il vecchio piano neve della città di Karlskoga non era stato


organizzato apposta per avvantaggiare gli uomini a scapito delle
donne. Come molti degli esempi in questo libro, era il risultato di
un’assenza di dati di genere: nel caso specifico, di un’assenza di
prospettiva. Gli uomini (perché di certo erano uomini) che avevano
messo a punto quel piano conoscevano le proprie modalità di
spostamento e in base a quelle l’avevano progettato. Non è che
volessero escludere di proposito le donne: semplicemente, non
hanno pensato a loro. Non hanno pensato di chiedersi se per caso
avessero esigenze diverse. L’assenza di dati era causata dal
mancato coinvolgimento delle donne durante la fase di progettazione
del servizio.
Secondo Inés Sánchez de Madariaga, docente di urbanistica alla
Universidad Politécnica di Madrid, il problema è piú ampio e riguarda
il trasporto pubblico nel suo complesso. Il settore è, a suo dire, «in
mano ai maschi»: il ministero dei Trasporti spagnolo «ha, tanto negli
incarichi tecnici quanto in quelli politici, una quota di personale
femminile inferiore a tutti gli altri ministeri. E le sue decisioni sono
condizionate dalle esperienze individuali di chi ci lavora».
Nel complesso, la pianificazione dei servizi di trasporto pubblico
tende a privilegiare «la mobilità connessa al lavoro». Se gli orari di
lavoro sono uguali per tutti ci saranno fasce orarie di traffico intenso,
e perciò bisogna conoscere la capacità massima della rete
infrastrutturale. «Quindi la pianificazione in base alle ore di punta ha
una giustificazione di ordine tecnico», ammette Sánchez de
Madariaga. Il che tuttavia non spiega perché la mobilità femminile
(che tendenzialmente non coincide con le ore di punta, e dunque
non influisce sulla capacità massima dei sistemi) sia cosí trascurata.
Alcune ricerche mettono in luce una preferenza verso le modalità
di spostamento tipiche della popolazione maschile. La Commissione
sulla condizione femminile delle Nazioni unite ha denunciato
l’esistenza di uno «squilibrio a favore dei maschi» nella
pianificazione dei servizi pubblici, e una mancata attenzione alla
parità fra i sessi «nella configurazione dei sistemi» 17. Nel 2014 un
rapporto dell’Unione europea sul grado di soddisfazione degli utenti
dei trasporti pubblici, pur denunciando l’incapacità di servire in modo
adeguato l’utenza femminile, ha definito «normali» le modalità di
spostamento maschili 18. Ancor piú irritante è l’uso di termini come
«mobilità obbligata», che secondo Sánchez de Madariaga è una
formuletta-jolly usata per indicare «tutti gli spostamenti dettati da
esigenze di lavoro e di studio» 19. Come se le donne che viaggiano
per svolgere un lavoro di cura fossero delle dilettanti perditempo.
La spesa pubblica è un altro ambito in cui la disparità si mostra
con chiarezza. Come faceva notare Stephen Bush, corrispondente
politico del «New Statesman», in un suo articolo del 2017, gli ultimi
due cancellieri dello scacchiere inglesi hanno strombazzato ai
quattro venti la retorica dell’austerità in tutte le voci di bilancio con la
sola eccezione, a quanto pare, della rete stradale nazionale, per la
quale hanno speso con generosità 20. In una fase di generale
abbassamento del tenore di vita non mancavano certo i settori in cui
investire, tanto piú che lo stato delle nostre infrastrutture è tutto
sommato accettabile: eppure chissà come, in entrambi i governi,
entrambi i cancellieri non hanno esitato ad allentare i cordoni della
borsa. Nel frattempo i comuni inglesi (il settanta per cento, secondo
dati del 2014) riducevano la spesa per i trasporti pubblici, che sono il
mezzo di spostamento con la piú ampia utenza femminile: solo nel
2013 il taglio è stato di diciannove milioni di sterline, a fronte di un
costante incremento delle tariffe 21.
I politici inglesi, va detto, non sono i soli ad aver commesso quel
peccato. Secondo un rapporto pubblicato nel 2007, il settantatre per
cento dei finanziamenti erogati dalla Banca mondiale nel settore dei
trasporti è destinato alla costruzione di strade e autostrade, perlopiú
rurali o interurbane. E anche quando la viabilità è il settore giusto in
cui investire, la scelta di dove costruire le nuove arterie può non
essere neutrale. A dimostrazione di quanto è importante che i
progetti di sviluppo siano basati su dati disaggregati per sesso, un
altro rapporto della Banca mondiale ci mette al corrente della
controversia su un progetto di sviluppo infrastrutturale che
interessava una piccola comunità del Lesotho 22. Le donne volevano
che la strada servisse a «facilitare gli spostamenti verso il villaggio
piú vicino, sede di alcuni servizi fondamentali»; gli uomini, invece,
insistevano per farla andare nella direzione opposta, «per poter
raggiungere piú facilmente, a cavallo, la città piú vicina e il
mercato» 23.
Il gender gap dei dati sulla mobilità si evidenzia anche nella
deliberata tendenza di molti studi sull’argomento a trascurare gli
spostamenti brevi a piedi e con altri mezzi «non motorizzati» 24. I
quali, secondo Sánchez de Madariaga, «non sono considerati
rilevanti nella definizione delle politiche infrastrutturali». Dato che le
donne camminano piú a lungo e per tratti maggiori rispetto agli
uomini (sia per le incombenze connesse al lavoro di cura, sia perché
hanno meno disponibilità economica) è inevitabile che la
marginalizzazione della mobilità non motorizzata si ripercuota
maggiormente su di loro. Ignorare gli spostamenti brevi a piedi,
inoltre, aggrava ancor di piú il vuoto di dati sul trip-chaining, poiché
la mobilità a tappe concatenate comporta di solito almeno una tratta
a piedi. In sostanza, dire che le tratte pedonali brevi sono irrilevanti
ai fini delle politiche infrastrutturali è quasi come dire che le donne
nel loro complesso sono irrilevanti ai fini di quelle politiche.
Ma non è cosí. E se ancora non bastasse, gli uomini viaggiano da
soli, mentre le donne viaggiano zavorrate – da buste della spesa,
passeggini, bambini o familiari anziani 25. Uno studio del 2015 sulla
mobilità a Londra ha stabilito che «il numero delle donne che si
dichiarano soddisfatte dello stato delle strade e dei marciapiedi è
inferiore in misura significativa a quello degli uomini che esprimono il
medesimo giudizio»: oltre a camminare piú degli uomini, le donne
risentono in misura maggiore delle cattive condizioni dell’asfalto
pubblico, perché hanno piú probabilità di doverci spingere sopra un
passeggino 26. Marciapiedi stretti, accidentati e pieni di crepe,
ingombri di arredi urbani mal collocati; gradini ripidi e stretti in
numerosi punti di transito: tutto ciò rende «assai difficile» spostarsi in
città con un passeggino, dice Sánchez de Madariaga, al punto che in
alcuni casi i tempi di percorrenza si quadruplicano. «E qual è
l’alternativa per le madri di bambini piccoli?»

Privilegiare le auto a scapito dei pedoni non è una scelta


obbligata. Se a Vienna il sessanta per cento degli spostamenti
avviene a piedi è anche perché le autorità cittadine prendono sul
serio le politiche di genere. Eva Kail, che sin dagli anni Novanta
dirige questo settore della macchina amministrativa, ha raccolto una
mole di dati sul traffico pedonale e fatto adottare le seguenti misure:
spostamento di alcuni attraversamenti e miglioramento della
segnaletica; creazione di quaranta nuovi passaggi pedonali;
sostituzione dei gradini con rampe comode per passeggini e
biciclette; allargamento di circa mille metri di marciapiedi in varie
zone della città; potenziamento dell’illuminazione sui marciapiedi 27.
Anche la sindaca di Barcellona, Ada Colau, sembra altrettanto
decisa a restituire la città ai pedoni: ha inventato le superilles, le
isole urbanistiche: blocchi di nove isolati aperti solo al traffico locale
a bassissima velocità, al cui interno automobili e pedoni hanno pari
importanza. Un altro esempio di cambiamenti realizzabili con facilità
e vantaggiosi per la mobilità femminile ci viene da Londra, dove
l’azienda di trasporti pubblici ha finalmente introdotto nel 2016 i
biglietti a validità oraria (la cosiddetta hopper fare) su tutti gli autobus
cittadini 28. A differenza dei vecchi biglietti validi per una sola corsa,
la nuova tariffa oraria permette di fare piú viaggi entro il tempo limite
di un’ora. Il sistema è gradito soprattutto all’utenza femminile, che
rappresenta il cinquantasette per cento del totale: le donne
preferiscono i mezzi pubblici perché sono piú economici e piú adatti
agli spostamenti con i bambini, ma erano alquanto svantaggiate dal
vecchio sistema a biglietti singoli, non soltanto a causa del trip-
chaining ma anche perché in precedenza ogni cambio di linea
comportava il pagamento di un nuovo biglietto.
La necessità di fare trasbordi, cioè utilizzare piú linee per arrivare
a destinazione, dipende dal fatto che il sistema di trasporti pubblici
londinese è di tipo radiale 29: la maggior parte dei percorsi conduce a
un’unica area identificata come «centro». Ci sono poi alcune linee
«circolari» la cui traiettoria aggira quella stessa area, sicché nel
complesso l’intera rete somiglia a una ragnatela: è lo schema ideale
per i viaggiatori che vogliono soltanto andare dalla periferia al centro
e viceversa, ma per tutti gli altri è alquanto scomodo. E la linea di
separazione tra chi lo considera comodo e chi è del parere opposto
coincide abbastanza precisamente con la suddivisione dell’utenza in
maschi e femmine.
Benché senza dubbio positive, soluzioni come la hopper fare dei
mezzi pubblici londinesi non sono ancora la norma. Se negli Stati
Uniti alcune città hanno abolito il biglietto da una corsa (Los Angeles,
per esempio, l’ha fatto nel 2014) 30, a Chicago i cambi di linea si
pagano ancora 31, il che sembra tanto piú irragionevole se si
considera che da uno studio del 2016 il sistema dei trasporti pubblici
di Chicago risulta particolarmente prevenuto verso la mobilità tipica
dell’utenza femminile 32. Partendo da una comparazione tra
Uberpool (la versione car-sharing della famosa app per il trasporto
automobilistico privato) e i mezzi pubblici di Chicago, lo studio
evidenziava che negli spostamenti dalla periferia al centro la
differenza in termini di tempo tra Uberpool e il trasporto pubblico era
trascurabile: sei minuti in media. Ma per gli spostamenti da un
quartiere residenziale all’altro (tipici delle donne che svolgono lavori
informali o hanno compiti di cura) lo scarto aumentava di molto:
ventotto minuti di viaggio con Uberpool equivalevano, con i mezzi
pubblici e sullo stesso tragitto, a ben quarantasette minuti.
Si sa che le giornate lavorative delle donne sono piú lunghe di
quelle dei maschi perché uniscono lavoro retribuito e non retribuito:
in una situazione di cronica mancanza di tempo, Uberpool potrebbe
sembrare una soluzione interessante 33. Il problema è che costa il
triplo dei mezzi pubblici, e le donne sono anche piú povere degli
uomini: hanno meno accesso al patrimonio familiare, e la disparità
salariale di genere (pari al 37,8 per cento su scala mondiale), varia
enormemente da Paese a Paese; 18,1 nel Regno Unito, 23 in
Australia, 59,6 in Angola 34.
Dietro tutto questo c’è senz’altro un problema di risorse, ma
anche, in una certa misura, di atteggiamenti e priorità. Il McKinsey
Global Institute ha calcolato che il lavoro di cura delle donne
contribuisce per circa diecimila miliardi di dollari al Pil annuo
mondiale 35, ma nonostante ciò si continua a credere che la mobilità
connessa al lavoro retribuito sia prioritaria rispetto alla mobilità di chi
compie a titolo gratuito un lavoro di cura 36. Ho chiesto a Inés
Sánchez de Madariaga se esista una giustificazione economica nel
fornire, in grandi città come Londra o Madrid, servizi di trasporto
pubblico funzionali alle esigenze delle lavoratrici con responsabilità
di cura. Mi ha risposto senza esitare: «Certo che sí. Il lavoro
femminile dà un grande contributo all’economia: ogni incremento
percentuale dell’occupazione femminile determina un incremento
ancora maggiore del Pil. Ma perché le donne possano lavorare c’è
bisogno di una città che sostenga la loro occupazione: uno dei modi
piú efficaci per farlo consiste nel progettare sistemi di trasporto che
sappiano conciliare il lavoro non retribuito con la necessità di
arrivare puntuali in ufficio.
Quando si tratta di infrastrutture fisse come treni e metropolitane,
non c’è un modo facile o economico di risolvere quest’annoso
problema, sostiene Sánchez de Madariaga. «Certo, si può migliorare
l’accessibilità», ma a parte questo non c’è molto altro. Invece gli
autobus sono piú flessibili: percorsi e fermate possono e devono
essere «modificati e spostati in base alle esigenze dell’utenza». È
esattamente quel che ha fatto Ada Colau a Barcellona, inaugurando
una nuova rete di percorsi ortogonali (piú simile a una griglia che a
una ragnatela, e quindi piú adatta al trip-chaining). Inoltre, secondo
Sánchez de Madariaga, i trasporti pubblici dovrebbero anche offrire
«servizi intermedi, qualcosa che stia a metà tra un’automobile e un
autobus. In Messico esistono i cosiddetti peseros, piccoli autobus da
una dozzina di posti. E ci sono anche i taxi in condivisione. È un
sistema molto flessibile, e io credo che potrebbe e dovrebbe essere
potenziato per venire incontro alla mobilità femminile».
L’assenza di dati di genere nella progettazione dei servizi di
trasporto nasce in gran parte dal fatto che i responsabili del settore,
essendo in soprattutto maschi, non arrivano a immaginare che le
donne abbiano esigenze diverse. C’è poi un’altra ragione, meno
giustificabile: le donne sono… be’, insomma, troppo difficili da
calcolare. «Le nostre modalità di spostamento sono molto piú
complesse», spiega Inés Sánchez de Madariaga, autrice tra l’altro di
uno studio sulla mobilità femminile connessa al lavoro di cura. E
tutto sommato le aziende di trasporto pubblico sembrano poco
interessate a un’utenza con abitudini cosí bizzarre. Anastasia
Loukaitou-Sideris, docente di urbanistica all’Università della
California a Los Angeles, sostiene che «spesso gli operatori del
trasporto pubblico sembrano convinti che tutti i cittadini abbiano le
stesse esigenze. Donne o uomini, per loro fa lo stesso. Ma non è
affatto cosí, – dice. – Se scambi due parole con le viaggiatrici vedrai
emergere una quantità enorme di bisogni di cui nessuno si occupa».
Come se non bastasse, gli enti di trasporto pubblico esasperano
la carenza di dati di genere evitando di disaggregare per sesso le
statistiche relative all’utenza (che in realtà, date le diverse modalità
di utilizzazione dei servizi, sono già disaggregate per sesso). La
Relazione statistica sui trasporti 37 presentata ogni anno dal
competente ministero britannico contiene una sola tabella che
differenzia tra maschi e femmine, ed è quella relativa agli esami di
guida (che nel 2015/16 sono stati superati dal quarantaquattro per
cento delle donne e dal cinquantuno per cento degli uomini); c’è poi
un link a una pagina ufficiale in cui si presentano i risultati di uno
studio sulle distanze medie percorse a piedi da uomini e donne, ma
nient’altro. La relazione statistica del ministero dei Trasporti non ha
nulla da dire, per esempio, sulla distribuzione per sesso dei cittadini
che viaggiano su autobus e treni: eppure un dato del genere
sarebbe indispensabile alla progettazione di un sistema di trasporti
pubblici che serva nel migliore dei modi i suoi passeggeri.
Anche in India i dati sui trasporti pubblici non sono disaggregati
per sesso 38, mentre in Europa un recente rapporto dell’Ue ha
deplorato la scarsa attenzione ai dati di genere nelle statistiche sui
trasporti, affermando che «nella maggior parte delle nazioni europee
le informazioni di questo tipo non sono raccolte raccolta in modo
sistematico» 39. Il Rapporto annuale sulle statistiche dei trasporti
statunitensi, infine, segue l’esempio della Gran Bretagna e si ricorda
delle donne soltanto quando fornisce dati sulle patenti di guida e
sulle distanze percorse a piedi 40. Nel documento statunitense, però,
ci sono solo vaghe affermazioni e nessun dato numerico utile.
C’è poi un altro vuoto di dati, meno appariscente, ma sempre
gentilmente offerto dagli enti di trasporto pubblico di ogni area del
pianeta: tutti gli spostamenti per motivi di lavoro retribuito vengono
quasi sempre raggruppati in un’unica grande categoria, mentre gli
spostamenti resi necessari dal lavoro di cura sono suddivisi in
svariate tipologie, alcune delle quali, come ad esempio «acquisti»,
rischiano di confonderli con le attività del tempo libero. In sostanza,
potremmo dire che gli enti di trasporto riescono a non disaggregare
anche per interposta persona. Da un’indagine sulla mobilità
connessa al lavoro di cura condotta da Inés Sánchez de Madariaga
sappiamo invece che a Madrid il numero di tratte percorse a quello
scopo risulta di poco inferiore agli spostamenti per motivi di lavoro.
Dal successivo raffinamento dei dati scopriamo poi che il lavoro di
cura è «l’unica e principale finalità dei movimenti delle donne,
proprio come il lavoro monetizzato per gli uomini». Se tutti gli studi
sulla mobilità seguissero quest’esempio, conclude la studiosa, i
responsabili della pianificazione sarebbero obbligati a trattare la
mobilità della cura con la stessa attenzione che dedicano a quella
lavorativa.

Ma se davvero vogliamo progettare dei sistemi di trasporto


pubblico che rispondano alle necessità delle donne come a quelle
degli uomini, ammonisce Sánchez de Madariaga, non è il caso di
concentrarsi soltanto sulle infrastrutture di trasporto. La mobilità
femminile ha bisogno di una politica di pianificazione globale, e in
particolare della formazione di aree a uso misto. Le quali però vanno
contro la logica della pianificazione tradizionale, che tende a
suddividere gli spazi urbani in aree esclusivamente commerciali,
residenziali o industriali secondo il principio dell’azzonamento.
È un criterio che risale ai tempi antichi, quando per esempio si
differenziavano le attività consentite all’interno o all’esterno della
cinta muraria; solo la Rivoluzione industriale, tuttavia, ha visto
emergere quella separazione esplicita che, in virtú di appositi
regolamenti, isola le parti di città in cui si abita da quelle in cui si
lavora. Una semplificazione eccessiva, che ha introdotto la disparità
di genere nel tessuto urbano delle nostre città.
I regolamenti urbanistici si fondano sulle esigenze, considerate
prioritarie, dei maschi eterosessuali sposati che sostentano la
famiglia con il proprio lavoro uscendo al mattino presto per andare in
ufficio o in fabbrica e la sera tornano alle loro casette nei sobborghi
per godersi il meritato riposo. Questa è, spiega Sánchez de
Madariaga, «la realtà personale di quanti hanno poteri decisionali in
quel settore», e l’idea che la casa sia fondamentalmente un luogo
dove trascorrere il tempo libero «è tuttora alla base delle politiche di
pianificazione dei trasporti in tutto il mondo» 41.
Ma se per chi si occupa della pianificazione la casa è «una pausa
dal lavoro» e «un luogo di riposo», per la maggior parte delle donne
la realtà è ben diversa. Nel complesso le donne si sobbarcano una
quota di lavoro non retribuito tre volte superiore a quella degli
uomini 42. Il Fondo monetario internazionale fornisce un dato piú
disaggregato: rispetto ai maschi, le donne dedicano il doppio del
tempo alla cura dei figli e il quadruplo alla cura della casa 43. La
Banca mondiale ha invece scoperto che le donne di Katebe, un
villaggio nel cuore dell’Uganda, dedicano ogni giorno quasi quindici
ore a una serie di incombenze che comprendono lavoro domestico,
cura dei figli, lavoro nei campi, preparazione dei pasti,
approvvigionamento di acqua e combustibile; alla fine di tutto ciò
possono godersi la bellezza di trenta minuti di tempo libero 44.
Invece gli uomini, che dedicano un’ora in meno al lavoro nei campi,
quantità irrilevanti di tempo alla cura della casa e dei figli, e
nemmeno un minuto all’approvvigionamento di acqua e
combustibile, riescono a ritagliarsi ogni giorno circa quattro ore di
libertà. Per loro, forse, la casa è un luogo di riposo. Per le donne non
tanto.
Oggi la maggior parte delle famiglie è composta da due genitori
che lavorano, e poiché nelle coppie eterosessuali sono soprattutto le
donne a prendersi cura dei bambini e dei parenti anziani, la
separazione introdotta per decreto tra luoghi di residenza e luoghi di
lavoro retribuito gli complica parecchio la vita. Chi ha il compito di
scortare bambini e anziani ammalati per le periferie di un’area
urbana mal servita dalle infrastrutture del trasporto pubblico è, di
fatto, dimenticato. La verità è che la maggior parte dei piani
urbanistici non somiglia alla vita delle donne (e nemmeno a quella di
molti uomini, peraltro).
L’idea pigra e superficiale che la casa sia un luogo di riposo può
avere ripercussioni gravi sulla vita dei cittadini. Nel 2009 il governo
del Brasile ha inaugurato un programma di edilizia pubblica
chiamato Minha Casa, Minha Vida (La mia casa, la mia vita)
destinato ai circa cinquanta milioni di brasiliani (secondo le stime
dell’epoca) che non disponevano di una sistemazione adeguata 45. A
quanto pare, le cose non sono andate granché bene.
L’immagine stereotipata delle favelas evoca agglomerati di
catapecchie invivibili, plaghe di povertà e illegalità in cui si aggirano
bande di criminali che terrorizzano la popolazione inerme. In tutto
questo c’è un nucleo di verità, eppure per molti di coloro che ci
vivono la realtà delle favelas è ben diversa. Le baraccopoli brasiliane
suppliscono ai programmi di edilizia sociale che lo Stato non ha
realizzato, ed essendo nate in risposta a un bisogno, sono
generalmente ubicate in posizioni comode per il lavoro e l’accesso ai
mezzi di trasporto.
Lo stesso non si può dire dei complessi edificati nell’ambito del
programma Minha Casa, Minha Vida (Mcmv), sorti perlopiú ai confini
della Zona Ovest di Rio de Janeiro, un’area che già nel 2010 era
descritta da Antônio Augusto Veríssimo, coordinatore della
segreteria municipale per l’Edilizia abitativa, come região dormitório
per la grave carenza di opportunità di lavoro 46. In effetti Veríssimo
era contrario alla realizzazione di progetti di edilizia pubblica in
quell’area, proprio per il rischio di creare mais guetos de pobreza,
altri ghetti di povertà. Una ricerca della London School of Economics
ha inoltre rilevato che per la gran parte dei nuclei familiari reinsediati
la distanza dalle precedenti abitazioni era ben maggiore dei sette
chilometri previsti dalla normativa municipale 47.
Luisa, quarantadue anni, viveva in una favela della Zona Sud, una
delle aree a maggiore densità di posti di lavoro insieme alla Zona
Centrale e a quella Nord. «Uscivo di casa e praticamente ero già al
lavoro, – ha raccontato a un ricercatore della Fondazione Heinrich
Böll 48. – I mezzi pubblici ti portavano dappertutto. Non dovevo
consumarmi i piedi per arrivare alla fermata». Adesso Luisa vive in
un condominio Mcmv a Campo Grande, nella parte occidentale e
meno sviluppata di Rio, a piú di cinquanta chilometri dalla sua
vecchia casa.
Poiché non ci sono posti di lavoro nelle immediate vicinanze, gli
abitanti della Zona Ovest affrontano viaggi che possono durare fino
a tre ore con un’infrastruttura di trasporti pubblici che a voler essere
gentili si potrebbe definire scarsa. Oltre il sessanta per cento delle
nuove unità abitative dista trenta minuti a piedi dalla piú vicina
stazione del treno o della metro 49. La carenza di trasporti pubblici
adeguati per i nuclei familiari trasferiti dal centro alla periferia si
ripercuote piú gravemente sulle donne, poiché a Rio come in quasi
tutto il mondo sono perlopiú gli uomini a possedere un’auto: il
settantuno per cento delle automobili è proprietà di un maschio, e le
probabilità che un uomo si sposti utilizzando un veicolo privato sono
doppie rispetto alla metà femminile della popolazione 50.
A peggiorare la situazione delle donne c’è anche il lavoro di cura
non retribuito. Melissa Fernández Arrigoitia, ricercatrice della London
School of Economics, mi ha raccontato di aver parlato con una
donna letteralmente sgomenta perché le era stato appena
comunicato l’imminente trasferimento in un complesso Mcmv. Incinta
e già madre di due figli, per poter lavorare aveva bisogno di affidare i
figli alla nonna, e se fosse andata a vivere a settanta chilometri da lí
non avrebbe potuto tenersi il lavoro. Nei complessi Mcmv i servizi di
assistenza all’infanzia, già piuttosto carenti, non sono stati
«riorganizzati o potenziati per rispondere alle necessità dei nuovi
arrivati» 51.
La carenza di strutture per l’infanzia è resa ancor piú pesante
dalla configurazione dei nuovi complessi residenziali. Gli
appartamenti sono progettati per ospitare la tipica famiglia nucleare,
che però nelle favelas non è affatto tipica. «Laggiú è normalissimo
che in una casa vivano almeno tre generazioni, – dice la dottoressa
Theresa Williamson, urbanista residente a Rio. – Non ho mai visto
una persona anziana abitare da sola», aggiunge poi. E anche le
famiglie intervistate da Melissa Fernández Arrigoitia erano in gran
parte formate da madri single con bambini che coabitavano con un
genitore anziano. E invece la struttura standardizzata delle
«microscopiche» unità abitative del programma Mcmv «non
rispondeva affatto alla potenziale varietà dei nuclei familiari»: la
conseguenza è che le soluzioni di assistenza all’infanzia rese
possibili dalla coabitazione intergenerazionale delle favelas
diventano impossibili già al momento della progettazione delle nuove
residenze.
In fatto di spazi pubblici, poi, i complessi Mcmv offrono soprattutto
«enormi parcheggi», anche se poche famiglie possiedono
un’automobile, e «parchi giochi orrendamente trascurati» con
attrezzature cosí scadenti da disintegrarsi nell’arco di un paio di mesi
(dopodiché nessuno le sostituisce). Gli edifici sembrano progettati in
funzione della privacy piú che della vita comunitaria. Per le famiglie
abituate all’intimità della favela, dove, spiega Williamson, «oltre una
certa età tuo figlio non ha piú bisogno di sorveglianza costante
perché c’è sempre qualcuno che tiene d’occhio i ragazzini di tutti»,
questa nuova condizione si traduce spesso in isolamento e paura
della criminalità. Il risultato finale è che «i bambini passano il tempo
in casa e non stanno granché fuori». E tutt’a un tratto le donne
scoprono di dover badare ai loro figli in modo diverso rispetto a
quando abitavano nella favela». Tutt’a un tratto c’è bisogno di servizi
di assistenza all’infanzia, e quei servizi non ci sono.
E non è neppure un problema di risorse, bensí di priorità. Per
prepararsi a ospitare la Coppa del mondo del 2014 e le Olimpiadi del
2016, il Brasile ha speso milioni in infrastrutture di trasporto pubblico.
Il denaro c’era, solo che è stato utilizzato per fare altre cose. Da una
ricerca del gruppo LSE Cities della London School of Economics è
emerso che i corridoi di transito del nuovo servizio di autobus rapidi
tendevano a privilegiare le aree in cui sorgevano gli impianti olimpici,
«senza affrontare il problema del trasporto collettivo dall’uno all’altro
dei reinsediamenti piú svantaggiati, e da questi al centro della
città» 52. A giudizio dei residenti, inoltre, le priorità di ricollocamento
del governo miravano non tanto ad aiutare le famiglie bisognose di
una sistemazione piú decente, bensí a creare nuovi spazi per le
infrastrutture dei grandi eventi sportivi previsti nell’immediato futuro.
Comunque sia, sono sempre le donne a farne le spese. Cristine
Santos lavorava in un mercato a Nova Iguaçu, ma ha perso il posto
dopo il trasferimento al complesso Vivenda das Patativas a Campo
Grande. «Dovevo prendere tre autobus», spiega 53. Un’altra
lavoratrice pendolare, stanca morta per le sue sei ore quotidiane di
viaggio, ha rischiato di perdere la vita in un incidente stradale 54. In
mancanza di soluzioni migliori le donne hanno cominciato a mettersi
in affari a casa propria: vendono bibite, preparano pranzi, tagliano e
acconciano capelli. Ma lo fanno con la piena consapevolezza di
poter essere sfrattate, perché la loro attività viola il regolamento
urbanistico. Se abiti in una favela puoi lavorare in casa: poiché
l’intero insediamento è abusivo, non c’è regolamento che possa
impedirtelo. Ma nei complessi di edilizia statale una zona
residenziale è una zona residenziale, ed è severamente vietato
svolgere attività commerciali in casa propria.
Ricapitoliamo: lo Stato brasiliano ha allontanato le donne dal
luogo di lavoro, formale o informale che fosse (su un totale di 7,2
milioni di lavoratori a domicilio, la stragrande maggioranza è donna),
offrendo loro in cambio servizi di trasporto inadeguati e nessuna
assistenza all’infanzia 55. Cosí facendo, in mancanza di altre
soluzioni le ha di fatto costrette a trasformare la nuova abitazione in
un luogo di lavoro. Dopodiché ha deciso che lavorare a domicilio è
contro la legge.
I programmi di edilizia pubblica non devono per forza essere cosí:
un’alternativa c’è, ma per realizzarla serve un’attenta riflessione. Per
esempio, quando nel 1993 il Comune di Vienna decise di costruire
un nuovo complesso di edilizia popolare, la prima cosa che fece fu
«individuare i bisogni delle persone che avrebbero utilizzato quegli
spazi»; dopodiché si mise alla ricerca di soluzioni tecniche adatte a
soddisfarli. In pratica, spiega Eva Kail 56, ha raccolto una gran
quantità di dati, soprattutto dati disaggregati per sesso, perché le
«persone» a cui gli spazi erano destinati erano in particolare donne.
Dai dati raccolti all’epoca su iniziativa dell’Istituto nazionale di
statistica è risultato che le donne dedicavano piú tempo degli uomini
alle faccende domestiche e alla cura dei figli 57. Secondo le piú
recenti elaborazioni del Forum economico mondiale, le austriache
svolgono attività di lavoro non retribuito per il doppio del tempo
rispetto a quello dei loro connazionali maschi, mentre il totale delle
ore destinate al lavoro (retribuito e non) risulta comunque maggiore
per le donne 58. Sulla base di queste informazioni, gli esperti del
Comune progettarono il complesso abitativo Frauen-Werk-Stadt I
(ovvero Città delle donne che lavorano I, primo di una serie che al
momento ne comprende tre) in modo da venire incontro alle
esigenze delle donne.
Innanzitutto si decise dove avrebbe dovuto sorgere il nuovo
quartiere, e lo si fece, racconta Kail, con il preciso intento di
agevolare il lavoro di cura femminile. Il complesso si trova in
prossimità di una fermata dell’autobus, ospita al suo interno un asilo
infantile ed è vicino alle scuole, cosicché i bambini possono
raggiungerle da soli fin dai primi anni (Inés Sánchez de Madariaga ci
tiene a sottolineare che una delle occupazioni che piú assorbono il
tempo delle donne è «accompagnare i figli a scuola, dal pediatra,
alle sedi delle varie attività extracurricolari»). All’interno del
complesso vi sono anche un ambulatorio medico, una farmacia e
uno spazio commerciale che ospita alcuni negozi; nelle vicinanze
sorge un grande supermercato. La Città delle donne che lavorano è
il non plus ultra della progettazione di aree a uso misto.
Il fatto è che la struttura della Frauen-Werk-Stadt somiglia molto a
una favela costruita su ordinazione. Le sue finalità prioritarie sono il
senso della comunità e la condivisione degli spazi. Gruppi di edifici
interconnessi composti da un massimo di quattro unità abitative
circondano una serie di cortili comuni (con tanto di superfici erbose e
aree-gioco per i bambini) che sono visibili da ogni elemento del
complesso. Per accrescere il senso di sicurezza, i vani scale sono
circondati da pareti trasparenti e visibili dall’esterno, gli spazi pubblici
sono ben illuminati e i parcheggi per le auto (anch’essi dotati di un
buon impianto di illuminazione) sono accessibili soltanto dagli
appartamenti 59. In un altro complesso abitativo di Vienna, la
Autofreie Mustersiedlung (Città-modello senza auto) si è rinunciato
del tutto ai parcheggi, aggirando la normativa che impone di creare
un posto auto per ogni appartamento di nuova costruzione 60. Il
denaro cosí risparmiato è stato speso nella costruzione di aree
comuni e spazi di gioco supplementari. Il complesso non era
specificamente pensato per le donne, ma poiché le donne usano
meno l’automobile e sono piú impegnate degli uomini nella cura dei
figli, il risultato finale rappresenta una risposta efficace alle loro
necessità abitative e lavorative.
Nella Frauen-Werk-Stadt I il lavoro di cura occupa una posizione
centrale anche nella progettazione degli appartamenti. A imitazione
dei gruppi di edifici costruiti intorno a un cortile comune, il cuore di
ogni unità abitativa è rappresentato dalla cucina, da cui è possibile
vedere ogni altro ambiente della casa. Oltre a permettere alle donne
di tenere d’occhio i figli mentre sono impegnate in cucina, questo
assetto spaziale colloca il lavoro domestico al centro di ogni
abitazione: una sfida indiretta a chi vorrebbe sbolognarlo tutto alle
donne. Ben diversa è la filosofia costruttiva applicata da molte
imprese edili di Philadelphia, almeno stando alla testimonianza di
una funzionaria del Comune che si lamenta di dover sempre
rammentare agli architetti che in un appartamento a piú livelli ma
privo di ascensore non è il caso di mettere la cucina al terzo piano.
«Davvero vi andrebbe di trascinarvi la spesa e il passeggino fin
lassú?» 61.
II.
Toilette per tutt*

Nell’aprile del 2017 un’affermata giornalista della Bbc, Samira


Ahmed, aveva bisogno di usare la toilette. Si trovava a Londra, e
stava assistendo a una proiezione del documentario I Am Not Your
Negro nella sala cinematografica del Barbican Centre. Era da poco
iniziato l’intervallo. Ogni donna che frequenti i cinema o i teatri sa
cosa vuol dire: appena si riaccendono le luci in sala le donne si
affrettano verso la toilette, sperando di risparmiarsi l’inevitabile fila
che di lí a poco si allungherà serpeggiando fino al foyer.
Le donne sono abituate a fare le code quando escono. È una
cosa irritante, che può mandargli storta la serata: sanno già che
all’intervallo, invece delle chiacchiere rilassate con gli amici, le
aspetta la solita noiosissima fila davanti alle toilette, ravvivata
soltanto da un incrociarsi di sguardi costernati mentre si attende il
proprio turno.
Quella sera di aprile, però, qualcosa sembrava diverso. La coda
era piú lunga del solito. Molto piú lunga. A riprova di un disinteresse
verso le donne cosí assoluto da sfiorare il ridicolo, l’amministrazione
del Barbican aveva deciso di eliminare le distinzioni di genere dai
servizi igienici, e lo aveva fatto sostituendo le targhette «Donne» e
«Uomini» con due nuove indicazioni: «Per tutti, con cabine» e «Per
tutti, con orinatoi». Successe quel che doveva succedere: la coda
davanti alla toilette «Per tutti, con orinatoi» era formata da soli
uomini; l’altra era mista.
Piuttosto che eliminare davvero la disparità di genere, quella
mossa aveva di fatto offerto una nuova opportunità agli uomini: è
noto che le donne non sono molto a loro agio con gli orinatoi, mentre
gli uomini sono perfettamente in grado di usare tanto questi ultimi
quanto le normali cabine wc. Come se non bastasse, nella toilette
«Per tutti, con orinatoi» non c’erano nemmeno i cestini per gli
assorbenti igienici. Samira Ahmed decise di protestare sui social
media: «Ah, che ironia: dovervi spiegare cos’è la discriminazione
dopo aver visto I Am Not Your Negro NEL VOSTRO CINEMA », twittò al
Barbican Centre, aggiungendo che se davvero avessero voluto
eliminare le disparità di genere la soluzione migliore sarebbe stata
«ristrutturare la toilette dei maschi eliminando gli orinatoi. Non c’è
MAI tanta coda dagli uomini, e lo sapete» 1.
Una verità lapalissiana, che però doveva essere sfuggita ai
responsabili (in gran parte maschi) del Barbican Centre: strano,
perché in genere persino i piú svagati esemplari della specie
maschile si accorgono che davanti alla toilette delle donne c’è
sempre fila 2. La spiegazione del fenomeno, invece, la conoscono in
pochi, sia uomini sia donne. Come al solito si tende a dar la colpa
alla fisiologia femminile anziché agli stili di progettazione a misura di
maschio, quando in realtà è proprio qui che sta il problema.
A prima vista sembra giusto e corretto assegnare un’identica
porzione di spazio ai sanitari delle signore e a quelli dei signori; in fin
dei conti si è sempre fatto cosí. La divisione fifty-fifty della metratura
disponibile è addirittura sancita nero su bianco dalle norme per la
costruzione degli impianti idrici. Ciononostante, nelle toilette maschili
dotate sia di orinatoi sia di cabine il rapporto tra numero di potenziali
utilizzatori e superficie del locale è molto piú vantaggioso rispetto
alle toilette femminili che hanno soltanto le cabine. Ed ecco che
all’improvviso la parità di spazi non è piú tanto giusta.
Se i servizi maschili e femminili avessero un’identica quantità di
cabine, però, il problema non sarebbe ancora risolto, perché la
quantità di tempo necessaria a una donna per utilizzare una toilette
può essere fino a 2,3 volte superiore a quella di un uomo 3. Anziani e
disabili ci mettono ancora di piú, ed entrambe le categorie hanno
una componente maggioritaria femminile. E sono in prevalenza le
donne ad andare ai servizi in compagnia di un bambino o di un
anziano disabile 4. Infine bisogna tener conto di quel venti,
venticinque per cento di donne in età fertile che nei giorni del ciclo
potrebbe aver bisogno di cambiare un assorbente o un tampone.
Ci sono poi altri motivi per cui le donne usano il bagno piú spesso
degli uomini: le gravidanze, per esempio, riducono in misura
significativa la capacità della vescica, e le probabilità di contrarre
un’infezione del tratto urinario sono otto volte maggiori per la
popolazione femminile 5. Alla luce di tante differenze anatomiche,
l’idea che un’identica metratura dei servizi igienici sia il modo
corretto per affrontare la questione è un chiaro sintomo di un
egualitarismo che privilegia la forma a scapito della sostanza.
In altre parti del pianeta le cose vanno anche peggio di cosí, dal
momento che un terzo della popolazione mondiale non dispone di
servizi igienici adeguati 6. Secondo le Nazioni unite una donna su tre
non ha possibilità di usare un bagno con sufficienti garanzie di
sicurezza 7, e stando ai dati di WaterAid le donne e le ragazze di
tutto il mondo impiegano ogni anno ben novantasette miliardi di ore
nella ricerca di un luogo sicuro dove espletare le proprie necessità 8.
La mancanza di servizi igienici adeguati rappresenta un problema di
salute pubblica per entrambi i sessi: questo vale ad esempio per
l’India, dove il sessanta per cento della popolazione non dispone di
un bagno 9 e il novanta per cento delle acque di superficie risulta
contaminato 10. Il problema, tuttavia, è particolarmente grave per le
donne, non da ultimo a causa del diffuso pregiudizio per cui gli
uomini possono «farla dappertutto» 11, mentre per una donna è
disdicevole essere colta in flagrante. Cosí in certi luoghi ci si alza
prima dell’alba per fare i propri bisogni, dopodiché si aspetta per ore
e ore, fin quando non fa buio, prima di rimettersi in cerca di un posto
tranquillo 12. E non accade solo nei Paesi poveri: le braccianti
impiegate nei campi di tabacco in America, intervistate da Human
Rights Watch, hanno confessato di «trattenersi dall’urinare durante il
giorno, per esempio evitando di bere, il che aumentava il rischio di
disidratazione e colpi di calore» 13.
Il problema ha effetti tangibili sul lavoro retribuito delle donne, che
nel caso dell’India rappresentano ben il novantuno per cento di
quell’ottantasei per cento di popolazione che è attiva nell’economia
informale. Molte di loro lavorano nei mercati, e l’assenza di toilette
pubbliche significa nessun posto dove andare per tutta la giornata 14.
In Afghanistan le agenti di pubblica sicurezza vanno ai servizi in
coppia, perché i loro spogliatoi e i relativi bagni (che un consulente di
Human Rights Watch ha descritto come «luoghi di molestie») hanno
spesso porte che non si chiudono e buchi per spiare. La mancanza
di servizi igienici protetti è in effetti uno dei motivi principali per cui le
donne non si arruolano nelle forze dell’ordine, e ciò a sua volta ha
conseguenze significative sul modo in cui la polizia risponde ai
crimini contro donne e ragazze 15.
Benché il fabbisogno di servizi igienici pubblici sia maggiore per la
popolazione femminile, spesso le autorità competenti pensano
soprattutto agli uomini. Piú della metà dei cinque milioni di donne
che vivono a Mumbai non dispone di una toilette al coperto, e non
esistono servizi pubblici gratuiti per le donne. Al contrario, di
vespasiani gratuiti ce ne sono a migliaia 16. Le baraccopoli che
circondano la città hanno in media sei bagni ogni ottomila donne 17,
mentre i dati del governo relativi al 2014 dichiaravano la presenza in
tutta la città di «3536 servizi igienici pubblici comuni per donne e
uomini, ma nemmeno uno esclusivamente riservato alle donne.
Neppure nelle stazioni di polizia e nei tribunali» 18.
Secondo un’indagine svolta nel 2015, il 12,5 per cento delle
donne che vivono negli slum di Mumbai defeca all’aperto, di notte:
preferisce «correre quel rischio piuttosto che percorrere i
cinquantotto metri che in media separano la sua casa dal piú vicino
bagno comune» 19. Ma nemmeno quella soluzione è esente da
rischi, poiché il pericolo di subire un’aggressione sessuale da parte
di uomini che si mettano in agguato nelle vicinanze o lungo i percorsi
solitamente seguiti dalle donne è quanto mai concreto 20. Gli illeciti
compiuti in quelle circostanze vanno dal voyeurismo (con o senza
masturbazione) alla vera e propria violenza; nei casi estremi, la
vittima viene addirittura assassinata.
È difficile avere dati precisi sulle aggressioni e le violenze sessuali
subite da donne durante quelle che dovrebbero essere banali
funzioni corporee, anche perché predomina il senso di vergogna.
Poche sono disposte a parlare delle loro disavventure: temono che
le si accusi di aver «incoraggiato» l’assalitore 21. Tuttavia le scarse
informazioni in nostro possesso sono piú che sufficienti per
affermare che la mancanza di servizi igienici adeguati è una
questione femminista.
Stando a un’inchiesta del 2016, le donne indiane che vanno nei
campi a espletare le proprie necessità corporali hanno, rispetto alle
donne che dispongono di un servizio igienico domestico, il doppio
delle probabilità di subire violenza sessuale da una persona diversa
dal loro compagno 22. A seguito dell’uccisione di due ragazzine di
dodici e quattordici anni nell’Uttar Pradesh 23, il dibattito sulla
mancanza di servizi igienici adeguati per le donne è diventato per un
certo periodo un tema di attualità nazionale, tanto che nel dicembre
del 2014 l’alta corte di Mumbai aveva stabilito con un’ordinanza che
tutte le circoscrizioni dell’area metropolitana erano obbligate ad
allestire gabinetti per donne sicuri e puliti, nelle vicinanze delle
strade principali 24. Erano stati identificati novantasei siti potenziali e
promessi stanziamenti per cinquanta milioni di rupie (circa
seicentocinquantamila euro), ma a distanza di un anno dal
provvedimento la rivista online sulle tematiche di genere «Broadly»
denunciava che nemmeno un mattone era stato posato 25. Ormai è
troppo tardi: i termini per l’erogazione dei fondi sono scaduti nel
2016 26.
Gli enti locali che non costruiscono servizi igienici pubblici
potranno forse illudersi di risparmiare sui costi, ma già nel 2015 uno
studio dell’università di Yale sosteneva che si tratta di economie
illusorie. Gli autori di quel documento avevano elaborato un modello
matematico che metteva in relazione «il rischio di aggressioni
sessuali con il numero di toilette a disposizione e con il tempo
impiegato per raggiungerle» e in base a quei dati calcolava i costi
materiali (mancato guadagno, spese mediche, processuali e
carcerarie) e immateriali (sofferenza fisica e psicologica, rischio di
perdere la vita) delle violenze sessuali, mettendoli infine a confronto
con i costi per l’installazione e la manutenzione dei bagni pubblici.
Il modello cosí elaborato è stato applicato alla township di
Khayelitsha, in Sudafrica, con una dotazione di servizi pubblici
stimata a circa cinquemilaseicento unità per una popolazione di 2,4
milioni di abitanti: il che, secondo gli autori dello studio, era all’origine
di 635 aggressioni sessuali ogni anno con un costo complessivo di
quaranta milioni di dollari. Se il numero dei servizi fosse stato portato
a 11 300 si sarebbero spesi dodici milioni di dollari, ma in compenso
la distanza media tra l’abitazione e la struttura piú vicina si sarebbe
quasi dimezzata e il numero delle aggressioni sessuali si sarebbe
ridotto del trenta per cento. Stando agli autori dello studio, la
diminuzione dei costi sociali e di sorveglianza avrebbe
abbondantemente ripagato il costo delle nuove strutture, regalando
al bilancio della township un risparmio di circa cinque milioni di
dollari. Una stima che gli autori definivano prudente, giacché il loro
calcolo non comprendeva «gli ulteriori guadagni in termini di salute
pubblica nelle aree urbane i cui abitanti dispongono di minori
risorse» 27.
Ed è vero che la salute pubblica ci guadagna molto, soprattutto
quella delle donne. Trattenere l’urina può causare infezioni della
vescica e del tratto urinario; frequenti sono anche i problemi di
disidratazione e di stitichezza cronica 28. Anche l’espulsione delle
feci all’aperto può essere all’origine di svariate infezioni e patologie:
malattia infiammatoria pelvica, parassitosi da vermi, epatite, diarrea,
colera, polio e varie affezioni portate dall’acqua. Alcune di queste
infermità uccidono soltanto in India milioni di persone ogni anno,
soprattutto donne e bambini 29.
Le malattie connesse alla scarsa disponibilità di servizi sanitari
non sono un problema esclusivo dei Paesi a basso reddito. Studi
condotti in Canada e in Gran Bretagna hanno dimostrato che la
richiesta di prestazioni mediche connesse a infezioni del tratto
urinario, dilatazioni della vescica e svariati altri problemi uro-
ginecologici aumenta in misura proporzionale alla chiusura dei
servizi igienici pubblici; analogamente, le probabilità di contrarre la
sindrome da shock tossico di origine streptococcica dovuta all’uso di
tamponi durante il ciclo «si accresce quando non vi è la possibilità di
accedere a un bagno per cambiarsi» 30. Cosa che, purtroppo, capita
sempre piú spesso. Secondo uno studio del 2007, negli Stati Uniti la
tendenza alla progressiva chiusura delle toilette pubbliche è in atto
da piú di mezzo secolo 31. Tra il 1995 e il 2013, nel Regno Unito,
metà delle strutture è stata smantellata o trasformata nell’ennesima
caffetteria hipster, come è successo nelle vicinanze di casa mia a
Londra 32.

Una progettazione urbana che non mette al sicuro le donne dal


rischio di subire un’aggressione sessuale equivale a una chiara
violazione del nostro diritto a vivere gli spazi pubblici; e l’offerta
inadeguata di servizi igienici è solo una delle tante manifestazioni di
una pianificazione insensibile alle esigenze della popolazione
femminile.
La paura dei luoghi pubblici è una sensazione che molte di noi
conoscono: le donne che la provano sono all’incirca il doppio degli
uomini. Sembrerà strano, ma una volta tanto abbiamo i dati che lo
confermano. «Gli studi sulla criminalità e i riscontri empirici effettuati
in diverse parti del mondo dimostrano che negli spazi della
collettività la maggior parte delle donne teme di essere vittima di una
potenziale violenza», spiega Anastasia Loukaitou-Sideris. Dalle
analisi dei dati sulla criminalità negli Stati Uniti e in Svezia emerge
che donne e uomini rispondono in modo diverso a condizioni
ambientali identiche, e che le donne tendono a essere «piú sensibili
degli uomini ai segnali di pericolo e disordine sociale, alle scritte sui
muri, agli edifici abbandonati e cadenti».
Uno studio del ministero dei Trasporti britannico mette in luce le
notevoli differenze di genere per ciò che riguarda la percezione delle
situazioni potenzialmente rischiose: per esempio, il sessantadue per
cento delle donne ha paura di aggirarsi da sola nei parcheggi
multipiano, il quarantanove per cento di aspettare l’autobus, il
cinquantanove per cento di tornare a casa dalla fermata dell’autobus
o dalla stazione. Per i maschi, le percentuali sono rispettivamente
del trentuno, venticinque, venti e venticinque per cento 33. La
criminalità spaventa soprattutto la popolazione femminile a basso
reddito, perché spesso le donne meno abbienti vivono in zone a
elevata delinquenza, hanno orari di lavoro non convenzionali 34 e
tornano a casa con il buio 35. Anche le donne che appartengono a
minoranze etniche hanno piú paura: alle varie cause di apprensione
si aggiunge il timore di essere oggetto di violenze razziste (che molte
volte hanno una specifica connotazione di genere).
Il senso di insicurezza ha effetti notevoli sulla mobilità delle donne
e sul loro fondamentale diritto di accedere agli spazi urbani 36.
Indagini condotte in Finlandia, Svezia, Stati Uniti, Canada, Taiwan e
Regno Unito hanno dato risultati molto simili: la paura degli spazi
pubblici induce le donne a modificare comportamenti e modalità di
spostamento 37. Evitano determinati percorsi, orari e mezzi di
trasporto. Evitano di viaggiare di notte. In un sondaggio effettuato in
Canada, la metà esatta delle donne intervistate ha dichiarato che «la
sensazione di trovarsi in pericolo impediva loro di utilizzare i mezzi
pubblici o di entrare nei parcheggi al coperto» 38; altri studi da tutto il
mondo evidenziano che il timore della criminalità è «una delle
principali motivazioni per cui le donne scelgono di non usare i
trasporti pubblici» 39. Se possono permetterselo, preferiscono
spostarsi in auto o prendere un taxi.
Il problema è che molte non possono permetterselo. I passeggeri
di autobus, treni e tram sono «ostaggi del trasporto pubblico»: non
hanno cioè altri mezzi per spostarsi da un luogo all’altro 40. La
mancanza di alternative ragionevoli interessa soprattutto le
popolazioni a basso reddito e quelle che vivono nel Sud globalizzato:
in India, per esempio, le donne hanno un accesso limitato 41 ai mezzi
di trasporto privati e dipendono assai piú degli uomini dai servizi di
mobilità pubblica 42. Da qui la necessità di ricorrere a strategie
particolari: seguire percorsi piú lunghi che aggirano le zone
considerate pericolose, evitare di viaggiare da sole. Alcune donne
arrivano al punto di rinunciare al lavoro: soluzione, questa, che non è
appannaggio esclusivo dei ceti meno abbienti 43. Quando ho
descritto su Twitter le molestie subite dalle donne sui mezzi pubblici,
un tale mi ha raccontato il caso di una signora di sua conoscenza,
«molto intelligente e capace», che aveva «mollato un ottimo posto di
lavoro nella City e si era trasferita fuori Londra perché stufa di
essere palpeggiata in metropolitana».
È ovvio che siamo di fronte a un’ingiustizia. Purtroppo, però, si
tende a scaricare la colpa sulle ansie delle donne anziché sui
responsabili della pianificazione urbana che creano spazi e sistemi
di trasporto nei quali le donne non si sentono al sicuro. Come al
solito, dietro tutto questo c’è l’assenza dei dati di genere. Secondo le
statistiche ufficiali, infatti, sarebbero gli uomini ad avere maggiori
probabilità di restare vittime di un crimine negli spazi pubblici (mezzi
di trasporto compresi). Questo dato paradossale, sostiene Anastasia
Loukaitou-Sideris, «ci ha indotti a credere che la paura della
criminalità manifestata dalle donne sia irrazionale, e addirittura piú
deleteria della criminalità stessa». Ma la vera questione, sostiene
Loukaitou-Sideris, è che le statistiche ufficiali ci raccontano solo una
parte della storia.
Le donne che frequentano gli spazi pubblici si trovano purtroppo
ad affrontare una gran quantità di comportamenti sessuali
minacciosi. Tralasciando per il momento le violenze piú gravi, resta
comunque un certo numero di condotte maschili a cui le donne sono
esposte quotidianamente, e che spesso hanno lo scopo ben preciso
di farle sentire a disagio. Dai fischi di ammirazione agli sguardi
lascivi, dagli insulti a sfondo sessuale ai tentativi di abbordaggio,
nessuno di questi comportamenti ha una valenza criminale, ma tutti
contribuiscono a creare una sensazione di costante minaccia
sessuale 44. Ci si sente osservate. Ci si sente in pericolo, anche,
perché queste situazioni tendono a degenerare con una certa
facilità. Già troppe donne hanno scoperto quanto è breve la distanza
da «Sorridi, tesoro: avrai mica paura?» a «Vaffanculo, stronza, chi ti
credi di essere?»; già troppe donne sono state seguite e aggredite
per non sapere che l’«innocuo» apprezzamento di un estraneo può
essere tutto fuorché innocuo.
Ma le donne non denunciano: del resto, a chi mai potrebbero
rivolgersi? Quando ancora non esistevano associazioni come
Everyday Sexism e Hollaback!, in cui le donne trovano uno spazio
adatto per parlare degli atteggiamenti «intimidatori, ma appena al di
sotto del criminale» che devono sopportare ogni giorno negli spazi
pubblici, la collettività era pressoché ignara del problema. Quando la
polizia di Nottingham ha cominciato a verbalizzare i comportamenti
misogini (atti di esibizionismo, palpeggiamenti, foto scattate di
nascosto con l’obiettivo puntato sotto la gonna) catalogandoli come
crimini di odio (o semplici episodi di odio quando non erano
penalmente perseguibili), le denunce si sono moltiplicate: non
perché gli uomini si comportassero peggio del solito, ma perché le
donne sentivano finalmente di essere prese sul serio 45.
L’invisibilità dei gesti minacciosi rivolti alle donne negli spazi
pubblici è aggravata dal fatto che i molestatori agiscono quando le
donne sono da sole; gli eventuali accompagnatori maschi, se ci
sono, hanno comunque molte meno probabilità di essere coinvolti.
Da un recente sondaggio condotto in Brasile è risultato che due terzi
delle donne intervistate erano state vittime di molestie e violenze
sessuali mentre erano in viaggio, e nella metà dei casi gli episodi si
erano verificati sui mezzi pubblici. Tra gli uomini, la percentuale non
superava il diciotto per cento 46. Quindi i maschi che non
infastidiscono e non vengono infastiditi sono semplicemente ignari di
ciò che accade, e quando le donne gli raccontano le loro
disavventure tendono a reagire con superficialità: «Ah, sí? Mai visto
niente di simile». Un altro vuoto di dati di genere.
Un vuoto aggravato dai nostri metodi di raccolta delle
informazioni. «Non esistono dati su vasta scala circa la diffusione
delle molestie sessuali», sosteneva uno studio del 2017: ciò si deve
non solo allo scarso numero di denunce, ma anche al fatto che quei
comportamenti «non sono quasi mai compresi nelle statistiche sulla
criminalità» 47. Come se non bastasse, le molestie sessuali «sono
spesso catalogate in modo inadeguato», e molti studi sull’argomento
«non dànno una definizione precisa di cosa sia una molestia, né
distinguono tra le varie tipologie». Nel 2014, per esempio, l’Australia
Institute ha rivelato che l’ottantasette per cento delle donne
sottoposte a un suo sondaggio aveva subito molestie fisiche o
verbali in strada, ma «i dati relativi all’entità o alle caratteristiche
degli episodi non sono stati raccolti».
L’apparente sfasamento tra le paure delle donne e i dati registrati
dalle statistiche ufficiali non si spiega soltanto con la generica
sensazione di essere esposte a un pericolo. Il problema è che in
alcuni casi le donne non denunciano nemmeno le aggressioni piú
gravi. Un’indagine del 2016 sulle molestie sessuali subite dalle
passeggere della metropolitana di Washington ha reso noto che il
settantasette per cento delle vittime non si era mai rivolta alle
autorità; piú o meno la stessa percentuale riportata da Inmujeres,
l’ente statale che in Messico combatte la violenza contro le donne 48.
Il tasso di denuncia è ancora piú basso a New York, dove
secondo alcune stime il novantasei per cento delle molestie e
l’ottantasei per cento delle aggressioni sessuali nella metropolitana
non vengono mai notificati alle autorità; a Londra, invece, un quinto
delle donne riferisce di aver subito aggressioni fisiche mentre
viaggiava sui mezzi pubblici, e stando a una ricerca del 2017 «circa
il novanta per cento delle persone che subiscono comportamenti
sessuali indesiderati non sporge denuncia» 49. Un’indagine condotta
da un’organizzazione non governativa tra le donne che utilizzano la
metropolitana di Baku, in Azerbaigian, ha rivelato che nessuna
vittima di molestie si è mai rivolta all’autorità competente 50.
A questo punto è chiaro che le cifre ufficiali della polizia non ci
mostrano il quadro completo. Ma anche in mancanza di dati globali
sulla «natura esatta, il luogo e il tempo» dei crimini sessuali
commessi contro le donne negli spazi pubblici, vi è un corpus di
ricerche in costante espansione, dal quale si evince che i timori delle
donne non sono affatto infondati 51.
Da Rio a Los Angeles, ci sono uomini che hanno violentato donne
e ragazze sugli autobus mentre gli autisti procedevano indifferenti
lungo il loro percorso 52. «La verità è che ho paura ogni volta che
esco di casa» confessa Victoria Juárez, una trentaquattrenne
messicana. Nel suo Paese nove donne su dieci hanno subito
molestie sessuali sui mezzi pubblici 53; le lavoratrici di Ciudad Juárez
raccontano che alle fermate degli autobus ci sono uomini che
aspettano dentro le auto in sosta «per rapire le donne» 54. I viaggi da
e verso il luogo di lavoro sono, dicono, i momenti piú pericolosi della
loro giornata.
Un’indagine del 2016 ha reso noto che il novanta per cento delle
donne francesi aveva subito molestie sessuali sui mezzi pubblici 55;
nel maggio di quello stesso anno due uomini sono stati condannati
per un tentato stupro di gruppo su un vagone del metrò parigino 56.
Un altro studio ha accertato che sulla metropolitana di Washington le
probabilità che una donna subisca molestie sono tre volte maggiori
rispetto a quelle di un viaggiatore maschio 57. Ad aprile, sempre nel
2016 58, la polizia aveva identificato un presunto esibizionista; un
mese piú tardi lo stesso individuo ha violentato una donna
minacciandola con un coltello 59. Nell’ottobre del 2017 si è riusciti ad
arrestare un molestatore recidivo che, sempre sulla metropolitana di
Washington, aveva aggredito due volte la stessa donna 60.
«Il messaggio è chiaro, – ha scritto la docente di urbanistica Vania
Ceccato nella postfazione a un’edizione speciale della rivista
accademica “Crime Prevention and Community Safety”: – Le
denunce dei crimini sessuali contro le donne che usano i mezzi
pubblici (occhiate insistenti, palpeggiamenti, atti di onanismo,
esposizione di genitali, veri e propri stupri) risultano alquanto inferiori
al numero effettivo dei casi» 61.

Sono molte le ragioni per cui le donne non denunciano. Alcune


sono legate al contesto sociale (vergogna, paura di essere
emarginate, di non essere credute, di essere incolpate per quanto è
successo), e qui le autorità possono fare ben poco, perché il
cambiamento deve avvenire nella società stessa. Accanto alle
motivazioni sociali ve ne sono però altre, decisamente piú prosaiche,
sulle quali è possibile intervenire.
Tanto per cominciare, a volte le donne non sono certissime di
sapere «quali comportamenti rientrano nell’ambito delle molestie
sessuali, e temono una reazione negativa da parte delle autorità» 62.
Qualora invece si rendano conto di aver subito un torto, spesso non
sanno a chi denunciare l’accaduto 63. Sui mezzi pubblici di tutto il
mondo non mancano cartelli che dicono cosa fare in presenza di un
pacco o bagaglio sospetto, eppure non ci sono quasi mai istruzioni
su come ci si debba comportare in caso di molestie o aggressioni
sessuali. Talora l’assenza di indicazioni è dovuta al fatto che non
esistono procedure da seguire 64. E questo ci porta al problema
successivo: le esperienze delle donne che denunciano.
Nel 2017 una ragazza inglese ha raccontato su Twitter ciò che le
era successo dopo che aveva segnalato al conducente del suo
autobus le molestie di un passeggero 65. «Sei carina, che pretendi?»
era stata la risposta. Qualcosa di molto simile è capitato a una
ventiseienne di Delhi: «Saranno state le nove di sera. Un tizio seduto
vicino a me ha allungato le mani; io ho strillato e l’ho spinto via, poi
ho chiesto all’autista di fermare il mezzo. Mi è stato detto di
scendere e di risolvere la situazione da sola, perché stavo facendo
tardare l’autobus» 66.
Nel caso di Sarah Hayward, ex membro del Consiglio del
quartiere londinese in cui abito, è stato il timore di non essere
creduta a impedirle di denunciare. «A ventidue anni sono stata
palpeggiata da un tizio su un vagone della metropolitana. Eravamo
stretti come sardine, e non riesco neanche a spiegare l’assoluto
terrore di quei momenti. Sapevo che se avessi detto qualcosa gli altri
avrebbero pensato che era solo per via della gran calca». L’aspetto
paradossale è che il grande affollamento del vagone può in effetti
aver avuto un ruolo nello spiacevole episodio: stando ai dati
disponibili, le ore di maggiore affollamento dei mezzi pubblici sono
anche quelle in cui la frequenza delle molestie è piú alta 67. Ancora
oggi Sarah preferisce «tenersi alla larga dalla metropolitana nelle ore
di punta».
Un altro problema comune è la mancanza di procedure per
denunciare questo tipo di crimini. In un articolo pubblicato nel 2016
dalla rivista «Slate» si narrava l’esperienza di una certa Dana T., che
nel bel mezzo di un volo transatlantico diretto in Germania si era
svegliata con la mano di uno sconosciuto che le strizzava il seno 68.
Era, inutile dirlo, il passeggero seduto accanto. Il personale di bordo,
subito allertato, aveva in un primo tempo cercato di convincerla a
tornare al suo posto, dopodiché le aveva trovato un posto in
business class. Hostess e steward erano perlopiú solidali con lei,
racconta Dana, ma nessuno sapeva di preciso che cosa fare. Dopo
l’atterraggio, il molestatore era sceso in tutta tranquillità dall’aereo e
se n’era andato per la sua strada. Un episodio analogo è avvenuto
nel 2017, ma in questo caso l’equipaggio dell’American Airlines non
ha voluto assegnare un altro posto alla donna che aveva dato
l’allarme dopo essersi resa conto che il passeggero seduto al suo
fianco si stava masturbando 69.
Le aziende di trasporti, che a tutti i livelli gerarchici hanno una
forza lavoro a stragrande maggioranza maschile, dovrebbero per
prima cosa riconoscere la gravità del problema 70. Anastasia
Loukaitou-Sideris ha cercato di scoprire come le aziende di trasporto
pubblico statunitensi affrontano la questione della sicurezza delle
donne che viaggiano sui loro mezzi, ma si è trovata di fronte
all’ennesima assenza di dati di genere. L’argomento era trattato
soltanto in due ricerche degli anni Novanta, nessuna delle quali
studiava in modo specifico le esigenze dell’utenza femminile; come
se non bastasse, gli enormi cambiamenti nella politica dei trasporti
adottati dopo l’11 settembre avevano reso obsoleti entrambi i
documenti. L’unica indagine recente risaliva al 2005 e riguardava
soprattutto la risposta alla minaccia terroristica, e al pari degli altri
«non affrontava le problematiche specifiche e le esigenze di
sicurezza delle donne che viaggiano».
Stando cosí le cose, Loukaitou-Sideris ha deciso di far da sé, e si
è subito scontrata con la resistenza dei funzionari intervistati.
«Quindi mi sta dicendo che le donne corrono piú rischi» ha
commentato il direttore di un’azienda di trasporti. Il responsabile
della sicurezza di un’altra società ha poi tentato di convincerla che
«il problema della sicurezza a bordo dei mezzi non ha connotazioni
di genere». Infine, a dimostrazione dei danni causati dal gender data
gap, un altro responsabile della sicurezza (maschio, al pari degli altri
due) si è detto convinto dell’inutilità di predisporre misure di
sicurezza differenziate per uomini e donne, perché «i dati statistici
del nostro sistema non individuano alcun rischio maggiore per le
donne».
Una volta compreso di avere un problema, i responsabili degli enti
di trasporto dovrebbero poi esaminare le evidenze disponibili per
mettere a punto le soluzioni piú opportune. Delle centotrentuno
aziende (compresa una buona metà degli operatori di trasporto
pubblico medio-grandi degli Stati Uniti) che hanno risposto al
sondaggio di Loukaitou-Sideris, «soltanto un terzo ha ritenuto di
dover agire concretamente», e solo tre hanno davvero fatto
qualcosa. L’autrice della ricerca ha inoltre riscontrato «una
significativa discrepanza tra le esigenze di sicurezza delle
passeggere e le caratteristiche delle misure adottate dalle aziende».
Gran parte delle aziende di trasporto esaminate aveva dotato i
suoi autobus di dispositivi di sicurezza: l’0ttanta per cento dei mezzi
disponeva di sistemi di videosorveglianza a circuito chiuso, il
settantasei per cento di allarmi antipanico, il settantatre per cento di
altoparlanti per comunicare con i passeggeri. Tuttavia il fatto che la
quasi maggioranza delle società di trasporto pubblico non avesse né
intendesse installare dispositivi di sicurezza alle fermate era in netta
contraddizione con le esigenze della clientela femminile, che si sente
molto piú insicura quando deve aspettare un autobus al buio che
non a bordo dell’autobus stesso. Il che non è affatto stravagante:
uno studio ha dimostrato che nel primo caso le probabilità di essere
vittima di un crimine sono tre volte maggiori che non nel secondo 71.
Anche il tipo di impianti di sicurezza installati può fare la
differenza, e qui di nuovo si osserva una difformità rispetto alle
aspettative dell’utenza femminile, poiché le aziende di trasporto
preferiscono – probabilmente per una questione di costi – le
soluzioni tecnologiche alle guardie giurate. Non ci sono molti dati
sull’efficacia dei sistemi di sorveglianza a circuito chiuso come
dissuasori delle molestie, ma numerosi e ripetuti studi hanno
sottolineato che le donne sono alquanto scettiche in proposito e
gradirebbero invece la presenza di un controllore o di un addetto alla
sicurezza: si tratterebbe in sostanza di una misura preventiva,
ritenuta piú valida di una semplice telecamera le cui immagini
potrebbero essere visionate (ma nemmeno questo è certo) da una
persona a chilometri di distanza 72. È interessante notare che invece
gli uomini preferiscono le soluzioni tecnologiche: forse perché i
crimini di cui sono vittime hanno una minore componente di
violazione dell’integrità personale 73.
Certo, pagare un sorvegliante a tempo pieno può essere molto
costoso (anche se redditizio, in quanto le donne sarebbero
incoraggiate a usare piú spesso i trasporti pubblici), ma non
mancano di sicuro le soluzioni piú economiche 74. Loukaitou-Sideris
mi racconta che a Portland, per esempio, «le fermate degli autobus
hanno un display digitale che comunica gli orari di arrivo dei mezzi»,
sicché le donne non devono aspettare al buio per un tempo
indefinito. Ammetto di essere rimasta sorpresa nel sentirmi
descrivere questa tecnologia come una soluzione innovativa: ormai
a Londra ci si stupisce quando le fermate degli autobus non hanno il
display con gli orari.
Fra le altre soluzioni di comprovata efficacia 75 potrebbe esservi
l’installazione di pensiline trasparenti (che garantiscono una migliore
visibilità e una maggiore illuminazione non solo delle fermate, ma
anche delle immediate vicinanze) 76. Molto importante è anche
l’ubicazione dei punti di sosta: a volte persino uno spostamento di
pochi metri può essere determinante, afferma Loukaitou-Sideris, se
permette a chi attende di trovarsi nelle vicinanze di un luogo ben
frequentato. Una delle misure che personalmente preferisco è
l’introduzione di soste a richiesta nei punti intermedi tra una fermata
«ufficiale» e l’altra, a tutto vantaggio delle donne che viaggiano in
orari notturni. Benché nel complesso l’utenza degli automezzi
pubblici sia perlopiú femminile, di notte la presenza delle donne
diventa minoritaria; anche se non disponiamo di informazioni precise
sulle cause del fenomeno, alla luce dei dati su molestie e
aggressioni sembra ragionevole supporre che il senso di insicurezza
possa avere un qualche peso 77.
La buona notizia per i responsabili dei trasporti pubblici è che (con
l’eccezione delle guardie giurate e dei dispositivi di illuminazione)
nessuna di queste iniziative ha costi troppo elevati. Studiando i
trasporti pubblici di Los Angeles, Anastasia Loukaitou-Sideris ha
scoperto che alcune fermate erano veri e propri «punti nevralgici»
per i reati sessuali: dunque si può supporre che una particolare
attenzione alle aree problematiche potrebbe ridurre ulteriormente i
costi 78. Le aziende di trasporto non dovrebbero fare altro che
consultare i propri dati – sempre ammesso che siano disposte
raccoglierli. Ed è qui che sta il vero problema: negli Stati Uniti, per
esempio, «non vi è alcun incentivo federale» a favore degli enti di
trasporto che raccolgono dati sul servizio. «Non esiste un obbligo di
legge, perciò nessuno lo fa». Sostengono di non avere fondi
sufficienti, ma secondo Loukaitou-Sideris è solo una scusa.
In India le donne hanno cominciato a raccogliere dati di loro
iniziativa. Il sistema di trasporti pubblici della capitale indiana, che
nel 2014 occupava il quarto posto nella classifica mondiale dei piú
pericolosi per le donne 79, è diventato tristemente famoso nel 2012
per l’episodio noto come lo stupro di gruppo di Delhi. Tutto era
cominciato poco dopo le nove di sera del 16 dicembre, quando Jyoti
Singh, studentessa ventitreenne di fisioterapia, era appena uscita
dal cinema dopo aver visto il film Vita di Pi insieme al suo amico
Awindra Pandey. I due avevano deciso di tornare a casa con uno dei
tanti autobus privati che percorrono le strade di Delhi 80, ma non
sarebbero mai arrivati a destinazione: furono assaliti da una banda
di sei criminali che picchiarono entrambi e stuprarono Jyoti. La
violenza sessuale durò quasi un’ora: la poveretta fu addirittura
penetrata con una spranga di ferro che le causò la lacerazione del
colon 81. Alla fine i sei violentatori scaricarono le loro vittime
semincoscienti lungo il bordo di una strada, a otto chilometri da dove
erano salite sull’autobus 82. Jyoti Singh morí tredici giorni piú tardi a
causa delle ferite riportate. Un anno dopo, tre donne ebbero l’idea di
creare una piattaforma di mappatura collettiva chiamata Safe-City 83,
sulla quale le vittime di molestie possono condividere dati sul luogo,
il giorno e l’orario dell’accaduto, «in modo da creare una mappa dei
“punti nevralgici”». I dati raccolti finora sono quanto mai interessanti:
le molestie piú diffuse sono i palpeggiamenti (persino piú frequenti
dei fischi di ammirazione), e il maggior numero di casi si verifica
sugli autobus pubblici, di solito parecchio affollati.
Soluzioni innovative come Safe-City sono certamente le
benvenute, ma non bastano a sostituire il lavoro di ricerca e analisi
dei dati svolto dai professionisti. Al momento, però, di dati ce ne
sono ben pochi, e il problema riguarda non solo i trasporti ma tutti gli
aspetti della pianificazione urbana. Nel 2016 un articolo del
«Guardian» auspicava la progettazione di città «a misura non solo di
uomo, ma anche di donna» e lamentava la scarsa disponibilità di
banche dati urbane «capaci di individuare fenomeni e tendenze sulla
base di informazioni disaggregate per genere», cosa che ostacolava
«lo sviluppo di programmi infrastrutturali sensibili alle esigenze delle
donne» 84. In certi casi, poi, il fatto che si cominci a raccogliere
informazioni non garantisce che lo si farà per sempre: il database di
ricerche su architettura e genere Gendersite, inaugurato nel 2008
nel Regno Unito, ha chiuso nel 2012 per mancanza di fondi 85. E
quando nella progettazione urbana non ci sono – e soprattutto non si
usano – i dati disaggregati, il pregiudizio maschile, anche
involontario, salta fuori dove meno lo si aspetta.
La maggior parte delle donne che frequentano una palestra avrà
sperimentato quel momento di esitazione che precede l’ingresso
nella zona pesi, quando si sa che il plotone di uomini presenti è già
pronto ad affibbiarti un campionario di soprannomi che grossomodo
va da «rompiscatole» a «fanatica». Certo, si può entrare e basta, ma
questo non elimina quella sorta di barriera mentale che è del tutto
sconosciuta ai maschi; per non farsi scoraggiare, insomma, bisogna
essere molto sicure di sé. Ma ci sono giorni in cui una proprio non se
la sente. Io, per esempio, uso spesso la palestra all’aperto del parco
vicino a dove abito, ma se è piena di uomini a volte lascio perdere:
non ho voglia di affrontare gli inevitabili sguardi che mi fanno sentire
un’intrusa.
Queste lamentele suscitano nella controparte maschile una sola,
immancabile reazione: ci si sente dire che le donne dovrebbero
smetterla di fare le mammolette – o, per meglio dire, le femministe
dovrebbero smetterla di dipingere le donne come tante mammolette.
Può darsi che ad alcune di noi certi sguardi di sottecchi e certe pose
da macho non facciano né caldo né freddo, ma questo non basta per
definire irragionevoli le donne che preferiscono invece tenersi alla
larga da determinate situazioni: ci sono stati moltissimi episodi di
ostilità maschile verso donne che pretendevano di fare esercizio
fisico in luoghi teoricamente aperti a tutti 86. Come i mezzi di
trasporto, dunque, anche le palestre sono un classico esempio di
spazio a misura di maschio camuffato da spazio paritario.
Va detto però che questo tipo di propensione al maschile si può
eliminare in fase di progettazione, e che si è già cominciato a
studiare il problema. Intorno alla metà degli anni Novanta una ricerca
promossa dalle autorità municipali di Vienna ha rilevato che a partire
dai dieci anni di età la presenza delle bambine nei parchi pubblici e
nelle aree gioco della città diminuiva «in misura significativa» 87. Ma
invece di fare spallucce e dichiarare che le bambine dovrebbero solo
essere un po’ piú toste, i funzionari del Comune si sono domandati
se per caso non ci fosse qualcosa di sbagliato nel modo in cui si
progettavano i parchi. Dopodiché hanno dato inizio a una fase di
sperimentazione e raccolta dati.
I risultati sono stati molto illuminanti. Si è scoperto che il problema
erano i grandi spazi aperti in cui le bambine avrebbero dovuto
competere con i maschi per assicurarsi una parte di territorio, ma
poiché non si sentivano abbastanza sicure (ecco a voi i magnifici
effetti del condizionamento sociale) non ci provavano nemmeno e
lasciavano che i maschi si prendessero tutto lo spazio. È bastato
dividere i grandi parchi in aree di minore estensione, e il tasso di
abbandono delle bambine si è azzerato. A quel punto ci si è occupati
anche delle attrezzature sportive all’interno dei parchi: in origine gli
spazi per le attività fisiche erano recintati lungo tutti i lati e avevano
un solo ingresso, davanti al quale era normale veder sostare gruppi
di ragazzi. Le ragazze, non volendo passare per quelle forche
caudine, facevano semplicemente a meno di entrare. Ed ecco il
colpo di scena. Claudia Prinz-Brandenburg, funzionaria del Comune
di Vienna, si fa avanti con una proposta semplicissima: aprire piú
ingressi, se possibile piú ampi 88. E suddividere i campi da gioco
come già era stato fatto con gli spazi erbosi: cosí a fianco delle aree
per il calcio o il basket se ne sono ricavate di nuove per attività piú
informali, come il canto o la danza, di solito piú amati dalle bambine.
I cambiamenti sono stati minimi, ma hanno funzionato. Un anno
dopo si è constatato che non solo c’erano piú bambine nei parchi,
ma il gioco libero era piú praticato. Oggi tutti i parchi di Vienna sono
progettati secondo quel modello.
Anche a Malmö, in Svezia, le autorità cittadine hanno accertato
che i piani di riqualificazione urbana a vantaggio dei «giovani» erano
pensati con un’ottica tipicamente maschile. La procedura standard
consisteva infatti nel creare spazi per il pattinaggio, l’arrampicata e la
street art 89. Il guaio era che i giovani che si dedicavano a quelle
attività erano in prevalenza maschi, con una percentuale di ragazze
intorno al dieci, venti per cento. E di nuovo, invece di voltarsi
dall’altra parte e dirsi che se alle ragazze non interessava utilizzare
quegli spazi era un problema loro, i funzionari del Comune hanno
cominciato a raccogliere dati.
Nel 2010, prima di avviare i lavori per un nuovo progetto di
rigenerazione su un’area in precedenza adibita a parcheggio per le
auto, gli amministratori cittadini invitarono le ragazze a farsi avanti
con le loro richieste 90. Oggi i nuovi spazi sono ben illuminati e, come
i parchi viennesi, suddivisi in aree di varie dimensioni su piú livelli 91.
E stando a quanto mi ha raccontato Christian Resebo, il funzionario
dell’assessorato al Traffico che ha partecipato al progetto, «sono
stati realizzati altri due spazi destinati alle ragazze e alle giovani
donne».
Un approccio piú sensibile alle specificità di genere torna utile non
solo alle ragazze, ma anche alle casse dei comuni. Un’altra città
svedese, Göteborg, distribuisce ogni anno contributi per circa ottanta
milioni di corone ai club e alle associazioni sportive cittadine.
Analizzando i dati si è tuttavia scoperto che i finanziamenti non
erano ripartiti con equità 92. I soldi andavano soprattutto agli sport
organizzati, in cui la presenza maschile è preponderante: in trentasei
attività sportive su un totale di quarantaquattro, le elargizioni del
Comune tornavano a vantaggio dei ragazzi, e per gli sport maschili
si spendevano in totale quindici milioni di corone in piú. Alcuni sport
femminili ricevevano minori finanziamenti, ma ce n’erano altri che
non ne ricevevano affatto, cosicché le ragazze interessate a
praticarli dovevano rivolgersi alle associazioni private e pagare di
tasca loro. Quando le famiglie non disponevano di mezzi sufficienti,
le ragazze erano costrette a rinunciare alla loro pratica sportiva
preferita.
Lo studio sui contributi allo sport del Comune di Göteborg
evidenziava che tra le conseguenze indirette del mancato sostegno
agli sport femminili può addirittura esservi un deterioramento della
salute mentale della popolazione femminile. Non solo: finanziare gli
sport femminili riduce la spesa sanitaria per le fratture dovute a
osteoporosi. L’esercizio fisico in giovane età incrementa la densità
delle ossa e diminuisce il rischio di impoverimento osseo in età
avanzata: non a caso molte ricerche sottolineano l’importanza
dell’attività sportiva soprattutto per le bambine in età prepuberale.
Il Comune di Göteborg spende ogni anno circa centocinquanta
milioni di corone per curare un migliaio di fratture da caduta; tre
quarti degli infortuni sono subiti da donne, il che corrisponde a una
spesa di poco superiore ai centodieci milioni di corone. La
conclusione è la seguente: «se un incremento degli stanziamenti a
favore degli sport femminili pari a quindici milioni di corone
determina una riduzione del quattordici per cento delle fratture da
osteoporosi, l’investimento si ripaga da sé».
Quando i responsabili dei progetti non tengono conto della
diversità dei sessi, gli spazi pubblici diventano maschili per default.
Solo che metà della popolazione mondiale ha un corpo femminile.
Metà della popolazione mondiale deve ogni giorno fare i conti con la
minaccia sessualizzata ai danni di quel corpo. Ma è l’intera
popolazione mondiale ad aver bisogno delle cure che al momento
sono prestate, gratuitamente, soprattutto da donne. Dunque è
evidente che non stiamo parlando di interessi di nicchia, e se
davvero vogliamo che gli spazi pubblici siano di tutti dobbiamo
cominciare a tener conto dell’altra metà del mondo. Come abbiamo
visto, non è solo questione di giustizia ma anche di semplicissimi
principî economici.
Progettare le città facendo attenzione alle responsabilità di cura
delle donne significa anche aiutarle a inserirsi a pieno titolo nella
forza lavoro retribuita e, come vedremo nel prossimo capitolo,
l’occupazione femminile è un importante volano di crescita del
prodotto interno lordo. Prendere atto della violenza sessuale che
minaccia le donne e adottare efficaci misure preventive (per esempio
mettendo a disposizione un numero sufficiente di servizi igienici
riservati) permette un risparmio a lungo termine, perché riduce gli
ingenti costi economici della violenza contro le donne. Anche
considerare le esigenze della socializzazione femminile negli spazi
aperti è un risparmio a lungo termine, perché tutela la salute fisica e
mentale delle donne.
Quando la progettazione degli spazi pubblici esclude metà della
popolazione mondiale il problema non sono le risorse, ma le priorità:
che lo si faccia di proposito o meno, è chiaro che in questo momento
le donne non sono considerate una priorità. È una palese ingiustizia
e un grave errore economico. Le donne hanno uguale diritto alle
risorse pubbliche; dobbiamo smettere di escluderle a priori.
Parte seconda
Luoghi di lavoro
III.
Il venerdí lungo

Verso sera, gli islandesi avevano già cominciato a chiamarlo «il


venerdí lungo» 1. Era il 24 ottobre del 1975, e tutti i supermercati del
Paese avevano finito le salsicce, «il piatto pronto piú gradito a quei
tempi». Gli uffici erano stati invasi da torme di bambini «drogati»
dalle caramelle con cui gli adulti cercavano di tenerli buoni. Scuole,
asili, fabbriche, erano tutti chiusi o funzionavano a capacità ridotta. E
le donne? Be’, le donne si erano prese un giorno libero.
Alcuni mesi prima le Nazioni unite avevano annunciato che il
1975 sarebbe stato l’anno delle donne: ebbene, le islandesi erano
decise a fare sul serio. Dopo una fase di confronto, il comitato
composto dalle rappresentanti di cinque grandi organizzazioni
femminili del Paese deliberò di organizzare uno sciopero. Il 24
ottobre le islandesi avrebbero incrociato le braccia: non sarebbero
andate al lavoro, non avrebbero né cucinato, né pulito la casa, né
accudito i bambini. I maschi avrebbero dovuto cavarsela senza il
lavoro invisibile e quotidiano con cui le donne mandavano avanti il
Paese.
Alla sciopero aderí il novanta per cento della popolazione
femminile. Venticinquemila donne si radunarono per una
manifestazione – la piú partecipata delle oltre venti che si tennero in
tutta l’isola – nella piazza centrale di Reykjavík, e venticinquemila
persone sono tante, su una popolazione complessiva di
duecentoventimila 2. Un anno dopo, nel 1976, il governo approvò
una legge per la parità di diritti che metteva al bando la
discriminazione sessuale nelle scuole e sui luoghi di lavoro 3. Cinque
anni dopo, Vigdís Finnbogadóttir ebbe la meglio su tre candidati
maschi e divenne la prima donna presidente della repubblica; oggi
l’Islanda ha il parlamento piú paritario del mondo, e il risultato è stato
raggiunto senza l’aiuto delle quote di genere 4. Nel 2017 si è
piazzata per l’ottava volta consecutiva al primo posto nella classifica
Global Gender Gap Index del Forum economico mondiale 5.
Secondo l’«Economist», l’Islanda è il miglior Paese al mondo per
le donne lavoratrici 6. È una buona notizia, questo è ovvio, tuttavia
non si può fare a meno di avanzare una piccola critica ai giornalisti
dell’autorevole settimanale: se c’è una cosa che lo sciopero delle
islandesi ha dimostrato con chiarezza è che l’espressione «donna
lavoratrice» è una tautologia. Non esiste una «donna non
lavoratrice»: esiste tutt’al piú una donna che non viene pagata per il
suo lavoro.
In tutto il mondo, il settantacinque per cento del lavoro non
retribuito è svolto dalle donne 7; la quantità di tempo dedicata ogni
giorno al lavoro gratuito va dalle tre alle sei ore, contro una media
maschile che varia da trenta minuti a due ore 8. La disparità comincia
presto (le bambine di cinque anni sbrigano già molte piú faccende
domestiche dei loro fratelli) e aumenta con il passare degli anni.
Persino nel Paese in cui gli uomini lavorano gratis per il maggior
numero di ore, cioè la Danimarca, le ore di lavoro gratuito maschile
sono sempre meno delle ore di lavoro gratuito a carico delle donne
norvegesi; e la Norvegia è il Paese in cui le donne lavorano di
meno 9.
Ogni volta che mi capita di sollevare la questione della disparità
tra il carico di lavoro non pagato di uomini e donne, la reazione di chi
mi ascolta è sempre la stessa: «Ma ultimamente le cose vanno
meglio, no? Poco per volta gli uomini si stanno abituando a fare di
piú, giusto?» A livello individuale, certo, ci sono uomini che fanno di
piú. A livello nazionale, purtroppo, non è cosí: la quota di lavoro non
retribuito maschile non accenna a crescere. In Australia, ad
esempio, persino nelle famiglie piú agiate che possono permettersi
un aiuto domestico rimane una parte di lavoro non retribuito che
tocca soprattutto alle donne 10. Nel corso del tempo, la crescente
partecipazione femminile alla forza lavoro retribuita non è stata
bilanciata da una crescente partecipazione maschile al lavoro non
pagato: le donne si sono semplicemente rassegnate a lavorare piú
ore, e da numerosi studi svolti negli ultimi vent’anni risulta che il
carico di lavoro non pagato svolto dalle donne è comunque
maggiore, indipendente dal loro contributo proporzionale al bilancio
domestico 11.
Anche quando gli uomini scelgono di incrementare la propria
quota di lavoro gratuito, spesso non si fanno carico delle mansioni di
routine 12 che rappresentano la gran parte del lavoro domestico 13,
ma selezionano i compiti piú gradevoli, come l’accudimento dei figli.
Le donne si sobbarcano in media il sessantuno per cento del lavoro
domestico: in India, per esempio, le faccende di casa assorbono
cinque delle sei ore quotidiane di lavoro non retribuito delle donne,
mentre i maschi gli dedicano soltanto tredici minuti 14. Inoltre è raro
che gli uomini si occupino degli aspetti piú personali, scomodi o
emotivamente faticosi dell’assistenza agli anziani. Nel Regno Unito,
il settanta per cento delle persone che si prende cura dei pazienti
affetti da demenza è donna 15, e il piú delle volte sono le donne a
lavarli, a vestirli, ad aiutarli a usare il bagno e a gestire
l’incontinenza 16. È due volte piú probabile che sia una donna a
fornire assistenza intensiva e continuativa ventiquattr’ore su
ventiquattro, e ad accudire un malato di demenza per piú di cinque
anni 17. Inoltre le donne ricevono meno sostegno rispetto agli uomini,
perciò rischiano di sentirsi piú isolate e di soffrire di depressione,
condizione che è a sua volta un fattore di rischio per la demenza 18.
L’altro cinquanta per cento della popolazione, intanto, continua a
dedicarsi ai suoi passatempi preferiti: televisione, sport, videogiochi.
Gli americani riescono a ritagliarsi ogni giorno un’ora di riposo in piú
rispetto alle donne 19, e in Gran Bretagna l’ufficio statistico nazionale
ha accertato che la popolazione maschile può contare su cinque ore
settimanali di tempo libero in piú 20. Secondo uno studio australiano,
infine, il poco tempo libero a disposizione delle donne è «piú
frammentato e intervallato da varie incombenze» rispetto a quello
degli uomini 21.
La conclusione è che in tutto il mondo, con pochissime eccezioni,
il nostro orario di lavoro è piú lungo di quello degli uomini. Non tutti i
Paesi forniscono dati disaggregati per sesso, ma quando i dati ci
sono la tendenza è chiara. In Corea del Sud le donne lavorano ogni
giorno trentaquattro minuti piú degli uomini, in Portogallo novanta, in
Cina quarantaquattro, in Sudafrica quarantotto 22. Secondo la Banca
mondiale le donne ugandesi lavorano in media quindici ore al giorno,
e gli uomini solo nove. Dunque lo scarto esiste ovunque, anche se la
sua entità varia da Paese a Paese 23.
Da uno studio statunitense del 2010 sulle caratteristiche del
lavoro domestico gratuito svolto da un campione di ricercatori
scientifici di entrambi i sessi è emerso che le donne si accollavano il
cinquantaquattro per cento dei compiti di preparazione dei cibi,
pulizia e bucato, prolungando di piú di dieci ore la durata di una
settimana lavorativa che arrivava cosí a sfiorare le sessanta ore; il
contributo dei maschi, invece, non superava il ventotto per cento, e il
loro tempo lavorativo settimanale aumentava della metà 24. Le
donne svolgevano anche il cinquantaquattro per cento del lavoro di
cura genitoriale, contro il trentasei per cento dei maschi. In India il
lavoro non pagato rappresenta il sessantasei per cento dell’orario
lavorativo femminile, contro il dodici dei maschi. In Italia il
sessantuno per cento del lavoro femminile è lavoro non retribuito,
mentre la quota maschile si ferma al ventitre; in Francia, le
percentuali sono rispettivamente del cinquantasette e trentotto per
cento.
Il carico di lavoro supplementare si ripercuote negativamente sulla
salute delle donne. Sappiamo da tempo che le pazienti sottoposte a
interventi cardiochirurgici (soprattutto prima dei cinquantacinque
anni) hanno esiti peggiori rispetto agli uomini; tuttavia la ragione del
fenomeno si è scoperta soltanto nel 2016, grazie a un gruppo di
ricercatori canadesi. «Ci siamo accorti che le donne tornano a casa
e riprendono subito le loro mansioni di cura, mentre gli uomini
hanno, nella maggior parte dei casi, qualcuno che si occupa di loro»,
spiega Colleen Norris, coordinatrice della ricerca 25.
A questo punto è facile capire perché, secondo uno studio
condotto in Finlandia 26, in caso di infarto le donne che vivono sole si
riprendono meglio di quelle sposate. Soprattutto se si considera che
avere un marito comporta per ogni donna sette ore settimanali di
lavoro domestico in piú 27. Uomini e donne single dedicano alle
faccende di casa pressappoco la stessa quantità di tempo; quando
invece inizia la coabitazione, «il carico di lavoro domestico delle
donne aumenta mentre quello degli uomini diminuisce,
indipendentemente dalla posizione lavorativa di entrambi»,
sostengono gli autori di uno studio australiano 28.
L’«Economist» non è il solo periodico a parlare di lavoro femminile
dimenticandosi di quello non retribuito. Quando una rivista
economica come «Inc.» annuncia a suon di editoriali che «secondo
la scienza» non bisognerebbe lavorare piú di quaranta ore la
settimana 29, o quando il «Guardian» ci fa sapere che se dedichiamo
al lavoro piú di trentanove ore settimanali «rischiamo la vita», la
verità è che non stanno parlando con le donne, perché per noi non
c’è nessun «se» 30. Le donne lavorano ben piú di quaranta ore a
settimana, sempre. E la vita la rischiano eccome.
Il primo segnale è lo stress. Nel 2017 il Comitato esecutivo per la
sanità e la sicurezza (Health and Safety Executive, Hse) della Gran
Bretagna ha pubblicato un rapporto dal quale risulta che in qualsiasi
fascia di età le donne hanno livelli di stress, ansia e depressione
superiori rispetto a quelli dei maschi 31. In generale lo scarto si
aggirava intorno al cinquantatre per cento, ma il sovraccarico di
stress era particolarmente cospicuo per le donne di età compresa fra
i trentacinque e i quarantaquattro anni. Se tra i maschi si contavano
1270 casi di stress ogni centomila lavoratori, per le donne l’incidenza
era quasi doppia: 2250 casi ogni centomila lavoratrici.
Secondo l’Hse, il divario era conseguenza del tipo di attività svolta
(lo stress è maggiore per i dipendenti di alcuni servizi pubblici come
istruzione, sanità e assistenza sociale), nonché delle «differenze
culturali tra gli atteggiamenti e le opinioni maschili e femminili in
relazione allo stress». Entrambi i fattori potrebbero in effetti avere un
qualche peso, ma l’indagine dell’Hse appare compromessa da un
evidente vuoto di dati di genere.
Dal 1930 l’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo) ha
stabilito che la durata massima della settimana lavorativa (intesa
come lavoro retribuito) non debba superare le quarantotto ore 32: al
di là di quella soglia i lavoratori cominciano a rimetterci in salute.
Negli ultimi tempi, tuttavia, sembra farsi strada l’ipotesi che le cose
siano un po’ piú complicate di cosí.
Da un’analisi effettuata nel 2011 sullo stato di salute dei
dipendenti pubblici inglesi tra il 1997 e il 2004 è risultato che un
carico di lavoro superiore alle cinquantacinque ore settimanali
aumentava in misura notevole il rischio di ansia e depressione tra le
donne, ma non sembrava avere un impatto statisticamente
significativo sugli uomini 33. Il rischio di effetti negativi sulla salute
mentale delle lavoratrici si evidenziava anche con un carico
settimanale di poco inferiore, fra le quarantuno e le cinquantacinque
ore. Tale risultato era in linea con le conclusioni raggiunte da uno
studio canadese del 1999 34 e da un’analisi condotta nel 2017 35 su
sei anni di informazioni estrapolate da un’indagine sui redditi familiari
e le dinamiche del lavoro in Australia: in entrambi i documenti si
affermava che per tutelare la salute psichica delle donne il loro orario
di lavoro retribuito avrebbe dovuto essere molto inferiore a quello
degli uomini.
Ma non è solo un problema di salute mentale. Da alcuni studi
condotti in Svezia è emerso che una moderata quantità di lavoro
straordinario aumenta i ricoveri ospedalieri e il tasso di mortalità
delle donne, ma al contrario ha un effetto protettivo sugli uomini 36.
Differenze analoghe sono state riscontrate in una ricerca
statunitense del 2016 sulle conseguenze del lavoro straordinario
nell’arco di trentadue anni 37: mentre per gli uomini un modesto
prolungamento dell’orario di lavoro (fra le quarantuno e le cinquanta
ore settimanali in tutto) era «associato a un minor rischio di patologie
cardiache, patologie polmonari croniche e depressione», per la forza
lavoro femminile era causa di un sistematico e «allarmante
incremento» delle patologie gravi, comprese le cardiopatie e i tumori.
Il rischio di ammalarsi aumentava al superamento della
quarantesima ora di lavoro settimanale. Un carico di lavoro medio
intorno alle sessanta ore settimanali nell’arco di piú di trent’anni
aveva l’effetto di triplicare il rischio.
Che cosa significa tutto questo? Forse le donne sono davvero il
sesso debole?
Non proprio. L’analisi della realtà australiana ha infatti rilevato
che, sebbene l’uomo medio sia in grado di lavorare per molte piú ore
di una donna senza che la sua salute mentale ne risenta, c’è una
particolare categoria di soggetti in cui il divario di genere si riduce
sensibilmente, ed è quella dei lavoratori liberi (o quasi) da
responsabilità di cura. Nel loro caso, la soglia-limite del carico
lavorativo appaiono molto piú vicine alle quarantotto ore stabilite
dall’Ilo, senza alcuna differenza tra uomini e donne. Il problema è
che le donne non sono libere da responsabilità di cura. È solo che il
loro lavoro è invisibile.
Casi come quello di Ryan Gosling, che alla cerimonia dei Golden
Globe 2017 ringrazia la sua compagna Eva Mendes e ammette che
senza il suo aiuto (senza il suo lavoro gratuito di accudimento dei
figli) lui non avrebbe potuto essere lí ad accettare il premio, sono piú
unici che rari 38. Purtroppo capita molto piú spesso di aver a che fare
con dei veri e propri campioni di ottusità, come il capufficio descritto
da Hadley Freeman in un articolo sul «Guardian»: «“Anch’io ho dei
figli, però lavoro tutti i giorni”, ha rinfacciato alla mia amica che gli
chiedeva di lasciarle i venerdí liberi. “Sí, ma sua moglie si è
licenziata per potersene occupare”, avrebbe voluto rispondergli
lei» 39.
Quel capufficio non vedeva – o forse non voleva vedere – la
quantità di lavoro gratuito che gli orbitava intorno: quel lavoro che gli
permetteva di avere dei figli e anche un bell’impiego a tempo pieno.
Il fatto che lui non avesse bisogno dei venerdí liberi non dimostrava
che fosse piú bravo della sua dipendente, ma soltanto che lei non
aveva a casa una moglie a tempo pieno.
Non è detto che tutti i dirigenti maschi eterosessuali abbiano a
casa una moglie a tempo pieno, perché sono molte le donne che
non possono permettersi di rinunciare completamente al lavoro. E
cosí, per conciliare nel migliore dei modi lavoro retribuito e
responsabilità di accudimento, le donne scelgono il part-time: stiamo
parlando del quarantadue per cento delle lavoratrici in Gran
Bretagna, contro l’un per cento dei maschi, ovvero di una forza
lavoro part-time composta per il settantacinque per cento da
donne 40. Ma chi lavora a orario ridotto riceve una paga oraria
inferiore rispetto ai lavoratori a tempo pieno, anche perché gli
incarichi che prevedono il job sharing o l’orario flessibile non sono
quasi mai di alto livello. È cosí che le donne finiscono per
accontentarsi di mansioni al di sotto delle loro capacità, che
garantiscono la flessibilità di cui hanno bisogno 41 ma non lo
stipendio che meritano 42.
In Scozia nel 2016 il divario retributivo di genere era in media del
quindici per cento, ma il valore medio non tiene conto della
sostanziale disparità fra tempo pieno e tempo parziale 43. Nella
categoria dei dipendenti (uomini e donne) a tempo pieno lo scarto
salariale tra maschi e femmine era intorno all’undici per cento, ma
tra i lavoratori full-time e le lavoratrici part-time c’era uno scarto
retributivo del trentadue per cento. Nel 2017, in Gran Bretagna, la
paga oraria mediana dei dipendenti (uomini e donne) a tempo pieno
era di quattordici sterline 44, contro 9,12 per i dipendenti (uomini e
donne) a tempo parziale 45.
Alcuni chiamano «scelta» questa segregazione delle donne nei
posti di lavoro meno pagati. Ma è uno strano tipo di scelta, quando
non ci sono altre opzioni realistiche eccetto abbandonare i figli a sé
stessi e la casa all’incuria. Comunque sia, l’abbondante mole di dati
fornita da cinquant’anni di censimenti americani 46 dimostra che
quando la forza lavoro femminile affluisce numerosa verso un dato
settore produttivo, quel settore registra una diminuzione dei
compensi e una perdita di «prestigio» 47, il che fa pensare che siano
i lavori sottopagati a scegliere le donne, e non viceversa.
Questa scelta-che-non-è-una-scelta sta impoverendo le donne.
Un recente studio dell’Ocse ha evidenziato che il divario retributivo
tra i sessi è sensibilmente maggiore nei Paesi in cui le donne
dedicano piú tempo degli uomini al lavoro gratuito di cura 48. In Gran
Bretagna, il sessantuno per cento della popolazione che guadagna
meno di quanto serve per vivere 49 è composto da donne; secondo i
calcoli dell’Institute for Fiscal Studies, inoltre, il divario retributivo di
genere sale al trentatre per cento nei dodici anni successivi alla
nascita di un figlio, evento che infligge una netta battuta d’arresto a
carriere e salari di molte lavoratrici 50. Negli Stati Uniti, lo scarto
retributivo tra lavoratrici madri e lavoratori sposati con figli è tre volte
maggiore della differenza tra i salari di donne e uomini senza figli 51.
Nel corso del tempo le differenze di salario si sommano tra loro. In
Germania una lavoratrice di quarantacinque anni con un figlio può
aver guadagnato fino a duecentosessantamila euro in meno rispetto
a una sua coetanea che abbia sempre lavorato a tempo pieno 52.
Altri dati raccolti in Francia, Germania, Svezia e Turchia dimostrano
che, pur tenendo conto dei trasferimenti sociali erogati in alcuni
Paesi a compenso del lavoro di cura, le donne guadagnano nel
corso della vita dal trentuno al settantacinque per cento in meno
degli uomini 53.
Se le donne in età avanzata rischiano di sprofondare in uno stato
di povertà estrema, una delle possibili cause è che non hanno potuto
risparmiare quanto bastava per garantirsi una vecchiaia piú
tranquilla. Ma c’è anche un’altra spiegazione, ed è che i sistemi
pensionistici statali non tengono conto dei minori guadagni che una
donna accumula nella sua vita lavorativa. Questo non è, a rigore, un
vuoto di dati: i dati esistono eccome. Ma se i governi non li usano –
come in effetti accade – raccoglierli non serve a niente.
Dietro consiglio delle istituzioni finanziarie internazionali, Banca
mondiale in primis, negli ultimi decenni i regimi pensionistici privati
basati sul versamento volontario di fondi per l’accumulo di un
capitale hanno integrato quasi ovunque i sistemi di previdenza
sociale pubblica 54. Le rendite erogate al lavoratore in pensione sono
calcolate in funzione dell’entità del capitale e della durata prevista
del periodo di riscossione. Questo sistema penalizza le donne in tre
modi diversi: perché devono sottrarre al lavoro retribuito una parte di
tempo da dedicare a quello non retribuito, perché vanno in pensione
prima (in alcuni Paesi e settori lavorativi è ancora un obbligo di
legge) e perché vivono piú a lungo.
Sempre in questo ambito, ci sono altre misure che tornano a
vantaggio degli uomini. L’Australia, per esempio, ha recentemente
approvato alcune concessioni fiscali a favore dei fondi pensione (e si
sa che i lavoratori maschi tendono ad avere un salvadanaio
pensionistico piú ricco) 55, mentre nel Regno Unito l’adesione ai
sistemi pensionistici privati non è piú volontaria ma automatica: e,
come in molte altre nazioni, ci si dimentica di risarcire le donne per i
periodi in cui hanno smesso di far parte della forza lavoro retribuita
per dedicarsi ai compiti di accudimento. Il risultato è che le donne
«perdono una quota essenziale di contributi pensionistici» 56. Ancor
piú grave è il non tener conto del fatto che le donne, per meglio
conciliare il loro duplice carico di lavoro, tendono a svolgere piú di un
lavoro part-time 57. Per aver accesso ai programmi di autoiscrizione
alla pensione complementare bisogna avere una retribuzione annua
di almeno diecimila sterline, e molte lavoratrici riescono a superare
quella soglia solo cumulando gli stipendi erogati dai diversi datori di
lavoro: cosa che però non è consentita dal regolamento attuale. Ciò
significa che «due milioni e settecentomila lavoratrici, pari al
trentadue per cento della forza lavoro femminile, non avranno i
requisiti necessari per beneficiare dell’autoiscrizione alla pensione
complementare, contro il solo quattordici per cento dei lavoratori
maschi» 58.
Un esempio opposto ci viene da Paesi come Brasile, Bolivia e
Botswana, in cui la copertura pensionistica è pressoché totale e il
divario di genere è stato ridotto «grazie all’introduzione di schemi
non contributivi facilmente accessibili a tutti» 59. Alle lavoratrici
boliviane viene accreditato un anno di contributi per ogni figlio, fino a
un massimo di tre. Si è inoltre scoperto che l’introduzione di crediti
pensionistici a favore del genitore che ha la responsabilità primaria
dei figli incentiva gli uomini ad assumersi una quota maggiore del
lavoro di accudimento 60 (e, come effetto secondario, potrebbe offrire
una soluzione a lungo termine al problema della povertà femminile).
Il nocciolo della questione sta tutto in una domanda: il lavoro non
retribuito delle donne è sottovalutato perché è invisibile, o è invisibile
perché non gli diamo il giusto valore?
Oltre a correggere gli squilibri della normativa pensionistica che
tornano a favore dei maschi, i governi dovrebbero anche affrontare il
problema della povertà femminile in tarda età con misure che
permettano alle donne di non rinunciare al lavoro retribuito. Un primo
passo – ma non certo l’ultimo – in questa direzione potrebbe
consistere nel compensare in modo adeguato il congedo per
maternità.
All’interno dell’Unione europea, i Paesi che hanno adottato misure
efficaci a sostegno dei genitori che lavorano hanno tassi di
occupazione femminile piú elevati 61. Numerosi studi hanno
dimostrato che il congedo per maternità ha un impatto positivo sulla
partecipazione femminile alla forza lavoro retribuita 62. Al di là del
dato generale, i benefici sono evidenti anche in termini di numero di
ore lavorate e retribuzione percepita. E il provvedimento appare
particolarmente vantaggioso per le donne a basso reddito 63.
C’è un problema, però: non tutte le politiche di congedo per
maternità sono uguali, e la differenza è data dal periodo di
erogazione e dall’entità del contributo. Se il periodo di congedo non
è sufficiente, c’è il rischio che le lavoratrici escano del tutto dalla
forza lavoro retribuita 64 o passino a un impiego part-time 65.
Accortisi che il tasso di licenziamento delle dipendenti appena
diventate madri era doppio rispetto a quello degli altri stipendiati, i
dirigenti di Google hanno immediatamente potenziato il congedo per
maternità, portandolo da tre mesi con stipendio ridotto a cinque mesi
con il cento per cento dello stipendio: il tasso di logoramento si è
dimezzato all’istante 66.
Con la sola eccezione degli Stati Uniti, tutti i Paesi industrializzati
garantiscono un congedo di maternità retribuito 67, ma in molti casi
non centrano il bersaglio in termini di entità della retribuzione o di
durata del congedo. Almeno una delle due è quasi sempre sbagliata.
Da una recente analisi condotta in Australia è risultato che la durata
ottimale (tale cioè da assicurare la partecipazione continuativa alla
forza lavoro) va da sette mesi a un anno 68, ma nessun Paese al
mondo offre un congedo retribuito come si deve per cosí tanto
tempo.
Dodici Paesi dell’Ocse garantiscono la totalità dello stipendio, ma
in nessun caso si va oltre le venti settimane, con una media di
quindici. Il Portogallo è tra i Paesi che concedono un’indennità pari
all’intera retribuzione, ma per sole sei settimane. Invece in Australia
ci si può astenere dal lavoro per diciotto settimane, ma si percepisce
il quarantadue per cento della busta paga. L’Irlanda garantisce
ventisei settimane di congedo, ma al trentaquattro per cento dello
stipendio. Per le donne che vivono in quei Paesi, sfruttare la durata
massima del periodo di astensione dal lavoro è una possibilità
soltanto teorica.
I politici inglesi amano vantarsi (e l’hanno fatto soprattutto prima
del referendum sulla permanenza nell’Ue) che qui da noi il permesso
di maternità è «piú generoso» delle quattordici settimane prescritte
dalla Direttiva europea 92/85/CEE del 1992 per la protezione delle
lavoratrici gestanti e delle giovani madri 69. Tecnicamente è vero, ma
ciò non significa che le madri inglesi ricevano un trattamento migliore
rispetto alle loro controparti europee: in realtà nei Paesi dell’Unione
la lunghezza media del congedo retribuito per maternità è di
ventidue settimane 70, anche se il dato nasconde significative
variazioni. La Croazia, per esempio, garantisce trenta settimane di
congedo al cento per cento dello stipendio, contro le trentanove del
Regno Unito a un’indennità media pari al trenta per cento della busta
paga. Tant’è vero che un’analisi condotta nel 2017 collocava la Gran
Bretagna al ventiduesimo posto su ventiquattro nazioni in base alla
durata del «congedo di maternità retribuito in modo adeguato» (pari
a 1,4 mesi).
Ora che la Gran Bretagna si prepara alla Brexit, tutto lascia
pensare che il confronto con i vicini europei la vedrà sempre piú
svantaggiata sotto questo aspetto. A partire dal 2008 l’Ue ha cercato
di estendere il congedo per maternità a venti settimane a stipendio
intero 71: la proposta è rimasta nel limbo per anni, dopodiché, nel
2015, è stata definitivamente abbandonata in buona parte grazie alla
strenua opposizione della Gran Bretagna e delle sue lobby
economiche 72. Senza piú la Gran Bretagna, forse tra poco le donne
dell’Unione europea potranno beneficiare di questa riforma
progressista. E pensare che nel 2012 Martin Callanan, ora ministro
della Brexit, aveva incluso la Direttiva europea per la protezione
delle lavoratrici gestanti e delle giovani madri nell’elenco delle
«barriere alla crescita dell’occupazione» che «potremmo
smantellare» 73.
Già oggi l’assenza totale di congedo per maternità è una realtà
concreta per alcune lavoratrici inglesi, poiché la Direttiva europea
92/85/CEE non contempla le donne che hanno incarichi politici. Le
parlamentari in maternità possono in teoria ricorrere al sistema degli
«accoppiamenti» secondo il quale ogni deputata è abbinata a un
collega che voterebbe in modo contrario, cosicché se la deputata è
assente nessuno dei due vota. La dimostrazione pratica
dell’inadeguatezza del sistema si è avuta nel luglio del 2018, quando
il deputato conservatore Brandon Lewis, abbinato alla
liberaldemocratica Jo Swinson, ha «misteriosamente» dimenticato
che non avrebbe dovuto partecipare a due votazioni cruciali sulla
Brexit, vinte di stretta maggioranza dal governo.
Se già non bastasse, a livello di organismi locali la situazione è
ancora peggiore. In base all’articolo 85 della legge del 1972 sul
governo degli enti locali, «il membro di un Consiglio che non si
presenti alle riunioni per sei mesi decade dall’incarico, a meno che
l’assenza sia stata autorizzata dall’ente medesimo». Ci sarebbe da
augurarsi che il congedo per maternità rientri tra le assenze
giustificate, ma secondo un’indagine promossa dalla Fawcett Society
soltanto dodici amministrazioni locali in Gran Bretagna (pari al
quattro per cento del totale) hanno una propria normativa in materia;
alcune si regolano con accordi informali, ma ben tre quarti del totale
non garantiscono nulla 74. E cosí, grazie a una politica che non
considera metà della popolazione – quella, guarda caso, che mette
al mondo i figli –, le donne finiscono per perdere il lavoro.
Nel 2015 una consigliera del borough londinese di Newham,
Charlene McLean, fu ricoverata in ospedale per mesi dopo aver dato
alla luce un neonato prematuro. Benché fosse sempre rimasta in
contatto con il Consiglio di distretto, e benché le fosse stato garantito
che nel suo caso valeva la normale disciplina del lavoro, quando
finalmente poté ripresentarsi a una riunione le venne detto che,
siccome la sua assenza era stata superiore ai sei mesi, avrebbe
dovuto farsi riconfermare con un’apposita elezione suppletiva. Dopo
il clamore sollevato da quel caso i consiglieri di Newham, invece di
modificare i regolamenti in modo da tenere conto delle realtà
fisiologiche femminili, pensarono bene di assicurarsi che tutte le
madri in attesa fossero correttamente informate sulla loro mancanza
di diritti 75. La stessa mancanza sperimentata un anno piú tardi da
Brigid Jones, assessora per i servizi all’infanzia presso il Consiglio
municipale di Birmingham, alla quale fu detto che in caso di
gravidanza avrebbe dovuto dimettersi.
Le cose vanno ancora peggio negli Stati Uniti, uno dei quattro
Paesi al mondo che non garantiscono alcuna indennità alle madri 76.
In base alla legge sulla famiglia e sui congedi per malattia ogni
lavoratrice ha diritto a dodici settimane di congedo non retribuito, ma
la norma prevede svariate eccezioni: per esempio, vale soltanto per
le madri che lavorano da almeno dodici mesi in un’azienda con
almeno altri cinquanta dipendenti 77. Quindi persino la maternità non
pagata è garantita solo al sessanta per cento delle lavoratrici 78, e
non c’è nulla che metta al sicuro dal licenziamento il restante
quaranta per cento della forza lavoro femminile. Tanto piú che solo
una minima parte delle lavoratrici può permettersi di prendere un
congedo non retribuito: e cosí una madre americana su quattro torna
al lavoro entro due settimane dal parto.
La situazione è un po’ migliore per i dipendenti pubblici o per chi
lavora in certe aziende: nel gennaio del 2016 il presidente Barack
Obama ha concesso sei settimane di congedo parentale retribuito ai
dipendenti federali 79, e oggi quattro stati (California, Rhode Island,
New York e New Jersey, piú il distretto federale di Washington)
garantiscono il congedo parentale con un’indennità finanziata grazie
ai contributi di previdenza sociale dei dipendenti 80. Ci sono poi le
poche fortunate alle dipendenze di aziende che includono tra i
benefit un’indennità di maternità. Ma anche tenendo conto di queste
eccezioni, rimane un ottantacinque per cento di donne americane
che non ha alcuna forma di congedo retribuito 81.
Si è cercato piú volte, ma senza successo, di risolvere il
problema: il tentativo piú recente è stato fatto dall’amministrazione
Trump, che nel 2018 ha suggerito in sede di bilancio federale di
garantire alle neomamme sei settimane di sussidio di
disoccupazione 82. La proposta è stata bocciata; anche se fosse
passata, tuttavia, la durata e l’ammontare dell’indennità non
sarebbero stati sufficienti ad accrescere la partecipazione femminile
alla forza lavoro. Cosa di cui gli Stati Uniti avrebbero invece grande
bisogno, giacché, a differenza delle altre economie industrializzate,
quella statunitense segna un calo dell’occupazione femminile;
secondo uno studio del 2013 la mancanza di politiche per la famiglia
incide per quasi un terzo sulla contrazione 83.
E cosí gli Stati Uniti continuano a cercare soluzioni a questo
problema apparentemente insormontabile. L’ultima trovata del
governo non è che l’ennesimo esempio di come una politica cieca
alle differenze di genere possa, senza nemmeno farlo apposta,
discriminare le donne 84. Mentre scrivo queste pagine (è il 2018) i
deputati repubblicani plaudono entusiasti alla proposta che
consentirebbe ai lavoratori di pagarsi l’indennità di maternità
riscuotendo i contributi previdenziali prima dell’età di pensionamento,
andando poi in pensione a un’età piú avanzata per compensare la
spesa. Facile capire perché quest’idea gli piaccia tanto: non costa un
centesimo allo Stato. Ma per le donne di costi ce ne sono, e niente
affatto secondari. A causa del divario retributivo e delle frequenti
assenze dal lavoro motivate dalla cura dei figli, i contributi
previdenziali delle lavoratrici sono già piú bassi di quelli degli uomini,
e una soluzione del genere non farebbe che aggravare la
situazione 85. E poiché le donne vivono piú a lungo e trascorrono piú
anni in uno stato di salute precario, avrebbero bisogno di pensioni
piú generose, non il contrario 86. In sostanza, l’effetto piú visibile
della nuova norma sarebbe un ulteriore depauperamento della
popolazione femminile in età avanzata.
Un altro ambito della realtà statunitense in cui le politiche
insensibili alle questioni di genere finiscono di fatto per produrre
discriminazione è quello universitario. Dopo il primo contratto a
termine con un ateneo, gli accademici hanno sette anni di tempo per
entrare in ruolo a tempo indeterminato, altrimenti perdono il posto. È
un sistema che discrimina le donne, soprattutto quelle che vogliono
avere figli, anche perché il tempo che intercorre tra il conseguimento
di una laurea di grado PhD (che si ottiene solitamente intorno ai
trent’anni) e la conferma in ruolo (che arriva verso i quaranta)
coincide con l’età in cui è piú normale cercare una gravidanza 87. Il
risultato? Rispetto ai loro colleghi sposati e con figli piccoli, le madri
con bambini altrettanto piccoli hanno il trentacinque per cento in
meno di probabilità di ottenere incarichi che portino a un
inquadramento definitivo 88, e se nel corpo docente di ruolo delle
università americane il settanta per cento degli uomini è sposato e
ha figli, per le donne la percentuale si ferma al quarantaquattro 89.
Le università hanno fatto ben poco per colmare il divario, e
spesso hanno agito con cosí poca attenzione per la dimensione di
genere da riuscire talvolta a esacerbare i problemi che avrebbero
voluto risolvere 90. Negli anni Novanta e nei primi anni Duemila
alcune università statunitensi sperimentarono quella che avrebbe
voluto essere una politica favorevole alle famiglie: ai docenti con figli
sarebbe stato concesso un anno in piú per completare il percorso di
immissione in ruolo. Ma non erano «i docenti» in generale ad aver
bisogno di quella concessione, bensí le docenti madri. «Mettere al
mondo dei figli non è un evento senza distinzioni di genere» ha
osservato con una certa ironia Alison Davis-Blake 91, preside di una
facoltà economica dell’università del Michigan. Mentre le donne
trascorrono quell’anno in piú vomitando (chi piú, chi meno), andando
in bagno ogni cinque minuti, cambiando pannolini o riempiendo
biberon con il tiralatte, gli uomini si dedicano alla ricerca. E cosí,
invece di dare un aiuto ai genitori, questa politica finiva per dare un
aiuto agli uomini a spese delle donne: da un’analisi delle cattedre di
grado intermedio presso i cinquanta dipartimenti di Economia piú
prestigiosi degli Stati Uniti è risultato che tra il 1985 e il 2004 le
probabilità che un’insegnante donna ottenesse un posto di ruolo al
primo incarico erano scese del ventidue per cento, a fronte di un
incremento del diciannove per cento per gli uomini 92.
Quell’analisi è stata pubblicata sotto forma di documento di lavoro
ed è stata criticata in ogni sua parte 93; tuttavia, considerato ciò che
già sappiamo sulle difficoltà che incontrano le docenti madri che
ambiscono a un incarico di ruolo, e ciò che quei dati ci dicono
sull’effettiva distribuzione delle mansioni di accudimento (per non
parlare della gravidanza, del parto e dell’allattamento) non sembra
cosí irragionevole pretendere che le politiche di aiuto siano
specificamente mirate a chi porta i figli in grembo e se ne occupa di
piú una volta che sono nati. Ma per ora non si è ancora mosso nulla.
Con tutto ciò, sia chiaro, non si intende negare l’importanza del
congedo per paternità. A parte le elementari ragioni di parità (i padri
hanno tutto il diritto di partecipare alla vita dei propri figli) i dati in
nostro possesso dimostrano che il congedo per paternità, se ben
retribuito, ha ripercussioni positive sull’occupazione femminile. Il
Paese dell’Unione europea con il piú alto tasso di occupazione
femminile (poco meno dell’ottanta per cento) è la Svezia 94,
detentrice del record mondiale dei permessi di paternità: nove padri
su dieci usufruiscono di un congedo, con una durata media
compresa fra i tre e i quattro mesi 95. Nei Paesi Ocse la proporzione
è una richiesta di congedo ogni cinque paternità; in Australia, nella
Repubblica Ceca e in Polonia si scende a una ogni cinquanta 96.
Lo scarto non è affatto sorprendente, giacché in fatto di congedi
per neopapà la Svezia ha una delle normative piú generose (e,
all’epoca della sua introduzione, piú innovative) del mondo. Dal 1995
i padri hanno diritto esclusivo a un mese di congedo parentale
retribuito con il novanta per cento dello stipendio. Tale diritto non può
essere trasferito alla madre, e decade se la coppia sceglie di non
farne richiesta. Nel 2002 la durata del congedo è stata portata a due
mesi, che sono diventati tre nel 2016 97.
Prima dell’introduzione della paternità «prendere o lasciare», solo
il sei per cento dei padri svedesi faceva domanda di congedo,
benché la relativa norma fosse stata introdotta già nel 1974. In
sostanza, gli uomini non hanno approfittato dell’opportunità finché lo
Stato non li ha obbligati a farlo. Qualcosa di molto simile si è
verificato anche in Islanda, dove l’introduzione delle «quote-papà»
ha raddoppiato il numero delle richieste di congedo, e in Corea del
Sud, dove grazie a una specifica disposizione di legge introdotta nel
2007 le domande si sono piú che triplicate 98. A dimostrazione del
fatto che le buone notizie non passano mai inosservate, nel 2015 il
governo britannico ha pensato bene di introdurre una nuova forma di
congedo parentale condiviso e non retribuito, esclusivamente
riservata agli uomini. Come era prevedibile, la risposta è stata
«alquanto scoraggiante»: a dodici mesi dall’introduzione della legge,
solo un padre su cento aveva chiesto di astenersi dal lavoro 99.
Le «quote-papà» non hanno avuto successo nemmeno in
Giappone, il che si spiega in buona parte con un assetto normativo
che trascura tanto il divario retributivo di genere, quanto la realtà
fisiologica delle donne. Su un totale di quattordici mesi di congedo
parentale condiviso, due sono riservati ai padri, ma dopo i primi sei
mesi lo stipendio decresce da due terzi a metà del totale. Poiché le
donne hanno bisogno di tempo per riprendersi dalla gravidanza e dal
parto, piú altro tempo per l’allattamento al seno, è molto probabile
che siano loro a usufruire per prime del congedo, in modo che il
genitore che guadagna di piú (lo scarto salariale medio è del
ventisette per cento a favore degli uomini) continui a percepire lo
stipendio intero 100. Non sorprende, perciò, che solo il due per cento
dei lavoratori giapponesi approfitti dei due mesi di congedo
esclusivo 101. Senza contare che in un Paese con una cultura del
lavoro cosí estrema, al punto che persino andare in ferie è
considerato disdicevole, i padri che scelgono il congedo parentale
temono di essere umiliati e penalizzati 102.
Vale comunque la pena di perseverare: le politiche che inscrivono
nel diritto la responsabilità parentale condivisa (per fare un figlio,
dopo tutto, ci vogliono due persone) hanno effetti che durano nel
tempo. Gli uomini che approfittano del congedo per paternità
tendono a essere piú coinvolti nella cura dei figli anche negli anni
successivi: forse è per questo che, secondo uno studio condotto in
Svezia nel 2010, gli stipendi delle lavoratrici madri aumentano in
media del sette per cento per ogni mese di astensione dal lavoro
richiesta dal padre 103.
Va da sé che le politiche di congedo parentale non sono una
panacea: il carico di lavoro non retribuito che grava sulle donne non
comincia e non finisce con l’accudimento dei nuovi nati, e in genere
l’organizzazione del lavoro dipendente continua a essere tagliata su
misura per la vita di quel leggendario personaggio «libero da
responsabilità di cura». Lui – perché si dà per scontato che sia un lui
– non ha figli o parenti anziani da accudire, né pasti da preparare o
pavimenti da pulire, né medici da consultare, né spese da fare, né
ginocchia sbucciate da disinfettare o bulletti da sgridare, né compiti
di scuola, né bagni da preparare, né buone notti da augurare per poi
ricominciare tutto daccapo l’indomani. La sua vita è semplicemente e
facilmente divisa in due parti: lavoro e tempo libero. Ma un rapporto
lavorativo fondato sul presupposto che un individuo possa
presentarsi tutti i giorni in un certo luogo, a orari e indirizzi che non
hanno alcuna correlazione con gli orari e gli indirizzi delle scuole,
degli asili, degli studi medici e dei supermercati, non potrà mai
funzionare per le donne. Infatti non è stato progettato per questo.
Ci sono, in verità, aziende che tentano di compensare la
propensione al maschile che si nasconde nell’organizzazione
tradizionale dei luoghi e dei tempi di lavoro. La Campbell Soup, per
esempio, offre doposcuola e attività estive per i figli dei
dipendenti 104. Nei primi tre mesi dopo la nascita di un figlio Google
rimborsa le spese per l’acquisto di cibi da asporto e i compensi delle
baby-sitter; inoltre ha allestito all’interno del suo campus alcuni
servizi (tra cui una lavanderia a secco) che permettono di sbrigare
alcune commissioni durante la giornata lavorativa 105. Sony Ericsson
ed Evernote fanno ancora di piú: pagano ai loro dipendenti le spese
di pulizia della casa 106. In un numero crescente di posti di lavoro
sono disponibili spazi per le madri che allattano o preparano i
biberon con il tiralatte 107. American Express arriva al punto di
pagare le spese di spedizione del latte materno alle dipendenti che
devono andare in trasferta durante l’allattamento 108.
Ciononostante, le società che prendono in considerazione le
esigenze delle donne sono ancora un’eccezione. Quando nel 2017
la Apple lodava la sua nuova sede americana dichiarandola «il
miglior centro uffici del mondo», prevedeva di allestire al suo interno
ambulatori medici e dentistici, lussuosissimi centri-benessere, ma
neanche un asilo per i figli dei dipendenti 109. Il miglior ufficio del
mondo, dunque, ma solo per gli uomini?
La verità è che in tutto il pianeta le donne continuano a essere
penalizzate da una cultura del lavoro basata sul presupposto
ideologico che i bisogni maschili siano universali. Stando a un
recente sondaggio, la stragrande maggioranza della popolazione
americana che non ha alcun impiego retribuito (una maggioranza
composta per il novantasette per cento da donne) 110 sarebbe
dispostissima a riprendere il lavoro, se potesse farlo da casa
(settantasei per cento delle risposte) o se l’orario potesse essere
organizzato in base ai suoi impegni personali (settantaquattro per
cento), a dimostrazione che la flessibilità promessa da tante aziende
statunitensi 111 spesse volte rimane sulla carta. Tra il 2015 e il 2016 il
numero dei dipendenti a orario flessibile si è addirittura ridotto, e
molte importanti società statunitensi rinunciano a sperimentare il
telelavoro 112. Nel Regno Unito metà dei lavoratori gradirebbe un
orario flessibile, ma solo il 9,8 per cento delle offerte di impiego la
garantisce 113 – e le donne che ne fanno richiesta sono spesso
penalizzate.
Dal canto, loro le aziende sembrano tuttora convinte che
trascorrere molte ore in ufficio sia sinonimo di maggiore rendimento,
e per questo motivo continuano a premiare con eccessiva generosità
i dipendenti che fanno straordinario 114. Il che di fatto è un premio ai
dipendenti maschi. Secondo lo statistico Nate Silver, dal 1984 a oggi
la paga oraria degli americani che lavorano per cinquanta o piú ore
settimanali (e che nel settanta per cento dei casi è maschio) è
aumentata con una progressione doppia rispetto a quella dei loro
connazionali che hanno una settimana lavorativa piú tipica (da
trentacinque a quarantanove ore settimanali) 115. Questa forma
invisibile di discriminazione è esasperata in alcuni Paesi da norme
che garantiscono l’esenzione fiscale per i compensi da lavoro
straordinario 116 – un ulteriore bonus per chi è libero da
responsabilità di cura 117, in brusco contrasto con gli sgravi fiscali per
i servizi domestici introdotti in via sperimentale dal governo
svedese 118.
Lo squilibrio retributivo sugli straordinari è particolarmente vistoso
in Giappone, dove non è inusuale che gli impiegati si fermino in
ufficio fin oltre la mezzanotte. Questo si spiega in parte con la pratica
di elargire le promozioni sulla base delle ore di lavoro oltre che
sull’anzianità di servizio dei dipendenti 119. Altrettanto utile per far
carriera è la cosiddetta nomunication, neologismo ibrido che fonde il
termine communication e il verbo giapponese che significa «bere»
(nomu) 120 e indica la pratica di fermarsi a bere qualcosa con i
colleghi dopo il lavoro per rinsaldare i legami personali e creare uno
spirito di squadra. In teoria la nomunication non è vietata alle donne,
ma per loro, si sa, è molto piú difficile. Una donna giapponese si
sobbarca in media cinque ore di lavoro non retribuito al giorno,
contro una sola degli uomini: non c’è bisogno di chiedersi chi potrà
fare buona impressione sul capufficio, fermandosi al lavoro fino a
tardi e accettando il suo invito a tirare mattina a suon di bevute e
pacche sulle spalle nel night club piú vicino 121.
Oltre che dal carico di lavoro non retribuito che grava su di loro, le
lavoratrici giapponesi sono penalizzate anche dall’organizzazione a
doppio binario che vige in molte grandi aziende, ove si distingue tra
impieghi che garantiscono buone possibilità di carriera e impieghi
che non ne garantiscono affatto. Nell’opzione «senza opportunità di
carriera» rientrano soprattutto le mansioni di natura amministrativa,
piú adatte alle «mamme che lavorano» e che, proprio in quanto
mamme, hanno una cultura del lavoro necessariamente diversa da
chi punta ai piani alti della gerarchia aziendale 122. Tenendo conto di
come la maternità influisce sulle probabilità di avanzamento
professionale (che comunque dipende sempre dalla capacità di
dimostrarsi fedele all’azienda lavorando per svariati anni alle sue
dipendenze), non desta sorpresa che il settanta per cento delle
giapponesi (contro il trenta delle americane) smetta di lavorare per
dieci o piú anni dopo la nascita del primo figlio, e in molti casi rinunci
per sempre a cercare un impiego 123. Non è un caso che il Giappone
sia il sesto Paese al mondo per divario di genere nell’occupazione, e
si collochi al terzo posto nella classifica dei Paesi Ocse con la piú
ampia disparità salariale 124.
La cultura dello straordinario infinito crea problemi anche negli
ambienti accademici, ove peraltro vige un sistema di avanzamento
professionale tagliato su misura per le abitudini di vita degli uomini.
Un rapporto sulle università dell’Unione europea ha dimostrato che
prevedere un’età massima oltre la quale non è piú possibile ottenere
un incarico di insegnamento costituisce una discriminazione contro
le donne, che essendo state costrette a interrompere la carriera
hanno di solito «un’età anagrafica maggiore dell’età
125
accademica» . Nicholas Wolfinger, coautore del saggio Do Babies
Matter: Gender and Family in the Ivory Tower, ha suggerito in un
articolo per la rivista «The Atlantic» di introdurre percorsi
professionali part-time che portino comunque a un incarico
permanente 126. Il genitore che ha la responsabilità primaria della
cura dei figli potrebbe optare per l’insegnamento part-time senza
rinunciare alla prospettiva di entrare in ruolo (basterebbe in effetti
raddoppiare la durata del periodo di straordinariato), riservandosi la
possibilità di tornare al tempo pieno appena possibile. Le università
che offrono tale opportunità sono ancora poche, e anche in questo
ambito lavorativo la scelta di un lavoro part-time per fare spazio alle
necessità di accudimento è pur sempre associata a un maggiore
rischio di povertà.
Alcune donne si sono fatte carico del problema in prima persona.
La biologa tedesca Christiane Nüsslein-Volhard, premio Nobel per la
Medicina e la Fisiologia, ha creato una fondazione con il preciso
scopo di sostenere le giovani ricercatrici con figli 127: lo ha fatto dopo
essersi resa conto che le sue assistenti e dottorande, pur lavorando
con dedizione nelle ore in cui i bambini erano affidati ad altri, si
ritrovavano a fine giornata oberate da mille impegni familiari. In un
ambiente dominato dalla cultura del superlavoro, la dedizione non
bastava: mentre quelle donne si occupavano della famiglia, le loro
colleghe senza figli e i compagni di lavoro maschi «erano liberi di
dedicare altro tempo alla lettura o alla ricerca». E cosí le ricercatrici
madri, per quanto amassero il loro lavoro, erano costrette a
rinunciarvi.
La Fondazione Christiane Nüsslein-Volhard intende arginare il
fenomeno offrendo alle studiose giudicate idonee una borsa di studio
mensile da utilizzare «per tutto ciò che può alleviare il carico di
lavoro domestico: servizi di pulizia, acquisto di elettrodomestici come
lavastoviglie o asciugatrici elettriche, baby-sitter in orari serali o
festivi quando gli asili sono chiusi». Tutte le dottorande o ricercatrici
in servizio presso ogni università della Germania possono
presentare domanda. E se negli Stati Uniti la possibilità di
prolungare di un anno l’iter di immissione in ruolo è concessa a tutti
gli accademici (maschi e femmine) che richiedono il congedo
parentale, le borse di studio della Fondazione Nüsslein-Volhard sono
riservate alle donne.
La propensione ideologica al maschile non si manifesta soltanto
nei luoghi di lavoro, ma è insita nelle norme di legge che regolano la
materia. Le spese professionali sono un caso tipico: stabilire quali
siano detraibili e quali no non è una decisione oggettiva e neutra
come sembrerebbe, giacché ogni azienda permette di detrarre solo
le spese previste dalla legge, e queste ultime, in genere,
corrispondono alle spese che gli uomini hanno bisogno di farsi
rimborsare. Le uniformi e gli utensili, per esempio. La custodia dei
bambini nelle ore serali o nei giorni festivi, invece, non è
rimborsabile 128.
Negli Stati Uniti l’elenco delle spese detraibili è compilato
dall’Internal Revenue Service, l’agenzia per la riscossione dei tributi,
che in un suo documento spiega: «Di norma non è consentito
detrarre le spese personali, di mantenimento o familiari» 129. Ma
definire il concetto di «spese familiari» non è affatto facile, ed è qui
che entra in gioco Dawn Bovasso. Dawn è una delle poche direttrici
creative nel mondo della pubblicità statunitense, ed è anche una
madre single. Un giorno l’agenzia per cui lavorava le mandò un
invito ufficiale alla cena dei direttori. Un bel dilemma: valeva la pena
di spendere duecento dollari di baby-sitter, piú le spese di viaggio,
solo per andare a una cena 130? Nessuno dei suoi colleghi si era mai
trovato alle prese con quel genere di contabilità mentale: certo,
esistono anche i padri single, ma sono una rarità. In Gran Bretagna il
novanta per cento dei genitori single è donna 131; negli Stati Uniti la
percentuale si aggira intorno all’ottanta 132. Per decidere se
accettare o meno l’invito a cena, i compagni di lavoro di Dawn
Bovasso non dovevano che controllare l’agenda. Infatti accettarono
quasi tutti e, non contenti, decisero anche di prenotare un hotel
proprio vicino al ristorante, in modo da poter bere tranquillamente
senza doversi preoccupare del tasso alcolemico. Le spese di
pernottamento in albergo erano rimborsabili; quelle per la baby-sitter
di Dawn Bovasso no.
Il preconcetto è implicito, ma chiarissimo: si presuppone che ogni
dipendente abbia una moglie che si occupa dei figli e della casa.
Lavori che non necessitano di alcuna retribuzione, perché sono
lavori da donne che le donne hanno sempre fatto gratis. «Se lavori
fino a tardi, – spiega Dawn, – ti rimborsano i trenta dollari della
rosticceria perché tua moglie non è lí in ufficio a prepararti la cena;
se vuoi alzare il gomito ti rimborsano anche trenta dollari di whisky
scozzese, ma i trenta dollari per la baby-sitter non te li ripagheranno
mai: tanto i bambini li guarda tua moglie!» In quella specifica
occasione Dawn riuscí ad avere un rimborso, per quanto «concesso
su richiesta, e in via del tutto eccezionale». È il solito destino delle
donne: essere sempre l’eccezione e mai la regola.
D’altronde, non tutte le aziende sono disposte a concedere
deroghe. Secondo un rapporto pubblicato nel 2017 dalla Fawcett
Society, a dispetto della normativa entrata in vigore nel 2003 che
impone agli enti locali dell’Inghilterra e del Galles di «predisporre
un’indennità a copertura dei costi di accudimento sostenuti dai
consiglieri nell’esercizio del loro ruolo», l’applicazione della direttiva
è frammentaria 133. Alcuni enti non concedono alcun rimborso, e la
maggior parte degli altri si limita a offrire un «contributo». Il Consiglio
della circoscrizione di Rochdale, situata nell’area metropolitana di
Manchester, «paga soltanto 5,06 sterline l’ora, e chiarisce
esplicitamente che si tratta di “una contribuzione da non intendersi
come rimborso totale delle spese per la custodia dei figli”:
precisazione che non viene fatta, guarda caso, per le spese di
viaggio». Insomma, non è una questione di risorse ma di priorità: a
ulteriore conferma, basterà ricordare che la maggior parte delle
sedute consiliari si svolgono in orario serale (proprio quando c’è piú
bisogno di qualcuno che accudisca i figli); e anche se in molti Paesi,
dagli Stati Uniti alla Svezia, la partecipazione a distanza alle riunioni
e alle votazioni degli enti locali è ormai prassi comune, la normativa
corrente non ammette questa possibilità meno dispendiosa.
È fin troppo chiaro che la cultura del lavoro retribuito necessita di
un totale ripensamento. Bisogna rendersi conto che le donne non
sono i soggetti liberi da responsabilità di cura su cui è modellato il
posto di lavoro tradizionale: d’altronde, pur avendo meno difficoltà
nell’adeguarsi a quell’ideale un po’ robotizzato, oggi nemmeno gli
uomini sembrano volerlo piú. La questione, in fondo, è molto
semplice: nessuno di noi – neppure le aziende – può fare a meno
dell’aiuto invisibile e non retribuito di chi si prende cura della
famiglia, quindi bisogna smettere di penalizzare chi lo offre. Al
contrario: dobbiamo cominciare a riconoscere quell’aiuto, a
valorizzarlo, e a riprogettare il lavoro retribuito in funzione del lavoro
di cura.
IV.
Il mito della meritocrazia

Per buona parte del secolo scorso non ci sono state musiciste
donne nella New York Philharmonic Orchestra. Salvo due
temporanee eccezioni negli anni Cinquanta e Sessanta, la
rappresentanza femminile è rimasta ostinatamente ferma a zero. Ma
poi, di punto in bianco, dagli anni Settanta in avanti qualcosa è
cambiato e il numero di orchestrali donne è cominciato a crescere.
Sempre di piú.
All’interno delle orchestre il turnover è molto basso. Il numero di
componenti si aggira sempre intorno al centinaio, e quando si entra
in organico, di solito è per la vita: i casi di orchestrali licenziati sono
rarissimi. Quindi se nell’arco di un decennio la rappresentanza
femminile all’interno della New York Philharmonic è passata da zero
a dieci per cento deve per forza essere successo qualcosa di
importante.
Quel qualcosa sono le audizioni «cieche» 1. Introdotte nei primi
anni Settanta a seguito di una causa legale, le audizioni cieche sono
proprio quel che ci si immagina: la commissione giudicante non vede
chi sta suonando perché il candidato è nascosto da un paravento 2.
La novità ebbe un impatto immediato: all’inizio degli anni Ottanta le
donne costituivano già il cinquanta per cento dei nuovi ingressi
nell’orchestra; oggi la proporzione di musiciste donne nella
filarmonica di New York supera il quarantacinque per cento 3.
La semplice idea di mettere un paravento ha trasformato le
audizioni in un processo meritocratico. Ma è un caso su mille: in tutto
il mondo, nella stragrande maggioranza delle situazioni in cui è in
gioco l’assunzione di una persona, la meritocrazia non è che un mito
pericoloso. Un mito che fa da copertura al pregiudizio istituzionale a
favore del maschio bianco. Un mito che, purtroppo, resiste alle prove
oggettive che da decenni ne dimostrano l’assoluta inconsistenza.
Ormai è chiaro: raccogliere altre prove non basterà per sfatarlo.
Tanto per cominciare, non sono in molti a ritenere che la
meritocrazia sia un mito. Anzi: nel mondo industrializzato si tende a
credere non solo che successo e potere dovrebbero essere
distribuiti secondo criteri di merito, ma che le cose funzionino già
cosí 4 anche se non mancano prove del contrario, e cioè che la
società statunitense è semmai meno meritocratica di altre 5.
Ciononostante gli americani si aggrappano alla meritocrazia come a
un articolo di fede: da parecchi decenni i criteri di assunzione e
promozione dei dipendenti sono concepiti come se il primato del
merito fosse una realtà oggettiva. Tra il 1971 e il 2002 il numero
delle aziende statunitensi che valutano le prestazioni dei loro
dipendenti è passato dal quarantacinque al novantacinque per
cento; sempre nel 2002, il novanta per cento delle imprese
statunitensi applicava politiche retributive basate sulla valutazione
dei meriti 6.
Il fatto è che le testimonianze a favore dei criteri meritocratici
scarseggiano. Al contrario, abbondano le prove della loro inefficacia.
Da un’analisi di duecentoquarantotto valutazioni di merito redatte da
funzionari di varie aziende statunitensi nel settore delle alte
tecnologie risulta per esempio che alle donne vengono spesso
rivolte critiche personali, cosa che agli uomini non capita 7. Alle
lavoratrici si consiglia di abbassare il tono, di stare indietro di un
passo. Le donne sono autoritarie, irritanti, stridule, aggressive,
emotive e irrazionali: di tutti questi aggettivi, l’unico che compaia
nelle valutazioni dei dipendenti maschi è «aggressivo», usato due
volte «per esortare la persona in questione a esserlo di piú». Un’altra
prova schiacciante è fornita da diversi studi sugli incentivi e sugli
aumenti di stipendio concessi in base al rendimento: a parità di
prestazioni, i maschi bianchi sono premiati piú spesso delle donne e
dei lavoratori che appartengono a minoranze etniche; in un grande
gruppo finanziario è stato addirittura individuato un divario del
venticinque per cento negli incentivi erogati a uomini e donne che
svolgevano mansioni identiche 8.
Il mito della meritocrazia raggiunge l’apoteosi nel settore delle alte
tecnologie. Stando a un sondaggio condotto nel 2016, la principale
preoccupazione delle start up tecnologiche sarebbe «assumere
gente in gamba», mentre la valorizzazione delle diversità figura al
settimo posto nella lista delle dieci maggiori priorità aziendali 9. Uno
ogni quattro fondatori di start up dichiarava di non essere interessato
né alla diversità né alla ricerca di un equilibrio tra lavoro e vita
privata. Il che, riassumendo, sta a significare che se ti interessa
avere «gente in gamba» fra i tuoi dipendenti, non c’è bisogno di
preoccuparsi del pregiudizio istituzionale. È piú che sufficiente
credere nella meritocrazia.
In realtà, credere nella meritocrazia potrebbe essere piú che
sufficiente per generare pregiudizio. Alcuni studi hanno constatato
che la fede nella propria imparzialità, tipica di chi non si ritiene
sessista, rende meno oggettivi e dunque, paradossalmente, piú
inclini a mettere in atto comportamenti sessisti 10. Gli uomini (le
donne non presentano questa caratteristica) convinti di scegliere i
propri dipendenti in base a criteri oggettivi tendono a preferire, a
parità di requisiti, un candidato del loro stesso sesso. E nelle
organizzazioni che si definiscono in modo esplicito come
meritocratiche i dirigenti manifestano una preferenza per i dipendenti
maschi a danno delle lavoratrici che hanno le stesse qualifiche.
Che un settore cosí schiavo dei Big Data come quello della
tecnologia manifesti una passione tanto viscerale per il mito della
meritocrazia è abbastanza illogico, soprattutto se si considera che è
uno dei rari casi in cui i dati esistono eccome. Ma se in quel della
Silicon Valley la meritocrazia è una religione, il suo dio è un maschio
bianco che ha mollato la Harvard University. E tali sono anche i suoi
discepoli: le donne rappresentano solo un quarto della forza lavoro
del settore, e solo l’undici per cento dei dirigenti 11. Il che è ben
strano, se si considera che piú di metà di tutte le laureate di primo
grado presso le università statunitensi sono donne, mentre nelle
facoltà di Chimica e Matematica le donne conseguono
rispettivamente la metà e poco meno della metà delle lauree di
primo grado 12.
Piú del quaranta per cento delle lavoratrici rinuncia a un impiego
nel comparto tecnologico dopo dieci anni di lavoro; per gli uomini, il
tasso di abbandono è del diciassette per cento 13. Un rapporto del
Center for Talent Innovation ha messo in luce che le donne non si
licenziano per motivi familiari o perché il lavoro non è di loro
gradimento 14, bensí a causa delle «condizioni sul luogo di lavoro»,
dei «comportamenti svalutativi dei dirigenti» e della «sensazione che
la carriera sia bloccata». Secondo il «Los Angeles Times», le donne
se ne vanno perché stufe di veder respingere i propri progetti e di
essere ripetutamente ignorate quando è il momento di assegnare
una promozione 15. Questa dunque sarebbe meritocrazia? Somiglia
di piú a un pregiudizio istituzionalizzato.
Che il mito della meritocrazia sopravviva a dispetto di certi dati è
una chiara dimostrazione della potenza della propensione al
maschile: assodato che gli uomini invitati a descrivere «una
persona» immaginano nell’ottanta per cento dei casi un altro uomo,
non è difficile credere che nell’industria delle nuove tecnologie gran
parte della forza lavoro maschile non si accorga di quanto il settore
sia dominato dai maschi. D’altronde, un mito che fa credere a chi se
ne avvantaggia che tutti i successi conseguiti sono dovuti al merito
personale non può che essere seducente. Non è un caso che tra gli
adoratori della meritocrazia ci sia una folta rappresentanza di giovani
americani dell’alta borghesia bianca 16.

Se è vero che i giovani dell’alta borghesia bianca si accostano


volentieri alla religione della meritocrazia, non desta sorpresa che
molti docenti universitari condividano la stessa fede con i cervelloni
della Silicon Valley. Le élite accademiche (specie nelle discipline
scientifico-tecnologiche della cosiddetta area Stem, ovvero Science,
Technology, Engineering and Maths) sono dominate da maschi
bianchi di estrazione medio e altoborghese: il terreno di coltura
ideale per il mito della meritocrazia. Uno studio recente ha infatti
accertato che gli accademici maschi (soprattutto dell’area Stem)
giudicano piú favorevolmente le ricerche che smentiscono con false
argomentazioni l’esistenza di una discriminazione di genere
all’interno delle università, e sono invece meno generosi con le
ricerche autentiche che ne dimostrano la realtà 17. La verità è che di
discriminazione di genere ce n’è moltissima; ed è anche ben
documentata.
Da numerosi studi svolti in tutto il mondo risulta che, rispetto ai
colleghi maschi con pari requisiti, le studentesse e le docenti
universitarie hanno molte meno probabilità di ottenere fondi per la
ricerca, fissare appuntamenti con gli insegnanti, trovare un docente
piú esperto che si offra di far loro da mentore, e persino ottenere un
posto di lavoro 18. E se le madri sono meno stimate e meno pagate,
spesso i padri sono favoriti rispetto ai colleghi senza figli (cosa che di
certo non accade solo negli ambiti accademici) 19. Ma alla fine,
malgrado l’ampia mole di dati che dimostra il contrario, le università
continuano a comportarsi come se fossero davvero meritocratiche:
come se studenti e docenti di entrambi i sessi giocassero alla pari.
La rapidità di una carriera in ambito accademico dipende in gran
parte dal numero di lavori che ogni ricercatore riesce a far pubblicare
sulle riviste specializzate i cui articoli sono sottoposti a revisione
paritaria. Il problema è che farsi pubblicare non è altrettanto facile
per gli uomini e per le donne. Alcuni studi hanno dimostrato che gli
articoli scritti dalle ricercatrici sono accettati con meno difficoltà o
giudicati meglio quando la revisione è fatta con il metodo del
«doppio cieco», cioè quando né l’autore né il revisore sono
reciprocamente identificabili 20. Benché le prove non siano univoche,
l’indiscutibile presenza di un forte pregiudizio maschile negli ambienti
accademici sembrerebbe piú che sufficiente a giustificare
l’introduzione generalizzata del processo valutativo in doppio
cieco 21. Eppure molte riviste specializzate e molti simposi
continuano a non applicarlo.
Certo, anche le docenti e le ricercatrici riescono a farsi pubblicare,
ma questa è solo metà della battaglia. Essere citati nei lavori di altri
studiosi è una misura determinante dell’impatto di una ricerca, il
quale a sua volta influisce sulla carriera; tuttavia molti studi hanno
dimostrato che le donne sono sistematicamente citate meno degli
uomini 22. Negli ultimi vent’anni gli uomini hanno fatto riferimento ad
altri uomini il settanta per cento piú spesso di quanto non abbiano
fatto le donne con altre donne 23, e le donne tendono a riferirsi ad
altre autrici donne piú spesso di quanto non facciano gli uomini 24,
sicché alla fine il divario di genere nelle pubblicazioni scientifiche
diventa una specie di circolo vizioso: se si pubblicano meno articoli
scritti da donne il divario dei riferimenti si amplia, perciò le donne
hanno piú difficoltà a fare carriera come meriterebbero, e via cosí in
un’eterna giostra. Come se non bastasse, il problema è acuito da
una nuova forma di pensiero maschile per default: poiché è pratica
comune riportare i nomi di battesimo degli autori non per esteso ma
con la sola iniziale, il sesso degli accademici non è subito intuibile,
quindi può capitare che le donne passino per uomini. Le probabilità
che una studiosa sia scambiata per un uomo (da un collega che
legge «P.» come Paul quando invece è Pauline) è dieci volte
maggiore del contrario 25.
In un articolo per il «New York Times», l’economista Justin
Wolfers notava tempo addietro una simile tendenza al maschile per
default anche tra i giornalisti, che per abitudine attribuiscono
all’autore maschio di un articolo la qualifica di autore principale,
anche quando spetterebbe a una donna 26. Questa sorta di pigrizia
mentale, già abbastanza deplorevole in un resoconto giornalistico, è
ancor meno accettabile in uno scritto accademico: eppure gli errori di
questo genere abbondano. In campo economico, per esempio, i
lavori di ricerca congiunti sono la norma, e in ogni lavoro congiunto
si nasconde un pregiudizio maschile. Agli uomini è riconosciuto un
identico merito per gli articoli a firma unica e a firma collettiva,
mentre le donne che firmano ricerche insieme ad altri colleghi –
salvo che si tratti di équipe interamente femminili – ottengono meno
di metà del credito tributato ai colleghi maschi. Questo spiega
perché le economiste, pur pubblicando tanto quanto i maschi,
abbiano il cinquanta per cento di possibilità in meno di ottenere un
incarico di ruolo 27. Anche il fatto che le ricerche attribuite ai maschi
siano generalmente associate a una «migliore qualità scientifica»
potrebbe essere (quando non è puro e semplice sessismo) una
conseguenza della propensione al maschile: il prodotto di un habitus
mentale che considera il maschile come universale e il femminile
come di nicchia 28. Il che forse ci aiuta a spiegare perché le autrici di
studi scientifici abbiano meno probabilità di comparire nei programmi
dei corsi di studio 29.
Va da sé che prima di trovarsi a fronteggiare tutte queste insidie
una donna deve innanzitutto trovare il tempo per dedicarsi alla
ricerca, il che non è affatto scontato. Abbiamo già visto come il
carico di lavoro non retribuito che grava sulle donne al di fuori del
posto di lavoro ostacoli l’attività di ricerca. Ma c’è un ulteriore
aggravio, ed è il carico di lavoro non retribuito che le donne svolgono
all’interno dell’istituzione in cui operano. Quando gli studenti hanno
un problema personale, è alle professoresse che si rivolgono per un
consiglio 30. Alle docenti, piú spesso che ai loro colleghi maschi, si
chiedono anche dilazioni delle scadenze di consegna, voti piú
generosi e vari trattamenti di favore 31. Presa singolarmente,
nessuna di quelle richieste comporta un gran consumo di tempo o
energie mentali, ma quando le sollecitazioni si accumulano il
dispendio di tempo diventa notevole, e rappresenta un gravame di
lavoro che accademici maschi il piú delle volte non conoscono
nemmeno, e le università non retribuiscono.
Alle donne si chiede anche di sbrigare una maggior quantità di
banali incombenze amministrative 32: e loro accettano, perché in
caso contrario temono di essere considerate «antipatiche». Questo è
un problema che si riscontra in svariati ambienti lavorativi: le donne,
soprattutto se appartengono a una minoranza etnica, devono
accollarsi i «lavori di casa»: prendere appunti, servire il caffè, pulire
dopo che tutti se ne sono andati. Proprio come in famiglia 33.
Tornando all’ambito accademico, le probabilità che una donna riesca
a pubblicare sono condizionate anche dal fardello delle ore di
insegnamento extra 34: gli uomini ne fanno di meno e, come gli
incarichi amministrativi «ad honorem», l’insegnamento è considerato
un’attività meno importante, meno seria, meno pregiata della ricerca.
Ed eccoci alle prese con un altro circolo vizioso: avere piú ore di
cattedra impedisce alle donne di pubblicare un numero sufficiente di
lavori, il che si traduce in altre ore di cattedra, e cosí via.
Che le donne siano gravate da incombenze poco prestigiose è già
abbastanza ingiusto, ma la situazione è resa ancor piú difficile dai
criteri discriminanti con cui si giudica il loro lavoro. I questionari di
valutazione degli insegnanti sono molto diffusi negli istituti di
istruzione superiore, e sono l’ennesimo esempio di un contesto in cui
i dati ci sono, ma vengono ignorati. Decenni di ricerche condotte in
svariati Paesi 35 hanno dimostrato che i moduli di valutazione sono
inutili, se non peggio, ai fini di un’effettiva misurazione dell’efficacia
didattica, poiché «prevenuti in misura considerevole e
statisticamente significativa contro il personale insegnante di sesso
femminile» 36. In compenso sono utilissimi per valutare il pregiudizio
che si manifesta, per esempio, con le sembianze dell’ormai
famigerato assioma «il genere umano è maschile per default»: e
cosí le insegnanti che osano distogliere l’attenzione dei loro studenti
dalla storiografia maschile e di pelle bianca rischiano un giudizio
negativo: «Questo corso non mi ha insegnato granché, a parte
qualcosa sul femminismo e sulle lotte razziali», si lamentava uno
studente, forse convinto che le questioni etniche e di genere non
avessero molto a che fare con l’argomento del corso (che, per la
cronaca, era la nascita degli Stati Uniti) 37.
Cadendo nella trappola di cui abbiamo già parlato
nell’introduzione, quella cioè di non rendersi conto che persone
significa uomini, ma anche donne, un altro studente scriveva che:
«Andrea ha messo in chiaro fin dal primo giorno che il suo era un
corso di storia dei popoli, ma non ci ha detto chiaramente quanto
spazzio [sic!] voleva dedicare alle donne e alle Prime nazioni». Qui il
sottinteso è che la docente si sia concentrata in modo quasi
esclusivo sulla storia delle donne e delle Prime nazioni, ma
l’affermazione va presa con cautela: una mia amica si è sentita
rimproverare da uno studente di essersi occupata «troppo» di
femminismo nel suo corso di Filosofia politica. Ma lei ne aveva
parlato una sola volta su dieci lezioni.
I docenti maschi, anche se meno competenti, ricevono di norma
giudizi piú positivi delle loro colleghe piú preparate. Gli studenti sono
convinti che i professori siano piú rapidi nella correzione degli
elaborati, anche quando ciò è impossibile perché si tratta di un corso
online (tenuto da una sola persona) in cui a metà degli studenti si
lascia credere che il docente sia un uomo e all’altra metà che sia
una donna. Le insegnanti giudicate non abbastanza cordiali e
disponibili ricevono giudizi negativi, ma quando invece sono cordiali
e disponibili rischiano di essere disapprovate perché non
abbastanza autoritarie o professionali. D’altro canto, una docente
autoritaria e autorevole può essere biasimata perché il suo
atteggiamento contraddice le aspettative di genere 38. Nel frattempo
gli uomini sono ricompensati quando dànno prova di una
disponibilità che nelle donne si dà per scontata, al punto da notarla
solo quando non c’è.
Da un’analisi 39 di quattordici milioni di giudizi pubblicati sul sito
RateMyProfessors.com è risultato che un’insegnante donna ha piú
probabilità di essere percepita come «cattiva», «arcigna»,
«ingiusta», «severa» e «antipatica». Negli ultimi tempi le cose vanno
di male in peggio, tanto che moltissime insegnanti hanno smesso di
leggere i giudizi perché «le critiche degli studenti sono sempre piú
aggressive, a volte persino violente». Una docente di storia delle
dottrine politiche presso un’università canadese ha ricevuto il
seguente, utilissimo feedback: «Mi piace che i tuoi capezzoli si
vedano attraverso il reggiseno. Grazie» 40. Oggi quella docente
indossa soltanto reggiseni leggermente imbottiti.
Dall’analisi di cui sopra risulta anche che i professori maschi
hanno piú probabilità di essere giudicati «brillanti», «intelligenti»,
«acuti» e «geniali». Ma siamo davvero certi che siano piú talentuosi
delle loro colleghe? O non sarà forse che le parole sono meno
neutre di quanto appaiono? Pensate a un genio: scommetto che vi
verrà in mente un uomo. D’accordo, tutti abbiamo dei pregiudizi
inconsci: io, per esempio, ho pensato a Einstein, e in particolare alla
sua famosa foto in cui mostra la lingua. La colpa è di quello che io
chiamo «pregiudizio di genialità»: i professori maschi sono sempre
considerati piú autorevoli, piú obiettivi, piú dotati di talento innato. E i
giudizi di merito che determinano la carriera di un insegnante non
tengono affatto in conto questo pregiudizio.
Il pregiudizio di genialità è in buona parte frutto di un’assenza di
dati: abbiamo cancellato dalla Storia cosí tante donne dotate di
genio, che ormai non riusciamo neanche piú a ricordarle. In
sostanza, quando si dice che il requisito essenziale per l’esercizio di
una professione è la «brillantezza d’ingegno», spesso si intende
«possesso di un pene». Numerosi studi hanno dimostrato che
quanto piú si ritiene che una «mente brillante» (o un «talento
naturale») siano indispensabili per avere successo in una data
disciplina (filosofia, matematica, fisica, musica, informatica, giusto
per fare alcuni esempi), tanto minore sarà il numero delle donne che
studiano e lavorano in quell’ambito 41. La morale è molto semplice:
crediamo che le donne non possano avere una mente brillante. Al
contrario: tendiamo a vedere nella femminilità una dote
inversamente proporzionale alla brillantezza d’ingegno: le risposte di
un campione di soggetti ai quali erano state mostrate fotografie dei
titolari (maschi e femmine) di cattedre scientifiche presso alcune
prestigiose università americane dimostrano che l’aspetto fisico non
determina in alcun modo le probabilità che un uomo sia riconosciuto
come scienziato 42. Viceversa, a un aspetto piú tipicamente
femminile corrisponde una minore probabilità di essere etichettate
come donne di scienza.
I nostri figli imparano il pregiudizio di genialità fin dai primi anni di
vita. Si è scoperto di recente che negli Stati Uniti le bambine che
iniziano la scuola primaria a cinque anni sono tanto propense quanto
i loro coetanei maschi a ritenere che le donne possano essere
«superintelligenti» 43. Appena compiono i sei anni, però, cambia
qualcosa: cominciano a nutrire dubbi sul genere femminile. Dubbi
tanto profondi da indurle a porsi dei limiti, e se gli viene detto che un
gioco è «per bambini superintelligenti» perdono subito interesse, a
differenza delle bambine di cinque anni, che si dichiarano pronte a
cimentarsi tanto quanto i maschietti. Quindi le scuole insegnano alle
bambine che la genialità non gli appartiene. Non c’è da stupirsi che
al momento di compilare i moduli di valutazione gli universitari siano
abituati a pensare che le insegnanti siano meno preparate dei loro
colleghi maschi.
Anche i maschietti imparano il pregiudizio di genialità sui banchi di
scuola. Come già abbiamo visto nell’introduzione, dopo che per
decenni il test «Disegna uno scienziato» aveva ottenuto come
risposta standard il ritratto di un uomo, i risultati di una recente
metanalisi hanno indotto i media di tutto il mondo a dichiarare con
soddisfazione che finalmente stiamo diventando meno sessisti 44. Se
negli anni Sessanta solo l’un per cento dei bambini disegnava una
donna, oggi la proporzione è del ventotto per cento. Dunque stiamo
migliorando, ma siamo ancora lontani dalla realtà: oggi nelle facoltà
scientifiche del Regno Unito l’ottantasei per cento degli studenti di
chimica dei polimeri, il cinquantasette per cento degli studenti di
genetica e il cinquantasei per cento degli studenti di microbiologia
sono donne 45.
La realtà, in ogni caso, è molto piú complessa di quanto i titoli dei
giornali suggeriscano, e ci dimostra in maniera inequivocabile che il
gender data gap dei programmi scolastici educa i nostri figli al
pregiudizio. Oggi i bambini al primo anno di scuola primaria (maschi
o femmine che siano) disegnano percentuali grosso modo
equivalenti di scienziati uomini e scienziate donne, ma verso i sette,
otto anni di età gli uomini in tenuta da laboratorio risultano
decisamente piú numerosi delle donne. A quattordici anni la
proporzione è di quattro a uno in favore degli uomini. Quindi è vero
che si disegnano piú scienziate donne, ma l’incremento si osserva
soprattutto nelle fasce di età inferiori, prima cioè che il sistema
educativo infonda nei bambini un pregiudizio alimentato dall’assenza
di dati.
Nella dinamica del fenomeno vi è anche una significativa
differenza di genere. Dal 1985 al 2016 la percentuale di scienziate
disegnate dalle bambine è salita dal trentatre al cinquantotto per
cento, mentre per i maschietti è salita dal 2,4 al tredici. Lo scarto
appare in sintonia con i risultati di una ricerca condotta nel 2016 tra
gli studenti dei corsi universitari di biologia: mentre le studentesse
valutavano i compagni di corso (maschi e femmine) in base alle
effettive capacità, gli studenti erano invariabilmente propensi a
considerare i compagni maschi piú intelligenti delle studentesse,
benché queste ultime avessero un rendimento migliore 46. Il
pregiudizio di genialità, insomma, è una droga fortissima. Induce gli
studenti a valutare in modo errato i propri compagni o i docenti, ma
non solo: i suoi effetti nefasti si osservano anche tra gli insegnanti,
alcuni dei quali sono portati a commettere errori quando giudicano
gli studenti.
Da una decina d’anni a questa parte svariate indagini dimostrano
che le lettere di referenze sono un altro elemento in apparenza
neutro di un processo di selezione del personale che invece neutro
non è 47. Negli Stati Uniti, per esempio, le candidate sono descritte
con termini piú affettivi (cordiale, garbata, amichevole) e di senso
meno attivo di quelli impiegati per descrivere gli uomini (ambizioso,
sicuro di sé). Peccato che la presenza di termini affettivi in una
lettera di referenze riduca le probabilità di ottenere il posto 48,
soprattutto se la candidata è una donna: un’espressione come
«disponibile al gioco di squadra» allude, se riferita a un uomo, alle
capacità di leadership, mentre se si sta parlando di una donna «fa
pensare a una persona docile» 49. In ambito accademico, le lettere di
referenze per le donne tendono a sottolineare la capacità didattica
(di minor valore) a scapito delle piú apprezzate doti di ricerca 50; a
restare sul vago (descrizioni evasive o lodi troppo tiepide) 51; a
economizzare sugli aggettivi che denotano eccellenza come
«notevole» o «eccezionale». Per le donne si preferiscono aggettivi
da stacanoviste, tipo «solerte».
Dietro la propensione a utilizzare le schede di valutazione e le
lettere di referenze come se fossero strumenti neutri si nasconde un
vuoto di dati che tuttavia, come il vuoto di dati meritocratico, non
nasce da un’effettiva carenza di informazioni quanto dal rifiuto di
prenderle in considerazione. Nonostante l’abbondanza di prove a
sfavore, schede e lettere sono tuttora ampiamente utilizzate in
ambito accademico e hanno un peso considerevole nel decidere
assunzioni, promozioni e licenziamenti del personale docente, come
se fossero parametri oggettivi per misurare il valore di una
persona 52. E nel 2020, con la prevista introduzione del nuovo
sistema di valutazione detto Teaching Excellence Framework (Tef),
le opinioni degli studenti inglesi diventeranno ancor piú determinanti.
Il Tef servirà a stabilire l’entità dei fondi erogati a ciascun ateneo,
mentre il National Student Survey verrà promosso a «criterio
fondamentale per la misurazione dell’efficacia didattica». Nel
luminoso futuro di Eccellenza Didattica che ci attende, le donne
saranno – temo – alquanto svantaggiate.
La mancanza di meritocrazia nel mondo accademico è un
problema che dovrebbe riguardarci tutti, se davvero ci sta a cuore la
qualità della ricerca prodotta dalle nostre università: è stato
dimostrato che le docenti universitarie sono piú propense dei
colleghi maschi a mettere in discussione, nel lavoro scientifico, le
ipotesi analitiche fondate sul pregiudizio maschile 53. Di
conseguenza, quanto maggiore è il numero delle ricercatrici che
pubblicano, tanto piú rapida sarà la scomparsa del gender data gap
della ricerca scientifica. La qualità della ricerca accademica
dovrebbe davvero starci a cuore: non è un ambito esoterico che
interessa solo pochi fortunati in una torre d’avorio. La ricerca
prodotta dalle università ha un impatto significativo sulle politiche
governative, sulla prassi medica, sulle norme di legge in materia di
salute sul lavoro. La ricerca prodotta dalle università si ripercuote
direttamente sulle nostre vite: per questo è essenziale che le donne
non siano dimenticate.

Una volta accertato che i bambini imparano il pregiudizio di


genialità sui banchi di scuola, dovrebbe essere abbastanza semplice
fare in modo che non accada piú. In effetti un recente studio ha
dimostrato che bambine e ragazze ottengono risultati migliori nelle
discipline scientifiche quando sui loro libri di testo compaiono anche
immagini di scienziate donne 54. In altri termini, per smettere di
insegnare alle ragazze che la genialità non gli appartiene basta
smettere di distorcere la rappresentazione delle donne. Semplice,
no?
Correggere il pregiudizio di genialità quando è già stato acquisito
è, invece, molto piú difficile; e la conseguenza è che quei bambini,
una volta diventati grandi, entrano nel mondo del lavoro e tendono a
loro volta a perpetuarlo. Il problema è già abbastanza serio quando
la selezione del personale è affidata a esseri umani in carne e ossa,
ma con il diffondersi dei processi di reclutamento governati dagli
algoritmi le cose sono destinate a peggiorare: ci sono molte ragioni
per temere che il pregiudizio di genialità si stia poco alla volta
radicando nei codici ai quali affidiamo la scelta dei candidati.
Nel 1984 il giornalista americano Steven Levy ha pubblicato il suo
libro di maggior successo, Hackers. Gli eroi della rivoluzione
informatica. Gli eroi di Levy erano tutti geniali, lavoravano come
matti, ed erano tutti uomini. A fidanzate, però, erano messi maluccio.
«Scrivevano hack e vivevano secondo i principî dell’etica hacker e
sapevano bene che cose orribilmente inefficienti come le donne
bruciavano molti cicli macchina e occupavano troppo spazio in
memoria», racconta Levy. «Le donne, ancor oggi, sono considerate
totalmente imprevedibili, – spiega uno dei suoi eroi. – Come fa un
hacker [maschio per definizione] a tollerare un essere cosí
imperfetto?» 55.
Due paragrafi dopo quella plateale dichiarazione di misoginia,
Levy si scopre incapace di spiegare perché la cultura degli hacker
fosse «esclusivamente maschile». «Il fatto triste è che non ci fu mai
un hacker donna di un certo rilievo. Non si sa perché» 56. Se vuoi,
caro Steven, possiamo provare a indovinare.
Incapace di cogliere l’evidentissimo nesso tra la sfacciata
misoginia della cultura hacker e la misteriosa assenza di donne,
Levy ha dato una mano a consolidare il mito per cui gli smanettoni di
talento sono per forza di cose maschi. Al giorno d’oggi è difficile
immaginare una professione piú sottomessa al pregiudizio di
genialità. «Dove sono le ragazze a cui piace programmare?»
chiedeva un insegnante di scuola superiore durante un corso estivo
per la didattica avanzata dell’informatica alla Carnegie Mellon
University. «Di ragazzi con la passione del computer ne ho a
bizzeffe, – si lamentava il professore. – Certi genitori mi raccontano
che i loro figli starebbero svegli tutta la notte a programmare, se
potessero. Una ragazza cosí, invece, la devo ancora trovare».
Può darsi che sia vero; tuttavia, come ha osservato una collega di
quell’insegnante, non esibire comportamenti di quel tipo non significa
che le ragazze si disinteressino all’informatica. La collega in
questione raccontava di essersi «innamorata» della
programmazione al college, dopo essersi iscritta a un corso base.
Ma non stava sveglia tutta la notte, né impiegava la maggior parte
del suo tempo a programmare. «Passare le notti in bianco vorrà
certo dire che quella cosa ti piace moltissimo, ma è anche un segno
di eccessivo accanimento; di immaturità, forse. Magari le ragazze
hanno altri modi per dimostrare il loro amore verso i computer e
l’informatica. Un comportamento cosí ossessivo, se è questo che
stai cercando, è tipico dei giovani maschi. Può darsi che ci siano
ragazze che si comportano cosí, ma sono un’eccezione» 57.
Oltre a dare prova di scarsa considerazione verso le forme di
socializzazione femminili (a differenza dei ragazzi, le ragazze
considerate «misantrope» sono penalizzate), l’idea di misurare
l’interesse personale verso l’informatica in base a un comportamento
tipico dei maschi risulta doppiamente incongrua se si considera che
in origine la programmazione era un’attività femminile. Prima che le
macchine prendessero il loro posto, le nostre «calcolatrici» erano
donne che risolvevano a mano equazioni matematiche complesse
per conto delle forze armate dei loro Paesi 58.
Anche dopo l’avvento dei calcolatori elettronici, ci vollero anni
prima che gli uomini subentrassero alle donne. L’Eniac, il primo
computer digitale multiuso entrato in funzione nel 1946, era stato
programmato da sei donne 59. Negli anni Quaranta e Cinquanta il
mondo della programmazione era un mondo soprattutto
femminile 60, e nel 1967 un articolo intitolato The Computer Girls
consigliava ancora alle lettrici di «Cosmopolitan» di abbracciare
quella professione 61. «È come quando si organizza una cena, –
spiegava Grace Hopper, pioniera dell’informatica. – Bisogna solo
prepararsi in anticipo e predisporre tutto in modo che sia pronto
quando serve. Ci vogliono pazienza e attenzione ai dettagli: per
questo dico che le donne hanno un talento naturale per la
programmazione».
Fu proprio in quegli anni, però, che gli industriali si resero conto
che programmare non era il lavoro impiegatizio a basso valore
aggiunto che immaginavano. Non era come battere a macchina la
corrispondenza o tenere l’archivio, ma richiedeva capacità avanzate
di risoluzione dei problemi. E poiché il pregiudizio di genialità è piú
potente dei dati di fatto (le donne si stavano già occupando di
programmazione, dunque avevano quelle capacità) gli imprenditori
decisero di investire nella formazione dei dipendenti maschi e
svilupparono sistemi di reclutamento del personale all’apparenza
obiettivi, ma in realtà subdolamente discriminatori. Come i formulari
di valutazione utilizzati ai giorni nostri per i docenti universitari, quei
test servivano a capire «non tanto se il candidato era o meno adatto
a svolgere il lavoro, ma piuttosto se possedeva una serie di
caratteristiche stereotipate» 62. È difficile stabilire se quelle modalità
di reclutamento fossero il risultato di un vuoto di dati di genere
(l’incapacità di comprendere che le qualità ricercate erano indizi di
una propensione al maschile) o di una vera e propria
discriminazione, ma quel che è certo è che erano prevenute a favore
dei maschi.
C’erano per esempio test attitudinali a risposta multipla che in
realtà «non richiedevano grande attenzione ai dettagli, né le capacità
di problem-solving tipiche del contesto lavorativo», bensí vertevano
su nozioni matematiche di secondaria importanza, che gli stessi
datori di lavoro consideravano ormai superflue. Insomma, prove utili
a valutare quel tipo di competenze matematiche che, all’epoca, gli
uomini potevano aver imparato a scuola. Un’altra qualità misurata
con accuratezza era la capacità di stabilire contatti personali: le
soluzioni ai test circolavano in ambiti vietati alle donne, come le
confraternite universitarie 63.
A lungo andare i profili psicologici dei candidati finirono per creare
lo stereotipo del programmatore a cui accennava quel professore di
informatica al corso estivo della Carnegie Mellon University:
l’imbranato misantropo con scarse attitudini alla socievolezza e
all’igiene personale. Un articolo di psicologia del 1967, molto citato
all’epoca, menzionava fra le «caratteristiche emblematiche dei
programmatori» il «disinteresse per il prossimo» e l’insofferenza
verso «le attività che comportano un’interazione personale
ravvicinata» 64. Di conseguenza le società del settore si misero a
caccia di personaggi con quelle caratteristiche e ne fecero i
programmatori piú celebri della loro generazione: il profilo
dell’imbranato misantropo diventò la classica profezia che si
autoavvera.
Se cosí fosse, non dovremmo sorprenderci di veder riemergere
oggigiorno questo tipo di pregiudizio implicito negli algoritmi segreti
che hanno una parte sempre piú determinante nella selezione del
personale. In un articolo per il «Guardian» l’analista informatica
Cathy O’Neil, autrice del saggio Armi di distruzione matematica,
spiega come la piattaforma online di selezione del personale Gild
(ora acquisita dalla società di servizi finanziari Citadel) 65 consenta ai
datori di lavoro di andare molto al di là del semplice curriculum vitae,
passando al setaccio anche i dati estratti dai social network 66,
ovvero le tracce che ognuno di noi lascia quando naviga in rete.
Queste informazioni vengono utilizzate per valutare il «capitale
sociale», cioè il livello di integrazione di ogni programmatore in seno
alla comunità digitale. Per esempio si può misurare quanto tempo
viene dedicato alla condivisione e all’elaborazione di codici sulle
piattaforme di sviluppo come GitHub o Stack Overflow. Non solo:
Gild cattura nella sua rete enormi quantità di dati, ed è capace di
trarne informazioni di vario tipo.
Frequentare un certo sito di manga giapponesi, per esempio,
costituisce in base ai modelli elaborati da Gild un «forte indizio di
buone capacità di codifica» 67: di conseguenza i programmatori che
visitano quel sito ottengono punteggi piú favorevoli. Tutto ciò
sembrerebbe bellissimo se non fosse che, come sottolinea O’Neil,
giudicare positivamente un candidato per una cosa del genere è un
chiaro segnale d’allarme per chiunque abbia a cuore la diversità. Le
donne, che come abbiamo visto si accollano il settantacinque per
cento del carico mondiale di lavoro di cura non retribuito, potrebbero
per esempio non avere il tempo per chiacchierare di manga online.
O’Neil sottolinea inoltre che «se, come nella maggior parte degli
ambienti tecnologici, quel sito di manga è dominato dagli uomini e ha
risvolti sessuali, è molto probabile che molte donne del settore lo
evitino» 68. In sostanza, Gild potrebbe essere la versione algoritmica
del famoso professore di informatica che frequentava il corso alla
Carnegie.
È fuor di dubbio che Gild non intendesse discriminare le donne.
Voleva anzi fare esattamente l’opposto: azzerare il pregiudizio
umano. Ma se non si è consapevoli di come quel pregiudizio opera
in concreto, se non si raccolgono dati e non si dedica un po’ di
tempo all’elaborazione di procedure basate sulle evidenze, non si fa
altro che perpetuare in modo cieco le antiche ingiustizie. Non
tenendo conto di come le vite degli uomini sono diverse dalle vite
delle donne, sia online che offline, i programmatori di Gild hanno
inconsapevolmente creato un algoritmo con un pregiudizio implicito
verso le donne.
Ma non è questa la cosa piú preoccupante. La cosa piú
preoccupante è che non abbiamo idea di quanto grave sia il
problema. La maggior parte degli algoritmi di questo tipo è segreto e
protetto in quanto programma a codice chiuso: quindi non
conosciamo il funzionamento dei loro processi decisionali e non
sappiamo quali preconcetti vi si annidino. Se siamo al corrente del
pregiudizio potenziale inserito nell’algoritmo di Gild è solo perché
uno dei suoi inventori ce l’ha raccontato. Potremmo dire che è un
duplice gender data gap: né i programmatori che hanno messo a
punto l’algoritmo, né la società civile nel suo complesso hanno idea
del potenziale discriminatorio delle intelligenze artificiali.

L’inconsapevole propensione al maschile delle procedure che


governano il mondo del lavoro emerge non solo quando si assume
un dipendente, ma anche quando si decide di concedergli un
avanzamento di carriera. Un esempio classico viene da Google,
dove si è scoperto che le donne non si autocandidano per una
promozione con la stessa frequenza degli uomini. Niente di nuovo:
siamo condizionate alla modestia, e se mai proviamo a uscire dagli
schemi siamo noi stesse a farne le spese 69. I dirigenti di Google,
invece, sono rimasti sorpresi. E – cosa che senza dubbio gli fa onore
– hanno cercato di rimediare. Purtroppo il modo in cui l’hanno fatto
rivela la quintessenza del pensiero a misura di maschio.
Non è dato sapere se Google ignorasse le aspettative culturali
imposte alle donne o se, pur conoscendole, non le considerasse
rilevanti: fatto sta che la loro soluzione per contrastare la
propensione al maschile del sistema non è stata «correggere» il
sistema, ma le donne. Le responsabili cominciarono a organizzare
gruppi di lavoro per «spronare le donne a chiedere avanzamenti di
carriera», racconta Laszlo Bock, direttore del personale dell’azienda
di Mountain View 70. In sostanza, gruppi di lavoro per spronare le
donne a essere piú simili agli uomini. Ma dove sta scritto che gli
uomini agiscano, o vedano sé stessi, nel modo giusto? Da alcuni
studi recenti è emerso che laddove le donne tendono a valutare in
modo corretto la propria intelligenza, molti uomini di intelligenza
media ritengono di avere capacità intellettuali superiori rispetto ai
due terzi della popolazione 71. Stando cosí le cose, può anche darsi
che non siano le donne a farsi avanti troppo raramente per una
promozione, ma gli uomini a farsi avanti troppo spesso.
A sentire Laszlo Bock, i gruppi di lavoro sono stati un successo:
ora – ha detto al «New York Times» – le donne che passano di
categoria sono, in proporzione, tante quanti gli uomini. Ma se è cosí,
come si spiega la riluttanza a divulgare dati che lo dimostrino? Nel
2017 il ministero del Lavoro statunitense aveva indagato sulle
pratiche retributive dell’azienda di Mountain View, individuando
«sistematiche disparità salariali a danno delle lavoratrici, a
pressoché tutti i livelli gerarchici», con «da sei a sette scostamenti
anomali tra le retribuzioni di uomini e donne, in quasi tutte le
categorie di lavoro» 72. Da allora Google ha piú volte rifiutato di
comunicare al ministero dati piú precisi sulle buste paga dei suoi
dipendenti, combattendo mesi di battaglie legali per sottrarsi alla
richiesta e insistendo col dire che non vi è alcuna disparità.
Per un’azienda che vive soprattutto di dati, questa riluttanza può
apparire sorprendente. Non dovrebbe esserlo. Tracy Chou,
ingegnera informatica, ha raccolto dati sul numero di donne con la
sua stessa qualifica che hanno lavorato dal 2013 nelle società
statunitensi dell’high-tech e ha scoperto che «ogni azienda ha i suoi
sistemi per nascondere o confondere i dati» 73. Pare inoltre che non
siano granché interessate a misurare gli effetti concreti delle loro
«iniziative per creare ambienti di lavoro a misura di donna, per
avvicinare le donne all’informatica o per evitare che si allontanino».
Secondo Tracy Chou «non c’è modo di capire se le iniziative hanno
avuto successo o se vale la pena di imitarle, perché manca qualsiasi
criterio di valutazione». E il risultato è che «nessuno parla
seriamente del problema».
Non è del tutto chiaro perché il settore delle alte tecnologie sia
cosí restio a fornire dati disaggregati sulla forza lavoro, ma può darsi
che il mito della meritocrazia c’entri in qualche modo: in fondo, se
per avere intorno a sé «gente in gamba» basta credere nella
meritocrazia, a che servono i dati? Per assurdo, se queste
cosiddette istituzioni meritocratiche abiurassero la religione e si
convertissero alla scienza, potrebbero avvalersi di soluzioni che già
esistono e che si basano su dati certi. Ad esempio potrebbero
ricorrere alle tanto criticate «quote rosa» che, secondo un recente
studio della London School of Economics, «piú che a promuovere
donne non abbastanza qualificate servono a sgombrare il campo dai
maschi incompetenti» 74.
Un’altra cosa che potrebbero fare è raccogliere e analizzare
informazioni sui propri metodi di reclutamento, per accertarsi che
siano davvero imparziali come dicono. Il Massachusetts Institute of
Technology l’ha fatto, e studiando trent’anni di dati ha scoperto che
le donne erano sistematicamente svantaggiate «dalle normali
procedure di ricerca del personale» e che «alcune lavoratrici dalle
qualità eccezionali potevano con facilità passare inosservate ai
normali metodi di ricerca per dipartimenti» 75. A meno che i membri
dei comitati di selezione non glielo chiedessero in modo esplicito,
talvolta i capi dipartimento rinunciavano a proporre per un
avanzamento di carriera le loro dipendenti migliori. Molte dipendenti
assunte dopo l’istituzione di corsie preferenziali alle donne non
avrebbero fatto domanda in condizioni normali. A conferma dei
risultati emersi dallo studio della London School of Economics,
l’indagine del Mit ha inoltre scoperto che le corsie preferenziali a
favore delle lavoratrici non implicano un abbassamento dei criteri di
selezione. Al contrario: le donne assunte grazie alle quote «se la
cavano tutto sommato meglio dei loro colleghi maschi».
La buona notizia è che quando le aziende si decidono a
esaminare i dati e a fare qualcosa di concreto, i risultati possono
essere strabilianti. Per esempio, quando una società europea
pubblicò un annuncio per la ricerca di un profilo tecnico illustrandolo
con la foto di repertorio di un uomo e un testo che esaltava
«l’aggressività e la competitività», le candidature femminili furono
solo il cinque per cento del totale. Una volta sostituita la foto con
quella di una donna, accompagnata da un testo che parlava di
«entusiasmo e innovazione», le candidature delle donne salirono al
quaranta per cento 76. Lo studio di progettazione digitale Made by
Many ha fatto un’esperienza simile con un annuncio per un posto di
capo progettista: quando si è deciso di rinunciare alla stentorea
esaltazione dell’uomo solo al comando ponendo invece l’accento sul
lavoro di squadra e sull’attenzione verso i committenti il numero di
candidate donne è piú che raddoppiato, anche se il profilo
professionale era esattamente lo stesso 77.
Non sono che due aneddoti, ma dimostrano con tutta evidenza
fino a che punto la formulazione di un’offerta di lavoro possa
determinare il numero delle candidature femminili. Da un’analisi di
quattromila offerte di lavoro è risultato che le donne si scoraggiavano
davanti agli annunci che, facendo leva sugli stereotipi maschili,
impiegavano termini come «aggressivo», «ambizioso» o
«caparbio» 78. Il fatto significativo è che le donne non avevano piena
coscienza di quelle scelte linguistiche o dell’effetto che facevano su
di loro, ma razionalizzavano la scarsa attrattiva di quegli annunci
attribuendola a motivazioni personali: il che dimostra che si può
subire la discriminazione senza nemmeno sentirsi discriminate.
Alcune start up nel settore delle nuove tecnologie hanno seguito
l’esempio della New York Philharmonic Orchestra e messo a punto
dei sistemi di selezione del personale «alla cieca» 79. Altri, come
GapJumpers, affidano ai candidati piccoli incarichi calibrati sul profilo
professionale a cui sono interessati, dopodiché selezionano i piú
brillanti e li mandano al colloquio con i capi del personale senza
fornire a questi ultimi informazioni che consentano di identificarli. Il
risultato? Circa il sessanta per cento delle persone selezionate
appartiene a gruppi minoritari.
Se è vero che il reclutamento «alla cieca» può funzionare per le
nuove assunzioni, sembra piú difficile applicarlo agli avanzamenti di
carriera. In questo caso la soluzione passa attraverso i principî della
responsabilità e della trasparenza. Una società del settore high-tech,
per esempio, è riuscita nell’arco di cinque anni ad azzerare
completamente il divario retributivo tra uomini e donne, grazie alla
sistematica raccolta di dati sugli aumenti di stipendio concessi dai
suoi dirigenti e all’istituzione di un apposito comitato di controllo 80.
V.
Effetto Pigmalione

Quando Sheryl Sandberg è rimasta incinta per la prima volta,


lavorava ancora per Google. «La gravidanza non è stata facile»,
racconta l’attuale direttrice operativa di Facebook nel suo best-seller
Facciamoci avanti. Le donne, il lavoro e la voglia di riuscire. Ha
avuto nausee per tutti e nove i mesi. Si è ingrossata ovunque, non
solo nella pancia. I piedi erano talmente gonfi che aveva bisogno di
scarpe di due numeri piú grandi, e «si erano trasformati in oggetti
dalla forma indefinibile, che riuscivo a vedere soltanto quando li
appoggiavo su un tavolino» 1.
Era il 2014: Google era già un colosso del settore, e il suo
altrettanto colossale parcheggio costringeva Sandberg a lunghe e
disagevoli camminate. Dopo mesi di fatiche, un giorno entrò
nell’ufficio di Sergey Brin, uno dei soci fondatori, e gli annunciò «che
servivano parcheggi per le donne incinte [vicino all’ingresso
principale], preferibilmente al piú presto. Brin «accettò subito,
ammettendo di non averci mai pensato prima» 2. Sandberg, dal
canto suo, si sentí in imbarazzo per non essersi «resa conto che le
donne incinte avevano bisogno di un posto auto riservato finché i
[suoi] piedi doloranti non ne avevano fatto esperienza diretta» 3.
Prima della gravidanza di Sheryl Sandberg, Google aveva
risentito di un’assenza di dati, poiché né i fondatori maschi
dell’azienda né la stessa Sandberg erano mai stati incinti. La lacuna
è stata colmata alla prima gravidanza, cosa che da quel momento è
tornata a vantaggio di tutte le dipendenti nella stessa condizione.
Non si sarebbe dovuto aspettare cosí a lungo: di certo c’erano
state altre gravidanze tra il personale di Google. La società avrebbe
potuto – e dovuto – attivarsi in precedenza e raccogliere dati in
proposito, ma purtroppo capita abbastanza spesso che ci voglia
l’intervento di una dirigente per risolvere certi problemi. E poiché i
posti di comando delle aziende sono ancora perlopiú in mano agli
uomini, il mondo del lavoro è disseminato di lacune di questo
genere: porte troppo pesanti, scalinate e pavimenti in vetro che
permettono a chiunque di guardarti le mutande, selciati con le fughe
della misura giusta perché ci si incastrino i tacchi. Piccoli, fastidiosi
contrattempi che non sono certo la fine del mondo, ma dànno
comunque sui nervi.
E poi c’è la temperatura standard degli uffici. Determinata negli
anni Sessanta in funzione del metabolismo basale di un maschio di
quarant’anni che pesa settanta chili 4. Uno studio recente ha tuttavia
dimostrato che «il metabolismo basale delle giovani donne che
svolgono mansioni poco impegnative in un ufficio è
significativamente piú basso rispetto ai valori standard degli uomini
impegnati in attività analoghe. La formula degli anni Sessanta
sovrastima il metabolismo femminile di un buon trentacinque per
cento, il che significa che la temperatura negli uffici è in media
cinque gradi al di sotto del valore ideale per le donne. Ecco perché
nell’estate newyorchese, in certi uffici, ci sono uomini in maniche di
camicia e donne avvolte nelle coperte 5.
Ognuna di queste lacune informative rappresenta un’ingiustizia,
oltre a essere indice di un pessimo senso degli affari: una forza
lavoro che non si sente a suo agio, infatti, è una forza lavoro
improduttiva. Ma c’è di peggio, perché dalla mancata conoscenza di
certi dati possono derivare patologie croniche. Nei casi peggiori,
addirittura la morte.
Da cent’anni a questa parte la sicurezza dei posti di lavoro è
migliorata di molto. Nei primi anni del Novecento gli incidenti mortali
sul lavoro erano, in Gran Bretagna, circa 4400 all’anno 6. Nel 2016 le
vittime sono state soltanto 137 7. Negli Stati Uniti si è passati dai 23
000 morti del 1913 (su una forza lavoro di trentotto milioni di
persone) 8 ai 5190 del 2016, su un totale di centosessantatre milioni
di lavoratori 9. La notevole diminuzione degli incidenti mortali si deve
in gran parte ai sindacati, che hanno insistito a lungo affinché
governi e imprenditori approvassero misure cautelari piú efficaci: dal
1974, anno dell’introduzione della legge britannica per la sicurezza e
la salubrità dei luoghi di lavoro, il numero delle vittime è calato
dell’ottantacinque per cento. È una buona notizia, ma il problema
non si esaurisce qui: il numero degli incidenti sul lavoro che causano
lesioni gravi risulta in calo per gli uomini, ma sta aumentando per le
donne 10.
L’incremento degli infortuni gravi tra le lavoratrici è correlato
all’assenza di dati di genere: poiché la ricerca si è da sempre
orientata sui settori a manodopera prevalentemente maschile, ne
sappiamo poco – pochissimo, a volte – su come si possano
prevenire gli infortuni delle donne. Ormai la movimentazione dei
carichi pesanti nel settore edile non ha piú segreti; abbiamo un’idea
precisa di quale debba essere il peso massimo e come si possa
sollevarlo. Ma quando a spostare pesi è una donna che svolge un
lavoro di cura, la risposta è: «Be’, sono cose da donne: a che serve
la formazione?»
Béatrice Boulanger non ne aveva ricevuta alcuna 11. Il suo lavoro
di badante per anziani l’aveva imparato sul campo. Ma le capitava
spesso di dover sollevare carichi ingenti, e molte delle persone che
accudiva erano sovrappeso. Un giorno, mentre aiutava una signora
a uscire dalla vasca da bagno, la sua spalla cedette all’improvviso.
«Intorno all’articolazione, l’osso era tutto sbriciolato», ha raccontato
Béatrice a una giornalista della rivista specializzata «Hazards». «I
dottori hanno dovuto amputarmi la testa dell’omero»: alla fine è stato
necessario impiantarle una protesi totale, e da allora Béatrice non
può piú fare quel lavoro.
Il suo non è un caso isolato. A volte una badante o un’addetta alle
pulizie solleva, in un solo turno di lavoro, carichi piú pesanti di quelli
che competono a un operaio edile o un minatore 12. «Il lavandino al
piano di sopra ce l’hanno messo solo tre anni fa, – ha raccontato a
“Equal Times” un’addetta alle pulizie presso un centro culturale
francese 13. – Prima dovevamo portare su l’acqua coi secchi, poi
riportarla giú quand’era sporca. Ma nessuno ci pensava».
Diversamente dagli operai edili e dai muratori, alla fine dell’orario di
lavoro queste donne non vanno a casa per riposarsi ma per
affrontare un secondo turno di lavoro non retribuito, durante il quale
dovranno ancora sollevare, e trasportare, e chinarsi, e strofinare.
Nel ripercorrere le tappe di una vita dedicata alla medicina del
lavoro femminile, la genetista e docente di biologia Karen Messing
dell’università di Montreal scrive che «non si è ancora fatta alcuna
indagine biomeccanica su come le dimensioni del seno influiscano
sulle tecniche di sollevamento associate al dolore alla schiena» 14,
anche se già negli anni Novanta la dottoressa Angela Tate della
Memorial University aveva denunciato alla comunità scientifica il
pregiudizio maschile negli esperimenti di biomeccanica. Messing
evidenzia inoltre la perdurante tendenza a sottovalutare i sintomi del
dolore muscoloscheletrico correlato al lavoro delle donne, benché ci
sia abbondanza di prove sul diverso funzionamento della fisiologia
del dolore maschile e femminile 15. Se ancora non bastasse, ci si è
resi conto da poco che tutti gli esperimenti sui meccanismi del dolore
sono stati condotti su topi maschi.
L’assenza di dati di genere nel campo della medicina del lavoro è
talvolta imputata al maggior rischio di incidenti mortali per la
popolazione maschile. È certamente vero che le statistiche sulle
morti bianche sono ancora dominate dai maschi, ma il problema non
si esaurisce in quell’unico dato. Il lavoro può uccidere in molti altri
modi, e gli incidenti non sono la causa di morte piú comune.
Decisamente no.
Ogni anno ottomila persone muoiono di tumori correlati al
lavoro 16. Sebbene gran parte della ricerca in questo campo sia stata
condotta su uomini 17, non è affatto certo che siano loro i piú
colpiti 18. Negli ultimi cinquant’anni il mondo industrializzato ha visto
un significativo incremento dei casi di cancro al seno 19, ma poiché
la ricerca si disinteressa dei corpi delle donne, delle loro occupazioni
e degli ambienti in cui vivono, non abbiamo dati che ci aiutino a
capire che cosa si nasconde dietro questo fenomeno 20. «Sappiamo
tutto sulle malattie da inalazione di polvere nei minatori, – mi dice
Rory O’Neill, docente di ricerca ambientale e sul lavoro all’università
di Stirling, – ma ancora poco sulle conseguenze dell’esposizione agli
agenti fisici o chimici con cui molte lavoratrici entrano in contatto».
Il problema è, almeno in parte, di natura storica. «Per le patologie
come il cancro, che hanno tempi di latenza prolungati, possono
anche passare decenni prima che il numero dei decessi sia
abbastanza elevato da poter tirare le somme». Sono generazioni,
ormai, che contiamo i morti negli ambiti lavorativi tipicamente
maschili come l’edilizia e l’estrazione dei minerali. O per essere piú
precisi, abbiamo contato solo i corpi degli uomini: quando le vittime
erano donne impiegate in quei settori o esposte a sostanze dello
stesso tipo, «i dati venivano eliminati in quanto “fattori di disturbo”».
E nel frattempo nessuno si occupava dei settori in cui prevaleva la
forza lavoro femminile. Se anche cominciassimo a studiarli oggi,
spiega O’Neill, ci vorrebbe almeno una generazione per raccogliere i
dati necessari.
Non se ne occupa ancora nessuno, di quei settori. Continuiamo
ad affidarci agli studi sui lavoratori maschi e facciamo finta che
vadano bene anche per le donne. E per «maschi» intendiamo, nello
specifico, individui di razza bianca fra i venticinque e i trent’anni che
pesano settanta chili. Ci siamo scelti un «Uomo di riferimento»
dotato di superpoteri che gli permettono di rappresentare l’umanità
intera. Solo che non è vero.
Uomini e donne hanno sistemi immunitari ed endocrini diversi, e
questo può influire sulle modalità di assorbimento degli agenti
chimici 21. Inoltre le donne hanno un fisico tendenzialmente piú
minuto degli uomini e la pelle piú sottile: fattori che potrebbero
abbassare la loro soglia di tolleranza alle tossine, mentre la
maggiore percentuale di grasso corporeo facilita l’accumulo delle
sostanze tossiche.
Il risultato è che i livelli di irradiazione nucleare che si considerano
sicuri per l’Uomo di riferimento possono rivelarsi dannosi per le
donne 22. Lo stesso dicasi per una vasta gamma di agenti chimici di
uso comune 23. Eppure la famosa regola «se-va-bene-per-i-maschi-
va-bene-per-tutti» sembra tuttora valida 24, e a peggiorarne gli effetti
contribuiscono anche le tecniche di valutazione del rischio chimico.
Tanto per cominciare, ancora oggi gli agenti chimici vengono
analizzati uno a uno, e sulla base di una sola esposizione. Ma non è
cosí che si viene a contatto con quel tipo di sostanze, a casa (nei
detersivi e nei cosmetici) come al lavoro.
Nei centri di manicure, la cui forza lavoro è quasi esclusivamente
femminile e molto spesso immigrata, le lavoratrici sono esposte ogni
giorno a un gran numero di agenti chimici «contenuti negli smalti e
nei solventi, nei gel, nelle gommalacche, nei disinfettanti e negli
adesivi che costituiscono gli strumenti base del loro lavoro» 25. Molte
di quelle sostanze sono correlate al cancro, alle patologie polmonari
e agli aborti spontanei, e alcune sono in grado di alterare le normali
funzioni ormonali. E come al solito, dopo un turno di lavoro retribuito
le donne andranno a casa e saranno esposte alle altre sostanze
chimiche contenute nei detersivi per uso domestico 26. Gli effetti di
questo cocktail chimico sono in gran parte sconosciuti 27: quel che si
sa per certo è che il contatto con un mix di sostanze chimiche può
essere parecchio piú tossico dell’esposizione a un solo principio 28.
La ricerca in questo campo si è concentrata soprattutto
sull’assorbimento cutaneo degli agenti chimici 29. Lasciando da parte
per il momento gli effetti verosimilmente diversi del contatto
attraverso un’epidermide piú sottile di quella maschile, non c’è
dubbio che per le donne che lavorano nei centri di manicure la pelle
non sia l’unico veicolo di assorbimento. Spesso quei composti sono
alquanto volatili, ovvero evaporano nell’aria a temperatura ambiente
e possono essere inalati insieme alle grandi quantità di pulviscolo
prodotto dalla limatura delle unghie. Eppure non è stata fatta
neanche una ricerca sui potenziali effetti di quelle sostanze per la
salute delle lavoratrici.
Per fortuna i dati, benché molto lacunosi, cominciano ad arrivare.
Anne Rochon Ford, coordinatrice di un progetto canadese in difesa
della salute delle donne, mi racconta quali sono stati i primi segnali
di allarme: «In un ambulatorio pubblico nella zona centrale di
Toronto, nelle immediate vicinanze di Chinatown, si presentavano
moltissime donne con un complesso di sintomi spesso associati
all’esposizione a sostanze chimiche». Venne fuori che lavoravano
tutte nei centri di manicure. Da numerose indagini sulla qualità
dell’aria è risultato che i limiti di legge sono quasi sempre rispettati; il
problema è che quelle soglie sono state fissate senza tenere conto
dei possibili effetti di un contatto prolungato nel tempo. La cosa
desta preoccupazione soprattutto nel caso dei cosiddetti interferenti
endocrini o Edc (Endocrine disrupting chemicals) che, diversamente
dalla maggior parte delle sostanze tossiche, possono essere
dannosi anche a concentrazioni molto basse e sono presenti in un
gran numero di sostanze plastiche, preparati cosmetici e
detergenti 30.
Gli interferenti endocrini mimano – e quindi disturbano – l’azione
degli ormoni nel nostro corpo, «modificando il funzionamento di
organi e cellule, con una vasta gamma di possibili effetti sui processi
metabolici, riproduttivi e della crescita» 31. Per ora non abbiamo molti
dati sugli effetti di quelle sostanze sull’organismo femminile 32, ma
quel che sappiamo è piú che sufficiente per destare preoccupazione
e giustificare indagini vaste e approfondite.
È noto che gli interferenti endocrini sono un fattore di rischio per il
tumore al seno, e numerosi studi hanno evidenziato una maggiore
predisposizione al linfoma di Hodgkin, al mieloma multiplo e al
tumore alle ovaie tra i cosmetisti 33. Jim Brophy e Margaret Keith,
ricercatori nel campo della medicina del lavoro, hanno invece
studiato le materie plastiche utilizzate nella produzione di parti per
l’industria automobilistica. «Non siamo riusciti a trovare sostanze che
non fossero potenzialmente pericolose»: interferenti endocrini, fattori
di rischio per il carcinoma mammario, o tutte e due le cose. «Se
siete seduti in cerchio intorno a un falò e qualcuno ci butta dentro
una bottiglia di plastica o un contenitore in polistirolo, scappano tutti,
– spiegano i ricercatori. – Basta la puzza per far supporre che sia
roba tossica. Le donne che lavorano in quelle fabbriche azionano
tutti i giorni le macchine formatrici che scaldano il granulato plastico,
e i granelli sono pieni zeppi di interferenti endocrini».
Dopo dieci anni di lavoro a stretto contatto con gli Edc o con le
sostanze carcinogene, il rischio di sviluppare un cancro al seno
aumenta del quarantadue per cento. Secondo Brophy e Keith, dopo
dieci anni di lavoro in una fabbrica di componenti plastici per auto il
rischio si triplica. «Ma per le donne al di sotto dei cinquant’anni, e
quindi per i tumori in età fertile, l’aumento è di cinque volte». È stato
stimato che un solo anno di lavoro in quel settore accresce del nove
per cento le probabilità di sviluppare un cancro al seno 34.
L’Organizzazione mondiale per la sanità, l’Unione europea e
l’Associazione internazionale dei medici endocrini hanno pubblicato
svariate ricerche sulla pericolosità degli interferenti endocrini; la
Endocrine Society, in particolare, ha esplicitamente correlato il loro
uso al significativo aumento dei casi di carcinoma mammario nei
Paesi industrializzati 35. Malgrado ciò, in molti Paesi la normativa
sugli Edc è ancora quanto meno lacunosa. Di questo gruppo di
sostanze fanno parte anche gli ftalati, alcuni dei quali hanno
comprovate capacità di alterare la funzionalità ormonale. Vengono
utilizzati per rendere piú morbida la plastica e sono presenti «in
moltissimi prodotti, dai giocattoli alle tende da doccia. Si trovano
negli smalti per unghie, nei profumi, nelle creme idratanti, persino nei
rivestimenti esterni dei medicinali e nelle cannule di plastica per uso
medico».
In Canada «ci sono norme che ne regolano la presenza soltanto
nei giocattoli in plastica morbida destinati ai bambini, mentre
l’impiego cosmetico è in gran parte libero». L’Unione europea ha
messo al bando gli interferenti endocrini nel 2015 (con alcune
deroghe), ma non ne vieta l’importazione. Negli Stati Uniti (dove le
donne svolgono il settanta per cento dei compiti di pulizia domestica
e rappresentano l’ottantanove per cento della forza lavoro – con una
forte componente di minoranze etniche – nel settore delle pulizie
domestiche e alberghiere) non esiste una legge federale che
obblighi le aziende di detergenti a rendere nota la composizione dei
loro prodotti, e secondo uno studio recente persino i detersivi
«verdi» contengono Edc 36. Nel 2014 si scoprí che gli assorbenti
igienici di una nota marca contenevano «svariate sostanze chimiche,
tra cui stirene, cloroformio e acetone, considerate carcinogene o
dannose per l’apparato riproduttivo e la salute del feto» 37.
È evidente che ci servono dati piú accurati e completi
sull’esposizione delle donne alle sostanze chimiche. C’è bisogno di
dati disaggregati per sesso, che tengano conto anche dello stato
riproduttivo dei soggetti esaminati 38. Gli effetti degli agenti chimici
andrebbero valutati sulle donne stesse, non soltanto sui feti e sui
neonati come troppo spesso accade 39. I ricercatori devono rendersi
conto che il carico di incombenze non retribuite costringe alcune
donne a entrare e uscire ripetutamente dalla popolazione attiva
oppure a svolgere piú lavori part-time (il che a volte determina, come
ha detto Rory O’Neill, «un cocktail di esposizioni» alle sostanze
chimiche piú disparate): e finché le ricerche si concentreranno
sull’unica occupazione corrente saranno viziate da un sostanziale
vuoto di dati di genere 40.
Non c’è dubbio: le donne muoiono a causa dell’assenza di dati di
genere nella ricerca sulle malattie professionali. E non c’è dubbio
che si debba avviare al piú presto una raccolta sistematica di dati sui
corpi femminili nei luoghi di lavoro. Ma c’è un altro filone in questa
storia, perché se è vero che il mito della meritocrazia è duro a
morire, colmare il gender data gap è solo il primo passo. Quello
successivo, e cruciale, si farà quando i governi e le agenzie
competenti agiranno in funzione di quei dati. Non è ancora cosí.
Il Canada, per esempio, dispone di dati disaggregati per sesso
sull’esposizione agli agenti chimici, ma il governo «continua a
indicare come soglia-limite per molte sostanze un’esposizione media
giornaliera valida per tutti» 41. In Gran Bretagna, dove ogni anno
circa duemila donne sviluppano un tumore al seno correlato al lavoro
notturno, «il carcinoma mammario associato al lavoro a turni non è
incluso nella tabella delle patologie professionali riconosciute dallo
Stato» 42. Lo stesso vale per i tumori alle ovaie causati da
esposizione all’amianto (tra le principali sostanze cancerogene
secondo l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro), che pure
sono la neoplasia ginecologica piú diffusa tra le donne inglesi. Come
se non bastasse, il Comitato esecutivo per la sanità e la sicurezza
non raccoglie dati sui tumori alle ovaie da amianto.
La scarsa conoscenza dei fattori di rischio negli ambiti lavorativi a
prevalenza femminile si deve in parte al fatto che spesso le mansioni
svolte non sono che un’estensione, per quanto su una scala piú
vasta e quindi con un carico maggiore, di ciò che le donne fanno a
casa. Ma il blackout dei dati sulla salute delle donne non riguarda
solo i settori in cui domina la forza lavoro femminile: come abbiamo
già visto, laddove la forza lavoro era soprattutto maschile le donne
venivano trattate come «fattori di disturbo» da non prendere in
considerazione.
Il risultato è che persino nei settori storicamente piú protetti dalle
normative sanitarie e di sicurezza le donne sono ancora oggi messe
da parte. Nel 2007 le operatrici al lavoro nelle aziende agricole degli
Stati Uniti erano quasi un milione, eppure «pressoché tutti gli
strumenti e i dispositivi [erano] progettati, se non proprio su misura
per gli uomini, per un “utilizzatore medio” con dimensioni corporee,
peso e forza fisica molto simili a quelli del maschio-tipo» 43. Cosí si
spiegano gli attrezzi troppo pesanti o troppo lunghi, gli utensili
sbilanciati, le maniglie e le impugnature delle dimensioni sbagliate o
messe nei punti sbagliati (le mani delle donne sono in media due
centimetri piú corte di quelle degli uomini), le apparecchiature
meccaniche troppo pesanti o difficili da controllare (la distanza tra il
sedile e i pedali di un trattore, per esempio, non è compatibile con la
guida di una donna).
I dati sugli infortuni delle donne che lavorano nell’edilizia sono
pochissimi, ma il Comitato per la sicurezza e la salute sul lavoro
della città di New York (New York Committee for Occupational Safety
and Health) cita uno studio del sindacato carpentieri americani, nel
quale si afferma che le lavoratrici, rispetto ai colleghi maschi,
presentano un’incidenza piú elevata di distorsioni e neuropatie del
polso e dell’avambraccio. Non ci sono dati sufficienti per accertare
con precisione le cause del fenomeno, tuttavia è ragionevole
supporre che almeno una parte degli infortuni femminili sia dovuta al
fatto che nei cantieri le attrezzature «standard» sono progettate per il
corpo maschile.
Wendy Davis, ex direttrice del collettivo inglese Women’s Design
Service, punta il dito sulle dimensioni medie di un sacco di cemento.
Hanno un peso che consente agli uomini di sollevarli con comodo,
ma «se fossero un po’ piú piccoli ce la farebbero anche le donne».
Le dimensioni standard dei mattoni sono un altro problema, sostiene
Davis. «Ho delle foto di mia figlia già grande, con un mattone in
mano. Non riesce ad afferrarlo, invece Danny [il marito di Wendy
Davis, N. d. A.] non ha la minima difficoltà. Perché i mattoni hanno
quelle misure? Non è affatto necessario». Per le architette, invece, il
problema è la classica cartella portadisegni in formato A1, che sta
comodamente sotto il braccio maschile ma è troppo grande per la
maggior parte delle donne: anche di questo Davis ha una prova
fotografica. Infine il Comitato per la sicurezza e la salute sul lavoro
della città di New York fa notare che «i normali utensili manuali,
come le chiavi inglesi, sono troppo grandi e non consentono una
presa salda della mano femminile» 44.
Nell’esercito c’è un problema di equipaggiamenti progettati per il
corpo maschile. Nel corso delle mie ricerche per questo libro ho
scoperto l’esistenza dei cosiddetti «dispositivi tattili di
consapevolezza situazionale» (Tactile Situation Awareness Systems,
Tsas). In pratica sono degli speciali giubbotti per piloti di aerei, dotati
di trentadue sensori che vibrano quando è necessario correggere
l’assetto del velivolo: a volte i piloti perdono la cognizione dello
spazio e non riescono a capire se stanno salendo o scendendo di
quota. «Grazie agli Tsas, – ho letto in un documento, – il pilota è
sempre consapevole del proprio orientamento rispetto alla superficie
terrestre» 45. È chiaro che la scelta del pronome non è casuale, visto
che in un altro punto del documento si dice che «la vibrazione è
meglio percepita sui tratti di epidermide piú prossimi allo scheletro e
ricoperti di peli, mentre è piú difficile da avvertire sulle aree soffici e
carnose del corpo». Le donne rappresentano il venti per cento
dell’aeronautica militare statunitense, ma poiché hanno il seno e
sono prive di peli sul petto, è lecito supporre che l’uso di questi
dispositivi sia per loro abbastanza problematico 46.
Non tener conto dei corpi femminili significa non soltanto avere
apparecchiature militari che non funzionano a dovere sulle donne,
ma anche mettere in pericolo la loro incolumità. Si è scoperto che le
soldate, anche «a parità di forze e di capacità aerobica», hanno un
rischio di infortuni dell’apparato muscoloscheletrico fino a sette volte
maggiore rispetto agli uomini. E per le donne la probabilità di subire
fratture dell’anca e del bacino dovute a stress è dieci volte piú alta 47.
La maggiore incidenza di queste fratture ha una correlazione con
quello che ho chiamato «effetto Pigmalione». Nel famoso musical
My Fair Lady, il fonetista Henry Higgins si prende gioco per mesi
della sua protetta Eliza Doolittle, e quando lei finalmente reagisce e
si ribella al ruolo di vittima, Higgins domanda sconcertato: «Perché
le donne non sono come noi?» È una lamentela che si sente spesso,
e la soluzione che viene proposta di solito è «aggiustare» le donne.
Niente di strano: dopo tutto viviamo in un mondo in cui il maschile è
considerato universale e il femminile «atipico».
I vertici delle forze armate britanniche sono da sempre una
congrega di cloni di Henry Higgins. Prima del 2013, anno in cui tre
reclute della Royal Air Force (una delle quali aveva subito ben
quattro fratture del bacino 48) portarono la questione davanti ai
tribunali, le donne arruolate nell’esercito di Sua Maestà erano
obbligate a marciare alla stessa andatura dei maschi, quando è noto
che un passo maschile è mediamente piú lungo di quello femminile
del nove, dieci per cento 49. Da quando le forze armate australiane
hanno ridotto la lunghezza standard di un passo femminile da trenta
a ventotto pollici (da settantasei a settantuno centimetri), le fratture
da stress sono molto meno frequenti. E si è persino scoperto che
concedere alle soldate un passo piú adatto alla loro struttura fisica
non era poi la fine del mondo.
Anche i pesanti fardelli che i soldati devono caricarsi addosso
quando combattono possono essere un problema: si è infatti
scoperto che la lunghezza del passo femminile diminuisce con
l’aumentare del carico, mentre negli uomini non si rileva «alcun
cambiamento significativo» 50. Una ricerca statunitense ha
dimostrato che il rischio di infortunio cresce di cinque volte se le
donne trasportano carichi superiori al venticinque per cento del loro
peso corporeo 51. Se gli oggetti che formano il corredo delle soldate
fossero piú compatibili con il corpo femminile, il peso non sarebbe il
piú grave dei problemi, ma purtroppo non è cosí. Gli zaini, per
esempio, sono stati progettati in funzione dell’antropometria
maschile, ma su una schiena femminile diventano instabili; i cinturoni
non si adattano; gli spallacci sono scomodi 52. È stato suggerito che
«una cintura con un supporto lombare ben imbottito servirebbe a
trasferire il carico sul bacino», permettendo alle donne di reggere lo
zaino con la piú robusta muscolatura delle gambe 53: nella parte
superiore del corpo la forza muscolare degli uomini è del cinquanta
per cento superiore a quella delle donne, mentre dalla vita in giú lo
scarto si riduce al venticinque per cento. Quel che succede oggi,
invece, è che le donne compensano il peso di uno zaino costruito
per un solido torace maschile con l’iperestensione del collo e lo
spostamento in avanti delle spalle: da qui il rischio di infortuni e la
brevità del passo.
Ma non è solo un problema di zaini inadatti al corpo femminile.
Negli Stati Uniti, le prime uniformi tagliate su misura per i fianchi e i
seni femminili sono state messe in uso soltanto nel 2011, ben
trentacinque anni dopo l’ammissione del primo contingente di donne
alle accademie militari 54. Le nuove uniformi hanno ginocchiere piú
alte, adatte alla lunghezza piú contenuta delle gambe femminili, ma il
pezzo forte è senza alcun dubbio il cavallo: abolita la vecchia patta
con cerniera lampo «universale», i nuovi pantaloni sono studiati in
modo da consentire alle soldate di urinare senza tirarseli giú.
Sembra dunque che l’esercito americano abbia finalmente
riconosciuto l’esistenza dei corpi femminili, anche se permangono
alcuni problemi: per esempio non ci sono ancora calzature adatte al
piede femminile, piú stretto e con un arco plantare piú accentuato.
Secondo il «Washington Times» i militari hanno a disposizione
«scarponi impermeabili, per climi caldi e freddi, per le zone
montuose e per quelle desertiche» 55. Ma di scarponi per il sesso
«atipico» non se ne parla ancora.
Le donne che trascorrono molto tempo fuori casa sanno che fare
pipí è sempre un problema. In Gran Bretagna tutti i guardacoste
indossano una tuta intera alla quale sono sovrapposti vari strati di
indumenti: impermeabili, giubbotti salvagente, imbracature da
arrampicata. La doppia zip sul davanti delle tute è perfetta per gli
uomini, ma un po’ meno per le donne. Fare pipí è «una faccenda
impegnativa», ha spiegato una guardacoste durante un congresso
sindacale: bisogna sfilarsi uno alla volta tutti gli indumenti protettivi, e
infine anche la tuta 56. «Poiché siamo chiamati a intervenire in
situazioni che spesso comportano ore e ore di ricerche, potete
immaginarvi il disagio. Alcuni hanno suggerito ai nostri vertici di
sostituire le tute intere con una combinazione di giacca e pantaloni
che se non altro permetterebbe di abbassare questi ultimi senza
togliersi la parte di sopra: la proposta è stata giudicata
positivamente, ma finora non si è fatto niente di concreto».
Il problema degli indumenti a misura di anatomia maschile è stato
sollevato anche da una climatologa che aveva preso parte a una
missione di studio in Alaska 57. Date le temperature rigidissime, una
tuta intera è l’ideale, ma ahimè, le tute hanno la patta con la zip. La
faccenda è già abbastanza scomoda quando si hanno a
disposizione delle toilette al chiuso, perché comunque ci vuole un
mucchio di tempo a togliersi tutto. Ma se le toilette non ci sono il
problema si fa davvero grave, perché alla scomodità si aggiunge
l’insidia del congelamento. La ricercatrice ha provato a rimediare
all’inconveniente acquistando una sorta di imbuto di gomma che in
teoria avrebbe dovuto fungere da surrogato del pene, ma è stato un
disastro. Perché le donne non sono come gli uomini?
In Gran Bretagna, i datori di lavoro sono tenuti per legge a fornire
gratis ai loro dipendenti i necessari indumenti protettivi: il problema è
che quasi sempre quegli indumenti sono proporzionati alle taglie e
alle misure corporee dei maschi europei e statunitensi. La
Federazione nazionale dei sindacati britannici ha scoperto che gli
imprenditori pensano che sia sufficiente acquistare indumenti di
taglia piú piccola per venire incontro alle esigenze delle lavoratrici 58,
ma stando a un’indagine svolta nel 2009 dalla Women’s Engineering
Society, il settantaquattro per cento degli indumenti protettivi è fatto
per essere indossato dagli uomini 59. Da un sondaggio svolto nel
2016 dal sindacato Prospect tra le lavoratrici di vari settori – dai
servizi di emergenza all’edilizia al settore energetico – è risultato che
solo il ventinove per cento di loro disponeva di indumenti protettivi da
donna 60; in quello stesso anno, secondo un’indagine della
Federazione nazionale dei sindacati, le lavoratrici che indossavano
abbigliamento antinfortunistico confezionato apposta per le donne
erano «meno del dieci per cento della forza lavoro femminile nel
comparto energetico, e solo il diciassette per cento nel settore
edile» 61. La dipendente di un’azienda ferroviaria ha riassunto il
problema in queste poche parole: «La misura small è: a) quasi
introvabile; b) una small da uomo».
Questo «approccio unisex» all’abbigliamento protettivo può
causare seri problemi, sostiene la Federazione dei sindacati
britannici. Le diverse misure del petto, dei fianchi e delle cosce
possono pregiudicare la corretta sistemazione delle imbracature di
sicurezza. Anche gli occhiali di sicurezza, le maschere antipolvere e
antigas hanno misure «standard» calibrate per un viso maschile,
perciò non si adattano alle donne (e neanche a molti uomini di colore
o di etnie minoritarie). E le scarpe antinfortunistiche? Ecco come
un’agente di polizia ha raccontato alla Federazione dei sindacati le
sue difficoltà nel trovare una calzatura da donna adatta ai
sopralluoghi sulla scena del crimine: «Gli scarponcini che ci
forniscono sono gli stessi che dànno ai maschi, – spiega, – ma le
mie colleghe li trovano scomodi, troppo pesanti e fastidiosi per il
tendine di Achille. I nostri magazzini non hanno neanche provato a
cercare una soluzione».
Non è solo una questione di comodità. L’uso di indumenti
protettivi poco adatti può intralciare il lavoro e, paradossalmente,
mettere a repentaglio la sicurezza di chi li indossa. Gli indumenti e i
guanti troppo larghi, fa notare il Comitato per la sicurezza e la salute
sul lavoro della città di New York, rischiano di impigliarsi nei
macchinari, e con un paio di scarponi troppo grandi si può
inciampare 62. Stando al sondaggio effettuato nel 2016 dal sindacato
Prospect, il cinquantasette per cento delle lavoratrici ha dichiarato
che gli indumenti protettivi «ostacolano il lavoro, talvolta in misura
significativa» 63; risposta analoga è stata data dal sessanta per cento
delle donne intervistate per il sondaggio della Women’s Engineering
Society. Una lavoratrice del settore ferroviario ha spiegato che i
«normali» guanti da lavoro misura XXXL sono pericolosi per salire e
scendere dai locomotori. Non è dato sapere quanto tempo sia
passato tra la segnalazione ai superiori e l’arrivo di un paio di guanti
piú adatti a lei, ma una donna che ha avuto un’esperienza molto
simile ha raccontato a Prospect che ci sono voluti due anni solo per
convincere il suo superiore a ordinarle un paio di guanti della misura
giusta.
Un rapporto della Federazione dei sindacati britannici pubblicato
nel 2017 ha reso noto che nei servizi di emergenza la situazione era
ancora piú grave: solo il cinque per cento delle lavoratrici dichiarava
che gli indumenti protettivi non intralciavano mai il lavoro: armature,
giubbotti antitaglio, gilet e giacche catarifrangenti erano giudicati
inadatti 64. Il problema varca i confini della Gran Bretagna: nel 2018
un’agente di polizia spagnola è stata sottoposta a provvedimento
disciplinare per aver indossato un giubbotto antiproiettile che si era
comprata di persona (spendendo cinquecento euro), dato che quello
standard non le andava bene 65. Pilar Villacorta, segretaria della
sezione femminile del sindacato lavoratori della polizia, ha spiegato
al «Guardian» che i normali giubbotti antiproiettile forniti agli agenti
della Guardia Civil, essendo troppo grandi, non proteggono in modo
adeguato le donne e per di piú «sono d’intralcio alle agenti che
devono impugnare pistole, manette e sfollagente» 66.
Per chi lavora in prima linea, un abbigliamento protettivo inadatto
può dimostrarsi fatale. Nel 1997 un’agente della polizia inglese è
stata accoltellata a morte mentre cercava di sfondare la porta di un
appartamento con una pompa ad ariete idraulico: si era tolta il
giubbotto perché era troppo scomodo e le impediva di azionare la
pompa. In seguito altre settecento agenti di polizia si sono fatte
avanti per segnalare l’inadeguatezza dei giubbotti antiproiettile in
misura unica 67. Ormai sono passati piú di vent’anni, ma nulla è
cambiato. Le agenti di polizia inglese si procurano ecchimosi a
causa dei cinturoni; altre hanno dovuto ricorrere alla fisioterapia
perché il giubbotto antitaglio è incompatibile con un corpo femminile
e, a detta di molte, non lascia spazio al seno. Ciò significa,
scomodità a parte, che se l’indumento è indossato da una donna
diventa troppo corto sulla parte anteriore e lascia scoperta una parte
importante del corpo. A quel punto, tanto varrebbe non metterlo.
VI.
Quando vali meno di una scarpa

La grande paura del bisfenolo A è cominciata nel 2008. Il


composto chimico era utilizzato fin dagli anni Cinquanta nella
fabbricazione di oggetti di plastica trasparenti e durevoli, ed era
presente in milioni di oggetti di consumo, dai biberon ai contenitori di
latta per generi alimentari, fino alle condutture dell’acqua 1. In
quell’anno si producevano in tutto il mondo due milioni e
settecentomila tonnellate di bisfenolo A (anche detto Bpa): una
sostanza talmente ubiqua da essere rintracciabile nell’urina del
novantatre per cento degli americani dai sei anni in su 2. Ed ecco
che all’improvviso un istituto di sanità annunciava al mondo che il
composto organico con cui tutti avevano a che fare ogni giorno
poteva essere cancerogeno, causare alterazioni genetiche, disturbi
cerebrali e comportamentali, squilibri metabolici. La cosa grave è
che tutti quei problemi si verificavano con livelli di esposizione
inferiori ai limiti di legge. Come era prevedibile, scoppiò il finimondo.
La storia del Bpa ci insegna quanto sia controproducente ignorare
i dati sanitari che riguardano la popolazione femminile. Già nella
metà degli anni Trenta si era scoperto che il bisfenolo A può mimare
l’azione degli ormoni estrogeni femminili, e dagli anni Settanta, se
non prima, si sapeva che gli estrogeni sintetici hanno un effetto
cancerogeno sulle donne: il dietilstilbestrolo, un altro estrogeno di
sintesi che per trent’anni era stato prescritto a milioni di gestanti, era
stato messo al bando nel 1971 poiché era all’origine di una rara
forma di carcinoma della vagina che colpiva le giovani donne,
esposte alla sostanza quand’erano nel ventre materno 3. Il bisfenolo
A, invece, era ancora utilizzato in un’infinità di prodotti plastici: verso
la fine degli anni Ottanta la produzione di Bpa negli Stati Uniti
«crebbe fino a sfiorare il mezzo milione di tonnellate annue grazie
alla scoperta di nuove possibilità di utilizzo: dvd, compact disc,
biberon e borracce, materiali per ospedali e laboratori» 4.
Quella del Bpa non è solo una storia di genere: è anche una
storia di stratificazioni sociali, o almeno di stratificazioni sociali di
genere. Per paura di un boicottaggio da parte dei consumatori, la
maggior parte dei fabbricanti di bottiglie in plastica per neonati
eliminò subito il Bpa dai prodotti; e se negli Stati Uniti la sostanza è
ufficialmente dichiarata non tossica, l’Unione europea e il Canada
sono sul punto di metterla per sempre al bando. Il problema è che le
attuali disposizioni in materia proteggono soltanto i consumatori, e
non c’è nessuna norma che limiti l’esposizione alla sostanza sui
luoghi di lavoro 5. «Mi è sempre sembrato paradossale, – dice Jim
Brophy, ricercatore nel campo della medicina del lavoro, – che si
parlasse tanto dei pericoli per le gestanti e le donne che avevano
appena partorito, e mai per chi fabbricava quelle bottiglie. Eppure
nelle fabbriche di prodotti plastici i livelli di esposizione al Bpa erano
di gran lunga superiori. Ma dell’operaia incinta che azionava la
macchina che produceva quelle bottiglie non si è mai parlato».
È stato un grave errore, commenta Jim Brophy. Per chi governa la
sanità pubblica la salute dei lavoratori dovrebbe essere un interesse
prioritario, se non altro perché «i lavoratori sono per la società quel
che i canarini erano per i minatori». Se l’incidenza del cancro al seno
tra le lavoratrici del settore plastico fosse stata documentata e
riconosciuta, «se mostrassimo un qualche interesse per la salute dei
lavoratori che ogni giorno manipolano certi composti», la cosa
«avrebbe effetti sbalorditivi in termini di presenza sul mercato di
alcune sostanze». Avrebbe, in sintesi, «effetti sbalorditivi sulla salute
pubblica».
E invece non siamo interessati. L’esperta di salute femminile
Anne Rochon Ford mi racconta che in Canada, dove lei risiede,
cinque centri di ricerca per la salute della donna che funzionavano
dagli anni Novanta, compreso quello in cui le stessa lavora, hanno
subito nel 2013 un drastico taglio dei fondi. Lo stesso accade in
Gran Bretagna: «I fondi per la ricerca pubblica sono stati decurtati»,
dice Rory O’Neill. E cosí i numerosi rami produttivi di un’industria
chimica «ben piú fornita di risorse» hanno prosperato per anni in un
clima di grande libertà normativa. Si sono opposti a restrizioni e
divieti governativi. Hanno dichiarato di aver rinunciato
spontaneamente all’uso di certe sostanze, quando invece i test
continuavano a rilevarne la presenza. Hanno sostenuto
l’infondatezza delle ricerche che dimostravano la dannosità dei loro
prodotti 6. Tra il 1997 e il 2005, i laboratori di tutto il mondo hanno
portato a termine centoquindici studi sul Bpa: il novanta per cento di
quelli finanziati con fondi pubblici affermava che il composto aveva
effetti visibili con esposizioni pari o inferiori alle dosi di riferimento; gli
undici studi finanziati dalle industrie del settore non denunciavano
alcun effetto 7.
La morale della storia è che i luoghi di lavoro rimangono poco
sicuri. Sempre Jim Brophy mi racconta che nella maggior parte delle
fabbriche di componenti plastici per auto gli impianti di ventilazione
sono «semplici ventilatori a soffitto. Cosí i fumi salgono al di sopra
della zona di respirazione e vanno verso il tetto; d’estate, quando nei
capannoni fa molto caldo e i fumi diventano visibili, gli operai aprono
le porte». Piú o meno quel che succede nei centri di manicure
canadesi, dice Anne Rochon Ford. «È una specie di Far West:
chiunque può aprire un salone per manicure. Fino a poco tempo fa
non ci voleva nemmeno la licenza». Ma anche cosí c’è «un discreto
lassismo». Nessuna norma in materia di ventilazione, o di
formazione dei dipendenti. Non c’è una legge che obblighi a
indossare guanti e mascherine. E le poche regole che esistono non
le rispetta nessuno, a meno che non ci sia un reclamo.
Ed ecco un altro punto critico: chi potrebbe reclamare? Di certo
non le donne che ci lavorano. Le lavoratrici dei centri di manicure,
delle fabbriche di componenti in plastica per auto e di molti altri
settori ad alto tasso di pericolosità sono le piú vulnerabili e indifese
in assoluto. Sono povere, vengono da famiglie proletarie, spesso
sono immigrate che non possono mettere a rischio la loro
permanenza nei nostri Paesi. E tutto ciò le rende sfruttabili.
Le aziende che producono componenti in plastica per l’industria
automobilistica non fanno parte dei colossi del settore come la Ford
o la General Motors. Di solito sono fornitori esterni «con una
manodopera tendenzialmente non sindacalizzata, il che permette
agli imprenditori di violare un maggior numero di norme», mi spiega
Rochon Ford. Di certo non aiuta il fatto che la città di Windsor,
Ontario, cuore dell’industria automobilistica canadese, abbia uno dei
tassi di disoccupazione piú alti dell’intera nazione. Quindi i lavoratori
sanno che pretendere piú sicurezza sul lavoro significa sentirsi
rispondere: «Benissimo, vai pure. C’è una coda di dieci persone che
aspettano di prendere il tuo posto». Rochon Ford racconta che le è
capitato di sentir pronunciare queste precise parole.
Vi sembra illegale? Be’, può darsi. Da cent’anni a questa parte i
diritti dei lavoratori hanno via via assunto una forma sempre piú
definita. Possono esserci differenze da una nazione all’altra, ma gli
elementi base sono il diritto ai congedi retribuiti per malattia e
maternità, un tetto massimo di ore di lavoro, forme di tutela dai
licenziamenti in tronco o senza giusta causa. Il problema è che
questi diritti si estendono solo ai dipendenti, e capita sempre piú
spesso che i lavoratori non lo siano.
In molti centri di manicure, le lavoranti sono tecnicamente libere
professioniste, e ciò facilita parecchio la vita ai datori di lavoro: il
rischio d’impresa legato alla domanda dei consumatori viene
scaricato sui lavoratori, che non hanno un orario garantito né alcuna
sicurezza dell’impiego. Oggi non ci sono abbastanza clienti? Non
venire, ché tanto non ti pago. Hai avuto un piccolo infortunio? Tanti
cari saluti, e scordati l’indennità di licenziamento.
Nel 2015 il «New York Times» ha raccontato la storia di Qing Lin,
manicure quarantasettenne che per sbaglio versò del solvente per
unghie sui sandali Prada di una cliente 8. «Quando quest’ultima
pretese un risarcimento, i duecentosettanta dollari che la direttrice
del centro le mise in mano venivano dallo stipendio della manicure»,
che subito dopo venne licenziata. «Valgo meno di una scarpa»,
commentò Lin. La sua storia divenne parte di un’inchiesta del
quotidiano newyorchese sui centri di manicure, che mise in luce
«ogni sorta di umiliazioni» inflitte alle lavoratrici: videosorveglianza
continua, ingiurie e maltrattamenti fisici 9. In alcune cause civili
intentate a New York si parlava di settimane lavorative da sessanta
ore retribuite a un dollaro e mezzo l’ora, saloni che non davano un
centesimo alle manicure nei giorni di lavoro scarso, o gli facevano
pagare persino l’acqua da bere.
A seguito di quell’inchiesta, la città di New York ha introdotto un
sistema di licenze che impone di rispettare il minimo salariale e di
esporre all’interno di ogni centro una «carta delle libertà» in piú
lingue 10. Ma in altre zone degli Stati Uniti, come in altre parti del
mondo, ci sono tuttora lavoratrici meno fortunate. In Gran Bretagna
l’adesione alle normative di settore e la richiesta delle autorizzazioni
è perlopiú facoltativa 11: come dire che non esiste. Un’inchiesta del
2017 descriveva le lavoranti, per la maggior parte di origine
vietnamita, come «vittime di una forma moderna di schiavitú» 12.
In fatto di carenze normative che permettono agli imprenditori di
aggirare le leggi sul lavoro, i centri di manicure sono solo la punta
dell’iceberg. Contratti a zero ore o a breve termine, assunzioni
tramite agenzie sono i punti cardine della cosiddetta gig economy
(questo il seducente nomignolo inventato nella Silicon Valley), la
quale altro non è che un insieme di scappatoie per eludere alcuni
diritti fondamentali. L’uso dei contratti informali crea un circolo
vizioso: se i diritti sono comunque piú precari, i lavoratori sono
indecisi nel difendere i pochi che ancora hanno, sicché alla fine
anche quelli vengono manipolati. La Gran Bretagna è tra i Paesi che
hanno visto crescere piú rapidamente il lavoro precario 13: una
ricerca della Federazione dei sindacati britannici ha fatto luce su un
mondo del lavoro in cui i contratti informali vengono utilizzati in modo
massiccio proprio per erodere i diritti dei lavoratori 14.
Gli effetti di quella che la Confederazione sindacale internazionale
(Csi) ha definito «strabiliante crescita» del lavoro precario non sono
ancora stati analizzati in una prospettiva di genere 15. L’impatto della
precarizzazione sulla forza lavoro femminile è «poco presente nelle
statistiche ufficiali e nelle politiche governative», sostiene la Csi,
perché «i consueti indicatori utilizzati per misurare le mutazioni del
mercato del lavoro» non tengono conto della dimensione di genere
e, come sempre, i dati non sono quasi mai disaggregati per sesso. Il
che, come è ovvio, «rende difficile calcolare il peso della
componente femminile». Di conseguenza «non esistono stime
globali sul numero di donne che svolgono un lavoro precario».
Gli studi regionali e settoriali di cui disponiamo indicano tuttavia
che le donne sono presenti in misura superiore alla media tra le fila
dei lavoratori precari. Il sindacato inglese Unison ha accertato che
nel 2014 le donne rappresentavano quasi due terzi della forza lavoro
sottopagata 16, e che molte «svolgevano piú lavori con contratti
precari per compensare il basso numero di ore impegnate in
ciascuna attività» 17. Una recente indagine della Fawcett Society
segnala invece che una donna inglese su otto è impiegata con un
contratto a zero ore 18. A Londra la proporzione sale a poco meno di
una su tre.
Anche se lo immaginiamo circoscritto ai settori meno «prestigiosi»
del mercato del lavoro, in realtà il lavoro precario cresce ovunque e
a tutti i livelli 19. Il sindacato inglese University and College Union ha
accertato che l’istruzione postsecondaria, di norma considerata un
comparto di élite, è la seconda utilizzatrice di lavoro precario 20. I dati
non sono disaggregati per sesso, ma anche l’ente britannico per le
statistiche sull’istruzione superiore 21 conferma che le donne
tendono a essere assunte con contratti di minore durata e a breve
termine; e i dati relativi alla Germania e all’Europa forniscono
un’ulteriore convalida 22.
In tutta l’Unione europea, dunque, l’incremento dell’occupazione
femminile osservato da una decina d’anni a questa parte si deve
perlopiú al lavoro precario e a tempo parziale 23. In Australia il trenta
per cento delle donne ha un impiego occasionale, contro il ventidue
per cento degli uomini; in Giappone, due terzi dei lavoratori irregolari
sono donne 24. Uno studio della Harvard University sulla diffusione
del «lavoro alternativo» in America tra il 2005 e il 2015 ha rivelato
che la presenza femminile è piú che raddoppiata in percentuale: di
conseguenza «la probabilità di essere coinvolti in un rapporto di
lavoro alternativo è maggiore per le donne» 25.
Certo, un lavoro precario non è l’ideale per nessuno, ma le donne
rischiano di subirne maggiormente gli effetti negativi. Per prima
cosa, può darsi che la precarizzazione aumenti il divario retributivo:
in Gran Bretagna lo scarto in termini di paga oraria è del
trentaquattro per cento per le lavoratrici con contratto a zero ore, del
trentanove per chi ha un contratto a chiamata e del venti per chi
lavora tramite agenzie – categoria, quest’ultima, in forte aumento a
causa della crescente esternalizzazione dei servizi pubblici 26.
Sembra però che nessuno abbia interesse a capire come tutto ciò si
ripercuota sulle donne. Una recente analisi delle politiche salariali
europee denuncia che la tendenza all’esternalizzazione «è cresciuta
senza tener conto degli effetti sulla disparità di genere» 27. Eppure,
stando ai dati a disposizione, di effetti ce ne sono parecchi.
Tanto per cominciare, questo tipo di accordi «lascia uno spazio
limitato alla contrattazione collettiva». È un problema per tutti i
lavoratori, ma rischia di esserlo di piú per le donne, che – è stato
dimostrato – sono piú tutelate dagli accordi di categoria che dalle
trattative salariali individuali: colpa, ancora una volta, di quel
fastidioso condizionamento alla modestia. La diffusione del lavoro
tramite agenzie, non consentendo la contrattazione collettiva, rischia
di bloccare ogni tentativo di colmare il divario salariale di genere.
Ma l’impatto negativo della precarizzazione sulla forza lavoro
femminile non è solo questione di effetti collaterali fortuiti: il problema
di fondo è l’indebolimento dei diritti connaturato alla gig economy. In
Gran Bretagna, per esempio, il congedo di maternità è previsto solo
per le lavoratrici dipendenti. Se una donna aspetta un figlio e lavora
con un contratto a zero ore o a breve termine, non ha altra scelta
fuorché dimettersi e ripresentare domanda di assunzione dopo il
parto. Inoltre l’indennità per maternità spetta solo alle dipendenti che
hanno lavorato almeno ventisei settimane nelle sessantasei
precedenti la domanda, e che percepiscono uno stipendio medio
non inferiore alle centosedici sterline settimanali.
Ed è qui che la faccenda si fa davvero problematica. Lo dimostra
il caso di Holly, ricercatrice associata presso un’università britannica,
che tra il licenziamento e il successivo rientro ha perso due scatti
salariali 28. Maria, anche lei ricercatrice universitaria, si è vista
improvvisamente dimezzare l’orario di lavoro a sei settimane dalla
data prevista del parto: un bel vantaggio per il datore di lavoro, che
ha potuto dimezzarle anche l’indennità di maternità. Stessa storia
per Rachel, che lavora in un pub: l’orario le è stato ridotto di punto in
bianco dopo che aveva informato il suo datore di lavoro della
gravidanza in corso, e ora rischia di perdere il diritto all’assegno di
maternità.
Dopo la nascita del bambino, Maria ha firmato un nuovo contratto
con l’università per meno di tre ore settimanali, le sole ancora
disponibili. La chiamano anche se c’è bisogno di coprire le assenze
di qualche collega, ma la richiesta le viene notificata con scarsissimo
preavviso. Ed ecco il secondo grande problema che ha un impatto
sproporzionato sulle lavoratrici precarie: gli orari di lavoro
imprevedibili, o che cambiano all’ultimo secondo.
Come abbiamo visto, oggi le donne svolgono ancora quasi tutto il
lavoro di cura non retribuito, il che rende estremamente difficile
adeguarsi a un orario irregolare, soprattutto quando i destinatari
delle cure sono figli in tenera età. In Gran Bretagna i servizi di
assistenza all’infanzia sono rimasti indietro rispetto alla realtà del
lavoro femminile, ed è, almeno in parte, un altro di quei casi in cui i
dati ci sono ma nessuno li considera. Sappiamo che il
settantacinque per cento delle famiglie di reddito medio-basso ha
orari di lavoro non convenzionali, eppure la maggior parte degli asili
nido e dei servizi di custodia è aperta soltanto nella classica fascia
compresa tra le otto del mattino e le sei di sera. Inoltre i servizi
vanno prenotati e pagati con congruo anticipo, cosa non agevole se
non si è sicuri di averne bisogno. Il problema è drammatico
soprattutto per i genitori single (al novanta per cento donne, in Gran
Bretagna 29) tra i quali la quota di lavoratori temporanei è cresciuta
del ventisette per cento negli ultimi anni 30. Oltre a essere
drammatico, è anche dispendioso, perché i costi dell’assistenza
all’infanzia sono tra i piú cari d’Europa 31.
La programmazione degli orari di lavoro è ulteriormente
complicata dagli algoritmi che non tengono conto del genere. Un
numero crescente di aziende si serve di software just-in-time che
sulla base delle dinamiche di vendita riesce a prevedere di quanti
lavoratori ci sarà bisogno in un dato momento. Gli stessi software
sono anche in grado di analizzare le vendite in tempo reale, e sulla
base di quei dati consigliano ai manager di mandare a casa qualche
lavoratore se gli affari vanno a rilento. «È una specie di magia», ha
detto al «New York Times» il vicepresidente del settore marketing e
comunicazione di Kronos, l’azienda che fornisce il software a molte
catene di negozi statunitensi 32.
Il software di Kronos avrà certo qualcosa di magico per le aziende
che incrementano i profitti scaricando il rischio d’impresa sui
lavoratori, e forse sembrerà una grande invenzione anche al numero
crescente di manager che vengono ricompensati in base
all’efficienza dei loro subordinati. Ma i lavoratori, e soprattutto quelli
con responsabilità di cura, sono assai meno entusiasti. Jannette
Navarro, barista in uno dei caffè Starbucks di San Diego, ha
mostrato agli inviati del «New York Times» il piano di lavoro
confezionato apposta per lei dall’algoritmo 33. Avrebbe dovuto
fermarsi dietro il bancone fino alle undici di sera del venerdí
successivo, ripresentarsi alle quattro del mattino del sabato e di
nuovo alle cinque del mattino di domenica. Di solito il piano di lavoro
le veniva comunicato con meno di tre giorni in anticipo, con il
risultato di buttare all’aria tutti i suoi programmi di gestione dei figli e
costringerla a mettere nel cassetto il diploma universitario in
amministrazione aziendale. È un altro esempio di come l’ingresso
dei Big Data in un mondo che trascura i dati di genere possa
aggravare e accelerare le discriminazioni che già esistono: è chiaro
che i software come Kronos sono progettati senza prendere in
considerazione le responsabilità di cura delle donne, e poco importa
se ciò sia fatto di proposito o meno.
Un portavoce di Starbucks ha poi dichiarato al «New York Times»
che il caso di Jannette Navarro era «un’anomalia», e che l’azienda
notificava i piani di lavoro «con almeno una settimana di anticipo,
lasciando a chi fosse interessato la possibilità di scegliere un orario
regolare». Ma soltanto due dei numerosi lavoratori ed ex lavoratori di
diciassette locali Starbucks sparsi in tutto il Paese hanno confermato
ai giornalisti di ricevere o aver ricevuto i piani di lavoro con una
settimana di anticipo; a detta di alcuni, talvolta vengono comunicati
da un giorno all’altro. E sebbene in diverse città esistano regolamenti
sull’anticipo minimo con il quale un datore di lavoro può notificare i
turni ai suoi dipendenti 34, una normativa nazionale in proposito non
è stata ancora introdotta né in America né in molti altri Stati, Regno
Unito compreso. Cosí non va affatto bene. Il lavoro che le donne
(perlopiú loro) si sobbarcano (perlopiú gratis) non è un optional. La
società ha bisogno di qualcuno che svolga quei compiti, che però
sono del tutto incompatibili con un’organizzazione del lavoro just-in-
time che non ne tiene minimamente conto. Perciò siamo di fronte a
un bivio: o gli Stati si organizzano per fornire alternative al lavoro
non pagato delle donne (alternative gratuite e finanziate dal bilancio
pubblico, s’intende), oppure gettano alle ortiche la programmazione
just-in-time dei turni lavorativi.

A volte non c’è nemmeno bisogno di essere precarie per vedere


calpestati i propri diritti. È vero che le donne con impieghi irregolari o
a tempo determinato sono piú esposte al rischio di subire molestie
sessuali 35 (forse perché piú restie a prendere provvedimenti contro i
colleghi o i superiori che le molestano) 36, ma dopo il terremoto
#MeToo diventa sempre piú difficile non rendersi conto che i settori
lavorativi immuni da questo flagello sono ben pochi.
Anche qui, come sempre, c’è un data gap. La Federazione dei
sindacati britannici lamenta «la penuria di dati quantitativi aggiornati
sulle molestie sessuali negli ambienti di lavoro», ma è un problema
comune a tutto il mondo: le statistiche ufficiali sono piú uniche che
rare. Le Nazioni unite stimano (abbiamo solo stime) che nei Paesi
dell’Unione europea fino al cinquanta per cento delle donne è stato
molestato sessualmente al lavoro 37. Si ritiene che in Cina la
percentuale arrivi all’ottanta per cento 38. Uno studio condotto in
Australia ha rivelato che il sessanta per cento delle infermiere
dichiara di aver subito molestie 39.
La portata del problema varia a seconda dei settori. I posti di
lavoro a forte prevalenza maschile o con una leadership soprattutto
maschile sono i piú rischiosi 40. Un’indagine condotta dalla
Federazione dei sindacati britannici ha reso noto che a fronte di una
media del cinquantadue per cento di lavoratrici che «affermava di
aver subito una qualche forma di molestia sessuale», nel settore
manifatturiero e in quello turistico-alberghiero le percentuali erano
rispettivamente del sessantanove e del sessantasette per cento. Già
nel 2011 si era constatato che l’edilizia era, negli Stati Uniti, il settore
con il piú alto tasso di molestie, seguita dai trasporti e dalle aziende
di servizio pubblico. Un sondaggio condotto tra le aziende della
Silicon Valley ha rivelato che il novanta per cento delle donne con
mansioni dirigenziali è stato testimone di comportamenti sessisti,
l’ottantasette è stato oggetto di frasi denigratorie da parte dei
colleghi maschi, e il sessanta ha ricevuto avance indesiderate 41. Di
quel sessanta per cento, oltre la metà ha ricevuto piú di una
proposta, e nel sessantacinque per cento dei casi l’approccio
sessuale è stato tentato da un superiore. Ogni tre donne intervistate,
una dichiara di aver temuto per la propria incolumità personale.
Alcune tra le peggiori esperienze di molestie sono state vissute da
donne che per esigenze di lavoro devono stare a contatto con il
pubblico. E molto spesso gli episodi sconfinano in vera e propria
violenza.
«L’ha tirata su, l’ha spinta con forza e l’ha presa a ceffoni: c’era
sangue dappertutto».
«A quel punto mi ha afferrata e mi ha colpita col bicchiere. Sono
crollata a terra, ma lui ha continuato a picchiarmi. […] Ho cercato di
resistergli, ma lui mi trascinava per il corridoio. Mi sbatteva la faccia
contro il muro. C’era il mio sangue sulle pareti».
Se non vi sembrano le cronache di una normale giornata di
lavoro, vuol dire che per vostra fortuna non lavorate nella sanità. È
stato accertato che le infermiere «subiscono piú atti di violenza degli
agenti di polizia e delle guardie carcerarie» 42. In Ontario, il numero
delle ferite riportate sul luogo di lavoro dagli operatori sanitari nel
corso del 2014 e giudicate abbastanza gravi da giustificare
un’assenza dal lavoro è stato di gran lunga superiore ai dati di tutti
gli altri settori. Anche un recente studio condotto negli Stati Uniti ha
evidenziato che «tra il personale sanitario le assenze dal lavoro
dovute a episodi di violenza sono quattro volte piú frequenti rispetto
alle altre tipologie di infortuni» 43.
Dopo aver condotto una ricerca su questo tema insieme alla
collega Margaret Keith, Jim Brophy ha stabilito che «la sanità
canadese è uno degli ambienti di lavoro piú tossici che abbiamo mai
visto». Nel corso della loro indagine del 2017 sulle violenze subite
dai lavoratori del settore sanitario, Brophy e Keith hanno organizzato
alcuni gruppi tematici dai quali è emerso che la violenza sul lavoro
era un problema «quotidiano». Dubitando che si trattasse di
un’iperbole, i due ricercatori si sono spesso trovati a chiedere «Forse
intendevi un problema ricorrente?» «No, – rispondevano sempre gli
intervistati, – intendo proprio dire che capita ogni giorno. Ormai fa
parte della routine». Ripensando a un episodio in cui un paziente «si
era preso una sedia in testa», uno dei partecipanti ha raccontato che
«l’infermeria è stata già messa a soqquadro due o tre volte». Altri
pazienti avrebbero aggredito le infermiere con gli oggetti piú
disparati: padelle da letto, piatti, persino mattoni o piastrelle.
Benché diffusissima, la violenza nelle strutture sanitarie è «un
problema pervasivo, sottaciuto e persistente che è stato a lungo
tollerato e in gran parte ignorato», anche perché nessun ricercatore
se ne occupa. Stando alla ricerca di Brophy e Keith, prima del 2000
il tema era tutt’altro che all’ordine del giorno: quando, nel febbraio
del 2017, i due studiosi hanno consultato il database bibliografico
Medline alla ricerca di studi sull’argomento, hanno trovato soltanto
«centocinquantacinque articoli su riviste internazionali,
centoquarantanove dei quali pubblicati dal 2000 in avanti».
In generale, l’assenza di dati sulle molestie sessuali e le violenze
a danno delle lavoratrici non si deve solo alla scarsità delle ricerche
sull’argomento: l’altro motivo è che la stragrande maggioranza delle
donne non denuncia l’accaduto 44, e ciò a sua volta dipende dal fatto
che le organizzazioni non dispongono di protocolli adeguati. Le
donne non sporgono reclamo contro le violenze o le molestie perché
temono rappresaglie e immaginano che non verrà fatto nulla di
concreto: due previsioni che purtroppo si rivelano spesso fondate 45.
«Strilliamo, – racconta un’infermiera a Brophy e Keith. – È la cosa
migliore che possiamo fare».
L’inadeguatezza delle procedure che dovrebbero far fronte a
episodi tanto spiacevoli è essa stessa il risultato di un vuoto di dati.
Le alte gerarchie aziendali hanno ancora una forte predominanza
maschile, e agli uomini non capita mai di dover subire aggressioni di
questo tipo 46. Come ai vertici di Google non era venuto in mente
che potesse servire un parcheggio per le lavoratrici in gravidanza,
cosí molte altre organizzazioni non pensano che potrebbero servire
procedure adeguate per affrontare le molestie sessuali e le violenze.
È un ulteriore esempio di come la diversità di esperienze agli apici di
una gerarchia possa essere importante per tutti – specie se ci
interessa davvero colmare il divario dei dati di genere 47.
Jim Brophy e Margaret Keith sottolineano che il tema del genere è
«perlopiú […] assente dalle analisi della violenza nel comparto
sanitario». È davvero un peccato. Secondo l’International Council of
Nurses (Icn), la categoria piú esposta al rischio di subire violenze è
proprio quella degli infermieri, che sono in maggioranza donne. Per
effetto del gender data gap, inoltre, molte ricerche sull’argomento
non tengono conto della cronica tendenza a non denunciare le
aggressioni sessuali: Brophy e Keith sostengono che solo il dodici
per cento dei partecipanti al loro studio avesse sporto denuncia.
«Non ne parliamo perché è ordinaria amministrazione», spiegava
una donna che asseriva di essere stata «palpata un mucchio di
volte». Ciononostante, spiega Jim Brophy, la letteratura
sull’argomento non sembra neppure consapevole che i dati ufficiali
«sottostimano di gran lunga le dimensioni del fenomeno, poiché
quasi nessuno denuncia le violenze subite». È un vuoto di dati
dentro un vuoto di dati, e nessuno sembra notarlo.
La struttura architettonica di molti ospedali non aiuta certo a
migliorare la situazione. Gli operatori lavorano isolati, lontani gli uni
dagli altri. «Quei corridoi cosí lunghi sono terribili, – ha confidato
un’infermiera a Jim Brophy. – Sei da sola e non puoi comunicare con
nessuno. Preferirei che i reparti fossero disposti a raggiera intorno a
uno spazio centrale». In effetti sarebbe un miglioramento, commenta
Brophy, perché consentirebbe a chi è aggredito di chiedere aiuto.
«Con una struttura a cerchio, i lavoratori non sarebbero confinati in
fondo a un corridoio. Se succedesse qualcosa, gli altri lo
sentirebbero». La maggior parte delle segreterie di reparto (gli
ambienti in cui le infermiere lavorano quando non sono a contatto
con i pazienti) non è protetta da vetri antisfondamento né ha uscite
posteriori, perciò chi si trova lí è esposto al pericolo di aggressioni.
Jim Brophy ha ascoltato il racconto di un’infermiera che era stata
testimone di un’aggressione sessuale ai danni di una collega:
«L’ispettore si è raccomandato che mettessero delle vetrate sopra il
bancone, ma la direzione sanitaria non ha voluto. Discrimina i
pazienti, dicono».
Tanto i lavoratori intervistati da Brophy quanto l’agenzia federale
statunitense per la sicurezza sul lavoro (la Occupational Health and
Safety Administration) hanno messo in luce alcune caratteristiche
degli ospedali tradizionali che aggravano il problema (entrate e
uscite poco sicure, impianti di condizionamento e riscaldamento
inefficienti, ambienti rumorosi, oggetti lasciati incustoditi) e si
potrebbero correggere senza discriminare nessuno. Inoltre il
governo potrebbe prendere provvedimenti per rimediare alla cronica
carenza di personale, che a sentire Brophy è stata denunciata da
«tutti i gruppi in tutti i luoghi di lavoro»: i lunghi tempi di attesa sono
spesso il detonatore che fa esplodere la violenza contro il personale
ospedaliero. «Se non c’è qualcuno che si occupi subito di loro, se li
fai aspettare, il comportamento di certi pazienti tende a degenerare»,
spiega un operatore.
Ripensare le strutture ospedaliere e accrescere la dotazione di
personale non sono certo interventi a costo zero, ma è un’obiezione
facilmente superabile se si considerano la quantità di ore di lavoro
perse e il livello di stress degli operatori. Purtroppo i dati non sono
raccolti in maniera adeguata, sostiene Brophy, «ma quel che posso
dirti con assoluta certezza è che sono ambienti di lavoro molto
stressanti: il sovraccarico di richieste e la scarsa capacità di influire
sulla situazione sono il terreno ideale per la sindrome da
esaurimento psicofisico».
Bisognerebbe poi mettere in conto anche i costi della formazione
di persone che alla fine decidono di cambiare lavoro. Anche
quest’argomento è emerso piú volte nei gruppi tematici coordinati da
Brophy: «Avevamo delle infermiere con venti o trent’anni di anzianità
che dicevano “Vado a fare le pulizie” o “Preferisco lavorare in cucina
perché non ce la faccio piú. Non sopporto piú il pericolo e la
sensazione di abbandono, non ce la faccio ad affrontare tutto questo
ogni giorno senza poi avere nessun tipo di aiuto o riconoscimento”».
Anche ragionando in una prospettiva a piú breve termine, sono
molte le cose fattibili senza spendere troppi soldi, e alcune sono di
una semplicità disarmante. Per esempio: mappare gli episodi
violenti, rendere agevoli le procedure di segnalazione (magari
invitando i supervisori a leggere i rapporti che gli vengono inviati),
predisporre segnali d’allarme che emettano suoni diversi a seconda
della circostanza. «In una certa struttura i campanelli dei pazienti,
quelli dei bagni, l’allarme del “codice blu” per gli arresti
cardiorespiratori e l’allarme di emergenza del personale suonavano
tutti allo stesso modo».
Un altro intervento a costo limitatissimo sarebbe l’affissione di
cartelli per segnalare con chiarezza i comportamenti accettabili e
quelli no. «Ho notato che al bar dell’ospedale hanno messo un
avviso che dice: “Nessun tipo di offesa verbale sarà tollerata”, – ha
raccontato una lavoratrice a Jim Brophy, – ma da noi in reparto non
c’è niente di simile. […] C’è addirittura un poster che fa pubblicità a
un sito di incontri, ma per noi? Niente?»
L’idea forse piú semplice di tutte, hanno detto i partecipanti allo
studio di Jim Brophy, sarebbe «chiedere il permesso di eliminare – a
spese del datore di lavoro – i cognomi dalle targhette di
identificazione del personale». Questo eviterebbe situazioni
spiacevoli come quella in cui un paziente dell’ospedale disse a una
dipendente: «Piacere di conoscerla, Mrs [cognome]. Però non
dovreste mettere il cognome sui cartellini, sa? Adesso io potrei fare
indagini sul suo conto, scoprire chi è e dove abita».
Le donne hanno sempre lavorato. Senza stipendio, sottopagate,
disprezzate e invisibili, eppure hanno sempre lavorato. Il problema è
che oggi i luoghi di lavoro non lavorano per le donne. Sedi, orari,
standard normativi sono stati progettati intorno alle vite degli uomini
e non corrispondono alle esigenze attuali. Il mondo del lavoro, le sue
regole, i suoi strumenti, la sua cultura, vanno completamente
ripensati, e il motore di questo cambiamento devono essere i corpi e
le vite delle donne. Dobbiamo renderci conto una buona volta che il
lavoro delle donne non è un qualcosa in piú, un bonus di cui
potremmo anche fare a meno: il lavoro delle donne, pagato e non, è
la spina dorsale della nostra società e della nostra economia. È ora
di dargli il giusto valore.
Parte terza
Soggetti di design
VII.
L’ipotesi dell’aratro

La prima a enunciarla fu l’economista danese Ester Boserup: le


società che fin dall’antichità utilizzano l’aratro sono meno paritarie
delle altre. Il fondamento logico della teoria è che l’agricoltura a
rotazione, basata sull’uso di utensili a mano come zappe e bastoni
da scavo, sia relativamente piú accessibile alle donne rispetto ai
sistemi di coltivazione che necessitano di un aratro trainato da
animali possenti come cavalli o buoi 1.
La preferenza verso l’una o l’altra tecnica di coltivazione è
riconducibile almeno in parte alle differenze strutturali tra il corpo
maschile e quello femminile. Arare un campo richiede «una forza
notevole nella metà superiore del corpo, una presa salda delle mani
e improvvisi scatti di energia per governare l’aratro o l’animale che lo
tira»: tutte prerogative del corpo maschile 2. Dalla cintola in su, gli
uomini hanno una massa corporea del settantacinque per cento
maggiore rispetto a quella femminile 3, mentre la massa magra
femminile tende a concentrarsi in altre zone del corpo 4: gli uomini
sono mediamente piú forti del quaranta, sessanta per cento 5 nella
parte superiore del corpo, mentre dalla vita in giú la disparità di forza
fisica si riduce al venticinque per cento 6. Inoltre la presa della mano
femminile è meno salda del quarantuno per cento (sempre in
media) 7, e la differenza non si attenua con l’età: un maschio di
settant’anni avrà comunque una presa piú salda di una
venticinquenne 8. Nemmeno l’esercizio può fare molto per ridurre lo
scarto: uno studio che metteva a confronto «atlete donne con
un’elevata preparazione fisica» e uomini «non allenati, o non allenati
in modo specifico» ha evidenziato che, in quanto a forza delle mani,
le donne superavano «di rado» il cinquantesimo percentile dei
soggetti maschi 9. Nel complesso, il novanta per cento delle donne
(allenate o no) aveva una presa piú debole del novantacinque per
cento dei maschi.
La maggiore accessibilità dell’agricoltura a rotazione per le
popolazioni femminili è anche conseguenza della tradizionale
divisione dei ruoli sociali. Zappare è un’attività compatibile con
l’accudimento dei figli in quanto si può interrompere facilmente,
mentre è piú complicato sospendere un lavoro che comporta
l’impiego di un pesante attrezzo trainato da un grosso animale.
Inoltre l’aratura di un campo è un lavoro ad alta intensità di capitale,
mentre zappare è ad alta intensità di lavoro 10, e il lavoro è una
risorsa piú accessibile alle donne. Ecco perché, secondo Ester
Boserup, nelle società che usavano l’aratro l’agricoltura era
appannaggio dei maschi; la conseguenza ultima è stata la nascita di
società disuguali in cui gli uomini detengono potere e privilegi.
Uno studio del 2011 ha dimostrato che l’ipotesi di Boserup
regge 11. A quanto pare, gli individui nati nelle società che da sempre
praticano l’agricoltura ad aratro tendono ad avere atteggiamenti piú
sessisti anche se sono emigrati in altri Paesi. È stata inoltre
individuata una correlazione tra il sessismo e le condizioni
geoclimatiche propizie all’agricoltura ad aratro: questo fa pensare
che sia stato il clima, piú che una preesistente discriminazione a
sfavore delle donne, a suggerire l’utilizzo dell’aratro, il quale a sua
volta avrebbe agevolato il diffondersi di opinioni sessiste.
La teoria dell’aratro ha anche i suoi detrattori. Una ricerca del
2014 ha evidenziato che, sebbene in Etiopia il lavoro dei campi sia
fortemente identificato come attività maschile («in tutta la tradizione
amarica il contadino è sempre un maschio») e l’aratura in particolare
sia un’attività svolta soltanto da uomini, la diversa robustezza della
parte superiore del corpo non è un elemento determinante, giacché i
contadini etiopi utilizzano un aratro piú leggero; restano comunque
valide le considerazioni sul maggiore impiego di capitali e sulla
difficoltà di interrompere l’aratura per accudire i figli 12. In quella
stessa ricerca, poi, si cita una pubblicazione del 1979 che confuta la
teoria di Boserup, sostenendo che «anche laddove l’aratro non fu
mai introdotto, per esempio tra i popoli Kushiti del Sud, sono sempre
gli uomini a curare i campi».
Ma è davvero cosí? Difficile a dirsi, perché i dati sulla suddivisione
del lavoro agricolo sono (sí, avete indovinato) molto lacunosi. C’è
una quantità infinita di rapporti, articoli e documenti informativi 13
che, in vari modi, dicono piú o meno la stessa cosa, e cioè che «le
donne rappresentano tra il sessanta e l’ottanta per cento della
manodopera agricola del continente africano»; solo che le prove
scarseggiano. La stima compare per la prima volta in un documento
del 1972 della Commissione economica per l’Africa delle Nazioni
unite: non è che sia per forza sbagliata, tuttavia è impossibile
dimostrarne la fondatezza perché mancano i dati.
Questo dipende in parte anche dal fatto che spesso uomini e
donne coltivano i campi insieme, perciò non è semplice stabilire con
precisione quanto lavoro degli uni e delle altre concorre alla
produzione di un determinato raccolto alimentare. In un documento
della Fao, l’organizzazione delle Nazioni unite per l’alimentazione e
l’agricoltura, l’economista Cheryl Doss sostiene che molto dipende
anche dalla definizione e dal valore che attribuiamo al termine
«raccolto alimentare»: stiamo parlando di apporto calorico (e quindi
diamo la precedenza agli alimenti base) o di apporto monetario (e
quindi mettiamo al primo posto, per esempio, il caffè)? Poiché le
donne «tendono a essere piú coinvolte nella produzione degli
alimenti base», una comparazione in termini di apporto calorico
«potrebbe innalzare di parecchio la quota di produzione agricola
attribuibile alle donne» 14.
La parola chiave, in questo caso, è «potrebbe», poiché le
statistiche nazionali spesso non dicono se gli addetti all’agricoltura
sono donne o uomini 15. E anche quando i dati disaggregati per
sesso ci sono, l’impianto lacunoso delle ricerche rischia talora di
sottostimare l’apporto della manodopera femminile: quando alle
donne si chiede di indicare se durante il giorno si occupano dei
«lavori domestici» oppure «lavorano» come se le due cose si
escludessero a vicenda (o come se i lavori domestici non fossero
lavoro), le donne tendono a rispondere «lavori domestici», perché è
quello il termine che descrive la maggior parte dei loro impegni
quotidiani 16. Se poi si considera anche la tendenza a «dare piú
risalto alle attività che generano reddito», il risultato finale è una
frequente sottovalutazione delle produzioni agricole di sussistenza,
spesso affidate alla manodopera femminile. Inoltre i censimenti
tendono a definire l’agricoltura con il termine «lavoro dei campi», il
che distoglie l’attenzione da quella parte di lavoro agricolo femminile
«che consiste nell’accudire piccoli animali, curare l’orto di casa e
occuparsi delle lavorazioni successive al raccolto». È un esempio
abbastanza chiaro di come il pregiudizio maschile possa produrre
un’assenza di dati di genere.
Un problema analogo riguarda la divisione del lavoro in attività
«primarie» e «secondarie». Queste ultime, tanto per cominciare, non
sono sempre considerate dai ricercatori; e quando lo sono, non sono
sempre incluse nel calcolo complessivo della forza lavoro, perché il
pregiudizio maschile rende invisibile il lavoro retribuito delle
donne 17. Le donne saranno spesso tentate di indicare il lavoro
retribuito come attività secondaria, per la semplice ragione che il
lavoro gratuito le tiene impegnate per molte ore: ma questo non vuol
dire che non dedichino una parte significativa delle loro giornate allo
svolgimento di un lavoro retribuito. Il risultato finale è che le
statistiche sulla forza lavoro mostrano un sostanziale divario di
genere 18.
Il pregiudizio maschile si palesa nei dati che Cheryl Doss utilizza
per controllare la famosa stima del sessanta, ottanta per cento di
manodopera agricola femminile in Africa. La sua conclusione è che
in realtà le donne rappresentano meno del cinquanta per cento della
forza lavoro agricola complessiva; ma nei dati della Fao impiegati da
Doss «un individuo si considera facente parte della forza lavoro
agricola solo quando dichiara che l’agricoltura è la sua principale
attività economica». Il che, come abbiamo visto, equivale a
escludere una quota consistente del lavoro retribuito femminile. Per
lealtà nei confronti di Doss bisogna ammettere che non nasconde i
punti deboli di questo metodo: la studiosa, per esempio, sottolinea
l’inverosimiglianza del dato relativo all’America Latina, dove secondo
la Fao la quota femminile sul totale degli addetti al settore agricolo
sarebbe del sedici per cento. Nelle zone agricole di quel continente,
sottolinea Doss, le donne «tendono a dichiarare che la loro
responsabilità principale è occuparsi della casa, anche se si
sobbarcano una quota rilevante di lavoro agricolo».
Ma se anche tenessimo conto di tutti i dati che mancano nel
calcolo della forza lavoro agricola femminile, ancora non sapremmo
con precisione quanta parte del cibo che arriva sulle nostre tavole è
prodotta dalle donne. L’input femminile, infatti, non corrisponde
all’output maschile: in agricoltura, nel complesso, le donne sono
meno produttive degli uomini. Questo non vuol dire che si impegnino
meno, bensí che producono meno in rapporto al lavoro che
svolgono, perché l’agricoltura (dagli attrezzi alla ricerca scientifica ai
progetti di sviluppo) è progettata sulle esigenze dei maschi. In effetti,
scrive Doss, considerati i molti vincoli che ostacolano le donne (dalle
difficoltà di accesso ai terreni, al credito e alle nuove tecnologie, fino
al consueto carico di lavoro non retribuito), «sarebbe sorprendente
se riuscissero a produrre piú di metà del raccolto destinato al
consumo alimentare».

La Fao ha stimato che se la disparità tra uomini e donne in termini


di accesso alle risorse potesse essere colmata, il rendimento delle
aziende agricole potrebbe aumentare fino al trenta per cento 19. Ma
non è cosí. Come nei tempi lontani in cui nacque l’aratro, cosí oggi
alcune delle moderne «macchine per risparmiare lavoro» si
potrebbero meglio denominare «macchine per risparmiare lavoro ai
maschi». Per esempio, uno studio condotto nel 2014 in Siria ha
dimostrato che, se da un lato la meccanizzazione del lavoro agricolo
riduce la domanda di manodopera maschile dando modo agli uomini
di «cercare occupazioni piú redditizie al di fuori del settore primario»,
dall’altro aumenta la domanda di «mansioni femminili ad alta
intensità di manodopera: trapiantare, estirpare le erbacce,
raccogliere e lavorare i prodotti» 20. In Turchia, viceversa, la
partecipazione femminile alla manodopera agricola è diminuita a
seguito dell’introduzione delle macchine, «poiché gli uomini
tendevano ad appropriarsene», mentre le donne erano piú riluttanti a
farne uso. Oltre al basso livello di istruzione e ai condizionamenti
socioculturali, una delle ragioni del fenomeno sta nel fatto che «i
macchinari non erano progettati per un’utenza femminile» 21.
Gli uomini si avvantaggiano maggiormente non solo dei nuovi
strumenti di lavoro nel senso materiale del termine, ma anche dei
cosiddetti «servizi di divulgazione agricola», cioè i programmi
formativi che istruiscono gli agricoltori all’impiego di pratiche piú
moderne che incrementano la produttività. Quei servizi sono, da
sempre, poco sensibili al genere femminile: stando a un sondaggio
della Fao per gli anni 1988-89, limitato ai soli Paesi che avevano
fornito dati disaggregati, solo il cinque per cento dei programmi di
divulgazione era diretto alle donne 22. E anche se da allora la
situazione è in parte migliorata 23, vi è tuttora un gran numero di
iniziative di sviluppo che dimenticano di includere le donne 24,
finendo per non aiutarle o, nella peggiore delle ipotesi, causare loro
un ulteriore danno.
Un’analisi del 2015 di Data2X, l’agenzia fondata da Hillary Clinton
con il sostegno delle Nazioni unite al fine di colmare il divario globale
dei dati di genere, ha dimostrato che molti servizi divulgativi non
giungono neppure a destinazione, in parte perché le donne sono già
oberate di lavoro e non hanno tempo da dedicare alla formazione,
qualsiasi sia l’efficacia 25. Inoltre i promotori di quelle iniziative
farebbero bene a tener presente la (scarsissima) mobilità femminile:
le donne hanno piú difficoltà ad accedere ai servizi di trasporto, e
molte volte sono impossibilitate a viaggiare sole.
C’è poi la barriera linguistico-culturale: in genere gli incontri
formativi vengono condotti nella lingua nazionale, che spesso le
donne non hanno avuto modo di imparare. E poiché nelle aree
interessate il livello di istruzione della popolazione femminile è
generalmente basso, ci sono meno donne in grado di leggere e
dunque di utilizzare i materiali scritti forniti dai servizi di divulgazione.
Sono tutte questioni basilari che non dovrebbe essere difficile
affrontare, eppure si continua a far finta di niente 26.
Ci sono per esempio interventi formativi che richiedono il
possesso di un’estensione minima di terre, altri che sono riservati ai
capifamiglia o ai proprietari delle terre coltivate, altri ancora che si
rivolgono agli agricoltori con mezzi finanziari sufficienti all’acquisto di
nuove tecnologie. Sono tutti requisiti che avvantaggiano gli
agricoltori maschi: le donne sono in testa alle classifiche
dell’agricoltura povera e su piccola scala, e le probabilità che
possiedano le terre su cui lavorano sono davvero minime 27.
Per poter progettare dei servizi di formazione agricola davvero
utili alle donne sarebbe necessario conoscere i dati, ma a volte si ha
la sensazione che nemmeno ci si provi, a raccoglierli. Un documento
del 2012 della Fondazione Gates racconta la storia di
un’organizzazione (non nominata) che intendeva selezionare e
distribuire varietà migliorate dei principali prodotti agricoli 28. Ben
sapendo che il miglioramento è negli occhi di chi coltiva,
quell’organizzazione aveva condotto alcune sperimentazioni in
aziende gestite per la quasi totalità da agricoltori maschi. Poiché
questi ultimi avevano deciso che la caratteristica piú importante era il
rendimento, le varietà selezionate erano state quelle con il
rendimento maggiore. Va da sé che le famiglie non le adottarono, e
qualcuno all’interno dell’organizzazione riuscí addirittura a stupirsi.
La decisione di interpellare soltanto gli uomini può senz’altro
definirsi bizzarra, giacché i nostri dati, per quanto lacunosi, sono
sufficienti ad affermare che la presenza femminile nel settore è
rilevante: l’agricoltura è l’occupazione principale del settantanove per
cento delle donne economicamente attive nei Paesi meno sviluppati,
e del quarantanove per cento delle donne attive nel mondo 29. Il fatto
è che per le contadine di quella regione il rendimento non era il
requisito piú importante: ci tenevano di piú a sapere quanto lavoro
era necessario per preparare i terreni e quanto per estirpare le
erbacce, perché sono incombenze che spettano alle donne. E
volevano essere informate anche sui tempi di cottura di ciò che
avrebbero raccolto, perché anche cucinare è compito delle donne.
Le nuove varietà ad alto rendimento avrebbero richiesto un impegno
maggiore in termini di tempo, ed è per questo che, come volevasi
dimostrare, alla fine non furono accettate.

Per evitare insidie di questo tipo, l’unica soluzione sarebbe


parlare con le donne, ma i responsabili dei progetti di pianificazione
si ostinano – chissà perché – a non farlo. E se siete d’accordo con
me sul fatto che selezionare nuove varietà di raccolti senza chiedere
il parere delle donne sia stata una pessima idea, aspettate che vi
racconti la storia dei focolari «puliti» nei Paesi in via di sviluppo.
Fin dal Neolitico l’umanità (soprattutto le donne, per essere
precisi) ha sempre cucinato su focolari a tre pietre. Che cosa siano è
facile immaginarlo: tre pietre appoggiate a terra che fanno da
supporto a una pignatta, sotto la quale brucia un fuoco di legna o
qualsiasi altro combustibile si possa raccogliere. Nel Sudest asiatico,
il settantacinque per cento delle famiglie utilizza tuttora dei
combustibili a biomasse (legno o altre sostanze organiche) 30; in
Bangladesh la percentuale arriva al novanta per cento 31. Nell’Africa
subsahariana i combustibili a biomasse sono la principale fonte di
energia per la cottura degli alimenti destinati a
32
settecentocinquantatre milioni di persone , ovvero l’ottanta per
cento della popolazione.
Il problema delle cucine tradizionali è che sprigionano fumi molto
tossici. Una donna che cucini su un fornello a tre pietre in una stanza
non ventilata è esposta ogni giorno a una quantità di fumi pari a piú
di cento sigarette 33. Stando a un documento del 2016, in Paesi
come Perú e Nigeria i fumi tossici sprigionati dai fornelli sono da
venti a cento volte superiori ai limiti fissati dall’Organizzazione
mondiale della sanità 34 e in tutto il mondo causano ogni anno tre
volte piú vittime (ben due milioni novecentomila persone) 35 della
malaria 36. A peggiorare la situazione contribuisce anche
l’inefficienza del sistema di cottura, sicché le donne che cuociono i
cibi a quel modo sono esposte a fumi tossici per un tempo che varia
dalle tre alle sette ore giornaliere 37: su scala mondiale,
l’inquinamento degli ambienti interni è il principale fattore di rischio
per la mortalità femminile e la principale causa di morte per i bambini
sotto i cinque anni 38. L’inquinamento degli spazi chiusi è all’ottavo
posto nella graduatoria globale dei fattori patogeni: causa danni
all’apparato respiratorio e al sistema cardiovascolare e aumenta le
probabilità di sviluppare neoplasie polmonari o malattie infettive
come la tubercolosi 39. Eppure, come spesso accade quando è in
gioco soprattutto la salute delle donne, «gli effetti avversi non sono
stati studiati in modo integrato e scientificamente rigoroso» 40.
Fin dagli anni Cinquanta le organizzazioni per lo sviluppo hanno
cercato, con risultati alterni, di promuovere la diffusione di fornelli
«puliti». Piú che a facilitare la cottura dei cibi o ridurre i rischi per la
salute delle donne, i primi tentativi in questo senso miravano in
primo luogo a risolvere il problema della deforestazione 41. Quando
si cominciò a capire che il disastro ambientale era causato non dalla
raccolta di combustibile per usi domestici ma dalla fame di terreni da
destinare all’agricoltura, le organizzazioni erogatrici di aiuti allo
sviluppo decisero di sospendere la distribuzione di fornelli ad alta
efficienza. Emma Crewe, antropologa della School of Oriental and
African Studies di Londra, spiega che quelle iniziative erano state
«giudicate inutili a risolvere la crisi energetica e non rilevanti per le
altre aree di sviluppo» 42.
Ma di lí a poco la questione ritorna in primo piano, e nel settembre
del 2010 Hillary Clinton annuncia la nascita della Clean Cooking
Alliance, l’alleanza globale per i fornelli puliti, che si pone l’obiettivo
di portare sistemi di cottura e combustibili non inquinanti in cento
milioni di case entro il 2020 43. L’intento è certamente lodevole; ma
se anche si dovesse realizzare, se le donne cioè cominceranno
davvero a utilizzare fornelli piú efficienti, molto comunque rimarrà da
fare, specie sul fronte della raccolta di dati.
Una pubblicazione delle Nazioni unite risalente al 2014 rende
noto che i dati nazionali sulla disponibilità di sistemi di cottura piú
moderni sono «sporadici»: i documenti dei singoli Stati sulle politiche
energetiche e sulle strategie di riduzione della povertà si
concentrano soprattutto sull’elettrificazione del territorio 44. Un
documento del 2005 della Banca mondiale sottolinea invece che,
quando si tratta di raccogliere informazioni sull’accesso alle fonti
energetiche, i governi tendono a conteggiare piú i nuovi
allacciamenti alla rete che l’impatto socioeconomico dei progetti di
sviluppo 45. E spesso quei progetti di sviluppo vengono avviati senza
avere un’idea precisa delle effettive necessità degli utenti (per
esempio se l’elettricità gli serva per il pompaggio dell’acqua potabile,
per la lavorazione dei cibi o per impieghi energetici). Il risultato di
questa carestia di dati è che fino a oggi i sistemi di cottura puliti sono
stati quasi unanimemente rifiutati da chi avrebbe dovuto
beneficiarne.
Negli anni Novanta i tecnici addetti alla distribuzione dei nuovi
fornelli avevano detto a Emma Crewe che la scarsa adesione al
progetto dipendeva dal fatto che le potenziali utilizzatrici avevano
una «cultura conservatrice» 46 e pertanto andavano «istruite» all’uso
appropriato delle nuove cucine. Nel frattempo siamo arrivati al XXI
secolo, ma la colpa è sempre delle donne: nel 2013, per esempio,
un rapporto finanziato da WASH plus e Usaid sulle esperienze di
utilizzo di cinque diversi tipi di fornelli in Bangladesh constatava che
tutti e cinque allungavano i tempi di cottura e richiedevano un
controllo piú assiduo 47. Ciò impediva alle donne di dedicarsi ad altre
faccende mentre cucinavano (cosa invece possibile con i sistemi
tradizionali) e le obbligava a cambiare modo di preparare i cibi. A
fronte di ciò, la principale e reiterata morale dello studio era:
aggiustate le donne, non i fornelli. Invece che insegnare ai progettisti
a non appesantire ulteriormente un carico di lavoro che già teneva
occupate le donne per una media di quindici ore al giorno, bisognava
insegnare a queste ultime ad apprezzare i pregi dei fornelli
«migliorati» 48.
Checché ne dicano accademici, tecnici stranieri in missione
all’estero e funzionari delle Ong, il problema non sono le donne, ma i
fornelli: chi li ha progettati, spiega Emma Crewe, ha pensato piú alle
caratteristiche tecniche, come l’uso efficiente del combustibile, che
alle necessità degli utilizzatori finali, e il risultato è che spesso la
gente non li vuole 49. E sebbene il basso tasso di adozione del
fornelli piú efficienti sia un problema ormai vecchio di decenni, le
agenzie per lo sviluppo non hanno ancora cominciato a occuparsene
sul serio 50, per la semplicissima ragione che non si sono ancora
abituate a consultare le donne prima di progettare uno strumento
destinato a loro: quel che invece fanno è imporre ex cathedra il loro
punto di vista 51.
Un programma di questo tipo realizzato in India, per esempio, è
fallito perché il nuovo fornello funzionava bene, ma richiedeva piú
manutenzione delle cucine tradizionali: e secondo i progettatori
doveva essere «la famiglia» 52 a occuparsene. È vero che nello
Stato dell’Orissa questi lavoretti sono da sempre compito degli
uomini; i quali però non vedevano la necessità di preservare
l’efficienza del nuovo fornello finché le loro mogli riuscivano ancora a
cucinare su quello tradizionale. E cosí, mentre le donne tornavano a
usare i sistemi tradizionali e a respirare i fumi tossici, i fornelli
finivano in un angolo a prendere polvere.
La questione delle priorità di genere si estende anche al bilancio
familiare, e quindi alla scelta di acquistare o meno un fornello di
nuovo tipo. Malgrado i molti tentativi fatti sin dall’inizio degli anni
Ottanta, il novantotto per cento della popolazione rurale del
Bangladesh si rifiuta tuttora di usare i fornelli «puliti» e si affida ai
tradizionali sistemi alimentati a biomasse 53. Nel 2010 si è scoperto
che, rispetto ai loro compagni maschi, «le donne manifestavano una
marcata preferenza per i fornelli “migliorati” di qualsiasi tipo,
soprattutto per quelli dotati di canna fumaria» e si mostravano piú
propense a ordinarne uno se la domanda gli veniva posta in assenza
dei mariti. Ma quattro mesi dopo, quando il gruppo di studiosi tornò
con i nuovi fornelli, il gender gap si era annullato e le preferenze
delle donne si erano riallineate a quelle degli uomini.
L’ipotesi che la mancata adozione dei fornelli puliti sia solo un
riflesso dello scarso potere decisionale delle donne in materia di
acquisti è confermata da un rapporto del 2016, nel quale si evidenzia
che «i nuclei familiari capeggiati da una donna sono piú favorevoli
all’impiego di sistemi di preparazione dei cibi piú puliti» 54. Nel 2012
uno studio dell’università di Yale aveva messo in luce che secondo il
novantaquattro per cento degli intervistati il fumo sviluppato negli
ambienti chiusi dai fornelli di tipo tradizionale era certamente
dannoso, eppure le famiglie «optavano per il sistema tradizionale
perché gli consentiva di soddisfare alcuni bisogni primari»: malgrado
ciò, l’articolo che riassumeva i risultati per il blog dell’università
annunciava a gran voce che «le donne del Bangladesh resistono al
cambiamento e continuano a preferire i fornelli inquinanti», come se
lo facessero per cocciutaggine e non per scarso potere decisionale
in materia di acquisti della famiglia 55. Forse l’insipienza delle donne
che – chissà perché – preferiscono l’aria inquinata faceva piú notizia
della povertà endemica.
Quest’incapacità ormai pluridecennale di mettere a punto fornelli
e/o piani di distribuzione che rispondano alle necessità delle donne
ha creato un’emergenza sanitaria sicuramente destinata a
peggiorare. Poiché i combustibili di buona qualità sono sempre piú
scarsi a causa del cambiamento climatico (che provoca erosione dei
suoli e desertificazione) le donne sono costrette ad alimentare i loro
fornelli con foglie, paglia e sterco, materiali che sprigionano fumi
ancora piú tossici. È un gran paradosso, perché non vi è dubbio che
i fornelli puliti migliorerebbero di molto la vita delle donne. Nel 2011,
uno studio condotto nello Yemen ha reso noto che la popolazione
femminile senza accesso alla rete idrica e senza fornelli a gas
trascorreva solo il ventiquattro per cento del tempo in attività di
lavoro retribuito; se invece le donne avevano accesso a quelle
comodità, la percentuale saliva al cinquantadue per cento 56. Da
un’altra indagine del 2016 sui sistemi di preparazione dei cibi in India
è invece risultato che l’utilizzo di un fornello pulito (per esempio del
tipo Anagi 2, economico, portatile e capace di ridurre notevolmente i
tempi di cottura) lasciava alle donne piú tempo da dedicare alle
attività sociali e agli incontri con altri membri della comunità 57. I figli
delle famiglie che possedevano un fornello pulito erano addirittura
piú assidui nel frequentare la scuola 58.
Eppure c’è motivo di sperare. Nel novembre 2015 una équipe di
ricercatori ha annunciato 59 di aver portato a termine con successo,
in India, uno studio sul campo per l’introduzione di «un dispositivo
semplice ed economico (del costo di un dollaro) da collocare
all’interno dei tradizionali fuochi a tre pietre». Il dispositivo riduce il
consumo di legna e il fumo «a livelli paragonabili a quelli dei fornelli
piú costosi ed efficienti»: un risultato straordinario, che colma un
vuoto di dati lungo vent’anni. Constatato che malgrado gli sforzi delle
autorità competenti sembrava impossibile introdurre i sistemi di
cottura ad alta efficienza nelle aree rurali dell’India, i ricercatori si
sono finalmente decisi a indagare sul perché.
E il perché è venuto a galla parlando con le donne: nei sistemi di
cottura ad alta efficienza era impossibile introdurre «grossi ciocchi di
legno senza prima dividerli in senso longitudinale»: un dettaglio già
emerso nel rapporto del 2013 sui cinque diversi tipi di fornelli cui
abbiamo accennato prima. Poiché tutto ciò che riguarda la
preparazione dei cibi, compreso il combustibile per alimentare i
fornelli, è di competenza delle donne, e poiché tagliare la legna era
«molto faticoso», non è affatto illogico che queste ultime
«rinunciassero a usare i sistemi ad alta efficienza e tornassero ai
tradizionali e piú versatili chulha (fornelli di fango e mattoni)».
Tenendo conto di questo dato, i ricercatori si sono messi al lavoro
per «aggiustare» le tecnologie di cottura in modo che
corrispondessero alle esigenze delle donne. Compreso che «un
unico sistema ad alta efficienza non può sostituirsi a tutte le varietà
di fornelli tradizionali», i ricercatori sono giunti alla conclusione che
«per ridurre in misura significativa il consumo di legna da ardere è
necessario individuare un ventaglio di soluzioni adattabili alle
esigenze delle diverse aree geografiche». Il frutto del loro lavoro di
progettazione basato sui dati di realtà si chiama Mewar angithi, o MA :
un semplice inserto metallico «studiato per essere posizionato
all’interno dei chulha tradizionali in modo da generare un flusso
d’aria identico a quello che si produce nei fornelli ad alta efficienza».
Per ridurre i costi (altra costante preoccupazione di chi prepara il
cibo per la famiglia) il dispositivo è stato costruito con scarti metallici
provenienti dall’industria delle lavatrici, reperiti sul mercato locale «a
un quarto del costo della lamiera non forata». E poiché un MA è un
semplice rettangolo di lamiera forata e piegata, «lo si può facilmente
personalizzare, adattandolo alle dimensioni di ogni chulha». Dopo
quel primo esperimento di successo, ne sono stati condotti altri in
Kenya 60 e in Ghana 61, con risultati altrettanto positivi, a
dimostrazione di ciò che si può fare quando un progetto nasce dalla
volontà di rimediare a un’assenza di dati di genere.
VIII.
L’uomo è misura di tutte le cose

Nel 1998 un pianista di nome Christopher Donison scrisse che «il


mondo si può dividere grossomodo in due categorie: chi ha le mani
grandi e chi no». Donison rientrava nella seconda categoria e si era
accapigliato per anni con le tastiere tradizionali, ma il suo aforisma
avrebbe potuto e potrebbe valere per qualsiasi donna. Benché una
poderosa mole di dati attesti che le donne hanno in media mani piú
piccole degli uomini 1, si continuano tuttora a progettare oggetti
commisurati alla mano maschile, come se «misura unica» volesse
dire «misura unica da uomo».
È una pratica che torna a discapito delle donne soprattutto se gli
oggetti in questione sono destinati a utenti di entrambi i sessi. Una
spanna femminile misura in media da poco meno di diciotto
centimetri a poco piú di venti 2, il che rende piuttosto difficoltoso
l’utilizzo di un pianoforte con tastiera standard da centoventi
centimetri. Su una tastiera normale, le ottave hanno un’ampiezza
(18,8 centimetri) che a detta di alcuni creerebbe problemi
all’ottantasette per cento delle pianiste adulte 3. Uno studio del 2015
che metteva in relazione l’ampiezza della spanna di 473 pianisti
adulti con il loro «livello di notorietà» ha dimostrato che i dodici
concertisti giudicati «di fama internazionale» avevano un’estensione
di almeno 22,3 centimetri 4. Le misure delle due sole donne entrate a
far parte del gruppo erano, rispettivamente, 22,86 e 24,13 centimetri.
Oltre a interferire con il raggiungimento di un livello di notorietà
pari a quello dei colleghi, la tastiera da pianoforte standard fa anche
male alla salute. Una serie di studi effettuati su un campione di
strumentisti tra gli anni Ottanta e i Novanta ha accertato che le
donne soffrivano in misura «sproporzionata» di varie patologie da
lavoro, e che i pianisti erano la categoria piú a rischio. Rispetto ai
loro colleghi maschi, poi, le pianiste avrebbero un cinquanta per
cento di probabilità in piú di subire infortuni e patologie dolorose; in
particolare, ben il settantotto per cento delle donne (contro il
quarantasette per cento degli uomini) risultava affetto da disturbo da
affaticamento degli arti superiori, o Rsi (Repetitive Strain Injury) 5.
Il fatto è verosimilmente legato alle dimensioni delle mani: un altro
studio del 1984 circoscritto ai pianisti maschi aveva individuato
ventisei «musicisti affermati», ovvero «solisti di fama, vincitori di
concorsi internazionali», e dieci «casi problematici», ovvero «pianisti
che avevano risentito a lungo di difficoltà tecniche o infortuni» 6. I
membri del primo gruppo avevano in media un’ampiezza della
spanna di 23,4 centimetri contro i ventidue centimetri dei casi
problematici, ma questa seconda misura rimane comunque al di
sopra dell’apertura media della mano femminile.
Un giorno, mentre provava «per la millesima volta, o suppergiú»
la parte finale della Ballata n. 1 in Sol minore di Chopin sul suo
Steinway a coda, Christopher Donison ebbe l’idea di progettare una
tastiera di nuovo tipo, adatta ai musicisti con le mani piú piccole. E
se il problema non fossero state le dimensioni delle sue mani, ma
quelle delle tastiere? Il risultato concreto della sua intuizione è la
tastiera DS di misura 7/8 che, afferma Donison, ha rivoluzionato il
suo modo di suonare. «Finalmente potevo usare la diteggiatura
giusta. Riuscivo a suonare gli arpeggi composti con una mano sola
invece che con due. […] Le ampie, travolgenti figure arpeggiate cosí
consuete nella musica romantica diventavano possibili, e invece di
provare e riprovare all’infinito lo stesso passaggio riuscivo persino a
concentrarmi sulla ricerca del suono giusto» 7. L’esperienza di
Donison è comprovata da numerosi studi che attribuiscono alla
tastiera 7/8 il merito di aver fatto piazza pulita di molti ostacoli
professionali e problemi di salute 8. Eppure il mondo della musica
pianistica rimane perplesso di fronte a quest’innovazione: può
sembrare strano, ma basta riflettere un istante per capire che ancora
una volta c’entra il sessismo.
La riluttanza ad accantonate i modelli progettuali che si adattano
solo alle manone maschili sembra un fenomeno endemico. All’inizio
del nuovo millennio c’è stata un’epoca in cui i telefoni cellulari che
vincevano i premi di design erano sempre i piú piccoli. Poi è arrivato
l’iPhone con il suo codazzo di imitatori, e a quel punto la musica è
cambiata. All’improvviso era tutta una questione di grandezza del
display, e «piú grande» era diventato sinonimo di «migliore». Al
giorno d’oggi lo smartphone medio ha un display da cinque pollici e
mezzo 9, e mentre tutti ci dichiariamo entusiasti delle dimensioni dei
nostri schermi, quando si tratta di maneggiarli (o peggio ancora di
infilarli in tasche troppo piccole, se non inesistenti) l’entusiasmo si
smorza un po’, almeno per una buona metà della popolazione. Se
infatti l’uomo medio riesce a gestire abbastanza bene il suo
smartphone con una mano sola, la donna media è in difficoltà,
perché in molti casi la sua mano è grande pressappoco quanto
l’apparecchio.
È un problema fastidioso, che per giunta denota una certa ottusità
da parte della Apple: dopo tutto sono principalmente le donne a
possedere un iPhone 10. Ma non illudetevi che qualcuno vi spieghi
dove sta il metodo nella loro follia, perché è difficilissimo che un
fabbricante dia conto di questa vera e propria ossessione per gli
schermi formato cinema. Alla disperata ricerca di risposte, mi sono
persino rivolta a Alex Hern, capo della redazione tecnologia del
«Guardian», ma nemmeno lui è stato in grado di aiutarmi. «È un
problema arcinoto, – mi ha detto, – ma nessuno ha mai dato una
risposta chiara». Parlandone con i diretti interessati a registratori
spenti, la «risposta standard» è che i cellulari di oggi non sono piú
progettati per essere usati con una sola mano. Inoltre pare che siano
le donne a preferire i display piú grandi, tendenza «solitamente
correlata all’uso delle borsette». Ora, datemi retta, le borse sono
senz’altro una grande invenzione, ma se le usiamo è anche perché
nei nostri vestiti non ci sono tasche degne di questo nome, e quindi
mettere in commercio dei cellulari da borsetta anziché da tasca è
come aggiungere il danno alla beffa. Per di piú vi è una certa
incoerenza nel sostenere che gli smartphone sono progettati per le
borsette quando cosí tante applicazioni a tracciamento passivo
dànno per scontato che gli apparecchi siano tenuti costantemente in
mano o in tasca.
Il secondo consulente che ho interpellato è stato il giornalista e
scrittore James Ball, il quale mi ha esposto un’altra teoria: poiché è
opinione comune che siano gli uomini a condizionare gli acquisti sul
mercato dei telefoni di fascia alta, le esigenze delle donne non sono
prese in considerazione, punto e basta. Se è vero, continua a
sembrarmi strano che la Apple si adegui a questo trend considerato
ciò che dicono gli esperti sulle vendite degli iPhone. Ma per quanto
mi riguarda ho un’altra e piú fondamentale obiezione: ancora una
volta ci si dice che il problema sono le donne e non i modelli di
progettazione a misura di maschio. In altri termini: se davvero non
siamo noi a condizionare gli acquisti degli smartphone di marca,
sarà perché non ci interessano gli smartphone o perché gli
smartphone sono progettati senza tener conto delle nostre
esigenze? C’è una speranza, comunque: James Ball mi ha
rassicurata sul fatto che l’ipertrofia dei display sia prossima alla fine,
perché ormai «hanno raggiunto le dimensioni-limite della mano
maschile».
Buone notizie per gli uomini, dunque, ma tempi duri per le donne:
come la mia amica Liz, alle prese con il suo Motorola Moto G di
terza generazione. In risposta a una delle mie frequenti geremiadi
sull’eccessiva grandezza dei cellulari, mi ha raccontato di essersi
appena lamentata con un amico di quanto fosse difficile usare lo
zoom sulla fotocamera del suo dispositivo. «Sul mio è
comodissimo», le aveva risposto l’amico. Alla fine è venuto fuori che
avevano lo stesso, identico modello. «Non sarà una questione di
grandezza delle mani?»
È quasi certamente cosí. Lo sa bene anche Zeynep Tufekci,
ricercatrice dell’università del North Carolina: nel 2013 stava
tentando di documentare l’impiego di gas lacrimogeni contro i
manifestanti che occupavano il parco di Gezi a Istanbul, ma il suo
cellulare Google Nexus non le è stato d’aiuto 11. Era la sera del 9
giugno 2013: il parco era affollatissimo, c’erano molte famiglie con
bambini, ma a un certo punto la polizia ha cominciato a sparare
lacrimogeni. Poiché «la tesi ufficiale era che i gas venivano usati
soltanto contro i vandali e i manifestanti violenti», Zeynep ci teneva a
documentare quanto stava accadendo. Quindi tirò fuori il cellulare.
«E con i polmoni, gli occhi e il naso irritati dai gas lacrimogeni
fuoriusciti dai molti candelotti che avevo intorno, ho cominciato a
imprecare». Il suo telefono era troppo grande. Non riusciva a
controllare la fotocamera con una mano sola, «anche se l’avevo
visto fare innumerevoli volte dagli uomini». Tutte le foto scattate da
Zeynep in quell’occasione si rivelarono inutilizzabili, «per una
semplice ragione: gli smartphone di buona qualità sono fatti per le
mani degli uomini».
Come le tastiere dei pianoforti, anche i cellulari a misura di mano
maschile possono nuocere alla salute delle donne. È un campo di
studi abbastanza nuovo, ma purtroppo i dati finora raccolti non sono
granché incoraggianti 12. E benché la mano femminile sia senza
dubbio piú piccola di quella maschile e la frequenza di sintomi
dolorosi o disturbi dell’apparato muscoloscheletrico sia maggiore tra
le donne 13, le ricerche sull’impatto degli smartphone di grandi
dimensioni su ossa e muscoli della mano e del braccio non fanno
nulla per ovviare al gender data gap. In alcuni degli studi che ho
esaminato la proporzione di soggetti femminili era di gran lunga
sottodimensionata 14 e la disaggregazione dei dati per sesso 15 del
tutto assente, persino negli studi che rappresentavano in modo
corretto la quota di popolazione femminile 16. È un vero peccato,
perché dai pochi studi che pubblicavano dati disaggregati sono
emerse differenze statisticamente significative per ciò che riguarda
gli effetti dei cellulari di grandi dimensioni su mani e braccia
femminili 17.

La risposta al problema degli smartphone troppo grandi per le


mani femminili sembrerebbe ovvia: fateli piú piccoli. Difatti se ne
trovano in commercio alcuni con dimensioni piú contenute, come
l’iPhone Special Edition con il display da quattro pollici. Ma il modello
non è stato piú aggiornato, perciò al momento è un prodotto di
gamma inferiore rispetto agli ultimissimi apparecchi disponibili
soltanto nelle misure «enorme» e «piú enorme». E comunque ormai
è fuori produzione. In Cina, donne e uomini dalle mani piccole hanno
a disposizione il Keecoo K1, che con la sua forma «esagonale»
tenta di adattarsi alle dimensioni della mano femminile (il che è un
bene) 18. Peccato che sia poco potente e abbia una fotocamera
frontale che ritocca le foto in automatico (il che è un male, un gran
male).
La tecnologia del riconoscimento vocale è stata proposta come
possibile antidoto ai disturbi da affaticamento degli arti superiori
dovuti all’uso degli smartphone 19, ma purtroppo molti dei software
esistenti soffrono di un irrimediabile propensione al maschile.
Secondo Rachael Tatman, ricercatrice della facoltà di Linguistica
dell’università di Washington, le probabilità che il software di Google
decifri correttamente il parlato maschile sono maggiori del settanta
per cento rispetto al parlato femminile 20. E quel software è, al
momento, il migliore sul mercato 21.
È una palese ingiustizia che le donne debbano pagare allo stesso
prezzo degli uomini un prodotto che rende loro un servizio piú
scadente. Se ciò non bastasse, possono anche esserci gravi
conseguenze per la sicurezza. I software di riconoscimento vocale
installati sulle auto, per esempio, dovrebbero servire a limitare le
distrazioni e aumentare la sicurezza, ma se non funzionano si rischia
di ottenere l’effetto contrario; e con le donne, spesso, non
funzionano. Un articolo pubblicato dal sito Autoblog riportava
l’esperienza di una signora che nel 2012 aveva acquistato una Ford
Focus, scoprendo poi che il sistema di comandi vocali dava retta
soltanto a suo marito, anche quando era seduto al posto del
passeggero 22. Un’altra automobilista raccontava di essersi rivolta al
servizio di assistenza della Buick perché sulla sua nuova auto il
software per l’attivazione vocale del telefono non funzionava. «Il tizio
dell’assistenza mi ha detto senza tante cerimonie che con me non
avrebbe mai funzionato. Secondo loro avrei dovuto farlo configurare
da un uomo». Per combinazione, subito dopo aver scritto queste
pagine mi sono trovata a bordo della Volvo di mia madre e l’ho vista
mentre tentava invano di telefonare a mia zia con i comandi vocali
della macchina. Dopo cinque tentativi andati a vuoto, le ho suggerito
di parlare con un tono un po’ piú basso. Ha funzionato al primo
colpo.
Col passare del tempo i software di identificazione vocale hanno
fatto grandi progressi e il loro uso si è esteso a svariati ambiti,
medicina compresa, in cui gli errori possono costare cari. Uno studio
del 2016 ha passato al vaglio un centinaio di promemoria registrati
da medici in servizio di pronto soccorso mediante un’app per la
dettatura vocale, e ha scoperto che il quindici per cento delle
annotazioni conteneva errori critici, «potenzialmente in grado di
disturbare la comunicazione, con effetti diretti sulla terapia del
paziente» 23. Purtroppo lo studio non forniva dati disaggregati, ma
altri ricercatori hanno accertato che gli errori di trascrizione sono piú
numerosi quando a dettare è una donna 24. Il dottor Syed Ali, autore
principale di uno degli studi sulla dettatura vocale in ambito medico,
ha poi riferito che «l’effetto immediato» della sua analisi è stato
aumentare la consapevolezza che le donne «avrebbero dovuto
faticare» piú degli uomini per «far funzionare a dovere il sistema [di
riconoscimento vocale]» 25. Rachael Tatman sembra essere
d’accordo: «Il fatto che gli uomini ottengano risultati migliori da quelle
tecnologie complica il lavoro delle donne. Anche se basta un
secondo per correggere un errore, quei secondi in piú si accumulano
di giorno in giorno e di settimana in settimana, fino a comporre un
ragguardevole spreco di tempo; un tempo che i loro colleghi maschi
non saranno costretti a sprecare litigando con il software».
Tom Schalk, vicepresidente del gruppo ATX , produttore di
tecnologie a controllo vocale e sistemi di navigazione per automobili,
ha per nostra fortuna ideato la soluzione giusta per «i numerosi
problemi legati alle voci femminili» 26. Ciò che serve alle donne, ha
dichiarato, è «un lungo addestramento». Ah, se solo fossero
«disposte a sottoporvisi»! Il che, sospira Schalk, purtroppo non
accade. Come le cocciute massaie del Bangladesh si ostinano a
comprare i fornelli sbagliati, le acquirenti di automobili restano
irragionevolmente convinte che i progettisti di software dovrebbero
inventare sistemi di riconoscimento vocale che funzionino anche per
loro, quando invece è ovvio che l’elemento difettoso da aggiustare
sono proprio le donne. Perché le donne non sono come gli uomini?
Rachael Tatman respinge con decisione l’ipotesi: è stato
dimostrato che la dizione femminile è «significativamente piú
chiara» 27, forse perché tendono a produrre suoni vocalici piú
lunghi 28 e ad articolare le parole con maggiore lentezza 29. Gli
uomini, invece, hanno «disfluenze piú frequenti, pronunciano le
parole un poco piú in fretta e usano piú varianti (trascurate) di
pronuncia» 30. Date queste premesse, le tecnologie di
riconoscimento vocale dovrebbero semmai avere meno difficoltà a
comprendere le voci femminili – e in effetti Tatman dichiara di aver
addestrato dei classificatori con repertori di dati fonetici registrati da
parlanti di sesso femminile, e «funzionavano a meraviglia, pensa un
po’».
Ovvio che il problema non sono le voci delle donne, ma il nostro
caro vecchio amico, il gender data gap. Le tecnologie di
riconoscimento vocale si basano su un processo di apprendimento a
partire da enormi database di registrazioni vocali, detti corpora. Nei
corpora predominano le voci maschili, o almeno cosí ci risulta da
quella minima parte di database che disaggregano per sesso le voci
contenute al loro interno (e il fatto che siano una minima parte è a
sua volta un vuoto di dati di genere) 31. Rachael Tatman ci parla
addirittura di un solo database disaggregato per sesso: negli archivi
di Timit («il corpus di maggior successo tra i molti costruiti dal
Linguistic Data Consortium») il sessantanove per cento delle voci è
maschile. Nonostante tutto, esistono repertori che dànno spazio alle
voci femminili: nel British National Corpus, per esempio 32, vige la
parità di genere 33.
I corpora a prevalenza di voci maschili non sono gli unici
database sbilanciati che si utilizzano per elaborare algoritmi
sbilanciati. Esistono anche dei corpora testuali, formati da esempi di
linguaggio scritto tratti da romanzi, articoli di giornale, manuali
giuridici e cosí via: vengono utilizzati per addestrare i programmi che
traducono da altre lingue, leggono curriculum o setacciano la rete. E
anche qui i vuoti di dati sono enormi. È bastata una ricerca nel
British National Corpus 34 (cento milioni di parole estratte da un
ampio ventaglio di testi scritti negli ultimi anni del XX secolo) per
scoprire che i pronomi femminili hanno una frequenza pari a circa la
metà di quelli maschili 35. Il Corpus of Contemporary American
English (Coca) consta di cinquecentoventi milioni di parole, ma il
rapporto tra pronomi maschili e femminili è sempre di due a uno,
benché il repertorio includa anche testi piú recenti (fino al 2015) 36.
Gli algoritmi addestrati in base a questi corpora finiscono per credere
che il mondo sia davvero dominato dagli uomini.
Anche i repertori iconografici sembrano avere un problema
analogo: un’analisi condotta nel 2017 su due famosi cataloghi
contenenti «piú di centomila immagini di scene complesse prelevate
dal web e munite di etichette descrittive» ha rilevato una dominante
presenza maschile 37. Da uno studio dell’università di Washington
sulle immagini Google relative a quarantacinque ambiti lavorativi è
risultato che le donne sono rappresentate in misura inferiore al dato
reale, e che lo scarto piú ampio riguarda la categoria degli
amministratori delegati: negli Stati Uniti le donne che svolgono quella
professione sono il ventisette per cento del totale, ma su Google
Immagini non vanno oltre l’undici per cento 38. Risultati altrettanto
impari si sono ottenuti dalla ricerca di figure corrispondenti al termine
author: solo il venticinque per cento delle immagini fornite da Google
era di donne, ma negli Stati Uniti il cinquantasei per cento degli
autori sono in realtà autrici. Lo squilibrio condizionava, almeno nel
breve termine, le opinioni del pubblico sull’entità reale della
rappresentanza femminile nella categoria. Va da sé che per quanto
riguarda gli algoritmi l’impatto sarà piú duraturo.
Oltre a rappresentare le donne in una proporzione inferiore al
dato reale, i database ne forniscono un’immagine distorta.
Un’indagine condotta nel 2017 su alcuni corpora testuali ha
dimostrato che i nomi femminili, sia propri sia generici («donna»,
«ragazza» e cosí via) erano associati il piú delle volte a contesti
familiari, mentre i nomi maschili prevalevano nei contesti lavorativi 39.
Un anno prima, l’analisi di un noto repertorio di modelli di testo tratti
da Google Notizie ha indicato che l’occupazione principale collegata
alle donne era «casalinga», mentre quella collegata agli uomini era
«direttore d’orchestra» 40. Nella classifica delle dieci professioni piú
attigue all’uno o all’altro genere figuravano tra l’altro «filosofo»,
«frequentatore di salotti», «capitano», «impiegato alla reception»,
«architetto» e «bambinaio»: qui le vedete declinate tutte al maschile,
ma vi sfido a indovinare quali tra queste venivano associate
all’universo femminile. Anche il già menzionato studio del 2017 sui
repertori iconografici evidenziava che le attività e gli oggetti
raffigurati nelle immagini mostravano un «significativo» pregiudizio di
genere 41. Mark Yatskar, uno dei partecipanti al progetto,
fantasticava su un futuro in cui un robot addestrato con quelle basi di
dati, entrando in cucina senza sapere che cosa stavano facendo i
suoi umani, «avrebbe offerto all’uomo una birra, e alla donna un
aiuto per lavare i piatti» 42.
Stereotipi culturali di questo genere sono già presenti nelle
tecnologie di intelligenza artificiale piú spesso utilizzate ai giorni
nostri. A Londa Schiebinger, docente della Stanford University, è
capitato per esempio di dover tradurre in inglese una sua intervista
pubblicata su un quotidiano spagnolo: in quell’occasione ha notato
che sia Google Traduttore, sia Systran tendevano a inserire pronomi
maschili nel testo tradotto, anche se nell’originale c’erano termini
inequivocabilmente flessi al femminile come profesora 43. Google
Traduttore si adegua agli stereotipi anche nella traduzione di alcune
brevi frasi dal turco all’inglese, laddove il turco utilizza pronomi
senza connotazione di genere: cosí O bir doktor, che significa «lui/lei
è un medico», viene tradotto in inglese con He is a doctor, mentre O
bir hemşire («lui/lei è un/un’ infermiere/a») è reso con She is a
nurse 44. I ricercatori hanno individuato comportamenti analoghi
anche nelle traduzioni da altre lingue (finlandese, estone, ungherese
e persiano) verso l’inglese.
La buona notizia è che adesso lo sappiamo: resta ancora da
vedere se i programmatori si serviranno di quest’informazione per
correggere il pregiudizio maschile dei loro algoritmi. C’è da sperare
che lo facciano, perché se è vero che le macchine rispecchiano i
nostri preconcetti, è altrettanto vero che a volte li amplificano – e di
parecchio. Nell’analisi dei repertori iconografici cui abbiamo già fatto
cenno, le illustrazioni di persone intente a cucinare avevano un
trentatre per cento di probabilità in piú di rappresentare donne, ma
gli algoritmi addestrati su quell’insieme di dati collegavano le
immagini di cucine al campo semantico femminile addirittura nel
sessantotto per cento dei casi. Lo studio ha inoltre dimostrato che
tanto piú marcato era il pregiudizio iniziale, tanto piú forte era l’effetto
di amplificazione: il che forse ci aiuta a capire come l’algoritmo abbia
potuto etichettare come «femminile» la foto di un uomo calvo e
corpulento ai fornelli. Una cucina, insomma, vale piú dell’alopecia
androgenetica.
James Zou, assistente alla cattedra di scienze biomediche
dell’università di Stanford, ci spiega perché questo fenomeno è tanto
importante: immaginiamo che qualcuno, in un Paese di lingua
inglese, cerchi un computer programmer su un software addestrato
con un repertorio di dati che considera in prevalenza maschile una
qualifica professionale in realtà grammaticalmente neutra 45.
Quell’algoritmo potrebbe ritenere piú interessante, e dunque
privilegiare, il sito web di un programmatore maschio anche se
esistesse un altro sito, identico in tutto ma riferito a una
programmatrice. Dunque un algoritmo con un pregiudizio maschile,
istruito in base a dei corpora che risentono dell’assenza di dati di
genere, potrebbe di fatto strappare un’opportunità di lavoro a una
donna.
Ma le ricerche sul web sono solo il sintomo piú evidente di come
gli algoritmi stiano già guidando i processi decisionali. Secondo il
«Guardian», il settantadue per cento di tutti i curriculum vitae
presentati negli Stati Uniti non viene mai letto da un occhio
umano 46, e le intelligenze artificiali partecipano ai processi di
selezione del personale individuando le posture, le espressioni
facciali e i toni di voce dei «lavoratori piú performanti» 47. Lí per lí
sembra una gran bella cosa, ma poi arriva il momento in cui ci si
preoccupa dell’eventuale mancanza di dati: i programmatori sono
stati attenti a selezionare un campionario di lavoratori che tenesse
nel giusto conto le differenze di genere e di etnia? E se non l’hanno
fatto, come si comporta l’algoritmo? È stato addestrato a soppesare
le differenze di genere e di ceto sociale che si manifestano nel tono
di voce e nell’espressione del viso? La verità è che non lo sappiamo,
perché le aziende che sviluppano questi prodotti informatici non
condividono i loro algoritmi. Tuttavia gli indizi finora accumulati
lasciano ben poco da sperare.
L’intelligenza artificiale è già utilizzata anche in medicina, come
sostegno nella fase diagnostica: ci si augura che in futuro possa
portare grandi vantaggi, ma oggi come oggi sembra soprattutto
un’arma a doppio taglio 48. Il problema è che, quando si tratta di
salute femminile, non siamo ancora abbastanza consapevoli delle
ben documentate e croniche manchevolezze della scienza
medica 49. In poche parole, rischia di essere un disastro.
Considerato quanto sappiamo sui processi di apprendimento
automatico che tendono ad amplificare pregiudizi già esistenti, le
conseguenze potrebbero addirittura rivelarsi fatali. Poiché le attuali
conoscenze mediche sono pesantemente orientate verso il corpo
maschile, l’intelligenza artificiale potrebbe peggiorare, invece che
migliorare, l’affidabilità delle diagnosi per la popolazione femminile.
Al momento sono in pochi a essersi accorti che c’è un
grossissimo problema all’orizzonte. Gli autori dello studio del 2016
sul repertorio di testi ritagliati da Google Notizie sottolineavano che
tra le «svariate centinaia di studi» sulle possibili applicazioni dei
software di associazione lessicale, nemmeno uno era disposto ad
ammettere che i repertori di dati «grondano sessismo».
Analogamente, gli autori della ricerca sui cataloghi iconografici
segnalavano di essere «i primi a dimostrare che i modelli di
previsione strutturale amplificano il pregiudizio, e i primi a
immaginare come si potrebbe ridurre tale effetto».
Abbiamo visto che al giorno d’oggi esistono modelli di
progettazione che penalizzano le donne. L’industria sforna oggetti e
prodotti che ci impediscono di essere efficienti sul lavoro – e a volte
persino di averlo, un lavoro. Oggetti e prodotti che sono dannosi per
la nostra salute e per la nostra sicurezza. Ma la cosa peggiore di
tutte è che, quando entrano in gioco gli algoritmi, quegli oggetti e
quei prodotti rischiano di aggravare le ingiustizie del mondo in cui
viviamo. Le soluzioni ci sono, ma prima bisogna riconoscere
l’esistenza del problema. Per esempio, gli autori della ricerca sui
corpora testuali in cui «donna» è uguale a «casalinga» hanno messo
a punto un nuovo algoritmo che riduce di piú di due terzi gli stereotipi
di genere («lui» sta a «medico» come «lei» sta a «infermiera»),
senza influire sulle associazioni lessicali corrette («lui» sta a
«carcinoma prostatico» come «lei» sta a «carcinoma ovarico») 50. E
il nuovo algoritmo ideato dagli autori dello studio del 2017
sull’interpretazione delle immagini attenua del 47,5 per cento l’effetto
di amplificazione del pregiudizio.
IX.
Un mare di maschi

Siamo nel 2013, e Janica Alvarez è a caccia di fondi per la sua


start up tecnologica, Naya Health Incorporated. Il problema
principale è farsi prendere sul serio: durante una riunione, i
potenziali investitori hanno googlato il suo prodotto e sono finiti su un
sito porno. Ci si sono fermati e hanno cominciato a scambiarsi
battute pesanti, finché Janica ha avuto la sensazione di trovarsi
«nella sede di un club studentesco maschile» 1. Altri interlocutori
«sono rimasti disgustati, oppure hanno finto di non saperne nulla».
Qualcuno gliel’ha detto chiaro e tondo: «Oh, no, porta via
quell’arnese: è ripugnante!» 2 Cosa sarà mai stato l’orribile,
disgustoso e misterioso oggetto che Janica Alvarez andava
mostrando? Un tiralatte, lettore mio.
Il fatto strano è che l’industria dei tiralatte è matura per
l’innovazione distruttiva, come direbbero quelli della Silicon Valley. Si
tratta di un prodotto molto venduto soprattutto negli Stati Uniti, dove
il congedo per maternità non è obbligatorio per legge, cosicché le
madri che vogliono allattare al seno almeno per i primi sei mesi
(anche se l’Associazione dei pediatri americani consiglia di farlo fino
al dodicesimo) sono costrette a prelevare il latte dal seno con
l’apposito apparecchio 3.
Solo che il mercato è praticamente monopolizzato da una sola
azienda, la Medela, con sede centrale in Svizzera e filiali in tre
continenti. Secondo il «New Yorker», «l’ottanta per cento degli
ospedali americani e inglesi è provvisto di tiralatte Medela, e nei
primi due anni dopo l’approvazione dell’Affordable Care Act, che ha
reso obbligatoria la copertura assicurativa dell’allattamento, le
vendite sono aumentate del trentaquattro per cento». Ma
l’apparecchio della Medela non è un granché. Nel suo articolo per il
«New Yorker» 4, Jessica Winter lo descrive come «una specie di
coppetta assorbilatte, però dura e della misura sbagliata, a cui è
appeso un biberon» che succhia il latte «tirando e strattonando il
seno come se fosse una caramella mou: peccato che le caramelle
mou non abbiano terminazioni nervose» 5. Per di piú, sono in molte a
sostenere che sia impossibile farlo funzionare a mani libere, perché
spesso non si crea l’effetto-ventosa. E cosí le mamme che allattano
sono obbligate a sedersi e a tenere pazientemente in mano il
congegno per almeno venti minuti, svariate volte al giorno, in attesa
che la loro mungitrice personale faccia il suo dovere.
Ricapitoliamo: quello dei tiralatte è un mercato vincolato (valore
attuale: settecento milioni di dollari, con spazi di ulteriore crescita) 6?
Vero. I prodotti esistenti non soddisfano le esigenze dei
consumatori? Vero. E allora, perché gli investitori non ci si buttano a
pesce?
Il problema della scarsa presenza femminile nelle alte sfere del
potere andrebbe risolto una buona volta, e per il bene di tutti. Per
una semplice questione di giustizia, le donne dovrebbero avere – a
parità di competenze – le stesse opportunità di successo dei loro
colleghi maschi. Tuttavia la rappresentazione del femminile non
dipende soltanto dalle donne che, singolarmente, ottengono o non
ottengono un qualche incarico prestigioso: c’è un problema piú
ampio, ed è l’assenza di dati di genere. La storia del parcheggio per
gestanti che ci ha raccontato Sheryl Sandberg dimostra l’esistenza
di bisogni femminili a cui gli uomini non penseranno mai di
rispondere, per la semplice ragione che si collegano a esperienze
femminili a loro del tutto sconosciute. E se una persona non sente
un certo bisogno, può non essere facilissimo convincerla che quel
bisogno esiste.
La dottoressa Tania Boler, fondatrice di Chiaro, società molto
attiva nel settore delle tecnologie per la salute femminile, è convinta
che la riluttanza a sostenere le imprese con una leadership
femminile derivi in parte dallo «stereotipo per cui la passione per il
design e la tecnologia è tipica degli uomini e non delle donne». Ma
c’è del vero in questo luogo comune, oppure si può anche pensare
che il problema non siano le donne insensibili alla tecnologia, bensí
una tecnologia insensibile alle donne, creata da industrie e finanziata
da investitori insensibili alle donne?
Una quota consistente delle start up in ambito tecnologico è
finanziata dai cosiddetti venture capitalist: soggetti in grado di
assumersi rischi finanziari che le banche non potrebbero
sostenere 7. Il problema è che gli investitori in capitali di rischio sono
per il novantatre per cento maschi 8, e si sa, «gli uomini fanno il tifo
per gli uomini»: cosí spiega Debbie Wosskow, cofondatrice di
AllBright, un’associazione con finalità didattiche e finanziarie che
promuove l’imprenditoria femminile. «Devono esserci piú donne che
firmano gli assegni, e gli uomini devono capire che finanziare una
donna è un ottimo investimento». Wosskow mi racconta che quando
lei e la sua amica Anna Jones, ex amministratrice delegata del
gruppo Hearst, stavano lavorando per dare vita a AllBright, certi
uomini «dai quali, onestamente, mi sarei aspettata di meglio», non
facevano che lodarle dicendo: «Ma che magnifica idea, è bellissimo
che tu e Anna abbiate deciso di fare beneficenza». «Ma noi, –
replica stizzita, – non siamo un ente di beneficenza. Facciamo quel
che facciamo perché l’imprenditoria femminile dà risultati economici
di prim’ordine».
I dati confermano la sua tesi. Stando a un rapporto pubblicato nel
2018 dal Boston Consulting Group, le aziende gestite da donne
ricevono investimenti per un valore pari a meno della metà di quelli
erogati agli uomini, ma fruttano piú del doppio in termini di ricavi 9.
Per ogni dollaro di finanziamento, le start up femminili generano
settantotto centesimi di utile contro i trentuno di quelle fondate da
uomini. Ed è un vantaggio che dura nel tempo, perché «nell’arco di
cinque anni generano un dieci per cento di reddito cumulativo in
piú».
Una delle possibili spiegazioni è che le donne sono «piú adatte
degli uomini a rivestire ruoli di leadership» 10: questa è la tesi
formulata da un gruppo di esperti di una scuola di amministrazione
aziendale norvegese, i quali hanno identificato i cinque tratti
fondamentali del buon leader: stabilità emotiva, estroversione,
apertura alle nuove esperienze, amabilità e scrupolosità. Le donne
batterebbero gli uomini in quattro delle cinque categorie. Ma un’altra
ipotesi altrettanto valida è che quando una donna riesce ad avere
successo come imprenditrice, la sua vittoria contribuisce a colmare
un vuoto di dati di genere: numerosi studi hanno dimostrato che le
imprese con una leadership composita sono anche le piú
innovative 11. È un fatto che le donne tendono per natura
all’innovazione, ma forse la ragione piú plausibile è che il contributo
di nuove prospettive aiuta le imprese a conoscere meglio la loro
clientela. E di certo la spinta all’innovazione è fortemente legata alla
riuscita finanziaria.
Nel campo dell’elettronica di consumo destinata alle donne, dice
la dottoressa Boler, l’innovazione è una merce molto rara. La poca
che c’è «si concentra sugli aspetti superficiali, estetici: quel certo
oggetto lo coloriamo di rosa, quell’altro lo facciamo somigliare a un
gioiello, e via dicendo: nessuno si domanda fino a che punto la
tecnologia possa risolvere i problemi veri delle donne». Il risultato
finale è una cronica stasi degli investimenti, con la conseguenza che
«il livello tecnologico delle apparecchiature mediche destinate alle
donne è fermo agli anni Ottanta».
Ho intervistato Tania Boler all’inizio del 2018, quando stava per
lanciare sul mercato il tiralatte di nuova concezione, e le sue prime
parole sono state un atto d’accusa verso i prodotti della concorrenza.
«In commercio si trova solo roba orribile, – mi ha detto a chiare
lettere. – Fanno male, sono rumorosi, difficili da usare. È umiliante».
Per un attimo ho rivisto mia cognata seduta sul divano di casa, nuda
dalla vita in su, con i seni collegati a una macchina, mentre io mi
arrabattavo per fare conversazione. «Non è che sia complicato da
capire», aggiunge Boler. L’idea che una madre possa estrarre il latte
e intanto fare qualcos’altro, invece di stare incatenata per ore e ore a
un attrezzo rumoroso, sembrerebbe «il minimo sindacale». Eppure,
va’ a sapere perché, non è venuta in mente a nessuno. Chiedo alla
mia interlocutrice come se lo spiega, e lei mi risponde che forse il
fatto di essere donna l’ha aiutata a vedere le cose in maniera
diversa. «A un certo punto mi sono chiesta: “Come donna, che cosa
potrei volere da un tiralatte?”»
Ma se per colmare il data gap su ciò che le donne vogliono basta
chiedere il loro parere, c’è un altro, piú grave data gap che riguarda il
corpo femminile. Il primo prodotto messo in commercio dalla
dottoressa Boler è stato un minuscolo attrezzo di nome Elvie Trainer,
la cui funzione consiste nel rafforzare il pavimento pelvico. L’ha
ideato, spiega, dopo essersi resa conto che l’indebolimento di quella
zona del perineo era «una specie di epidemia nascosta»: il
trentasette per cento della popolazione femminile soffre di disturbi di
varia entità legati alla cattiva salute del pavimento pelvico, e la
percentuale sale al cinquanta per cento tra le ultracinquantenni; il
dieci per cento delle donne necessita prima o poi di un intervento
chirurgico per risolvere la patologia.
«Tutto ciò mi sembra molto ingiusto, – dice la dottoressa Boler. –
È un grosso problema per molte donne, e preoccuparsene dovrebbe
essere un normale gesto di prevenzione come tanti altri». Ma per
fare prevenzione ci vogliono informazioni adeguate, e le
informazioni, semplicemente, non ci sono. «Stavamo pensando a un
prodotto da introdurre nella vagina, perciò cercavamo risposte a una
serie di domande fondamentali: che dimensioni può avere una
vagina, come cambia a seconda dell’età, dell’etnia, del numero di
gravidanze, eccetera. Insomma, cose normalissime. Ci siamo
trovate di fronte a un’assoluta mancanza di dati. […] Il cinquanta per
cento della popolazione mondiale possiede una vagina, eppure le
riviste mediche parlano pochissimo di quella parte anatomica. Tre
anni fa sono riuscita a trovare solo quattro articoli, tutti vecchi di
decenni». Uno dei quattro, per giunta, «era firmato da un tizio che
aveva fatto delle specie di calchi in gesso dell’interno della vagina ed
era giunto a catalogare quattro diverse conformazioni: a fungo, a
cono, a cuore…» La quarta non la sapremo mai, perché la
dottoressa Boler scoppia a ridere.
I problemi causati dalla perdita di elasticità del pavimento pelvico
si possono prevenire, e ci sono prove «molto solide» che
l’allenamento muscolare dia ottimi risultati. «È il primo intervento
difensivo, e in Gran Bretagna è contemplato nelle linee-guida
dell’Istituto nazionale di sanità». «Eppure gli ospedali non
investivano un centesimo sulle tecnologie d’intervento, – racconta la
dottoressa Boler. – Era tutto stravecchio, inaffidabile e non molto
efficace». Le attuali procedure chirurgiche basate sull’inserimento di
reti sintetiche sono state al centro di un grave scandalo nel Regno
Unito: centinaia di donne hanno sofferto per anni di dolori intensi e
debilitanti a seguito di un intervento che alcune di loro hanno definito
«una barbarie» 12. In Scozia c’è addirittura stata una vittima.
Anche Ida Tin, inventrice di un’app che segue l’andamento del
ciclo mestruale, racconta di aver avuto problemi molto simili fin da
quando ha deciso di cercare un’alternativa ai tradizionali metodi di
contraccezione. «Il ciclo mestruale è annoverato tra i segni vitali del
corpo umano, – mi spiega. – Come il battito cardiaco, il respiro, la
temperatura corporea. Insomma, è un forte indicatore dello stato di
salute di una donna». Eppure è anche «un tema gravato da tabú e
disinformazione». Quanto alla pianificazione familiare, Tin sostiene
che «dopo l’invenzione della pillola negli anni Cinquanta ci sono
state pochissime innovazioni. In termini di storia della tecnologia,
sessanta e piú anni sono un periodo lunghissimo».
Ida Tin ha creato Clue per le donne che vogliono «essere padrone
del proprio corpo e delle proprie vite», ma c’è anche una
motivazione piú personale. La pillola anticoncezionale, come spesso
accade, le aveva procurato molti effetti collaterali. «Non avevo mai
partorito, quindi la spirale non era indicata. Per quindici anni mi sono
affidata soltanto al preservativo». A un certo punto, non potendone
piú, Tin ha cominciato a consultare le banche dati dei brevetti, ma
«non si parlava d’altro se non di rimpinzare le donne di ormoni, – mi
spiega. – E mi sembrava un approccio molto lontano dai dati di
realtà. L’ho quasi preso come una provocazione. Mi sono detta:
“Possibile che nessuno ci abbia mai pensato sul serio? Eppure
sarebbe cosí importante per tutto il genere umano!”»
Prima di Clue esistevano due sole app di monitoraggio del ciclo
mestruale, «ma erano prodotti di prima generazione: in sostanza, dei
calendari che contavano fino a ventotto. Come se la nostra biologia
fosse una faccenda tanto semplice!» Dopo dieci anni di lavoro nel
settore, Ida Tin sostiene che il sapere scientifico sia ancora molto
lacunoso. «C’è un’enorme carenza di dati», spiega. Il ciclo mestruale
è un argomento «assai poco considerato, tanto da far pensare a una
deliberata volontà di tenersene lontani. Noi lavoriamo moltissimo con
gli istituti di ricerca, proprio perché nel sapere accademico ci sono
parecchi punti oscuri. Per esempio, quali sono le caratteristiche
normali del flusso mestruale di un’adolescente? È uno dei temi che
stiamo esplorando in collaborazione con l’università di Stanford. La
scienza non ha neppure idea di quale sia la norma».
Poiché il mondo del venture capital ha una forte predominanza
maschile, quando si tratta di investire in tecnologie destinate alle
donne l’assenza di dati di genere diventa un grave ostacolo. «Se
non hai argomenti piú che solidi, – spiega Tin, – è difficile convincere
le persone dell’esistenza di un problema che loro, direttamente, non
dovranno mai affrontare». La dottoressa Boler si dichiara d’accordo.
«Alcuni degli investitori con cui abbiamo parlato [di Evie] ci hanno
detto che non gli sembrava un’idea interessante».
L’altro problema che le donne incontrano nella ricerca di investitori
è la cosiddetta pattern recognition 13, concetto imparentato a quello
di «aderenza culturale»: entrambi sembrano fondarsi su dati
oggettivi, ma chiamare in causa il «riconoscimento dei modelli» è
solo un modo altisonante di rifarsi a qualcosa-che-somiglia-a-
qualcos’altro-che-ha-funzionato-in-passato, dove «qualcosa»
potrebbe anche essere un maschio-bianco-che-ha-mollato-la-
Harvard-e-indossa-felpe-col-cappuccio. Dico sul serio: tempo fa
sono uscita con un tipo che lavorava in una start up, e quando mi
spiegava come si fa a raccogliere finanziamenti citava proprio
questo tipo di uniforme. La pattern recognition associata alle felpe
col cappuccio è una realtà. E l’importanza che si attribuisce
all’individuazione di un modello tipicamente maschile è rafforzata dal
luogo comune per cui la tecnologia è un campo dove il «genio» (dote
che, come abbiamo visto, si considera specifica dei maschi) 14 è piú
importante dello sgobbare duro (il che spiega la venerazione per
chiunque abbia interrotto gli studi alla Harvard University).
Sembra il tipico paradosso alla Comma 22. In un settore che vede
le donne svantaggiate per il fatto di essere donne (e dunque
incapaci di adattarsi a uno specifico «modello» maschile), la
conoscenza dei dati diventa cruciale. E invece sono proprio le
imprenditrici a rischiare di avere meno dati, perché con tutta
probabilità vorranno sviluppare prodotti destinati alle donne. Sulle
quali sappiamo meno di quanto dovremmo.
Nonostante tutto, alcune riescono a farcela. Ida Tin e Tania Boler
hanno ottenuto i finanziamenti (in parte anche dalla AllBright di
Debbie Wosskow, nel caso di Boler). Ora, finalmente, i dati
cominciano ad arrivare. Prima di lanciare il suo allenatore del
pavimento pelvico, Chiaro l’ha fatto provare a piú di centocinquanta
donne. «Ma adesso, – dice Boler, – abbiamo informazioni su piú di
un milione di sessioni di allenamento e un gran numero di dati sullo
stato di salute del perineo, che prima non avevamo. Questo, –
aggiunge, – è il bello delle tecnologie indossabili: aiutano a saperne
di piú sul proprio organismo, e di conseguenza a prendere decisioni
informate».

Non tutte le nuove tecnologie, indossabili o meno, aiutano le


donne a conoscere meglio il proprio corpo. Nel mondo dell’high-tech,
il presupposto implicito per cui il maschio è la norma del genere
umano la fa ancora da padrone. Nel 2014, quando la Apple
annunciò con grande clamore la sua app per la salute e il benessere
fisico, disse che era in grado di tracciare «un quadro completo» dei
parametri di salute 15. Che registrava la pressione del sangue, il
numero di passi, il tasso alcolemico; persino le quantità di molibdeno
(non lo sapevate? Neanch’io) e rame presenti nell’organismo.
Peccato che si fossero dimenticati di aggiungere una funzione di
monitoraggio del ciclo mestruale 16.
Apple aveva già commesso in precedenza l’errore di trascurare il
cinquanta per cento del suo mercato potenziale. La prima versione
di Siri, l’assistente digitale presente nei suoi dispositivi, era in grado
di trovare prostitute e venditori di Viagra, ma non cliniche per
praticare un aborto 17. Poteva essere d’aiuto in caso di infarto, ma se
le dicevi di essere stata violentata rispondeva: «Non capisco che
cosa intendi con “mi hanno violentata”» 18. Sono errori clamorosi,
che di certo sarebbero stati evitati da una squadra di informatici con
una maggiore presenza femminile – cioè una squadra di informatici
immune dal gender data gap.
Di prodotti tecnologici commercializzati come «unisex» ma in
realtà fatti a misura d’uomo è pieno il mondo. Dagli smartwatch
troppo grandi per il polso femminile 19 ai navigatori che sanno
indicarti il percorso piú breve ma non quello «piú sicuro», fino alle
app per misurare le prestazioni sessuali chiamate iThrust 20 e
iBang 21 (sí, avete capito bene: il sottinteso è che il buon sesso sia
tutta questione di spinte e stantuffate), gli esempi non mancano di
certo. E vogliamo parlare dei visori per la realtà virtuale troppo
grandi per la circonferenza media di una testa femminile? Del
giubbotto tattile che si adatta perfettamente al tronco maschile ma
che una donna potrebbe usare «solo infilandoci sotto una giacca a
vento bella spessa»? Degli occhiali per la realtà aumentata con le
lenti talmente distanti fra loro che una donna non riesce a mettere a
fuoco l’immagine, o con enormi montature che «scivolano dalla
faccia»? C’è poi un ultimo esempio, tratto dalla mia esperienza di
conferenziera e ospite di alcuni programmi televisivi: i trasmettitori
dei radiomicrofoni che vanno agganciati a una cintura o infilati in una
tasca capiente. Volevate mettervi un vestito? Scordatevelo.
Il maschile per default domina anche le tecnologie per lo sport, a
cominciare dalla piú rudimentale: il contatore delle calorie che
consumate sul tapis roulant non ci azzecca mai, ma è comunque piú
preciso per il solito maschio-tipo, dal momento che i suoi calcoli
sono basati sul peso medio di un uomo adulto. Tutti i macchinari da
palestra sono calibrati su un utilizzatore predefinito che pesa 69,8
chilogrammi: il parametro del peso si può modificare, ma il calcolo
sarà comunque basato sul consumo calorico di un maschio-tipo. Di
norma le donne hanno piú massa grassa degli uomini e meno
massa muscolare, nonché una diversa proporzione tra i vari tipi di
fibre muscolari: ecco perché, anche tenendo conto della differenza di
peso, un uomo brucerà in media circa l’otto per cento di calorie in piú
di una donna dello stesso peso. Ma il tapis roulant non ce lo dice.
Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, l’avvento delle
tecnologie indossabili non ha migliorato granché la situazione. Uno
studio su dodici dei piú comuni orologi e bracciali fitness ha
dimostrato che tutti sottostimavano il numero di passi compiuti nello
svolgimento dei lavori domestici fino al settantaquattro per cento (è il
caso dell’Omron, che invece aveva un margine di errore dell’un per
cento nella camminata o nella corsa) e fino al trentaquattro per cento
la quantità di calorie consumate, sempre con le faccende di casa 22.
Detto per inciso, i braccialetti come il Fitbit non tengono conto dei
passi fatti mentre ci si dedica a quella tipica attività femminile che è
lo spingere un passeggino (okay, d’accordo, anche gli uomini lo
fanno ogni tanto, ma meno spesso delle donne, perché a questo
mondo le donne svolgono il settantacinque per cento del lavoro di
cura non retribuito). Un altro studio che – pensate! – è riuscito a
coinvolgere un cinquanta per cento di soggetti femminili, ha reso
noto che i dispositivi fitness indossabili sovrastimano ampiamente il
consumo calorico 23. Peccato che non abbiano disaggregato i dati,
altrimenti si sarebbe potuto capire se c’erano differenze tra
utilizzatori maschi e femmine.
I produttori di tecnologie si dimenticano delle donne persino
quando potrebbero rappresentare la fetta piú ampia del loro
mercato. Negli Stati Uniti il cinquantanove per cento degli
ultrasessantacinquenni e il settantasei per cento delle persone che
vivono sole sono donne, il che fa supporre che la popolazione
femminile abbia un maggiore fabbisogno di ausili tecnologici come
dispositivi di rilevamento delle cadute 24. I dati dimostrano che le
donne non solo cadono piú frequentemente degli uomini, ma si
fanno anche piú male 25. Dall’analisi di un mese di interventi nei
pronto soccorso degli Stati Uniti è risultato che su 22 560 pazienti
che si erano presentati con traumi da caduta, il settantuno per cento
era donna. Per queste ultime l’incidenza delle fratture era 2,2 volte
maggiore, e il tasso di ospedalizzazione 1,8 volte superiore a quello
degli uomini 26.
Eppure, benché sia ragionevole supporre che le donne ne
abbiano piú bisogno (è stato dimostrato che cadono anche in modo
diverso dagli uomini, per ragioni diverse e in luoghi diversi), l’analisi
dei dati di genere è la grande assente nella progettazione di queste
tecnologie. Da una metanalisi dei cinquantatre studi incentrati sui
dispositivi di rilevamento delle cadute è risultato che solo una metà
delle ricerche indicava il sesso dei soggetti partecipanti, e nessuna
forniva dati disaggregati 27. In un altro documento si affermava
invece che «sebbene esista un’ampia letteratura sulle cadute nella
terza età, si sa ancora poco sulla specificità di genere dei fattori di
rischio» 28.
Dagli atti della conferenza sull’Intelligent Data Engineering e
l’apprendimento automatico del 2016 è risultato che «una delle
ragioni principali per cui la popolazione anziana rifiuta di utilizzare i
rilevatori di caduta ha a che vedere con le loro dimensioni», e che
una possibile soluzione poteva consistere nell’integrare quei
dispositivi all’interno degli smartphone 29. Ma non è certo la
soluzione ideale per le donne, che, come gli stessi autori fanno
notare, di solito tengono il cellulare nella borsa: «Posizione dalla
quale gli algoritmi sarebbero probabilmente incapaci di funzionare a
dovere, essendo allenati a riconoscere una caduta attraverso i
sensori di accelerazione in prossimità del torace».
Che gli autori del documento prendano atto dell’abitudine
femminile a tenere il telefono nella borsa è un fatto quanto mai
insolito. Whitney Erin Boesel, ricercatrice al Berkman Center for
Internet and Society dell’università Harvard, fa parte a pieno titolo
della comunità del quantified self, il cui obiettivo è raggiungere la
conoscenza di sé attraverso i numeri. Numeri che spesso vengono
raccolti grazie alle app di tracciamento passivo ormai presenti su
ogni telefono, a partire dai classici contapassi. Ma c’è un piccolo
problema, o meglio un problema tascabile: «A tutte le conferenze
capita che qualcuno se ne venga fuori dicendo che abbiamo sempre
il telefono in tasca, – ha raccontato Boesel alla rivista “The
Atlantic” 30. – Al che io mi alzo e gli faccio: “Scusa, a proposito di
quello che hai detto, che avremmo sempre il telefono in tasca. Ecco,
guarda: questo è il mio telefono. E questi sono i miei pantaloni”».
Il moltiplicarsi delle app di tracciamento passivo che
funzionerebbero a meraviglia se solo le donne avessero tasche
abbastanza grandi per farci stare il telefono è un annoso problema
che avrebbe una soluzione semplicissima: basterebbe produrre abiti
da donna con tasche degne di questo nome (scrisse l’autrice del
saggio, pestando furiosamente sui tasti del computer dopo che il
cellulare caduto dalla tasca si era schiantato sul pavimento per la
centesima volta). Nel frattempo, però, le donne cercano di risolvere
la questione a modo loro, e se gli sviluppatori di prodotti tecnologici
non se ne renderanno conto rischiano di non poter piú sviluppare un
bel niente.
Qualche anno fa un’azienda tecnologica di Città del Capo è
caduta in questa trappola con un suo nuovo prodotto,
un’applicazione che avrebbe dovuto aiutare gli operatori sanitari a
seguire sul territorio i pazienti sieropositivi. L’app «soddisfaceva tutti i
requisiti di usabilità, era facile da far funzionare, si adattava alle
lingue locali» e risolveva un problema molto specifico. Anche gli
operatori «non vedevano l’ora di sperimentarla» 31. Ma una volta
inaugurato, il servizio si rivelò un fiasco. Malgrado i diversi tentativi,
nessuno riusciva a capire che cosa fosse andato storto; alla fine il
progetto venne acquisito da un nuovo gruppo di sviluppatori. Un
gruppo che, guarda caso, aveva al suo interno una donna. E quella
donna «ci mise appena un giorno a scovare il problema»: pare che
per evitare seccature durante le visite nelle township in cui abitavano
i loro pazienti, le operatrici sanitarie fossero solite nascondere gli
oggetti di valore dentro la biancheria. E i telefoni, essendo troppo
grandi, non stavano dentro il reggiseno.
Il genere determina le domande che ci poniamo, dice Margaret
Mitchell, responsabile del settore ricerca di Google. Il fatto che i
progettisti dell’intelligenza artificiale appartengano a un unico sesso
pone le aziende «in una condizione di miopia» 32. Gayna Williams,
ex direttrice del settore user experience di Microsoft, è dello stesso
parere 33. In un articolo intitolato Are You Sure Your Software Is
Gender-Neutral?, Williams spiega che ogni progetto inizia
dall’identificazione dei problemi che si vogliono risolvere. Ed è tutta
una questione di prospettiva: per esempio, quale problema volevano
risolvere gli scienziati della Nasa che hanno dato a Valkyrie, il robot
da esplorazione spaziale, un corpo munito di seni? 34
Quanto ai «sexy robot», è chiaro che gli umanoidi pensati per
sostituire gli esseri umani nel sesso evidenziano un problema che ci
riguarda tutti, ma che forse gli uomini non riusciranno a risolvere
senza l’apporto femminile. Nell’aprile del 2018, dopo che Alek
Minassian aveva ucciso dieci persone a Toronto investendole con un
furgone preso a noleggio per «vendicarsi» delle donne che gli
negavano le relazioni sessuali a cui pensava di avere diritto, il «New
York Times» pubblicò un articolo di commento in cui si sosteneva
che i robot avrebbero potuto risolvere il problema degli uomini che
non riescono a convincere le donne ad andare a letto con loro.
Secondo una prospettiva femminista, invece, la prima cosa da fare
sarebbe mettere in discussione il principio secondo cui i maschi
hanno diritto al sesso.
Tornando alle tecnologie destinate alle nostre tasche (ebbene sí,
non ho ancora perso le speranze) la questione fondamentale è chi
prende le decisioni. E come il mondo dei capitali di rischio, anche
l’industria delle tecnologie è in mano agli uomini. «Un mare di
uomini», dice Margaret Mitchell 35. Negli ultimi cinque anni, racconta,
ha lavorato con «centinaia» di uomini e non piú di dieci donne. Negli
Stati Uniti, le donne rappresentano il ventisei per cento della forza
lavoro nel comparto dell’informatica professionale, mentre il dato
generale relativo a tutti i settori produttivi vede una presenza
femminile del cinquantasette per cento 36. Nel Regno Unito le donne
hanno il quattordici per cento dei posti di lavoro nella macroarea
Stem, che comprende scienza, tecnologia, ingegneria e discipline
matematiche 37.
Oltre a una pletora di «sexy robot», il mare di maschi sforna
prodotti come «l’enorme prototipo chiamato PR 2», che l’informatica
Tessa Lau ha avuto il piacere di conoscere quando lavorava per il
laboratorio di ricerca robotica Willow Garage. Un enorme robot che
pesava piú di duecento chili e aveva due braccia lunghissime.
«Davvero spaventoso, – dice Tessa Lau. – Non vorrei mai un coso
del genere in casa mia: e se non fosse controllato a dovere?» Anche
l’esperta di robotica Angelica Lim mi ha raccontato un’esperienza
simile a proposito di un automa visto a una conferenza in Slovenia.
Un androide (1,73 di statura, cioè dieci centimetri in piú della media
delle americane) che veniva a stringere la mano di chi gli faceva
cenno: ma vedendolo voltarsi lentamente verso di lei, stendere il
braccio in avanti e avvicinarsi «a rotta di collo», Lim ha avuto una
reazione istintiva e si è tirata indietro strillando.
Per fortuna c’è anche qualche esempio positivo, come il visore
per la realtà virtuale collaudato dalla giornalista Adi Robertson 38.
Avrebbe dovuto seguire i suoi movimenti oculari, ma non funzionava;
poi, a un certo punto, un dipendente dell’azienda costruttrice le ha
chiesto se per caso aveva il mascara. «Qualche minuto dopo era
stato ricalibrato e funzionava a meraviglia, ma la cosa sorprendente
non era questa: era il fatto che qualcuno avesse pensato al mascara
come a un possibile errore da individuare e correggere. Segnalo di
sfuggita, – aggiunge Robertson, – che era l’unica start up della realtà
virtuale nata per iniziativa di una donna».

Ma le donne che fondano start up nel campo della realtà virtuale


sono ancora poche, ed è per questo che l’esperienza della realtà
virtuale si caratterizza spesso per una sorta di innata propensione al
maschile. Come gran parte del mondo online, il settore dei giochi in
realtà virtuale sembra avere un grosso problema di molestie
sessuali, di cui quasi tutti gli sviluppatori (essendo maschi) non si
rendono conto 39.
Jordan Belamire, gamer e sviluppatrice di videogiochi, ha avuto
una brutta esperienza mentre giocava in modalità multiplayer una
sessione di QuiVr: è stata aggredita sessualmente da un altro utente
che si faceva chiamare BigBro442 40. Si chiama «virtuale», quindi
non è realtà; eppure le somiglia, e cosí è parso anche a Jordan
Belamire. È fatta apposta per sembrare vera, e può ingannarci a tal
punto che da qualche tempo se ne sperimenta l’uso nella terapia dei
disordini da stress postraumatico, delle fobie, e persino delle
sindromi da arto fantasma 41.
Ai creatori di QuiVr va tuttavia reso il merito di aver reagito bene
alle rimostranze di Belamire 42: hanno subito riprogettato la modalità
«bolla personale» affinché, in caso di contatto troppo ravvicinato,
non solo le mani ma l’intero corpo dell’altro giocatore diventino
invisibili, escludendo ogni sorta di palpeggiamento. La possibilità
«che un giocatore un po’ sciocco tentasse di coprire gli occhi a un
altro giocatore per dargli fastidio» gli era venuta in mente, ma non
avevano pensato di estendere la funzione «trasparenza» anche al
resto del corpo. «Come abbiamo potuto, – si sono chiesti, – lasciarci
sfuggire una cosa cosí evidente?»
Be’, siamo onesti: non è stato difficile. È chiaro che Henry
Jackson e Jonathan Schenker, gli sviluppatori di QuiVr, sono due
brave persone che non avevano la minima intenzione di discriminare
le donne. Ma è di nuovo la stessa dinamica che abbiamo già visto
all’opera con Sergey Brin e il parcheggio per le gestanti: neppure i
migliori tra gli uomini riescono a immaginare che effetto faccia
portarsi appresso per il mondo un corpo che alcuni considerano un
parco divertimenti gratuito. Non è una condizione con cui Jackson e
Schenker debbano convivere regolarmente: è per questo che non ci
sembra affatto strano che si siano lasciati sfuggire «una cosa cosí
evidente».
La violenza maschile non è l’unico fattore che allontana le donne
dalla realtà virtuale. Dai visori troppo grandi alla ben maggiore
sensibilità delle donne alla chinetosi da videogiochi 43, fino al fatto
che gli uomini riescono a orientarsi meglio nello spazio 44 anche su
schermi di ampiezza ridotta, tutto contribuisce al risultato finale:
un’altra piattaforma che non funziona bene per le donne – e che
poche di loro frequenteranno.
Non sappiamo di preciso perché le donne soffrano cosí tanto di
chinetosi quando giocano in realtà virtuale, tuttavia danah boyd
ricercatrice di Microsoft, ha studiato il problema e individuato una
possibile spiegazione 45. L’occhio umano percepisce la profondità
attraverso due indizi: la parallasse di movimento e la forma
dall’ombreggiatura. La parallasse di movimento fa sí che un oggetto
ci sembri piú o meno grande a seconda della distanza dal nostro
occhio, mentre la forma dall’ombreggiatura ci fa intuire la forma di un
oggetto a seconda dei movimenti delle ombre. La realtà virtuale in 3D
riesce abbastanza bene a riprodurre la parallasse di movimento, ma
quando si tratta di ricostruire la forma dall’ombreggiatura lascia
ancora molto a desiderare.
È questa discrepanza a far sí che la realtà virtuale funzioni in
modo diverso per i due sessi: secondo danah boyd, gli uomini hanno
«una probabilità significativamente maggiore» di percepire la
profondità attraverso la parallasse di movimento, mentre le donne si
affidano alla forma dall’ombreggiatura. In sostanza, gli ambienti
tridimensionali emettono segnali informativi che tornano a vantaggio
del modo maschile di percepire la profondità. La domanda è: se fin
dall’inizio avessimo sperimentato la realtà virtuale in 3D su uomini e
donne, saremmo ancora cosí indietro nell’emulazione della forma
dall’ombreggiatura?
Tom Stoffregen, professore di Chinesiologia all’università del
Minnesota, ha tutta un’altra teoria sulla maggiore frequenza della
chinetosi nelle donne. Le ipotesi classiche, sostiene, «si concentrano
quasi esclusivamente sulla stimolazione sensoriale». In pratica, ciò
che si sente con l’orecchio interno non corrisponde a ciò che gli
occhi vedono. «Questo è vero, – ammette Stoffregen, – ma non è
l’unica discrepanza. La discrepanza importante, che le teorie
tradizionali non considerano, riguarda ciò che si deve fare per
controllare il corpo».
Durante il giorno, il nostro corpo compie continui
microaggiustamenti per tenerci in equilibrio: quando siamo in piedi, o
seduti, quando camminiamo. Ma se l’ambiente è in movimento (se
siamo a bordo di un’automobile, per esempio, o di una nave) il
nostro corpo viene destabilizzato, e per conservare l’equilibrio si
comporta in modo diverso. In quelle situazioni, dice Stoffregen, «ci
viene chiesto di muoverci in un modo che il nostro corpo non ha
ancora imparato a fare». Come le automobili e le navi, anche la
realtà virtuale destabilizza il corpo, e quindi genera la chinetosi.
Per il momento l’industria della realtà virtuale non mi è parsa
molto interessata alle teorie di Stoffregen. «Hanno colto l’importanza
del problema», dice il professore, ma tentano di risolverlo andando
nella direzione sbagliata. «Chi progetta la realtà virtuale pensa che
vada percepita soltanto con gli occhi, e l’idea che c’entri anche
qualcos’altro gli sembra inconcepibile». E invece gli sviluppatori di
realtà virtuale dovrebbero rendersi conto che «non stanno solo
piazzando degli schermi davanti alla gente. Che gli piaccia o no; che
lo sappiano a no».
Un’altra cosa che gli sviluppatori dovrebbero fare è cominciare a
raccogliere dati in maniera sistematica, disaggregandoli per sesso.
«I dati sulla chinetosi da realtà virtuale provengono in gran parte da
descrizioni di casi isolati, – spiega Stoffregen, – fornite da persone
che lavorano in quelle aziende e usano i software, o li provano alle
conferenze e via dicendo. Dunque non sono sistematici, e nella
maggior parte dei casi stiamo parlando di uomini».
Tra gli aspetti piú convincenti della teoria di Stoffregen c’è il fatto
che riesca finalmente a spiegare perché io soffra sempre di mal
d’auto, tranne quando sto guidando: è un problema di controllo.
Nella camminata, siamo noi a controllare i movimenti; sappiamo che
cosa ci aspetta. A bordo di una nave o di un’automobile, il controllo è
nelle mani di qualcun altro, a meno che non siamo noi stessi a
guidarla. «Il pilota può prevedere il movimento dell’auto, e quindi
stabilizzarsi con una modalità che potremmo definire predittiva; il
passeggero, al contrario, non può sapere in maniera
quantitativamente dettagliata ciò che l’auto sta per fare. Quindi per
stabilizzarsi dovrà compensare i movimenti del mezzo, ed è ovvio
che il controllo predittivo sia meglio di quello compensativo. È una
cosa risaputa, non c’è bisogno di aver vinto il Nobel».
Ma dov’è che entra in gioco la differenza tra i sessi? «Chiunque
abbia studiato la chinetosi sa che le donne sono sempre e
comunque piú sensibili degli uomini, – dice Stoffregen. – Anche
questo è un dato di fatto». Ma quasi nessuno, lui compreso, aveva
mai indagato o cercato di capire perché. Tanto per cambiare.
Nel 2010, però, Tom Stoffregen ha fatto una scoperta. «Stavo
scartabellando un po’ a caso la letteratura sull’argomento, e mi sono
imbattuto in una serie di risultati che non conoscevo»: dimostravano
che c’erano delle differenze nei movimenti compensativi del corpo.
«Differenze lievissime, che non si vedono a occhio nudo, ma se si fa
attenzione alle grandezze minime si nota che il corpo maschile e
quello femminile oscillano avanti e indietro in modi diversi. Appena
sono venuto a saperlo, cioè nello stesso preciso momento, ho
pensato: “Be’, adesso ho qualcosa da dire in proposito”. Perché il
punto chiave della mia teoria sulla chinetosi è che è legata al
controllo del corpo». In seguito Stoffregen ha anche potuto
dimostrare che «le oscillazioni posturali della donna cambiano con le
fasi del ciclo mestruale». E questo è significativo, perché vuol dire
che «la sensibilità femminile alla chinetosi varia nell’arco di ventotto
giorni. C’è un legame tra le due cose, che ci crediate o no».
Resta comunque un vuoto di dati di genere: non sappiamo ancora
come e quando si verifichino i cambiamenti periodici delle
oscillazioni posturali. Personalmente, in quanto donna che soffre
moltissimo il mal d’auto, provo entusiasmo e rabbia al tempo stesso
per le scoperte di Stoffregen, soprattutto perché si collegano a
un’altra assenza di dati di genere che sto esplorando da un po’: il
design delle automobili.
Il corpo ondeggia anche quando siamo seduti. «Se ti siedi su uno
sgabello, il moto oscillatorio avviene all’altezza del bacino, – spiega
Stoffregen. – Se la sedia ha uno schienale, allora è la testa a
oscillare sul collo. L’unica soluzione sarebbe avere un poggiatesta e
usarlo». Appena sentita questa spiegazione mi si è accesa la
classica lampadina da personaggio dei cartoni animati. E se il
poggiatesta non è all’altezza giusta? Se l’angolazione e la forma non
corrispondono al corpo di chi lo usa? La predisposizione femminile
alla chinetosi potrebbe essere esasperata dalla tendenza a
progettare le automobili in funzione del corpo maschile? «Certo, può
darsi, – mi ha risposto Stoffregen. – La qualità della stabilizzazione è
importante, e se ci fosse qualcosa di sbagliato, per esempio
l’altezza… Mi stai dicendo una cosa nuova, ma direi che è del tutto
plausibile».
Ed è qui che si incappa nell’ennesimo data gap: sembra che
nessuno abbia mai fatto ricerche sulla compatibilità dei poggiatesta
con il corpo femminile. Non che la cosa mi sorprenda, in realtà: il
design automobilistico ha una lunga e disonorevole tradizione di
noncuranza verso le donne.
Gli uomini hanno piú probabilità di essere coinvolti in un incidente
d’auto, ed è per questo che le statistiche sugli infortuni gravi
registrano una forte presenza maschile. Ma quando a bordo c’è una
donna, rispetto a un uomo quest’ultima ha il quarantasette per cento
di probabilità in piú di uscirne gravemente ferita, e il settantuno per
cento di probabilità in piú di riportare ferite meno gravi 46, anche
tenendo conto di fattori come altezza, peso corporeo, utilizzo delle
cinture di sicurezza e violenza dello scontro 47. Anche il rischio di
morte è maggiore del diciassette per cento per le donne 48. E tutto
ciò dipende da come (e per chi) sono progettate le automobili.
Quando guidano, le donne tendono a sedersi in posizione piú
avanzata perché in media sono piú basse degli uomini. Abbiamo
bisogno di stare piú vicine per poter arrivare ai pedali, e ci sediamo
con la schiena ben dritta per vedere al di là del cruscotto 49. Questa
però non si può considerare una posizione «standard». Dal punto di
vista della postura, cioè, le donne sono guidatrici «anomale» 50. In
caso di scontro frontale la nostra capricciosa anomalia comporta un
rischio piú elevato di subire lesioni interne 51. Se ancora non
bastasse, l’angolazione delle ginocchia e dei femori mette in pericolo
l’integrità delle nostre gambe 52. In due parole, stiamo sbagliando
tutto.
Le donne rischiano di piú anche in caso di tamponamento. Poiché
la muscolatura del collo e della parte superiore del tronco è meno
sviluppata, siamo piú vulnerabili ai colpi di frusta (fino a tre volte di
piú) 53, e il design delle auto non fa che accentuare la nostra fragilità.
Una squadra di ricercatori svedesi ha dimostrato che oggi i sedili
delle automobili sono troppo compatti. Non cedono sotto il peso di
un corpo femminile, perciò quello stesso corpo verrà spinto con
violenza in avanti a seguito dell’urto, e il contraccolpo sul tratto
cervicale della colonna sarà maggiore 54. Tutto ciò per una
semplicissima ragione: le industrie costruttrici di automobili usano,
nelle loro prove d’urto, manichini con caratteristiche simili a quelle di
un maschio «medio».
L’impiego dei fantocci nella simulazione degli incidenti d’auto ha
avuto inizio negli anni Cinquanta, e per decenni si sono usati
simulacri umani con misure e peso corrispondenti a quelli di un
maschio del cinquantesimo percentile. Il modello piú usato ha una
statura di 1,77 metri e pesa settantasei chili, dunque è molto piú alto
e pesante di una donna di proporzioni medie; anche la distribuzione
della massa muscolare e le caratteristiche della spina dorsale sono
tipicamente maschili. Intorno ai primi anni Ottanta i ricercatori hanno
consigliato di effettuare prove d’urto anche con manichini
corrispondenti a una donna del cinquantesimo percentile, ma
nessuno gli ha dato retta 55 fino al 2011, quando un laboratorio
statunitense ha impiegato in un test il primo fantoccio femmina 56;
anche se, come vedremo, sulla sua «femminilità» c’è parecchio da
discutere.
Nel 2018 Astrid Linder, responsabile dell’ufficio sicurezza presso
l’Istituto svedese di ricerca sulle strade e i trasporti, ha presentato a
una conferenza mondiale del settore un rapporto sulle normative
europee in materia di prove d’urto 57. Prima di essere
commercializzata nell’Unione europea, un’automobile deve superare
cinque prove: un collaudo delle cinture di sicurezza, due prove di
collisione frontale e due di collisione laterale. In nessuna di queste
prove è richiesto l’utilizzo di un manichino con misure
antropometriche femminili. La normativa impone invece l’uso di un
fantoccio con misure corrispondenti a quelle di un maschio del
cinquantesimo percentile nel collaudo delle cinture di sicurezza e in
tre delle quattro prove di collisione: una delle due frontali ed
entrambe le laterali. Facendo un confronto con le normative di altri
Paesi, Linder ha poi accertato che malgrado le «numerose
differenze a livello locale», il manichino maschio del cinquantesimo
percentile è ancora ampiamente usato «in rappresentanza dell’intera
popolazione adulta».
C’è in effetti un test nel quale è richiesto l’impiego di un manichino
femmina del quinto percentile: solo il cinque per cento delle donne
avrà una statura inferiore a quel manichino. È un passo avanti, ma
non basta a colmare tutte le lacune. Innanzitutto il manichino
femmina viene sempre collocato sul sedile del passeggero, quindi
non c’è modo di stabilire che cosa succede a una donna che guida: il
che, sapendo ciò che sappiamo sulla postura «anomala» di molte
conducenti, è piuttosto bizzarro. In secondo luogo, quel manichino
non è davvero femmina: è solo un maschio di dimensioni piú
contenute.
I test effettuati per i consumatori sono un po’ piú severi. Un
rappresentante di Euro NCAP , l’ente europeo che stila le graduatorie
di sicurezza delle automobili, mi ha reso noto che dal 2015 il loro
programma si serve di manichini maschi e femmine in tutte le prove
d’urto, sia frontali che laterali, e che le misure antropometriche dei
fantocci femmina corrispondono alla realtà – «laddove i dati siano
disponibili», precisa con una certa cautela. E proprio qui sta il
problema, secondo Astrid Linder: «A quanto ne so, i dati di cui si è
tenuto conto nella costruzione dei manichini sono pochissimi, o
addirittura nessuno». Del resto lo stesso Euro NCAP ammette di
ricorrere «talvolta» ai maschi di piccole dimensioni: tuttavia, come
vedremo piú diffusamente nel prossimo capitolo, le donne non sono
maschi in miniatura. La nostra massa muscolare è distribuita in
modo diverso; le nostre ossa sono meno dense; anche gli spazi tra
le vertebre sono diversi. Come Stoffregen ci ha fatto notare, persino
le oscillazioni posturali sono diverse. E ognuna di queste differenze
diventa cruciale quando si tratta di infortuni automobilistici.
Le cose vanno addirittura peggio per le donne incinte. Il
manichino di una donna in gravidanza esiste già dal 1996, ma il suo
uso nelle prove d’urto non è obbligatorio né in Europa né negli Stati
Uniti 58. Ecco perché non è stata ancora inventata una cintura di
sicurezza che funzioni anche per le gestanti, sebbene gli incidenti
d’auto siano la principale causa di morte fetale a seguito di un
trauma materno 59. Una ricerca del 2004 afferma che le gestanti
possono utilizzare le normali cinture di sicurezza 60, ma a quanto
pare i modelli standard non sono compatibili con il sessantadue per
cento delle donne dopo il terzo mese di gravidanza 61. Se la pancia
sporge verso il basso le cinture di sicurezza a tre punti sono spesso
allacciate facendole passare al di sopra: secondo uno studio del
1996, in caso di incidente la forza dell’urto potrebbe trasmettersi
all’addome con un’intensità tripla o quadrupla rispetto ai casi in cui la
cintura passa sotto l’utero, e ciò «aumenta in misura corrispondente
il rischio di lesioni fetali» 62. Per di piú sembra che le comuni cinture
di sicurezza non siano molto indicate per le donne in generale,
incinte o no: per evitare che diano fastidio al seno, infatti, molte di
noi finiscono per indossarle «in modo improprio», cosa che ancora
una volta aumenta il rischio di subire infortuni: un motivo in piú per
raccomandare l’uso di manichini con autentiche caratteristiche
femminili in luogo dei soliti maschi in formato ridotto 63. Durante la
gravidanza, poi, non è solo la pancia a cambiare forma: i mutamenti
interessano anche il seno, e il conseguente diverso posizionamento
delle cinture potrebbe renderle meno efficaci. Anche in questo
ambito, dunque, i dati ci sono ma vengono ignorati. Sarebbe invece
il caso di ripensare completamente la progettazione delle nostre
auto, basandoci su informazioni piú accurate: in fondo non
dev’essere cosí difficile trovare delle donne disponibili a fare da
modello per un manichino.
Malgrado tutte le lacune sul fronte dei dati, l’introduzione di un
manichino femmina nelle prove d’urto effettuate negli Stati Uniti a
partire dal 2011 ha fatto precipitare i giudizi di qualità delle auto. Il
«Washington Post» ha riferito l’esperienza della famiglia di Beth
Milito, che nel 2011 aveva scelto di acquistare una Toyota Sienna
proprio perché premiata da quattro stelle in sicurezza 64. Peccato
che il sedile del passeggero, cioè quello utilizzato da Beth quando
«andavano in giro con tutta la famiglia», avesse un punteggio di due
sole stelle. In effetti l’auto dello stesso modello prodotta l’anno
precedente si era aggiudicata cinque stelle anche per il sedile del
passeggero, ma la prova d’urto era stata effettuata con un manichino
maschio. L’anno successivo, invece, l’impiego di un manichino
femmina aveva rivelato che in uno scontro frontale alla velocità di
cinquantacinque chilometri orari una donna seduta a fianco del
guidatore avrebbe avuto un rischio di infortunio grave compreso tra il
venti e il quaranta per cento: da qui il punteggio meno favorevole. Il
rischio medio di morte per quella classe di vetture, secondo il
«Washington Post», era del quindici per cento.
Il rapporto pubblicato nel 2015 dall’Insurance Institute for Highway
Safety (Iihs), l’istituto per le assicurazioni e la sicurezza stradale
degli Stati Uniti, aveva un titolo molto promettente: Improved Vehicle
Designs Bring down Death Rates (Le migliorie in fase progettuale
riducono la mortalità per incidenti stradali). Forse era stata introdotta
una nuova normativa in materia? Macché: la spiegazione era ben
nascosta nelle profondità del documento: «Le statistiche riguardano
solo la mortalità dei conducenti, poiché non sono disponibili dati sui
passeggeri». In pratica era un colossale gender data gap: quando un
uomo e una donna si trovano insieme a bordo di un’auto, di solito è
l’uomo a guidare 65, per cui non raccogliere dati sui passeggeri
significa grossomodo non raccogliere dati sulle donne.
L’esasperante ironia di tutto ciò è che la norma di genere per cui
l’uomo guida e la donna siede al posto del passeggero è cosí diffusa
che, come abbiamo visto, il manichino femmina viene sempre
collocato in quella posizione, mentre il maschio è sempre al volante.
Di conseguenza le statistiche sulla mortalità dei conducenti non ci
dicono nulla sugli effetti dell’introduzione del manichino femmina.
Per amor di precisione, il titolo di quel rapporto del 2015 avrebbe
dovuto essere Le migliorie in fase progettuale riducono la mortalità
per incidenti stradali al posto dove generalmente si siedono gli
uomini, ma dei tassi di mortalità al posto dove generalmente si
siedono le donne non sappiamo un bel niente, anche se è già stato
dimostrato che il loro rischio di morte è maggiore del diciassette per
cento. Bisogna ammettere che è molto meno entusiasmante.
Il dottor David Lawrence, responsabile della banca dati sulla
sicurezza stradale della SafetyLit Foundation, mi dice che «in
moltissimi Stati americani la qualità dei verbali della polizia è tale da
renderli, nel migliore dei casi, inutilizzabili ai fini di un’eventuale
statistica». Si raccolgono i dati di chi guida, ma degli altri passeggeri
si dice ben poco. Inoltre il lavoro di inserimento dei dati tratti dai
verbali della polizia è affidato a società appaltatrici che, a loro volta,
spesso affidano il lavoro ai detenuti. «I controlli sulla qualità dei dati
sono assai rari, e quando vengono fatti si ottengono risultati
insoddisfacenti. Pare ad esempio che la maggior parte dei veicoli
coinvolti negli incidenti d’auto avvenuti in Louisiana negli anni
Ottanta fosse guidata da uomini nati il 1º gennaio del 1950; le auto,
poi, erano quasi tutte modelli del 1960». In realtà erano solo le
impostazioni di default del programma, mai modificate da chi
registrava i dati: ma la realtà dei fatti è tutt’altra cosa.
Il problema, mi racconta Lawrence, è stato riscontrato in «molti
altri Stati», ma neppure in seguito la qualità dei dati è migliorata
perché «le procedure di caricamento sono rimaste immutate. Il
governo federale obbliga gli Stati a trasmettere le informazioni sui
verbali per incidenti stradali alla National Highway Traffic Safety
Administration (Nhtsa), ma non esiste un protocollo di qualità dei
dati, né si prevedono sanzioni per chi invia robaccia inutile.
Astrid Linder lavora da anni alla realizzazione di quello che sarà,
a suo dire, il primo manichino da prove d’urto in grado di
rappresentare con precisione il corpo femminile. Per ora c’è soltanto
un prototipo, ma Linder sta facendo pressioni affinché l’Unione
europea emani una legge che renda obbligatorio l’uso di manichini
con le corrette misure antropometriche. Tecnicamente l’obbligo
esisterebbe già: l’articolo 8 del Trattato sul funzionamento dell’Ue
dice infatti che: «Nelle sue azioni l’Unione mira ad eliminare le
ineguaglianze, nonché a promuovere la parità, tra uomini e
donne» 66. E siccome per le donne il rischio di infortuni gravi a
seguito di un incidente stradale è maggiore del quarantasette per
cento, è evidente che si sono dimenticati di eliminare
un’ineguaglianza bella grossa.
In un certo senso è difficile capire perché ancora oggi la legge
non imponga di effettuare prove d’urto con manichini che abbiano le
corrette caratteristiche femminili; tuttavia, poiché abbiamo constatato
che progettare oggetti senza considerare il corpo delle donne è
un’abitudine alquanto diffusa, quello dei manichini per le prove d’urto
è solo l’ennesimo caso, che in quanto tale non desta sorpresa. Dai
progetti di sviluppo agli smartphone, dalle tecnologie mediche ai
fornelli, la produzione di strumenti (materiali e immateriali) che non
tengono conto delle nostre esigenze è sterminata: ecco perché
spesso quegli strumenti ci tradiscono alla grande. E il loro tradimento
si ripercuote sulla nostra vita: ci rende piú povere, ci fa ammalare e
in certi casi addirittura ci uccide. Forse i progettisti sono convinti di
ideare oggetti destinati a tutti, ma in realtà lavorano in special modo
per gli uomini. È tempo che le donne diventino soggetti di design.
Parte quarta
Nello studio del medico
X.
Le medicine non funzionano

Michelle ha dovuto aspettare ben dodici anni per avere una


diagnosi. «Ho cominciato ad avere i primi sintomi a quattordici anni,
– mi racconta, – ma non sono mai andata dal dottore perché mi
vergognavo troppo». E cosí per due anni Michelle non racconta a
nessuno delle sue urgenti, frequenti e dolorose defecazioni, spesso
accompagnate da sanguinamento; finché una notte il dolore diventa
impossibile da nascondere. «Ero sdraiata in posizione fetale sul
pavimento del bagno e non riuscivo a muovermi. Ho avuto paura di
morire». Aveva sedici anni.
I genitori la portarono di corsa in ospedale. Il medico del pronto
soccorso le chiese (in presenza dei genitori) se per caso era incinta.
No, impossibile, spiegò Michelle: era vergine, e comunque i suoi
erano dolori intestinali. «Senza la minima spiegazione mi hanno
portata in un ambulatorio e mi hanno fatto appoggiare i piedi sopra
due staffe. Un secondo dopo avevo uno speculum grosso e freddo
dentro la vagina. Mi faceva troppo male, cosí ho strillato e mi sono
tirata su: l’infermiera mi ha fatta sdraiare e mi ha tenuta giú con la
forza mentre il dottore confermava che sí, in effetti non ero incinta».
Dopo un po’ la mandarono a casa «senza alcuna terapia, a parte
una specie di aspirina che costava uno sproposito», e le dissero di
stare a riposo per un giorno.
Nei dieci anni successivi Michelle chiese consiglio ad altri due
medici generici e a due gastroenterologi (maschi): tutti asserivano
che il suo era un problema di testa, che doveva controllare meglio
l’ansia e lo stress. Aveva ventisei anni quando una dottoressa le
fece fare la colonscopia che mise finalmente in luce la sua patologia
intestinale: la diagnosi parlava di sindrome da colon irritabile e di
colite ulcerosa. «Dopo tutto non era un problema di testa», scherza
Michelle. Ma il ritardo nella diagnosi e nella terapia la espone a un
rischio maggiore di cancro al colon.
È difficile leggere una testimonianza come questa e non sentirsi in
collera con i medici che non hanno assicurato a Michelle le cure di
cui aveva bisogno. Purtroppo non si tratta di casi isolati, di poche
«mele marce» da estirpare. Storie come quella di Michelle sono
frequenti in una sanità che discrimina sistematicamente le donne:
non le comprende, non le cura, non diagnostica le loro malattie.
Il problema comincia nelle aule universitarie. Per secoli e secoli si
è pensato che il corpo maschile e quello femminile differissero
soltanto per dimensioni e fisiologia riproduttiva: la scienza medica si
è concentrata su un’ipotetica «norma» maschile, etichettando come
«atipico» o persino «abnorme» tutto ciò che non rientrava in quei
parametri 1. I manuali di medicina abbondano di riferimenti
all’«individuo medio del peso di settanta chili» 2, come se quella
misura fosse valida per uomini e donne quando invece, come mi è
stato fatto notare da un medico, non è granché rappresentativa
nemmeno per gli uomini. Nei rari casi in cui si accenna alle donne, si
tende a presentarle come una sorta di deviazione dallo standard
umano. Agli studenti si insegnano la fisiologia e la fisiologia
femminile; l’anatomia e l’anatomia femminile. Come ha scritto la
psicologa sociale Carol Tavris nel suo saggio del 1992 The
Mismeasure of Woman, «Il corpo maschile è l’anatomia stessa» 3.
La propensione al maschile risale quanto meno ai tempi
dell’antica Grecia, giacché fu Aristotele a lanciare l’idea che la donna
fosse un «maschio dal corpo mutilato» (grazie, eh!) La donna era un
uomo «a rovescio»: le ovaie (nome che gli fu attribuito soltanto nel
XVII secolo) erano i testicoli femminili, l’utero era lo scroto femminile.
Il fatto che si trovassero dentro al corpo invece che fuori (come nei
normali esseri umani) dipendeva dalla carenza tipicamente
femminile di «calore vitale». Il corpo maschile era un ideale a cui le
donne non erano degne di arrivare.
Va da sé che al giorno d’oggi i medici non vedono piú nella donna
una specie di maschio mutilato, ma la rappresentazione del corpo
maschile come corpo umano per antonomasia resiste tuttora. Da
un’analisi condotta nel 2008 su una serie di libri di testo consigliati
dalle «piú prestigiose università europee, statunitensi e canadesi»
risultava che, su un totale di 16 329 illustrazioni, le «parti del corpo
neutre» raffigurate con immagini maschili erano tre volte piú
numerose delle raffigurazioni femminili 4. Sempre nel 2008,
un’indagine sui testi adottati nelle facoltà di Medicina dei Paesi Bassi
ha rilevato una carenza di informazioni esplicitamente riferite ai due
sessi anche laddove si affrontavano argomenti (la depressione, per
esempio, o gli effetti del consumo di alcol) in cui le differenze tra
uomini e donne sono note da tempo; inoltre i risultati dei test clinici
venivano presentati come validi per entrambi i sessi anche quando
le donne erano state escluse dallo studio 5. Le scarse difformità a cui
si faceva cenno erano «difficilmente rintracciabili attraverso gli indici
o dall’impianto generale dell’opera» ed erano comunque liquidate
con poche e vaghe parole: si diceva per esempio che «le
manifestazioni atipiche di dolore toracico sono piú frequenti nelle
donne». Come vedremo piú avanti, in caso di attacco di cuore solo
una donna su otto lamenta dolore al petto, che invece è un sintomo
tipicamente maschile: quindi la frase appena citata non è soltanto
vaga, ma anche inesatta 6.
Un paio d’anni fa sono entrata in una libreria del centro di Londra
che vanta un’imponente sezione medica per scoprire se nel
frattempo fosse cambiato qualcosa. Nessuna novità. Le copertine
dei manuali di «anatomia umana» erano ancora adornate da foto di
giovanotti muscolosi. Le illustrazioni di parti anatomiche comuni a
entrambi i sessi contenevano ancora irrilevanti membri maschili. Ho
visto cartelloni intitolati «L’apparato otorinolaringoiatrico», «Il sistema
nervoso», «Il sistema muscolare», «Il sistema vascolare e
l’addome», e in tutti era disegnato un uomo. A onor del vero, il
cartellone del sistema vascolare aveva un riquadro intitolato «La
pelvi femminile»: io e la mia pelvi abbiamo apprezzato la piccola
concessione.
L’assenza di dati di genere osservata nei libri di testo trova eco
nei programmi delle facoltà di Medicina. Una ricerca olandese del
2005 ha rilevato che le problematiche del sesso e del genere «non
erano affrontate con sistematicità dai piani di studio» 7. Da un’analisi
di Curr-MIT , il database di documentazione e gestione dei programmi
universitari, è risultato che soltanto nove delle novantacinque facoltà
di Medicina che immettevano dati nel sistema avevano un corso
dedicato alla salute femminile 8. Soltanto due di quei corsi (Ostetricia
e Ginecologia, rispettivamente nel secondo e terzo anno
accademico) erano obbligatori. Persino le descrizioni di alcune
patologie con alti tassi di morbosità e mortalità femminili mancavano
di informazioni specifiche per i due sessi. Dieci anni dopo, un’altra
analisi ha evidenziato che la presenza della medicina di sesso e di
genere nei programmi delle facoltà statunitensi era ancora «minima»
e «non sistematica», con gravi lacune soprattutto in relazione agli
approcci terapeutici differenziati e agli effetti delle sostanze
stupefacenti 9.
Sono lacune importanti perché, a differenza di quanto si è creduto
per millenni, in medicina le differenze di sesso contano parecchio.
Se ne riscontrano in ogni tessuto e apparato del corpo umano 10,
nonché nella «prevalenza, decorso e gravità» di quasi tutte le
patologie piú comuni 11. I meccanismi fondamentali del cuore sono
diversi 12, e diversa è persino la capacità polmonare 13, anche
quando i valori sono normalizzati per la statura: e forse questo ha
qualcosa a che fare con il fatto che, a parità di consumo di sigarette,
le donne hanno un rischio maggiore (tra il venti e il settanta per
cento in piú) di sviluppare il cancro 14.
Le malattie autoimmuni interessano l’otto per cento della
popolazione 15, ma le donne hanno probabilità tre volte maggiori di
esserne affette: di conseguenza l’ottanta per cento dei malati è
donna 16. Non sappiamo di preciso perché questo accada, ma alcuni
ricercatori ipotizzano che abbia a che vedere con la funzione
riproduttiva: in sostanza, le femmine della specie umana avrebbero
«sviluppato una risposta immunitaria particolarmente rapida ed
efficace per meglio proteggere feti e neonati» 17, solo che a volte
quel sistema reagisce in modo eccessivo e attacca l’organismo 18. Al
sistema immunitario viene anche ricondotto il fenomeno delle
risposte sesso-specifiche ai vaccini: le donne tendono a sviluppare
un numero maggiore di anticorpi e hanno reazioni avverse piú
frequenti e importanti 19; al punto che nel 2014 un’équipe di
ricercatori ha addirittura consigliato di produrre una versione
maschile e una femminile del vaccino antinfluenzale 20.
Le differenze di sesso si manifestano anche a livello cellulare: nei
biomarcatori sierici dell’autismo 21; nelle proteine 22; nelle cellule
immunitarie che trasmettono i segnali del dolore 23; nei meccanismi
di morte cellulare a seguito di un ictus 24. Uno studio recente ha
anche individuato differenze significative «nell’espressione di un
gene che svolge un ruolo importante nel metabolismo delle sostanze
stupefacenti» 25. Le difformità nella presentazione e negli esiti della
malattia di Parkinson, dell’ictus e dell’ischemia cerebrale sono già
state individuate fino a livello cellulare 26, e vi sono concreti indizi di
una diversità tra uomini e donne anche nell’invecchiamento dei vasi
sanguigni, «con inevitabili implicazioni sul piano della diagnosi e
cura delle relative patologie» 27. In un articolo pubblicato su
«Nature» nel 2013, la dottoressa Elizabeth Pollitzer esponeva i
risultati di una ricerca sui meccanismi di risposta allo stress cellulare
nei topi maschi e femmine, affermando che le cellule maschili e
femminili dell’uomo avessero «concentrazioni diversissime di molti
metaboliti», e che vi fossero «evidenze crescenti» del fatto che «le
cellule differiscono a seconda dei sessi, a prescindere dalla storia di
esposizione agli ormoni sessuali» 28.
Ci sono ancora enormi lacune, ma gli ultimi vent’anni di ricerche
hanno dimostrato senza ombra di dubbio che le donne non sono
soltanto uomini in formato ridotto: gli organismi maschili e femminili
differiscono persino a livello cellulare. E allora perché non lo
insegniamo nelle università?

L’inserimento dei contenuti sesso-specifici nei libri di testo


dipende come è ovvio dalle nostre conoscenze in materia, ma
poiché le donne sono rimaste perlopiú ai margini dalla ricerca
medica, quelle conoscenze sono alquanto lacunose. Persino le
nozioni fondamentali sulla differenziazione del sesso nei feti
risentono di un’assenza di dati: solo dal 1990 sappiamo che il
cromosoma Y è in grado di determinare il sesso, e pertanto il sesso
di default – ironia della sorte – è quello femminile. Il che tuttavia non
ha ridestato grande attenzione nei confronti delle donne; al contrario,
la ricerca si è orientata verso la differenziazione dei testicoli in
quanto processo «attivo», laddove lo sviluppo sessuale femminile si
riteneva sostanzialmente «passivo»; finché nel 2010 si è cominciato
a studiare anche il processo attivo di sviluppo delle ovaie 29.
Le prime ricerche sulle patologie cardiovascolari sono state
condotte in gran parte su soggetti maschi, e anche in seguito la
presenza femminile è rimasta inferiore al dato reale: nei trentuno
importantissimi test clinici che tra il 1987 e il 2012 hanno esaminato
l’insufficienza cardiaca congestizia, le donne costituivano solo il
venticinque per cento del campione 30. Nei Paesi in via di sviluppo il
cinquantacinque per cento degli adulti sieropositivi è donna 31, e in
alcune regioni dell’Africa e dei Caraibi le donne di età compresa fra i
cinque e i ventiquattro anni hanno, rispetto ai maschi della stessa
fascia di età, fino a sei volte piú probabilità di essere sieropositive 32.
Inoltre le donne che hanno contratto l’Hiv hanno sintomi clinici e
complicanze diverse; nonostante ciò, un’analisi del 2016 della
presenza femminile nelle ricerche statunitensi sull’Hiv ha reso noto
che le donne rappresentavano solo il 19,2 per cento dei soggetti
partecipanti alle sperimentazioni dei farmaci antiretrovirali; negli studi
sui vaccini la presenza femminile saliva al 38,1, ma scendeva
all’11,1 negli studi sulla terapia dell’Hiv 33.
Poiché le donne in gravidanza vengono regolarmente escluse da
tutti i test clinici, manchiamo di dati affidabili su come trattare
pressoché tutte le patologie. L’Organizzazione mondiale della sanità
ci mette in guardia contro le numerose malattie che potrebbero
avere «conseguenze gravi per le gestanti o arrecare danno al
feto» 34, eppure in certi casi rischiamo di non sapere nulla sugli effetti
della malattia, o sui possibili esiti. Alcuni ceppi del virus influenzale
(compresa la pandemia influenzale del 2009 A/H1N1, anche nota
come febbre suina) determinano «sintomi di notevole importanza
nelle gestanti»; lo stesso vale anche per la Sars. È piú che
comprensibile che una donna in gravidanza non voglia partecipare a
una ricerca medica, ma questo non ci autorizza a crogiolarci
nell’ignoranza: dovremmo invece raccogliere, registrare e
confrontare in modo sistematico i dati sugli esiti delle patologie che
colpiscono le donne in gravidanza. E invece no: non lo si è fatto
nemmeno durante la pandemia di Sars che ha colpito la Cina tra il
2002 e il 2004. Di conseguenza, nota l’Oms, «non è stato possibile
caratterizzare in maniera esauriente il decorso e gli esiti della Sars
nelle donne in gravidanza» 35. Un altro vuoto di dati di genere che si
sarebbe potuto evitare, e che ci lascerà drammaticamente sprovvisti
di informazioni di fronte alla prossima eventuale pandemia.
Come l’assenza delle donne dai manuali di anatomia, anche la
mancata inclusione delle donne nei test clinici è un problema storico
che nasce dall’idea che il corpo maschile sia il corpo umano per
definizione; un pregiudizio che si è rivelato in tutta la sua pericolosità
una cinquantina d’anni orsono, a seguito di uno dei piú gravi
scandali medici del XX secolo 36.
A partire dal 1960 molti dottori avevano cominciato a prescrivere il
talidomide alle gestanti che soffrivano di nausee mattutine. Il
farmaco, già diffusamente utilizzato come blando sedativo fin dalla
fine degli anni Cinquanta, era considerato sicuro perché i suoi
inventori «per quanto avessero alzato di parecchio i dosaggi, non
erano riusciti a uccidere nemmeno un topo» 37. Ma anche se non
uccideva i topi, il talidomide aveva effetti teratogeni sui feti umani
(cosa che peraltro i produttori sapevano già dal 1951) 38. Nei due
anni che trascorsero prima che fosse ritirato dal mercato, piú di
diecimila bambini in tutto il mondo vennero alla luce con disabilità
correlate a quel farmaco 39. Sulla scia dello scandalo, nel 1977 la
Food and Drug Administration statunitense pubblicò nuove linee
guida che escludevano le donne in età fertile dai test farmacologici.
Nessuno contestò la decisione 40. Nessuno contestò l’ennesima
conferma del maschile come norma.
Quel principio ha tuttora un numero assai esiguo di oppositori: a
dispetto delle evidenze, alcuni ricercatori si ostinano a sostenere che
il sesso biologico non abbia rilevanza in campo medico. Una
ricercatrice presso un’istituzione sanitaria pubblica si è vista
respingere per ben due volte le sue richieste di finanziamento con le
seguenti motivazioni: «Sarebbe ora di smetterla con queste
sciocchezze sui sessi e di tornare a occuparsi di scienza», e
«Lavoro in questo campo da vent’anni e so benissimo che [la
differenza biologica] non ha alcuna importanza» 41. Non sempre
sono commenti anonimi: nel 2014 «Scientific American» ha
pubblicato l’articolo di un collaboratore esterno della rivista, il quale
sosteneva che l’inclusione di entrambi i sessi nelle sperimentazioni
fosse uno spreco di risorse 42; nel 2015 un altro collaboratore
esterno profetizzava dalle pagine della rivista ufficiale
dell’Accademia delle scienze statunitense che «concentrarsi sulle
differenze di sesso precliniche non annullerà le disparità tra i sessi in
ambito medico» 43.
Oltre a insistere sul fatto che le differenze tra maschi e femmine
non sono rilevanti, alcuni ricercatori si dichiarano contrari
all’inclusione di soggetti femminili nelle ricerche mediche: anche se il
sesso biologico dovesse avere una qualche rilevanza, l’assenza di
dati comparabili ne sconsiglierebbe comunque l’impiego – quando si
dice «avere il danno e la beffa» 44. I corpi femminili, della specie
umana come delle altre specie animali, sono troppo complessi,
troppo mutevoli 45, troppo costosi per la ricerca. L’integrazione di
sesso e genere nelle ricerche è giudicata «onerosa» 46. Si ritiene
che vi sia nella ricerca un «eccesso di genere» 47 che andrebbe
invece eliminato in nome della «semplificazione» 48: a tale proposito,
vale la pena di notare che alcuni recenti studi sui topi hanno
evidenziato una maggiore volubilità dei maschi rispetto a un certo
numero di marker 49. E dunque, dove sta il problema?
Il corpo femminile, con i suoi ormoni fluttuanti e «atipici», sarebbe
un contenitore di ricerca poco adatto; secondo altri scienziati, invece,
è semplicemente piú difficile reclutare le volontarie. È vero che,
avendo molte responsabilità di cura, le donne hanno meno tempo
libero: non sempre è agevole fare tappa in laboratorio mentre si
vanno a prendere i figli a scuola. Questa argomentazione andrebbe
semmai utilizzata per reclamare non l’esclusione delle donne ma
l’adattamento dei programmi di ricerca alle loro esigenze; e in ogni
caso le volontarie si trovano, se si è davvero intenzionati. Da
un’analisi dei test clinici che la Food and Drug Administration (Fda)
impone alle aziende statunitensi del settore farmaceutico risulta che
nei test per i dispositivi di occlusione endovascolare da utilizzare nei
casi di pervietà del dotto arterioso le donne costituiscono solo il
diciotto per cento del campione 50, contro il trentadue per cento dei
test sugli stent coronarici (la cui applicazione, detto per inciso, ha
esiti meno favorevoli per le donne) 51; viceversa, nei test sugli
interventi di correzione delle rughe e sui dispositivi dentistici le
donne rappresentano rispettivamente il novanta e il novantadue per
cento del campione.
Un approccio piú recente al problema della scarsa presenza
femminile nella ricerca medica arriva al punto di smentire l’ipotesi di
una sottorappresentazione delle donne. Nel febbraio del 2018 il
«British Journal of Pharmacology» ha pubblicato un documento
intitolato Gender Differences in Clinical Registration Trials: Is There
a Real Problem? 52 Dopo accurate ricerche nei dossier di
registrazione di alcuni farmaci di uso comune approvati dalla Fda, gli
autori (maschi) del documento sostenevano che no, il problema non
era «vero».
Lasciando da parte le considerazioni filosofiche su che cosa sia
un problema «non vero», resta il fatto che il documento giunge a
conclusioni sconcertanti. Va detto che i dati oggetto della ricerca
erano disponibili soltanto per il ventotto per cento delle
sperimentazioni farmacologiche, e quindi non c’è modo di stabilire se
il campione sia o meno rappresentativo. Nei documenti che gli autori
hanno potuto esaminare, il numero delle donne partecipanti a piú di
un quarto delle sperimentazioni non corrispondeva alla quota di
popolazione femminile statunitense affetta dalle patologie che quei
farmaci avrebbero dovuto curare. Inoltre lo studio non prendeva in
considerazione i test dei farmaci generici, che negli Stati Uniti
rappresentano l’ottanta per cento delle prescrizioni 53. Secondo la
definizione della Fda, si dice «generico» ogni farmaco identico a
un’altra specialità già in vendita con un nome commerciale, messo in
commercio dopo la scadenza del brevetto per il prodotto di marca.
Le sperimentazioni sui farmaci generici sono molto meno rigorose di
quelle originali, poiché il loro unico scopo è accertare la pari
biodisponibilità del principio attivo; inoltre sono condotte «quasi
esclusivamente» su giovani maschi adulti 54. Questo è un elemento
importante perché, anche a parità di principio attivo, la presenza di
sostanze inattive diverse e la diversità dei processi produttivi
possono influire sull’efficacia del farmaco 55. Infatti nel 2002 il centro
di valutazione farmacologica della Fda ha dimostrato l’esistenza di
«differenze statisticamente significative tra uomini e donne per ciò
che riguarda la bioequivalenza di gran parte dei farmaci generici
rispetto ai farmaci commerciali di riferimento» 56.
Malgrado tutto ciò, gli autori del documento sostenevano che non
c’erano prove sufficienti a dimostrare una sistematica
sottorappresentazione delle donne nei test clinici, perché nelle
sperimentazioni di fase II e III le donne erano presenti in misura del
quarantotto e quarantanove per cento. Tuttavia gli stessi autori
affermavano che nei test di fase I solo il ventidue per cento dei
partecipanti era donna; e diversamente da ciò che le conclusioni
dello studio vorrebbero suggerire, la sottorappresentazione delle
donne nei test di fase I è importante. Secondo la Fda, la reazione
avversa piú comune nelle popolazioni femminili è l’assenza di effetti,
anche quando il farmaco funziona benissimo sugli uomini. E chi può
sapere quanti farmaci che funzionerebbero sulle donne vengano
scartati già in fase I per la semplice ragione che non hanno alcun
effetto sugli uomini?
Scavando piú a fondo nelle cifre emerge un altro elemento che gli
autori hanno tralasciato: i farmaci sono stati testati su donne che si
trovavano in fasi diverse del ciclo mestruale? È molto probabile che
la risposta sia no, perché questa è la prassi. Nei rari casi in cui le
donne partecipano alla sperimentazione di un farmaco, il test gli
viene somministrato all’inizio della fase follicolare del ciclo, quando i
livelli ormonali sono al minimo: quando cioè una donna somiglia di
piú a un uomo. Lo scopo è «evitare che estradiolo e progesterone
interferiscano con i risultati dello studio» 57: ma la vita vera non è un
esperimento scientifico, e nella vita vera gli ormoni femminili – che
impertinenti! – non possono non interferire. Per ora è stato
dimostrato che il ciclo mestruale incide sugli effetti degli antipsicotici,
degli antistaminici e degli antibiotici, nonché di alcuni farmaci per
curare le cardiopatie 58. Certi antidepressivi hanno effetti diversi a
seconda delle fasi del ciclo, per cui il dosaggio rischia di essere
talora eccessivo e talora insufficiente 59. Ci sono poi terapie
farmacologiche che possono causare alterazioni del ritmo
cardiaco 60, con un rischio particolarmente elevato per le pazienti nei
primi quattordici giorni del ciclo 61. Un rischio che può anche essere
fatale.
Per finire, gli autori dello studio non hanno preso in
considerazione quel numero imprecisato di farmaci che potrebbero
forse essere benefici per le donne ma che, venendo scartati nelle
fasi di sperimentazione in vitro e sugli animali, non raggiungono mai
la fase dei test clinici. Da quasi cinquant’anni si sa che nelle
sperimentazioni sugli animali si ottengono talvolta risultati diversi a
seconda del sesso, eppure da uno studio effettuato nel 2007
risultava che il novanta per cento degli articoli scientifici sui farmaci
descrive sperimentazioni effettuate soltanto su soggetti maschi 62.
Un’analisi piú recente (2014) ha rilevato che nel ventidue per cento
degli studi sugli animali non si specificava il sesso delle cavie e che,
laddove il sesso era invece indicato, nell’ottanta per cento dei casi gli
animali utilizzati erano esclusivamente maschi 63.
La cosa forse piú irritante, dal nostro punto di vista, è che negli
esperimenti sugli animali le femmine non vengono utilizzate
nemmeno quando i farmaci dovrebbero agire su patologie a
prevalenza femminile. Il rischio di soffrire di depressione, per
esempio, è maggiore del settanta per cento nelle donne, eppure
cinque volte su sei le sperimentazioni animali sulle patologie
cerebrali vengono condotte su maschi 64. Dall’analisi del 2014 che
abbiamo già citato risulta che sul quarantaquattro per cento degli
studi sulle patologie a prevalenza femminile che specificava il sesso
delle cavie, soltanto il dodici per cento studiava animali di sesso
femminile 65. E quand’anche si impieghino animali di entrambi i
sessi, nulla ci garantisce che i risultati vengano scomposti per sesso:
secondo un altro studio, nei due terzi dei casi non lo si fa 66. È
importante? L’analisi del 2007 rivelava che, quando i test venivano
effettuati su topi maschi e femmine, i farmaci sperimentati avevano
effetti diversi dall’uno all’altro sesso nel cinquantaquattro per cento
dei casi 67.
In alcuni casi gli effetti sesso-dipendenti possono essere molto
rilevanti. La dottoressa Tami Martino ha condotto ricerche sulle
interazioni fra ritmi circadiani e patologie cardiache: nel 2016, in
occasione di una conferenza alla Physiology Society, ha raccontato
una sua recente e stupefacente scoperta: le probabilità di
sopravvivenza a un infarto cambiano a seconda dell’ora in cui esso
si verifica. Un attacco di cuore che sopraggiunge durante il giorno
innesca una risposta immunitaria piú energica, soprattutto grazie
all’azione dei leucociti neutrofili (le cellule del sangue che accorrono
sempre per prime sul luogo delle infezioni), la cui presenza è
correlata con una maggiore probabilità di sopravvivenza del
paziente. Questa scoperta è stata confermata piú volte nel corso
degli anni, con molti animali diversi, fino a diventare, come spiega
Tami Martino, «lo standard di riferimento per la letteratura sulle
chance di sopravvivenza».
Ecco perché Tami Martino e i suoi collaboratori sono rimasti
«piuttosto sorpresi» quando, nel 2016, un altro gruppo di ricercatori
ha sostenuto dalle pagine di una rivista che gli infarti avvenuti
durante il giorno innescherebbero una maggiore risposta neutrofilica,
la quale però sarebbe correlata a una minore probabilità di
sopravvivenza. Dopo molte incertezze, Martino e la sua équipe si
sono resi conto che c’era una sola, fondamentale differenza fra gli
studi precedenti e quell’ultimo: in passato la sperimentazione era
stata condotta unicamente su topi maschi, mentre quella piú recente
aveva utilizzato esemplari femmine. Da sessi diversi, dunque, si
ottenevano risultati diversi.
Per quanto riguarda gli studi in vitro, un’analisi condotta nel 2011
su dieci riviste di medicina cardiovascolare ha constatato che,
laddove il sesso delle cellule era indicato, nel sessantanove per
cento dei casi si trattava di cellule maschili 68. Faccio presente che
«quando il sesso delle cellule era specificato» è una discriminante
tutt’altro che secondaria: un’analisi del 2007 su 645 test clinici relativi
a farmaci cardiovascolari (tutti pubblicati su riviste prestigiose) ha
evidenziato che soltanto nel ventiquattro per cento dei casi erano
stati forniti risultati sesso-specifici 69. Nel 2014 un’altra metanalisi di
cinque autorevoli riviste di chirurgia ha scoperto che il settantasei
per cento degli studi su colture cellulari non indicava il sesso delle
cellule utilizzate e che, sul totale di quelli che invece lo rendevano
noto, il settantuno per cento impiegava cellule maschili, ma solo il
sette per cento disaggregava i risultati in base al sesso 70. E ancora
una volta, persino quando si tratta di patologie a maggiore
prevalenza femminile, ci sono ricercatori che studiano
«esclusivamente» cellule XY 71.
Come nei test sugli animali e sugli esseri umani, anche nel caso
degli studi su colture cellulari si nota che le differenze di sesso, se
considerate, dànno luogo a risultati diversi. Per anni i ricercatori
sono rimasti sconcertati di fronte al comportamento imprevedibile
delle cellule staminali muscolari trapiantate, che non sempre
rigeneravano i tessuti danneggiati; poi si è capito che in realtà non
c’era nulla di imprevedibile ma che, semplicemente, le cellule
femminili innescavano il processo di rigenerazione, mentre quelle
maschili non erano in grado di farlo. Un’altra recente scoperta, forse
di maggiore interesse per le donne, riguarda la risposta cellulare agli
estrogeni: quando un gruppo di ricercatori 72 ha esposto a quel tipo
di ormoni tanto le cellule maschili quanto le femminili, infettandole
poi con un virus, si è visto che soltanto le cellule femminili
rispondevano agli estrogeni e combattevano i virus. È una scoperta
molto interessante, che ci riporta però a una domanda già formulata
in precedenza: quante terapie che avrebbero potuto tornare utili alle
donne sono andate perdute perché non avevano alcun effetto sulle
cellule maschili utilizzate in fase di sperimentazione?
Alla luce di questi fatti, non si comprende come i ricercatori
possano continuare in buona fede a sostenere che il sesso non è
rilevante. Forse aveva piú ragione Jeffrey Mogil, il neuroscienziato
della McGill University che al convegno annuale dell’Organizzazione
per lo studio delle differenze tra i sessi dichiarò che la mancata
inclusione di entrambi i sessi «fin dalle primissime fasi» di una
ricerca era «non solo un’idiozia in termini scientifici e uno spreco di
denaro, ma anche un errore etico» 73. Ciononostante le donne
continuano a essere sottorappresentate nella ricerca medica, tanto
che neppure le sperimentazioni sesso-specifiche le considerano in
misura adeguata. Quando si scoprí che il famoso «Viagra
femminile» 74 lanciato con gran clamore nel 2015 poteva interagire
negativamente con il consumo di alcolici (ormai è noto a tutti che
uomini e donne metabolizzano l’alcol in modo diverso 75) l’azienda
produttrice, la Sprout Pharmaceuticals, decise di effettuare una
sperimentazione, per la quale si reclutarono ventitre uomini e due
donne 76. Ma alla fine i risultati del test non vennero disaggregati per
sesso.
Storie come quella della Sprout Pharmaceuticals non
costituiscono un’eccezione. Una metanalisi degli elaborati scientifici
pubblicati da importanti riviste negli ultimi dieci anni ha appurato che
nessun documento presentava risultati disaggregati per sesso, né
spiegava perché il sesso dei soggetti esaminati fosse stato
considerato irrilevante 77. Da una verifica sulle relazioni della Fda
promossa nel 2001 dal General Accounting Office statunitense
(Gao) è risultato che circa un terzo dei documenti non forniva risultati
disaggregati per sesso, e che il quaranta non si dava neppure la
pena di indicare il sesso dei partecipanti.
Il parere degli autori della metanalisi era che la Fda non avesse
sorvegliato con efficacia la presentazione e l’analisi dei dati relativi
alle differenze di sesso nella sperimentazione farmacologica 78,
opinione confermata sei anni dopo da un’indagine sulle domande di
autorizzazione alla vendita di nuovi farmaci sottoposte alla Fda, in
cui si rilevava l’assenza di procedure standard per l’analisi dei dati
forniti dai richiedenti 79. Nel 2015 il Gao (nel frattempo ribattezzato
Government Accountability Office) ha mosso un appunto ai National
Institutes of Health (Nih), rimproverandoli di non controllare
abitualmente se gli autori delle ricerche valutassero in modo corretto
le differenze di risultati tra i sessi 80. La situazione è ancora peggiore
nei test clinici non finanziati dal settore pubblico, che sono la
maggioranza. Un’indagine del 2014 sulle sperimentazioni cliniche
dei farmaci cardiovascolari ha evidenziato che su sessantuno test
sponsorizzati dagli Nih, trentuno analizzavano i dati disaggregandoli
per sesso; ma su un totale di 567 test non sovvenzionati dagli Nih,
solo 125 differenziavano i risultati in base al sesso dei
partecipanti 81.
La carenza di dati diversificati per l’uno e l’altro sesso condiziona
la nostra capacità di offrire alle donne una valida consulenza
medica. Nel 2011 il World Cancer Research Fund lamentava che
solo il cinquanta per cento degli studi sulle interazioni tra dieta e
cancro effettuati su un campione di uomini e donne fornisse risultati
disaggregati per sesso, il che rendeva ovviamente piú difficile
formulare linee-guida dietologiche utili a entrambi i sessi 82. Le
donne, per esempio, dovrebbero con l’avanzare dell’età consumare
piú proteine rispetto agli uomini per contrastare la perdita di massa
muscolare, ma «la dose ottimale ai fini della sintesi proteica
muscolare nelle donne di età avanzata non è stata calcolata» 83.
La scelta di non disaggregare i dati una volta che ci si è presi la
briga di fare ricerche ed esperimenti su uomini e donne è
sconcertante, senza considerare «la quantità di risorse sprecate in
ricerche che saranno escluse dalle metanalisi future», come
sottolinea Londa Schiebinger della Stanford University 84. E con una
presenza femminile cosí scarsa in molte sperimentazioni, la
possibilità di condurre metanalisi può diventare una questione di vita
o di morte.
Nel 2014 una revisione dei dati della Fda sui defibrillatori cardiaci
impiantabili (in pratica, dei pacemaker un po’ piú complessi) ha reso
noto che sul totale delle sperimentazioni la componente femminile
rappresentava circa il venti per cento del totale 85. Il numero di
donne incluse nei singoli test era talmente basso che la
disaggregazione dei dati non dava indicazioni significative ai fini
statistici. Ma una volta messi insieme tutti i dati, la disaggregazione a
posteriori ha dato risultati a dir poco preoccupanti.
Un defibrillatore cardiaco impiantabile serve a correggere i ritardi
degli impulsi elettrici emessi all’interno del cuore; viene inserito
nell’organismo dei pazienti affetti da malattie cardiache importanti e,
sia nella sua forma miniaturizzata sia in quella piú grande (che
avrete certamente visto in qualche serie televisiva ospedaliera), fa
una specie di hard reset al muscolo cardiaco, costringendolo con
una scarica elettrica a interrompere il battito irregolare e a ripartire
con il giusto ritmo. Un medico con cui ho avuto occasione di parlare
mi ha spiegato che, in sostanza, serve a controllare i sintomi. Non è
una cura, ma riesce a evitare molti decessi; se il vostro cuore
impiega centocinquanta o piú millisecondi per completare un’onda
elettrica, dovreste farvene impiantare uno; se il tempo di
completamento è al di sotto dei centocinquanta millisecondi, non ne
avete bisogno.
A meno che non siate – guarda caso – donne. La soglia dei
centocinquanta millisecondi funziona per gli uomini, ma per le donne
è troppo alta di almeno venti millisecondi. Non vi sembrerà un
granché, ma la metanalisi della Fda ha scoperto che per le donne
con un’onda elettrica compresa fra i centotrenta e i
centoquarantanove millisecondi l’impianto di un defibrillatore
cardiaco riduce del settantasei per cento il rischio di arresto cardiaco
o morte, e del settantasei per cento il rischio di morte tout court.
Eppure le linee-guida non consentivano l’impianto del dispositivo:
trattare i corpi maschili come norma e quelli femminili come un
accidente di poco conto ha condannato centinaia di donne a morire
o a subire arresti cardiaci del tutto evitabili.
Il defibrillatore cardiaco impiantabile non è l’unico ritrovato della
tecnologia medica che non funziona a dovere per le donne: e la cosa
non sorprende affatto, se si considera che solo il quattordici per
cento degli studi successivi all’approvazione di un’apparecchiatura
medica includeva, stando a un’analisi condotta nel 2014, il sesso dei
soggetti tra i parametri basilari per la valutazione degli esiti, mentre
gli studi che presentavano un’analisi di sottogruppo per i soggetti
femminili erano solo il quattro per cento 86. Un documento pubblicato
nel 2010 rendeva noto che «il genere femminile è associato a un
maggiore rischio di complicazioni acute a seguito dell’impianto di un
pacemaker, indipendentemente dall’età e dal tipo di apparecchio» 87.
Tre anni dopo è stato messo a punto un nuovo modello di cuore
artificiale che si preannunciava rivoluzionario: peccato fosse troppo
grande per le donne 88. Ora i progettisti stanno lavorando a una
versione piú piccola, il che è magnifico, ma la cosa che colpisce è
che questa volta, come nei casi precedenti 89, il cuore artificiale da
donna arriva sempre qualche anno dopo il modello «predefinito» da
uomo.
La propensione al maschile ha la meglio persino nei semplicissimi
consigli per le attività fisiche di prevenzione delle cardiopatie. Volete
sapere se l’allenamento di resistenza è utile a questo scopo? Il
vostro motore di ricerca, vi presenterà una nutrita serie di studi che
lo sconsigliano ai soggetti ipertesi 90, in gran parte perché ai fini del
controllo della pressione è ritenuto meno efficace dell’allenamento
aerobico, e inoltre può accrescere la rigidità arteriosa.
Tutto ciò è verissimo. Per i maschi. Che, come sempre, sono la
maggioranza dei soggetti reclutati per le ricerche mediche. Alcuni
test condotti sulle donne suggeriscono però che il principio non valga
allo stesso modo per entrambi i sessi. Da una ricerca del 2008
risulta per esempio che l’allenamento di resistenza riduce
maggiormente la pressione arteriosa nei soggetti femminili, e
provoca un aumento della rigidità arteriosa meno rilevante di quello
osservato nei soggetti maschi 91. È importante, perché con il passare
degli anni le donne tendono ad avere una pressione arteriosa piú
alta di quella dei loro coetanei maschi, e nelle donne l’ipertensione è
piú frequentemente correlata alla mortalità cardiovascolare. Per ogni
venti millimetri di mercurio al di sopra dei livelli normali, in effetti, il
rischio di morte per patologia coronarica risulta doppio per la
popolazione femminile. Ed è importante, perché è stato dimostrato
che nelle pazienti donne i comuni farmaci antipertensivi sono meno
efficaci 92.
Ricapitolando: i farmaci per il controllo della pressione
(sperimentati su soggetti maschi) funzionano meno bene per le
donne, mentre l’allenamento di resistenza potrebbe rivelarsi utile.
Solo che per anni non l’abbiamo saputo, perché tutti gli studi erano
fatti sugli uomini. Senza contare che l’allenamento di resistenza è
utilissimo anche per contrastare l’osteopenia e l’osteoporosi,
patologie comuni tra le donne in menopausa.
Ai diabetici si raccomanda spesso di svolgere un’attività fisica che
alterni esercizi a bassa e alta intensità (il cosiddetto interval training),
ma anche questo è un consiglio fatto su misura per gli uomini.
L’interval training non giova alle pazienti 93, forse perché le donne
tendono a bruciare piú grassi che carboidrati durante l’esercizio
fisico 94. Sappiamo molto poco anche di come le donne reagiscano
alle commozioni cerebrali 95, sebbene vi siano «piú soggette degli
uomini e, negli sport affini, [abbiano] tempi di recupero piú lunghi» 96.
Gli esercizi isometrici risultano meno faticosi per le donne (il che può
essere essenziale nelle terapie riabilitative postinfortunio) perché i
vari tipi di fibre muscolari sono distribuiti diversamente: ma «le
differenze non sono del tutto chiare», perché «gli studi pubblicati
sono in numero insufficiente» 97.
Quando si scopre che persino una cosa semplice come un
impacco ghiacciato ha effetti diversi, diventa chiaro che anche le
sperimentazioni nell’ambito della medicina sportiva dovrebbero
essere fatte su un numero identico di soggetti dei due sessi 98. Ma in
realtà non succede 99. I ricercatori continuano a fare ricerca sui
maschi, illudendosi che i risultati siano validi anche per le donne. Nel
2017 uno studio dell’università di Loughborough 100 annunciava ai
media di tutto il Regno Unito che un bagno caldo aveva effetti simili
all’esercizio fisico in termini di risposta antinfiammatoria e
abbassamento della glicemia 101. Pubblicato sulla rivista
«Temperature» con un sottotitolo che recitava: «Una possibile cura
per i disturbi metabolici?», lo studio era stato effettuato su un
campione che non comprendeva nemmeno una donna.
Sappiamo che donne e uomini hanno sistemi metabolici diversi.
Sappiamo che il diabete, una delle malattie per cui quella scoperta
avrebbe dovuto essere rilevante, agisce in modo diverso su donne e
uomini 102, e che soprattutto nelle donne è un fattore di rischio per le
patologie cardiovascolari 103. Nonostante ciò, gli autori dello studio
hanno finto di non sapere che le differenze tra i due sessi avessero
una qualche rilevanza per la loro ricerca. Hanno citato
sperimentazioni animali, anch’esse condotte su popolazioni
composte al cento per cento da maschi, ma la cosa piú stupefacente
è che in una sezione specificamente dedicata ai «limiti della
presente ricerca» hanno omesso di segnalare che il campione era al
cento per cento maschile, limitandosi a segnalarne le «dimensioni
ridotte».
Si è tentato piú di una volta di costringere i ricercatori in campo
medico a rappresentare in modo adeguato la popolazione femminile.
Dal 1993, dopo l’approvazione della legge che ha dato nuova vita ai
National Institutes of Health, è vietato escludere le donne dai test
clinici finanziati dal governo federale statunitense. L’omologo istituto
australiano ha dato disposizioni simili 104, e cosí ha fatto anche
l’Unione europea, la quale ha addirittura imposto l’obbligo di
utilizzare cavie di entrambi i sessi nelle sperimentazioni pre-cliniche
sugli animali. Un provvedimento simile è stato adottato anche negli
Stati Uniti nel gennaio del 2016 105; a partire dalla stessa data, i
National Institutes of Health hanno introdotto una norma che obbliga
a disaggregare e ad analizzare per sesso i risultati degli studi
finanziati dall’ente (a meno che non vi siano fondate ragioni per non
farlo) 106.
Altre buone notizie su questo fronte giungono dalla Società
tedesca di epidemiologia, che da oltre un decennio obbliga i suoi
ricercatori a giustificare l’impiego di soggetti di un solo sesso negli
studi i cui risultati potrebbero riguardare entrambi 107; una
disposizione simile è stata introdotta nel 2012 dagli Istituti sanitari
del Canada, che oltre a ciò prescrivono ai ricercatori di spiegare in
che modo le diversità di sesso e di genere siano state prese in
considerazione nell’impianto di ogni studio. Per finire, alcune riviste
accademiche invitano gli autori degli articoli a fornire indicazioni sul
sesso dei partecipanti ai test clinici 108.
In questo panorama, il Regno Unito sembra occupare una
posizione di retroguardia: i principali enti finanziatori della ricerca
medica «non fanno alcun riferimento esplicito, né richieste particolari
in relazione al genere dei soggetti» 109, e benché tra le popolazioni
femminili a rischio si riscontrino tassi di morbilità e mortalità piú
elevati 110, la ricerca sulle patologie coronariche degli uomini riceve
finanziamenti ben piú generosi. La carenza di ricerche cliniche di
genere è tale da aver spinto Anita Holdcroft, professore emerito
all’Imperial College di Londra, a scrivere che, nel caso delle terapie
cardiovascolari, «è opportuno avvalersi degli studi effettuati in
Nordamerica e in Europa, dove questi temi sono stati
approfonditi» 111.
Per quanto grave sia la situazione in Gran Bretagna, anche
altrove permangono notevoli difficoltà. Tanto per cominciare ci sono
prove evidenti che le regole sulla presenza femminile nei test clinici
non vengano applicate con sufficiente rigore. Lo dimostrano proprio
le analisi dei National Institutes of Health: a quattro anni
dall’annuncio della prima norma sull’inclusione delle donne nelle
sperimentazioni, il Government Accountability Office ha emesso un
documento in cui si criticavano gli Nih per non aver fornito «repertori
di dati facilmente accessibili sulla composizione demografica delle
sue popolazioni di studio», rendendo di fatto impossibile stabilire se
gli Nih si attenessero alle regole che essi stessi si erano dati 112.
Ancora nel 2015 il Gao lamentava che gli Nih «non si impegnassero
a sufficienza per far valere le norme sulla parità di genere nei test
clinici» 113.
Le industrie farmaceutiche statunitensi hanno comunque a
disposizione un vasto catalogo di scappatoie per sottrarsi all’obbligo
di contaminare i loro disciplinatissimi test clinici con il disordine
ormonale dei soggetti femminili, risparmiandosi i costi e le
complicazioni che ne deriverebbero. Come già detto, la regola vale
solo per le sperimentazioni finanziate dagli Nih, perciò le industrie
private sono libere di comportarsi come gli pare. E i fatti dimostrano
che è proprio cosí: una ricerca del 2016 ha reso noto che «un quarto
delle aziende del settore farmaceutico evita in modo consapevole di
reclutare quantità significative di donne per i test clinici» 114. Nel caso
dei farmaci generici, poi, la Fda prevede soltanto alcune «linee-
guida» che non hanno valore normativo e che, come abbiamo visto,
sono tranquillamente ignorate. E le regole degli Nih sull’inclusione
dei soggetti femminili non si applicano agli studi su colture cellulari.
Poi, ovviamente, c’è il tema dei farmaci «tradizionali»: si stima
che ogni anno due milioni di donne facciano uso di Valium in
situazioni che vanno dalla semplice ansia all’epilessia, e stiamo
parlando di un farmaco che per decenni è stato oggetto di campagne
di marketing molto aggressive e dirette alle donne 115. Eppure, come
ha denunciato un articolo del 2003 116, l’«aiutino della mamma» non
è mai stato sottoposto a test clinici randomizzati con soggetti
femminili. Un documento del General Accounting Office datato 1992
segnalava che meno della metà dei farmaci di prescrizione era stata
studiata dal punto di vista dei diversi effetti su uomini e donne 117.
Una ricerca condotta in Olanda nel 2015 affermava senza troppi
complimenti che «non si conoscono gli esiti specifici sulla
popolazione femminile di un numero enorme di farmaci in
circolazione» 118.
È evidente che c’è ancora molto da fare in questo ambito e che
dobbiamo cominciare subito a colmare le lacune, perché nel
frattempo le donne (che negli Stati Uniti consumano circa l’ottanta
per cento dei preparati farmaceutici) 119 muoiono. Alcuni farmaci
usati in caso di infarto per sciogliere i coaguli di sangue possono
provocare «emorragie importanti» nelle donne 120. Altre medicine
contro l’ipertensione riducono il rischio di infarto negli uomini, ma
aumentano il rischio di morte legata a patologie cardiache nella
popolazione femminile 121. Le statine, regolarmente utilizzate in tutto
il mondo come farmaco preventivo delle cardiopatie, sono state
testate su un campione in gran parte maschile, ma una recente
ricerca australiana ha ipotizzato che nelle donne l’assunzione di
statine a dosaggi elevati possa incrementare il rischio di diabete 122
– che a sua volta è, soprattutto per le donne, un fattore di rischio per
le patologie cardiovascolari 123. Nel 2000 la Fda ha obbligato le
industrie farmaceutiche a eliminare da tutti i loro prodotti la
fenilpropanolamina, sostanza presente in molti farmaci da banco e
sospettata di incrementare il rischio di emorragie cerebrali nelle
donne, ma non negli uomini 124. Anche i casi di insufficienza epatica
acuta da farmaci sono piú frequenti nelle popolazioni femminili 125,
ed è stato segnalato che il rischio di reazioni avverse provocate da
alcuni farmaci anti-Hiv è da sei a otto volte maggiore per le
donne 126.
Nel 2014 la Fda ha reso pubblico un database sulle reazioni
avverse da farmaci verificatesi tra il 2004 e il 2013. Se ne è dedotto
che le donne sono molto piú esposte agli effetti nocivi dei medicinali:
nel periodo indicato si erano verificati oltre due milioni di casi tra la
popolazione femminile, contro meno di 1,3 per gli uomini 127. Benché
il numero dei decessi sia piú o meno pari, la morte è al nono posto
nella lista delle reazioni indesiderate piú comuni per le donne, ma
viene al primo posto per gli uomini. La seconda manifestazione
avversa piú comune per le donne (dopo la nausea) è l’inefficacia del
farmaco, tuttavia non vi sono dati sul numero di morti legate al
mancato effetto. Quel che sappiamo, tuttavia, è che le donne hanno
piú probabilità di essere ricoverate in ospedale a seguito di reazione
negativa a un farmaco 128, e rischiano di subirne piú di una nel corso
della vita 129. Grazie a uno studio condotto nel 2001 sappiamo che
l’ottanta per cento dei farmaci recentemente ritirati dal mercato
statunitense causava effetti indesiderati piú frequenti tra la
popolazione femminile 130, mentre un’analisi del 2017 segnala che
«un gran numero» di farmaci e apparecchiature mediche messe al
bando dalla Fda era pericoloso soprattutto per le donne 131.
Nulla di tutto ciò dovrebbe sorprenderci, dato che nonostante le
evidenti differenze tra i sessi la stragrande maggioranza dei
preparati farmaceutici, compresi gli anestetici e i chemioterapici 132,
continua a essere prescritta a dosaggi «neutri» 133 che espongono le
donne al rischio di sovradosaggi 134. A livello basilare, è noto che le
donne tendono ad avere una maggiore percentuale di grasso
corporeo (negli uomini è il tessuto muscoloscheletrico a essere
dominante), e ciò può influire sulla metabolizzazione di certi
farmaci 135. Il paracetamolo, per esempio, principio attivo di molti
antidolorifici, è eliminato dall’organismo femminile a circa il sessanta
per cento del tasso documentato negli uomini 136. Le differenze nel
metabolismo dei farmaci dipendono in parte dal fatto che le donne
hanno meno massa magra, e dunque un metabolismo basale piú
basso 137, ma potrebbero esserci altre ragioni: differenze a livello
degli enzimi renali 138, di quota acida della bile (le donne ne hanno di
meno) 139 o di attività degli enzimi intestinali 140. Inoltre i tempi di
transito intestinale dei maschi sono circa la metà di quelli femminili, e
questo significa che le donne devono lasciar trascorrere piú tempo
tra l’ultimo pasto e l’assunzione di un medicinale che va assorbito a
stomaco vuoto 141. Anche la velocità di filtrazione renale è inferiore
nei maschi, il che «rende necessario adeguare il dosaggio» dei
farmaci escreti per via renale, come per esempio la digossina,
utilizzata nella terapia di alcuni disturbi cardiaci 142.
Per migliaia di anni la medicina si è fondata sull’assunto che i
corpi maschili potessero rappresentare l’umanità intera. Il risultato è
che oggi abbiamo un’enorme carenza di informazioni sul corpo
femminile: un vuoto di dati che purtroppo continua a crescere,
poiché i ricercatori si ostinano a ignorare la pressante necessità
etica di estendere il loro ambito di studio alle cellule femminili, sia
animali sia umane. Che tutto ciò accada ancora oggi, nel XXI secolo,
è un vero e proprio scandalo che andrebbe denunciato a gran voce
dai giornali di tutto il mondo. Ci sono donne che muoiono, e la
scienza medica è complice della loro morte. È ora di smetterla.
XI.
La sindrome di Yentl

In un famoso film del 1983, Yentl, Barbra Streisand recita la parte


di una giovane ebrea polacca che si finge maschio per poter
frequentare una scuola religiosa. La premessa narrativa che mette in
moto la storia si è fatta strada anche nella dottrina medica: il
fenomeno per cui le donne che mostrano sintomi o patologie non
corrispondenti a quelli maschili rimangono vittime di errori diagnostici
e terapie inefficaci si chiama, per l’appunto, «sindrome di Yentl». E a
volte può rivelarsi fatale.
La rappresentazione tipica di una persona che sta avendo un
attacco di cuore è un uomo nella tarda mezz’età, forse sovrappeso,
che si stringe il petto in preda a un parossismo di dolore. Anche la
ricerca immagini su Google dà esattamente quel risultato. È raro che
si pensi a una donna, perché la cardiopatia – cosí almeno si crede –
è cosa da maschi. E invece no: è l’ennesimo pregiudizio fuorviante.
Da una recente analisi dei dati relativi a ventidue milioni di persone
residenti in Nordamerica, Europa, Asia, Australia e Nuova Zelanda è
risultato che le donne di basso livello socioeconomico hanno un
venticinque per cento di probabilità in piú di subire un attacco di
cuore rispetto agli uomini della stessa fascia di reddito 1.
Fin dal 1989 le patologie cardiovascolari sono la principale causa
di morte per la popolazione femminile degli Stati Uniti; rispetto ai
maschi, poi, le donne hanno un maggiore rischio di morte a seguito
di un attacco di cuore 2. Quest’ultimo dato è conosciuto fin dal 1984,
e la categoria piú esposta al pericolo è quella delle donne piú
giovani: nel 2016 un articolo pubblicato sul «British Medical Journal»
ha reso noto che per la popolazione femminile in giovane età le
probabilità di decesso in una struttura ospedaliera sono quasi doppie
rispetto agli uomini 3. Una possibile, parziale spiegazione potrebbe
essere che i medici non rilevano i fattori di rischio nelle donne:
sempre nel 2016 la American Heart Association ha sollevato dubbi
sulla validità di alcuni modelli di valutazione del rischio
«comunemente usati» nei casi di sindrome coronarica acuta,
sostenendo che erano basati su popolazioni di pazienti composte
per almeno due terzi da maschi 4. L’efficacia di quei modelli per le
pazienti donne, si diceva, «non è accertata».
Anche le cure preventive possono non funzionare a dovere per le
popolazioni femminili. È noto che l’acido acetilsalicilico (la comune
aspirina) è utile a prevenire il primo infarto nei soggetti maschi, ma
uno studio del 2005 ne ha evidenziato gli effetti «non significativi»
sulle donne fra i quarantacinque e i sessantacinque anni di età 5.
Prima del loro lavoro, osservavano gli autori dello studio, vi erano
«pochi dati al riguardo per le donne». Uno studio piú recente (2011)
ha poi dimostrato che l’aspirina non è solo inefficace, ma anche
potenzialmente dannosa «per la maggioranza delle pazienti» 6. Nel
2015, infine, si è accertato che l’assunzione di bassi dosaggi di
aspirina a giorni alterni «è inefficace o addirittura dannosa per la
maggior parte delle donne nella prevenzione primaria» del cancro o
delle patologie cardiache 7.
Ma forse la causa principale dell’alta mortalità femminile a seguito
di un infarto è che i medici non si accorgono che le donne hanno
subito un infarto. Una ricerca condotta in Gran Bretagna ha
accertato che per le pazienti infartuate la probabilità di ottenere una
diagnosi errata è del cinquanta per cento superiore rispetto ai
soggetti maschi, e in alcuni casi particolari rasenta addirittura il
sessanta per cento 8. La ragione è che spesso le donne non hanno il
tipico infarto che i medici chiamano «hollywoodiano», accompagnato
da dolore al petto e al braccio sinistro 9. Le donne, soprattutto se
giovani, si presentano in ospedale lamentando mal di stomaco,
dispnea, nausea e senso di affaticamento, e nessun dolore al
petto 10. Questi sintomi sono spesso detti «atipici», ma l’uso del
termine è stato contestato da un articolo pubblicato nel 2016 dal
«British Medical Journal», in quanto «potrebbe indurre a
sottovalutare i rischi associati a quel tipo di presentazioni» 11. A sua
volta, la sottovalutazione del rischio potrebbe spiegare perché,
secondo uno studio del 2005, «su cinque medici statunitensi con
varie specializzazioni, solo uno era al corrente della maggiore
mortalità femminile per patologie cardiovascolari, e la maggior parte
dei professionisti intervistati non si riteneva competente nella terapia
sesso-specifica dei disturbi cardiovascolari» 12.
Comunque vogliamo chiamare quei sintomi, resta il fatto che con
certi tipi di infarto le donne (specie se giovani) che si presentano in
ospedale senza dolori al petto hanno un rischio di morte elevato 13:
alla luce di questo dato, desta molta preoccupazione il fatto che
attualmente le linee guida del sistema sanitario britannico includano
il «dolore cardiaco acuto» tra i criteri che determinano il ricovero del
paziente in uno dei centri di emergenza specializzati in angioplastica
coronarica 14. L’angioplastica coronarica primaria o PPCI, ovvero il
trattamento di emergenza che ripristina la circolazione del sangue,
ha «notevolmente migliorato gli esiti e le percentuali di
sopravvivenza». Ma in Gran Bretagna viene effettuata soltanto nei
centri di emergenza specializzati, e forse è per questo che il
settantacinque per cento dei pazienti trattati con questa tecnica è
maschio 15.
Anche gli esami normalmente impiegati dai medici per formulare
una diagnosi potrebbero essere all’origine della maggiore mortalità
femminile in caso di infarto. Persino l’elettrocardiogramma, sia a
riposo sia da sforzo, dà risultati meno univoci 16. Un articolo
pubblicato sul «British Medical Journal» nel 2016 esponeva i risultati
di uno studio condotto a Edimburgo, secondo il quale la soglia
diagnostica «normale» della troponina (una proteina che l’organismo
rilascia nel sangue durante un infarto) potrebbe essere troppo alta
per le donne 17. Ma il problema non sta solo nell’inadeguatezza dei
livelli «normali» dei biomarcatori: ciò che servirebbe è
l’identificazione di nuovi biomarcatori specifici per le popolazioni
femminili 18. Un biomarcatore è un indicatore biologico, la cui
presenza può fungere da criterio diagnostico per una specifica
patologia; un’analisi della letteratura sull’argomento (2014),
segnalava l’esistenza di ampi spazi di ricerca sulle differenze tra i
sessi in quell’ambito 19. Secondo gli autori del documento, tuttavia, il
lavoro di ricerca condotto fino a quel momento non consentiva di
dare per certa l’identificazione dei biomarcatori sesso-specifici.
Poiché l’infarto femminile differisce non solo nella presentazione,
ma anche nella dinamica, c’è il rischio che le tecnologie finora
sviluppate non siano adatte ai cuori femminili 20. Tra gli esami
normalmente praticati vi è per esempio l’angiogramma, che serve a
segnalare la presenza di arterie ostruite 21. Solo che spesso le
arterie delle donne non sono affatto ostruite: di conseguenza
l’esame non individuerà alcuna anomalia 22, e le pazienti che si
saranno presentate al pronto soccorso con un attacco di angina
(dolore al petto) potranno essere dimesse con una diagnosi di
«dolore non specifico» 23. Ma è già capitato che donne con un
angiogramma «normale» subissero un infarto o un ictus poco dopo
la dimissione dall’ospedale 24.
Supponendo che una donna abbia invece la fortuna di ricevere
una diagnosi corretta della sua cardiopatia, ciò che la aspetta in
seguito è la corsa a ostacoli delle terapie a misura di maschio,
giacché le differenze di genere non sono ancora state integrate nella
«comune saggezza medica», né nelle linee guida per la pratica
clinica 25. Immaginiamo per esempio che un uomo e una donna
ricevano la stessa diagnosi di aneurisma dell’aorta, con un identico
livello di dilatazione: a parità di condizioni, la donna avrà un rischio
piú elevato di rottura dell’aorta, circostanza che nel sessantacinque
per cento dei casi porta alla morte 26. Eppure nelle linee guida della
sanità olandese le soglie oltre le quali diventa necessario l’intervento
chirurgico sono le stesse per maschi e femmine 27.
I test diagnostici calibrati sull’organismo maschile sono un
problema anche in altri ambiti della medicina, compresi quelli in cui il
rischio maggiore lo corrono le donne. Le quali, per esempio, sono
piú soggette ai tumori del colon destro, che spesso si sviluppano in
forma piú aggressiva 28; ma il test di ricerca del sangue nelle feci
comunemente usato per individuare questo tipo di patologia è meno
sensibile nelle donne 29. Inoltre, poiché il colon femminile tende a
essere piú lungo e piú stretto, le colonscopie possono risultare
incomplete 30. A tutto ciò si aggiunge quello che secondo l’Oms è
«un errore frequente», ovvero la sottovalutazione dei sintomi che
possono presentarsi soltanto in uno dei sue sessi, come il
sanguinamento vaginale nella febbre dengue 31. Quando gli indizi
rivelatori di una malattia sono elencati in ordine di frequenza per tutti
i pazienti, senza distinzione di sesso, i sintomi tipici della
popolazione femminile risultano in apparenza meno significativi di
quanto non siano in realtà.
A volte questi vuoti di dati generano un effetto-valanga. Nel caso
della tubercolosi, per esempio, la scarsa attenzione verso il
maggiore rischio di contagio legato ai ruoli sociali delle donne si
unisce alla carenza di dati disaggregati per sesso, con conseguenze
potenzialmente mortali 32. Negli uomini la malattia rimane spesso
allo stato latente, mentre le donne sviluppano la tubercolosi
conclamata 33; inoltre alcuni studi segnalano che nei Paesi in via di
sviluppo le donne che preparano i cibi in stanze poco ventilate
utilizzando combustibili a biomasse (stiamo parlando, come abbiamo
visto, di milioni di donne) hanno sistemi immunitari piú deboli e meno
efficaci nel combattere le infezioni batteriche 34. Il risultato è che la
tubercolosi è la malattia infettiva che in assoluto miete piú vittime tra
le popolazioni femminili; ogni anno uccide piú donne di tutte le cause
di morte materna messe insieme 35. Ciononostante la Tbc continua a
essere considerata una «malattia da uomini», il che spesso esclude
le donne dagli screening di massa.
Anche quando hanno accesso alle indagini di massa, non è detto
che le donne riescano ad avere una diagnosi corretta 36. La risposta
immunitaria femminile alla Tbc può essere diversa, il che a sua volta
determina sintomi diversi 37: le lesioni polmonari, per esempio,
appaiono meno evidenti nelle donne 38. Le differenze tra i sessi
sembrano estendersi anche alla sensibilità degli esami di screening
piú comunemente utilizzati 39. Quando le risorse sono limitate, il
metodo di indagine piú diffuso consiste nell’esame al microscopio
dell’espettorato 40: il problema è che nelle donne affette da
tubercolosi la tosse con espettorato è meno frequente, e anche se lo
è, talvolta l’analisi del catarro non dà risultati positivi 41. A ciò si
aggiungano le difficoltà di ordine culturale connesse a questo tipo di
esame: l’analisi di uno screening condotto in Pakistan ha segnalato
che per le donne era imbarazzante sputare il muco, e poiché gli
operatori sanitari non spiegavano le ragioni della loro richiesta le
donne si rifiutavano di farlo 42.
Una pratica medica che non tenga conto delle modalità di
socializzazione femminile compromette anche le iniziative di
prevenzione. Nel caso del virus Hiv, per esempio, è inutile dare alle
donne il classico consiglio di utilizzare il preservativo nei rapporti
sessuali, perché spesso il loro potere sociale non basta per
convincere gli uomini a usarlo. Lo stesso vale per l’Ebola, che può
sopravvivere nel liquido seminale fino a sei mesi. L’apposito gel
microbicida 43, inoltre, non è compatibile con la pratica del «sesso
asciutto» diffusa in certe regioni dell’Africa subsahariana 44: un gel
che unisce la funzione microbicida a quella lubrificante non è
accettabile per le culture che impongono alle donne di eliminare le
secrezioni vaginali al fine di dimostrarsi caste.
La scarsa considerazione per le forme di socializzazione
femminile può in certi casi costringere le donne a convivere per
decenni con un disturbo del comportamento non diagnosticato. Per
anni abbiamo creduto che l’autismo fosse quattro volte piú comune
tra i ragazzi e che le ragazze, quando ne erano affette, lo
manifestassero in forma piú grave 45. Dalle ricerche piú recenti
risulta invece che le forme di socializzazione femminile consentono
alle ragazze di mascherare i sintomi meglio dei loro coetanei maschi,
e che il numero delle ragazze con problemi di autismo è molto
maggiore di quanto si creda 46. Questo errore storico si deve almeno
in parte al fatto che i criteri diagnostici del disturbo autistico erano
basati su dati «ricavati quasi esclusivamente dall’osservazione di
giovani pazienti maschi» 47, laddove uno studio pubblicato a Malta
nel 2016 segnalava che tra le cause frequenti di diagnosi errata nelle
ragazze vi era «una generica propensione al maschile nei metodi
diagnostici e nelle aspettative cliniche» 48. Da qualche tempo
sembra inoltre dimostrato che anche le ragazze con problemi di
anoressia potrebbero in realtà essere affette da autismo: non
essendo un sintomo tipico dei maschi, i disturbi alimentari non sono
presi in considerazione nelle diagnosi dello spettro autistico 49.
Sarah Wild, direttrice di Limpsfield Grange, l’unica scuola
residenziale pubblica per ragazze con esigenze speciali di tutto il
Regno Unito, ha raccontato al «Guardian» che «le tabelle e i test
diagnostici sono stati definiti in base alle caratteristiche dei ragazzi e
dei maschi adulti, ma nelle ragazze e nelle donne adulte i disturbi si
presentano in modo del tutto diverso» 50. Purtroppo anche le nuove
linee guida sull’autismo recentemente pubblicate dal servizio
sanitario nazionale britannico non fanno il minimo accenno alle
esigenze speciali della popolazione femminile 51.
Il disturbo da deficit di attenzione e iperattività e la sindrome di
Asperger pongono analoghi problemi diagnostici. Uno studio del
2012 della National Autistic Society del Regno Unito ha reso noto
che solo l’otto per cento delle bambine con sindrome di Asperger
riceve una diagnosi prima dei sei anni di età, contro il venticinque
per cento dei bambini, mentre a undici anni le percentuali sono del
ventuno e cinquantadue per cento rispettivamente 52. Si stima che
fino a tre quarti delle bambine con disturbo da deficit di attenzione e
iperattività non ricevano una diagnosi: una lacuna che la dottoressa
Ellen Littman, autrice del saggio Understanding Girls with ADHD ,
attribuisce al fatto che i primi studi su questo disturbo siano stati
condotti su «bambini bianchi davvero molto iperattivi». Le bambine
presentano una minore componente di iperattività, e appaiono
invece disorganizzate, distratte e introverse 53.
Può darsi che, come alcuni hanno ipotizzato, il condizionamento
sociale che induce le donne «a non interrompere i discorsi altrui, a
minimizzare i propri meriti, a mettere in atto comportamenti che
denotano accessibilità e amichevolezza» impedisca di ottenere in
sede di colloquio medico gli elementi necessari per formulare una
diagnosi 54. Eppure a volte – spesso – le donne forniscono tutte le
informazioni che servono. Solo che non vengono credute.
Il sito giornalistico ThinkProgress ha raccontato la storia di Kathy,
una donna che aveva cicli mestruali molto abbondanti, che la
lasciavano debilitata e incapace di reggersi in piedi 55. Nella ricerca
di una diagnosi, Kathy si è scontrata con gli stessi problemi di
Michelle, la ragazza di cui abbiamo parlato nel precedente capitolo.
Quattro diversi medici le hanno detto che il suo era un problema
psicologico, «che era solo ansiosa, o addirittura che aveva una
grave malattia psichiatrica». Persino il suo medico di base gliel’ha
ripetuto piú volte: «Tutti i tuoi sintomi sono immaginari».
Ma non era affatto vero. Alla fine, un’ecografia ha accertato che
Kathy soffriva di «fibromi uterini potenzialmente pericolosi, che
richiedevano un intervento chirurgico». Dunque non era ansiosa: e
del resto chi non lo sarebbe, dopo essersi sentita dare della pazza
per nove mesi? Era solo anemica.
Anche a Rachel avevano detto che erano solo fantasie. Da dieci
anni cercava di tenere sotto controllo il dolore e le mestruazioni
abbondanti ricorrendo alla pillola anticoncezionale, finché una sera
non crollò a terra durante un concerto. In seguito ebbe un secondo
malore e fu ricoverata in ospedale, nel reparto di gastroenterologia.
«Sei notti sono rimasta lí, attaccata alla flebo. Nel letto di fronte al
mio c’era una signora che stava morendo di cancro all’intestino. È
stato orribile». Sulle prime i medici avevano pensato a dei calcoli
renali, dopodiché avevano passato al setaccio tutto il suo apparato
urinario. Niente. Anche gli esami del sangue erano regolari. E piú si
accumulavano gli esiti negativi, piú Rachel si accorgeva di essere
trattata in modo diverso. «Come se non mi credessero. Come se
fossero convinti che mi stavo inventando tutto». Alla fine uno
specialista scosse la testa e le disse: «Dobbiamo mandarla a casa.
Lei non ha niente».
E invece no, qualcosa aveva. Rachel soffriva di endometriosi, una
malattia caratterizzata dalla presenza di tessuti uterini ectopici (cioè
dislocati in sedi anomale), che causa forti dolori e talvolta infertilità.
Se nel Regno Unito passano in media otto anni prima che una
paziente ottenga una diagnosi di endometriosi 56, negli Stati Uniti ce
ne vogliono dieci 57, ma a tutt’oggi non esiste cura. E sebbene la
patologia colpisca, secondo alcune stime, una donna su dieci (cioè
centosettantasei milioni di persone in tutto il mondo) 58 soltanto nel
2017 l’istituto di sanità britannico si è finalmente deciso a pubblicare
delle linee guida per i medici. Il consiglio piú importante? «Date retta
alle donne» 59.
È piú facile a dirsi che a farsi, perché la sordità alle manifestazioni
di dolore fisico delle donne ha una lunga e ben radicata tradizione.
Nell’ambito di uno studio condotto nel 2016 dall’università del
Sussex, ad alcuni genitori di lattanti di tre mesi (venticinque padri e
ventisette madri) sono state fatte ascoltare registrazioni di pianti
infantili. Benché il pianto dei neonati maschi e femmine sia in realtà
indistinguibile (le differenze nel tono vocale si manifestano solo con
la pubertà), i genitori identificavano come maschili i pianti con la
tonalità piú bassa, e come femminili quelli piú acuti. Inoltre, quando
gli veniva detto che un pianto dal tono piú profondo era quello di un
maschio, i padri tendevano a collegarlo a una situazione di maggiore
disagio rispetto a un altro pianto etichettato come femminile.
Se una donna lamenta dolore non le crediamo, e anzi
supponiamo che sia fuori di testa. E come no? Del resto le donne
sono pazze per definizione. Sono isteriche (isteria deriva dal greco
hystéra, cioè utero), matte da legare (se avessi un centesimo per
ogni volta che un uomo ha messo in dubbio la mia sanità mentale
solo per un post vagamente femminista su Twitter, potrei vivere di
rendita a partire da oggi), irrazionali e troppo emotive. Lo stereotipo
dell’ex fidanzata fuori di melone è cosí diffuso da essere preso in
burla da una canzone di Taylor Swift, Blank Space, e da una serie
televisiva (con Rachel Bloom in veste di protagonista) intitolata, per
l’appunto, Crazy Ex-Girlfriend. Le donne sono «un mistero»,
sentenziava Stephen Hawking 60, mentre Sigmund Freud, che
doveva ricchezza e fama alle sue diagnosi di isteria femminile,
spiegava al pubblico di una conferenza che «sull’enigma della
femminilità gli uomini si sono lambiccati in ogni epoca il cervello» 61.
L’inestricabilità dell’enigma femminile è stata punita come
meritava. Donne che spesso avevano solo osato manifestare
comportamenti al di fuori della norma (come esprimere una libido,
per esempio) venivano rinchiuse nei manicomi per anni. Sottoposte
a isterectomia ed escissione della clitoride. Si rischiava di essere
messe sotto chiave persino per una modestissima depressione
postpartum: la nonna di una mia amica ha finito i suoi giorni in un
ospedale psichiatrico per aver colpito sua suocera con una
pericolosissima spugna da cucina. Un testo di psichiatria ancora
largamente usato negli anni Settanta consigliava la lobotomia come
cura per le donne implicate in relazioni violente 62.
Sono cose d’altri tempi, è ovvio. Oggi non chiudiamo piú le donne
nei manicomi, non gli affettiamo piú il cervello, però le imbottiamo di
farmaci: le probabilità che una donna assuma antidepressivi nel
corso della propria vita sono due volte e mezzo superiori a quelle di
un uomo 63. Con ciò non si intende gettare discredito su questa
categoria di farmaci, che possono migliorare di molto la qualità della
vita di chi ha problemi di salute mentale. Tuttavia vale comunque la
pena di domandarsi perché le donne vi facciano ricorso piú degli
uomini, sapendo che la risposta non sta in una maggiore
propensione a chiedere l’aiuto di un medico. Anzi: uno studio
condotto in Svezia nel 2017 ha dimostrato che sono gli uomini a
sostenere piú frequentemente di essere depressi 64. E dunque,
perché alle donne si prescrivono gli antidepressivi? Forse sono piú
«deboli di mente»? Oppure a gravare sulla nostra salute mentale è
la fatica di vivere in un mondo al quale non siamo adatte? O ancora,
gli antidepressivi sono forse la nuova (e di certo preferibile) forma di
lobotomia per le donne vittime di trauma?
Un tempo Freud credeva che l’isteria fosse correlata ad abusi
sessuali subiti durante l’infanzia. In seguito ritrattò l’idea, ritenendola
poco credibile perché avrebbe scaricato su troppi uomini una colpa
orrenda. Tuttavia alcune recenti ricerche fanno supporre che gli
abusi sessuali siano in effetti legati al modo in cui certe donne
percepiscono il dolore 65: e dopo il grande scandalo mondiale del
#MeToo, la cosa non è poi cosí incredibile.
Rispondere a simili domande è un compito che va al di là delle
pretese di questo libro; ma la disparità nel consumo di antidepressivi
potrebbe spiegarsi almeno in parte con il fatto che alle donne
vengono prescritti anche quando non sono in realtà depresse. Il
male fisico sperimentato da una donna tende a essere sottovalutato
come «emotivo» o «psicosomatico». Lo studio svedese che ha
osservato la maggiore propensione degli uomini a dichiararsi
depressi ha anche sostenuto che, sul totale delle donne che non si
ritengono depresse, quelle che si vedono comunque prescrivere dei
farmaci contro la depressione sono il doppio rispetto agli uomini. Il
dato corrisponde a quanto osservato da alcuni studi degli anni
Ottanta e Novanta, secondo i quali agli uomini che dichiaravano uno
stato doloroso venivano in genere prescritti degli antidolorifici,
mentre alle donne nella stessa condizione si prescrivevano sedativi
o antidepressivi 66. Da uno studio del 2014, in cui si invitava il
personale sanitario a dare consigli terapeutici a degli ipotetici
pazienti affetti da lombalgia è risultato che il ricorso agli
antidepressivi era prospettato in misura maggiore se la paziente era
donna 67.
Anche questo sembra un caso da sindrome di Yentl: è sbalorditivo
che cosí tante storie di dolore fisico femminile non diagnosticato né
curato risultino alla fine avere cause fisiologiche legate a patologie
che colpiscono esclusivamente o prevalentemente le donne. La
sindrome dell’intestino irritabile è due volte piú frequente tra la
popolazione femminile 68, mentre per l’emicrania (patologia di cui
sappiamo ancora poco, benché sia cronica, spesso debilitante, e
colpisca trentasette milioni di americani 69 e un cittadino britannico
su otto 70) la frequenza è addirittura tripla 71. È vero inoltre che molti
stati clinici dolorosi interessano piú le donne che gli uomini 72, e che
– come numerosi studi hanno dimostrato da decenni – siamo piú
sensibili al dolore: una tragica ironia, se si considera che abbiamo
meno probabilità di farci prescrivere dei farmaci antidolorifici.
Stando agli studi piú recenti, poi, sembra sempre piú certo che
l’esperienza stessa del dolore sia diversa nei due sessi. La
sensibilità delle donne aumenta o decresce a seconda delle fasi del
ciclo mestruale, poiché «la pelle, i tessuti sottocutanei e i muscoli
risentono in modo diverso delle fluttuazioni ormonali» 73. Uno studio
sugli animali dal quale risulta che maschi e femmine trasmettono i
segnali del dolore attraverso cellule immunitarie di tipi diversi
potrebbe fornirci un primo abbozzo di spiegazione del fenomeno 74:
in ogni caso, le differenze in fatto di percezione degli stati algici sono
un ambito di ricerca assai trascurato, e persino quel poco che
sappiamo non gode di ampia circolazione. La dottoressa Beverly
Collett, che prima di andare in pensione (nel 2015) era consulente
per il servizio di terapia del dolore dell’ospedale di Leicester e
presidentessa della Chronic Pain Policy Coalition, ha dichiarato
all’«Independent» che nella maggior parte dei casi i medici generici
«non sanno che certi farmaci, come il paracetamolo e la morfina,
hanno effetti diversi su uomini e donne» 75.
Di solito le donne devono aspettare piú a lungo degli uomini prima
di ricevere le terapie antalgiche di cui hanno bisogno. Un’indagine su
novantaduemila interventi effettuati nei pronto soccorso americani
fra il 1997 e il 2004 ha dimostrato che i tempi di attesa sono
generalmente piú lunghi per le donne 76; dallo studio su un campione
di adulti che si erano presentati al pronto soccorso di un ospedale
urbano tra l’aprile del 2004 e il gennaio del 2005 è inoltre risultato
che, a pari intensità dei sintomi dolorosi, le donne avevano meno
probabilità di ricevere una terapia analgesica, e quelle che la
ricevevano attendevano piú a lungo degli uomini 77. Sei anni dopo,
una ricerca dell’Institute of Medicine statunitense faceva supporre
che la situazione fosse cambiata di poco nel corso del tempo: le
donne con sintomi dolorosi devono sopportare «ritardi nella diagnosi,
terapie improprie e di non dimostrata efficacia», ma soprattutto
«mancanza di riguardo, disprezzo e discriminazione» da parte del
sistema sanitario 78. In Svezia, una donna in preda a un attacco di
cuore dovrà attendere un’ora in piú prima di essere trasportata in
ospedale; l’ambulanza ci metterà piú tempo ad arrivare perché la
sua condizione verrà giudicata meno urgente, e una volta giunta al
pronto soccorso aspetterà altri venti minuti prima di essere visitata
da un medico 79.
Il fatto che i corpi femminili ricevano meno attenzioni mediche dei
corpi maschili è spesso misconosciuto perché – si sa – le donne
hanno in media un’aspettativa di vita piú lunga degli uomini. C’è in
effetti uno scarto di alcuni anni, che tuttavia si sta riducendo a causa
dell’attenuarsi degli stereotipi prescrittivi che condizionavano la vita
delle donne e al tempo stesso dell’inasprimento delle norme di
sicurezza nei settori d’impiego a forte preponderanza maschile;
sicché, nel complesso, tutto lascia pensare che il vantaggio
femminile avrà vita breve.
Uno studio dei tassi di mortalità nel periodo 1992-2006 in piú di
tremila contee degli Stati Uniti ha rilevato che, a fronte di una
diminuzione complessiva della mortalità in gran parte delle contee, la
mortalità femminile risultava in aumento nel 42,8 per cento delle
contee esaminate 80. E mentre per gli uomini il numero di anni in
buona salute è aumentato in misura proporzionale all’aspettativa di
vita, per le donne l’incremento di entrambi i parametri è stato molto
piú modesto: trent’anni di dati sanitari ci dimostrano che, sebbene le
donne vivano in media cinque anni piú degli uomini (ma solo 3,5 in
Europa) 81 sono anni di salute malferma e spesso di invalidità 82.
Il risultato è che la popolazione femminile degli Stati Uniti, pur
vivendo piú a lungo, non può piú contare su un numero di anni di vita
attiva superiore a quello dei maschi 83: oggi il cinquantasette per
cento degli ultrasessantacinquenni è donna, ma sul totale degli
anziani che necessitano di assistenza quotidiana le donne
rappresentano il sessantotto per cento 84. Nel 1982 ogni americano,
maschio o femmina, che fosse arrivato vivo agli ottantacinque anni
poteva aspettarsi ancora due anni e mezzo di vita attiva e in buona
salute. Oggi il dato delle donne è rimasto invariato, mentre un
ottantacinquenne maschio può aspettarsi di arrivare sano e attivo
fino all’ottantanovesimo anno. L’incremento della longevità e degli
anni di buona salute si osserva anche in Belgio 85 e in Giappone 86.
Un documento dell’Oms sulle condizioni sanitarie della popolazione
femminile nell’Unione europea ha reso noto che nel 2013, «persino
nei Paesi piú longevi, le donne vivevano per almeno dodici anni in
cattiva salute» 87. Certo, sarebbe bello avere qualche dato
disaggregato sulle cause del fenomeno, ma…
La sindrome di Yentl ha poi un effetto collaterale particolarmente
grave che interessa le patologie specifiche della popolazione
femminile: ma qui il problema non sono piú gli studi clinici che non
coinvolgono abbastanza le donne, bensí la totale assenza di ricerca.
La sindrome premestruale, o Spm, è una galassia di sintomi che
può comprendere sbalzi di umore, ansia, tensione mammaria, senso
di gonfiore, acne, cefalea, dolori addominali e insonnia. Colpisce il
novanta per cento delle donne, ma è sempre stata poco studiata: la
proporzione numerica tra gli studi sulla Spm e quelli sulla
disfunzione erettile nei maschi sarebbe di uno a cinque 88. Non
basta: a fronte di una vasta gamma di terapie mirate alla disfunzione
erettile 89, per la sindrome premestruale non c’è quasi nulla, tant’è
vero che piú del quaranta per cento delle donne che ne sono affette
non risponde alle cure oggi disponibili. Nelle situazioni piú gravi si
ricorre tuttora all’isterectomia; in quelle estreme, ci sono donne che
hanno tentato di togliersi la vita 90. Ma i ricercatori si vedono negare i
finanziamenti, perché «la sindrome premestruale non esiste» 91.
A quanto pare anche la dismenorrea – il dolore che precede o
accompagna la mestruazione – colpisce circa il novanta per cento
delle donne 92, e secondo l’American Academy of Family Physicians
ha effetti sensibili sulla vita quotidiana di una donna su cinque 93.
L’intensità del dolore che le donne percepiscono mese dopo mese è,
per alcune, «quasi paragonabile a un infarto» 94. Ma per quanto
diffusa e dolorosa, la dismenorrea è una patologia per cui i medici
non possono fare nulla. Una rara richiesta di finanziamento per un
progetto di ricerca sulla dismenorrea primaria sosteneva che le sue
cause fossero «poco comprese», e le opzioni terapeutiche
«limitate» 95. I pochi farmaci disponibili hanno numerosi effetti
collaterali anche gravi, e non offrono alcuna garanzia di efficacia.
Io stessa ho chiesto consiglio al mio medico (maschio) per una
dismenorrea talmente dolorosa da interrompere il sonno notturno e
costringermi a passare le giornate rannicchiata in posizione fetale:
lui è scoppiato a ridere e mi ha messa alla porta. Ho rinunciato
all’idea di un secondo tentativo. Qualche anno dopo, immaginate la
mia gioia nel leggere che forse un’équipe di medici aveva trovato
una cura. L’esito primario di un test randomizzato controllato in
doppio cieco del principio attivo «sildenafil citrato» era (signore mie,
tenetevi forte) il seguente: «totale sollievo dal dolore per piú di
quattro ore consecutive», senza «effetti collaterali apprezzabili» 96.
Accipicchia!
Sintetizzato per la prima volta nel 1989, il sildenafil citrato è il
principio attivo del Viagra. Nei primi anni Novanta era stato testato
come farmaco contro le cardiopatie 97: non funzionava granché, ma
in compenso tutti i partecipanti alla sperimentazione segnalavano un
aumento delle erezioni (il campione del test era – neanche a dirlo –
interamente composto da uomini). La disfunzione erettile totale
interessa dal cinque al quindici per cento della popolazione
maschile, a seconda delle fasce di età 98, mentre quella parziale
colpisce in misura variabile il quaranta per cento degli uomini: ovvio
che i ricercatori fossero ben contenti di collaudare un impiego
alternativo del loro composto. Il sildenafil citrato è stato brevettato
negli Stati Uniti nel 1996, mentre l’approvazione della Fda è arrivata
due anni dopo 99. Per gli uomini, una storia a lieto fine.
Ma se il campione sperimentale non fosse stato composto
soltanto da uomini? La storia dello studio del 2013 fa riflettere. Alla
fine la sperimentazione clinica fu sospesa per carenza di fondi: i
ricercatori, non essendo riusciti a mettere insieme un campione di
dimensioni significative, non hanno potuto confermare la loro ipotesi
primaria. Ecco perché nella relazione finale consigliavano di
effettuare «studi clinici piú ampi e di durata maggiore, possibilmente
multicentrici».
E invece non è andata cosí. Il dottor Richard Legro, all’epoca
responsabile dello studio clinico, sostiene di aver presentato agli Nih
due richieste di finanziamento «per uno studio piú vasto e
prolungato, e per un confronto tra gli effetti del sildenafil e quelli
dell’antinfiammatorio non-steroideo che rappresentava lo standard di
cura». Entrambe le richieste sono state bocciate. Nella migliore delle
ipotesi, l’importo del finanziamento sarebbe stato «al di sotto della
media». Il documento finale del primo test non fu neppure sottoposto
a revisione. In base ai commenti ricevuti, dice il dottor Legro, era
chiaro che «per i revisori la dismenorrea non era un problema
prioritario di salute pubblica». D’altronde, quegli stessi revisori «non
avevano un’idea chiara dell’impianto della sperimentazione clinica».
Quando gli chiedo se spera ancora di trovare quei finanziamenti, mi
risponde: «No. Agli uomini non interessa la dismenorrea, e non la
capiscono. Come vorrei un comitato di revisione composto di sole
donne!»
Può sembrare sconcertante che le altre società farmaceutiche
non si siano buttate a pesce su quella che sembrerebbe
un’opportunità commerciale coi fiocchi, ma forse è soltanto
l’ennesimo data gap. Legro mi ha spiegato che, per questione di
costi, l’industria farmaceutica «non finanzia progetti che nascono da
un’iniziativa dei ricercatori», soprattutto se si tratta di preparati
disponibili sul mercato dei generici. Ed è qui che entra in gioco il
data gap: poiché semplicemente non si fanno molte ricerche sulla
dismenorrea 100, le industrie farmaceutiche non sanno con
precisione quanto si potrebbe guadagnare dalla messa in
commercio di un farmaco specifico, quindi sono molto restie a
concedere finanziamenti. Soprattutto se chi decide di stanziare i
fondi non è una donna. Secondo il dottor Legro, poi, un’altra ragione
per cui le industrie non sono molto propense a sperimentare il
sildenafil su soggetti femminili è che eventuali esiti negativi
potrebbero mettere a repentaglio l’uso del composto da parte degli
uomini. In sintesi, è probabile che l’industria farmaceutica non la
ritenga un’opportunità commerciale coi fiocchi. E cosí le donne che
soffrono di dismenorrea sono costrette a sopportare ogni mese i loro
dolori invalidanti.
La predominanza maschile all’interno delle commissioni di
finanziamento potrebbe forse spiegare perché ci siano cosí pochi
farmaci per l’insufficienza uterina. Ogni giorno, in tutto il mondo,
ottocentotrenta donne muoiono a causa di complicazioni durante la
gravidanza e il parto 101, e in alcune regioni dell’Africa il dato annuale
delle morti per parto supera quello dei decessi nei periodi di
maggiore virulenza dell’Ebola 102. Piú della metà dei decessi è
dovuto a contrazioni troppo deboli che impediscono di dare alla luce
il bambino. L’unico trattamento medico disponibile in questi casi è
l’ormone ossitocina, che quando funziona (nel cinquanta per cento
dei casi) dà luogo a un parto vaginale; le donne che non rispondono
all’ossitocina vengono invece sottoposte a cesareo d’urgenza. Nel
Regno Unito se ne fanno circa centomila all’anno, e la maggior parte
è dovuta alla debolezza delle contrazioni.
Al momento, purtroppo, non c’è modo di sapere in anticipo quali
donne risponderanno all’ossitocina e quali no: e cosí tutte le donne
sono sottoposte al trattamento, anche quelle che non ne ricaveranno
nulla, se non un inutile e angoscioso prolungamento del travaglio.
Una mia amica ha avuto un’esperienza simile nel 2017: dopo due
giorni di degenza ospedaliera con dolori fortissimi (due giorni passati
perlopiú da sola, perché il suo compagno era stato mandato a casa)
aveva solo quattro centimetri di dilatazione. Alla fine i medici hanno
optato per un cesareo: è andato tutto bene, ma la mia amica ne è
uscita traumatizzata, tormentata da ricordi improvvisi nelle settimane
successive al parto. Gli esami interni e le procedure di preparazione
all’intervento, dice, sono stati una brutale aggressione. E se invece
tutto ciò non fosse stato necessario? Se si fosse saputo fin dall’inizio
che ci voleva un taglio cesareo?
Susan Wray, docente di fisiologia cellulare e molecolare
all’università di Liverpool, ha tenuto nel 2016 una conferenza alla
Physiological Society 103. Wray, che è anche direttrice del centro di
ricerche Better Births (nascite migliori) del Liverpool Women’s
Hospital, ha spiegato in quell’occasione che secondo gli studi piú
recenti le donne con contrazioni troppo deboli avrebbero una più
marcata acidità del sangue miometriale (il miometrio è la parte
muscolare liscia dell’utero, quella che genera le contrazioni). A
maggiori livelli di acidità corrisponderebbe una maggiore probabilità
di parto cesareo, perché l’ossitocina non è efficace sulle donne con
un sangue dal Ph che tende all’acidità.
Ma Susan Wray non voleva soltanto capire in anticipo quando ci
sarebbe stato bisogno di un parto cesareo; voleva anche evitarlo.
Insieme alla collega Eva Wiberg-Itzel, la dottoressa Wray ha
condotto uno studio randomizzato controllato su un campione di
donne con contrazioni di scarsa intensità: al cinquanta per cento di
loro è stata somministrata l’ossitocina; al restante cinquanta per
cento è stato dato prima del bicarbonato di sodio, e poi, un’ora dopo,
l’ossitocina. Il risultato è apparso sbalorditivo: il sessantasette per
cento delle donne a cui era stata somministrata solo ossitocina ha
partorito per via vaginale, ma nell’altra metà del campione (le donne
che avevano assunto prima il bicarbonato e poi l’ossitocina) la
percentuale di parti vaginali era addirittura dell’ottantaquattro per
cento. Come le stesse ricercatrici hanno precisato, la dose di
bicarbonato non era parametrata né al peso corporeo né al Ph del
sangue, e la somministrazione era unica. Con piú dosi meglio
calibrate, forse, l’efficacia del metodo potrebbe aumentare.
Si tratta di una scoperta importantissima, non solo per le decine di
migliaia di donne che ogni anno subiscono un intervento chirurgico
che, alla luce di questa ipotesi, potrebbe rivelarsi inefficace (senza
contare i costi a carico del sistema sanitario nazionale). Nei Paesi in
cui l’intervento è rischioso o poco accessibile, una scoperta del
genere potrebbe salvare molte vite. Tanto piú che un cesareo non è
pericoloso soltanto nei Paesi in via di sviluppo: lo è anche per le
donne di colore che vivono negli Stati Uniti 104.
In generale, gli Stati Uniti hanno il piú alto tasso di mortalità
materna tra i Paesi del Primo mondo, infatti, ma il problema appare
particolarmente grave per gli afroamericani. Secondo stime
dell’Oms, il rischio di morte tra le sole donne (gestanti e puerpere) di
colore è pari ai livelli di Paesi molto piú poveri come il Messico o
l’Uzbekistan. Le americane di colore hanno esiti sanitari meno
positivi rispetto alle donne bianche, ma nell’ambito specifico della
gravidanza e dell’assistenza all’infanzia i dati sono sconvolgenti:
rispetto alle donne di pelle bianca, le afroamericane hanno il
duecentoquarantatre per cento di probabilità in piú di morire in
gravidanza o per complicazioni sopraggiunte durante il parto. E non
dipende solo dal fatto che le afroamericane tendono a essere piú
povere. Da un’analisi del 2016 sulle nascite avvenute a New York
risultava che «per le madri di colore con un grado di istruzione
universitario che partorivano negli ospedali pubblici di zona, il rischio
di complicanze gravi della gestazione o del parto era superiore a
quello delle madri bianche che non avevano conseguito il diploma di
scuola superiore». Nemmeno essere una famosa star del tennis
come Serena Williams ti mette al sicuro dai pericoli: nel febbraio del
2018 la pluricampionessa ha infatti raccontato di essere uscita viva
per miracolo da un cesareo di emergenza 105. I parti chirurgici sono
piú frequenti tra le donne di colore, e da uno studio effettuato nel
Connecticut nel 2015 è risultato che per le afroamericane – a parità
di condizioni socioeconomiche – il rischio di un nuovo ricovero nel
mese successivo all’intervento è piú che doppio rispetto alle
puerpere bianche 106. Ecco perché la ricerca di Susan Wray
potrebbe cambiare molte cose.
Sembra però che dovremo attendere ancora a lungo prima di
vedere i frutti concreti del suo lavoro. Venuta a sapere che il Medical
Research Council britannico finanziava programmi di ricerca a
beneficio dei Paesi a medio e basso reddito, la dottoressa Wray ha
presentato domanda ma, nonostante la mole di dati a sostegno
dell’importanza del suo progetto, la richiesta è stata respinta. Il suo
ambito di interesse non era, le è stato detto, abbastanza prioritario.
Dunque al momento abbiamo una sola terapia per le partorienti con
contrazioni di intensità non sufficiente, e nella metà dei casi non
funziona. Mentre i farmaci per l’insufficienza cardiaca, dice la
dottoressa Wray, sono una cinquantina.
L’establishment sanitario si disinteressa delle donne: è un dato di
fatto, abbondantemente provato. I sintomi, le patologie, i corpi di
metà della popolazione mondiale sono trascurati, non creduti,
ignorati. E tutto questo è il risultato di un’assenza di dati, associata
all’idea ancora prevalente – a dispetto delle molte prove contrarie –
che l’essere umano predefinito sia l’essere umano maschio. Non è
cosí. Gli uomini sono, permettetemi l’ovvietà, semplicemente uomini.
E i dati raccolti su di loro non valgono – non possono e non devono
valere – per le donne. C’è bisogno di una rivoluzione nella ricerca e
nella pratica medica, e ce n’è bisogno per ieri. Dobbiamo insegnare
ai medici a dare ascolto alle donne; a riconoscere che la loro
incapacità di diagnosticare un disturbo non significa che la donna
finge o è isterica, ma che la scienza è minata dall’assenza di dati di
genere. È ora di smettere di trascurare le donne, e di cominciare a
curarle.
Parte quinta
Vita pubblica
XII.
Una risorsa a costo zero

La prima domanda che viene fatta a chiunque abbia proposto una


qualsiasi iniziativa politica è: «Quanto costa?»; la seconda, subito
dopo, è: «Possiamo permettercelo?» Delle due, la piú insidiosa è
senz’altro l’ultima. La risposta dipende dalla situazione economica
del momento, e valutare una situazione economica è un’operazione
piú arbitraria di quanto si pensi.
La misura standard di un’economia nazionale, come è noto, è il
prodotto interno lordo (Pil): se l’economia avesse una religione, il Pil
sarebbe il suo dio. È una grandezza che si calcola in base ai dati
raccolti da svariate analisi, e corrisponde al valore totale delle merci
(quante paia di scarpe sono state fabbricate, per esempio) e dei
servizi (quanti pasti sono stati serviti nei ristoranti) prodotti da una
nazione. Tra gli elementi che concorrono a definirlo ci sono anche
l’ammontare complessivo dei nostri stipendi e di tutti i nostri esborsi,
comprese le somme spese dallo Stato e dalle aziende. Sembra tutto
molto scientifico, ma la verità è che anche il Pil ha un problema con
le donne.
Calcolare il Pil di una nazione è un processo quanto mai
soggettivo, spiega Diane Coyle, docente di economia alla
Manchester University. «Molti pensano che [il Pil] sia un dato reale.
E invece no: è una costruzione fondata su un insieme di valutazioni
e su un buon numero di incognite». Misurare il Pil, aggiunge, «non è
come misurare l’altezza di una montagna». Quando leggete sui
giornali che «il Pil è aumentato dello 0,3 per cento nell’ultimo
trimestre», dovreste ricordarvi che quello 0,3 «è minimizzato dal
margine di incertezza dei dati sottostanti».
Quell’incertezza è frutto di clamorose lacune nei dati che
concorrono a determinare la variazione, a cominciare dalla miriade
di beni e servizi che non vengono presi in considerazione nel calcolo
del Pil. E la scelta di quali considerare e quali no è comunque
arbitraria. Il fatto è che fino agli anni Trenta del secolo scorso
nessuno aveva mai pensato seriamente di misurare le economie
nazionali; ma poi c’è stata la Grande depressione, e tutto è
cambiato. Per cercare di porre rimedio al disastro economico, il
governo aveva bisogno di sapere con piú precisione che cosa stava
succedendo: e perciò nel 1934 uno statistico di nome Simon
Kuznets calcolò il primo bilancio nazionale degli Stati Uniti 1: fu cosí
che nacque il Pil.
Venne poi la Seconda guerra mondiale, e proprio in quegli anni,
mi spiega Diane Coyle, si mise a punto il quadro metodologico di cui
ci serviamo tuttora. Il calcolo doveva rispondere alle necessità di
un’economia di guerra: «Lo scopo principale era capire quanto si
poteva produrre, e quali consumi dovevano essere sacrificati per
avere risorse sufficienti a sostenere lo sforzo bellico». Perciò si
decise di conteggiare l’intera produzione dello Stato e delle aziende
private, e «il concetto di economia finí per corrispondere a “ciò che
fa lo Stato e ciò che fanno le aziende”». Ma quello che sarebbe poi
diventato «l’accordo internazionale sul modo di pensare e misurare
l’economia» tralasciava un importante aspetto della produzione
nazionale, ovvero il lavoro domestico non retribuito: cucinare, pulire
la casa, occuparsi dei figli. «Tutti riconoscono che quel lavoro ha un
valore economico; solo che non fa parte dell’“Economia”», spiega
Diane Coyle.
Non si è trattato di una semplice svista ma di una scelta
deliberata, giunta al termine di un acceso dibattito. «L’esclusione dei
servizi non pagati delle casalinghe dal calcolo del reddito nazionale
distorce il quadro generale», scriveva l’economista Paul Studenski
nel suo testo canonico del 1958, The Income of Nations. In linea di
principio, sosteneva, «il lavoro non retribuito svolto all’interno della
casa dovrebbe fare parte del Pil». Ma anche i principî sono una
creazione umana, e cosí, «dopo un po’ di tira e molla» e lunghe
discussioni su come si sarebbero potuti misurare e valutare i servizi
domestici non retribuiti, «si decise, – racconta Coyle, – che la
raccolta dei dati sarebbe stata troppo complessa».
Come molte delle scelte che nei campi piú svariati,
dall’architettura alla ricerca medica, hanno portato a escludere le
donne per amor di semplificazione, anche questa è sintomo di una
cultura che vede nel maschio l’essere umano per definizione e nella
femmina un’aberrazione marginale. Distorcere una realtà che in
teoria si dovrebbe misurare può avere un senso soltanto se si ritiene
che il genere femminile non sia necessario; che le donne siano un di
piú, un’inutile complicazione. Ma se si sta parlando di metà del
genere umano, non ha senso. Se si dà il giusto valore ai dati, non ha
senso.
Escludere le donne, infatti, genera distorsioni. Diane Coyle cita ad
esempio il periodo che va dal dopoguerra fino agli anni Settanta. Al
giorno d’oggi «sembra una specie di età dell’oro della produttività»,
ma per certi aspetti è un’illusione. L’evento piú significativo di quel
periodo è che le donne hanno cominciato a lavorare fuori casa, e i
compiti che un tempo si svolgevano tra le mura domestiche – e che
le statistiche non consideravano – sono stati sostituiti dai servizi e
dai beni di consumo: «Comprare cibi già pronti al supermercato
invece che prepararli a partire dalla materie prime; acquistare abiti
invece che confezionarli a casa». Non si può dire che la produttività
sia aumentata: si è soltanto spostata dall’invisibile dimensione
privata del femminile alla dimensione che conta: la sfera pubblica,
dominata dai maschi.
La mancata misurazione dei servizi domestici non retribuiti è forse
la madre di tutti i gender data gap. Il lavoro di cura non pagato
corrisponde, secondo alcune stime, al cinquanta per cento del Pil dei
Paesi ricchi; nei Paesi a basso reddito, la quota sale fino all’ottanta
per cento 2. Se volessimo includerlo nel calcolo complessivo della
ricchezza nazionale, il Pil del Regno Unito balzerebbe a 3900
miliardi di dollari 3 (contro i 2600 del dato ufficiale fornito dalla Banca
mondiale) 4 e quello dell’India salirebbe a 3700 miliardi di dollari 5
(contro i 2300 della Banca mondiale).
Le Nazioni unite calcolano a 3200 miliardi di dollari il valore
complessivo dei servizi gratuiti di assistenza all’infanzia svolti negli
Stati Uniti nel 2012: all’incirca il venti per cento del Pil di quell’anno
(pari a 16 200 miliardi di dollari) 6. Nel 2014 le ore di assistenza non
retribuita prestate ai familiari malati di Alzheimer erano stimate a
quasi diciotto miliardi: negli Stati Uniti, poco meno di una persona su
nove nella fascia di età da sessantacinque anni in su è affetta dalla
malattia. Il corrispettivo in denaro di quel lavoro era calcolato a circa
duecentodiciotto miliardi di dollari 7, ovvero, come sosteneva l’autrice
di un articolo pubblicato da «The Atlantic», quasi metà del valore
netto delle vendite realizzate dalla catena Walmart nel 2013 8.
Nel 2015 il lavoro domestico e di cura non retribuito era valutato
al ventuno per cento del Pil, «cioè piú del settore manifatturiero, del
commercio, dei servizi immobiliari, delle miniere, dell’edilizia, dei
trasporti e dei servizi di magazzinaggio messi insieme» 9. La filiale
australiana di una grande multinazionale del settore contabile e
finanziario sostiene che i servizi non retribuiti di accudimento dei
minori dovrebbero essere considerati il principale settore produttivo
del Paese, giacché producono (secondo dati del 2011) ben 345
miliardi di dollari, ovvero «quasi il triplo del settore finanziario e
assicurativo» 10, che raggiunge solo il terzo posto in una classifica
che vede in seconda posizione gli «altri servizi domestici non
retribuiti».
Si tratta, come avrete notato, di stime: non può che essere cosí,
poiché oggi nessun Paese raccoglie dati sistematici sul lavoro di
cura gratuito. Questo non vuol dire che sia impossibile: al contrario,
c’è un metodo molto semplice, che consiste nel chiedere alle donne
come impiegano il loro tempo. Si sceglie un campione di soggetti e
lo si invita a registrare tutti gli spostamenti giornalieri, specificando
che cosa fa ognuno, dove e con chi. Questi semplici metodi di
raccolta dei dati, sostiene l’autorevole economista Nancy Folbre, ci
hanno permesso di scoprire che «in ogni nazione del mondo le
donne svolgono una quantità enorme di lavoro informale e hanno,
complessivamente, un orario di lavoro piú lungo di quello degli
uomini».
Nella versione piú classica, i sondaggi sull’impiego del tempo
servono a misurare attività ben definite come la preparazione dei
pasti, la pulizia della casa, l’allattamento 11. Il che significa che
spesso non tengono conto dei servizi «a richiesta»: quando per
esempio si sta facendo qualcosa ma nel contempo si tiene d’occhio
un bambino che dorme o si resta a disposizione di un familiare
infermo: anche qui c’è un vuoto di dati. Alcuni sondaggi che si
ponevano l’obiettivo esplicito di misurare i servizi a richiesta ci hanno
comunque dimostrato che il valore di mercato di quel tipo di
assistenza, anche a un salario di sostituzione molto basso, è
significativo 12, ma come già abbiamo visto per i dati sugli
spostamenti quel lavoro finisce spesso per perdersi, confondendosi
con il tempo libero e personale 13. Folbre cita alcuni studi
sull’assistenza domestica per gli ammalati di Hiv/Aids in Botswana, i
quali «stimavano a circa cinquemila dollari il valore annuo dei servizi
resi da ciascun assistente domiciliare: cifra che, se fosse inclusa
nelle statistiche ufficiali, farebbe salire di molto la spesa sanitaria
complessiva» 14.
La buona notizia è che di sondaggi di questo tipo se ne fanno
sempre piú spesso, in molti Paesi. «Nel primo decennio del XXI
secolo ne sono stati condotti quasi novanta, cioè piú di quanti se ne
siano fatti in tutto il secolo precedente», scrive Nancy Folbre. Eppure
ancora oggi in molte parti del mondo non si hanno dati affidabili
sull’impiego del tempo 15, e spesso non si vede neppure la necessità
di misurare il lavoro non pagato delle donne 16. Il sondaggio
sull’impiego del tempo che si sarebbe dovuto effettuare in Australia
nel 2013, per esempio, è stato annullato: i dati piú recenti che
abbiamo su quel Paese risalgono al 2006 17.
Secondo Diane Coyle «è molto difficile credere che la decisione
originale di escludere il lavoro domestico dal computo del Pil non sia
stata influenzata dagli stereotipi di genere degli anni Quaranta e
Cinquanta». Il suo sospetto appare quanto mai giustificato, e non
solo per l’oggettiva fragilità del pretesto ufficiale. Grazie alla
diffusione dei beni pubblici digitali come Wikipedia e i software open-
source, che stanno poco alla volta rimpiazzando beni di mercato
costosi come le enciclopedie e i software proprietari, il lavoro gratuito
comincia finalmente a essere preso sul serio in quanto valore
economico da misurare e includere nelle statistiche ufficiali. E qual è
la differenza tra preparare un pasto a casa propria e produrre del
software a casa propria? La differenza è che cucinare è un lavoro
svolto prevalentemente da donne, mentre programmare è un lavoro
prevalentemente maschile.

La conseguenza della mancata raccolta di tutti questi dati è che il


lavoro gratuito delle donne è visto perlopiú come «una risorsa
sfruttabile a costo zero», scrive la docente di economia Sue
Himmelweit 18. E cosí, quando le economie nazionali si ingegnano
per contenere i deficit di bilancio, le donne sono spesso le prime a
farne le spese.
All’indomani della crisi finanziaria del 2008, il Regno Unito ha
tagliato in modo drastico i servizi pubblici. I bilanci dei centri per
l’infanzia sono stati decurtati di ottantadue milioni di sterline tra il
2011 e il 2014; tra il 2010 e il 2014, ben 285 centri sono stati
accorpati o chiusi 19. Nel quinquennio 2010-15 i bilanci dei servizi
sociali gestiti dagli enti locali si sono ridotti di cinque miliardi di
sterline 20, i contributi previdenziali sono stati rivalutati a tassi inferiori
all’inflazione e vincolati a un tetto massimo per nucleo familiare, e i
requisiti di idoneità all’assegno di accompagnamento vincolati a una
soglia di reddito che non tiene conto degli incrementi del salario
minimo nazionale 21. In sostanza: tanti bei soldini risparmiati.
Il problema è che quei tagli non sono veri e propri risparmi: in
realtà si è soltanto scaricato sulle donne il costo dei servizi, giacché
il lavoro di cura deve comunque essere fatto. Secondo le stime del
Women’s Budget Group (Wbg) 22, nel Regno Unito nel 2017 circa un
ultracinquantenne su dieci (1,86 milioni di persone) aveva un
bisogno assistenziale non coperto a causa dei tagli al bilancio. E che
fine hanno fatto quei bisogni? Si sono trasformati in lavoro in piú per
le donne.
Come se non bastasse, il taglio della spesa pubblica ha generato
un incremento della disoccupazione femminile: a marzo 2012, dopo
due anni di austerità, la disoccupazione femminile era salita del venti
per cento e interessava 1,13 milioni di donne: il dato piú alto degli
ultimi venticinque anni 23. Invece il tasso di occupazione maschile
risultava pressoché invariato dal 2009, anno di inizio della
recessione. Sempre in Gran Bretagna, il sindacato Unison stimava
per il 2014 un incremento del settantaquattro per cento della
sottoccupazione femminile 24.
Nel 2017 la biblioteca della House of Commons ha pubblicato
un’analisi sull’impatto cumulativo della manovra di «consolidamento
fiscale» per il decennio 2010-20: a quanto risulta l’ottantasei per
cento dei tagli ricadrebbe sulla popolazione femminile 25. Secondo
un’analisi del Women’s Budget Group 26, entro il 2020 le riforme
fiscali e previdenziali messe in atto dal 2010 avranno un impatto
sugli introiti della popolazione femminile 27 pari al doppio degli
uomini. Se ancora non bastasse, le ultime correzioni normative non
si limitano a penalizzare in misura sproporzionata le donne dei ceti
meno abbienti (soprattutto le madri single e le donne di origine
asiatica) 28 ma si dimostrano anche vantaggiose per i maschi delle
classi agiate. Secondo l’analisi del Wbg, gli uomini che rientrano nel
cinquanta per cento dei nuclei familiari piú ricchi hanno in qualche
modo beneficiato delle riforme fiscali e previdenziali introdotte dal
giugno del 2015 29.
Ma perché il governo britannico mette in atto politiche cosí
ingiuste? La risposta è semplice: nessuno prende in considerazione i
dati. Oltre a non quantificare l’apporto (non retribuito) delle donne al
Pil, lo Stato inglese, come molti altri nel mondo, non verifica i suoi
bilanci in un’ottica di genere.
Rifiutandosi ostinatamente (l’ultima volta è stata nel dicembre
2017) di valutare le conseguenze dei provvedimenti di bilancio sugli
equilibri di genere, il governo del Regno Unito ha di fatto commesso
un illecito, violando la legge che obbliga il settore pubblico a non
discriminare tra i sessi. La normativa sulla parità di genere nelle
amministrazioni pubbliche fa parte dell’Equality Act del 2010, e
stabilisce che «un’autorità pubblica deve, nell’esercizio delle sue
funzioni, tenere in giusta considerazione la necessità di eliminare
ogni forma di discriminazione [e] favorire le pari opportunità» 30. In
un’intervista rilasciata al «Guardian», la direttrice del Women’s
Budget Group Eva Neitzert ha confessato di non vedere «come il
ministero del Tesoro potrebbe ottemperare a quell’obbligo senza
valutare il bilancio dello Stato in un’ottica di genere» 31. Forse i
ministri dell’Economia stanno «cercando di nascondere alcune
scomode verità sugli effetti delle loro misure per la popolazione
femminile?»
Se cosí fosse sarebbe una grossa sciocchezza, giacché tagliare
la spesa per i servizi pubblici non è solo iniquo ma anche
controproducente. Aumentare il carico di lavoro non pagato che già
grava sulle spalle delle donne significa limitare la loro partecipazione
alla forza lavoro retribuita. E si sa che la partecipazione delle donne
alla forza lavoro ha un impatto significativo sul Pil nazionale.
Per esempio, l’ingresso di quasi trentotto milioni di donne nella
popolazione attiva statunitense, fra il 1970 e il 2009, ha fatto salire
dal trentasette a poco meno del quarantotto per cento il tasso di
partecipazione femminile al mercato del lavoro. La società di
consulenza McKinsey ha calcolato che senza quell’incremento il Pil
degli Stati Uniti sarebbe piú basso del venticinque per cento: «Una
cifra pari al Pil complessivo dell’Illinois, della California e dello Stato
di New York» 32. Il Forum economico mondiale conferma che
l’incremento della partecipazione femminile alla forza lavoro «è stato
da dieci anni a questa parte un motore importante della crescita
europea». Viceversa, «la regione Asia-Pacifico perde ogni anno dai
quarantadue ai quarantasette miliardi di dollari a causa delle scarse
opportunità di lavoro a disposizione delle donne» 33.
Ci sono ancora ampi margini di miglioramento. Nei Paesi
dell’Unione europea il divario di occupazione tra uomini e donne si
aggira in media intorno al dodici per cento, con punte dell’1,6 in
Lettonia e del 27,7 a Malta 34; negli Stati Uniti lo scarto è del tredici
per cento 35, mentre il dato globale è stimato al ventisette 36. Il Forum
economico mondiale ha calcolato che se il divario venisse colmato
«gli effetti sulle economie dei Paesi sviluppati sarebbero
notevolissimi: il Pil degli Stati Uniti crescerebbe del nove per cento;
quello dell’Eurozona addirittura del tredici» 37. Nel 2015 la McKinsey
& Company ha calcolato che se le donne potessero partecipare alla
forza lavoro in misura pari agli uomini il Pil mondiale aumenterebbe
di ben dodicimila miliardi di dollari 38.
Ma questo non accade, e la ragione è molto semplice: le donne
non hanno tempo. Sia l’Ocse 39, sia la McKinsey 40 hanno messo in
luce una «forte correlazione negativa» tra il tempo dedicato al lavoro
di cura non retribuito e la quota di popolazione attiva femminile. Il
venticinque per cento delle donne residenti nell’Unione europea
indica il lavoro di cura come motivo della mancata partecipazione
alla forza lavoro 41, contro il solo tre per cento degli uomini.
Nel Regno Unito, le donne con figli in tenera età lavorano meno
ore rispetto alle loro connazionali senza figli, mentre per gli uomini
vale il contrario 42. Una situazione analoga si osserva in Messico,
dove nel 2010 il quarantasei per cento delle madri di figli piccoli
faceva parte della popolazione attiva, contro il cinquantacinque delle
donne senza figli. Le percentuali maschili erano, rispettivamente,
novantanove e novantasei. Negli Stati Uniti il lavoro retribuito è
abbastanza diffuso tra le donne piú giovani, ma cala drasticamente
dopo la nascita del primo figlio, «che avviene sempre piú tardi» 43.
Nei Paesi poveri, la carenza di informazioni sul carico di lavoro
non pagato delle donne rischia di intralciare i programmi di
espansione economica. Mayra Buvinić, della Fondazione delle
Nazioni unite, cita ad esempio moltissime iniziative di sviluppo in
Paesi a basso reddito infarcite di programmi di formazione che non
sono serviti a nulla, perché «basati sul presupposto erroneo che le
donne avessero un mucchio di tempo libero, quando in realtà si
sapeva ben poco di come organizzavano le loro giornate» 44. Le
donne si iscrivevano, ma poiché i programmi di formazione non
tenevano conto delle loro necessità di accudimento dei figli,
rinunciavano prima della fine. Quando si dice un ottimo sistema per
gettare al vento i fondi per lo sviluppo e dissipare il potenziale
economico della popolazione femminile. Se davvero si volesse
potenziare l’occupazione femminile, la cosa migliore da fare sarebbe
garantire l’assistenza universale all’infanzia in tutti i Paesi del
mondo.
Va da sé che non è soltanto la responsabilità dei figli a influire
negativamente sulla partecipazione al lavoro delle donne. Anche la
cura dei familiari anziani occupa una parte considerevole del tempo
femminile, e si sa già che la domanda è destinata a crescere 45. Tra
il 2013 e il 2050 la consistenza numerica complessiva della
popolazione ultrasessantenne è destinata a raddoppiare 46; per la
prima volta nella Storia, entro il 2020 le persone con piú di
sessant’anni saranno piú numerose dei bambini al di sotto dei
cinque 47. Il mondo diventa piú vecchio, dunque, e anche piú malato:
nel 2014 quasi un quarto del carico di morbilità mondiale riguardava
gli ultrasessantenni, e si trattava in particolar modo di malattie
croniche 48. Entro il 2030 si stima che circa sei milioni di anziani
cittadini del Regno Unito (quasi il nove per cento della popolazione
complessiva) dovranno convivere con una patologia cronica 49.
L’Unione europea ha già superato questo traguardo: si calcola che il
dieci per cento della sua popolazione 50 (ovvero circa cinquanta
milioni di persone in tutta l’Ue) 51 sia affetto da una o piú malattie
inguaribili, e si tratta per la maggior parte di
ultrasessantacinquenni 52. Negli Stati Uniti, l’ottanta per cento degli
ultrasessantacinquenni ha una o piú patologie croniche, mentre il
cinquanta ne ha due o piú di due 53.
Tutto questo fabbisogno di cura (negli Stati Uniti la forza lavoro
che assiste gratuitamente i familiari anziani e malati è di circa
quaranta milioni di persone) 54 limita la capacità di lavoro retribuito
delle donne. Rispetto agli uomini nella stessa condizione, le donne
che hanno responsabilità di cura sono sette volte piú propense a
passare dal tempo pieno al lavoro part-time 55. Le americane di età
compresa fra i cinquantacinque e i sessantacinque anni che devono
accudire i propri genitori anziani tendono a ridurre il carico di lavoro
retribuito in media del quarantun per cento 56, mentre il dieci per
cento delle americane che si prendono cura di un congiunto affetto
da demenza ha perso i benefit lavorativi 57. In Gran Bretagna, il
diciotto per cento delle donne nella stessa condizione ha preso
un’aspettativa dal lavoro, e quasi il diciannove per cento ha dovuto
licenziarsi per assistere a tempo pieno o in misura prioritaria un
familiare ammalato, mentre il venti per cento delle donne che
svolgono compiti di cura è passato dal lavoro a tempo pieno a quello
a tempo parziale, contro il solo tre per cento dei maschi 58.

Se i governi hanno interesse a incrementare il Pil attraverso una


maggiore partecipazione femminile alla forza lavoro retribuita, è
chiaro che dovranno alleggerire il carico di lavoro non retribuito che
grava sulle donne: la McKinsey & Company calcola che una
riduzione dell’orario di lavoro gratuito compresa fra le tre e le cinque
ore al giorno sarebbe correlata a un incremento del dieci per cento
della partecipazione femminile alla forza lavoro 59. Come abbiamo
visto, sarebbe molto utile introdurre congedi di paternità e maternità
retribuiti: ciò accrescerebbe la quota femminile sul totale della
popolazione attiva e favorirebbe una maggiore parità salariale 60 –
cosa che già di per sé rappresenta un vantaggio in termini di Pil.
L’Institute for Women’s Policy Research ha calcolato che se nel 2016
le donne avessero percepito, a parità di mansioni, lo stesso
stipendio degli uomini, l’economia statunitense avrebbe prodotto un
reddito supplementare pari a 512,6 miliardi di dollari, corrispondenti
al 2,8 per cento del Pil di quell’anno e a «circa sedici volte la spesa
complessiva del governo centrale e dei singoli Stati per i programmi
di assistenza temporanea alle famiglie in difficoltà» 61.
Un altro intervento ancora piú decisivo a favore dell’occupazione
femminile potrebbe essere realizzato investendo di piú nelle
infrastrutture sociali. Con il termine «infrastrutture» siamo soliti
riferirci al complesso delle attrezzature materiali necessarie al
funzionamento di una società moderna: strade, ferrovie, acquedotti,
reti elettriche. Di solito il termine non comprende i servizi pubblici
(l’assistenza ai bambini e agli anziani, per esempio) che, al pari delle
infrastrutture fisiche, garantiscono il funzionamento delle società
moderne. Tuttavia, secondo il Women’s Budget Group, anche i
servizi pubblici dovrebbero essere considerati infrastrutture 62.
Quelle che il Wbg chiama infrastrutture sociali «garantiscono
all’economia e alla società un rendimento a lungo termine, poiché
grazie al loro apporto la popolazione è piú istruita, piú sana e meglio
assistita». Si può dunque sostenere che anche l’esclusione dei
servizi di assistenza dal concetto generale di «infrastruttura»
rappresenti l’ennesimo pregiudizio maschile che si annida,
incontestato, nella nostra idea di struttura economica.
Consideriamo per esempio i servizi di istruzione prescolare e di
custodia formale per la primissima infanzia: un incremento degli
investimenti in quella direzione consentirebbe di tagliare la spesa
scolastica complessiva, riducendo il fabbisogno di insegnamenti di
sostegno 63. Senza contare gli ulteriori vantaggi in termini di sviluppo
cognitivo, maggiore profitto scolastico e migliori condizioni
sanitarie 64, soprattutto per i bambini dei ceti economicamente piú
deboli 65. E tutto ciò, a lungo andare, avrebbe effetti benefici sulla
produttività 66.
Da una relazione su due studi pilota nei servizi di istruzione
prescolastica è risultato che i cittadini americani che nella prima
infanzia avevano beneficiato di un intervento educativo avevano
maggiori probabilità di svolgere un’attività di lavoro a quarant’anni
(settantasei per cento contro il sessantadue per cento dei
quarantenni che non avevano usufruito di un’istruzione
prescolastica), percepivano un reddito annuo piú consistente (20
800 dollari in valore mediano contro 15 300) 67, possedevano
un’automobile (ottantadue per cento contro sessanta per cento) e un
libretto di risparmio (settantasei per cento contro cinquanta). Si è
inoltre constatato che l’istruzione prescolastica ha altri e piú ampi
effetti indiretti sotto forma di un minore tasso di criminalità, che a sua
volta riduce la spesa per la pubblica sicurezza. Secondo gli autori
della relazione, dunque, investire nei servizi di istruzione
prescolastica garantisce un’espansione economica a lungo termine
piú consistente di quella che si otterrebbe erogando sussidi alle
aziende: la crescita supplementare del Pil potrebbe essere del 3,5
per cento entro il 2080.
Nonostante i potenziali vantaggi, gli investimenti nelle
infrastrutture sociali sono spesso ignorati, non da ultimo per
mancanza di dati relativi al lavoro non retribuito. È colpa di
quest’ennesimo vuoto di dati di genere se, come afferma Nancy
Folbre, quei benefici sono sottovalutati 68. E invece potrebbero
essere enormi. Stiamo parlando di un milione e mezzo di posti di
lavoro in tutto il Regno Unito, contro i settecentocinquantamila che
potrebbero generarsi da un analogo apporto di capitali a favore
dell’edilizia. Se negli Stati Uniti si investisse il due per cento del Pil
nei settori dell’assistenza «si creerebbero quasi tredici milioni di
nuovi posti di lavoro, contro i sette milioni e mezzo guadagnati con
l’investimento di un’identica quota del Pil nel comparto delle
costruzioni» 69. Inoltre, poiché il settore dell’assistenza ha
(attualmente) una forte componente femminile, molti di quei nuovi
posti di lavoro sarebbero destinati alle donne; e come già abbiamo
visto, un incremento dell’occupazione femminile fa da traino alla
crescita del Pil.
Il Women’s Budget Group ha calcolato che un investimento nei
servizi di pubblica assistenza pari al due per cento del Pil in Gran
Bretagna, negli Stati Uniti, in Germania e in Australia
«aumenterebbe l’occupazione maschile in misura pari a un
investimento nel settore edile […] ma per le donne l’incremento dei
posti di lavoro sarebbe quattro volte maggiore» 70. Negli Stati Uniti,
dove due terzi dei nuovi posti di lavoro nel settore dell’assistenza
sarebbero coperti da donne, contro solo un terzo nel settore edile 71,
l’investimento farebbe crescere di otto punti il tasso di occupazione
femminile, dimezzando il divario occupazionale di genere 72. Nel
Regno Unito, invece, lo scarto si ridurrebbe del venticinque per
cento (cosa tutt’altro che disprezzabile, tenuto conto che è stata in
special modo l’occupazione femminile a risentire delle politiche di
austerità) 73.
Oltre a incrementare l’occupazione femminile (e di conseguenza il
Pil), un investimento nelle infrastrutture sociali avrebbe anche effetti
positivi in termini di riduzione del carico di lavoro femminile non
retribuito. Nel Regno Unito, il tasso di occupazione delle madri con
bambini di età compresa fra i tre e i cinque anni è inferiore del sei
per cento alla media dei Paesi Ocse, e nel 2014 solo il quarantuno
per cento delle madri di bambini al di sotto dei quattro anni aveva un
lavoro a tempo pieno, contro l’ottantadue per cento delle donne
senza figli e l’ottantaquattro per cento dei padri 74. Questa disparità
di genere è in parte legata alle aspettative sociali (sancite per legge
dalla sproporzione tra le indennità di maternità e paternità) che
affidano alla madre una quota rilevante dei compiti di accudimento, e
in parte a motivazioni di carattere finanziario: a causa del divario
retributivo di genere, nelle coppie eterosessuali è piú conveniente
che sia la donna (in quanto genitore che guadagna di meno) a
limitare il proprio orario di lavoro.
E poi ci sono i costi dell’assistenza all’infanzia. Una recente
indagine del ministero dell’Istruzione britannico ha rivelato che il
cinquantaquattro per cento delle madri che non lavorano fuori casa
sarebbe dispostissimo a farlo se solo potesse affidare i figli «a un
servizio di custodia comodo, qualificato e non troppo costoso» 75. Il
fatto è che non può. Negli ultimi dieci o quindici anni, l’aumento dei
costi dell’assistenza all’infanzia nel Regno Unito ha superato di gran
lunga l’inflazione 76: il trentatre per cento del reddito netto di una
famiglia inglese serve a pagare le rette di asili nido e scuole
materne, contro una media Ocse del tredici per cento 77. Non
sorprende perciò che solo alcuni ceti socioeconomici scelgano di
avvalersi di quei servizi, cosa che non accade in altri Paesi dell’area
Ocse 78. Anche questo ha effetti a catena sul lavoro retribuito delle
donne: il ventinove per cento (ma quasi il cinquanta per cento nella
fascia di reddito medio-basso) delle donne inglesi interrogate ha
detto alla McKinsey & Company che «tornare al lavoro dopo la
nascita di un figlio non è finanziariamente fattibile»: la percentuale di
uomini che hanno dato questa risposta è pari alla metà 79.
La situazione sembra piuttosto simile a quella fotografata nel
2012 da un’indagine del Pew Research Center, i cui esperti hanno
rivelato tra le altre cose che mandare un figlio al nido o all’asilo nello
Stato di New York costa piú che in tutto il resto del Paese 80.
Secondo il Center for American Progress, invece, prima che il
sindaco imponesse per legge l’istruzione prescolastica universale,
«piú di un terzo delle famiglie newyorchesi in lista per usufruire di
quei servizi perdeva il lavoro o era comunque impossibilitato a
lavorare». A Los Angeles, dove nidi e scuole materne sono alle
prese con i drastici tagli dei finanziamenti pubblici, si stima che circa
seimila madri siano costrette a rinunciare a un numero complessivo
di ore di lavoro calcolato intorno al milione e mezzo, o a 24,9 milioni
di dollari in mancati salari.
E pensare che sarebbe cosí facile risolvere il problema. È stato
dimostrato che se i servizi di assistenza all’infanzia sono regolari le
donne sono due volte piú propense a non rinunciare al lavoro.
Secondo un altro studio, «i programmi di istruzione prescolastica
finanziati dallo Stato potrebbero incrementare del dieci per cento il
tasso di occupazione delle madri» 81. Un esperimento naturale in
questo senso è stato praticato nel 1977 dal governo del Québec,
mediante l’introduzione di un sussidio per i servizi di assistenza
all’infanzia. Grazie al notevole ridimensionamento dei costi a carico
delle famiglie, nel 2002 il tasso di occupazione retribuita delle madri
con almeno un figlio nella fascia di età da uno a cinque anni risultava
aumentato dell’otto per cento, con un incremento delle ore di lavoro
annue pari addirittura al duecentotrentuno per cento 82. Da allora,
molti altri studi hanno dimostrato che l’offerta pubblica di servizi
prescolastici è «fortemente associata» a tassi piú elevati di
occupazione femminile 83.
Trasferire i compiti di custodia e istruzione dei bambini da una
forma di lavoro femminilizzata e in gran parte gratuita alla sfera del
lavoro formale e retribuito innesca un circolo virtuoso: se il numero
delle lavoratrici a tempo pieno con figli al di sotto dei cinque anni
aumentasse di trecentomila unità, il gettito fiscale dello Stato
crescerebbe di circa un miliardo e mezzo di sterline 84. Secondo
stime del Wbg, il maggior introito fiscale (sommato a una minore
spesa per i sussidi di previdenza sociale) sarebbe tale da
compensare tra il novantacinque e l’ottantanove per cento
dell’investimento annuo nei servizi di assistenza all’infanzia 85.
Si tratta di una stima prudente, perché basata sui salari attuali. E
come i congedi di paternità (se adeguatamente retribuiti), anche
l’assistenza pubblica all’infanzia contribuisce a ridurre il divario
retributivo di genere. In Danimarca, dove ogni bambino dalla
ventiseiesima settimana di vita fino ai sei anni ha diritto a un posto a
tempo pieno nei nidi e negli asili pubblici, lo scarto tra gli stipendi dei
lavoratori e quelli delle lavoratrici è andato diminuendo nel corso
degli anni, ed era pari al sette per cento nel 2012. Negli Stati Uniti,
dove invece i servizi pubblici di assistenza all’infanzia sono offerti
solo a partire dai cinque anni, il divario retributivo era – sempre nel
2012 – quasi doppio, e non accennava a scendere 86.
Ci piacerebbe credere che il lavoro gratuito delle donne sia una
questione squisitamente privata: una scelta personale fatta dalle
donne per il vantaggio personale dei familiari che beneficiano della
loro assistenza. Ma purtroppo non è cosí: l’intera società dipende dal
lavoro non retribuito delle donne e da quel lavoro trae beneficio.
Quando i governi tagliano i servizi pubblici che tutti noi paghiamo
con le nostre tasse, il fabbisogno di quei servizi non si annulla: quel
che invece succede è che i compiti di assistenza vengono delegati
alle donne, con tutti gli svantaggi che ne derivano in termini di
mancata partecipazione alla forza lavoro e minore incremento del
Pil. Il lavoro non pagato delle donne non è una «scelta»: fa parte del
sistema che abbiamo creato, ma potrebbe facilmente esserne
estromesso. Il primo passo è raccogliere i dati; dopodiché si può
cominciare a progettare un’economia fondata sulla realtà e non
sull’immaginario maschile.
XIII.
Dalla borsetta al portafoglio

Alle ventitre dell’8 giugno 2017 i seggi elettorali di tutto il Regno


Unito erano chiusi da un’ora, e sui social media cominciava a
circolare una notizia interessante. La partecipazione al voto dei
giovani era aumentata. Di parecchio. Si leggevano commenti
entusiasti: «Sento dire che ha votato il settantadue, settantatre per
cento dei giovani tra i diciotto e i ventiquattro anni! I giovani si sono
svegliati, finalmenteeee!» twittava 1 Alex Cairns, amministratore
delegato e fondatore di The Youth Vote, una campagna nazionale di
sensibilizzazione politica rivolta all’elettorato giovanile. Un paio d’ore
piú tardi Malia Bouattia, all’epoca presidente dell’associazione
nazionale degli studenti, dava la stessa notizia con un tweet che
sarebbe stato condiviso piú di settemila volte 2. Il mattino successivo
David Lammy, parlamentare laburista per la circoscrizione londinese
di Tottenham, affidava ai social il suo messaggio di congratulazioni:
«Settantadue per cento di affluenza alle urne per i diciotto-
venticinquenni! Siate orgogliosi di voi stessi!» 3. Il suo tweet avrebbe
avuto piú di ventinovemila condivisioni e oltre quarantanovemila «Mi
piace».
C’era solo un piccolo problema: nessuno sembrava avere i dati a
conferma della notizia. Non che questo impedisse alle agenzie di
ripeterla ai quattro venti, citandosi a vicenda come fonte ufficiale o
appellandosi a questo o quel tweet non verificato 4. Circa sei mesi
dopo, poco prima di Natale, l’Oxford English Dictionary aveva
premiato come parola dell’anno il termine youthquake, (un
neologismo formato da youth, ovvero gioventú, e dalla parte finale
della parola earthquake, ovvero terremoto) a indicare il momento in
cui «i giovani elettori sembravano aver sospinto il Partito laburista
verso un’improbabile vittoria» 5. Era nato un fattoide.
Un fattoide è un fatto (un dato statistico, nel caso specifico) non
vero, ma duro a morire come un androide da film di fantascienza,
anche perché sembra vero. All’indomani delle politiche del 2017
avevamo bisogno di capire perché, contrariamente a tutte le
aspettative, il Partito laburista fosse andato cosí bene. Un’impennata
senza precedenti del voto giovanile era la miglior spiegazione
possibile: i laburisti avevano corteggiato quella fascia di elettorato ed
erano arrivati a un soffio dalla vittoria. Ma poi, nel gennaio del 2018,
il British Electoral Survey rese noti i dati ufficiali 6. Forse non erano
ancora quelli definitivi 7, ma una cosa appariva lampante: il famoso
terremoto era stato nel migliore dei casi un frisson. Due mesi dopo
nessuno parlava piú dell’«avanzata dei giovani» senza mettere le
mani avanti, e quel famoso dato sull’affluenza al settantadue per
cento era sparito dalla faccia della Terra 8.
Rispetto alla media dei fattoidi, lo youthquake britannico ha avuto
vita piuttosto breve. È vero che la segretezza del voto non consente
di avere certezze assolute, ma di dati sulle elezioni se ne raccolgono
eccome, e in gran quantità: non si può certo dire che siano un
aspetto poco noto della vita pubblica. Il problema vero è quando i
fattoidi vengono a galla in un contesto dove i dati scarseggiano: in
quel caso, farne tabula rasa è molto piú difficile.
Prendiamo per esempio l’affermazione secondo cui «il settanta
per cento delle persone che vivono in povertà è costituito da donne».
Nessuno sa dire con certezza da dove sia saltata fuori questa cifra,
ma di solito la si riconduce a un rapporto sullo sviluppo umano delle
Nazioni unite pubblicato nel 1995, nel quale il dato era comunicato
senza citare le fonti 9. Lo si è ritrovato praticamente ovunque, dagli
articoli di giornale ai siti web degli attivisti e degli enti benefici, dai
comunicati stampa ai documenti ufficiali di importanti agenzie
internazionali come l’Organizzazione internazionale del lavoro e
l’Ocse 10.
Qualcuno ha in effetti tentato di far fuori il fattoide. Duncan Green,
autore di Dalla povertà al potere, sostiene che il dato sia sospetto 11.
John Greenberg, redattore del sito di fact-checking PolitiFact, cita a
sostegno della sua tesi alcuni studi della Banca mondiale 12 secondo
i quali «la popolazione povera è ripartita in pari misura tra i generi»,
e se proprio dev’esserci uno squilibrio, questo va a svantaggio degli
uomini. Caren Grown, direttrice della sezione Gender Global
Practice della Banca mondiale, dichiara senza peli sulla lingua che il
dato è falso, per la semplice ragione che non abbiamo elementi
sufficienti (né una definizione universalmente accettata di «povero»)
per poterci pronunciare in un senso o nell’altro 13.
E questo è il problema di fondo quando ci si trova a dover
demolire un’ipotesi. Il dato potrebbe essere falso. Ma potrebbe
anche essere vero: al momento non possiamo saperlo. Gli elementi
raccolti da Greenberg dimostrano che la povertà non fa distinzioni di
genere; tuttavia le indagini a cui egli fa riferimento, nonostante
l’ampiezza del campione («un compendio di circa seicento sondaggi
condotti in settantatre Paesi») sono del tutto inadeguate a misurare il
fenomeno dell’indigenza femminile. Disporre di cifre adeguate è
importantissimo, perché sono i dati a decidere come vanno allocate
le risorse. Dati imperfetti portano a una distribuzione imperfetta delle
risorse. E i dati di cui disponiamo al momento sono molto, molto
imperfetti.
Al giorno d’oggi il calcolo della povertà maschile e femminile viene
fatto 14 mettendo a confronto la povertà relativa delle famiglie in cui è
l’uomo a controllare le risorse (nuclei con «capofamiglia» maschio) e
quella delle famiglie in cui il controllo delle risorse spetta alla donna
(nuclei con «capofamiglia» femmina) 15. Questo metodo di calcolo si
fonda su due presupposti: primo, che le risorse del nucleo familiare
siano distribuite equamente fra tutti i membri, i quali hanno perciò un
identico tenore di vita; secondo, che quando si tratta di distribuire
risorse all’interno del nucleo familiare le modalità di ripartizione
maschili non siano diverse da quelle femminili. Entrambi i
presupposti sono, a voler essere generosi, abbastanza dubbi.
Cominciamo dalla prima ipotesi: tutti i membri di una famiglia
hanno lo stesso tenore di vita. Quando si sceglie di misurare la
povertà dei nuclei familiari è perché non si hanno dati individuali;
eppure nei tardi anni Settanta il governo britannico ha
involontariamente dato vita a un esperimento naturale che ha
permesso ai ricercatori di testare l’ipotesi per mezzo di una misura
surrogata 16. Fino al 1977 gli assegni familiari per i figli a carico
venivano corrisposti soprattutto ai padri, sotto forma di sgravi fiscali
sul salario. Dal 1977 in avanti la detrazione fiscale fu sostituita da un
pagamento in contanti alle madri, dando luogo a una sostanziale
redistribuzione del reddito a favore delle donne. Se gli introiti fossero
stati distribuiti in modo omogeneo all’interno delle famiglie, quei
trasferimenti di denaro «dal portafoglio alla borsetta» non avrebbero
dovuto ripercuotersi sulle abitudini di spesa. E invece le ripercussioni
c’erano. Utilizzando la spesa nazionale per l’abbigliamento come
misura surrogata, i ricercatori scoprirono che il nuovo metodo di
corresponsione degli assegni familiari determinava «un sostanziale
incremento nella spesa per l’acquisto di abbigliamento femminile e
da bambini, in confronto a quello maschile».
Dal 1977 a oggi ne è passata di acqua sotto i ponti, e sarebbe
lecito sperare che nel frattempo qualcosa sia cambiato. Purtroppo
non disponiamo di dati disaggregati piú recenti, quindi è impossibile
saperlo con certezza. Abbiamo dati aggiornati su altri Paesi (Irlanda,
Brasile, Stati Uniti, Francia, Bangladesh e Filippine), ma il panorama
non è molto incoraggiante: le coppie continuano a dividersi gli introiti
in parti disuguali, e rispetto agli uomini le donne continuano a
spendere per i bambini (vocabolo di genere neutro che nasconde al
suo interno una gran dovizia di disuguaglianze) 17 una porzione
maggiore del denaro di cui dispongono 18. Quindi, a meno che il
Regno Unito sia un paradiso segreto del femminismo (ma posso
confermarvi che non lo è) possiamo supporre che anche qui sia
cambiato poco.
Stando cosí le cose, la recente introduzione di una nuova
indennità denominata «credito universale» (Universal Credit, Uc)
non può definirsi un fatto positivo. Il credito universale è nato con
l’intento di fondere vari tipi di benefici e crediti d’imposta (comprese
le detrazioni per i figli a carico) e, diversamente dagli strumenti
preesistenti, viene sempre accreditato sul conto bancario della
persona che all’interno di ciascun nucleo familiare percepisce il
reddito piú elevato 19. Il che, dato il perdurante divario retributivo tra i
generi, significa (nelle coppie eterosessuali) quasi sempre l’uomo, e
«quasi sempre» è il dato piú preciso che abbiamo, perché il
ministero del Lavoro e della Previdenza sociale non disaggrega per
sesso i dati sui beneficiari del provvedimento. Il che lascia supporre
che il vuoto di dati sulla povertà di genere sia destinato ad ampliarsi
ancora, almeno nel Regno Unito.
Assodato che uomini e donne hanno priorità di spesa differenti, è
molto probabile che anche sul secondo presupposto (vivere in un
nucleo familiare che ha un «capofamiglia» maschio o femmina non
influisce sul tenore di vita) gravi un grosso punto interrogativo. E i
dati di cui disponiamo, purtroppo, lo confermano. Nel Ruanda e nel
Malawi i bambini delle famiglie a preminenza femminile avevano
condizioni di salute migliore rispetto ai figli delle famiglie a
preminenza maschile, anche quando queste ultime avevano un
reddito superiore 20.
L’analisi di un sondaggio condotto nel 2010 sui redditi delle
famiglie nello Stato indiano del Karnataka ha dato risultati ancor piú
scoraggianti 21. Una semplice comparazione tra i due tipi di famiglie
non evidenziava grandi differenze di genere nei livelli di povertà; le
disuguaglianze – enormi – sono emerse soltanto quando si è
misurata la povertà individuale. Neanche a dirlo, il settantuno per
cento dei soggetti in condizioni di indigenza è donna; e prendendo in
esame la sola categoria dei poveri, erano ancora le donne a soffrire
delle deprivazioni piú gravi. Ma la prova piú schiacciante
dell’inefficacia del reddito familiare in quanto misura della povertà di
genere sta in quest’ultimo dato: la maggior parte delle donne povere
apparteneva a famiglie «non-povere».
È ora di farla finita con questi fattoidi: la povertà si determina solo
a livello individuale, e non è vero che l’esistenza di nuclei a
prevalenza femminile si ripercuote sulla povertà maschile
esattamente come quella dei nuclei a prevalenza maschile sulla
povertà femminile. Queste supposizioni si fondano su dati erronei e
su analisi che non tengono nel giusto conto i dati di genere. E, cosa
ancor piú grave, tendono a perpetuare il vuoto dei dati di genere e
orientano le decisioni della politica verso provvedimenti che si
rivelano catastrofici per le donne.

Negli Stati Uniti, quasi tutte le coppie sposate presentano una


dichiarazione dei redditi congiunta. Non sono obbligate a farlo,
giacché potrebbero anche presentarne una ciascuno; ma gli incentivi
del sistema – sotto forma di aliquote ridotte o crediti d’imposta –
sono cosí allettanti che il novantasei per cento dei nuclei familiari si
lascia convincere 22. E il risultato finale è che la maggior parte delle
cittadine americane coniugate vede il proprio reddito tassato in
eccesso.
Il sistema tributario degli Stati Uniti è progressivo, vale a dire che
le aliquote aumentano con l’aumentare dell’imponibile. Sui primi
diecimila dollari di reddito grava un’aliquota piú bassa, sui successivi
diecimila un’aliquota un po’ maggiore, e cosí via. Immaginiamo
quindi che voi abbiate un imponibile di ventimila dollari annui e un
altro cittadino americano ne abbia sessantamila: sui primi ventimila
dollari, voi e quella persona pagherete la stessa quantità di tasse,
ma sui restanti quarantamila l’altro contribuente ne pagherà di piú. A
meno che non sia vostro marito (o vostra moglie) e abbiate deciso di
presentare una dichiarazione dei redditi congiunta: in quel caso, voi
e il/la consorte verrete trattati come una singola unità economica con
un imponibile complessivo di ottantamila dollari, e le vostre tasse
saranno calcolate in modo diverso.
I coniugi che presentano la dichiarazione congiunta devono
«cumulare» gli introiti. Chi guadagna di piú (solitamente l’uomo, dato
il divario retributivo) ottiene il titolo di «primo percettore di reddito», e
quel reddito viene gravato delle aliquote piú basse. Il reddito del
«secondo percettore» (solitamente la donna) sarà invece soggetto
alle aliquote maggiori. In pratica, tornando alla nostra coppia di
contribuenti, la persona che guadagna ventimila dollari pagherà
tasse come se tutto il suo stipendio annuo fosse lo scaglione finale
di un imponibile complessivo di ottantamila dollari: se avesse
presentato una dichiarazione dei redditi disgiunta da quella del
coniuge, avrebbe pagato molto di meno.
I paladini della dichiarazione congiunta vi faranno notare che in
totale la coppia paga meno tasse, ed è vero. Ma poiché, come
abbiamo visto, la pari condivisione delle risorse familiari è un’ipotesi
a dir poco dubbia, il fatto che una coppia paghi meno tasse non
significa per forza che il «secondo percettore» si ritrovi in tasca piú
soldi di quelli che gli sarebbero rimasti presentando una
dichiarazione disgiunta. E tutto questo senza nemmeno considerare
gli abusi finanziari che rendono l’imposizione congiunta ancora piú
svantaggiosa per le donne. Di fatto, l’attuale sistema fiscale
americano penalizza le donne che hanno un lavoro dipendente, e
l’imposizione congiunta (come è stato dimostrato da numerosi studi)
allontana le donne sposate dal lavoro retribuito: cosa che, come
sappiamo, a sua volta si ripercuote in modo negativo sull’andamento
del Pil 23.
Gli Stati Uniti non sono l’unico Paese con un sistema fiscale che,
non tenendo conto del genere dei contribuenti, finisce per
discriminare le donne. Gli autori di uno studio recente hanno
espresso sconcerto di fronte alle svariate misure di legge che «in
molti Paesi Ocse» vorrebbero ridurre il divario retributivo ma di fatto
lo accrescono attraverso le dinamiche di funzionamento dei sistemi
fiscali e previdenziali 24. Nel Regno Unito e in Australia, le coppie
sposate presentano dichiarazioni dei redditi separate, ma la maggior
parte delle indennità e dei crediti d’imposta viola tuttora il principio
dell’autonomia dei coniugi in materia fiscale.
L’indennità di matrimonio vigente nel Regno Unito, per esempio,
concede un’agevolazione fiscale al primo percettore di reddito
(solitamente l’uomo) qualora il reddito annuo del secondo percettore
sia pari o inferiore alle 11 500 sterline 25. Il provvedimento agisce su
due fronti, ma sempre in direzione di un peggioramento del divario
retributivo: innalza il reddito dell’uomo e crea un incentivo perverso
che spinge le donne a mantenere al di sotto di un certo limite le ore
di lavoro retribuito. Anche in Giappone vige un sistema simile: dal
1961 il «capofamiglia» (generalmente un uomo) può chiedere una
detrazione fiscale di 380 000 yen (circa 3700 dollari) qualora il
reddito del coniuge non superi la cifra di 1,03 milioni di yen (circa
diecimila dollari). Da un’indagine svolta nel 2011 dal ministero del
Lavoro risultava che «piú di un terzo delle donne sposate che
avevano scelto volontariamente di lavorare part-time lo aveva fatto
per non perdere la detrazione fiscale» 26.
Un altro esempio – un po’ diverso – di pregiudizio occulto ci viene
dal sistema fiscale argentino, dove lo sconto fiscale per i dipendenti
è quasi quadruplo rispetto a quello offerto ai lavoratori autonomi.
Anche questa è una discriminazione di genere, giacché gli uomini
tendono a essere piú integrati nell’economia formale, mentre le
donne svolgono spesso un’attività autonoma nell’economia
informale 27. E cosí, senza darlo a vedere, il sistema finisce per
concedere uno sconto fiscale piú generoso agli uomini.
C’è una ragione piuttosto semplice per cui molti regimi tributari
penalizzano le donne, ed è che nessuno studia in modo sistematico
l’effetto delle normative fiscali sulla popolazione femminile. In altre
parole, è colpa del solito gender data gap. Si tratta di «un’area di
ricerca non sufficientemente esplorata», nella quale, secondo un
rapporto del parlamento europeo pubblicato nel 2017, ci sarebbe
bisogno di raccogliere piú dati disaggregati 28. Persino in Paesi come
Spagna, Finlandia e Irlanda, dove si è cominciato ad analizzare i
bilanci statali in una prospettiva di genere, l’attenzione è rivolta piú
alle voci di spesa che al gettito fiscale. Nel panorama dell’Unione
europea, l’Austria «è uno dei pochi Paesi il cui sistema fiscale ha tra
i suoi obiettivi specifici una divisione piú equa del carico di lavoro
pagato e non pagato tra donne e uomini, una maggiore
partecipazione femminile alla forza lavoro e la riduzione del divario
retributivo». Nel frattempo, i soli due Paesi dell’Ue ad avere un
sistema di tassazione del reddito strettamente individualizzato sono,
stando ai risultati di uno studio del 2016, la Finlandia e la Svezia 29.
In realtà i sistemi fiscali sembrano avere un problema con le
donne che va al di là del fattoide di cui abbiamo parlato («le risorse
del nucleo familiare sono distribuite in pari misura fra tutti i membri»)
e si estende fino alla teoria generale della tassazione, almeno nella
sua forma attuale. A partire dagli anni Ottanta i governi di molti Paesi
sembrano essersi orientati verso un’idea di fiscalità intesa non come
meccanismo di redistribuzione della ricchezza bensí come
potenziale ostacolo all’espansione economica, che in quanto tale va
arginato il piú possibile. Il risultato pratico è stato un abbassamento
delle tasse sulle rendite finanziarie, sugli introiti delle aziende e sui
redditi piú alti, accompagnato da una proliferazione di scappatoie e
incentivi di vario genere che hanno consentito alle multinazionali e ai
multimiliardari di aggirare ed evadere le tasse. Tutto ciò per non
«alterare processi di mercato che per altri aspetti appaiono
efficienti» 30.
Se mai si è parlato di tematiche di genere in un simile contesto, lo
si è fatto soltanto per sottolineare i potenziali effetti negativi di una
tassazione che disincentiva l’ingresso delle donne nel mondo del
lavoro retribuito, e di conseguenza ostacola la crescita. Ciò che
invece non si considera è che un sistema fiscale tutto teso a favorire
la «crescita» finisce per avvantaggiare gli uomini a spese delle
donne. In presenza di un divario retributivo di genere, i tagli delle
aliquote per gli scaglioni di reddito maggiore tornano a
preponderante vantaggio degli uomini. Per la stessa ragione, la
maggior parte delle donne non è in condizione di avvalersi della
costosa consulenza di un commercialista esperto in scappatoie
fiscali. Anche gli sconti o i condoni delle imposte sui patrimoni e sulle
rendite finanziarie tornano a vantaggio degli uomini, che solitamente
hanno il controllo di tali risorse 31.
Ma non è solo una questione di tornaconto maggiore per gli
uomini: il problema è che sono soprattutto le donne a fare le spese
dei benefici fiscali a uso e consumo dei contribuenti maschi, poiché,
come abbiamo visto, è il lavoro di cura gratuito delle donne a
compensare i servizi che lo stato non eroga. Nel 2017 il Women’s
Budget Group ha denunciato che, proprio mentre le misure di
austerità del governo inglese si ripercuotevano pesantemente sulle
donne, «il Tesoro concedeva sostanziosi premi fiscali destinati
soprattutto agli uomini, a un costo previsto di quarantaquattro
miliardi di sterline l’anno fino al 2020» 32. Si parla per esempio di un
taglio di nove miliardi di sterline alle tasse su carburanti e alcolici, di
un altro taglio di tredici miliardi alle imposte sui redditi delle società
per azioni, e di ventidue miliardi di mancati introiti per effetto di un
innalzamento delle soglie per le imposte sui redditi e le assicurazioni
sociali. Messi insieme, quei regali valgono piú di tutti i risparmi
generati dai tagli alla spesa sociale: ciò dimostra che non è un
problema di risorse, quanto piuttosto di priorità (di genere) nella
spesa pubblica.
Nei Paesi a basso reddito, il problema dello scarso gettito fiscale
è aggravato dalle tecniche di elusione fiscale messe in atto dalle
multinazionali che spesso «subordinano il loro impegno in quei Paesi
alla concessione di esenzioni fiscali temporanee o altri incentivi»:
tutto ciò rappresenta, per i Paesi in via di sviluppo, un costo in
termini di minor gettito fiscale stimato a centotrentotto miliardi di
dollari. L’opinione comune è che la realtà sia proprio questa: per
attirare l’interesse delle grandi imprese internazionali bisogna offrire
loro manodopera a basso costo e non pretendere neanche un
centesimo di tasse. E invece non è cosí: secondo l’Ocse, «le
multinazionali che investono nei Paesi in via di sviluppo non
assegnano un’importanza decisiva agli incentivi fiscali» 33. Il
richiamo piú seducente è senz’altro il basso costo della manodopera
femminile. Ciononostante, «le istituzioni finanziarie internazionali
impongono talvolta ai Paesi in via di sviluppo di concedere quel tipo
di esenzioni» 34.
Se nel Regno Unito i premi fiscali ai contribuenti superano in
valore i tagli alla spesa pubblica, anche nei Paesi in via di sviluppo i
meccanismi di elusione fiscale hanno un costo annuo calcolato a
circa duecentododici miliardi di dollari in mancato gettito, somma di
gran lunga superiore all’importo degli aiuti che quegli stessi Paesi
ricevono 35. Si stima che circa un terzo di tutta la ricchezza
finanziaria delocalizzata all’estero sia nascosta nelle casseforti delle
banche svizzere, recentemente sollecitate dalle Nazioni unite a
considerare che «le loro regole di segretezza fiscale e finanziaria
danneggiano i diritti delle donne di tutto il mondo» 36. Secondo
un’analisi condotta nel 2016 dal Center for Economic and Social
Rights (Cesr), gli introiti fiscali andati perduti a causa dell’elusione
fiscale praticata nello Zambia dalle grandi multinazionali del rame,
come la svizzera Glencore, basterebbero a finanziare il sessanta per
cento della spesa sanitaria nazionale. Sempre secondo il Cesr,
l’India avrebbe perso «fino a 1,2 miliardi di gettito fiscale diretto, che
invece sarebbe finito nei conti correnti di un’unica filiale bancaria
svizzera: una somma pari al quarantaquattro per cento di quanto
[l’India] spende per tutelare i diritti delle donne, e al sei per cento
dell’intera spesa sociale per il 2016» 37.
I governi hanno bisogno di soldi, ed è per questo che devono in
qualche modo compensare le perdite. Molti ricorrono alle imposte sui
consumi, che si riscuotono con facilità e sono difficili da evadere. I
Paesi a basso reddito percepiscono «circa due terzi del gettito
fiscale dai tributi indiretti come l’Iva, e soltanto poco piú di un quarto
dalle imposte sul reddito» 38. Da una recente analisi
dell’Organizzazione internazionale del lavoro risulta che ben
centotrentotto governi nazionali (di novantatre Paesi in via di
sviluppo e quarantacinque Paesi ricchi) intenderebbero aumentare
e/o estendere la tassazione sui consumi, e in particolare le imposte
sul valore aggiunto 39.
Anche quest’ultimo aumento ricade soprattutto sulle donne, non
soltanto perché molte di loro appartengono ai ceti meno abbienti (piú
sei povero, piú è alta la percentuale di reddito che devi spendere in
consumi), ma anche perché sono loro, generalmente, a comprare il
cibo e i prodotti per la casa. E poiché l’offerta di manodopera
femminile retribuita è piú elastica (anche a causa del divario
retributivo), un ipotetico aumento dell’Iva costringerebbe le donne a
dedicare piú ore al lavoro gratuito al fine di produrre in casa ciò che
altrimenti si potrebbe acquistare sul mercato.
Questo problema è aggravato da una tendenza a distribuire gli
aumenti dell’Iva senza alcuna considerazione per le esigenze di
genere, dal momento che non esistono dati disaggregati sull’impatto
degli aumenti o delle riduzioni di imposta 40. In molti Paesi l’imposta
sul valore aggiunto non viene applicata ai prodotti considerati
«essenziali»: cosí nel Regno Unito i prodotti alimentari sono esenti
dall’Iva, a differenza degli iPhone, considerati beni non essenziali.
Ma ciò che per un uomo è frivolezza, per una donna può essere
indispensabile: perciò le donne di tutto il mondo fanno campagne per
convincere i legislatori (in gran parte maschi) che certi articoli
sanitari non sono beni di lusso. E in alcuni Paesi ci sono persino
riuscite.
È chiaro che i sistemi fiscali, spesso presentati come oggettiva
conseguenza delle dinamiche del mercato, hanno in realtà un forte
impatto di genere. Sono stati concepiti sulla base di dati non
disaggregati per sesso, nell’ottica di una forte propensione al
maschile. Al pari delle teorie sul Pil e sulla spesa pubblica che non
tengono conto delle esigenze femminili, i sistemi fiscali non solo non
fanno nulla per alleviare la povertà di genere, ma addirittura la
alimentano. E se davvero il mondo ha intenzione di porre fine alle
disuguaglianze, dovrà convertirsi con urgenza all’analisi economica
basata su dati di realtà.
XIV.
I diritti delle donne sono diritti umani

I due precedenti capitoli hanno dimostrato che ci sono sostanziosi


vuoti di dati di genere nell’attuale filosofia di governo, e il risultato è
che le amministrazioni statali producono politiche viziate dal
pregiudizio maschile che danneggiano le donne. La mancanza di
dati di genere si spiega, in parte, con il fatto che semplicemente non
vengono raccolti; ma anche con la forte predominanza maschile nei
governi di tutto il mondo. E per quanto sembri strano, anche la
predominanza maschile è un problema di vuoto di dati di genere,
perché la prospettiva femminile è importante, e i fatti parlano chiaro.
Da diversi studi condotti tra gli anni Ottanta e i primi anni del
nuovo secolo risulta che le donne sono piú inclini a considerare
prioritarie le problematiche femminili e ad appoggiare le proposte di
legge che riguardano tali problematiche 1. Una recente analisi
dell’impatto della presenza femminile sui banchi del parlamento
inglese dal 1945 a oggi ha messo in luce che le donne sono piú
propense a orientare il dibattito politico verso le tematiche femminili,
la politica familiare, l’istruzione e l’assistenza 2. Analogamente, da
un’altra analisi 3 degli effetti della rappresentanza politica femminile
in diciannove Paesi Ocse 4 tra il 1960 e il 2005 risulta che le donne
titolari di incarichi politici sono piú disposte a occuparsi di temi che
interessano le donne.
Dallo studio sui Paesi Ocse emerge anche che le parole delle
donne si traducono in azione. Con il crescere della rappresentanza
politica femminile, Paesi come la Grecia, il Portogallo e la Svizzera
hanno visto aumentare gli investimenti a favore dell’istruzione. Per
contro, quando nei tardi anni Novanta in alcuni Paesi (Irlanda, Italia
e Norvegia) si è osservato un calo della presenza femminile negli
organi legislativi, quegli stessi Paesi hanno sperimentato «una
comparabile diminuzione della spesa per l’istruzione in proporzione
rispetto al Pil». Un incremento anche di un solo punto percentuale
della componente parlamentare femminile basta già ad accrescere
l’importanza relativa di quel capitolo di spesa. Uno studio sugli enti
locali del Bengala occidentale e del Rajasthan ha constatato che
l’istituzione di una riserva femminile pari a un terzo dei seggi
moltiplicava gli investimenti in infrastrutture che rispondevano ai
bisogni delle donne 5. Da una ricerca del 2007 sulla rappresentanza
politica in India tra il 1967 e il 2001 risulta inoltre che un aumento del
dieci per cento della presenza femminile fa salire del sei per cento
«le probabilità che un individuo residente in un’area urbana abbia
accesso all’istruzione primaria» 6.
In sintesi, decenni di ricerche mostrano che la presenza delle
donne in politica fa una differenza concreta sul piano delle leggi che
vengono approvate. «Non basta che qualcuno dica: “Sono una
donna! Votate per me!”» ha dichiarato Bernie Sanders nel novembre
del 2016, ma forse non aveva del tutto ragione. In realtà (e questo è
il vero problema) nessuno pensa che basti dire: «Sono una donna»
per farsi votare. Al contrario: c’è molta gente che, in presenza di una
candidata donna, ritiene che il suo essere donna sia una ragione
sufficiente per non votarla. Poco prima delle elezioni presidenziali
del 2016, la rivista «The Atlantic» riportò i commenti di un gruppo di
elettori indecisi, convocati per discutere pregi e difetti dei due
candidati 7: secondo l’opinione prevalente, Hillary Clinton non
piaceva perché troppo ambiziosa.
Il che non era certo una novità. Dalla giornalista e saggista Anne
Applebaum («La straordinaria, assurda, soverchiante ambizione di
Hillary Clinton») 8 al magnate di Hollywood ed ex alleato di Clinton 9
David Geffen («Santo cielo, esiste un essere umano piú ambizioso
di Hillary Clinton?») 10, senza dimenticare Colin Powell («La sua
ambizione sfrenata») 11, Jeff Weaver, responsabile della campagna
elettorale di Bernie Sanders («Non distruggete il Partito democratico
per soddisfare le ambizioni della Segretaria di Stato») 12 e
naturalmente il caro, vecchio Julian Assange («Una donna divorata
dalle ambizioni») 13, l’unica cosa su cui tutti sembrano essere
assolutamente d’accordo – il che è davvero raro, in quest’epoca
polarizzata – è che Hillary Clinton è scandalosamente ambiziosa. A
lungo andare il rimprovero divenne un vero e proprio tormentone,
tanto da meritarsi un editoriale del sito satirico «The Onion»,
intitolato Hillary Clinton is too Ambitious to Be the First Female
President 14.
Voler essere la prima donna a fregiarsi del titolo di donna piú
potente del mondo richiede, in effetti, una straordinaria quantità di
ambizione. A ben vedere si potrebbe dire altrettanto di un uomo
d’affari fallito ed ex presentatore televisivo privo di qualsiasi
esperienza politica che miri a diventare il leader piú influente del
pianeta: eppure «ambizione» non è una parolaccia, quando si tratta
di Trump.
Rodolfo Mendoza-Denton, professore associato di psicologia
all’università di Berkeley, ha una spiegazione cognitiva per la diffusa
tendenza a considerare «patologica» l’ambizione di Hillary Clinton 15.
Stava «avanzando a tappe forzate in un territorio che la stragrande
maggioranza delle persone considera maschile». Perciò, spiega
Mendoza-Denton, gli elettori hanno visto nella sua candidatura
un’infrazione alle regole. Chi infrange le regole «sta semplicemente
antipatico, e il suo gesto è spesso associato a forti emozioni
negative».
C’è una ragione molto semplice per cui l’idea di una donna
potente va contro le regole, e questa ragione è il vuoto dei dati di
genere. Io stessa sono cresciuta nella ferma convinzione che le
donne fossero… non granché. Certo, questo si deve in parte alla
tipica rappresentazione della donna (consumista, frivola,
irragionevole) da parte dei mass media, ma anche al fatto che la
presenza femminile è davvero molto marginale. Ero una di quelle
ragazzine a cui i programmi scolastici, i media giornalistici e la
cultura popolare (tutti contesti da cui le donne erano quasi
interamente assenti) avevano insegnato che essere intelligente non
faceva per me. Nessuno mi additava esempi di donne (del passato o
del presente) da cui trarre ispirazione. Nessuno mi parlava delle
donne che si occupavano di politica o lottavano per i diritti delle altre
donne; nessuno mi parlava delle artiste, delle scrittrici, delle
amministratrici delegate. Se mi si insegnava ad ammirare qualcuno,
era invariabilmente un uomo: nella mia mente i concetti di potere,
influenza e ambizione hanno finito per associarsi indissolubilmente
con la condizione di maschio. E se devo essere del tutto onesta,
credo anche di aver vissuto in prima persona quel senso di
violazione delle norme; di aver accettato fin troppo volentieri l’idea
che un superiore del mio stesso sesso non potesse che essere
troppo ambiziosa (leggasi stronza).
La sgradevole verità è che una donna che voglia diventare
presidente non ci sembra abbastanza ladylike. Secondo uno studio
del 2010, il desiderio di potere è una qualità attribuita a tutti i politici
(maschi e femmine), ma giudicata problematica solo per le donne 16.
A ulteriore riprova di ciò, Mendoza-Denton ha condotto uno studio
dal quale è emerso che è il contesto a determinare il grado di
«assertività» attribuito a uomini e donne 17. In un contesto
tipicamente «maschile» (nell’officina del meccanico, a Wall Street,
alla Casa Bianca) il comportamento di una donna era comunque
giudicato piú assertivo, anche se l’uomo e la donna dicevano
esattamente le stesse cose. E benché si ritenesse un po’ strano, ma
comunque accettabile, il comportamento assertivo di un uomo in
contesti tipicamente «femminili» (la scelta delle tendine per una
finestra, l’organizzazione di una festicciola per bambini),
l’atteggiamento assertivo di una donna era sempre inaccettabile, in
qualsiasi contesto. Le donne che sanno il fatto loro sono dispotiche.
Se la società trova moleste le donne che giudica assetate di
potere professionale è anche perché il potere sociale (che consiste
nell’essere giudicate cordiali e amorevoli) è «il premio di
consolazione offerto a quelle di noi che rinunciano a competere con
gli uomini», scrivono le docenti di psicologia Susan Fiske e Mina
Cikara 18. Dunque per le donne il potere sociale è essenzialmente
incompatibile con il potere professionale: se una donna vuol essere
apprezzata per la sua competenza deve rinunciare a essere
giudicata cordiale.
E sia, pazienza. La gente ti trova antipatica? Dice che sei fredda?
Be’, stringi i denti. Se proprio non ti piacciono le critiche puoi sempre
tornartene in cucina, giusto?
Sbagliato. Un ragionamento del genere dà per scontato che gli
uomini considerati freddi subiscano le stesse critiche. E invece non è
cosí. Lo studio del 2010 che abbiamo già citato non sosteneva
soltanto che le politiche donne sono considerate meno amorevoli.
Diceva anche che la loro ipotetica freddezza suscitava lo sdegno
morale dei partecipanti allo studio, sia maschi sia femmine, i quali
provavano disprezzo, rabbia e/o disgusto nei confronti di quelle
donne. Cosa che invece non succedeva per le loro controparti
maschili. Molly Crockett, professore associato di psicologia
sperimentale all’università di Oxford, ha una spiegazione per questa
disparità di vedute: essere considerate non amorevoli viola una
norma di comportamento che vale per le donne ma non per gli
uomini. «Ci si aspetta, – spiega, – che le donne siano in media piú
socievoli degli uomini». Qualsiasi deviazione da una norma
considerata (non importa quanto a torto) «morale», se commessa da
una donna, ci appare perciò ancora piú sconcertante.
Data l’evidente importanza delle distinzioni di genere in questo
ambito, ci sarebbe da sperare che l’onnipresente vuoto di dati fosse
un po’ meno assoluto. Niente da fare. Provate a immaginare la mia
emozione quando, nel preparare questo libro, mi sono imbattuta in
un articolo pubblicato nel gennaio 2017, intitolato Faced with
Exclusion: Perceived Facial Warmth and Competence Influence
Moral Judgments of Social Exclusion (Faccia a faccia con
l’esclusione: cordialità percepita e competenza come determinanti
dell’esclusione sociale) 19. Alla luce di quanto osservato da Fiske e
Cikara sulla dicotomia tra competenza e cordialità nei soggetti
femminili, mi aspettavo di trarne molti utili insegnamenti. Gli autori
dello studio in questione spiegano che «i giudizi morali che ratificano
l’esclusione sociale possono essere condizionati dalle caratteristiche
del viso, le quali hanno numerose implicazioni nella ricerca sulle
relazioni intergruppo». In altri termini, quando si tratta di decidere se
sia giusto ostracizzare o bullizzare qualcuno, l’aspetto della persona
in questione influisce sul giudizio di chi osserva.
Giustissimo. Peccato che gli autori dello studio «abbiano, per
ragioni di efficienza interna al test, utilizzato soltanto facce maschili»,
il che lo rende assolutamente privo di valore per il gruppo piú
interessato da queste problematiche, cioè le donne. Secondo Fiske
e Cikara il genere «è una categoria sociale rilevante, forse la piú
rilevante in assoluto» e gli stereotipi di genere sono spesso applicati
in maniera automatica e inconscia: «La sola vista di una donna può
immediatamente evocare un insieme ben preciso di caratteristiche e
attribuzioni, a seconda del contesto». Ma l’importante era
salvaguardare l’efficienza del test, e questo, se non altro, è stato
fatto.
«È davvero sconvolgente constatare quanto poco ci si sia
occupati del genere nelle ricerche sulla psicologia della moralità», mi
dice Molly Crockett. Ma potrebbe anche non esserlo: le indagini sulla
moralità, spiega ancora Crockett, «mirano in realtà a scoprire gli
universali dell’umanità». Appena dice «universali», nella mia testa
scatta l’allarme che segnala il pensiero a misura di maschio.
Numerosi accademici che lavorano nel campo della moralità
condividono «opinioni molto ugualitarie e imparziali di ciò che è
giusto», continua Crockett, e può darsi che tendano a imporre i loro
parametri «alle nostre ricerche». L’allarme suona all’impazzata.
Ma poi Crockett dice qualcosa che forse può spiegare perché il
pensiero maschile per definizione sia cosí prevalente in un mondo
che, dopo tutto, è composto al cinquanta per cento da donne.
Credere che le nostre esperienze corrispondano a quelle dell’intera
umanità «è un tratto tipico della nostra psiche», mi spiega. È un
concetto che in psicologia sociale viene talvolta indicato come
«realismo ingenuo», a volte come «bias di proiezione». In sostanza,
tendiamo a supporre che il nostro modo di pensare o di agire sia
tipico. È una cosa del tutto normale: per i bianchi, poi, questo
pregiudizio viene amplificato da una cultura che gli consente di
rispecchiarsi nella loro stessa esperienza, rendendola in apparenza
ancora piú tipica. Il bias di proiezione amplificato da una specie di
bias di conferma, se vogliamo intenderla cosí. Cosa che spiega
molto bene perché capiti tanto spesso di imbattersi nel pregiudizio
maschile mascherato da neutralità di genere. Se la maggior parte
delle persone che detengono il potere sono uomini – e infatti lo sono
– non si rendono conto di avere un pregiudizio, e quest’ultimo
diventa, ai loro occhi, sano buonsenso. Ma quel buonsenso è, in
realtà, frutto della mancanza di dati di genere.
La tendenza a scambiare il pregiudizio maschile per semplice,
imparziale, universale buonsenso fa sí che quando gli individui
(maschi) si imbattono in qualcuno che vorrebbe giocare alla pari,
spesso non vedono nulla al di là di quell’intenzione (e forse la
interpretano come un pregiudizio). Uno studio del 2017 ha
evidenziato che, laddove i leader bianchi maschi sono elogiati
quando si adoperano in favore della diversità culturale, i leader che
appartengono al sesso femminile o a una minoranza etnica sono
giudicati negativamente per la stessa ragione 20. Ciò dipende
almeno in parte dal fatto che i politici donne o appartenenti a
minoranze etniche che si adoperano in favore della diversità
rendono palese ai bianchi la propria identità di donne o membri di
minoranze etniche, il che riporta a galla tutti gli stereotipi del caso:
dispotismo, assertività, freddezza, e via dicendo. Viceversa, le
donne o i membri di etnie minoritarie «evitano gli stereotipi negativi
quando mantengono al di sotto di un certo livello i comportamenti
che attribuiscono valore alla diversità». Abbiamo finalmente una
prova empirica di ciò che molte donne (pur non ammettendolo
neppure tra sé stesse) hanno sempre saputo, almeno a livello
implicito: stare al gioco del patriarcato garantisce vantaggi individuali
e a breve termine. Non può durare a lungo, ma questo è un
problema secondario.
Se è vero che «mettendo in atto comportamenti che dànno valore
alla diversità» una donna finisce per rammentare agli altri il fatto di
essere una donna, forse possiamo provare a capire perché Bernie
Sanders abbia sostenuto che il messaggio politico di Hillary Clinton
si potesse riassumere nello slogan: «Sono una donna! Votate per
me!» quando i fatti dimostrano senza ombra di dubbio che le cose
stavano diversamente. Un’analisi dei vocaboli piú frequentemente
usati nei discorsi dell’ex senatrice, pubblicata da David Roberts sul
sito giornalistico Vox, dimostra che i suoi argomenti principali erano
«lavoratori, posti di lavoro, istruzione ed economia: esattamente i
temi che era accusata di tralasciare. Il termine “posti di lavoro” è
stato utilizzato circa seicento volte; altri, come “razzismo”, “diritti
delle donne” e “aborto”, alcune decine di volte ciascuno». Eppure,
come ha fatto notare la scrittrice Rebecca Solnit in un suo articolo
per la «London Review of Books», «si pensava che parlasse solo
della sua identità di donna, ma in realtà erano gli altri a parlare
soltanto di quello» 21.

Il senso di tutto ciò, in una prospettiva piú ampia, è che la


democrazia non è un gioco alla pari: è alterato a svantaggio delle
donne che votano. E questo è un problema, perché la
rappresentanza maschile e femminile negli organi del potere
legislativo offre nuove prospettive alla politica. Per ragioni di sesso e
di genere, le donne vivono in modo diverso dagli uomini. Sono
trattate diversamente, e hanno una diversa esperienza del mondo:
perciò hanno esigenze e priorità specifiche. Come un gruppo di
sviluppatori di prodotti a prevalenza maschile, cosí una legislatura a
prevalenza maschile sarà affetta da un vuoto di dati di genere che le
impedirà di servire adeguatamente la popolazione femminile. E molti
governi sono composti in maggioranza da maschi.
A dicembre 2017 la quota di parlamentari donne nelle assemblee
politiche di tutto il mondo era in media del 23,5 per cento, con
importanti oscillazioni a livello regionale: nelle democrazie del
Nordeuropa la percentuale saliva al 41,4 per cento, ma scendeva al
18,3 per cento nei Paesi arabi 22. In trentuno nazioni la presenza di
parlamentari donne resta al di sotto del dieci per cento, comprese le
quattro nazioni in cui il parlamento è composto interamente da
uomini. E quasi dappertutto si fa ben poco per colmare il divario.
Sempre nel 2017, il Comitato per le donne e le pari opportunità
della Camera dei Comuni britannica ha pubblicato il rapporto
Women and Equalities, che elencava sei proposte di azione per
accrescere la rappresentanza femminile in Parlamento 23. Sono
state respinte in blocco 24. Una delle sei proposte riguardava
l’estensione a livello locale e la proroga (al di là della scadenza
prevista nel 2030) delle disposizioni che consentono di formare liste
di candidate esclusivamente donne alle consultazioni interne
mediante le quali si scelgono i candidati di ogni collegio.
Le liste di sole donne (All-women shortlists, Aws) sono state
impiegate per la prima volta alle elezioni politiche del 1997. Nel
gennaio di quello stesso anno, il Regno Unito si piazzava in
cinquantesima posizione, a pari merito con l’Angola e Saint Vincent
e Grenadine, nella classifica mondiale in base al numero di
parlamentari donne 25: alla Camera dei Comuni, la quota femminile
era pari al 9,5 per cento. A dicembre dello stesso anno, il Regno
Unito era balzato in ventesima posizione grazie ai risultati delle
elezioni tenutesi a maggio. In quell’occasione il Partito laburista di
opposizione aveva fatto uso per la prima volta delle «liste rosa», e
l’effetto era stato dirompente: il numero delle parlamentari laburiste
era salito da trentasette a centouno, mentre sul totale degli eletti di
tutti i partiti la presenza femminile era passata da sessanta a
centoventi.
Nelle elezioni 2017 il Labour Party aveva utilizzato le «liste rosa»
nel cinquanta per cento dei seggi conquistabili, e il quarantuno per
cento dei candidati era donna. Tra i conservatori e i
liberaldemocratici, che non avevano fatto ricorso a liste
esclusivamente femminili, le candidate erano il ventinove per cento
del totale. Al momento (2018) sui banchi della Camera dei Comuni
britannica siede un trentadue per cento di parlamentari donne, e il
Regno Unito è nuovamente sceso al trentanovesimo posto della
classifica mondiale: ciò si deve in parte ai progressi compiuti dagli
altri Paesi, e in parte alla posizione dominante del Partito
conservatore, che ancora non ricorre alle «liste rosa» (attualmente il
Partito laburista ha il quarantatre per cento di parlamentari donne,
contro il ventuno per cento del Partito conservatore.
È evidente che il sistema delle liste riservate alle donne ha
contribuito in misura significativa ad aumentare la presenza
femminile in parlamento. Il governo, però, ha respinto la proposta di
mantenerlo in vigore anche dopo il 2030, e ciò equivale di fatto a
stabilire per legge che la democrazia inglese debba tornare a essere
un regime a misura di maschio. Forse i membri del governo non si
sono documentati a dovere sul contributo delle parlamentari
all’attività legislativa. O forse sí.
La decisione di non consentire l’impiego delle «liste rosa» anche
a livello regionale lascia ancora piú perplessi, perché è proprio negli
enti locali che la rappresentanza femminile è ai minimi. Le riforme
che hanno concesso un’autonomia avanzata alle entità regionali
avevano il preciso obiettivo di restituire potere alle comunità: gli enti
locali, per i quali Londra spende novantaquattro miliardi di sterline
l’anno, hanno un ruolo centrale nella fornitura di servizi essenziali
soprattutto per le donne. Ma i fatti messi in luce da un rapporto del
2017 commissionato dalla Fawcett Society dimostrano che in realtà
si sta restituendo potere agli uomini 26.
In quel rapporto, per esempio, si segnalava che nove organi
collegiali di varie località dell’Inghilterra e del Galles erano tuttora
interamente composti da uomini, mentre solo il trentatre per cento
dei presidenti di giunta era donna. Soltanto un rappresentante su tre
negli organi collegiali dell’Inghilterra è una donna: negli ultimi
vent’anni la rappresentanza femminile si è incrementata solamente
di cinque punti percentuali. Tutti e sei i nuovi sindaci delle grandi
metropoli sono uomini (alle ultime elezioni per il Comune di Liverpool
nessuno dei partiti principali aveva una candidata donna), e negli
organi consultivi delle entità ad autonomia avanzata c’era solo il
dodici per cento di donne.
Il rapporto della Fawcett Society è l’unico documento a far luce
sulla situazione attuale, poiché il governo centrale non raccoglie
questo tipo di dati, e se la Fawcett Society smetterà di raccoglierli
non potremo seguire l’evoluzione della rappresentanza politica
femminile a livello locale. Eppure il governo ha rifiutato di estendere
la pratica delle «liste rosa» alle elezioni regionali e comunali
sostenendo che non ci fossero «elementi sufficienti per decidere» 27.
Inoltre il governo ha respinto la proposta di obbligare i partiti a
raccogliere e pubblicare i dati sulla ripartizione di genere dei loro
candidati (sostenendo che «avrebbe comportato un ulteriore onere
normativo»): nel complesso, i cittadini britannici che vorrebbero una
democrazia piú paritaria hanno tutte le ragioni di sentirsi a mal
partito.
Tre delle istanze presentate dal Comitato per le donne e le pari
opportunità riguardavano l’introduzione di posti riservati alle donne
negli organismi dirigenti: i governi sono sempre stati contrari a
questo tipo di misure, considerate antidemocratiche, perciò non
stupisce che siano state respinte. Dall’osservazione delle realtà di
altri Paesi sembra tuttavia di poter dedurre che le «quote rosa» non
abbiano aperto le porte a un mostruoso reggimento di donne
incompetenti 28. Al contrario, e come già è stato dimostrato
dall’indagine della London School of Economics sulle «quote rosa»
nei luoghi di lavoro, il metodo funziona anche in politica, in quanto
«migliora la competenza della classe dirigente nel suo complesso».
Stando cosí le cose, le famigerate «quote rosa» non sono che il
correttivo a uno squilibrio occultamente favorevole ai maschi, ed è
l’attuale sistema a essere antidemocratico.
Il tipo di quote applicabili dipende dal sistema elettorale vigente in
quel Paese. Il territorio del Regno Unito, per esempio, è suddiviso in
seicentocinquanta collegi elettorali, ognuno dei quali elegge un solo
membro del parlamento. La votazione avviene a maggioranza
relativa: il candidato che ottiene piú voti va a occupare un seggio a
Westminster. Poiché tutti i partiti che si presentano in un collegio
possono proporre un solo candidato, l’unico modo per correggere lo
squilibrio maschile è presentare alle consultazioni interne una rosa di
candidati interamente composta da donne.
In Svezia vige invece il sistema delle liste: ogni collegio elettorale
è rappresentato da un gruppo di parlamentari scelti con il sistema
proporzionale. Ciascun partito presenta un elenco di candidati in
ordine di importanza: a seconda del numero di voti ottenuti, uno o
piú esponenti di lista andranno a rappresentare quel collegio in
parlamento. Piú si è in fondo all’elenco, meno probabilità si hanno di
aggiudicarsi un seggio.
Nel 1971 le parlamentari donne nell’assemblea legislativa
svedese erano solo il quattordici per cento del totale 29. Per colmare
il divario, nel 1972 il Partito socialdemocratico diramò una circolare
in cui esortava le sezioni locali a incrementare la presenza femminile
nelle liste elettorali 30. Sei anni dopo, una seconda circolare
sollecitava a far sí che la proporzione di donne nelle liste
corrispondesse a quella delle iscritte al partito; nel 1987 fu introdotta
una quota minima del quaranta per cento. Nessuna di queste
iniziative ebbe effetti significativi sul numero di parlamentari elette:
anche in una lista con il cinquanta per cento di donne, se le donne
vengono dopo gli uomini le probabilità che ottengano un seggio sono
comunque basse.
E cosí, nel 1993 i socialdemocratici svedesi introdussero il
cosiddetto sistema «a cerniera»: partendo da due diverse liste di
candidati, l’una formata da uomini e l’altra da donne, se ne creava
una sola alternando uomini e donne. Nelle elezioni successive che si
tennero nel 1994, la rappresentanza femminile fece un balzo di otto
punti 31 e da allora non è mai scesa al di sotto del quaranta per
cento 32, anche se di recente è andata calando con la progressiva
affermazione dei partiti di destra, che non introducono quote di
genere.
Il caso della Corea del Sud ci offre un esempio interessante di
come un meccanismo apparentemente estraneo alle questioni di
genere quale è un sistema elettorale possa fare la differenza ai fini
della rappresentanza politica femminile. In quel Paese vige infatti un
sistema misto, in base al quale circa il diciotto per cento dei seggi in
parlamento è assegnato con il metodo proporzionale 33, e il resto
con uno schema simile a quello del parlamento britannico: collegi
uninominali e deputati eletti a maggioranza relativa. In entrambi i
sistemi sono previste quote riservate alla rappresentanza femminile.
Nel 2004, quando si decise di portare dal trenta al cinquanta per
cento le «quote rosa» del sistema proporzionale, la componente
femminile del parlamento ne uscí piú che raddoppiata. Va detto però
che si partiva da un livello molto basso: nella frazione proporzionale,
infatti, i partiti aderiscono abbastanza fedelmente al sistema delle
quote, ma nei collegi uninominali, dove in teoria il trenta per cento
delle candidature dovrebbe essere riservato alle donne, la realtà è
tuttora ben diversa: nelle liste del partito Saenuri e del Partito
democratico unito presentate a una recente consultazione elettorale
figuravano rispettivamente il sette e il dieci per cento di candidature
femminili. Se entrambi i partiti applicassero il sistema delle quote la
presenza femminile nel parlamento coreano arriverebbe al 33,6 per
cento, contro l’attuale 15,7.
Non è difficile capire perché tra i due sistemi vi sia una netta
differenza in termini di adesione al meccanismo delle quote: il
sistema a maggioranza relativa e i collegi uninominali sono un gioco
a somma zero 34. Chi vince prende tutto. E benché in astratto si
possa ritenere che le liste interamente composte da donne siano un
equo correttivo a una procedura iniqua, a livello concreto hanno tutto
l’aspetto di un’ingiustizia – soprattutto agli occhi di un candidato
maschio a cui non sia neppure consentito di entrare in gara.
Cosí la pensavano anche i due candidati non eletti del Partito
laburista, Peter Jepson e Roger Dyas-Elliott, che nel 1996 citarono
in giudizio il loro stesso partito sostenendo che le liste di sole donne
violassero la legge del 1975 contro la discriminazione sessuale. Alla
luce di quanto sappiamo sull’invisibile discriminazione positiva che
gioca a favore degli uomini, viene il sospetto che lo spirito di quella
legge andasse in un’altra direzione; la lettera, tuttavia, non lasciava
spazio agli equivoci, perciò Jepson e Dyas-Elliott vinsero la causa.
Le «liste rosa» furono temporaneamente messe fuori legge, per poi
essere reintrodotte nel 2002 dal governo laburista. Avrebbero dovuto
restare in vigore fino al 2015, ma sette anni prima della scadenza la
leader laburista Harriet Harman ne annunciò la proroga fino al
2030 35. Nel frattempo, Roger Dyas-Elliott è stato citato in tribunale e
ha ricevuto un ordine restrittivo per aver spedito un volatile morto
alla moglie di un parlamentare rivale 36.

Nel resto del mondo, i Paesi che hanno livelli elevati di


rappresentanza politica femminile votano perlopiú con il sistema
proporzionale 37. Alla luce di questo dato e delle esperienze fatte in
Svezia e in Corea del Sud, la sensazione è che forse il nostro
Comitato per le donne e le pari opportunità avrebbe dovuto istituire,
come primo passo, un sistema di quote. Se davvero si vuol veder
aumentare la presenza femminile nel nostro parlamento, quel che
serve è un’ampia riforma dei meccanismi elettorali. Ciò detto,
aumentare la rappresentanza femminile è solo metà della battaglia:
avere delle donne negli organi legislativi dello Stato non serve a
molto, se poi gli si impedisce di lavorare al meglio. Cosa che
purtroppo accade spesso.
Secondo Clare Castillejo, esperta di politiche sociali e aree di
crisi, le donne hanno difficoltà a influenzare l’azione di governo
perché sono escluse dalle reti clientelari a predominanza
maschile 38. Negli scenari postbellici, la partecipazione delle donne
ai colloqui ufficiali non può essere risolutiva se gli uomini
costruiscono reti ufficiose di scambi di favori (cosa che, secondo
Castillejo, avviene assai spesso) 39 e conducono le vere trattative in
«spazi informali unicamente riservati ai maschi» 40.
La pratica di escludere le donne dai contesti decisionali è quanto
mai diffusa, ed è il metodo piú efficiente (secondo solo al divieto di
eleggere le donne) per mettere ai margini le esperienze di vita e le
prospettive della parte femminile del mondo. Secondo un sondaggio
effettuato nel 2011 su un campione di parlamentari statunitensi, il
quaranta per cento delle donne ha dichiarato non vera l’affermazione
«Prima di prendere decisioni importanti, i leader dell’assemblea
legislativa si consultano con i parlamentari di entrambi i sessi, senza
fare differenze». Stranamente, solo il diciassette per cento degli
uomini si è detto in disaccordo 41. Infine, un’indagine del 2017 sui
governi degli enti locali nel Regno Unito ha messo in luce l’esistenza
di «reti informali che hanno in mano il potere autentico», in cui le
donne «hanno minori probabilità di essere coinvolte» 42.
Isolarsi negli spazi «per soli uomini» non è l’unico espediente di
cui i politici maschi si servano per estromettere le donne. A quanto
pare hanno a disposizione un intero armamentario di tecniche da
attuare nei contesti «misti», a cominciare dall’impedire loro di
parlare. «Le donne sono il genere che viene interrotto con maggiore
frequenza» ha accertato uno studio del 2015: in media, gli uomini
interrompono le donne due volte piú spesso di quanto le donne non
interrompano loro 43. In occasione di un dibattito di novanta minuti
tenutosi poco prima delle elezioni presidenziali del 2016, Donald
Trump ha interrotto Hillary Clinton cinquantuno volte, mentre Clinton
ha tolto la parola al suo avversario solo diciassette volte 44. Ma non
finisce qui: anche il giornalista Matt Lauer (poi licenziato perché
accusato da piú parti di molestie sessuali) 45 ha interrotto piú Clinton
che Trump, e ha anche «messo in dubbio piú spesso le affermazioni
della candidata democratica» 46, che invece era, come è stato
dimostrato, la piú sincera di tutti i concorrenti alle presidenziali del
2018 47.
Un’altra tecnica cui si ricorre molto spesso è il trattare con
condiscendenza, come fece nel 2011 l’allora primo ministro David
Cameron rivolgendosi alla parlamentare laburista Angela Eagle con
un irrituale «Calmati, tesoro» 48. Dallo studio condotto nel 2016
dall’Inter-Parliamentary Union (Ipu) sul sessismo, la violenza e le
molestie contro le parlamentari donne emerge la testimonianza di
una deputata europea, che dichiara: «Se una donna alza la voce in
parlamento la si fa tacere con un dito sulle labbra, come si fa con i
bambini. Quando è un uomo ad alzare la voce, non succede mai» 49.
Un’altra riferisce che «i colleghi, anche del mio stesso partito, mi
chiedono sempre se quel che voglio dire è davvero importante, se
proprio non posso fare a meno di prendere la parola». Poi ci sono
altre tattiche, piú spudorate. La parlamentare afghana Fawzia Koofi,
del Movement of Change for Afghanistan, ha raccontato al
«Guardian» che i suoi colleghi maschi ricorrono addirittura
all’intimidazione per zittire le colleghe; e se non funziona, «la
presidenza ci spegne i microfoni» 50.
Affidare a una sola persona (di solito un uomo) il compito di
stabilire i tempi degli interventi parlamentari può rivelarsi
problematico in una prospettiva di genere, come emerge dalla
testimonianza di una parlamentare dell’Africa subsahariana (rimasta
anonima, come tutte quelle citate nel rapporto dell’Ipu): il presidente
della Camera aveva fatto delle avance a una sua collega, ma era
stato respinto; da allora «non le ha mai piú dato la parola in aula». A
volte, per arrivare a tanto, non c’è nemmeno bisogno di un tentativo
di seduzione finito male: «Durante la mia prima legislatura gli organi
parlamentari citavano sempre e soltanto le dichiarazioni dei deputati
maschi e davano loro la precedenza nell’ordine degli interventi»,
spiega la parlamentare di un Paese asiatico.
La conclusione a cui perveniva il rapporto dell’Ipu era che il
sessismo, le molestie e le violenze contro le donne in politica sono
«un fenomeno che non conosce confini e si manifesta con
gradazioni diverse in ogni Paese». Sempre secondo il rapporto, il
sessantasei per cento delle parlamentari era regolarmente costretto
a subire commenti misogini da parte dei colleghi maschi, in un triste
arcobaleno di sfumature dal degradante («Ti vedrei bene in un film
porno») al minaccioso («Si merita di essere stuprata, cosí capisce
che tipi sono i migranti»).
Anche l’insulto politico è un fenomeno che ha connotazioni di
genere 51. Durante le primarie del 2016 del Partito democratico,
Hillary Clinton ha ricevuto quasi il doppio di messaggi di insulti via
Twitter rispetto a Bernie Sanders. L’offesa piú spesso associata al
suo nome era bitch (traducibile con «strega», «stronza» e simili),
ampiamente utilizzata anche nei confronti dell’ex parlamentare
australiana Julia Gillard, che tra il 2010 e il 2014 è stata bersagliata
da una quantità di ingiurie quasi doppia rispetto al suo rivale politico,
Kevin Rudd. Una parlamentare europea ha raccontato all’Ipu di aver
totalizzato piú di cinquecento minacce di stupro via Twitter nell’arco
di soli quattro giorni 52. Un’altra donna si è vista recapitare una serie
di informazioni su suo figlio (età, classe e scuola frequentata
eccetera) associate a minacce di rapimento.
A volte, purtroppo, non sono «soltanto» minacce. Piú di una
parlamentare su cinque tra quelle intervistate dall’Ipu dichiarava di
«aver subito una o diverse aggressioni sessuali», mentre circa un
terzo di loro era stato testimone di un’aggressione sessuale a danno
di una collega. Durante le elezioni del 2010 in Afghanistan, quasi
tutte le candidate donne avevano ricevuto telefonate di minaccia 53,
e alcune deputate di quel Paese sono state messe sotto
protezione 54. «Temo per la mia vita quasi ogni giorno», ha
raccontato ancora Fawzia Koofi 55, a un anno di distanza
dall’attentato dinamitardo che aveva ucciso una sua collega:
nell’arco di soli tre mesi c’erano stati ben due attacchi mortali a sue
connazionali impegnate in politica 56.
L’aggressività sembra aumentare in misura proporzionale alla
presenza femminile nella vita pubblica. Da ricerche effettuate in tutti i
Paesi del mondo, compresa l’insospettabile Scandinavia, risulta che
con il crescere della rappresentanza femminile aumenta anche
l’ostilità contro le donne dedite all’attività politica 57. Soprattutto da
parte dei colleghi maschi. Studi condotti negli Stati Uniti e in Nuova
Zelanda 58 hanno dimostrato che «a seguito di un incremento della
quota di donne nella legislatura, i parlamentari maschi tendono a
intensificare le aggressioni verbali e il controllo sulle riunioni di
commissione e sui dibattiti parlamentari». Un’altra indagine ha reso
noto che con l’ampliamento della presenza femminile nel congresso
statunitense (che al momento non supera il 19,4 per cento) 59 per le
donne diventa piú difficile raggiungere posizioni di vertice all’interno
dei propri partiti 60. Ulteriori approfondimenti 61 della situazione negli
Stati Uniti e in Argentina hanno evidenziato che la presenza di una
folta rappresentanza femminile in parlamento è «correlata a un
minor successo nell’approvazione di leggi firmate da donne e a una
minore probabilità di entrare a far parte di commissioni giudicate
«maschili» e «potenti» 62. Analogamente, alcune analisi della realtà
statunitense hanno rilevato che presentare la questione dei diritti
femminili come una questione di diritti umani incrementa l’ostilità dei
parlamentari maschi: e cosí, se una legge a difesa dei diritti femminili
è sponsorizzata soprattutto da donne, alla fine esce dal parlamento
molto attenuata e ottiene meno risorse da parte dei singoli Stati 63. Si
direbbe che la nostra democrazia sia guasta – almeno in ciò che
riguarda le donne.
Lavorare in un clima di guerra psicologica condiziona per forza di
cose la capacità di lavoro delle donne. Dall’indagine dell’Ipu risulta
infatti che molte parlamentari limitano gli spostamenti, fanno in modo
di essere a casa prima del buio, oppure viaggiano sempre
accompagnate 64. Altre invece si autocensurano, soprattutto sui temi
che riguardano la condizione femminile 65 e che vengono accolti con
particolare aggressività 66, oppure rinunciano del tutto all’uso dei
social media, privandosi in questo modo di «una tribuna di
divulgazione e confronto per le loro proposte».
Altre, poi, abbandonano il campo. È dimostrato che i casi di
violenza contro le donne che si occupano di politica in Asia e in
America Latina hanno l’effetto di dissuaderle dal ripresentarsi alle
elezioni o comunque di incoraggiarle a ritirarsi dopo un numero di
legislature inferiore a quello dei colleghi maschi 67. «Non so se mi
ricandiderò alle prossime elezioni, – ha dichiarato all’Ipu una
parlamentare asiatica. – Non voglio arrecare troppo danno alla mia
famiglia» 68. Anche in Svezia, una donna impegnata nella politica
locale su tre «ha considerato l’ipotesi di rinunciare agli incarichi a
seguito di episodi preoccupanti» 69.
Gli insulti rivolti alle politiche hanno anche l’effetto di dissuadere
altre donne dallo svolgere un ruolo attivo in quell’ambito. Piú del
settantacinque per cento delle cittadine inglesi che avevano
partecipato a un programma di formazione politica dichiarava che gli
insulti sessisti rivolti ai personaggi politici femminili sui social media
erano «un elemento preoccupante che poteva dissuaderle
dall’assumere un ruolo pubblico» 70. In Australia, il sessanta per
cento delle donne tra i diciotto e i ventun anni e l’ottanta per cento
delle donne al di sopra dei trentun anni dichiarano che il trattamento
riservato dai media alle donne attive in politica le scoraggiava dal
candidarsi a un eventuale incarico 71. In Nigeria si è invece
osservato, tra il 2011 e il 2015, un «evidente calo» del numero di
deputate elette all’assemblea nazionale: secondo uno studio
condotto dall’Ong National Democratic Institute, il fenomeno
potrebbe essere «riconducibile al clima di violenza e alle molestie
subite da molte parlamentari elette» 72. E, come abbiamo visto,
l’erosione della rappresentanza femminile creerà un vuoto di dati di
genere che, a sua volta, renderà piú difficile l’approvazione di leggi a
tutela della popolazione femminile.
Le prove sono eloquenti: la politica, per come è praticata oggi,
non è un ambiente favorevole alle donne. Benché tecnicamente sia
un gioco alla pari, in realtà le donne sono svantaggiate rispetto agli
uomini. È quel che accade quando si costruiscono sistemi politici
senza tener conto delle problematiche di genere.
Nel suo libro Facciamoci avanti, Sheryl Sandberg sostiene che il
modo migliore con cui le donne possono affrontare un ambiente di
lavoro ostile consiste nell’allacciare le cinture e farsi largo a spintoni.
Certo, è solo una parte della soluzione. Non sono un’esponente
politica, ma in quanto titolare di un profilo pubblico anch’io ricevo la
mia parte di insulti e minacce. E pur rendendomi conto di quanto
questa mia opinione rischi di essere impopolare, sono convinta che
coloro che tra noi si sentono in grado di resistere alla tempesta
dovrebbero assumersi la responsabilità di farlo. Insulti e minacce
nascono dalla paura. Paura che, a sua volta, nasce dal vuoto di dati
di genere: alcuni uomini, cresciuti in una cultura satura di voci e volti
maschili, temono che le donne possano sottrarre loro un potere e
uno spazio pubblico che gli spettano di diritto. Quel timore non
scomparirà finché noi donne non riusciremo a colmare il vuoto di
dati, ossia finché gli uomini non smetteranno di crescere
nell’illusione che la sfera pubblica sia il loro legittimo territorio. In un
certo senso, è una prova che le donne della nostra generazione
devono affrontare una volta per tutte, affinché quante verranno dopo
di noi non siano piú obbligate a farlo.
Il che non significa che non esistano soluzioni strutturali.
Consideriamo per esempio la tendenza maschile a toglierci la
parola: un’analisi condotta su quindici anni di dibattiti della Corte
suprema statunitense ha rilevato che «gli uomini interrompono piú
spesso delle donne, e in particolare interrompono piú le donne degli
altri uomini» 73. Ciò vale tanto per gli avvocati (maschi; le avvocate
non interrompono affatto) quanto per i giudici, anche se in teoria gli
avvocati dovrebbero tacere quando un giudice prende la parola. Vale
la pena di notare che anche qui, come nella sfera politica, il
problema sembra essersi aggravato con il crescere della presenza
femminile.
Volendo applicare una soluzione individualista, si potrebbe
suggerire alle donne di rendere la pariglia ai loro colleghi 74, magari
perfezionando le loro tecniche di «cortese interruzione» 75. Ma c’è un
problema: questo metodo, benché in apparenza privo di
connotazioni di genere, non tiene conto del pregiudizio per cui,
quando è una donna a interrompere, la cosa è comunque recepita in
modo diverso. Nel giugno del 2017, per esempio, la senatrice
democratica Kamala Harris stava rivolgendo alcune domande
insidiose all’allora procuratore generale Jeff Sessions, che
rispondeva in modo piuttosto evasivo. All’ennesima frase sfuggente,
Harris lo interruppe e lo invitò a rispondere alla domanda.
Dopodiché, in due diverse occasioni, fu lei a essere interrotta e
ammonita dal senatore John McCain per il tono delle sue
domande 76. Tuttavia McCain non riservò lo stesso trattamento al
senatore Rob Wyden, collega di Harris, che pure sottoponeva
Sessions a un interrogatorio altrettanto pressante. E alla fine
soltanto Harris fu fregiata del titolo di «isterica» 77.
Il problema non è che le donne non sappiano essere cortesi. È
che sanno – piú o meno consapevolmente – che per loro non esiste
un modo «cortese» di interrompere. Perciò consigliare alle donne di
imitare i comportamenti maschili – come se fossero la norma umana
predefinita – non serve, e potrebbe addirittura essere
controproducente. Quel che davvero servirebbe è un ambiente
politico e di lavoro che tenga conto sia del fatto che gli uomini
tendono a interrompere piú spesso delle donne, sia del fatto che,
quando le donne si comportano allo stesso modo, la pagano cara.
Al giorno d’oggi in molti luoghi di lavoro è diventato di moda
allentare quelle che sono spesso considerate reliquie obsolete di
un’epoca meno egualitaria: basta con le gerarchie soffocanti, via
libera alle strutture organizzative orizzontali. Peccato che farla finita
con le gerarchie formali spesso non porti alla totale eliminazione di
ogni struttura piramidale: quel che succede in realtà è che i vecchi
rapporti di tacita, implicita e quanto mai ingiusta supremazia
finiscono sempre per essere riconfermati. I maschi bianchi in cima, e
tutti gli altri sotto a sgomitare per un posticino al sole. Gayna
Williams, esperta di formazione alla leadership femminile, sostiene
che i metodi di discussione di gruppo come il brainstorming «sono
notoriamente irti di tranelli per gli esponenti delle minoranze»,
perché dominati dalle voci che già si trovano in posizione
dominante 78.
È stato tuttavia dimostrato che alcuni semplici accorgimenti, come
la vigilanza sulle interruzioni 79 e l’imposizione di un limite alla durata
di ciascun intervento, attenuano il predominio maschile su ogni
discussione. È esattamente quel che ha fatto Glen Mazzara,
sceneggiatore e produttore della serie televisiva The Shield, dopo
essersi accorto che le donne della sua squadra non prendevano la
parola durante le riunioni, o se lo facevano erano interrotte da
colleghi maschi che si appropriavano dei loro suggerimenti. La sua
idea di vietare le interruzioni ha funzionato. E il lavoro di tutta la
squadra, dice, «ci ha guadagnato in efficacia» 80.
Ci sarebbe poi una soluzione piú ambiziosa, cioè cambiare del
tutto i processi decisionali, passando dal criterio della maggioranza a
quello dell’unanimità. In questo modo si incentivano le donne a
prendere parte alle discussioni e si attenua il dissenso nei confronti
delle posizioni di minoranza 81. Uno studio del 2012 ha dimostrato
che negli Stati Uniti le donne partecipano in pari misura alle
discussioni solo quando la loro presenza è «di gran lunga
maggioritaria» 82; è interessante notare che a differenza delle donne,
che intervengono di meno quando sono in minoranza, gli uomini
prendono comunque la parola con la stessa frequenza,
indipendentemente dalla composizione di genere del gruppo.
In alcuni Paesi si è cercato di rimediare per legge ai tentativi piú
estremi di togliere la parola alle donne. In Bolivia la violenza politica
contro una donna che detiene una carica pubblica, che sia o meno
elettiva, è un reato penale dal 2012; nel 2016 si è inoltre deciso di
interdire da ogni carica pubblica i cittadini giudicati colpevoli di atti
aggressivi contro le donne.
Nel complesso, tuttavia, molti sistemi politici si comportano come
se le donne non fossero vittime di uno svantaggio sistemico. I codici
di condotta vigenti in quasi tutte le assemblee parlamentari aspirano
principalmente al mantenimento di un «decoro» privo di connotazioni
di genere. Nella maggior parte dei Paesi non vi sono procedure
ufficiali contro le molestie, cosicché la facoltà di decidere se i
comportamenti sessisti sono o non sono indecorosi spetta sempre al
presidente di turno (che di solito è un uomo). Spesso le obiezioni
vengono respinte. Una parlamentare intervistata dall’Ipu ha
raccontato di aver posto una questione di procedura a seguito di un
insulto sessista rivoltole da un collega: il presidente aveva respinto la
mozione sostenendo di «non avere alcun potere su ciò che un’altra
persona pensava di lei».
Nel Regno Unito vigeva un codice di condotta specifico a livello
degli enti locali, sottoposti al controllo di un organismo indipendente
che aveva facoltà di sospendere i consiglieri colpevoli di sessismo.
Ma quell’organismo è stato abolito con la legge per la
semplificazione burocratica del 2010, e oggi ciascun ente locale ha
facoltà di stabilire le proprie regole in materia e farle rispettare. Le
direttive del governo sono piuttosto vaghe: si parla in generale di un
«codice di condotta inappuntabile», senza alcun accenno alla
repressione degli atti discriminatori 83. Non c’è piú nessun
meccanismo che consenta di sospendere i consiglieri responsabili di
comportamenti indegni, ma non penalmente perseguibili 84.
Non desta dunque sorpresa che nel 2017 il rapporto sugli enti
locali della Fawcett Society abbia denunciato l’esistenza di «una
cultura violentemente sessista in alcuni settori dell’amministrazione
locale, come una sorta di retaggio degli anni Settanta» in virtú del
quale «il sessismo è tollerato e accettato in quanto elemento della
vita politica», tanto che quasi quattro consigliere su dieci riferivano di
essere state apostrofate da colleghi consiglieri con epiteti sessisti 85.
Una consigliera in particolare deplorava «una cultura che svalorizza
le giovani donne e sminuisce il contributo delle donne». Un gruppo
formato da sole donne è descritto come «il club delle mogli»; una
cena che prevede la partecipazione di un autorevole uomo politico di
importanza nazionale diventa per «le mogli» un’occasione per
«mettersi in ghingheri». E quando la consigliera ha osato biasimare
quei comportamenti, lei e una sua collega sono state accusate di
«aggressività» e «insolentite con nomignoli sessisti e degradanti».
Le sue e-mail sono state ignorate; le date delle riunioni le venivano
tenute nascoste, i suoi contributi alle discussioni erano «piú che altro
tollerati». I suoi stessi colleghi di partito si rivolgevano a lei sui social
media con frasi del tipo: «Pussa via, ragazzina, e lascia lavorare in
pace noi adulti».
I punti centrali di questo capitolo sono due. Il primo è che
impedire al cinquanta per cento dell’umanità di contribuire al proprio
autogoverno significa creare un vuoto di dati di genere ai massimi
vertici del potere. In ambito politico, la categoria dei «migliori» non
coincide necessariamente con «coloro che hanno soldi e tempo in
abbondanza, nonché un’immeritata fiducia in sé stessi conquistata
frequentando le scuole e le università “giuste”». Spesso i migliori
sono un’entità collettiva, un gruppo di lavoro all’interno del quale la
diversità è un pregio. Tutto ciò che è stato detto nei precedenti
capitoli dimostra senza ombra di dubbio che la prospettiva da cui si
osservano le cose è importante. Le informazioni acquisite da una
donna nel corso della sua vita sono importanti. E quindi devono
occupare lo spazio che gli compete al centro della politica.
Il che ci porta al secondo punto: i dati di cui disponiamo indicano
che in politica le donne non giocano alla pari con i loro colleghi
maschi. Il sistema è sbilanciato in modo da favorire l’elezione degli
uomini, perpetuando con ciò il vuoto di dati di genere ai livelli piú alti
del potere, che non può non ripercuotersi negativamente su metà
della popolazione di questo pianeta. Dobbiamo smettere di chiudere
gli occhi di fronte alle discriminazioni positive che oggi giocano a
favore degli uomini. Dobbiamo smettere di fingere che la parità
teorica stabilita per legge sia una parità effettiva. E dobbiamo
lavorare per la creazione di un sistema elettorale basato su dati di
realtà, che garantisca a tutte e a tutti il diritto di decidere sulle leggi
che ci governano.
Parte sesta
Quando le cose vanno male
XV.
A chi tocca ricostruire?

Mancava poco alla quarta World Conference on Women che si


sarebbe tenuta a Pechino nel settembre del 1995 su iniziativa delle
Nazioni unite: Hillary Clinton era decisa a partecipare con un
intervento centrato sui diritti delle donne, ma il suo staff sembrava un
po’ perplesso 1. «Non è una questione di primo piano per il nostro
governo, – le dicevano. – È un tema importante e ci fa piacere che tu
sia interessata, ma se la First Lady degli Stati Uniti si presenta a
un’occasione del genere e affronta quell’argomento, finisce per
dargli un risalto eccessivo rispetto a quanto sta accadendo nel
mondo: il crollo dell’Unione Sovietica, la fase di transizione delle
repubbliche ex sovietiche e dei Paesi del Patto di Varsavia, la
situazione in Ruanda e in Bosnia… Forse sarebbe meglio se ne
parlassi in un’altra sede». Come vedremo (e come all’epoca già si
sapeva nelle alte sfere della politica statunitense), la «situazione» in
Bosnia e in Ruanda significava stupri di guerra e violenze
sistematiche sulle donne.
Quando le cose vanno male – quando sopraggiungono guerre,
disastri naturali, pandemie – tutti i vuoti di dati che abbiamo finora
scoperto ai livelli piú disparati, dalla pianificazione urbana alla pratica
medica, si ingrandiscono e si moltiplicano. Ma in quelle situazioni il
problema non è piú soltanto che ci si dimentica di tener conto delle
donne: la questione si fa piú insidiosa. Perché se già siamo restii a
considerare la prospettiva femminile quando tutto va bene, nelle
situazioni di caos e di crisi sociale i vecchi pregiudizi sembrano –
chissà perché – piú giustificati. C’è sempre un scusa pronta. Bisogna
prima ricostruire l’economia (argomentazione che, come abbiamo
visto, poggia su un errore logico). Abbiamo delle vite da salvare (e
anche qui, come vedremo, c’è un errore logico). Ma la verità è che
quelle scuse non reggono. La vera ragione per cui si escludono le
donne è che i diritti del cinquanta per cento della popolazione sono
considerati una questione minoritaria.
Escludere le donne dai programmi di ricostruzione dopo una
catastrofe può avere conseguenze addirittura grottesche. «Le nuove
case non avevano le cucine» mi racconta Maureen Fordham,
esperta in resilienza e contenimento dei disastri. Era il 2001: un
fortissimo terremoto aveva appena colpito il Gujarat, uno Stato
dell’India occidentale. C’erano state migliaia di vittime, e quasi
quattrocentomila abitazioni erano ridotte in macerie. Bisognava
perciò costruirne di nuove, ma il programma di riedificazione subiva
gli effetti di un gravissimo vuoto di dati: non avevano pensato a
includere le donne nel progetto, o quanto meno a consultarle: da qui
le case prive di cucina. Ma nessuno si era domandato come
avrebbero fatto le famiglie a preparare i pasti? «Proprio cosí», mi
dice Fordham; inoltre alle nuove abitazioni mancava spesso «un
fabbricato esterno in cui tenere gli animali», perché in genere non
sono gli uomini a occuparsi degli animali domestici. «È un lavoro da
donne».
Potrebbe sembrare un caso piú unico che raro, ma non è cosí.
Pochi anni dopo, la stessa situazione si è verificata nello Sri Lanka 2,
quando lo tsunami del 26 dicembre 2004 ha devastato le aree
costiere di quattordici Paesi affacciati sull’oceano Indiano, causando
la morte di duecentocinquantamila persone. Come nel Gujarat,
anche nello Sri Lanka i piani di ricostruzione non hanno tenuto conto
dell’esistenza delle donne e le nuove abitazioni sono state
consegnate prive di cucine. Un problema simile si verifica nei campi
profughi in cui le organizzazioni umanitarie distribuiscono alimenti
che necessitano di essere cucinati, ma si dimenticano di fornire il
combustibile 3.
Nemmeno gli Stati Uniti sono al sicuro dalle critiche: Fordham cita
il caso del programma avviato a Miami dopo il passaggio
dell’uragano Andrew nel 1992. «L’avevano chiamato “Noi
ricostruiremo”»: il problema è che il soggetto collettivo che avrebbe
dovuto progettare la riedificazione delle aree colpite era composto
quasi interamente da uomini: solo undici dei cinquantasei membri
del Consiglio direttivo (definito «una ristretta cerchia di maggiorenti
locali, a cui si accedeva solo su invito» 4) erano donne.
Anche all’epoca quel «noi» a forte predominanza maschile era
stato tacciato di essere «un gruppo di residenti dei quartieri alti che
vorrebbero risolvere un problema nei quartieri bassi». Secondo una
cittadina, non era altro che «la solita cricca di amiconi che
pretendevano di gestire la situazione senza avere la minima idea di
quali fossero i problemi, soprattutto i problemi delle donne.
Insomma, niente di nuovo sotto il sole». E qual era lo specifico
progetto di questa cricca di amiconi? Semplice: ricostruire i
grattacieli, i business center, la sede della Camera di commercio,
quando «migliaia di persone stavano ancora soffrendo per la
mancanza di beni indispensabili e servizi di base». Si erano
dimenticati, spiega Fordham, «di ricostruire asili e ambulatori»,
nonché le strutture necessarie a quelle attività di lavoro informale
che, come abbiamo visto, sono di particolare importanza per le
donne. E cosí le attiviste per i diritti delle donne, al colmo dello
scontento, si sono decise a riempire i vuoti del programma ufficiale e
hanno fondato l’associazione «A ricostruire ci pensano le donne».
L’esperienza negativa di «Noi ricostruiremo» risale a qualche
decennio fa, ma a quanto pare la lezione non è stata appresa a
dovere. Nell’agosto del 2005, quando New Orleans fu colpita
dall’uragano Katrina, gli Stati Uniti entrarono nella lista dei primi dieci
Paesi al mondo «per numero di persone costrette a migrare entro i
confini nazionali» 5, e tra i gruppi piú svantaggiati da quella
migrazione interna c’erano le donne afroamericane. Nonostante ciò,
la voce di quelle donne non è mai stata ascoltata, né prima né dopo
il disastro 6. Un vuoto di dati di genere che ha impedito di indirizzare
le risorse verso i soggetti piú vulnerabili, che invece, come
sosteneva il rapporto 2015 dell’Institute of Women’s Policy Research
(Iwpr), si sarebbero potuti facilmente individuare con una ricerca
adeguata. Ma i responsabili della pianificazione non hanno ritenuto
necessario consultare le donne per capire quali fossero le loro
esigenze: ne è scaturito quello che il rapporto dell’Iwpr chiama «il
terzo disastro», dopo l’uragano e gli allagamenti. E come il
cedimento degli argini che avrebbero dovuto proteggere l’area
urbana di New Orleans, anche quel terzo disastro è stato causato
dall’uomo.
La maggior parte dei residenti nei complessi di edilizia pubblica
della città avrebbe voluto rientrare nelle case dopo il risanamento, e
cosí si aspettava di fare. In fin dei conti i quattro quartieri di case
popolari noti a New Orleans con il nomignolo collettivo di The Bricks
erano ancora in piedi. Anche gli esperti del ministero dell’Edilizia e
dello sviluppo urbano avevano detto che le costruzioni non avevano
problemi di tipo strutturale e sarebbero tornate abitabili dopo
un’accurata pulizia; ma alla fine non è andata cosí. Benché ci fosse
ancora «una forte richiesta di abitazioni solide e a buon prezzo» in
tutta l’area urbana, le autorità stanziarono i fondi per la demolizione
dei quattro complessi. Sarebbero stati rimpiazzati da nuovi aggregati
abitativi per nuclei «a reddito misto», nei quali ci sarebbe stato
spazio soltanto per 706 alloggi popolari contro i 4534 precedenti
l’uragano.
Come i responsabili di «Noi ricostruiremo» a Miami, anche i
progettisti di New Orleans sembravano decisi ad anteporre gli
interessi commerciali alle esigenze «di migliaia di persone
allontanate per sempre dalle loro case: tutte a basso reddito, e in
maggioranza donne afroamericane». Ai cittadini che avevano
intentato una causa legale contro i suoi dirigenti, l’ente per l’edilizia
abitativa di New York rispose di aver sondato le intenzioni degli ex
inquilini, i quali avevano dichiarato in maggioranza di non voler
tornare a New Orleans. È esattamente il contrario di quanto
accertato dall’Institute of Women’s Policy Research: ciò ha indotto
molti a sospettare che «la decisione di abbattere gli edifici sia stata
dettata non dalla volontà di riparare ai danni dell’inondazione o di
venire incontro alle richieste di quanti avevano subito perdite e
traumi, bensí da opportunistiche velleità di riqualificazione urbana».
I residenti volevano tornare a vivere nei complessi di edilizia
pubblica perché, proprio come le favelas brasiliane, i Bricks gli
garantivano non soltanto un tetto, ma anche un’infrastruttura sociale
capace di riempire i vuoti lasciati da uno Stato liberista. «Le case
popolari non saranno state il meglio, ma laggiú tutti avevano una
mamma», ha spiegato una donna alle intervistatrici dell’Iwpr.
Costrette ad andarsene, disperse in ogni dove e senza piú le case
che erano state demolite, quelle donne hanno perduto tutto. Ma
siccome non si usa misurare il lavoro gratuito femminile, l’impegno
necessario per ristabilire i legami informali non è stato incluso nei
costi della ricostruzione. Nei vecchi quartieri le donne si sentivano
piú protette, e il senso di sicurezza, a sua volta, favoriva la mobilità.
«Stare in città non era male, – ha detto una donna, – perché ci
conoscevamo tutti: facevi due passi sulla Orleans o sulla Claiborne e
ti sentivi al sicuro, perché vedevi solo facce note».
La mobilità delle donne che abitavano nei quartieri popolari era
inoltre favorita da un regolare servizio di autobus urbani e dalla
presenza di numerosi negozi raggiungibili con un breve tragitto a
piedi. Anche questo, purtroppo, è cambiato: ora molte di loro abitano
a svariati chilometri dal negozio piú vicino. Per colmo di sventura, gli
orari degli autobus sono stati modificati: se prima passavano ogni
quindici minuti, adesso non è raro che tra una corsa e l’altra passi
addirittura un’ora. Il risultato? Le donne perdono l’impiego. Come già
agli ideatori del programma Minha Casa, Minha Vida, l’idea di
aiutare le donne a basso reddito a raggiungere i loro posti di lavoro
non dev’essere sembrata cosí importante agli architetti della
ricostruzione di New Orleans.
Non c’è nessuna norma internazionale che obblighi ad ascoltare
la voce delle donne quando si ricostruiscono realtà sociali e urbane
colpite da un disastro naturale, sebbene a volte basti guardarsi
intorno per capire che dovrebbe esserci. Nei contesti postbellici,
invece, una norma c’è: la United Nations Security Council Resolution
1325 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite.
Quella regola, indicata per brevità con la sigla Unscr 1325, chiede
«a tutti i soggetti coinvolti di accrescere la partecipazione delle
donne e incorporare le prospettive di genere in tutte le operazioni a
tutela della pace e della sicurezza». Dopo «decenni di pressioni
politiche» da parte delle attiviste per i diritti femminili 7, la storica
risoluzione è stata finalmente approvata nel 2000; da allora a oggi,
tuttavia, non molto è cambiato. Per prima cosa i dati disponibili sono
davvero pochi 8 – il che lascia pensare che la norma non sia presa
molto sul serio. Se ancora non bastasse, la realtà non è granché
incoraggiante: soltanto due donne, finora, hanno avuto l’incarico di
condurre negoziati di pace, e una soltanto ha firmato un accordo
finale in veste di capo negoziatrice 9. I finanziamenti destinati a
iniziative in difesa dei diritti della donna nei contesti postbellici
permangono «al di sotto delle aspettative» 10, e lo stesso vale per il
rispetto della regola fondamentale che imporrebbe una presenza
femminile in tutte le delegazioni 11. Anche quando sono presenti, le
donne rimangono comunque una minoranza esclusa dagli incarichi
di potere, al punto che sotto certi aspetti si nota addirittura un
regresso: solo la metà dei trattati di pace firmati nel 2016 conteneva
clausole con rilevanza di genere, contro il settanta per cento
dell’anno precedente. Ai negoziati di pace inaugurati in Afghanistan
nel giugno del 2017, solo il sei per cento dei negoziatori era donna,
mentre la presenza femminile tra i mediatori e i firmatari dell’accordo
era pari a zero.
Non ci sono dati che possano far luce sulla drastica inversione di
tendenza osservata tra il 2016 e il 2017, ma la testimonianza di una
persona che nel 2014 ha partecipato a un dibattito ufficioso sul tema
«Donne, pace e sicurezza» all’International Peace Institute di New
York potrebbe aiutarci a capire: «Le Nazioni unite e gli altri mediatori
politici cedono alle pressioni di chi è contrario alla presenza di
donne. Se i rappresentanti del governo locale dicono: “Niente
donne”, la comunità internazionale scende a compromessi e
risponde: “Okay”» 12. Come nei contesti di ricostruzione a seguito di
una calamità naturale, le spiegazioni date possono essere diverse
(problemi di sensibilità culturale, timore che la presenza femminile
possa prolungare la durata dei negoziati, disponibilità ad accettare la
partecipazione delle donne solo dopo la conclusione dell’accordo),
ma in sostanza tutto si riduce alla solita risposta standard con cui da
sempre si tenta di sbarazzarsi delle donne: prima facciamo la
rivoluzione, poi ci occupiamo di voi.
È un chiaro segnale di sessismo, indice dell’esistenza di un
mondo in cui le vite delle donne contano meno delle vite «umane»,
laddove «umano» significa «maschio». Tuttavia la disinvoltura con
cui le agenzie internazionali fanno carta straccia della Risoluzione
1325 non denota soltanto sessismo, ma anche pura e semplice
stupidità. La presenza delle donne al tavolo dei negoziati non serve
solo a facilitare il raggiungimento di un accordo 13, ma garantisce
anche la durata della pace. Dall’analisi di 182 trattati di pace firmati
tra il 1989 e il 2011 è emerso che i processi di pace che avevano
visto una partecipazione femminile offrivano maggiori garanzie di
durata: rispetto a quelli affidati soltanto a uomini, avevano il venti per
cento di possibilità in piú di durare almeno due anni, e il trentacinque
per cento di possibilità in piú di durarne almeno quindici 14.
Ciò non significa necessariamente che le donne siano
particolarmente abili nel condurre le trattative: in parte dipende
anche dai punti su cui si tratta. Clare Castillejo sostiene che «spesso
le donne riescono a inserire nell’agenda di pace alcuni temi
importanti che gli uomini tendono invece a trascurare»: per esempio
l’inclusività e l’accessibilità dei processi e delle istituzioni, o
l’importanza dei centri di aggregazione locali e informali 15. Piú
semplicemente, la presenza delle donne viene come sempre a
colmare un vuoto di dati, per di piú un vuoto importante: alcune
recenti analisi quantitative hanno dimostrato «con prove
schiaccianti» che i Paesi in cui le donne sono escluse dai ruoli di
potere e trattate come cittadine di seconda categoria tendono a
essere meno pacifici 16. In sostanza: colmare il divario di genere fa
bene a tutti.
XVI.
Non è colpa della catastrofe

Il paradosso del mettere a tacere le donne quando le cose vanno


male sta nel fatto che è proprio in quei momenti estremi che i vecchi
pregiudizi sono meno giustificati, perché le donne soffrono già in
misura eccessiva le conseguenze dei conflitti, delle pandemie e dei
disastri naturali. Ci sono pochissimi dati sull’impatto dei conflitti
(mortalità, morbilità, esodi forzati) sulle popolazioni femminili, e i dati
disaggregati sono ancora piú sporadici. Ma ciò che abbiamo è
sufficiente per supporre che le donne siano le prime a farne le
spese 1. Nelle guerre moderne sono i civili, piú che i militari, a
morire 2. E se molti dei traumi fisici e morali inflitti alle popolazioni in
guerra colpiscono in pari misura uomini e donne, spesso queste
ultime devono sopportare un carico supplementare di ingiustizie.
Durante i conflitti armati le violenze domestiche contro le donne si
fanno piú frequenti, tanto da risultare piú diffuse delle violenze
sessuali specificamente correlate alla guerra 3. Per collocare questo
dato in un contesto basti pensare che nei tre anni di guerra in Bosnia
circa sessantamila donne hanno subito violenza sessuale, e nei
cento giorni del genocidio in Ruanda ci sono stati
duecentocinquantamila stupri. Secondo stime dell’Onu, piú di
sessantamila donne sono state stuprate durante la guerra civile in
Sierra Leone (1991-2002); piú di quarantamila in Liberia (1989-2003)
e almeno duecentomila nella Repubblica democratica del Congo, dal
1998 a oggi 4. Con tutta probabilità, le cifre effettive sono molto
maggiori: in aggiunta alle solite carenze di dati, c’è anche il fatto che
durante le guerre spesso non esistono autorità a cui sporgere
denuncia.
Anche lo sconvolgimento dell’ordine sociale che segue a una
guerra colpisce con piú durezza le donne. Stupri e violenze
domestiche rimangono frequenti anche nei cosiddetti contesti
postbellici, giacché «una volta congedati e rientrati a casa, i soldati
addestrati all’uso della forza si trovano ad affrontare la
trasformazione dei ruoli di genere o la frustrazione della mancanza
di lavoro» 5. Prima del genocidio ruandese del 1994 l’età media delle
ragazze al momento del matrimonio andava dai venti ai venticinque
anni; nei campi profughi, durante e dopo il genocidio, le ragazze
erano date in sposa a quindici anni 6.
Le donne rischiano la vita piú degli uomini anche a causa degli
effetti indiretti delle guerre. Piú di metà dei casi di morte materna si
verifica in nazioni fragili o destabilizzate dai conflitti, e i dieci Paesi
con la piú elevata mortalità materna sono Paesi in guerra o in
transizione postbellica. Se quei Paesi hanno tassi di mortalità
materna mediamente superiori di due volte e mezza, lo si deve
anche al fatto che i programmi di aiuto dimenticano troppo spesso di
tutelare le esigenze sanitarie delle donne.
Da piú di vent’anni l’Inter-agency Working Group on Reproductive
Health in Crises (Iawg), il gruppo di lavoro interagenzia sulla salute
riproduttiva nelle aree di crisi, ha lavorato affinché nelle regioni
colpite da guerre o calamità naturali le donne avessero accesso a
contraccezione, cure ostetriche, kit di nascita e servizi di consulenza.
Ma, come ha rilevato il «New York Times», quegli aiuti sono stati
forniti in maniera molto sporadica, o niente affatto 7. Gli autori di un
rapporto sullo stesso argomento hanno scoperto che le donne in
gravidanza sono spesso lasciate prive di assistenza ostetrica: «Gli
aborti spontanei e i parti in pessime condizioni sanitarie sono molto
frequenti».
Dunque il problema è grave anche là dove si è verificata una
qualche catastrofe naturale: nelle Filippine devastate dal tifone che
nel 2013 fece circa quattro milioni di senza tetto, si stimava che sui
circa mille parti giornalieri quasi centocinquanta si verificassero in
situazioni potenzialmente letali per le madri 8. La furia degli elementi
aveva distrutto cliniche e apparecchiature ostetriche, e le donne
morivano 9. Ma quando il Fondo delle Nazioni unite per la
popolazione chiese di erogare finanziamenti per l’acquisto di kit
igienici, il pagamento del personale nei reparti ostetrici provvisori e
dei servizi di consulenza per le vittime di stupro, la risposta dei
donatori fu «tiepida»: la somma che si riuscí a racimolare non
superava il dieci per cento del fabbisogno 10.
Le zone devastate da guerre e calamità sono anche molto
vulnerabili alle malattie infettive: e quando si scatena una pandemia,
le donne muoiono piú degli uomini 11. Prendiamo per esempio la
Sierra Leone, nazione che è stata al centro dell’epidemia di Ebola
del 2014 e ha il tasso di mortalità materna piú alto del mondo: 1360
madri morte ogni centomila nati vivi (contro una media Ocse di
quattordici decessi ogni centomila nati vivi) 12, e una madre su
diciassette convive con un costante rischio di morte dovuto a
complicazioni del parto 13. Stando ai dati piú recenti diffusi dal
governo, in Sierra Leone non meno di duecentoquaranta donne in
gravidanza muoiono ogni mese 14.
Aggiungete a tutto questo il terribile virus dell’Ebola, e il risultato è
che le donne della Sierra Leone devono guardarsi da due insidie:
l’Ebolavirus e la morte per parto. Ma non basta: le gestanti hanno un
rischio maggiore di contrarre la malattia causata dal virus, proprio
perché hanno contatti piú frequenti con gli operatori e le strutture
sanitarie 15: secondo il «Washington Post», due epidemie gravi su
tre sono state scatenate «dalla diffusione del virus all’interno di
strutture ostetriche» 16. E il fatto che l’Ebola abbia decimato il
personale sanitario (composto in larga parte da donne) dimostra che
c’è un rischio ulteriore per la popolazione femminile: secondo stime
della rivista «Lancet», la carenza di medici e infermieri nei tre Paesi
piú colpiti dal virus causerebbe ogni anno la morte di altre 4022
donne 17.
La riluttanza a tenere conto del genere nelle iniziative di soccorso
si spiega con la diffusa convinzione che, siccome le malattie infettive
colpiscono individui di entrambi i sessi, sia piú saggio concentrarsi
sulla cura e il controllo della patologia, «lasciando ad altri il compito
di affrontare, una volta finita l’epidemia, gli eventuali problemi sociali,
come ad esempio le disparità di genere» 18. In parte, è anche colpa
degli accademici: dall’analisi di ventinove milioni di documenti in oltre
quindicimila pubblicazioni sottoposte a revisione paritaria è risultato
che meno dell’un per cento degli elaborati considerava gli effetti
delle epidemie di Zika e di Ebola in una prospettiva di genere 19.
Eppure, come sottolinea un recente studio dell’Oms, l’idea che il
genere non abbia importanza è pericolosa, poiché può contrastare la
riuscita dei programmi di prevenzione e contenimento delle malattie
e tenere gli studiosi all’oscuro delle modalità di trasmissione del
contagio 20.
La sottovalutazione delle problematiche di genere ai tempi della
pandemia influenzale del 2009 (influenza A/H1N1 o febbre suina) ha
fatto sí che le strutture pubbliche «si occupassero soprattutto degli
uomini in quanto proprietari delle aziende agricole, senza
considerare che erano quasi sempre le donne a occuparsi degli
animali domestici e da cortile» 21. E mentre nel 2014 l’Ebola
contagiava la Sierra Leone, «i programmi di quarantena garantivano
la fornitura di generi alimentari, ma non coprivano il fabbisogno di
acqua e combustibili»: tuttavia, poiché in molti Paesi in via di
sviluppo sono le donne a provvedere la famiglia di quelle risorse
indispensabili, «le donne continuavano a uscire di casa in cerca di
legna da ardere, rischiando di diffondere ulteriormente il contagio» 22
finché non si decise di rielaborare i programmi di quarantena.
Durante una pandemia, le responsabilità di cura delle donne
possono costare loro la vita. Quando ci sono ammalati in casa, sono
le donne a occuparsene. E donne sono anche molte «levatrici,
infermiere, addette alla pulizia e al lavaggio della biancheria negli
ospedali, dove il rischio di esposizione al contagio è altissimo»,
soprattutto perché quelle lavoratrici «non godono degli stessi livelli di
protezione e assistenza garantiti ai medici, che sono perlopiú
uomini» 23. E sono sempre le donne a preparare le salme per i riti
funerari tradizionali, anch’essi veicolo di infezione 24. In Liberia il
settantacinque per cento delle vittime dell’epidemia di Ebola del
2014 era donna 25; in Sierra Leone, epicentro del contagio, la
percentuale è stata stimata dall’Unicef al sessanta per cento 26.
Uno studio del 2016 27 ha inoltre evidenziato che durante le ultime
epidemie di Ebola e Zika le raccomandazioni sanitarie diffuse dalle
agenzie internazionali «non tenevano conto della limitata capacità
delle donne di proteggersi dall’infezione» 28. In entrambe le
circostanze, i consigli in materia di profilassi davano per scontato (a
torto) che le donne avessero poteri economici, sociali o normativi
sufficienti «a esercitare la necessaria autonomia». Il risultato fu che
le già esistenti disparità di genere si accrebbero ancora.

Anche nei programmi di aiuto a seguito di calamità naturali


sarebbe necessario colmare con la massima urgenza il vuoto di dati
di genere, perché non vi è dubbio che il cambiamento climatico stia
rendendo piú pericoloso il nostro pianeta. Secondo l’Organizzazione
meteorologica mondiale, l’indice di pericolosità si è quasi
quintuplicato nell’arco di quarant’anni: tra il 2000 e il 2010 ci sono
stati 3496 disastri causati da inondazioni, uragani, siccità e ondate di
caldo, contro i 753 degli anni Settanta 29. Al di là delle analisi che
addebitano al cambiamento climatico una parte di responsabilità nel
dilagare dei conflitti armati 30 e delle pandemie 31, spesso è il
mutamento stesso a fare vittime. Un rapporto pubblicato nel 2017
dalla rivista «Lancet Planetary Health» ipotizza che tra il 2071 e il
2100 le calamità correlate a fenomeni atmosferici causeranno la
morte di centocinquantaduemila persone all’anno nella sola
Europa 32: un dato certamente piú drammatico rispetto alle tremila
vittime all’anno del periodo 1981-2010 33. E, come vedremo, le
donne sono le prime a perdere la vita per colpa delle calamità
naturali.
I primi dati affidabili sulle differenze di genere nella mortalità per
disastri naturali risalgono al 2007, anno della pubblicazione della
prima analisi quantitativa sistematica 34. Dallo studio dei dati relativi
a centoquarantuno nazioni per gli anni compresi tra il 1981 e il 2002
è emerso che le donne rischiano la vita molto piú degli uomini, e che
a una maggiore percentuale di vittime sul totale della popolazione
corrisponde una maggiore disparità tra i sessi in termini di
aspettativa di vita. È interessante notare che quanto piú elevata è la
condizione socioeconomica delle donne, tanto meno accentuato
sarà lo squilibrio di genere nel conto delle vittime.
Non è colpa della catastrofe, spiega Maureen Fordham. È
l’essere donne che le uccide; essere donne in una società che non si
rende conto di porre dei limiti alle loro vite. In India, gli uomini hanno
scoperto che è piú facile sopravvivere ai terremoti che avvengono di
notte «perché quando fa caldo vanno a dormire sui tetti delle loro
abitazioni, cosa impossibile alla maggior parte delle donne» 35. Nello
Sri Lanka, è soprattutto ai maschietti che si insegna a nuotare e ad
arrampicarsi sugli alberi: ecco perché nello tsunami del dicembre
2004 le vittime donne sono state il quadruplo degli uomini 36: i
maschi sono riusciti a sopravvivere all’onda di maremoto 37. In
Bangladesh c’è addirittura un pregiudizio sociale contro le donne che
imparano a nuotare, il che come è ovvio riduce «drasticamente» le
loro possibilità di sopravvivenza in caso di inondazione 38; e questa
condizione di vulnerabilità creata dal contesto sociale è aggravata
dalla norma che vieta alle donne di uscire di casa senza essere
scortate da un parente maschio 39. E cosí, quando arriva un ciclone,
le donne perdono tempo prezioso ad aspettare che un
accompagnatore le porti al sicuro.
Se ancora non bastasse, perdono altro tempo ad aspettare che
un uomo venga ad avvisarle che c’è un ciclone in arrivo. Il fatto è
che i messaggi di allarme vengono trasmessi negli spazi pubblici
come mercati o moschee, spiega Maureen Fordham. Ma le donne
non frequentano gli spazi pubblici. «Le donne stanno dentro casa.
Perciò dipendono da un uomo che venga a dirgli di uscire alla
svelta». Ma sono molte le donne che non vengono mai a saperlo.
Il sistema di allarme contro i tifoni non è l’unica infrastruttura che il
Bangladesh abbia costruito senza badare alle esigenze delle donne.
Anche i rifugi per proteggersi dalla furia degli elementi, dice
Fordham, sono stati costruiti «dagli uomini per gli uomini»: perciò
spesso si trovano a grande distanza dagli spazi che le donne
considerano sicuri. Oggi le cose stanno poco a poco cambiando, ma
c’è ancora un «ingente retaggio» di rifugi vecchio stile, che sono
sostanzialmente «grossi scatoloni di cemento». Il rifugio tradizionale,
dunque, è un grande spazio promiscuo, senza latrine separate per
uomini e donne: «C’è solo un secchio in un angolo, e dentro un solo
rifugio possono entrare fino a mille persone».
A parte l’ovvio problema di avere un solo secchio per mille
persone, la mancanza di spazi appartati preclude di fatto l’ingresso
alle donne. «Un pregiudizio fortemente radicato nella cultura del
Bangladesh impedisce alle donne di entrare in contatto con uomini o
ragazzi che non siano imparentati con loro», spiega Fordham.
Violare quella regola significa disonorare la famiglia, e una donna
che osi mescolarsi a degli estranei «diventa facile preda per ogni
tipo di molestie sessuali, o anche peggio. Quindi le donne non vanno
nei rifugi». Ecco perché ne muoiono molte di piú: dopo il ciclone del
1991 e la successiva onda di tempesta la proporzione è stata di
cinque vittime donne per ogni uomo 40, per la semplice ragione che
non c’erano rifugi con spazi separati per uomini e donne.
È noto che «nel caos e nel disordine sociale che accompagnano
ogni disastro naturale» gli atti di violenza contro le donne
aumentano, ma a volte è il caos stesso a impedirci di quantificare
l’incremento. Durante l’uragano Katrina i centri anticrisi per le donne
vittime di stupro furono chiusi, perciò nei giorni immediatamente
successivi nessuno poté contare o confermare i dati sul numero di
donne abusate 41. Identica sorte toccò ai centri antiviolenza, con lo
stesso risultato. Nel frattempo, come in Bangladesh, le donne che
avevano trovato rifugio in strutture promiscue subivano violenze
sessuali. Migliaia di persone che non erano riuscite ad allontanarsi
da New Orleans prima dell’arrivo di Katrina furono alloggiate in via
transitoria nello stadio Superdome: di lí a poco cominciarono a
correre voci preoccupanti sulle violenze, i pestaggi e gli stupri che
avvenivano all’interno della struttura. Ci furono denunce di donne
picchiate dai loro compagni 42.
«Si sentivano grida, gente che chiedeva soccorso: “Ti prego, non
farmi questo! Qualcuno mi aiuti!”» ha raccontato una donna
intervistata dalle ricercatrici dell’Institute for Women’s Policy
Research 43. «Hanno detto che certe cose non sono mai successe
dentro il Superdome. Ma non è vero: succedevano. Succedevano
eccome. Violentavano la gente. Si sentivano delle grida, grida di
donne. Perché lí dentro non c’erano luci, sa: era buio pesto». E
ancora: «Io penso che acchiappavano la gente a caso e gli facevano
quel che volevano». Eppure nessuno ha mai raccolto dati precisi su
che cosa sia accaduto, e a chi, nei giorni dell’uragano Katrina.

Per le donne che cercano scampo da guerre o disastri, l’incubo


della neutralità di genere continua spesso anche nei campi profughi
di molte aree del mondo. «In passato abbiamo commesso parecchi
errori, dai quali abbiamo compreso che le donne rischiano di subire
piú aggressioni e violenze sessuali se non mettiamo a loro
disposizione dei servizi igienici separati», spiega Gauri Van Gulik,
vicedirettore di Amnesty International per l’Europa e l’Asia
centrale 44. In effetti le linee-guida internazionali imporrebbero di
allestire bagni maschili e femminili riconoscibili come tali, e con porte
che si possano chiudere a chiave 45; ma non sempre le direttive
vengono applicate.
Da uno studio condotto nel 2017 da Global One, l’ente benefico a
favore delle donne musulmane, risulta che il novantotto per cento
delle profughe ospitate nei campi del Libano non aveva accesso a
latrine separate 46. Secondo la Women’s Refugee Commission, nei
centri di permanenza in Germania e in Svezia le donne e le ragazze
sono esposte al rischio di aggressioni, stupri e altre violenze perché
non vi sono servizi igienici, docce e dormitori per sole donne. Abitare
e dormire in gruppi misti provoca eruzioni cutanee alle donne
costrette a indossare l’hijab per settimane.
Le rifugiate lamentano spesso 47 che alla posizione molto
isolata 48 dei servizi igienici si aggiunge la scarsa illuminazione, sia
dei percorsi che vi conducono sia dei servizi stessi. Di notte vaste
aree del famigerato campo di Idomeni, in Grecia, erano «buie come
la pece». E benché due studi abbiano accertato che l’installazione di
lampioni a energia solare o la distribuzione alle donne di piccole
torce accrescano di parecchio il loro senso di sicurezza, la proposta
non ha avuto grande seguito 49.
Perciò molte donne si arrangiano da sole. Un anno dopo lo
tsunami del 2004, le donne e le ragazze che vivevano nei campi
profughi in India adottavano ancora l’espediente di andare ai servizi
in coppia per evitare le molestie degli uomini 50. Alcune donne
yazide sfuggite agli aguzzini dell’Isis e rifugiate nel campo di Nea
Kavala, nel Nord della Grecia, avevano formato veri e propri gruppi
di protezione in modo da potersi accompagnare a vicenda ai servizi.
La maggioranza delle ospiti dei campi profughi (ben il sessantanove
per cento, secondo uno studio del 2016) 51 evitano semplicemente di
andare al bagno di notte, anche se sono incinte e ne avrebbero piú
bisogno. Nei centri di accoglienza tedeschi le donne sono arrivate al
punto di non mangiare né bere, soluzione impiegata anche da
alcune donne di Idomeni, all’epoca il piú grande campo profughi non
organizzato di tutta la Grecia 52. Un articolo del «Guardian»
sosteneva che altre donne ricorressero invece all’uso di pannoloni
per adulti 53.
Il fatto che nei campi profughi europei non si sia riusciti a
proteggere le donne dalla violenza maschile può dipendere in parte
dalla fretta con cui le autorità di alcuni Paesi interessati (come
Germania e Svezia, a cui peraltro va il merito di aver accolto molte
piú persone) hanno dovuto rispondere alla crisi 54. Questa però non
è tutta la storia, perché i problemi delle donne ospitate nei centri di
detenzione riguardano anche il loro rapporto con gli addetti alla
sorveglianza. Nel 2005 le donne che vivevano in un campo di
accoglienza statunitense raccontarono che i sorveglianti le
fotografavano con lo smartphone mentre dormivano, o mentre
uscivano dai bagni o dalle docce 55. Nel 2008 una profuga somala di
diciassette anni che si trovava in una stazione di polizia keniota fu
stuprata da due agenti dopo che era uscita dalla cella per andare in
bagno 56. In Gran Bretagna, il centro di detenzione di Yarl’s Wood è
stato teatro di numerosi abusi e aggressioni sessuali 57.
Di fronte al cospicuo numero di casi verificatisi in ogni parte del
mondo, forse sarebbe ora di riconoscere che l’idea di impiegare
personale maschile nelle strutture che ospitano donne ritenendo che
in fondo non ci sia differenza è un altro esempio di come la neutralità
di genere possa trasformarsi in discriminazione. Forse la
separazione tra maschi e femmine dovrebbe andare oltre i servizi
igienici, e forse nessun dipendente maschio dovrebbe far valere il
proprio potere su donne che non possono difendersi. Forse. Ma
perché questo accada le autorità dovrebbero innanzitutto prendere
in considerazione l’ipotesi che il personale maschile dei campi possa
sfruttare quelle donne che dovrebbero invece essere aiutate,
custodite o smistate altrove. E al momento le autorità non stanno
affatto contemplando quell’idea.
Il portavoce del Landesamt für Flüchtlingsangelegenheiten (Laf),
l’ufficio per i rifugiati del Land di Berlino, ha scritto di recente
all’agenzia di stampa «The New Humanitarian» sostenendo che
«dopo innumerevoli colloqui con i responsabili delle strutture, posso
dire con certezza che non ci risulta alcun incremento fuori dal
comune [dei casi di violenza a sfondo sessuale] nei centri e nelle
comunità per i rifugiati» 58. Malgrado le frequenti voci di abusi e
molestie, il portavoce del Laf confidava nel fatto che non vi fossero
«problemi significativi». Anche secondo il sito di notizie BuzzFeed
l’ipotesi che le guardie di confine europee barattassero favori
sessuali in cambio del passaggio della frontiera era quasi sempre
smentita 59. Eppure nel 2017 un’inchiesta del «Guardian» ha
accertato che «ai posti di confine, violenze e abusi sessuali erano
sistematici e quanto mai diffusi. Un terzo delle donne e dei bambini
intervistati ha detto che gli assalitori indossavano uniformi o
sembravano appartenere all’esercito» 60.
L’ufficio per i rifugiati adduceva a prova delle sue affermazioni il
«bassissimo numero di denunce alla polizia», con solo dieci casi di
«crimini contro la libertà sessuale della persona» che coinvolgevano
donne residenti nelle strutture per rifugiati in tutto il 2016 61. Ma
davvero le statistiche della polizia sono una misura accurata del
problema? O non sarà piuttosto l’ennesimo vuoto di dati? BuzzFeed
ha contattato «piú volte» le polizie dei principali Paesi di transito
europei (Grecia, Macedonia, Serbia, Croazia e Ungheria) per avere
informazioni sulle violenze di genere, ma il piú delle volte non ha
ottenuto risposta. La polizia ungherese si è fatta viva soltanto per
comunicare che «non raccoglie informazioni sui richiedenti asilo, ivi
comprese le denunce di violenza o tentata violenza sessuale». La
pubblica sicurezza croata ha detto di «non essere in grado di
disaggregare le denunce di reati penali in base alle caratteristiche
delle vittime», e che in ogni caso «non avevano notizia di richiedenti
asilo che avessero subito violenze di genere». Il che è possibile, ma
non significa che quelle violenze non siano avvenute. Numerose
associazioni femminili che lavorano con le rifugiate sostengono che
tante delle donne di cui si occupano siano state palpeggiate e
molestate nelle strutture di accoglienza, ma che per l’effetto
congiunto delle barriere culturali e linguistiche «un numero molto,
molto alto di aggressioni sessuali non venga mai denunciato» 62.
Quando si parla di abusi sessuali nelle situazioni di crisi, la
carenza di dati è aggravata dal comportamento di uomini che
sfruttano le loro posizioni di potere e, spostando il confine tra aiuto e
aggressione sessuale, costringono le donne ad avere rapporti con
loro in cambio delle razioni di cibo che gli spetterebbero 63. Qui il
blackout dei dati è addirittura endemico, ma le informazioni di cui
disponiamo fanno pensare che si tratti di uno scenario comune nelle
aree devastate dai disastri naturali 64. Se ne è parlato di recente
sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo, quando la credibilità
di Oxfam e di altre agenzie internazionali ha vacillato sotto il peso
delle accuse di abusi sessuali commessi dai loro dipendenti e poi
coperti dai responsabili delle Ong 65.
Ignorare il potenziale di violenza dei maschi nel momento in cui si
organizzano servizi di accoglienza per le profughe sembra ancor piú
paradossale se si considera che spesso è proprio a causa della
violenza maschile che quelle donne cercano rifugio fuori dai Paesi di
origine 66. Tendiamo a credere che le persone lascino le loro case a
seguito di guerre e disastri naturali, e in effetti è da ciò che gli uomini
solitamente fuggono. Ma è un altro esempio di pensiero maschile
per default: infatti, se pure è vero che le donne si mettono in viaggio
anche per questi motivi, nel loro caso la scelta di allontanarsi da
casa è spesso dettata dalla volontà di sottrarsi alla violenza
maschile. Le donne fuggono dagli stupri «correttivi» (è il caso delle
lesbiche violentate per «riportarle sulla retta via»), dagli stupri
istituzionalizzati (come in Bosnia), dai matrimoni forzati o precoci,
dalla violenza domestica. È la violenza domestica a costringere alla
fuga le donne, nei Paesi poveri come nel ricco Occidente.
In passato la condizione di senza fissa dimora è stata considerata
un fenomeno tipicamente maschile, ma ci sono molte ragioni per
dubitare dei dati ufficiali. Joanne Bretherton, ricercatrice presso il
Centre for Housing Policy, il centro per le politiche abitative
dell’università di York, spiega che in realtà sono le donne ad avere
«molte piú probabilità di trovarsi a vivere per strada» 67. In Australia,
per esempio, la figura tipica del senzatetto corrisponde oggi a «una
giovane donna fra i venticinque e i trentaquattro anni, spesso con un
figlio e, sempre piú spesso, in fuga da un ambiente violento» 68.
Eppure questo grave problema sociale 69 è stato alquanto
sottovalutato: è un vuoto di dati di genere che per molti aspetti deriva
dai criteri impiegati dai ricercatori per definire e misurare la
condizione di senzatetto 70. Secondo il Canadian Centre for Policy
Alternatives, «gran parte della ricerca sugli homeless […] risente
della mancanza di un’adeguata prospettiva di genere» 71.
In genere le dimensioni del fenomeno vengono valutate in base al
numero di persone che usufruiscono dei servizi di assistenza per i
senzatetto, ma è un metodo che funzionerebbe soltanto se uomini e
donne avessero la stessa propensione a utilizzarli, il che non
accade. Le donne che hanno lasciato la loro casa dopo aver subito
violenze domestiche preferiscono dormire nei ricoveri per le vittime
di violenza, e questo, almeno nel Regno Unito, fa sí che non
vengano conteggiate come senzatetto 72. Altre, poi, trovano
sistemazioni precarie in coabitazione «senza una porta d’ingresso
alla loro stanza, senza spazi privati, e senza poter accedere alle
case di loro proprietà che gli spetterebbero di diritto» 73. Talvolta,
come testimonia la recente diffusione in Gran Bretagna della pratica
di pagare l’affitto «in natura», le donne senza dimora vengono
sfruttate sessualmente in maniera non diversa dalle ospiti dei campi
profughi 74.
Secondo una ricerca canadese, le donne accettano questi accordi
precari perché non si sentono al sicuro nelle strutture di emergenza
propriamente dette, specie quando impongono la coabitazione con
uomini 75. E la sensazione di insicurezza non è un prodotto della loro
immaginazione: il Canadian Centre for Policy Alternatives definisce
«sconcertanti» i livelli di violenza sperimentati dalle donne che
frequentano i ricoveri. I servizi senza connotazione di genere che si
presentano come «parimenti accessibili a persone di entrambi i
sessi», in realtà, «espongono le donne a un grave rischio».
Per le donne, dunque, la condizione di senzatetto non è soltanto il
risultato di una violenza subita, ma anche un fattore predittivo di
nuove violenze 76. Negli Stati Uniti, le donne preferiscono dormire in
strada piuttosto che nei rifugi, considerati pericolosi 77. Secondo
Katharine Sacks-Jones, direttrice di Agenda, associazione che opera
a favore di donne e ragazze a rischio, nel Regno Unito i servizi per i
senza dimora sono «spesso organizzati pensando agli uomini», e
«possono essere luoghi spaventosi per le donne vulnerabili che
hanno storie personali di abusi e violenze» 78.
Ma l’attenzione alle specificità di genere non è solo questione di
sicurezza: è anche questione di salute. Il servizio sanitario britannico
fornisce preservativi da distribuire gratuitamente agli utenti dei
ricoveri per senzatetto 79, ma nulla è previsto per le donne senza
fissa dimora che hanno il ciclo. Pertanto l’offerta di prodotti per
l’igiene femminile è subordinata alla disponibilità di un avanzo di
cassa (ipotesi improbabile) o di donazioni private. Nel 2015
un’associazione chiamata The Homeless Period presentò una
petizione in cui chiedeva al governo di Londra di finanziare la
distribuzione non solo di preservativi, ma anche di prodotti igienici
per il ciclo 80. La proposta è stata discussa in parlamento ma i fondi
non sono stati stanziati, anche se nel marzo 2017 l’associazione ha
annunciato di aver concluso con una società produttrice un accordo
per la donazione di duecentomila confezioni di prodotti sanitari entro
il 2020 81. Campagne analoghe condotte negli Stati Uniti hanno
avuto risultati piú positivi: nel 2016 New York è diventata la prima
città americana a fornire tamponi e assorbenti gratuiti nelle scuole
pubbliche, nei ricoveri per i senzatetto e negli istituti di correzione 82.
Anche le ospiti dei campi profughi hanno dovuto sopportare le
conseguenze della cronica e generalizzata incapacità di ricordarsi
che le donne hanno il ciclo. I fondi per l’acquisto degli indispensabili
prodotti per l’igiene femminile raramente vengono stanziati 83, quindi
le donne sono costrette a farne a meno per anni 84. Nei pochi casi in
cui si distribuiscano dei kit per l’igiene, questi sono quasi sempre
«pensati per una distribuzione a livello familiare, senza tenere conto
del fatto che in una famiglia potrebbero esserci piú donne che hanno
il ciclo 85. Spesso, poi, non si tiene conto dei tabú culturali, per cui ci
si aspetta che le donne richiedano materiale igienico a personale di
sesso maschile o in presenza di familiari maschi 86; altri problemi
possono essere la mancanza di prodotti culturalmente compatibili o
la difficoltà di smaltire quelli usati 87.
Queste carenze compromettono la libertà e la salute delle donne.
Costrette a rimpiazzare gli assorbenti con succedanei poco igienici
(«vecchi stracci, pezzi di muschio, brandelli di materassi»), le donne
(piú del cinquanta per cento, secondo uno studio) soffrono di
infezioni del tratto urinario che spesso non sono curate 88. Inoltre, a
causa sia del pregiudizio che circonda le mestruazioni, sia del rischio
di «perdite», sono limitate nei movimenti, impossibilitate a
«procurarsi cibo, assistenza e informazioni, a interagire con altre
persone».
Colmare il vuoto di dati di genere non basterà a risolvere come
per incanto tutti i problemi delle donne, rifugiate e non: per farlo
bisognerebbe rinnovare da cima a fondo la struttura della società e
porre fine una volta per tutte alla violenza maschile. Ma se almeno si
riuscisse a capire che «senza distinzioni di genere» non significa
automaticamente «paritario», sarebbe già un buon inizio. E la
raccolta di dati disaggregati per sesso renderebbe la vita piú difficile
a chi, malgrado ogni evidenza, continua a credere che i bisogni delle
donne si possano ignorare in nome di un bene maggiore.
Postfazione

Dispute tra il papa e il re, e guerre e pestilenze a ogni pagina; gli


uomini sempre buoni a nulla, e quasi mai una donna – è molto
tedioso.

JANE AUSTEN , Northanger Abbey 1.

A Daina Taimiņa sono bastate due ore per trovare la soluzione


che da piú di un secolo sfuggiva a molti matematici. Era il 1997, e
Taimiņa stava partecipando a un laboratorio di geometria alla Cornell
University condotto da David Henderson. Il professore stava
tentando di costruire un piano iperbolico servendosi di sottilissime
strisce di carta unite con il nastro adesivo. «Una vera schifezza»,
avrebbe poi commentato la matematica lettone 2.
Un piano iperbolico è «l’opposto geometrico di una sfera», spiega
Henderson in un’intervista al periodico culturale «Cabinet» 3. «In una
sfera, lo spazio si curva su sé stesso ed è chiuso. Un piano
iperbolico è una superficie in cui lo spazio si curva allontanandosi da
sé stesso a ogni punto». Esiste in natura nelle foglie di lattuga riccia,
in certi coralli, nelle lumache di mare e in alcune cellule cancerose.
La geometria iperbolica è usata dagli statistici per la gestione dei dati
multidimensionali, dagli animatori della Pixar quando vogliono
raffigurare in modo realistico i movimenti di un tessuto, dai designer
che studiano l’aerodinamica dei veicoli, dagli ingegneri acustici che
progettano le sale da concerto. È la base della teoria della relatività,
quindi è «il modo migliore che abbiamo di avvicinarci a comprendere
la forma dell’universo» 4. Insomma, è una faccenda parecchio
importante.
Per migliaia di anni, tuttavia, lo spazio iperbolico non è esistito.
Almeno non per i matematici, che credevano nell’esistenza di due
soli tipi di spazio: quello euclideo, piatto come una tavola, e quello
sferico. Lo spazio iperbolico fu scoperto nel XIX secolo, ma solo in
teoria. Per piú di un secolo i matematici tentarono invano di
rappresentarlo fisicamente, ma nessuno ci riuscí finché Daina
Taimiņa non si iscrisse a quel seminario alla Cornell. Perché Daina
Taimiņa, oltre a insegnare matematica, ha la passione dell’uncinetto.
Gliel’avevano insegnato a scuola. A quei tempi in Lettonia (ancora
parte dell’Unione Sovietica) «tutti erano capaci di ripararsi la
macchina, o il rubinetto della cucina, – spiega 5. – Quand’ero
ragazzina, saper lavorare ai ferri o cose del genere significava
potersi confezionare indumenti diversi da quelli di tutti gli altri».
Eppure, benché si fosse resa conto che anche in quel campo si
utilizzavano modelli e algoritmi, Taimiņa non aveva mai pensato di
collegare le sue competenze domestiche e femminili con la
professione di matematica. Mai, fino a quel famoso seminario del
1997. Quando vide la malriuscita approssimazione cartacea di
Henderson, ebbe un’idea: posso farlo all’uncinetto!
E cosí fu. Passò l’estate seduta accanto alla piscina, lavorando a
un corredo didattico di oggetti iperbolici. «La gente mi passava
accanto e chiedeva: “Che fai di bello?” E io: “Oh, niente, sto
uncinettando il piano iperbolico”» 6. Da allora a oggi ha creato
centinaia di modelli: quel lavoro le è servito ad «avere una visione
molto concreta dello spazio che si espande in modo esponenziale. I
primi giri di uncinetto si fanno in fretta, ma per gli ultimi possono
volerci addirittura ore: hanno una tale quantità di punti! Alla fine si ha
una comprensione viscerale di che cosa significhi “iperbolico”» 7. A
tutti gli altri, invece, è bastato guardare i suoi modelli. In un’intervista
al «New York Times» la matematica lettone racconta di quando un
professore che aveva insegnato per anni gli spazi iperbolici vide uno
dei suoi modelli e disse: «Ah, quindi è cosí che sono fatti» 8. Oggi le
creazioni di Daina Taimiņa sono uno strumento fondamentale per
spiegare il concetto.
Il contributo fondamentale di Taimiņa allo studio del piano
iperbolico non ha, come è ovvio, colmato un vuoto di dati
direttamente correlato alle tematiche di genere. La morale di questa
storia è che l’annullamento del gender data gap ha effetti positivi che
vanno al di là della questione femminile in sé e per sé. Visto il
contributo che le donne hanno dato e possono dare nei campi piú
disparati, dalla politica alla diplomazia, dal design alla pianificazione
urbana, compensare il vuoto di dati fa bene a tutti. Persino ai
matematici.
Quando si esclude il cinquanta per cento dell’umanità dalla
produzione di conoscenza, ciò che si perde sono idee che
potrebbero cambiare il mondo. Qualcuno è convinto che i matematici
maschi sarebbero arrivati da soli all’idea semplice ma elegante che
ha avuto Daina Taimiņa? Improbabile, dato che i maschi
appassionati di uncinetto non sono tantissimi. In lei, però, la
tradizionale competenza femminile dell’uncinetto è entrata in
cortocircuito con la sfera tradizionalmente maschile della
matematica. Ed è stato grazie a quel cortocircuito che si è risolto un
problema al quale molti suoi colleghi si erano arresi. Taimiņa ha
offerto loro l’anello mancante.
Troppo spesso, però, alle donne non è permesso dare un
contributo alla risoluzione dei tanti problemi mondiali che
continuiamo a ritenere insolubili. Come Freud, seguitiamo a
lambiccarci il cervello sui soliti cosiddetti enigmi. E se invece, come
la rappresentazione dello spazio iperbolico, non fossero problemi
insolubili? E se, in questo come negli altri problemi dei famosi
concorsi scientifici, mancasse soltanto una prospettiva femminile? I
dati in nostro possesso sono incontrovertibili: è ora che nel costruire,
progettare e sviluppare il mondo si cominci a prendere in
considerazione le vite delle donne. O, per meglio dire, è ora di dare
la giusta attenzione ai tre elementi che definiscono la relazione tra le
donne e il mondo.
Il primo elemento è il corpo femminile; o piuttosto, l’invisibilità del
corpo femminile. La caparbietà con cui lo si è estromesso dalla
progettazione – che si trattasse di strumenti medici, tecnologie o
architetture – ha creato un mondo meno ospitale e piú pericoloso per
le donne. Rischiamo di farci del male perché ci sono mansioni e
automobili che non sono state progettate per i nostri corpi. Moriamo
a causa di farmaci che su di noi non funzionano. Il mondo che è
stato creato è un mondo a cui le donne non sono granché adatte.
Quando c’è bisogno di raccogliere dati, il corpo femminile è
invisibile: il che è ancor piú paradossale se si considera quanto
invece la visibilità del corpo femminile sia decisiva in rapporto al
secondo dei tre elementi, ovvero la violenza sessuale contro le
donne: una violenza che non misuriamo, che non consideriamo nel
progettare il nostro mondo, alla quale permettiamo di limitare la
nostra libertà. Il motivo per cui le donne vengono violentate non è la
biologia femminile. Non è a causa della biologia femminile che le
donne sono minacciate e violate mentre vivono gli spazi pubblici. La
violenza non dipende dal sesso ma dal genere: dai significati sociali
che abbiamo imposto ai corpi maschili e femminili. Per garantire il
funzionamento degli stereotipi di genere, deve essere chiarissimo a
quali corpi corrispondono quali tipi di trattamento. Ed è proprio cosí:
come ormai sappiamo, «la sola vista di una donna» basta a
«evocare un insieme ben preciso di caratteristiche e attribuzioni» 9.
A inquadrarla subito come qualcuno a cui si può dare sulla voce. A
cui si può fischiare dietro. Qualcuno che si può seguire. Che si può
violentare.
O forse solo qualcuno a cui chiedere di prepararci un tè. Ed è qui
che incontriamo il terzo elemento, forse il piú significativo in termini
di impatto sulla vita delle donne di ogni nazione: il lavoro di cura non
retribuito. Le donne fanno ben piú della loro giusta parte di quel
lavoro, cosí necessario a tenere insieme le vite di tutti. E come nel
caso della violenza maschile, non è la nostra biologia a fare
automaticamente di noi delle badanti. Ma ogni bambina che sia
riconosciuta come femmina sarà educata ad aspettarsi e accettare
quel ruolo. Ogni donna che sia riconosciuta come femmina sarà
considerata la persona giusta per riordinare l’ufficio dopo che tutti
sono andati via. Per scrivere i biglietti natalizi ai parenti del marito e
occuparsi di loro quando si ammaleranno. Per essere pagata di
meno. Per scegliere il lavoro part-time quando arrivano i figli.
Non raccogliere dati sulle donne e sulle loro vite significa
continuare a dare per scontata la discriminazione di sesso e di
genere, e al tempo stesso non rendersi conto della sua esistenza. O
meglio, non rendersene conto proprio perché la si dà per scontata: è
troppo ovvia, troppo normale, troppo nell’ordine delle cose per
prendersi la briga di parlarne. È il paradosso dell’essere donne: fin
troppo visibili quando c’è bisogno di una classe sessuale
subordinata, e invisibili nei momenti che contano – quelli in cui
bisognerebbe contare.
Mentre scrivevo questo libro mi sono resa conto che per non
raccogliere dati sulle donne ci sono un mucchio di scuse. La madre
di tutte le scuse è che le donne sono troppo complicate, quindi
impossibili da misurare. Me la sono sentita ripetere da chiunque:
responsabili della pianificazione dei trasporti, ricercatori medici,
sviluppatori di tecnologie. Tutti lí a rompersi la testa sull’enigma della
femminilità, senza cavarne un bel niente. I corpi delle donne sono
troppo disarmonici, troppo mestruali, troppo ormonali. I loro itinerari
quotidiani sono confusi, i piani di lavoro aberranti, le voci troppo
acute. Nei primi anni del XX secolo persino il celebre architetto
svizzero Le Corbusier, inventore di un modello standardizzato del
corpo umano da utilizzare in architettura, «tardò a prendere in
considerazione il corpo femminile come fonte di armonia
proporzionale, ma alla fine decise di scartarlo» 10 preferendo
rappresentare l’intera umanità con le forme di un maschio della
statura di un metro e ottanta, con un braccio alzato (a raggiungere,
forse, quel ripiano piú alto al quale io non arrivo mai).
La conclusione è unanime: le donne sono anormali, atipiche; in
sostanza, sbagliate. Perché le donne non sono come gli uomini?
Be’, scusate tanto, ma la verità è che no, non siamo affatto
enigmatiche; e ancora no, non possiamo essere come gli uomini.
Scienziati, politici e fratelli smanettoni farebbero bene a rendersene
conto. Sí, certo, semplice è meglio. Semplice costa meno. Ma non è
la realtà.
Piú di dieci anni fa Chris Anderson, all’epoca direttore della rivista
tecnologica «Wired», firmò un articolo intitolato The End of Theory:
The Data Deluge Makes the Scientific Method Obsolete 11.
«Possiamo smettere di andare in cerca di modelli», sosteneva
Anderson nel suo editoriale. Oggi c’è un modo migliore di conoscere
la realtà: i dati, accumulati sotto forma di petabyte (un petabyte è
pari a un milione di miliardi di byte) ci permettono di fare a meno dei
rapporti di causa ed effetto. Non c’è piú bisogno di sapere perché le
cose accadono, non c’è piú bisogno di fare ipotesi su nulla: la
correlazione è piú che sufficiente. Basta macinare numeri, o meglio,
aspettare che gli algoritmi statistici abbiano macinato i numeri.
Nell’era di Trump, della Brexit e di Cambridge Analytica, tutto ciò
suona assurdamente ottimistico; ma anche prima di quelle storie
scandalose di manipolazione dei dati avrebbe dovuto essere ovvio
che le profezie di Chris Anderson erano frutto di un’intollerabile
tracotanza, perché nel 2008 avevamo ancora meno dati sulle donne.
E quando si vorrebbero dare in pasto agli algoritmi statistici milioni e
milioni di numeri che non tengono conto di metà della popolazione
mondiale, il risultato non può che essere un gran pasticcio.
Anderson inneggiava a Google, un modello di quella che
chiamava «l’èra del petabyte», e alla sua filosofia fondativa in base
alla quale «non sappiamo perché questa pagina Internet sia migliore
di quell’altra: se le statistiche dei link in entrata dicono che lo è, non
serve altro. Non c’è bisogno di analisi semantiche o causali. È per
questo che Google può tradurre senza conoscere le lingue: dato un
corpus che fornisca una pari quantità di dati, Google può tradurre dal
klingon al farsi con la stessa facilità con cui traduce dal francese al
tedesco». Peccato che, come sappiamo, Google non traduca
granché bene nemmeno oggi, a undici anni di distanza. Soprattutto
se ci tieni a non cancellare le donne dalla realtà linguistica.
Okay. L’avevamo detto che non era semplice.
Su una cosa, però, Anderson ha ragione: c’è un modo migliore di
conoscere la realtà. È piuttosto facile: basta dare piú rappresentanza
alle donne in tutti gli ambiti della nostra vita. Perché man mano che
conquistiamo nuove posizioni di prestigio o potere, diventa sempre
più chiaro che, a differenza degli uomini, noi non tendiamo a
dimenticarci l’esistenza delle donne.
Nell’industria cinematografica, per esempio, le donne tendono a
dare piú lavoro ad altre donne 12. Le giornaliste sono molto piú
propense a vedere la realtà in una prospettiva femminile e ad
ascoltare le voci delle donne 13. Lo stesso dicasi per le scrittrici: nel
2015 il sessantanove per cento delle biografe statunitensi ha
raccontato vite di donne, contro il sei per cento dei colleghi
maschi 14. L’interesse per le voci e le prospettive femminili si estende
anche all’ambito accademico: tra il 1980 e il 2007 la presenza
femminile sulle cattedre di Storia delle università statunitensi è
passata dal quindici al trentacinque per cento del totale 15, mentre
nel quarantennio 1975-2015 le cattedre delle università americane
specializzate in storia femminile sono passate dall’uno al dieci per
cento del totale 16. Le accademiche, inoltre, hanno una marcata
tendenza ad assegnare ai loro studenti lavori su autrici donne 17.
Sta anche emergendo un’interpretazione femminile della Storia: in
un articolo del 2004 per il «Guardian», l’attrice e scrittrice Sandi
Toksvig ha raccontato di quando, studentessa di antropologia, una
docente aveva mostrato a lei e ai suoi compagni la foto di un osso di
renna sul quale erano state incise ventotto tacche. «A quanto ne
sappiamo questo è, – aveva detto la professoressa, – il primo
calendario mai creato da un uomo». E davanti agli sguardi
meravigliati degli studenti, aveva aggiunto: «Ditemi un po’: quale
uomo, secondo voi, ha bisogno di sapere che sono passati ventotto
giorni? Secondo me questo è il primo calendario mai creato da una
donna» 18.
Quando la Gran Bretagna ha annunciato nel 2017 la legge
sull’uscita dall’Unione europea, si è subito precisato che la normativa
sui diritti umani non sarebbe stata modificata; ma ci è voluta una
donna (Maria Miller, deputata conservatrice per il collegio di
Basingstoke) per costringere il governo ad approvare una
dichiarazione in cui si precisava che la Brexit sarebbe stata
compatibile anche con la legge sulla parità dei sessi 19. In mancanza
di quel decreto, con la Brexit si rischiava di veder scomparire una
nutrita serie di diritti, senza la possibilità di rimediare all’errore per
vie legali. Anche nei luoghi di lavoro, sono spesso le donne (come la
biologa Christiane Nüsslein-Volhard con la sua fondazione a
sostegno delle giovani ricercatrici con figli) a trovare soluzioni
concrete al pregiudizio istituzionale – pregiudizio che il potere
maschile ha ignorato per decenni.
Le donne sono all’avanguardia anche nelle iniziative per colmare
il vuoto informativo di genere. Da una recente analisi di un milione e
mezzo di ricerche in campo medico pubblicate tra il 2008 e il 2015 è
risultato che «a una maggiore presenza femminile tra gli autori
corrispondeva una maggiore probabilità che l’argomento della
ricerca avesse attinenza con le questioni di genere o di sesso» 20,
soprattutto quando l’autore principale dello studio è una donna.
L’interesse per la salute di genere ha contagiato anche la sfera
politica: a Westminster, il primo gruppo parlamentare misto per la
tutela della salute femminile è nato grazie a una donna – Paula
Sherriff, deputata laburista per il collegio di Dewsbury. E sono state
due «franche tiratrici» del Partito repubblicano a impedire a Donald
Trump di abrogare l’Obamacare, votando tre volte contro le sue
proposte e bloccando un’operazione che avrebbe penalizzato
soprattutto le donne 21.
Le donne fanno la differenza in tutti gli ambiti della politica: è stata
la determinazione di Melinda Gates e Hillary Clinton a far nascere
Data2X, l’organizzazione patrocinata dalle Nazioni unite che mira a
incrementare la produzione e l’uso dei dati di genere a livello
globale. La stessa Hillary Clinton che nel 1995 ha insistito per
presentarsi alla quarta conferenza mondiale delle Nazioni unite sulle
donne e pronunciare la famosa frase: «I diritti umani sono diritti delle
donne, e i diritti delle donne sono diritti umani».
Anche quando le cose vanno male, è l’iniziativa femminile a
colmare le lacune dei programmi di aiuto condizionati dal pregiudizio
maschile. Alcuni ricercatori hanno scoperto che «l’immagine
mascolina e muscolare dei soccorritori» che ha dominato i media nei
giorni immediatamente successivi all’uragano Katrina era in realtà
smentita dall’opera «instancabile e coraggiosa» delle donne che si
davano da fare lontano dai riflettori 22. Qualcosa di molto simile è
successo nella Porto Rico devastata dall’uragano Maria nel 2017 e
dimenticata dal governo statunitense. «La realtà è che quando vai a
vedere cosa succede a livello locale, ti accorgi che sono soprattutto
le donne a guidare e organizzare le comunità», ha dichiarato in
un’intervista Adi Martínez-Román, direttrice esecutiva di
un’associazione no profit che offre assistenza legale alle famiglie di
basso reddito 23. Quelle donne hanno «girato i quartieri invasi
dall’acqua» per capire i bisogni delle comunità abbandonate a sé
stesse 24. Grazie al loro impegno sono riuscite a fornire soluzioni
basate sui dati di realtà che avevano raccolto. Hanno allestito cucine
da campo. Hanno trovato i fondi per ricostruire le strade. Hanno
distribuito «lampade a energia solare, generatori, combustibili,
vestiti, scarpe, tamponi igienici, batterie, farmaci, materassi, acqua».
Hanno dato vita a «società di consulenza legale gratuita per le
famiglie alle prese con le farraginose procedure per la richiesta dei
fondi per la ricostruzione alla Federal Emergency Management
Agency (Fema), l’agenzia federale per la gestione delle
emergenze». Sono persino riuscite a mettere a disposizione delle
collettività alcune lavatrici a energia solare.
La soluzione al vuoto di dati sul nostro sesso e sul nostro genere
è chiara: dobbiamo colmare il divario di rappresentanza. Quando
sono coinvolte nei processi decisionali, nella ricerca scientifica, nella
produzione di conoscenza, le donne non restano sepolte nell’oblio.
La loro presenza fa uscire dall’ombra le vite e le prospettive
femminili, e questo è un vantaggio per l’intera umanità: lo dimostra la
storia di Daina Taimiņa, la matematica appassionata di uncinetto. In
fin dei conti, la risposta a Freud e al suo «enigma della femminilità»
è sempre stata davanti agli occhi di tutti. Basta chiedere alle donne.
Ringraziamenti.

Scrivere un libro può sembrare un’impresa solitaria, e spesso lo è. Ma è


anche, per molti aspetti, un lavoro di gruppo. Il mio primo ringraziamento va a
Rachel Hewitt, che mi ha fatto conoscere quella che sarebbe poi diventata la
mia fantastica agente Tracy Bohan, dell’agenzia Wylie: se non me l’avesse
presentata, probabilmente questo libro non avrebbe mai visto la luce. Lavorare
con Tracy è stato un sogno. Le sono immensamente grata di avermi aiutata a
dare forma al progetto che mi ha portata alla mia prima asta editoriale, per non
parlare del suo modo tranquillo, gentile e molto canadese di risolvere ogni
problema (compresi quelli creati da me). Grazie anche alla sua meravigliosa
assistente Jennifer Bernstein, che mi è stata di grande aiuto in tutto.
Il secondo ringraziamento va ai miei due bravissimi editor, Poppy Hampson
e Jamison Stoltz, che come nessun altro hanno capito al volo quel che avevo
in mente. Il loro lavoro paziente e metodico mi ha accompagnata in tutte le
numerose stesure; grazie alle loro domande sono riuscita a dare piú forza alle
mie argomentazioni e a difendere meglio la mia tesi. Se questo libro è ciò che
è lo devo ai miei editor, che mi hanno sfidata a renderlo migliore. Un
ringraziamento particolare a Poppy, che ha condiviso un paio di caffè con una
scrittrice in piena crisi, convinta che Non Ce L’Avrebbe Mai Fatta. E un enorme
grazie a tutto il personale di Chatto & Windus e Abrams Books per aver
seguito questo libro con tanta passione fin dalle primissime fasi.
La mia gratitudine va anche alle molte persone che mi hanno donato con
generosità il loro tempo e una parte delle loro conoscenze. Nishat Siddiqi mi
ha tenuto un corso accelerato di fisiologia cardiaca e ha risposto a tutte le mie
ridicole domande sul funzionamento del sistema cardiovascolare. James Ball
ha fatto altrettanto nel campo della statistica ed è stato un amico affettuoso e
geniale, sempre pronto ad ascoltare le mie lamentazioni quotidiane. Grazie
anche ad Alex Kealy, che ha saputo svolgere a meraviglia il doppio ruolo di
consulente di statistica e spalla su cui piangere. Alex Scott merita una
menzione speciale per la sua straordinaria gentilezza e la rilettura dei capitoli
di medicina; lo stesso dicasi per Greg Callus, che ha verificato dati e
informazioni di natura giuridica.
Un ringraziamento particolare a Helen Lewis, che ha inventato il termine
«bozza da vomito» e mi ha aiutata moltissimo a superare l’ansia della pagina
bianca. La mia eterna gratitudine va, oltre che a lei, a Sarah Ditum, Alice Ford,
Nicky Woolf and Luke McGee, coraggiosi lettori delle primissime stesure (e
soprattutto a Helen, che con il suo occhio esperto ha saputo sciogliere alcuni
nodi particolarmente intricati). Spero che nessuno di voi sia uscito troppo
traumatizzato dall’esperienza.
A tutti i cari amici che mi hanno sostenuta sopportando le mie lunghe
sparizioni e gli appuntamenti piú volte disdetti: grazie per la vostra pazienza, il
conforto e l’ascolto. Non potrei avere amici migliori. Un grazie speciale alla mia
amatissima «HappySquad» e alla banda di che ogni giorno hanno retto
insieme a me il peso di questo libro. Voi sapete chi siete.
Ma il ringraziamento piú grande in assoluto va alla mia meravigliosa amica
e cheerleader ufficiale Tracy King, che non solo mi è stata accanto in ogni folle
campagna femminista, ma ha anche letto tutte le mie bozze da vomito senza
mai smettere di incoraggiarmi e rassicurarmi sul fatto che prima o poi avrei
finito. Senza di lei non ce l’avrei mai fatta a conservare una (relativa) sanità
mentale.
E ora un ultimo ringraziamento a Poppy, la mia amatissima cagnolina.
Anche lei ha reso possibile questo progetto: non solo standomi seduta in
grembo, ma anche distraendomi quando stavo troppo tempo davanti al
computer. Mentre scrivevo queste parole – giuro – mi ha dato una leccata sul
braccio. È meravigliosa, e davvero non potrei fare a meno di lei.
1. S. de Beauvoir, Il secondo sesso, trad. di R. Cantini e M. Andreose,
ilSaggiatore, Milano 1969.

Prefazione

2. Ibidem.

Introduzione. Il maschile predefinito

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72. Su questo tema, si veda A. Beer, Note dal silenzio. Le grandi compositrici
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78. Beer, Note dal silenzio cit.
79. Benché elogiata come bambina prodigio, Fanny Hensel si sentí dire dal
padre che «Forse la musica diventerà la sua professione [del fratello Felix
Mendelssohn], mentre per te può e deve rimanere solo un ornamento».
80. Beer, Note dal silenzio cit.
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IV. Il mito della meritocrazia

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30. Rochon Ford, «Overexposed, Under-informed» cit.
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35. Per esempio: 633 413 «he», 350 294 «she», 28 696 «himself», 15 751
«herself».
36. 3 825 660 «he», 2 002 536 «she», 140 087 «himself», 70 509 «herself».
37. K.-W. Chang, V. Ordonez e altri, Men also Like Shopping: Reducing
Gender Bias Amplification using Corpus-level Constraints, Proceedings of
the 2017 Conference on Empirical Methods in Natural Language
Processing, Copenaghen 2017.
38. https://www.eurekalert.org/pub_releases/2015-04/uow-wac040915.php
39. A. Caliskan, J. J. Bryson e A. Narayanan, Semantics Derived
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40. T. Bolukbasi, K.-W. Chang e altri, Man is to Computer Programmer as
Woman is to Homemaker? Debiasing Word Embeddings, 30th Conference
on Neural Information Processing Systems (NIPS), Barcelona 2016,
http://papers.nips.cc/paper/6228-man-is-to-computer-programmer-as-
woman-is-to-homemaker-debiasing-word-embeddings.pdf
41. Chang, Men also Like Shopping cit.
42. https://www.wired.com/story/machines-taught-by-photos-learn-a-sexist-
view-of-women?mbid=social_fb
43. https://metode.org/issues/monographs/londa-schiebinger.html
44. Tra i possibili effetti dell’uscita di questo libro nel mondo anglosassone si
può forse annoverare il parziale ravvedimento di Google Traduttore: ora nel
passaggio dal turco all’inglese vengono fornite entrambe le alternative,
precedute dall’indicazione che: «Le traduzioni sono specifiche per il
genere». Nella traduzione dal turco all’italiano, tuttavia, nulla è cambiato: O
bir doktor viene reso soltanto con «lui è un dottore»; O bir hemşire con «lei
è un’infermiera» [N. d. T.].
45. https://phys.org/news/2016-09-gender-bias-algorithms.html
46. https://www.theguardian.com/science/2016/sep/01/how-algorithms-rule-
our-working-lives
47. https://www.theguardian.com/technology/2018/mar/04/robots-screen-
candidates-for-jobs-artificial-intelligence?CMP=twt_gu
48. https://www.techemergence.com/machine-learning-medical-diagnostics-4-
current-applications/
49. http://www.bbc.co.uk/news/health-42357257
50. Bolukbasi, Man is to Computer Programmer cit.

IX. Un mare di maschi

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mothers-love-it-vcs-don-t
2. Ivi.
3. https://www.newyorker.com/business/currency/why-arent-mothers-worth-
anything-to-venture-capitalists/amp
4. Ivi.
5. Ivi.
6. Ivi.
7. https://hbr.org/2017/05/we-recorded-vcs-conversations-and-analyzed-how-
differently-they-talk-about-female-entrepreneurs
8. https://www.newyorker.com/business/currency/why-arent-mothers-worth-
anything-to-venture-capitalists/amp
9. https://www.bcg.com/publications/2018/why-women-owned-startups-are-
better-bet.aspx
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expansive-health-app-so-why-cant-i-track
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apps-exclude-women/383673/;
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health-app-so-why-cant-i-track;
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search-Siri-helps-users-find-prostitutes-and-Viagra-but-not-an-abortion.html
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sure-your-software-is-gender-neutral
34. http://foreignpolicy.com/2017/01/16/women-vs-the-machine/
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50. http://genderedinnovations.stanford.edu/case-studies/crash.html#tabs-2
51. Ivi.
52. https://www.washingtonpost.com/local/trafficandcommuting/female-
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55. Linder, Occupant Safety Assessment cit.
56. https://www.govinfo.gov/app/details/CFR-2011-title49-vol7/CFR-2011-
title49-vol7-part572-subpartU
57. Linder, Occupant Safety Assessment cit.
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Approaches to Achieving Gendered Innovations in Science, Medicine, and
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60. http://genderedinnovations.stanford.edu/case-studies/crash.html#tabs-2
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62. http://genderedinnovations.stanford.edu/case-studies/crash.html#tabs-2
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dummy-makes-her-mark-on-male-dominated-crash-
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uri=CELEX:12012E/TXT&from=IT

X. Le medicine non funzionano

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2. Una ricerca di Medline dimostra che la norma maschile esiste tuttora,
giacché le linee guida per la pratica e gli esempi per la ricerca sono spesso
riferiti all’«individuo medio del peso di settanta chilogrammi». Si veda anche
Marts, Principles of Sex-based Differences cit.
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XI. La sindrome di Yentl

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37. Ibidem; Programma delle Nazioni unite per lo sviluppo cit.
38. ACTION, Women and Tuberculosis cit.; Gender and Tuberculosis cit.
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40. ACTION, Women and Tuberculosis cit.
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61. La frase è tratta dall’Introduzione alla psicanalisi di Sigmund Freud.
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16. L’edizione 2011 del rapporto annuale dell’Ocse sugli indicatori sociali
comprendeva un capitolo sul lavoro non retribuito, ma finora è rimasto
l’unico caso: http://www.oecd-library.org/docserver/download/8111041e.pdf?
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64. http://progress.unwomen.org/en/2015/pdf/UNW_progressreport.pdf
65. http://wbg.org.uk/wp-
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71. http://newlaborforum.cuny.edu/2017/03/03/recognize-reduce-redistribute-
unpaid-care-work-how-to-close-the-gender-gap/
72. http://wbg.org.uk/wp-
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73. Ivi.
74. http://wbg.org.uk/wp-
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75. http://www.McKinsey.com/global-themes/gender-equality/the-power-of-
parity-advancing-womens-equality-in-the-united-kingdom
76. http://wbg.org.uk/wp-
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77. http://www.McKinsey.com/global-themes/gender-equality/the-power-of-
parity-advancing-womens-equality-in-the-united-kingdom
78. http://wbg.org.uk/wp-
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79. Ivi.
80. http://www.gothamgazette.com/city/6326-pre-k-offers-parents-opportunity-
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81. Ivi.
82. https://ourworldindata.org/women-in-the-labor-force-determinants
83. http://wbg.org.uk/wp-
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84. http://www.McKinsey.com/global-themes/gender-equality/the-power-of-
parity-advancing-womens-equality-in-the-united-kingdom;
http://wbg.org.uk/wp-content/uploads/2016/11/
85. http://wbg.org.uk/wp-
content/uploads/2016/11/De_Henau_WBG_childcare_briefing3_2017_02_2
0-1.pdf
86. http://newlaborforum.cuny.edu/2017/03/03/recognize-reduce-redistribute-
unpaid-care-work-how-to-close-the-gender-gap/

XIII. Dalla borsetta al portafoglio

1. https://twitter.com/alex6130/status/872937838488281088
2. https://twitter.com/MaliaBouattia/status/872978158135508992
3. https://twitter.com/DavidLammy/status/873063062483357696
4. https://www.buzzfeed.com/ikrd/we-dont-actually-know-how-many-young-
people-turned-out-to?utm_term=.yw9j2lr8l#.cqOlx8Aa8
5. https://blog.oxforddictionaries.com/2017/12/14/youthquake-word-of-the-
year-2017-commentary/
6. http://blogs.lse.ac.uk/politicsandpolicy/the-myth-of-the-2017-youthquake-
election/
7. https://www.prospectmagazine.co.uk/blogs/peter-kellner/the-british-election-
study-claims-there-was-no-youthquake-last-june-its-wrong
8. https://twitter.com/simonschusterUK/status/973882834665590785
9. https://oxfamblogs.org/fp2p/are-women-really-70-of-the-worlds-poor-how-
do-we-know/; http://www.politifact.com/punditfact/article/2014/jul/03/meet-
zombie-stat-just-wont-die/
10.
https://www.americanprogress.org/issues/poverty/news/2013/03/11/56097/g
ender-equality-and-womens-empowerment-are-key-to-addressing-global-
poverty/; https://www.theguardian.com/global-development-professionals-
network/2013/mar/26/empower-women-end-poverty-developing-world;
https://www.globalcitizen.org/en/content/introduction-to-the-challenges-of-
achieving-gender/; https://www.pciglobal.org/womens-empowerment-
poverty/; https://reliefweb.int/report/world/women-and-development-worlds-
poorest-are-women-and-girls; http://www.ilo.org/global/about-the-
ilo/newsroom/news/WCMS_008066/lang–en/index.htm;
https://www.oecd.org/social/40881538.pdf
11. https://oxfamblogs.org/fp2p/are-women-really-70-of-the-worlds-poor-how-
do-we-know/
12. http://www.politifact.com/punditfact/article/2014/jul/03/meet-zombie-stat-
just-wont-die/
13. http://ideas4development.org/en/zombie-facts-to-bury-about-women-and-
girls/
14. https://www.researchgate.net/profile/Rahul_Lahoti/publication/
236248332_Moving_from_the_Household_to_the_Individual_Multi
dimensional_Poverty_Analysis/links/5741941d08aea45ee8497aca/ Moving-
from-the-Household-to-the-Individual-Multidimensional-Poverty-
Analysis.pdf?origin=publication_list
15. Una breve osservazione sui capifamiglia. Il sesso di un capofamiglia è
determinato da quello delle altre persone che vivono nella stessa
abitazione. Una famiglia a capofamiglia maschile può avere al suo interno –
e spesso le ha – delle femmine adulte. Una famiglia che ha un capofamiglia
donna è quasi sempre, per definizione, una famiglia in cui manca un adulto
maschio. Le famiglie non sono capeggiate da una donna, se non in casi
eccezionali.
16. S. J. Lundberg, R. A. Pollak e T. J. Wales, Do Husbands and Wives Pool
Their Resources? Evidence from the United Kingdom Child Benefit, in
«Journal of Human Resources», XXXII (1997), n. 3, pp. 463-80.
17. http://www.cpahq.org/cpahq/cpadocs/Feminization_of_Poverty.pdf;
http://eprints.lse.ac.uk/3040/1/Gendered_nature_of_natural_disasters_%28
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18. https://www.jstor.org/stable/145670?seq=1#page_scan_tab_contents;
https://blogs.wsj.com/ideas-market/2011/01/27/the-gender-of-money/; F.
Bourguignon, M. Browning e altri, Intra Household Allocation of
Consumption: A Model and Some Evidence from French Data, in «Annales
d’Économie et de Statistique», XXIX (1993), pp. 137-56;
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19. https://www.theguardian.com/commentisfree/2017/may/01/conservatives-
universal-credit-hard-work
20. https://docs.gatesfoundation.org/documents/gender-responsive-
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21. Ivi.
22. T. Major Gauff, Eliminating the Secondary Earner Bias: Lessons from
Malaysia, the United Kingdom, and Ireland, in «Northwestern Journal of
Law and Social Policy», IV (2009), n. 2.
23. Parlamento europeo, Gender Equality and Taxation in the European
Union, 2017,
http://www.europarl.europa.eu/RegData/etudes/STUD/2017/583138/IPOL_
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24. Y. Andrienko, P. Apps e R. Rees, Gender Bias in Tax Systems Based on
Household Income, Discussion Paper, Institute for the Study of Labor, 2014.
25. https://www.gov.uk/marriage-allowance/how-it-works
26. https://www.bloomberg.com/news/articles/2016-08-18/japan-may-finally-
end-10-000-cap-on-women-s-incentive-to-work
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28. Parlamento europeo, Gender Equality cit.
29. Ivi.
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33. Ivi.
34. Ivi.
35. Institute of Development Studies, Redistributing Unpaid Care Work cit.
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policies-womens-rights/
37.
http://cesr.org/sites/default/files/downloads/switzerland_factsheet_2nov2016
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38.
http://www.undp.org/content/dam/undp/library/gender/Gender%20and%20P
overty%20Reduction/Taxation%20English.pdf
39. Institute of Development Studies, Redistributing Unpaid Care Work cit.
40. Parlamento europeo, Gender Equality cit.
XIV. I diritti delle donne sono diritti umani

1. https://www.politicalparity.org/wp-content/uploads/2015/08/Parity-Research-
Women-Impact.pdf
2. http://www.historyandpolicy.org/policy-papers/papers/women-in-parliament-
since-1945-have-they-changed-the-debate
3. https://www.diva-portal.org/smash/get/diva2:200156/FULLTEXT01.pdf
4. Australia, Austria, Belgio, Canada, Danimarca, Finlandia, Francia, Grecia,
Irlanda, Italia, Paesi Bassi, Nuova Zelanda, Norvegia, Portogallo, Spagna,
Svezia, Svizzera, Regno Unito e Stati Uniti.
5. https://economics.mit.edu/files/792
6.
https://web.stanford.edu/group/peg/Papers%20for%20call/nov05%20papers
/Clots-Figueras.pdf
7. https://www.theatlantic.com/politics/archive/2016/09/clinton-trust-
sexism/500489/
8. http://www.telegraph.co.uk/comment/3558075/Irrational-ambition-is-Hillary-
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9. https://www.psychologytoday.com/blog/are-we-born-racist/201010/is-hillary-
clinton-pathologically-ambitious
10. https://www.nytimes.com/2007/02/21/opinion/21dowd.html
11. http://www.weeklystandard.com/colin-powell-on-hillary-clinton-unbridled-
ambition-greedy-not-transformational/article/2004328
12. http://www.teenvogue.com/story/hillary-clinton-laughs-too-ambitious-attack
13. http://www.dailymail.co.uk/news/article-3900744/Assange-says-Clinton-
eaten-alive-ambitions-denies-Russia-Democratic-email-hacks-interview-
Kremlin-s-TV-channel.html
14. http://www.theonion.com/blogpost/hillary-clinton-is-too-ambitious-to-be-the-
first-f-11229
15. https://www.psychologytoday.com/blog/are-we-born-racist/201010/is-
hillary-clinton-pathologically-ambitious
16. http://journals.sagepub.com/doi/10.1177/0146167210371949
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32. https://blogs.eui.eu/genderquotas/wp-
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33. J. Yoon e K. Shin, Mixed Effects of Legislative Quotas in South Korea, in
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34. O’Brien, Gender Quotas cit.
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36. https://www.worksopguardian.co.uk/news/politics/restraining-order-after-
dead-bird-sent-in-post-1-4798348
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38. C. Castillejo, Women Political Leaders and Peacebuilding, maggio 2016,
https://ethz.ch/content/dam/ethz/special-interest/gess/cis/center-for-
securities-studies/resources/docs/6ccaf3f24b120b8004f0db2a767a9dc2.pdf
39. http://reliefweb.int/sites/reliefweb.int/files/resources/6ccaf3f24b120b8004
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40. Castillejo, Women Political Leaders cit.
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42. https://www.fawcettsociety.org.uk/Handlers/Download.ashx?
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43. A. B. Hancock e B. A. Rubin, Influence of Communication Partner’s
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44. http://www.pbs.org/newshour/rundown/for-many-women-watching-trump-
interrupt-clinton-51-times-was-unnerving-but-familiar/
45. https://www.vanityfair.com/news/2017/11/inside-the-fall-of-todays-matt-
lauer
46. https://hbr.org/2016/09/why-hillary-clinton-gets-interrupted-more-than-
donald-trump
47. https://www.theguardian.com/commentisfree/2016/mar/28/hillary-clinton-
honest-transparency-jill-abramson
48. http://www.bbc.co.uk/news/uk-politics-13211577
49. http://archive.ipu.org/pdf/publications/issuesbrief-e.pdf
50. https://www.theguardian.com/politics/2014/feb/09/fawzia-koofi-afghanistan-
mp-turn-off-microphones
51. https://www.theguardian.com/technology/datablog/ng-
interactive/2016/jun/27/from-julia-gillard-to-hillary-clinton-online-abuse-of-
politicians-around-the-world
52. http://archive.ipu.org/pdf/publications/issuesbrief-e.pdf
53. Ivi.
54.
http://www.medicamondiale.org/fileadmin/redaktion/5_Service/Mediathek/D
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55. https://www.theguardian.com/politics/2014/feb/09/fawzia-koofi-afghanistan-
mp-turn-off-microphones
56. https://www.reuters.com/article/us-afghanistan-women/bomb-attack-in-
eastern-afghanistan-kills-female-politician-idUSKBN0LK1EI20150216
57. O’Brien, Gender Quotas cit.
58. Ivi.
59. http://archive.ipu.org/wmn-e/classif.htm
60. K. Kanthak e G. A. Krause, The Diversity Paradox: Political Parties,
Legislatures, and the Organizational Foundations of Representation in
America, Oxford University Press, Oxford 2012.
61. O’Brien, Gender Quotas cit.
62. Si veda a questo proposito Kanthak, The Diversity Paradox cit. Quando la
presenza femminile mette a repentaglio la maggioranza, c’è una forte
reazione politica da parte della componente maschile.
63. D. Wittmer e V. Bouche, The Limits of Gendered Leadership: The Public
Policy Implications of Female Leadership on Women’s Issues, in «The
Limits of Gendered Issues», IX (2013), n. 3, pp. 245-75.
64. http://archive.ipu.org/pdf/publications/issuesbrief-e.pdf
65.
http://www.medicamondiale.org/fileadmin/redaktion/5_Service/Mediathek/D
okumente/English/Documentations_studies/medica_mondiale_-
_Report_on_Women__Peace_and_Security_-_October_2007.pdf
66. http://archive.ipu.org/pdf/publications/issuesbrief-e.pdf
67. https://www.cfr.org/article/violence-against-female-politicians
68. http://archive.ipu.org/pdf/publications/issuesbrief-e.pdf
69. https://www.cfr.org/article/violence-against-female-politicians
70. https://www.ndi.org/sites/default/files/not-the-cost-program-guidance-
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71. Ivi.
72. https://www.cfr.org/article/violence-against-female-politicians
73. T. Jacobi e D. Schweers, Justice, Interrupted: The Effect of Gender,
Ideology and Seniority at Supreme Court Oral Arguments, in «Virginia Law
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74. http://www.bbc.com/capital/story/20170622-why-women-should-interrupt-
men
75. http://www.bbc.com/capital/story/20160906-how-rude-the-secret-to-smart-
interrupting
76. https://www.nytimes.com/2017/06/13/us/politics/kamala-harris-interrupted-
jeff-sessions.html
77. http://edition.cnn.com/2017/06/13/politics/powers-miller-kamala-harris-
hysterical-sessions-hearing-ac360-cnntv/index.html
78. http://interactions.acm.org/archive/view/january-february-2014/are-you-
sure-your-software-is-gender-neutral
79. C. Karpowitz e T. Mendelberg, The Silent Sex: Gender, Deliberation and
Institutions, Princeton University, Princeton 2014;
https://www.nytimes.com/2016/10/27/upshot/speaking-while-female-and-at-
a-disadvantage.html
80. http://time.com/3666135/sheryl-sandberg-talking-while-female-
manterruptions/
81. Karpowitz, The Silent Sex cit.
82. C. Karpowitz, T. Mendelberg e L. Shaker, Gender Inequality in Deliberative
Participation, in «American Political Science Review», CVI (2012), n. 3, pp.
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83. https://www.fawcettsociety.org.uk/Handlers/Download.ashx?
IDMF=2e149e34-9c26-4984-bf64-8989db41a6ad
84. https://www.bindmans.com/insight/updates/when-can-the-law-remove-a-
councillor-without-an-election
85. https://www.fawcettsociety.org.uk/Handlers/Download.ashx?
IDMF=2e149e34-9c26-4984-bf64-8989db41a6ad

XV. A chi tocca ricostruire?

1. http://www.makers.com/once-and-for-all
2. https://www.globalfundforwomen.org/wp-content/uploads/2006/11/disaster-
report.pdf
3. https://www.womensrefugeecommission.org/gbv/firewood
4. http://gdnonline.org/resources/women_will_rebuild_miami.pdf
5. E. Murakami-Ramalho e B. Durodoye, Looking Back to Move Forward:
Katrina’s Black Women Survivors Speak, in «NWSA Journal», XX (2008), n.
3, pp. 115-37.
6. https://iwpr.org/wp-content/uploads/wpallimport/files/iwpr-
export/publications/D506_GetToTheBricks.pdf
7. https://www.theguardian.com/global-development/2015/jan/22/women-
rights-war-peace-un-resolution-1325
8.
http://www.peacewomen.org/assets/file/NationalActionPlans/miladpournikan
alysisdocs/igis_womeninpeaceandsecuritythroughunsr1325_millerpourniks
waine_2014.pdf
9. https://www.cfr.org/interactive/interactive/womens-participation-in-peace-
processes/explore-the-data
10. https://reliefweb.int/sites/reliefweb.int/files/resources/UNW-GLOBAL-
STUDY-1325-2015.pdf
11. United Nations Security Council, Report of the Secretary-General on
Women and Peace and Security, 16 ottobre 2017.
12. Castillejo, Women Political Leaders cit.
13. Ivi.
14. https://www.unwomen.org/en/what-we-do/peace-and-security/facts-and-
figures; M. O’Reilly, A. Ó Súilleabháin e T. Paffenholz, Reimagining
Peacemaking: Women’s Roles in Peace Processes, International Peace
Institute, New York 16 giugno 2015.
15. Castillejo, Women Political Leaders cit.
16. O’Reilly, Reimagining Peacemaking cit.

XVI. Non è colpa della catastrofe

1. https://www.securitycouncilreport.org/atf/cf/%7B65BFCF9B-6D27-4E9C-
8CD3-CF6E4FF96FF9%7D/CAC%20S%20RES%201820.pdf
2. http://www.un.org/en/preventgenocide/rwanda/about/bgsexualviolence.shtml
3. O’Reilly, Reimagining Peacemaking cit.; https://www.ipinst.org/wp-
content/uploads/2015/06/IPI-E-pub-Reimagining-Peacemaking.pdf
4. http://www.un.org/en/preventgenocide/rwanda/about/bgsexualviolence.shtml
5. O’Reilly, Reimagining Peacemaking cit.
6. https://www.unwomen.org/en/what-we-do/peace-and-security/facts-and-
figures
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88. http://www.reuters.com/article/us-womens-day-refugees-periods-feature-
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Postfazione

1. J. Austen, Northanger Abbey, trad. di A. L. Zazo, Mondadori, Milano 1996.


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hardest-and-theyre-the-ones-building-it-back/
24. https://www.vogue.com/projects/13542078/puerto-rico-after-hurricane-
maria-2/
Il libro

P

quelli dei maschi no? Perché i medici spesso non sono in
grado di diagnosticare in tempo un infarto in una donna?
Perché, negli incidenti stradali, le donne rischiano di piú degli
uomini? Un libro rivoluzionario ed estremamente rivelatorio che vi
farà vedere il mondo con altri occhi.

In una società costruita a immagine e somiglianza degli uomini,


metà della popolazione, quella femminile, viene sistematicamente
ignorata. A testimoniarlo, la sconvolgente assenza di dati
disponibili sui corpi, le abitudini e i bisogni femminili. Come nel
caso degli smartphone, sviluppati in base alla misura delle mani
degli uomini; o della temperatura media degli uffici, tarata sul
metabolismo maschile; o della ricerca medica, che esclude le
donne dai test «per amor di semplificazione». Partendo da questi
casi sorprendenti ed esaminandone moltissimi altri, Caroline
Criado Perez dà vita a un’indagine senza precedenti che ci
mostra come il vuoto di dati di genere abbia creato un pregiudizio
pervasivo e latente che ha un riverbero profondo, a volte perfino
fatale, sulla vita delle donne.

«Un libro che tutti i maschi dovrebbero leggere».


Financial Times

«Un’opera magistrale».
The Guardian

«Questo libro è una Bibbia dei nostri tempi».


The New York Times

«Un grido di battaglia audace».


The Sunday Times
«Un libro potente e provocatorio».
The Times

Vincitore del Royal Society Science Books Prize.


Vincitore del Financial Times and McKinsey Business Book of
the Year Award.
The Times Current Affairs Book of the Year.
L’autrice

CAROLINE CRIADO PEREZ è una scrittrice, giornalista e


attivista. Ha dato vita a numerose campagne per i diritti delle
donne – tra cui quella contro i commenti sessisti su Twitter e
quella per la costruzione della prima statua di una donna a
Parliament Square – e nel 2013 ha vinto il premio Liberty Human
Rights Campaigner of the Year. Invisibili, il suo secondo libro, è in
corso di pubblicazione in ventidue Paesi.
Titolo originale Invisible Women: Exposing Data Bias in a World
Designed for Men
© 2019 Caroline Criado Perez. All rights reserved
© 2020 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino
Progetto grafico di Riccardo Falcinelli.
In copertina: artwork Rachel Willey, Abrams Press.

Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non può


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Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata di questo testo
cosí come l’alterazione delle informazioni elettroniche sul regime
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quanto previsto dalla Legge 633/1941 e successive modifiche.
Questo ebook non potrà in alcun modo essere oggetto di scambio,
commercio, prestito, rivendita, acquisto rateale o altrimenti diffuso
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presente dovranno essere imposte anche al fruitore successivo.

www.einaudi.it

Ebook ISBN 9788858433676


Sommario

Copertina
Frontespizio
Prefazione
Invisibili
Introduzione. Il maschile predefinito
Parte prima. Vita quotidiana
I. Spazzare la neve è sessista?
II. Toilette per tutt*
Parte seconda. Luoghi di lavoro
III. Il venerdí lungo
IV. Il mito della meritocrazia
V. Effetto Pigmalione
VI. Quando vali meno di una scarpa
Parte terza. Soggetti di design
VII. L’ipotesi dell’aratro
VIII. L’uomo è misura di tutte le cose
IX. Un mare di maschi
Parte quarta. Nello studio del medico
X. Le medicine non funzionano
XI. La sindrome di Yentl
Parte quinta. Vita pubblica
XII. Una risorsa a costo zero
XIII. Dalla borsetta al portafoglio
XIV. I diritti delle donne sono diritti umani
Parte sesta. Quando le cose vanno male
XV. A chi tocca ricostruire?
XVI. Non è colpa della catastrofe
Postfazione
Ringraziamenti.
Il libro
L’autrice
Copyright

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