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PSICOLOGIA DEL LAVORO NELLE ORGANIZZAZIONI DEI SERVIZI SOCIALI LAVORO NELLE ORGANIZZAZIONI:

2. IL LAVORO NELLE ORGANIZZAZIONI


Un’organizzazione è definita come un “collettivo finalizzato all’efficienza”. Organizzare vuol dire imparare a
vivere la complessità, a gestirla per migliorare la qualità della vita di chi sta dentro e fuori
dall’organizzazione. Un’organizzazione può essere percepita come complicata, impercettibile, coercitiva,
permissiva, stabile, in regressione o sviluppo.
Esistono 5 fasi dell’evoluzione del costrutto mentale denominato organizzazione:
1) Fase dell’organizzazione scientifica: si basava sulla suddivisione del lavoro, stabilendo tempi e metodi
precisi, sull’organizzazione, sulla progettazione delle macchine e sul rendimento.
2) Fase della direzione organizzativa: consisteva in un reclutamento e in uno sviluppo di carriera basati su
caratteristiche tecniche e suddivisione del lavoro fondate sul merito. L’efficienza infatti era concepita come
frutto di una buona osservanza di regole e procedure.
3) Fase dei rapporti umani: consisteva nell’istaurare reti di comunicazione aperta per costruire rapporti
basati sulla fiducia reciproca, sulla cooperazione. Si aveva cosi una condivisione di obiettivi.
4) Fase dei subsistemi: vedeva essenziale il passaggio dal settore secondario a quello terziario. Dalla
manutenzione tecnica si passava alla manutenzione del personale e della risorsa umana.
5) Fase dell’organizzazione come stato d’animo: è basata sul raggiungimento di obiettivi immediati,
collocati nell’area del benessere organizzativo. Profitto, rendimento ed efficienza sono tutti sottoprodotti
del benessere. Questo, infatti, è alla base dell’efficienza dell’organizzazione.

Esistono dei fattori che definiscono lo scenario entro cui si svolge il lavoro.
• Obiettivi dell’organizzazione: gli obiettivi rappresentano la strategia di fondo dell’organizzazione e
attraverso loro si definiscono i traguardi da raggiungere. Gli obiettivi possono essere: obiettivi di marketing,
di innovazione, obiettivi di produttività, obiettivi di responsabilità sociale dell’organizzazione.
• La struttura: è finalizzata a facilitare il coordinamento delle attività e controllare le azioni degli operatori.
Ha tre caratteristiche: complessità, formalizzazione, centralizzazione (luogo in cui risiede l’autorità).
• Le nuove tecnologie: ogni organizzazione si avvale di strumenti tecnologici per raggiungere i suoi obiettivi.
• Norme e retribuzioni: le norme regolano i livelli retributivi, il rapporto di lavoro, l’orario e altre condizioni
legate alla prestazione.
• L’ambiente di lavoro: vi è un legame tra soddisfazione lavorativa e ambiente in cui si trascorre gran parte
della giornata. Particolare cura è stata rivolta all’ambiente
• Le organizzazioni come culture: la cultura organizzativa può incidere su comportamenti dei singoli o dei
gruppi e designa norme. Le culture facilitano la coesione tra individui, rafforzano l’identità organizzativa e
favoriscono la stabilità dell’organizzazione. L’analisi della cultura si concentra sui processi di socializzazione,
di comunicazione, su criteri di selezione del personale e sulla gestione dei conflitti. Enriquez propone varie
tipologie di culture organizzative: cultura autoritaria, cultura burocratica, cultura paternalistico-clientelare
cultura tecnocratica; cultura cooperativa (tutti possono prendere decisioni, c’è solidarietà, buona
comunicazione.

4. LA MOTIVAZIONE A LAVORO
La motivazione è una spinta per svolgere un’attività ed è definibile come “processo di attivazione
dell’organismo finalizzato alla realizzazione di uno scopo in relazione alle condizioni ambientali”. Da questo
processo dipende la condotta di un individuo che è portatore di un bisogno da soddisfare e orientato a
perseguire un fine. Prevede i Riflessi (sistema di risposta dell’organismo come reazione a stimoli) Istinti
(rappresenta lo schema di comportamento che assicura la sopravvivenza degli individui di una specie)
Bisogni (condizione fisiologica di carenza e di necessità) Pulsione (esprime uno stato di disagio e di tensione
interna che l’individuo tende a eliminare con appropriate condotte, qualora i bisogni nn siano soddisfatti).
Le motivazioni possono essere Primarie, quando sono connesse con bisogni fisiologici, o Secondarie,
quando fanno riferimento ai processi di apprendimento sociale in base alla cultura di appartenenza;
entrambe comportano l’elaborazione di un sistema i desideri da parte del soggetto (il desiderio è voler
possedere ciò che piace ed è utile per se stessi) che è associato al sistema di valori (valore inteso come
oggetto/evento importante se è in grado di venire incontro a un desiderio).
Maslow propose una gerarchia dei bisogni in base alla quale alcuni bisogni vanno soddisfatti prima che altri
possono essere presi in considerazione. I bisogni dei primi gradini sono Bisogni Di Carenza in quanto
scompaiono con il loro appagamento; nei gradini successivi troviamo i Bisogni Di Crescita che continuano a
svilupparsi man mano che sono soddisfatti. Nella piramide, dalla base, troviamo bisogni fisiologici, di
sicurezza, di appartenenza e attaccamento, di stima e di autorealizzazione.

La motivazione è stata oggetto di vari approcci: • approccio biologico: fa riferimento all’ipotesi


dell’omeostasi (necessità dell’organismo di conservare stabile nel tempo i suoi livelli di equilibrio).
• Approccio comportamentista: si fonda sull’interazione fra abitudine e pulsione; quest’ultima nasce da una
condizione di carenza per la comparsa di un bisogno. L’associazione pulsione/risposta crea un’abitudine che
serve a dare direzione al comportamento.
• Approccio cognitivista: considera che l’azione dell’individuo tenda a ottimizzare l’utilità soggettivamente
attesa.
• Approccio scopistico: la motivazione è concepita come un sistema gerarchico di scopi: c’è uno scopo
generale che si articola in diversi livelli di sottoscopi fino a raggiungere le singole azioni. Nella definizione
degli scopi e delle strategie per raggiungerli svolge un ruolo importante lo “stile attribuzionale
dell’individuo”, cioè la sua tendenza a spiegare gli eventi e a attribuir loro precise cause.
• Approccio interazionista: considera la motivazione suscitata e regolata dall’interazione con gli altri. La
motivazione, quindi, indica il tipo e la sequenza delle interazioni che si verificano fra 2 o + soggetti.

Motivazione al lavoro: comprendere la motivazione al lavoro è importante per gli individui e per le
organizzazioni in cui operano. Sono stati individuati 3 approcci:
Approccio bisogni-motivi-valori: considera diverse teorie come quella dello sviluppo sequenziale dei
bisogni di Maslow (per Maslow la sorgente della motivazione va ricercata in alcuni specifici bisogni; questi
hanno base genetica e spesso influenzano il comportamento a livello inconscio. Maslow propone cinque
categorie di bisogni che sono tra loro in rapporto gerarchico. Quella della motivazione (Alderfer individua 3
categorie di bisogni: sopravvivenza, relazione e crescita che si sviluppano lungo un continuum: la
frustrazione di un bisogno di livello superiore comporta una regressione a un livello più basso), quella
bifattoriale, quella della motivazione al successo (Mc Clelland vede il comportamento guidato dal bisogno di
successo e dal bisogno di evitare il fallimento) e quella dell’equità.
Approccio della scelta cognitiva: troviamo orientamenti che appartengono alla famiglia di teorie
“aspettativa per valore” e che sono raggruppati in categorie: Approccio classico cognitivo interazionale:
quando un soggetto affronta un compito la sua azione è guidata dal bisogno di avere successo, approccio
cognitivo-episodico: troviamo all’interno di questo filone la Teoria dell’aspettativa (che parte dal
presupposto che l’uomo sia motivato al lavoro e investa le sue energie al fine di ottenere risultati
importanti. + la Teoria dell’orientamento.
Approccio dell’autoregolazione: troviamo la Teoria del Goal Setting (secondo Locke gli obiettivi
costituiscono la base della motivazione e il punto di riferimento per stabile quante energie investire nel
lavoro. La performance lavorativa è influenzata anche dal coinvolgimento della persona nell’obiettivo: si
parla di Goal commitment, cioè la propensione di un soggetto a sforzarsi per un buon risultato) e la Teoria
dell’ apprendimento sociale.

Analisi del contesto e scelta delle strategie adeguate: Quando si opera in un organizzazione bisogna
cogliere gli stimoli provenienti dall’esterno, selezionarli e interpretarli attraverso lo stadio dell’attenzione (i
dati vengono filtrati e vengono scelti quelli da utilizzare/eliminare) dell’organizzazione (le informazioni
vengono amalgamate utilizzando schemi per indicare strutture cognitive che raccolgono dei dati)
dell’interpretazione (si usa se stessi come termine di paragone per valutare il comportamento degli altri)
del richiamo (molti dati percepiti vengono conservati nella memoria come informazioni su eventi passati) e
del giudizio (i dati si tramutano in valutazione di un evento e incidono sulle scelte dell’individuo).
La percezione degli stimoli non è sempre reale in quanto è mediata da una visione soggettiva, dalle nostre
convinzioni che a volte danno al proprio giudizio un valore assoluto. Occorre individuare un’area di
intervento per accrescere la capacità di interpretazione della realtà: un primo strumento è la formazione
psicosociale, che favorisce un riesame delle categorie di riferimento nell’analisi dei dati. Un secondo
strumento è l’argomentare opinioni e valutazione. Un terzo è agevolare la frequentazione di gruppi sociali e
professionali diversi dal proprio. Il processo decisorio: è distinto in 5 fasi:
• Determinazione degli obiettivi, Monitoraggio dell’ambiente, Prospettazione di alternative: per risolvere
un problema si parte da eventi organizzativi precedenti e si formano nuove ipotesi; Scelta dell’azione: si
sceglie la strada migliore da intraprendere in base al rapporto costi benefici e Valutazione dell’azione : si
verifica che i risultati corrispondano agli obiettivi stabiliti in partenza

5. LA SODDISFAZIONE LAVORATIVA
È un atteggiamento favorevole verso il lavoro che comporta appagamento per il lavoro svolto o che si sta
svolgendo. Possiamo individuarne 3 componenti: • valori personali connessi al lavoro: ogni individuo in
base al suo percorso di vita e ai suoi bisogni assegna dei significati al lavoro che svolge
• importanza: le persone si differenziano nella rilevanza che assegnano ai loro valori
• percezione: la soddisfazione è connessa alla percezione e alla valutazione dell’ambiente organizzativo, dei
valori, delle attese.
La soddisfazione è stata misurata utilizzando 2 approcci: il primo è centrato sulla valutazione delle singole
variabili connesse al lavoro; il secondo è centrato su una valutazione complessiva, nel presupposto che
alcuni lavoratori possano esprimere insoddisfazione globale.
L’insoddisfazione può essere causata da condizioni ambientali rumorose, illuminazione insufficiente, rischio
per la salute, assenza di privacy, fatica fisica e sforzo mentale. Può derivare anche dall’ambiente sociale: il
venire a contatto con soggetti portatori di valori, atteggiamenti e visione della vita simile al proprio può
procurare disagio. L’ambiguità di ruolo, in cui il soggetto non ha chiaro cosa ci si aspetta da lui, un eccessivo
carico di ruolo o i conflitti di ruolo sono ulteriori fonti di insoddisfazione.
Le conseguenze dell’insoddisfazione si riducono a 4 categorie:
1) problemi di equilibrio psico-fisico: vi è un rapporto tra insoddisfazione e stress e infarto; così come c’è
una connessione tra stress e disturbi mentali;
2) assenteismo e turnover: vi è un rapporto tra insoddisfazione e assenteismo. Ci si assenta per motivi
occasionali, si preferiscono attività non lavorative e ci si assenta. Il turnover è il rimpiazzo di lavoratori poco
idonei con lavoratori più brillanti. A volte si può intendere come uscita volontaria da un’organizzazione ma,
in periodo di crisi economica, è difficile scegliere di abbandonare il lavoro anche se insoddisfacente.
3) sentimento di appartenenza all’organizzazione: un individuo si può identificare con l’organizzazione e
questo porta ad essere attivi, intraprendenti e soddisfatti ma, una forte identificazione può portare a
insoddisfazione.
4) abbassamento della prestazione: il rapporto tra performance e insoddisfazione non è lineare, infatti
questa può incidere su attenzione, concentrazione e sforzo. L’esperienza evidenzia però che dipendenti
insoddisfatti possono essere molto produttivi, mentre dipendenti soddisfatti possono essere improduttivi.
Le soluzioni per favorire la soddisfazione sono molte: dare tempo sufficiente per una performance e
retribuirla, fornire una chiara descrizione del lavoro e ascoltare le lamentele, chiarire obbiettivi e valori,
eliminare i rischi fisici, imparare come evitare i fallimenti/promuovere i successi. Si potrebbero anche
progettare dei calendari di lavoro per la rotazione a turni, permettere ai lavoratori di dare suggerimenti per
le decisioni, definire in modo chiaro i ruoli di lavoro.

6.LE CONDOTTE LAVORATIVE INADEGUATE


Comportamenti inadeguati: furti di beni, utilizzo a fini privati degli strumenti aziendali, falsificazione dei dati
sulla presenza sul lavoro e violenza tra capi/lavorati o tra lavoratori stessi. Varie sono le definizioni di questi
comportamenti anomali: 1) condotte antisociali: azioni tese a danneggiare l’organizzazione, i lavoratori e i
clienti 2) condotte disfunzionali: condotte motivate, messe in atto da una o più persone, con conseguenze
negative per persone, gruppi e organizzazione 3) devianza lavorativa: condotta che viola norme
organizzative 4) condotte contro-produttive: attuate dai lavoratori intenzionalmente perché contrari agli
interessi dell’organizzazione.

Workaholism: condotta di lavoro che si esprime con un eccessivo impegno, sforzo, coinvolgimento della
persona nelle attività inerenti il proprio ruolo lavorativo. Questo comportamento, a volte compulsivo,
mostra il lavoro come un bisogno interno, sottovalutando i rischi psico-fisici e di isolamento affettivo e
sociale.
Aggressività e violenza nei luoghi di lavoro: l’aggressività è un comportamento diretto a danneggiare uno o
più lavoratori e che si svolge in ambito lavorativo. Entrambe sono in aumento perché vengono portati gli
aspetti negativi della società, all’interno dell’organizzazione comportando pessimismo, insoddisfazione.
L’aggressività può essere fisica/verbale, attiva/passiva, diretta/ indiretta:
• atti fisici aggressivi: sono diretti e attivi o diretti e passivi (abbandonare il posto quando entra il “nemico”);
indiretti attivi (nascondere attrezzature di lavoro) o indiretti passivi (non impegnarsi a favore di qualcuno)
• aggressione verbale: è diretta attiva (urla, minacce) o diretta passiva (non rispondere a una chiamata del
“nemico”); indirette attive (diffondere pettegolezzi) o indirette passive (non smentire i pettegolezzi).

Modelli di spiegazione dei fenomeni aggressivi: • modello comportamentista • modello della giustizia
organizzativa • modello della violazione del contratto psicologico.
Ritardi sul lavoro, assenteismo, turnover: il ritardo sul lavoro è una condotta contro-produttiva con
implicazioni economiche e che dimostra mancanza di rispetto negli altri che devono subire all’assenza del
soggetto. Il ritardo può essere cronico, stabile periodico, casuale. È stato analizzato in relazione
all’assenteismo e al turnover che sono condotte sintomo di un contesto lavorativo insoddisfacente e
malfunzionante. L’assenza ingiustificata è una violazione di regole e una forma di protesta individuale che
procura danni all’organizzazione.

7. L’EMPOWERMENT
Inteso da Rappaport come acquisizione del potere, ovvero accrescere la possibilità della gente di
controllare attivamente la propria vita anche favorendo la capacità di coping. Trae origine da gruppi e
movimenti impegnati nell’azione di promuovere diritti sociali e civili dei neri ecc. Provenivano da zone
caratterizzate da povertà e emarginazione ed è in questo contesto che il concetto di empowerment si
concretizza come possibilità di assumersi le proprie responsabilità sviluppando capacità che danno accesso
ad opportunità e che consentono il godimento dei risultati.
L’empowerment comprende lo sviluppo di un potente senso di se in rapporto con il mondo e l’elaborazione
di strategie per raggiungere scopi personali. È un costrutto caratterizzato da poliedricità ed è utilizzato in
diversi ambiti: • ambito psicologico e psicoterapeutico: l’empowerment è rivolto a diminuire la dipendenza
soggetto/figura medica. • ambito pedagogico: l’empowerment è finalizzato a promuovere lo sviluppo
dell’apprendimento e la crescita individuale. • ambito sociale • ambito politico-istituzionale: una
democrazia è empowered se caratterizzata da liberalismo e socialismo.

Organizzazione empowering e lavoro in team: un’organizzazione empowering è caratterizzata da una


visione comune tra i suoi membri, un’apertura alla critica e alla discussione, supporto, dialogo,
collaborazione, equità. È basata sul lavoro in team, il quale è responsabile del lavoro che svolge e i membri
che ne fanno parte sono responsabili dei risultati ottenuti attraverso un processo di partecipazione.
Lavorare in team permette ai membri di identificarsi con la missione dell’organizzazione e si sentono parte
di essa; ogni persona è considerata come risorsa capace di accrescere le capacità produttive
dell’organizzazione.
Il potere: empowerment significa “accrescere il potere”. Il potere di un uomo consiste nei mezzi di cui
dispone oggi per ottenere un possibile bene futuro. Oggi, essere potenti è avere possesso, ed è il potere DI
invece che il potere SU che spinge l’uomo a padroneggiare la natura e plasmarla. Il potere è un fenomeno
intenzionale che produce effetti voluti ma, bisogna disporre di mezzi e risorse per condurre l’azione.
Possono esistere varie forme di potere: • potere coercitivo: si esprime per mezzo della capacità di infliggere
danni all’altro attraverso minacce. • potere di ricompensa: si esercita attraverso la concessione di beni che
consistono nella rassicurazione del mantenimento di ciò che si possiede • potere di riferimento: si basa
sull’identificazione del subordinato con l’influente • potere dell’esperto: si basa su meccanismi di
dipendenza.

8. LA LEADERSHIP
Uno degli strumenti che viene utilizzato per ridurre la distanza tra obiettivi e risultati è l’ uso della gerarchia.
Tale visione, focalizza l’attenzione sul ruolo del leader, inteso come capo ideale.
Tattiche di influenza: Come procedono:
Persuasione razionale: Il leader dimostra che una richiesta può far arrivare agli obiettivi desiderati
Ispirazione: Il leader stimola e ispira fiducia
Consultazione: Il leader desidera far partecipare i seguaci Ingraziarsi: Il leader cerca di attivare benevolenza
e fiducia su di sé
Scambio: Il leader offre tempo e lavori
Attrattiva personale: Il leader richiede di fare qualcosa in base alla relazione
Coalizione: Il leader si basa su alcuni membri della propria cerchia per convincere gli altri
Legittimazione: Posizione di autorità del leader
Pressione: Il leader si serve di ordini x ottenere il consenso.

LA LEADERSHIP: è un processo di influenza che un soggetto usa per avere un consenso volontario dal
gruppo. Si sostiene sull’adesione volontaria dei membri di un gruppo.
LA LEADERSHIP CARISMATICA: i membri del gruppo si sentono seguaci del capo, hanno fiducia in lui.
Distinzione tra leadership e funzione manageriale: Il dirigere richiede di focalizzarsi sulla pianificazione, sul
controllo e sull’assunzione di responsabilità. L’attenzione è posta sulle cose da fare. La funzione del leader
richiede di saper orientare, guidare, incoraggiare gli altri ad andare oltre la routine quotidiana e premiarli.
Dirigenti: operano sugli scopi futuri e prestano attenzione alle modalità tecniche del corretto utilizzo di
risorse operano mediante schemi, operano come problem solvers cercano di trovare soluzioni adatte per
mantenere l’ equilibrio.
I Leader: sono rivolti a immaginare e progettare diverse relazioni interne e ad affrontare nuove richieste
esterne; si focalizzano sull’ opportunità di crescita e cambiamento e strategie di innovazione. Promuovono
forme di comunicazione più adatte per operare al massimo delle loro potenzialità.

Per riconoscere e valutare una leadership sono utili i seguenti indicatori: • Tipo di prestazione conseguita
dal gruppo di lavoro sul piano qualitativo e quantitativo. • Le valutazioni dei membri del gruppo e degli altri
leader e dei superiori. • Giudizi di specialisti o consulenti esterni, che valutano i leader in determinati
compiti • Le autovalutazioni degli stessi leader.
La figura del leader Per tutto il 19 secolo, si è diffusa una concezione secondo la quale leader si nasce e non
si diventa. Galton, ha sostenuto che la qualità del leader si fonda sull’ereditarietà (alcuni uomini hanno
particolar caratteristiche genetiche in grado di condurre al successo.) Nel 1904 con Terman, si ha il primo
studio empirico sui leader. Le prime ricerche hanno cercato di rispondere alla domanda se l’ autorità del
leader fosse fondata su talenti personali innati o acquisiti. Si è poi sviluppata, una prospettiva di indagine
sui comportamenti del leader. Si sottolinearono due dimensioni della leadership: da un lato i capi orientati
verso i dipendenti, sensibili ai problemi dei loro subordinati, dall’ altro i capi erano orientati sul compito,
inerenti cioè all’attività lavorativa.

Approcci sulle contingenze situazionali: Nascono dei modelli di contingenza per lo studio della leadership:
1) Fiedler adotta un approccio per comprendere l’ efficacia dello stile della leadership in una situazione. La
situazione, viene descritta attraverso 3 fattori: il primo è dato dalle relazioni tra leader e dipendenti, cioè
clima affettivo del gruppo di lavoro; il secondo considera la precisione del compito; il terzo concerne il
potere accordato al leader dalla organizzazione. Il modello fa capire che ogni comportamento sociale,
deriva dall’ interazione tra più variabili. I comportamenti del leader, quindi, esprimono strategie di risposta
adatte in un certo contesto. 2) Anche Vroom, propone un modello di contingenza centrato sugli stili del
leader nel processo di presa delle decisioni. 3) House e Evans propongono il path- goal model, che si
propone di focalizzare la funzione di chiarificazione e motivante della leadership, rispetto agli scopi del
gruppo di lavoro. La funzione motivante del leader consiste nell’accrescere il numero e il tipo di vantaggi.
4) Hersey e Blanchard propongono il situational laedrship teheory che si basa su 3 variabili: orientamento al
compito; orientamento delle relazioni; livello di maturità dei collaboratori.
- Approcci focalizzati sulle percezioni leader-seguaci: Graen, espone il “modello dei legami verticali diadici”
di leadrship con il rapporto tra leader e subordinati. In questo ambito, una recente ricerca riguarda i
sostituti della leadership (self leadership) in cui i membri si assumono la capacità di auto direzione.

Considerazioni conclusive: Esistono qualità universali x fare il leader? Bisogna avere competenze cognitive,
psicosociali, tecniche e amministrative. Per comprendere la leadership a cosa bisogna fare attenzione? Al
contesto socio culturale. Anche i leader sono valutati dai loro subordinati o collaboratori.
Leader e ramage sono al stessa cosa? Burn fa una distinzione tra laedrship transazionale e trasformativa. I
leader del primo tipo fondano la loro capacità di influenza sul riconoscimento dei rapporti di scambio. Essi
regolano lo scambio tra collaboratori e operano attraverso la ricompensa contingente. Il secondo di
focalizza sui bisogni, atteggiamenti e significati attribuiti dalle persone al loro agire.
I leader operano in modo da aumentare nei collaboratori l impegno personale, e cioè: chiarire gli scopi,
diffondere le informazioni, assicurare risorse, coinvolgersi personalmente.
Quando un leader si mostra incapace? Il leader si dimostrerebbe incompetente se non si considerasse: 1) il
tipo di collaboratori con cui opera 2) le possibilità che l’ organizzazione gli offre di gestire il gruppo. 3)la
natura dei rapporti infragruppo 4) le proprie qualità personali apprezzabili anche dagli altri e sia quelle che
costituiscono il lato oscuro della sua personalità.

9. IL LAVORO DI GRUPPO
Per comprendere la condotta lavorativa è indispensabile collegarla alle caratteristiche del contesto sociale
oltre che tecnico, organizzativo, fisico dove le sono persone inserite. Il gruppo di lavoro è una parte
importante di tale contesto; nello stesso tempo esso è: un punto di osservazione speciale dal quale
osservare il modo di operare dei lavoratori, un microsistema sociale che si fonda su relazioni di reciprocità e
su sentimenti di appartenenza orientati al raggiungimento di scopi.
I gruppi a cui facciamo riferimento sono quelli che operano nelle organizzazioni di lavoro. Tali gruppi sono
chiamati in vario modo: squadre, reparti, dipartimenti e sono creati dall’organizzazione per raggiungere
scopi specifici, hanno in genere un responsabile. In questi gruppi predomina (almeno all’inizio) la
caratteristica di strutture per obiettivi definiti.
George e Jones articolano i gruppi formali in questo modo: -i gruppi di lavoro stabili, ovvero un insieme di
lavoratori che fanno riferimento a un capo.
-task forces: sono gruppi formati da lavoratori che vengono messi a lavorare insieme in rapporto a uno
specifico problema da affrontare e risolvere.
-team: si tratta di gruppi di lavoro con un elevato livello di interazione tra i membri e con il loro
responsabile; i membri possiedono competenze professionali pregiate.
-team autogestiti: anche in questo caso si richiede forte cooperazione e capacità di interagire, vengono
concordati i modi di eseguire le attività. Si devono considerare anche altri tipi di gruppi che emergono
nell’organizzazione, i cosiddetti gruppi informali, per legami di similarità, per interessi comuni.
Una speciale categoria di gruppi che attraversano la distinzione formale-informale è data dai gruppi
sindacali. L’appartenenza a tali gruppi è volontaria ed esprime un’aggregazione per interessi e sostiene
anche una funzione di gruppi di riferimento. Il ruolo di tali gruppi sociali sono previsti da leggi, dunque i
gruppi sindacali hanno anche un ruolo formale.
Le basi di un buon funzionamento del gruppo nella prestazione dovranno essere comprese utilizzando
criteri. Le ampie differenze fra questi tipi di compiti si comprendono in relazione a due importanti
dimensioni: il grado di interdipendenza e il carattere prevalentemente cognitivo o comportamentale del
compito.
Sembrano ormai accettate quattro grandi categorie di criteri di valutazione del funzionamento di un gruppo
di lavoro: a)quelli riferiti alla produttività ed efficienza del gruppo (ad esempio, velocità nel raggiungere il
risultato, qualità e quantità del prodotto); b)quelli concernenti le interazioni tra i membri.
c)quelli riferiti alla soddisfazione dei clienti o degli utenti del gruppo di lavoro; d)quelli connessi con il
giudizio dei responsabili dell’organizzazione.
Diviene necessario riconoscere quali siano i fattori che intervengono nel determinare gli esiti del lavoro di
gruppo, in una specifica situazione. Ne presentiamo alcuni: Dimensioni del gruppo. In genere si afferma che
l’aumento delle dimensioni del gruppo costituisce un arricchimento di risorse comuni. In realtà si devono
considerare alcune possibili conseguenze negative. L’aumento delle dimensioni comporta: difficoltà di
partecipazione e di espressione. Si ritiene che quando i membri di un gruppo hanno interessi, opinioni,
conoscenze e capacità simili esista una maggiore possibilità di far funzionare il gruppo essendo meno
problematiche le interazioni e comunicazioni reciproche.
Variabili ambientali. Accanto a queste variabili interne al gruppo si deve ricordare il peso di fattori
ambientali come le caratteristiche dell’ambiente in cui il gruppo opera. Si parla di densità sociale per
esprimere la concentrazione di persone in uno stesso ambiente. Un’eccessiva densità sociale (crowding)
risulta pertanto un fattore di insoddisfazione e di stress organizzativo che si riflette sulla produttività del
gruppo di lavoro.
Coesione e norme. Per quanto riguarda la coesione va ricordato che essa si definisce come sentimento di
attrazione tra i membri del gruppo. In genere, la coesione è più facile nei gruppi di piccole dimensioni.
Argyle sostiene che la coesione ha un effetto positivo sull’efficienza soprattutto quando il compito richiede
cooperazione e interazione sociale.
Interdipendenza. Va preso in considerazione anche il livello di interdipendenza dei compiti affrontati dal
gruppo di lavoro. Ci sono delle situazioni in cui ciascun membro deve svolgere il proprio compito in maniera
autonoma dagli altri.
Il disegno organizzativo. Poiché ci si riferisce a gruppi che sono definiti occorre considerare gli elementi
caratteristici del lavoro e della sua progettazione. Il fenomeno dell’assunzione del rischio riguarda un
problema tipico dei gruppi: quello della qualità delle sue decisioni. Il dato comune è quello di una tendenza
ad un livello diverso di rischiosità delle decisioni quando sono prese dal gruppo rispetto a quelle individuali.
L’esito finale può essere un processo decisorio distorto o anche una divisione grave del gruppo.

Il groupthink rappresenta una situazione in cui, soprattutto in presenza di pressioni, si riduce da parte del
gruppo di lavoro lo sforzo di comprendere la situazione, di cercare le informazioni corrette e di discutere
sulle possibili alternative a un certo corso di azioni, dato per scontato. Per prevenire situazioni di
groupthink si dovrebbero: a)valorizzare le forme di pensiero critico e l’impegno morale di tutti b) smontare
le dichiarazioni o le idee altrui per dimostrarne l’inconsistenza all’interno del gruppo e non emarginare chi
esprime dubbi; c)cercare comunque informazioni anche all’esterno del gruppo; d)valutare in dettaglio la
situazione e la natura del problema anche suddividendosi in sottogruppi di lavoro; e)assicurarsi che il leader
assuma una posizione di imparzialità nel processo decisionale; f)anche dopo che la decisione è stata presa
riprovare a verificare il significato di quelle scartate.

Il social loafing (ozio sociale) ha un segno opposto a quello della facilitazione sociale. Si fa riferimento al
fatto che i membri di un gruppo si impegnano di meno in un compito a cui dovrebbero contribuire tutti
rispetto a quando affrontano un compito analogo individualmente. I fenomeni di social loafing sono
correlati all’ampiezza del gruppo; pertanto evitare gruppi di lavoro di dimensioni troppo grandi può
rappresentare una buona strada per contrastare il fenomeno osservato. Il fenomeno del free-rider presenta
molte analogie rispetto al social loafing. In questo caso ci si riferisce ad un calcolo deliberato circa le
possibili tolleranze di un gruppo rispetto a un membro che evita di dare il suo contributo al bene comune
poiché ritiene che il gruppo possa funzionare ugualmente. Esso rappresenta un impoverimento delle
potenzialità produttive del gruppo.

10. IL CLIMA ORGANIZZATIVO


Il clima organizzativo, chiamato anche clima interno o clima aziendale è un tema che è stato oggetto di
molti libri a partire dalla metà degli anni ’60. Il clima può essere considerato come un insieme di percezioni
condivise tra loro relative alla realtà lavorativa, cioè il modo in cui i soggetti percepiscono l’azienda.
Le organizzazioni non sono fatte solo di norme e strutture: esse sono fatte di stati d’animo, emozioni, climi.
Sono cioè un fatto psicologico, soggettivo. Il concetto di clima è messo in relazione alla soddisfazione
lavorativa e alle caratteristiche che distinguono un’organizzazione da un’altra, che sono durevoli nel tempo
e che influenzano il comportamento lavorativo dei soggetti coinvolti. I climi organizzativi sono dei costrutti
mentali, concetti astratti per migliorare il benessere dei loro utenti.
Vi sono tre fasi nella costruzione e nello sviluppo di costrutti come quelli di clima:
1)introduzione ed elaborazione del concetto di clima nella cultura organizzativa
2)la valutazione e la sperimentazione del concetto di clima
3)il passaggio alla routine, cioè all’uso quotidiano del costrutto inventato e sperimentato.

Le due categorie su cui si basano le ricerche riguardanti il clima derivano dagli studi della scuola della
Gestalt e del Funzionalismo. I gestaltisti affermano che le persone tentano di apprendere l’ordine che
oggettivamente esiste nel loro ambiente e di crearne uno nuovo attraverso il pensiero, mentre i
funzionalisti sostengono che le persone apprendono e/o tentano di creare un ordine nel loro ambiente in
modo da poter adattare a esso il loro comportamento. I funzionalisti sottolineano la funzione adattiva del
comportamento umano. Sinteticamente si può dire che ciò che più distingue le due scuole tra di loro è la
diversa concezione dell’uomo rispetto al proprio ambiente: secondo la Gestalt Theorie, l’uomo deve
apprendere e cercare un ordine nel mondo che lo circonda, perché non ha altra scelta; per i funzionalisti,
invece, egli crea un ordine per poter sopravvivere in equilibrio omeostatico con l’ambiente.

Contributo della teoria generale dei sistemi:


Fino agli inizi degli anni Sessanta, la psicologia sociale e la sociologia soffrivano della mancanza di un
linguaggio comune. Mentre la psicologia sociale non si era occupata quasi per niente del livello
organizzativo e istituzionale, la sociologia si occupava principalmente del livello collettivo. Questa lacuna è
stata superata grazie alla teoria generale dei sistemi, la quale ha fornito una nuova logica, che va oltre il
modello dell’analisi causale solitamente associata alle scienze fisiche, senza tuttavia porsi come rigorosa
teoria per far previsioni. L’introduzione di questo nuovo concetto rappresentò una svolta fondamentale: le
concezioni statiche e specifiche degli psicologi sociali e delle organizzazioni si trasformarono in interessi più
generali e dinamici verso un’organizzazione considerata nella sua totalità come un sistema aperto.
Katz e Kahn hanno adattato la teoria generale dei sistemi alle organizzazioni, egli sostengono che le
organizzazioni possono essere considerate una speciale categoria di sistemi aperti che importano energia
dall’ambiente esterno e la trasformano svolgendo un lavoro. Il prodotto di questo lavoro viene
successivamente inviato all’esterno e ciò permette la ripetizione del ciclo delle attività del sistema il quale
può di nuovo importare energia. Fondamentali sono le informazioni provenienti dall’esterno, in particolare
la retroazione di tipo negativo che consente al sistema di autocorreggersi. L’ultima caratteristica è quella
che si basa sul principio di equifinalità, secondo la quale un sistema può raggiungere lo stesso stato finale
partendo da diverse condizioni iniziali e percorrendo strade diverse.

Il concetto di clima: il termine “clima” possiede due accezioni fondamentali: il significato originale si
riferisce alla metereologia, mentre quello metaforico alla psicologia sociale. Questo concetto, una volta
trasferito in campo psicosociale, sta di nuovo ad indicare un fenomeno che si manifesta in modo
relativamente stabile, all’interno di un determinato gruppo di individui, attraverso “condizioni socio-
psicologiche” che caratterizzano il gruppo stesso. Clima psicologico e clima organizzativo sono due cose
distinte. Proprie del clima psicologico sono le descrizioni individuali di pratiche e procedure organizzative,
così come caratteristiche del clima organizzativo sono le descrizioni collettive dell’ambiente: in un caso la
dimensione è individuale, nell’altro è di gruppo. Il clima psicologico non è altro che la percezione del clima
organizzativo, ed è, insieme a quest ultimo, alla base della determinazione di una discrepanza che si crea,
appunto, fra clima psicologico e clima organizzativo.

Come rilevare il clima organizzativo: La rilevazione del clima organizzativo è paragonabile a un check-up
diagnostico: si rilevano e misurano diversi indicatori allo scopo di ottenere un quadro della situazione. Il
clima organizzativo si riferisce alla dimensione condivisa della percezione e ai fattori comuni che la
rappresentano. Siccome il clima è un fenomeno percettivo, dovranno essere assenti dalla misurazione le
seguenti variabili oggettive: assenteismo, ritardi, incidenti. La rilevazione viene condotta facendo uso di
questionari standard oppure espressamente costruiti. In ultima analisi, per essere veramente efficace una
rilevazione dovrebbe includere tutti i dipendenti senza distinzioni.

11. LO STRESS
Si parla di stress dal 1936. Lo stress appare come una risposta difensiva non specifica dell’organismo alle
pressioni ambientali e, secondo questa prospettiva appare come una risposta adattiva, sia fisiologica che
psicologica, suscitata da una gran quantità di stimoli. Lo stress, quindi, è visto come: “una risposta non
specifica dell’organismo ad ogni richiesta”, intendendo come “risposta non specifica” un insieme di
modificazioni che intervengono nell’organismo quando deve affrontare situazioni nuove.
Un concetto fondamentale nella teoria dello stress è quello di “difesa”. Quando una persona intuisce una
mancanza di equilibrio tra richieste e risorse, intraprenderà delle azioni che ripareranno la situazione.
La difesa consiste negli sforzi che si attuano per controllare richieste che determinano un peso, può essere
di tipo cognitivo, comportamentale, o una combinazione delle due.

Stress e società: Il concetto di stress è in stretta relazione con il concetto di crisi, definito come uno stato
temporaneo di turbamento e disorganizzazione, caratterizzato da un’inabilità a fronteggiare una situazione
utilizzando i metodi abituali di risoluzione dei problemi. Ultimamente alcuni ricercatori hanno permesso di
riflettere su come il sostegno funga da moderatore delle conseguenze degli stress: Il supporto sociale
determina il miglioramento della stima di sé, permettendo un superamento della solitudine.
Una delle risorse che sembra diminuire l’azione dello stress è il senso dell’umorismo, un’altra risorsa è
quella che Fisher definisce barriera: quando le risorse sono abbastanza in equilibrio lo stress è minimo; se
l’equilibrio diminuisce poiché sono in aumento le richieste o le risorse necessarie diminuiscono, allora si
origina lo stress. Le richieste possono essere: esterne, riguardanti l’ambiente circostante, o interne,
determinate dalle mete desiderate.
Stress e lavoro: Gli stress che più caratterizzano il lavoro riguardano: mancanza di sbocco per gli interessi
dell’individuo, assenza o eccesso di stimolazione rispetto alle sue capacità, retribuzione economica
inadeguata, troppo o poco lavoro, difficoltà nel rapporto con i colleghi o i capi e infine una forzata
disoccupazione. In ambito lavorativo occupa un ruolo basilare la motivazione alla scelta professionale.

12. IL BURNOUT
La sindrome del burnout è caratterizzata da esaurimento fisico, sentimenti di impotenza e disperazione e
dallo svilupparsi di un concetto di sé negativo e di negativi atteggiamenti verso il lavoro, la vita e gli altri.
Questa frustrazione porta a uno stato di perenne fatica, dubbi sull’utilità e sul significato del proprio lavoro
che si concretizza in un distacco dagli utenti e dal proprio lavoro.
Il burnout è riscontrabile nelle professioni d’aiuto che implicano un alto impegno emotivo.
La sindrome del burnout indica una particolare modalità di risposta allo stress lavorativo e utilizza difese
psicologiche intrapsichiche, invece di utilizzare metodi che comportino una soluzione attiva del problema. Il
burnout è definito come il risultato di una costante o ripetuta pressione emotiva associata ad un intenso
coinvolgimento con persone per lunghi periodi di tempo.
Teorie sullo studio del burnout: Si considerano principalmente quattro modelli teorici di riferimento per
quanto riguarda la sindrome del burnout:
1)Modello competenza/efficacia, in cui il burnout non è una conseguenza inevitabile, ma è soprattutto una
funzione della percezione della propria capacità di agire sull’ambiente e far fronte ai cambiamenti
2)Modello psico-sociale, che interpreta il burnout come un processo nel quale un individuo dispone di
scarse strategie (coping) di interazione positiva con la realtà lavorativa, ed il burnout costituirebbe una
sorta di adattamento.
3)Modelli psicodinamici, che spiegano la sindrome del burnout rifacendosi a Freudemberger, l’autore
sostiene che le persone affette da burnout sono caratterizzate da un elevato livello di autostima, introdurre
il termine worm-out, che descrive individui come persone esaurite, esauste, le quali solitamente vengono
etichettate come burnout. In realtà i soggetti affetti da questa sindrome sarebbero coloro che continuano a
lavorare e a perseguire i loro obiettivi in situazioni di stress cronico, come una specie di martirio.
4)Modelli psico-sociologici, danno importanza ai fattori economico-strutturali, mettendo in luce come le
ricerche sullo stress e il burnout trascurino le relazioni tra organizzazione sociale ed esperienza soggettiva
dell’operatore.

Burnout: gestione e prevenzione. Il prezzo del burnout può essere molto alto ma fortunatamente ci sono
dei metodi più costruttivi, ciascuno dei quali prende di mira uno dei tre aspetti principali della sindrome del
burnout: a)ridurre le tensioni emozionali del lavoro con la gente; b)compensare la visione negativa della
gente c)potenziare il senso di realizzazione personale e di autostima dell’individuo.
Ciascun metodo richiede pazienza e pratica non esistono soluzioni rapide e facili al problema.
Le tecniche di gestione del burnout operano su vari livelli: individuale, sociale ed istituzionale.
La prima tecnica di gestione riguarda l’importanza di lavorare meglio anziché di più, effettuando
cambiamenti nel modo di gestire il lavoro. Per fare questo esistono molti modi: inizialmente l’operatore si
deve porre degli obiettivi realistici. Una seconda tecnica riguarda la capacità di fare la stessa cosa in modo
diverso: può variare la routine e avere un maggiore controllo sul lavoro. Lo stress derivante dal lavoro con
la gente può essere ridotto prevedendo delle pause o dei periodi di riposo a intervalli regolari.
Le tecniche che favoriscono il benessere fisico e psicologico possono aiutare molto l’allontanamento delle
conseguenze negative del burnout, insegnando all’operatore come aver cura di se stessi oltre che degli
altri. La prima strategia richiede di accentuare i lati positivi: mettere in risalto ciò che c’è di buono,
bilanciando frustrazione e fallimento con soddisfazione e successo. Includere alcuni momenti positivi del
contatto con la gente può allontanare le esperienze negative che sorgono quando si ha a che fare con i loro
problemi.
I sintomi dello stress sono segnali che il sistema è sovraccarico: il dolore comunica qualcosa che non va e lo
stress invia lo stesso messaggio. Occorre imparare ad ascoltare quello che dice il corpo. Portare nella vita
domestica il burnout può essere molto rischioso e per evitarlo bisogna tracciare i confini, pensare al lavoro
e alla casa come a due ambienti diversi.
Le persone che lavorano in ambienti a elevata pressione emozionale hanno bisogno di una
decompressione. La decompressione consente alla persona di scaricarsi, rilassarsi e lasciare il lavoro alle
spalle prima di entrare in pieno coinvolgimento con la famiglia. All’individuo servono momenti di solitudine
e di compagnia, come ad esempio avere un hobby. È consigliato parlare di qualsiasi cosa purché sia
piacevole, molte ore libere sono passate in compagnia di altri, che sono alleati importanti contro il burnout
poiché sono una fonte di sostegno. Se nonostante ogni sforzo la situazione di lavoro non migliora, è
necessario avvertire l’importanza di cambiare lavoro. Il luogo di lavoro e le persone con cui si lavora
possono essere fattori negativi nel burnout, ma possono anche avere un potenziale positivo di prevenzione.
Le persone possono fornire molte cose che l’individuo non può procurarsi da solo: informazioni, differenti
punti di vista, insegnamento di nuove capacità, sostegno emozionale e aiuto di vario genere. Le persone
che più possono fornire aiuto sono i colleghi, di cui non bisogna sottovalutare le capacità, poiché possono
essere la più valida risorsa di sostegno attraverso meccanismi formali o ufficiali. I colleghi rappresentano
una posizione ottimale per valutare l’operato del singolo, ma permettono anche di dare un feedback
immediato e significativo. Anche l’umorismo è una tecnica utile per ridurre la tensione.
L’elemento chiave tuttavia perché ciascuno possa manifestare i propri sentimenti e problemi è la fiducia.
Un gruppo di sostegno funziona meglio se possiede un leader, è necessaria una figura che dia un sostegno
ed una guida. Un altro suggerimento riguarda la modifica della procedura operativa, ponendo una
maggiore suddivisione del lavoro in modo da renderlo più vario ed interessante. Anche la rotazione del
lavoro può riequilibrare un lavoro con un altro. Quindi il successo nei cambiamenti è possibile solo se le
persone agiscono come gruppo, tuttavia anche i superiori sono un’altra fonte importante di aiuto e di
guida.
La prevenzione è fondamentale, bisogna impiegare le soluzioni proposte prima che il problema compaia.
Un altro punto è quello riguardante il fatto che bisogna affrontare il burnout quando l’individuo percorre le
fasi di formazione ed è ancora aperto al cambiamento. Un ulteriore suggerimento di prevenzione viene
dato riguardo la formazione di gruppi di sostegno sociale che insegnino alle persone che stanno iniziando
una carriera le strategie proposte.

12. IL MOBBING
Il termine Mobbing il cui significato è “accerchiare”, venne utilizzato per la prima volta dall’etologo Lorenz
per descrivere un tipo di comportamento animale che si verifica quando un gruppo di uccelli assale altri
volatili per allontanarli dal loro nido. Per Mobbing si intendono tutte quelle azioni ostili, quelle violenze,
quelle persecuzioni psicologiche ai danni di un lavoratore con l’unico scopo di estrometterlo dal mondo del
lavoro. Il mobbing è un fenomeno dinamico che si manifesta attraverso molteplici comportamenti, ma che
ovunque ha lo stesso scopo: eliminare una persona che è divenuta scomoda. L’ambiente lavorativo spesso
è la vera causa del mobbing. Di fondamentale importanza è inoltre il ruolo della comunicazione. Molte
strategie di mobbing sono basate su una comunicazione patologica tra emittente e ricevente.
È possibile fare una prima classificazione del mobbing:
Mobbing verticale: si intende il mobbing che parte dai superiori verso i subordinati. Mobbing orizzontale: è
quello che si viene a creare tra colleghi, che rivestono un uguale ruolo gerarchico all’interno
dell’organizzazione. Spesso si trova in concomitanza col mobbing verticale e talvolta lo va ad alimentare:
colleghi in conflitto “fanno la spia” ai superiori su veri o presunti comportamenti errati della vittima.
Mobbing ascendente: viene perpetuato dai lavoratori nei confronti di un loro diretto superiore.
Le strategie utilizzate dai mobbers consistono nell’isolamento della vittima, il circolare di voci negative nei
suoi confronti fino ad arrivare ad atti di sabotaggio.
Leymann ha distinto il fenomeno in 4 fasi successive attraverso cui si sviluppano le condotte di mobbing:
Prima fase: conflitto quotidiano. Il conflitto a questo livello consiste in attacchi, scherzi e meschinerie, che
se non adeguatamente affrontate possono dare origine a una situazione di mobbing.
Seconda fase: L’inizio del mobbing e del terrore psicologico Questa fase è definita anche “maturazione del
conflitto”: si delineano i ruoli del mobber e della vittima.
Terza fase: Errori ed abusi anche non legali da parte dell’Amministrazione. La situazione di disagio ormai è
talmente evidente che diventa di pubblico dominio. Il mobbizzato spesso non trova la forza o i mezzi
necessari a difendersi. Si provvederà a “eliminare” il mobbizzato.
Quarta fase: L’esclusione dal mondo del lavoro è l’epilogo di questo lungo processo che vede
l’estromissione della vittima dal mondo del lavoro.

Il fenomeno del mobbing vede coinvolte tre categorie di persone: -il mobbizzato, cioè colui che subisce il
mobbing, è il soggetto che subisce le aggressioni e le persecuzioni in modo continuato -il mobber, cioè colui
che mette in atto le azioni mobbizzanti ai danni di un collega o di un subordinato -gli spettatori, che sono
coloro che assistono al mobbing, non sono direttamente coinvolti ma ne sono testimoni.

La prima arma per combattere il mobbing è la formazione: essa mira a sensibilizzare i lavoratori, la classe
dirigenziale e l’intera società sui rischi del fenomeno. Manager e dipendenti che sanno riconoscere i primi
sintomi del terrorismo psicologico, costituiscono la migliore forma di prevenzione contro il progressivo
degenerare dei conflitti sul luogo di lavoro.

Il Bullying. Il Bullying si configura propriamente come una serie di azioni messe in atto dal “bullo”, colui che
si fa grande all’interno di una compagnia per la sua prepotenza. A differenza del mobbing che avviene
esclusivamente nell’ambiente di lavoro, il bullying è un fenomeno che si manifesta per lo più nelle scuole
(bullismo). Esso non si manifesta solo attraverso violenze psicologiche ma spesso scade in atti ostili
materiali come vandalismi, aggressioni e danni materiali.
Il Bossing. Il Bossing è una forma di mobbing verticale praticata da dei superiori nei confronti di uno o più
dipendenti. È una pratica molto diffusa per cercare di tagliare parte del personale senza “dare nell’occhio”.
La vittima subirà danni economici, dovuti alla perdita del posto di lavoro.
Le molestie sessuali. Le molestie sessuali non sono mobbing ma vi sono legate per una serie di circostanze.
Per molestie sessuali si intende una serie di comportamenti di avvicinamento a scopo sessuale portate
avanti da una persona verso un’altra che non gradisce affatto questo tipo di contatto. Nella stragrande
maggioranza dei casi sono i maschi a mettere in atto questi comportamenti ai danni di vittime femminili. La
molestia sessuale può costituire un preambolo o entrare a far parte di una strategia di mobbing.
I conflitti quotidiani. Bisogna esserecauti nel non confondere una forma di disagio o conflitto normale con i
sintomi del mobbing: si parla di mobbing solo in presenza di persecuzioni sistematiche e documentate.
Questi singoli episodi non fanno parte del mobbing. Essi tuttavia sono ugualmente pericolosi, perché non
vengono adeguatamente affrontati possono dar origine ad un clima organizzativo che è la situazione alla
base del mobbing

14. IL TERZO SETTORE


Il Terzo Settore (il primo è lo stato ed il secondo il mercato) fa la sua comparsa in Italia verso la fine degli
anni Ottanta ed indica pratiche e soggetti organizzativi di natura privata, ma volti alla produzione e
allocazione di beni e servizi a valenza pubblica. Il Terzo settore è collegato a tutti e tre i sottosistemi della
società. Nel corso del tempo avviene il passaggio ad uno stato in cui soddisfatti i beni precedenti, li si
sostituisce con i cosiddetti “beni posizionali”, ossia legati alla posizione sociale della persona. La
competizione posizionale distrugge anziché creare. La soluzione ottimale per Zamagni, non può che essere
nella produzione di un’altra categoria di beni, che sono i beni “relazionali”. Questi sono in grado di mettere
in difficoltà i beni posizionali; ed è qui che entra in campo il Terzo settore, poiché le sue organizzazioni
hanno come elemento qualificante la caratteristica di produrre beni relazionali.
Possiamo così giungere a definire le caratteristiche strutturali delle organizzazioni di terzo settore:
Formale, l’organizzazione deve essere istituzionalizzata, cioè deve godere di una certa stabilità e durata nel
tempo, di organi di governo e gestione, di norme e ruoli e di un certo grado di visibilità sociale.
Privato, le organizzazioni di Terzo settore devono legalmente avere natura privata e pertanto la capacità di:
esprimere il proprio gruppo dirigente e di impiegare le proprie risorse economico-finanziarie, divieto di
distribuire i profitti.
Autogoverno, le organizzazioni di Terzo settore devono essere strutturate internamente in modo da poter
esercitare una funzione di controllo sulle proprie attività.

Si possono delineare delle funzioni generali:


Specializzazione e flessibilità: Le organizzazioni del Terzo settore si caratterizzano per essere solitamente di
piccole dimensioni e di forte radicamento nel territorio, questo facilita notevolmente la piena condivisione
tra i suoi partecipanti di valori.
L’Azione di Consumerism: ovvero una azione di difesa e tutela dei diritti degli utenti promuovendo cause
sociali e significative.
L’Azione di Public Agent. La produzione e la vendita di un determinato servizio al soggetto pubblico che
rinuncerà ad erogarlo direttamente. Lo Stato ottiene sicuri vantaggi nel momento in cui acquista il servizio
delle organizzazioni del Terzo settore: risparmia risorse.
L’Azione di Pioneering role. Ossia la funzione di innovazione e di sperimentazione d’avanguardia e quella
critica al servizio pubblico.
L’Azione di Informazione e di Consulenza. Attività che le organizzazioni del Terzo settore possono
esercitare nei confronti degli utenti.

Si possono indicare le organizzazioni che rientrano nel Terzo settore oggi in Italia: Volontario organizzato;
Associazionismo sociale; Cooperazione sociale; Mutualità; Fondazioni.
Il Terzo Settore è una realtà estremamente interessante che è entrata nel paesaggio economico e sociale
soprattutto nei Paesi ad economia avanzata. Da un lato il Terzo settore è uno spazio di espressione della
soggettività dei singoli e dei gruppi, dall’altro è uno strumento di cui la società può favorire il
rafforzamento, e di cui può servirsi in vista della migliore soddisfazione delle esigenze dei cittadini.

Il quadro legislativo: L’ordinamento giuridico italiano non presenta una disciplina univoca del Terzo settore.
In Italia il sistema di regolazione del Terzo settore attualmente vigente è costituito da un insieme di
interventi legislativi che hanno avuto origine da esigenze contingenti. Le tre leggi basilari sono: la legge
266/91 sulle organizzazioni di volontariato; la legge 381/91 sulle cooperative sociali; la legge 460/97 sulle
ONLUS. Uno dei cardini del corpus legislativo che regola le attività del Terzo Settore è rappresentato dalla
legge quadro 266/91, grazie alla quale le organizzazioni di volontariato hanno potuto assumere una forma
giuridica. I requisiti fondamentali dell’attività di volontariato, così come definito dall’articolo 2, sono:
l’assenza di fini di lucro; l’impegno personale, spontaneo e gratuito dei volontari; lo svolgimento di attività
volte al perseguimento della solidarietà sociale.
Per quel che riguarda le cooperative sociali, il loro scopo prioritario è il perseguimento dell’interesse
generale della comunità all’integrazione sociale dei cittadini, tale finalità, in quanto solidaristica, le
distingue dalla tipologia classica delle cooperative volte al perseguimento degli interessi dei soci.
La legge 381 prevede due forme alternative di attività da svolgere per conseguire le finalità: la gestione dei
servizi socio-sanitari ed educativi, propria delle cooperative di tipo A; lo svolgimento di attività agricole,
industriali, commerciali o di servizi finalizzate all’inserimento lavorativo di persone svantaggiate, riservata
alle cooperative di tipo B.
La prima categoria di attività deriva dall’esigenza di assicurare assistenza alle persone svantaggiate; la
seconda nasce dalla necessità di promuovere l’inserimento di persone svantaggiate nel mondo del lavoro.

(ONLUS) Organizzazioni non lucrative di utilità sociale sono tutte quelle associazioni, fondazioni,
cooperative o altri enti di carattere privato che svolgano attività in uno o più dei seguenti settori: assistenza
sociale e socio-sanitaria; beneficienza; sport dilettantistico; promozione della cultura e dell’arte; tutela dei
diritti civili. Le condizioni sono: l’esclusivo perseguimento di finalità di solidarietà sociale, il divieto di
svolgere attività diverse da quelle sopra indicate, eccetto quelle direttamente connesse; divieto di
distribuire anche in forma indiretta utili o avanzi di gestione di qualsiasi tipo; l’obbligo di utilizzare gli utili e
gli avanzi di gestione per la realizzazione delle attività istituzionali e connesse ecc.

La Cooperazione Sociale. All’interno del Terzo settore si pone la cooperazione sociale, prende corpo a
partire dalla fine degli anni sessanta. Anni questi caratterizzati da due importanti avvenimenti: il Concilio
Vaticano II e il movimento di protesta degli operai e degli studenti del ’68. Tutto ciò contribuisce a creare
una nuova cultura della responsabilità. Si parla di solidarietà e nascono associazioni e gruppi di volontariato
e da questi, spesso solo per risolvere problemi di tipo amministrativo e gestionale, si sviluppano nel
territorio nazionale le prime Cooperative di Solidarietà Sociale. Con gli anni ottanta la crisi economica
evidenzia ancor più la crisi dello Stato Sociale e costringe a ridurre drasticamente le nuove assunzioni nel
pubblico impiego. Così la cooperazione di solidarietà sociale vive un ulteriore sviluppo determinato
dall’affidamento di servizi socio sanitari ed educativi da parte degli enti pubblici, impossibilitati a gestirli con
proprio personale. Solo dall’inizio degli anni novanta, con l’indiscutibile limite del “tutto pubblico”, la
cooperazione sociale acquista credibilità. Comincia così ad essere considerata da tutti una valida e credibile
formula sia nell’inserimento lavorativo di cittadini svantaggiati che nell’erogazione di servizi socio sanitari
ed educativi. Ogni cooperatore è chiamato a migliorare sempre e la cooperativa ha come obiettivo favorire
il costante miglioramento e l’intesa fra tutte le persone che ne fanno parte. Orientarsi alla persona
comporta essere in grado di fornire ad una certa categoria di soggetti la gamma completa di servizi,
accumulando le conoscenze necessarie per garantire risposte adeguate.
Per la cooperazione di solidarietà sociale il volontariato rappresenta un valore ed una componente
essenziale. In una cooperativa la posizione naturale del lavoratore è quella di socio. La cooperazione sociale
deve avere la capacità di: promozione dell’utenza promozione del lavoro; promozione del volontariato;
promozione di una cultura solidale ed imprenditorialità sociale.

Il Volontariato. Si deve riconoscere che l’aver istituzionalizzato a livello societario un insieme di


organizzazioni non profit, solidaristiche, sotto l’accezione “volontariato” è caratteristica propria del nostro
paese. Ovviamente, le pratiche di “azione volontaria”, gratuita, non sono sconosciute negli altri paesi, ma
non si sono differenziate al punto da dare vita a un insieme autonomo e identificabile in modo unitario.
Melief propone di distinguere due principali ambiti concettuali: a)quello legato al concetto di volontario e
azione volontaria; b)quello che ruota attorno al concetto di organizzazione volontaria.
Il primo ambito si riferisce all’agire di un individuo che senza esserne obbligato svolge un compito a favore
di un’altra persona o di una collettività o di una causa, senza essere retribuito per il tempo e il lavoro
offerto.
Un’altra distinzione è quella che raggruppa le organizzazioni di volontariato in base alle direzioni d’impegno
dei volontari. Ardigò ne propone almeno tre: a)verso singole persone (tossicodipendenti, handicappati,
barboni ecc..); b)verso gruppi caratterizzati da una “comunanza culturale” in crisi (gruppi di famiglie,
vicinati, comunità immigrate ecc.); c)di supplenza verso sistemi sociali parziali (in gran parte settori della
pubblica amministrazione).

15. LA PSICOLOGIA DELLA SALUTE E DELLA MALATTIA


La psicologia della salute può essere definita come l’insieme dei contributi specifici della disciplina
psicologica, finalizzata alla promozione e mantenimento della salute, alla prevenzione e trattamento della
malattia. Il fattore più importante che ha dato vita a questo nuovo settore è il cambiamento nel tipo di
malattie cui si sta man mano assistendo: disturbi di tipo acuto.
La psicologia della salute può essere intesa quindi come un campo integrato di conoscenze che mirano al
mantenimento della salute, alla prevenzione della malattia e all’adattamento ad essa. Studia questi
problemi e promuove interventi per aiutare le persone sia a star bene che a far fronte alla malattia, si
interessa alla promozione della salute e al suo mantenimento, alla prevenzione e al trattamento delle
malattie.
Vari sono i modelli psicologici per spiegare il rapporto comportamento-salute:
a)il modello delle credenze sulla salute. Secondo questo modello la probabilità che una persona adotti un
determinato comportamento rilevante per la sua salute dipende da: 1)dal fatto che ritenga di essere
personalmente suscettibile al rischio di contrarre la malattia; 2)dalla percezione della gravità delle
conseguenze che ne deriverebbero.
b)La teoria della motivazione a proteggersi. Secondo questo modello la motivazione a proteggersi da un
pericolo dipende in maniera diretta da quattro credenze.
c)La teoria dell’azione ragionata e del comportamento pianificato. Secondo il modello la determinante
immediata di un certo comportamento è l’intenzione di attuare un determinato comportamento.
d)La rappresentazione mentale della malattia. Secondo questo modello sono in modo particolare le teorie
implicite dei pazienti circa la propria malattia a mediare le risposte comportamentali riguardo a questo
problema. La rappresentazione della malattia comprende quattro componenti: 1)la sua identità; 2)le cause
implicate; 3)il decorso; 4)le conseguenze attese.
e)Un modello integrato. Questo modello, elaborato recentemente, analizza in modo specifico i fattori socio
psicologici che agiscono come mediatori tra gli imput sociali e le conseguenze sulla salute.
f)Le rappresentazioni sociali della salute e della malattia. Sono credenze proprie del senso comune sulla
salute e la malattia che non derivano dall’ignoranza, ma sono costruite attivamente in uno sforzo di
interpretare e di dare un senso all’esperienza di malattia delle persone.

Guardare alla malattia da sani o da malati ha le sue differenze. Se per chi opera nel mondo sanitario la
malattia è spesso solo un nemico da combattere, per l’ammalato essa è qualcosa di più: una esperienza
nella quale è pienamente immerso, con cui si deve fare i conti e a volte imparare a convivere.
Diverso è l’atteggiamento di colui che sente di essere malato. Qui tutta la sua persona ne è coinvolta e tutta
la sua vita ne subisce profondi cambiamenti. Nella malattia acuta un individuo passa all’essere sano a
diventare paziente.

La Psicologia del Malato: Il comportamento umano è influenzato da parecchi fattori riconducibili alla
personalità dell’individuo. Anche il comportamento dell’individuo malato è frutto di un gioco di fattori
legati alla persona (personalità), alla malattia che sta vivendo (situazione) e al tipo di struttura e di relazioni
in cui il malato si trova coinvolto (ambiente fisico e sociale). Qualsiasi tipo di malattia provoca reazioni non
solo biologiche, ma anche psicologiche. La malattia interrompe e disorganizza l’abituale ritmo di vita, mette
in crisi i rapporti con il mondo in cui l’individuo vive, è una situazione che modifica o fa perdere i ruoli
familiari e professionali.
Malattie non particolarmente gravi suscitano, però, a volte reazioni emotive imponenti e, viceversa,
malattie molto serie possono non avere nel malato reazioni corrispondenti. Queste differenze di reazioni
possono in parte essere spiegate in base al modo in cui il paziente percepisce la malattia, al valore che gli
attribuisce. Questi di seguito sono i significati di pericolo, di ostacolo e di perdita.
a)pericolo e paura. La malattia stessa, la novità dell’ambiente ospedaliero, l’intervento diagnostico o
terapeutico, il dolore immaginato, rappresentano in se stessi delle minacce per l’equilibrio psichico
dell’individuo.
b)Perdita e depressione. La malattia viene spesso vissuta come “perdita” e la reazione emotiva che ne
consegue va dalla tristezza alla depressione. Il paziente può assumere un atteggiamento passivo che gli
impedisce di aderire nel modo migliore alla terapia.
c)Ostacolo e collera. La malattia ostacola, in modo più o meno grave, desideri e progetti personali e rende
più difficoltosa la soddisfazione dei propri bisogni. Maslow ha classificato i bisogni che interessano le
persone in modo gerarchico: da quelli fondamentali per la vita a quelli più elevati e che potremmo definire
“spirituali”. Egli ritiene che l’individuo possa passare al livello successivo solo quando ha soddisfatto
abbastanza bene i bisogni del livello precedente.
La scala dei bisogni di Maslow si è rivelato un modello utile per capire quali siano le esigenze del malato,
soprattutto a livello psico sociale, e per cogliere come e perché la malattia e l’ospedalizzazione siano
situazioni frustranti. Analizziamoli brevemente: 1)I bisogni fisiologici. Ricordano la sopravvivenza
dell’individuo e comprendono la fame, la sete, il riposo, la sedazione del dolore, il mantenimento della
salute. 2)Bisogno di sicurezza. È il bisogno psicologico fondamentale e si esprime nella ricerca di familiarità,
di stabilità, di controllo. 3)Bisogno di appartenenza e di amore. Il bisogno di appartenenza e di affetto, di
essere accettato ed amato. 4)Bisogno di stima e di considerazione. Il bisogno di stima viene soddisfatto se ci
sentiamo persone competenti, utili, apprezzate dagli altri. 5)Bisogno di sentirsi realizzati. Il bisogno di
realizzarsi è certamente il bisogno più alto ed è il bisogno di fare ciò che si è adatti a fare. Il malato spesso
non se la prende con la malattia ma con gli operatori sanitari o con i familiari, che diventano dei veri e
propri capri espiatori. Certi comportamenti aggressivi hanno una importante funzione difensiva: sono cioè
dei meccanismi di difesa che il malato mette in atto per mantenere un certo controllo della situazione.
I meccanismi di difesa sono di vario tipo: a)Spostamento e proiezione. b)Regressione. È il ritorno a
precedenti stadi dello sviluppo psicologico, sia a livello cognitivo che comportamentale ed emotivo.
c)Negazione. È un importante meccanismo di difesa dell’Io che si riscontra molto frequentemente anche
nell’individuo malato. Consiste nel negare la realtà di un fatto doloroso o ansiogeno.
Far fronte alla malattia. Il tipo di reazione alla malattia non dipende solo da meccanismi di difesa che
hanno la loro matrice nel regno dell’inconscio ma da tutta una serie di atteggiamenti che l’interessato può
adottare e che manifestano un suo stile di affrontare (stile coping) la malattia.
Il coping può essere distinto in due fasi sequenziali: la fase valutativa centrata sui processi cognitivi di
attribuzione di significato alla malattia; la fase esecutiva centrata sui comportamenti adottati dal soggetto.
Particolare rilievo ha il significato alla malattia. Essa può infatti essere vista come minaccia ma anche come
sfida, come nemico ma anche come sollievo.

Il malato che muore. In questo ambito si parla della domanda di eutanasia: una specie di fuga in avanti, un
tentativo di negare la sconfitta, un riprendersi in qualche modo il potere sulla morte, decidendo almeno di
fissarne l’ora. Ma la domanda di eutanasia può venire da altre strade, ad esempio può essere una risposta
disperata ad una sofferenza ritenuta insopportabile.
Di fronte alla morte si possono notare, nel malato, un insieme di emozioni e di reazioni comportamentali.
La maggior parte dei malati reagisce alla consapevolezza di avere una malattia mortale con espressioni di
negazione e di rifiuto. C’è poi un momento di particolare sofferenza che il malato morente deve affrontare
per prepararsi alla sua ultima separazione da questo mondo: è il momento della tristezza e della
depressione per le perdite subite.
Pian piano il malato, se ne ha avuto il tempo ed è stato adeguatamente accompagnato e aiutato nel suo
cammino emotivo, mostra atteggiamenti di accettazione della realtà: un prendere atto della realtà, un
adattarsi alla situazione.
Il cammino del malato morente non segue sempre questi passaggi perché ogni malato ha un suo modo di
reagire di fronte alla morte. È la paura la principale emozione che il malato morente vive e dalla quale si
difende: paura dell’ignoto, della solitudine e dell’abbandono ecc.
La morte viene vissuta innanzitutto come separazione. Il malato che sta morendo ha bisogno di sentirsi
collegato, di trovare un senso alla sua vita anche nel momento del morire e di trovare una risposta al suo
desiderio di immortalità. La sua sofferenza più grande è quella di essere lasciato solo, di sentirsi scollegato
e, pian piano, abbandonato.

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