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DIRITTO PROCESSUALE CIVILE 14 CFU LIBRO 1° – PARTE GENERALE


CAPITOLO 1°- LA GIURISDIZIONE
Ad ogni diritto si accompagna il potere di tutelarlo in giudizio. Il diritto processuale civile è una
serie di regole per poter agire in giudizio e tutelare un proprio diritto. Tale tutela è chiesta ad un
giudice del nostro ordinamento, ed è prevista dall’art. 24 Cost., co.1, il quale recita : <<tutti
possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi>>.
Chi può agire in giudizio è il proprietario del diritto o dell’interesse legittimo. E’ per questo che il
diritto processuale civile è retto dal PRINCIPIO DELLA DOMANDA : chi vuol far valere un diritto in
giudizio deve proporre domanda al giudice competente; il giudizio civile non inizia senza
proposizione della domanda.
L’azione è la proposizione di tale domanda.

Art.25 Cost., co.1 : <<Nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge>>.
Ciò significa che l’ordinamento deve predeterminare il giudice prima ancora che sia iniziata la
controversia tra le parti. Per predeterminazione intendiamo la competenza su una determinata
controversia. Un giudice incaricato dopo la controversia potrebbe invece essere un giudice non
imparziale.

I giudici hanno un potere giurisdizionale, cioè un potere di risolvere le controversie. Tale potere è
diviso tra giudici ordinari e giudici speciali. Giudici ordinari sono i giudici civili e i giudici penali; poi
abbiamo diversi giudici speciali, quali : giudici amministrativi, giudici tributari, giudici contabili,
giudici militari. Si tratta, perciò, di ordini giudiziari diversi.
L’art.102 Cost.,co.2, però, recita : <<non possono essere istituiti giudici straordinari o giudici
speciali>>.
Ma, come abbiamo appena visto, nonostante il divieto, sono comunque presenti sul nostro
territorio giudici speciali; tali giudici, però, sono stati istituiti prima della nascita della nostra
Costituzione. La disposizione va quindi intesa nel senso che non possono essere istituiti “nuovi”
giudici speciali, ferma così restando la presenza di quelli suindicati.

Ci sono però disposizioni che accomunano tutti i tipi di giurisdizione :


- Art. 101 Cost. : <<La giustizia è amministrata in nome del popolo.
I giudici sono soggetti soltanto alla legge>>.
- Art. 111 Cost. co. 1 e 2 : <<La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla
legge.
Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice
terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata>>.
- Art.111 Cost. co. 6 e 7 : <<Tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati.
Contro le sentenze e contro i provvedimenti sulla libertà personale, pronunciati dagli organi
giurisdizionali ordinari o speciali, è sempre ammesso ricorso in Cassazione per violazione di
legge>>.

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I giudici ordinari hanno una competenza generale, che si estende a tutte le materie. La sfera di
competenza dei giudici speciali è invece settoriale, ed è determinata dalla legge. Spetta perciò alla
giurisdizione ordinaria quella competenza non prevista per le altre giurisdizioni.

La GIURISDIZIONE è la quantità di potere giurisdizionale assegnata a ciascun ordine giudiziario nei


rapporti con gli altri ordini.

Nel giudizio civile, ATTORE è colui che propone la domanda (promuovendo così l’azione) a tutela
del suo diritto; CONVENUTO è colui contro il quale la domanda è proposta.

Nel caso in cui l’attore propone domanda ad un giudice privo di giurisdizione, si avrà DIFETTO DI
GIURISDIZIONE, regolato dall’art. 37 c.p.c., il quale recita :
<<Il difetto di giurisdizione del giudice ordinario nei confronti della pubblica amministrazione o dei
giudici speciali è rilevato, anche d'ufficio, in qualunque stato e grado del processo>>.
Questo è il caso in cui il giudice adito si trovi nell’impossibilità di esercitare la propria funzione
giurisdizionale, in quanto devoluta dalla legge a giudici speciali.
Si ha difetto di giurisdizione anche quando tale difetto sia “assoluto” (DIFETTO ASSOLUTO DI
GIURISDIZIONE), cioè quando l’attore propone una domanda in una materia completamente priva
di giurisdizione, e quindi non tutelabile. In tal caso la domanda non ha valore sostanziale, ma resta
semplicemente un mero interesse di fatto (o situazione di interesse semplice), in quanto
nell’ordinamento non c’è nessun giudice competente sullo stesso.

Da qualche anno (dal 2008), però, l’art.37 è suscettibile di una nuova lettura da parte della
Cassazione. Tale lettura è ispirata ad un principio relativo alla nullità degli atti processuali previsto
nell’art.161 : il principio della conversione dei vizi di nullità in motivi di impugnazione. In base a tale
principio (che spiegheremo più dettagliatamente in apposito paragrafo) i vizi degli atti processuali
possono essere oggetto di impugnazione nei gradi successivi, e se non viene fatta impugnazione
nei termini previsti, la sentenza che contiene tali vizi passa in giudicato, e i relativi vizi si sanano.
La Cassazione, con la nuova lettura, ha sostanzialmente equiparato il difetto di giurisdizione alla
nullità degli atti, in quanto entrambi vizi della sentenza. In base a tale lettura, infatti, il difetto di
giurisdizione si sanerebbe da un grado all’altro, proprio come la nullità degli atti processuali ex
art.161, se non rilevato dal giudice o dalle parti.
Secondo la Cassazione, infatti, il fatto che il difetto di giurisdizione può essere rilevato in ogni stato
e grado del processo può essere un’arma pericolosa contro le parti processuali, perché potrebbe
ben accadere che tale difetto arrivi di grado in grado, senza essere rilevato, fino in Cassazione;
quest’ultima, poi, non può che rilevarlo, annullando così l’operato dei gradi precedenti. E’ proprio
per evitare tutto questo che la Cassazione preferisce che il difetto di giurisdizione si sani da un
grado all’altro se non rilevato, abrogando così di fatto la frase <<in qualunque stato e grado del
processo>> contenuta nell’art.37.
La nuova lettura di cui stiamo parlando è fatta per salvaguardare il principio di ragionevole durata
del processo di cui all’art.111 Cost. . La non sanabilità del difetto di giurisdizione, infatti,
rappresentava uno spreco di attività processuali che avrebbe a sua volta allungato i tempi
processuali (e, di conseguenza, anche i costi per le parti!) di un sistema già lento.

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Dal 2009, grazie alla legge n.69 del 2009, anche in caso di difetto di giurisdizione è prevista la
TRANSLATIO IUDICII, così come era prevista (solo) per il caso di difetto di competenza (che
studieremo nel prossimo capitolo). Il legislatore del ’42, infatti, distingueva nettamente la
giurisdizione dalla competenza. Pertanto, qualora un giudice fosse stato dichiarato incompetente
in ordine alla domanda a lui proposta, le parti avrebbero potuto trasferire il processo dinanzi al
giudice competente in modo tale che la porzione celebrata dinanzi al primo giudice si saldasse con
quella proseguita dinanzi al secondo giudice, senza che si producessero effetti sfavorevoli di alcun
tipo ai danni delle parti. Se, invece, era stato dichiarato il difetto di giurisdizione, la parte doveva
cominciare il processo daccapo, subendo il rischio di preclusioni, decadenze o prescrizioni nel
frattempo verificatesi. Poi, grazie alla legge n.69 del 2009, si è inserita nel sistema la translatio
iudicii anche in caso di difetto di giurisdizione, cioè la trasmigrazione da un giudice ad un altro di
diversa giurisdizione. Dal 2009 è quindi possibile riassumere la causa dinanzi al giudice fornito di
giurisdizione, cioè dinanzi al giudice giusto, dopo che quello precedente abbia dichiarato di non
avere giurisdizione. Tale riassunzione, prevista dall’art.50 per il regolamento di competenza, e
applicabile oggi anche per il caso di difetto di giurisdizione, non comporta la costituzione di un
nuovo rapporto processuale, ma il trasferimento e la prosecuzione dell’originario rapporto : l’atto
introduttivo mantiene infatti tutti i suoi effetti e le prove raccolte restano valide; sono quindi salvi
gli effetti sostanziali e processuali del giudizio dinanzi al primo giudice.
Il termine inizialmente previsto dall’art.50 entro il quale doveva avvenire la riassunzione a pena di
decadenza era di 6 mesi. La legge n.69/2009 ha ridotto tale termine a 3 mesi (sempreché non ne
sia stabilito uno diverso dal giudice) per accelerare i tempi processuali. Se tale termine non è
rispettato il processo si estingue.

Fermo restando il caso in cui il giudice non abbia sicuramente giurisdizione, altro caso è quello in
cui la giurisdizione sia dubbia (QUESTIONE DI GIURISDIZIONE). Le questioni di giurisdizione
possono essere divise in 3 aree di rapporti:
-rapporti tra giudice ordinario e giudice speciale;
-rapporti tra giudice italiano e giudice straniero;
-rapporti con la P.A. .
Lo strumento utilizzabile in questo caso è il REGOLAMENTO DI GIURISDIZIONE, previsto dall’art.
41 c.p.c. :

<<Finché la causa non sia decisa nel merito in primo grado, ciascuna parte può chiedere alle sezioni
unite della Corte di cassazione che risolvano le questioni di giurisdizione di cui
all'articolo 37 [374, 382]. L'istanza si propone con ricorso a norma degli articoli 364 e seguenti, e
produce gli effetti di cui all'articolo 367>>.

Il regolamento di giurisdizione è quindi lo strumento che consente alla parte di chiedere un


accertamento sulla giurisdizione del giudice adito, ricorrendo alle Sezioni Unite della Corte di
Cassazione, prima che la causa sia decisa nel merito. La giurisdizione è una questione pregiudiziale
di rito. Lo scopo del regolamento di giurisdizione è quello di evitare che il processo si svolga
inutilmente davanti ad un giudice privo di giurisdizione, facendo pronunciare direttamente la
Cassazione in modo definitivo e vincolante, mediante ordinanza. Si tratta di un rimedio preventivo

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alla cui proposizione sono legittimate tutte le parti in causa. Non è un mezzo di impugnazione
come il regolamento di competenza (che vedremo in seguito).
Anteriormente alla riforma del ’90 il regolamento di giurisdizione veniva spesso utilizzato per meri
fini dilatori (per allungare cioè i tempi), poiché il vecchio art.367 c.p.c. prevedeva la sospensione
necessaria del processo di merito durante il giudizio della Cassazione. Con la riforma del ’90,
invece, è stato modificato l’art.367 co.1, e in base a tale modifica la sospensione del processo di
merito non è più automatica, ma rimessa ad una valutazione discrezionale del giudice, su istanza
di parte, il quale <<sospende il processo (solo) se non ritiene l’istanza manifestamente
inammissibile o la contestazione della giurisdizione manifestamente infondata>>. Ciò significa che
il giudice può non sospendere il processo di merito se ritiene l’istanza inammissibile o infondata.
La sospensione è dichiarata con ordinanza.
L’art.367 co.2 stabilisce poi : <<Se la Corte di cassazione dichiara la giurisdizione del giudice
ordinario, le parti devono riassumere il processo entro il termine perentorio di sei mesi
dalla comunicazione della sentenza>>.
Gli effetti di cui all’art.367 si producono dal momento in cui viene depositata copia dell’istanza
presso la cancelleria del giudice davanti a cui pende la causa.

CAPITOLO 2° - LA COMPETENZA
Una volta individuato il giudice fornito di giurisdizione in base ai criteri esposti nel capitolo
precedente, ed avendo così escluso i giudici speciali, la giurisdizione non può che spettare al
giudice ordinario civile.
La giurisdizione civile ordinaria, però, si divide in tanti Tribunali e Giudici di pace,competenti in 1°
grado. Quindi, una volta individuato nel giudice civile il giudice fornito di giurisdizione, il secondo
passo da compiere è quello di stabilire a chi spetti la competenza. L’individuazione del giudice
competente non riguarda la persona fisica che potrà decidere sulla controversia, ma l’ufficio
giudiziario nel suo complesso. La successiva eventuale distribuzione degli affari all’interno degli
uffici (che avviene ad opera dei capi degli uffici giudiziari) non dà luogo a problemi di competenza.
Come abbiamo già detto,i rapporti tra i giudici di ordini diversi sono regolati dalla giurisdizione;
invece,quelli tra giudici dello stesso ordine sono regolati dalla COMPETENZA, che rappresenta la
sfera di potere giurisdizionale assegnata a ciascun ufficio giudiziario nei rapporti con uffici
giudiziari dello stesso ordine.
Il dubbio sulla competenza tra Tribunale e Giudice di pace integra una “questione di competenza”.

1)Il primo criterio da seguire per stabilire a quale dei 2 uffici spetti la competenza è il CRITERIO
DELLA MATERIA, fondato sulla natura della causa. Le materie spettanti ai 2 diversi uffici giudiziari
sono stabilite dalla legge agli artt. 9 e 7 c.p.c. .

Art. 9 : Competenza del tribunale. <<Il tribunale è competente per tutte le cause che non sono di
competenza di altro giudice.
Il tribunale è altresì esclusivamente competente per le cause in materia di imposte e tasse, per
quelle relative allo stato e alla capacità delle persone e ai diritti onorifici, per la querela di falso, per
l'esecuzione forzata e, in generale, per ogni causa di valore indeterminabile.>>
Art. 7 : competenza del giudice di pace.<< Il giudice di pace è competente per le cause relative
a beni mobili di valore non superiore a euro 5.000,00, quando dalla legge non sono attribuite alla
competenza di altro giudice.

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Il giudice di pace è altresì competente per le cause di risarcimento del danno prodotto dalla
circolazione di veicoli e di natanti, purché il valore della controversia non superi euro 20.000,00.
È competente qualunque ne sia il valore:
1) per le cause relative ad apposizione di termini ed osservanza delle distanze stabilite dalla legge,
dai regolamenti o dagli usi riguardo al piantamento degli alberi e delle siepi;
2) per le cause relative alla misura ed alle modalità d'uso dei servizi di condominio di case;
3) per le cause relative a rapporti tra proprietari o detentori di immobili adibiti a civile abitazione in
materia di immissioni di fumo o di calore, esalazioni, rumori, scuotimenti e simili propagazioni che
superino la normale tollerabilità;
3-bis) per le cause relative agli interessi o accessori da ritardato pagamento di prestazioni
previdenziali o assistenziali>>.

Nei primi due commi sono elencate le ipotesi di competenza mista, cioè limitata
contemporaneamente per materia e per valore; nell’ultimo comma vengono invece elencate
categorie di controversie individuate solo con riferimento alla materia senza limite di valore.

2)Se il criterio della materia non risulta utile per individuare il giudice competente (es. : la
domanda fa riferimento ad una controversia il cui tipo non rientra tra quelli previsti dagli artt. 7 e
9), il criterio di riferimento sarà il CRITERIO DEL VALORE, fondato sul valore della causa. In base a
tale criterio, le cause con valore fino a 5.000 euro (tranne il caso di danni prodotti dalla
circolazione di veicoli e natanti,la cui soglia è 20.000 euro)sono di competenza del giudice di pace
(come stabilito dall’art.7); quelle con valore superiore sono da attribuire al Tribunale.

A questo punto bisogna stabilire come si determina il valore di una causa. Ai fini della competenza,
tale valore si determina in base domanda, ossia all’oggetto della pretesa dell’attore indicato nella
stessa.

Art.10 : Determinazione del valore. <<Il valore della causa,ai fini della competenza,si determina
dalla domanda.
A tale effetto,le domande proposte nello stesso processo contro la medesima persona si sommano
tra loro, e gli interessi scaduti,le spese e i danni anteriori alla proposizione si sommano col
capitale>>.

Il secondo comma fissa il “principio del cumulo”; in base a tale principio, il valore delle domande
che lo stesso soggetto propone nello stesso processo va cumulato al fine dell’accertamento della
competenza.
Ovviamente il valore della domanda (o delle domande,nel caso previsto dal 2° comma) deve
essere riferito al momento in cui la domanda è proposta.

E’ importante precisare che la competenza per materia non fa scattare il criterio del valore. Ciò
significa che il Giudice di pace, (solo)nelle materie di sua competenza previste dalla legge, può
trovarsi a giudicare in cause con valore superiore a 5.000 euro,anche se ciò accade difficilmente,
data la scarsa importanza delle cause del giudice di pace. Allo stesso modo,anche il Tribunale può
trovarsi a giudicare in cause con valore inferiore a 5.000 nelle materie di sua esclusiva
competenza.
Insomma, anche se il valore fissato nella domanda sia tale da radicare la competenza di un giudice
superiore, nulla esclude che, all’atto della decisione, il giudice adito possa pronunciare una
sentenza con la quale si va al di sotto dei limiti della propria competenza. Inoltre, una volta

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proposta la domanda, non è rilevante, ai fini della competenza, una modificazione in aumento o
riduzione in un momento successivo.
Questa norma cerca di cristallizzare, ai fini della competenza, la situazione di fatto esistente al
momento della proposizione della domanda giudiziale, in maniera tale che i mutamenti successivi
non determinino conseguenze nel campo in esame.
Il valore, quindi, è un criterio successivo a quello della materia,ed ha luogo solo quando quello per
materia non è sufficiente a stabilirne la competenza.

Particolarità di questa disciplina è il caso della cause relative a somme di danaro e a beni mobili
previsto dall’art.14.
Art. 14 : Cause relative a somme di danaro e a beni mobili.<<Nelle cause relative a somme di
danaro o a beni mobili, il valore si determina in base alla somma indicata o al valore dichiarato
dall'attore; in mancanza di indicazione o dichiarazione, la causa si presume di competenza del
giudice adito.
Il convenuto può contestare, ma soltanto nella prima difesa , il valore come sopra dichiarato o
presunto; in tal caso il giudice decide , ai soli fini della competenza, in base a quello che risulta
dagli atti e senza apposita istruzione .
Se il convenuto non contesta il valore dichiarato o presunto, questo rimane fissato, anche agli
effetti del merito, nei limiti della competenza del giudice adito.>>

Quindi,l’attore può sia indicare il valore della sua domanda,sia non indicarlo; però,se non lo indica,
la causa si presume di valore pari al limite massimo della competenza del giudice adito.
Il convenuto può sia contestare (solo in prima difesa), sia non contestare il valore indicato o
presunto dall’attore :
-nel caso in cui lo contesti,il giudice decide anticipatamente e senza istruzione ai soli fini della
competenza, poiché con la contestazione il valore può mutare;
-nel caso in cui non lo contesti, il valore resta quello indicato dall’attore, e quindi il giudice decide
nel merito senza oltrepassare i limiti della propria competenza per valore.

Di conseguenza, se vengono proposte più domande tutte indeterminate, combinando tra loro gli
artt. 10 co.2 e 14 co.1, si ha che ciascuna domanda deve intendersi proposta per un valore pari al
limite massimo della competenza del giudice adito, e che poi le singole domande vanno sommate
tra loro (così, se proposte più domande indeterminate avanti il giudice di pace, si corre il rischio di
avere adito un giudice incompetente perché la somma tra le domande supera il limite massimo
della sua competenza per valore). E’ per questo che è previsto il correttivo di cui all’art.10 2° co.,
che considera come un’unica domanda quella relativa al capitale e agli interessi scaduti e alle
spese e danni anteriori. Una domanda di questo genere deve essere riguardata come unica e
quindi alla stessa, unitariamente considerata, si applica la presunzione di cui all’art.14 1° co. .

I criteri esposti finora sono detti CRITERI VERTICALI perché ci permettono di individuare il giudice
competente tra i diversi livelli. Una volta terminata questa operazione,bisogna applicare un
CRITERIO ORIZZONTALE, cioè il CRITERO DEL TERRITORIO, che è quel criterio che ci permette di
individuare il giudice competente per territorio,Tribunale o Giudice di Pace che sia, in base alla
dislocazione territoriale di tali uffici.
I criteri attributivi della competenza per territorio si chiamano FORI.
I Fori possono essere GENERALI E SPECIALI.
I FORI GENERALI sono quei fori che valgono per tutte le controversie per le quali non siano previsti
fori speciali, cioè quelli davanti ai quali ognuno può essere convenuto in ogni controversia

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Tra i fori generali abbiamo quello delle persone fisiche (art.18) e quello delle persone giuridiche
(art.19) :
-Foro generale delle persone fisiche (art.18) : <<Salvo che la legge disponga altrimenti, e’
competente il giudice del luogo in cui il convenuto ha la residenza o il domicilio, e, se questi sono
sconosciuti, quello del luogo in cui il convenuto ha la dimora.
Se il convenuto non ha residenza, ne’ domicilio, ne’ dimora nella Repubblica o se la dimora e’
sconosciuta, e’ competente il giudice del luogo in cui risiede l’attore.>>);
-Foro generale delle persone giuridiche e delle associazioni non riconosciute (art.19) : <<Salvo che
la legge disponga altrimenti, qualora sia convenuta una persona giuridica, e’ competente il giudice
del luogo dove essa ha sede. E’ competente altresì il giudice del luogo dove la persona giuridica ha
uno stabilimento e un rappresentante autorizzato a stare in giudizio per l’oggetto della domanda.
Ai fini della competenza, le società non aventi personalità giuridica, le associazioni non riconosciute
e i comitati di cui agli articoli 36 e seguenti del codice civile hanno sede dove svolgono attività in
modo continuativo.>>).
I FORI SPECIALI sono fori determinati specificamente per particolari categorie di cause. Questi
possono dividersi in :
-FORI ESCLUSIVI. Es. : art.23 - Foro per le cause tra soci e tra condomini : <<Per le cause tra soci è
competente il giudice del luogo dove ha sede la società; per le cause tra condomini, ovvero tra
condomini e condominio, il giudice del luogo dove si trovano i beni comuni o la maggior parte di
essi>>;
-FORI CONCORRENTI, cioè quei fori che l’attore può scegliere a sua discrezione fra l’uno e l’altro.
Es. : art.20 – Foro facoltativo per le cause relative a diritti di obbligazione : <<Per le cause relative
a diritti di obbligazione è ANCHE competente il giudice del luogo in cui è sorta o deve eseguirsi
l'obbligazione dedotta in giudizio.>>.
In questo caso il foro è concorrente (detto anche “elettivamente concorrente”) perché l’attore
può scegliere liberamente tra 3 fori : quello del luogo il cui l’obbligazione è sorta (art.20), quello
del luogo in cui l’obbligazione deve eseguirsi (art.20), e quello del luogo in cui il convenuto ha la
residenza o il domicilio (foro generale di cui all’art.18).

I criteri per la competenza visti finora, però, non hanno tutti lo stesso peso nel nostro
ordinamento : i criteri per la competenza territoriale sono infatti normalmente derogabili dalle
parti processuali, a differenza dei criteri per materia e per valore, che l’ordinamento ritiene
inderogabili. Tale derogabilità è prevista dall’art.28 : <<La competenza per territorio può essere
derogata per accordo delle parti, salvo che per le cause previste nei nn. 1, 2, 3 e 5 dell'articolo 70,
per i casi di esecuzione forzata, di opposizione alla stessa, di procedimenti cautelari e possessori,
di procedimenti in camera di consiglio e per ogni altro caso in cui l'inderogabilità sia disposta
espressamente dalla legge [25, 38, 413, 661, 747]>>.
Art. 29 - Forma ed effetti dell’accordo delle parti : <<L’accordo delle parti per la deroga della
competenza territoriale deve riferirsi ad uno o più affari determinati e risultare da atto scritto>>.

IL PRINCIPIO DELLA PERPETUATIO JURISDICTIONIS

La distribuzione degli affari giudiziari deve, per non contrastare con la garanzia del giudice naturale
di cui all’art.25 Cost., essere effettuata in base a criteri precostituiti in relazione a intere classi di
controversie o di affari giudiziari. La normativa non sarebbe, però, completa se le parti fossero in
grado di eludere il criterio fissato dal legislatore con artifici posti in essere in pendenza del

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processo. Ad esempio, posto che uno dei criteri di collegamento spaziale è dato dal domicilio del
convenuto, quest’ultimo potrebbe, cambiando il domicilio dopo la nascita della controversia, far
venir meno il criterio di collegamento. E poiché le cose non stanno diversamente quanto alla
giurisdizione, il convenuto potrebbe, ad esempio, facendo venir meno la residenza o il domicilio
nello Stato, provocare il difetto di giurisdizione sopravvenuto del giudice italiano. In questo modo,
da un lato si rischierebbe di protrarre all’infinito le controversie, dall’altro si darebbe ai privati
un’arma, manovrando la quale gli stessi potrebbero incidere sulla scelta del giudice. E’ per questo
che il legislatore ha previsto il principio della perpetuatio jurisdictionis, codificato nell’art.5.

Art.5 – Momento determinante della giurisdizione e della competenza : <<La giurisdizione e


la competenza si determinano con riguardo alla legge vigente e allo stato di fatto esistente al
momento della proposizione della domanda [163, 316,414], e non hanno rilevanza rispetto ad esse
i successivi mutamenti della legge o dello stato medesimo>>.

Quindi, per la giurisdizione e per la competenza, il momento determinante è quello in cui viene
proposta la domanda; eventuali mutamenti successivi ad opera delle parti non hanno rilevanza e
non incidono sul giudizio.
Tale momento determinante, nei giudizi introdotti con citazione, coincide con la notificazione di
tale atto, mentre, in quelli instaurati con ricorso, coincide col deposito di quest’ultimo.

L’art.5 non regola però il caso inverso, e cioè quello in cui al momento della proposizione della
domanda il giudice adito sia sfornito di giurisdizione o competenza, ma lo stesso abbia poi
successivamente giurisdizione o competenza sul giudizio a causa di mutamenti successivi ad opera
delle parti (es. : si conviene in giudizio Tizio, residente a Napoli, dinanzi al Tribunale di Milano; il
giorno dopo Tizio si trasferisce da Napoli a Milano, cambiando la sua residenza). Se dovessimo
applicare alla lettera l’art. 5, dovremmo affermare che in questo caso non c’è perpetuatio
jurisdictionis perché il giudice adito, al momento della proposizione della domanda, non è
comunque fornito di giurisdizione o competenza. Ma ragioni di economia processuale e di buon
senso permettono di non applicare l’art.5, consentendo così al giudice che abbia giurisdizione o
competenza (solo) in un momento successivo di non dichiarare la sua incompetenza, e di
proseguire il giudizio (nell’esempio fatto : il Tribunale di Milano, anche se al momento della
proposizione della domanda non aveva competenza, può lo stesso proseguire il giudizio perché
Tizio è ormai residente a Milano). Sarebbe infatti inutile che il giudice dichiari di non aver
competenza, perché comunque l’attore, nel riassumere la causa, adirebbe lo stesso giudice.

LA QUESTIONE DI COMPETENZA

La questione di competenza è una questione, appunto sulla competenza, pregiudiziale di rito


logicamente successiva e conseguente a quella di giurisdizione e, pertanto, presuppone che
quest’ultima sia stata preventivamente risolta in senso positivo. La relativa disciplina è prevista
dall’art.38.

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Art.38 – Incompetenza : <<L'incompetenza per materia, quella per valore e quella per territorio
sono eccepite, a pena di decadenza, nella comparsa di risposta tempestivamente depositata.
L’eccezione di incompetenza per territorio si ha per non proposta se non contiene l’indicazione del
giudice che la parte ritiene competente.
Fuori dei casi previsti dall'articolo 28, quando le parti costituite aderiscono all'indicazione del
giudice competente, la competenza del giudice indicato rimane ferma se la causa è riassunta entro
tre mesi dalla cancellazione della stessa dal ruolo.
L'incompetenza per materia, quella per valore e quella per territorio nei casi previsti dall'articolo 28
sono rilevate d'ufficio non oltre l'udienza di cui all'art. 183.
Le questioni di cui ai commi precedenti sono decise, ai soli fini della competenza, in base a quello
che risulta dagli atti e, quando sia reso necessario dall'eccezione del convenuto o dal rilievo del
giudice, assunte sommarie informazioni>>.

Secondo la formulazione originaria dell’art.38 l’incompetenza per materia e l’incompetenza per


territorio inderogabile (art.28) erano rilevabili anche d’ufficio in ogni stato e grado del processo
(con disposizione uguale a quella vigente in tema di giurisdizione); l’incompetenza per valore era
rilevabile anche d’ufficio soltanto nel corso del giudizio di primo grado; l’incompetenza per
territorio derogabile era rilevabile soltanto su eccezione del convenuto, da proporsi nel primo atto
difensivo con indicazione del giudice ritenuto competente.

Secondo l’attuale formulazione, invece, grazie anche alla riforma sulla razionalizzazione del
processo (l.69/2009), i termini sono più rigorosi : tutte le ipotesi di incompetenza (materia, valore
e territorio) vanno eccepite dalla parte, a pena di decadenza, nella comparsa di costituzione e
risposta depositata entro il termine previsto dall’art.166. Uniche eccezioni (4° comma) sono le
ipotesi previste dall’art.28 (rilevabilità d’ufficio), per le quali l’incompetenza può essere rilevata
entro la prima udienza di comparizione e trattazione (art.183).
Solo l’incompetenza per territorio derogabile dev’essere eccepita dalla parte; gli altri tipi di
incompetenza, invece, possono essere rilevati anche d’ufficio.

Prima della recente riforma il giudice decideva sulla competenza con sentenza. Ciò per evitare
ripensamenti da parte del giudice (infatti, mentre le ordinanze sono modificabili e revocabili, le
sentenze non lo sono). Il legislatore del 2009 ha poi inteso depotenziare le questioni di
competenza, stabilendo così che il giudice le decida con ordinanza, semplificando così il regime
dell’incompetenza.

Le ordinanze sulla competenza contengono l’indicazione del giudice fornito di competenza per
permettere la riassunzione della causa (ai sensi dell’art.50); queste, però, possono anche essere
impugnate dalle parti.

Insomma, dinanzi ad una declinatoria di competenza, con cui il giudice adito si dichiara
incompetente, le parti possono :
1) Riassumere la causa davanti al giudice indicato come competente, ai sensi dell’art.50 co.1 (<<Se
la riassunzione della causa davanti al giudice dichiarato competente avviene nel termine fissato
nella ordinanza dal giudice e, in mancanza, in quello di tre mesi dalla comunicazione

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della ordinanza di regolamento o della ordinanza che dichiara l'incompetenza del giudice adito, il
processo continua davanti al nuovo giudice>>);
2)Non riassumere la causa, provocando l’estinzione della stessa, ai sensi dell’art.50 co.2 (<<Se la
riassunzione non avviene nei termini su indicati, il processo si estingue>>);
3)Impugnare l’ordinanza sulla competenza, mediante regolamento di competenza.

IL REGOLAMENTO DI COMPETENZA

Il regolamento di competenza è una specifica impugnazione che le parti hanno a disposizione


contro le ordinanze sulla competenza. Ci sono 2 tipi di regolamento di competenza :

-REGOLAMENTO DI COMPETENZA NECESSARIO,che è quello diretto contro una ordinanza che ha


deciso solo sulla competenza senza trattare il merito; si chiama “necessario” perché è l’unico
strumento che ha la parte per impugnare l’ordinanza sulla competenza.
Il regolamento di competenza necessario è previsto dall’art.42.
Art.42 – Regolamento necessario di competenza : << La ordinanza che, pronunciando sulla
competenza anche ai sensi degli articoli 39 e 40, non decide il merito della causa e i provvedimenti
che dichiarano la sospensione del processo ai sensi dell'articolo 295 possono essere impugnati
soltanto con istanza di regolamento di competenza>>;

-REGOLAMENTO DI COMPETENZA FACOLTATIVO, che è quello diretto contro una sentenza che ha
deciso anche sul merito. In questo caso si chiama “facoltativo” perché la parte ha la possibilità di
scegliere tra impugnazione ordinaria(appello) e regolamento. Se propone regolamento di
competenza, ovviamente, potrà impugnare solo quella parte dove il giudice ha statuito sulla
competenza; se invece propone impugnazione ordinaria potrà impugnare sia la competenza che il
merito.
Il regolamento di competenza facoltativo è previsto dall’art.43.
Art.43 – Regolamento facoltativo di competenza : << Il provvedimento che ha pronunciato sulla
competenza insieme col merito può essere impugnato con l'istanza di regolamento di competenza ,
oppure nei modi ordinari quando insieme con la pronuncia sulla competenza si impugna quella sul
merito.
La proposizione dell'impugnazione ordinaria non toglie alle altre parti la facoltà di proporre
l'istanza di regolamento.
Se l'istanza di regolamento è proposta prima dell'impugnazione ordinaria, i termini per la
proposizione di questa riprendono a decorrere dalla comunicazione della sentenza che regola la
competenza; se è proposta dopo, si applica la disposizione dell'articolo 48>>.

Tra i 2 rimedi, il legislatore, da un lato, preferisce il regolamento di competenza, ma dall’altro


afferma una sorta di compatibilità tra gli stessi (art.43) :
-se è proposta prima l’impugnazione ordinaria, il regolamento di competenza determina la
sospensione del processo nella sua fase di impugnazione (l’impugnazione ordinaria resterà quindi
sospesa);
-se invece è proposto per prima il regolamento di competenza, si avrà una sospensione dei termini
per proporre impugnazione ordinaria.
Le cose però cambiano se è la stessa parte a voler usare entrambi i rimedi :
-se la parte decide di proporre impugnazione ordinaria non potrà poi successivamente proporre
anche il regolamento di competenza (la ragione di questa preclusione sta nel fatto che la parte,

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avendo proposto impugnazione ordinaria, aveva la possibilità anche di far valere, come vizio della
sentenza, l’incompetenza del giudice che l’ha pronunciata);
-se la parte propone regolamento di competenza, può poi successivamente proporre
impugnazione ordinaria per proporre censure relative al merito della decisione.

Un altro caso da tenere distinto è quello in cui le parti, dopo l’ordinanza sulla competenza,
riassumano la causa dinanzi al secondo giudice e quest’ultimo ritiene a sua volta di non essere
competente. Lo strumento in questo caso utilizzabile dal secondo giudice è il REGOLAMENTO DI
COMPETENZA D’UFFICIO. Tale regolamento si verifica appunto quando il giudice davanti al quale il
processo viene riassunto non ritenga valide le indicazioni del giudice rimettente.
Il regolamento di competenza d’ufficio può sembrare un mezzo di impugnazione come quello
necessario e facoltativo perché serve, come questi ultimi, a contraddire le indicazioni del giudice
rimettente; ma non è così perché il regolamento di competenza d’ufficio è solo uno strumento
preventivo finalizzato a sollecitare la Corte di Cassazione nell’individuazione del giudice naturale
cui compete la trattazione della causa.
Il regolamento di competenza d’ufficio è previsto dall’art.45.
Art.45 – Conflitto di competenza : <<Quando, in seguito alla ordinanza che dichiara l'incompetenza
del giudice adito per ragione di materia o per territorio nei casi di cui all'articolo 28 , la causa nei
termini di cui all'articolo 50 è riassunta davanti ad altro giudice, questi, se ritiene di essere a sua
volta incompetente, richiede d'ufficio il regolamento di competenza>>.

Il procedimento del regolamento di competenza, che sia necessario, facoltativo o d’ufficio, sfocia
in un’ordinanza non impugnabile della Cassazione che statuisce in modo definitivo e vincolante, ed
è disciplinato dall’art.47.
Art.47 – Procedimento del regolamento di competenza : <<L'istanza di regolamento di
competenza [42, 43] si propone alla Corte di cassazione con ricorso sottoscritto dal procuratore o
dalla parte, se questa si è costituita personalmente.
Il ricorso deve essere notificato alle parti che non vi hanno aderito entro il termine perentorio [153]
di trenta giorni dalla comunicazione della ordinanza che abbia pronunciato sulla competenza o
dalla notificazione dell'impugnazione ordinaria nel caso previsto nell'articolo 43 secondo comma.
L'adesione delle parti può risultare anche dalla sottoscrizione del ricorso.
La parte che propone l'istanza, nei cinque giorni successivi all'ultima notificazione del ricorso alle
parti, deve chiedere ai cancellieri degli uffici davanti ai quali pendono i processi che i
relativi fascicoli siano rimessi alla cancelleria della Corte di cassazione. Nel termine perentorio di
venti giorni dalla stessa notificazione deve depositare nella cancelleria il ricorso con i documenti
necessari.
Il regolamento d'ufficio è richiesto con ordinanza dal giudice, il quale dispone la rimessione del
fascicolo d'ufficio alla cancelleria della Corte di cassazione.
Le parti, alle quali è notificato il ricorso o comunicata l'ordinanza del giudice, possono, nei venti
giorni successivi, depositare nella cancelleria della Corte di cassazione scritture difensive e
documenti>>.

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Dal complesso di disposizioni sopra elencate emerge che nel processo ordinario di cognizione in
primo grado : a) la competenza non è considerata dalla legge come un presupposto processuale, la
cui inesistenza determina il venir meno del processo. Infatti, dopo la decisione sulla competenza il
processo (non si conclude, ma) può continuare davanti al nuovo giudice; b) la competenza sembra
essere costruita dal legislatore come requisito di validità degli atti del giudice, mentre gli atti
processuali delle parti sono validi ed efficaci anche se compiuti davanti alo giudice incompetente.

CAPITOLO 3° - I PRINCIPI DEL PROCESSO


IL PRINCIPIO DELLA DOMANDA

Il principio della domanda è disciplinato dall’art.99.


Art.99 – Principio della domanda : <<chi vuole far valere un diritto in giudizio deve proporre
domanda al giudice competente>>.
La ratio di tale norma si rinviene nella disponibilità della tutela giurisdizionale da parte di chi,
titolare di un diritto leso, intende agire in giudizio. Sarà costui che, discrezionalmente, deciderà se
avvalersi o meno della potestà giurisdizionale per la difesa del proprio diritto sostanziale.
L’art.99 finisce con lo specificare il precetto contenuto nell’art.24 Cost., secondo il quale <<tutti
possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi>>.
Quindi, se da un lato l’ordinamento dà a tutti la possibilità di adire un giudice per la tutela di un
diritto, dall’altro prevede che, a tal scopo, venga proposta domanda al giudice competente. Sarà
poi scelta del soggetto di proporre o meno domanda. Se non la propone, il diritto non può essere
tutelato, poiché risulta difficile credere nella neutralità del giudice che abbia di sua iniziativa dato
vita al processo. Un potere del genere potrebbe rappresentare uno strumento per possibili arbitri.

IL PRINCIPIO DELLA CORRISPONDENZA TRA IL CHIESTO E IL PRONUNCIATO

Il principio della domanda non è ravvisabile solo nel momento della domanda (cioè, all’inizio del
processo), ma anche nel momento della pronuncia del giudice (cioè, alla fine del processo),
attraverso il principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, espresso nell’art.112.
Art.112 – Corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato : << il giudice deve pronunciare su tutta la
domanda e non oltre i limiti di essa; e non può pronunciare d’ufficio su eccezioni che possono
essere proposte soltanto dalle parti>>.
Secondo il combinato disposto di queste due disposizioni (artt. 99 e 112), non solo le parti possono
scegliere se adire o meno il giudice, ma hanno anche il monopolio in ordine alla determinazione
del tema decisionale, ossia sull’oggetto sul quale il giudice dovrà decidere.

Le parti, nella domanda, presentano al giudice un fatto; poi lo arricchiscono di particolari (che
servono a individuarlo, a specificarlo, spesso a renderlo credibile) e lo pongono in collegamento
con gli elementi probatori che dovrebbero convincere il giudice della sua veridicità. In questo
modo, nella posizione del fatto – che si riconduce alla c.d. attività assertiva - , bisogna distinguere i
fatti principali, che integrano il suo nucleo essenziale (senza dei quali, cioè, il fatto non sarebbe in
grado di suffragare le chieste conseguenze giuridiche), dai fatti secondari, che integrano le
circostanze che arricchiscono, precisano e chiariscono il fatto principale senza incidere sul suo

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nucleo essenziale.
Di diverso contenuto è la c.d. attività asseverativa, che rappresenta l’attività diretta a fornire al
giudice elementi di convincimento, e che nulla ha a che vedere con il principio della domanda. Il
vincolo del giudice riguarda, infatti, soltanto l’attività assertiva e, quindi, l’inserzione dei fatti nel
processo.

Il giudice, nel momento in cui deve stabilire il tema della decisione, ha da guardare non solo
all’attività assertiva dell’attore, ma anche a quella del convenuto. Tale attività del convenuto è
influente non quando si limiti ad una mera difesa (cioè negando che i fatti enunciati dall’attore
siano veri), ma quando introduca nel processo altri fatti che servono a togliere in tutto o in parte
valore a quelli dedotti dall’attore (ad es., contro la richiesta di condanna al pagamento di una
somma di danaro, il convenuto oppone di vantare un controcredito). E’, perciò, che la seconda
parte dell’art.112 dispone che il giudice <<non può pronunciare d’ufficio su eccezioni che possono
essere proposte soltanto dalle parti>>.

Il giudice, quindi, deve provvedere su tutta la domanda e su tutte le richieste delle parti, senza
però andare oltre le stesse.
Se il giudice provvede senza tener conto di tutte le richieste delle parti, e quindi omettendo di
pronunciare su alcune di esse, si avrà “omissione di pronuncia”.
Se il giudice statuisce andando oltre i limiti della domanda, pronunciando su richieste senza che
siano state formulate apposite istanze, si avrà “eccesso di pronuncia”.
Il rimedio contro l’eccesso di pronuncia è l’impugnazione della sentenza viziata. L’impugnazione
(come vedremo in seguito) va fatta prima che la sentenza passi in giudicato.
Il rimedio contro l’omissione di pronuncia è, anche in questo caso, l’impugnazione della sentenza
viziata, ma con una particolarità : le parti avrebbero (salva comunque la possibilità
dell’impugnazione), secondo la dottrina prevalente, anche la possibilità di riproporre la domanda
in un successivo giudizio perché il giudizio precedente non può passare in giudicato. Secondo
questi, infatti, non può passare in giudicato ciò che non c’è, cioè una pronunzia che non esiste.

IL PRINCIPIO DEL CONTRADDITTORIO

Art.101 – Principio del contraddittorio : << Il giudice, salvo che la legge disponga altrimenti , non
può statuire sopra alcuna domanda , se la parte contro la quale è proposta non è stata
regolarmente citata e non è comparsa>>.
Secondo tale principio, il giudice non può emettere alcun provvedimento senza che il destinatario
sia stato regolarmente citato. Il principio del contraddittorio, infatti, garantisce al destinatario (o,
ai destinatari) del provvedimento del giudice la possibilità di poter influire sul contenuto del
medesimo.
Il principio del contraddittorio va infatti correlato all’art.24,co.2,Cost., in base al quale <<la difesa è
diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento>>. Il principio del contraddittorio, infatti,
non si riferisce al solo atto introduttivo del giudizio, ma deve realizzarsi, nella sua effettività,
durante tutto lo svolgimento del processo.
La violazione del principio del contraddittorio comporta la nullità di tutti i provvedimenti successivi
a quello che ha determinato la violazione stessa, e può essere rilevata in ogni stato e grado del

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giudizio.
Il principio del contraddittorio costituisce anche la traduzione a livello di legge ordinaria del 2°
comma dell’art.111 Cost. (<<ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di
parità, davanti a giudice terzo e imparziale>>).

A base dell’art.101 vengono, così, a porsi varie ragioni: in primo luogo, è solo in questo modo che
si rispetta l’esigenza del paritario trattamento dei soggetti del processo; in secondo luogo, si
ritiene che il gioco dialettico posto in essere dalle parti, sorrette da interessi contrapposti, sia lo
strumento migliore e più facilmente utilizzabile perché il giudice possa raccogliere il materiale
necessario all’emanazione del provvedimento più giusto.

L’art.101, con l’inciso <<salvo che la legge disponga altrimenti>>, sembra ammettere possibili
eccezioni al principio del contraddittorio. Esistono infatti ipotesi eccezionali, e cioè : a)quando il
provvedimento, se fosse emesso dopo la realizzazione del contraddittorio, potrebbe essere inutile;
b)quando la situazione giuridica azionata abbia caratteristiche tali che ne sia giustificata una tutela
immediata, a discapito del contraddittorio. Dobbiamo però precisare che in entrambe le ipotesi la
mancata realizzazione del contraddittorio non deve essere definitiva; la deroga al principio è
consentita a condizione che si possa instaurare il contraddittorio in un momento successivo
(realizzazione eventuale e differita del contraddittorio, come nel caso del decreto ingiuntivo, di cui
parleremo nel 4° libro).

IL PRINCIPIO DISPOSITIVO

Art.115 – Disponibilità delle prove : <<salvi i casi previsti dalla legge, il giudice deve porre a
fondamento della decisione le prove proposte dalle parti o dal pubblico ministero, nonché i fatti
non specificatamente contestati dalla parte costituita.
Il giudice può tuttavia, senza bisogno di prova, porre a fondamento della decisione le nozioni di
fatto che rientrano nella comune esperienza>>.

Il c.d. principio dispositivo impone al giudice di fondare la sua decisione solo sulle prove e sui
documenti prodotti dalle parti, vietandogli di attingere fuori dal processo la conoscenza dei fatti,
salvo si tratti di <<nozioni di fatto>>,cioè di fatti notori rientranti nella comune esperienza in
quanto eventi di carattere generale ed obiettivo.

La nuova formulazione del 1° comma, come introdotta dalla recente riforma sulla razionalizzazione
del processo (legge 69/2009), codificando la consolidata giurisprudenza, consente al giudice di
porre a fondamento della propria decisione anche i fatti dedotti e <<non contestati>> dalla
controparte costituita, così esonerando la parte deducente dal relativo onere probatorio.

In dottrina si dice che nel nostro processo valgono sia il principio dispositivo in senso stretto, che
ha per oggetto il potere delle parti di produrre le prove e di far decidere sulla loro base soltanto;
sia il principio dispositivo in senso ampio, che ha per oggetto il potere delle parti di proporre la
domanda, di fissare il tema della decisione e di produrre le prove.

L’ONERE DELLA PROVA

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Art.2697 (cod.civ.)– Onere della prova : <<Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i
fatti che ne costituiscono il fondamento .
Chi eccepisce l'inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve
provare i fatti su cui l'eccezione si fonda>>.

Le prove sono mezzi processuali necessari per dimostrare l’esistenza di un fatto dichiarato dalle
parti. L’onere della prova è quel principio in base al quale la parte soccombe nel processo se non
fornisce la prova dei fatti affermati a fondamento delle proprie pretese.
Il giudice, quindi, deve rigettare le istanze quando non risulti acquisita al processo una prova
sufficiente dell’esistenza dei fatti su cui sono fondate.

I fatti che costituiscono il fondamento del diritto possono essere distinti in 2 categorie:
-fatti costitutivi (art.2697 co.1), cioè quelli che sono a base della situazione giuridica fatta valere in
giudizio;
-fatti estintivi,modificativi e impeditivi (art.2697 co.2), che hanno il potere di estinguere,
modificare o impedire gli effetti che i primi hanno prodotto.
In questo modo il rischio per la mancata prova deve essere ripartito fra le parti del processo : il
provvedimento richiesto sarà rifiutato se la parte richiedente non prova i fatti costitutivi; qualora
la parte dia tale prova, il provvedimento sarà concesso, sempreché l’altra parte non prova i fatti
estintivi, modificativi o impeditivi. Facciamo un esempio : il creditore dovrà provare di aver dato il
danaro e di averlo dato a titolo di mutuo (fatto costitutivo); il convenuto, ove l’attore dia tale
prova, dovrà dimostrare di aver restituito la somma in tutto (fatto estintivo) o in parte (fatto
modificativo), ovvero che la restituzione era subordinata a un termine non scaduto o a una
condizione non verificata (fatto impeditivo).

IL GIUDIZIO SECONDO DIRITTO E SECONDO EQUITA’

Con l’indagine compiuta finora abbiamo, nella sostanza, delineato i poteri del giudice : questi può
provvedere soltanto se sollecitato dalle domande delle parti e in relazione al fatto quale risulta
specificato dalle loro contrapposte allegazioni; può poi provvedere soltanto se sia stato realizzato
un soddisfacente contraddittorio.
Nel momento della decisione egli dovrà valutare il fatto, così come accertato o ricostruito nel
processo, secondo criteri di valutazione prestabiliti. L’art.113 è uno di questi criteri.

Art.113 - Pronuncia secondo diritto : << Nel pronunciare sulla causa il giudice deve seguire le
norme del diritto, salvo che la legge gli attribuisca il potere di decidere secondo equità.
Il giudice di pace decide secondo equità le cause il cui valore non eccede millecento euro, salvo
quelle derivanti da rapporti giuridici relativi a contratti conclusi secondo le modalità di cui
all'articolo 1342 del codice civile>>.

L’art.113 è costruito secondo lo schema della regola e dell’eccezione : normalmente il giudice


decide soltanto secondo diritto, e in casi eccezionali (previsti dalla legge, come ad esempio
l’art.114) secondo equità.
La particolarità sta nel 2° comma, che riguarda il giudice di pace : questi, infatti, che ha
principalmente competenza fino a 5000 euro, decide secondo equità solo cause dal valore non
eccedente i 1100 euro, salvo il caso dei contratti di cui all’art.1342 c. c. (contratti conclusi
mediante moduli o formulari, i c.d. “contratti di massa”), le cui cause vanno sempre decise
secondo diritto.

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Quindi, il giudice di pace deciderà :


-secondo diritto, le cause relative ai contratti di cui all’art.1342, e le cause il cui valore vada dai
1101 ai 5000 euro;
-secondo equità le cause il cui valore non eccede i 1100 euro.

Ma il giudice di pace, quando decide secondo equità, ha dei limiti; questi non deve infatti violare:
-le norme costituzionali;
-le norme europee;
-i c.d. “principi informatori”,cioè i principi generali della materia in cui sta decidendo.

CAPITOLO 4° - L’AZIONE

Il protagonista della nostra osservazione finora è stato il giudice. Da questo momento occorre
cambiare prospettiva ed esaminare il fenomeno processuale dal punto di vista della parte.
Quest’ultima, nel dare impulso al processo, esercita un potere. L’ <<azione>> è proprio tale
potere.

GLI ELEMENTI DISTINTIVI DELL’AZIONE

L’azione va identificata sulla base dei suoi elementi essenziali. Questi elementi sono:
1)L’OGGETTO (PETITUM);
2)IL TITOLO (CAUSA PETENDI);
3)I SOGGETTI.

1)L’OGGETTO. L’oggetto può essere inteso in 2 modi :


-L’OGGETTO IMMEDIATO (O OGGETTO DIRETTO) della domanda giudiziale, che rappresenta il
provvedimento di giustizia richiesto al giudice (es. : sentenza di condanna, decreto ingiuntivo,
ecc.);
-L’OGGETTO MEDIATO ( O OGGETTO INDIRETTO), che rappresenta il bene della vita o l’utilità
concreta che si cerca di ottenere attraverso il provvedimento (es. : la somma di danaro, il
trasferimento del bene, ecc. ).

2)IL TITOLO (CAUSA PETENDI). E’ il motivo per il quale si chiede tutela al giudice; cioè, la ragione in
base alla quale si ritiene di avere una determinata pretesa e quindi di poter ottenere un
determinato provvedimento.
In base a cosa va a costituire la causa petendi, abbiamo 2 diverse teorie :
-LA TEORIA DELL’INDIVIDUAZIONE : in base a tale teoria la causa petendi è costituita dal
complessivo rapporto dedotto in giudizio. Esempio : Tizio conviene in giudizio Caio per ottenere
l’annullamento di un contratto che Tizio ha concluso solo perché, al momento della stipulazione, è
stato minacciato da Caio; in questo caso, la causa petendi è costituita dalla complessiva fattispecie
dell’annullabilità del contratto stesso.
La teoria dell’individuazione comporta dei vantaggi e degli svantaggi :
-vantaggio : guadagno in termini di certezza del diritto sostanziale, perché la pronuncia del giudice
copre tutta la fattispecie complessiva. Nell’esempio fatto, la pronuncia copre tutta la fattispecie
dell’annullabilità, e quindi tutti i possibili vizi di annullamento di quell’atto; ciò significa che se il
giudice rigetta la domanda di Tizio, quel determinato contratto non può essere mai più annullato
in futuro perché la pronuncia si è basata su tutta la fattispecie complessiva, avendo la causa
petendi, in questo caso, portata generale;

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-svantaggio : pregiudizio in punto di certezza del diritto di difesa, perché essendo per questa teoria
la causa petendi intesa in senso amplio, la pronuncia può basarsi anche su altri elementi non
dedotti dall’attore, limitando così il diritto di difesa. Nell’esempio fatto, dato che per questa teoria
la causa petendi copre tutta la fattispecie complessiva, il giudice potrebbe anche annullare il
contratto tra Tizio e Caio non per violenza, bensì per dolo (se c’è stato). Un tale tipo di pronuncia
comporta un pregiudizio al diritto di difesa perché, nel processo in questione, Caio si è difeso solo
per minaccia, e non anche per dolo;

-LA TEORIA DELLA SOSTANZIAZIONE : in base a tale teoria la causa petendi è integrata dal singolo
fatto posto a base della domanda. Esempio : Tizio conviene in giudizio Caio per ottenere
l’annullamento di un contratto che Tizio ha concluso solo perché, al momento della stipulazione, è
stato minacciato da Caio; in questo caso, la causa petendi è costituita dal fatto della minaccia che
Caio ha posto in essere nei confronti di Tizio nel momento della conclusione del contratto.
Anche la teoria della sostanziazione comporta dei vantaggi e degli svantaggi, capovolti rispetto a
quelli della teoria dell’individuazione :
-vantaggio : guadagno in termini di certezza del diritto di difesa, perché, nell’esempio fatto, la
causa petendi è integrata dalla sola violenza e il giudice, in questo caso, anche se volesse, non
potrebbe annullare il contratto per altra causa (es. : per dolo); si ha quindi una certezza del diritto
di difesa perché Caio dovrà difendersi soltanto sulla violenza che Caio sostiene di aver subito, e
non per altro;
-svantaggio : pregiudizio in termini di certezza del diritto sostanziale, perché, se per questa teoria
la causa petendi è integrata dal singolo episodio, nell’esempio fatto, se il giudice rigetta la
domanda per violenza fatta da Tizio, quest’ultimo può in un secondo momento riproporre la
domanda di annullamento del contratto per altra causa (ad esempio, per dolo). Si ha in questo
caso pregiudizio del diritto sostanziale perché il giudice, quando ha rigettato la domanda di Tizio,
ha basato la sua decisione solo sulla violenza, senza prendere in considerazione gli altri aspetti
della fattispecie complessiva. Tale teoria è questo ciò che vuole : prendere in considerazione il
singolo episodio, che nel nostro esempio è la violenza che Tizio ha subito da Caio.

Il giudice aderisce all’una o all’altra teoria in base al suo gradimento, alla sua convinzione.
Proprio perché le 2 teorie presentano vantaggi e svantaggi, nella prassi vengono superate con una
TEORIA INTERMEDIA. Tale teoria parte dalla distinzione tra diritti eterodeterminati e diritti
autodeterminati :
-diritti eterodeterminati, cioè quei diritti che tra le stesse parti e sullo stesso oggetto possono
esistere in un dato momento anche più volte. Il diritto di credito a una prestazione generica è un
diritto eterodeterminato, perché la prestazione,che rappresenta l’oggetto, può avvenire, nello
stesso momento, per diversi motivi (es. : per risarcimento, per restituzione di somma prestata,
ecc. ). In questo caso il diritto è determinato dal fatto che lo genera (es. : sinistro stradale che
provoca il risarcimento, il prestito che provoca la restituzione, ecc. );
-diritti autodeterminati, cioè quei diritti che tra le stesse parti e sullo stesso oggetto, in un dato
momento, non possono esistere più di una volta. Il diritto di proprietà è un diritto
autodeterminato perché non può esistere più di una volta nello stesso momento (la casa, in quel
determinato giorno, o è di Tizio o è di Caio). I diritti autodeterminati (dal greco “autos”) si
determinano da sé, in relazione al loro oggetto, ed a prescindere dal fatto che li generano
(nell’esempio del diritto di proprietà, a prescindere dal fatto se questa sia acquistata mediante
compravendita, mediante usucapione, ecc.).
E’ in base a tale distinzione che possiamo risolvere il problema su quale delle 2 teorie precedenti
seguire in tema di causa petendi.

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Infatti, secondo la teoria intermedia, quando il processo ha ad oggetto diritti eterodeterminati


bisogna seguire la teoria della sostanziazione, dove la causa petendi è integrata dal singolo fatto;
se invece il processo ha ad oggetto diritti autodeterminati bisogna seguire la teoria
dell’individuazione, dove la causa petendi è integrata dalla fattispecie complessiva (es. : diritto di
proprietà), e il giudicato copre tutti i possibili fatti.

3) I SOGGETTI. Dei soggetti tratteremo ampiamente nel prossimo capitolo

I TIPI DI AZIONE

Il nostro ordinamento processuale prevede diversi tipi di azione promuovibili dinanzi al giudice
civile. Tali tipi di azione variano in base al tipo di tutela che si chiede al giudice e si dividono in :

1)AZIONI DI COGNIZIONE. Nascono da una pretesa meramente affermata, e il relativo giudizio


(processo di cognizione, che vedremo nel libro 2°) nasce solo in base a tale pretesa o
affermazione. L’azione di cognizione serve quindi ad accertare la fondatezza di tale pretesa.
L’esito di tale giudizio sarà una sentenza di accoglimento della domanda, o una sentenza di rigetto
della stessa.
Le azioni di cognizione possono essere di 3 tipi. Ognuno dei 3 tipi rappresenta il modo in base al
quale si soddisfa la pretesa dell’attore. Questi sono:

a)AZIONE DI ACCERTAMENTO (O AZIONE DICHIARATIVA) : essa ha la funzione di dare certezza,


attraverso il provvedimento giurisdizionale, al diritto o alla situazione giuridica dedotta nel
processo dalla parte.

L’azione di accertamento è un’AZIONE GENERALE, nel senso che può essere fatta valere per ogni
diritto, che sia prevista o meno dalla legge (il più delle volte non è prevista) (es. : azione proposta
dall’attore Totò con cui ha chiesto al giudice una sentenza che accertasse i suoi titoli nobiliari, che
in molti mettevano in dubbio).

Proprio perché l’azione di accertamento è un’azione generale, cioè impiegabile per ogni tipo di
diritto, ha un contrappeso (sennò tutti chiederebbero al giudice una sentenza per ogni cosa!) :
l’INTERESSE AD AGIRE, previsto dall’art.100.
Art.100 – Interesse ad agire : <<Per proporre una domanda o per contraddire alla stessa è
necessario avervi interesse>>.
L’interesse ad agire rappresenta quindi un limite per agire in giudizio. Infatti, vi è interesse ad agire
quando tra le parti c’è una situazione di incertezza obiettiva data dalla contestazione. Se non c’è la
contestazione che crea un’incertezza obiettiva, non c’è interesse ad agire. Se non c’è interesse ad
agire, il giudice dichiarerà la domanda inammissibile.
L’azione di accertamento è l’azione che generalmente propone colui che è nel godimento del
diritto e se lo vede contestato;

b)AZIONE DI CONDANNA : quando si agisce in via di accertamento si deduce nel processo una
situazione giuridica rilevante di per sé, a prescindere da quelli che possono essere i
comportamenti successivi degli interessati. A base dell’azione di condanna, invece, i
comportamenti successivi sono rilevanti perché vi è un diritto che non è stato soddisfatto e,
contro di esso, vi è un obbligo che non è stato spontaneamente adempiuto. Il giudice, in questo
caso, oltre ad accertare l’esistenza dei presupposti in base ai quali si è chiesto il provvedimento,
dovrà anche emanare un provvedimento che non solo fissi la situazione così come è stata

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ipotizzata dall’attore, ma imponga anche all’altra parte di adempiere l’obbligazione di cui è stata
riconosciuta debitrice. Infatti, il di più che si ritrova nella sentenza di condanna si coordina, in
questo modo, alla diversa natura della situazione giuridica dedotta nel processo, che è quella di
una pretesa insoddisfatta. Se teniamo conto di ciò, siamo anche in grado di comprendere che – a
differenza della sentenza di accertamento, che dà al soggetto tutto ciò che questi pretende –
quella di condanna non servirebbe a nulla se non fosse in grado di essere portata ad esecuzione
nel caso in cui l’obbligato-condannato continui a non adempiere.
E’ per questo che si dice che l’azione di condanna è composta sia dall’accertamento che dalla
condanna.

Gli effetti della sentenza di condanna sono:


-l’essere la stessa titolo esecutivo, permettendo così al creditore di iniziare l’esecuzione;
-l’essere la stessa titolo per iscrivere ipoteca giudiziale (in base all’art.2818 cod. civ.), dando così al
creditore l’utilità di acquistare un diritto di prelazione sui beni del debitore;
-trasformazione delle prescrizioni (in base all’art.2953 cod. civ.) da brevi (dei diritti accertati con la
sentenza) a lunghe (decennali), se più brevi di dieci anni.

Accanto alla sentenza di condanna vera e propria, il codice prevede una sentenza di carattere
particolare, che è quella descritta nell’art.278 e che trova larghissimo uso nella pratica.
Art.278 – Condanna generica. Provvisionale : << Quando è già accertata la sussistenza di un diritto,
ma è ancora controversa la quantità della prestazione dovuta, il collegio, su istanza di parte, può
limitarsi a pronunciare con sentenza la condanna generica alla prestazione, disponendo con
ordinanza che il processo prosegua per la liquidazione .
In tal caso il collegio, con la stessa sentenza e sempre su istanza di parte, può altresì condannare il
debitore al pagamento di una provvisionale, nei limiti della quantità per cui ritiene già raggiunta la
prova>>.
La situazione descritta dalla norma è la seguente : si agisce in giudizio per ottenere la condanna
dell’obbligato, ma, essendo sorte nel corso del processo difficoltà per la determinazione del
quantum, si chiede per ora l’emanazione di una sentenza parziale e non definitiva su ciò che
l’obbligato deve alla controparte, mentre il processo prosegue per la determinazione del quantum.
Con la condanna generica, infatti, l’obbligo del condannato è già accertato, e il giudizio procede
soltanto per la determinazione del quantum. La sussistenza del diritto e l’ammontare della
prestazione dovuta vengono quindi decise separatamente, in momenti diversi.
La condanna generica viene normalmente chiesta nel caso in cui ci sia facilità nell’accertare, ma
difficoltà nel liquidare.
La condanna generica trova larghissimo uso nella pratica perché produce alcuni degli effetti della
sentenza di condanna:
-per quanto riguarda l’essere titolo per iscrivere ipoteca giudiziale, tale possibilità è prevista
espressamente dal legislatore all’art.2818 c.c. ;
-per quanto riguarda l’essere titolo esecutivo, tale possibilità non è prevista dal legislatore e,
pertanto, escludiamo che la sentenza di condanna generica possa essere esecutiva; a conferma di
tale presunzione c’è l’art.474 c.p.c. che, nell’elencare i titoli esecutivi, dice che questi devono
rappresentare un credito certo, liquido ed esegibile; la sentenza di condanna generica, invece,
rappresenta un credito certo (perché è stato fissato dal giudice), ma non ancora liquido e non
ancora esigibile;
-quanto all’efficacia sulla prescrizione, nulla prevede il legislatore, ma la giurisprudenza è concorde
nel ritenere che anche la condanna generica trasforma in lunghe (decennali) le prescrizioni brevi.

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c)AZIONE COSTITUTIVA : le azioni costitutive sono azioni mirate a costituire, modificare o


estinguere un diritto mediante una sentenza, e senza la collaborazione della controparte.
L’azione costitutiva è prevista dall’art.2908 c.c. : <<Nei casi previsti dalla legge [2932], l'autorità
giudiziaria può costituire, modificare o estinguere rapporti giuridici, con effetto tra le parti, i
loro eredi o aventi causa>>.
In base alla frase <<nei casi previsti dalla legge>> possiamo certamente affermare che le azioni
costitutive – a differenza delle azioni di accertamento e di condanna - sono azioni tipiche; azioni,
cioè, che possono essere esercitate solo in quanto esista una disposizione sostanziale che le
preveda. Il giudice, pertanto, può intervenire sulla situazione giuridica di un soggetto, limitando la
sfera della sua autonomia privata, sempre che la legge glielo consenta.

Tra i casi di azione costitutiva si è soliti segnalare quello previsto dall’art.2932 c.c. sull’esecuzione
dell’obbligo di contrarre assunto con un contratto preliminare. Il caso riguarda i contraenti che con
un contratto preliminare si siano obbligati a concludere un contratto definitivo (es. : una
compravendita) tutte le volte in cui uno dei contraenti non voglia poi spontaneamente addivenire
alla stipulazione del contratto definitivo. Il giudice, quando gli sia proposta una domanda ex art.
2932 c.c., deve emanare una sentenza che faccia le veci del contratto definitivo non concluso; egli,
pertanto, non condannerà la parte inadempiente a concludere il contratto, ma disporrà
direttamente gli effetti del contratto definitivo (ad es. : se si tratta di compravendita, trasferirà il
bene dal venditore al compratore alle condizioni pattuite).
Da segnalare è anche il caso in cui il proprietario di un fondo, che non ha accesso alla strada
pubblica, chiede la costituzione di una servitù di passaggio coattivo sul fondo contiguo per poter
accedere alla strada.

Le azioni costitutive possono essere distinte in :


-azioni necessarie, cioè azioni il cui effetto può essere conseguito solo mediante sentenza (es. :
divorzio);
-azioni non necessarie, cioè azioni il cui effetto può essere conseguito anche mediante accordo
(negozio) tra le parti al di fuori del processo (si ha, in questo caso, “intesa negoziale”).
Tale distinzione ha rilievo:
1)ai fini della decorrenza degli effetti della sentenza : gli effetti delle azioni costitutive decorrono
dal giorno della domanda o dal giorno della sentenza?
-Nel caso delle azioni costitutive necessarie, ci troviamo di fronte ad una fattispecie a formazione
progressiva, che si completa soltanto con la sentenza; la sentenza, quindi, rappresenta l’unico
mezzo per l’ottenimento dell’effetto; da ciò ne scaturisce che nelle azioni costitutive necessarie gli
effetti decorrono soltanto dalla sentenza, senza retroagire a momenti precedenti; in questo caso,
perciò, la sentenza non ha effetti retroattivi;
-nel caso delle azioni costitutive non necessarie, invece, la fattispecie è già perfetta al momento
della domanda; ciò significa che la sentenza produrrà l’effetto costitutivo nel giorno in cui viene
emanata, ma retroagirà al momento in cui la fattispecie era già perfetta, cioè al momento della
domanda (es. : costituzione della servitù di passaggio coattivo); in questo caso, perciò, la sentenza
ha effetti retroattivi;
2)ai fini del rilievo dei mutamenti sopravvenuti alla domanda : il giudice dovrà tener conto di
mutamenti sopravvenuti alla domanda nel corso del processo?
-Per le azioni costitutive necessarie, poiché la fattispecie, essendo a formazione progressiva, si
sviluppa nel corso del processo e non si completa se non con la sentenza, il giudice dovrà tener
conto degli eventuali mutamenti sopravvenuti (es. : i coniugi che si riconciliano durante il processo
mirato al divorzio);

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-per le azioni costitutive non necessarie, invece, poiché la fattispecie era già perfetta al momento
della domanda (cioè completa dei suoi elementi), il giudice non dovrà tener conto dei mutamenti
sopravvenuti (es. : costituzione della servitù di passaggio coattivo).

2)AZIONE ESECUTIVA. L’azione esecutiva è quell’azione mirata a dare attuazione o esecuzione ad


una sentenza.
Abbiamo già visto che le sentenze di condanna, oltre ad accertare l’esistenza del credito azionato,
offrono all’attore la possibilità concreta di ottenere soddisfazione del proprio diritto. Possibilità
concreta di ottenere soddisfazione, tuttavia, non significa ancora soddisfazione : l’ordinamento ha
perciò previsto un meccanismo utilizzando il quale il creditore, in mancanza di spontaneo
adempimento del debitore, può tradurre in atto la potenzialità contenuta della sentenza, ossia
adeguare la situazione di fatto al comando giuridico. Questo meccanismo è l’azione esecutiva, la
quale si pone come necessario completamento della tutela concessa con l’azione di condanna.
Tuttavia, l’azione esecutiva non è necessariamente vincolata al processo di condanna. Il nostro
ordinamento, infatti, prevede alcune possibilità di ricorso al processo di esecuzione senza il
preventivo passaggio attraverso il processo di cognizione. Tale possibilità (che studieremo
dettagliatamente nel 3° libro) è prevista dall’art.474, che regola l’istituto del titolo esecutivo. I
titoli esecutivi, infatti, permettono di accedere direttamente al processo di esecuzione.

3)AZIONE CAUTELARE. L’azione cautelare è un’azione che prevede particolari misure applicabili,
ad alcune condizioni, al processo di cognizione e al processo di esecuzione. La funzione dell’azione
cautelare è l’emanazione di provvedimenti che hanno per scopo quello di assicurare la situazione
di fatto e/o quella di diritto così come è attualmente, in vista di un futuro provvedimento di
cognizione o di un futuro provvedimento esecutivo.
L’azione cautelare è subordinata essenzialmente a 2 condizioni :
a)da un lato, è necessario dimostrare che il diritto sostanziale che si vuole cautelare molto
probabilmente esiste (c.d. “fumus boni juris”);
b)dall’altro lato, bisogna provare che nel tempo necessario per ottenere un provvedimento di
carattere definitivo si possono verificare pregiudizi alla situazione giuridica o di fatto del soggetto
interessato al provvedimento stesso (c.d. “periculum in mora”, cioè pericolo nel ritardo).

LE CONDIZIONI DELL’AZIONE

Per condizioni dell’azione intendiamo i requisiti che devono esistere per far sì che il giudice possa
accogliere la domanda e scendere nel merito. Tali condizioni sono:

A)INTERESSE AD AGIRE. L’interesse ad agire è richiamato dal già citato art.100, in base al quale <<
per proporre una domanda o per contraddire alla stessa è necessario avervi interesse>>.
L’interesse ad agire gioca un ruolo diverso a seconda dell’azione proposta.
L’interesse ad agire gioca un ruolo più rilevante nell’azione di accertamento, dove rappresenta una
situazione di incertezza obiettiva prodotta dalla contestazione della controparte, e se non c’è
contestazione non vi sarà interesse ad agire ; nell’azione di condanna, invece, gioca un ruolo più
marginale, in quanto lo stesso è presente soltanto quando ci sia una fattispecie composta un
credito insoddisfatto e un obbligo inadempiuto; nelle azioni costitutive, infine, gioca un ruolo
ancor più marginale perché queste sono tipiche.
Essendo le azioni costitutive tipiche, perché vi sia interesse ad agire è necessario soltanto trovarsi
nella situazione descritta dalla legge, che prevedendo l’azione prevede anche l’interesse. Il giudice
non dovrà valutare l’esistenza dell’interesse ad agire; gli è sufficiente che l’attore si trovi nella

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situazione descritta dalla legge, che prevede l’azione per quel determinato caso. Se l’attore,
invece, non si trova nella situazione descritta dalla legge, la legge non prevede per il suo caso
l’azione, e di conseguenza non ci sarà nemmeno l’interesse ad agire.
Discorso simile va fatto anche per le azioni di condanna, dove l’attore avrà interesse ad agire
soltanto se abbia un credito insoddisfatto correlato ad un obbligo inadempiuto da parte dell’altro
soggetto.
Nelle azioni di accertamento, invece, il ruolo dell’interesse ad agire è più forte, ed il giudice dovrà
valutarne l’esistenza di volta in volta.

B)LA LEGITTIMAZIONE AD AGIRE. La legittimazione ad agire è la correlazione o coincidenza tra la


qualità di attore e la titolarità attiva del rapporto dedotto in giudizio. Quindi, al soggetto basta
essere titolare della situazione sostanziale per poter normalmente agire in giudizio.
Il problema nasce dal fatto che la titolarità attiva (o meno) del rapporto verrà accertata soltanto
alla fine del giudizio, mentre la legittimazione ad agire, essendo una condizione dell’azione, deve
esistere al momento della domanda. Risolviamo tale problema affermando che il giudice, per
poter ammettere la domanda, non deve valutare il rapporto dedotto in giudizio così come è nella
realtà (che verrà stabilito dal giudice stesso alla fine del giudizio), ma come prospettato dall’attore
con la domanda.

C)POSSIBILITA’ DELL’AZIONE. La possibilità dell’azione va intesa come possibilità del


provvedimento richiesto al giudice. Si può chiedere un provvedimento al giudice soltanto in base
ad un diritto esistente e tutelato dall’ordinamento. L’azione, infatti, è un diritto a un
provvedimento di merito, e in tanto è possibile agire in giudizio in quanto il provvedimento rientri
in uno dei tipi previsti dall’ordinamento. In caso contrario, il giudice deve dichiarare
l’improponibilità della domanda.

La mancanza di uno di questi tre requisiti genera l’inammissibilità della domanda.

LE ATTIVITA’ DEL CONVENUTO

Finora abbiamo esaminato il processo dal punto di vista dell’attore; bisogna adesso guardarlo dal
punto di vista del convenuto. A quest’ultimo la legge riconosce vari poteri :

A)LA CONTUMACIA. Con la contumacia il convenuto decide di non costituirsi in giudizio e di non
presentarsi davanti al giudice, senza depositare la sua difesa. Con la contumacia, infatti, il
convenuto resta lo stesso parte del processo, ma senza difesa.
Il convenuto è libero di rimanere contumace, e la contumacia non può influenzare il giudizio, né in
bene, né in male.
L’attore deve lo stesso fornire la prova del suo diritto e, se non assolve al proprio onere
probatorio, secondo la già esaminata regola dell’art.2697 c.c., la domanda deve essere rigettata.
Le ragioni della contumacia possono essere le più varie : noncuranza dell’amministrazione dei
propri affari, eccesso di sicurezza, impossibilità economica di anticipare le spese del processo,
consapevolezza di aver torto.

B)LA CONTESTAZIONE. Il convenuto, in questo caso, non è contumace, ma si costituisce in giudizio


contestando che i fatti addotti dall’attore siano in tutto o in parte veri, e nega che siano comunque
idonei a produrre le conseguenze da questo volute. Con la contestazione, quindi, il convenuto si
difende, senza allegare però fatti nuovi.
Sotto il profilo strettamente giuridico, tale situazione processuale non è molto diversa da quella

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che si ha nel caso della contumacia, perché comunque l’attore riuscirà ad avere ragione soltanto
se darà prova sufficiente dei fatti che sono alla base della sua pretesa, in base al già esaminato
art.2697 c.c. .
Con la contestazione muta il concreto andamento del processo perché è probabile che il
convenuto non rimanga inerte – fondando sul fatto che l’attore non riesca a dare prova delle
proprie pretese - , ma egli stesso si industria nel portare prove contrarie all’assunto dell’attore.
Sarà poi il giudice a dover valutare le prove addotte dall’una e dall’altra parte e, nel caso di dubbio,
dovrà applicare la regola di giudizio fondata sull’onere della prova (art.2697), rigettando la
domanda.
Costituirsi senza contestare, invece, equivale a dare veridicità ai fatti addotti dall’attore. La non
contestazione può provenire soltanto dalla parte costituita; ciò significa che la contumacia non dà
mai luogo a non contestazione.

C)L’ECCEZIONE. Con le eccezioni il convenuto non si limita a mera negazione, ma introduce nel
processo altri fatti, che arricchiscono la vicenda prospettata dall’attore, ampliando il tema
decisionale senza modificarlo.
Mentre l’attore pone a fondamento della sua domanda i fatti costitutivi della stessa, il convenuto
solleva le eccezioni, che si concretano in circostanze allegate dallo stesso che hanno lo scopo di
estinguere, modificare o impedire i fatti dedotti nel processo dall’attore.
La nozione delle eccezioni è ricavata dall’art.2697 co.2. Il 1° comma di tale articolo fa invece
riferimento ai fatti costitutivi dell’attore.

Art.2697 (cod.civ.)– Onere della prova : <<Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i
fatti che ne costituiscono il fondamento .
Chi eccepisce l'inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve
provare i fatti su cui l'eccezione si fonda>>.

Ricavando la nozione di eccezione da tale articolo, ricaviamo anche che l’onere dell’allegazione da
parte del convenuto si modella tendenzialmente sull’onere della prova che ha l’attore. L’attore,
infatti, nel narrare la vicenda che ha dato origine alla controversia si può limitare, e di solito si
limita, ad esporre i fatti costitutivi della pretesa. Ad es., il creditore che agisce contro il proprio
debitore si limiterà a dire di aver dato del danaro a titolo di prestito al convenuto; non è invece
tenuto ad aggiungere che non vi sono fatti estintivi, modificativi o impeditivi. Tali allegazioni
formeranno infatti oggetto del potere di eccezione del convenuto, nella misura in cui voglia
concretamente utilizzarlo.

Le eccezioni possono essere di 2 tipi:


1)ECCEZIONI IN SENSO STRETTO (O ECCEZIONI PROPRIE) : sono quelle eccezioni che possono
essere sollevate soltanto dalla parte (es. : prescrizione, o competenza per territorio derogabile,
perché se non sollevate dalla parte, il giudice non può rilevarle d’ufficio.)
2)ECCEZIONI IN SENSO AMPIO (O ECCEZIONI IMPROPRIE) : sono quelle eccezioni che il giudice può
rilevare anche d’ufficio (es. : difetto di giurisdizione, perché anche se non la solleva la parte, può
essere rilevata dal giudice d’ufficio).
Quando diciamo che il giudice può d’ufficio rilevare un’eccezione, diciamo pure che il giudice può
rilevarla solo se il fatto, che sarebbe a base dell’eccezione, comunque risulti dagli atti del processo.
Vi è infatti il divieto per il giudice di fare uso della sua scienza privata, per cui, ad es., il giudice non

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potrebbe mai rigettare la domanda perché è personalmente a conoscenza che il debito è stato
pagato. Il giudice, infatti, decide solo in base a quanto risulta dagli atti del processo, come
scaturisce dall’art.115 co.1 (che abbiamo già esaminato con lo studio del principio dispositivo).

Come fa la parte a sapere se un’eccezione è in senso ampio o in senso stretto? La regola dice che
le eccezioni sono generalmente in senso ampio; quando invece la legge lo prevede (come ad
esempio la prescrizione, o la competenza per territorio derogabile), l’eccezione è in senso stretto,
cioè riservata alla parte.

D)LA DOMANDA RICONVENZIONALE. Con l’eccezione, come abbiamo detto, il convenuto,


mirando al rigetto della domanda, arricchisce con nuove circostanze il fatto sul quale il giudice
deve giudicare, restando però nell’ambito del rapporto o della situazione giuridica dedotta nel
processo. Con la domanda riconvenzionale, invece, il convenuto non si limita a difendersi
esclusivamente per ottenere il rigetto della domanda dell’attore, ma introduce nel processo un
nuovo rapporto o una nuova situazione giuridica collegata con quella dedotta nell’atto
introduttivo; tale nuovo rapporto o nuova situazione giuridica dà vita ad una domanda proposta
dal convenuto, sulla quale il giudice dovrà decidere autonomamente.
Con la domanda riconvenzionale, quindi, il convenuto si difende dalla domanda dell’attore per
ottenere il rigetto da parte del giudice, ma allo stesso tempo chiede anche tutela per la domanda
riconvenzionale proposta.
E’ detta “riconvenzionale” perché attraverso tale domanda il convenuto, a sua volta, è come se
convenisse in giudizio l’attore. Infatti, si dice che con la domanda riconvenzionale il convenuto
diventa attore.
La domanda riconvenzionale è comunque una facoltà del convenuto, perché questi può anche
scegliere di limitarsi a difendere, e proporre la sua domanda in un altro processo.

Esempio : l’attore agisce per ottenere la condanna del convenuto a un adempimento contrattuale;
il convenuto, costituitosi, oppone che il primo ad essere inadempiente è l’attore. Se egli si limita a
proporre questa eccezione, resta nell’ambito della domanda originaria ed il giudice, accogliendola,
dovrà rigettare la domanda dell’attore. Se egli, invece, sulla base del dedotto inadempimento,
chiede che il giudice pronunci la risoluzione del contratto, introduce nel processo una nuova
situazione giuridica sulla quale chiede un autonomo provvedimento (e, quindi, propone domanda
riconvenzionale).

Le domande riconvenzionali possono essere:


-COMPATIBILI con la domanda dell’attore, e in tal caso il giudice può accoglierle entrambe;
-INCOMPATIBILI con la domanda dell’attore, e in tal caso il giudice dovrà accogliere la domanda
dell’attore, rigettando quella del convenuto, o viceversa.
Se guardiamo la domanda riconvenzionale come uno strumento difensivo, dobbiamo affermare
che soltanto la domanda riconvenzionale incompatibile è un vero e proprio strumento difensivo,
perché nel caso di domande riconvenzionali compatibili queste non possono essere viste come
strumenti difensivi, ma piuttosto come un modo per trattare nello stesso processo due domande
che possono essere accolte entrambe.

Ci deve essere necessariamente un collegamento tra la domanda riconvenzionale e la domanda


principale dell’attore?
La risposta è positiva se guardiamo l’unica disposizione del nostro codice che riguarda la domanda
riconvenzionale, e cioè l’art.36.

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Art.36 – Cause riconvenzionali : <<Il giudice competente per la causa principale conosce anche
delle domande riconvenzionali che dipendono dal titolo dedotto in giudizio dall’attore o da quello
che già appartiene alla causa come mezzo di eccezione, purché non eccedano la sua competenza
per materia o valore; altrimenti applica le disposizioni dei due articoli precedenti>>.

Dalla disposizione si comprende che la domanda riconvenzionale deve essere collegata al titolo
dedotto in giudizio dall’attore, o all’eccezione proposta dal convenuto stesso. Dev’esserci, quindi,
uno di questi due collegamenti per far sì che il convenuto possa proporre domanda
riconvenzionale nel processo.

Possiamo però trarre argomento opposto, e quindi dare riposta negativa al nostro quesito, in base
ad un’altra disposizione :

Art.104 – Pluralità di domande contro la stessa parte : <<Contro la stessa parte possono proporsi
nel medesimo processo più domande anche non altrimenti connesse, purché sia osservata la
norma dell'articolo 10 secondo comma. È applicabile la disposizione del secondo comma
dell'articolo precedente>>.

Quindi, in base all’art.104, si possono proporre nel processo domande riconvenzionali anche prive
di collegamento, purché proposte dalla stessa parte e contro la stessa parte.

Quale sarà allora la disposizione da applicare nel caso in cui non ci sia collegamento tra la
domanda riconvenzionale e quella principale? Possiamo permettere la domanda riconvenzionale
in base all’art.104, o non permetterla in base all’art.36?
La risposta va data in base alla competenza in cui rientrano la domanda riconvenzionale e quella
principale : se sia la principale che la riconvenzionale rientrano nella stessa competenza per
materia o per valore del giudice adito, verrà applicato l’art.104, e non ci sarà quindi bisogno di
collegamento tra le due domande; se invece le due domande comportano problemi di
competenza per materia o per valore, verrà applicato l’art.36.
Spieghiamo meglio quest’ultimo caso con un esempio : Tizio propone domanda principale di euro
1000 al giudice di pace; Caio si difende con domanda riconvenzionale di euro 6500, che non
rientra nella competenza del giudice di pace, ma nella competenza del Tribunale. In questi casi, la
legge (artt. 34 e 35) vuole che il giudice rimetta la causa al giudice competente. Nel nostro
esempio,perciò, il giudice di pace rimetterà la causa (comprendente entrambe le domande) al
Tribunale, e quest’ultimo dovrà giudicare anche sulla domanda principale di euro 1000 che non
sarebbe di sua competenza a livello di valore. Si è perciò creato, in questo caso, una deroga alla
competenza, che è prevista nell’ultima parte dell’art.36. Dobbiamo perciò concludere che l’art.36,
che richiede un collegamento tra la domanda principale e quella riconvenzionale, verrà applicato
solo quando c’è una deroga alla competenza.

E)L’ACCERTAMENTO INCIDENTALE. L’unica disposizione che regola questa figura è l’art.34.

Art. 34 - Accertamenti incidentali : <<Il giudice, se per legge o per esplicita domanda di una delle
parti e’ necessario decidere con efficacia di giudicato una questione pregiudiziale che appartiene
per materia o valore alla competenza di un giudice superiore, rimette tutta la causa a quest’ultimo,
assegnando alle parti un termine perentorio per la riassunzione della causa davanti a lui>>.

L’accertamento incidentale è un’ipotesi in cui il giudice, per legge o per domanda delle parti, deve
decidere con efficacia di giudicato una questione pregiudiziale.

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Per capire cos’è una questione pregiudiziale ci rifacciamo alla distinzione creata dalla dottrina
classica tra punto pregiudiziale e questione pregiudiziale.
I punti pregiudiziali riguarderebbero tutte le situazioni che il giudice deve fissare nella sentenza
per pervenire al dispositivo finale senza che su di essi sia sorta contestazione tra le parti.
Le questioni pregiudiziali sono invece quei punti che devono essere risolti dal giudice previo
esercizio della sua attività di ricerca e di costruzione, essendo sugli stessi sorta controversia tra le
parti. Su tali questioni, perciò, il giudice apre un campo di indagine.
Le questioni pregiudiziali hanno efficacia limitata al processo. Può avvenire però che le parti, o la
stessa legge, chiedano che il giudice isoli una di tali questioni e la decida come se si trattasse di
una controversia autonoma, anche se collegata per il suo carattere pregiudiziale alla controversia
originaria. Il che significa che il giudice emanerà una sentenza autonoma su tale questione; una
sentenza che darà alla questione (ormai risolta) non più efficacia limitata al solo processo, ma
un’efficacia definitiva mediante il giudicato, che si estende al di fuori del processo, e che sarà in
grado di regolare stabilmente il futuro rapporto giuridico tra le parti.
Con tale giudizio autonomo, avente efficacia di giudicato, la questione pregiudiziale si trasforma,
quindi, in accertamento incidentale.
L’accertamento incidentale può essere inteso come un particolare tipo di domanda
riconvenzionale.

GLI EFFETTI DELLA DOMANDA GIUDIZIALE

La domanda giudiziale deve essere portata a conoscenza della controparte; è in questo momento
che produce effetti, sia processuali (che hanno risvolto sul processo) che sostanziali (che hanno
risvolto sui diritto fatto valere dalle parti).

GLI EFFETTI PROCESSUALI sono:


-ACQUISTO DELLA QUALITA’ DI PARTE : l’attore diventa parte processuale nel momento in cui la
sua domanda giudiziale è ricevuta dal destinatario (convenuto). E’ in questo momento che chi
propone la domanda giudiziale acquista la qualità di parte. Chi è parte è destinatario degli effetti
della sentenza.
-PERPETUATIO JIURISDICTIONIS, che abbiamo già esaminato nel 2° capitolo e che, per chiarezza
espositiva, riprendiamo soltanto brevemente qui di seguito.
Art.5 – Momento determinante della giurisdizione e della competenza : <<La giurisdizione e
la competenza si determinano con riguardo alla legge vigente e allo stato di fatto esistente al
momento della proposizione della domanda [163, 316,414], e non hanno rilevanza rispetto ad esse
i successivi mutamenti della legge o dello stato medesimo>>.
Quindi, in base al principio della perpetutatio jiurisdictionis, il momento della proposizione della
domanda giudiziale rappresenta il momento per la determinazione della giurisdizione e della
competenza; eventuali mutamenti successivi ad opera delle parti non hanno rilevanza e non
incidono sul giudizio.
Tale momento determinante, nei giudizi introdotti con citazione, coincide con la notificazione di
tale atto, mentre, in quelli instaurati con ricorso, coincide col deposito di quest’ultimo;
-LITISPENDENZA : la domanda giudiziale comporta la pendenza della lite tra l’attore e il
convenuto. Più precisamente, la lite pende dal momento in cui la domanda dell’attore entra nella
sfera di pertinenza del convenuto. Tale risultato è ottenuto con la notificazione, nel caso della

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citazione, e con il deposito, in caso di ricorso. La litispendenza è prevista dall’art.39 co.1.


Art.39 co.1 : <<Se una stessa causa è proposta davanti a giudici diversi, quello successivamente
adito, in qualunque stato e grado del processo, anche d'ufficio, dichiara con ordinanza
la litispendenza e dispone con ordinanza la cancellazione della causa dal ruolo>>.
La litispendenza riguarda quindi il caso della contemporanea pendenza, davanti a giudici diversi, di
due cause identiche.
Il momento della proposizione della domanda rappresenta, perciò un momento essenziale perché,
in base all’art.39, nell’ipotesi della litispendenza, la causa iniziata successivamente deve essere
cancellata dal ruolo dal giudice adito successivamente.
Non c’è, ovviamente, litispendenza se le cause pendono dinanzi allo stesso ufficio giudiziario. In
questo caso, infatti, il capo dell’ufficio, informato della contemporanea pendenza delle cause,
dispone la riunione della seconda causa alla prima (quella che ha il numero di ruolo anteriore).
Per “cause identiche” intendiamo cause che, all’interno delle loro domande, hanno gli stessi
elementi distintivi, e cioè : i soggetti, il petitum e la causa petendi (già esaminati nel capitolo 4°).
Il provvedimento che emana il giudice sulla litispendenza ha la forma dell’ordinanza. Il legislatore
ha costruito tale tipo di provvedimento sul modello di quello sulla competenza : anche l’ordinanza
sulla litispendenza, infatti, può essere impugnata solo con regolamento di competenza in
Cassazione.
-SUCCESSIONE A TITOLO PARTICOLARE NEL DIRITTO CONTROVERSO, perché dal giorno della
proposizione della domanda il diritto fatto valere è reso controverso dalla domanda stessa, e può
dar luogo a successione a titolo particolare prevista dall’art.111, che studieremo nel prossimo
capitolo (5°) dedicato alle parti.

GLI EFFETTI SOSTANZIALI sono:


-ANATOCISMO : l’anatocismo è previsto dall’art.1283 cod. civ. : <<In mancanza di usi contrari,
gli interessi scaduti possono produrre interessi solo dal giorno della domanda giudiziale o per
effetto di convenzione posteriore alla loro scadenza, e sempre che si tratti di interessi dovuti
almeno per sei mesi>>.
L’anatocismo si riferisce ai cc.dd. “interessi composti”, cioè una sorta di “interessi sugli interessi”.
In linea generale non possono esserci “interessi sugli interessi”, cioè nuovi interessi che maturano
su quelli scaduti; l’art.1283 prevede però dei casi in cui ciò è possibile, e tra questi abbiamo la
proposizione della domanda giudiziale. La domanda giudiziale, quindi, può far nascere i cc.dd.
interessi composti. E’ questo ciò che ci interessa di questa norma.
-ACQUISTO DEI FRUTTI, previsto dall’art.1148 cod. civ. : <<Il possessore di buona fede fa suoi i
frutti naturali separati fino al giorno della domanda giudiziale e i frutti civili maturati fino allo
stesso giorno. Egli, fino alla restituzione della cosa, risponde verso il rivendicante dei frutti percepiti
dopo la domanda giudiziale e di quelli che avrebbe potuto percepire dopo tale data, usando la
diligenza di un buon padre di famiglia>>.
Il possessore di buona fede, quindi, trattiene i frutti fino al giorno della domanda giudiziale, ed è
tenuto a restituirli dal giorno della domanda giudiziale. L’effetto della domanda giudiziale, perciò,
è quello di rendere esigibili, da parte del proprietario, i frutti fatti propri dal possessore.
-SOSPENSIONE E INTERRUZIONE DELLA PRESCRIZIONE. Come sappiamo, quasi tutti i diritti sono

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soggetti a prescrizione. La prescrizione è quel fenomeno che porta all'estinzione di un diritto


soggettivo non esercitato dal titolare per un periodo di tempo indicato dalla legge. La prescrizione
si riferisce quindi ad un periodo di inerzia da parte del titolare. I periodi di tempo in cui un diritto si
prescrive sono indicati dalla legge : quella ordinaria è decennale; sono però previste prescrizioni
più brevi e più lunghe di quella ordinaria.
La prescrizione può subire due fenomeni : quello della sospensione e quello dell’interruzione.
La sospensione costituisce una “parentesi” che si inserisce nel periodo prescrizionale e,
precisamente, rappresenta un periodo di tempo in cui non si calcola il periodo della prescrizione a
causa di eventi previsti dalla legge che impediscono al titolare di esercitarlo, o ne rendono poco
probabile l’esercizio. Tali casi sono previsti tassativamente dalla legge.
In questi casi, il periodo prescrizionale andrà calcolato sommando il periodo di tempo trascorso
prima dell’evento sospensivo, con quello successivo all’evento sospensivo. Con la sospensione,
infatti, il periodo di tempo trascorso a causa dell’evento sospensivo previsto dalla legge va
eliminato; viene quindi non calcolato, come se l’evento sospensivo non fosse mai venuto ad
esistenza.
Si ha interruzione della prescrizione, invece, quando il titolare del diritto compie un’attività idonea
a mostrare la sua volontà di esercitare il diritto stesso. Dal momento in cui tale attività è stata
compiuta si calcola un nuovo periodo di prescrizione, e quello trascorso prima di tale attività non
va più considerato (e, quindi, incluso nel calcolo).
Abbiamo finora parlato della sospensione e dell’interruzione della prescrizione perché la domanda
giudiziale produce entrambi gli effetti.
L’effetto dell’interruzione prodotto dalla domanda giudiziale è previsto dall’art.2943 cod. civ. :
<<La prescrizione è interrotta dalla notificazione dell'atto con il quale si inizia un giudizio, sia
questo di cognizione ovvero conservativo o esecutivo.
È pure interrotta dalla domanda proposta nel corso di un giudizio.
L'interruzione si verifica anche se il giudice adito è incompetente.
La prescrizione è inoltre interrotta da ogni altro atto che valga a costituire in mora il debitore e
dall'atto notificato con il quale una parte, in presenza di compromesso o clausola compromissoria,
dichiara la propria intenzione di promuovere il procedimento arbitrale, propone la domanda e
procede, per quanto le spetta, alla nomina degli arbitri>>.
Ciò significa che la proposizione della domanda giudiziale equivale a esercizio del diritto e cancella
il periodo già trascorso, facendone decorrere uno nuovo.
La domanda giudiziale, però, relativamente alla prescrizione, ha un doppio effetto : oltre
all’interruzione produce anche la sospensione (della prescrizione). La domanda giudiziale, infatti,
oltre interrompere la prescrizione, la sospende per tutta la durata del processo. Ciò significa che il
nuovo periodo di prescrizione inizia a decorrere non dal giorno della domanda giudiziale, ma dalla
fine del processo (dal passaggio in giudicato della sentenza). La prescrizione è perciò sospesa dal
giorno della domanda giudiziale (giorno in cui il destinatario la riceve) fino al giorno del passaggio
in giudicato della sentenza.
L’interruzione e la sospensione sono previsti anche dall’art.2945 cod. civ. : <<Per effetto
dell'interruzione s'inizia un nuovo periodo di prescrizione.
Se l'interruzione è avvenuta mediante uno degli atti indicati dai primi due commi dell'articolo 2943,

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la prescrizione non corre fino al momento in cui passa in giudicato la sentenza che definisce il
giudizio.
Se il processo si estingue, rimane fermo l'effetto interruttivo e il nuovo periodo di prescrizione
comincia dalla data dell'atto interruttivo>>.

L’art.2945 c.c. fa anche riferimento all’ipotesi in cui il processo si estingue : anche in questo caso si
avrà la sospensione e l’interruzione del processo, però con la particolarità che il nuovo periodo di
prescrizione decorre dalla data dell’atto interruttivo (perché, se il processo si è estinto, non si avrà
sentenza).

Art.2953 cod. civ. – Effetti del giudicato sulle prescrizioni brevi : <<I diritti per i quali la legge
stabilisce una prescrizione più breve di dieci anni, quando riguardo ad essi è intervenuta sentenza
di condanna passata in giudicato, si prescrivono con il decorso di dieci anni>>.
L’art.2953 c.c. rappresenta uno dei tre effetti delle azioni di condanna, cioè l’effetto di
trasformazione delle prescrizioni da brevi in lunghe (decennali). Il legislatore ha previsto questo
allungamento della prescrizione perché, con la sentenza di condanna, l’azione nasce direttamente
dalla sentenza passata in giudicato.
Ne consegue che, con la domanda giudiziale, si avranno sì gli effetti interruttivi e sospensivi della
prescrizione, ma in caso di sentenza di condanna passata in giudicato, il nuovo periodo che
decorre per la prescrizione avrà durata di 10 anni, se per quel diritto è prevista dalla legge una
prescrizione (breve) minore. Il titolare del diritto, in questo caso, avrà quindi più tempo per
esercitare il suo diritto (e per provocare un nuovo effetto interruttivo della prescrizione).

L’usucapione merita però un discorso diverso. Mentre, in generale, per i diritti di credito basta una
semplice attività da parte del titolare per interrompere la prescrizione, nel caso dei diritti reali (e,
quindi, dell’usucapione), per interrompere la prescrizione, l’unico atto valido è la proposizione
della domanda giudiziale. Tale regola è ricavabile dall’art.2943 co.4, cod. civ. : <<La prescrizione è
inoltre interrotta da ogni altro atto che valga a costituire in mora il debitore e dall'atto notificato
con il quale una parte, in presenza di compromesso o clausola compromissoria, dichiara la propria
intenzione di promuovere il procedimento arbitrale, propone la domanda e procede, per quanto le
spetta, alla nomina degli arbitri>>.
Il co.4 fa infatti riferimento ad una “costituzione in mora del debitore” che non può essere
possibile nei casi di diritti reali, perché questi tipi di diritti si caratterizzano per l’avere ad oggetto
un bene (res); la figura di un debitore è quindi assolutamente da escludere .
Escludendo, perciò, per i diritti reali <<ogni altro atto che valga a costituire in mora il debitore>>, si
ricava che l’unico atto valido per interrompere la prescrizione è la proposizione della domanda
giudiziale. Abbiamo citato il caso dell’usucapione perché capita spesso nella pratica che molti
avvocati, non conoscendo questa regola, cercano di interrompere la prescrizione con varie attività
che non costituiscono proposizione di domanda giudiziale.

CAPITOLO 5° - LE PARTI

Riguardo alle parti, le domande che dobbiamo porci sono :


A)chi è parte nel processo?

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B)chi è capace di essere parte nel processo?


C) chi è parte legittimata?
D) chi è parte processualmente capace?

A)PARTE : è parte colui che propone la domanda giudiziale, e colui contro il quale la domanda è
proposta. La proposizione della domanda fa quindi acquistare la qualità di parte.

B)CAPACITA’ DI ESSERE PARTE : la capacità di essere parte nel processo è l’idoneità ad essere
destinatari degli effetti del provvedimento del giudice. In altre parole, è capace di essere parte chi
è soggetto di diritto, così che la capacità d’essere parte finisce con l’essere la trasposizione
nell’ambito del diritto processuale della nozione di capacità giuridica

C)LEGITTIMAZIONE AD ESSERE PARTE : correlazione tra la qualità di parte e la titolarità del


rapporto dedotto in giudizio.

D)E’ parte processualmente capace chi ha la CAPACITA’ PROCESSUALE, cioè l’idoneità a compiere
gli atti del processo. Se la capacità di essere parte coincide con la capacità giuridica del diritto
sostanziale, la capacità processuale coincide con la capacità d’agire che, nel diritto sostanziale,
rappresenta la capacità del soggetto di compiere atti giuridicamente validi, e si acquista con il
raggiungimento della maggiore età (18 anni).
Da segnalare è l’art.75, co. 3 e 4 che recita : << Le persone giuridiche stanno in giudizio per mezzo
di chi le rappresenta a norma della legge o dello statuto.
Le associazioni e i comitati, che non sono persone giuridiche, stanno in giudizio per mezzo delle
persone indicate negli articoli 36 e seguenti del Codice civile>>.
Ci piace però pensare all’art.75, 4° co., come una “categoria aperta”, nel quale non siano
ricomprese solo le associazioni e i comitati, ma anche tutti quegli enti senza personalità giuridica
che si ritrovano sempre più di frequente in ogni settore della vita quotidiana, come ad esempio le
società di persone, i condomini, i partiti, ecc. .
Tali enti hanno la capacità di essere parte, ma non la capacità processuale; infatti, la norma dice
che parte del processo è l’associazione o il comitato, ma gli atti processuali saranno compiuti dalle
persone fisiche abilitate a stare in giudizio in nome e per conto degli stessi; tali persone fisiche non
sono parti, in quanto agiscono come se fossero dei rappresentanti; di conseguenza, le vicende che
possono riguardare questi ultimi (es. : morte) non incidono sul processo in corso, che continua
normalmente come se questi non si fossero verificati.
Quindi, il condominio, il partito, ecc. saranno parti del processo perché comunque idonei
destinatari degli effetti del provvedimento del giudice, ma gli atti processuali (per il compimento
dei quali è invece necessaria la capacità processuale) saranno compiuti da chi ne ha la
rappresentanza.

Posto che i minori degli anni 18 e gli interdetti non hanno assolutamente capacità d’agire – e sono
perciò anche processualmente incapaci – dobbiamo dire che in nome e per conto loro staranno in
giudizio le persone che hanno la legale rappresentanza, e cioè, rispettivamente, i genitori e i tutori.
Gli emancipati, invece, possono stare in giudizio con l’assistenza del curatore, mentre per gli atti
eccedenti l’ordinaria amministrazione è di solito richiesta l’autorizzazione giudiziaria. Stesso
discorso vale per gli inabilitati.

Il pericolo che si annida in ogni lite è quello che il processo sia iniziato (e proseguito) da un
soggetto che non è processualmente capace, ovvero da chi non abbia la rappresentanza,

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l’assistenza o non sia munito delle prescritte autorizzazioni.


Il legislatore del 2009 è intervenuto riscrivendo l’art.182.

Art.182 – Difetto di rappresentanza o di autorizzazione : << Il giudice istruttore verifica d'ufficio la


regolarità della costituzione delle parti e, quando occorre, le invita a completare o a mettere in
regola gli atti e i documenti che riconosce difettosi.
Quando rileva un difetto di rappresentanza, di assistenza o di autorizzazione ovvero un vizio che
determina la nullità della procura al difensore, il giudice assegna alle parti un termine perentorio
per la costituzione della persona alla quale spetta la rappresentanza, o l'assistenza, o per il rilascio
delle necessarie autorizzazioni, ovvero per il rilascio della procura alle liti o per la rinnovazione
della stessa. L'osservanza del termine sana i vizi, e gli effetti sostanziali e processuali della
domanda si producono fin dal momento della prima notificazione>>.

Il giudice ha quindi il potere si sanare il difetto di rappresentanza processuale permettendo, entro


un termine perentorio, la costituzione della persona alla quale spetta la rappresentanza o
l’assistenza, o comunque il rilascio delle necessarie autorizzazioni. Inoltre, è espressamente
previsto che la sanatoria nel temine stabilito dal giudice abbia efficacia ex tunc, con la
conseguenza che gli effetti sostanziali e processuali della domanda si produrranno sin dal
momento della prima notificazione. Prima dell’intervento del legislatore del 2009 tale sanatoria
aveva efficacia ex nunc.

LA RAPPRESENTANZA PROCESSUALE

La rappresentanza processuale può essere distinta in 3 tipi di rappresentanza:

-LA RAPPRESENTANZA NECESSARIA, che si ha quando la parte debba, per legge, servirsi della
intermediazione di un altro soggetto per stare in giudizio. Proprio per questo, tale tipo di
rappresentanza è detta rappresentanza legale e necessaria. Le ipotesi di rappresentanza
necessaria sono state già analizzate nel paragrafo precedente quando si sono esaminati i casi di
soggetti capaci di essere parti, ma sforniti di capacità processuale (i minori, gli interdetti, ecc.).
Con la rappresentanza necessaria si ha una sorta di soggetto complesso perché le situazioni
giuridiche che si verificano nel processo vengono a far capo insieme alla parte e al suo
rappresentante; gli effetti del provvedimento giudiziale hanno però per destinatario solo la parte;

-LA RAPPRESENTANZA VOLONTARIA, che si verifica quando un soggetto, senza alcuna giuridica
necessità, ma solo per sopperire ad esigenze personali o per ragioni di comodo, dà incarico ad un
altro soggetto di stare in giudizio in suo nome e per suo conto.
I casi in cui può aversi rappresentanza volontaria sono previsti dalla legge (art.77). Il legislatore ha
infatti ristretto l’ambito dentro il quale può aversi tale rappresentanza, collegando quest’ultima
alla rappresentanza sostanziale : infatti, il rappresentante può stare in giudizio in nome e per
conto del rappresentato solo quando sia procuratore generale di quest’ultimo, o quando sia
preposto (è il caso dell’institore) a determinati affari (in relazione ai quali è sorta la controversia).
Da ciò si è dedotto che dove non è possibile la rappresentanza sostanziale (es., nel campo dei
diritti indisponibili), non è del pari ammissibile quella processuale;

-LA RAPPRESENTANZA TECNICA, cioè il caso del difensore tecnico (avvocato). La funzione di tale
rappresentanza è infatti di carattere tecnico e si collega alla necessità o all’opportunità che la
parte abbia nel processo una specie di intermediario, il quale parli, per così dire, lo stesso
linguaggio del giudice. Anche se il difensore tecnico, come abbiamo detto, è un intermediario, la

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sua funzione è completamente diversa da quella svolta dal rappresentante volontario. Infatti, se
una persona conferisce la procura a un altro soggetto, quest’ultimo avrà – al pari del
rappresentato – il problema di farsi rappresentare da un avvocato, salvo che abbia la possibilità di
esercitare l’ufficio di difensore (il caso è previsto dall’art.86, che stabilisce che gli avvocati possono
stare in giudizio senza un altro difensore).
I casi in cui è necessaria la rappresentanza tecnica e la relativa disciplina sono previsti dall’art.82.
Art.82 – Patrocinio : <<Davanti al giudice di pace le parti possono stare in giudizio personalmente
nelle cause il cui valore non eccede euro 1.100.
Negli altri casi, le parti non possono stare in giudizio se non col ministero o con l'assistenza di
un difensore. Il giudice di pace tuttavia, in considerazione della natura ed entità della causa, con
decreto emesso anche su istanza verbale della parte, può autorizzarla a stare in giudizio di
persona.
Salvi i casi in cui la legge dispone altrimenti, davanti al tribunale e alla corte di appello le parti
debbono stare in giudizio col ministero di un procuratore legalmente esercente; e davanti
alla Corte di cassazione col ministero di un avvocato iscritto nell'apposito albo>>.

LA SOSTITUZIONE PROCESSUALE

La sostituzione è un fenomeno in base al quale un soggetto, detto sostituto, sta in giudizio in nome
proprio e per conto di un altro soggetto, detto sostituito.
La differenza con la rappresentanza processuale è evidente : il rappresentante, infatti, non agisce
in suo nome, ma sia in nome che per conto del rappresentato.
Il sostituto fa infatti valere un diritto del sostituito, soddisfacendo però un interesse proprio.
Il sostituto è comunque una parte del processo; però, proprio perché è parte nel processo per una
situazione giuridica che non gli appartiene, questi non può compiere atti che implicano
disposizione del diritto; non può inoltre rendere confessione e deferire il giuramento decisorio.
La sostituzione processuale costituisce una deroga al principio, che oggi ha anche rilievo
costituzionale (art.24, 1° co., Cost.), della normale correlazione fra titolarità dell’azione e titolarità
della situazione sostanziale dedotta nel processo. Proprio per questo, le ipotesi di sostituzione
processuale sono eccezionali e previste dalla legge.
Vediamo, allora, qualche caso di sostituzione processuale :
1)AZIONE SURROGATORIA – art.2900 cod. civ. : <<Il creditore, per assicurare che siano soddisfatte
o conservate le sue ragioni, può esercitare i diritti e le azioni che spettano verso i terzi al proprio
debitore e che questi trascura di esercitare, purché i diritti e le azioni abbiano contenuto
patrimoniale e non si tratti di diritti o di azioni che, per loro natura o per disposizione di legge, non
possono essere esercitati se non dal loro titolare.
Il creditore, qualora agisca giudizialmente, deve citare anche il debitore al quale intende surrogarsi
[c.p.c. 102]>>;
2)CESSIONE DEI BENI AI CREDITORI :
-Art.1977 cod. civ. : <<La cessione dei beni ai creditori è il contratto col quale il debitore incarica i
suoi creditori o alcuni di essi di liquidare tutte o alcune sue attività e di ripartirne tra loro il ricavato
in soddisfacimento dei loro crediti>>;
-Art.1979 cod. civ. : <<L'amministrazione dei beni ceduti spetta ai creditori cessionari. Questi
possono esercitare tutte le azioni di carattere patrimoniale relative ai beni medesimi>>.
La cessione dei beni ai creditori è un’ipotesi di sostituzione processuale, perché i creditori
cessionari possono esercitare tutte le azioni di carattere personale relative ai beni che il debitore
ha ceduto. Infatti, poiché il negozio di cessione non comporta il trasferimento dei beni dal
debitore ai creditori, ma conferisce a questi solamente il potere di liquidarli al fine di consentire il

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soddisfacimento dei crediti attraverso la ripartizione del ricavato, è evidente che il potere d’azione
dei creditori è sostitutivo di quello del debitore, e che tale sostituzione è giustificata dal
sottostante contratto di cessione.

LA SUCCESSIONE A TITOLO UNIVERSALE NEL PROCESSO

La successione a titolo universale nel processo è disciplinata dall’art.110.

Art.110 – Successione nel processo : <<Quando la parte viene meno per morte o per altra causa, il
processo è proseguito dal successore universale o in suo confronto>>.

La prima parte della disposizione non ha bisogno di commento : si riferisce alle persone fisiche e
individua l’unica vicenda che fa venir meno la capacità giuridica, e quindi la capacità di esser parte,
di questo soggetto, cioè la morte (a cui la legge equipara la morte presunta).
Quindi, la morte, facendo venir meno la capacità giuridica della parte, rappresenta sicuramente
una causa di successione universale. In questo caso, muta la parte processuale senza che ci sia la
costituzione di un nuovo rapporto processuale; il successore universale, infatti, subentra nella
totalità dei rapporti trasmissibili (sui diritti intrasmissibili, come ad es. il divorzio, la controversia
non può invece proseguire) del de cuius : egli ha quindi nel giudizio gli stessi poteri ed oneri del
dante causa, e non potrà proporre domande nuove o istanze istruttorie dalle quali il de cuius sia
decaduto.

Qualche problema interpretativo si pone invece quando si voglia chiarire il significato


dell’espressione <<venir meno per altra causa>>.
Dobbiamo innanzitutto precisare che, mentre la prima parte della disposizione (di cui abbiamo
appena parlato) fa riferimento alla successione universale mortis causa, la parte che andremo ora
ad esaminare fa riferimento alla successione universale inter vivos (per atto fra vivi).
Tornando all’espressione <<venir meno per altra causa>>, è molto evidente che la legge, in questo
caso, si sia riferita alle persone giuridiche e alla loro possibilità di estinzione.
Per risolvere tale problema dobbiamo prendere in considerazione l’art.2504bis, 1°co., cod. civ.,
che fa riferimento alla fusione tra società.
L’originaria formulazione dell’art.2504bis prevedeva che <<la società che risulta dalla fusione o
quella incorporante assumono i diritti e gli obblighi delle società estinte>>; da ciò si riteneva che la
fusione e l’incorporazione fossero casi tipici di successione a titolo universale tra enti perché il
processo si interrompeva, e veniva poi riassunto dalla nuova società.
L’art.2504 bis è stato poi modificato nel 2003, e la nuova formulazione prevede che <<la società
che risulta dalla fusione o quella incorporante assumono i diritti e gli obblighi delle società
partecipanti alla fusione, proseguendo i tutti i loro rapporti, anche processuali, anteriori alla
fusione>>. Da ciò la giurisprudenza ha dedotto che, proseguendo il processo senza interruzioni nei
confronti del nuovo soggetto, la fusione (o l’incorporazione) configura una vicenda meramente
evolutivo-modificativa dello stesso soggetto, e, quindi, non una vicenda estintiva. Se la fusione
avesse configurato invece una vicenda estintiva, avremmo potuto parlare di successione a titolo
universale.
Con la modificazione dell’art.2504 bis possiamo perciò affermare che la fusione (o
l’incorporazione) non rappresenta più un’ipotesi di successione universale; di conseguenza,
dobbiamo dire che nel nostro ordinamento non sono presenti fenomeni di successione universale
inter vivos.

LA SUCCESSIONE A TITOLO PARTICOLARE NEL DIRITTO CONTROVERSO

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A differenza della successione a titolo universale, la successione a titolo particolare si verifica


quando, in pendenza di una lite, il diritto in contestazione viene trasferito dalla parte ad un terzo.
La successione a titolo particolare è disciplinata dall’art.111.

Art.111 – Successione a titolo particolare nel diritto controverso : <<Se nel corso del processo si
trasferisce il diritto controverso per atto tra vivi a titolo particolare, il processo prosegue tra le parti
originarie.
Se il trasferimento a titolo particolare avviene a causa di morte, il processo è proseguito
dal successore universale o in suo confronto.
In ogni caso il successore a titolo particolare può intervenire o essere chiamato nel processo e, se le
altre parti vi consentono, l'alienante o il successore universale può esserne estromesso.
La sentenza pronunciata contro questi ultimi spiega sempre i suoi effetti anche contro il successore
a titolo particolare ed è impugnabile anche da lui, salve le norme sull'acquisto in buona fede dei
mobili e sulla trascrizione.>>

Tale articolo fa riferimento al caso in cui, durante una lite, il convenuto compia atti di disposizione
(es. : trasferimento del bene) del diritto controverso, cioè del diritto oggetto della lite. Il 1° comma
stabilisce che, anche se una parte compie atti di disposizione, <<il processo prosegue tra le parti
originarie>>. Tale previsione è fatta per far sì che l’alienazione non pregiudichi la situazione del
soggetto che è rimasto ad essa estraneo.
Spieghiamo tale situazione con un esempio : Tizio rivendica il bene X contro Caio; in corso di causa,
Caio aliena il bene X a Sempronio.
Il 1° comma della disposizione in esame, insomma, esprime la necessità di evitare che l’attore
(Tizio), che ha ragione, sia esposto, nella prosecuzione del processo, a subire le conseguenze dei
comportamenti del convenuto (Caio).
In base a tale meccanismo posto in essere dal legislatore, l’atto di disposizione tra il convenuto e il
terzo risulta irrilevante (perciò il processo prosegue tra le parti originarie). Si ha, però, in questo
caso successione a titolo particolare perché comunque la sentenza del processo proseguito tra le
parti originarie spiega tutti i suoi effetti nei confronti del terzo, che in questo caso è un successore.
Il successore, in base alla previsione del 3° comma, può anche intervenire nel processo tra le parti
originarie.
Tornando al nostro esempio, se il processo si conclude con una sentenza di accoglimento della
domanda di Tizio, tale sentenza, che condannerà Caio alla restituzione del bene, potrà essere
messa in esecuzione anche contro Sempronio.
L’efficacia della sentenza anche contro il successore a titolo particolare è prevista dall’ultimo (4°)
comma dell’art.111. E’ previsto che il successore può tutelarsi dagli effetti della sentenza solo in 2
modi:
-in caso di diritti mobiliari, con la regola secondo cui il possesso di buona fede vale titolo, prevista
dall’art.1153 (<<Colui al quale sono alienati beni mobili da parte di chi non è proprietario, ne
acquista la proprietà mediante il possesso, purché sia in buona fede al momento della consegna e
sussista un titolo idoneo al trasferimento della proprietà.
La proprietà si acquista libera da diritti altrui sulla cosa, se questi non risultano dal titolo e vi è la
buona fede dell'acquirente>>);
-in caso di diritti immobiliari, con le regole sulla trascrizione; ciò significa che il successore può
salvarsi dagli effetti della sentenza, e non potrà quindi essere pregiudicato dall’eventuale
soccombenza nel processo del dante causa, se ha trascritto il suo acquisto prima della trascrizione
della domanda giudiziale.

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Le norme sull’acquisto in buona fede dei beni mobili e quelle sulla trascrizione rappresentano
quindi dei limiti alla estensione dell’efficacia della sentenza (proseguita tra le parti originarie).

Fino ad ora abbiamo esaminato la successione a titolo particolare inter vivos. La successione a
titolo particolare mortis causa è disciplinata dal 2° comma dell’art.111, che prevede l’ipotesi del
legato, che rappresenta l’attribuzione con cui il testatore attribuisce a un soggetto da lui indicato
nominativamente, detto legatario, singoli beni a carico dell'eredità. il legato, proprio perché si
riferisce a singoli beni del de cuius,rappresenta successione a titolo particolare mortis causa. La
disposizione però stabilisce che << il processo è proseguito dal successore universale o in suo
confronto>>, e non dal legatario stesso.

Come abbiamo già accennato nel capitolo precedente, la successione a titolo particolare nel diritto
controverso è uno degli effetti processuali della proposizione della domanda giudiziale perché dal
giorno della proposizione della stessa il diritto fatto valere è reso controverso tra le parti. La
successione a titolo particolare non ha infatti luogo se il diritto non è controverso. Non può aversi
successione se il trasferimento del diritto è avvenuto prima della domanda giudiziale. Nel nostro
esempio, se Tizio rivendica il bene verso Caio dopo che quest’ultimo l’ha alienato a Sempronio, la
sua domanda contro di Caio sarà inammissibile (perché Caio non ha più legittimazione) e, per
essere valida, dovrà proporla contro Sempronio, non avendosi così ipotesi di successione. Se,
invece, come abbiamo visto, la domanda di Tizio è proposta prima del trasferimento, tale
domanda rende il diritto fatto valere controverso, e da quel momento, se Caio a sua volta lo
trasferisce, si avrà successione a titolo particolare.

IL LITISCONSORZIO NECESSARIO

Si ha litisconsorzio necessario quando nello stesso processo vi debbono essere necessariamente


più di 2 parti. Il litisconsorzio necessario è disciplinato dall’art.102.

Art.102 – Litisconsorzio necessario : <<Se la decisione non può pronunciarsi che in confronto di
più parti, queste debbono agire o essere convenute nello stesso processo.
Se questo è promosso da alcune o contro alcune soltanto di esse, il giudice ordina l'integrazione
del contraddittorio in un termine perentorio da lui stabilito>>.

Le IPOTESI di litisconsorzio necessario possono essere così raggruppate :

-litisconsorzio per ragioni di ordine sostanziale : si ha in questo caso litisconsorzio perché c’è
un’unica situazione sostanziale che fa capo a più titolari. Un esempio di litisconsorzio per ragioni di
ordine sostanziale è lo scioglimento della comunione : infatti, quando si propone domanda per lo
scioglimento della comunione, devono partecipare al giudizio di scioglimento tutti coloro che
fanno parte della comunione al momento della proposizione della domanda;

-litisconsorzio che deriva da ipotesi di legittimazione straordinaria : in questi casi si riconosce la


legittimazione (straordinaria) ad agire ad un soggetto che non è parte della situazione o del
rapporto controverso. Esempio classico è l’azione surrogatoria disciplinata dall’art.2900 cod. civ. :
quando il creditore agisce in giudizio facendo valere il diritto del suo debitore nei confronti del
terzo, deve chiamare nel processo entrambi i soggetti del rapporto controverso, dal momento che
la decisione sarà riferita necessariamente ad entrambi;

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-litisconsorzio per ragioni di opportunità : in questi casi è la legge che, attraverso mere
considerazioni di opportunità, consiglia un processo a più parti, che, senza la sua previsione, si
sarebbe potuto svolgere anche senza litisconsorzio. Esempio : azione diretta del danneggiato dalla
circolazione di veicoli e natanti nei confronti della compagnia di assicurazione del danneggiante.
Tale azione diretta è stata introdotta dalla legge n.990 del 1969 e prevede che il danneggiato, in
caso di sinistro, può agire direttamente nei confronti dell’assicurazione del responsabile per il
risarcimento del danno. Pur se si agisce direttamente contro l’assicurazione, la legge ha disposto
comunque la necessità di chiamare nel processo anche il responsabile del danno. Si avrà quindi
litisconsorzio perché, nello stesso processo, ci saranno : il danneggiato, il danneggiante e la
compagnia assicuratrice. In questo caso l’opportunità del litisconsorzio è valutata stesso dalla
legge n.990 del 1969 per i casi di assicurazioni su veicoli e natanti; per gli altri tipi di assicurazione,
invece, non è prevista tale azione diretta, e il danneggiato ha azione nei confronti del responsabile,
ed è questi che può (eventualmente) chiamare in giudizio il suo assicuratore per essere tenuto
indenne da quanto dovrà pagare a causa del fatto coperto da assicurazione.

In base alla statuizione del 2° comma, se manca nel processo uno o più litisconsorti, il giudice deve
ordinare il contraddittorio per far partecipare al processo stesso tutti i litisconsorti necessari. Il
giudice, quindi, fin dalle prime battute deve controllare se nel processo vi sono le giuste parti e, se
ravvisa un difetto del contraddittorio, deve ordinarne l’integrazione. L’ordine è rivolto a tutte le
parti costituite e deve essere adempiuto in un termine perentorio, pena l’estinzione del processo.
Ed è giusto che sia così, perché a contraddittorio non integro mai potrebbe essere emanata una
pronuncia di merito.
Senza integrazione del contraddittorio la sentenza pronunciata sarà nulla, e quindi impugnabile in
appello.
Quando invece l’ordine di integrazione è puntualmente eseguito (dalle parti costituite), il processo
prosegue normalmente come se la domanda fosse stata notificata fin dall’origine a tutti i
litisconsorti (si attua, perciò, una sanatoria della domanda giudiziale con effetto retroattivo).

E’ utile precisare che nelle obbligazioni solidali non c’è litisconsorzio necessario perché il creditore
può agire contro uno solo degli obbligati solidali.

IL LITISCONSORZIO FACOLTATIVO E IL CUMULO

Si ha litisconsorzio facoltativo quando nel processo originario, già regolarmente instaurato, si


inserisce un nuovo soggetto che vi abbia sufficiente interesse. Mentre nel caso di litisconsorzio
necessario, se non sono chiamati a partecipare al giudizio tutti i litisconsorti non si può procedere
verso una valida decisione finale, nel caso di litisconsorzio facoltativo si può pervenire alla valida
decisione anche senza la partecipazione delle parti aggiunte. La facoltatività del litisconsorzio si
giustifica nella scindibilità delle cause semplicemente connesse, che potrebbero dar luogo da parte
di ciascun litisconsorte ad autonomi giudizi, ma che per ragioni di economia processuale sono
trattate congiuntamente nel medesimo processo.

Il litisconsorzio facoltativo può essere originario o successivo:


-LITISCONSORZIO FACOLTATIVO ORIGINARIO : si ha quando il processo nasce fin dall’inizio con
più (di due) parti, senza che questa partecipazione plurima sia imposta da esigenze di necessità
logica o giuridica. Il litisconsorzio facoltativo originario è disciplinato espressamente dall’art.103, e

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trova la sua ragion d’essere in un legame che collega più cause connesse e che consiglia o rende
possibile raccoglierle insieme
-LITISCONSORZIO FACOLTATIVO SUCCESSIVO : si ha quando il processo nasce tra 2 parti, ma in un
momento successivo si aggiungono altre parti; queste parti si aggiungono al processo mediante
INTERVENTI (che studieremo nel prossimo paragrafo). Il litisconsorzio facoltativo successivo,
infatti, non è regolato da un’apposita norma, ma trova la sua normativa negli artt. 105 ss. dedicati
agli interventi, e quindi alla possibilità di partecipare al processo di nuovi soggetti oltre le parti
originarie.

Veniamo ora all’art.103.


Art.103 – Litisconsorzio facoltativo : << Più parti possono agire o essere convenute nello stesso
processo, quando tra le cause che si propongono esiste connessione per l'oggetto o per il titolo dal
quale dipendono, oppure quando la decisione dipende, totalmente o parzialmente, dalla
risoluzione di identiche questioni.
Il giudice può disporre, nel corso della istruzione o nella decisione, la separazione delle cause, se vi
è istanza di tutte le parti, ovvero quando la continuazione della loro riunione ritarderebbe o
renderebbe più gravoso il processo, e può rimettere al giudice inferiore le cause di
sua competenza>>.

Il 1° comma contempla tanto il litisconsorzio facoltativo proprio, quanto quello improprio:


-IL LITISCONSORZIO FACOLTATIVO PROPRIO è quel litisconsorzio facoltativo che nasce da
connessione per l’oggetto o per il titolo (o per entrambi) tra le cause che si propongono. Si parla in
questo caso di CONNESSIONE PROPRIA tra le cause che si propongono.
Esempio di connessione per il titolo : due o più persone sono trasportate su di un autoveicolo e
durante il percorso subiscono danni per un incidente stradale. Se queste persone agiscono contro
il responsabile del sinistro per ottenere il risarcimento dei danni, possono riunirsi e proporre un
unico atto di citazione. In questo caso, il titolo della domanda (la c.d. causa petendi) è lo stesso
nelle varie azioni (e cioè l’illecito prodotto all’atto del sinistro stradale). Noi, In realtà,
comprendiamo che : ciascuno dei danneggiati potrebbe agire per suo conto; taluno potrebbe
anche rinunciare ad agire senza che, per questo motivo, gli altri non possano chiedere il
risarcimento dei danni. Inoltre, se ognuno agisce per suo conto, nulla esclude che i più giudici aditi
decidano diversamente, riconoscendo in qualche caso la responsabilità e in qualche caso
negandola o graduandola diversamente. E’ proprio per questo che il legislatore prevede e in
qualche modo favorisce la trattazione unitaria : per evitare giudicati contraddittori.
Esempio di connessione per l’oggetto : nello stesso esempio ora fatto, può darsi il caso che il
danneggiato chieda il risarcimento dei danni non solo nei confronti del conducente, ma anche nei
confronti del proprietario del veicolo (ex art.2054, 1° e 3° co., c.c.). In questo caso le due domande
sono collegate per essere identico l’oggetto (il risarcimento dei danni), ma la causa petendi è
parzialmente diversa, perché per il conducente va individuata nel fatto colposo in cui è incorso al
momento dell’incidente, e per il proprietario del veicolo nell’affidamento della vettura al
conducente.
-IL LITISCONSORZIO FACOLTATIVO IMPROPRIO è quel litisconsorzio facoltativo che si ha quando
le cause che si propongono hanno in comune alcune questioni, e la decisione finale del processo
dipende totalmente o parzialmente dalla risoluzione di tali questioni. Si parla in questo caso di
CONNESSIONE IMPROPRIA tra le cause che si propongono. In questo caso, infatti, il legame è più
tenue rispetto a quello del litisconsorzio facoltativo proprio, ma considerazioni di economia
processuale e l’esigenza di pervenire a soluzioni armoniche fanno sì che il codice prenda in
considerazione la possibilità della trattazione unitaria delle più cause. Si pensi al caso che i

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lavoratori abbiano da sollevare nei confronti del datore di lavoro identiche questioni di diritto (o
anche solo di fatto), deducendo particolari inadempienze nei loro confronti. In questo caso non
solo è possibile, ma è persino opportuno che i lavoratori si mettano d’accordo e propongano un
unico ricorso al giudice del lavoro.

Il 2° comma afferma invece il principio della separazione, in base al quale, se c’è un processo
formalmente unico nel quale convivono cause sostanzialmente autonome, al giudice è consentito
di disporre, sulla base di valutazioni di opportunità, che le cause o alcune di esse procedano
distintamente.

Vediamo ora il CUMULO.


Si ha cumulo quando nello stesso processo vi sono più cause.
Come possiamo notare, il litisconsorzio va visto dal punto di vista delle (più) parti che fanno parte
dello stesso processo; il cumulo, invece, va visto dal punto di vista delle cause che sono decise
nello stesso processo.
Analizziamo ora i fenomeni dal punto di vista del cumulo, cioè fenomeni caratterizzati dalla
presenza di più cause all’interno dello stesso processo.
Una processo può caratterizzarsi per la presenza del litisconsorzio(A) o del cumulo(B), ed anche
per la presenza di entrambi (C):

A)Il litisconsorzio necessario (art.102) è un fenomeno di litisconsorzio senza cumulo perché ci sono
più di due parti, ma la causa è unica;

B)Invece, un esempio di cumulo senza litisconsorzio è l’art.104 perché abbiamo più cause, ma 2
sole parti.

Art.104 – Pluralità di domande contro la stessa parte : <<Contro la stessa parte possono proporsi
nel medesimo processo più domande anche non altrimenti connesse, purché sia osservata la
norma dell'articolo 10 secondo comma. È applicabile la disposizione del secondo comma
dell'articolo precedente>>.

C)Il litisconsorzio facoltativo (art.103)è invece un esempio di litisconsorzio + cumulo, perché al


litisconsorzio facoltativo corrisponde sempre una pluralità di cause. L’art.103 rappresenta quindi
sicuramente un’ipotesi di cumulo. Il cumulo, però, va distinto in 2 tipi:

-CUMULO NECESSARIO. Si ha cumulo necessario quando le domande proposte tendono ad un


risultato unico, un risultato cioè infrazionabile, inseparabile. In tali casi la legge vuole che le
domande siano trattate in un unico processo. Il caso che ci permette di capire la figura del cumulo
necessario è quello dell’impugnazione delle delibere assembleari. Secondo l’art.2378, co.5, cod.
civ., ciascuno dei soci assenti o dissenzienti può impugnare per suo conto la deliberazione, ma le
impugnazioni della medesima deliberazione devono essere istruite congiuntamente e decise con
unica sentenza. Ciò vuol dire che:
a)le varie azioni sono originariamente autonome e indipendenti;
b)che il giudice non deve ordinare l’integrazione del contraddittorio nei confronti degli altri soci
assenti o dissenzienti;
c)che, tuttavia, qualora vi sia una pluralità di impugnazioni, queste devono essere trattate in un

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unico processo;
d)che non è consentita la separazione e che è necessaria una decisione unica.
E’ proprio per questi motivi che la dottrina ha denominato tale figura con litisconsorzio unitario,
perché può intendersi come una figura intermedia tra il litisconsorzio necessario e quello
facoltativo. Sempre riferendoci al caso delle delibere assembleari, il litisconsorzio unitario ha come
caratteristica del litisconsorzio necessario la partecipazione delle più parti nello stesso processo,
con istruzione e decisione finale unica, e il divieto da parte del giudice di separare le domande
stesse; col litisconsorzio facoltativo ha invece in comune il fatto che il processo può proseguire
senza la partecipazione di alcune parti, e il giudice non deve perciò ordinare l’integrazione del
contraddittorio.

-CUMULO FACOLTATIVO. Si ha invece cumulo facoltativo quando le domande tendono ad un


risultato che l’ordinamento può anche permettere con trattazione diversa.

E’importante capire se c’è cumulo necessario o cumulo facoltativo perché in caso di litisconsorzio
facoltativo con cumulo necessario si applicheranno le norme sul litisconsorzio necessario, tranne
2:
1)l’art.102 co.2 relativa all’ordine di integrare il contraddittorio;
2)l’art.103 co.2 relativa alla separazione delle cause (che vale soltanto per il caso di litisconsorzio
facoltativo con cumulo facoltativo), perché, come abbiamo già detto, le domande proposte in caso
di cumulo necessario vengono trattate, istruite e decise unitariamente, non essendo perciò
possibile la separazione delle stesse.
Ne consegue che la separazione delle cause potrà aversi solo in caso di cumulo facoltativo, e non
in caso di cumulo necessario.

GLI INTERVENTI VOLONTARI

Nell’ambito del litisconsorzio facoltativo successivo la pluralità di parti all’interno del processo si
verifica con l’istituto dell’intervento. Con gli interventi, infatti, si realizza il litisconsorzio in corso di
causa, e la realizzazione della pluralità di parti è quindi successiva (all’atto iniziale del processo) e
meramente eventuale. Gli interventi sono contrassegnati dal fatto :
a)che il processo già pende fra le parti legittimate;
b)che terzi si inseriscono in questo processo di propria iniziativa (intervento volontario) o vengono
chiamate perché vi si inseriscano (intervento coatto).
L’intervento volontario è disciplinato dall’art.105.

Art.105 – Intervento volontario : <<Ciascuno può intervenire in un processo tra altre persone per
far valere, in confronto di tutte le parti o di alcune di esse, un diritto relativo all'oggetto o
dipendente dal titolo dedotto nel processo medesimo.
Può altresì intervenire per sostenere le ragioni di alcuna delle parti, quando vi ha un proprio
interesse>>.

La norma disciplina l’intervento volontario nelle sue 3 forme:


-INTERVENTO PRINCIPALE. L’intervento principale è previsto dal 1° comma (<<in confronto di
tutte le parti>>) e si ha quando l’interventore interviene nei confronti di entrambe (o di tutte, se
più di due) le parti del processo per far valere un proprio diritto.
L’esempio universalmente noto di intervento di questo tipo è il seguente : Tizio agisce contro Caio
per rivendicare la proprietà del bene X; nel processo interviene Sempronio affermando che la
proprietà del bene X non è né di Tizio né di Caio, ma sua, e, di conseguenza, rivendicandola. In

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questo caso egli interviene per far valere nei confronti di tutte le parti originarie un diritto relativo
all’oggetto della lite pendente;
-INTERVENTO ADESIVO AUTONOMO O LITISCONSORTILE. Tale tipo di intervento è previsto
ugualmente dal 1° comma dell’art.105 (<<in confronto … di alcune di esse>>) e si ha quando
l’interventore interviene nei confronti di una sola delle parti originarie (o di alcune, se più di due)
per far valere un proprio diritto. Esempio : Sempronio interviene nel processo in cui Tizio ha
chiesto la condanna di Caio al risarcimento dei danni, facendo valere una propria domanda di
risarcimento basata sullo stesso atto illecito;
-INTERVENTO ADESIVO DIPENDENTE, O INTERVENTO SEMPLICE. L’intervento semplice è invece
previsto dal 2° comma, e si ha quando l’interventore non interviene nel processo per far valere un
proprio diritto (come nei due casi precedenti), ma interviene a beneficio di una delle 2 parti per far
valere un proprio INTERESSE. Tale tipo di intervento è detto “adesivo dipendente” perché la
posizione di chi interviene dipende da una (o da alcune) delle parti, dato che non ha un diritto
autonomo da far valere.
L’idea da cui è partito il legislatore del 1942 è semplice : la sentenza civile, spesso, svolge
un’efficacia ultra partes, che è efficacia indiretta o riflessa; i terzi, che possano essere pregiudicati
da tale efficacia, non hanno un’azione autonomamente esercitabile, ma possono partecipare al
processo tra le parti originarie per svolgere una sorta di controllo affinché il processo si svolga
regolarmente. Sulla base di questa impostazione, l’istituto finisce con l’essere una sorta di valvola
di sicurezza del sistema, una norma di chiusura. In tutti i casi in cui tra i rapporti giuridici esistono
nessi di pregiudizialità-dipendenza è inevitabile che le sentenze emanate su taluni di questi
rapporti, pur essendo sfornite di autorità nei confronti dei soggetti coinvolti nella situazione
“pregiudicata”, siano capaci di produrre conseguenze svantaggiose per costoro.
Ovviamente l’interesse che fa valere chi interviene non dev’essere un mero interesse di fatto, ma
un interesse giuridico che il giudice dovrà valutare di volta in volta se sia in grado di giustificare
l’intervento . Dobbiamo però precisare che in alcuni casi è la stessa legge che giustifica l’intervento
in presenza di interesse e non di diritto. L’esempio è l’art.1595, 3° co., c.c., che estende al
subconduttore l’efficacia della sentenza emessa nella causa tra locatore e conduttore; in questo
caso, quindi, l’estensione dell’efficacia della sentenza nei confronti del terzo è sancita
espressamente dall’ordinamento positivo.
Dopo aver chiarito la nozione e le figure dell’intervento volontario, dobbiamo esaminare i poteri
degli interventori. Esiste, com’è chiaro, stretto parallelismo tra l’art.103 prima parte, e l’art.105
co.1 : con il primo si realizza la trattazione unitaria di più cause fra loro connesse fin dall’origine;
con il secondo questa unitarietà viene realizzata successivamente; in entrambi i casi la ragione
giustificatrice è nell’esigenza di economia processuale e in quella di evitare il formarsi di giudicati
anche logicamente contraddittori. L’interveniente, principale o litisconsortile, perciò, esercita con
la sua domanda un’autonoma azione. Egli ha quindi tutti i poteri processuali della parte.
Più delicato è invece stabilire quali sono i poteri di chi spiega intervento adesivo dipendente,
perché mosso da un interesse e non da un diritto. Egli ha infatti una posizione processualmente
subordinata perché non ha tutti i poteri della parte. In particolare, egli NON PUO’:
-influire sul tema della lite;
-opporre eccezioni in senso stretto;
-influire sulla sopravvivenza del processo (così che se le parti originarie rinunziano all’azione non
può impedire l’estinzione del processo);
-compiere atti che implicano disposizione del diritto sostanziale (es. : confessione);
-proporre impugnazioni contro la sentenza.
L’interventore semplice invece PUO’:

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-proporre eccezioni in senso ampio;


-articolare prove e produrre documenti.

Abbiamo già detto che l’intervento volontario è un istituto che dà vita al litisconsorzio facoltativo
successivo; dal punto di vista invece del cumulo, il modello sembra essere quello del cumulo
facoltativo proprio perché il terzo, intervenendo nel processo, non introduce una propria causa,
ma rende soltanto possibile l’estensione nei suoi confronti dell’efficacia della sentenza su di un
rapporto pregiudiziale rispetto a quello di cui è il titolare.

Per quanto riguarda modi e tempi dell’intervento volontario, l’intervento avviene mediante una
comparsa formata ai sensi dell’art.167 e depositata in udienza o in cancelleria.
L’intervento può aver luogo sino all’udienza di precisazione delle conclusioni. E’ evidente, però,
che questa vicenda non può né deve compromettere il regolare svolgimento del processo. E’
perciò che l’art.268 co.2 stabilisce che <<il terzo non può compiere atti che al momento
dell’intervento non sono più consentiti ad alcuna altra parte>>. In pratica, l’interventore accetta la
causa in statu et terminis, subendo le preclusioni nelle quali siano incorse le altre parti.

GLI INTERVENTI COATTI

Come abbiamo già detto, si ha intervento volontario quando la parte, in modo spontaneo, entra a
far parte di un processo già iniziato. Gli interventi coatti, come quelli volontari, si verificano a
processo già iniziato, ma si distinguono da quelli volontari perché sono provocati da un’iniziativa
delle parti originarie o da un’iniziativa del giudice.

Gli interventi coatti possono essere distinti in 3 tipi :

-INTERVENTO A ISTANZA DI PARTE. Si ha intervento a istanza di parte quando la partecipazione


del terzo è provocata dall’iniziativa delle parti originarie. L’istituto è disciplinato dall’art.106.

Art.106 – Intervento su istanza di parte : <<Ciascuna parte può chiamare nel processo un terzo al
quale ritiene comune la causa o dal quale pretende essere garantita>>.

L’art.106 permette la chiamata del terzo a istanza di parte solo se si verifichi una di queste 2
condizioni :
-comunanza di causa;
-garanzia (che vedremo dopo con l’intervento di garanzia).

Si ha comunanza di causa in caso di :


1)connessione per oggetto e titolo;
2)connessione per oggetto o titolo;
3)contestazione della legittimazione passiva (rapporti alternativi);
4)contestazione della legittimazione attiva (rapporti alternativi).

La comunanza di causa di cui all’art.106 è un concetto vago e generico, non delineato bene dal
legislatore. Gran parte della dottrina collega infatti l’art.106 all’art.103. Questo collegamento,
però, ha dato luogo a non poche discussioni.
1)C’è chi sostiene che debba esserci connessione per oggetto e titolo. In tal caso il rapporto
dedotto in giudizio è connesso sia per il titolo che per l’oggetto con il rapporto facente capo al
terzo che si intende chiamare in causa.

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2)C’è poi chi sostiene che la connessione tra il rapporto dedotto in giudizio e quello facente capo
al terzo può anche basarsi solo su una connessione propria (che abbiamo già esaminato in tema di
litisconsorzio facoltativo), cioè una connessione per l’oggetto o per il titolo.
3)Anche se l’art.106 dovrebbe far riferimento soltanto ai tipi di connessione di cui abbiamo
appena parlato, la giurisprudenza vi fa rientrare tra i casi in cui c’è comunanza di causa anche i casi
di contestazione della legittimazione.
La contestazione della legittimazione passiva è un caso particolare che si presenta sempre più
spesso nella prassi. E’ il caso in cui il convenuto originario non contesta la domanda nella sua
interezza, ma si limita ad eccepire di non essere egli il titolare della situazione giuridica passiva;
pertanto, egli non dice che l’attore non ha il diritto, ma che non lo ha contro di lui. E’ proprio in
questo caso che il convenuto originario, mediante istanza di parte, chiama nel processo il terzo
titolare realmente della situazione giuridica soggettiva.
4)All’ipotesi della contestazione della legittimazione passiva deve essere avvicinata – per
costituirne l’esatto contrario – la contestazione della legittimazione attiva, che si desume
dall’art.109. In questo caso non è controverso il debito né chi sia il debitore, ma chi sia il creditore.
C’è quindi un terzo che vanta lo stesso diritto dedotto in giudizio, ed è proprio per questo che la
chiamata a istanza di parte è detta “chiamata in causa del terzo pretendente”. Ancora una volta si
discute non dell’esistenza del diritto, ma di chi sia la persona al quale spetti.
Art.109 – Estromissione dell’obbligato : <<Se si contende a quale di più parti spetta una
prestazione e l'obbligato si dichiara pronto a eseguirla a favore di chi ne ha diritto, il giudice può
ordinare il deposito della cosa o della somma dovuta e, dopo il deposito,
può estromettere l'obbligato dal processo>>.
La norma consente al debitore, pronto ad eseguire la sua prestazione, nell’ipotesi di incertezza
circa la persona dell’avente diritto alla stessa, di evitare le conseguenze di una mora debendi e la
conseguente responsabilità per inadempimento contrattuale ex art.1218 c.c., effettuando il
deposito liberatorio della cosa o della somma dovuta. Ma ciò che a noi in questa sede interessa è
che, anche in questo caso, un terzo può essere chiamato nel processo per contestazione della
legittimazione, e non per connessione per oggetto e/o titolo.

-INTERVENTO (o CHIAMATA) IN GARANZIA. Come abbiamo visto, l’art.106 prevede anche che la
parte possa chiamare nel processo il terzo <<dal quale pretende essere garantita>>.
La chiamata in garanzia è diversa a seconda che si tratti di garanzia propria e garanzia impropria.

-GARANZIA PROPRIA. Si ha garanzia propria quando il relativo intervento ha alla base un obbligo di
garanzia che discende dalla legge o da un apposito accordo contrattuale. La garanzia propria,
perciò, può essere reale o personale.
a)garanzia reale. Si ha garanzia reale quando l’obbligo di garanzia discende dalla legge. Un caso di
garanzia reale è l’evizione totale della cosa ex art.1483, 1° co., c.c., che spiegheremo ora con un
esempio. Tizio, che ha acquistato da Caio il bene X, è convenuto in giudizio da Sempronio che
assume di essere proprietario del bene o di avere diritti (es.: servitù, uso) sul medesimo. Ai sensi
dell’art.1473 c.c. Caio è tenuto a risarcire Tizio del danno (c.d. garanzia per l’evizione). In questo
caso, quindi, l’obbligo di Caio nasce dalla legge.
b)garanzia personale. Si ha garanzia personale quando l’obbligo di garanzia è il frutto di un
apposito accordo contrattuale. Un caso di garanzia personale è il regresso contro il debitore
principale ex art.1950, 1° co., c.c., che spiegheremo ora con un esempio. Tizio, che ha garantito a
Sempronio il pagamento del debito di Caio, viene convenuto in giudizio da Sempronio che non è
stato pagato. Ai sensi dell’art.1950 Tizio ha regresso nei confronti di Caio. In questo caso, quindi, la
garanzia è l’effetto di un contratto tra debitore (Caio) e garante (Tizio). Ciò significa che Tizio,

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avendo prestato garanzia, deve pagare a Sempronio il debito di Caio, avendo poi verso
quest’ultimo azione di regresso.

-GARANZIA IMPROPRIA. La figura della garanzia impropria è il frutto dell’elaborazione


giurisprudenziale; questa, infatti, non ha fonte legislativa, né contrattuale, ma rileva per la
concatenazione economica dei rapporti tra le parti. Spiegamola con un esempio. Tizio si è
obbligato con un contratto di appalto ad eseguire un manufatto per conto di Sempronio e si è
rivolto a Caio per la fornitura dei materiali. Sempronio lo conviene in giudizio perché il manufatto
non è stato costruito nei termini pattuiti, e Tizio chiede che Caio sia condannato a rivalerlo di
quanto dovrà pagare a Sempronio perché il ritardo è dipeso dalla mancata tempestiva fornitura
dei materiali. In questo caso, quindi, l’obbligo del terzo (Caio) nasce dal legame economico tra i
due distinti e separati rapporti contrattuali (di appalto e di fornitura). Proprio perché i due
contratti, pur se concatenati, sono comunque due contratti distinti e separati, Tizio in tanto può
ottenere la rivalsa da Caio in quanto dimostri che il suo inadempimento (costruzione oltre i termini
pattuiti) è stato la conseguenza dell’inadempimento (mancata tempestiva fornitura dei materiali)
di Caio.

La differenza tra garanzia propria e garanzia impropria ha rilievo nel caso dell’estromissione del
garantito ex art.108 : <<Se il garante comparisce e accetta di assumere la causa in luogo del
garantito, questi può chiedere, qualora le altre parti non si oppongano, la propria estromissione.
Questa è disposta dal giudice con ordinanza; ma la sentenza di merito pronunciata nel giudizio
spiega i suoi effetti anche contro l'estromesso>>.
L’estromissione si sostanzia, perciò, nell’uscita dal processo del convenuto originario. Dobbiamo
però specificare che nel caso della garanzia impropria tale estromissione non è possibile perché
garante e garantito possono avere rapporti tra loro conflittuali, e quindi non così forti da
permettere l’uscita dal processo del garantito. In caso di garanzia impropria, infatti, il terzo
parteciperebbe al processo come portatore di una situazione giuridica legata a quella oggetto del
processo originario da un vincolo di mera dipendenza economica; e ciò sicuramente non è ragione
sufficiente perché sia autorizzato a gestire il processo di chi potrebbe addirittura essere in
posizione conflittuale con la parte alla quale dovrebbe subentrare. E’ quindi la sola potenziale
conflittualità tra garante e garantito che ci permette di affermare che in caso di garanzia impropria
non è possibile l’estromissione del garantito.
Nel caso di garanzia propria, invece, l’estromissione è possibile perché il rapporto oggetto del
giudizio è identico (nell’esempio fatto prima per la garanzia propria : la proprietà della cosa), sia
per il convenuto che per il garante, per cui il garante può benissimo “sostituirsi” al garantito e
permettere così l’uscita dal processo di quest’ultimo. Nella garanzia propria, tra garante e
garantito non ci può essere conflittualità; le loro posizioni sono infatti allineate, e - poiché
<<la sentenza di merito pronunciata nel giudizio spiega i suoi effetti anche contro l'estromesso>> -
se il garante vince il giudizio, lo vince sostanzialmente anche il garantito, pur se estromesso.
L’estromissione del garantito, perciò, ci permette di distinguere, in modo pratico nel processo, la
garanzia propria da quella impropria.

A prescindere che si tratti di intervento a istanza di parte o di intervento in garanzia, la disciplina


per questi due tipi di interventi è contenuta nell’art.269.
Art.269 – Chiamata in causa di un terzo : << Alla chiamata di un terzo nel processo a norma
dell'articolo 106, la parte provvede mediante citazione a comparire nell'udienza fissata dal giudice
istruttore ai sensi del presente articolo, osservati i termini dell'articolo 163 bis.
Il convenuto che intenda chiamare un terzo in causa deve, a pena di decadenza, farne

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dichiarazione nella comparsa di risposta e contestualmente chiedere al giudice istruttore lo


spostamento della prima udienza allo scopo di consentire la citazione del terzo nel rispetto dei
termini dell'articolo 163 bis. Il giudice istruttore, entro cinque giorni dalla richiesta, provvede
con decreto a fissare la data della nuova udienza. Il decreto è comunicato dal cancelliere alle parti
costituite. La citazione è notificata al terzo a cura del convenuto.
Ove, a seguito delle difese svolte dal convenuto nella comparsa di risposta, sia sorto l'interesse
dell'attore a chiamare in causa un terzo, l'attore deve, a pena di decadenza, chiederne
l'autorizzazione al giudice istruttore nella prima udienza. Il giudice istruttore, se concede
l'autorizzazione, fissa una nuova udienza allo scopo di consentire la citazione del terzo nel rispetto
dei termini dell'articolo 163bis. La citazione è notificata al terzo a cura dell'attore entro il termine
perentorio stabilito dal giudice […] >>.
L’opportunità della chiamata del terzo, quindi, sia essa richiesta dal convenuto o dall’attore, è
sempre valutata dal giudice, il quale, se ammessa, fissa una nuova udienza. La chiamata deve
essere effettuata nelle prime attività difensive : per quanto riguarda il convenuto, questi deve
provvedere alla chiamata nella comparsa di risposta; l’attore, invece, ha tempo per chiedere di
esserne autorizzato fino alla prima udienza, ma può farlo solo se l’esigenza è sorta dalle difese del
convenuto.

Gli interventi ex art.106, poiché interventi coatti, devono essere fatti all’inizio del processo per far
sì che il terzo possa partecipare al processo esercitando tutte le sue facoltà processuali. Discorso
diverso invece va fatto per gli interventi volontari, che possono aversi fino all’ultimo momento del
processo : dovrà essere l’interventore volontario a decidere di intervenire prima possibile per
evitare che le preclusioni siano maturate

-INTERVENTO PER ORDINE DEL GIUDICE. Si ha intervento per ordine del giudice quando è il
giudice, e non le parti, che chiama un terzo nel processo. L’intervento per ordine del giudice, detto
anche “intervento jussu judicis”, si ha quando le parti originarie non provvedono alla chiamata del
terzo. Questo è previsto dall’art.107.

Art.107 – Intervento per ordine del giudice : <<Il giudice, quando ritiene opportuno che il processo
si svolga in confronto di un terzo al quale la causa è comune, ne ordina l'intervento>>.

L’ordine del giudice deve quindi avere il requisito della comunanza di causa. Come abbiamo già
visto in tema di intervento a istanza di parte, il concetto di “comunanza di causa”, oltre che
comprendere quel settore di rapporti in cui c’è connessione per oggetto e/o causa, può
comprendere anche i cc. dd. rapporti alternativi, cioè quei rapporti di contestazione della
legittimazione passiva e attiva. Ma negli interventi per ordine del giudice la nozione di
“comunanza di causa” è più ampia perché ricomprende anche il settore dei rapporti pregiudiziali e
dei rapporti dipendenti. Per quanto riguarda i rapporti pregiudiziali, il giudice può infatti ordinare
la chiamata in causa del terzo titolare del rapporto pregiudiziale. Con tale chiamata in causa
oggetto del rapporto sarà il rapporto dipendente. Spieghiamolo con un esempio. Tizio conviene in
giudizio l’ente previdenziale per ricevere in suo favore le somme a titolo di pensione; l’ente
previdenziale contesta l’esistenza del rapporto di lavoro di Tizio con cui ha maturato la sua
pensione. In questo caso il giudice può chiamare in giudizio il datore di lavoro di Tizio per accertare
il rapporto di lavoro. Più precisamente, il rapporto di lavoro rappresenta il rapporto pregiudiziale,
cioè il rapporto di lavoro tra Tizio e il suo datore che ha permesso a Tizio il maturare della sua
pensione, e che costituisce oggetto della chiamata del giudice; oggetto del giudizio sarà però il
rapporto tra Tizio e l’ente previdenziale, che costituisce il rapporto dipendente.

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Si può, però, anche avere l’ipotesi inversa, cioè l’ipotesi in cui la chiamata del giudice ha ad
oggetto rapporti dipendenti. In questo caso, mentre la chiamata ha ad oggetto un rapporto
dipendente, oggetto del giudizio è il rapporto pregiudiziale. Spieghiamo anche questo caso con un
esempio. Il locatore di un appartamento conviene in giudizio il locatario per inadempienze
contrattuali (es. : non osservanza della diligenza del buon padre di famiglia nel mantenimento
dell’immobile oggetto della locazione); il locatario, però, ha a sua volta dato in locazione
l’immobile al subconduttore, ed è quest’ultimo che non adempie ai suoi obblighi. Nel processo tra
locatario e locatore il giudice può chiamare in giudizio il subconduttore, qualora non vi avessero
provveduto le parti originarie (locatario e locatore). In questo caso il rapporto dipendente è la
locazione tra il locatario e il subconduttore, mentre il rapporto pregiudiziale è la locazione tra
locatore e locatario.

Anche se l’art.107 fa riferimento alla sola comunanza di cause, intesa come connessione per
oggetto e/o causa, la giurisprudenza, nella prassi, vi fa rientrare, come abbiamo detto, anche i casi
dei rapporti alternativi, pregiudiziali e dipendenti. Qualcuno può pensare che tale prassi può
derogare il principio della domanda perché al giudice viene data una posizione sempre più attiva a
danno del potere monopolistico delle parti di fissare i termini della lite. Nelle recenti concezioni
del processo, però, tende a prevalere tale “deroga” (se così può essere chiamata) con lo scopo di
assicurare utilità in termini di corretto svolgimento del processo e di certezza delle situazioni
giuridiche.

A questo punto, non ci resta che esaminare la disciplina dell’intervento per ordine del giudice,
contenuta nell’art.270.
Art.270 – Chiamata di un terzo per ordine del giudice : <<La chiamata di un terzo nel processo a
norma dell'articolo 107 può essere ordinata in ogni momento dal giudice istruttore per
un'udienza che all'uopo egli fissa.
Se nessuna delle parti provvede alla citazione del terzo, il giudice istruttore dispone
con ordinanza non impugnabile la cancellazione della causa dal ruolo>>.

Da ciò si evince che : a) la chiamata per ordine del giudice, a differenza di quella a istanza di parte,
può essere disposta <<in ogni momento dal giudice istruttore>>; b) il giudice ordina di chiamare il
terzo e spetterà poi alle parti, attraverso una citazione, di dare un contenuto alla chiamata nel
termine fissato dal giudice; c) se nessuna delle parti chiama il terzo nel termine fissato dal giudice
si ha cancellazione della causa dal ruolo ed il processo entra in una fase di quiescenza : il processo,
infatti, pur se cancellato dal ruolo, può essere riassunto entro 3 mesi, purché si presenti anche il
terzo; se poi il processo non viene riassunto si estingue (nel caso previsto dall’art.102 si ha, invece,
l’estinzione diretta del processo).
Il terzo non subisce preclusioni dalla fase processuale già svolta; infatti, ai sensi dell’art.271,
l’udienza per la quale è chiamato è per lui di prima comparizione.

CAPITOLO 6° - GLI ATTI PROCESSUALI

Il processo è un particolare procedimento composto da una serie di atti collegati e coordinati tra
loro che sono indirizzati alla emanazione di un atto finale, che prende il nome di provvedimento.

LA NULLITA’ DEGLI ATTI PROCESSUALI

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Come abbiamo detto, il processo è composto da diversi atti. Analizzeremo ora la disciplina relativa
alla nullità degli stessi.
Iniziamo innanzitutto col dire che ogni atto processuale, per essere valido, deve avere dei requisiti,
e che si ha nullità quando nell’atto manca uno o più requisiti; ma la nullità non è associata alla
mancanza di qualsiasi tipo di requisito. Da questo concetto discende la distinzione dei requisiti tra
formali ed extraformali. La mancanza di quelli formali comporta la nullità dell’atto; la mancanza di
quelli extraformali (es. : legittimazione dell’ufficiale giudiziario notificante) non comporta la nullità
dell’atto. Ciò significa che la nullità è associata solo alla mancanza di requisiti formali, che a breve
esamineremo.
La disciplina della nullità è contenuta nell’art.156.

Art.156 – Rilevanza della nullità : <<Non può essere pronunciata la nullità per inosservanza di
forme di alcun atto del processo, se la nullità non è comminata dalla legge.
Può tuttavia essere pronunciata quando l'atto manca dei requisiti formali indispensabili per il
raggiungimento dello scopo.
La nullità non può mai essere pronunciata, se l'atto ha raggiunto lo scopo a cui è destinato>>.

-Il comma 1° dispone la tassatività (o tipicità) delle cause di nullità : cause di nullità sono infatti
soltanto quelle previste dalla legge, e la nullità non può essere pronunciata se la stessa non è
prevista dalla legge. Ciò vuol dire che non tutte le deviazioni dell’atto dal suo modello legale
comportano nullità; vi sono anche vizi che determinano semplice irregolarità prive di significative
conseguenze.

-Il comma 2° può invece essere inteso come un moltiplicatore dei vizi perché va ad ampliare le
cause di nullità in casi dove la legge non prevede la nullità dell’atto. Tale ampliamento è reso
possibile dall’art.156 in tutti quei casi in cui, nonostante la mancanza di un’esplicita previsione di
nullità, questa può egualmente essere pronunciata se l’atto manca dei requisiti indispensabili per il
raggiungimento del suo scopo.

-Il comma 3° funge da moltiplicatore delle fattispecie produttive di effetti perché stabilisce che,
anche se l’atto manca di requisiti formali indispensabili, la nullità non può essere pronunciata se
l’atto stesso ha raggiunto lo scopo a cui è destinato. lo scopo diviene, in questo modo, il
parametro a cui occorre fare riferimento per saggiare la validità dell’atto. Insomma, la legge vuole
che lo scopo prevalga sulla nullità – sanandola - , facendo così prevalere il pratico sul teorico,
perché qualunque ipotesi di deviazione dell’atto dal modello legale può essere resa irrilevante dal
raggiungimento dello scopo.

Art.157 – Rilevabilità e sanatoria della nullità : <<Non può pronunciarsi la nullità senza istanza di
parte, se la legge non dispone che sia pronunciata d'ufficio.
Soltanto la parte nel cui interesse è stabilito un requisito può opporre la nullità dell'atto per la
mancanza del requisito stesso, ma deve farlo nella prima istanza o difesa successiva all'atto o alla
notizia di esso.
La nullità non può essere opposta dalla parte che vi ha dato causa, né da quella che vi ha
rinunciato anche tacitamente>>.

La norma opera una distinzione tra nullità assolute e nullità relative in ragione della maggiore o
minore gravità del vizio che inficia l’atto. Alle due ipotesi corrisponde una diversa disciplina della
nullità quanto alla rilevabilità e alla sanatoria della stessa.
NULLITA’ ASSOLUTA. La nullità assoluta è quella nullità che può essere eccepita sia dalla parte, sia

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d’ufficio. Le nullità assolute sono tassative e tipiche, ossia devono essere espressamente previste
dalla legge per essere eccepite .
La nullità assoluta è un’eccezione in senso ampio.
NULLITA’ RELATIVA. La nullità relativa è invece quella nullità rilevabile solo su eccezione di parte.
Le nullità relative non sono tassative e tipiche come quelle assolute, però, per essere eccepite:
-la parte deve avervi un interesse (art.157,co. 2°), nel senso che per la stessa deve risultare
impossibile esercitare i poteri derivanti dall’atto viziato:
-la parte non deve aver dato causa alla nullità dell’atto, né deve avervi rinunciato, anche
tacitamente (art.157, co. 3°).
La nullità relativa è un’eccezione in senso stretto.

Quando possono essere eccepite le nullità?


La nullità relativa deve essere eccepita dalla parte interessata <<nella prima istanza o difesa
successiva all'atto o alla notizia di esso>>.
Le nullità assolute possono invece essere eccepite sempre.

Quanto alla sanabilità degli atti processuali nulli:


-se si tratta di nullità relativa, e questa non viene eccepita dalla parte che vi ha interesse, la causa
di nullità si sana;
-le nullità assolute sono insanabili.

Art.158 – Nullità derivante dalla costituzione del giudice : <<La nullità derivante da vizi relativi alla
costituzione del giudice o all'intervento del pubblico ministero è insanabile e deve essere rilevata
d'ufficio, salva la disposizione dell'articolo 161.>>.

L’art.158 disciplina un caso di nullità assoluta – quindi, un’eccezione in senso ampio - che
dev’essere rilevata d’ufficio in quanto si verifica unicamente quando gli atti giudiziari siano posti in
essere da persone estranee alla magistratura e non investite della funzione esercitata. Non
sussiste la nullità ex art.158 ove si sia verificata una sostituzione tra giudici di pari funzioni e
competenza.

Art.159 – Estensione della nullità : <<La nullità di un atto non importa quella degli atti precedenti,
né di quelli successivi che ne sono indipendenti.
La nullità di una parte dell'atto non colpisce le altre parti che ne sono indipendenti.
Se il vizio impedisce un determinato effetto, l'atto può tuttavia produrre gli altri effetti ai quali è
idoneo>>.

La norma costituisce applicazione del principio di conservazione degli atti processuali. In base a
tale principio, la nullità di un atto (o di una sua parte) si estende agli atti precedenti o successivi (o
alle altre parti) solo se quest’ultimi sono dipendenti dall’atto viziato (normalmente lo sono); nel
caso in cui gli atti precedenti o successivi (o le altri parti dell’atto, se la nullità colpisce solo parte
dell’atto) sono indipendenti da quello viziato, questi non verranno colpiti dal vizio di nullità e
resteranno validi.
La norma, al comma 3°, richiama anche il principio di conversione degli atti, principio in base al
quale l’atto, pur se nullo, può produrre gli effetti di un altro atto del quale possegga tutti i validi
requisiti. In tal caso si utilizza l’atto nullo per il perseguimento di un risultato diverso da quello
previsto secondo il modello legale e, tuttavia, con esso compatibile (es. : domanda presentata in
forma di citazione che può valere come ricorso).

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Art.161 – Nullità della sentenza : <<La nullità delle sentenze soggette ad appello o a ricorso per
cassazione può essere fatta valere soltanto nei limiti e secondo le regole proprie di questi mezzi
d'impugnazione.
Questa disposizione non si applica quando la sentenza manca della sottoscrizione del giudice>>.

La norma sancisce il principio della conversione dei vizi della sentenza in motivi di impugnazione.
In base a tale principio, infatti, le nullità delle sentenze di primo grado possono essere eccepite in
appello o in cassazione, e qualora ciò non fosse fatto, la nullità si sana automaticamente. Stesso
discorso vale per le nullità della sentenza d’appello, che possono essere eccepite in cassazione, e
se ciò non viene fatto le nullità si sanano. Insomma, le nullità si sanano di grado in grado se non
vengono fatte valere.
Tale principio costituisce una deroga all’insanabilità delle nullità assolute; queste ultime, infatti,
come sappiamo – e a differenza di quelle relative – sono generalmente insanabili, ma possono
però sanarsi se non fatte valere nel grado successivo.
I vizi della sentenza, quindi, non possono più farsi valere quando siano decorsi i termini per
proporre impugnazione e la sentenza sia passata in giudicato.
In base al 2° comma dello stesso art.161, tale principio non può essere applicato al caso in cui il
vizio della sentenza sia causato dalla mancata sottoscrizione del giudice. La mancata sottoscrizione
del giudice rende la sentenza pronunciata insanabile anche se si applica il principio della
conversione dei vizi della sentenza in motivi di impugnazione perché, in questo caso, la sentenza
stessa è considerata dall’ordinamento come giuridicamente inesistente, in quanto difetta degli
elementi minimi per essere considerata idonea alla certezza del giudicato.
Il comma 2°, perciò, rappresenta un’eccezione al principio sancito dal 1° comma.
Riassumendo, qualsiasi nullità, anche quella che l’art.158 dichiara insanabile e rilevabile d’ufficio,
non resiste al fenomeno del passaggio in giudicato, che si ha quando non è proposta (tempestiva)
impugnazione; l’unica eccezione testuale è quella dell’art.161 co.2°.

Art.162, 1° co. – Pronuncia sulla nullità : <<Il giudice che pronuncia la nullità deve disporre, quando
sia possibile, la rinnovazione degli atti ai quali la nullità si estende>>.

Come abbiamo già detto, la nullità di atto si propaga e rende nulli tutti gli atti successivi dipendenti
da quello nullo. Il giudice, però, in base all’art.161, può disporre la rinnovazione degli atti ai quali la
nullità si estende. La rinnovazione è una sorta di sanatoria che il giudice può porre in essere per
permettere la continuazione del processo, ove ciò sia possibile.

I TERMINI

Il termine è un mezzo che il legislatore ha a disposizione per dare ordine al procedimento e per
mantenere le attività processuali sufficientemente concentrate.

I termini si distinguono in perentori e ordinatori.


TERMINI PERENTORI : sono quei termini stabiliti a pena di decadenza, per cui l’attività processuale
non può essere compiuta dopo che essi siano scaduti e, se è compiuta, è assolutamente nulla; in
considerazione della gravità della sanzione, la legge vuole che il termine sia perentorio soltanto se
ciò è espressamente previsto.
TERMINI ORDINATORI : sono quei termini prorogabili per una durata non superiore al termine
originario e, per motivi particolari, anche una seconda volta, purché il provvedimento di proroga
sia anteriore alla scadenza del termine; si ritiene che il compimento dell’atto dopo la scadenza o
dopo la proroga del termine dà luogo a una nullità relativa, rilevabile su eccezione della parte.

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La legge detta una disposizione sul computo dei termini. Tale disposizione è l’art.155.
In base a tale articolo, il termine viene calcolato escludendo il giorno iniziale ed includendo il
giorno finale. Questo è il calcolo che viene fatto di consueto per i termini.
In alcuni casi previsti espressamente dalla legge, però, il termine è <<libero>>. Quando un termine
è libero, nel suo calcolo non si tiene conto né del giorno iniziale, né di quello finale (è un termine,
quindi, pieno). Normalmente un termine non è libero; sono liberi sono quelli previsti dalla legge.

I termini possono essere calcolati a giorni o a mesi.


Nei termini calcolati a giorni vanno compresi anche i giorni festivi, con la particolarità che se il
giorno finale è festivo, lo stesso giorno finale del termine viene prorogato al giorno successivo non
festivo. Quando invece il termine va calcolato a ritroso, e l’ultimo giorno utile è festivo, questo
sarà prorogato a quello precedente (es. : dal 4 maggio al 3 maggio).
I termini calcolati a mesi si calcolano invece secondo il calendario comune, cioè senza tener conto
dei giorni effettivi utili ricompresi (es. : se dobbiamo calcolare 3 mesi a partire dal 10 marzo,
l’ultimo giorno utile sarà il 10 giugno). Anche per i termini calcolati a mesi vale la regola secondo
cui se l’ultimo giorno utile è festivo il termine viene prorogato al giorno successivo non festivo.

IL REGIME DELLE SPESE PROCESSUALI

Il processo comporta dei costi che sono connessi alle prestazioni dei professionisti implicati nel
processo e costi relativi alle attività degli organi giurisdizionali.
Tali costi sono a carico delle parti. Il regime delle spese processuali è retto da 2 principi :

-Il principio dell’anticipazione: in base a tale principio, quando in corso di causa ancora non si sa
chi ha ragione e chi ha torto, la parte ha l’onere di anticipare le (cioè, di provvedere alle) spese per
gli atti che compie. In base a tale principio, quindi, ogni parte paga per le spese che compie.

-Il principio di causalità : L’onere di pagare a carico di chi “chiede” è la regola provvisoria ma non la
regola finale. Infatti, non sarebbe giusto che la parte coinvolta ingiustamente nel processo debba
accollarsi i costi del processo alla pari della controparte. Il principio di causalità costituisce, perciò,
la regola finale, cioè la regola utilizzata alla fine del processo (nella sentenza) in base al quale si
regola il carico delle spese. “Regolare il carico delle spese” significa porre le spese del giudizio a
carico di una delle parti. In base al principio di causalità (o criterio della soccombenza) le spese
vengono poste a carico della parte perdente in giudizio (chi perde paga), cioè alla parte che ha
dato causa al giudizio, attore o convenuto che sia.
Il principio della soccombenza ha però un temperamento : il giudice può compensare in tutto o in
parte le spese processuali se vi è soccombenza reciproca o se vi sono gravi ed eccezionali ragioni. Il
giudice, quando “compensa”, fa restare le spese a carico di chi le ha anticipate.
L’unica cosa che però il giudice non può fare è quella di porre le spese a carico della parte
vittoriosa. Una cosa del genere sovvertirebbe il principio di causalità.

Da prendere in considerazione è anche la responsabilità aggravata ex art.96, ult. co., (comma


introdotto dalla legge 69/2009) in base al quale <<quando pronuncia sulle spese ai sensi
dell’articolo 91, il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al
pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata>>.
Prima del 2009, in linea di massima, la parte soccombente del giudizio era condannata soltanto
alle spese relative agli onorari dell’avvocato e agli esborsi per il processo. Dal 2009, grazie

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all’ultimo comma dell’art.91, la parte soccombente può essere condannata dal giudice a pagare
anche una <<somma equitativamente determinata>>. Tale <<somma>> può essere intesa come
una sorta di pena per aver dato causa al processo, cioè per aver abusato dello strumento del
processo, ed è svincolata dalle spese effettive sostenute dalla parte. La parte soccombente può
essere condannata al pagamento di tale somma sia su richiesta della controparte, sia d’ufficio dal
giudice. L’ultimo comma dell’art.96 fa parte di quelle norme inserite nel nostro codice dalla legge
69/2009 sulla razionalizzazione e accelerazione del processo, ed ha lo scopo di sanzionare i
comportamenti che rallentino il rapido e regolare svolgimento del processo.

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