You are on page 1of 147

JASON MITTEL

COMPLEX TV TEORIA E TECNICA DELLO STORYTELLING DELLE SERIE TV

INTRODUZIONE

Nell’autunno del 2001 hanno fatto il loro esordio sulla televisione americana tre serie tv di spionaggio: The
Agency, Alias e 24. Proprio quella con l’audience migliore, The Agency, trasmessa dalla Cbs, è stata
cancellata dopo la seconda stagione, nel 2003, mentre Alias, trasmessa dalla Abc, si è via via conquistata le
sue rispettabili cinque stagioni, e 24, su Fox, la cui prima stagione era stata la meno seguita delle tre, è
durata più di un decennio, ed è stata considerata una delle serie meglio scritte di tutti i tempi. Il destino di
queste tre serie offre una panoramica illuminante su quei cambiamenti dello storytelling televisivo che
hanno avuto inizio negli anni 2000. Delle tre serie, The Agency era decisamente la più convenzionale:
riprendeva quel modello di procedural a episodi che la Cbs aveva testato con successo grazie a CSI e a JAG,
seguite negli anni 2000 da prodotti simili come NCIS, Senza traccia e Cold Case. Per via di certe convinzioni
datate sulle caratteristiche di un programma vincente, si pensava che l’approccio convenzionale e la formula
rodata di The Agency avrebbero incontrato i favori del pubblico (o quanto meno un’audience alta), ma le
cose sono andate diversamente.
Le altre due serie avevano invece un approccio narrativo molto più innovativo e hanno avuto un’audience
sufficientemente alta da giustificarne una prosecuzione. Alias era una delle serie più eccentriche apparse
fino ad allora in televisione, per via dello stile visivo e sonoro d’impatto, delle trame complicate e di una
mitologia complessa: tutto ciò le ha permesso di attrarre un pubblico piccolo ma appassionato, che l’ha
accolta come l’erede del fenomeno cult Buffy l’ammazzavampiri. I riconoscimenti della critica e la crescente
popolarità di Jennifer Garner hanno convinto il network a portare avanti la serie per altre cinque stagioni,
finché nel 2004 non è stato il momento di successi maggiori come Desperate Housewives e Lost.
Il percorso di 24 è stato persino più sorprendente, considerata la struttura notevolmente atipica della serie:
ogni episodio rappresenta un’ora di tempo della storia raccontato in «tempo reale», avvalendosi di split
screen, timer e altri espedienti metanarrativi inconsueti per la televisione tradizionale. Il titolo stesso del
programma non ci dice nulla della storia, e fa soltanto riferimento al modo in cui essa verrà raccontata (le 24
ore che costituiscono un giorno nella vita del protagonista Jack Bauer). Dopo una prima stagione di ascolti
bassi, 24 è diventata sempre più popolare, raccogliendo un seguito abbastanza robusto da permetterle di
andare avanti per otto stagioni (e persino di tornare in onda nel 2014): per più di un decennio la serie non
ha mai smesso di conquistare posizioni nella classifica dei 30 programmi più visti dell’anno. Al successo di 24
hanno contribuito la vendita e il noleggio dei dvd che hanno permesso a chi aveva perso la prima stagione
di rimettersi al passo facendo confluire nuovi spettatori al bacino iniziale. In Gli ascolti della seconda
stagione di un sorprendente 25%.
Mettere a confronto le storie di queste tre serie può essere utile per delineare l’inizio di un nuovo scenario
della tv americana, nel quale una narrazione complessa e innovativa può ottenere sia il plauso della critica
sia il successo commerciale, mentre una serie prudente e convenzionale può rivelarsi un flop.
Complex Tv analizza questa svolta, mostrando in che modo è cambiato lo storytelling televisivo e quali sono
le novità tecnologiche, produttive e di ricezione che hanno permesso e incentivato queste trasformazioni. il
modo migliore per comprendere questi cambiamenti è analizzare il mezzo televisivo in sé, piuttosto che
cercare di legittimarlo attraverso similitudini cross-mediali. Negli ultimi 15 anni, infatti, gli orizzonti e le
tecniche dello storytelling televisivo hanno subito cambiamenti drastici e specifici del mezzo in questione. È
cambiato il modo in cui gli spettatori guardano le serie, così come sono cambiate la produzione e
distribuzione, e tutto ciò ha portato a una nuova modalità di storytelling che io ho definito «complex tv»,
televisione complessa.
Complex Tv circoscrive la propria analisi al campo dei television studies. Nel 2001, quando guardai le tre
serie di spionaggio di cui sopra, il settore non era particolarmente interessato ad analizzare le forme
narrative della televisione. Ai tempi (ma in realtà ancora oggi), queste serie avrebbero al massimo suscitato
1
negli studiosi domande riguardanti la loro rappresentazione culturale della realtà. Tutte e tre le serie videro
la luce in un periodo di profonda trasformazione della storia americana e trattavano quel tipo di eventi in
atto in quel momento. Così, nonostante ai tempi dell’attentato dell’11 settembre tutte e tre le serie fossero
già state ideate, programmate e in parte prodotte, e nonostante esordirono a ottobre e novembre soltanto
in seguito ad alcuni slittamenti del palinsesto, la critica e gli opinionisti le collegarono direttamente alla
dichiarazione di «Guerra al terrorismo» fatta dall’America in risposta agli attacchi subiti. Potrebbe essere
interessante studiale il modo in cui i contenuti rappresentavano l’identità culturale americana, il ruolo dello
Stato e la percezione di un pericolo straniero in un paesaggio culturale trasformato. Allo stesso modo, tutte
e tre le serie offrono interessanti spunti di analisi sulla rappresentazione dell’identità. Alias ha una visione
dell’identità di genere piuttosto suggestiva, poiché la sua protagonista, Sydney Bristow, è un’eroina quasi
onnipotente, che non solo gira il mondo e mena con gran stile, ma trova persino il tempo di dedicarsi a
rapporti complicati con figure paterne, possibili partner, amiche, rivali e persino una madre cattiva tornata
dalla tomba. Anche 24 gioca con le regole dell’identità di genere, seppure in modo più convenzionale,
proponendo un eroe super-virile che, nella prima stagione, si batte per difendere moglie e figlia da quella
che si rivelerà essere una sua ex amante, l’emblema della donna diabolica e seduttrice. Entrambe le serie,
inoltre, presentano un certo numero di personaggi connotati etnicamente in contrapposizione ai
protagonisti bianchi, proponendo così una gamma di possibili strategie di rappresentazione culturale
adottabili dalla tv del 21esimo secolo. Uno dei motivi per cui le caratteristiche formali delle serie tv sono
sempre state ignorate è la convinzione che lo storytelling televisivo sia semplicistico. I television studies si
concentrano di solito sull’importanza dei generi narrativi, delle situazioni ripetitive, delle spiegazioni
ridondanti e dei vincoli strutturali dettati dalle interruzioni pubblicitarie e da una rigida programmazione
e innovazioni degli ultimi due decenni hanno portato alla diffusione di un modello di complessità narrativa
che è specifico del mezzo televisivo e che deve essere studiato senza ricorrere a prestiti terminologici.

Negli anni successivi all’inizio di questi tre programmi, i television studies hanno cominciato ad approfondire
gli aspetti formali ed estetici dello storytelling televisivo, forse invogliati dai primi casi di televisione
complessa degli anni Novanta: Twin Peaks, Seinfeld, X-Files, Babylon 5, Buffy, The West Wing e I Soprano.
Questo libro vuole proporre un modello di analisi della forma che non solo tenga conto di contenuti,
contesti e fattori culturali, tutte questioni centrali per i media studies e i cultural studies, ma che ne sia
anche parte integrante. L’approccio da me scelto si basa sullo studio della poetica. La poetica può essere
definita come quell’insieme di modi stilistici ed espressivi attraverso i quali un testo produce un senso, e
riguarda quindi più gli aspetti formali del media che il contenuto o l’influenza culturale: in breve, la
domanda principale che ci si pone quando si analizza la poetica di un testo culturale, come ad esempio una
serie tv, è «come funziona questo testo?» Si tratta di un approccio meno comune di quello
dell’interpretazione, che cerca invece di rispondere alla domanda «che cosa significa», o dell’analisi
dell’influenza culturale, che si chiede: «che impatto ha sulla società?».
L’oggetto della mia analisi è il modo in cui la televisione racconta le sue storie, e non l’impatto culturale o
l’interpretazione di queste storie. Il mio approccio alla poetica fa riferimento a un modello di circolazione
culturale nel quale industria, pubblico, critica e autori concorrono a plasmare lo storytelling, e qualsiasi
questione riguardante la forma non può quindi limitarsi al testo, perché è anche profondamente legata al
contesto.
Sono tre i modi fondamentali in cui l’approccio poetico è stato adottato e adattato dagli studiosi che hanno
ispirato il mio lavoro:

1. Poetica storica concetto sviluppato dallo studioso di cinema David Bordwell, e costituisce un
punto di riferimento per lo studio del contesto delle narrazioni. La poetica storica colloca le
evoluzioni della forma all’interno dei suoi specifici contesti di produzione, circolazione e ricezione,
all’interno dei quali le innovazioni non vengono considerate come dei momenti di rottura a opera di
artisti visionari, ma come il risultato delle numerose entità che concorrono a trasformare norme e

2
potenzialità. Se vogliamo capire come funziona la tv complessa di oggi, dobbiamo infatti
contestualizzarne gli sviluppi all’interno dei più generali cambiamenti tecnologici, industriali e di
ricezione avvenuti tra gli anni Novanta e i Duemila, che pur non essendo stati la causa diretta di
queste innovazioni, hanno sicuramente contribuito alla diffusione di certe specifiche strategie
creative. La poetica storica di Bordwell si concentra sull’interazione tra industria, tecnologie e scelte
creative dei registi, dando un ruolo secondario ai contesti di ricezione del cinema;
2. Poetica cognitiva modello sviluppato da Bordwell secondo il quale per comprendere al meglio il
processo della visione (o della lettura), dobbiamo ricorrere a ciò che sappiamo di cognizione e
percezione, e ipotizzare in che modo gli elementi formali di un testo vengano recepiti dallo
spettatore. La psicologia cognitiva può rivelarci i diversi modi in cui immaginiamo che gli spettatori
si appassionino ai film o alla televisione. Nel caso di alcuni aspetti delle pratiche di visione, come i
processi di comprensione e memorizzazione, un modello poetico cognitivo è lo strumento ideale
per comprendere in che modo gli spettatori si interessino alle serie tv. Possiamo integrare un
modello cognitivo con lo studio delle pratiche di visione, soprattutto nei casi in cui le norme
cognitive non bastano, come quello dei fan che vanno in cerca di spoiler o che contribuiscono alla
pagina wiki di una serie.
3. Poetica orientata al lettore concetto avanzato da Robert Allen. Egli sostiene che gli elementi
formali del genere siano per lo spettatore fonte di divertimento, interpretazioni e coinvolgimento, e
incrocia quest’analisi con una storia della ricezione del genere della soap opera. Uno dei motivi
principali che hanno permesso alla televisione complessa di diventare mainstream è stata
l’abbondanza di siti internet sui quali poter affrontare discussioni collettive o partecipare alle attività
di analisi dei fan; di conseguenza, va detto che questi siti costituiscono delle ottime fonti di ricerca
per chiunque voglia comprendere le pratiche di consumo di un pubblico dedito e appassionato.

, non possiamo estrapolare un testo dal suo contesto storico di produzione e consumo, né possiamo
trattarlo come un oggetto di studio stabile, definitivo e circoscritto a se stesso. Soprattutto (ma non
soltanto) nell’era digitale, un programma televisivo è l’origine di una rete intertestuale che ne espande il
perimetro, rendendo labile il confine tra la visione di una serie e il consumo dei paratesti da essa derivati.
il testo seriale è una raccolta in espansione di materiale narrativo che può essere consumato nei modi e nei
tempi più diversi. Gli studiosi dei media hanno elaborato una gamma di definizioni per identificare queste
diverse modalità di fruizione, tra le quali «convergenza», «overflow», «paratestualità» e «momenti
televisuali», che hanno tutte messo in discussione l’idea classica di un testo in quanto oggetto culturale
autoconclusivo e delimitato. Per comprendere la testualità della televisione dobbiamo spingere lo sguardo
al di là dello schermo televisivo, e considerare i diversi contesti in cui questi testi vengono fruiti, e
ricomposti in forma seriale, attraverso le diverse pratiche del coinvolgimento culturale.
Quando si studiano le community online è importante ricordare che quel tipo di fan che partecipa ai forum,
pubblica video editati personalmente o va in cerca di spoiler non è certo uno spettatore qualsiasi. Con la
diffusione dei fandom online, però, questi fan sfegatati hanno smesso di essere dei consumatori atipici e
isolati e sono entrati a far parte di un gruppo di spettatori particolarmente attivi e connessi tra loro. Non
possiamo dire con certezza quanto le attività di questi fan siano rappresentative del totale, ma c’è un dato
che merita di essere riportato: da quando la pagina wiki Lostpedia è stata inaugurata, nel 2008, più di
28.000 utenti registrati hanno editato il sito almeno una volta. Se teniamo conto del numero
presumibilmente alto di lettori «passivi» di Lostpedia, della proporzione tra lettori e editor tipica della
maggior parte delle pagine wiki, nonché dell’afflusso dei fan su altri siti dedicati a Lost, è plausibile
immaginare che le abitudini di questo numero relativamente piccolo di spettatori attivi siano
rappresentative di una fetta molto più ampia del pubblico del programma. Bisogna inoltre sottolineare che
parliamo di una minoranza molto influente, alla quale le serie si rivolgono direttamente, com’è possibile
dimostrare attraverso una poetica orientata allo spettatore (vedi i capitoli 8 e 9). Nel corso di questo libro,
sosterrò quindi che i comportamenti di piccoli gruppi di fan online siano rappresentativi delle tendenze di
3
un pubblico molto più vasto e meno attivo, che invece si adatta alle strategie televisive e alle mode culturali,
rendendo così questi fan una minoranza importante quanto influente.
Questo libro analizza quindi gli aspetti formali e le pratiche culturali dello storytelling della televisione
seriale contemporanea adottando come linee guida i tre approcci poetici di cui ho parlato. Ho deciso di
concentrarmi sulle serie tv da prima serata, trasmesse a episodi settimanali sui network o sui canali via cavo,
e raggruppate in stagioni composte da un numero di episodi variabile da 10 a 24. Credo che la loro
scansione settimanale costituisca una modalità narrativa a se stante, che valga la pena studiare fino a fondo
questa modalità e che l’ampia copertura offerta da network e canali via cavo le renda la forma televisiva più
importante dal punto di vista culturale. Mi sono concentrato quasi esclusivamente sulla tv americana poiché
credo che le regole della sua industria, nella loro unicità, meritino uno studio a sé; inoltre, la circolazione
globale delle serie americane ha reso molti di questi programmi popolari e influenti in tutto il mondo, anche
quando si trattava di remake di prodotti non americani, come nel caso di The Office, Ugly Betty, In
Treatment e Homeland. Prendo in considerazione programmi di tutti i tipi, dalle comedy al drama, a patto
che abbiano una sceneggiatura. Buona parte della mia analisi si concentra sulle tre serie tv che conosco
meglio: The Wire, Breaking Bad e Lost, affrontando in modo più contenuto programmi come Veronica Mars,
I Soprano, Battlestar Galactica, Arrested Development, Dexter, Six Feet Under, Curb Your Enthusiasm, Mad
Men, Homeland e tanti altri ancora.
In questo libro viene preso il considerazione lo storytelling di quei testi televisivi che sono riusciti a
raccontare il proprio universo narrativo e a imporlo all’immaginario degli spettatori. Una definizione base di
storytelling seriale televisivo parte dal presupposto che: un programma televisivo seriale crea un mondo
narrativo duraturo, popolato da un gruppo coerente di personaggi che vivono una catena di eventi in un
certo arco di tempo. Ciò che più ci interessa, in questa sede, è comprendere in che modo la televisione
seriale racconta questo universo narrativo, nonché evidenziare la differenza tra la storia raccontata e il
modo in cui viene raccontata attraverso un discorso narrativo, una differenza basilare già definita dai teorici
della narrazione di diversi media. Il libro analizza le diverse strategie di storytelling usate dalle serie tv
complesse per creare degli universi narrativi coinvolgenti, attraverso una serie di tecniche del discorso
narrativo più complesse della norma, come una temporalità non lineare, l’evoluzione dei protagonisti e
l’incorporazione di elementi transmediali. Nonostante lo stile sia fondamentale per raccontare una storia, e
nonostante molte serie tv complesse cerchino di imporsi anche in quanto innovatrici dal punto di vista
stilistico, in questo libro considero questi elementi tecnici funzionali ad altri obiettivi dello storytelling, come
appunto una cronologia non lineare o lo sviluppo dei personaggi.
Ciò che cerco di fare in questo libro è raccontare il modo in cui sono cambiati (e continuano a cambiare) i
paradigmi narrativi della televisione. La puntata pilota di uno dei programmi più seguiti del 2011, Revenge,
cominciava con la scena di un party che culminava con un omicidio. Subito dopo un flashback ci riportava a
cinque mesi prima, per cominciare dall’inizio a raccontare come si era arrivati a quell’evento, uno dei più
importanti della serie, al quale però lo spettatore sarebbe nuovamente arrivato soltanto al quindicesimo
episodio della stessa stagione, mentre la puntata pilota era per il resto costituita da altri flashback su altri
eventi, raccontati da una voce fuori campo. La cosa più straordinaria di quella puntata pilota era il fatto che
fosse del tutto ordinaria: i critici e i fan considerarono poco originale quel tipo di narrazione complessa e
classificarono la serie come una dignitosa «soap da prima serata». Una decina di anni fa l’espediente di
iniziare una narrazione da un momento clou, per poi fare un salto indietro nel tempo, era abbastanza raro:
come vedremo nel capitolo 2, è stato usato al meglio nelle puntate pilota di Alias, nel 2001, e di Veronica
Mars, nel 2004. La prima volta che ricordo di averlo notato è stato nel 2000, nell’episodio «L’attentato» di
West Wing. Oggi, però, questo stesso tipo di trucco è praticamente un cliché.16 La televisione
contemporanea ha adottato un tale livello di complessità narrativa che oggi difficilmente la cronologia
frammentaria di Revenge riuscirebbe a stupire qualcuno; il resto di questo libro ha l’obiettivo di spiegare il
come e il perché di questo cambiamento.

4
Come leggere questo libro

Benché nella sua versione cartacea questo libro proceda in modo lineare, non è necessariamente questo il
modo di leggerlo. Dopo quest’introduzione l’ideale sarebbe leggere il primo capitolo, poiché elenca le idee
e le definizioni che si ritroveranno in tutto il libro, spiegando cos’è la complessità narrativa e qual è il suo
rapporto con la televisione contemporanea. Il resto dei capitoli, invece, possono essere letti in qualsiasi
ordine; benché io abbia proposto una possibile sequenza, a parte i primi due capitoli gli altri possono essere
compresi senza aver letto quelli che li precedono. Il capitolo finale, che parla appunto dei «finali», è per
certi versi soltanto un altro capitolo, ma è anche la parte più autoreferenziale del libro, e costituisce una
sorta di metaconclusione.

Il breve riepilogo che segue propone un’anteprima di ogni capitolo:

Inizi

Questo capitolo analizza in che modo la puntata pilota di una serie ne presenta tutte le caratteristiche,
considerato che le puntate pilota hanno il compito fondamentale di anticipare il percorso narrativo di una
serie, spiegare agli spettatori come devono guardarla e convincerli a seguirla. Il capitolo spiega il modo in
cui le serie comunicano allo spettatore le proprie norme intrinseche, e lo fa attraverso un caso studio
specifico, quello della puntata pilota di Veronica Mars, accennando però anche alle strategie adottate da
Twin Peaks, Arrested Development, Alias, Awake, How I Met Your Mother, Pushing Daisies e Terriers.

Autorialità

La tv di oggi ha dato vita a una forma unica di autorialità, portando all’affermazione del ruolo del cosiddetto
«showrunner». Questo capitolo analizza tutti quei paratesti concessi dalla tecnologia, come podcast,
making-of, contenuti extra nei dvd, reazioni su Twitter e post sui blog, che hanno permesso agli autori di
interagire direttamente con gli spettatori, concorrendo così alla fama di showrunner come Joss Whedon
(Buffy), Dan Harmon (Community) e Damon Lindelof e Carlton Cuse (Lost). Analizzando la presenza degli
showrunner nel testo e nei suoi paratesti, proporrò alcune teorie sull’autorialità e sosterrò che gli spettatori
si affidano a un «autore desunto» che li aiuti a comprendere i loro programmi preferiti.

Personaggi

Questo capitolo affronta il modo in cui i personaggi delle serie tv funzionano in relazione ai vincoli del
mezzo televisivo e alla necessità di un’evoluzione scandita sul lungo termine, partendo dai personaggi
convincenti e complessi dei Soprano, di Angel, Lost, Trono di spade e Dexter. Molte serie complesse hanno
scelto di avere per protagonisti degli antieroi, sfruttando la struttura a lungo termine per approfondirne i
tratti psicologici e per svelare elementi chiave dei loro vissuti. Questo capitolo ricorre al caso di Breaking
Bad per esaminare in che modo i serial drama costruiscono dei personaggi destinati a evolversi, nonché i
diversi modi in cui gestiscono i rapporti umani di questi personaggi, i flashback, i ricordi, la narrazione e le
prove attoriali.

Comprensione

Una delle sfide di una narrazione seriale di lunga durata è quella di assicurarsi che lo spettatore capisca
sempre ciò che sta succedendo, a prescindere dalla modalità di visione, che sia settimanale o stagionale,
che segua la programmazione televisiva o la scansione più flessibile concessa da dvd, registratori digitali
(DVR) e streaming. Questo capitolo si basa su alcune teorie cognitive per analizzare in che modo le serie tv
abbiano ottimizzato la comprensione o giochino sullo scarto di conoscenza tra i personaggi e gli spettatori,
come avviene ad esempio in Dexter e in Veronica Mars. Analizzo il modo in cui la memoria degli spettatori

5
viene sollecitata sia dalla narrazione che dai paratesti, nonché come i programmi riescano a invogliare la
memorizzazione di un dato elemento e a sfruttare quelli che stanno per essere dimenticati, come avviene
ad esempio in Battlestar Galactica e in Lost. Il capitolo analizza inoltre i diversi modi in cui le serie gestiscono
suspense, sorpresa, attesa e curiosità, nonché il motivo per cui alcuni spettatori si privano di quest’aspetto
dell’intrattenimento andando in cerca di spoiler. Il capitolo si conclude con uno studio dettagliato
dell’attività di uno spettatore che guarda un episodio di Curb Your Enthusiasm.

Valutazione

I television studies, influenzati dai cultural studies, hanno a lungo eluso la questione del giudizio di valore,
poiché il fatto che la televisione sia sempre stata oggetto di critiche sul piano estetico ha eliminato i giudizi
di valore dalle priorità di questo campo di studi. In questo capitolo propongo un modello di valutazione
contestualizzata che non si riferisce a un valore estetico universale, ma che prende in considerazione la
possibilità che una serie stabilisca i propri parametri di giudizio interni, e che gli studiosi comincino ad
affrontare l’argomento del valore in modo propositivo. Prendendo in esame The Wire, Breaking Bad e Mad
Men, considerate dalla critica tra le migliori serie tv di sempre, dimostro come sia possibile inserirsi nel
dibattito sul valore senza appellarsi a un canone o a parametri restrittivi, considerato che la complessità può
essere considerata di per sé, e in diversi modi, una risorsa estetica.

Melodramma seriale

Questo capitolo affronta il ruolo del melodramma nelle narrazioni seriali di oggi, mettendone in discussione
il legame con le soap opera. Facendo una distinzione tra quelle che sono le norme narrative delle soap
opera e l’attrattività emotiva tipica del melodramma, sostengo che la forma testuale delle soap abbia
influenzato le serie tv da prima serata meno di quanto abbia fatto quella vulgata che, per decenni, ha
associato la serialità alle soap opera. Al contempo, analizzo in che modo le reazioni emotive suscitate dal
melodramma seriale sono servite a rendere le serie tv complesse appetibili tanto agli uomini quanto alle
donne, considerato che programmi come Veronica Mars, Friday Night Lights, Lost, The Good Wife e The
Wire mettono in discussione i cliché di genere e gli assunti consolidati riguardanti i vari generi
cinematografici e la loro attrattività sul pubblico maschile e su quello femminile.

Paratesti orientativi

Di pari passo ai cambiamenti produttivi e tecnologici, anche le abitudini di visione degli spettatori si sono
adattate all’era digitale, dando vita a nuovi modi di fruire i prodotti televisivi. Questo capitolo esamina
quella gamma di paratesti nati per aiutare gli spettatori a comprendere la temporalità, i personaggi, le
trame e la spazialità della tv complessa. Attraverso un dettagliato resoconto della pagina wiki Lostpedia, ho
esaminato il modo complesso in cui gli spettatori guardano la tv, mettendo in primo piano alcune delle
nuove modalità di visione, come il fandom investigativo e la penetrabilità.

Transmedia storytelling

Questo capitolo analizza il modo in cui le narrazioni televisive si sono ampliate attraverso estensioni
transmediali come i videogiochi, la trasposizione letteraria, i siti internet, i video online e gli Alternate
Reality Game (ARG). Attraverso l’analisi specifica delle strategie transmediali di Lost e Breaking Bad, analizzo
il modo in cui lo storytelling transmediale televisivo gestisce l’ufficialità (o canonicità) e la segmentazione
del pubblico, nonché come riesce a instradare le aspettative degli spettatori e in quali direzioni potrebbe
spingersi in futuro.

Finali

La televisione commerciale americana è caratterizzata da un modello per il quale una serie di successo può
non finire mai, un episodio finale è sinonimo di fallimento commerciale (o esaurimento delle idee) ed è più
6
probabile che una serie si chiuda con una brusca cancellazione che con una conclusione pianificata. Nel
decennio passato le serie tv iniziavano avendo già una conclusione pianificata nel cassetto, e hanno
proposto nel tempo alcuni precedenti che oscillavano tra il finale ambiguo, quello circolare, quello
autoreferenziale e quello definitivo. Questo capitolo studia le stagioni e gli episodi conclusivi di Lost, The
Wire e I Soprano, in quanto rappresentativi sia delle strategie narrative, sia delle reazioni contrastanti di
spettatori e critici innescate dai diversi finali. Il libro si conclude con una discussione sulle varie concezioni di
«fine», inteso anche come obiettivo di una serie tv, utilizzando casi studio tratti da Homeland e Breaking
Bad, in modo da sollevare alcune questioni «politiche» attinenti all’approccio poetico del libro. E si chiude
con una riflessione sulla serialità di questo stesso libro, attuata attraverso la sua pre-pubblicazione online.

CAP.1
LA COMPLESSITÀ E IL SUO CONTESTO

La tesi principale di questo libro è che nell’ultimo ventennio si sia sviluppato un nuovo modello di racconto,
alternativo alla forma a episodi e a quella seriale che hanno caratterizzato la televisione americana fin dai
suoi esordi, un modello che io chiamo complessità narrativa. Per comprendere le tecniche dello storytelling
della televisione di oggi dobbiamo innanzitutto considerare la complessità narrativa come un modello
narrativo a se stante, come già proposto da David Bordwell. Nella sua analisi della narrazione
cinematografica, Bordwell definisce modello narrativo «un insieme storicamente identificato di regole per
la costruzione e la comprensione di una narrazione», un insieme che attinge a generi, autori e movimenti
artistici diversi per creare un bagaglio coeso di tecniche narrative. Bordwell identifica modelli
cinematografici specifici come il cinema classico di Hollywood, il cinema d’essai e quello del materialismo
storico: ognuno di questi modelli ricorre a distinte strategie narrative, ma si rifà agli altri per costruire le
proprie specificità. Kristin Thompson ha applicato il metodo critico di Bordwell alla televisione, sostenendo
che programmi come Twin Peaks e The Singing Detective possano essere considerati «televisione d’autore»,
poiché importerebbero sul piccolo schermo regole proprie del cinema d’essai. Nonostante sia innegabile
che il cinema influenzi molti aspetti della televisione preferisco non ricorrere a un modello narrativo legato
ai tratti peculiari del cinema per analizzare le serie tv, i cui elementi chiave sono la continuità e la serialità:
credo sia più utile creare un vocabolario dedicato alla televisione, basato su termini propri di questo mezzo.
La complessità narrativa delle serie tv dipende da elementi dello storytelling specifici di questo formato, che
lo differenziano da quello del cinema e della letteratura, ma anche da quello delle serie episodiche e dei
serial convenzionali.

La poetica delle serie tv complesse

La complessità narrativa ridefinisce le forme a episodi in accordo a una narrazione seriale, il che non
significa necessariamente una fusione totale tra la struttura a episodi e quella seriale, quanto piuttosto un
equilibrio variabile tra i due modelli. La complessità narrativa dà vita a storie continuative che spaziano tra i
generi. La tv complessa ricorre a una gamma di tecniche seriali, partendo dal presupposto che una serie sia
una narrazione cumulativa che si espande nel tempo, invece di ristabilire un equilibrio stazionario alla fine
di ogni episodio, com’è tipico del modello a episodi. Le narrazioni complesse di oggi sono molto diverse dai
loro archetipi novecenteschi, e si sono sviluppate sulla base di numerose innovazioni emerse a partire dagli
anni Settanta. La serie cult X-Files rappresenta bene quello che può essere il punto di svolta della
complessità narrativa: un’interazione tra le necessità dello storytelling a episodi e di quello seriale, spesso
oscillante tra episodi autoconclusivi e una macrostoria a lungo termine. Jeffrey Sconce fa notare che ogni
singolo episodio di X-Files può riguardare la «mitologia» del programma (un’articolata trama cospiratoria la
cui risoluzione viene rimandata all’infinito), ma può anche proporre storie autoconclusive del genere
«mostro-della-settimana», che prescindono dall’immaginario più ampio della suddetta mitologia.
Nonostante X-Files abbia proposto un’ampia gamma di influenti innovazioni narrative, il fatto che verso la
fine abbia conosciuto un graduale declino rivela una delle difficoltà principali della complessità narrativa:

7
trovare un equilibrio tra le esigenze della forma a episodi e di quella seriale, spesso in contrasto tra loro.
Secondo molti spettatori e critici di X-Files, con il passare del tempo la serie ha risentito delle troppe
incongruenze tra la propria mitologia, complessa, vasta e irrisolta, e l’autonomia degli episodi stile «mostro-
della-settimana», che spesso non solo ignoravano, ma addirittura contraddicevano la suddetta mitologia
(episodio «Dov’è la verità?»). Gli spettatori si sono così divisi in due categorie: da un lato, gli appassionati
della cospirazione, che consideravano gli episodi autoreferenziali e autoconclusivi come distrazioni dalla
mitologia della serie; dall’altro i fan che, in seguito a una macrostoria sempre più inestricabile, hanno
cominciato ad apprezzare la libertà e la coerenza interna degli episodi autoconclusivi. Buffy e Angel sono
probabilmente riuscite meglio di X-Files a trovare un equilibrio tra le necessità del formato a episodi e di
quello seriale. Benché entrambe le serie propongano una mitologia complessa e condivisa che racconta la
battaglia tra le forze del bene e quelle del male, le loro sottotrame sono legate all’arco temporale delle
singole stagioni, ognuna delle quali ruota intorno al cattivo di turno. All’interno di una data stagione, quasi
ogni episodio aggiunge qualcosa alla macrostoria, ma ha anche una sua coerenza interna e una sua
conclusione. Entrambe le serie inoltre intrecciano i drammi relazionali e l’evoluzione dei personaggi con le
varie sottotrame e macrostorie. Buffy, nei casi più riusciti, ricorre ad accelerazioni narrative per suscitare
reazioni emotive nei confronti dei personaggi, e fa sì che siano i loro rapporti a far procedere la trama:
«L’urlo che uccide» costituisce un esempio perfetto di questa dinamica, poiché è autoconclusivo nel modo
in cui approfondisce il rapporto tra Buffy e Riley, e al contempo aggiunge alla macrostoria dettagli
riguardanti l’Organizzazione. Molte altre serie hanno elaborato un proprio modello per riuscire a inserire
elementi della macrostoria all’interno di un episodio dalla struttura chiusa: Lost e Orange Is the New Black,
ad esempio, ricorrono ai flashback individuali, mentre gli episodi di Veronica Mars e Pushing Daisies sono
strutturati su un «casodella-settimana».
Ma una serie tv complessa non può essere ridotta a una serie a episodi serializzata e trasmessa in prima
serata: molte delle serie che adottano questo modello non solo si oppongono alle regole della serialità, ma
ricorrono anche a strategie narrative che rifiutano la convenzionalità della forma a episodi. Seinfeld e altre
comedy complesse come I Simpson, Malcolm, Curb Your Enthusiasm, Arrested Development e C’è sempre il
sole a Philadelphia ricorrono alla forma a episodi mettendone però in discussione alcune convenzioni, come
il ritorno all’equilibrio iniziale o la continuità delle vicende, e adottando la serialità a fasi alterne: alcune
sottotrame vengono portate avanti, mentre ad altre non si fa mai più riferimento. Arrested Development,
una comedy più serializzata di altre, sovverte in modo ancora più deciso queste convenzioni: la maggior
parte degli episodi si conclude con un teaser che annuncia «la settimana prossima ad Arrested
Development» e contiene delle scene che riprendono le sottotrame della puntata appena terminata. Gli
spettatori abituali, però, si rendono conto ben presto che gli episodi successivi non contengono mai queste
scene, e che esse non si integrano all’universo narrativo della serie tv. Per contro, I Simpson dimostra di
solito un approccio eccessivamente fedele alla forma a episodi, quasi parodistico, rifiutando la continuità tra
gli episodi e tornando all’infinito a uno stato di equilibrio perpetuo, in cui Bart è sempre in quarta
elementare, Maggie è un’eterna lattante e tutta la famiglia vive in una condizione di stasi disfunzionale. A
queste regole ci sono però delle eccezioni: Apu si sposa e ha otto figli, che nell’arco di varie stagioni
crescono fino all’età di circa due anni, il che suggerisce che nel ciclo vitale di Springfield debbano essere
trascorsi almeno tre anni, benché nessun altro sia invecchiato. Prendendo spesso in giro lo stesso bisogno di
ripristinare l’equilibrio iniziale, I Simpson non rende mai facile capire quali trasformazioni verranno
«resettate» dopo ogni episodio (sono frequenti i licenziamenti, le demolizioni e i danni nei rapporti umani
che vengono annullati nell’episodio successivo) e quali invece saranno portate avanti in un’ottica seriale
(come la famiglia di Apu, la relazione tra Skinner e la Signora Caprapall e la morte di Maude Flanders).
Queste comedy complesse adottano quindi le norme seriali in modo selettivo, intrecciando alcuni eventi
con i loro antefatti e archiviando altri momenti nel dimenticatoio, una distinzione che gli spettatori possono
sia ignorare, immaginando che si tratti semplicemente di incoerenza, sia apprezzare, riconoscendo uno dei
tratti più sofisticati della complessità narrativa. Il secondo atteggiamento è quello più comune.

8
Oggi la serialità narrativa non può essere ridotta alla continuità di una trama, ma va considerata come una
variabile sfaccettata, che offre tutta una gamma di potenziali risvolti narrativi. In genere identifichiamo la
serialità televisiva con i finali eternamente rinviati delle soap opera, caratterizzate da narrazioni decennali
che si accumulano nella memoria di più generazioni di fan.
Elementi costitutivi principali di una narrazione seriale:
- il mondo narrativo
- i personaggi,
- gli eventi
- temporalità

Scomponendo la serialità in questi quattro elementi si nota subito come anche le serie più episodiche siano
comunque serializzate, in qualche modo. Quasi tutte le serie tv finzionali hanno un proprio universo
narrativo e propri personaggi, che costituiscono un importante elemento di continuità. Anche serie tv
considerate a episodi, come il crime procedural Law and Order o la sitcom Due uomini e mezzo, hanno un
mondo narrativo coerente e personaggi fissi che permettono agli spettatori di riconoscere i luoghi e le
persone già incontrati nelle puntate precedenti. È raro che una serie trasgredisca la natura dei personaggi o
la coerenza del proprio immaginario, il che rende ancora più interessante il modo in cui la serie Louie gioca
con le regole, facendo ad esempio interpretare alla stessa attrice prima una ragazza e poi la madre del
protagonista, in un flashback di un altro episodio.
Quando si parla di programmi serializzati ci aspettiamo che ciò che succede in un episodio venga ricordato
dai personaggi negli episodi successivi, e che lasci qualche traccia nel mondo narrativo. La maggior parte dei
programmi a episodi convenzionali preferiscono ignorare alcuni eventi passati piuttosto che negarne
esplicitamente l’esistenza, mentre serie più giocosamente autoreferenziali riconoscono questa mancata
storicizzazione degli eventi, come fa ad esempio South Park, dove il personaggio di Kenny muore alla fine di
ogni episodio, per poi tornare nel successivo come se niente fosse. Le serie nelle quali gli eventi narrativi si
accumulano danno invece prova di quest’evoluzione diegetica tramite i ricordi dei personaggi, lasciando che
siano loro a narrare gli eventi passati mentre li scoprono o li raccontano ad altri, creando così un senso di
continuità attraverso i dialoghi e le azioni.
Anche le ambientazioni possono avere una loro memoria, nel caso in cui conservino traccia degli eventi
narrativi. Può capitare che gli spettatori abbiano ricordi più nitidi di quelli dei personaggi o dell’universo
narrativo, e questo può disorientarli, perché si chiedono come sia possibile che un personaggio non ricordi
cosa gli è successo, o che l’ambientazione non riporti le conseguenze degli eventi dell’episodio
precedente.Una delle difficoltà della tv seriale è riuscire a comunicare agli spettatori le proprie norme
intrinseche, affinché lo spettatore capisca quale livello di continuità debba aspettarsi dalla serie, una cosa
che di solito viene stabilita dalla frequenza con cui i personaggi fanno riferimento agli eventi passati e da
quanto l’universo narrativo ne reca traccia: più una serie ci ricorda che i suoi eventi narrativi hanno un
impatto cumulativo, più lo spettatore si aspetta da essa continuità e coerenza.

Esistono diversi tipi di eventi narrativi, e non tutti possono essere integrati nella macrostoria. Una
distinzione fondamentale è quella tra eventi maggiori ed eventi minori, che Seymour Chatman chiama
rispettivamente «nuclei» (kernel) e «satelliti» (satellite). I nuclei sono imprescindibili per il funzionamento
della catena di eventi di una trama, mentre i satelliti possono essere omessi senza inficiare la comprensione
della storia, anche se contribuiscono al ritmo, alle atmosfere e alla profondità dei personaggi. Una delle
attrattive di una narrazione serializzata risiede nell’invogliare lo spettatore a chiedersi se un dato evento si
rivelerà un nucleo o un satellite, in relazione a un arco temporale più ampio o anche a tutta la serie. Si parla
spesso del «fucile di Cˇechov» come di un assioma dello storytelling: se nel primo atto di una storia si vede
un fucile entro la fine della storia quel fucile dovrà aver sparato. Secondo Chatman il fucile di Cˇechov è un
nucleo inizialmente proposto come satellite, e gli spettatori seriali si concentrano molto per cercarlo. A volte
quelli che a primo impatto sembrano dei satelliti si rivelano nuclei nell’arco di un episodio o poco più, come

9
quando, nella puntata «Cercando vendetta» di Breaking Bad, Walt fa roteare una pistola sul tavolo: sul
momento si pensa che questa scena serva soltanto a rappresentare lo stato emotivo di Walt, ma
nell’episodio successivo essa si rivela un elemento narrativo cruciale, comprensibile soltanto a posteriori.
Altri momenti di questo tipo possono invece rimanere in sospeso per l’intera serie: ad esempio, nel terzo
episodio di The Wire ci viene detto che il tenente Daniels è corrotto, e tenuto d’occhio dall’Fbi. Questa
rivelazione rimane per anni una spada di Damocle, finché non scatena una lotta di potere che spinge
Daniels a dimettersi; tutto ciò, però, avviene soltanto alla fine della quinta stagione
Molti nuclei sono eventi obiettivi che modificano la storia in modo evidente: Jim e Pam che si sposano in
The Office, Jason Street che rimane paralizzato durante una partita di calcio in Friday Night Lights, Nathaniel
che viene investito da un autobus e muore in Six Feet Under. Questi eventi si ripercuotono in modo evidente
sull’insieme dei personaggi e modificano gli equilibri dell’universo narrativo, ma le domande che sollecitano
riguardano soltanto il futuro della narrazione: che ripercussioni avrà tutto ciò sulla macrostoria? Possiamo
dire che questi eventi sono delle asserzioni narrative, poiché l’unica domanda che sollecitano è un
ricorrente «e adesso?» Al contrario, alcuni eventi fungono da enigmi narrativi, poiché non chiariscono cosa
sia realmente successo, chi sia stato, perché l’abbia fatto, come si sia giunti a quel punto, e a volte
nemmeno se l’evento sia davvero accaduto. Per esempio, nella seconda stagione di Lost, l’episodio «Due per
la strada» finisce con Michael che spara ad Ana Lucia e Libby per liberare il prigioniero fino a quel momento
conosciuto come Henry Gale. Come tutti i nuclei, quest’evento pone delle domande sul futuro (Ana Lucia e
Libby sopravvivranno? I loro amici scopriranno il tradimento di Michael?), ma anche domande sul presente
(Perché Michael ha tradito i suoi amici? Ha sparato intenzionalmente a Libby?) e sul passato (Cos’è successo
a Michael mentre era lontano dall’accampamento?). Queste domande trovano risposta già nei successivi tre
episodi, il che li rende degli enigmi minori all’interno della fitta rete di misteri e spade di Damocle che
caratterizza la serie.
Molti fanno coincidere il concetto di «drama fortemente serializzato» con quella struttura reinventata da
Twin Peaks e X-Files, e resa poi popolare da Lost, che ruota intorno a un unico enigma narrativo; ma va
detto che la maggior parte delle serie tv imperniate su un enigma narrativo centrale non riescono a centrare
il proprio obiettivo. La maggior parte delle serie tv ruota intorno alle possibili conseguenze delle
affermazioni narrative, piuttosto che alimentare enigmi collegati al passato. Persino nelle serie in cui il
passato dei personaggi è determinante, come in Breaking Bad e Revenge, la trama si sposta principalmente
in avanti, proponendo al massimo flashback riguardanti aspetti peculiari del passato di un personaggio, ma
senza proporre misteri intricati sperando che gli spettatori abbiano voglia di dipanarli. In televisione il
modello più diffuso di serializzazione degli eventi è l’accumulo di asserzioni narrative, che innesca a sua
volta gli eventi degli episodi successivi: questo modello si ritrova sia nelle serie tv complesse di oggi, come
quando in The Wire Avon Barksdale ingaggia un cecchino per uccidere Omar, sia nelle soap opera
tradizionali da daytime o prima serata, come quando in General Hospital Luke stupra Laura, dando vita a
una relazione problematica ma coinvolgente: si tratta di momenti chiari che invogliano il pubblico a
chiedersi cosa avverrà in seguito.
Gli enigmi e le asserzioni narrative suscitano nello spettatore diversi tipi di coinvolgimento e reazioni
diverse, come suspense, sorpresa, curiosità e l’istinto di fare delle ipotesi. La varietà degli esiti possibili
rivela quanto sia importante la temporalità nella costruzione di una narrazione seriale, poiché sia gli
spettatori che gli stessi autori devono gestire i diversi piani temporali del passato, del presente e del futuro
se vogliono far quadrare ciò che succede all’interno di un universo narrativo.

Il tempo è un elemento essenziale di qualsiasi racconto, ma è persino più determinante nel caso della
televisione. 3 tipologie di flusso temporale che riguardano qualsiasi narrazione:

- Il tempo della storia (story time) è la cornice temporale della diegesi, il modo in cui il tempo
trascorre all’interno del mondo narrativo: di norma, il tempo della storia segue le convenzioni del

10
mondo reale, una cronologia inequivocabile e una progressione lineare, con eccezioni soltanto nei
casi in cui i personaggi viaggiano nel tempo, come in Lost o in Heroes.
- Il tempo del discorso (discourse time) è la struttura temporale scelta per raccontare la storia e, di
solito, differisce dal tempo della storia perché omette, tramite il montaggio, gli archi di tempo privi
di eventi rilevanti. Le narrazioni complesse spesso riorganizzano il tempo della storia tramite l’uso di
flashback, ripetizioni di eventi passati e cronologie non lineari: in questi casi si tratta di esplicite
manipolazioni temporali, poiché si parte dal presupposto che i personaggi abbiano vissuto gli eventi
in una progressione lineare. Le sottotrame basate su un mistero da risolvere giocano spesso col
tempo del discorso per creare suspense intorno agli eventi passati che hanno innescato la storia,
aspettando fino alla fine per rivelarli, e in generale molte narrazioni complesse giocano con la
cronologia per coinvolgere gli spettatori e indurli ad analizzare attivamente la storia.
- Il tempo del racconto (narration time), che è il tempo materialmente necessario a raccontare e a
fruire una storia. Nei film e in televisione il tempo del racconto è controllato in modo rigido, dato
che un film di due ore ha la stessa durata per tutti gli spettatori. Le serie tv circoscrivono ancora di
più il tempo del racconto, per via della loro cadenza settimanale e delle interruzioni pubblicitarie:
nonostante la flessibilità concessa dai dvd o dallo streaming online, di cui parleremo più avanti,
chiunque impiega comunque la stessa quantità di tempo per fruire un determinato racconto
audiovisivo. Di conseguenza, parlando di cinema e televisione, è meglio parlare di tempo dello
schermo (screen time) che di tempo del racconto, poiché questa dicitura tiene conto del ruolo del
mezzo all’interno dell’esperienza narrativa.

La comprensione del tempo narrativo da parte dello spettatore è fondamentale per lo storytelling delle
serie, poiché la serialità stessa è definita dal suo utilizzo del tempo. La struttura base della forma seriale
vede un sistema temporale nel quale la storia viene raccontata in blocchi separati da intervalli settimanali,
nonché attraverso un uso rigidissimo del tempo dello schermo. I dvd che raccolgono le puntate di una serie
ne modificano radicalmente la visione, poiché permettono agli utenti di gestire in modo autonomo il tempo
dello schermo, privandoli dell’esperienza culturale che consiste nel guardare un determinato episodio
contemporaneamente a milioni di altri spettatori. Quando le serie tv vanno in onda per la prima volta le
puntate si alternano a lunghi intervalli temporali, e sono proprio questi vuoti a caratterizzare la visione di
una serie. La temporalità delle serie tv è legata al tempo dello schermo tipico della trasmissione televisiva,
che comporta quel tipo di visione regolare e rituale che è il fulcro dell’esperienza di guardare una serie tv.
Ma l’aspetto più importante di questi intervalli è che danno il tempo agli spettatori di appassionarsi
maggiormente alla serie, partecipando a community, leggendo recensioni e paratesti, e facendo ipotesi sulle
puntate future.
Probabilmente il compito più importante del tempo dello schermo, nella ricerca di un equilibrio tra la forma
a episodi e il serial, è quello di creare delle sequenze di apertura e chiusura di ogni episodio, che delimitino
sia la puntata, in quanto porzione di un racconto più ampio, sia l’intervallo tra gli episodi. La maggior parte
degli episodi comincia con un indicatore fondamentale, come il riepilogo degli eventi precedenti, una sigla
di lunghezza variabile e titoli di testa che possono anche sovrapporsi alle prime scene; allo stesso modo,
quasi tutti gli episodi si concludono con dei titoli di coda, il logo della casa di produzione e un’anticipazione
degli eventi futuri. Gli stessi menu dei dvd concorrono a circoscrivere gli episodi attraverso titoli, espedienti
grafici, paratesti specifici e, a volte, riassunti degli episodi. Tutti questi elementi propri del tempo dello
schermo fanno parte della sfera dei paratesti o delle grafiche extradiegetiche che mirano a stabilire i confini,
la lunghezza e il ritmo di ogni episodio (spezzato internamente dalle interruzioni pubblicitarie): quasi tutte le
serie tv devono modellare la propria narrazione affinché si adatti ai parametri costrittivi del tempo dello
schermo televisivo. Anche quando una serie fortemente serializzata dipana le proprie trame nell’arco di
un’intera stagione, i producer concepiscono sempre ogni episodio come un’unità narrativa conchiusa, in
accordo ai parametri consolidati del tempo dello schermo. Uno storytelling efficace ricorre al tempo dello
schermo tipico della forma a episodi per suscitare le reazioni degli spettatori, come succede nei cliffhanger
11
rituali di Alias: i producer della serie hanno deciso di spezzare ogni episodio in una struttura convenzionale
in quattro atti, spostando però l’atto finale di ogni episodio nei primi dieci minuti del successivo e creando
così un legame obbligatorio tra gli episodi, senza privare gli spettatori di una conclusione (seppur rinviata)
per ogni singola trama raccontata.
Considerato che uno degli aspetti temporali principali della serialità è la ritualità della fruizione, alcune serie
fanno sì che anche il tempo del discorso diventi parte di questo rituale. Sia Twin Peaks che Deadwood
ricorrono così a un uso strutturale del tempo del discorso: ogni loro episodio si svolge più o meno nell’arco
di una sola giornata, dando un ritmo chiaro al flusso narrativo della serie. 24 fa sfoggio di un uso del tempo
del discorso ancora più rigoroso, strutturando ogni stagione in modo tale da riprodurre lo pseudo-tempo-
reale della vita di Jack Bauer, e sottolineando questa temporalità tramite l’uso di timer o split screen. È
molto più raro che sia il tempo della storia a essere serializzato, poiché nella vita reale non esistono quegli
intervalli e quelle ripetizioni che caratterizzano la serialità: un’eccezione è stata la serie Day Break, basata
sulla ripetizione in loop di un singolo giorno. Lost crea invece un legame tra il tempo della storia e quello
dello schermo imperniando il suo racconto intorno all’evento narrativo dello schianto del volo 815,
avvenuto nella finzione il 22 settembre del 2004, che è però anche la data reale della prima tv della serie
negli Stati Uniti. È molto più frequente che le serie tv giochino con il tempo della storia e quello del discorso
modificando le caratteristiche della propria serialità: una delle maggiori attrattive delle serie tv complesse di
oggi è la loro capacità di mettere in discussione le proprie norme intrinseche allo scopo di proporre un
punto di vista originale sulla storia raccontata, nonché sul modo in cui è raccontata.

Possiamo osservare diversi aspetti dello storytelling a episodi e seriale in due delle serie tv complesse più
innovative e influenti di sempre: I Soprano e The Wire. La prima è la pietra miliare che trasformò Hbo nel
più importante canale televisivo orientato all’innovazione e che è diventata il modello di riferimento per le
serie tv apparse nel corso degli anni Duemila. I Soprano aveva una struttura molto meno episodica di
quanto si tenda a ricordare. È vero che I Soprano aveva dei personaggi e un universo narrativo fissi, ed era
sicuramente più cumulativa dei crime drama tipici degli anni Novanta, come Law and Order o NYPD Blue;
ma la maggior parte dei suoi episodi si limitava ad avere un inizio e una fine, riproponendo alcuni temi o
aggiungendo commenti ironici sull’evoluzione dei personaggi o sugli scontri tra i gangster, mentre alcuni dei
suoi episodi più apprezzati, come «Un conto da saldare» o «Caccia al russo», erano del tutto autoconclusivi,
strutturati su un format del tipo «mostro-della-settimana», come quello di X-Files o di Buffy. Nei Soprano gli
archi temporali coperti da una data storia duravano spesso meno di una stagione e si ripercuotevano poco
sulle stagioni successive; inoltre, la serie non proponeva enigmi che invogliassero gli spettatori a interrogarsi
sul passato in cerca delle origini di ogni singolo evento, se si esclude la scena che chiude la serie. L’autore
David Chase ha dichiarato che avrebbe voluto realizzare singoli cortometraggi autonomi che parlassero di
quei personaggi e del loro mondo, ma che Hbo fece pressioni affinché serializzasse maggiormente la sua
creazione; nonostante questo, molti episodi possono comunque essere guardati senza bisogno di conoscere
gli antefatti della serie. Nessuna delle stagioni può essere ridotta a una sequenza di episodi tenuti insieme
da una macrostoria, ma è anche vero che questa coesione è più legata ai temi o ai personaggi che alla trama
o alla sorte del cattivo di turno, come invece avviene in Buffy.
I Soprano ha dettato quel modello di narrazione a episodi relativamente serializzata che caratterizza oggi la
tv complessa, con trame più o meno autoconclusive basate su un universo narrativo serializzato e sullo
sviluppo dei suoi personaggi.

The Wire gestisce in modo molto diverso la struttura del singolo episodio, che quasi mai contiene trame
autoconclusive. Tutti gli eventi narrativi del programma sono momenti autonomi, che approfondiscono un
personaggio senza influire più di tanto sulla macrostoria, né contribuiscono alle sottotrame principali che si
dipanano all’interno di una data stagione. I singoli episodi sono identificabili con la particolarità del tono
della narrazione: ricordiamo un episodio per via della scena in cui, durante un sopralluogo, il dialogo tra
Bunk e McNulty si riduce a un elenco dei sinonimi di «cazzo», ma possiamo dimenticare in che modo gli

12
eventi di quella scena influenzano la macrostoria, che impiegherà l’intera stagione a dipanarsi. Gli episodi di
The Wire sono quasi impossibili da riassumere, perché in quella serie ogni evento coinvolge un gran numero
di personaggi, ma non è mai chiaro quali di questi saranno importanti per la macrostoria; nei Soprano,
invece, per riassumere la trama dell’episodio «Un conto da saldare» è sufficiente dire che «Tony Soprano
scopre e dà la caccia a un informatore della mafia mentre accompagna la figlia a fare un tour dei college a
cui potrebbe iscriversi».
Questo non significa che gli episodi di The Wire siano raccolte casuali di eventi narrativi inseriti
arbitrariamente in una macro-trama: i singoli episodi contengono spesso rimandi tematici tra loro, o hanno
trame legate agli stessi personaggi, così come spesso l’unità di un episodio deriva più dal tono della
narrazione che da una storia autoconclusiva. Nel terzo episodio della serie, intitolato «Retata», ci sono ad
esempio dei momenti in cui si fa un parallelo tra i ruoli secondari che McNulty e D’Angelo hanno giocato
nelle rispettive partite, enfatizzato dal monologo di D’Angelo sugli scacchi, e dalla scena in cui gli spacciatori
che si trovano nella «fossa» sono tenuti d’occhio sia dalla polizia sia dal loro rivale Omar, una sequenza che
trasmette allo spettatore la sensazione di una minaccia incombente.
Questa unità di temi e toni viene rafforzata dall’esergo all’inizio di ogni puntata, che richiama il tema
dell’episodio: in «Retata», ad esempio, viene citata la frase di D’Angelo: «Il Re rimane il Re». Notiamo quindi
come le due pietre miliari targate Hbo lavorino su diverse logiche strutturali: The Wire imbastisce trame
stagionali composte da episodi legati tra loro dai temi e dai toni, mentre I Soprano mette insieme episodi
più autoconclusivi all’interno di stagioni tematicamente più coese, ma meno imperniate sulla trama.

La maggior parte delle serie tv complesse si distingue per il modo in cui gestisce eventi, personaggi e
immaginario all’interno di quello spettro di opzioni che va dalla forma a episodi a quella seriale. Se si vuole
fornire una panoramica esaustiva della complessità narrativa prima è necessario aver compreso in che
modo la diffusione di questa modalità narrativa è stata resa possibile dalle innovazioni industriali,
tecnologiche e di ricezione avvenute negli anni Novanta e Duemila: una vera e propria trasformazione cui,
allo stesso tempo, la complessità narrativa ha contribuito. Sebbene nessuna di queste innovazioni sia
l’origine diretta della diffusione della televisione complessa, esse ne hanno costituito le condizioni ideali,
contribuendo all’evoluzione dello storytelling oggi più ricorrente. Seguendo il paradigma della poetica
storica, dobbiamo considerare l’interazione tra gli aspetti formali della televisione complessa e tutto ciò che
la circonda, ovvero il suo «contesto».

Contesti e vincoli della complessità

La complessità narrativa è ormai talmente diffusa e popolare che potremmo considerare quel periodo che
va dagli anni Novanta fino a oggi come l’era della televisione complessa. La complessità non ha sostituito le
forme convenzionali della maggior parte dei programmi televisivi, eppure sono convinto che la televisione
americana degli ultimi vent’anni verrà ricordata come un’era di sperimentazione, che ha messo in
discussione le norme tradizionali del mezzo. Alcuni cambiamenti fondamentali riguardanti l’industria dei
media, la tecnologia e i comportamenti del pubblico coincidono cronologicamente con la diffusione della
complessità narrativa: una panoramica su ciò che è cambiato a partire dagli anni Novanta può rivelare come
queste trasformazioni abbiano influenzato anche la creatività degli autori, nonché spinto i prodotti televisivi
a superare sempre di più i propri confini.
Un fattore che ha influenzato la diffusione della complessità narrativa in televisione è stato la graduale
legittimazione del mezzo e il conseguente aumento di attrattività dei suoi autori. Molti dei programmi
televisivi innovativi degli ultimi vent’anni sono stati creati da autori che hanno cominciato nel cinema, un
mezzo da sempre detentore di maggiore prestigio culturale: Aaron Sorkin (Sports Night e West Wing), Joss
Whedon (Buffy, Angel e Firefly) e Alan Ball (Six Feet Under e True Blood) come sceneggiatori, David Lynch
(Twin Peaks) e J.J. Abrams (Alias, Lost e Fringe) come autori-registi. Parte dell’appeal che la televisione può
aver esercitato su questi autori sta nella sua reputazione di medium ideale per i producer, un ambiente nel
quale gli autori possono mantenere il controllo sul proprio lavoro più di quanto avvenga nel cinema, che è
13
invece incentrato sul regista. Con la diffusione dei reality gli autori televisivi sembrano ancora più propensi a
ricorrere alle innovazioni per dimostrare che alcune cose si possono fare soltanto in una serie televisiva. La
complessità narrativa mette inoltre in evidenza i limiti dei reality, poiché sfoggia un controllo della trama
difficilmente accessibile ai producer di questo genere televisivo (nonostante molti di questi tentino di
manipolare narrativamente i propri programmi). Molti autori preferiscono così affrontare le maggiori
possibilità e difficoltà creative connesse a una serie tv di lunga durata rispetto a quelle di un
lungometraggio: è semplicemente impossibile, in un film di due ore, raggiungere lo stesso approfondimento
dei personaggi, mantenere una sottotrama fissa così a lungo o ricorrere a episodi speciali: a tal proposito è
rilevante l’esempio del film Serenity, diretto da Joss Whedon, che riprendeva la narrazione della serie di
culto Firefly (ideata dallo stesso Whedon e cancellata dopo la prima stagione), comprimendone la trama in
due ore e sacrificandone la molteplicità del racconto, l’approfondimento dei personaggi e la suspense legata
alla continuità. Benché nel cinema degli ultimi anni siano emerse forme narrative innovative, spesso basate
su enigmi, come nel caso del Sesto senso e di Inception, le regole di Hollywood preferiscono ancora formule
spettacolari più adatte a garantire un immediato successo al botteghino.
Anche la televisione, però, ha aspettato a lungo prima di adottare la complessità, a causa di alcuni elementi
consolidati che ostacolavano l’introduzione di uno storytelling complesso. La televisione commerciale
americana ha sempre evitato le scelte rischiose, inseguendo piuttosto la stabilità economica attraverso
strategie di imitazione mirate al «contenuto meno sgradevole possibile» (least objectionable content).
I racconti seriali erano perlopiù confinati a quel genere spesso bistrattato che sono le soap opera. I network
preferivano proporre in prima serata programmi a episodi e quindi non continuativi, principalmente perché
i contenuti serializzati non si sposavano bene con una delle maggiori fonti di profitto dell’industria
televisiva: la syndication. Le repliche distribuite dai consorzi di tv locali in syndication potevano infatti
andare in onda in qualsiasi ordine, mentre le trame continuative costituivano un ostacolo per questo
redditizio mercato secondario. In più, le indagini di mercato degli stessi network suggerivano che anche le
serie di maggiore successo potessero raggiungere, ogni settimana, un pubblico fisso garantito che non
superava un terzo del pubblico totale raggiunto, e che quindi nel caso di una serie continuativa il pubblico
non avrebbe mai avuto una conoscenza sufficiente degli antefatti per comprendere appieno le trame;
considerati questi dati ipotetici e il successo dei programmi a episodi, ai tempi mancavano effettivamente i
presupposti affinché i network si imbarcassero in esperimenti su uno storytelling più serializzato e
complesso.
I meccanismi narrativi della televisione pongono inoltre alcuni limiti cruciali al modo in cui si può raccontare
una storia. La televisione commerciale prevede un sistema di programmazione strutturato in modo ferreo.
Innanzitutto, può ospitare soltanto episodi settimanali di una specifica durata, che vengono spesso interrotti
da intervalli pubblicitari. Inoltre, ogni stagione deve avere un numero specifico di episodi, con un piano di
programmazione variabile per quanto riguarda la distanza tra un episodio e l’altro: spesso i producer non
sanno esattamente quando una serie sarà trasmessa né, in casi estremi, in che ordine saranno trasmessi gli
episodi. Inoltre, una serie tv viene guardata mentre è ancora in produzione, il che significa che alcune
modifiche vengono apportate in corso d’opera, spesso a causa di circostanze impreviste. Queste modifiche
possono derivare da fattori umani riguardanti il cast, come gravidanze, malattie o persino la morte di un
attore, oppure dai feedback temporanei di network, sponsor e pubblico. Questi vincoli differenziano il
racconto televisivo da quello di quasi ogni altro medium e limitano il modo in cui le storie televisive possono
essere raccontate, ma concorrono anche a delimitare il terreno nel quale si possono sviluppare certe
innovazioni, sfidando in modo creativo le norme consolidate del mezzo.
La maggior parte delle serie tv di successo, infatti, non ha in sé quell’elemento che è stato a lungo
considerato fondamentale per una storia ben raccontata: un finale. La televisione commerciale americana si
basa su quello che possiamo definire un «modello infinito» di racconto, per il quale una serie ha successo
soltanto se non si ferma mai. Si tratta di un problema non da poco per gli autori che devono progettare
universi narrativi che possano durare anni, piuttosto che limitarsi a un determinato arco di tempo. Non

14
sorprende che questa necessità di predisporsi a una durata infinita privilegi la forma a episodi, che presenta
poca continuità e pochi sviluppi a lungo termine, e che propone i personaggi riciclabili e le situazioni
intercambiabili tipici dei police drama e delle sitcom. Sono stati questi limiti a ostacolare le innovazioni
apportate in seguito dalla televisione complessa: un graduale cambiamento delle possibilità narrative si è
avuto soltanto negli anni Novanta, di pari passo a una serie di innovazioni industriali e tecnologiche.
Uno dei fattori che ha dato il via alle innovazioni narrative è stata la ricalibrazione degli obiettivi
dell’industria nella definizione del concetto di «serie di successo». Con l’aumento del numero di canali, e la
conseguente diminuzione del pubblico di ogni singolo programma, i network e i canali televisivi si sono resi
conto che è sufficiente che una serie sia seguita da un pubblico piccolo ma dedito e costante, affinché
questa serie sia economicamente sostenibile. La dimensione complessiva dell’audience di serie come Buffy
o Veronica Mars non le ha rese dei successi commerciali, ma gli obiettivi più contenuti di network recenti
come Upn e Wb, uniti al focus sul pubblico più giovane e al culto generato da queste serie, hanno
incoraggiato i network a lasciare che questi esperimenti raccogliessero il proprio pubblico. Molti programmi
complessi, come West Wing o I Simpson, sono pensati per attrarre una nicchia di spettatori più sofisticati tra
coloro che di norma non guardano la televisione: un pubblico composto da spettatori che guardano pochi
altri programmi risulta molto appetibile agli inserzionisti pubblicitari. Serie tv complesse come The Wire,
Deadwood e Curb Your Enthusiasm possono anche non aver raggiunto la popolarità dei Soprano, ma resta il
fatto che il loro prestigio ha rinforzato l’identità di brand del premium cable Hbo, portandolo a essere
identificato come un contenitore di prodotti più sofisticati di quelli della televisione tradizionale, e per
questo meritevole di un abbonamento mensile supplementare (e dell’acquisto futuro di dvd). Per quanto
riguarda invece i canali basic cable, alcune serie tv complesse e prestigiose, come The Shield e Justified (su
Fx), o Mad Men e Breaking Bad (su Amc), hanno contribuito a legittimare questi canali e ad attrarre
producer e spettatori, a prescindere dalla maggiore redditività di altre opzioni: va comunque detto che Fx
guadagna dalle repliche di Due uomini e mezzo più di quanto abbia incassato durante la messa in onda
originale della serie, e che la meno complessa delle serie originali della Amc, Walking Dead, ha avuto gli
indici di ascolto più alti mai raggiunti dal canale. Ma poiché i canali via cavo ottengono un introito fisso per
ogni abbonato che ne riceve il segnale, le serie high-concept possono essere utili a innalzarne lo status e
magari le tariffe, al di là del fatto che quei titoli non producano molti utili in termini di pubblicità. Questi
esempi rivelano che programmi con indici di ascolto relativamente bassi possono produrre risultati redditizi
per un’industria che ha ricalibrato i propri parametri.
Oggi il pubblico tende a seguire i programmi complessi con maggiore dedizione di quanto non faccia con i
programmi tradizionali, costruendo intorno a queste serie solide community online, attraverso le quali i fan
possono dare il loro feedback all’industria. L’onnipresenza della rete ha permesso ai fan di prendere parte a
una forma di intelligenza collettiva che produce informazioni, interpretazioni e discussioni sulle serie più
stimolanti in tal senso. I videogiochi, i blog, i giochi di ruolo online, Twitter, le pagine wiki e altri prodotti
della tecnologia digitale consentono agli spettatori di allargare la propria passione per le serie tv al di là dei
confini di quella fruizione unidirezionale tipica della tv tradizionale, contribuendo al contempo a espandere
gli universi narrativi delle serie, come la Sunnydale di Buffy o la Springfield dei Simpson, fino a trasformarli
in realtà interattive e partecipative.
Steven Johnson sostiene che questa forma di complessità abbia offerto agli spettatori un «allenamento
cognitivo» che ne incrementa la capacità di problem-solving e di osservazione: al di là della possibilità di
provare questa tesi, rimane indiscutibile che questo tipo di racconto spinga gli spettatori ad appassionarsi a
una serie in modo più attivo, e che offra una gamma di gratificazioni e attrattive più ampia di quella della
maggior parte dei programmi convenzionali. Le pratiche di visione e creazione delle community dei fan oggi
grazie a Internet sono talmente diffuse da aver reso comune un comportamento attivo da parte del
pubblico. Per quanto nessuna di queste innovazioni tecnologiche sia la causa diretta della diffusione della
complessità narrativa, non c’è dubbio che le possibilità da esse concesse, sia all’industria sia agli spettatori,
abbiano agevolato le innovazioni di molti di questi programmi.

15
Una novità apparentemente meno radicale, ma altrettanto o forse persino più importante, è stata la
diffusione dei cofanetti che raccolgono le serie tv in dvd. Sebbene il passaggio al dvd possa essere
considerato più un miglioramento tecnico che una trasformazione del sistema distributivo, i dvd hanno
consentito modalità di visione che hanno rivoluzionato il ruolo occupato dalle serie tv nello scenario
culturale, nonché le possibilità narrative a disposizione degli autori. Nei primi trent’anni di vita della
televisione americana, la modalità di visione era decisa dai network, che offrivano una gamma limitata di
contenuti, inseriti in una programmazione rigida che difficilmente consentiva di accedere a quei contenuti
per altre vie. Le repliche erano trasmesse dai consorzi televisivi in syndication, che però solitamente non
rispettavano la sequenza originale della serie. Tutto ciò incentivava la produzione e la visione di serie
episodiche, che potevano invece essere trasmesse, e guardate, in un ordine quasi casuale. Dopo l’epoca dei
network generalisti e del vhs, all’inizio degli anni Ottanta, l’equilibrio si è gradualmente spostato verso il
controllo da parte dello spettatore: la proliferazione dei canali ha permesso la trasmissione regolare delle
repliche. Tecnologie come i videoregistratori digitali e lo streaming online permettono agli spettatori di
decidere quando vogliono guardare un programma, ma soprattutto di riguardare un episodio o una parte di
esso per comprendere meglio dei passaggi complicati, una novità di cui gli autori devono tenere conto.
Anche se la registrazione in vhs o in dvd permette agli spettatori di collezionare le puntate di una serie,
questi materiali costituiscono soltanto l’archivio di un evento già accaduto (la trasmissione originale),
nonché un esempio di come si può cristallizzare un momento pensato per essere effimero: i contenuti
registrati sono legati al momento e al luogo della prima trasmissione, contrassegnati dagli elementi
identificativi del canale e dalle pubblicità, e trasmessi con un ritmo pensato per produrre alti indici di
ascolto e fidelizzare il pubblico. La registrazione dei programmi non era poi così diversa dalla televisione di
flusso, se non per il fatto di essere cristallizzata nell’ambra di una collezione che rischia comunque di essere
sovrascritta in qualsiasi momento.
Con i cofanetti dvd, una serie tv diventa un oggetto tangibile che può essere acquistato, collezionato e
posizionato su uno scaffale. Ciò contribuisce ad accrescerne il valore culturale, emancipandolo dalla
programmazione controllata dell’industria, e al contempo arricchendo la serie tv di paratesti quali un
packaging, un design e contenuti video speciali che fungono da commento e da estensione del testo. La
collezionabilità dei cofanetti dvd nobilita le serie tv: la possibilità di collocare fisicamente una serie tv su uno
scaffale, al fianco di un film o di un romanzo, crea i presupposti per una parità estetica che la logica della
trasmissione effimera non avrebbe mai permesso. La serie tv forse più encomiata di tutti i tempi, The Wire,
è stata considerata dalla critica alla pari di un Dickens o un Tolstoj dei nostri giorni, uno status rinforzato
dalla sua condizione di oggetto collezionabile, così come nell’Ottocento il romanzo ha acquisito legittimità
grazie al passaggio dalla forma a puntate a quella rilegata. La diffusione dei cofanetti dvd ha permesso alle
serie tv di essere considerate come parte di un campo estetico più vasto, dopo che nello scorso decennio la
loro legittimazione è stata alimentata da paragoni positivi con altre forme di narrazione.
I cofanetti dvd hanno anche modificato il modo in cui gli spettatori guardano le serie tv, spostandosi dal
modello del broadcasting a quello editoriale, come dimostrato da Derek Kompare. Anche se questo modello
di pubblicazione si concretizza sempre di più attraverso i download su iTunes o lo streaming su Netflix che
con le vendite calanti dei dvd, le ripercussioni sulle abitudini di visione degli spettatori rimangono più o
meno le stesse, perché tutti questi servizi permettono comunque agli spettatori di decidere come e quando
guardare una serie tv. Questo modello editoriale può essere di enorme aiuto alla continuità narrativa,
poiché gli spettatori che possiedono i cofanetti dvd (o i file scaricati) possono riguardare sequenze, episodi o
intere stagioni avvalendosi della stessa flessibilità concessa da un libro. Se gran parte delle narrazioni seriali
televisive, nei loro primi decenni di vita, erano pensate per essere guardate in qualsiasi ordine, e da
spettatori distratti e indifferenziati, la narrazione complessa di oggi si rivolge invece a uno spettatore
attento, che non soltanto presti attenzione alla prima visione, ma che possa riguardare un episodio,
coglierne i riferimenti, stupirsi della tecnica e apprezzare quei dettagli che richiedono la possibilità di
mettere in pausa o usare il rewind. Queste strategie di visione erano già disponibili con la messa in onda in

16
un palinsesto televisivo, ma sono sicuramente potenziate dalle opportunità concesse dai dvd e dallo
streaming. I cofanetti dvd rendono inoltre definitiva e ufficiale la versione pubblicata, sia rispetto a quella
trasmessa in prima tv, sia alle repliche dei consorzi di syndication, che sono spesso accorciate. La
pubblicazione consente di apportare correzioni che perfezionino la coerenza interna: nell’episodio
«Orientamento» di Lost, ad esempio, si vede una fotografia di Desmond e Penny realizzata prima che Penny
diventasse un personaggio fisso, e che di conseguenza ritrae un’altra attrice. Ma nelle versioni dell’episodio
successive alla prima messa in onda la fotografia è stata sostituita con un’altra in cui appare Sonya Walger,
l’attrice scelta in seguito per il ruolo di Penny. Dettagli come questi, irrilevanti in passato, sono oggi diventati
importanti, soprattutto per gli spettatori di programmi come Lost, che sono abituati a mettere in pausa e ad
analizzare un fermo immagine. I dvd possono anche contenere materiale eliminato per via di limiti
temporali e contenutistici, emancipando così la serie dai vincoli tipici della trasmissione originale. i dvd
possono inoltre non tenere conto della versione della puntata pilota andata in onda originariamente,
riaffermando la volontà dell’autore sul controllo del network e compiendo un altro passo in avanti verso la
legittimazione del medium.
Nel caso di molte serie, questa maggiore autonomia degli spettatori ha aumentato notevolmente lo spettro
delle possibilità narrative alle quali un autore può attingere. Nel caso di serie costruite sui cliffhanger, come
24, per gli spettatori la visione del dvd diventa una folle corsa verso l’appagamento narrativo, il che ha dato
origine a una mentalità «da abbuffata» (binge viewing). 24 ha sicuramente invogliato questo tipo di
abbuffate, in cui gli spettatori guardano un’intera stagione in una maratona di ventiquattr’ore. The Wire si
comporta in modo opposto: dipanando lentamente le proprie trame, lesinando spiegazioni e proponendo
un elevato numero di personaggi, la serie pone infatti un ipotetico nuovo spettatore davanti a diverse
difficoltà di comprensione, settimana dopo settimana: è troppo facile perdere il filo dei tanti eventi narrati
perché si possa apprezzare appieno la complessità dell’universo narrativo della serie, ma la visione in dvd
permette di riconquistare intensità e continuità. La possibilità di collezionare una serie permette allo
spettatore di vederla in un modo diverso, di notare la coesione, la complessità e la chiarezza degli inizi e dei
finali, qualità che sono difficilmente percepite durante la trasmissione originale. Una serie come Lost chiede
agli spettatori di credere che la pur intricata narrazione faccia parte di un piano superiore consapevole e
coerente. Benché anche nel dvd le rivelazioni arrivino dopo diverse stagioni, guardare Lost in questo
formato fa sì che il ritmo della visione sia sufficientemente rapido da ridimensionare i problemi legati al
rinvio di risoluzioni e risposte.
Possiamo quindi dire che i cofanetti dvd, come altre forme di collezione, soddisfino il bisogno di coesione e
complessità, dal momento che, attraverso l’estetica della confezione, trasformano le serie tv in un oggetto
culturale non meno coeso di quanto lo siano film e romanzi. Senza dubbio si perdono alcuni aspetti
dell’estetica di una serie. Lost è un esempio perfetto di questo tipo di compromesso: anche se la visione
accelerata della serie in dvd permette agli spettatori di rendersi conto di quali nodi vengano al pettine e di
quali situazioni rimangano irrisolte, al contempo questa modalità di «abbuffata» non permette loro di
concentrarsi sulla risoluzione degli enigmi della serie. Questo tipo di coinvolgimento è possibile soltanto
quando gli spettatori guardano una serie contemporaneamente, e si trovano quindi tutti allo stesso punto
della storia, cosa che permette loro di far parte di un processo collaborativo di decodifica e intrattenimento.
Anche se negli anni a venire Lost continuerà a essere guardato in dvd o in streaming, l’esperienza più
profonda di visione collettiva e seriale rimarrà per sempre legata al momento di trasmissione originale.
Guardare Lost in dvd esclude lo spettatore dalla community dei fan e dal suo ricco bacino di paratesti, e
questo ci fa pensare che la componente effimera di una serie non risieda tanto nella sua trasmissione
originale, quanto nell’esperienza di visione solitaria. Certe abitudini di visione collettiva non riguardano solo
ed esclusivamente la televisione: nell’Ottocento i lettori discutevano regolarmente dei romanzi a puntate
man mano che venivano pubblicati. L’esperienza fatta dai lettori di Dickens, che ne seguivano i romanzi
attraverso la pubblicazione seriale, non poteva essere rivissuta da chi leggeva i volumi rilegati. Come
sostiene Sean O’Sullivan, facendo un parallelo tra Dickens e la serie tv Deadwood, l’intervallo tra le puntate

17
è un elemento costitutivo di una narrazione seriale, uno spazio nel quale sia gli autori che i lettori possono
immaginare gli sviluppi della storia e riflettere sugli eventi passati.
Per quanto la trasmissione in palinsesto sia arbitraria e artificiale, essa ha il vantaggio di creare quello
schema di consumo collettivo e simultaneo che concede il tempo di riflettere sull’universo narrativo che si
va man mano delineando. Netflix ha adottato l’estetica della confezione senza bisogno di cofanetti dvd,
rendendo disponibili intere stagioni di House of Cards, Arrested Development e Orange Is the New Black
nelle sue library digitali, sacrificando così l’esperienza di visione collettiva sincronizzata e ponendo il dubbio
sul fatto che le narrazioni a episodi debbano per forza essere considerate seriali. Questa riflessione sui
cofanetti dvd è un presupposto fondamentale per comprendere a fondo la complessità narrativa, poiché
rivela quanto essa dipenda dall’interazione tra strategie industriali, tecnologie, modalità di fruizione e scelte
creative. Grazie alle nuove tecnologie, ai dvd e alla partecipazione online, gli spettatori hanno oggi un ruolo
attivo nel consumo della tv complessa, che la aiuta a prosperare all’interno dell’industria dei media. È stato
l’insieme di questi fattori ad aver creato i presupposti per lo sviluppo e la sua crescente popolarità della
comprensività narrativa, nonché le condizioni ideali per comprenderne a fondo la poetica.

L’estetica funzionale e lo storytelling spettacolare

Una delle caratteristiche della tv complessa è quella di racchiudere, in un solo insieme, una quantità di
variazioni della forma seriale non concesse dal formato tradizionale a episodi o da quello seriale delle soap
opera, una variabilità resa possibile da innovazioni industriali, tecnologiche e di consumo.
Nelle serie tv tradizionali, gli episodi contengono due o più trame complementari: una trama principale A
che domina il tempo dello schermo e varie trame secondarie B che possono fungere da parallelo tematico o
da contrappunto ad A, ma che raramente interagiscono con questa al livello dell’azione. La complessità,
specialmente nelle comedy, stravolge questa regola, alterando la gerarchia tra le diverse trame e
raccontando storie intrecciate che spesso alla fine collidono e coincidono. Gli episodi di Seinfeld iniziano di
solito presentando le quattro trame separatamente e lasciando che sia lo spettatore navigato a immaginare
come queste storie collideranno, dando vita alle più improbabili conseguenze. Questo modo di intrecciare le
trame è stato adottato e sviluppato da Curb Your Enthusiasm, Arrested Development e C’è sempre il sole a
Philadelphia, in cui le coincidenze e le collisioni si sviluppano nell’arco di diversi episodi, in un modo che
trasforma la narrazione in un meccanismo di inside joke, ossia di battute autoriferite. Per esempio, in Curb
Your Enthusiasm, soltanto chi ha assistito all’incontro di Larry con un cieco di nome Michael, nella prima
stagione, può apprezzare il fatto che questo personaggio riappaia nella quarta.
Questa modalità di narrazione delle comedy, spesso piuttosto divertente già di per sé, offre allo spettatore
un tipo di intrattenimento specifico che risulta solitamente irriproducibile da una sitcom tradizionale.

Gli spettatori di comedy complesse come Seinfeld e Arrested Development non si interessano soltanto alle
trame, ma apprezzano anche la capacità dei producer di creare strutture narrative complesse: questi
spettatori guardano quindi una serie con una modalità di visione che Jeffrey Sconce definisce
«metariflessiva». Questo tipo di intrattenimento richiama un concetto elaborato da Neil Harris nel suo
influente saggio su Barnum, il famoso circense del secolo scorso: Harris sostiene che le acrobazie e le burle
degli spettacoli di Barnum invitassero gli spettatori a interessarsi alla cosiddetta «estetica funzionale», per
la quale l’intrattenimento non dipende tanto dal chiedersi «cosa succederà?», quanto «come lo ha fatto?».
Quando guardiamo Seinfeld sappiamo già che i futili obiettivi dei personaggi andranno in fumo allo scopo di
divertirci, ma guardiamo comunque la serie per scoprire come gli autori hanno imbastito i meccanismi
narrativi che faranno convogliare insieme le quattro sottotrame, in una specie di «macchina di Rube
Goldberg» perfettamente calibrata. Questo tipo di costruzione delle trame comporta sempre un certo livello
di autoconsapevolezza, che si manifesta sia nell’esplicita metanarratività di queste serie, sia nella modalità
di visione dei loro spettatori, che guardano queste serie anche per scoprire «come riusciranno a farlo?».
L’esistenza di quest’estetica funzionale diventa lampante nei forum, dove i fan analizzano e dissezionano le
tecniche usate dalla televisione complessa per instradare, manipolare, ingannare e sviare gli spettatori, il
18
che dimostra quanto per i fan possa essere piacevole svelare i meccanismi narrativi delle loro serie tv
preferite.
L’estetica funzionale delle serie tv complesse raggiunge il suo apice nei momenti spettacolari, ovvero in
sequenze (o interi episodi) che potremmo considerare simili a «effetti speciali». i momenti di stupore ci
portano al di fuori della diegesi, invitandoci piuttosto ad ammirare le tecniche necessarie a rappresentare
viaggi interplanetari, dinosauri realistici o combattimenti coreografati sulle cime degli alberi. Questo tipo di
effetti spettacolari sono spesso contrapposti alla narrazione, ed evocano piuttosto il cinema rocambolesco
che ha preceduto quello narrativo, quando addirittura non riducono ai minimi termini la formula narrativa
classica. La televisione complessa propone una nuova modalità di spettacolo: l’effetto speciale narrativo.
Quest’espediente si ha quando una serie tv fa del suo meglio per confondere e stupire lo spettatore, come
avviene con i salti temporali di Alias («Il dire»), le rivelazioni nei flash-forward di Lost («Attraverso lo
specchio») o l’aggiunta di un personaggio principale come Dawn nella quinta stagione di Buffy, che costringe
gli spettatori a ripensare a tutti gli antefatti sotto una luce diversa. Questi momenti spettacolari mettono in
primo piano l’estetica funzionale, spostando l’attenzione sulla costruzione narrativa e spingendoci a
meravigliarci di come gli autori siano stati in grado di farla funzionare. Spesso questi momenti sacrificano il
realismo a favore della consapevolezza degli spettatori.
Il controllo concesso dal dvd permette inoltre agli spettatori di apprezzare ancora più a fondo l’estetica
funzionale, grazie alla possibilità di mettere in pausa, tornare indietro e analizzare al rallentatore i momenti
complessi. Quando le serie tv hanno ormai stabilito le proprie norme intrinseche, già di per sé complesse,
non possiamo che meravigliarci se gli autori dimostrano di sapersi spingere al di là dei confini della
complessità, modificando in modo anche vistoso temi e regole già consolidati; questi effetti speciali narrativi
possono costituire il clou di un episodio, come quando tutte le trame divergenti di Seinfeld o di Arrested
Development convergono in una, o come quando un colpo di scena di Lost o di 24 ci spinge a rivalutare
tutto quello che abbiamo visto fino a quel momento. i momenti narrativi spettacolari possono essere anche
variazioni su un tema: in Six Feet Under ogni episodio comincia con un «morto-della-settimana», ma nella
seconda stagione gli autori modificano la presentazione di queste morti per disorientare gli spettatori e
tenere accesa l’attenzione anche quando gli spettatori credono di avere ben chiare le norme intrinseche
della serie. Ad esempio, l’episodio «Il gioco della vita» comincia con una scena in cui una donna che si
prepara per un appuntamento romantico viene interrotta da un pazzo che brandisce un’ascia, prima di
rivelare che ci troviamo in un cinema e che la donna è un’attrice che sta guardando il proprio debutto in un
horror; subito dopo la seguiamo alla festa per la prima del film, dove però la donna muore per overdose
chiusa in un bagno.
La riflessività funzionale delle serie tv complesse riesce al contempo a coinvolgerci nella storia e a farci
ragionare sui suoi meccanismi narrativi. Nel cinema classico un modello simile lo si può trovare in alcuni film
di Hitchcock, come nella Finestra sul cortile, dove alcune battute fanno riferimento all’atto di guardare e
decodificare un’immagine, o Psycho, dove quella che sembrava la protagonista viene uccisa a metà film,
lasciando sconvolto lo spettatore e facendo sì che rifletta sulle sue stesse aspettative deluse rispetto al film
che sta guardando. Ma in questi casi la mancanza di serialità riduce l’impatto a lungo termine che questi
espedienti possono avere sugli spettatori delle serie tv, e in particolare sui fan, che riempiono gli intervalli
tra gli episodi ragionando e facendo teorie su questi momenti anche per anni.
La spettacolarità narrativa può riguardare anche un intero episodio. Buffy è probabilmente la serie che,
meglio di qualsiasi altra, riesce a costruire episodi spettacolari. Alcuni sono giocati su espedienti narrativi
come modalità di racconto limitanti («La vita è un musical»), cambi di prospettiva («Il giorno
dell’Apocalisse», raccontato dal punto di vista di un personaggio più che secondario, Xander) o l’imporsi di
un narratore insolito («Il narratore», impostata sullo pseudo-documentario di Andrew). Per quanto questi
episodi possano suscitare brividi e risate a livello diegetico, così come episodi analoghi di X-Files («Lunedì»,
«Triangolo»), Angel («L’ora del sorriso», «Gira la bottiglia»), Seinfeld («Indietro tutta!», «Il parcheggio»),
Scrubs («La sua storia», «Il mio disastro»), I Simpson («Trilogia di una giornata», «22 cortometraggi di

19
Springfield»), Lost («Gli altri 48 giorni», «Exposé»), Community («I paradigmi della memoria umana»,
«Rimedi alla teoria del caos»), Supernatural («I veri acchiappafantasmi») e Breaking Bad («Caccia grossa»),
rimane il fatto che l’attrattiva più caratteristica di queste serie tv è lo stupore generato dalla spavalderia
degli autori che non solo violano le norme intrinseche delle loro serie, ma lo fanno anche in modo
spettacolare. Attraverso l’estetica funzionale queste serie tv spingono gli spettatori a farsi coinvolgere anche
da un’analisi della forma, imparando a riconoscere le singole tecniche utilizzate per dar vita agli effetti
speciali narrativi; questa modalità di visione consapevole viene incoraggiata da questi programmi, la cui
attrattiva risiede in un livello di consapevolezza che va oltre l’azione diegetica fine a se stessa tipica della
maggior parte dei prodotti mainstream.
I singoli episodi possono mettere in scena l’estetica funzionale grazie alla spettacolarità narrativa, ma capita
anche che tutta una serie sia basata su questo tipo di giochi pirotecnici, sia dipanandoli nel lungo termine,
sia predisponendosi a essi a livello strutturale. Nel primo caso, Alias è un notevole esempio di complessità
narrativa, poiché si destreggia tra storie di spionaggio, sia continuative sia autoconclusive, e gli sviluppi di
drammi relazionali legati sia all’ambito familiare sia a quello spionistico. Ma la serie propone i suoi momenti
spettacolari più coraggiosi quando la trama compie brusche sterzate che «resettano» lo stato delle cose,
modificando le dinamiche professionali e interpersonali di quasi ogni personaggio. Il primo di questi reset
avviene a metà della seconda stagione, nell’episodio «Fase uno». Nel corso dell’episodio, tutto l’antefatto
spionistico di Alias subisce una riconfigurazione poiché, da agente doppiogiochista quale era, la protagonista
diventa un’agente della Cia vera e propria, continuando a dare la caccia allo stesso antagonista ma con
diverse alleanze e motivazioni. Anche i rapporti tra i personaggi cambiano radicalmente: Francie,
l’innocente amica di Sydney, è rimpiazzata da un efferato agente con le sue fattezze, e la cotta che aveva
lentamente maturato per Vaughn giunge finalmente al suo compimento, tutto nell’arco di un’ora! Se buona
parte dell’efficacia di questo reset è dipesa dall’aver ravvivato una premessa narrativa che stava forse
diventando ripetitiva, è comunque impressionante come i producer siano riusciti a riconfigurare lo scenario
in un modo diegeticamente coerente, narrativamente coinvolgente ed emotivamente rispettoso dei
personaggi e dei loro rapporti. Simili riconfigurazioni hanno luogo anche nelle stagioni successive di Alias,
così come in Buffy (con l’introduzione del personaggio della sorella di Buffy, Dawn), in Angel (dove gli eroi
subentrano al loro nemico nel suo studio legale) e in Lost (quando i naufraghi lasciano l’isola e scoprono la
possibilità di viaggiare nel tempo). In tutti questi casi, ci appassioniamo sia alle storie narrate che al modo in
cui il loro storytelling infrange le convenzioni televisive.
Ma la spettacolarità narrativa può anche essere intrinseca alla struttura della serie: 24 viene spesso elogiata
per la sua struttura narrativa in tempo reale, che fa correre parallelamente il tempo della storia, quello del
discorso e quello dello schermo. 24 è forse l’unica serie tv che prende il nome dalla propria tecnica di
storytelling e non dall’universo narrativo o dai temi che tratta. Anche How I Met Your Mother è strutturata
intorno al proprio storytelling, poiché il titolo fa riferimento a ciò che Ted dovrebbe raccontare ai suoi figli
attraverso lunghi flashback, anche se l’incontro con questa madre leggendaria avverrà soltanto nella nona
stagione.

Le narrazioni complesse ricorrono a un certo numero di espedienti che, pur non essendo specifici di questa
modalità, vengono usati con una tale frequenza da farli apparire come regole piuttosto che come anomalie.
Le analessi non sono rare nella televisione convenzionale, che utilizza i flashback per raccontare fatti
importanti riguardanti il passato dei personaggi o per collocare nel passato l’intera azione di un episodio. I
programmi convenzionali hanno inoltre spesso fatto ricorso a sequenze oniriche o immaginarie allo scopo di
esplorare le potenzialità di scenari alternativi o per scoprire la vita interiore di un personaggio.
Un’altra tecnica, che si trova in episodi di programmi convenzionali come Arcibaldo (All in the Family) e Il
mio amico Arnold, consiste nel raccontare nuovamente la stessa storia da più punti di vista, generando un
«effetto Rashomon». La voce fuori campo è un espediente raro nelle narrazioni televisive, ma programmi
convenzionali come Dragnet o Blue Jeans vi ricorrono per stabilire il tono emotivo e fornire spiegazioni.
Eppure tutti questi espedienti, che si spingono oltre lo storytelling «estremamente ovvio» della tv
20
convenzionale, risultano ancora più ovvi quando sono proposti esplicitamente come strappi alla regola,
attraverso un dialogo («Ricordo quando...») o situazioni artificiose (come l’ipnosi o le testimonianze in
tribunale), per sottolineare il fatto che la serie sta utilizzando convenzioni non convenzionali.
Le serie tv complesse non hanno paura di confondere temporaneamente lo spettatore; le sequenze
immaginarie abbondano senza demarcazioni chiare né segnali: I Soprano, Six Feet Under, Buffy e Battlestar
Galactica mostrano eventi visionari che oscillano tra la soggettività dei personaggi e la realtà diegetica,
giocando sull’ambiguità per innescare l’approfondimento di un personaggio, la suspense o un effetto
comico. La narrazione complessa rompe spesso la quarta parete, sia mostrando personaggi che si rivolgono
direttamente allo spettatore (Malcolm, The Bernie Mac Show, The Office), sia attraverso una voce fuori
campo che rende più labile il confine tra diegetico e nondiegetico (Scrubs, Veronica Mars, Arrested
Development, Desperate Housewives), attirando l’attenzione dello spettatore sulla stessa infrazione delle
convenzioni. Lost, Jack & Bobby, Boomtown e How I Met Your Mother ricorrono all’analessi in quasi ogni
episodio, concedendo pochi segnali di demarcazione, mentre gli episodi di Alias e West Wing cominciano
spesso con un cold open che si interrompe prima del momento clou, lasciando gli spettatori sulle spine per
spiegare, nel corso dell’episodio, come si sia arrivati a quel momento. In queste serie tv la mancanza di
segnali può temporaneamente disorientare gli spettatori, che devono quindi impegnarsi più attivamente per
comprendere la storia, e che ricavano una certa gratificazione dalla comprensione delle norme intrinseche
del programma. Queste dinamiche somigliano in parte a quelle del cinema d’essai, ma avvengono in
contesti decisamente più popolari e si rivolgono a un pubblico di massa: serie tv come Lost o Alias chiedono
allo spettatore di fidarsi, nella certezza che alla fine verrà ricompensato con una spiegazione complessa ma
coerente, ed è questo a differenziarle dall’ambiguità e dalla dubbia causalità tipiche di molti film d’essai.
Le serie tv complesse suscitano disorientamento e confusione temporanei, facendo sì che gli spettatori
imparino a interpretarne le dinamiche attraverso una visione costante e un coinvolgimento attivo.
Questo bisogno di imparare a decodificare una storia o un universo narrativo riguarda anche altri media. I
videogiochi, ad esempio, sono basati sulla comprensione di universi narrativi e interfacce, e del modo in cui
si può interagire con essi. Anche il cinema ha cominciato a produrre una serie di fortunati «film rompicapo»,
che richiedono allo spettatore di impararne le norme intrinseche per comprenderne appieno la narrazione:
Il sesto senso, Pulp Fiction, Memento, I soliti sospetti, Il ladro di orchidee, Se mi lasci ti cancello, Lola corre,
Matrix, The Prestige e Inception sono tutti film che, attraverso un’estetica ludica, invitano lo spettatore a
stare al gioco e a decodificare le regole interpretative del film per poterne comprendere le complesse
strategie narrative.
Eppure, l’obiettivo degli spettatori di questi film non è quello di risolverne i rompicapi il prima possibile,
bensì quello di comprenderne le regole quanto basta per apprezzarne la storia senza però privarsi del
piacere di lasciarsi stupire. I film rompicapo ci invitano a osservare gli ingranaggi dei loro meccanismi
narrativi, a volte ostentando la propria spettacolarità narrativa. Anche se poche serie tv hanno adottato in
pieno il modello dei film rompicapo (soltanto singoli episodi di Seinfeld, I Simpson, Buffy, Scrubs e Lost), che
a loro volta sono stati influenzati dalla serie tv Ai confini della realtà (The Twilight Zone), si può dire
comunque che l’obiettivo principale di videogame, film rompicapo e serie tv complesse sia quello di far sì
che lo spettatore venga coinvolto in modo attivo dalla storia e al contempo rimanga sorpreso da come lo
storytelling è in grado di manipolarlo. Questo è ciò che definisco estetica funzionale: apprezzare il risultato
di un meccanismo e al contempo meravigliarci per il modo in cui funziona. La tv complessa invoglia quindi
gli spettatori a una nuova modalità di coinvolgimento, della quale a volte ha persino bisogno. Se da sempre
le community dei fan delle serie tv hanno dimostrato un alto livello di coinvolgimento nei confronti degli
universi narrativi le serie tv di oggi spostano quest’attenzione analitica anche sulla trama e sugli enigmi,
oltre a mantenerla sugli universi narrativi e sui personaggi. Twin Peaks, X-Files, Alias, Lost, Veronica Mars,
Desperate Housewives, Dexter, Fringe, The Killing: sono tutte serie che guardiamo almeno in parte per
tentare di svelarne gli enigmi, come dimostrano le discussioni presenti su qualsiasi forum; ma, come in ogni
narrazione basata su un mistero, gli spettatori vogliono essere tanto sorpresi quanto soddisfatti dalla

21
coerenza interna della storia. Guardando queste serie gli spettatori si ritrovano catapultati all’interno di una
narrazione coinvolgente ma anche concentrati sui processi del racconto, intenzionati a comprendere sia la
complessità che gli enigmi proposti dal programma. Così facendo queste serie trasformano molti spettatori
in narratologi dilettanti, impegnati a prendere nota delle norme e delle loro infrazioni, a individuare i piani
temporali e a scovare le incoerenze tra gli episodi e persino tra le diverse serie. Possiamo chiamare questo
modello di coinvolgimento fandom investigativo. Anche se è sempre esistita una fetta di pubblico più attiva
della media, la maggior parte degli studi su questi processi di ricezione si è finora concentrata sul
contenuto.
Le serie tv complesse, però, invitano il pubblico a interessarsi attivamente anche alla forma, sottolineando
per contrasto la convenzionalità della tv tradizionale, ed esplorando le potenzialità del racconto di lunga
durata e delle strategie creative che legano tra loro i vari episodi. Molti di questi programmi richiedono
questo livello di coinvolgimento in modo esplicito: è difficile immaginare che qualcuno possa guardare 24,
Lost o Arrested Development senza notarne le innovazioni formali, e senza considerare come le rispettive
scelte di una narrazione in tempo reale, atemporale e riflessiva ne influenzino gli eventi raccontati.
le serie complesse ci chiedono di guardare la cornice della finestra, riflettendo sul perché inquadri
determinate parti del racconto e sull’eventualità che il vetro stia deformando la nostra visione dei fatti.
Queste serie possono riscuotere un buon successo di massa (come Lost, Seinfeld, X-Files) o suscitare
l’interesse in una nicchia di spettatori disposti a fare lo sforzo di decodificarle (come Arrested Development,
Veronica Mars, Firefly): anche se molte di queste serie di culto si basano su narrazioni apparentemente
ostiche per il pubblico di massa, la straordinaria popolarità di alcune di esse rivela che anche il pubblico di
massa può apprezzare narrazioni impegnative e complesse. Questo non significa che si debbano
sottovalutare elementi di intrattenimento convenzionali come la profondità dei personaggi, una trama
chiara, degli universi narrativi coerenti, l’azione e l’umorismo: una serie tv fatta bene li propone tutti,
amalgamandoli alle possibilità funzionali derivate dal coinvolgimento dello spettatore nel processo di
storytelling. Il coinvolgimento nella forma e quello nella storia si alimentano a vicenda.
Anche Lost gioca su questo doppio livello, poiché alimenta il legame affettivo dello spettatore nei confronti
di personaggi alle prese con situazioni strambe che, nel corso della serie, variano dal genere d’azione alla
fantascienza, poi al mystery paranormale e infine all’allegoria religiosa, ma che in ogni caso presentano una
struttura narrativa molto più complessa di quanto si sia mai visto nella televisione mainstream. Quest’analisi
della complessità narrativa propone l’idea che negli ultimi vent’anni sia emerso un nuovo paradigma del
racconto televisivo, che ha ridefinito i confini tra la serie e il serial, e ha alimentato la consapevolezza dello
spettatore nei confronti dei meccanismi narrativi, invogliandolo a lasciarsi coinvolgere dalla storia ma anche
a ragionare sugli aspetti formali. Attraverso l’analisi di questa modalità narrativa possiamo mettere in
evidenza le connessioni tra industria, tecnologie, creatività e abitudini degli spettatori, che risentono tutte
delle innovazioni culturali legate alla diffusione del digitale e di forme di comunicazione e intrattenimento
sempre più interattive. Un elemento soggiacente comune alle narrazioni televisive e a forme digitali come i
videogiochi o le pagine web è il bisogno di apprenderne i protocolli, e quindi la comprensione, da parte del
consumatore, del fatto che qualsiasi forma d’espressione ha le sue regole peculiari, e che per godere
appieno di quella forma dobbiamo prima padroneggiarne le procedure. Questo bisogno è evidente sia nei
videogiochi, nei quali il dominio delle procedure è imprescindibile. Le serie tv complesse di oggi richiedono
e alimentano quella capacità di comprensione di una narrazione (e delle sue tecniche) che il pubblico
possedeva sicuramente già da prima, ma che raramente aveva utilizzato oltre un livello base. Se vogliamo
comprendere al meglio questa modalità di narrazione, dobbiamo prima identificarne la struttura e i confini
attraverso l’analisi della poetica, e poi affidarci ad altri metodi per capire in che modo la complessità
narrativa si relazioni con l’industria, la tecnologia, l’interattività e la comprensione degli spettatori.

CAP 2

22
INIZI

L’inizio è una parte fondamentale di qualsiasi narrazione, perché decide tutto ciò che verrà dopo, compresa
l’eventualità che il fruitore non sia abbastanza motivato da proseguire. Per comprendere lo storytelling delle
serie tv di oggi dobbiamo innanzitutto considerare il modo in cui esse iniziano.
Innanzitutto, dare importanza a un inizio significa anche sottintendere un parallelo con una fine, anche se,
sono molte di più le serie che cominciano di quelle che riescono anche a concludersi prima di essere
interrotte. In secondo luogo, per quanto riguarda le soap opera da daytime o altre serie di lunga durata
come Doctor Who o I Simpson, l’inizio dei loro racconti è ormai così lontano nel tempo che sono pochi gli
spettatori attuali ad averlo visto (quantomeno nella sua trasmissione originale) e questo mette in
discussione il concetto stesso di inizio di una storia. Persino nel caso delle serie più brevi gli spettatori
cominciano spesso da una puntata che non è la prima. Uno degli obiettivi delle puntate che aprono una
stagione, nel caso di molte serie tv continuative, è quello di accogliere i nuovi spettatori, permettendo loro
di comprendere gli eventi anche a metà strada, proponendo magari dei mini-inizi che servano sia a
riorientare gli affezionati sia a invogliare i neofiti. Qualsiasi riflessione sull’inizio di una narrazione seriale
deve quindi tenere conto del fatto che molti spettatori si affacciano a una storia cominciando da un punto
che non è stato pensato per essere quello iniziale. Da quando i cofanetti dvd hanno permesso agli spettatori
di guardare le serie in ordine cronologico è diventato comunque più probabile che gli spettatori procedano
nell’ordine prestabilito, anche perché hanno capito che molte serie tv complesse sono pensate per essere
guardate dall’inizio. E sui network l’inizio è quell’atipica entità chiamata puntata pilota.

La funzione informativa e motivante delle puntate pilota

Una puntata pilota televisiva deve adempiere a diverse funzioni. Ai producer il pilota serve a testare una
serie, per capire se portarla avanti ma anche per scegliere il cast, la troupe e il tipo di produzione più idonei.
Un pilota è un ottimo strumento per valutare la realizzabilità di una serie, in primo luogo per il network in
cerca di una serie di successo, ma anche in relazione agli eventuali spettatori che devono essere convinti a
seguirla. Una puntata pilota contiene in sé un sunto di ciò che la serie potrebbe proporre a lungo termine, e
offre allo spettatore un assaggio eccezionalmente iper-descrittivo di un universo narrativo complesso. Deve
presentare tutti i personaggi in modo conciso, rendendone chiari il prima possibile il carattere e i rapporti.
Deve mettere in chiaro il genere del programma, che è lo strumento ideale per impostare le aspettative
degli spettatori, e al contempo deve spiegare perché non si tratterà soltanto di «un altro esemplare» di
qualcosa che hanno già visto. Attraverso questi dettagli, la puntata pilota deve riassumere in sé quella strana
alchimia richiesta dalla televisione commerciale: ogni nuova serie deve risultare al contempo familiare e
originale. i pilota che funzionano sono al contempo informativi e motivanti. Devono orientare gli spettatori
sulle regole intrinseche che la serie adotterà, presentandone le strategie narrative in modo da permetterci
di entrare in sintonia con lo stile del racconto.
per comprendere quindi in che modo un pilota informi e motivi gli spettatori può essere utile osservare i
primi minuti di un certo numero di esempi campione. In tal senso, si può fare un paragone interessante con
le sezioni iniziali dei videogame. Il tutorial di un videogioco costituisce di solito il prologo di un contenuto
definitivo, benché esso possa essere in seguito perfezionato; un pilota televisivo, invece, anticipa un
contenuto che è ancora in fase di produzione. Il tutorial della puntata pilota serve non solo agli spettatori
ma anche ai producer, poiché anticipa quelle scelte creative che una serie deve seguire fedelmente o al
contrario trasgredire, se preferisce distinguersi per la discontinuità. Una delle sfide di qualsiasi serie di lunga
durata è quella di trovare un equilibrio tra il rispetto del modello iniziale e la necessità di modificarsi strada
facendo.
La puntata pilota di Twin Peaks propone un importante modello di incipit: comincia infatti con due minuti e
mezzo di titoli di testa combinati a lente inquadrature di una segheria e a un surreale tema musicale,
richiedendo allo spettatore una certa pazienza e informandolo subito sul proprio ritmo cadenzato. Agli
spettatori di oggi questi titoli di testa risultano davvero anomali.
23
Il pilota di Twin Peaks fa seguire ai titoli di testa una scena iniziale che al contempo completa e interrompe
ciò che si è visto fino ad allora: vediamo Josie che si prepara per affrontare la giornata, il tutto girato con lo
stesso ritmo lento di prima. Quindi seguiamo Pete sulla spiaggia, dove trova il cadavere di Laura Palmer,
iconicamente «avvolto nella plastica», e telefona all’ufficio dello sceriffo, ricevendo dalla segretaria Lucy una
risposta comicamente spaesata. Nei primi cinque minuti dell’episodio veniamo preparati a disorientanti
contrapposizioni stilistiche, a interventi ironici su momenti seri e a un’atmosfera onirica che spinge lo
spettatore a non sapere come reagire emotivamente alle vicende. Quest’ambiguità viene mantenuta man
mano che vengono presentati più di una dozzina di personaggi, i rapporti che intercorrono tra di loro e i
momenti cardine della storia, nonché la regola intrinseca della serie per cui ogni episodio si svolge
all’interno di una sola giornata. Il giallo irrisolto e le atmosfere accattivanti invogliano gli spettatori a
continuare a guardare, mentre la forma e lo stile della narrazione ci spiegano come rapportarci alla storia.
Le puntate pilota delle comedy complesse devono stabilire sia il proprio stile umoristico sia le dinamiche
della narrazione. Arrested Development, ad esempio, comincia con una scena su una barca, con la voce
fuori campo di Ron Howard che presenta i personaggi, innesti grafici che ci informano dei loro nomi e
rapporti, ed espedienti tecnici come il fermo immagine, il flashback e la riproduzione di ritagli di giornali,
foto e mappe: tutto ciò concorre ad anticipare uno stile molto autoreferenziale e pseudo-documentaristico,
e lo fa nei primi due minuti della serie. La sequenza di apertura prepara anche il terreno per quella che sarà
la struttura narrativa complessa di Arrested Development, come quando Lindsay dice che ha la stessa
camicetta di un «pirata gay» visto su un’altra barca, che poco dopo, nello stesso episodio, scopriamo essere
suo marito Tobias, vestito da pirata proprio con la camicetta di Lindsey: tutto ciò crea un richiamo interno al
tempo della narrazione che funziona sia da anticipazione sia da appagamento a posteriori dello spettatore,
ricorrendo a una tecnica che si farà anche più sofisticata nel corso della serie. Quest’episodio presenta il
proprio stile attraverso diversi flussi di informazioni, con intermezzi (sia grafici che audiovisivi) che possono
contraddire o avvalorare le azioni del personaggio (come quando Lucille Bluth dice «Io amo i miei figli tutti
allo stesso modo», e un attimo dopo, in un flashback, «Non mi importa di Gob»), o richiamando momenti
precedenti, annunciati da segnali sonori o dalla voce fuori campo, che spezzano o commentano l’azione in
corso per il nostro divertimento. La puntata pilota mette subito in chiaro che lo stile e la struttura del
programma saranno poco convenzionali e richiederanno attenzione, impostando così le aspettative dello
spettatore, anche se negli episodi successivi la serie diventa sempre più sicura di sé e delle proprie tecniche
umoristiche.
: l’episodio convinse soltanto una piccola nicchia di spettatori a proseguire con la serie, ma in quei pochi
suscitò un entusiasmo da cult. Tra le comedy, un’altra puntata pilota che detta subito le proprie regole è
quella di How I Met Your Mother. L’episodio si apre con la scritta in sovraimpressione L’anno 2030,
sull’inquadratura di due adolescenti che guardano in camera, seduti su un divano, mentre la voce fuori
campo del «Ted del futuro» dice: «Ragazzi, sto per raccontarvi una storia incredibile: la storia di come ho
conosciuto vostra madre». Benché annunciare il titolo della serie nella prima battuta del pilota possa
risultare un po’ forzato, questa battuta stabilisce comunque sia i contorni della macrostoria sia il modo in cui
verrà raccontata: sappiamo fin da subito che How I Met Your Mother userà tecniche metanarrative come
scritte in sovraimpressione o voce fuori campo, e che circoscriverà per noi gli orizzonti della narrazione. La
puntata va avanti sottolineando la propria autoironia, come quanto la figlia chiede: «Ci vorrà molto?» e il
Ted del futuro risponde «Sì», una risposta piuttosto appropriata, se si considera che la serie andrà avanti per
nove stagioni prima di arrivare all’incontro, premesso con così tanto anticipo, con la madre cui si fa
riferimento nel titolo. La narrazione si sposta quindi «25 anni prima», dove ci vengono presentate le
ambientazioni e i cinque personaggi principali, riassumendone i rapporti e i rispettivi passati attraverso
tecniche metacinematografiche come fermo immagine, flashback all’interno di altri flashback, split screen e
la voce fuori campo del Ted del futuro che risponde alle domande poste nel presente della narrazione. Il
pilota anticipa anche la strategia multimediale del programma, come quando Barney fa riferimento al fatto
che scriverà qualcosa sul suo blog, un paratesto realmente esistente su Cbs.com, firmato dallo stesso

24
Barney, in cui il personaggio riflette sugli eventi di ogni episodio. La puntata presenta inoltre una serie di gag
e riferimenti che ricorreranno durante tutta la serie, così come il corno blu francese rubato da Ted per
regalarlo a Robin, o i tormentoni, come il «Metti la giacca!» («Suit up!») di Barney. Ma è ancora più
importante rilevare che l’episodio sembra raccontare la relazione tra Ted e Robin, il modo in cui si sono
incontrati e il loro primo appuntamento, ma finisce con il Ted del futuro che dice ai suoi figli: «Ed è così che
ho conosciuto la zia Robin», rivelando quindi che la vera storia di come ha conosciuto la loro mamma dovrà
ancora essere raccontata. La puntata pilota di How I Met Your Mother imposta fin da subito l’arco temporale
nel quale la domanda del titolo dovrà trovare risposta, ovvero il periodo compreso tra il 2005, in cui la storia
ha inizio, e il 2030, l’anno in cui viene raccontata. Questa narrazione basata unicamente sui flashback dà allo
spettatore l’impressione che le asserzioni narrative della storia che procede in avanti possano in qualsiasi
momento trasformarsi in enigmi narrativi, di conseguenza alle nuove rivelazioni aggiunte dal Ted del futuro.
Benché gli enigmi di How I Met Your Mother non siano certo al livello dei complotti di X-Files o Lost, essi
costituiscono comunque un elemento di coinvolgimento, e attraverso inserti narrativi, divertenti inversioni
di marcia e il rinvio quasi infinito di ciò che viene anticipato dal titolo, questi enigmi spingono i fan ad
analizzare la serie anche sul piano narrativo, producendo un esempio di quell’estetica funzionale che
permette agli spettatori di riflettere sullo storytelling di una serie. Questa struttura narrativa serve a
differenziare How I Met Your Mother da un’altra serie ugualmente incentrata su un gruppo di amici bianchi
quasi trentenni che vivono a New York, ossia la più nota Friends: How I Met Your Mother combina infatti
quella stessa formula rodata con espedienti narrativi più complessi, allo scopo di coinvolgere gli spettatori
nell’estetica funzionale. In tal senso la puntata pilota funziona efficacemente, istruendo gli spettatori su
regole e protagonisti e invogliandoli a seguire la serie, sia per l’uso vincente dell’umorismo, sia per i suoi
enigmi interni. Non soltanto le comedy possono dettare le proprie regole in poco tempo attraverso una
puntata pilota. Alias comincia con una scena in cui la protagonista Sydney Bristow, con i capelli di un rosso
acceso, viene picchiata e torturata da due soldati cinesi che urlano in mandarino non sottotitolato. Questa
scena dura un minuto, e finisce con Sydney ammanettata a una sedia, mentre fissa una porta dalla quale ci
si immagina che debba uscire il suo interrogatore. Ma un taglio ci porta davanti a un’altra porta, dalla quale
un burbero professore entra in un’aula per ritirare gli esami degli studenti, tra i quali c’è anche Sydney
Bristow, qui però con i capelli castani. Da questo momento in poi la storia procede lineare, senza offrire
punti di riferimento temporali, spaziali o caratteriali che spieghino questa trasformazione, ma permettendo
agli spettatori di ricostruire la storia nel corso dell’episodio; capiamo così che Sydney è sia una spia
sorprendentemente abile quanto «stilosa» (che finisce per essere imprigionata a Taiwan durante una
missione verso la fine dell’episodio) sia una studentessa con i piedi per terra. Scene di apertura come quella
di Alias ci predispongono al disorientamento (sia cronologico sia linguistico), una strategia esplicitata nella
sceneggiatura della puntata pilota, scritta da J.J. Abrams, dove l’entrata in scena del professore è così
commentata: «Si tratta di un flashback? Oppure un salto in avanti nel tempo? Tutte le risposte al momento
giusto. Ma nel frattempo...» Questo momento ci prepara inoltre ad aspettarci contrapposizioni inopinate e
inspiegate tra le due vite di Sydney: questa confusione funzionale viene proposta fin dall’inizio come una
delle regole intrinseche di Alias, invitando così lo spettatore non soltanto a proseguire la visione, ma anche
a prestare più attenzione se vuole ricostruire gli eventi, una modalità di coinvolgimento che diventa più
efficace man mano che la serie va avanti. La pratica di far cominciare un pilota da un momento clou, per poi
fare un salto indietro nel tempo e spiegarci come si è arrivati fin lì, è diventata popolare grazie a serie
complesse come Breaking Bad, Damages, Revenge e Veronica Mars. Altre serie sfruttano le scene di
apertura per affermare le proprie regole intrinseche e non convenzionali. Pushing Daisies comincia con la
ripresa di un campo di margherite giallo oro, esageratamente lussureggiante, nel quale corrono in slow
motion un ragazzino e il suo cane. Una voce fuori campo dice, con accento britannico: «In questo preciso
istante, nella città di Coeur d’Coeurs, il giovane Ned aveva 9 anni, 27 settimane, 6 giorni e 3 minuti. Il suo
cane Digby aveva 3 anni, 2 settimane, 6 giorni, 5 ore e 9 minuti.� E non un minuto di più». Un attimo dopo
Digby viene investito da un camion, e la scena è un connubio di estetica stilizzata e di cruda

25
rappresentazione della morte, incorniciata da una voce narrante da libro di favole, il che genera una
contrapposizione che sarà un tratto distintivo di tutta la serie. Il narratore è una regola intrinseca
fondamentale per questa serie: da un lato, costituisce una voce autorevole (ed esterna all’immaginario
narrativo) che consente descrizioni rapide e dense di ciò che avviene ed è avvenuto, mentre dall’altro
fornisce dettagli specifici (come l’età precisa dei personaggi), spesso anticipati dalla frase: «I fatti erano
questi». La sequenza va avanti illustrando il dono sovrannaturale di Ned, che è in grado di rianimare i morti
con un tocco, nonché la regola per la quale un secondo tocco ucciderà la persona o l’animale rianimati,
raccontando gli orribili momenti della sua giovinezza in cui Ned ha imparato tutto sul suo potere. Questa
puntata, intitolata «Il ritorno di Chuck», affronta la triplice sfida di dover comunicare una premessa
fantastica piuttosto elaborata, stabilire una modalità narrativa e uno stile visivo poco convenzionali, e creare
un legame emotivo nei confronti di una serie che potrebbe altrimenti essere abbandonata perché
considerata una novità troppo stravagante.
24 costituisce un altro esempio di come una serie non convenzionale può spiegare ai propri spettatori,
attraverso le scene di apertura, come deve essere guardata. Il pilota di 24 comincia con una scritta al led del
titolo, seguita da una voce fuori campo che legge un testo in sovraimpressione: «Quello che segue avviene
tra mezzanotte e l’una del giorno delle primarie presidenziali della California. Gli eventi sono narrati in
tempo reale». Questa spiegazione non soltanto sottolinea quanto sia importante la temporalità per questa
serie, ma attraverso la presenza simultanea di testo e voce fuori campo mette in chiaro che la serie userà le
proprie strategie narrative in modo esplicito, senza lasciare spazio ad ambiguità o confusione. Parte quindi
una ripresa aerea di una città, con una scritta in sovraimpressione che recita Kuala Lumpur, Local Time
4:00:27, nella quale i secondi scattano in avanti, per continuare a sottolineare la temporalità e la chiarezza
della narrazione; a questo punto l’inquadratura si divide in uno split screen che contrappone la città alla
scena di una strada affollata, insieme ai titoli di testa con i nomi degli attori, presentando così la norma
stilistica dominante del programma, ovvero lo split screen. La sequenza continua in split, con un doppio
piano medio dello stesso personaggio, che in entrambe le immagini ruota la testa; quest’effetto inusuale
spiega agli spettatori che 24 ricorrerà allo split screen per mostrare diverse prospettive della stessa azione,
creando una certa ridondanza ma anche aumentando il più possibile il numero di informazioni disponibili
allo spettatore. Durante la sequenza in cui l’agente Rovner dell’Unità Antiterrorismo trasmette attraverso un
portatile i dati su un tentativo di omicidio, lo split screen quasi costante non fornisce nessuna informazione
essenziale sulla storia, né altri punti di vista, ma serve soltanto ad abituare lo spettatore al modo in cui la
serie rappresenterà i propri contenuti. Si vola quindi intorno al globo per arrivare fino a Los Angeles, con
una scritta in sovraimpressione che indica l’ora locale, e cioè mezzanotte passata, al fine di spiegare agli
spettatori che la temporalità sarà sempre «in tempo reale», e che i tagli da una scena all’altra riguarderanno
soltanto le ambientazioni, sostituendo le tipiche ellissi temporali a favore di quelle spaziali. Benché in
questa scena iniziale non «succeda» molto, né ai personaggi né in termini di trama, essa è fondamentale
per istruire il pubblico sull’originale stile narrativo del programma e sui suoi espedienti grafici.
Alcune puntate pilota chiariscono le idee dello spettatore su certi aspetti ma le confondono su altri. Terriers
– Cani sciolti è una delle serie brevi (una sola stagione) più apprezzate dalla critica negli ultimi anni.
L’episodio comincia con due amici trasandati, Hank e Britt, che discutono svogliatamente del fatto che sono
al verde o di motivetti orecchiabili, mentre si stanno preparando per un lavoretto non meglio identificato,
che all’inizio sembra un servizio di pulizia di piscine, ma che presto si rivelerà essere il furto di un cane. Una
delle cose dette durante la loro svogliata conversazione risulterà in seguito funzionale agli eventi: Hank dice
infatti di aver trovato un tetrapak di latte vuoto nel frigo e che non ricorda di averlo bevuto, ma nonostante
attribuisca questo dettaglio alla senilità, la scena prelude gli eventi che seguiranno. Questi sottili richiami
agli sviluppi della trama sono fondamentali nella modalità narrativa di Terriers, dove elementi
apparentemente irrilevanti contengono importanti informazioni narrative, che acquisteranno senso soltanto
a posteriori. La scena iniziale, inoltre, dice molto della fatica fatta dal programma per trovare il suo pubblico:
il titolo, infatti, suggerisce che la serie parli di cani, e il buffo rapimento di un cane, all’inizio della puntata,

26
può far pensare agli spettatori che i cani siano una costante dell’intera serie. Il fatto che i due uomini siano
investigatori privati da due soldi che rimangono invischiati in un grosso caso di corruzione del mercato
immobiliare viene spiegato molto lentamente, e la puntata pilota preferisce invitarci a prendere parte alla
loro quotidianità, fatta di scambi di battute sagaci e di arranchi in cerca di soldi, piuttosto che invogliarci con
un aggancio narrativo accattivante. La serie ha esercitato il suo appeal su una nicchia troppo piccola per la
televisione commerciale, soprattutto se abbinato al titolo fuorviante e all’ingannevole sequenza iniziale.
Certe volte un pilota detta le proprie norme intrinseche senza permettere allo spettatore di riconoscerle
all’istante, soprattutto quando riguardano elementi tipici della forma episodica. Six Feet Under comincia con
la morte del «patriarca» Nathaniel Fisher in un violento incidente d’auto, mentre il resto dell’episodio
descrive le conseguenze della sua morte sulla famiglia e sui loro affari. Man mano che il programma
procede, diventa chiaro che la morte di Nathaniel è stata soltanto la prima di una serie: ogni episodio inizia
infatti con la morte di qualcuno, che diventa la trama autoconclusiva di ogni settimana. In seguito questa
prassi si fa più elaborata, come già detto nel capitolo 1, attraverso indizi fuorvianti o ipotesi disattese, morti
casuali di personaggi apparentemente fondamentali, e l’eccezione di una nascita; in linea di massima, però,
la struttura di base è già dichiarata nelle prime scene del pilota. In modo simile, la puntata pilota di Lost
presenta fin da subito la propria struttura, costituita anche dai flashback precedenti all’arrivo sull’isola: nella
puntata pilota, questi flashback riguardavano soltanto i minuti precedenti dello schianto, focalizzandosi sui
punti di vista di tre personaggi; quel modello però non poteva reggere a lungo, e andando avanti nella serie
la maggior parte degli episodi sono incentrati sui flashback di uno solo dei personaggi, intrecciati agli eventi
sull’isola nel presente della narrazione, e si procede così almeno fino alle terza stagione, quando la struttura
narrativa di Lost viene completamente trasformata. In ogni caso, la puntata pilota detta quella norma
intrinseca per la quale è necessario allontanarsi dal presente dell’isola per saperne di più dei luoghi e degli
eventi, presentando inoltre quei segnali visivi e sonori che ci informano del passaggio dal presente ai
flashback e viceversa. Awake esordisce nella primavera del 2012 con un primo episodio molto atteso che
rivela, meglio di altri, le difficoltà e le possibilità che una serie può affrontare per spiegarci come dobbiamo
guardarla e per invogliarci a proseguirne la visione. Alcuni programmi affrontano il rischio di spiegare in
modo esplicito la propria premessa, e quella di Awake è piuttosto ambiziosa e impegnativa: il detective
Michael Britten sopravvive a un incidente automobilistico mortale, avuto in compagnia della famiglia, ma
adesso ogni volta che si addormenta passa da una realtà in cui sua moglie è rimasta uccisa e suo figlio è
sopravvissuto, a un’altra in cui il figlio è morto e la moglie è sopravvissuta. La premessa in sé è facile da
descrivere, mentre è più difficile immaginare in che modo la serie la metta in pratica: nella maggior parte
dei casi, prima che il programma esordisse in televisione, la critica concordava nel lodare l’idea, senza
riuscire però a immaginare come potesse funzionare per un’intera serie. Un’analisi completa della puntata
pilota ci dice che la soluzione risiede più nelle atmosfere, nei personaggi e nel tipo di narrazione che nella
premessa iniziale.
L’episodio si apre con l’incidente d’auto, mostrato in tutta la sua violenza, che culmina in tre rapide
inquadrature: la moglie Hannah, priva di sensi, il figlio Rex, anche lui privo di sensi, e Michael che riapre gli
occhi. Quindi la camera ruota di 180 gradi per mostrarci che l’auto è capovolta, e che dal punto di vista di
Michael il mondo è sottosopra. Su questa scena sentiamo una voce fuori campo, che si rivela essere quella
quell’analista di Michael, il dottor Lee: «Allora, mi dica come funziona». Michael risponde: «Non lo so.
Chiudo gli occhi, e poi li riapro. Proprio come lei». Quindi vediamo una breve scena in cui Hannah e Michael
si trovano a un funerale, presumibilmente quello di Rex. A quel punto la voce del dottor Lee dice: «Partiamo
dall’inizio», ma Michael risponde «No» e, passando all’inquadratura di Michael seduto nello studio del suo
analista, lo sentiamo completare così la frase: «Da quello che succede ora». Questi primi 50 secondi non
abbondano di dettagli narrativi (veniamo a sapere che c’è stato un incidente d’auto in cui dovrebbe essere
morto Rex), ma ci forniscono degli indizi importanti sul modo in cui dobbiamo guardare la serie.
Innanzitutto, il montaggio e i movimenti di camera sono poco convenzionali, manierati, e si spostano
temporalmente senza un motivo chiaro, spingendoci piuttosto a prestare attenzione a uno stile visivo di

27
rado adottato da una serie tv. Il dialogo iniziale ci offre due visioni opposte della storia, un elemento che si
rivelerà fondamentale per lo spettatore. Da una parte, il dottor Lee ha un approccio analitico, dettato dalla
sua professione, e cerca di capire come funzionino le cose e di risalire all’origine del tutto. Dall’altra Michael
vuole capire come vivere il presente, ridimensionando l’atipicità di ciò che gli sta succedendo. Queste due
opposte modalità di coinvolgimento servono a strutturare la narrazione del programma: da un lato, i due
analisti di Michael (uno per ogni realtà) vogliono comprendere razionalmente ciò che sta succedendo, e in
che modo Michael si sposta dalla realtà a ciò che si presume sia un sogno; dall’altro Michael vuole soltanto
trascorrere serenamente entrambe le sue esistenze, nelle quali a conti fatti può vivere senza che nessuno
dei suoi lutti sia definitivo. Come dice lui stesso alla fine del pilota: «Se si tratta di rinunciare a uno di loro, io
non avrò mai il desiderio di fare alcun progresso». In contrasto con l’inizio «a metà storia» di Alias o di altre
serie, la determinazione con cui Awake ci spinge a cominciare dal presente sembra distinguerla da molte
altre serie tv complesse e high-concept. Questi due approcci rispecchiamo i due modi opposti in cui
possiamo rapportarci alla serie: possiamo interpretare razionalmente i fatti allo scopo di risolvere l’enigma
(«Allora, mi dica come funziona»), oppure goderci il momento e accettare la premessa per quello che è, e
non come un enigma da risolvere. Buona parte della tv complessa invoglia a una visione di tipo
investigativo, invitando lo spettatore a risolvere rompicapi high-concept, a chiedersi i motivi delle cose e a
dare per scontato che attraverso l’analisi della storia si possa trovare una risposta. Ma il pilota di Awake si
spinge oltre: invita lo spettatore a stare dalla parte di Michael, non soltanto in quanto protagonista, ma
anche come modello di riferimento per imparare ad accettare ciò che viviamo senza chiederci perché lo
viviamo: è Michael stesso a chiederci di non concentrarci nel tentativo di capire cosa stia «davvero»
succedendo o quale delle sue due realtà sia quella vera. Il resto della puntata si concentra su ciò che per
Michael è più importante: ricostruire il suo rapporto con il figlio e con la moglie in seguito al grave lutto
sofferto da entrambi, e dal quale lui è stato risparmiato, almeno in parte. Michael impara a trasformare la
sua condizione in un vantaggio che lo aiuta a fare il suo lavoro, poiché sembra che le esperienze fatte in una
dimensione lo aiutino a risolvere i casi dell’altra. Inventa anche delle strategie di sopravvivenza per
orientarsi tra una realtà e l’altra, grazie a dei braccialetti colorati che fungono da promemoria visivi, una
tecnica che rispecchia la duplice palette di colori e di luci cui la serie ricorre per distinguere in modo
evidente (e per fondere) i due mondi paralleli. Per molti versi, la puntata pilota di Awake colloca la serie in
uno specifico sottogenere: il detective drama con elementi sovrannaturali. Benché con grandi differenze in
termini di atmosfere e stile, si può fare un parallelo con Medium, la cui protagonista, Allison DuBois, è
appunto una medium che aiuta la polizia a risolvere alcune indagini. In Medium non viene mai messo in
dubbio che Allison sia davvero una medium, né il modo in cui funzionino i suoi poteri: a noi tocca
semplicemente accettare la premessa che la protagonista può comunicare con i morti, e osservare il modo
in cui questi poteri si ripercuotono sulla sua vita e danno una svolta alle indagini della polizia. Pushing
Daisies fa qualcosa di simile, senza tentare in alcun modo di spiegare perché Ned possegga il suo dono
sovrannaturale, ma concentrandosi piuttosto su come questo potere si ripercuote sulla sua vita e sui suoi
rapporti. Un modo di leggere il pilota di Awake è considerarlo un invito della serie non tanto a «cominciare
dall’inizio» per capire cosa stia succedendo, quanto a «cominciare dal presente» per capire come la
condizione di Ned influisca sulla sua vita: in altre parole, la puntata pilota cerca di spostare l’attenzione dagli
enigmi alle asserzioni narrative. Altre recenti serie high-concept, come FlashForward, The Event e Day
Break, sono tutte cadute nella trappola costituita dal proporre un enigma centrale che si anteponga a tutti
gli altri imperativi del racconto, ossia la creazione dei personaggi, dei loro rapporti e di un registro narrativo
ben definito. Spesso queste serie cominciano con ciò che viene definita una «puntata pilota premessa»,
nella quale l’obiettivo principale dello storytelling è di avviare la catena principale degli eventi, anche perché
gli episodi successivi saranno liberi di differire in termini di forma soltanto se lo scenario di base è stato già
presentato. La puntata pilota di Awake comincia a metà strada, con Michael già immerso nella sua
situazione narrativa, ma continua a istruirci su questa situazione per assicurarsi che gli spettatori abbiano
chiara la premessa: non vediamo mai Michael vivere uno dei suo risvegli «multi-dimensionali». Il pilota di

28
Awake preferisce piuttosto mettere in chiaro, attraverso una sceneggiatura convincente, buone prove
attoriali, uno stile visivo e un’emotività realistica, che gli sta più a cuore raccontare l’evoluzione del
protagonista piuttosto che risolvere il mistero che lo riguarda; in ogni caso, l’innescarsi del fandom
investigativo potrebbe comunque far sembrare che l’obiettivo della serie sia quello di dare risposte
all’enigma di base, invece che esplorarne le conseguenze sulle vite dei personaggi. La puntata pilota di
Awake ci chiede di accettare il desiderio di Michael per quello che è, senza cercare di risolvere il suo
problema, nonché di lasciarci coinvolgere da entrambe le sue vite. Nel corso della sua unica stagione, Awake
svela alcuni misteri riguardanti l’incidente di Michael, ma al tempo stesso si rifiuta di spiegare la premessa
fondamentale della sua doppia vita. molti episodi finiscono per essere qualcosa di molto diverso dall’idea
iniziale, considerato che le serie ci mettono un po’ a trovare i loro punti fermi. Ciò è vero in particolar modo
per le comedy, in cui bisogna dare ai personaggi il tempo di instaurare dei rapporti e agli sceneggiatori
quello di capire quali di questi rapporti funzionino meglio. La puntata pilota di Parks and Recreation
somigliava poco alla serie considerata da molti una delle migliori sitcom contemporanee, poiché proponeva
una versione sopra le righe dei personaggi e sembrava legata al lungo arco di tempo necessario alla
costruzione di un parco, una sottotrama poi abbandonata già nella seconda stagione. La puntata pilota di
Cougar Town racconta di una donna di mezza età che si vede con un uomo più giovane, come stabilito dal
soggetto iniziale, ma la serie ha poi abbandonato l’idea dopo pochi episodi. E persino la prima puntata
dell’ormai classico Seinfeld ha poco di quell’eleganza strutturale o di quei dialoghi contorti che in seguito
hanno caratterizzato la serie. Anche i drama possono cominciare in un modo diverso da come poi si
evolvono: Justified, ad esempio, all’inizio sembra un procedural a episodi, ma in seguito dà sempre più
spazio alla macrostoria, trasformando Boyd Crowder nell’antagonista fisso di Raylan Givens, una modifica
dettata dalla decisione di non far morire Boyd, nonostante fosse nei piani, sia per via dell’ottima
performance di Walton Goggins sia per la rinnovata disponibilità dell’attore. Adeguandosi alle richieste di
Fox, Dollhouse è andata in onda con un primo episodio che metteva in secondo piano la macrostoria della
serie, scelto al posto di quello più serializzato firmato dall’autore Joss Whedon: i fan però raccomandano ai
nuovi spettatori di cominciare con la puntata pilota originale, inclusa nel dvd, che secondo loro rappresenta
molto meglio l’autorialità della serie, che non a caso col tempo è diventata sempre più continuativa di
quanto facesse immaginare il primo episodio andato in onda.
Per capire come le serie tv complesse possano iniziare nel migliore dei modi è più illuminante analizzare un
incipit esemplare come quello di Veronica Mars.

«Queste domande hanno bisogno di risposte»: la puntata pilota di Veronica Mars rivista al rallentatore

Per comprendere le strategie informative e motivanti impiegate da Veronica Mars dobbiamo guardare
molto da vicino i meccanismi e la struttura della puntata pilota, facendo un elenco delle strategie usate per
far sì che la prima puntata riproponesse in scala ridotta tutto il macrocosmo della serie, consegnandoci un
pilota che svolge tutte le sue funzioni, e prevedendo tutti i modi in cui un ipotetico neofita potrebbe
approcciarsi all’inizio della storia. Un’analisi dettagliata può inoltre aiutarci a capire quella complessa
combinazione di generi narrativi e rappresentazioni dell’identità di genere che Veronica Mars gestisce in
modo così convincente. Nell’analizzare il pilota di Veronica Mars va sottolineata una complicazione:
l’episodio andato in onda su Upn il 22 settembre 2004 è diverso dalla versione inclusa nel cofanetto dvd un
anno dopo. La differenza più importante tra le due versioni riguarda il modo in cui si aprono, che è
fondamentale per far funzionare una puntata pilota. La versione di Upn comincia in un parcheggio assolato
del liceo di Neptune, con la voce fuori campo di Veronica che descrive la scena, sottolineando i conflitti di
classe e i comportamenti adolescenziali in atto nella bella California del Sud. Nella versione del dvd questa
scena è stata spostata in avanti, e la puntata comincia invece con Veronica che aspetta in auto davanti allo
squallido Camelot Motel, con la sua voce fuori campo in stile noir, una scena che verrà ripresa al
diciottesimo minuto, richiamando così quella strategia del cold open già vista nel caso di Alias. È possibile
immaginare un’altra versione tratta dalla sceneggiatura originale (presente sul sito del creatore Rob

29
Thomas), che ha la stessa struttura della versione del dvd, ma con alcuni dettagli diversi, come la città di
Neptune, chiamata Playa de Costa, o Logan Hewitt al posto di Logan Echolls, nonché passaggi di trama
diversi, un linguaggio più sboccato e contenuti più appropriati alla distribuzione via cavo, per la quale la
serie era stata pensata, che a un network. Oppure potremmo andare in cerca della puntata pilota originale,
comprata da Upn ma mai andata in onda, circolata però tra i critici e in versione pirata, e che ha anch’essa la
struttura della versione in dvd ma con meno differenze riguardo al casting e ai dialoghi.
Ho deciso di analizzare la versione del dvd perché la serie esiste al di là della sua prima messa in onda, e
perché è molto più probabile che se qualcuno voglia rivederla lo faccia in dvd. La decisione di Upn di
eliminare il cold open iniziale era sicuramente finalizzata a rendere la puntata di più immediata
comprensione, evitando il salto temporale che avrebbe potuto confondere uno spettatore non rodato. Ma
in questo modo si modifica anche l’impatto iniziale con il genere della serie: cominciando con una scena
liceale, la versione andata in onda suggerisce agli spettatori che si tratti di un teen drama, incentrato magari
su una coraggiosa eroina che ci guiderà attraverso i pericoli dell’adolescenza.
Nonostante Upn avesse comprato la serie basandosi sulla puntata pilota originale, l’ha ripensata allo scopo
di adattarne l’impatto iniziale, in termini di genere, alla sua immagine e al suo pubblico. Uno sguardo più
attento alla versione del dvd, in parallelo con la sceneggiatura e la puntata non andata in onda, rivela una
notevole differenza di genere, perché la puntata comincia con la voce fuori campo della protagonista che
dichiara, disillusa: «Non mi sposerò mai. Volete una certezza? Be’, eccola», distaccandosi così dai toni della
puntata trasmessa da Upn. Lo stile visivo aiuta a stabilire l’atmosfera, anche grazie al caldo giro di basso
della «Femme d’argent» degli Air. L’inquadratura si sposta su una finestra con le tende, oltre le quali si
vedono le sagome di due amanti, mentre la voce fuori campo dice: «Veronica Mars, zitella. Voglio dire: a
cosa serve? Certo, c’è la travolgente fase iniziale. Cavalcala». Lo spettatore neofita ha l’istinto di mettere
insieme gli indizi visivi e sonori per capire cosa sta succedendo, secondo un processo cognitivo. Adesso
sappiamo che stiamo ascoltando la voce di Veronica, ma non c’è nulla che ci faccia capire che tipo di
personaggio sia, né dove ci troviamo. È per caso la donna focosa con i capelli lunghi che abbiamo intravisto
attraverso la finestra? Scelte linguistiche come «travolgente» e «cavalcala» evocano qualcosa di erotico,
mentre il tono di voce distaccato di Veronica ci suggerisce che abbia soltanto il ruolo dell’osservatrice. Le
nostre ipotesi cambiano insieme ai movimenti di camera: una carrellata senza stacchi ci porta infatti su un
uomo con una vestaglia femminile che passa davanti alla finestra e scende le scale per andare a riempire un
cestello. Veronica continua: «Meglio ancora, ignorala. Prima o poi le persone che ami ti lasceranno. Ed ecco
come va a finire: uomini trasandati, cameriere da cocktail, motel economici dalla parte malfamata della
città. E un coniuge – presto un ex-coniuge – che vorrà una fetta più grande degli averi in comune». Questa
sequenza sposta la nostra attenzione dagli amanti della finestra a ciò che il Camelot Motel rappresenta,
anche attraverso un nome che evoca l’idea di un’apparenza patinata dietro la quale si celano infedeltà e
tradimenti. Veronica ci aiuta a capire che quelle persone sono soltanto anonimi rappresentanti di un mondo
fatto di adulteri e menzogne, icone piuttosto che personaggi veri e propri. Il continuo movimento della
camera invoglia lo spettatore a un approccio investigativo, in cerca di risposte a domande che vengono
costantemente cambiate, ma che non sono nemmeno delle piste false. E la sequenza ci aiuta a intuire la
relativa affidabilità delle diverse fonti di informazioni: ciò che vediamo è reale, ma se vogliamo interpretarlo
dobbiamo affidarci alla voce fuori campo di Veronica. Ciò che vediamo ci risulta oggettivamente vero, ma la
voce fuori campo ci offre un punto di vista preferenziale sull’azione, includendoci tra i confidenti di
Veronica. La sequenza successiva ribadisce questo rapporto tra gli spettatori e Veronica. Si passa infatti a un
controcampo attraverso la C dell’insegna Camelot, mentre adesso il retro dell’insegna Completo si trova al
centro della strada deserta, fatta eccezione per quattro auto posteggiate. La camera zooma lentamente in
avanti, ma dopo un secondo taglia su un campo medio di una delle auto, continuando a zoomare dopo un
taglio disorientante. La voce fuori campo collega finalmente l’azione alla nostra protagonista: «Ecco quando
entro in scena io». Questa battuta è un cliché che evoca i film noir, anche se è probabile che derivi più
direttamente dal crime drama televisivo Dragnet, a sua volta ispirato ai noir.

30
La battuta di Veronica ci rivela in modo chiaro che è un’esperta di adulteri e tradimenti, una competenza
che in seguito si rivelerà qualcosa in più di una conoscenza professionale, aiutandoci a mettere insieme gli
indizi da film noir dell’inizio: lo squallido motel, lo sguardo del sorvegliante, certe storie di bassa lega e una
cinica visione del mondo. La serie è cominciata soltanto da quaranta secondi ma ci ha già dato chiare
indicazioni sul genere, nonché presentato l’intrigante personaggio del titolo, che fino a questo momento
risulta eccezionale per il solo fatto di essere una donna in un genere dominato dagli uomini. Ciò che ancora
non sappiamo è che Veronica frequenta il liceo, una rivelazione (per la versione in dvd) che Upn ha invece
deciso di rendere un presupposto immediato nella sua versione. La scena successiva è la prima a far
riferimento a questo aspetto del personaggio, e cioè quando l’inquadratura si insinua nell’auto e ci mostra
un libro intitolato Calculus of a Single Variable. Il ruolo connotativo del libro avrà più importanza in seguito,
quando scopriremo che Veronica è un’abile investigatrice privata con un gran talento nella soluzione dei
problemi, e lei stessa diventerà una variabile centrale in una serie di «problemi» sconvolgenti. Non appena
l’inquadratura passa dal libro a una delle stanze, la voce fuori campo di Veronica continua: «Quaranta dollari
all’ora sono pochi se paragonati alla sicurezza finanziaria a lungo termine che delle sordide fotografie ti
possono assicurare. Per i tuoi figli. Per il tuo prossimo amore». Siamo ancora nel mondo del noir, anche se
Veronica prende un thermos di metallo, più adatto a un teen drama. La prima cosa che vediamo di Veronica
è la mano destra: notiamo che ha un anello al pollice e quest’anello, unito all’affermazione iniziale contro il
matrimonio, identifica subito Veronica come un’anticonformista con uno stile tutto suo. In contrasto con
l’anello tradizionale che identifica spose e fidanzate, l’anello al pollice di Veronica la inquadra in quanto
single e instabile. L’inquadratura segue il thermos mentre Veronica si versa una tazza di caffè. Segue una
pausa di sette secondi, durante la quale scorgiamo per la prima volta il viso di Veronica e abbiamo il tempo
di apprezzarne lo sguardo in primo piano. È giovane, ma non riusciamo ancora a capire l’età esatta: l’attrice
Kristen Bell aveva 24 anni ai tempi, ma ne dimostrava meno. Veronica guarda fuoricampo, alla sua destra, e
la pausa della narrazione ci dà il tempo di capire che quello della prima inquadratura era il suo punto di
vista, e che Veronica sta sorvegliando ciò che succede al Camelot, svolgendo un’attività investigativa in linea
con il noir. La voce fuori campo iniziale, l’inquadratura rivelatasi un punto di vista e il primo piano sul viso ci
confermano che vediamo quello che vede lei, trasformando Veronica nella nostra guida in un universo
narrativo ancora da esplorare. La bellezza giovanile di Kristen Bell è in contrasto con il suo tono cinico e
freddo, che prosegue mentre Veronica sorseggia il caffè: «Ma facci un favore, se sei lì dentro: fai a meno
delle coccole. Questo è un motel a ore, è quello che è. Fai veloce. La persona seduta nell’auto dall’altra
parte della strada potrebbe avere un esame tra cinque, facciamo quattro ore, e non può andarsene prima di
aver scattato la foto compromettente». Questa sequenza ci aiuta a circoscrivere lo status e l’identità del
personaggio di Veronica. Il suo sguardo rivolto all’orologio dell’auto, mentre corregge gli orari del suo
esame, ci fa capire che la voce fuori campo corrisponde ai pensieri in tempo reale del personaggio che
vediamo sullo schermo. capiamo che Veronica conduce una doppia vita (investigatrice privata di notte,
studentessa di giorno) e questo ci predispone a quella tensione tra questi due mondi che caratterizzerà
tutta la serie. A questo punto del cold open abbiamo ricevuto una risposta sbrigativa alla nostra prima
domanda: a chi appartiene la voce che parla di matrimoni? Ma presto insorgono domande più profonde sul
personaggio: chi è questa Veronica Mars, perché è così amareggiata, e perché fa questa doppia vita, metà
studentessa e metà investigatrice privata? Qualsiasi ulteriore riflessione è interrotta dal rombo fuoricampo
di motori su di giri, mentre la colonna sonora vira verso il ritmo più serrato della musica elettronica.
Veronica solleva lo sguardo e, insieme a lei, vediamo un gruppo di motociclisti che avanzano sulla strada
deserta. Il montaggio accelera per stare al passo con la musica, con undici tagli in quindici secondi che
rimbalzano tra Veronica che guarda la gang di centauri e i centauri che si fermano davanti all’hotel.
L’inquadratura sottolinea il contrasto tra le luci delle motociclette e le strade notturne, mostrando le luci che
si riflettono sulla macchina di Veronica. Il cambio della musica e dello stile visivo sposta l’immaginario
poliziesco da Dragnet a Miami Vice, nel quale capita spesso che un’ambientazione patinata nasconda delle
insidie. Veronica dice impassibile (parlando, e non più come voce fuori campo): «Be’, ci mancava solo

31
questa», sfoggiando calma apparente, ma anche insinuando in noi il dubbio che sia in pericolo. La sequenza
successiva comincia con la camera che scorre verso il basso a partire dall’insegna del Camelot Motel, e che
finisce a livello della strada nel momento in cui il leader dei motociclisti si ferma al centro dell’inquadratura.
Una serie di controcampi mostra Veronica che fissa il motociclista, il quale toglie il casco, le fa segno di
abbassare il finestrino e le dice minacciosamente: «Problemi con l’auto, signorina?», e si chiude con
Veronica che sospira mentre ragiona sul da farsi, poco prima che inizino i titoli di testa, accompagnati da
musica allegra e da un’immagine completamente diversa di Veronica che sorride seduta al sole. In meno di
un minuto e quaranta secondi quest’intro ci ha fornito una grande quantità di informazioni e di contesti che
ben rappresentano e anticipano la serie nella sua interezza. Ci è chiaro che il personaggio cui fa riferimento
il titolo è una ragazza in gamba e coraggiosa che si destreggia tra gli studi e l’investigazione privata. Lo stile
neo-noir serve a impostare un registro cinico e navigato, attraverso una narrazione intelligente che propone
un modo più sofisticato di guardare una crime story. I contenuti sessuali espliciti, collegati agli appuntamenti
adulterini nel motel, richiedono un livello di maturità inaspettato per una serie che è ambientata
principalmente in un liceo. E il finale sospeso ci dice che suspense e azione saranno ingredienti
imprescindibili della storia. Non è difficile immaginare perché Thomas avrebbe preferito come puntata
pilota questa versione, che sottolinea la maturità, l’anticonvenzionalità e le atmosfere noir della serie, né
perché Upn abbia imposto un inizio molto più classico, al fine di attrarre il suo target di riferimento
composto di adolescenti attraverso un’ambientazione, uno stile, un genere e dei personaggi più familiari.
Questi due inizi rivelano la sfida principale di qualsiasi puntata pilota: dimostrare che una serie è sia
originale sia abbastanza familiare da risultare accogliente, centrando il delicato equilibrio tra somiglianza e
differenza che struttura tutta la tv mainstream. La versione Upn inizia con una scena familiare e la combina
lentamente con la suspense e mischiando i generi, mentre la versione del dvd catapulta lo spettatore nel
mezzo di qualcosa di non convenzionale, un noir con protagonista una ragazza, e solo in seguito si ricollega
agli aspetti più convenzionali del teen drama. Entrambe le versioni informano gli spettatori sulle norme del
programma e li invogliano a proseguire la visione, ma è chiaro che i due approcci si rivolgono a diverse
sottocategorie di pubblico.

Per comprendere in che modo riescano a informare gli spettatori su come guardare la serie possiamo fare
un passo indietro e considerare alcune delle strategie di più ampio respiro usate nell’intero episodio. Un
lavoro del genere si basa su un modello di comprensione del racconto proposto da David Bordwell a
proposito del cinema. Questo modello analizza il modo in cui un testo comunica le proprie norme
intrinseche ma anche quelle estrinseche (ovvero riguardanti il genere e lo stile), e lo fa per instradare lo
spettatore al modo migliore di fare delle ipotesi sulle domanda poste dalla stessa narrazione.
Per una serie tv un pilota è il momento ideale per dichiarare le proprie norme intrinseche e per mettere in
chiaro il rapporto con le norme estrinseche del genere, della narrazione e dello stile. Un elemento che
diventa presto chiaro è che Veronica Mars racconterà la sua storia ricorrendo alle tecniche della complessità
narrativa. Il pilota contiene una serie di segnali distintivi di questa modalità: una voce fuori campo rivolta
allo spettatore, frequenti flashback e salti temporali, un’indagine a lungo termine e sottotrame che
attraverseranno l’intera stagione, andando anche oltre. Tutte queste tecniche collocano Veronica Mars nel
regno della complessità narrativa già nei primi minuti del pilota, stabilendo le norme intrinseche che
guideranno gli spettatori nel corso di tutta la serie. Dopo i titoli di testa veniamo riportati nell’universo
narrativo della serie, ma non nel momento successivo alla sequenza interrotta, bensì in una scena solare
ambientata davanti al liceo. La voce fuori campo, stavolta ottimista, in netto contrasto con la disillusione
della prima scena, presenta in pochi secondi lo scenario della puntata andata in onda su Upn: «Questa è la
mia scuola. Per frequentarla devi avere dei genitori miliardari, o che lavorano per dei miliardari. Qui a
Neptune, in California, il ceto medio non esiste». La versione del dvd aggiunge un elemento che spiega il
salto temporale, una scritta che dice venti ore prima, mentre Veronica continua: «E allora come fa una
ragazza a ritrovarsi circondata da una gang di motociclisti alle quattro di mattina nella parte malfamata della
città? Per saperlo, dobbiamo riavvolgere il nastro fino a ieri». In questo modo veniamo ri-orientati
32
all’interno della storia, e da questo momento in poi le due versioni diventano pressoché identiche fino alla
fine dell’episodio. Far cominciare un episodio a metà storia, per poi tornare indietro e svelare come si sia
arrivati fin lì, è un espediente diffuso tra le serie tv complesse, come già visto in Alias, Revenge e West Wing.
In ogni caso, però, la voce fuori campo sottolinea il salto temporale in modo più esplicito che in altre serie.
Se West Wing e Damages ricorrono solitamente a scritte in sovraimpressione, mentre il pilota di Alias evita
qualsiasi riferimento temporale, la voce fuori campo di Veronica mette in chiaro, e in modo esplicito, che
stiamo «riavvolgendo» la storia, per assicurarsi la comprensione da parte del pubblico. Va notato che
questo riavvolgimento viene innescato da una domanda esplicita («E allora come fa una ragazza a ritrovarsi
circondata da una gang di motociclisti alle quattro di mattina nella parte malfamata della città?») che
troverà risposta nel corso del racconto. L’esplicita segmentazione della storia in una serie di domande e
risposte, o «narrativa erotetica», come l’ha definita Noël Carroll, è un aspetto fondamentale della struttura
narrativa della serie. Questo «riavvolgimento» iniziale non è l’unico caso di complessità temporale
contenuto nel pilota: sono presenti anche otto flashback, per una durata complessiva di nove minuti, che
occupano più del 20% del tempo totale. Benché i flashback rimarranno uno strumento importante per tutta
la serie, il pilota vi ricorre molto più di qualsiasi altro episodio: quest’uso è in buona parte descrittivo. Questi
flashback sono fondamentali per impostare la macrostoria, perché pongono tre domande che saranno alla
base delle sottotrame della stagione: Chi ha ucciso Lilly Kane? Chi ha violentato Veronica? E perché la madre
di Veronica ha abbandonato la sua famiglia? Si tratta di eventi principali, avvenuti molto tempo prima del
presente narrativo, intorno ai quali vengono imbastiti degli enigmi, attraverso una strategia di racconto volta
a dare profondità all’universo narrativo. L’uso di flashback esplicativi permette alla puntata pilota di stabilire
una norma intrinseca della serie, ma al contempo dimostra quanto, nell’intento di informare gli spettatori
sugli antefatti, le strategie di storytelling di una puntata pilota possano essere anomale rispetto al resto
della serie. Così come il «riavvolgimento iniziale» viene spiegato con un certa ridondanza, allo stesso modo i
flashback sono ben demarcati e densi di informazioni. Il primo flashback arriva dopo cinque minuti, quando
Veronica è seduta nel cortile della scuola e ci presenta i suoi compagni di classe attraverso la voce fuori
campo. Raccontando di quanto era «una del giro», Veronica ammette: «L’unico motivo per cui ho potuto
oltrepassare il cordone rosso è stato Duncan Kane, il figlio del magnate del software Jake Kane. Era il mio
ragazzo». La camera si sposta tra l’inquadratura di Veronica, seduta da sola mentre guarda Duncan con
nostalgia, e Duncan che chiacchiera con i suoi amici, visto attraverso la prospettiva di Veronica. La camera si
avvicina lentamente a Veronica dopo che ha pronunciato l’ultima battuta, e una dissolvenza incrociata ci
trasporta in un’altra scena, un passaggio sottolineato da un effetto sonoro tipo swoosh. La nuova
inquadratura, che mostra dei ragazzi nel corridoio del liceo, ha tonalità fredde, un effetto sfocatura e alcune
striature, tutti elementi che la differenziano chiaramente dai colori caldi e accesi delle scene nel cortile.
Anche la musica è cambiata, passando dal delicato arpeggio di sottofondo che si sentiva nel cortile a un
brano cantato di una certa emotività. Vediamo subito Duncan e Veronica, qui con i capelli lunghi, al centro
dell’inquadratura, con un jump-cut in avanti che ci porta su un primo piano dei due ragazzi che si baciano,
prima che l’immagine si saturi di luce bianca e passi allo slow motion. Tutti questi espedienti tecnici, dal
cambio di pellicola alla colonna sonora, dal livello dei colori al taglio di capelli, servono a demarcare il
confine tra i flashback e il presente. Non viene lasciata alcuna ambiguità sui salti temporali, e la sequenza è
chiaramente proposta in quanto ricordo soggettivo di Veronica, il nostro narratore e punto di riferimento. Il
flashback successivo è altrettanto demarcato, ma propone un altro punto di vista. Veronica è seduta a
pranzo con Wallace, al quale fa due domande tra loro connesse: «Allora, cos’hai combinato?» e «Perché sei
un cadavere che cammina?» Queste domande innescano un effetto visivo e sonoro, simile a quello già visto,
che segnala l’inizio di un flashback, attraverso il quale Wallace racconta a Veronica di un furto subito mentre
lavorava in un negozio notturno. Questo flashback, interrotto per un secondo da un’osservazione di
Veronica, è l’unica scena dell’episodio in cui non appare la protagonista e contiene quindi gli unici eventi
narrativi non vissuti da lei in prima persona: gli episodi successivi saranno sempre incentrati su Veronica, ma
proporranno anche scene e sottotrame senza di lei, fatto che concorre a sottolineare l’atipicità della puntata

33
pilota. Benché il flashback di Wallace usi dei demarcatori simili a quelli di Veronica, esso ha un valore
diverso: il racconto che Wallace fa a Veronica avviene realmente nel loro mondo narrativo, mentre la voce
fuori campo e i flashback di Veronica sono monologhi interiori, condivisi con un non specificato «voi»,
riferito al pubblico. Queste differenze rinforzano il ruolo di Veronica, in quanto protagonista, guida narrativa
e figura di riferimento, uno status che rimarrà costante per tutta la durata della serie. Il secondo flashback di
Veronica, poco dopo la scena con Wallace, è più soggettivo, motivato da un ricordo innescato e non da un
racconto esplicativo. Veronica sta camminando a bordo piscina, nel patio del residence in cui ha un
appartamento, quando sente una canzone provenire da una radio, «Just Another» di Pete Zorn, e solleva
istintivamente lo sguardo. In quell’istante sentiamo il rumore di un tuffo in piscina. Veronica abbassa lo
sguardo verso la piscina e, dopo un effetto swoosh, parte un flashback in cui Duncan esce dall’acqua e dice:
«Ehi, piccola, è la nostra canzone». Si passa bruscamente a una scena con gli amici di Veronica intorno una
grossa torta di compleanno, tenuta in mano da una donna che finora non abbiamo visto e che dice: «Buon
compleanno, Veronica! Sei sorpresa?» Veronica dice «mamma» due volte, la prima all’interno del flashback,
la seconda subito dopo nel presente, mentre ruota la testa verso una donna, lì nel cortile, dopo aver
pensato per un attimo che si trattasse di sua madre. Anche se questo flashback è stilisticamente connotato
come un ricordo, al momento la sua funzione è meno chiara, poiché non risponde a domande poste da
Veronica, ma ne solleva una che deve ancora essere fatta: dov’è la madre di Veronica? Tutti i flashback di
Veronica sono in equilibrio tra l’informazione narrativa e l’approfondimento emotivo, anche se quest’ultimo
esempio è più spostato verso il secondo estremo. Il flashback successivo arriva cinque minuti dopo e include
le rivelazioni più significative riguardo alla macro-trama principale della serie. Mentre sorveglia Jake Kane
per conto dell’agenzia investigativa privata di suo padre, Veronica ci racconta i dettagli degli affari di Kane e
del suo status a Neptune. Quando poi comincia a parlare del suo rapporto con la famiglia Kane, un flashback
ci porta in una scena con Veronica e Lilly Kane, svelandoci subito dopo che Lilly è stata uccisa, nonché il
modo in cui Veronica l’ha saputo. È importante notare che la sequenza presenta un indizio importante
quanto sottovalutato, ovvero Lilly che dice a Veronica: «Ho un segreto. Un bel segreto», durante una
conversazione che Veronica identifica come «le ultime parole che scambiai con Lilly». Il segreto di Lilly non
risulta subito un enigma narrativo, ma acquista importanza in seguito, nel corso nella stagione, quando
Veronica comincia a risolvere il caso: riguardato col senno di poi, a stagione finita, quel segreto è la causa
della morte di Lilly, e questa fugace anticipazione dà unità alla storia del suo omicidio, e rende credibile la
rivelazione finale in quanto soluzione di un giallo ben macchinato. Benché gli eventi raccontati nel flashback
siano chiaramente traumatici per Veronica (l’uccisione della sua migliore amica e la trasformazione di suo
padre in capro espiatorio, in seguito a un’indagine maldestra), il tono della narrazione è distaccato e
descrittivo, e Veronica riferisce la storia più da investigatrice che da persona coinvolta emotivamente nel
caso. Questo flashback ci aiuta a identificare il ruolo narrativo della voce fuori campo. Dopo aver svelato la
morte di Lilly, Veronica dice infatti: «Ma questa storia la conoscono tutti. L’omicidio di Lilly Kane [...]. E,
naturalmente, tutti ricordano di aver letto del maldestro sceriffo locale, quello che diede la caccia all’uomo
sbagliato. Lo sceriffo maldestro era mio padre». Questo racconto ci dà l’impressione che Veronica si stia
esplicitamente rivolgendo a un pubblico interno al suo mondo narrativo, dando per scontata la conoscenza
di eventi già approfonditi sui giornali di cronaca (della finzione, ovviamente). Anche se la narrazione non
viene mai inserita in un contesto di riferimento, che potrebbe essere un diario o una seduta di analisi,
questo modo di rivolgersi direttamente al pubblico la distingue dal tono narrativo più oggettivo di una serie
come Dragnet. Mentre in Dragnet non c’è nessun pubblico sottinteso ad ascoltare i racconti di Friday, che
hanno l’aria di essere rapporti di polizia letti ad alta voce, Veronica sta chiaramente parlando con qualcuno,
spiegando il suo punto di vista e chiedendoci di accompagnarla nelle sue avventure. Questo stile inserisce lo
spettatore all’interno del mondo narrativo, trasformandolo in una componente non identificata ma
comunque importante della diegesi, che funge da cassa di risonanza per i pensieri di Veronica, dandoci
accesso a dettagli sia sulla sua attività investigativa che sulla sua vita emotiva. I flashback successivi
rispettano questi parametri, illustrando antefatti, rapporti personali e situazioni in sospeso. Vengono tutti

34
innescati da domande esplicite, come si fa evidente nel sesto flashback, anticipato dalla voce fuori campo
che dice: «Volete sapere come ho perso la mia verginità? Vorrei saperlo anch’io», prima di mostrare la
scena dello stupro di Veronica, drogata a sua insaputa. Il settimo flashback è segnalato dalla domanda di un
altro personaggio. Logan sta prendendo in giro Veronica riguardo la scomparsa di sua madre, chiedendole:
«Sai dov’è? Qualche indizio?» Veronica lo segue con lo sguardo mentre si allontana, e poi risponde alla
domanda tramite la voce fuori campo: «Sono otto mesi che non vedo mia madre». Un flashback ci mostra la
mattina in cui la madre sparì, dandoci informazioni su una condizione che rimarrà invariata per tutta la
stagione, nonché sul rapporto di Veronica con la madre. Lungo il pilota alcune domande preludono risposte
immediate che aiutino lo spettatore a orientarsi nel presente, mentre altre pongono quesiti a lungo termine
che li invoglino a seguire la serie nella speranza di scoprirne le risposte. I flashback ci informano inoltre di
alcuni legami tra i personaggi, approfondiscono il mondo narrativo e sottolineano il piacere della visione.
Per esempio, nel secondo flashback lo sceriffo Lamb prende in giro Wallace dicendo: «Va’ a far visita allo
stregone. Chiedigli un po’ di coraggio». E subito dopo, fuori dal flashback, Veronica chiede: «Ti ha detto “va’
a far visita allo stregone”?» Questa domanda al momento sembra irrilevante, ma ventidue minuti dopo
diventa chiara grazie a un altro flashback, nel quale Veronica va a denunciare il suo stupro e lo spietato
sceriffo Lamb le dice: «Lo vuoi un consiglio, Veronica Mars? Vai a far visita allo stregone, chiedigli un po’ di
carattere». Oltre ad avvicinare Wallace e Veronica contro Lamb, questo parallelo prepara il terreno,
all’interno della stessa puntata, per una vendetta nei confronti del dipartimento dello sceriffo, reo di un
trattamento di favore nei confronti di uno strip club in cambio di favori sessuali. Dal momento che l’episodio
non pone l’attenzione su questo parallelo tra i due dialoghi, gli spettatori più attenti che hanno identificato il
richiamo si sentiranno gratificati. Momenti come questo sono importanti quando si guarda una serie tv,
perché richiami che possono ripresentarsi per tutto l’episodio, o anche per tutta la stagione, permettono di
«premiare» lo spettatore più attento per la sua dedizione. Anche se il richiamo in questione non richiede un
coinvolgimento a lungo termine nella serie, esso detta (in scala ridotta) una norma intrinseca di più ampio
respiro: la serie si aspetta che gli spettatori prestino attenzione e colleghino i vari elementi, e ne premierà la
dedizione attraverso richiami e collegamenti gratificanti. Non si tratta però dell’unico piacere narrativo
generato da un fugace richiamo. Dopo più di metà dell’episodio, il padre di Veronica, Keith, torna a casa
dopo un tentativo di riscossione di una ricompensa. Veronica lo accoglie con un inquisitorio: «Allora?» Keith
fa una pausa seria, fingendo per un attimo di non essere riuscito nel suo intento, e poi assume una posa
pseudo-cool, dicendo: «Chi è il tuo papà?» Veronica reagisce con la tipica esasperazione adolescenziale:
«Odio quando dici così». Questo scambio crea un po’ di tensione giocosa tra padre e figlia, perché Keith
insiste sul fatto di essere stato cool, in passato, e questa insistenza diverte la figlia ma al contempo
sottolinea il loro gap generazionale. Verso la fine dell’episodio c’è una scena parallela in cui Keith trova
Veronica nel suo ufficio da investigatore privato, di notte. Veronica ha scoperto che il padre le nasconde
delle informazioni che le interessano sull’omicidio di Lilly Kane, ma quando Keith entra nell’ufficio Veronica
fa finta di nulla. Al che lui le propone di mangiare una pizza insieme e di guardare il film di South Park,
ripetendo «Chi è il tuo papà?» Questa volta Veronica sospira, sorride e risponde gentilmente: «Sei tu». La
ripetizione di questa scena pone fine alla tensione vista in precedenza tramite la creazione di un ritornello,
riproponendo un tema dissonante ma stavolta con un accordo armonioso. Questo momento sottolinea
quella solidità del rapporto tra padre e figlia che sarà alla base dell’intera serie, e allo stesso tempo anticipa
quelli che saranno gli sviluppi della trama quando Veronica comincerà a indagare sui motivi del
comportamento del padre. Questa ripetizione richiama inoltre l’attenzione sul raffinato storytelling del
programma, che ricorre a un parallelo esplicito per assicurare agli spettatori che i producer hanno pieno
controllo della loro struttura narrativa. Si tratta di un momento di costruzione narrativa autoconsapevole
che, almeno per alcuni spettatori, è fonte di ammirazione nei confronti degli autori, e che costituisce quindi
un momento di estetica funzionale. È chiaro che Veronica sia la figura centrale di questo mondo narrativo,
dal momento che compare in ogni singola scena (escluso il flashback di Wallace), e che quasi ogni
personaggio esiste fondamentalmente in rapporto a lei. I titoli di testa presentano la lista dei personaggi

35
principali in quest’ordine: Veronica, Wallace, Duncan, Logan, Weevil e infine Keith. Wallace c’è per il 25%
dell’episodio e Keith per il 20%, una proporzione che ci suggerisce che questi due personaggi saranno quelli
più vicini a Veronica per il resto della serie. La comparsa di Duncan al terzo posto sembra in contraddizione
con il suo 7% di presenza, una sproporzione che rimane costante nell’arco della serie: l’esistenza di questo
personaggio è fondamentale per molte sottotrame, ma la sua presenza è meno utile di quella di altri
personaggi, e si riduce a nulla quando Duncan sparisce dalla serie a metà della seconda stagione. Anche se i
legami amorosi e familiari tra Duncan e Veronica sono sicuramente degli elementi centrali della trama, il
pilota non ci dice molto del loro rapporto, e a conti fatti relega Duncan sullo sfondo a favore di comprimari
più vispi. Logan, invece, non era stato concepito come personaggio principale, ma l’ottima performance
dell’attore Jason Dohring ha convinto i producer a dargli maggiore spazio e a decidere a favore di una
relazione duratura con Veronica. Nella puntata pilota Logan e Weevil sono presenti quasi per lo stesso
tempo, circa il 13% dell’episodio, quanto basta per inquadrarli come antagonisti, una rivalità che li porterà
allo scontro verso la fine dell’episodio. Entrambi hanno un legame instabile con Veronica ed entrambi, in
diversi momenti, hanno il ruolo di alleati o di nemici. Questa proporzione è anche legata a questioni legali
specifiche del mezzo televisivo: i contratti, infatti, riportano spesso il numero degli episodi, per ogni
stagione, in cui il dato attore dovrà apparire. Gli attori che interpretano Veronica, Wallace e Keith avevano
infatti firmato per apparire in ogni episodio della prima stagione, mentre quelli che interpretano Weevil,
Logan e Duncan erano disponibili soltanto per il 75% degli episodi, imponendo ai producer di ideare storie
che permettessero di farli sparire per una settimana. E il pilota di Veronica Mars mette in chiaro
efficacemente queste proporzioni, che verranno rispettate per tutta la prima stagione. Il pilota anticipa
anche l’importanza che sarà data alle diverse sottotrame: benché, come molte puntate pilota, dedichi più
tempo a presentare ambientazioni, personaggi e relazioni, l’episodio riesce anche a darci informazioni su
diversi eventi narrativi e sottotrame. In genere, un episodio di Veronica Mars presenta una trama
autoconclusiva A, riguardante un’indagine risolta nell’arco della puntata, affiancata dalle trame B e C, che
riguardano invece enigmi e relazioni che si protrarranno nel corso della serie. Il pilota, però, non si attiene a
questa regola, e presenta sei sottotrame: il furto nel negozio di Wallace, l’indagine nello strip club Seventh
Veil, quella sull’infedeltà di Jake Kane, l’omicidio di Lilly Kane, la sparizione della madre di Veronica e lo
stupro di Veronica. Come capita spesso nelle serie, queste trame non sono rigidamente distinte, ma si
intrecciano in termini sia di eventi che di temi: la trama dello strip club finisce per fondersi a quella del
furto, e il tema dell’abuso permea molte delle sottotrame. È inoltre difficile identificare una trama A; benché
l’indagine su Jake Kane occupi la maggior parte del tempo, quasi un quarto dell’episodio, influisce su quasi
tutte le altre sottotrame e non prevede quella conclusione definitiva tipica delle trame A degli episodi
successivi. I casi del furto e dello strip club vengono risolti, ma non sono importanti come le trame A degli
altri episodi. Nonostante il confine tra le diverse sottotrame sia più labile che nel resto della serie, la scelta
atipica di intrecciare diverse trame permette al pilota di istruire gli spettatori su come dovranno guardare la
serie. Le sottotrame autoconclusive dell’episodio (i casi del furto e dello strip club) ci appaiono sotto il totale
controllo di Veronica, che a conti fatti toglie Wallace dai guai e si giostra con l’ufficio dello sceriffo con il
minimo della fatica. Queste trame rivelano che Veronica sa sempre qualcosa in più degli spettatori, una
regola che verrà confermata durante tutte le indagini degli episodi successivi. Per la maggior parte
dell’episodio non ci è chiaro quanto sia importante la storia dello strip club, né sappiamo che Veronica vuole
connetterlo al caso del furto tramite uno scambio di videocassette: tutto ciò viene chiarito soltanto al
momento dell’umiliazione di Lamb, senza che lo spettatore sia tenuto al corrente del modo in cui Veronica
sta portando avanti le sue indagini. Nella maggior parte degli episodi, i casi autoconclusivi servono a
confermare l’abilità investigativa di Veronica, e hanno più che altro la funzione di giochi rivolti agli spettatori
che vogliono indovinare il colpevole, le dinamiche del fatto o le strategie investigative di Veronica. Questo
scarto si riduce nelle trame a lungo termine, che riguardano la famiglia Kane e i traumi di Veronica, poiché
Veronica scopre molti dettagli contemporaneamente agli spettatori, e li tratta come dei confidenti con i
quali confrontarsi sul proprio passato. L’approccio investigativo di Veronica consiste nel porre delle

36
domande e rispondervi, e lo storytelling del programma rispetta questa prassi. Nei minuti finali dell’episodio
la stessa Veronica pone alcune domande: «Il fascicolo dell’omicidio di Lilly Kane: a cosa sta lavorando mio
padre? Le foto che ho scattato all’albergo: perché sono nel fascicolo di Lilly Kane? Che ci faceva mia madre
lì, e che relazione ha con Jake Kane? E, domanda da un milione di dollari: perché mio padre mi ha mentito?»
Poi, dopo la scena di riconciliazione con Keith, la voce fuori campo di Veronica dice: «Ho troppe domande
nella testa per aspettare che lui si decida a condividere le sue scoperte con me. Sono domande che hanno
bisogno di risposte, e devo trovarle da sola». Questa sequenza ha la funzione di impostare la macrostoria
della stagione, di confermare una narrazione erotetica e di garantire che nessuna di queste trame resterà
senza una conclusione. È la stessa Veronica a confermarlo, nel monologo finale: «Ma vi prometto una cosa:
scoprirò cos’è successo realmente, ricomporrò questa famiglia», una dichiarazione d’intenti che serve anche
ad assicurare agli spettatori che queste domande troveranno risposte (a tempo debito) e che condurranno a
conclusioni appaganti. L’unica domanda di questa sequenza che trova subito una risposta è quella
pronunciata da Keith: «Chi è il tuo papà?» Questa domanda spinge Veronica a rinsaldare il rapporto col
padre proprio di fronte alle difficoltà: in seguito, nel corso della stagione, questa domanda diventerà
qualcosa di più di un simpatico botta e risposta, e confluirà anzi in una delle sottotrame principali. Questa
risposta ci aiuta a dividere gli archi narrativi a lungo termine in due categorie: quelli che pongono degli
enigmi e quelli che seguono lo sviluppo dei personaggi e dei loro rapporti, che a primo impatto potrebbero
sembrare già definiti. Questa distinzione è tipica di molte serie tv da prime time, che ricorrono allo
storytelling complesso per raccontare gli enigmi narrativi, e si limitano invece alle asserzioni narrative per
ciò che riguarda lo sviluppo dei personaggi. Queste diverse modalità danno adito a diversi livelli di
coinvolgimento e diverse domande. I plot emotivi che parlano di rapporti umani ci invogliano a chiederci
«Cosa succederà?», come nel caso delle relazioni di Veronica o del difficile rapporto con la madre. Per
contro, gli enigmi esortano la domanda «Cos’è davvero successo in passato?», privilegiando una modalità
investigativa, fatta di ricerche, collegamenti degli indizi e formulazione di ipotesi, che si dipana di pari passo
all’indagine di Veronica. Sappiamo che le risposte alle domande sui rapporti emotivi arriveranno, anche se
saranno magari temporanee e vaghe, mentre le trame incentrate su enigmi indugeranno più del previsto e
potranno anche imboccare strade del tutto inattese.
Le due modalità narrative, quella basata sull’enigma e quella sui rapporti personali, sono legate agli stilemi
dei generi narrativi (genres) e della rappresentazione di genere (gender). La scelta del cast pone l’equilibrio
tra queste due modalità al centro della serie: il personaggio del titolo è chiaramente il fulcro femminile
dell’universo narrativo, ma è circondato quasi esclusivamente da figure maschili, soprattutto nella prima
stagione. Veronica, però, è lontana dall’incarnare il cliché della femminilità: il suo carattere forte deriva
anche dalla contrapposizione con la sua femminilità precedente allo stupro, ed è sottolineato anche dai
capelli più corti, da uno spiccato sarcasmo e da un distacco emotivo che la allontana da quasi tutti i suoi
coetanei. Come chiarito dalla scena iniziale, Veronica rifugge i sentimenti romantici e affronta razionalmente
i pericoli connessi alle sue attività investigative. Si può dire inoltre che i personaggi maschili abbiano ruoli
più femminili del solito: Wallace è un consigliere e un confidente, Keith è un genitore materno e Duncan è
un ragazzo sensibile e romantico che in seguito diventerà padre egli stesso. Persino Logan e Weevil, che
inizialmente risultano come antagonisti mascolini, aggressivi e ostili, durante la stagione subiscono un
processo di sensibilizzazione, coinvolgimento e femminilizzazione. Probabilmente l’unico personaggio fisso
che mantiene le caratteristiche proprie del suo genere è Dick Casablancas. La puntata pilota sottolinea il
proprio approccio atipico alle norme sulla rappresentazione di genere: quando Veronica consegna a Wallace
la videocassetta incriminata, lui la ringrazia e lei sminuisce, e allora Wallace insiste per farle capire che gli ha
fatto un gran favore, dicendo: «Sotto quella corazza da giovane donna arrabbiata c’è una giovane donna
meno arrabbiata che non vede l’ora di cucinare qualcosa per me. Sei una tenerona, Veronica Mars. E
romantica!» La doppia identità di genere di Veronica torna nelle battute finali della puntata: dopo aver
promesso che risolverà i vari misteri e riunirà la sua famiglia, Veronica dice: «Mi dispiace. È un po’
sdolcinato? Be’, sapete cosa dicono in giro? Veronica Mars è una tenerona!» L’evidenza di questo richiamo

37
alla fine dell’episodio è in contrasto con le procedure razionali adottate da Veronica per risolvere i vari
misteri, allo scopo di ricordarci che Veronica non è spinta soltanto da un temperamento investigativo, ma
anche dal desiderio «più femminile» di riunire la famiglia e onorare un’amicizia perduta. La scena finale ci
prepara all’ampia gamma di rappresentazioni dell’identità di genere che conosceremo nel corso della serie,
e ci suggerisce di non sottovalutare la complessità dei personaggi né quella della trama, e di non dare per
scontate certe convenzioni binarie. Alla fine, il pilota di Veronica Mars ci spiega come guardare la serie,
instrada le nostre aspettative e ci invoglia a seguirla. Si tratta di una delle puntate pilota più efficaci, tra
quelle della televisione complessa, perché riesce sia a presentare la storia e le tecniche con cui sarà
raccontata, sia a intrattenere gli spettatori, rimanendo comunque parte integrante della serie.

CAP 3

AUTORIALITÀ

Nel 2000 Buffy l’ammazzavampiri ha avuto una crisi mistica. La crisi è stata innescata dall’introduzione di un
nuovo personaggio nei minuti finali della prima puntata della quinta stagione, «Il morso del vampiro»:
Dawn, la sorella quattordicenne di Buffy. Dopo aver guardato quattro stagioni, per un totale di cinquanta
ore di tempo dello schermo, i fan erano ormai certi che Buffy fosse figlia unica. All’improvviso, invece, viene
detto loro che ha una sorella adolescente che non è mai stata vista prima di allora. L’episodio successivo,
«Un invito pericoloso», ha fatto poco per chiarire la situazione, e Dawn è diventata uno dei personaggi
principali senza che la sua apparizione venisse spiegata in qualche modo. gli altri personaggi si
comportarono come se Dawn avesse sempre fatto parte del mondo narrativo della serie. Nonostante il
genere della serie, il fantasy, permettesse di dare numerose spiegazioni all’apparizione di Dawn, i fan
andarono comunque nel panico, e tra un episodio e l’altro sfogarono le proprie ansie sui forum online
dedicati alla serie. a trattando Dawn come un qualsiasi personaggio fisso, e non come una new entry, la
serie ha messo alla prova la fiducia dei suoi spettatori nel mondo di finzione che hanno conosciuto e amato
per quattro stagioni, ponendo un enigma narrativo (su chi o cosa fosse realmente Dawn) che avrebbe
trovato risposta soltanto nella quinta puntata della stagione. Bisogna però ricordare che alla sua prima
messa in onda questo processo richiese un intero mese. Ma se alcuni fan pensarono che la serie fosse uscita
fuori strada, sacrificando la continuità a causa di una riorganizzazione imposta dal network, nei forum online
cominciò a rimbalzare un ritornello diffuso: «Fidatevi di Joss». Ovviamente stiamo parlando di Joss Whedon,
creatore, producer, sceneggiatore e spesso regista di Buffy: in altre parole, l’autore del testo. Quello narrato
è un caso raro, sia per lo storytelling televisivo che per la reazione da parte dei fan, ma credo sia comunque
indicativo di ciò che può rappresentare l’autorialità nell’ambito delle serie tv. Questo capitolo approfondisce
il ruolo dell’autore di serie tv attraverso l’analisi di tre aspetti correlati. Il primo risponde a una domanda su
«come funziona l’autorialità nella televisione seriale», spiega come le produzioni televisive americane di
oggi stabiliscono i parametri della creatività e affronta il contrasto tra la realtà collaborativa dei producer e
l’idea romantica di un singolo autore, incarnata dal concetto di showrunner. Il secondo aspetto riguarda il
modo in cui queste nozioni circolano nei discorsi culturali e la comprensione dell’autorialità televisiva da
parte del pubblico, argomenti affrontati attraverso un’analisi approfondita di come sta cambiando il ruolo
degli showrunner, diventati oggi personaggi pubblici e star di prima grandezza. Vedremo infine in che modo
gli spettatori si rapportano all’autorialità televisiva, considerato che per loro è fondamentale immaginare la
presenza di un autore che li aiuti a comprendere al meglio la serie.

L’autore e la produzione

La televisione che si occupa di narrazioni seriali è un mezzo notevolmente collaborativo: al processo di


produzione di ogni episodio partecipano decine di persone, rendendo quindi difficile l’attribuzione
dell’autorialità. Gli studiosi di cinema, i critici, i fan e l’industria hanno fatto a braccio di ferro per anni con

38
l’autorialità, giungendo all’idea condivisa che l’autorialità di un film vada attribuita al regista (con alcune
notevoli eccezioni), cosa che devia le nostre idee sul processo di creazione di un testo. Il regista di un film,
infatti, non può essere direttamente responsabile di ogni aspetto del prodotto finale, dal momento che
intere legioni di attori, tecnici, curatori e supervisori sono parte integrante del processo di creazione e
montaggio di suoni e immagini, per non parlare dello sceneggiatore, cui si deve una vera e propria bozza del
film, ma che difficilmente ha potere decisionale nel processo di produzione. Si pensa al regista come
all’autore di ogni singola scelta, dall’arredamento del set alla qualità della prova degli attori, fino al
missaggio del sonoro. Questo modello di attribuzione autoriale non ci dice cosa faccia davvero un regista,
ma gli attribuisce la responsabilità di una creatività in realtà collettiva: ci sono elementi di un film che non
sono stati pianificati o realizzati dal regista, ma alla fine è a lui che viene attribuita la responsabilità di averli
inclusi nel prodotto finale, generando quella che potremmo chiamare autorialità attributiva.
la forma seriale televisiva modifica la natura del processo di produzione e con essa il modo in cui viene
attribuita l’autorialità. Il bisogno di creare una serie continuativa che vada avanti per anni comporta un
processo di produzione molto diverso da quello cinematografico, che di solito è suddiviso in tre fasi: pre-
produzione (scrittura, prove e pianificazione), produzione (le riprese) e post-produzione (montaggio, effetti
speciali e missaggio del sonoro). Nel caso di una serie tv, diversi episodi possono subire questi passaggi
contemporaneamente. Questo sistema articolato richiede una supervisione che viene garantita da una o più
persone identificate con il ruolo non ben definito di «producer», e l’autorità garantita da questo ruolo ha
fatto sì che la tv venga spesso definita il «medium dei producer». In questo modello è il producer (e non il
regista) ad avere la responsabilità sulle scelte definitive che caratterizzano l’opera terminata, secondo un
modello di autorialità gestionale che richiama il ruolo di potere e supervisione di un manager.
Gli autori televisivi hanno il compito di tenere il timone di una serie continuativa, e non di un’opera
autoconclusiva, rendendo così evidente quanto possa essere importante mantenere lo stesso team creativo
e tecnico, che spesso segue la stessa serie per anni.
Negli anni Cinquanta molti dei più illustri producer erano anche i protagonisti delle loro serie più note. Per
decenni, i producer che venivano identificati almeno in parte come i responsabili di una data serie sono
stati: attori, come Bill Cosby (Fat Albert, I Robinson), Jerry Seinfeld (Seinfeld) e Tina Fey (30 Rock); registi,
come Sheldon Leonard (The Andy Griffith Show, I Spy), Michael Mann (Crime Story, Miami Vice) e James
Burrows (Cheers, Will e Grace); e producer esecutivi, al quali non veniva attribuito alcun ruolo di produzione
creativa, come Aaron Spelling (Charlie’s Angels, Beverly Hills 90210) e Quinn Martin (Il fuggitivo, Le strade di
San Francisco). Ma il ruolo principale che si è affermato negli ultimi anni, che prevede un impiego gestionale
da parte dei producer di una serie continuativa, è quello dello head writer. Se il soggetto viene opzionato, lo
sceneggiatore ne trae uno script pilota e una cosiddetta «bibbia» della serie da realizzare, che devono
nuovamente essere approvate dalla produzione e dalla distribuzione. Il processo di produzione della
puntata pilota prevede la selezione di un team formato da attori e scenografi, da un regista, e da altre figure
creative e tecniche che si occuperanno di ogni aspetto della serie. Se la puntata pilota prodotta viene
giudicata positivamente dal network o dal canale, si entra nella fase di produzione, ovvero il momento in cui
l’ideatore assembla una squadra di sceneggiatori e di producer per intraprendere il processo creativo a
lungo termine; a questo punto l’ideatore viene promosso al ruolo di producer esecutivo, assumendosi il
compito di head writer e il titolo ufficioso di «showrunner». A volte gli sceneggiatori con poca esperienza
vengono affiancati da uno showrunner esperto nella gestione delle mansioni organizzative e creative. Gli
showrunner si fanno quindi carico dell’autorialità gestionale, un po’ come fa il regista di un film: lo stesso
processo di montaggio di un episodio, ad esempio, comincia con una prima versione ad opera del
montatore, che viene poi modificata dal regista dell’episodio (in accordo con il montatore) e infine
perfezionata dal producer-showrunner, che si assume l’onere delle scelte finali. Poiché la supervisione
gestionale della maggior parte dei programmi dipende da un autore, il processo di scrittura viene
considerato più importante (per quanto riguarda la definizione del carattere della serie) del contributo dei
registi, che vengono ingaggiati più spesso come freelance a tempo determinato che come membri stabili del

39
team di produzione. La squadra degli sceneggiatori è invece molto più stabile, composta solitamente da un
numero di sceneggiatori che va dai sei ai dodici: il loro lavoro all’interno della writers’ room è considerato il
cuore pulsante della creatività di un programma. Per approfondire le differenze tra questi ruoli di
produzione prendiamo in considerazione Breaking Bad: nel corso dei suoi sessantadue episodi, la serie ha
visto alternarsi dieci sceneggiatori, con frequenza variabile nelle diverse stagioni; i registi sono invece stati
venticinque, alcuni dei quali hanno diretto soltanto uno o due episodi; cinque degli sceneggiatori hanno
diretto alcuni episodi, e tra questi c’è l’ideatore-showrunner Vince Gilligan, che ne ha diretti cinque; tre
episodi sono stati diretti dal protagonista-producer Bryan Cranston, quattro dal direttore della fotografia
Michael Slovis e undici dalla co-producer esecutivo Michelle MacLaren. Benché Breaking Bad abbia uno stile
visivo e un ritmo molto riconoscibili, il costante alternarsi dei registi ci suggerisce che questa coerenza sia
soprattutto merito degli autori e dei producer, capaci di creare un equilibrio tipico di molte delle serie tv di
oggi. Per capire come funziona l’autorialità della televisione americana è fondamentale studiare il processo
creativo che avviene nelle writers’ room. Molte writers’ room funzionano sia come attività collettive con
una gerarchia chiara, sia come collaborazioni aperte, nelle quali i contributi di tutti gli autori convergono in
un unico prodotto. Sono rari i programmi scritti da un solo autore al di fuori di una writers’ room, com’è
successo a David E. Kelley (Ally McBeal), Aaron Sorkin (The West Wing) o Mike White (Enlightened): la
sceneggiatura della maggior parte delle serie tv in prime time è stata prodotta in una «stanza». Solitamente,
prima che la stagione abbia inizio, gli autori si confrontano con i producer per qualche settimana, al fine di
pianificare lo sviluppo, gli standard e gli obiettivi della stagione, nonché la struttura narrativa. A quel punto
gli sceneggiatori la «smontano in episodi», a volte collettivamente nella writers’ room, altre volte da soli,
per definire le singole trame, i momenti clou e la struttura di ogni episodio. Da questo processo si ricava una
bozza dettagliata di ogni episodio, che viene affidato a uno sceneggiatore affinché lo trasformi in una
sceneggiatura, completa di dialoghi e descrizioni delle azioni. Di solito l’obiettivo di un autore non è quello
di scrivere una sceneggiatura che spicchi in quanto visione personale della serie, ma al contrario quello di
imitare la voce dello showrunner, mirando alla coerenza stilistica dell’insieme. Certe volte una bozza di
sceneggiatura ritorna nella stanza per verificare le reazioni degli altri autori o per essere «presa a pugni»,
oppure viene consegnata allo showrunner (o a un altro producer) per «fare un passo in avanti» verso la
versione definitiva, attraverso l’adattamento alla voce, agli standard e alla macrostoria della serie: di solito
sono gli showrunner a fare il grosso del lavoro di riscrittura. ma la costruzione e la revisione della storia di
un programma fanno parte di un processo collettivo organizzato in una distinta gerarchia gestionale.
L’episodio che va in onda è il risultato di complessi processi collaborativi, che vedono il contributo di attori,
curatori, montatori e producer, ma è lo showrunner ad assumersi la responsabilità del prodotto finale.
Benché capiti spesso che i producer sostengano di aver scritto più di quanto non abbiano fatto, molti
showrunner si guadagnano l’autorialità attributiva e gestionale prendendo un’infinità di decisioni, fino a
essere considerati la figura autoriale principale all’interno di un mezzo notevolmente collaborativo. Anche
l’ideazione di un programma ha molti aspetti organizzativi. Gli autori devono proporre i loro soggetti ai
producer esecutivi nella speranza che vengano opzionati e quindi si fanno in quattro per soddisfare le loro
aspettative, ma anche per pianificare un eventuale futuro da showrunner, grazie al quale potrebbero
ottimizzare le proprie idee. In televisione i processi creativi sono sempre influenzati dagli interessi
economici, e questi interessi concorrono a modellare una storia in ogni fase della sua scrittura. Una delle
genesi più anomale di una serie tv è quella di Lost. Anche se la maggior parte delle serie tv nasce dal
soggetto di un autore, a volte sono i dirigenti del network a ideare una serie e ad assumere degli autori che
la scrivano. È il caso di Lost. Nel 2003 il presidente della Abc, Lloyd Braun, ebbe l’idea di realizzare una serie
ispirata al film Cast Away e al reality show Survivor, imperniata quindi su alcune persone costrette su
un’isola deserta. Braun assunse Jeffrey Lieber affinché scrivesse una puntata pilota basata sulla sua idea, e
lavorò con lui allo sviluppo del progetto, ma poi lo licenziò perché insoddisfatto del risultato
(provvisoriamente intitolato Nowhere). Braun non perse l’entusiasmo ed espose l’idea a J.J. Abrams, autore
e showrunner di Alias per Abc. Abrams disse che era troppo impegnato per occuparsi da solo di quella serie,

40
ma che avrebbe volentieri collaborato con un altro autore. La Abc allora contattò Damon Lindelof, ai tempi
autore e co-producer di Crossing Jordan, che da tempo cercava di incontrare Abrams per entrare a far parte
del team di Alias. Né Abrams né Lindelof, in verità, credevano molto nell’idea. Avendo sentito dire che
Braun sarebbe probabilmente andato via dalla Abc, Abrams e Lindelof si divertirono a scrivere qualcosa di
stravagante e azzardato, ricorrendo all’uso di flashback, creando una complessa mitologia fantascientifica
legata all’isola e inseminando la puntata pilota di misteri senza una pianificazione a lungo termine.
Nonostante il tentativo di Abrams e Lindelof di creare qualcosa che difficilmente sarebbe mai andato in
onda, Braun diede il via libero alla puntata pilota, basata soltanto sulle tredici pagine di bozza e senza una
sceneggiatura completa, e per avviarne la produzione concesse persino un budget record, per i tempi, di
undici milioni di dollari. I superiori di Braun, alla Abc/Disney, non apprezzarono il progetto e usarono
quell’esosa produzione come scusa per licenziare Braun, nella primavera del 2004. Ma ormai erano stati
spesi soldi a sufficienza affinché la serie superasse il vaglio e andasse in onda, nel settembre del 2004.
Adesso, col senno di poi, sappiamo che l’anticonvenzionalità di Lost è stata un vantaggio, perché ha
comportato un esordio seguitissimo, la successiva vittoria di diversi premi e lo status di una delle serie di
culto più seguite dal pubblico mainstream. È interessante notare che Lieber è stato indicato come
coideatore di ogni episodio di Lost, nonostante dal punto di vista creativo non abbia avuto quasi niente a
che fare con la serie nella sua forma finita: quest’attribuzione è frutto del processo di mediazione del
Writers Guild of America (WGA), il sindacato a difesa degli sceneggiatori, e costituisce un aspetto legale ed
economico importantissimo per l’autorialità televisiva. Abrams smise di partecipare alla serie a metà della
prima stagione, e Lindelof convinse Carlton Cuse, suo superiore ai tempi di Nash Bridges, a subentrare come
co-showrunner al timone di quello che alla fine si sarebbe rivelato come uno dei racconti televisivi (e
transmediali) più complessi mai realizzati. Ovviamente non è facile analizzare questa attribuzione a partire
dai credits, considerato che l’episodio finale di Lost riporta ben nove producer esecutivi. Quindi: chi è
l’autore di Lost? Probabilmente la responsabilità maggiore ce l’ha Lloyd Braun, che ha avuto l’idea iniziale e
ha preso la decisione di produrre una puntata pilota rischiosa, anche se alla fine il suo nome non appare da
nessuna parte nei credits (è sua però la voce che, all’inizio di quasi tutti gli episodi, dice: «Nella puntata
precedente di Lost»). La partecipazione di Lieber sembra più legale che creativa, ma è anche vero che nel
mondo dei network entrambe le attribuzioni sono sia importanti sia redditizie. Abrams e Lindelof hanno
concepito ciò che Lost è diventato in seguito, e Cuse ha preso il ruolo di Abrams molto presto durante il
processo di produzione, collaborando con Lindelof alla scrittura di episodi e trame, e ricoprendo insieme a
lui la carica di showrunner per il resto della serie. Lost dimostra come l’autorialità di un testo serializzato
possa cambiare nel tempo, man mano che il processo di scrittura e produzione si dipana.
Prima di concentrarci sul ruolo culturale dell’autorialità televisiva, torniamo un attimo a Buffy e a Joss
Whedon. Buffy è stata ideata da Whedon sulla base di una sua sceneggiatura omonima del 1992, della
quale però il regista, i producer e gli attori hanno alterato le atmosfere, aggiungendo elementi di comedy e
sminuendo quelli tipici dell’horror. Considerato che nel cinema gli sceneggiatori hanno poca voce in capitolo
per quanto riguarda la produzione, nel 1997, per valorizzare la sua idea, Whedon decise di rielaborare il suo
personaggio e adattarlo alla televisione, più attenta agli autori, per il network emergente The Wb. Whedon
è stato lo showrunner delle prime cinque stagioni di Buffy, indicato come autore e coautore di venticinque
dei 144 episodi totali, e come regista di diciannove di essi. Benché non abbia diretto nessuno degli episodi
della quinta stagione, Whedon è stato comunque identificato dai fan come l’entità superiore al comando
creativo del programma, autore della storia e quindi unico e solo destinatario della loro fiducia o del loro
disprezzo. Per comprendere come Whedon abbia finito per incarnare la visione creativa del programma,
dobbiamo spingerci al di là del processo di produzione e comprendere in che modo viene percepita
l’autorialità in contesti culturali più ampi.

La produzione dell’autorialità attraverso il discorso

41
Il concetto di autorialità può essere connotato in diversi modi: si va dall’idea letteraria del genio che lavora
in solitudine per perfezionare il suo capolavoro a quella di un’autorità che garantisce all’opera di diffondersi
nel mondo della cultura. Data per scontata la natura profondamente collaborativa del processo di
produzione, queste idee di autorialità non fanno che semplificare il processo creativo e rischiano di negare
l’apporto di tutti coloro che compartecipano alla creazione di un programma tv. Considerare Whedon come
l’autore di Buffy non ci aiuta a comprendere in che modo la serie è stata realizzata, ma anzi ne oscura i
complessi processi collaborativi per osannare la voce di un singolo autore. Possiamo infatti considerare
l’autorialità come uno dei prodotti della programmazione televisiva, delle sue dinamiche industriali e della
sua diffusione culturale. Per comprendere l’autorialità intesa come prodotto della programmazione
televisiva piuttosto che sua origine, dobbiamo considerare in che modo le varie accezioni di autorialità sono
state forgiate dalle teorie letterarie e cinematografiche. Da sempre, l’autorialità ha avuto la funzione di un
punto di riferimento per l’interpretazione dell’opera, identificando la fonte più autorevole per comprendere
il senso e le intenzioni dell’opera. I critici cercano di capire cosa significhi un testo ricostruendo le intenzioni
dell’autore attraverso lo studio della sua biografia o un’analisi attenta del testo. secondo la critica
cinematografica una forma meno esplicita di autorialità si può desumere dallo studio dell’auteur, ovvero
analizzando la coerenza di temi e stile dell’opera omnia del regista: anche se non considera «intenzionali»
tali fattori, questo tipo di critica sostiene che i registi dedichino al proprio lavoro una cura e un’attenzione
riconoscibili e che il lavoro dei critici sia appunto quello di evidenziare gli elementi ricorrenti in una serie di
opere allo scopo di rivelare la presenza di un’autorialità.
La questione delle intenzioni dell’autore si ripresenta quando gli spettatori ricorrono al concetto di
autorialità per interpretare una determinata opera. Le teorie tradizionali sull’autorialità e sull’intenzionalità
sono state smantellate dalla nascita della critica post-strutturalista, con il famoso annuncio della morte
dell’autore fatto da Roland Barthes. Per Foucault, l’autorialità non può essere sfatata semplicemente
proclamandone la morte, perché essa è piuttosto una funzione del discorso che serve ad attribuire,
classificare, delimitare, contestualizzare, gerarchizzare e autenticare i lavori creativi. La serialità televisiva
costituisce un interessante caso studio per il modello foucaultiano della funzione autoriale: i suoi processi
creativi sono molto più collaborativi e decentrati che nella maggior parte degli altri media, e la sua
autorialità è stata occultata al pubblico per la quasi totalità della sua storia, seppellita in credits disorientanti
e ben lontana dal ruolo illustre del romanziere o del regista cinematografico. Man mano che la televisione
americana è stata rivalutata dal punto di vista estetico, negli ultimi due decenni, la funzione dell’autore è
diventata più evidente, aiutando a legittimare e irrobustire il valore culturale del mezzo attraverso una serie
di pratiche del discorso.

L’attribuzione di un programma a un autore è un fenomeno relativamente recente. Nell’epoca dominata dai


network era molto più comune che un programma fosse associato agli attori che agli ideatori: alcune serie
avevano il nome della star principale, un protagonista che si chiamava come l’attore che lo interpretava o
entrambe le cose. e soltanto pochi fan sapevano qualcosa del team produttivo alla base del programma. La
continuità tra una serie e l’altra veniva data dalla realizzazione di spinoff che seguivano i personaggi nei vari
titoli, piuttosto che promuovendo i producer o gli autori condivisi dalle varie serie. Oggi è l’identificazione
degli autori a svolgere questa funzione, allo scopo di raggiungere un pubblico comune o di rafforzare
l’identità della produzione: è significativo rilevare che inizialmente la Nbc voleva che Parks and Recreation
fosse uno spin-off di The Office, prodotto da Greg Daniels e Michael Schur, ma che poi la serie si è sviluppata
con un proprio universo narrativo ed è stata promossa come un prodotto dello stesso team creativo di Parks
and Recreation. Anche se è ancora comune che le serie siano promosse attraverso le proprie star, adesso
questa funzione può essere svolta anche dalla firma di autori affermati come Aaron Sorkin, J.J. Abrams, Alan
Ball e Shawn Ryan. Anche i producer meno noti vengono promossi, in quanto figure autoriali, grazie al
lavoro già svolto nelle writers’ room di altre serie di successo, come nel caso di Matthew Weiner (Mad Men)
e Terence Winter (Boardwalk Empire), entrambi già autori-producer dei Soprano. Quest’identificazione con
l’autorialità serve ad agevolare la comprensione del programma, e a circoscriverne attrattività, atmosfere,
42
stile e genere. Essa può inoltre aiutare una serie a conquistarsi la sua messa in onda: un network o un
canale possono contare sulla reputazione dell’autore per riuscire ad attrarre il pubblico, e i fan possono
sperare che la serie si evolva fino a coinvolgerli quanto il precedente lavoro dell’autore.
L’autorialità funge spesso da tratto distintivo, dal momento che siamo soliti collocare un’opera culturale
all’interno di una gerarchia estetica in base alla reputazione, al curriculum e al personaggio pubblico
dell’autore. Per una serie nuova queste identità autoriali fungono da marchio di garanzia e instradano il
giudizio estetico sul programma e le aspettative degli spettatori in termini di atmosfere, stile e approccio al
genere trattato. Si dà per scontato che una comedy ideata da Chuck Lorre, come Due uomini e mezzo o
Mike & Molly, avrà un umorismo sboccato e una regia convenzionale, e che attrarrà il pubblico di massa, e
che al contrario una sitcom di Greg Daniels, come King of the Hill e The Office, avrà uno stile più innovativo
e un umorismo più sagace, ma che attrarrà una fetta di pubblico più ristretta, magari in cerca di cult. Anche
se l’autorialità spesso contribuisce ai discorsi di legittimazione di una serie tv, essa non riguarda soltanto i
prodotti highbrow.
La reputazione può anche spingere le aspettative troppo in alto, col risultato che i lavori successivi di un
autore apprezzato possono essere sbrigativamente condannati per non aver soddisfatto le aspettative
generate dai suoi precedenti programmi. La critica Emily Nussbaum ha riassunto bene questa dinamica,
scrivendo della ricezione inizialmente tiepida di Treme, la serie di David Simon successiva a The Wire, e
paragonandola a «un nuovo studente che entra in una scuola in cui tutti non fanno altro che parlare di
quanto amino suo fratello maggiore». a volte capita che dei singoli autori riescano a ricamarsi intorno una
tale aura da farsi notare dai fan più irriducibili. Spesso questa riconoscibilità deriva dall’aver lavorato in altri
programmi, come nel caso dell’accoglienza riservata agli sceneggiatori di Buffy e Angel: la presenza di David
Fury e Drew Goddard nello staff di Lost, per esempio, ha dato alla serie le credenziali di un possibile cult.
Allo stesso modo, i fan di Whedon continuano a seguire l’attività di Jane Espenson nei suoi vari spostamenti,
da Una mamma per amica a Battlestar Galactica fino al Trono di spade, per quanto la Espenson lavori più
come parte di un team che come autrice a se stante. È raro che le esperienze lavorative di un autore al di
fuori della tv lo trasformino in una presenza rilevante nel comparto collaborativo della televisione: ad
esempio, dopo un iniziale exploit mediatico, la fama del drammaturgo e regista David Mamet è stata
azzerata dalla serie militare da lui creata per la Cbs, The Unit. Un successo cross-mediale è più comune nella
tv inglese, dove agli sceneggiatori di un singolo episodio è concessa maggiore libertà, dando spazio a
«sembrava voler mandare all’aria il programma».«sembrava voler mandare all’aria il
programma».collaborazioni di alto profilo, come quella del romanziere Neil Gaiman e del regista Richard
Curtis alla scrittura di alcuni episodi di Doctor Who. È raro che un singolo sceneggiatore possa imporre la
propria voce, il proprio stile e la propria reputazione in una serie a lungo termine, come successo con gli
episodi di X-Files «Previsioni» e «Dov’è la verità?», scritti da Darin Morgan: la sua interpretazione
autoreferenziale e ironica dello stile della serie fu apprezzata dai fan e procurò un notevole seguito allo
sceneggiatore, il cui approccio non emulava la voce dello showrunner, ma piuttosto, come sintetizzato dal
protagonista David Duchovny, «sembrava voler mandare all’aria il programma». L’approccio innovativo di
Morgan a X-Files ha contribuito allo sviluppo di un nucleo di fan più attenti al ruolo dello sceneggiatore di un
singolo episodio, nonché al ripetuto tentativo da parte dei fan, soprattutto nel caso di alcune serie cult, di
identificare lo stile peculiare di un singolo autore riportato nei credits. Le esperienze non televisive dei
producer possono invece aiutarci a vedere una serie sotto una luce che va al di là del giudizio estetico e
delle aspettative intertestuali. Nel caso di The Wire, il background da reporter di cronaca nera di David
Simon è sicuramente servito ad arricchire la serie di elementi di autenticità, mettendo in chiaro che il
programma era stato realizzato da gente che conosceva gli argomenti trattati per esperienza diretta. Questa
autorevolezza è stata irrobustita dalla squadra degli autori, se si considera che il solo Ed Burns è stato
detective della omicidi a Baltimora, esperto di intercettazioni e insegnante nella scuola pubblica, e che le
sue esperienze passate si sono riversate nella trama e nei personaggi della serie.
I numerosi romanzieri presenti nello staff, tra cui George Pelacanos, Richard Price e Dennis Lehane, hanno

43
contribuito a promuovere la serie al di là del circuito televisivo, grazie alla loro fama decennale di apprezzati
autori di «crime fiction urbana». La presenza nel cast di veri politici, reporter, poliziotti e spacciatori di
Baltimora, inoltre, alimenta la verosimiglianza della serie e la radica nella città reale. l’autorialità di The Wire
ha però deluso molti spettatori nella stagione finale, piena di riferimenti all’amarezza personale di Simon nei
confronti del suo precedente datore di lavoro, il Baltimore Sun, dettagli che per molti hanno compromesso
gli elementi giornalistici della trama, rendendo la storia l’occasione per una ripicca personale, piuttosto che
una parte organica della serie. In tutti questi casi, l’esperienza autobiografica dello staff del programma ci ha
indirettamente aiutato a comprenderne la finzione rappresentata, incoraggiando molti spettatori a
considerarlo un programma di giornalismo (o di analisi sociologica) che sfrutta la finzione per approfondire
le verità avvalorate dall’autorialità. La diffusione del fandom televisivo online ha permesso agli showrunner
(e ad altri operatori di produzione) di avere un rapporto più diretto e interattivo con i fan. Spesso questo
rapporto è filtrato dai giornalisti, come su siti internet quali The A.V. Club e HitFix, che pubblicano interviste
agli showrunner offrendo ai fan più dettagli di quanti ne abbiano mai avuti. Alcuni showrunner usano
regolarmente certe piattaforme online per entrare in contatto con i fan e costruirsi così un personaggio
pubblico. Uno dei primi esempi di questo tipo di interazione l’ha dato Michael Straczynski (ideatore a metà
degli anni Novanta della serie di fantascienza Babylon 5), partecipando a una conversazione online
attraverso il sistema Usenet, precedente al web; JMS (questo il suo nickname di allora) rispondeva
regolarmente alle domande dei fan, forniva spunti interpretativi e permetteva di sbirciare all’interno della
produzione. Dopo di lui pochi showrunner sono stati così attivamente presenti su internet, finché la recente
diffusione di Twitter non ha spinto molti a interagire con i fan, nonché a promuovere un proprio
personaggio pubblico, che a volte può anche dar vita a un dibattito con la stampa specializzata e con i fan
stessi. L’industria ha tratto vantaggi tali dall’aumento di popolarità degli showrunner da aver creato dei
paratesti ufficiali che contribuiscano a far conoscere una serie anche al di fuori del circuito televisivo:
speciali televisivi o video online, anticipazioni di stagioni o episodi, contenuti extra nei dvd sul backstage,
podcast e partecipazioni a eventi per i fan, come il Comic Con, concorrono al battage promozionale e ad
alimentare l’uso dell’autorialità in quanto strategia per consolidare un’identità e per facilitare
l’interpretazione della serie da parte dei fan. Molti di questi paratesti consentono agli spettatori di sbirciare
all’interno delle dinamiche di produzione. Questi paratesti ufficiali sono sempre autorizzati e controllati, e
che quindi offrono una visione approvata dagli showrunner e dalle case di produzione, e non uno sguardo
immediato sul lavoro di manodopera, sugli attriti creativi e sui problemi del backstage. Questi paratesti
hanno contribuito alla notorietà degli showrunner. Attraverso questa grande mole di paratesti, gli
showrunner interpretano due ruoli culturali spesso in conflitto: da un lato sottolineano la propria
disponibilità, parlando direttamente con i fan in gergo tecnico e rispondendo alle domande degli spettatori
con un atteggiamento amichevole ma competente, da fanboy auteur; al contempo, gli showrunner sono
visti come presenze autoritarie, che hanno in pugno le proprie storie e ne custodiscono i segreti, e che
difficilmente si lascerebbero scappare indizi o suggerimenti sugli enigmi che attanagliano da mesi gli
spettatori. Così, se da una parte i paratesti autoriali concedono un’illusione di accessibilità, dall’altra
ristabiliscono l’autorità, ribadendo con fermezza la distanza tra fan e producer.
Ogni programma e ogni showrunner costruiscono la propria personalità e il proprio modello di
coinvolgimento in modo diverso. l’autore di Battlestar Galactica Ron Moore si presenta come un autore
solitario, coinvolgendo di rado altre voci nel suo podcast a parte sua moglie, scherzosamente chiamata
«Mrs. Ron». Non si fa scrupoli ad ammettere i propri passi falsi e a rivelare le proprie competenze da
addetto ai lavori, ma ha al contempo un tono autoritario e autoriale, allo scopo di tenere ancorato il
programma a ciò che vuole davvero rappresentare. Il podcast di Breaking Bad ha un tono e un approccio
molto diversi: gestito dalla montatrice Kelley Dixon, ha come ospite fisso lo showrunner della serie, Vince
Gilligan, affiancato di volta in volta da qualcuno dello staff della serie, tra attori, autori, registi, montatori,
creatori degli effetti speciali e musicisti. L’autorialità proposta dai paratesti di Breaking Bad è molto più
decentrata, più collettiva e meno autoritaria della maggior parte delle serie con uno showrunner famoso.

44
Damon Lindelof e Carlton Cuse sono tra gli showrunner che ricorrono maggiormente ai paratesti, tra i quali
podcast, serie di video online, apparizioni pubbliche nei talk show, speciali tv dedicati a Lost ed eventi dal
vivo, come la loro presenza annuale ai Comic Con. L’alto profilo pubblico di Cuse e Lindelof è stato
necessario a distogliere l’attenzione da J.J. Abrams, che veniva erroneamente considerato il creatore di Lost
dalla stampa e dai fan. Facendo notare la propria presenza su diversi media, Cuse e Lindelof hanno ripreso il
controllo agli occhi del pubblico e promosso il proprio ruolo di autori. Hanno usato questa visibilità per
creare un’immagine ridereccia che ridimensionasse l’aura seriosa di Lost, con podcast strutturati come una
sitcom a episodi ed eventi live con scene preparate, gag e derisioni della mitologia della serie, o persino
fondendosi in un’unica identità chiamata «Darlton», sia per sottolineare la loro autorialità collettiva, sia per
richiamare giocosamente l’attività di alcuni fan volta a immaginare relazioni tra i vari personaggi attraverso
la combinazione dei loro nomi (i cosiddetti shipping names). Cuse e Lindelof sono così riusciti sia ad
assicurare ai fan che qualcuno aveva totale controllo della complessa mitologia della serie, sia a convincere
gli spettatori a godersi Lost con più leggerezza, enfatizzandone gli aspetti divertenti e il contenuto escapista,
a dispetto dell’approccio serioso che aveva caratterizzato l’attenzione e gli sforzi investigativi di molti fan.
Questo equilibrio è diventato particolarmente instabile verso la fine dell’ultima stagione, poiché i fan
pretendevano sia una chiusura sensata della mitologia sia un intrattenimento narrativo. Sono poche le
showrunner a essere diventate figure pubbliche come le loro controparti maschili, ritrovandosi a dedicare la
propria presenza online ai fan più accaniti (come nel caso di Julie Plec di The Vampire Diaries) e a essere
poco conosciute dai telespettatori, anche quando sono a capo di programmi molto famosi come CSI (Carol
Mendelsohn) e CSI: Miami (Ann Donahue), o di programmi cult come Una mamma per amica (Amy
Sherman-Palladino) e Orange Is the New Black (Jenji Kohan). Shonda Rhimes è un’interessante eccezione,
con un grosso seguito su Twitter irrobustito dalla gestione di due successi come Grey’s Anatomy e Scandal.
Tina Fey, probabilmente la showrunner più famosa della televisione, è conosciuta soprattutto per la sua
presenza in 30 Rock e al Saturday Night Live: va detto che il suo personaggio in 30 Rock, Liz Lemon, è una
showrunner competente ma non abbastanza autoritaria che fatica a guadagnarsi il rispetto del suo staff e
della produzione, quasi interamente composti da uomini. Un’altra eccezione recente è Lena Dunham, che si
è guadagnata la notorietà, tramite un’attiva presenza sui social media, in quanto star e showrunner di Girls,
anche se molte discussioni sulla sua autorialità ne attribuiscono il successo alla giovane età, ai privilegi
familiari e alla mancanza di esperienza, dimostrando come a volte le showrunner donna debbano affrontare
un certo tipo di critiche raramente indirizzate ai loro colleghi uomini. Uno dei compiti più importanti
dell’autore è quello di trasmettere autorità, padronanza e controllo dell’universo narrativo, e nella cultura
americana queste capacità sono profondamente attribuite all’uomo, fattore che rinforza l’autorità percepita
degli autori maschi a sfavore delle donne, messe in disparte sia nelle writers’ room sia nell’immaginario dei
critici e degli spettatori televisivi.

Un evento eccezionale quanto importante che ha promosso la visibilità degli sceneggiatori televisivi è stato
lo sciopero della Writers Guild nel 2007-2008; l’assenza di prodotti televisivi nuovi, dovuta allo sciopero,
attirò l’attenzione su chi era davvero all’origine della creatività seriale televisiva. Lo sciopero permise a
spettatori e fan di capire il ruolo degli sceneggiatori nei loro programmi preferiti, rendendo noti all’opinione
pubblica i processi creativi e commerciali alla base della televisione. Gli sceneggiatori, supportati da altre
figure della filiera, promossero la propria causa con appelli diretti agli spettatori, fatti attraverso video su
YouTube, lettere ai giornali e blog personali, e fu subito chiaro che erano in grado di attirarsi il consenso del
pubblico all’interno del dibattito con le case di produzione. Uno dei maggiori risultati del loro sciopero, che
servì a porre l’autorialità sotto una luce nuova, fu il musical indipendente Dr. Horrible’s Sing-Along Blog,
prodotto da Joss Whedon, un video in tre parti distribuito unicamente su internet e poi in dvd. Whedon
mandò online Dr. Horrible per sperimentare se un autore di successo poteva creare e distribuire un
programma al di fuori del sistema industriale: l’esperimento ottenne un buon successo commerciale ed è
diventato un altro dei pezzi forti del portfolio di Whedon. È interessante rilevare che nel dvd era presente
una traccia cantata (Commentary! The Musical) che dichiarava apertamente le posizioni politiche dello
45
sciopero e l’ambivalenza dei paratesti autoriali, portando avanti un discorso di costruzione dell’autorialità
attraverso un paratesto metaletterario. Anche se Dr. Horrible non ha costituito una rivoluzione della serialità
online in competizione diretta con quella televisiva (o almeno non ancora), quel video rappresenta la
possibilità degli autori televisivi di sfruttare la propria reputazione per creare circuiti alternativi di
produzione e distribuzione. Estensioni paratestuali come i podcast degli autori aiutano a capire in che modo
la serialità contribuisca all’affermarsi dell’autorialità televisiva all’interno del discorso culturale. L’intervallo
di una settimana tra un episodio e l’altro concede infatti il tempo per chiacchierare, fare ipotesi e
appassionarsi alle attività tipiche dei fan, e l’industria e gli ideatori sono lieti di riempire questi intervalli di
paratesti ufficiali che invoglino i fan a rimanere concentrati sulla serie tv. Per gli spettatori di queste serie i
podcast e gli altri paratesti ufficiali diventano un testo seriale a se stante, con le proprie norme intrinseche,
gag ricorrenti e particolari aspettative sul contenuto.
L’importanza addebitata da alcuni fan a questi paratesti ci spinge a riflettere su quanto le serie tv confidino
sull’autorialità come strumento di comprensione e coinvolgimento degli spettatori.

L’autorialità come prodotto della fruizione seriale

Qualcuno potrebbe ridurre l’autorialità a uno degli aspetti della produzione televisiva, ma l’autorialità è
anche un prodotto della ricezione, poiché è attraverso i paratesti ufficiali e le caratteristiche della serie tv
che gli spettatori si fanno un’idea virtuale dell’autore, che li aiuti a comprendere e apprezzare la suddetta
serie. Anzi, durante il processo di ricezione l’autorialità è forse persino più vivida, perché è allora che la
retorica dell’autore entra in azione, influenzando interpretazione, giudizio e coinvolgimento degli spettatori.
Ma per comprendere come ciò avvenga, dobbiamo prima appellarci alla teoria della letteratura per
analizzare il concetto di «autore implicito».
Per analizzare l’autorialità televisiva è meglio circoscrivere il campo ai due principali partecipanti al dibattito
sul concetto di «autore implicito» nell’ambito degli studi cinematografici: Seymour Chatman e David
Bordwell. Chatman sostiene che l’autore implicito sia qualcosa di distinto dall’«autore reale», e cioè
dall’uomo in carne e ossa che ha realizzato una determinata opera (letteraria o cinematografica), ma che
funga comunque da origine della creazione narrativa, in quanto «agente intrinseco alla storia cui si deve il
disegno complessivo». Nell’accezione di Chatman, l’autore implicito incarna l’intenzione dell’autore
contenuta nell’opera e viene preso come punto di riferimento dagli spettatori che vogliono interpretare il
film: quando ci chiediamo «cosa significa quel film?», stiamo cercando di capire cosa volesse comunicarci
l’autore implicito attraverso gli elementi contenuti nella sua opera (e non attraverso le sue dichiarazioni
ufficiali). nel suo modello di racconto cinematografico, Bordwell rifiuta l’uso di un autore implicito perché
secondo lui Non aggiunge nulla a un’analisi critica, che trova invece materiale sufficiente nelle stesse
tecniche di storytelling del film. Chatman e Bordwell concordano sul fatto che il testo stesso è un veicolo di
storytelling, e il loro dibattito si riduce a discutere se sia più proficuo considerarlo come un soggetto
antropomorfo o come un sistema narrativo.
Invece di chiederci se esista o meno un autore implicito innestato nel testo, dovremmo chiederci in che
modo gli spettatori usino il concetto di autorialità per aiutarsi nella comprensione di una determinata serie.
Credo infatti che molti spettatori desiderino davvero «una narrazione antropomorfa», e che a tal fine
costruiscano delle figure autoriali di riferimento che li accompagnino durante la visione. Questa costruzione
dell’autore non è già innestata nell’opera, poiché l’autorialità esiste soltanto nel momento della ricezione,
quando si innesca il discorso sul ruolo dell’autore.
Tom Kindt e Hans-Harald Müller sostengono che il concetto può influenzare l’attività della lettura, ma che gli
studi letterari tradizionali non hanno mai affrontato concretamente la questione, preferendo portare avanti
l’idea che l’intento dell’opera risieda nel testo, come sostiene Chatman. Per distinguerla da quest’uso
dell’autore implicito, identificherò la mia accezione di un’autorialità basata sulla ricezione con la definizione
di funzione dell’autore desunto. Quel «desunto» serve a sottolineare che l’autorialità non viene costruita (o
almeno non soltanto) attraverso le implicazioni testuali, ma prende corpo anche attraverso l’atto della

46
ricezione; il «funzione», nell’accezione di Foucault, implica l’importanza del contesto e della circolazione del
discorso. La funzione dell’autore desunto è la produzione, da parte degli spettatori, di un’autorialità
responsabile della narrazione del testo, basata sugli elementi del testo e sui discorsi intorno a esso.
Quando guardiamo una serie, e ci chiediamo «perché l’hanno fatta così», la funzione dell’autore desunto
coincide con l’idea che abbiamo di questi ipotetici «loro» in quanto responsabili dello storytelling. Questo
modello di funzione dell’autore desunto può essere generalizzato e adattato a tutti i media narrativi; . i
lettori, gli appassionati di teatro e i cinefili possono immaginare un autore che li aiuti a comprendere il testo
che stanno consumando. La televisione di oggi offre molti momenti metanarrativi che riescono a sollecitare
l’immersione nella diegesi e al contempo lo stupore per l’estetica funzionale. Questi momenti invitano gli
spettatori a ragionare sull’autorialità, mettendosi in cerca di indizi contenuti nell’opera e nei discorsi intorno
a essa che li aiutino a capire le intenzioni degli autori. Per gli spettatori più navigati della tv complessa la
figura dell’autore diventa essa stessa un oggetto di coinvolgimento ludico e di fandom investigativo: questi
spettatori cercano di capire cosa ci sia di vero nella reputazione degli autori, riproponendo quel modello di
consumo tipico, secondo Joshua Gamson, degli appassionati di gossip che considerano i rotocalchi come un
gioco piacevole ed elaborato. Dando per assodato che molte serie tv complesse hanno trame cospirative
e/o investigative, come Lost, 24 e Homeland, l’invito a scoprire l’identità degli autori (e quanto ci sia di vero
in ciò che dicono di fare) è già spesso integrata nella trama della serie, e ci invita a goderci la narrazione sia
seguendo la «corrente» sia «controcorrente». Anche le comedy possono innestare elementi di autorialità
direttamente nei propri testi, come avviene in programmi sperimentali quali Curb Your Enthusiasm e Louie.
Il primo ha come protagonista Larry David, co-creatore della serie tv Seinfeld, nei panni di se stesso, e ci
invita a immaginare che questo misantropico Larry David finzionale sia stato anche la voce autoriale di quel
caposaldo della comedy degli anni Novanta che è stato Seinfeld. Ogni episodio viene improvvisato dal cast
basandosi su una bozza di sceneggiatura scritta da David. Guardare la serie, soprattutto nei momenti in cui
viene descritto il processo creativo televisivo, è un’esperienza profondamente stratificata e metanarrativa,
che spinge lo spettatore a intuire diversi livelli di autorialità e identità, a tentare di scindere il Larry della
finzione dalla persona reale che è lo showrunner David, e infine a rimettere insieme queste due parti per
ritrovarsi con una funzione dell’autore desunto in continua evoluzione. Questa metanarratività diventa
protagonista nella settima stagione di Curb, quando Larry deve produrre un episodio-rimpatriata di Seinfeld
e racconta gli antefatti di quello che fu il processo creativo del programma. Come spesso accade nelle trame
di Curb, il progetto naufraga, dando vita a una scena in cui Larry assume Jason Alexander per fargli
interpretare il ruolo di George Costanza, un personaggio basato sullo stesso David: la sequenza che ne viene
fuori mostra l’attore-sceneggiatore reale David che interpreta il personaggio di Larry che interpreta il
personaggio di George, creato da David ispirandosi a se stesso. In momenti come questo è difficile
immaginare che gli spettatori non riflettano sull’autorialità in quanto parte integrante della storia.

Louie rappresenta in modo simile il proprio autore all’interno della finzione. Louis C.K. scrive e dirige ogni
episodio (e di molti si occupa persino del montaggio) e al contempo interpreta una versione romanzata di se
stesso. Diversamente dal personaggio di Larry in Curb, Louie (il personaggio) non è un producer televisivo,
ma uno stand-up comedian e un padre divorziato, come d’altronde lo stesso C.K. Sia in Louie che in Curb gli
spettatori sono invitati a indovinare quali elementi della serie siano reali e quali siano invece versioni
romanzate o invenzioni radicali dei loro autori, un quesito che diventa evidente nell’episodio «Oh,
Louie/Biglietti». L’episodio si apre con Louie che abbandona una sitcom convenzionale che sta girando
perché il programma manca di realismo e autenticità, una situazione che richiama la sitcom naufragata di
C.K. per la Cbs, Saint Louie, e al contempo sottolinea quanto Louie sia una serie anti-convenzionalmente
autentica, in parte legittimata dalla funzione autoriale di C.K. La seconda parte dell’episodio è incentrata su
Louie che entra in contatto con Dane Cook (interpretato dallo stesso Cook), il comico di successo accusato di
aver plagiato le gag di C.K. anni prima che quest’episodio andasse in onda. La scena riprende un conflitto
reale tra i due comici, e li mostra mentre sostengono ognuno il proprio punto di vista, in un dialogo
equilibrato e imparziale: spettatori e critici si sono chiesti come fosse stata creata la scena, immaginando
47
perlopiù che Cook avesse avuto partecipato alla scrittura per far sì che rappresentasse al meglio anche il suo
punto di vista. C.K. sostiene però di aver scritto da solo la scena, rifiutandosi di accettare le proposte di
correzione di Cook: «[Cook] ha seguito le mie istruzioni. Le ha lette parola per parola, come le ho scritte io.
Ed è stato bravissimo!». Secondo i tanti fan a conoscenza dei precedenti tra i due comici, quest’episodio fa
tutto tranne che chiedere di indovinare da chi sia stato scritto (soprattutto considerata l’importanza del
tema dell’originalità nella scrittura delle battute), sfumando il confine tra comici reali, personaggi di finzione
e autori televisivi. La stessa serialità incentiva la funzione dell’autore desunto, rendendo queste inferenze
più evidenti ed essenziali. La forma seriale è definita proprio dagli intervalli tra le porzioni di testo, nei quali
gli spettatori sono costretti a prendere una pausa dalla narrazione, interrompendo così la propria
immersione; questi intervalli sono anche più invadenti sui network, dove ogni episodio è a sua volta
interrotto dalle pause pubblicitarie. Lo studio delle pratiche degli spettatori rileva quanti spettatori
riempiano questi intervalli con altri modi di fruire la narrazione, a livello sia diegetico che metanarrativo,
interessandosi quindi alla forma e allo storytelling. È durante questi intervalli che la funzione dell’autore
desunto diventa più evidente, sia attraverso il discorso sull’autorialità, sia attraverso le ipotesi su ciò cui
quegli stessi autori stanno lavorando in quel momento. Questa attenzione all’autore è tipica di molte forme
seriali. Dan Harmon ha scritto un lungo post nel suo blog, rispondendo ai fan di Community che si erano
offesi per la rappresentazione stereotipata dell’omosessualità fatta nella puntata «Studi avanzati
sull’omosessualità». Nel suo «mea culpa», scritto due giorni dopo la messa in onda dell’episodio, Harmon ha
accettato le critiche, ammettendo che gli autori avevano usato i personaggi gay come «strumento» per
affrontare questioni e conflitti del protagonista, piuttosto che trattarli come personaggi a tutto tondo.
Harmon ha chiesto che il suo post venisse considerato una promessa per il futuro: «Questo post è una
specie di “ricevuta”, una prova che sono consapevole del fatto che alcuni di voi sono stati urtati, perché se io
ho investito tutto questo tempo a scriverne, voi dal canto vostro sapete che ne rimarrà traccia su internet.
Magari mi capiterà di nuovo di offendervi, ma non avverrà per le stesse ragioni, e anche in quel caso sarà un
incidente. Questa volta è successo perché ero concentrato su una storia che non aveva nulla a che fare con
l’argomento di cui stiamo discutendo. L’ho presa alla leggera». Per i fan di Community che seguivano la
presenza online di Harmon. questo tipo di dichiarazioni ha compartecipato a identificare il personaggio di
Harmon, sia come blogger che showrunner, cosa che a sua volta influenza il modo in cui gli spettatori
guardano il programma e immaginano quella funzione dell’autore desunto che li guiderà nella visione. I
programmi televisivi, come prima di loro la letteratura a puntate e i fumetti, non rendono seriale soltanto il
proprio mondo narrativo, ma anche le stesse funzioni autoriali desunte, che si evolvono e cambiano nel
tempo in seguito alle apparizioni pubbliche degli autori, al modo in cui cambiano le nostre idee su di loro e
all’interazione tra lo showrunner (inteso anche lui come un testo) e gli spettatori che fruiscono dei paratesti.
Più sono i paratesti di cui fruiamo, compresi quelli serializzati come i podcast, più facciamo nuove deduzioni
sugli autori, e ciò influisce sulla nostra fruizione della narrazione. Se concepiamo l’autorialità come un
fenomeno discorsivo, imbastito dai paratesti e da altre forme di circolazione, allora anche la funzione
dell’autore desunto diventa un fenomeno serializzato, che cambia nel tempo ed entra in dialogo con il cuore
del testo. In più, i fan sentono di aver stabilito un rapporto con gli autori desunti, così come hanno fatto con
i personaggi della serie tv: Harmon dà del tu ai suoi spettatori, prende parte a conversazioni pubbliche su
Twitter e ci invita a partecipare ai suoi ragionamenti. Attraverso questi modelli di coinvolgimento, la
funzione dell’autore desunto si sviluppa e modifica nel corso di una serie, e il rapporto tra lo spettatore e il
personaggio pubblico dello showrunner diventa un fenomeno altrettanto continuativo e fluido. l ruolo di
Harmon in quanto showrunner di Community ha dato vita a un piccolo dramma reale a puntate quando, alla
fine della terza stagione, Harmon è stato licenziato, portando molta pubblicità alla serie e spingendo i fan, i
critici e lo stesso Harmon a fare ipotesi sui motivi. Non sorprende che fan e critici abbiano considerato la
quarta stagione, gestita da nuovi showrunner, inferiore a quelle firmate da Harmon, comportando un tale
contraccolpo negli ascolti da far sì che Harmon fosse nuovamente ingaggiato per la quinta stagione. Il
temporaneo licenziamento di Harmon ne ha rafforzato l’immagine di autore desunto nella testa di molti

48
spettatori. Ammesso che lo storytelling, l’umorismo o la produzione varino davvero al variare della figura di
riferimento, la funzione dell’autore desunto serve ad attribuire qualsiasi differenza alla presenza o
all’assenza dello showrunner, piuttosto che a quella moltitudine di fattori che sono forse altrettanto
influenti. Ricorriamo all’idea di un’autorialità per fare delle ipotesi su come una determinata serie sia stata
creata, e soprattutto per capire quanto in anticipo siano state prese le varie decisioni, e poi guardiamo la
serie in cerca di indizi, usando il codice dell’autore desunto come se fosse una guida. nella seconda stagione
di Breaking Bad ci sono una serie di flash-forward, inseriti nei cold open prima dei credits di quattro episodi,
che anticipano in modo sibillino le conseguenze di un qualche evento violento avvenuto davanti casa di
Walt. Nei podcast dedicati alla serie, Gilligan e altri producer parlavano di questo enigma, facendo intendere
che sarebbe stato spiegato alla fine della stagione, alimentando così le aspettative a lungo termine e
invogliando il fandom investigativo ad analizzare testo e paratesti in cerca di indizi. Nella scena finale della
terza stagione, in un momento di disperazione, Jesse spara a Gale. La camera si muove in modo tale da non
farci vedere Gale che viene colpito, e da lasciarci il dubbio che, all’ultimo minuto, Jesse possa aver sparato
altrove. Anzi, è proprio questo movimento di camera a suggerirci che Jesse non abbia davvero sparato a
Gale. La puntata si chiude con quest’interrogativo. Nelle prime interviste successive alla messa in onda,
Gillian ha spiegato che ogni ambiguità era stata involontaria.
Non sorprende che i fan abbiano fatto le loro ipotesi, sfruttando la dichiarazione di Gilligan per supportare
le proprie teorie sul fatto che Gale fosse morto o meno. L’episodio successivo comincia, dopo una pausa di
tredici mesi reali riempiti con ipotesi e anticipazioni paratestuali, con una scena in cui Gale è vivo e sta
bene; si capisce presto, però, che si tratta di un flashback, poiché la scena successiva mostra il cadavere di
Gale sul luogo del delitto. Questa sequenza induce gli spettatori a desumere la presenza dell’autore, a
immaginarlo che gioca con le loro aspettative e che ricama sulle conversazioni paratestuali a proposito
dell’ambigua scena dello sparo. Anche se possiamo adottare l’approccio anti-antropomorfico di Bordwell e
pensare che sia «la serie» a giocare con le attese del pubblico, la notevole presenza della voce dello
showrunner nei paratesti invoglia gli spettatori a dare un volto a questa intenzionalità, collegandola a una
proiezione ipotetica della persona di Gilligan, che nell’immaginario dei fan incarna l’intero staff.
Un’altra importante funzione degli autori desunti riguarda i paratesti creati dai fan, che nell’era digitale sono
diventati sempre più diffusi e popolari. In un influente post sul suo blog Dreamwidth, l’autrice di fan fiction
che usa lo pseudonimo «obsession_inc» ha proposto di distinguere i fandom in due tipi, in base al modo in
cui si rapportano all’autorialità: fandom confermativi e fandom trasformativi. I fan confermativi si
impegnano a rinforzare la visione dell’autore (per come la intendono loro) e i contenuti narrativi canonici,
aggiungendovi dettagli tramite produzioni proprie. secondo questi fan i podcast e i blog degli autori offrono
la possibilità di sbirciare i processi creativi e di scoprire le intenzioni di un autore desunto, rendendo più
profonda la fruizione di una data serie. I fan trasformativi non considerano un’opera come qualcosa che
vada semplicemente apprezzato, ma anche come materia prima per giocare a fare i producer e creare
estensioni non ufficiali come fan fiction, fan video e altri paratesti che spesso vanno contro le ipotetiche
intenzioni dell’autore della serie. I fan trasformativi (per lo più donne) entrano invece in dialogo o in attrito
dialettico con i loro autori desunti, evitando di trattarli come dei potenti da riverire e di considerarli l’unica
origine dell’opera, atteggiamento che invece caratterizza i fan confermativi (per lo più maschi).
Nel corso di questa riflessione sulla funzione dell’autore desunto, ho cercato di capire in che modo essa
contribuisca alla comprensione piuttosto che all’interpretazione. La funzione dell’autore desunto può
sicuramente tornare utile in entrambi i casi, perché permette agli spettatori di proiettare idee politiche,
obiettivi etici e visioni del mondo su un autore immaginario che possa consentirgli un’interpretazione delle
connotazioni del programma.

Secondo Bordwell, per capire una narrazione gli spettatori non hanno bisogno di costruirsi una figura
autoriale; eppure sappiamo che sono in molti a farlo. Questo ci riporta alla richiesta che diceva «Fidatevi di
Joss»: in quella frase, Joss non era la persona in carne e ossa che aveva ideato Buffy, né il personaggio
pubblico creato dall’industria, bensì l’autore implicito costruito dagli spettatori attraverso la fruizione di
49
testo e paratesti. Gli spettatori appassionati alla narrazione di Buffy hanno affrontato i propri dubbi su
quello sviluppo narrativo invocando quella figura autoriale e autoritaria che li aveva trattati bene per
quattro stagioni, immaginando che l’autore del programma, dall’alto della sua conoscenza e del suo potere,
avrebbe fornito loro le risposte che volevano. Proprio come succede con la religione, quest’autore
onnipotente è conosciuto soltanto attraverso discorsi, testi e paratesti, e si lascia intravedere quando
sembra essere in atto qualcosa di più grande (del semplice scorrere della vita dei personaggi) e lo spettatore
spera che gli eventi visti sullo schermo non siano una sequenza casuale ma facciamo parte di un piano più
ampio. Naturalmente la fede in un piano superiore non impedisce ai credenti di pregare nella speranza di
una qualsiasi modifica: così come fanno pressione sugli showrunner affinché modifichino una serie in base
ai loro feedback, allo stesso tempo i fan sperano che i loro autori abbiano un piano che vada al di là del
«procedere a braccio».
È chiaro che molti spettatori sentano il bisogno di un creatore che abbia totale conoscenza e padronanza del
mondo narrativo della serie, in modo che nei momenti di confusione possano affidarsi a questa entità
superiore, o per contro rinunciarvi e prendere il comando, diventando così dei fan trasformativi. È l’autore
desunto a svolgere questo ruolo, ed è la nostra fede in lui a tenerci per mano durante gli intervalli seriali:
altrimenti rischieremmo di abbandonare la serie quando la storia deraglia anche solo per un attimo.
Quest’atto di fede è una forma di delega, nella quale affidiamo volentieri la nostra volontà a qualcosa di più
grande di noi nella speranza di essere ripagati: stando a tutte le pratiche della cultura partecipativa e alle
produzioni dei fan degli ultimi anni, molti spettatori hanno ancora il desiderio di ascoltare storie ben
raccontate, e non vogliono essere soltanto il ricevente di un processo produttivo. In quanto consumatori di
storie, a volte vogliamo che siano gli autori ad avere il controllo, mettendoci completamente nelle loro
mani. Se mettiamo in dubbio che gli autori sappiano ciò che stanno facendo, il nostro divertimento ne
risente, e perdiamo fiducia nella coerenza della loro visione narrativa. Le storie complesse possono
sembrare troppo elaborate per essere state scritte da un team decentrato e in balia delle contingenze, ed è
per questo che immaginiamo un’entità autoriale che tenga le redini della serie e ci rassicuri sul fatto che c’è
qualcuno al comando. La funzione dell’autore desunto costituisce un modello per l’uso pragmatico di un
creatore immaginato e onnipotente che guidi la nostra comprensione della narrazione, a prescindere dalle
caotiche realtà collaborative nelle quali le nostre storie serializzate prendono vita.

CAP 4

PERSONAGGI

Quasi tutti gli sceneggiatori televisivi affermati identificano nei personaggi il fulcro del loro processo creativo
e l’unità di misura del successo: se riesci a creare dei personaggi convincenti, è probabile che
un’ambientazione e delle sottotrame coinvolgenti verranno fuori da sé. Eppure, gli studi accademici hanno
sempre dedicato maggiore attenzione a qualsiasi altro aspetto di una narrazione. Questo disinteresse si
manifesta soprattutto quando parliamo di film e televisione, i cui personaggi vengono spesso considerati
ovvi, legati alla performance e alla fama degli attori, piuttosto che essere analizzati in quanto specifico
elemento della narrazione. Questo capitolo vuole colmare questa lacuna, approfondendo il ruolo
fondamentale dei personaggi nella tv seriale complessa, rivelando come vengono creati e come riescono a
guadagnarsi l’affetto degli spettatori. Secondo la definizione provvisoria data da Jens Eder un personaggio è
«un individuo finzionale identificabile con una propria vita interiore che esiste in quanto prodotto della
comunicazione»: in altre parole, i personaggi sono generati dal testo, ma prendono vita soltanto quando
leggiamo o guardiamo la storia di cui sono protagonisti, e vanno intesi come rielaborazioni di persone vere,
e non semplicemente come immagini e suoni su uno schermo. Questo capitolo considera i personaggi a
partire dalla loro rappresentazione all’interno del testo (contestualizzata nelle pratiche di produzione e
ricezione) e si concentra poi sulla diffusione degli antieroi in molti dei più famosi serial drama complessi.

Creazione, vincoli e concezioni dei personaggi

50
per comprendere la poetica dello storytelling televisivo è necessario considerarne la specificità del contesto,
nel quale le regole dell’industria e le pratiche di visione degli spettatori concorrono a stabilire le possibilità
creative dei producer. I personaggi televisivi nascono dalla collaborazione tra gli attori che li impersonano e i
producer che ne decidono azioni e dialoghi. La stessa performance degli attori è un atto creativo
collaborativo. Nel modello di produzione incentrato sugli sceneggiatori questa collaborazione ha luogo nella
fase di pre-produzione, nella quale avviene il confronto tra attori e showrunner. Nel cinema è il regista a
fungere da ponte tra la sceneggiatura e gli attori, aiutando questi ultimi a perfezionare le loro performance
e ad adattarle al mondo narrativo; in televisione, invece, l’alternarsi dei registi sposta questo compito nelle
mani dei producer, che di solito sono sceneggiatori, o in certi casi sceneggiatori-registi, vedi il caso di Joss
Whedon, J.J. Abrams e Vince Gilligan. A volte uno degli attori può anche ricoprire il ruolo di producer, come
Timothy Olyphant in Justified o Laura Dern in Enlightened; in altri casi gli attori hanno direttamente a che
fare con la sceneggiatura, come Ray Romano per Men of a Certain Age, Tina Fey per 30 Rock o Lena
Dunham per Girls. Gli attori possono quindi godere di diversi livelli di controllo sui personaggi che
intrepretano, e questo differenzia il formato televisivo seriale da quel modello letterario che vede invece un
solo autore, ma anche da quello cinematografico.
Questo legame tra personaggi e attori costituisce anche uno dei limiti principali del racconto televisivo, che
si palesa quando occorrono fattori extratestuali, o ciò che l’inestimabile sito internet Tv Tropes chiama «la
vita vera che scrive la trama». Anche se di solito gli attori firmano dei contratti in cui assicurano la loro
disponibilità per diversi anni, può capitare che un attore debba abbandonare il suo ruolo prima del
momento in cui lo sceneggiatore aveva pianificato l’uscita di scena del personaggio (Nancy Marchand dei
Soprano, Andy Whitfield con Spartacus). La sostituzione di un protagonista è un evento piuttosto raro per
un serial drama di prima serata, con pochi precedenti di rilievo, come New York New York (Cagney and
Lacey) negli anni Ottanta o, più recentemente, Pretty Little Liars; lo stesso evento è relativamente più
comune nelle sitcom (vedi Vita da strega e Pappa e ciccia) e ancora più comune nelle soap opera in daytime.
Dal momento che la maggior parte delle serie da prime time cerca di raggiungere un certo livello di realismo
e coerenza nella rappresentazione del proprio mondo narrativo, rimpiazzare un personaggio può portare a
risultati artificiosi, tanto quanto sottovalutare il contributo della performance dell’attore sostituito nella
creazione dell’identità del personaggio. Senza dubbio il caso più innovativo e famoso di re-casting è Doctor
Who: quando infatti nel 1966 William Hartnell decise di abbandonare la serie, dopo aver interpretato il
dottore fin dall’inizio, e cioè dal 1963, gli sceneggiatori inventarono una «clausola di fuga» per la quale il
corpo del protagonista si rigenerava in punto di morte, permettendo così ad attori sempre nuovi di
subentrare nel ruolo, in un processo che ha portato a dodici diversi dottori, almeno fino al 2014. Questo re-
casting concettuale ha permesso al personaggio sia di rimanere una costante per decenni, sia di acquistare
nuove sfumature grazie all’interpretazione di ogni attore. A parte alcune eccezioni, il re-casting tende a
sconvolgere una serie, compromettendo l’affetto degli spettatori nei confronti del personaggio, per loro
legato a un determinato attore. Molto più spesso i producer preferiscono integrare l’abbandono dell’attore
(o altri cambiamenti) all’interno del mondo narrativo: capita così che gli sceneggiatori debbano lavorare su
attori dalla disponibilità limitata, creando episodi che omettano o riducano la presenta di un dato
personaggio (Veronica Mars). Una circostanza simile si ha quando una delle attrici è incinta: in questo caso
gli sceneggiatori sono costretti a integrare la gravidanza nella vita del personaggio, come avvenuto in Lucy
ed io o, più di recente, a Jennifer Garner in Alias e a Charisma Carpenter in Angel, o devono al contrario
nascondere la gravidanza grazie ai costumi, facendo recitare le attrici perlopiù da sedute o mandando in
pausa la produzione, tutte soluzioni adottate da Parks and Recreation durante la gravidanza di Amy Poehler.
Quando invece un attore decide di abbandonare il programma, o viene licenziato dai producer, la trama
deve tenere conto di questa assenza: uno dei casi più rilevanti è stato il brusco abbandono di Due uomini e
mezzo da parte di Charlie Sheen, che ha spinto la serie a raccontare che il suo personaggio era morto,
investito da un treno. Il caso di Sheen evidenzia come a volte gli spettatori possano essere a conoscenza del
modo in cui gli eventi reali si ripercuotono sulla storia, trasformandosi in elementi paratestuali che li aiutano

51
a interpretare una serie.
La seconda stagione di Lost contiene diversi ottimi esempi di come l’evoluzione di un personaggio può
essere influenzata dagli eventi del mondo reale. La stagione presenta un nuovo gruppo di personaggi,
«quelli della coda», ovvero coloro che erano seduti in coda all’aereo e che sono precipitati in un altro punto
dell’isola. Quattro di loro riescono a unirsi al gruppo principale dei sopravvissuti, anche se soltanto Bernard
sopravvivrà oltre la terza stagione. Sia Ana Lucia che Libby vengono uccise verso la fine della seconda
stagione, e il fatto che questo colpo di scena sia coinciso con l’arresto di entrambe le attrici (Michelle
Rodriguez e Cynthia Watros), per guida in stato di ebbrezza, ha spinto gli spettatori a pensare che la morte
dei due personaggi fosse legata a questi eventi reali. I producer, però, hanno dichiarato che l’eliminazione di
Ana Lucia era stata pianificata fin dall’inizio, e che anche l’assassinio di Libby era stato deciso per enfatizzare
l’impatto del tradimento di Michael. . Il destino del quarto personaggio di «quelli della coda» è stato invece
senza dubbio deciso da fattori reali: Mr. Eko era stato infatti concepito come un personaggio importante a
lungo termine, ma a un certo punto l’attore Adewale Akinnuoye-Agbaje, che non gradiva la vita alle Hawaii,
chiese di poter lasciare la serie per motivi personali, e questo abbandono ha comportato la morte del suo
personaggio all’inizio della terza stagione, nonché alcune grosse modifiche della macrostoria. E ancora: tra
la prima e la seconda stagione il giovane attore che interpretava Walt, Malcolm David Kelley, ebbe un
vistoso aumento di statura, che gli impedì di interpretare ancora il suo personaggio, considerato il ridotto
tempo della storia trascorso tra una stagione e l’altra; si decise così di limitare le successive entrate in scena
di Walt a flash-forward o apparizioni. I fattori extratestuali possono anche concorrere a dare maggiore
importanza a un personaggio, come nel caso di Michael Emerson, la cui performance nel ruolo secondario
di Henry Gale fu così convincente da spingere i producer a mantenere il suo personaggio più a lungo del
previsto, portandolo addirittura a rivelarsi il leader degli Altri, con il vero nome Ben Linus, un personaggio
cardine che è rimasto fino alla fine della serie. In tutti questi esempi, infortuni, necessità e possibilità degli
attori hanno influito direttamente sulla narrazione, trascendendo dal piano degli sceneggiatori,
complicando il concetto di creative agency e interferendo con la comprensione degli spettatori, con
modalità possibili soltanto nella televisione seriale.

Gli attori fungono da luoghi di intertestualità, in cui lo spettatore mette insieme il ricordo dei personaggi
interpretati con ciò che sa della vita reale dell’autore, creando una combinazione che lo instrada nella
comprensione di un determinato ruolo. Questo rimando intertestuale può essere amplificato dalla
narrazione seriale, considerato che l’interesse per un attore si sviluppa nel tempo e che, tra un episodio e
l’altro, può capitare di assistere a un cambiamento della sua immagine pubblica. a. George Clooney, ad
esempio, era abbastanza sconosciuto quando debuttò in ER, nel 1994, ma col tempo ha conseguito la fama,
che ha trasformato il modo in cui veniva visto in ER e ne ha comportato l’abbandono della serie nel 1999.
Inoltre, le star portano con sé echi dei ruoli precedenti: il fatto che l’attore Alan Alda avesse interpretato il
medico pacifista di M*A*S*H, unito all’attivismo di sinistra dell’attore, ha minato il conservatorismo del
personaggio interpretato in West Wing, il senatore repubblicano Arnold Vinick, rendendolo così una figura
più gradita all’interno della sensibilità liberal del programma. La propensione di Michael J. Fox a interpretare
ruoli principali, negli anni Ottanta e Novanta, ha subito un brusco arresto quando l’attore ha cominciato a
soffrire del morbo di Parkinson: da allora è apparso in piccoli ruoli ricorrenti in serie come Scrubs, Rescue
Me e The Good Wife, finché nel 2013 non ha inaugurato una serie tutta sua, The Michael J. Fox Show, in cui
interpreta sempre personaggi che ne riprendono l’invalidità, appoggiandosi così alla conoscenza
extratestuale degli spettatori. In questi esempi, lo spettatore si avvicina ai nuovi personaggi con un cospicuo
bagaglio di rimandi (legati sia ad altre serie che alla vita reale degli attori) che lo instrada nella
comprensione del nuovo racconto e che dimostra quanto siano importanti gli attori nella costruzione dei
personaggi delle serie tv.
Parlando di cinema, Murray Smith identifica nel riconoscimento uno degli elementi principali di
coinvolgimento nei confronti di un personaggio, che avviene quando gli spettatori distinguono i personaggi
da coloro che non conseguono questo status, come ad esempio le comparse nelle scene affollate. Nelle
52
serie tv, il riconoscimento implica anche che gli spettatori distinguano i diversi ruoli all’interno della serie, i
cui personaggi sono suddivisi, in modo fluido ma significativo, in protagonisti, comprimari, camei e
comparse. Questo amalgama ha anche delle motivazioni economiche, poiché la funzione del personaggio
all’interno della storia è determinata anche da contratti, posizione all’interno dei credits, cachet e
disponibilità degli attori. A volte un colpo di scena può essere rovinato dai credits: Spike, il personaggio
preferito dai fan di Buffy, fu aggiunto al cast di Angel nella quinta stagione, ma anche se questa novità viene
svelata soltanto alla fine del primo episodio, il nome dell’attore James Marsters appariva già dei titoli di
testa, rovinando la sorpresa agli spettatori. I producer fanno di tutto per tenere fuori dai titoli di testa
eventuali indizi sui colpi di scena, ma certe scelte sono imposte dalla legge, dai sindacati e dai contratti: si
tratta di un altro esempio di come certi vincoli dell’industria possano influenzare alcune scelte creative.
La maggior parte degli spettatori conosce le regole tramite le quali le narrazioni seriali predispongono le
nostre aspettative su ciò che succederà ai personaggi. Diamo per scontato che il protagonista rimanga tale
fino alla fine e che non muoia né abbandoni la storia a meno che non intervengano fattori esterni alle
scene. Questo vale soprattutto nel caso di quei personaggi che danno il nome alla serie: non possiamo
immaginare Seinfeld senza Jerry o Dr. House senza il dottor House. Ma gli spettatori danno spesso per
scontato che anche il resto del cast principale rimarrà invariato per tutta la durata della serie, e che un
personaggio principale possa abbandonare la serie soltanto per diventare il protagonista di uno spin-off.
Nelle storie con dinamiche del tipo vita-omorte, questa consapevolezza influenza la nostra ricezione della
storia, perché partiamo dal presupposto che i personaggi siano in qualche modo invulnerabili ai pericoli del
mondo narrativo in questione. I fan più devoti sono a conoscenza di convenzioni come le red shirts (dicitura
che deriva dal primo Star Trek, in cui i personaggi vestiti di rosso erano di solito i primi a essere uccisi in una
nuova missione), che li aiutano a capire cosa aspettarsi dagli sviluppi della storia.
Una serie tv può faticare a proporre situazioni drammatiche che facciano vacillare la consapevolezza dello
spettatore per il quale è improbabile che un protagonista muoia, a prescindere dall’entità del pericolo. Un
caso particolarmente interessante è quello del Trono di spade, in cui, verso la fine della prima stagione,
viene giustiziato quello che sembrava essere il protagonista, Ned Stark. Chiunque avesse letto i romanzi (o
sentito parlarne) sapeva che Ned sarebbe morto. Eppure furono tanti gli spettatori scioccati dalla morte di
Stark, e quelli che promisero di boicottare il programma o di disdire l’abbonamento a Hbo.
Anche i romanzi creano di solito un legame con ma ci sono tantissimi precedenti di romanzi in cui muoiono i
personaggi principali, e bisogna considerare che la struttura a più livelli dei libri del Trono di spade non
faceva di Ned il vero protagonista. In televisione, però, l’incarnazione del personaggio da parte di un attore
instaura un altro tipo di legame parasociale: considerate le norme consolidate del mezzo, la posizione nei
credits (Bean era il primo nei titoli di testa della prima stagione) e la reputazione degli attori, gli spettatori si
aspettano che i personaggi principali rimangano a lungo nella serie. È significativo che uno dei pochissimi
casi in cui un personaggio principale di una serie tv muore già nella prima stagione fosse un adattamento
letterario, ed è improbabile che il programma avrebbe azzardato una mossa di questo tipo se non fosse
stata imposta dal romanzo.

Lost gioca con molte di queste convenzioni sul destino dei personaggi, tanto da aver addirittura pianificato
di concludere la puntata pilota con la morte del protagonista Jack Shephard, anche se poi la Abc si oppose,
temendo che la trovata potesse respingere il pubblico. Ma durante le varie stagioni la serie ha comunque
ucciso molti personaggi secondari, eliminando di tanto in tanto anche qualche personaggio principale in
circostanze spettacolari, come nel caso della morte eroica di Charlie alla fine della terza stagione. Lost ha
comunque mantenuto fino alla fine il gruppo di base formato da Jack, Kate, Sawyer, Locke e Hurley. Lost ha
sfidato gli spettatori a conoscenza della regola delle red shirts, spesso includendo dialoghi che
richiamassero l’arbitraria distinzione tra i personaggi centrali, dotati di un nome e artefici di azioni, e le
tante comparse che si limitavano ad annuire, nonché ricorrendo alle battute metanarrative di Hurley, la
personificazione del fan di fantascienza e fumetti. Verso la fine della prima stagione, il dr. Arzt emerge dalle
comparse senza nome, va in missione con i personaggi principali e recita battute che attirano l’attenzione
53
sulla sua uscita dall’anonimato: la sua entrata in scena si rivela però un bluff, perché il personaggio muore in
un’esplosione proprio quando sembra che stia per diventare importante, con una scelta che strizza l’occhio
alle aspettative del pubblico. Nessun episodio di Lost gioca con le aspettative sui personaggi quanto lo fa
«Exposé», una riscrittura quasi parodistica della storia dell’isola che include i personaggi di sfondo Nikki e
Paulo. Nella terza stagione, i due sono stati identificati, tramite la rivelazione dei nomi, l’assegnazione di
dialoghi e la presenza degli attori nei credits, ma entrambi hanno ben poca importanza nello svolgimento
della trama. I producer di Lost dichiararono di aver «promosso» i due personaggi per rispondere al desiderio
dei fan che volevano saperne di più sui personaggi di sfondo, ma di essersi presto resi conto che Nikki e
Paulo non potevano davvero far parte del gruppo in modo utile. «Exposé» integra così nella macrostoria
due personaggi secondari, facendoli apparire in flashback di scene già viste, ma li uccide subito dopo,
facendoli sotterrare vivi (e riportando in scena Arzt affinché li scopra). L’episodio costituisce un chiaro
esempio di estetica funzionale, perché diverte lo spettatore soprattutto in termini di storytelling spingendosi
ai confini del mondo narrativo. Secondo i fan che non hanno apprezzato questo controverso episodio, la
mancanza di continuità aveva rovinato ciò che era già stato consolidato: «Exposé» presentava nuove
informazioni su eventi già chiariti, senza che ciò contribuisse alla mitologia generale. Ma per i fan più
propensi a stare al gioco, il piacere ludico derivava proprio dalla consapevolezza che l’episodio era talmente
marginale da potersi quasi considerare non ufficiale, dirottava per gioco l’ossessione dei fan investigativi per
la coerenza e sottolineava i ruoli e le gerarchie funzionali dei personaggi.
È la stessa industria a premere affinché un programma venga associato ai suoi attori, che possono essere
usati per promuovere la serie, rappresentarne il volto ufficiale ed essere contrattualizzati per anni con un
cachet fisso. Dal punto di vista creativo, molti programmi sono a tal punto identificati con i loro protagonisti
che per i producer è una sfida rimpiazzarne uno senza perdere spettatori: questo vale soprattutto per le
comedy, nelle quali sono proprio le dinamiche di gruppo a caratterizzare il programma ed è quindi facile che
la sostituzione o l’aggiunta di un personaggio creino problemi. Ma anche nel caso dei serial drama, per
quanto complessa o raffinata possa essere la trama, ad attrarre gli spettatori è l’insieme degli attori
principali, come dimostra il fallimento di serie come FlashForward, The Event o Reunion, dipeso
dall’incapacità di creare dei personaggi abbastanza convincenti da tenere in piedi le rispettive trame. Gli
ampi cast delle soap opera in daytime mantengono la propria stabilità assicurando la presenza di personaggi
che possono anche vivere per tutta la vita all’interno del programma, rispecchiando il tempo reale dei
telespettatori, mentre altri personaggi possono tranquillamente andar via o subentrare (o essere sostituiti).
I procedural drama a episodi sono i programmi che modificano più spesso il proprio cast: serie di lunga
durata come Law and Order e CSI possono rimpiazzare i loro personaggi anche con una certa frequenza.
Queste sostituzioni sono meno dannose che altrove, dal momento che le trame dipendono dal caso della
settimana. Anche in questi procedural gli spettatori si affezionano ai personaggi, e questo spinge i producer
a mantenerli per molti anni o a creare spin-off.

Uno dei motivi principali che spingono gli spettatori a seguire un programma è l’instaurarsi di un rapporto a
lungo termine con i suoi personaggi. La definizione di questo tipo di coinvolgimento si trova in una ricerca
sulla comunicazione di massa negli anni Cinquanta, ed è: interazioni parasociali. Non dobbiamo dare per
scontato che un eccessivo affetto nei confronti di un personaggio sia qualcosa di malsano, ma dobbiamo
considerarlo piuttosto un elemento basilare della narrazione: se ci lasciamo trasportare da una narrazione è
proprio per ricavarne un’esperienza emotiva più intensa. Murray Smith propone un’analisi dettagliata di
questo tipo di coinvolgimento, identificandolo con un processo circoscritto nel tempo che ci spinge a
immaginarci come parte della finzione, piuttosto che a ragionare sul confine tra realtà e finzione. Il metodo
di Smith rivela come i film ci invoglino a riconoscere, preferire e supportare determinati personaggi, e
merita pertanto di essere adattato alle peculiarità delle serie tv.

Guardare una serie tv è un processo a lungo termine, che si protrae nel tempo e comprende vari intervalli. Il
coinvolgimento dello spettatore nei confronti del personaggio persisterà inevitabilmente durante questi

54
intervalli, perché i fan devoti penseranno al personaggio e ne parleranno, immagineranno cosa potrebbe
fare al di là dell’ultimo episodio guardato, e magari gli dedicheranno delle estensioni paratestuali, come fan
fiction, finti account su Twitter o montaggi amatoriali di qualche scena. Per riempire gli intervalli seriali si
può ricorrere anche ai paratesti ufficiali, come blog gestiti dagli stessi personaggi, forum, podcast, interviste
e merchandising. Nel caso della televisione, queste interazioni parasociali sono alimentate dalla modalità di
visione tipicamente casalinga, che porta letteralmente i personaggi a casa nostra, spesso per visite regolari
pianificate nel corso degli anni. I fan matureranno spesso un affetto viscerale nei confronti dei personaggi.
Di norma la maggior parte degli spettatori si appassiona in modo spensierato, tratta il mondo narrativo
«come se» fosse reale e prova emozioni genuine verso ciò che sa essere una finzione. Gli spettatori possono
anche immaginare di instaurare con i personaggi rapporti di vario tipo, ma capita più spesso che si
appassionino ai rapporti che potrebbero nascere all’interno della finzione. Una delle attrattive più comuni
delle serie tv è il cosiddetto shipping, termine derivato da relationship che identifica il desiderio dei fan di
veder nascere una relazione tra divi o personaggi di finzione; il termine è entrato in uso alla fine degli anni
Novanta, quando i fan di X-Files facevano il tifo per (o contro) una possibile relazione tra Mulder e Scully. Gli
spettatori si appassionano alla vita dei personaggi al di là delle storie d’amore, spesso facendo il tifo affinché
trionfino o falliscano negli affari, nel crimine o in altre attività, o sperando che vivano grandi novità positive
insieme ad amici e familiari. L’interesse degli spettatori nei confronti dei personaggi va al di là del mondo
narrativo, fino a riversarsi sui meccanismi del racconto: i fan possono sperare che un personaggio
secondario si guadagni più tempo dello schermo o che un personaggio principale appaia meno, così come
possono immaginare possibili spin-off o crossover tra le varie serie. Questi aspetti del coinvolgimento
seriale testimoniano quanto sia importante il rapporto univoco tra spettatori e personaggi televisivi. Questi
legami tra spettatori e personaggi sono spesso riassunti con la parola identificazione, ma io concordo con
Murray Smith nel considerare questa definizione inadeguata a descrivere la complessità del processo di
visione: gli spettatori non pensano che i personaggi siano lì per loro, né immaginano di essere essi stessi dei
personaggi. Secondo Smith il coinvolgimento degli spettatori nei confronti dei personaggi può essere di tre
tipi: il riconoscimento, l’allineamento e l’attaccamento Il concetto di allineamento (definito dallo stesso
Smith) può aiutarci a spiegare il legame che gli spettatori provano nei confronti dei personaggi, sia
all’interno del mondo narrativo sia dal punto di vista parasociale.
L’allineamento è costituito da due elementi principali: l’affiancamento, in cui seguiamo le esperienze di
alcuni specifici personaggi, e l’accesso a stati d’animo, ragionamenti ed etica personale. Nelle serie di lunga
durata, l’affiancamento è una variabile fondamentale, perché il nostro legame con i personaggi può mutare
da un episodio all’altro e perché quasi tutte le serie ispirano diversi attaccamenti all’interno del nucleo dei
personaggi: l’affiancamento più esclusivo della finzione televisiva potrebbe essere Dragnet, in cui il racconto
di Joe Friday imita la forma del rapporto di polizia, circoscrivendo ogni scena a ciò che il protagonista ne sa
per esperienza diretta. Anche i singoli episodi di una serie possono ridurre l’affiancamento a un solo
personaggio, come nella puntata pilota di Veronica Mars; quest’approccio però si estende inevitabilmente
nel corso della serie, sia per ragioni pratiche (è sconveniente imporre a un attore di essere presente in ogni
scena), sia per invogliare gli spettatori a legarsi anche agli altri personaggi. Una serie propone di solito un
ampio gruppo fisso di personaggi, cui gli spettatori si affezionano, in modo variabile. questi attaccamenti
servono a rinforzare l’impressione che la serie sia più allineata al suo insieme che ai singoli personaggi. In
The Wire, una scena può incentrarsi su un solo personaggio tra le decine di personaggi identificati, e la
sequenza con i titoli di testa della puntata mostra persone non identificate che svolgono ruoli tipici della
serie, come poliziotti, spacciatori e portuali, senza che vengano promossi a personaggi riconoscibili. Il
numero elevato di potenziali attaccamenti trasforma così Baltimora in un luogo coinvolgente che funge da
personaggio principale, al quale siamo allineati nel suo insieme, e alla cui interiorità possiamo accedere
attraverso i numerosi abitanti.
L’affiancamento è particolarmente importante per i serial, considerato che trascorrere del tempo in
compagnia di alcuni personaggi alimenta le interazioni parasociali, e più tempo trascorriamo con loro

55
maggiore è il nostro consumo di paratesti al di fuori del momento della visione. Le strategie di
affiancamento di una serie possono dirci molto delle sue norme intrinseche: in tal senso Lost è un ottimo
caso studio, poiché incentra molti episodi su un solo personaggio, proponendone i flashback (nelle prime
tre stagioni), i flash-forward (nella quarta stagione), i viaggio nel tempo (nella quinta stagione) e i flash-
sideways (nella sesta stagione); i fan definiscono questo tipo di episodi come «-centrici». Gli episodi «-
centrici» di Lost hanno di solito delle scene in cui il personaggio centrale non compare, ma queste di solito
hanno luogo nel «presente» dell’isola. Questi episodi hanno lo scopo di permettere allo spettatore di
conoscere meglio determinati personaggi, offrendogli un accesso al loro passato (o futuro) e alla loro
coscienza, raccontati attraverso l’accumulazione di frammenti. Alcuni episodi violano queste norme, dando
spazio a più personaggi, concentrandosi per esempio sulla coppia Sun e Jin, o facendo a meno della
struttura basata sui flashback, come l’episodio «Gli altri quarantotto giorni», che propone un resoconto
lineare degli eventi accaduti sull’isola, giustificato nella finzione dal bisogno di informare i sopravvissuti della
sezione di coda. L’uso complesso ma metodico che Lost fa dell’affiancamento ci permette di conoscere più a
fondo alcuni personaggi, e al contempo propone stimolanti varianti dello storytelling della serie.

Secondo Smith l’allineamento consiste nel trascorrere del tempo con i personaggi cui si è affezionati e
nell’accedere al loro stato d’animo. Cinema e tv, al contrario, ci comunicano gli stati d’animo attraverso
l’accumularsi di segnali esteriori che possiamo vedere o sentire: l’aspetto, le azioni, i dialoghi e qualsiasi tipo
di segnale sottolineato dalla narrazione. È inevitabile che gli spettatori facciano ipotesi sullo stato d’animo
dei personaggi, ricostruendone i pensieri attraverso un processo intuitivo. Ad esempio, in The Wire, la scena
ricorrente in cui Cedric Daniels lancia un’occhiataccia a Jimmy McNulty è uno di questi segnali, che noi
interpretiamo come uno sguardo di rimprovero e che ci fa immaginare che Daniels stia pensando: «Non
posso credere a quello che ha appena fatto». In televisione non ci sono avverbi, per cui il programma non
può semplicemente dire che Daniels sta guardando McNulty severamente, ma deve comunicarne lo stato
d’animo allo spettatore attraverso dei segnali. Quest’interazione tra segnali esteriori espliciti, stati d’animo
ipotizzati e dinamiche serializzate è parte del processo cognitivo di visione.

Alcune serie permettono un accesso maggiore alla soggettività dei personaggi, grazie ad esempio alla voce
fuori campo o alle scene immaginate tipiche di Scrubs. Anche se può sembrare di avere pieno accesso ai
pensieri di J.D., questi momenti di interiorità manifesta contengono comunque dei vuoti che sta a noi
riempire tramite gli stessi processi che attuiamo guardando serie prive di tecniche narrative soggettive. Per
esempio, nell’episodio della prima stagione intitolato «Il mio lato cattivo», la voce fuori campo di J.D.
interrompe una conversazione con il dottor Cox dicendo: «Ricorderò sempre quel momento come il primo
“grazie” del dottor Cox». È quindi il dottor Cox a parlare, con una battuta sarcastica: «Ehi, mister sensibile, lo
sa la mammina che non torni a casa stasera?» Ma la voce fuori campo di J.D. procede come se niente fosse:
«Che sensazione». Gli spettatori devono intuire fino a che punto il disperato bisogno di affermazione di J.D.
lo porti a ignorare il sarcasmo di Cox, fino a che punto Cox stia esprimendo indirettamente il proprio
apprezzamento e fino a che punto lo stesso J.D. possa essere sarcastico, prendendo a sua volta in giro Cox. Il
nostro processo di comprensione della narrazione ci spinge comunque a fare ipotesi su cosa il personaggio
stia davvero pensando e provando, al di là di quanto la sua interiorità sembri già rappresentata dallo
storytelling.

Intuire l’interiorità di un personaggio è una delle attrattive principali di molte serie, un processo che Blakey
Vermeule sostiene sia fondamentale per capire come e perché siamo coinvolti dai personaggi. Vermeule
sostiene che la narrazione ci invita ad accedere allo stato d’animo dei personaggi attraverso un processo di
lettura della mente, tramite il quale sondiamo i pensieri e le emozioni altrui: la narrazione ci mette a
disposizione un laboratorio in cui possiamo esplorare la mente degli altri meglio di quanto non si possa fare
nella realtà. La lettura della mente è efficace soprattutto per quello che riguarda l’attitudine dei personaggi
nei confronti delle altre persone, ed è per questo motivo che una serie con un gruppo fisso di personaggi
che interagiscono tra loro può rivelarsi un terreno particolarmente fertile per analizzare l’interiorità. I
56
personaggi ai quali ci allineiamo di più, e sui quali investiamo maggiormente, sono di solito quelli con i quali
passiamo più tempo, e che mostrano gli stati d’animo più interessanti, creando un equilibrio tra accessibilità
e complessità che ci trasforma quasi in veggenti.
Una delle attrattive della tv complessa è il coinvolgimento in una sorta di giocosa investigazione, e la lettura
della mente di personaggi sfaccettati è terreno fertile per questo tipo di pratica. Dedicando tempo e
attenzione a una serie a lungo termine, gli spettatori maturano una conoscenza dei personaggi che
permette loro di ipotizzarne l’interiorità, soprattutto durante gli intervalli tra gli episodi, quando non ci
rimane che pensare a ciò che abbiamo visto e riflettere sul nostro rapporto con i personaggi. Il nostro
allineamento con i personaggi cambia senza dubbio nel corso della serie, ma è possibile che siano i
personaggi stessi a cambiare?

I personaggi seriali e la loro possibilità di cambiare

Gli spettatori delle serie tv si appassionano a un sistema duraturo e dinamico. Identifichiamo i personaggi
non soltanto in quanto parte di un gruppo definito, ma anche di episodio in episodio, tra intervalli di varia
durata, in termini sia di tempo dello schermo che di tempo del racconto. Una delle strategie più comuni per
tenere vivo questo riconoscimento è quella di far menzionare nei dialoghi i nomi, i rapporti e le identità dei
vari personaggi, al fine di aiutare il pubblico a orientarsi. I programmi che evitano questi rimandi nei
dialoghi, come The Wire, sono spesso considerati disorientanti e privi di elementi di riferimento. Ma a un
livello più astratto, come facciamo a riconoscere un personaggio che è cambiato dalla prima all’ultima
stagione? Si tratta della stessa persona finzionale, o è per caso cambiato a un livello più intrinseco?
La maggior parte dei personaggi televisivi è più stabile e coerente di quanto si immagini. Con ciò non voglio
dire che questi personaggi non vivano eventi, traumi e conflitti che ne forgiano la personalità: senza dubbio,
nel mondo iper-drammatico della finzione, la maggior parte dei personaggi seriali vive una quantità
inverosimile di eventi di questo tipo. Una caratteristica fondamentale della serialità è l’accumulo degli eventi
narrativi nella memoria e nell’esperienza dei personaggi. Ma anche quando sono posti davanti a eventi
sconvolgenti, i personaggi televisivi rimangono perlopiù delle figure stabili, e appunto accumulano queste
esperienze piuttosto che farsi cambiare da esse. Così lo spiega Roberta Pearson:

Nel corso di una serie di lunga durata, il regolare accumularsi di elementi e dati biografici apparentemente
secondari può produrre personaggi molto elaborati. Ma un personaggio molto elaborato non è
necessariamente un personaggio ben sviluppato [...] Secondo i critici letterari e cinematografici, lo sviluppo
di un personaggio richiede che il personaggio invecchi, acquisti maggiore autoconsapevolezza e prenda
decisioni che gli cambiano la vita. Ma la natura ripetitiva delle serie tv impone ai loro personaggi una
condizione di relativa stabilità, perché se questi personaggi non adempiono alla loro funzione narrativa, o
interagiscono con gli altri in modo diverso da quello previsto, c’è il rischio di compromettere seriamente i
presupposti di tutta la serie [...] Riferendosi alla televisione, è quindi più corretto parlare di accumulo e
profondità dei personaggi che di vero e proprio sviluppo. In tal senso, le serie americane di lunga durata
possono creare personaggi più elaborati, in termini di accumulo e profondità, di qualsiasi altro medium
contemporaneo.

Ci sono sicuramente delle eccezioni, nelle quali i personaggi si evolvono in senso stretto. Per comprendere i
cambiamenti dei personaggi, dobbiamo considerare il terzo dei fattori di coinvolgimento nei loro confronti
postulato da Smith: l’attaccamento, derivato dalla valutazione morale dei personaggi cui siamo allineati,
perché è in base all’empatia nei loro confronti che decidiamo di appassionarci alle loro storie.
Dal momento che l’interiorità è un’area ad accesso limitato, dobbiamo basarci su elementi esterni per
ipotizzare la moralità di un personaggio, elementi come l’aspetto, il comportamento e l’interazione, nonché
osservare il modo in cui gli altri personaggi gli si rivolgono. Quando fa combaciare lo sviluppo del
personaggio con «una maggiore autoconsapevolezza» e con le «decisioni che gli cambiano la vita», Pearson
si riferisce ai cambiamenti che riguardano la morale interiore del personaggio e che, secondo Smith,

57
incentivano l’attaccamento. In una serie tv, la maggior parte di questi cambiamenti sono più modifiche
temporanee del comportamento che vere e proprie trasformazioni della moralità, che potrebbero invece
influire negativamente sul nostro attaccamento. Di conseguenza, nell’analisi della stabilità e dei
cambiamenti, bisogna tenere d’occhio quei segnali che rivelano una modifica dell’attaccamento da parte
dello spettatore, che può essere motivata da un mutamento delle azioni esterne o da quello dei pensieri e
dei sentimenti. Ma poiché possiamo accedere all’interiorità soltanto attraverso indicatori esterni, i
mutamenti dell’attaccamento nei confronti dei personaggi devono anch’essi manifestarsi esternamente.
Sono diversi i segnali esterni che possono farci intuire un cambiamento nell’interiorità di un personaggio: un
taglio di capelli nuovo o un vestiario atipico, ad esempio, possono rivelare un cambio di idea o di attitudine.
Anche i dialoghi possono segnalare un cambiamento, sia che a parlare siano gli stessi personaggi («Sono
cambiato!»), sia che lo facciano altri («È cambiato»). Ovviamente, dialoghi, vestiti e aspetto possono
indicare soltanto un cambiamento superficiale, oppure il tentativo del personaggio di cambiare. È
necessario che gli stati d’animo dei personaggi complessi siano confermati da tutta una serie di segnali
esteriori, e solitamente a tal fine le azioni sono più eloquenti del dialogo. Per esempio, alla fine della prima
stagione di Homeland, l’agente della Cia Carrie Mathison va incontro a un esaurimento nervoso che
avevamo già previsto, avendo saputo dalla puntata pilota che Carrie è affetta da disturbo bipolare e
avendola vista interrompere le sue cure a metà stagione. Nel pieno della crisi, Carrie sostiene di stare bene,
ma la recitazione di Claire Danes ci dice il contrario, considerato che noi siamo allineati al suo collega Saul
nel tentativo di capire quanto Carrie abbia perso il contatto con la realtà. Saul alla fine trova una risposta, e
noi con lui, quando scopre l’enorme collage di ritagli di giornale, assemblato in modo maniacale: più di
qualsiasi altro segnale, questa testimonianza conferma la stato disturbato di Carrie e rinforza il nostro
attaccamento nei suoi confronti, perché è proprio la sua follia a permetterle di risalire alla verità su un
complotto terroristico. Nel tentativo di comprendere l’interiorità dei personaggi, prendiamo in esame
soprattutto le loro azioni, indirettamente consigliati dal modo in cui gli altri personaggi interagiscono con
loro; attraverso azioni e reazioni stabiliamo a quanti e quali personaggi vogliamo essere dediti. Il nostro
attaccamento immutato nei confronti di Carrie, nonostante la sua crisi, ne ridimensiona il cambiamento:
Carrie è pur sempre motivata da nobili intenti e da un’etica coerente, anche se il suo comportamento è
radicalmente diverso da quello iniziale; inoltre, siamo sicuri che questo cambiamento sia temporaneo e che
Carrie recupererà la stabilità grazie a una terapia psichiatrica.
Uno dei cambiamenti più significativi si ha quando i personaggi cambiano idea su se stessi e sulla propria
situazione, cosa che non può essere rappresentata semplicemente attraverso un cambiamento di
comportamento. Carmela Soprano è un ottimo esempio di un personaggio che tenta ripetutamente di
cambiare esternamente, instaurando nuovi rapporti, inseguendo una carriera, modificando il proprio
aspetto o persino lasciando suo marito; nessuno di questi cambiamenti, però, sembra alterare più di tanto il
suo personaggio, e alla fine Carmela torna sempre alla sua condizione iniziale. Eppure, nel corso della serie,
si ha l’impressione che la donna abbia imparato qualcosa a proposito di se stessa, e che abbia cambiato
mentalità, scendendo a patti (dopo una serie di traumi) con l’ipocrisia del proprio stile di vita e con il lavoro
di Tony, e accettando il senso di colpa per il fatto di trarre vantaggi dalla violenza da lui esercitata.
Percepiamo questo cambiamento dalle lievi variazioni della prova attoriale di Edie Falco (il modo in cui
guarda la gente e le cose, le sue reazioni emotive più mature nei confronti della azioni di Tony), in contrasto
con l’assenza di crescita e maturazione degli altri personaggi. Inoltre, riempiamo i momenti di silenzio di
Carmela con uno stato d’animo desunto da ciò che sappiamo del personaggio, immaginando un monologo
interiore che mette insieme gli eventi narrativi vissuti con lei, in un processo che approfondiremo più avanti.
Difficilmente i personaggi mutano significativamente, mentre è la nostra comprensione dei personaggi a
farlo, un cambiamento narrativo che potremmo definire elaborazione del personaggio, riallacciandoci alla
distinzione fatta da Pearson tra personaggi elaborati e sviluppati. Questo modello di cambiamento sfrutta la
forma seriale per rivelare gradualmente, e col passare del tempo, alcuni aspetti di un personaggio, in modo
che queste sfaccettature appaiano al pubblico come novità, nonostante si tratti di attributi coerenti al

58
personaggio, che a conti fatti non lo modificano. La struttura a flashback di Lost sfrutta la forza
dell’elaborazione del personaggio, poiché ogni episodio rivela elementi del passato che ci fanno vedere i
protagonisti sotto una luce diversa. Considerato che lo spettatore valuta i cambiamenti dei personaggi in
base all’attaccamento che prova per loro, fornirli di un passato elaborato può far apparire dinamica una
figura statica, lasciando che sia il cambiamento dell’idea che ne abbiamo a creare l’illusione che il
personaggio stia cambiando. Questa illusione di cambiamento non riguarda soltanto gli spettatori, ma si
verifica persino più spesso nei rapporti tra i vari personaggi, considerato che la dinamica più mutevole è il
modo in cui interagiscono l’uno con l’altro, tra relazioni, amicizie, alleanze, conflitti e tradimenti.

Robert Allen sostiene che le soap opera da daytime si basino sull’effetto a catena che si innesca all’interno
della rete di relazioni tra i personaggi, e fa notare come i singoli cambiamenti di comportamento si
ripercuotano sull’insieme, influenzando così la visione che gli spettatori hanno dei personaggi. Nelle serie tv
da prima serata, che durano molto meno delle soap, queste reti di personaggi sono di solito più compatte e
meno elaborate, ma costituiscono comunque un elemento centrale per il coinvolgimento degli spettatori,
poiché alimentano l’impressione che i personaggi siano dinamici attraverso i cambi di comportamento degli
altri personaggi nei loro confronti. Per esempio, il Ben Linus di Lost è un personaggio complesso e
coinvolgente, ma non cambia molto nel corso della serie; a cambiare è la nostra predisposizione nei suoi
confronti, quando il personaggio diventa più elaborato grazie alle rivelazioni dei flashback, ma anche di
conseguenza al cambiamento di atteggiamento degli altri personaggi nei suoi confronti, che va dalla paura
all’ostilità, per poi trasformarsi in pietà e infine in disprezzo. In molte serie, guardiamo personaggi
abbastanza stabili che interagiscono per instaurare rapporti dinamici, e queste interazioni fungono da
surrogati di quegli sviluppi che la stabilità interiore dei personaggi non può offrirci.
Ci sono dei casi in cui vediamo effettivamente i personaggi che cambiano e per descrivere questi esempi un
vocabolario più specifico può aiutarci a distinguere tra i vari tipi di evoluzione:

1. Un modello comune è la crescita del personaggio, che richiama un processo di maturazione grazie
al quale il personaggio è sempre più realizzato e completo. Non sorprende che questo tipo di
evoluzione sia più comune nei personaggi giovani: la loro maturazione fisica ed emotiva si adatta
bene a un racconto di formazione. Gli spettatori sanno fin dall’inizio che i personaggi giovani non
sono pienamente formati, e si aspettano che il racconto ce li mostri mentre passano dalla
tumultuosa gioventù all’età adulta. È per questo che molte serie complesse sono incentrate su
personaggi giovani (come Buffy, Veronica Mars, Una mamma per amica e Friday Night Lights), li
considerano un insieme a se stante (come Six Feet Under, Il trono di spade e Arrested Development)
o li usano per sottolineare, per contrasto, la stabilità degli adulti (come nei Soprano e in Mad Men).
Anche quando un personaggio non è giovane, la sua evoluzione può riprendere le dinamiche di una
formazione giovanile, come nel caso di Bubbles che supera la dipendenza dalle droghe, in The Wire,
o del protagonista di Chuck, che si adatta al mondo dello spionaggio, o ancora dei personaggi di
Heroes che imparano a usare i propri poteri. In quasi tutte queste serie, i personaggi che vivono
questa crescita sono contrapposti alla stabilità degli adulti, sottolineando così quanto il
cambiamento di un personaggio sia lontano dall’essere universale.
2. L’educazione del personaggio per cui, già adulto, impara una lezione importante e, alla fine della
serie, è diventato una persona nuova.
Questo tipo di educazione si esaurisce di solito all’interno di un unico episodio: molte sitcom e molti
serial drama ci mostrano personaggi che imparano qualcosa su se stessi e che promettono di
cambiare; di rado, però, gli effetti di queste lezioni permangono, perché la natura episodica delle
narrazioni convenzionali in prima serata richiede che si torni ogni settimana allo status quo. In Lost,
un esempio di educazione del personaggio a lungo termine è costituito da Jack Shepard. La serie
mostra la sua graduale accettazione dei fenomeni irrazionali, e il suo scendere a patti con la perdita
di controllo, un’evoluzione che gli permette alla fine di compiere il suo destino e di salvare l’isola e i

59
suoi amici. Allo stesso modo, in The Wire, all’inizio della serie Carver è un mediocre poliziotto che
truffa il suo capo e affronta i pericoli senza titubanze, ma in seguito lo vediamo imparare dai suoi
errori e seguire gli insegnamenti di Daniels e Colvin affinché diventi un «bravo poliziotto». Di solito
queste evoluzioni educative sono in contrasto con gli altri personaggi, i quali al contrario non
imparano le lezioni in questione, o perché sono incapaci di cambiare (come Herc, il partner di
Carver), o perché le conoscono già (come John Locke, l’avversario di Jack); tutto ciò enfatizza le
stesse lezioni tematiche e spinge gli spettatori ad allinearsi ai personaggi che sono in grado di
adattarsi e migliorare. Né Jack né Carver vivono grandi cambiamenti morali, poiché sono entrambi
fin dall’inizio relativamente buoni e devono al massimo imparare a superare i propri limiti, e di
conseguenza il nostro attaccamento nei loro confronti non varia in modo significativo nel corso della
serie. Questo tipo di educazione del personaggio è molto comune, nelle serie di lunga durata, nei
personaggi che accettano la propria esistenza, che vengono a patti con il passato o che imparano
qualcosa che ne cambia il comportamento: ma in tutti i casi, questo tipo di evoluzione lascia
immutati sia la moralità del personaggio sia il nostro attaccamento.
3. Revisione del personaggio. Si ha quando un personaggio subisce un cambiamento improvviso,
spesso legato a una situazione sovrannaturale o fantastica che genera trasformazioni fisiche o cloni,
e noi spettatori conserviamo il ricordo degli eventi e dei rapporti precedenti al mutamento. Esempi
sono Locke in Lost, Francie in Alias, Starbuck e Sharon in Battlestar Galactica e Olivia in Fringe. Buffy
e Angel ricorrono frequentemente alla revisione del personaggio, spesso soltanto per la durata di
un episodio, nel quale può succedere che un personaggio venga posseduto da un demone, scambi
corpo con qualcun altro, affronti un doppelganger, subisca un’amnesia, venga trasformato in un
pupazzo o comunque «revisionato» temporaneamente in qualche altro modo. Alcuni di questi
cambiamenti durano di più, trasformando determinate revisioni in elementi centrali del carattere
del personaggio. Angel è un esempio perfetto, in tal senso, perché è un vampiro con l’anima, ma sia
in Buffy che in Angel può trasformarsi in Angelus, una macchina omicida senz’anima. Il ricordo
dell’anima di Angel, però, persiste sia per gli spettatori che per gli altri personaggi, e questo ci
spinge a vedere nelle azioni di Angelus un livello di complessità morale che manca allo stesso
vampiro indemoniato. Una trasformazione ancora più lunga si ha nella quinta stagione di Angel,
quando Fred è stata irreversibilmente trasformata in Illyria. Il contesto fantasy consente
trasformazioni estreme di un personaggio, in contrasto con la stabilità degli altri, sia che si tratti di
una revisione temporanea, sia che si abbia a che fare con un mutamento a lungo termine che
enfatizza ciò che è andato perduto del personaggio originario.
Le revisioni dei personaggi permettono di giocare con il riconoscimento, confondendo gli spettatori
(e gli altri personaggi) riguardo a quale delle due versioni del personaggio sia in scena in
quell’istante. Questi scambi di identità sono spesso parte integrante della storia, poiché la versione
revisionata può trarre in inganno gli altri personaggi, come succede con la versione di Olivia
chiamata Fauxlivia, in Fringe, che manipola i suoi colleghi passando da una dimensione all’altra. In
queste sottotrame gli spettatori sono solitamente al corrente dell’inganno, e ciò alimenta la
suspense in attesa del momento in cui la verità sarà svelata, ma anche momenti ironici in cui siamo
gli unici a comprendere il vero significato di un dialogo. Sono più rari i casi di trasformazione in cui il
pubblico non è al corrente dello scambio e lo scopre soltanto più in là nel corso della serie, con
ovvio stupore: troviamo un esempio di questo caso in Lost, quando soltanto alla fine della quinta
stagione si scopre che il vero John Locke è in realtà morto e che quello attuale è un misterioso
Uomo in Nero che ne ha assunto le sembianze. Questa rivelazione impone agli spettatori di
reinterpretare col senno di poi gli eventi della stagione proponendo nuovi stati d’animo per spiegare
i medesimi segnali esteriori relativi al personaggio appena identificato, conosciuto dai fan come
«Flocke» (il fake di Locke) o come «UnLocke». I nomignoli come Fauxlivia e Flocke rispondono al
bisogno dei fan di identificare e riconoscere i personaggi all’interno dei forum, al fine di orientarsi

60
nell’intricata maglia delle personalità multiple, ma testimoniano anche il divertimento provato da
molti fan nel gioco della comprensione.
Questo bisogno di riconoscere un personaggio revisionato è un esempio estremo di ciò che gli
spettatori di una serie tv devono fare costantemente: comprendere il ruolo di un personaggio in
relazione agli eventi cui hanno assistito. La maggior parte delle serie tv facilita questo processo,
creando un parallelo cronologico tra le esperienze dei personaggi e la visione degli spettatori, in
modo tale che in ogni dato momento lo spettatore sia al corrente di tutto ciò che il personaggio ha
vissuto fino a quel momento, ricordi compresi. Le serie tv con una cronologia non lineare, invece ci
chiedono di capire in quale momento della narrazione si trova il personaggio, nonché di collocarne
cronologicamente esperienze e ricordi, processo che troviamo persino all’interno dello stesso
Doctor Who. La relazione tra il dottore e River Song, entrambi viaggiatori nel tempo, si evolve
seguendo una cronologia davvero arzigogolata, a tal punto che gli stessi personaggi devono
prendere degli appunti per sincronizzare le proprie esperienze ogni volta che si incontrano. I due si
prendono il tempo necessario per riconoscersi e per capire chi sono in quel determinato momento,
e la stessa River Song esprime una certa ansia nel dubbio che il dottore non la riconosca (considerati
i loro «vortici temporali» opposti), insistendo inoltre affinché non si rivelino «spoiler» l’uno sul
futuro dell’altra.
Molti spettatori, quando esplorano l’universo narrativo di una serie tv, si trasformano anche loro in
viaggiatori del tempo, guardando gli episodi senza un ordine preciso o riguardando gli stessi, una
pratica che richiede loro di sincronizzare i propri ricordi o di consultare i paratesti per capire in quale
fase del suo percorso si trovi il personaggio in quel determinato momento.
4. Trasformazione del personaggio, ovvero quando un adulto affronta un graduale mutamento della
moralità, del carattere e dell’idea di se stesso, che si manifesta con un cambio del comportamento e
ha ripercussioni a lungo termine. Pearson sostiene che tra le norme tradizionali che determinano il
cambiamento di un personaggio ci siano le «decisioni che cambiano la vita», un modello che però
sembra adattarsi più alla formula dell’eroe solitario, tipica dei film o della letteratura, che a una
serie tv complessa. Una delle trasformazioni più efficaci viste in una serie tv è quella di Wesley
Wyndam-Pryce, che al suo ingresso nella terza stagione di Buffy era un Osservatore arrogante,
codardo e goffo, che provava senza successo a supervisionare Buffy. L’anno dopo Wesley si è
spostato nello spin-off Angel e ha cominciato a trasformarsi in un competente «cacciatore di
demoni», grazie alle sue esperienze e ai rapporti profondi con colleghi e amici, conquistando alla
fine il ruolo di leader all’interno del team. Eppure, quando tradisce involontariamente i suoi amici,
viene buttato fuori dal gruppo e instaura una relazione morbosa con l’avvocato antagonista del
gruppo, Lilah. Alla fine Wesley ritorna dalla parte di Angel, ma è evidentemente un uomo cambiato,
con un piglio più tetro e cinico, e nella stagione finale della serie affronta in modo completamente
diverso situazioni romantiche (la relazione con Fred) e sacrifici (il trauma legato a Illyria). La sua non
è una trasformazione paranormale ma un graduale mutamento umano: alla fine Wesley risulta un
personaggio robusto e ben realizzato, ed è soltanto guardando a distanza l’ampio arco temporale
attraversato dal personaggio che possiamo vedere quanto il suo cambiamento sia un raro esempio
di vera trasformazione di un personaggio seriale. Il bisogno di personaggi stabili e coerenti è una
delle spinte principali del racconto seriale, perché lo spettatore ha il desiderio di instaurare
un’interazione parasociale con loro e potrebbe rimanere deluso se questi cambiassero in un modo
che ne compromette il fascino iniziale: una delle lamentele più comuni tra i fan delle serie riguarda
senza dubbio i momenti in cui i personaggi agiscono senza moventi né coerenza, una critica che
nasce appunto dal bisogno di stabilità. La trasformazione del personaggio rimane un espediente
sporadico nella maggior parte dei programmi, ma guardando da vicino il modo in cui viene
rappresentata si può evincere una delle più innovative possibilità della tv complessa. Nessuna serie
sfrutta la trasformazione del personaggio più di quanto faccia Breaking Bad.

61
Lunghe interazioni con uomini schifosi: gli antieroi delle serie tv

Nella raccolta di racconti Brevi interviste con uomini schifosi, David Foster Wallace sceglie per il titolo due
aggettivi che dialogano per contrasto: se proprio dobbiamo passare del tempo con degli uomini schifosi, è
meglio che questo tempo sia breve. Molte serie seguono questo consiglio. Ma la tv seriale è caratterizzata
da archi temporali molto lunghi, e di conseguenza qualsiasi interazione con uomini schifosi dovrà
necessariamente durare per un po’. Una delle caratteristiche condivise da molte serie complesse è il ruolo
importante occupato nella storia da personaggi glaciali, dalla dubbia moralità o anche malvagi, che sono
quasi sempre uomini e che rappresentano quella figura solitamente identificata come «antieroe».
Ricorrendo alla terminologia di Murray Smith, un antieroe è un personaggio che funge da punto di
riferimento per l’allineamento in una narrazione continuativa, nonostante i suoi comportamenti e moventi
siano origine di un attaccamento ambiguo, conflittuale o negativo. Gli antieroi possono presentarsi in
numerose varianti, dagli eroi misantropi, egoisti ma redimibili, come Mal in Firefly o Tommy in Rescue Me, a
figure arroganti e distruttive ma con una morale, come Gregory House in Dr. House e Jimmy McNulty in The
Wire, fino a protagonisti inequivocabilmente amorali e negativi come Tony Soprano e Dexter Morgan. Alcuni
antieroi sono membri di istituzioni oneste che si spingono però fino ai propri limiti morali, come i rudi
poliziotti di The Shield che diventano corrotti, assassini e ladri; altri, invece, si distinguono all’interno di
gruppi di delinquenti, come i carcerati di Oz o i motociclisti di Sons of Anarchy. Anche alcune sitcom
complesse hanno adottato gli antieroi, come nel caso dell’autoritratto misantropo di Larry David in Curb
Your Enthusiasm.
La televisione ha comunque una lunga storia di comedy incentrate su protagonisti sgradevoli. Le storie di
antieroi fanno regolarmente appello a una moralità relativa, in cui un personaggio eticamente discutibile è
giustapposto a personaggi più esplicitamente cattivi e respingenti, al fine di evidenziarne gli aspetti
riscattabili. In Dexter, gli omicidi del protagonista sono sempre contrapposti a quelli di un altro assassino che
colpisce innocenti ed è privo di un proprio codice comportamentale. Nei Soprano si fatica a sostenere che le
azioni di Tony siano più etiche di quelle dei suoi compari mafiosi, ma, attraverso le sue sedute dall’analista e
le interazioni familiari, veniamo a conoscenza di quella storia personale che ne ha forgiato l’amoralità, i
dilemmi etici e gli attacchi d’ansia derivati dai conflitti interiori. Non possiamo dire con certezza che Tony sia
moralmente superiore ai più spietati Richie Aprile e Ralphie Cifaretto, ma essendo allineati con lui ci appare
più comprensibile di questi personaggi distanti e impenetrabili. Anche personaggi più importanti, come
Paulie e Christopher, appaiono meno nobili di Tony, poiché mancano di capacità di comando, valori familiari
e strumenti per scampare alla paranoia e alla dipendenza dalle droghe. Nel caso di Tony Soprano e di altri
antieroi, almeno nel contesto etico della serie, ci sentiamo quindi vicini a personaggi dalla moralità relativa
che nella vita reale sarebbero biasimabili. L’allineamento e l’elaborazione sono componenti imprescindibili
del nostro attaccamento a un antieroe: più cose sappiamo del personaggio attraverso antefatti, rapporti e
pensieri, più è probabile che lo considereremo un alleato nel nostro viaggio attraverso il mondo narrativo
della serie. Il carisma ci aiuta a guardare al di là della spregevolezza di molti antieroi, perché conferisce loro
un fascino e una verve che rendono piacevole il tempo in loro compagnia, a dispetto della carenza di morale
e dei comportamenti riprovevoli. Il carisma deriva in larga parte dalla performance e dalla fisicità dell’attore,
ma anche dal modo in cui gli altri personaggi si relazionano all’antieroe; ne consegue che i rapporti che si
istaurano nella serie influenzano ciò che lo spettatore prova nei confronti del personaggio. Nei Soprano
quasi tutti i personaggi rispettano, amano, desiderano o seguono Tony (gli altri non sopravvivono a lungo),
nonostante Tony tratti tutti con sufficienza. in Mad Men tutti i personaggi non fanno che complimentarsi
con Don Draper per come fa il suo lavoro: buona parte di quelli maschili vorrebbe essere lui, buona parte di
quelli femminili vorrebbe stare con lui. Sia James Gandolfini che Jon Hamm sono attori magnetici: il primo
usa la fisicità per trasmettere la sensazione di un potere minaccioso ma trattabile, il secondo è considerato
tra gli attori più belli di Hollywood, una fisicità che sicuramente alimenta la desiderabilità di Draper. Inoltre
sia Tony che Don sono dei leader nelle rispettive carriere, una condizione che ha procurato loro ricchezza e
potere, elementi alla base di desiderabilità e successo in buona parte della cultura americana. Entrambi i
62
personaggi trasudano carisma e questo invoglia gli spettatori a passare del tempo con loro, nonostante la
loro spregevolezza morale.
L’attrattività degli antieroi non solo ne scavalca la spregevolezza, ma in parte deriva dalla fascinazione che la
stessa spregevolezza suscita negli spettatori: le azioni immorali di questi personaggi intrigano gli spettatori,
o generano in loro ciò che Smith definisce come «l’innata fascinazione che proviamo a immaginare
esperienze che non abbiamo l’opportunità o il coraggio di fare nella vita reale».
Vermeule collega questa fascinazione a un concetto della psicologia cognitiva chiamato «intelligenza
machiavellica», secondo il quale il successo di un individuo all’interno di un ambiente socialmente
complesso dipende dalla sua capacità di manipolare gli altri, un’attività in cui la lettura della mente può
risultare molto utile. Dalle avventure di questi personaggi affascinanti impariamo a sviluppare
un’intelligenza sociale. Vermeule considera il protagonista machiavellico come una «mente superiore», che
manipola gli altri (nel bene e nel male), eccelle nella soluzione dei problemi sociali e si trova spesso nelle
storie «metanarrative» dense di giochi logici e puzzle da mettere insieme, tutti elementi comuni nella
televisione complessa.
l protagonista di Dexter costituisce un esempio interessante di antieroe, le cui azioni deprecabili non hanno
forse pari nella televisione seriale: in otto stagioni uccide più di 130 persone. Eppure, Dexter è chiaramente
proposto come un protagonista che merita empatia e attaccamento. L’attore Michael C. Hall contribuisce
alla rappresentazione con un riflesso intertestuale, dal momento che ai tempi dell’inizio di Dexter, nel 2006,
era già piuttosto noto per aver interpretato il simpatico, pacato e a volte maltrattato David Fisher in Six Feet
Under. Gli spettatori sono molto allineati con Dexter, passano buona parte del tempo narrativo attaccati a
lui e, attraverso voce fuori campo, flashback e soggettive, hanno la garanzia di un accesso esclusivo alla sua
interiorità. Questa vicinanza ci permette di assistere ad azioni di cui nessun altro personaggio sa nulla, e
questi segreti, uniti alla conoscenza del codice etico di Dexter, ci invogliano all’attaccamento e ad assistere
passivamente, e in modo complice, alla sua giustizia privata. La serie si appella chiaramente a una moralità
relativa, dal momento che le vittime di Dexter sono quasi sempre più spietate di lui, e che tramite la voce
fuori campo siamo a conoscenza delle sue riflessioni sul codice etico del padre adottivo, ma anche del suo
intento di nuocere soltanto a chi lo merita al fine di proteggere gli innocenti. La prima stagione di Dexter
getta le basi per la ricezione del protagonista, predisponendo gli spettatori a un allineamento e un
attaccamento nei suoi confronti che verranno rinforzati nel corso della serie. La stagione elabora
gradualmente il personaggio attraverso un allineamento costante, a tal punto che scopriamo insieme a lui
l’orribile trauma infantile che ne ha provocato il disturbo mentale: a tre anni Dexter assistette infatti
all’omicidio della madre, compiuto con una sega elettrica, e rimase chiuso a chiave in una stanza per due
giorni, circondato dal sangue materno. Lo straziante flashback di quest’evento offre una spiegazione
plausibile del perché Dexter sia diventato un serial killer, instillando un’empatia nei confronti della sua
infanzia da vittima che viene trasmessa alla sua versione adulta e omicida, cui il padre adottivo ha insegnato
l’importanza di avere un codice etico. Questa empatia è in contrasto con il fratello, che ha vissuto lo stesso
trauma di Dexter ed è diventato anche lui un serial killer, ma che manca del codice morale e del supporto
familiare di Dexter. La serie consegue un obiettivo apparentemente impossibile: trasformare un serial killer
in un eroe con cui abbiamo voglia di passare del tempo. Al contempo, però, la serie rimane intrappolata in
un vincolo narrativo, poiché Dexter deve continuare a uccidere in linea con la premessa della serie, ma non
può trasgredire il suo codice morale se vuole mantenere il supporto degli spettatori, col risultato che il
personaggio ha poco spazio per conflitti, cambiamenti e sviluppi. Di solito un programma può ricorrere alla
mutevolezza dei rapporti per controbilanciare la staticità di un personaggio, ma poiché Dexter si nasconde
dietro una facciata stabile anche agli amici e ai parenti, nessuno può avere con lui un rapporto sincero,
soprattutto se paragonato a ciò che sanno di lui gli spettatori allineati; al contrario, la situazione familiare di
Dexter è la più mutevole delle variabili, perché Dexter si sposa, fa un figlio e affronta la separazione, ma
nessuno di questi cambiamenti ha un impatto tangibile sul suo carattere. Senza dare l’impressione che
Dexter cambi nel tempo l’idea del programma si indebolisce col tempo, riguadagnando attenzione soltanto

63
alla settima stagione, quando la sorella del protagonista, Deb, ne scopre i segreti, cambia radicalmente
comportamento e mette in discussione la visione del mondo di Dexter.

Dal momento che gli antieroi sono il risultato di un’attenta miscela di allineamento, moralità relativa,
fascinazione e carisma, il cambiamento del personaggio può rompere quest’equilibrio, ma anche
un’eccessiva stabilità diventa col tempo noiosa e problematica per i rapporti rappresentati dalla serie.
Inoltre, molte serie incentrate sugli antieroi sembrano puntare a una resa dei conti finale, un momento in
cui questi personaggi dovranno pagare il prezzo dei propri crimini: ma senza un cambiamento o
un’evoluzione evidenti del personaggio, e considerato il continuo procrastinare delle serie tv, il destino
finale di un antieroe può suscitare aspettative di tutti i tipi. Probabilmente il destino più apprezzato da fan e
critica, tra quelli riservati a un antieroe, si trova in The Shield, nel quale Vic Mackey sfrutta il sistema per
ottenere l’immunità e non pagare per i suoi crimini, ma finisce condannato a un lavoro d’ufficio che vive
come una prigione, per via di un temperamento decisamente votato all’azione.

Concludere le storie di antieroi è straordinariamente difficile, perché bisogna proporre un punto d’arrivo
convincente per la complessa evoluzione del personaggio, saldare i conti in sospeso premiando
l’attaccamento degli spettatori e prendere (o negare attivamente) una posizione morale nei confronti del
personaggio. La tv complessa riconosce la propria natura di finzione attraverso alcune strategie
metanarrative, anche quando i programmi inseguono un alto livello di realismo, come nel caso di The Wire.
Si tratta di un elemento importante per gli antieroi, perché se vogliamo mettere da parte il giudizio morale
(e razionalizzare i loro comportamenti) dobbiamo ricordarci che le loro azioni spregevoli appartengono alla
finzione, grazie a un processo che secondo Margrethe Bruun Vaage ci permette di parteggiare per
personaggi che compiono azioni orribili. Il modello della televisione seriale, però, rende meno netto il
confine tra la finzione e la realtà, perché il coinvolgimento parasociale permette ai personaggi di continuare
a esistere, per gli spettatori, al di là del tempo trascorso sullo schermo. Non c’è dubbio che guardare una
serie incentrata su un antieroe spinga a instaurare un rapporto con lui e a permettergli l’accesso ai nostri
pensieri quotidiani, nel bene e nel male. Ciò dimostra che le serie tv rendono labili i confini dei personaggi,
e che in esse i contorni della finzione possono essere meno netti che in altri media. Da queste riflessioni
sugli antieroi emerge quanto sia difficile creare personaggi seriali ben costruiti, con un efficace equilibrio tra
allineamento, attaccamento e stabilità, tale da renderli graditi al pubblico. Questo porta a una domanda
fondamentale: chi te lo fa fare?
Per decenni la televisione ha evitato di porre questi antieroi al centro di una narrazione, proponendoci dei
cattivi carismatici che ci divertissimo a odiare, come J.R. in Dallas, Amanda in Melrose Place o molti
personaggi delle soap opera. Sicuramente parte dell’appeal degli antieroi deriva dalla logica imitativa della
tv mainstream: quando I Soprano si rivelò inaspettatamente un colpaccio, l’industria cercò di cavalcarne il
successo, imitandone la struttura incentrata su un protagonista criminale, una tendenza che si è rivelata
redditizia grazie a successi commerciali e di critica come The Shield e Dexter, ma che ha anche comportato
imitatori meno applauditi come Kingpin e Brotherhood. Quest’innovazione ha anche consentito agli autori
di percorrere nuove strade nella creazione di eroi negativi, trame e contenuti, sfruttando gli standard di
contenuto più liberi della tv via cavo per raccontare una gamma di storie improponibili nell’era dei classici
network televisivi. Non sorprende che queste storie nere ricevano spesso encomi e premi per i loro approcci
innovativi e i temi trattati, incentivando gli autori a creare antieroi convincenti che invoglino gli spettatori a
trascorrere con loro parecchio tempo.
Per decenni la televisione ha evitato di porre questi antieroi al centro di una narrazione, proponendoci dei
cattivi carismatici che ci divertissimo a odiare, come J.R. in Dallas, Amanda in Melrose Place. Sicuramente
parte dell’appeal degli antieroi deriva dalla logica imitativa della tv mainstream: quando I Soprano si rivelò
inaspettatamente un colpaccio, l’industria cercò di cavalcarne il successo, imitandone la struttura incentrata
su un protagonista criminale, una tendenza che si è rivelata redditizia grazie a successi commerciali e di
critica come The Shield e Dexter, ma che ha anche comportato imitatori meno applauditi come Kingpin e

64
Brotherhood. Quest’innovazione ha anche consentito agli autori di percorrere nuove strade nella creazione
di eroi negativi, trame e contenuti, sfruttando gli standard di contenuto più liberi della tv via cavo per
raccontare una gamma di storie improponibili nell’era dei classici network televisivi.
I personaggi femminili che ambiscono allo status di antieroe tendono a essere accattivanti ma permalosi,
come Veronica Mars, Starbuck in Battlestar Galactica e Sarah in The Killing, o a rientrare in quell’accezione di
donna amorale tipica delle comedy, come avviene in Sex and the City, Weeds, Nurse Jackie o Enlightened. I
pochi esempi di antieroine conclamate che potrei nominare in quanto equivalenti di Tony Soprano, Don
Draper, Dexter Morgan o Vic Mackey non sono all’altezza della caratterizzazione di questi personaggi.
Il fatto che gli antieroi siano perlopiù uomini deriva in parte dalle norme culturali di alcuni generi narrativi,
considerato che di solito i crime drama si affidano ad antieroi dall’appeal mascolino. Ma ci sono in gioco
norme culturali più ampie: le donne sono ancora considerate più materne, altruiste e passive, piuttosto che
individui pronti al comando, e persino quando ricoprono una carica di potere sono spesso viste
simpaticamente come «donne ribelli». Questo stereotipo culturale può comportare una reazione negativa
nei confronti di un personaggio femminile aggressivo e moralmente discutibile, che è spesso visto come una
«stronza rompipalle» piuttosto che come una canaglia carismatica.

L’esempio più saliente e interessante di antieroe è Walter White in Breaking Bad. Si tratta di un caso atipico
ed eccezionale. L’autore Vince Gilligan ha concepito la serie affinché fosse imperniata sul cambiamento del
personaggio a un livello mai visto prima in televisione, a tal punto che questa trasformazione è già
anticipata dal titolo: breaking bad è un’espressione idiomatica che si riferisce a chi sta perdendo la retta via.
Gilligan ha più volte dichiarato che il suo obiettivo era quello di trasformare Walter White «da Mr. Chips a
Scarface», riferendosi alle due icone cinematografiche dell’insegnante modello e del gangster, una
trasformazione che ha prodotto un personaggio ancora più elaborato di quelli dei Soprano.
La serie comincia con Walt che è un tonto qualsiasi, un insegnante di chimica del liceo, chiaramente
allineato al pubblico e meritevole di attaccamento; nella stagione finale, invece, Walt è un delinquente
incallito, ha ucciso i suoi rivali, avvelenato un bambino innocente per portare a termine un piano rischioso
ed egoista, e manipolato le persone che sostiene di amare.
Per comprendere Walter White dobbiamo cominciare dalla puntata pilota di Breaking Bad, o persino da
prima, considerato che l’esordio della serie, nel gennaio del 2008, è stato collegato a tre intertesti
fondamentali. Innanzitutto, bisogna considerare che si trattava della seconda incursione dell’emittente via
cavo Amc nel mondo dei serial drama: Mad Men era cominciato sei mesi prima di Breaking Bad e aveva
eletto Amc a spazio privilegiato per i serial drama ambiziosi incentrati sugli antieroi, alimentando così le
aspettative di critici e spettatori sulla nuova serie. Va inoltre detto che, in termini di trama, Breaking Bad fu
inizialmente inquadrato come una versione maschile di Weeds, la storia di un genitore «rispettabile» della
middle-class che in un momento di crisi entra nel giro dell’illegalità; questo paragone evidenzia le tinte
fosche e la robusta serialità di Breaking Bad in confronto alle atmosfere più giocose (e femminili) di Weeds.
Il terzo e più importante di questi intertesti fu Malcolm, la sitcom rivoluzionaria che all’inizio degli anni
Duemila aprì la strada a molte delle tecniche della comedy tv complessa, e che per sette stagioni vedeva
Bryan Cranston nel ruolo di Hal, l’imbranato padre di Malcolm. La fama di Cranston in quanto attore da
comedy ne influenzò la caratterizzazione di Walt, un personaggio molto diverso da Hal, ma che ha attinto
alla simpatia di Cranston. Breaking Bad è nato così in un contesto che facilitava gli spettatori ad accogliere
Walt come protagonista con cui empatizzare, arricchendo così l’idea del «tonto qualsiasi» concepita da
Gilligan. L’inizio della puntata pilota, in effetti, richiama l’intertesto di Malcolm: vediamo Walt che guida
spericolatamente un camper attraverso il deserto, con indosso soltanto degli «slip aderenti» e una
maschera antigas. Gli slip costituiscono una connessione intertestuale involontaria cui inizialmente Cranston
si oppose, rifiutando di indossare lo stesso tipo di slip di Hal, come proposto dalla sceneggiatura di Gilligan.
Ma dopo averci ragionato, l’attore capì che il vestiario assumeva significati diversi a seconda dei personaggi:
nel caso di Hal, gli slip ne rilevano l’immaturità, «come se li avesse sempre indossati e non avesse mai avuto
motivo di cambiarli», mentre Walt li indossa in quanto rivelatori di una condizione depressiva e di una
65
carente attenzione verso se stesso. Al di là di questa passione condivisa per gli slip, entrambi i personaggi
sono mossi dalla paura, che secondo Cranston si manifesta in modi diversi: una goffa vigliaccheria da
cartoon nel caso di Hal e l’alienazione emotiva e fisica nel caso di Walt. Comincia a esserci chiaro che Walt
non è Hal quando Cranston toglie la maschera antigas e lo vediamo per la prima volta in viso, poiché Walt
ha quelli che l’attore definisce «dei baffi da impotente» e che Hal non ha mai avuto. L’aspetto fisico è
fondamentale nella creazione dei personaggi e Cranston ha avuto un ruolo fondamentale nella creazione
del look di Walt. Le caratteristiche esteriori riflettono la psicologia di Walt, e Cranston aveva capito quanto
fosse importante la fisicità nella sua prova attoriale, sia per rappresentare i pensieri del personaggio, sia per
trasmettere questa interiorità al pubblico. Man mano che la serie va avanti i cambiamenti di Walt sono
comunicati attraverso il suo aspetto, tant’è che i baffi imponenti e i capelli indefiniti lasciano spazio a un viso
glabro, un look che Cranston definisce «da duro, il più intimidatorio di tutti», sia per testimoniare il
cambiamento psicologico di Walt, sia per permettergli di razionalizzare il proprio comportamento. Quando
diventa «Heisenberg» per sbrigare i suoi traffici con la droga, Walt comincia a indossare un borsalino nero,
un elemento iconico che trasforma sia la nostra percezione del personaggio sia la sua percezione di se
stesso. Walter White non è un antieroe disonesto fin da subito: la sua caratterizzazione iniziale, più che da
una dubbia moralità, sembra dettata da una situazione disperata: Walter prende una serie di decisioni
sbagliate, che alla fine lo conducono alla dissoluzione morale, ma all’inizio ispira commiserazione piuttosto
che ammirazione. Quando veniamo a conoscenza del suo cancro, del suo lavoro frustrante e della sua
situazione economica disperata, ci schieriamo dalla sua parte, condividendo con lui segreti che gli altri
personaggi ignorano, e aumentando così il nostro allineamento. Le prime battute di dialogo che gli sentiamo
pronunciare sono una sorta di confessione, non sotto forma di voce fuori campo (la serie non ne fa uso), ma
di monologo, mentre Walt registra un video che dovrebbe contenere le sue ultime parole per la moglie e il
figlio. Con un espediente oggi convenzionale, la puntata pilota si apre con una scena in media res, che ci
spinge a chiederci come il protagonista sia finito in quella situazione disperata: in Breaking Bad questa
curiosità è sollecitata da Walt che parla alla videocamera come se fosse un surrogato del figlio, dicendo: «Ci
saranno delle cose che verrete a sapere su di me nei prossimi giorni». Va notato che il messaggio in
questione ci informa già del rapporto di Walt con la famiglia, nel momento in cui li rassicura che se si è
comportato in modo strano l’ha fatto per il loro bene. Questa scena di apertura, nella quale Walt è l’unico
personaggio presente dichiara fin da subito che si tratterà di una serie molto allineata con il protagonista e
che ruoterà sul mistero di come quest’uomo, chiaramente a disagio nell’impugnare un’arma, sia finito in
una situazione così disperata, nonché quali complicazioni seguiranno gli eventi appena visti.
La moralità relativa dei personaggi influisce molto sull’instaurarsi di un attaccamento da parte degli
spettatori, e anche se Walt non parte come antieroe amorale, è già parzialmente redento se messo a
confronto con altri personaggi, in particolare il cognato spaccone Hank (che si scoprirà più conflittuale di
quanto sembri), l’apparentemente superficiale cognata Marie (che scopriremo essere una cleptomane) e il
giovane e impudente spacciatore Jesse, che lo inizia alla sua vita da criminale (e il cui percorso morale sarà
complesso quasi quanto quello di Walt). A confronto con queste personalità forti, all’inizio Walt scompare
sullo sfondo e sembra troppo insignificante per non essere anche moralmente corretto. Sua moglie Skyler e
suo figlio Walt Jr. sono entrambi più empatici, nonostante nessuno dei due personaggi abbia il grado di
profondità di Walt.
Walt si guadagna, se non la nostra ammirazione, le nostre simpatie, perché ci appare commiserabile in una
situazione senza speranza che ci fa chiedere «e io cosa farei?» Benché la sua decisione di cucinare
metanfetamina per lasciare un gruzzolo alla famiglia non sia ammirevole, è comunque ragionevole
considerate le circostanze: la «ragionevolezza» è d’altronde un aspetto fondamentale del processo
decisionale di Walt: la serie lo rappresenterà sempre in grado di razionalizzare le proprie azioni, per quanto
sempre più esecrabili. Nel corso della serie Walt si convince ripetutamente che, considerata l’assenza di
alternative, le sue decisioni immorali sono anche le uniche e quindi le migliori, e a poco a poco anche noi
sprofondiamo nel suo comportamento mostruoso, considerato però da Walt come ragionevole, a giudicare

66
dalle sue autogiustificazioni e dalle contingenze.
Quando Walter White diventa un antieroe a tutti gli effetti diventa anche chiaro che si tratta di un antieroe
diverso da quelli finora visti in televisione. Per la maggior parte della serie, gli unici personaggi che lo
apprezzano o rispettano sono i suoi familiari, che però non sanno nulla della sua vita criminale, e di
conseguenza questi sentimenti non si trasmettono agli spettatori, che invece conoscono gli abissi del suo
declino morale. Walt non ha «amici», in nessuno dei sensi convenzionali: il suo confidente più stretto è
Jesse, che lo tratta con crescente disprezzo e che ci lavora soltanto quando «Mr. White» (come lo chiama
lui) riesce a plagiarlo o quando le sue stesse insicurezze lo spingono a cercare una figura paterna.
Diversamente da quasi tutte le altre serie incentrate su antieroi, qui non ci sono sottotrame sentimentali
che vedono Walt come l’oggetto sessuale di un’amante: la vita sessuale di Walt con Skyler si riprende nella
prima stagione, quando Walt scopre il proprio lato oscuro, e culmina con un avvicinamento aggressivo e
non consensuale in cucina, che Skyler riesce a interrompere non appena supera lo shock per il
comportamento del marito. Ma a parte questo, per la maggior parte del tempo Walt è asessuale, e quando
fa delle ridicole avance a Carmen, la preside della scuola in cui insegna, finisce persino per essere licenziato.
Attraverso lo stratagemma dello pseudonimo Heisenberg, Walt inventa un alter ego potente e rispettato
(emblematicamente legato al borsalino nero) con una temuta reputazione, la pretesa che i suoi avversari ne
pronuncino il nome e persino un narcocorrido; ma per gli spettatori che hanno seguito la serie fin dall’inizio,
Heisenberg è più una caricatura che un vero duro. Walt è forse il personaggio fisso meno rispettato o
ammirato della serie, a discapito del nostro indiscutibile allineamento con lui. In questo caso, ad alimentare
il nostro allineamento non sono i rapporti con gli altri personaggi o i flashback sul suo passato, bensì il
ricordo di ciò che Walt è stato in passato.
I nostri ricordi della serie riescono anche a mantenere vivo il nostro attaccamento, nonostante le azioni
irredimibili commesse da Walt strada facendo. Questi ricordi ci aiutano anche a capire le azioni dei
personaggi. Quando seguono a lungo una serie, gli spettatori raccolgono informazioni e dettagli che gli
permettono di leggere nella mente dei personaggi, o quanto meno di immaginare una possibile versione dei
loro monologhi interiori (scena di due minuti all’inizio dell’episodio «Casa aperta», nella quarta stagione).
Man mano che Walt si allontana dalla sua condizione iniziale e persegue il suo declino morale, noi
dobbiamo confrontarci con azioni sempre peggiori che mettono alla prova il nostro attaccamento, in un
processo scandito dalla morte o dal ferimento di chi si trova sul sentiero di Walt. Nella puntata pilota, per
scampare a una situazione disperata, Walt ricorre a un’esplosione nel camper, uccidendo Emilio e
neutralizzando Krazy-8, un’azione di autodifesa sconsiderata che però, in quell’istante, sembra del tutto
giustificata. Walt e Jesse prendono Krazy-8 in ostaggio e capiscono che devono ucciderlo se vogliono
sottrarsi alla sua vendetta; Walt, però, non trova la forza di commettere un omicidio finché Krazy-8 non
diventa un pericolo incombente, e tutto ciò giustifica nuovamente le azioni del protagonista, trasformandole
in autodifesa. Sempre nella prima stagione, alcune puntate dopo, Walt si rasa la testa e adotta lo
pseudonimo di Heisenberg per risultare più credibile come criminale; giunto quindi nell’ufficio del boss
Tuco, per dimostrare a lui e ai suoi sgherri di cosa è capace, arriva a innescare un’esplosione: si tratta della
prima aggressione violenta pianificata da Walt, ma essendo rivolta a personaggi palesemente più pericolosi
e immorali di lui, noi spettatori rimaniamo nettamente allineati con lui. Il personaggio di Heisenberg è
chiaramente proposto come una versione «dura» di Walt, e questo ci spinge a condividere i suoi atti di
violenza nei confronti di criminali molto più spietati di lui.
Per buona parte delle prime due stagioni di Breaking Bad ci ritroviamo a parteggiare per Walt contro
personaggi più immorali di lui. La fine della seconda stagione fa un grosso salto in avanti verso la
dissoluzione morale di Walt. Walt sta investendo più energie a tenere nascosta la sua vita di criminale e il
legame con Jesse che a mantenere salda la sua famiglia, a tal punto da perdersi la nascita della
secondogenita per consegnare una partita di droga. Poi ha un intoppo con Jesse, che è sprofondato nella
dipendenza insieme alla fidanzata Jane, e quando Walt trova quest’ultima in stato comatoso, decide di
lasciarla soffocare nel vomito per recuperare l’attenzione di Jesse (e al contempo sottrarsi al ricatto di Jane),

67
e noi spettatori siamo lì mentre Walt razionalizza silenziosamente quest’omicidio passivo. Sappiamo che è
bravo a razionalizzare, che è costretto ad anteporre il proprio bene a quello degli altri e che ha instaurato un
legame paterno con Jesse, e di conseguenza riusciamo a immaginarne il monologo interiore nell’istante in
cui decide di non salvare la vita a Jane e la osserva morire.
La razionalizzazione di Walt rende comprensibile un atto di crudeltà passiva nei confronti di un personaggio
al quale siamo meno dediti, operato anche nel tentativo di salvare Jesse, al quale siamo invece più
affezionati. Questo momento segna un punto fondamentale del cambiamento del personaggio, perché
sappiamo che il Walt incontrato nella puntata pilota avrebbe sicuramente salvato Jane se si fosse trovato
nella stessa situazione. Il rapporto tra Walt e Jesse è fondamentale per la trasformazione morale proposta
da Breaking Bad. Nel corso della prima stagione, Walt è sicuramente più rispettabile di Jesse, è spinto al
crimine dalla disperazione e riesce a farsi strada nel mondo del crimine grazie alla sua padronanza della
chimica; Jesse, invece, è un avido consumatore di droghe sveglio ma ignorante, e apparentemente mosso
soltanto dall’egoismo, dall’avidità e dall’edonismo. Siamo più allineati e in sintonia con Walt, anche se
quando scopriamo qualcosa sulla situazione familiare di Jesse, nonché sul suo talento artistico sprecato, il
personaggio diventa più simpatico e le sue azioni più comprensibili. La puntata della seconda stagione
intitolata «Una lezione indimenticabile» è fondamentale nel nostro processo di avvicinamento a Jesse: lo
seguiamo infatti in una situazione pericolosa, in cui cerca di salvare un ragazzino e si rifiuta di ucciderne i
genitori tossicomani, rivelando una moralità che si rinforza man mano che quella di Walt si dissolve. La fine
della seconda stagione mette in difficoltà il nostro attaccamento, perché qui Jesse è meno allineato ma più
ammirevole, nonostante la dipendenza, e al confronto l’egoismo e la freddezza di Walt diventano meno
giustificabili. Nella terza stagione i due si scambiano i livelli di attaccamento: al corrente del segreto
dell’evitabile morte di Jane, molti spettatori fanno il tifo per Jesse e sperano che possa sottrarsi all’influenza
negativa di Walt. Jesse si rimprovera la morte di Jane e, come dice nell’episodio «Ora basta», si accetta per
quello che è, «un poco di buono», una definizione che gli spettatori trovano immeritata ed evitabile. Nel
frattempo, Walt cerca di sfuggire dalla sua colpevolezza morale, rinunciando alla sua carriera criminale per
salvare il suo matrimonio a pezzi e tornare alla vita di sempre. Ma Breaking Bad mette gli spettatori in una
posizione scomoda: La serie continua a spingere Walt verso l’amoralità, portandoci a sperare che commetta
altre azioni biasimabili per il nostro intrattenimento, in un modo che comunque non glorifica mai la violenza
o la corruzione morale. La serie continua a farci chiedere fino a che punto possa spingersi quest’uomo,
quale sarà il prezzo che dovrà pagare per le sue azioni e come dovremmo porci nei suoi confronti. Alla fine
della terza stagione, Walt si è spinto ancora oltre nel mondo della droga, uccidendo due scagnozzi che
avevano minacciato Jesse e pianificando di uccidere Gale per proteggere se stesso: ma il punto più basso lo
tocca convincendo Jesse a sparare a Gale, corrompendo il giovane fino a trasformarlo in un assassino e
attirandosi le antipatie di molti spettatori, con un conseguente ribilanciamento morale dei due personaggi.
Walt supera abbondantemente il punto di non ritorno alla fine della quarta stagione, quando manda un
innocente a casa propria per sventare un’imboscata da parte di due criminali sanguinari e avvelena un
bambino per plagiare Jesse e riportarlo dalla propria parte, per non parlare di quando provoca direttamente
la morte di cinque criminali e piazza una bomba davanti a un ospedale.
Per la prima metà della quinta stagione Walt cerca di diventare a tempo pieno il super-cattivo Heisenberg,
allontanandosi dalla famiglia e da Jesse. Alla fine, ha la meglio su tutti gli avversari, ma, nonostante il
tornaconto economico quasi illimitato, trova avvilenti la mancanza di riconoscimento e il lavoro duro; si
ritira così dal giro della metanfetamina e cerca di ridedicarsi alla famiglia. Ma i mostri liberati dalla sua
collaborazione con una maligna multinazionale e una banda di neonazi non resteranno a dormire, né lo farà
suo cognato Hank, che scopre la sua vita segreta. Gli ultimi episodi presentano una resa dei conti morale
scaturita dall’arroganza di Walt, che credeva di potersi sottrarre al giro che l’ha reso ricco, dopo una lunga
sequela di morti, latitanze, bancarotte e tradimenti. La confessione più crudele di Walt si trova nel finale
della serie, quando ammette che le sue razionalizzazioni erano in fondo vuote: «L’ho fatto per me. Mi
piaceva... ed ero bravo. Ed ero davvero... mi sentivo vivo». Alla fine Walt rivendica il proprio status di

68
malvivente e antieroe, ma soltanto quando è ormai il guscio vuoto del boss che era diventato, sapendo che
il suo orgoglio e il suo egoismo l’hanno portato di fronte alla morte e hanno condannato la sua famiglia a
pagare per i suoi peccati.
La complessità della caratterizzazione di Walter White deriva in buona parte dallo scarto tra la nostra
interpretazione delle sue azioni e la sua. Questi due punti di vista convergono negli episodi con una
dinamica del tipo «scappiamo da qui». Fin dall’inizio della serie, il genio di Walt non si manifesta nell’ambito
del sociale: la sua conoscenza della chimica gli permette di fuggire da trappole nelle quali si è cacciato
proprio perché non sa gestire l’aspetto umano del traffico della droga, ma la sua intelligenza machiavellica si
perfeziona man mano che è più immerso nel mondo della criminalità. Così, se nell’episodio della seconda
stagione «Quattro giorni fuori» Walt riesce a fuggire dal deserto costruendo una batteria grazie alla
conoscenza della chimica, arrivati alla terza stagione, nell’episodio «Al tramonto», lo vediamo invece che
ricorre alla sua intelligenza sociale per sottrarsi a Hank, facendo credere al cognato che Marie abbia avuto
un incidente d’auto. Nei momenti in cui Walt dimostra cosa sa fare, noi ci divertiamo ad assistere alle sue
imprese antieroiche, anche quando comportano azioni moralmente discutibili. Più spesso, Breaking Bad
presenta un gap tra come Walt vede se stesso e come noi consideriamo lui e le sue azioni: tutto rivela che le
sue azioni criminali hanno risvegliato in lui una vitalità che si contrappone all’immagine iniziale «con dei
baffi da impotente», ed è quest’accesso di ego a guidare le sue azioni, e non le sue giustificazioni
razionalizzate, come verrebbe facile pensare. Così come l’apatia iniziale derivava da una carriera da chimico
senza prospettive, nonostante il talento, allo stesso modo il ritrovato vigore deriva dall’essere diventato il
più importante cuoco di metanfetamina della regione, una conquista professionale che Walt deve a
malincuore tenere nascosta. Va anche detto che Walt vede se stesso come un leader più temibile di quanto
non sia in realtà, come si evince dalla sua conversazione con Skyler nell’episodio «Messi all’angolo». Quando
Skyler, avendo saputo dell’omicidio di Gale, dice preoccupata al marito: «Tu non sei un criminale incallito,
Walt. Ti sei trovato coinvolto per sbaglio», Walt le risponde con un’indignazione orgogliosa che, per la prima
volta, le fa vedere Heisenberg: «È evidente che non sai con chi stai parlando. Ti comunico che non mi stanno
minacciando, Skyler. Sono io la minaccia! Se sparassero a chi apre quella porta, morirei io? No. A me non
possono sparare!». Ogni volta che Walt proclama il proprio potere machiavellico finiamo per ritrovarci di
fronte a tentativi falliti di ingigantirsi, piuttosto che a dimostrazioni delle sue doti di antieroe; queste
contraddizioni creano però diversi livelli di interpretazione, che danno modo allo spettatore di mettere in
pratica la propria intelligenza sociale e di smentire inganni e rivelazioni, man mano che seguiamo la serie e
comprendiamo più a fondo questi personaggi complessi. L’ottima prova attoriale di Cranston apre parecchie
ipotesi sui ciò che Walt stesse per dire. Quest’oscillazione tra allineamento e accesso limitato a
un’interiorità stratificata è uno degli elementi più divertenti della trasformazione di Walt in antieroe, perché
la sua affascinante psicologia mantiene acceso il nostro interesse anche quando il personaggio diventa
ancora più spietato. Il personaggio diventa col tempo meno impaurito e timido, finché non è disposto ad
affrontare da solo i pericoli o persino a crearne per affermare il proprio potere e la propria importanza. La
serie ci mostra una trasformazione molto graduale, in cui ogni passaggio risulta organico e coerente al
personaggio, a ciò che gli abbiamo visto fare e all’interiorità che immaginiamo debba avere. La
caratterizzazione di Walter White propone una visione critica della virilità di un uomo che, inseguendo una
redenzione, intraprende un percorso che lo porterà a distruggere ciò che sostiene di voler proteggere: la sua
famiglia e la sua idea di se stesso. Breaking Bad è una storia profondamente morale, in cui le azioni hanno
delle conseguenze, ed è per questo che non ci aspettiamo che Walt esca fuori da questa storia come un
eroe vincente. Il piacere di guardare Breaking Bad risiede nel percorso effettuato dal personaggio, nel
ritrovarci a un certo punto in una posizione sgradevole, allineati a un criminale immorale che un tempo era
una persona simpatica e onesta. E così mi ritrovo ad amare Walter White, non in quanto persona ma in
quanto personaggio: sono infinitamente affascinato dai suoi comportamenti, dalla sua evoluzione, e da
come Cranston e la squadra di produzione siano riusciti a portarlo in scena. Così come le trame della tv
complessa spingono lo spettatore a osservare i meccanismi del racconto, dando vita a un’estetica

69
funzionale, la complessa caratterizzazione di Walt mi spinge a esaminare cosa lo renda così profondo, come
è stato creato e cosa ne sarà di lui, e al contempo mi trascina emotivamente nella sua vita e nelle sue
decisioni biasimabili, come se fosse una persona reale. Possiamo riferirci a questo tipo di coinvolgimento
come a un attaccamento funzionale: da spettatori, siamo coinvolti dalla costruzione del personaggio,
concentrati sulla performance, affascinati dal tentativo di leggere la mente dell’autore desunto, e facciamo il
tifo per Walt all’interno della narrazione, se non persino all’interno della storia. Benché la sua
trasformazione morale sia un caso unico tra le serie tv, comprendere l’atipico caso di Walter White può
aiutarci a spiegare l’appeal degli antieroi delle serie, nonché la nostra predisposizione a trascorrere
parecchio tempo con questi uomini schifosi.

CAP 5

COMPRENSIONE

Gli spettatori si appassionano alle serie tv in modi diversi, ma di base quasi ogni visione comincia con un
processo fondamentale, quello della comprensione, ovvero la ricostruzione di ciò che sta succedendo
all’interno di un dato episodio. La tv complessa ha innalzato la soglia di tolleranza nei confronti della
confusione degli spettatori, invogliandoli a prestare maggiore attenzione e a ricostruire la narrazione in
modo più attivo. Anche se di rado raggiunge l’ambiguità del cinema sperimentale, la televisione di oggi
tollera un certo livello di confusione pianificata. La mia analisi della comprensione si basa sul modello
cognitivo della poetica elaborato da David Bordwell a proposito della narrazione cinematografica. Questo
modello parte dal presupposto che gli spettatori operino sempre e comunque una ricostruzione mentale
degli universi narrativi, in un processo che può essere compreso più facilmente tramite gli strumenti della
psicologia cognitiva. Sono partito dal modo in cui Bordwell e altri umanisti hanno adattato i principi della
psicologia all’analisi della poetica. Bordwell mette in chiaro che lo spettatore di cui parla non è una persona
fisica, né un lettore ideale posto nelle condizioni ideali per capire un testo, bensì «un’entità ipotetica che
svolge le operazioni necessarie a ricostruire una storia al di là della sua rappresentazione filmica»: in altre
parole, il ricevente generico di un film, che ne analizza la struttura e i segnali della forma per ricrearne
mentalmente la narrazione.
Bordwell cerca di identificare quegli elementi universali di cui ogni fruitore esperto dovrebbe avere
padronanza, piuttosto che considerare le varianti contestuali e individuali che caratterizzano i vari spettatori.
Il contesto può influenzare parecchio il processo di comprensione di un film, ma possiamo dare per scontato
che la maggior parte degli spettatori guardi un film seguendo alcuni parametri convenzionali, come
l’attenzione e la mancanza di interruzioni. Le serie tv, però, non possono tenere conto di simili norme,
soprattutto nei media contemporanei.
L’esperienza dell’industria televisiva ci insegna che gli spettatori guardano soltanto un terzo dei nuovi
episodi, incentivando gli autori a scrivere per un’ampia gamma di tipologie di fruitori, che va da coloro che
partono da un episodio qualsiasi a quelli che non seguono un ordine, fino a quelli che hanno visto tutti gli
episodi, in ordine, e anche più di una volta. Inoltre, la diffusione di dvd, videoregistratori digitali (DVR),
streaming e download ha reso meno dominante il modello televisivo classico, caratterizzato da un
palinsesto rigido, a favore di una modalità di consumo in cui gli spettatori guardano diverse puntate di fila,
recuperano le prime stagioni dopo aver cominciato a metà strada e spesso riguardano gli episodi; questo
tempo dello schermo variabile può a volte anche includere le interruzioni pubblicitarie o quelle tra un
episodio e l’altro: la serialità è definita proprio dagli intervalli tra le varie unità narrative, e questi intervalli
possono essere vissuti o sorvolati in diversi modi. Da quando internet è diventato uno spazio in cui discutere
attivamente di televisione, i paratesti sono diventati sempre più importanti: lo spettatore può frequentare
forum, pagine wiki o conversazioni su Twitter, oppure andare in cerca di spoiler prima, durante e dopo la
visione, tutte attività che influiscono considerevolmente sulla sua comprensione della narrazione. Un

70
approccio cognitivo allo studio delle serie tv può aiutarci ad affrontare un’ampia gamma di questioni. La tv
seriale spinge gli spettatori a crearsi una mappa mentale dei mondi narrativi, un processo che rivela
l’importanza dell’orientamento spaziale e della costruzione visiva nel processo di visione. Il coinvolgimento
emotivo gioca un ruolo importante nello studio cognitivo delle forme di narrazione, e l’immersione a lungo
termine in una serie produce senza dubbio diversi tipi di coinvolgimento emotivo. L’attenzione dello
spettatore è una variabile fondamentale per cinema e tv, e dobbiamo quindi analizzare il modo in cui le
serie tv sollecitano la nostra attenzione, attraverso strategie visuali, sonore e diegetiche, allo scopo di far
funzionare al meglio lo storytelling. Questo capitolo si concentra sul processo di comprensione di una
narrazione: le storie sono sistemi di gestione delle informazioni, nei quali rivelazioni, enigmi e incertezze
hanno lo scopo di produrre un impatto emotivo. Focalizzarsi sul modo in cui le serie tv gestiscono le
informazioni narrative e la conoscenza degli spettatori può aiutarci a capire alcuni dei punti di forza della tv
complessa.

La gestione delle informazioni seriali

Sono molti i tipi di informazioni narrative che una serie tv può comunicare. Nel corso di una serie veniamo a
conoscenza del passato dei personaggi, dei loro rapporti, delle motivazioni più intime e di ciò in cui credono.
Raccogliamo informazioni su geografia, storia e temporalità del mondo narrativo, nonché sulle sue norme
intrinseche, soprattutto nei generi con un universo non realistico. Conseguiamo inoltre una conoscenza
funzionale: impariamo le norme intrinseche dello storytelling e quelle estrinseche riguardanti genere, team
creativo, network o codici televisivi: l’elenco delle convenzioni stilato dai fan sulla pagina wiki Tv Tropes
testimonia l’immensa quantità di informazioni disponibili durante il processo di comprensione di una
narrazione. Ma più semplicemente veniamo a conoscenza degli eventi della narrazione, che rispondono a
una domanda essenziale: «Cos’è successo?».

Consumare un prodotto narrativo richiede una costante gestione delle informazioni: dobbiamo tenere a
mente ciò che sappiamo ma anche le lacune ancora da sanare, un’attività che agli spettatori può risultare
piuttosto piacevole e coinvolgente. Buona parte della gestione di queste informazioni è inconsapevole e
automatica, guidata da assunti e convenzioni soggiacenti: riconosciamo un viso e lo colleghiamo a ciò che
sappiamo del personaggio, riconosciamo i suoni emessi da un personaggio in quanto linguaggio e ne
comprendiamo il significato, vediamo un cambio di campo e lo interpretiamo come un cambio di
prospettiva all’interno delle stesse coordinate spazio-temporali, ascoltiamo una musica e capiamo se è un
elemento diegetico o extradiegetico. Questi processi automatici di deduzione dipendono dallo schema
cognitivo sviluppato cumulativamente dallo spettatore attraverso il consumo dei media, ma anche dalle
dinamiche quotidiane di percezione e cognizione. Una strategia cui le serie tv complesse possono ricorrere
per aumentare il coinvolgimento dello spettatore è quella di giocare con i confini di questi schemi
inconsapevoli, mettendo alla prova il nostro approccio alla visione per sollecitare nuove e interessanti
aspettative, e spostando i processi mentali automatici nella sfera della comprensione consapevole. Molti
schemi narrativi non sono basati su costanti universali come il linguaggio o il riconoscimento facciale, bensì
sulle norme del mezzo televisivo. Ricorrendo alla terminologia di Bordwell, si tratta di norme estrinseche
che pervadono qualsiasi medium per guidarci nel processo di comprensione, come ad esempio convenzioni
di genere, stili e aspettative standard su ciò che una serie tv dovrebbe fare.
In ogni dato momento, la nostra comprensione è legata alla nostra percezione del tempo dello schermo,
perché l’avvicinarsi della fine della puntata ci suggerisce che una determinata sottotrama sta per
concludersi, mentre nel caso di generi come le soap opera o le serie thriller ci aspettiamo un finale sospeso
che ci spinga a guardare l’episodio successivo. Anche se abbiamo l’impressione di «aver perso il senso del
tempo» guardando un episodio particolarmente coinvolgente, a livello inconsapevole i nostri processi di
comprensione sanno a che punto siamo dell’episodio e quanto manca indicativamente alla sua conclusione.
Ci appelliamo alla nostra percezione del tempo dello schermo per gestire le nostre aspettative sugli eventi
futuri e sul ritmo della trama, seguendo una serie di linee guida sviluppate nel corso della nostra esperienza
71
di telespettatori. Distruggere queste aspettative consolidate può risultare esaltante quanto frustrante (o
entrambe le cose), come quando non ci si aspetta che un episodio finisca con la scritta Continua.

Una serie stabilisce anche le proprie norme intrinseche, che instradano lo spettatore su come dovrà
guardare gli episodi successivi e cosa dovrà aspettarsi. Impariamo a distinguere le varie repliche dei cyloni di
Battlestar Galactica, a capire che le interviste dirette di The Office fanno parte di un documentario girato
nella finzione, e a prevedere chi morirà all’inizio di un nuovo episodio di Six Feet Under. Così come le norme
estrinseche, anche quelle intrinseche instradano la comprensione dello spettatore, ma possono al
contempo procurargli divertenti momenti di confusione, sorpresa o fraintendimento, se la serie decide di
violare queste stesse norme attraverso i cosiddetti effetti speciali narrativi. Lost, ad esempio, era molto
propensa sia a creare delle norme intrinseche sia a stravolgerle: dopo tre stagioni basate sull’uso dei
flashback, la serie aveva creato un enorme bagaglio di norme intrinseche, usato poi alla fine della terza
stagione per prendere in contropiede lo spettatore e lasciarlo esterrefatto, proponendogli un flash-forward
sul futuro di Jack, e quindi successivo all’isola, mascherato da flashback precedente all’isola. A quel punto,
nella quarta stagione, la serie adotta il flash-forward come nuova regola intrinseca, insegnando allo
spettatore a guardare gli episodi in un modo nuovo, nonché aprendo le porte a nuove possibilità narrative.
L’episodio «Ji Yeon» propone un’interessante rivisitazione delle norme intrinseche di Lost sulla temporalità e
sull’affiancamento ai personaggi. La trama nel «presente» dell’isola si focalizza sulla gravidanza di Sun e sul
rapporto con il marito, Jin, inserendo però dei flash, ambientati al di fuori dell’isola, in cui Sun è in sala
travaglio e Jin attraversa Seul in fretta e furia per comprare un peluche e arrivare in tempo in ospedale. Le
norme intrinseche della stagione ci fanno pensare che stiamo assistendo a un flash-forward in cui Sun e Jin
sono scappati dall’isola, ma la fine dell’episodio ci svela che la scena in cui Jin correva era un flashback
precedente all’isola, in cui Jin comprava un peluche per il figlio di un socio, mentre quella in cui Sun
partorisce è un flash-forward successivo all’isola, alla fine del quale arriva la rivelazione che Jin è morto (o
almeno così crede Sun). Trattandosi dell’unico episodio della serie che mescola diversi tipi di «flash» esterni
all’isola, esso gioca con le nostre certezze sulle norme intrinseche di Lost, e si chiude con un colpo di scena
che, oltre a incarnare l’estetica funzionale, rappresenta un contraccolpo emotivo riguardo alla futura morte
di un personaggio.
Questi esempi di norme sovvertite identificano un’importante strategia usata dalle serie tv per suscitare
l’attenzione e l’interesse degli spettatori: smontare le loro aspettative sugli eventi, spostando il loro
processo di comprensione dagli assunti inconsapevoli all’attività speculativa consapevole.
Per far sì che lo spettatore rimanga coinvolto, le narrazioni seriali devono trovare un equilibrio tra la
familiarità e la novità, e a tal fine rendere lo spettatore consapevole di una norma consolidata può
permettere alla serie di creare interessanti variazioni sul tema. Queste variazioni possono riguardare un solo
episodio (come alcune puntate di Buffy che cambiano le regole del genere o i punti di vista della
narrazione), oppure costituire un «riavvio» della premessa originale e della modalità di storytelling della
serie (come succede in Alias, Angel e Chuck). In Lost, modificare la struttura e la temporalità degli episodi,
passando dai flashback ai flash-forward, serve a coinvolgere gli spettatori, imponendo loro di fare ipotesi più
attive e funzionali.
Una delle spinte principali a consumare un prodotto narrativo seriale è il desiderio di saperne di più su una
storia coinvolgente, man mano che, attraverso un processo di analisi e speculazioni, scopriamo nuovi
dettagli sui personaggi, i loro rapporti, il loro mondo e lo stesso storytelling della serie. Bordwell,
ricollegandosi a Meir Sternberg, chiama questo processo di approfondimento ipotesi per curiosità, poiché il
passato della storia ci viene presentato con delle lacune che necessitano di essere sanate e pertanto
accendono la nostra curiosità. Le domande legate alla curiosità possono essere poste esplicitamente, come
nel caso di un omicidio misterioso, o dedotte implicitamente, come quando un personaggio cambia
inspiegabilmente atteggiamento. Gli enigmi narrativi nascono da questa curiosità; facciamo ipotesi per
riempire le lacune della storia e speculare sulle prossime rivelazioni. La tv complessa di oggi è in grado di
mantenere viva la curiosità per un arco di tempo dello schermo molto più lungo che in passato, anche
72
perché i producer possono contare molto di più sull’interesse costante e sulla memoria degli spettatori.
Lost, ad esempio, eccelle nella capacità di mantenere viva la curiosità a lungo termine, spesso trascinando
questioni irrisolte per anni, come la domanda sul modo in cui John Locke è rimasto paralizzato prima di
arrivare sull’isola, posta nel quarto episodio della serie, «La caccia», e risolta soltanto nel sessantaduesimo,
«L’uomo di Tallahassee». In casi più rari, le nuove informazioni possono creare domande e rimandi che
hanno senso soltanto a posteriori, spingendoci a riconsiderare ciò che credevamo di avere capito e
riaccendendo la nostra curiosità. All’inizio della puntata finale della prima stagione di Revenge, «La resa dei
conti», ci viene ricordato il fatto già assodato che la madre di Emily è morta quando lei era una bambina;
nello stesso episodio, Emily combatte con un uomo misterioso che le dice: «Lotti come una furia. Devi aver
preso da tua madre». Questa battuta dovrebbe farci chiedere: «Perché conosce la madre di Emily?», ma il
contesto ci spinge a un’interpretazione più ovvia: subito prima del combattimento, infatti, Emily ha detto:
«Non sono qui perché mio padre è stato incastrato. Sono qui per il modo in cui è morto», facendoci pensare
che sia stato quell’uomo a ucciderlo. Di conseguenza, quando l’uomo fa la battuta su sua madre, pensiamo
che si tratti di un insulto indiretto al padre, per la sua incapacità di combattere, e non consideriamo l’ipotesi
che l’uomo misterioso possa conoscere la madre di Emily. Ma alla fine dell’episodio Emily viene a sapere che
sua madre è ancora viva e che potrebbe essere coinvolta in un complotto: questa informazione dà nuovo
significato alla battuta, che probabilmente non avevamo considerato fraintendibile suggerendoci che l’uomo
misterioso potrebbe aver verificato in prima persona l’abilità della madre di Emily nel combattimento. La
battuta assume un significato ancora nuovo nella seconda stagione, quando si scopre che l’uomo misterioso
è addirittura sposato con la madre di Emily. Queste rivelazioni, trasformando un assunto invisibile in una
domanda consapevole e infine in un momento di interconnessione narrativa, contribuiscono alla «ri-
guardabilità» di molte serie tv complesse, poiché la maggiore consapevolezza ci permette di apprezzare il
modo in cui certe informazioni vengono date o omesse, o al contrario ci invoglia ad analizzare in modo
critico le incoerenze o le discontinuità della serie. Gli enigmi legati al passato sono però meno comuni di
quelle asserzioni narrative che spingono la narrazione in avanti, alimentando le ipotesi legate alle
aspettative su ciò che potrebbe succedere nella storia. Sternberg usa la parola suspense per riferirsi a
qualsiasi tipo di risvolto narrativo, ma io preferisco usare il termine per indicare un sottoinsieme di ipotesi
legate alle aspettative, nelle quali gli eventi che lo spettatore spera accadano ai personaggi in pericolo
hanno in realtà scarse possibilità di avverarsi. Benché sul piano funzionale, e considerate le norme
estrinseche della televisione e dello storytelling, siamo certi che i nostri protagonisti non possano morire o
fallire profondamente, tendiamo comunque a sperare che avvenga il peggio, alimentando la suspense
tramite ipotesi pessimiste su ciò che potrebbe succedere. Le narrazioni seriali creano asserzioni narrative
che sollecitano la nostra curiosità, invogliandoci a fare ipotesi su ciò che succederà e a mantenere vivo il
nostro interesse anche durante gli intervalli tra gli episodi. Sia la curiosità che le aspettative sono reazioni
emotive derivate dal desiderio di saperne di più: quando diciamo che ci «interessa» una serie, intendiamo
di solito che abbiamo il desiderio di colmare le lacune di ciò che è già successo o che siamo impazienti di
indovinare ciò che succederà. Per i producer, una delle sfide connesse alle aspettative è trovare il giusto
equilibrio tra plausibilità, in modo che le nuove informazioni siano coerenti al mondo narrativo, e
imprevedibilità, affinché le rivelazioni non risultino ovvie a chiunque voglia fare delle ipotesi.
Il senso di sorpresa ideale si ha quando lo spettatore si chiede «Come ho fatto a non pensarci?», perché
questo significa che si sono date delle motivazioni impreviste ma plausibili.
La versione americana di The Killing è caduta vittima di questi tranelli nella prima stagione, abusando delle
piste false (red herring) e proponendo come sospetti dell’omicidio troppi personaggi che, agli occhi degli
spettatori, erano evidentemente innocenti, ma anche facendo rivelazioni che non sembravano avere altra
ragion d’essere che lo stupore dello spettatore; queste sorprese gratuite hanno contribuito alla reazione
negativa di fan e critici nei confronti del colpo di scena che ha chiuso la stagione, considerato immotivato e
incoerente. Le serie incentrate su un mistero fanno fatica a mantenere accesa la curiosità degli spettatori su
enigmi a lungo termine, e spesso ricorrono a sorprese che però perdono il loro impatto se abusate o

73
immotivate. Molti spettatori non guardano la televisione da soli ma in quanto parte di community, la cui
nascita è spesso facilitata dalla fan culture e dai paratesti online. La speculazione è uno dei processi cognitivi
eseguiti dagli individui durante l’atto della visione, ma le idee e le ipotesi che ne derivano sono spesso
articolate all’interno delle community di fan, convogliando un’ipotesi personale nella pratica culturale del
teorizzare. Il processo interiore di formulazione delle ipotesi e il teorizzare collettivo sono attività
intrecciate, poiché mentre guardano (o riguardano) un episodio gli spettatori integrano le teorie sentite o
lette nel proprio processo di formulazione delle ipotesi. Quest’interazione tra l’attività cognitiva individuale
e la circolazione della cultura è fondamentale per provare a capire il processo di comprensione di una
narrazione, soprattutto nel caso di un testo seriale, le cui lacune ci invitano a speculare, teorizzare e
confrontarci su un dato programma: l’esperienza di visione delle narrazioni seriali rimane comunque una
pratica molto contestualizzata, ed è quindi necessario capire in che modo questi discorsi interpersonali
influiscono sul processo di comprensione.
Alcune serie possono ispirare aspettative e curiosità in quanto parte di un immaginario intertestuale più
ampio, come il prequel Smallville, che si basa sulla consapevolezza degli spettatori che il giovane Clark Kent
diventerà Superman, o i due recenti adattamenti di Sherlock Holmes, Elementary e Sherlock, che giocano
entrambi con l’iconografia e la caratterizzazione dell’originale. Un caso particolarmente interessante è la
serie Hannibal, che racconta di quando l’iconico serial killer Hannibal Lecter era ancora uno psichiatra,
prima di essere arrestato. Secondo gli spettatori che conoscono i libri di Thomas Harris e gli adattamenti
cinematografici, la serie riprende e modifica le precedenti rappresentazioni del personaggio, rendendone la
mitologia più adatta a una serie tv e disseminandola di piccole citazioni e di «uova di pasqua» (Easter Eggs).
La serie parte dal presupposto che chiunque sappia che Lecter è un serial killer cannibale: : i primi episodi
ce lo mostrano mentre cucina piatti elaborati e serve ai suoi ospiti della carne, che noi immaginiamo
umana, nonostante nulla sia mai esplicitato. Il programma gioca proprio sull’ironia macabra generata da
questo scarto, ponendo gli spettatori in una condizione di conoscenza privilegiata rispetto a tutti i
personaggi, tranne Lecter. Ne risulta un ottimo esempio di estetica funzionale, in cui l’attenzione viene
spostata sulle tecniche dello storytelling, che rinuncia a dare informazioni e confida piuttosto nei rimandi
intertestuali. Una delle modalità di condivisione delle informazioni narrative che si è maggiormente diffusa
negli ultimi anni è lo spoiler, una pratica che manda in corto circuito la comprensione di una serie, fornendo
in anticipo agli spettatori informazioni su ciò che deve ancora accadere. Il confine tra fruizione «normale» e
«spoiler» si sposta a seconda degli spettatori, perché per alcuni fan dovrebbe essere vietata qualsiasi
informazione anticipata, mentre altri leggono regolarmente brevi riassunti pubblicati sulle riviste e
guardano le anteprime per alimentare le proprie aspettative. Gli spoiler involontari proliferano nelle
community online. Esiste una tipologia di spettatori che cerca intenzionalmente queste rivelazioni
anticipate: questi cosiddetti fan dello spoiler bazzicano siti che sono il mercato nero delle informazioni
narrative anticipate, e molti di loro guardano le serie considerando normale questa condizione di spoiler
preliminare. Jonathan Gray e io abbiamo svolto una ricerca su questo fenomeno, esaminando i fan dello
spoiler di Lost tramite un sondaggio online, per comprendere perché alcuni spettatori volessero guardare
una serie in quella che ci sembrava una modalità anomala. I fan dello spoiler decidono attivamente i termini
della propria esperienza di visione, trasformando le aspettative pianificate dai producer in curiosità sul
modo in cui la serie metterà insieme i pezzi già raccontati, un processo nel quale gli spoiler fungono
praticamente da flashforward. Inoltre, alcuni dei fan dello spoiler intervistati cercavano informazioni
anticipate per avere in qualche modo il controllo delle proprie reazioni emotive, evitando sorprese o
preparandosi a rimanere delusi riguardo ciò che aspettava i loro personaggi preferiti, nonché riempiendo gli
intervalli tra gli episodi proprio grazie a quest’attività di ricerca. È interessante chiedersi quale sia il livello di
suspense possibile per chi legge gli spoiler. Bordwell sostiene che, benché la suspense derivi dall’attesa degli
sviluppi della narrazione, essa non scompare se conosciamo in anticipo gli eventi che verranno perché le
reazioni emotive alla suspense sono in parte involontarie, fenomeni «di pancia», che dipendono
dall’elaborazione di eventi comunque spiacevoli, per quanto già noti.

74
Gli spoiler possono quindi far aumentare le aspettative che alimentano la suspense, spingendo la narrazione
verso l’inevitabile; bisogna però ricordare che molto spesso gli sviluppi di una trama sono già noti a
prescindere dagli spoiler: gli spettatori a conoscenza delle norme dello storytelling, infatti, sanno già che i
protagonisti non possono essere feriti a morte, che prima o poi i misteri verranno risolti e che altre
convenzioni dovranno essere rispettate. Possiamo capire in che modo spettatori con un diverso bagaglio di
informazioni guardano la medesima scena ripercorrendo il climax della puntata finale della prima stagione
di Veronica Mars, intitolata «La confessione». Veronica ha scoperto chi ha ucciso la sua migliore amica Lilly,
ma è intrappolata in un frigorifero, che l’assassino cosparge di benzina, minacciandola di darle fuoco se non
gli consegnerà le prove. Arriverà suo padre Keith a salvarla prima che venga bruciata viva? L’assassino sarà
arrestato o scapperà? Uno spettatore «puro», ossia uno che guarda l’episodio senza sapere cosa succederà,
segue la storia così come è stata progettata dai producer: ma fino a che punto può aspettarsi che succeda di
tutto? Ogni genere ha le sue regole consolidate, che raramente vengono infrante: si dà per scontato che il
detective arresti il criminale, non che ne sia una vittima. Gli spettatori più esperti, che secondo me sono
quelli a cui una serie complessa come Veronica Mars si rivolge, sanno che le situazioni pericolose sono
destinare a capovolgersi e la sicurezza che Veronica ne uscirà illesa rende abbastanza improbabile
l’eventualità che possa morire. Lo spettatore puro non guarda un nuovo episodio in modo ingenuo, né si
relaziona al mondo finzionale come se fosse reale, bensì con aspettative funzionali sui risvolti narrativi più
probabili, ossia quelli che di solito propone la televisione. Questo spettatore segue la serie con dubbi minimi
su ciò che succederà, fiducioso che alla fine Veronica sopravviverà e che giustizia sarà fatta, anche se non sa
esattamente in che modo l’inevitabile conclusione avrà luogo. Un fan dello spoiler guarderebbe l’episodio
sapendo già che Veronica sopravvive e che l’assassino è catturato. Lo spettatore al corrente dello spoiler si
approccia all’episodio con meno incertezze di quello puro, avendo eliminato a priori la sorpresa derivata dai
colpi di scena (come l’identità dell’assassino). Ma nel momento in cui Veronica è in pericolo lo spettatore al
corrente dello spoiler non ha aspettative troppo diverse da quelle dello spettatore puro: entrambi sanno
che Veronica sopravvivrà, ma nessuno dei due sa esattamente come. Secondo Hitchcock la suspense deriva
dall’impossibilità di intervenire nel mondo narrativo, una condizione condivisa da tutti gli spettatori, a
prescindere dagli spoiler. Ma esiste un altro livello di suspense: la bravura di Hitchcock stava infatti nel modo
in cui rivelava gli elementi chiave della storia, non nelle informazioni in sé, poiché ciò che innesca la
suspense non sono tanto gli eventi narrativi, quanto il modo in cui sono raccontati attraverso segnali che
suscitano reazioni emotive, come la colonna sonora, le inquadrature e le espressioni facciali degli attori. Il
terzo tipo di spettatore è il ri-guardatore (rewatcher), colui che rivive l’esperienza narrativa attraverso visioni
reiterate. Il ri- guardatore, come il fan dello spoiler, sa già cosa succederà, ma a differenza del fan dello
spoiler sa anche come questi eventi narrativi saranno raccontati; eppure, secondo Bordwell, anche un ri-
guardatore vive la suspense attraverso i segnali a lui già noti ma comunque potenti dello storytelling.
Riguardando la puntata, questo spettatore sarà comunque coinvolto dalla suspense per il pericolo
affrontato da Veronica, ma potrà anche prestare maggiore attenzione al modo in cui questa suspense viene
generata attraverso il montaggio e la colonna sonora, nonché riflettere sul modo in cui l’intera stagione è
stata disseminata di segnali per giungere all’apice di questo climax. Le aspettative del ri-guardatore sono
alimentate dall’imperfezione della memoria, considerato che i nostri ricordi non sono mai così precisi da
combaciare perfettamente con ciò che ci aspettiamo. Così il ri-guardatore confronta ciò che vede con ciò
che ricorda, e in questo processo si instaura un rapporto inversamente proporzionale tra la precisione dei
ricordi e le aspettative che trasforma la visione delle puntate precedenti in un’attività ludica, aggiungendovi
un altro livello di intrattenimento. Sia lo spettatore al corrente dello spoiler che i ri-guardatori possono
approfittare del fatto che conoscono gli eventi per concentrarsi sul discorso narrativo, studiando e
apprezzando il modo in cui la storia viene raccontata dal punto di vista tecnico e le emozioni che lo stesso
storytelling provoca in loro. Un’altra importante variabile riguarda il modo in cui gli spettatori fanno
coesistere ciò che sanno della storia con le informazioni di cui i personaggi sembrano essere in possesso.
Ogni serie dimostra un diverso livello di generosità riguardo alle proprie informazioni narrative, proponendo

75
una conoscenza dei fatti più o meno ampia, profonda e comunicabile. Queste variabili dipendono spesso dai
personaggi, da quanti di loro condividono con noi ciò che sanno, dal livello di accesso alla loro interiorità e
al loro passato e da quanto invece non vogliono dirci. Per rilevare queste variabili dobbiamo far riferimento
a un lungo periodo narrativo, e la prima stagione di Dexter si presta bene a questo scopo. Fin dall’inizio,
infatti, ci ritroviamo profondamente allineati al protagonista Dexter Morgan: vediamo quello che vede lui,
ascoltiamo i suoi pensieri tramite la voce fuori campo, condividiamo con lui segreti e scoperte, e raramente
sappiamo più di quello che sa lui. Nella puntata pilota assistiamo alla sua vita segreta da serial killer
(spiegata anche dalla voce fuori campo), scopriamo che ha ereditato il suo codice etico dal padre adottivo
Harry e incontriamo tutti gli altri personaggi, e tutto ciò sempre dal suo punto di vista, attraverso uno
storytelling che sembra offrirci una conoscenza dei fatti limitata ma profonda e inequivocabile. Il pilota ci
prepara inoltre alla macro-trama, presentandoci il «killer del camion frigo», che fa sapere della sua presenza
a Miami inviando un messaggio direttamente a Dexter, mettendo in pericolo, ai nostri occhi, il segreto del
protagonista: l’enigma riguardante l’identità del killer, nonché il suo legame con Dexter, ci spinge a essere
ancora più allineati con il protagonista, perché vogliamo scoprire la verità quanto lo vuole lui. Benché negli
episodi successivi la narrazione abbia un respiro più ampio, proponendo scene senza Dexter dedicate ai
personaggi secondari (soprattutto a sua sorella Debra), buona parte delle nostre informazioni, curiosità e
aspettative sono le stesse di Dexter. Questo allineamento costante muta nell’ottavo episodio, «Strizzacervelli
in busta», nel quale scopriamo qualcosa che Dexter non sa, ovvero che Rudy, il nuovo fidanzato di Debra, è
il killer del camion frigo. Negli episodi successivi, Rudy sembra morbosamente ossessionato da Dexter per
motivi che soltanto noi conosciamo (almeno in parte). Questo scarto di conoscenza sposta l’interesse dalla
scoperta dell’identità del killer alla curiosità di sapere cosa succederà: sapendo chi è Rudy, senza che lo
sappiano Dexter e Debra, diventiamo vigili sui pericoli in agguato e ci mettiamo in cerca di segnali nel
comportamento di Rudy. Questa dinamica è particolarmente efficace nella nona puntata, «Segreti di
famiglia», nella quale Dexter scopre di aver ereditato una casa dal padre biologico e si mette in viaggio per
ricostruire il suo passato. Rudy convince Debra a partire con Dexter, e noi guardiamo Rudy che si insinua
nella vita privata di Dexter, rendendo più complessa la partita che i due killer stanno giocando. Guardiamo
questi episodi convinti di saperne abbastanza su Rudy e le sue motivazioni, e che la nostra posizione
avvantaggiata ci renderà godibile l’attesa del momento in cui, con un violento impatto emotivo, Dexter
scoprirà che il killer è proprio la persona più vicina a sua sorella. Ma invece di soddisfare queste aspettative,
l’episodio conclusivo della stagione, «Nato libero», riesce persino ad aumentare l’interesse dello spettatore,
svelandoci che Rudy e Dexter sono fratelli, una rivelazione che rende più comprensibili tutte le azioni del
killer del camion frigo, e fornisce motivazioni chiare sul perché Rudy stesse cercando di riportare a galla i
ricordi rimossi di Dexter, e perché ne sapesse più lui dello stesso Dexter. La rivelazione della parentela tra
Rudy e Dexter è più complessa di un semplice colpo di scena, poiché ci spinge a ripensare al modo in cui è
stata raccontata la storia fino a quel momento, e sposta la nostra attenzione sui personaggi e sui loro
rapporti per offrirci maggiore profondità e complessità, alla luce di questa nuova consapevolezza. La
seconda parte della puntata finale mette in scena il conflitto interiore di Dexter, conteso tra la propria
natura mostruosa, rappresentata dal fratello traumatizzato, e il suo codice sociale, alimentato dalla famiglia
adottiva di Harry e Debra e dal fatto che sono entrambi dei poliziotti. Forte della coinvolgente prova
attoriale di Michael C. Hall, l’episodio valorizza il colpo di scena concentrandosi sulla psiche danneggiata di
Dexter, il cui conflitto verrà risolto, almeno temporaneamente, da alcuni eventi successivi. Ma tenendo
conto di questa rivelazione, gli eventi precedenti assumono un significato diverso, prima visibile soltanto
agli spettatori al corrente di spoiler, ai riguardatori o ai lettori del romanzo cui si ispira la serie. In «Segreti di
famiglia», quando Dexter si reca nella casa del padre biologico, anche Rudy visita nuovamente i luoghi del
suo passato. Alla prima visione, sappiamo che Rudy sta manipolando Dexter, e questo ci pone in una
posizione avvantaggiata rispetto al protagonista, ma soltanto quando il quadro si fa completo
comprendiamo l’ampiezza di quelle informazioni fondamentali di cui, fino a quel momento, soltanto Rudy
era a conoscenza. la serie premia gli spettatori che continuano a riflettere sulla trama nell’intervallo tra una

76
stagione e l’altra, dando loro l’occasione di ricostruire la storia autonomamente, in un processo che risulta
più soddisfacente che osservare Dexter che arriva alle stesse conclusioni. Ma affinché questi collegamenti
abbiano luogo, una serie deve tenere conto della memoria degli spettatori e deve soprattutto sollecitarla.

I meccanismi della memoria seriale

La televisione complessa richiede allo spettatore un certo livello di attenzione, sollecitandone,


confondendone e sfruttandone i ricordi in modo strategico tramite tecniche specifiche di questo media. Il
tipico modello di consumo dei programmi televisivi, scandito in puntate settimanali e stagioni annuali,
obbliga i producer a raccontare le proprie storie in un modo che possa trascendere dalle modalità di visione
individuali, considerato che non tutti gli spettatori ricordano le stesse cose e che molti di essi si sono
sicuramente persi degli episodi. le innovazioni tecnologiche e i nuovi modi in cui si può guardare una serie
hanno reso più comuni le abbuffate (binge watching), spingendo le serie a evitare quelle ridondanze che
possono diventare noiose e scontate se si guardano gli episodi uno dopo l’altro, senza intervalli. Gli
spettatori si differenziano inoltre per i diversi livelli di uso dei paratesti che gli rinfrescano la memoria,
mentre altri possono anche dimenticarsi del programma finché non va in onda l’episodio successivo. Per
questo motivo le serie complesse di lunga durata devono trovare un equilibrio tra le necessità mnemoniche
di un’ampia gamma di spettatori e di contesti di ricezione e consumo.
Allo stesso modo, i singoli episodi devono gestire la nostra memoria a breve termine riguardante gli eventi
appena raccontati, facendo al contempo riferimento a fatti avvenuti settimane, mesi e persino anni prima.
Anche se l’abitudine di guardare distrattamente la tv è oggi in netto calo , i producer hanno ancora bisogno
di creare programmi pensati per un ambiente domestico predisposto alla disattenzione e al multitasking più
di quanto lo siano molti altri media.
Ogni episodio di una serie tv contiene piccole ridondanze che ricordano allo spettatore i punti cardine della
storia, e che vanno da un’inquadratura standard dell’ambientazione (establishing shot) a dialoghi che
ribadiscono nomi e rapporti. Le soap opera si appoggiano a un espediente, comune nelle narrazioni
ridondanti, che aiuta lo spettatore a ricordare e al contempo gli propone il piacere di assistere alle reazioni
dei personaggi posti di fronte a eventi passati: la ripetizione diegetica, nella quale sono i dialoghi a ricordare
allo spettatore ciò che è già successo nella serie. Le serie di prima serata ricorrono infinitamente meno alla
ripetizione diegetica, ma anche qui i personaggi si chiamano l’un l’altro per nome e fanno riferimento ai
propri rapporti più spesso di quanto facciano le persone nel mondo reale, sfruttando i dialoghi per
mantenere fresche le informazioni di base nella mente degli spettatori. Nell’episodio della quarta stagione
di Lost intitolato «Ricerca febbrile» c’è una scena in cui Leamy, il capo dei mercenari, arriva in elicottero su
una nave mercantile portando con sé un uomo ferito. Il medico di bordo chiede: «Chi l’ha ridotto in questo
stato?», e Keamy risponde: «Una colonna di fumo nero l’ha scaraventato in aria [...] e gli ha strappato le
budella», raccontando l’evento spettacolare visto due puntate prima nell’episodio «Cambio delle regole». Ai
tempi della prima messa in onda di quest’episodio di Lost gli spettatori costanti avevano già guardato 79
episodi, distribuiti nel corso di quattro anni, e si trovavano quindi con una grande mole di informazioni da
tenere a mente. Nemmeno il più attento degli spettatori poteva mantenere attivi tutti i ricordi nello stesso
momento, considerato che la cosiddetta «memoria di lavoro» è in grado di gestire sette pensieri per volta, e
che la maggior parte delle informazioni sulla storia doveva essere stata archiviata nella memoria a lungo
termine. Quando i dialoghi tra i personaggi ricorrono alla ripetizione diegetica, gli spettatori reinseriscono
nella memoria di lavoro l’informazione appena citata, rendendola parte integrante della comprensione della
narrazione. Questa ripetizione diegetica all’inizio di «Ricerca febbrile» si assicura che, guardando il resto
dell’episodio, tutti gli spettatori abbiano a mente quell’evento, perché da esso ne scaturiscono altri che
spingeranno Keamy a cercare chi l’ha tradito e a tornare sull’isola. La ripetizione diegetica ricorre ai dialoghi
come strumento per richiamare eventi passati nella memoria di lavoro, ma una funzione simile può essere
svolta anche da alcuni segnali visivi, come oggetti, ambientazioni o inquadrature. Per esempio, nell’episodio
della terza stagione di Battlestar Galactica intitolato «Tragico epilogo», Kara Thrace dà all’ammiraglio

77
William Adama una statuetta di una divinità, affinché la usi come polena per il suo modellino di nave; alla
fine dell’episodio Adama distrugge il modellino in seguito all’apparente distruzione del caccia pilotato da
Thrace. Nell’episodio «Gli ultimi cinque» della stagione successiva, vediamo Adama che ricostruisce il
modellino di nave dopo che Thrace sembra essere tornata dalla tomba. Le immagini della statuetta e della
nave attivano i ricordi connessi a quell’episodio precedente, enfatizzando il rapporto tra questi due
personaggi e le misteriose circostanze del ritorno di Thrace, senza però ricorrere al dialogo per fornire
un’esposizione esplicita dei fatti. Di solito, i segnali visivi sono meno immediati del dialogo, e più che
richiamare l’attenzione degli spettatori che magari hanno perso l’episodio evocato, servono a integrare gli
eventi passati in uno storytelling più verosimile, che attiva comunque i ricordi degli spettatori. L’uso della
voce fuori campo è un modo diffuso per comunicare informazioni allo spettatore tramite una modalità
metanarrativa. Anche se molti sceneggiatori lo considerano un espediente troppo letterario e pigro per i
film e la televisione, la voce fuori campo può essere usata in modo efficace in alcuni generi come i detective
drama o le sitcom, aiutando lo spettatore a orientarsi nel mondo narrativo e al contempo conferendo allo
storytelling una specifica personalità. Veronica Mars ricorre spesso a un’ironica voce fuori campo per
aiutare lo spettatore a orientarsi nella trama e per comunicare il punto di vista della protagonista.
Nell’episodio della prima stagione intitolato «La verità», Veronica sta aiutando la sua amica Mac a gestire la
scoperta di essere stata scambiata alla nascita con un’altra bambina. La voce fuori campo di Veronica dice:
«Potrei dire a Mac che so come si sente, ma la verità è che non lo so. Quando ho avuto l’opportunità di
scoprire l’identità di mio padre ho preferito ignorare, nonostante avessi dei dubbi». Quest’osservazione sul
padre biologico di Veronica si riferisce a un evento risalente a due episodi prima, quando, dopo aver
scoperto che la madre tradiva suo padre, Veronica preleva un campione di sangue del padre per inviarlo a
un laboratorio che faccia l’esame del DNA, salvo poi decidere di non leggere il risultato. Anche se questo
tema non diventa un elemento importante prima della fine della stagione, il richiamo di quest’evento
passato aiuta gli spettatori a fare un parallelo tra Mac e Veronica, nonché a comprendere meglio il modo in
cui Veronica e suo padre interagiscono nel corso dell’episodio. Pushing Daisies, uno stravagante incrocio tra
genere fantastico e investigativo, ricorre alla voce di Jim Dale, conosciuto in quanto lettore degli audiolibri di
Harry Potter, come narratore onnisciente, sia per presentare allo spettatore le informazioni sulla storia, sia
per ricordarne gli eventi precedenti. Nel settimo episodio, «Il profumo del successo», il narratore
commenta: «Chuck manteneva segreto l’ingrediente segreto delle sue torte. Nemmeno Olive Snook sapeva
che contenevano prodotti omeopatici, per scuotere le zie di Chuck dalla letargia». Considerati gli elaborati
meccanismi narrativi e l’eccentrico universo di Pushing Daisies, lo stile fiabesco del narratore onnisciente,
rafforzato dal collegamento intertestuale a Harry Potter, serve sia a gestire i ricordi, sia a sottolineare la
metanarratività della serie. La voce fuori campo in terza persona della sitcom Arrested Development è
altrettanto giocosa, ma in modo diverso, e appartiene al producer Ron Howard, che racconta la vita di una
ricca famiglia disfunzionale come se stesse commentando ironicamente un documentario sulla natura. Il
racconto di Howard colma le lacune e spinge la storia in avanti, permettendo a questa serie dal ritmo
sostenuto di raccontare un numero sorprendente di fatti in meno di trenta minuti. Spesso il narratore
chiarisce ciò che vediamo attraverso riferimenti a episodi passati. La narrazione di Arrested Development è
un buon esempio di come i media audiovisivi non si affidino soltanto al linguaggio per gestire i ricordi dello
spettatore: spesso i commenti del narratore sono accompagnati da immagini e scene che sollecitano la
memoria e permettono alla storia di procedere. Arrested Development non ricorre soltanto a flashback
visivi per rammentare eventi passati, ma per ottenere un effetto comico usa anche una serie di tecniche da
pseudo-documentario. Queste strategie dello storytelling aiutano lo spettatore a ricordare i vari dettagli e
costituiscono al contempo un kit per la creazione di gag ricorrenti e di uno stile metanarrativo. Per
richiamare alla memoria alcune informazioni possono essere usate anche tecniche non verbali. I flashback
sono una delle tecniche più diffuse usate per incorporare eventi passati in un episodio, e come la voce fuori
campo possono essere basati su una prima o su una terza persona. Il flashback soggettivo è il caso più
comune, e ci mostra i ricordi di un personaggio, che solitamente iniziano dopo un primo piano, delle scritte

78
in sovraimpressione o un effetto di transizione.
In Battlestar Galactica, nell’episodio intitolato «Nuovi alleati», c’è una scena in cui il cylone a capo dei ribelli,
Natalie Faust, dice a un gruppo di umani che il loro destino è quello di essere salvati da Kara Thrace. Mentre
Kara la osserva parlare, l’immagine si sfoca e ci porta in un flashback soggettivo, tratto dall’episodio
precedente, in cui a Kara viene detto di essere l’«araldo della morte». La ripetizione tramite flashback rende
questo ricordo più rilevante all’interno della mitologia a lungo termine, considerato che si rivelerà un
elemento narrativo centrale nell’ultima stagione. Questi scorci della memoria dei personaggi resi attraverso
i flashback sono un modo diffuso per sollecitare i ricordi dello spettatore, per alimentare l’allineamento con
un personaggio e per instradare la nostra comprensione degli eventi successivi. I flashback possono essere
accompagnati da una voce fuori campo esplicativa: Veronica Mars ricorre spesso a quest’espediente per
ricordarci gli elementi della macrostoria. In questi casi la voce fuori campo svolge un ruolo determinante nel
mantenere chiari i collegamenti, sollecitando i ricordi necessari alla prosecuzione della storia. I flashback
presentati invece da un punto di vista più obiettivo, che possiamo chiamare semplicemente replay, sono
usati più per colmare delle lacune negli antefatti che per richiamare alla memoria eventi già visti: serie come
Lost, Jack and Bobby e Boomtown ricorrono tutte a uno storytelling dalla cronologia non lineare, ma usano i
flashback per fornire nuovo materiale narrativo, più che per evocare ricordi. Flashback di eventi già visti,
ripresentati in qualità di ricordo dei personaggi, sono piuttosto rari. Alcuni crime drama, come CSI, usano
spesso i replay per richiamare alla memoria eventi già visti ma anche per fornire nuove informazioni. Matt
Hills ha analizzato l’uso dei flashback oggettivi nella serie inglese di fantascienza Doctor Who, sostenendo
però che in quel caso servano più a facilitare la visione ai nuovi spettatori che a rinfrescare la memoria degli
spettatori regolari. Un ottimo esempio di replay finalizzato alla memoria si trova invece in Lost, alla fine
dell’episodio dell’ultima stagione intitolato «Attraverso il mare». L’episodio si svolge in tempi antichi, per
svelare le origini dell’Uomo in Nero e di Jacob, e si conclude con Jacob che ripone i corpi di sua madre e suo
fratello in una grotta; questa scena è intrecciata a un replay tratto dall’episodio della prima stagione «La
casa del sol levante», nel quale Jack, Kate e Locke ritrovano quei corpi nel 2004. I producer hanno detto che
il replay non aveva la funzione di ricordare agli spettatori il ritrovamento dei corpi, conosciuti per anni come
«Adamo ed Eva», ma piuttosto quella di connettere questo passato antico al presente dei personaggi
principali; la reazione negativa dei fan suggerisce che questa trovata atipica sia risultata troppo ovvia e
ridondante per giustificare un’infrazione delle norme intrinseche della serie. Un uso più comune di questi
replay lo si trova nei reality, dove ci vengono spesso mostrate scene passate per rinfrescarci la memoria o
enfatizzare la situazione in corso. Nella serialità, l’esempio più comune di replay finalizzato alla
sollecitazione dei ricordi si trova nelle comedy, che lo usano come espediente comico, soprattutto nel caso
delle serie animate, come I Griffin, o di sitcom single-camera come Scrubs. Questi interventi di solito
spezzano la narrazione per commentare, illustrare o confutare ciò che è appena avvenuto, proponendo una
scenetta con una sequenza immaginata, momenti sconosciuti del passato di un personaggio o replay tratti
da episodi precedenti. Un esempio dell’ultimo caso si trova in 30 Rock, nell’episodio della terza stagione
intitolato «Un rene, subito!»: Tracy dice a Kenneth che lui non piange mai, e subito dopo parte un
montaggio di sei momenti, tratti dagli episodi precedenti, in cui si vede Tracy che piange. La sequenza è
sicuramente efficace dal punto di vista comico, ma rinforza anche il ricordo che abbiamo dei frequenti pianti
di Tracy, che contraddicono la sua affermazione. La scarsità di esempi rilevanti ci dice comunque che nelle
narrazioni televisive questi replay sono relativamente poco utilizzati come strategia per rinfrescare la
memoria dello spettatore.

Le strategie appena descritte sono tutte intradiegetiche, ma per aiutare gli spettatori a gestire i ricordi la
televisione ha adottato anche un certo numero di espedienti esterni allo storytelling. Molte serie
contemporanee propongono un breve recap, all’inizio di ogni episodio. Questi recap sono solitamente
montati dai producer, che scelgono i momenti che, secondo loro, sono fondamentali per rinfrescare la
memoria degli spettatori e per permettergli di reinserirsi nella narrazione. Benché siano ideati per la messa
in onda originale, scandita settimanalmente, questi recap sono spesso inclusi anche nei dvd.
79
La presenza o l’assenza di recap può influire drasticamente sulla comprensione di un episodio. Per esempio,
il recap dell’episodio di Veronica Mars intitolato «La verità» ripropone tre brevi scene da episodi diversi,
distribuiti nell’arco di nove settimane. La sequenza riprende momenti particolarmente esplicativi: la prima
scena vede uno scambio di due battute tra Keith, il padre di Veronica, e Lamb, il suo successore alla carica di
sceriffo, che parlano dell’omicidio di Lilly Kane; la seconda scena riprende l’incontro tra Veronica e Mac, per
sottolineare il ruolo di Mac nell’episodio che ci si appresta a vedere; e infine vediamo immagini di Veronica
che investiga sul passato della madre, con la voce fuori campo che spiega i dubbi sulla paternità biologica di
Veronica, annunciando una delle sottotrame della puntata. In soli trenta secondi il recap attiva nella nostra
memoria di lavoro tutto ciò che c’è da sapere per comprendere gli sviluppi dell’episodio. Al contempo,
questi frammenti potrebbero non avere alcun senso per chi non ha visto la maggior parte degli episodi
precedenti, perché troppo concisi per poter fornire qualsivoglia spiegazione a un nuovo spettatore.
Altrettanto importante è ciò che il recap omette, ovvero qualsiasi riferimento ai personaggi principali Logan
e Duncan. I recap possono svolgere una funzione più esplicativa, soprattutto all’inizio di una serie. Nel
secondo episodio di Dexter c’è un recap di due minuti ricavato dalla puntata pilota. Questo recap è a tutti gli
effetti un riassunto di quella puntata. Agli spettatori che hanno visto la puntata pilota (e soprattutto a chi sta
guardando il dvd) questo recap risulta piuttosto ridondante, e può al massimo ricordare i nomi dei
personaggi. Il recap della puntata finale della prima stagione di Dexter serve invece, più convenzionalmente,
a rinfrescare la memoria su determinati eventi, così come gli altri che si troveranno nel resto della serie.
Agli spettatori regolari, invece, questi frammenti rammentano a che punto è Dexter nella sua ricerca del
killer del camion frigo, mentre l’ultima scena, che vede la sorella di Dexter in pericolo, riprende il cliffhanger
dell’episodio precedente. Il recap torna inoltre sull’accoltellamento di Angel, avvenuto nel decimo episodio,
che nella puntata finale diventa un evento centrale. Questo tipo di recap finalizzati al ricordo aiuta lo
spettatore a riassumere le ore di informazioni accumulate nel corso di una serie di lunga durata, attivando
gli elementi chiave nella memoria di lavoro e permettendo ad altri elementi, che verranno recuperati in
futuro, di essere archiviati nella memoria a lungo termine. Spesso, nelle serie complesse, un recap riporta
all’attenzione degli spettatori un enigma in sospeso che nelle ultime puntate era passato in secondo piano.
Nel settimo episodio di Lost, «La falena», Sayid viene attaccato e perde i sensi mentre cerca di far
funzionare un trasmettitore. Lo vediamo tornare in sé nell’episodio successivo, senza però che venga
spiegato chi l’ha attaccato, né qui né per parecchi episodi a venire. Nel ventunesimo episodio, «Il bene
superiore», il recap ripropone la scena, ormai risalente a cinque mesi prima, suggerendo (a ragione) che
l’enigma in sospeso su chi abbia colpito Sayid verrà finalmente svelato. Il recap include la scena proprio per
ricordare agli spettatori l’enigma in sospeso, riaccendere l’attesa di una risposta e renderne appagante
l’imminente chiusura.
In Battlestar Galactica, il recap all’inizio dell’episodio «Fuga dalla realtà», nella quarta stagione, include
scene tratte dall’episodio della terza stagione intitolato «Esodo (Parte II)», nel quale muore Ellen Tigh, la
moglie del colonnello Sol Tigh. Nella messa in onda originale erano trascorsi diciotto mesi tra i due episodi,
e questo rendeva inusuale la presenza di quella scena nel recap di «Fuga dalla realtà», tanto da farmi
pensare che l’inclusione della morte di Ellen nel recap significasse che sarebbe riapparsa in qualche modo
nell’episodio. La previsione si è rivelata corretta, poiché in «Fuga dalla realtà» Sol Tigh ha delle allucinazioni
in cui vede Ellen, un rimando che risulterà più significativo andando avanti nella stagione. Il recap mi ha
ricordato di Ellen, che avevo rimosso dalla mia memoria di lavoro, ma ha anche reso la sua apparizione più
prevedibile. Ovviamente i recap devono trovare un equilibrio tra il bisogno di attivare i ricordi e quello di
evitare uno spoiler, affinché gli spettatori siano sorpresi ma non confusi. Negli anni gli autori hanno
escogitato una serie di strategie per evitare questo tipo di spoiler da recap. Un’opzione è quella di usare dei
flashback che fungano da recap non all’inizio dell’episodio, ma prima dello stesso colpo di scena. «Missione
di salvataggio», la puntata finale di Battlestar Galactica, costituisce un ottimo esempio. Cinque personaggi
(compresi Tory e Galen) accettano di condividere i propri ricordi gli uni con gli altri, tramite un processo
tecnologico, allo scopo di facilitare un accordo di pace tra cyloni e umani. Prima di questa procedura, Tory fa

80
notare che potrebbero trovare elementi imbarazzanti nei reciproci passati, un’obiezione che viene
velocemente messa da parte. Durante la procedura intravediamo così dei flashback con i momenti più
importanti riguardanti ogni personaggio. Tra questi eventi, vediamo Tory che affronta la moglie di Galen,
Cally; Galen si concentra su questi ricordi, e noi assistiamo a un replay dell’omicidio di Cally da parte di Tory,
avvenuto nell’episodio «Tragica verità», andato in onda undici mesi prima: questa rivelazione spinge Galen a
interrompere la procedura e a strangolare Tory. Il producer Ron Moore ha affermato che gli autori avevano
intenzionalmente «seppellito» la sottotrama dell’omicidio di Cally, per aspettare il momento giusto in cui
Galen si sarebbe potuto vendicare, ossia nella puntata finale. E infatti il recap di «Missione di salvataggio»
non fa alcun riferimento a Cally né al suo omicidio, permettendo allo spettatore di vivere la rivelazione
contemporaneamente a Galen. Anche se è possibile che gli spettatori più appassionati ricordassero che Tory
aveva ucciso Cally, dopo undici mesi, e numerose altre sottotrame, l’evento era comunque lontano dalla
loro memoria di lavoro. Il risultato di questo tipo di rivelazioni può essere chiamato ricordo a sorpresa, ed è
in poche parole il momento in cui si viene sorpresi da un’informazione che avevamo già, ma che non era
attiva nella nostra memoria di lavoro.
Il ricordo a sorpresa non deve per forza essere innescato da un flashback. Nell’episodio di Lost intitolato
«Ricerca febbrile», nella quarta stagione, andato in onda originariamente e curiosamente senza recap,
Claire si risveglia nella giungla e scopre che suo figlio non è più con lei. La donna si mette a cercarlo, e trova
Christian Shephard con il bambino in braccio. Claire lo guarda confusa e dice «Papà?», poco prima
dell’interruzione pubblicitaria. In un flashback dell’episodio della terza stagione, intitolato «Per via aerea»,
era stato rivelato che Christian, il padre di Jack, era anche il padre di Claire, ma poi non si era fatto cenno al
loro rapporto per oltre dieci mesi. Oltre alla sorpresa di ritrovare Christian nella foresta (considerato che il
personaggio è morto e che si era mostrato sull’isola soltanto a Jack, sotto forma di apparizione), è
improbabile che a questo punto lo spettatore ricordi che Christian è anche il padre di Claire, e ciò innesca un
soddisfacente «ricordo a sorpresa». La sensazione di sorpresa derivata dallo stesso atto di ricordare è molto
piacevole per lo spettatore, perché lo premia per aver accumulato delle informazioni e al contempo innesca
un flusso di comprensione derivato appunto dall’attivazione di questi ricordi. È difficile immaginare che
questo tipo di gratificazioni possa funzionare in un formato non seriale. Un altro espediente per sollecitare i
ricordi all’interno di un episodio è la stessa sequenza dei credits. Si va dalle rapide schede di Lost o Breaking
Bad a filmati di due minuti, come in Six Feet Under o Homeland. Alcune sequenze iniziali ricorrono a footage
indipendenti dalla narrazione principale, come il viaggio in macchina di Tony da New York alla casa di
periferia, nei Soprano, che mostra le ambientazioni della serie, o la sequenza stilizzata in cui Dexter si
prepara per andare a lavorare, che richiama il tema dell’orrore nascosto nella quotidianità. Molte sequenze
iniziali più lunghe includono immagini tratte dalla serie, che possono richiamare momenti fondamentali per
i personaggi, come in Friends o in Buffy. Ogni stagione di The Wire propone un montaggio di immagini di
Baltimora e scene della serie, che pur non essendo rilevanti ai fini della storia riescono a evocare dei ricordi
specifici.

Una tradizione di vecchia data è la replica: per decenni, i network hanno trasmesso ogni episodio di una
stagione due volte nel corso dell’anno, riempiendo l’intervallo tra una stagione e l’altra con episodi passati.
Negli anni Duemila queste repliche sono diventate meno comuni, soprattutto perché gli spettatori hanno
potuto recuperare gli episodi persi grazie a dvd, videoregistratori digitali e a una serie di modalità di visione
online. Per le prime due stagioni di Lost è stata effettuata la riprogrammazione durante l’estate, ma in
seguito la Abc ha abbandonato questa pratica. In alternativa, Lost e altre serie trasmesse dai network hanno
seguito l’esempio dei canali via cavo, riproponendo più volte lo stesso episodio durante la settimana della
sua prima trasmissione. Lost usava questa seconda messa in onda per proporre delle versioni «arricchite»
degli episodi, in cui delle scritte in sovraimpressione aggiuntive chiarivano alcuni riferimenti ed eventi
passati. Per esempio, in «Intervento imprevisto», quando Claire incontra Christian, la scritta recitava:
«Christian Shephard è anche il padre di Claire, e questo rende Jack e Claire fratellastri, anche se nessuno dei
due lo sa».
81
Più comunemente, le serie tv ricorrono ai paratesti per rinfrescare la memoria e per orientare i nuovi
spettatori. Gli episodi compilation, come i recap, operano riassunti strategici, selezionando i fili della
narrazione connessi tra loro e ignorando invece le sottotrame risolte o che al momento devono rimanere
quiescenti. La diffusione dei video online ha permesso anche tutta un’altra serie di modi per ricapitolare.
Alcuni network, canali e programmi hanno creato dei «mini-episodi» che riassumono brevemente gli
episodi precedenti, come i «Two Minute Replays» della Nbc o i «Three Minute Replays» di Rescue Me. Nel
2007 si è inoltre inaugurata un’interessante tendenza, grazie al noto video «The Seven Minute Sopranos»,
pubblicato su YouTube. Un recap ironico e affezionato delle prime cinque stagioni e mezzo, realizzato da un
fan in prospettiva della messa in onda dell’episodio finale. L’industria ha preso nota di questo successo e ha
creato recap online altrettanto concisi, come «Lost in 8:15» e «What the frak is going on?» per Battlestar
Galactica. Questi recap ironici sono affettuose parodie pensate per i fan, ma al contempo possono essere
utili a tutti gli spettatori per ricordare gli eventi centrali e sottolineare quelli ricorrenti.
Anche se le nuove modalità di visione hanno reso più probabile che uno spettatore guardi una serie
nell’ordine giusto e senza perdere nessun episodio, capita ancora abbastanza spesso che gli spettatori
guardino una serie in un ordine arbitrario, e che abbiano quindi bisogno di ridondanze interne e di paratesti
per comprendere appieno gli eventi. Per capire meglio come si possa guardare una serie senza conoscerne
tutti gli antefatti e gli episodi, possiamo approfondire come funzionano i meccanismi di comprensione di un
singolo episodio.

L’attività dello spettatore seriale

Per capire il modo in cui comprendiamo le serie complesse dobbiamo guardare al microscopio il processo di
comprensione in sé, seguendo il modello elaborato da Bordwell basandosi sulla visione della Finestra sul
cortile. l’attività dello spettatore televisivo è troppo sfaccettata per prescindere dal contesto della visione,
perché il medesimo contenuto può essere compreso in modi completamente diversi a seconda dello
spettatore. Per spiegare come ciò possa succedere, esaminerò la visione di una puntata di Curb Your
Enthusiasm, considerando come il contesto influenzi la comprensione, affronti i diversi livelli di conoscenza
della serie da parte degli spettatori e gestisca la memorizzazione degli elementi.
Il processo di comprensione qui analizzato è pertanto astratto e ipotetico, ma non lo sono i contesti e le loro
influenze. Il resoconto al microscopio dell’episodio e del processo di comprensione ci permette di vedere
come funziona la forma narrativa complessa applicata al singolo episodio, ripercorrendo molti degli aspetti
della sua poetica.
Ho deciso di circoscrivere la mia analisi al secondo episodio della settima stagione, «Vehicular Fellatio». Era
il settembre 2009, ai tempi della prima messa in onda dell’episodio, e io ero un fan di vecchia data di Curb,
per quanto abituato a una visione discontinua. Ho guardato le prime quattro stagioni di fila, dal 2000 al
2004, ma ho smesso dopo essere stato deluso dalla quarta, perdendo interesse nella serie, senza contare
che durante le due stagioni successive non sono stato abbonato a Hbo. Sono tornato a vedere la settima
stagione perché prevedeva una reunion dei personaggi di Seinfeld. Quindi conoscevo bene le prime quattro
stagioni (anche se viste molto prima) e non sapevo nulla delle due successive. Prima di guardare la settima
stagione ho letto i riassunti della quinta e della sesta, ma rimane il fatto che non conoscevo molti dei
personaggi e dei rapporti instaurati nella settima. Non trovandomi in una condizione ideale, mi sono
quantomeno posto in una condizione da «spettatore competente». il protagonista di Curb, Larry David, è un
autore televisivo diventato famoso per aver creato Seinfeld, una serie in parte basata sulla sua vita. Ma
ovviamente lo stesso Curb è ideato, prodotto, scritto e interpretato da Larry David, un autore televisivo
diventato famoso per aver creato Seinfeld, una serie in parte basata sulla sua vita, vissuta sullo schermo dal
suo alter ego George Costanza. A coronare questa premessa metaautoreferenziale ci sono parecchie
celebrità nel ruolo di se stesse, a ricordarci che gli attori che interpretano gli amici di Larry nella finzione
sono spesso amici del vero Larry. Il confine incerto tra realtà e finzione diventa particolarmente labile nella
settima stagione, che parte dal divorzio di Larry da quella che è stata sua moglie nella finzione, Cheryl,

82
divorzio avvenuto nella sesta stagione, portando avanti un parallelo con il chiacchierato divorzio di Larry da
quella che era sua moglie nella realtà, Laurie. Inoltre la linea narrativa principale della stagione vede Larry
che tenta di produrre una puntata speciale di Seinfeld, che culmina con l’effettiva reunion dei personaggi di
Seinfeld, messa però in scena all’interno della finzione di Curb, riproponendo così scene di un finto episodio
di Seinfeld piuttosto che una vera e propria puntata speciale. Chiunque guardi Curb sapendone abbastanza
di Seinfeld e David (e in tal senso la serie invita a informarsi) deve quindi tenere a mente questi diversi livelli
di senso, chiedendosi quali degli eventi visti sullo schermo siano basati su eventi reali, nonché in che modo
queste rappresentazioni rispecchino, rielaborino o giudichino la realtà. Un altro importante livello di
conoscenza extratestuale riguarda il modello produttivo di Curb, molto atipico: David scrive una bozza molto
dettagliata per ogni episodio, ma le battute di dialogo vere e proprie vengono poi improvvisate dagli attori
durante le prove filmate. Guardando la serie siamo quindi invogliati a immaginare come siano venute fuori
le varie scene, chiedendoci cosa sia stato improvvisato dagli attori e cosa fosse invece già scritto. La settima
stagione riprende due sottotrame principali della sesta: il divorzio di Larry da Cheryl e la sua relazione con
Loretta Black, un’afroamericana di New Orleans, la cui famiglia era stata ospitata a casa David in seguito alle
conseguenze dell’uragano Katrina. La prima puntata della stagione, «Funkhouser’s Crazy Sister», collega le
due sottotrame, mettendo in chiaro che Larry vuole interrompere la relazione con Loretta per tornare con
Cheryl; verso la fine dell’episodio, però, si scopre che Loretta ha il cancro, una diagnosi che il super-egoista
Larry riduce a un ostacolo al suo desiderio di tirarsi fuori dalla relazione e di andare a giocare a golf.
«Vehicular Fellatio» comincia così da questo momento decisivo, con Larry che deve affrontare il suo ruolo di
badante di Loretta, per il quale non è affatto portato. Dopo aver visto la puntata mi sono fatto una domanda
da spettatore discontinuo: da quanto tempo Larry e Loretta hanno una storia? Da quanto tempo è malata? E
chi è esattamente Leon, che sembra di una pasta diversa rispetto al resto della famiglia Black? Consultare
siti gestiti dai fan, altri spettatori o persino Wikipedia è diventato uso comune degli spettatori televisivi. Le
diverse condizioni di visione possono influenzare l’investimento emotivo dello spettatore nei confronti dei
personaggi: per via della mia visione parziale, non provavo alcunché per Loretta né simpatizzavo per la sua
relazione con Larry, non sapendo nulla di lei a parte ciò che si vede nella prima puntata della settima
stagione, e di conseguenza condividevo con Larry il disprezzo nei suoi confronti, nonché il desiderio di
riunirsi a Cheryl, che invece conoscevo bene, avendo visto le prime quattro stagioni. Ho quindi guardato
«Vehicular Fellatio» con questa conoscenza parziale e delle aspettative già indirizzate.
l’episodio è preceduto dal titolo; in questo caso, il titolo attira sicuramente l’attenzione, portando lo
spettatore a chiedersi quando avverrà la suddetta fellatio, e in quale automobile. Gli episodi di Curb non
hanno recap, quindi, non sapendo quanto tempo prima lo spettatore ha visto l’episodio precedente,
«Funkhouser’s Crazy Sister», la puntata deve in qualche modo ricordarci che è rimasta una questione in
sospeso riguardante Loretta. La sequenza iniziale, però, mette da parte qualsiasi domanda sulla trama,
proponendoci un momento di pura commedia «fisica»: Larry estrae un regalo da una busta e scopre che si
tratta di un navigatore GPS, ma non riesce ad aprirne la confezione di plastica, e ci prova per ben due
minuti, in un crescendo di nervosismo, regalandoci una sequenza senza parole, se si escludono le sue urla di
rabbia. Quest’inizio sposta le nostre aspettative dalla trama alla sfera emotiva tipica della comedy pura. La
sequenza si conclude con Loretta che urla a Larry di raggiungerla al piano di sopra e Larry che calpesta con
furia la confezione del GPS, creando un rimando tra questa micro-frustrazione e l’infelicità di essere
intrappolato in una relazione con Loretta. La malattia di Loretta torna attiva nella nostra memoria di lavoro
quando i due cominciano a parlare, e Loretta fa riferimento al suo cancro per far sentire Larry in colpa per le
sue frivole lamentele e per il desiderio di andare a giocare a golf. Nel corso della conversazione, Larry
nomina qualche altro personaggio, attivandone il nostro ricordo, tra cui alcuni personaggi fissi come Jeff e
Susie, Richard Lewis (che interpreta se stesso e non è ancora apparso nella settima stagione) e la nuova
fidanzata di Lewis, suggerendo che potrebbe diventare un nuovo personaggio. La scena ci mostra anche una
Loretta meschina e autoritaria, che usa la propria malattia per trattenere Larry, e questo rinforza il nostro
attaccamento nei confronti di Larry e ci spinge a sperare che lasci la donna nonostante sia malata.

83
La scena successiva sembra buttata lì, perché vede Leon che chiede a Larry di telefonare al suo amico Alton,
che è un grandissimo fan di Seinfeld, è depresso, compie gli anni quel giorno e, soprattutto, ha «una moglie
che è una bomba». La breve scena torna sul piano della comedy, alimentata dalla parlata volgare di Leon,
ma innesca anche un’altra sottotrama, ovvero la futura telefonata di Larry ad Alton. L’episodio è iniziato da
cinque minuti e abbiamo già cinque potenziali linee narrative in sospeso: il rapporto disfunzionale tra Larry
e Loretta, la cena con Richard e i suoi amici, la chiamata per il compleanno di Alton, il GPS regalato e il titolo
incomprensibile della puntata. Sappiamo inoltre che c’è la possibilità che Larry e Cheryl tornino insieme e,
per via dell’hype extratestuale, siamo a conoscenza della reunion di Seinfeld, nonostante non sia ancora
stata nominata. Avendo imparato a guardare Curb e a riconoscerne le norme intrinseche, ci aspettiamo che
alcune di queste sottotrame confluiscano in qualche modo sorprendente, e facciamo ipotesi attraverso una
speculazione funzionale. La scena successiva porta avanti una di queste sottotrame: Larry getta un’occhiata
alla tv e vede la dottoressa Karen Trundle che esorta i malati di cancro a sbarazzarsi delle «relazioni
tossiche», identificandole nei partner «impazienti, odiosi, meschini e litigiosi, ossessionati da dettagli
irrilevanti a discapito di un rapporto armonioso». Ascoltando l’elenco delle sue caratteristiche, Larry passa
da un’espressione di interesse a una di gioia, e per noi è facile leggergli nei pensieri e immaginare che voglia
convincere Loretta che per lei una separazione sarebbe addirittura salvifica. E infatti nella scena successiva
vediamo Larry che comunica a Loretta di aver preso un appuntamento con la dottoressa Trundle, anche se,
trattandosi di Curb, sappiamo già che questo piano gli si ritorcerà contro in qualche modo. Subito dopo
viene ripresa la sottotrama di Alton, con Larry che lo chiama per fargli gli auguri di compleanno. La
telefonata procede tranquilla, finché Larry non eccede come sempre con le informazioni, e riferisce ad Alton
gli apprezzamenti di Leon su sua moglie, scatenando una sfuriata di gelosia che lo costringe a riagganciare.
Ci immaginiamo che questo attrito venga approfondito prima della fine della puntata, sapendo che a Larry
capita spesso di scatenare involontariamente reazioni spropositate, e per ipotizzare cosa succederà gli
spettatori più fedeli ripensano ad altri momenti simili già visti nel programma e alle loro conseguenze.
Segue la scena della cena, che inizia con Jeff e Larry che parlano al bancone. Jeff chiede a Larry se sa
mantenere un segreto, e Larry risponde «Sono una cassaforte» («I’m a vault»), citazione di una frase
ricorrente in Seinfeld. Jeff racconta a Larry che, mentre Richard guidava per portarli al ristorante, la sua
nuova fidanzata gliel’ha «ciucciato in macchina», dandoci il primo riferimento al titolo della puntata e
rispondendo a una domanda in sospeso. La conversazione prende una piega comica, con Jeff e Larry che
discutono dei pericoli di blowjob, handjob e qualsiasi tipo di job mentre si guida, chiedendosi inoltre perché
si chiamino job. Questo tipo di dialogo comico riguarda la dimensione funzionale della comprensione:
sapendo che il programma si basa sull’improvvisazione, gli spettatori possono immaginare come sia nato
questo siparietto e notare i segnali che indicano l’uscita dell’attore dal personaggio, quando ad esempio gli
scappa un sorriso. Quando Jeff e Larry raggiungono il tavolo, la fidanzata di Richard si presenta e dice di
chiamarsi Beverly, e questo accelera quel processo di identificazione e conferma allo spettatore discontinuo
che si tratta di un nuovo personaggio. Beverly invita Larry a bere un goccio del suo drink, ma Larry si ritira
disgustato, ripensando alla recente attività sessuale di lei: noi, in quanto spettatori, sappiamo ciò che sa
Larry, e comprendiamo il motivo per cui rifiuta di bere un sorso, benché questo motivo non sia esplicitato,
mentre gli altri personaggi sono confusi dal suo comportamento sgarbato. Alla fine del pranzo, Jeff chiede a
Larry se andrà al party di Michael York, e questo ci impone una domanda: conosciamo questo personaggio?
Al di là di come lo conosciamo, il fatto che York venga nominato ci fa immaginare che parteciperà
all’episodio, predisponendoci all’ingresso di un nuovo personaggio, e diventa inoltre un pretesto per tornare
a parlare del navigatore GPS, per il quale Larry ringrazia Jeff e Susie. Larry racconta della fatica fatta per
aprire la confezione: sono passati dieci minuti dall’inizio della puntata, e questo riferimento lavora sulla
memoria a breve termine, ricordandoci l’inizio della puntata e suggerendoci che la confezione del GPS
tornerà ad avere un qualche significato, al di là della gag iniziale. Beverly cerca di salutare Larry con un bacio
prima di andar via, ma lui si ritira teatralmente, scatenandone l’indignazione, e subito dopo Richard gli
chiede infastidito il perché del suo comportamento. Quando ci chiediamo se Larry «aprirà la cassaforte»,

84
Jeff gli fa segno di mantenere il segreto, e Larry si inventa che era in imbarazzo perché ha un herpes:
conoscendo l’ossessione di Curb per i dettagli e le bugie legate alla salute, possiamo facilmente immaginare
che questa storia dell’herpes tornerà in qualche modo. Il giorno dopo, Larry va a comprare un cutter per
aprire la confezione del GPS; al negozio Larry deve vedersela con Leon, che si lamenta perché ha detto ad
Alton ciò che pensa di sua moglie, che si rivelerà essere qualcosa di più di un complimento. Mentre Larry e
Leon litigano sull’abitudine del secondo di «afferrare il didietro» delle donne sposate, ci viene la curiosità di
sapere di più di quest’abitudine di Leon. Considerata la condizione in cui ho visto la puntata, non potevo
sapere molto del passato di Leon, né della sua personalità né del rapporto instaurato con Larry nella sesta
stagione. In quel momento mi risultava un personaggio insondabile, divertente per via della parlata scurrile
e degli scambi comici con Larry, ma privo di un ruolo chiaro; queste impressioni dicono molto di quanto sia
variabile l’esperienza di visione di una serie, considerato che molti fan che avevano visto la sesta stagione
consideravano Leon uno dei loro personaggi preferiti. Nella scena successiva, che gioca appunto con lo
scarto tra ciò che sanno i vari spettatori, Larry e Loretta vanno all’appuntamento con la dottoressa Trundle.
ridiamo del suo comportamento meschino, considerandolo un’esasperazione della sua solita insensibilità,
così come d’altronde il Larry della finzione è un’esasperazione del Larry David reale. Questi diversi strati di
recitazione anticipano un tema che diventerà sempre più importante nel corso della stagione, quando Larry
considererà l’interpretazione di George fatta da Jason Alexander come una riproposizione finzionale dei
peggiori aspetti del suo carattere. Quando lascia lo studio lo seguiamo per mantenere l’allineamento con lui,
e siamo ancora allineati quando, nella sala d’attesa, Larry incontra e riconosce il marito della dottoressa
Trundle, che ne aveva una foto in ufficio. La loro interazione ha la durata di una battuta, ma considerata la
norma di Curb, per la quale personaggi e interazioni hanno sempre motivo d’esistere, ci aspettiamo che il
signor Trundle torni in scena. Un attimo dopo arriva Dean Weinstock, l’ex vicino di casa di Larry, che deve
ricordare a Larry (e a noi) chi è, dal momento che ha partecipato soltanto a un episodio della prima
stagione, andato in onda nove anni prima. I due vanno per abbracciarsi, ma così facendo gli occhiali che
Dean portava al collo si rompono. Larry e Dean si ritrovano così a litigare in modo pignolo su chi abbia rotto
gli occhiali, in uno dei tipici climax di Curb, alla fine del quale Dean confessa di avere il cancro;
quest’informazione mortifica Larry, che fa un passo indietro e accetta di pagare gli occhiali. Il dietrofront di
Larry dimostra che non è una persona così spregevole, ma enfatizza anche il comportamento insensibile che
Larry vuole avere nei confronti di Loretta per tornaconto personale. Guidando verso casa, Larry dice a
Loretta: «La dottoressa mi ha fatto una buona impressione. Proprio buona, ma buona buona buona». La
ripetizione della parola buona è uno dei tormentoni di Curb. L’impressione positiva di Larry è alimentata
dalla sensazione che la dottoressa Trundle abbia detto a Loretta di scaricarlo, dal momento che quest’ultima
fa un vago riferimento ad alcune cose che deve fare per la propria salute, cose che Larry la incita a fare.
Tornato a casa, Larry riceve la visita di Richard che lo accusa di aver distrutto la sua relazione con Beverly,
dicendo che si trattava «forse della più speciale» che avesse mai avuto; Larry replica che Richard aveva
detto la stessa cosa della precedente. Senza aver visto le altre puntate, questo riferimento risulta poco
chiaro, anche se considerati i precedenti del programma, possiamo immaginare che in qualche modo Larry
sia stato corresponsabile anche della fine dell’altra relazione. Richard insiste affinché Larry chieda scusa a
Beverly per come si è comportato, e si indica la bocca, facendo riferimento al presunto herpes. Ma per una
volta Larry si ritrova a dire la verità, perché avendo frainteso il gesto di Richard per quello della fellatio
decide di aprire la cassaforte e ammette di sapere della fellatio automobilistica anticipata dal titolo. Il
dialogo tra Larry e Richard ci riporta nella dimensione del puro divertimento, quando i due personaggi
intraprendono un botta e risposta sul sesso e le buone maniere, con i due attori sul punto di scoppiare a
ridere. Nella scena successiva Larry e Loretta sono in macchina, diretti dalla dottoressa Trundle, e vedono il
signor Trundle nella macchina accanto; cominciano quindi a parlare di lui, spiegando chi sia e dando
l’impressione che avrà un ruolo centrale nell’imminente collisione di alcune trame: mentre le due auto sono
ancora in movimento, vediamo la dottoressa Trundle che solleva la testa dalle gambe del marito e si pulisce
la bocca, lasciando intendere un’altra «fellatio automobilistica». Loretta è così indignata da screditare la

85
dottoressa e insistere affinché Larry faccia inversione di marcia, vanificando il suo piano di invogliarla a
lasciarlo. A livello funzionale, si ha l’impressione che il titolo abbia ormai fatto il suo dovere, unendo due
sottotrame e diventando il motivo principale del fallimento del piano di Larry. L’elemento torna però nella
scena successiva, quando Larry va nell’ufficio della dottoressa Trundle per lasciare un risarcimento per gli
occhiali di Dean, e la dottoressa Trundle, contrariata che non siano andati alla seduta, insinua che sia stato
lui a interferire in tal senso, per impedirle di spingere Loretta a lasciarlo.
Larry «respinge l’ipotesi», e quando lei insiste affinché dica la verità, lui le descrive ciò che hanno visto dalla
loro auto. La dottoressa nega, sostenendo che stesse soltanto cercando il cellulare, e diventando così
furibonda per le allusioni di Larry da finire per colpirlo con uno dei suoi libri. Non viene chiarito se la
dottoressa abbia mentito, ma pur essendo d’accordo con lei quando accusa Larry di avere «il cervello
striminzito e insicuro di un bambino di dodici anni» (accusa alla quale lui risponde: «Secondo me
succhiava»), rimaniamo comunque dediti e allineati a Larry e alla sua meschina misantropia.

86
Le complicazioni collegate a una fellatio non sono comunque finite. Larry arriva a casa e trova Leon che
cerca di nascondere la moglie di Alton allo stesso Alton, che è arrivato lì sperando di trovarli in una
situazione compromettente. La moglie di Alton si nasconde nella macchina di Larry, e lì rimane finché Leon
non convince Alton che non stava succedendo nulla, ma appena sembra che le acque si siano calmate,
arriva Loretta in auto e vede la moglie di Alton seduta in macchina con Larry. Avendo fresco il ricordo della
«fellatio automobilistica», Loretta immagina il peggio e lascia Larry, andando via con tutta la famiglia.
Nonostante gli venga dato del «calvo figlio di puttana traditore e buono a nulla», Larry è entusiasta di
essersi liberato di Loretta, e noi siamo dalla sua parte. La sensazione di un lieto fine è amplificata
dall’estetica funzionale, per il modo in cui la serie è riuscita a far ricongiungere tante sottotrame in modo
così elegante, facendole attraversare tutte dall’atto anticipato dal titolo, che ha inoltre casualmente
permesso a Larry di raggiungere l’obiettivo che si era preposto. Si tratta di una dinamica tipica della serie: le
rare volte che Larry ottiene ciò che vuole dipende comunque da fattori casuali.
il personaggio di Larry, la cui intelligenza sociale è intrappolata in una mente infantile, riesce a ottenere
quello che vuole grazie a coincidenze fortunate, facendosi veicolo di un messaggio: non importa quanto
siamo socialmente inadeguati, perché possiamo sopravvivere comunque grazie a stupidi colpi di fortuna.
Nella scena finale Larry sta guidando per andare al party di Michael, già nominato durante la cena, quando
vede un’auto uscita fuori strada. Scopre che in macchina ci sono Jeff e Susie, ed è palese che l’incidente sia
avvenuto durante una fellatio automobilistica, della cui pericolosità Larry aveva avvertito Jeff all’inizio
dell’episodio. Per aiutarli a uscire da quella situazione imbarazzante, Larry dice che andrà a prendere il
cutter che aveva comprato nel pomeriggio, col quale vuole tagliare la cintura di sicurezza di Jeff e liberarlo,
ma scopre che lo stesso cutter è intrappolato in un’impenetrabile confezione di plastica, e si mette a urlare
insensatamente come all’inizio dell’episodio. Si tratta di un momento doppiamente appagante, che da un
lato provoca delle risate di pancia alla vista di Larry che lotta furiosamente con la confezione del cutter, e
dall’altro stupisce piacevolmente per la sua divertente struttura circolare. Questa circolarità rende il
racconto molto inverosimile, ma è nelle norme di Curb non alimentare alcun tipo di aspettativa sulla
plausibilità. Se da un lato sappiamo che la separazione da Loretta e la decisione di Leon di rimanere
andranno al di là dell’episodio, dall’altro non sapremo mai come sia finita la storia dell’incidente, trattata
dalla serie più come una gag che come una sottotrama. Quest’ipotesi si rivela corretta guardando l’episodio
successivo, «The Reunion», che, chiusi i conti con le situazioni iniziate nella stagione precedente e legate
alla famiglia Black, può inaugurare la trama riguardante la puntata speciale di Seinfeld.
Curb dimostra che trame innovative, meccanismi diegetici riflessivi e consapevolezza delle norme narrative
possono offrire allo spettatore nuove strade per la comprensione di una storia.
Benché la comedy sia comunque di solito meno realistica del drama, Curb si colloca all’estremo di questa
forbice, insieme ad Arrested Development, poiché entrambi rifiutano il realismo a favore di un divertimento
più funzionale, abbinato a uno stile pseudo-documentaristico e a dialoghi improvvisati che ci invogliano a
immaginare come sia stato realizzato il programma. Avendo almeno cinque sottotrame attive, tutte
connesse al protagonista, l’episodio deve portare avanti ogni percorso indipendentemente, ricordandoci
attivamente dell’esistenza di ogni trama e giocando con la curiosità di sapere come faranno a incontrarsi.
Tutti questi stimoli cognitivi non impediscono un coinvolgimento emotivo, considerato che ridiamo,
speriamo che Larry cambi vita e storciamo il naso quando si comporta male. Questa descrizione al
microscopio della comprensione di un episodio dimostra quanto lo storytelling della televisione complessa
si impegni a trovare quell’equilibrio tra godibilità della storia e narrazione efficace che caratterizza l’estetica
funzionale. Analizzare lo storytelling televisivo attraverso una poetica cognitiva non esclude l’uso di altri
strumenti teorici, ma rimane quello più adatto per rispondere alle domande sui processi mentali e sul
coinvolgimento degli spettatori.

87
CAP 6
VALUTAZIONE

Possiamo capire perché certi spettatori apprezzano alcuni programmi più di altri? Possiamo considerare il
gusto come qualcosa di più che un riflesso del valore estetico inerente al testo o uno di quegli indicatori di
qualità determinati dal contesto di appartenenza sociale del critico? Possiamo, in un’analisi della poetica di
una narrazione televisiva, chiederci non soltanto come funzioni un testo, ma anche perché funzioni bene?
Credo che, in tutti questi casi, la risposta sia affermativa: possiamo ricorrere a una valutazione critica per
capire meglio come funzionano le serie tv, in che modo spettatori e fan si dedicano a esse e cosa li spinge a
trasformarle in una componente significativa della loro vita. Se sfruttato al meglio, il giudizio di valore ci
aiuta a vedere le serie in modo diverso, offrendoci uno scorcio sull’esperienza di visione dello spettatore e
invitando i lettori a immedesimarsi in lui durante la lettura. Un giudizio non ha l’ambizione di costituire un
fatto o una prova. Il giudizio di valore è un atto di persuasione piuttosto che una dimostrazione.
Il giudizio è un invito al dialogo, considerato che discutere delle opere culturali è uno dei modi più piacevoli
di interessarci a esse, instaura rapporti con altri fruitori e alimenta il rispetto per le opinioni e le intuizioni
altrui. L’efficacia persuasiva di qualsiasi giudizio deriva più da un’analisi e un’argomentazione ben fatte che
da una posizione di potere o autorevolezza.
Detto questo, perché sostengo (in modo comunque contingente) che Alias sia un esempio di televisione
complessa migliore di 24? Secondo me entrambe le serie sono inverosimili, ma quantomeno Alias dà libero
sfogo alla propria assurdità in un modo che 24 non riesce a fare. Entrambe le serie raccontano storie ridicole
di spionaggio e azione, con agenti doppio e triplo-giochisti che smascherano talpe e svelano intrighi in
ambientazioni inverosimili, con pericoli globali ai quali si fatica a credere. Eppure, Alias non pretende mai di
rendere verosimile la propria rappresentazione dello spionaggio, considerato che ha per protagonista
un’improbabile spia giramondo, perfettamente in linea con lo stile glamour della serie. La serie ci invita a
interessarci al personaggio e ai suoi rapporti, ma si rivela anche consapevole dell’assurdità di stile, trame e
ambientazioni, resi ancora meno credibili dagli intermezzi comici e metanarrativi dell’imbranato guru
tecnologico Marshall Flinkman, dalle abilità sovrannaturali di Sydney Bristow e colleghi, e da cattivi
caricaturali come Arvin Sloan e Irina Derevko. Alias si propone come intrattenimento spensierato, un
ottovolante che gioca consapevolmente con il tentativo di rimandare all’infinito qualsiasi conclusione,
attraverso colpi di scena e inversioni di marcia: in poche parole, uno spasso. Al contrario, 24 prende troppo
seriamente la sua artificiosità. Dallo stile crudo e realistico allo storytelling in tempo reale, fino al tono
serioso da pericolo imminente, 24 invita gli spettatori a credere che ciò che stanno vedendo potrebbe
essere vero. A giudicare dalla prima stagione il programma interrompe di rado il tono serioso, ricorrendo a
pochi intervalli ironici, interventi metanarrativi o momenti stilisticamente artificiosi. Sembra esserci una
certa incompatibilità tra lo stile realistico di 24, ottenuto con tutte le tecniche che servono a connotare il
realismo e le ridicole sottotrame della prima stagione, tra morti fasulle, controfigure, una collega ed ex
amante agente doppiogiochista (Nina Myers) e una conturbante assassina lesbica che fa saltare in aria un
aereo (Mandy); per non parlare di quando Kim viene attaccata senza motivo da un puma, nella seconda
stagione. L’intreccio era spesso farraginoso, con finali poco decisi e scorciatoie narrative in contraddizione
con l’illusione di tempo reale inseguita attraverso il ritmo e gli incastri. Anche Alias conteneva tutta una
serie di passi falsi e scorciatoie, ma non si è mai proposto come qualcosa di più di un’invenzione ricca di
stile, mentre 24 ha sempre mantenuto la pretesa di essere un thriller verosimile, coerente e ben costruito.
La morale di questo breve confronto tra Alias e 24 è che una serie deve fornire un quadro normativo
attraverso cui lo spettatore capisca come accoglierne lo storytelling e lo stile: il testo deve parlare ai suoi
spettatori e guidarli, spiegando loro come devono guardarlo. Secondo me Alias è molto più riuscita perché
chiarisce fin da subito cosa devo aspettarmi: un divertimento pirotecnico, d’evasione, durante il quale sono i
rapporti tra i personaggi a dare un peso emotivo a storie tutt’altro che plausibili. Ovviamente 24 ha ottenuto
maggiore successo commerciale nel lungo termine, con indici d’ascolto crescenti, un bacino di fan più ampio
e una maggiore influenza culturale. Ma da non affezionato, non capisco come i suoi spettatori potessero
88
accogliere le contraddizioni del programma in termini di tono e storytelling: dovrebbe trattarsi di un thriller
verosimile, di un melodramma machista ed esasperato, o di qualcosa a metà strada? Gli spettatori che non
sono riusciti ad apprezzare la serie hanno spesso avuto l’impressione di non parlare la lingua del
programma, come se ci fosse un livello di incomunicabilità tra loro e il testo. Molte delle migliori serie tv
complesse lavorano su più livelli, proponendo a diverse tipologie di spettatori sia un divertimento
superficiale sia rimandi più profondi: immagino quindi che per i fan di 24 la serie riuscisse in entrambi gli
intenti, e che parlasse una lingua a loro comprensibile. Secondo me, però, 24 non è riuscita su tutti i piani,
ma soltanto nella creazione di una suspense che riusciva a tenermi davanti allo schermo anche quando non
stavo apprezzando il programma.

Le qualità della complessità

Ho intenzionalmente evitato l’etichetta «televisione di qualità». Di solito questa definizione si usa per
distinguere alcuni programmi da altri, senza però che questi programmi siano accomunati da questioni
formali o contenutistiche, e chiamandoli in causa come indicatori di prestigio utili a identificare quegli
spettatori più «raffinati» che preferiscono una programmazione «di qualità». I television studies hanno un
rapporto ambiguo con questa definizione: sono i critici e gli accademici europei a ricorrervi più spesso, in
riferimento alla serialità di alto livello, mentre la dicitura è meno comune negli Stati Uniti, nonostante sia da
qui che proviene buona parte dei prodotti etichettati come «tv di qualità» è soggettiva o che è più
interessante come argomento di discussione per addetti ai lavori e fan che come categoria analitica. Gli
studiosi che usano il termine sembrano concordare su quali programmi vadano inclusi o esclusi tra quelli di
qualità, e ciò suggerisce che questa definizione possa avere la sua importanza in quanto categoria critica.
Facendo riferimento ai libri che usano la definizione «tv di qualità», troveremo regolarmente serie come
Buffy, ER, X-Files, I Soprano, West Wing, Lost e Six Feet Under. È difficile riscontrare analisi che spieghino in
modo chiaro quali siano le caratteristiche della tv di qualità, e questo rende difficile capire cosa giustifichi
l’inserimento di serie come CSI, Deadwood, Scrubs e The Daily Show nel libro Quality Tv, se non il fatto che
appartengono tutte a una certa taste culture che tanto piace agli accademici e ai critici.
Più che in base alla condivisione di elementi formali o tematici, i programmi di qualità vengono accomunati
in virtù di presunti indicatori di prestigio, come contenuti «seri», stile cinematografico e innovazioni, che
rispecchiano quegli spettatori dal gusto anti-televisivo per i quali questi programmi costituiscono
un’eccezione, e che dicono: «questo è l’unico programma che guardo». L’industria associa più direttamente
la qualità al «pubblico di qualità», quella fetta colta e raffinata che la televisione mainstream di solito fatica
ad attrarre, ma che più interessa agli inserzionisti pubblicitari. Nel corso della storia, la tv di qualità è stata
sempre considerata come l’opposto di quella «vasta terra desolata» (vast wasteland) costituita da un
palinsesto di basso profilo, stereotipato e intercambiabile, e ha raggiunto la sua accezione più alta negli anni
Ottanta, per identificare ed elogiare programmi di scarso successo come A cuore aperto e New York New
York (Cagney and Lacey). Lo studioso americano che ha promosso più attivamente il concetto di tv di qualità
è Robert Thompson, secondo il quale quest’etichetta è puramente relazionale: «Il modo migliore per
definire la televisione di qualità è stabilire ciò che non è. E non è televisione “normale”».6 Secondo questa
definizione, la «tv di qualità» è costituita da quelle serie che spiccano in opposizione alla maggior parte
delle altre, cosa che dà all’espressione un’implicazione ossimorica: la televisione può riscattarsi tramite il
proprio contrario. Secondo alcuni critici la qualità è una caratteristica di valore, grazie alla quale alcuni
programmi sono meglio di altri, mentre secondo altri critici essa serve a identificare una fetta di pubblico
specifico («il pubblico di qualità») o un insieme di attributi testuali che include una produzione di qualità,
contenuti seri e un legame con altri media culturalmente più legittimati, come la letteratura e il cinema. In
ogni caso, la relatività dei concetti di valore, prestigio e successo, unita al bisogno di definire la qualità in
contrapposizione a un’altrettanto vaga definizione di «bassa qualità», rendono il concetto incongruente dal
punto di vista estetico, nonché poco utile sia come categoria analitica che come etichetta per identificare
determinati prodotti televisivi.

89
Molti usi della definizione «televisione di qualità» partono dalla nozione implicita di valore testuale, per la
quale i criteri di giudizio possono rimanere inespressi e il valore di un programma dipende unicamente dal
testo stesso, senza tenere conto del contesto o del coinvolgimento attivo dello spettatore. Sarah Cardwell
evidenzia le caratteristiche che inquadrano tale tipo di televisione più come un genere che come una
categoria di valore, rilevando che «notare gli indicatori di qualità di un programma non significa esprimersi
sul suo valore». La sua affermazione successiva, però, rinforza l’assunto per il quale il valore di un testo è
connaturato a questi indicatori di qualità: «Al contempo credo che queste qualità lo rendano comunque un
buon prodotto». In America i media studies sono dominati da un approccio diverso, dichiaratamente
contrario alla valutazione, con la giustificazione che l’argomento non rientra tra gli obiettivi della disciplina.
Spesso la maggior parte degli esperti evita di esprimere un giudizio esplicito in modo così evidente; la
valutazione sembra concessa soltanto ai critici e ai fan, e viene pertanto studiata, in quanto passaggio
discorsivo, soltanto quando vengono analizzate le pratiche della critica e della ricezione. Quando gli studiosi
americani si spingono a parlare di valutazione, si rifanno di solito a quella tradizione degli studi culturali,
ispirata soprattutto all’opera di Pierre Bourdieu, che inserisce le questioni di gusto ed estetica tra quelle
costruzioni sociali che alimentano le dinamiche e le gerarchie del potere.
Un libro recente che ben rappresenta questo approccio antiestetico e le sue conseguenze è Legitimating
Television, di Michael Newman e Elana Levine, che spiega in modo convincente perché, nel corso del secolo,
alla televisione sia stato riconosciuto un crescente valore culturale grazie al rinforzarsi delle stesse gerarchie
culturali. Analizzando una serie di pratiche critiche, industriali e accademiche che fanno parte di un più
ampio discorso sulla catalogazione culturale, gli autori operano una mappatura di questo terreno
argomentativo ed evidenziano come esso può rinforzare i criteri di livello e genere. Gli autori mettono
inoltre in risalto come l’approccio valutativo alla televisione cerchi spesso di legittimarsi attraverso
l’accostamento a media più legittimati come cinema e letteratura, invece di concentrarsi sugli attributi
specifici della tv. Cadono però preda di un pericolo fondamentale di questo tipo di analisi: al fine di tracciare
un macro-disegno esaustivo e coerente, che celebri un’ipotetica «epoca d’oro» (Golden Age) della tv,
sottovalutano le numerose sotto-pratiche esistenti che rientrano anch’esse sotto l’ombrello preso in analisi.
Così, se da un lato sostengono di voler invitare gli studiosi a fare analisi più consapevoli, dall’altro
etichettano frettolosamente come «naïf» tutto ciò che può essere legittimato, rinforzando così le categorie
preesistenti e le gerarchie tra i generi, mentre loro stessi ignorano spesso quei casi che dimostrano la
consapevolezza da loro reclamata. E dunque rimaniamo bloccati in una situazione in cui non possiamo
evitare di tirare in ballo la questione della legittimazione, che rende sospetti o nulli tutti i giudizi di valore e
ci impone di considerare la pragmatica del gusto solo come il riflesso della classe sociale piuttosto che come
un insieme di pratiche culturali con una terminologia propria seppur non definitiva.
Così come «tv di qualità» è una definizione troppo vaga per identificare un insieme di caratteristiche del
mezzo, un «discorso legittimante» è un concetto altrettanto variabile, usato sia per valorizzare alcune
innovazioni tecnologiche, sia più generalmente per ridurre la critica a qualcosa di fazioso o ingenuo. Bisogna
quindi prendere seriamente le lezioni anti-universalistiche di Bourdieu e dei suoi proseliti, ma usarle per re-
immaginare come sia possibile discutere di estetica senza affermazioni generalizzate su cosa sia la tv di
qualità. È per questo che voglio proporre un approccio alla valutazione critica che sia un compromesso e
che eluda la categoricità del concetto di tv di qualità o dei discorsi anti-legittimatori. Questo approccio
riprende quello di studiosi per la maggior parte britannici e australiani, i cui scritti hanno purtroppo poca
influenza sui television studies americani, nei quali si tende perlopiù a esaltare la tv di qualità o a criticare la
legittimazione e le distinzioni di genere. Prima di definire efficacemente il raggio d’azione dei television
studies, nel suo influente saggio Encoding/Decoding, Stuart Hall aveva scritto The Popular Arts a quattro
mani con Paddy Whannel, e in quel libro la popular culture veniva difesa attraverso l’analisi e il giudizio
dell’estetica. Secondo Hall e Whannel, la categoria dell’arte popular è definita da quel tipo di distinzioni che
Bourdieu ritiene obsolete, ma essa rimane utile, dal punto di vista analitico, perfino dopo aver riconosciuto
che i giudizi derivano più dai rapporti di potere che dall’essenza trascendentale della bellezza. Hall e

90
Whannel. analizzano l’estetica della vita di tutti i giorni, cercando di comprendere la popular culture sul suo
stesso territorio, e non valutandola attraverso i criteri, con essa incompatibili, adottati per l’arte elitaria.
Diverse opere recenti di sociologia, e anche qualcuna legata ai television studies, ritornano sulle questioni
riguardanti l’estetica e propongono la possibilità di un giudizio critico applicato all’arte popular.
Quest’approccio alla critica del valore permette agli studiosi di essere franchi e severi sulla cultura del gusto,
e di proporre una panoramica dei nostri giudizi sui prodotti televisivi, senza però adottare criteri di
valutazione universali o imprescindibili. Distinguo qui il concetto di valutazione, per la quale il valore è
intrinseco al testo e va scoperto dal critico così come un esperto stabilisce il prezzo di un oggetto
d’antiquariato, da quello di giudizio, che è l’analisi di criteri estetici, caratteristiche testuali e circolazione
culturale: la valutazione si basa di norma su una lettura attenta (close reading), secondo la quale il valore è
intrinseco al testo e aspetta che sia il critico a svelarne la verità, mentre il giudizio riguarda il processo
culturale della fruizione attraverso cui vengono generati il significato e il valore. La valutazione segue la
tradizione della scuola letteraria del New Criticism, per la quale una lettura attenta mira a dimostrare il
valore intrinseco di un’opera, un approccio adottato dai sostenitori della tv di qualità; il giudizio, invece,
mette in primo piano il processo di analisi critica e di confronto su testi, contesti e criteri estetici. È
importante sottolineare che «tv complessa» non è sinonimo di «tv di qualità». Al contempo, possiamo
considerare la complessità come un canone di valore, un obiettivo a se stante di molte serie di oggi.
Secondo il New Criticism definire complesso un lavoro letterario significava sottolinearne la sofisticatezza e
le sfumature, sostenendo che contenesse una visione del mondo non semplicistica, ma anzi sempre più
profonda col procedere della lettura e dell’analisi dell’opera. Ciò implica che l’utente dell’opera complessa
dovrebbe fruirla interamente e attentamente, e che questo coinvolgimento dovrebbe offrirgli un’esperienza
diversa da una meno attenta o parziale. Anche se non deve essere considerata soltanto un canone di valore,
la complessità ci aiuta sicuramente a capire in che modo le serie tv possono conseguire delle conquiste sul
piano estetico. Un’obiezione mossa di frequente al giudizio critico è che esso crea e alimenta delle gerarchie
culturali, poiché valorizza una pratica culturale a scapito di un’altra, attraverso una modalità di distinzione
che, come dimostrato da Bourdieu, rinforza i rapporti di potere sociale. Dobbiamo comunque spingerci al di
là di una logica binaria, e quindi riduttiva, per la quale il valore sarebbe un «gioco a somma zero», in cui
lodare un qualsiasi canone automaticamente scredita il suo opposto. Il fatto che la complessità possa essere
considerata una virtù, insomma, non implica che la semplicità sia un peccato. Allo stesso modo, la
complessità non è necessariamente un indicatore di valore: una narrazione complessa che sacrifica la
coerenza e il coinvolgimento probabilmente non è all’altezza di nessuna analisi sul valore. Quando
analizziamo una serie tv possiamo adottare la complessità come categoria di giudizio, evitando però di dare
per scontato che soltanto le serie tv complesse meritino di essere studiate, o che esista una formula ideale
per realizzare un prodotto televisivo di successo. Possiamo semplicemente rilevare che esistono diversi
programmi raggruppabili intorno a questa nuova modalità di narrazione, molti dei quali sono riusciti a
proporre interessanti innovazioni, la cui importanza non sminuisce né emargina altre forme di
intrattenimento. La complessità è alla base delle due serie in testa alla mia lista personale delle migliori di
sempre (finora): The Wire e Breaking Bad. Il New York ha pubblicato una serie di articoli nel 2012 per
stabilire quale fosse stata la serie migliore degli ultimi venticinque anni, e The Wire si aggiudicava il premio
della critica mentre Breaking Bad il voto dei fan. I paralleli e le distinzioni tra le due serie mettono in
evidenza l’uso della complessità in quanto tendenza estetica, nonché come possa funzionare in modi diversi
raggiungendo risultati positivi simili. Per molti versi, The Wire e Breaking Bad sono molto simili. Entrambe
sono state prodotte per canali via cavo emergenti all’ombra di quell’interesse critico che aveva definito
l’identità di brand dei due canali (rispettivamente, Hbo grazie ai Soprano e Amc grazie a Mad Men).
Entrambe hanno spinto i rispettivi canali verso nuove estetiche, e hanno ottenuto risultati crescenti, finché
non hanno superato le serie che le avevano precedute in termini di apprezzamento da parte della critica.
Entrambe sono scritte da autori che negli anni Novanta, sui network, si sono fatti conoscere come
innovatori (David Simon con Homicide: Life on the Street, Vince Gilligan con X-Files), ma nessuno si

91
aspettava che i due avrebbero realizzato, nella veste di producer, programmi così innovativi e apprezzati.
Entrambi i titoli sono composti da cinque stagioni, per un totale di circa sessanta episodi. Entrambe le serie
parlano, in modi diversi, di spacciatori e guerra alla criminalità all’interno di una città americana di medie
dimensioni. Ed entrambe combinano situazioni di tensione e violenza con una brillante vena da commedia
dark, mostrandoci uomini che cercano un senso in ciò che fanno, nonché il modo in cui lo fanno, che si tratti
di intercettare telefonate o cucinare cristalli di metanfetamina. Per altri versi, le due serie sono
diametralmente opposte, e mostrano in modo chiaro quante siano le possibilità narrative di un drama in
prime time. The Wire ha uno stile visivo e sonoro coerente e controllato, che segue le norme del cinema
realista, evitando ad esempio l’uso di una colonna sonora extradiegetica (al di là dei titoli di apertura o dei
filmati di fine stagione) e attenendosi alle convenzioni di quel tipo di montaggio che mira a uno storytelling
«realistico». Breaking Bad adotta invece un campionario visivo più ampio, passando da panorami
caratteristici, che richiamano i western di Sergio Leone, a trovate registiche eccentriche (che collocano ad
esempio il nostro punto di osservazione dentro una tinozza di elementi chimici) o a espedienti di montaggio
come il time-lapse o speed-up. Anche lo stile sonoro del programma è molto variabile, tanto da includere
imprevedibili canzoni pop, musica ambient e persino un narcocorrido creato ad hoc. Mentre Breaking Bad
adotta salti temporali e sequenze soggettive, come succede spesso nella tv complessa, The Wire si muove
cronologicamente in avanti, mantenendo una narrazione oggettiva. In breve, The Wire adotta un «grado
zero dello stile» che mira a rendere invisibili le tecniche del racconto, mentre Breaking Bad sfoggia uno
«stile al massimo livello», con movimenti di camera cinematografici, sottolineature musicali e forme
narrative imprevedibili. Anche gli approcci delle due serie ai temi e allo storytelling sono in contrasto tra
loro. The Wire è incentrato sulla guerra della droga, soprattutto nella prima stagione, anche se in seguito
metterà in chiaro che il crimine è uno strumento per osservare da vicino il degrado urbano dell’America
degli anni Duemila. Andando avanti con le stagioni, la sua panoramica si allarga ai cantieri navali, al
municipio, alle scuole pubbliche e al mondo della stampa, descrivendo le connessioni tra questi luoghi, le
aree sorvegliate dalla polizia e le zone di spaccio. La serie comincia con un bacino di contenuti già ampio: la
puntata pilota presenta più di una ventina di personaggi che avranno ruoli ricorrenti, e altri ne verranno
presentati negli episodi successivi, fino a raggiungere un totale di sessanta personaggi rilevanti, soltanto
nella prima stagione. Questa densità narrativa si amplia per cinque anni fino a lasciare allo spettatore la
sensazione di aver conosciuto tutte le persone e i luoghi della Baltimora finzionale ricreata dalla serie.
Inoltre, la serie non soltanto dà vita a un mondo narrativo molto vasto, ma offre un tour guidato tra gli
ingranaggi politici ed economici della città, mostrandoci come persone, luoghi e istituzioni facciano tutti
parte di un sistema disfunzionale.
I personaggi di The Wire sono sicuramente multidimensionali e sfaccettati, ma sono principalmente definiti
dal loro rapporto con le istituzioni, che siano la polizia, il sistema scolastico o il giro di affari della droga:
solitamente i personaggi che raggiungono i propri traguardi sono quelli che dettano le regole della partita,
mentre gli individualisti falliscono nel tentativo di scappare, cambiare o trasformare un sistema ingiusto. La
serie si sofferma raramente sulla vita dei personaggi o sulle sfumature dei loro rapporti: The Wire propone
un mondo in cui le persone sono definite più da ciò che fanno che da ciò che pensano o provano. La
profondità deriva dall’accumularsi di parecchi personaggi e dai loro legami, considerato che la stessa
Baltimora è costruita come un’entità vivente con la sua complessità interiore. Se una delle attrattive delle
serie tv è quella di provare a leggere nella testa dei personaggi allora in The Wire è proprio Baltimora il
«personaggio» dotato di maggiore profondità, a scapito dei suoi abitanti.
Nonostante parli anch’essa di narcotrafficanti, Breaking Bad lo fa molto diversamente, rifiutando un ampio
respiro sociologico a favore dell’introspezione e della profondità psicologica. La serie propone pochi
personaggi rispetto alla media delle serie tv, con un nucleo iniziale formato da sei figure principali che si
allarga di poco nell’arco di cinque stagioni. Ogni personaggio è definito principalmente dal suo rapporto con
Walter White, e la narrazione ci mostra come le azioni o scelte di quest’ultimo si ripercuotano su tali
rapporti. Se The Wire presenta un mondo in cui i personaggi e le istituzioni sono ancorati a un sistema più

92
ampio, Breaking Bad descrive il cambiamento psicologico di un personaggio che diventa sempre più abietto,
trascinandosi dietro chiunque in questa discesa agli inferi, in un processo di cambiamento mai visto prima in
una serie televisiva. Questi diversi approcci rilevano le due distinte tipologie di realismo adottate dalle due
serie. Il realismo televisivo non mira a una rappresentazione corretta del mondo reale, quanto a creare un
mondo finzionale che restituisca l’illusione della verosimiglianza: un programma viene considerato realista
quando sembra spontaneo, anche se nessun prodotto mediale si può avvicinare a una rappresentazione
verosimile e spontanea della complessità del mondo. The Wire adotta un tipo di realismo sociologico
abbastanza tradizionale, riducendo al minimo la stilizzazione e inseguendo l’attenzione al dettaglio, anche
grazie al passato di Simon come giornalista; ci viene chiesto di giudicare il mondo narrativo, i suoi
personaggi e le loro azioni sul piano della plausibilità, e la finzione mira a rappresentare la società per come
la conosciamo. Le tecniche adottate dal programma per conseguire la sua rappresentazione della società
sono innovative per tipo e vastità, e restituiscono una visione del mondo dalla notevole potenza retorica.

Breaking Bad insegue invece una diversa tipologia di realismo, privilegiando l’aspetto psicologico a discapito
di quello sociale. Nella sua descrizione del cambiamento di Walter White la serie mira a ottenere un effetto
forse senza precedenti in ambito televisivo: raccontare gradualmente come l’identità e le convinzioni di un
personaggio possano cambiare drasticamente in un certo arco di tempo. Lo stile visivo sopra le righe del
programma ci avverte subito che il mondo rappresentato sullo schermo è meno verosimile dei pensieri e
delle emozioni dei personaggi, in modo tale che persino un evento non plausibile e anti-realistico come lo
scontro tra due aerei, se scaturito dalle azioni egoistiche di Walt, risulti psicologicamente coerente al tono
della serie. A Breaking Bad interessa raccontare personaggi che sembrino veri, piuttosto che rappresentare
in modo realistico il proprio mondo narrativo, ed è attraverso quest’illusione di spontaneità che la serie
affronta i temi della moralità, dell’identità e della responsabilità. The Wire e Breaking Bad sono quindi due
serie simili e diverse. Le due serie affrontano la serializzazione con strategie nettamente differenti: The Wire
adotta ciò che potremmo chiamare complessità centrifuga, in cui la narrazione tende ad ampliarsi verso
l’esterno, facendo muovere i personaggi in un mondo narrativo in continua espansione. In una serie tv
centrifuga non c’è un solo fulcro narrativo, e ci viene raccontato ciò che succede tra i personaggi e le
istituzioni man mano che allargano i loro orizzonti di azione. Questo non significa che la serie aumenti
semplicemente il numero dei personaggi e delle ambientazioni, ma che la sua varietà risiede nella
complessa rete di interconnessioni instaurata dal sistema sociale, piuttosto che nella profondità psicologica
di ogni singolo personaggio, o del suo ruolo nella storia. Per esempio, la conclusione della quarta stagione
dimostra che il destino di ragazzi come Randy e Namond non dipende dal loro temperamento o da ciò che
sanno fare, quanto piuttosto dalle azioni di chi opera in istituzioni, tra loro interconnesse, come sistema
scolastico, polizia, gang e politica. Attenendosi alla logica narrativa convenzionale, lo spirito imprenditoriale
di Randy dovrebbe permettergli di risollevarsi economicamente, mentre l’amara rivendicazione dei propri
diritti da parte di Namond dovrebbe condannarlo a ripetere il destino da emarginato del padre. In The Wire
è difficile che le azioni dei personaggi facciano la differenza all’interno di un sistema più ampio, e gli
individui possono soltanto sperare di scappare dal proprio destino grazie a colpi di fortuna e alla loro
propensione al sacrificio.
Se The Wire ci racconta l’ampiezza del sistema, Breaking Bad è un buon esempio di narrazione densa,
perché adotta una complessità centripeta, nella quale i personaggi sono spinti verso un centro
gravitazionale interno, man mano che vengono approfonditi gli antefatti e le psicologie che generano
l’azione. Il risultato è un mondo narrativo che presenta dei personaggi di una profondità insuperabile, vari
livelli di antefatti e psicologie complesse, il tutto costruito attraverso le esperienze e i ricordi che gli
spettatori hanno accumulato nel corso di diverse stagioni. Tutti gli sviluppi narrativi si ricollegano sempre a
Walter White o al suo socio, Jesse Pinkman, diventando di solito parte integrante della loro graduale
trasformazione; quasi tutti gli eventi sono innescati dalle decisioni e dai comportamenti di Walt, piuttosto
che dal sistema sociale o dalle circostanze. Le decisioni di Walt possono essere dettate dalle circostanze, che
però di solito prevedono opzioni dai risultati opposti: Walt avrebbe potuto accettare la generosità di Elliot e
93
Gretchen, rifiutare l’offerta economica di Gus, salvare Jane o approfittare di tante altre opportunità,
piuttosto che infognarsi sempre di più nel suo stile di vita criminale, eppure ogni volta opta per il male,
innescando spirali di dolore e sofferenza intorno a sé. Inoltre, la serie rivisita spesso dei momenti del
passato narrativo per colmare le lacune sulla vita o sui rapporti dei personaggi, facendo ricorso a un
flashback su quando Walt era una persona sicura di sé, prima di diventare insegnante, o tornando sulle
conseguenze dell’omicidio di Combo, un evento apparentemente secondario che mesi dopo innesca una
svolta narrativa fondamentale, alla fine della terza stagione. In Breaking Bad si ha sempre l’impressione che
eventi passati marginali possano tornare al centro della narrazione e avere un impatto sul destino di Walt, in
modi imprevedibili ma plausibili: questa forza centripeta crea un mondo narrativo complesso che non
estingue i misfatti passati dei suoi protagonisti e che si rifiuta di fargli (o farci) passare lisce queste
trasgressioni, o in termini di conseguenze pratiche o a livello psicologico. Un paragone tra due momenti di
climax simili, entrambi tratti dai penultimi episodi delle rispettive stagioni, può mettere in evidenza questo
duplice approccio alla complessità. Nella puntata «Phoenix» di Breaking Bad, Walt si allontana dal suo socio
Jesse, che è assorbito dalla dipendenza da eroina con la fidanzata Jane; Walt va a casa di Jesse per tentare
un riavvicinamento, ma lo trova svenuto a letto insieme a Jane. Quando Jane comincia a soffocare nel
proprio vomito Walt le si avvicina per smuoverla e salvarle la vita, ma poi esita, e noi lo osserviamo mentre,
in silenzio, ragiona sui vantaggi della morte di Jane: è per questo che decide di lasciarla morire.
L’eccezionale prova d’attore di Bryan Cranston riesce a comunicarci il processo mentale di Walt mostrandoci
la sua moralità che si sgretola sotto il peso di una razionalizzazione egoistica: l’azione drammatica, in questo
caso, si svolge all’interno della psicologia di Walt, comunicata agli spettatori attraverso la stratificazione di
esperienze e ricordi. Anche alla fine della prima stagione di The Wire assistiamo alla morte di un
personaggio per mano di altri personaggi, ovvero quando Bodie e Poot sparano a Wallace su ordine di
Stringer Bell. Benché ci siano sicuramente somiglianze tra i personaggi dei tre amici, e ci è chiaro che si tratti
di un punto di non ritorno per i due assassini, è altrettanto chiaro che Bodie e Poot non potevano davvero
scegliere: la loro unica fonte di sostentamento è lo spaccio, e il gioco impone che dimostrino la loro lealtà,
se non vogliono fare la fine di Wallace. Alla base dell’impatto emotivo della scena ci sono le condizioni
sociali e le logiche istituzionali che hanno condotto a quel momento, e non complessi ragionamenti morali o
lo sviluppo psicologico dei personaggi: Bodie e Poot hanno intrapreso un percorso molto comune tra chi è
stato emarginato dal sistema, mentre l’atto di Walt è del tutto personale e individuale, e non contrapposto a
forze sociali più grandi. The Wire e Breaking Bad sono entrambe serie complesse, ma hanno approcci
talmente diversi che nessuna delle due sarebbe all’altezza dei canoni dell’altra: The Wire non riesce a dare ai
suoi personaggi una profondità psicologica tale da suggerirci che le loro azioni siano il frutto di un difficile
percorso individuale, mentre Breaking Bad non è in grado di raccontare il modo in cui le persone subiscono
il sistema. l’incapacità di soddisfare l’una il modello dell’altra non va interpretato come un limite estetico,
ma come una caratteristica del loro specifico storytelling. Ed è grazie a questi modelli specifici che entrambi
i programmi parlano ai propri spettatori, e che si sviluppa il nostro affiancamento a lungo termine per l’una
o per l’altra. Al contempo io sostengo che questi modelli non siano semplicemente incorporati nelle serie,
tanto da poter essere estrapolati dalla critica, ma che emergano attraverso l’approccio contestualizzato degli
spettatori al testo: siamo noi a dare corpo ai modelli della complessità centripeta e centrifuga, riempendo i
non detti, creando dei collegamenti e investendo in questi mondi narrativi le nostre energie emotive,
nonché parlando del nostro coinvolgimento nei forum online o di persona.
il mio obiettivo non è dimostrare che The Wire e Breaking Bad siano due ottime serie, ma che studiare in
che modo abbiano raggiunto i propri obiettivi può aiutarci a capire come funzionino e cosa raccontino,
nonché spianare la strada a quelle ricerche future che vorranno spiegare come le serie coinvolgono gli
spettatori, si contrappongono alle altre serie e si collocano nelle tendenze intra-mediali. Attraverso l’analisi
dell’ampia complessità centrifuga e della densa complessità centripeta, possiamo capire in che modo le
serie creano il proprio mondo narrativo e i suoi personaggi, nonché come fanno a predisporre le nostre
aspettative. Ho iniziato questo capitolo proponendo una critica valutativa che sia un invito al dialogo,

94
piuttosto che un tentativo di imporre ad altri un giudizio critico, e una parte fondamentale di questo
approccio dialettico è la sincerità riguardo alla propria condizione. Mentre scrivo questo libro e guardo
queste serie non posso dimenticare chi sono: un professionista di mezza età, americano, bianco, colto ed
eterosessuale, la cui dimestichezza con la televisione seriale è ben lungi dall’essere universale. Riconosco
pienamente che la mia identità è assimilabile a quell’identità di classe che ha dominato a lungo il giudizio
estetico tradizionale, nonché a quella dei creatori di queste due serie: in altre parole, queste serie parlano la
mia lingua e il mio stesso accento, e io dispongo del vocabolario e della voce adatti a rispondere. Questo
non cambia il fatto che questi programmi stiano parlando, creando le proprie dimensioni estetiche e
sollecitando i fan e i critici a rispondere. Ma io non posso rispondere in modo universale a un’estetica
trascendentale che si trova al di fuori della mia identità. Un giudizio di valore non è un’asserzione né una
prova, bensì un invito al dialogo e al dibattito.

Le insidie di una critica negativa

Cosa succede quando si mette in discussione una serie che riceve un apprezzamento quasi universale da
parte della critica e degli studiosi di media? L’ho vissuto in prima persona nel 2010, quando sono stato
invitato a contribuire a un lavoro collettivo su Mad Men. Ho informato i curatori che non avevo
particolarmente apprezzato la serie, e abbiamo deciso insieme che un saggio su questo mancato
gradimento sarebbe stato un’integrazione interessante all’interno del volume. Ho postato il saggio sul mio
blog con il titolo «On Disliking Mad Men» e il post è diventato il più letto e commentato di sempre. Il saggio
approfondiva sia le mie critiche alla serie sia il problema di parlarne in un contesto accademico,
sottolineando la difficoltà di esprimere una reazione negativa senza dare l’impressione di condannare il
gusto altrui o di voler convincere gli spettatori che il loro gradimento sia immotivato. Sono sicuro di non
aver convinto nessuno che Mad Men sia un cattivo prodotto e ho al massimo spiegato perché una serie
apprezzata da molti spettatori con un gusto simile possa comunque non piacere a uno spettatore vicino a
quel gusto. Va anche detto che il pezzo fu escluso dalla raccolta, perché non rispecchiava i paradigmi e il
registro dell’analisi accademica. Ho affrontato Mad Men ispirato dal migliore tra gli esempi di critica
negativa che ho letto, ovvero «Journey to the End of Taste» di Carl Wilson, dedicato a Céline Dion. Wilson
propone una diversa modalità della discussione sull’estetica che parte da questo ragionamento: «Cosa
sarebbe la critica se non tentasse innanzitutto di convincere la gente ad apprezzare le stesse cose? Se non si
occupasse di argomentare a favore o contro qualcosa? Intanto non avrebbe bisogno di adottare quel tono
“oggettivo” che cela l’identità e la condizione sociale dell’autore, e che è l’ideale per convincervi. E, in
secondo luogo, potrebbe essere più sincera riguardo ai due estremi opposti dell’approccio estetico,
proponendo piuttosto qualcosa di simile a un tour in un’esperienza personale, a un diario di viaggio, a un
memoir». Riconosco che si tratta di una «buona» serie: ben realizzata, dallo stile impeccabile, scritta in
modo brillante, prodotta con mestiere e recitata efficacemente. Ma nonostante tutti questi indicatori di
«qualità», guarderei più volentieri serie non altrettanto ben realizzate, meno intelligenti e meno ambiziose,
se le trovo più godibili e soddisfacenti. La mia incapacità di apprezzare Mad Men evidenzia i limiti del
determinismo estetico ispirato a Bourdieu, e i pericoli che si corrono riducendo un giudizio di valore a un
riflesso delle strutture sociali. L’analisi di Bourdieu si concentra sui gruppi sociali ma riconosce anche la
variabilità delle esperienze individuali; eppure, per molti studiosi dei media, questo modello ha assunto un
potere vincolante, che li spinge a ignorare le variabili individuali, invece di analizzarle per comprendere la
complessità del gusto e del gradimento. In base a questi modelli, ci si aspetta che io ami Mad Men, perché
la serie rientra perfettamente nella mia sfera culturale conformista e sembra che quasi tutti gli appartenenti
a questa sfera l’abbiano adorata. Ma io non l’ho amata, anzi, mi ha deluso. Per essere chiari, va detto che ho
guardato per intero soltanto la prima stagione di Mad Men, seguita da episodi tratti dalle stagioni
successive. La mia analisi di ciò che non ho gradito della serie si basa quindi sulla prima stagione; se sia
possibile giudicare un oggetto culturale tramite una fruizione parziale è un argomento troppo vasto per
essere trattato in questa sede, ma senza dubbio molti spettatori lo fanno in continuazione: la maggior parte

95
degli spettatori giudica le serie sulla base di singoli episodi (o persino su una parte di essi), per cui l’idea che
dobbiamo fruire l’intero prodotto prima di poterlo giudicare è sia poco pratica sia sbagliata. Le sofisticate
scenografie di Mad Men mi risultano fredde e artificiose: sono il risultato di un’analisi che considera il
mondo della pubblicità come il luogo privilegiato dell’immaginario visivo dell’America postbellica, ma al
contempo danno vita a un’ipocrita incongruenza, poiché i fan si ritrovano ad apprezzare lo stile di una serie
che non sottolinea l’anima manipolatrice del marketing e la nascita della consapevolezza consumistica.
Considerarne lo stile come uno degli aspetti più gradevoli, come fanno molti fan e critici, mi sembra
incompatibile con le critiche avanzate dalla serie stessa, e questo rivela un problema comunicativo del testo,
o un diffuso fraintendimento del modo in cui la serie ricorre allo stile. Questa mancanza di intesa non si
limita allo stile visivo e alla produzione, ma comprende il modo in cui la serie tratta la cultura e i valori
dell’epoca. Mad Men fa di tutto per creare un mondo che sia al contempo idealizzato e sufficientemente
realistico per poter essere oggetto di un’analisi culturale, un’ambivalenza che non riesco ad accettare dal
punto di vista intellettuale né ad apprezzare da quello estetico. Mad Men adotta una sofisticata forma di
coinvolgimento nei confronti dei personaggi che non ha eguali tra le serie d’epoca: da un lato ce li mostra
mentre vivono giorno dopo giorno e in linea con le abitudini dei tempi, ma dall’altro ci suggerisce buona
parte di ciò che succederà nel loro mondo. Così, mentre i personaggi sfoggiano disinvolti sessismo e
razzismo, noi li guardiamo come se fossero dinosauri ignari dell’imminente era glaciale, e dall’alto del nostro
piedistallo nel ventunesimo secolo sappiamo già che, se non si adatteranno, saranno costretti a estinguersi.
Spesso la serie adotta uno sguardo più sofisticato sulle abitudini degli anni Sessanta, ma non senza un certo
disagio. Si dà per scontata la nostra condanna del sessismo dei pubblicitari, ma dopo aver trascorso così
tanto tempo con loro ed essere «cresciuti» insieme, quando poi mortificano o maltrattano qualcuno senza
motivo non è così facile prendere posizione. Ad esempio, in un momento apparentemente accorato
dell’episodio «Un caldo tropicale», in cui Roger Sterling fa un complimento a Joan Holloway dicendole che
ha «il più bel culo che abbia mai incontrato», noi siamo sicuramente turbati da ciò che ci appare come una
crudele mancanza di sensibilità, ma questo comportamento offensivo rende il personaggio di Roger
affascinante e carismatico, e quindi possiamo al contempo biasimare e far nostra la sua tempra, soprattutto
considerato che Joan sembra contenta di prenderlo per un complimento. E se pensiamo che, in seguito alla
sua sensuale interpretazione di Joan, l’attrice Christina Hendricks è diventata un sex symbol, diventa
evidente che il «complimento» di Roger non deve essere troppo distante da ciò che molti spettatori
pensano di lei. Questo disagio si fa più problematico nelle tante scene in cui i pubblicitari fanno di tutto per
mortificare segretarie e mogli. Biasimiamo questi comportamenti e al contempo siamo contenti di essere
stati invitati a far parte della gang. Per molti versi, la critica sociale di Mad Men funziona in modo simile a
molta pubblicità contemporanea politicamente ambivalente, soprattutto quella della birra. Mad Men adotta
una versione più alta di questo modello, sostituendo lo scotch alla birra: più tempo passiamo con i suoi
pubblicitari più ci appaiono affascinanti, e questo rende meno offensiva, e anzi più attraente, la loro
sensibilità per noi arretrata. Ponendoci come infiltrati all’interno di una cultura condivisa, la serie ci spinge a
provare gradualmente empatia per i suoi personaggi: ne viene fuori una sorta di sindrome di Stoccolma, per
la quale condividiamo valori che dovremmo altrimenti aborrire. Trascorrere ore in compagnia di personaggi
che disprezziamo può risultare sgradevole oppure spingerci a considerare più accettabile il loro
comportamento: non so quale delle due opzioni sia la peggiore.
le serie tv devono creare un legame tra gli spettatori e i personaggi che duri nel corso delle ore e degli anni.
Ciò non significa che questi personaggi debbano essere gradevoli o moralmente retti per instaurare
un’immedesimazione ma devono essere convincenti, e ispirare un affiancamento alle loro vite, ai loro
rapporti e alle loro azioni. Guardando Mad Men non riesco a essere coinvolto dai suoi personaggi né da ciò
che fanno, perché mi sembrano imperscrutabili e inumani: non provo empatia per questi personaggi, li
guardo con un distacco emotivo che me li fa apparire come elementi di una coreografia, non come persone
con cui vorrei passare del tempo. La serie mette in scena l’enigma dell’identità di Don Draper, ma da
spettatore non ho trovato granché sotto la superficie che mi spingesse a chiedermi chi sia davvero il

96
personaggio o chi diventerà; né Draper suscita in me quell’attaccamento funzionale che ho nei confronti di
altri antieroi. La performance di Hamm restituisce bene l’aspetto viscido di Don, ma percepisco poca
umanità nascosta sotto il suo fascino da insensibile, o che vada al di là della sua apparenza meditabonda. Il
programma ritrae Don come un ragazzaccio carismatico il cui sex appeal spinge le persone a sorvolare sui
suoi misfatti, ma io trovo il suo carisma privo di profondità e quindi mi va di osservarlo soltanto quando non
funziona. A conti fatti, guardare Mad Men mi lascia con la sensazione di essere stato corrotto, di aver
passato del tempo in un posto sgradevole con persone di cui non mi interessa niente e di esserne uscito con
addosso la puzza delle loro sigarette. L’aspetto patinato è pensato per affascinare, ma al contrario maschera
qualcosa di vacuo, tetro e malato. . Nessuna delle evoluzioni dei personaggi sembra reale o graduale,
eppure mi viene venduta l’illusione di un dramma al posto di un dramma vero. Dal punto di vista analitico,
la mia reazione negativa è inspiegabile, se non facendo riferimento alla mia preferenza per quel tipo di
complessità testuale rappresentata da The Wire e Breaking Bad, che mi allontana dalla complessità sotto-
testuale, interpretativa e simbolista di Mad Men. Questa non è quindi un’argomentazione sul valore del
programma, bensì la trascrizione del mio dialogo estetico con la serie, come suggerito dall’approccio di
Wilson. Se è vero che la televisione è un dialogo tra un prodotto culturale e lo spettatore, allora condividere
questa conversazione così intima con altre persone ha anche un valore critico, soprattutto quando il dialogo
con il testo diventa imbarazzante e finisce per interrompersi in pubblico. Il mio approccio è anti-normativo:
non sto cercando di misurare queste serie in base a regole universali o prestabilite sulla qualità estetica, né
sostengo che le mie analisi siano più valide di altre. Ho soltanto cercato di guardare al microscopio la mia
esperienza soggettiva per scoprire qualcosa di più sulle serie tv intese come esperienza estetica. Se un
numero maggiore di studiosi rendesse pubbliche le analisi di questo tipo, ci ritroveremmo con una
panoramica sfaccettata che ci aiuterebbe a capire la varietà di voci, attrattive e piaceri offerti da una serie tv.
Non possiamo riduttivamente raggruppare tutti questi programmi nella categoria della «televisione di
qualità», né possiamo ignorare il giudizio come se fosse un sottoprodotto di influenze sociali. Al contrario,
dobbiamo ascoltare le nostre conversazioni sull’estetica, condividere questi dialoghi per capire la voce dei
testi seriali e fare delle analisi approfondite, tutto ciò per comprendere finalmente perché certe serie ci
appagano e altre ci lasciano insoddisfatti. È questo l’obiettivo di una valutazione.

CAP 7
MELODRAMMA SERIALE

La televisione complessa è una modalità di narrazione, connessa a un certo tipo di produzione e di


ricezione, che abbraccia una vasta gamma di programmi e attraversa moltissimi generi. Un genere televisivo
non è semplicemente un insieme di regole testuali, ma piuttosto una categoria culturale che accomuna testi
diversi all’interno di contesti specifici. Riconoscere il contributo del genere alla diffusione della tv complessa
evidenzia come questa modalità abbia finito per influenzare molte tipologie di narrazione televisiva, sia
comedy che drama. La tv complessa dà luogo a una notevole commistione tra i generi, facendo sì che le
regole e gli assunti di ogni categoria si intreccino, si fondano e si rigenerino. Allo stesso modo, il
melodramma è più una modalità che un genere: si tratta infatti di un approccio all’emotività, allo
storytelling e alla moralità che attraversa parecchi generi e parecchie forme mediali. Quando parliamo di
televisione americana, si dà spesso per scontato che il melodramma riguardi soltanto quel genere
importante che è la soap opera, motivo per cui qualsiasi momento melodrammatico visto al di là della
programmazione diurna è spesso collegato alle soap, e dispregiativamente etichettato come
«sentimentale» (soapy). Questo capitolo svela i nessi formali e culturali tra lo storytelling complesso e il
genere delle soap opera di daytime, con il loro stile struggente da melodramma a puntate. Molti dei serial
drama complessi che passano oggi in prima serata sono melodrammi seriali, e hanno quindi caratteristiche
in comune con le soap; in termini di forma, produzione e analisi critica, le serie di prima serata e le soap
opera mostrano anche delle differenze sostanziali che meritano di essere sottolineate. Per mettere in
evidenza l’approccio specifico della tv complessa al melodramma seriale, considererò il modo in cui lo

97
stesso melodramma funziona in quanto «tecnica narrativa di genere (gender)», facendo riferimento al
modello di Robyn Warhol, e criticherò l’idea diffusa che le serie di prima serata siano una
«mascolinizzazione» del mondo tradizionalmente femminile delle soap opera.

Le soap opera e le questioni di genere

Per capire cosa abbiano in comune le serie tv in prima serata con il melodramma seriale, dobbiamo prima
analizzare in che modo sia la serialità che il melodramma sono stati tradizionalmente considerati propri
delle soap opera. Prima degli anni Novanta, in America la forma principale di serialità a lungo termine era la
soap opera di daytime, un genere precedente al mezzo televisivo, che affonda le sue radici nella radio e che
include programmi come Sentieri, andato avanti per decenni a cavallo tra i due media. soap opera è un
nomignolo dispregiativo coniato negli anni Trenta per prendere in giro la contrapposizione tra melodramma
straziante e vendite commerciali di poco conto, rivolte a un pubblico teoricamente composto soltanto da
casalinghe poco sofisticate. Prima della diffusione del termine, le soap opera erano note come «daytime
drama», e ciò ne richiama il collocamento commerciale all’interno del palinsesto radiofonico, ma anche la
forma narrativa e l’intento emotivo. Queste tre caratteristiche sono state ereditate dall’espressione soap
opera quando questi programmi furono spostati in televisione, negli anni Cinquanta, e il genere diventò la
principale forma di serialità. Le soap opera non furono le uniche né le principali forme seriali radiofoniche
nell’America degli anni Trenta e Quaranta: ai tempi si parlava di serie anche a proposito di molte nuove
forme di fiction radiofonica, come il famoso e influente Amos ’n’ Andy. Queste prime serie radiofoniche
avevano però un modello di serialità molto simile a quello delle strisce a fumetti sui quotidiani, con
ambientazioni e personaggi fissi alle prese con situazioni nuove, evitando di solito trame dal finale aperto.
queste prime serie venivano trasmesse quotidianamente con una programmazione definita «striscia»
(stripping), dalle strisce a fumetti, piuttosto che con quella scansione settimanale oggi quasi universale per
le serie. Nell’era della radio la serialità comprendeva una gamma molto più ampia di forme narrative, tra le
quali, oltre alle soap opera di daytime, c’erano serie di diverso genere trasmesse in prima serata, con
personaggi e ambientazioni coerenti e duraturi, e persino programmi di informazione politica, considerato
che secondo Frank Kelleter anche le «chiacchierate attorno al caminetto» del presidente Franklin D.
Roosevelt si inserivano perfettamente in una cultura della serie. Quando nelle case americane degli anni
Cinquanta la tv sottrasse alla radio il ruolo di principale vetrina della fiction, le trame seriali divennero meno
comuni nel palinsesto serale: verso la metà degli anni Cinquanta, le poche serie radiofoniche di prima serata
che erano state trasferite in televisione, sia comedy che drama, furono spostate nel resto della giornata o
scomparvero del tutto dal palinsesto televisivo. così come l’etichetta del genere è un’accozzaglia di
presupposti culturali, etichette formali come «serie» e «serial» trasportano con sé le proprie mutevoli
connotazioni: a metà degli anni Cinquanta, «serial» finì per sottintendere un insieme di trame cumulative e
dal finale aperto, mentre la parola «serie» evocava mondi narrativi e personaggi tipici delle strisce a fumetti
e delle comedy radiofoniche, ma non necessariamente collegati a delle trame cumulative. Sia i serial che le
serie erano in contrasto con l’importante tradizione dei programmi di «varietà» e di quelli «antologici», nei
quali di solito ogni episodio aveva nuovi personaggi, nuove ambientazioni e nuove sottotrame. Di pari passo
a uno slittamento del significato di serialità, si sviluppò un collegamento diffuso tra il genere seriale
maggiormente basato sulla trama, ovvero la soap opera, e la stessa forma seriale; così, dalla fine degli anni
Cinquanta in poi, la serialità televisiva è stata considerata da molti critici, spettatori e produttori come
sinonimo di soap opera di daytime, e tutto ciò, a sua volta, ha instaurato un nesso tra il disprezzo nei
confronti di questo genere e la forma seriale. Il collegamento diffuso tra il genere della soap opera e la
forma seriale ha acquisito col tempo altri significati, poiché la serialità è stata legata ad altri aspetti del
genere attraverso diverse catene di connotazione. Credo che siano stati tutti questi slittamenti di senso a
originare un assunto frequente, secondo il quale la tv complessa di oggi sarebbe «un’evoluzione» delle soap
opera. Ma qual è l’origine di quest’idea apparentemente condivisa da tutti? Benché le serie di oggi adottino
parecchi tipi di serialità, sostengo che questa modalità di narrazione complessa derivi, più che dalle soap

98
opera, da formati seriali come i fumetti, i serial classici e la letteratura d’appendice del diciannovesimo
secolo, che hanno tutti un proprio legame specifico con il melodramma. Ma poiché la storia della tv seriale è
fortemente interconnessa al genere della soap opera, si dà per scontato che tutte le serie in prima serata
debbano contrapporsi o distaccarsi dalle soap opera, un assunto che in questa sede cercherò di sfatare. Se
vogliamo capire in che modo le serie contemporanee funzionano diversamente dalle soap, nonché
valorizzare gli aspetti distintivi dello storytelling di entrambe le forme, dobbiamo passare in rassegna le
regole e gli assunti culturali tipici della soap opera. A livello formale, la serialità delle soap ricorre a tecniche
molto particolari, con modalità proprie di produzione, programmazione, recitazione, ritmo e struttura degli
episodi. La ridondanza narrativa delle soap opera dipende dall’espediente della ripetizione diegetica, che da
un lato aiuta gli spettatori a ricordare, e dall’altro rende piacevole osservare in che modo reagiscono i
personaggi al racconto di eventi passati. Un episodio di una soap opera vede alternarsi, nell’arco di un’ora,
dalle quattro alle sei sottotrame, selezionate tra le decine di opzioni attive in quel dato momento. All’inizio
di un episodio, ogni sottotrama parte con una scena che anticipa la conversazione di quel giorno, mostrando
solitamente i personaggi che parlano di eventi recenti e svelano nuovi dettagli sulle ripercussioni di quegli
eventi sulla loro vita. Queste scene iniziali servono a ripetere, ricordare e aggiornare gli spettatori su ogni
elemento della scena. Man mano che l’episodio procede, questo processo di ripetizione continua a
ricordare agli spettatori tutti gli elementi della scena, ma spinge anche in avanti la trama, mostrando nuovi
eventi scaturiti da quelli passati. La scena finale di ogni sottotrama si chiude di solito con un finale sospeso
carico di suspense, che innescherà a sua volta una ripetizione, all’interno dell’episodio che riprenderà
questa sottotrama. Di solito, ogni sottotrama di un episodio procede con minimi avanzamenti temporali,
coprendo al massimo un’ora di tempo del racconto. Un episodio di una soap contiene raramente sottotrame
autoconclusive o quei rimandi tematici che si ritrovano nella maggior parte dei serial di prima serata;
diversamente dai programmi di prima serata, gli episodi delle soap non hanno titolo ed è raro che siano
replicati individualmente. Un episodio di una soap opera funge da effimero «check-in» quotidiano sul
mondo narrativo, nonché come parte integrante della trama settimanale e dello sviluppo dei personaggi,
piuttosto che come unità autoconclusiva di una struttura narrativa più ampia, una distinzione sottolineata
dal fatto che alcuni fan mandano avanti le storie a cui non sono interessati. Le soap opera abbracciano
quindi la ridondanza e i tempi lunghi, ma piuttosto che considerare e gestire la ripetizione come un male
necessario, l’hanno elevata a forma d’arte. Robert Allen sostiene che il piacere di guardare le soap opera,
che sono pensate sia per i fan fedeli che per quelli distratti e occasionali, derivi, più che dallo sviluppo della
trama, dal ripercuotersi di un dato evento all’interno della comunità dei suoi personaggi, in un modello che
Allen chiama «storytelling paradigmatico». Una soap opera può descrivere un evento chiave, ma l’evento
stesso diventa meno importante, dal punto di vista narrativo, della catena di conversazioni che innesca tra i
personaggi. Ogni singolo evento può quindi essere ripetuto parecchie volte, in un genere in cui domina il
dialogo, poiché ogni personaggio reagisce a esso in modo diverso e ogni reazione ha un impatto diverso
sulla rete relazionale dei personaggi. Attraverso la regola del richiamo narrativo, ci viene così ricordato a più
riprese ciò che è successo e siamo invogliati a concentrarci sulla sfera emotiva di ogni personaggio, e tutto
ciò rende la ridondanza un piacere attivo del genere.
L’esistenza di questo modello di ridondanza e la sua assenza nei serial in prima serata derivano in buona
parte dalle diverse esigenze delle rispettive produzioni e programmazioni. Molte serie di prima serata
trasmesse dai network non hanno più di ventiquattro episodi all’anno, trasmessi settimanalmente, mentre i
canali via cavo riducono questo numero a tredici, o anche meno, con lunghe interruzioni tra una stagione e
l’altra. Le soap sono invece perennemente in produzione, e mandano in onda cinque episodi a settimana
nell’arco di un anno: l’intervallo più lungo tra un episodio è l’altro è quindi quello di un fine settimana, se si
esclude qualche rara anticipazione in casi speciali. Queste differenze di programmazione hanno implicazioni
enormi, sia per i produttori che per gli spettatori. Sul lato commerciale, la spinta continua verso l’episodio
successivo conduce a un modello industriale ad alta intensità basato su convenzioni, ripetizioni e formule,
considerato che ogni anno una soap opera manda in onda un materiale narrativo dieci volte più cospicuo di

99
quello medio di una serie in prima serata. dobbiamo considerare le soap opera, con la loro programmazione
eterna, e le serie di prima serata, suddivise in stagioni a scansione settimanale, come due formati testuali
profondamente diversi. Queste differenze di programmazione generano negli spettatori delle soap e in
quelli dei serial due tipi di coinvolgimento radicalmente diversi. Per gli spettatori dei serial di prima serata
un episodio può essere un appuntamento settimanale fisso, da non perdere al momento della prima messa
in onda o da guardare con lieve ritardo programmatico grazie al videoregistratore; molti spettatori
preferiscono accumulare episodi da guardare in rapida successione o persino aspettare che escano i dvd o
che le puntate si trovino online. La maggior parte delle modalità di visione di una serie in prima serata
considera un episodio come un’unità narrativa autonoma, che riprende le strutture e i temi della serie, ma
contiene anche sottotrame interne autoconclusive. La visione di una soap è invece una componente della
routine quotidiana, piuttosto che un evento speciale da non perdere. La grande mole di episodi, unita alla
rarità delle repliche o delle edizioni in dvd, dissuade lo spettatore dall’eventualità di un’abbuffata; questo
modello impone agli spettatori di gestire responsabilmente i propri rituali quotidiani per non perdere pezzi
della storia. Per molti fan delle soap questo rituale è uno dei piaceri principali del genere e persino una sua
componente identificativa. Soap opera e serie tv strutturano in modo profondamente diverso il tempo dello
schermo, e la programmazione quotidiana delle soap rende meno importanti gli intervalli tra un episodio e
l’altro, trasformandoli in una parte della routine quotidiana. Nelle serie tv di prima serata, invece, gli
intervalli settimanali, e quelli più lunghi tra una stagione e l’altra, fanno sembrare ogni singolo episodio ricco
di eventi e invogliano i fan a colmare questi intervalli ricorrendo ai paratesti e alle speculazioni, come visto
in altri capitoli: benché anche alcuni fan delle soap riempiano gli intervalli quotidiani con l’uso di paratesti
quali forum e community, la minore quantità di tempo a disposizione rende queste pratiche molto meno
diffuse e importanti che per un programma settimanale. Se consideriamo un genere in quanto risultato di
specifiche modalità di visione, dinamiche di produzione, norme testuali e attrattive, risulta chiaro che le
soap opera e i serial in prima serata sono due cose distinte, ed è per questo che un’analisi degli elementi
melodrammatici della tv complessa non deve essere circoscritta al genere della soap opera.
Per comprendere l’ipotetica influenza delle soap sui serial in prima serata possiamo analizzare tre
programmi considerati come i primi tentativi riusciti, negli Stati Uniti, di proporre una narrazione seriale in
prima serata, tutti e tre strettamente connessi al genere della soap opera. Il primo è Peyton Place, che a
metà degli anni Sessanta portò con successo il melodramma in prima serata. Benché la serie fosse
l’adattamento di un romanzo e un film molto noti, lo storytelling faceva esplicitamente riferimento a quello
delle soap opera. Abc programmò la serie affinché andasse in onda due o tre sere a settimana, preferendo
la produzione continuativa al modello «stagioni con repliche» tipico delle serie in prima serata, e assunse
Irna Phillips, pioniera delle soap, affinché aiutasse il creatore Paul Monash a far funzionare il drama sotto
forma di serial televisivo. Caryn Murphy racconta quanto Monash si impegnasse a negare il legame del
programma con la soap opera, preferendo le definizioni di «romanzo per la televisione» e «drama a
puntate» per sottolinearne la superiorità sui serial diurni, nonostante il programma differisse
significativamente dal romanzo originale e seguisse molti dei consigli della Phillips a cui Monash si era
opposto. Non ci sono dubbi sul fatto che Peyton Place fu profondamente influenzato dalle soap opera, e a
esse associato, e che la breve ondata di serie di prima serata che ne seguirono la strada, alla fine degli anni
Sessanta, evocasse l’esperienza rituale della soap opera, con la messa in onda continuativa costituita da più
episodi a settimana. Ma nessuna di queste imitazioni si avvicinò al successo di Peyton Place, spingendo i
network a rimuovere queste serie dalla prima serata già negli anni Settanta.
La serializzazione e le evidenti parentele con le soap opera tornano in prima serata alla fine degli anni
Settanta, stavolta veicolate dalla comedy, con due serie rivoluzionarie: Mary Hartman, Mary Hartman e
Bolle di sapone. La prima, nata nel 1976 dal fortunato team di Norman Lear, adottava esplicitamente forma,
produzione e ritmo delle soap opera, compresa la programmazione quotidiana, e fu un successo alquanto
controverso. Rifiutata da tutti i network nazionali, Mary Hartman fu distribuita dalle emittenti locali
attraverso il sistema denominato «syndication», e trasmessa a orari variabili, esclusa la prima serata, ma

100
spesso dopo le undici di sera, per evitare polemiche riguardo ai suoi contenuti piccanti. Il programma
conteneva sottotrame sopra le righe, come quella di un omicidio di massa all’interno di una cittadina, o di
un anziano esibizionista, unite a dettagli di routine domestica, come l’ossessione di Mary per una «macchia
gialla di cera» sul pavimento della cucina, creando così un’inedita combinazione di follia e noia. Nonostante
l’umorismo secco e surrealista, e pur essendo recepita perlopiù come comedy, la serie non ricorreva a
nessuna delle convenzioni delle sitcom, come risate registrate, pubblico in studio o battute vere e proprie;
l’umorismo derivava dallo stile tipico delle soap, con una recitazione amatoriale e improvvise enfasi
musicali, trasferito in una bizzarra cittadina e caratterizzato da un tono sibillino simile, in qualche modo, a
quello di un altro programma rivoluzionario, che sarebbe però arrivato più di dieci anni dopo: Twin Peaks.
Questa fedeltà alle soap opera era confermata dal fatto che, per scrivere la serie, Lear avesse ingaggiato una
squadra di veterani del genere, capitanata da Ann Marcus. Mary Hartman mantiene così molti elementi
tipici delle soap, come l’enfasi sulle relazioni, il ritmo lento e i monologhi ridondanti, ma non ha uno stile
esplicitamente da sitcom. Grazie alla programmazione quotidiana, Mary Hartman si guadagnò un robusto
seguito di spettatori, che si affacciarono così sui ritmi ritualizzati del racconto seriale quotidiano. Benché
prendesse in giro le regole della soap, esasperandone le assurdità, per raccontare i rapporti e i conflitti dei
personaggi la serie ricorreva anche a elementi puramente melodrammatici. Anche se molti spettatori
ridevano dei personaggi sopra le righe e delle frecciatine al consumismo, eventi come l’esaurimento
nervoso di Mary, alla fine della prima stagione, furono vissuti con sincero trasporto emotivo, com’è tipico
del melodramma. L’intelligenza delle sue sceneggiature e le sue innovazioni formali erano considerate
superiori alle convenzioni delle soap opera, anche se a conti fatti il tipo di intrattenimento era simile a
quello vissuto dai fan delle soap. Gli spettatori scrivevano ai produttori di Mary Hartman elogiando il
programma e sottolineando che di solito non guardavano soap opera, ma anche che non vedevano l’ora che
andasse in onda un nuovo episodio. Per due anni, per più di trecento episodi, Mary Hartman ha proposto il
coinvolgente motore narrativo del melodramma seriale, abbinato a uno stile da soap opera e ai rituali di
visione quotidiani, ma da guardare attraverso lenti deformanti che smorzavano l’emotività tipica del genere
e permettevano agli spettatori scettici nei confronti delle soap opera di divertirsi a guardarne una senza
vergognarsi. La terza serie in prima serata, quella più dichiaratamente ispirata alle soap opera, ma a esse
meno legata in termini di norme testuali, produzione e pratiche di visione, fu Bolle di sapone. La serie
debuttò su Abc nel 1977, in accordo con la programmazione tipica delle sitcom: una prima serata
settimanale completata da altre comedy, girata con un pubblico in studio (le cui risate fungono da segnale
per i telespettatori), creata da autori e produttori esperti di sitcom e imbastita su quell’umorismo esplicito e
su quei dialoghi densi di battute che erano tipici delle sitcom di quegli anni.
La serie fu recepita come una sitcom, che giocava con lo stile delle soap e prendeva in giro gli eccessi del
genere: aveva un ritmo più serrato di qualsiasi soap opera, o anche di Mary Hartman, e la sua
programmazione settimanale non permetteva i rituali di visione tipici delle soap. Inoltre faceva un uso
parsimonioso di ridondanze interne e ripetizioni diegetiche, e la ripetizione era delegata a ironici segmenti
stile «nelle puntate precedenti», che ricapitolavano gli eventi passati e prendevano in giro gli stessi colpi di
scena del programma. Un episodio conteneva numerosi eventi narrativi che diventavano sempre più
grotteschi, così come l’umorismo incentrato sui dialoghi (soprattutto tra donne) ricordava più Mary Tyler
Moore che General Hospital. Prendo come esempio queste tre serie innovatrici per dimostrare quanto sia
stata esplicita l’influenza delle soap opera sulle serie tv di prima serata, e che molte delle serie di oggi non
hanno collegamenti così evidenti con la tradizione delle soap. Negli anni Sessanta, Peyton Place ispirò
parecchie imitazioni senza successo, che per molti anni rubarono spazio alla sperimentazione sulle serie di
prima serata. Negli anni Settanta, invece, l’influenza di Mary Hartman e Bolle di sapone suggerì una strada
ancora non percorsa dalle narrazioni in prima serata. Nonostante il successo di pubblico e critica, gli
imitatori di Mary Hartman non arrivarono ad abbracciarne anche la messa in onda quotidiana o lo stile da
soap, lasciando che il programma rimanesse il primo e unico caso di una serie quotidiana fuggita ai limiti
della programmazione di daytime e del genere della soap opera. Allo stesso modo, Ann Marcus si dimostrò

101
uno dei pochissimi autori in grado di lavorare sia per una soap che per una serie in prima serata, mentre è
diventato sempre più comune, negli ultimi anni, che gli autori e i produttori delle serie di prima serata
provengano da altri media. Creata da esperti di sitcom trapiantando lo storytelling seriale nei generi da
prima serata, Bolle di sapone propose un modello più popolare e influente, adottato dalle più importanti
pietre miliari televisive degli anni Ottanta: la sitcom Cin cin, il poliziesco Hill Street giorno e notte e il
dramma ospedaliero A cuore aperto. Persino quelle che vengono spesso definite «soap opera di prima
serata», come Dallas e Dynasty, hanno poche somiglianze formali con le soap in termini di stile di
produzione, struttura delle trame e soprattutto frequenza degli episodi e uso del tempo dello schermo. Per
raccontare i loro melodrammi familiari, infatti, queste serie ricorrono a un racconto più simile a quello di
altri programmi di prima serata che a quello consolidato delle soap. Eppure l’etichetta «soap di prima
serata» continua a indicare melodrammi seriali incentrati sull’emotività e sulle complicazioni relazionali, ed
è stata usata per descrivere serie molto diverse tra loro come Dallas, Melrose Place, The O.C. o Revenge,
tutte con caratteristiche formali ben diverse da quelle delle soap, in termini sia di struttura degli episodi che
di pratiche di visione. È nella presenza del melodramma in quasi tutte le modalità dello storytelling seriale
che possiamo trovare il punto di congiunzione tra le soap opera e le serie tv in prima serata, ma questo non
significa che le serie tv abbiano imitato o fatto evolvere le soap; dobbiamo piuttosto intendere il
melodramma come un aspetto più ampio della narrazione televisiva, e non come un elemento specifico
delle soap opera né di qualsiasi altro genere.

I melodrammi seriali e l’interesse unisex

Quasi tutti i drama affrontati in questo libro possono essere considerati una forma di melodramma seriale,
che si tratti degli eccessi «sentimentali» di Revenge, del dramma familiare di Six Feet Under, dei dibattiti
politici di West Wing o della critica sociale di The Wire. Mentre pochi sono i critici che non farebbero fatica a
considerare melodrammatici i primi due titoli, molti sarebbero stizziti dall’applicazione di questa etichetta
agli altri due, poiché la loro serietà intellettuale, la loro produzione sobria e le loro pretese di realismo sono
spesso visti come l’opposto degli eccessi del melodramma. Ero io stesso uno di questi critici scettici:
consideravo il melodramma come un elemento fondamentale che una soap di prima serata come Revenge
condivideva con i suoi equivalenti in daytime, e non vedevo alcun nesso con l’approccio più realistico e non
melodrammatico di serie come I Soprano e The Wire. Poi, però, sono stato convinto dall’invito di Linda
Williams a ridefinire i confini del melodramma e a non farli coincidere con quelli dell’eccesso: «Il
melodramma è diventato un elemento talmente fondamentale per tutte le forme di intrattenimento
audiovisivo che è controproducente continuare a identificarlo con un “eccesso”, dal momento che questi
ipotetici eccessi non sono ciò che fa funzionare il melodramma, né l’essenza della sua forma». Il
melodramma dovrebbe essere considerato una modalità di narrazione che ricorre alla suspense per
rappresentare una «leggibilità della morale», proponendo una reazione emotiva coinvolgente che evidenzi
le differenze tra idee morali in competizione all’interno di una narrazione. Questa definizione articolata di
melodramma, inteso come una modalità piuttosto che come un genere, accomuna molte forme di
televisione seriale, per via dell’impegno condiviso a far interagire moralità, emotività e narrazione. Come già
visto in questo libro, il tempo che gli spettatori investono in una serie di lunga durata, inclusi gli intervalli tra
gli episodi, favorisce un coinvolgimento emotivo profondo con i personaggi televisivi e con le loro situazioni
drammatiche. Una narrazione televisiva funziona soltanto se riesce a farci interessare al dramma, e Williams
sottolinea come questo interesse abbia lo scopo di creare e condividere una mappatura morale: «Ciò che
fanno questi programmi è combinare un forte interesse con una leggibilità della morale per instillare nello
spettatore un sentimento positivo». Williams sostiene che il melodramma delle serie tv in prima serata
derivi dallo stesso DNA delle soap opera, benché evoluto. Riconoscere l’ubiquità del melodramma nelle
serie complesse è fondamentale se si vuole capire l’apporto culturale del medium televisivo. Includere nella
modalità del melodramma quelle narrazioni realistiche che rifiutano le norme degli eccessi emotivi e
stilistici significa mettere in discussione categorie critiche ben consolidate. Per fortuna Williams ha già fatto

102
il grosso del lavoro critico, dimostrando come anche il serial drama realistico più applaudito, The Wire,
ricorra al melodramma, quantomeno nella sua accezione. La serie evoca infatti un «sentimento positivo»
attraverso l’ideale nostalgico di una Baltimora migliore: mostrandoci una serie di iniquità, tra cui la guerra
per la droga, il capitalismo globale e la corruzione politica, la serie ci spinge a interessarci emotivamente a
ciò che è andato perduto (un ideale, se non un’esperienza vissuta realmente). Il suo melodramma è
sottinteso e ha un tono asciutto, ma l’accumulo di reazioni emotive, legate a storie di redenzione personale
(Bubbles che sale le scale) e di fallimento istituzionale (Amsterdam spianata dai bulldozer), è emotivamente
efficace come qualsiasi altro elemento narrativo tipico del melodramma, come le relazioni finite o le
tragedie familiari.

Considerare il melodramma in modo più ampio, in quanto modalità diffusa piuttosto che genere circoscritto,
ha almeno due ripercussioni principali sul modo in cui comprendiamo la serialità televisiva di oggi.
Innanzitutto, scardina una dicotomia imposta per decenni, che contrappone le «soap opera di prima
serata», caratterizzate da eccessi stilistici ed emotività kitsch, ai «quality drama», considerati socialmente
impegnati ed esteticamente più maturi dei loro concorrenti lowbrow. Accettare che la televisione complessa
abbia elementi melodrammatici è inoltre molto importante per aiutarci a comprenderne le politiche di
genere (gender). Spesso molti programmi analizzati in questo libro sono accusati di enfatizzare la
mascolinità proprio per negare il legame storico tra il melodramma seriale e quei temi, quella fruizione e
quelle attrattive tipicamente considerati femminili. Michael Newman ed Elana Levine sono tra quelli che
portano avanti questa critica, affermando che «nell’epoca della convergenza, le serie legittimate
mascolinizzano una forma denigrata, negandone quella versione femminilizzata dalla quale dipende il loro
status», e sostenendo quindi non solo che le serie tv derivino dalle soap opera, ma che cerchino
attivamente di nascondere queste origini attraverso una strategia di differenziazione di genere (gender).
Vorrei suggerire un modo per affrontare la questione da un punto di vista diverso, e capire come
l’integrazione del melodramma seriale in altri generi abbia condotto a maggiori possibilità di
immedesimazione e a mettere in discussione certi stereotipi di genere sull’appeal di un personaggio. Prima,
però, dobbiamo capire meglio cosa si intende per narrazione «maschile» o «femminile».
Dubito che un critico contemporaneo sosterrebbe che il melodramma o la serialità siano intrinsecamente
«femminili», e cioè che rappresentino un aspetto biologico dello spettatore o un’immutabile norma
culturale, mentre molti direbbero che questa modalità narrativa è stata collegata alle abitudini femminili,
come a identificare una sfera culturale irrilevante e principalmente di genere. Robyn Warhol analizza
proficuamente le connotazioni di genere della fruizione di una narrazione seriale, ipotizzando che le
reazioni emotive, come «farsi un bel pianto», abbiano la funzione di «tecniche sessuate della commozione»,
un’analisi portata avanti attraverso lo studio di racconti vittoriani, soap opera e film incentrati sui matrimoni.
Warhol definisce «effeminate» queste reazioni emotive, sostenendo che siano collegate a un
comportamento identificato come femminile, e che lo alimentino, ma che al contempo non siano in nessun
modo proprie della femminilità biologica: ricorrendo al termine «effeminato», usato più spesso per gli
uomini gay che per le donne, Warhol sottolinea l’aspetto performativo del comportamento di genere, più
che il suo legame con l’orientamento sessuale. Warhol nota come la ricerca accademica e in generale i
media tendano a ghettizzare questo sentimentalismo, sminuendo i generi e le forme melodrammatici
poiché considerati frivoli, manipolatori, eccessivi ed esteticamente sterili, soprattutto se paragonati alle
forme mascoline e legittimate, ipotesi riprese da Newman e Levine. L’attenzione di Warhol all’emotività ci
permette invece di comprendere meglio come funzionino il gusto e il coinvolgimento, considerato che
l’intrattenimento effeminato non è esclusivo di formati come le soap opera; anzi, Warhol propone di creare
un vocabolario del sentimentalismo che aiuti proprio a dimostrarne la presenza anche nei generi e nelle
modalità non effeminate. Benché si concentri sulle reazioni e sulle modalità testuali effeminate, Warhol
teorizza che ci sia anche un intrattenimento tipicamente maschile, come quello che si innesca con i romanzi
marinareschi di Patrick O’Brian, incentrati su trame d’avventura e amicizie omosociali. Anche altri aspetti
chiave della narrazione seriale sono di norma considerati maschili, come quel tipo di propensione all’analisi
103
tipica dei thriller e quell’approfondimento metodico di un universo alternativo tipico della fantascienza,
tutte attività spesso sollecitate dalla tv complessa e abbracciate dal fandom investigativo. Etichettare queste
modalità di coinvolgimento come maschili non significa suggerire che esse appartengano esclusivamente (o
principalmente) agli spettatori maschi: molte donne guardano i thriller e la fantascienza, nei quali prospera
questo coinvolgimento emotivo, e molte donne fanno parte del fandom investigativo. Resta il fatto che certe
attività siano soltanto culturalmente pensate come maschili, a prescindere da chi le mette in atto, così come
il pianto sentimentale è considerato effeminato anche (e forse soprattutto) quando a piangere è un uomo.
Queste distinzioni, portate agli estremi, riprendono l’antico stereotipo per cui la razionalità è maschile e le
emozioni femminili, o la dicotomia di genere tra pensare e sentire, una serie di dualismi che distinguono i
fandom confermativi da quelli trasformativi. Warhol dimostra che questi pregiudizi non derivano da innate
differenze di genere, e che vengono piuttosto reiterati da alcune pratiche culturali; ma per quanto si tratti di
stereotipi riduttivi, analizzare il modo in cui viene connotato il coinvolgimento emotivo è fondamentale per
comprendere le dinamiche culturali della fruizione di una narrazione. Mettendo insieme le argomentazioni
di Williams e di Warhol, possiamo renderci conto di come il pathos melodrammatico di cui è intrisa la
maggior parte delle serie tv riesca a evocare sentimenti effeminati anche al di là di quel genere
tradizionalmente femminile che è la soap opera. Lo studio di Williams evidenzia come, nonostante la
predominanza maschile nei cast e negli staff, l’attenzione al mondo degli uomini e l’importanza della
razionalità, The Wire generi reazioni emotive profonde come pathos e tristezza, e aggiungerei anche che la
serie ogni tanto suscita «un bel pianto». Mettendo insieme le argomentazioni di Williams e di Warhol,
possiamo renderci conto di come il pathos melodrammatico di cui è intrisa la maggior parte delle serie tv
riesca a evocare sentimenti effeminati anche al di là di quel genere tradizionalmente femminile che è la
soap opera. Lo studio di Williams evidenzia come, nonostante la predominanza maschile nei cast e negli
staff, l’attenzione al mondo degli uomini e l’importanza della razionalità, The Wire generi reazioni emotive
profonde come pathos e tristezza, e aggiungerei anche che la serie ogni tanto suscita «un bel pianto». Lost
costituisce un ottimo esempio di questa commistione di generi e attrattive di genere, una commistione
comunque diffusa nella televisione seriale complessa. Pochi sono i programmi che danno altrettanta
importanza al fandom investigativo, all’estetica funzionale e al coinvolgimento ludico, e questi aspetti, uniti
alla predominanza di eroi maschili farebbero pensare che Lost sia un programma decisamente maschile.
Eppure Michael Kackman fa notare come la serie intrecci sottotrame melodrammatiche legate a
convenzioni narrative sia maschili che effeminate, mescolando la spinta investigativa da fandom a quella
emotiva del melodramma ed evidenziando così la complessità culturale della moralità e del coinvolgimento
emotivo. Possiamo approfondire questa analisi usando la «narratologia delle tecniche del buon pianto» di
Warhol come parametro per misurare il sentimentalismo di Lost ed evidenziarne l’uso abbondante del
melodramma e di attrattive effeminate. Warhol sostiene che i film sentimentali ricorrano a una recitazione e
a uno stile enfatizzati che «rendono le emozioni qualcosa di immediatamente visibile», oltre che
sottolineate da interventi musicali altrettanto enfatici, espedienti utilizzati anche nei momenti drammatici di
Lost. Secondo Warhol, le fiction sentimentali si concentrano sul punto di vista dei personaggi emotivamente
più vulnerabili, e anche Lost si sposta da un punto di vista all’altro, attraverso flashback che mostrano gli
struggimenti di molti personaggi. Warhol nota che la letteratura sentimentale si rivolge spesso direttamente
ai propri lettori per sollecitarne la comprensione, mentre quest’espediente è poco usato nei film; benché
Lost si rivolga ai suoi spettatori in modo meno diretto, enfatizzando i propri enigmi piuttosto che i
sentimenti, la serie fonde «la sua consapevolezza metanarrativa alle tecniche emotive» in un modo del tutto
in linea con l’analisi di Warhol. Warhol sostiene che «il plot sentimentale enfatizza i pericoli scampati e i
capovolgimenti all’ultimo minuto, nel bene e nel male». Warhol sostiene inoltre che i personaggi dei testi
sentimentali tendano a disattendere l’appagamento emotivo dello spettatore e che le fiction sentimentali
creino un equilibrio tra i momenti tragici e quelli gioiosi, tra la sofferenza e l’esultanza. Lost contiene tutte le
tecniche del racconto sentimentale rilevate da Warhol, e ciò dimostra quanto il melodramma sia alla base
del suo successo, e quanto la sua contaminazione dei generi renda impossibile ascrivere riduttivamente la

104
serie al genere maschile della fantascienza o dell’avventura. Newman e Levine riconoscono che serie come
Lost includono nel calderone del proprio storytelling elementi «sentimentali» come quelli citati, ma
sostengono anche che questi elementi siano sempre secondari, e che fungano da «pietra di paragone»
interna proprio per enfatizzare la legittimazione culturale della serie in termini di mascolinità. Ma Lost mette
spesso in primo piano il coinvolgimento emotivo a discapito di quello razionale, e fa lo stesso nel finale,
provocando non a caso la profonda delusione dei suoi fan più mascolini. Va anche detto che secondo quasi
tutti i critici e tutti i fan l’episodio migliore di Lost sarebbe «La costante», una puntata che crea un equilibrio
tra il racconto fantascientifico di un viaggio nel tempo, incentrato su misteriosi esperimenti fisici, e quello
romantico di due amanti divisi e poi riuniti al di là del tempo e dello spazio. L’apice romantico dell’episodio è
il più toccante tra i tanti momenti di Lost in cui la componente sentimentale riesce a far sgorgare lacrime
che ripagano emotivamente lo spettatore, e smentisce chiunque sostenga, allo scopo di «legittimare» la
serie rispetto alle soap opera, che la sua tendenza melodrammatica possa essere desunta soltanto a
posteriori. Tenendo a mente le idee di Warhol e di Williams su sentimentalismo e melodramma possiamo
comprendere quanto siano importanti le pratiche di visione effeminate per quasi tutti i serial in prima
serata, e diventa inoltre chiaro il fatto che buona parte della tv complessa si rivolge a entrambi i sessi.
L’attrattività unisex è un fenomeno relativamente recente per le narrazioni televisive mainstream,
evidenziato per la prima volta da quell’opera fondamentale, nell’ambito dei media studies, che è Television
Culture (1987) di John Fiske. Fiske inquadra le forme televisive maschili e femminili come opposti netti,
facendo riferimento rispettivamente a ATeam e Dynasty, e al contempo riconoscendo che serie come Hill
Street e New York New York stavano ai tempi rendendo più labile questa distinzione. Nella sua dicotomia,
Fiske identifica i finali sospesi, l’espressività emotiva, l’ambientazione domestica e la complessità dei
personaggi come elementi femminili, contrapposti a quelli maschili come sfere professionali esclusivamente
da uomini, azioni razionali e tendenza a risolvere una data situazione. Ciò che colpisce subito è la difficoltà
di trovare, tra le serie di oggi, un programma che aderisca perfettamente a uno due paradigmi di Fiske,
poiché l’ibridazione tra episodico/seriale, azione/emotività e lavorativo/domestico è diventata ormai una
costante quasi universale. L’incorporazione del melodramma e dei personaggi femminili in generi
tradizionalmente maschili ha col tempo legittimato l’intrattenimento effeminato agli occhi degli spettatori
maschi, nonché contribuito a destabilizzare le ormai impolverate gerarchie di genere della tv. I modi in cui le
nuove forme di racconto televisivo hanno rivisitato la rappresentazione di genere sono troppi per essere
analizzati in modo esaustivo in questa sede, ma vale la pena di considerare alcune tecniche emerse come
parte integrante della complessità narrativa. Una strategia comune colloca una protagonista donna al centro
di un genere tradizionalmente maschile, come succede con le serie di spionaggio Alias e Homeland, con il
thriller legale Damages e con il procedural The Killing. Una delle serie più innovative, nell’ambito
dell’inversione di genere, è stata Buffy l’ammazzavampiri, che intrecciando il genere tradizionalmente
maschile dell’horror con quello femminile del teen drama, ha dato vita a un prodotto influente e spesso
studiato. Forse altrettanto importante, per quanto se ne sia scritto meno, è Veronica Mars, che mescola il
teen drama con il crime procedural e il neo-noir, generi solitamente considerati maschili. Mentre Hill Street
e altre serie coeve di prima serata seguivano una dinamica tradizionalmente femminile, incentrando le
proprie storie sulle relazioni e gli sviluppi dei personaggi, e arginando le sottotrame maschili d’azione
all’interno del singolo episodio, Veronica Mars ben rappresenta la nuova nidiata di narrazioni complesse che
legano la serializzazione alle proprie trame, proponendo misteri serializzati e intrecciati al melodramma,
nonché un mondo narrativo che mette in discussione le presunte norme di genere dei propri personaggi e,
per estensione, quelle dei propri spettatori, soprattutto se collocati in network più maschili come Upn e The
Cw. In Veronica Mars le norme di genere sono labili anche per quanto riguarda gli intrecci. Le indagini
autoconclusive di Veronica sembrano in linea con narrazioni più maschili, ma l’ambientazione liceale e
l’attitudine della protagonista a ricorrere alle proprie caratteristiche sia maschili che femminili rendono più
complessa la costruzione di un’identità di genere. Le sottotrame della serie si attengono sia alle tradizioni
femminili che a quelle mascoline, per come le intende Warhol: lo sviluppo delle relazioni segue l’andamento

105
melodrammatico tipico dei teen drama, ma è spesso intrecciato alle indagini. Veronica ricorre spesso alle
sue capacità investigative iper-razionali per analizzare le proprie emozioni. I misteri serializzati della serie
propongono un tipo di tensione maschile, ma legata a quella sfera emozionale femminile che ha a che fare
con stupri, maternità e omicidi per amore. Ma Veronica Mars non si limita a proporre in parallelo entrambe
le modalità di coinvolgimento legate ai generi: lo storytelling della serie infatti mescola questo dualismo,
spingendo tutti gli spettatori a provare sia le reazioni emotive effeminate che quelle maschili.
permeare un mondo narrativo maschile di melodramma mette in discussione persino le definizioni
dominanti di mascolinità. Tra crimine, lotta al crimine e altre attività principalmente maschili, la maggior
parte dei serial drama complessi è senza dubbio incentrata sugli uomini, comprese serie importanti come I
Soprano, The Wire, Breaking Bad e Mad Men. Il canale cable Fx ha costruito la sua identità su serie
complesse maschili come The Shield, Sons of Anarchy, Rescue Me e Justified, che raccontano tutte di mondi
ipermascolini: non è un caso che Fx abbia fatto fatica a trovare un pubblico per Damages, incentrata invece
sulle donne. Eppure queste serie maschili ricorrono piuttosto allo storytelling emotivamente esplicito del
melodramma seriale per affrontare nuovi terreni narrativi: questi programmi non sono semplicemente
incentrati sugli uomini, ma parlano della mascolinità stessa, delle sue crisi e dei suoi conflitti. Benché pochi
di questi melodrammi maschili siano tanto apertamente femministi da criticare il patriarcato, la scelta di
trattare i privilegi maschili come oggetto di un conflitto e di invogliare gli spettatori a vivere emozioni
effeminate può essere considerata come un passo in avanti progressista all’interno del regno dei serial
drama, tradizionalmente dominato dalla mascolinità. Molte serie tv complesse hanno come protagonisti
degli antieroi maschili e sottolineano il modo in cui le loro azioni sono fonte di sofferenza per loro e per gli
altri. Walter White, in Breaking Bad, è senza dubbio un caso unico, dal momento che questo personaggio si
trasforma in «cattivo» in modo tanto graduale quanto drastico, diversamente dalla maggior parte degli altri
antieroi, che invece lo sono fin dall’inizio. Durante il suo percorso verso la criminalità, Walt giustifica le
proprie azioni poiché dettate dal bisogno di prendersi cura della sua famiglia- Questa esplicita retorica
patriarcale, in contrasto con le azioni riprovevoli compiute da Walt a danno di altri e poi della sua stessa
famiglia, riassumono bene in che modo la serie rappresenti l’anima marcia della mascolinità tradizionale.
Benché noi spettatori siamo allineati a Walt e tendiamo a comprendere i suoi conflitti, alla fine Walt
oltrepassa il punto di non ritorno e diventa oggetto di disprezzo.
Nell’analisi del melodramma seriale e delle reazioni effeminate, può essere molto interessante studiare il
ruolo di sua moglie Skyler. Vediamo Skyler perlopiù dal punto di vista del marito, che passa dall’affetto a un
astio crescente, quando si rende conto che la moglie lo sta ostacolando nel suo tentativo di realizzarsi in
quanto «uomo vero» attraverso l’alter ego criminale Heisenberg. Se consideriamo la serie come un gangster
movie, nel quale il traguardo è l’affermazione di Walt nel mercato della droga, allora anche per noi Skyler
costituisce un ostacolo. Ma le serie tv complesse contengono diverse sottotrame che ci invitano a guardare i
rapporti tra i personaggi da più punti di vista: così, se ripercorriamo la serie concentrandoci sull’evoluzione
del personaggio di Skyler, Breaking Bad diventa una storia molto diversa in termini di mascolinità o
femminilità, ovvero il racconto melodrammatico di una menzogna, di un tradimento e di un matrimonio
violento e pericoloso. All’inizio della serie Skyler si ritrova in una posizione comoda e accogliente, anche se
non sta vivendo la vita che sognava quando sposò Walter White, un uomo più grande di lei, uno scienziato
ambizioso e di successo. Ma il fallimento professionale di Walt, la testardaggine dell’onore e le difficoltà di
avere un figlio disabile l’hanno condotta a un’esistenza di compromessi, benché stabile: Skyler ha infatti
rinunciato al sogno di diventare una scrittrice per trasformarsi in una contabile part-time, mentre lui è
diventato un insegnante di chimica con un secondo lavoro in un autolavaggio. Una seconda e inattesa
gravidanza cambia le cose, ma ancora più imprevisto è il cambiamento del comportamento di Walt
all’avvicinarsi dei suoi cinquant’anni, un cambiamento che si spiega quando Walt rivela di avere un cancro ai
polmoni e di aver deciso di morire piuttosto che sottoporsi alla chemio. Nel tentativo di tenere unita la
famiglia, Skyler convince Walt a sottoporsi alle cure e a prolungare la propria vita. Ma Walt continua a fare
cose bizzarre, come ritrovarsi nudo in un negozio di alimentari, instaurare uno strano rapporto con un suo

106
ex studente spacciatore, scomparire inspiegabilmente e reiteratamente, comportarsi da genitore
irresponsabile (facendo ubriacare di tequila il figlio sedicenne) e far intuire l’esistenza sospetta di un
secondo cellulare. Nonostante sia all’ottavo mese di gravidanza, Skyler torna al lavoro per contribuire alle
spese mediche del marito, anche se le attenzioni del suo capo la spingono poi a rinunciare. Come se non
bastasse, Walt si perde la nascita della figlia, adducendo scuse poco credibili. Quando Walt si sottopone a
un intervento chirurgico, conferma involontariamente la presenza di un secondo cellulare, Skyler si mette a
indagare sulle sue bugie e, dopo aver scoperto una rete di inganni peggiore di quella che immaginava,
decide di lasciarlo non appena si è ripreso dall’intervento. Subito dopo la separazione, Walt svela a Skyler il
suo segreto: sta cucinando cristalli di metanfetamina. Le assicura che è un lavoro tranquillo, lontano da
violenza o pericoli, ma lei è furiosa, perché secondo lei Walt sta minando la sicurezza della loro famiglia, e
chiede quindi il divorzio. Walt si rifiuta, sostenendo che si tratti di un bluff, e torna a casa nonostante lei
minacci di chiamare la polizia. A questo punto Skyler si sfoga nell’unico modo possibile: intrecciando una
tresca con il suo capo, Ted, e diventando inoltre complice dei suoi affari sporchi. Alla fine Walt accetta di
divorziare, ma a quel punto è Skyler a rifiutarsi, per assicurarsi una protezione legale in quanto coniuge.
Quando suo cognato Hank rimane paralizzato, in seguito a uno sparo forse collegato all’attività criminale di
Walt, Skyler accetta di pagare le spese mediche di Hank, sostenendo che l’improvvisa ricchezza di Walt sia
legata al gioco d’azzardo e immischiandosi così nei suoi interessi criminali pur di aiutare la sua famiglia.
Skyler ricorre alle proprie capacità contabili per lavare i soldi sporchi e comprare un autolavaggio che funga
da copertura, decidendo razionalmente che per il bene della sua famiglia è meglio aiutare Walt che
infrangere la legge con Ted. Benché il loro rapporto sia ancora instabile, Skyler e Walt trovano un accordo di
interesse reciproco, finché Skyler non scopre che uno dei soci di Walt è stato ucciso a sangue freddo. Ma
quando si dice preoccupata per la loro sicurezza Walt sfoga una rabbia mai vista prima, sostenendo di
essere lui «il pericolo». Lei prende in considerazione di andar via con la neonata, ma poi decide di rimanere
per «proteggere questa famiglia dall’uomo che protegge questa famiglia»: non è chiaro se Skyler abbia
paura di Walt o se lo consideri un pallone gonfiato che non ha idea di ciò che sta facendo, ma è chiaro che è
convinta di poterlo gestire. E quando Ted torna a essere un problema, per via di un’indagine fiscale, Skyler
gli dà i soldi necessari per pagare i suoi debiti e gli fa mandare scagnozzi che gli facciano pressioni. A quel
punto, quando la vita di Hank viene minacciata, tutta la famiglia viene messa sotto protezione, finché il boss
Gus Fring non rimane ucciso in un’esplosione in un ospizio. Quando Skyler capisce che è stato Walt a
mettere la bomba, si rende conto per la prima volta che il marito è in grado di uccidere: mentre gli
spettatori hanno osservato per anni (in termini di tempo dello schermo) la lenta trasformazione di Walt in
un criminale, per Skyler questa rivelazione significa che il marito è passato improvvisamente dall’essere un
delinquente inoffensivo a essere un assassino capace di organizzare un attentato per eliminare un nemico.
All’improvviso Skyler non sta più semplicemente appoggiando un criminale, ma è diventata complice di un
omicidio; come se non bastasse, scopre che in seguito alla visita dei suoi scagnozzi Ted è rimasto paralizzato
ed è in preda al terrore. Skyler è disgustata dal marito (che torna a casa assicurandole che «la vita è bella»)
ma anche da se stessa e dai compromessi morali accettati per proteggere la sua famiglia, più o meno come
ha già fatto Walt. Ma, diversamente da lui, Skyler prova rimorsi e orrore per le proprie azioni, e questo la
pone in una condizione passiva, quella della coniuge maltrattata e disperata che deve proteggere i suoi figli
dal «pericolo». Alla fine Skyler convince Walt che hanno ormai tanti di quei soldi che non saprebbero come
spenderli, e lui esce dal giro e cerca di ritornare alla pacata vita cittadina di sempre. Ma proprio quando
ritrovano una condizione di semi-normalità, per quanto zeppa di soldi, Hank scopre il segreto di Walt, e
questo mette Skyler contro sua sorella Marie e la costringe ad aiutare Walt nel tentativo di minacciare e
umiliare Hank e Marie. Skyler è talmente dedita a proteggere la famiglia che comincia a imitare la
razionalizzazione tipica di Walt, a tal punto da suggerirgli di uccidere Jesse per eliminare un’eventuale
minaccia. Quando Marie le dice che Walt è stato arrestato, Skyler vorrebbe far pace con lei e raccontare
tutto a Walt Jr.; poi, però, va in crisi quando si convince che Walt abbia ucciso Hank; il loro matrimonio
esplode quando Skyler ferisce Walt con un coltello e lui scappa con la bambina. Il rapporto si chiude con una

107
delle telefonate più complesse e strazianti mai viste in un film, nella quale Walt aggredisce verbalmente
Skyler, in un crescendo di rabbia che è al contempo una recita per assolvere Skyler agli occhi della polizia,
nonché un’espressione del suo radicato rancore maschilista. La serie finisce con Skyler al verde e
mortificata, che paga per i crimini di Walt e che ha perso tutto, sia economicamente che affettivamente: la
storia di una moglie distrutta dalle ambizioni criminali e dalle violenze psicologiche del marito. Ma Breaking
Bad non racconta la storia di Skyler. Il protagonista è Walt, e noi siamo invitati a guardare il matrimonio dal
suo punto di vista, e a condividere le sue azioni e i suoi moventi. L’identità di brand di Amc sicuramente
rinforza la centralità di Walt, poiché la serie è stata promossa principalmente come un crime drama,
enfatizzando l’exploit di Walt come boss della droga molto più che i suoi drammi familiari o le violenze
psicologiche subite da Skyler. Eppure la storia di Skyler è lì, e diventa sempre più centrale man mano che la
serie procede, mentre il ruolo patriarcale e la virilità ribaditi con insistenza da Walt cominciano a vacillare e
a erodersi, ai nostri occhi ma anche ai suoi. Considerando il punto di vista di Skyler, Breaking Bad diventa in
parte un «film sulle donne» all’inverso, raccontato dal punto di vista di un marito di cui siamo i soli a vedere
la trasformazione in cattivo. Molte serie tv complesse ricorrono al melodramma per raccontare storie di
mascolinità compromessa o per spostare il baricentro dei generi tradizionalmente maschili su personaggi
femminili, ma alcune mescolano i generi e si concentrano su gruppi numerosi di personaggi proprio per
mostrare le interconnessioni tra la sfera mascolina e quella femminile. Friday Night Lights intreccia il mondo
iper-mascolino del football liceale con un melodramma familiare incentrato sia sull’adolescenza che sulla
vita nella piccola città di Dillon, in Texas. Benché la serie parli soprattutto di uomini che cercano di sfruttare
il football per fuggire alle loro vite o per ricordarsi della gloria passata, le sottotrame sono incentrate sulle
politiche di genere, affrontate attraverso il matrimonio di Eric e Tami Taylor, entrambi lavoratori, e il
tentativo di Tyra di eccellere all’università per fuggire alla povertà e alla sua reputazione sessuale, rendendo
la mascolinità meno centrale nella serie. È interessante notare che i momenti più melodrammatici sono
quelli che riguardano il football, soprattutto le sequenze di gioco, che suggeriscono che il risultato dipende
sempre dagli ultimi minuti e dal desiderio disperato di segnare. Inoltre, uno degli episodi più toccanti e
apprezzati della serie, «Il figlio», è incentrato sulla reazione emotiva di Matt Saracen alla morte del padre, e
descrive un percorso emotivo così intenso che persino scrivendone non riesco a trattenere una lacrima. La
seconda stagione, abbastanza derisa, ricorre a trame più convenzionalmente melodrammatiche, in termini
di eccessi, raccontando un omicidio poco plausibile, un’adozione interrazziale trita e ritrita e artificiose
complicazioni sentimentali, mantenendo uno stile di recitazione e produzione considerato realistico, e
creando degli attriti di tono che hanno allontanato buona parte dei critici e dei fan. Benché sia incostante e
incoerente nell’uso di norme complesse, Friday Night Lights mescola le norme di genere (narrativo e
sessuale) per rendere più difficile qualsiasi classificazione netta del suo intrattenimento o
dell’immedesimazione che ne deriva, mascolina o effeminata che sia. Un’altra serie che ibrida l’attrattività di
genere attraverso un innovativo incrocio di generi e narrazioni è The Good Wife. Già esplicitamente di
genere, a giudicare dal titolo, la serie parte da una premessa che suggerisce contenuti melodrammatici ed
effeminati: la moglie di un politico è umiliata dallo scandalo sessuale in cui è coinvolto il marito e per
necessità è costretta a tornare a lavorare come avvocato, nonché a prendere una posizione pubblica sul
proprio matrimonio. Eppure, quando Alicia Florrick ricomincia una carriera nello studio legale di un vecchio
amico, la serie diventa un elaborato groviglio di trame professionali e personali, con un notevole cast di
personaggi secondari. Benché mantenga una struttura a episodi del tipo «caso-della-settimana», The Good
Wife presenta un mondo narrativo complesso, seriale e multi-istituzionale mai visto prima su un network in
una serie di prima serata, che ha portato un critico a paragonarla positivamente all’alfiere del realismo sulla
tv cable, The Wire. The Good Wife permea la sua serialità complessa e realistica con attrattive
esplicitamente unisex, mettendo insieme questioni familiari, professionali, romantiche e politiche, spesso in
un’unica storia, e approfondendo come queste sfere influenzino le decisioni emotive e razionali della
protagonista. Un buon esempio della complessità di The Good Wife è la puntata «Ricordi», nella quarta
stagione. Ambientata principalmente in una serata di beneficenza promossa dalla diocesi di Chicago nel

108
giorno di San Patrizio, la puntata è incentrata sulla macro-trama politica: la campagna elettorale del marito
di Alicia, Peter. Ma, come sempre in questa serie, la politica si fonde con il personale, perché Alicia deve
presentarsi sia in quanto moglie devota che in quanto nuovo avvocato del suo studio legale, nonché
difendere suo figlio dalle false accuse di un avversario di Peter e arginare una possibile crisi familiare
connessa ad alcune confidenze inappropriate fatte ai figli adolescenti. Alicia deve inoltre affrontare la
tensione generata sia dalla presenza del suo capo nonché ex amante Will, nonostante lo studio legale
supporti la campagna elettorale del marito, sia dalla proposta che Peter fa alla partner di Will, Diane,
riguardo a una possibile nomina alla Corte Suprema, che si ricollega a una sottotrama archiviata della prima
stagione. Il caso della settimana è costituito dall’omicidio di un cliente di Alicia mai visto prima, con la polizia
che la interroga per scoprire di più sui numerosi nemici del suo litigioso cliente; scopriamo di più di questo
cliente e del suo rapporto con Alicia attraverso i ricordi di questa, presentati attraverso rapidi flashback non
cronologici. Ma l’episodio intreccia elementi professionali ad altri personali: l’assistente del procuratore
distrettuale che lavora al caso è infatti infatuata di Will e chiede consigli proprio ad Alicia, portandola a
evocare ricordi della sua relazione con Will, che si intrecciano ai flashback sul cliente ucciso. L’episodio ha
una struttura cronologica complessa, che lavora sull’estetica funzionale e impone agli spettatori di
ricostruire l’ordine degli eventi per assicurarsi di averli capiti. Ogni sottotrama di quest’episodio (e ce ne
sono altre che non ho citato) è legata alla macrostoria, suscita diverse reazioni emotive e intreccia elementi
personali e professionali, creando una fitta maglia di commistioni dei generi e delle attrattive legate al
genere sessuale. La serie in questione è lontanissima dalla dicotomia femminile/maschile pensata da Fiske
negli anni Ottanta, ma si scosta anche da quello stile misto, in cui sentimenti e indagini rimanevano
comunque scissi, che caratterizzava le prime serie ibride, come Hill Street e L.A. Law. Qui, al contrario,
personale e professionale, effeminato e maschile, melodrammatico e razionale sono categorie intrecciate e
inseparabili, in termini sia di struttura narrativa che di coinvolgimento emotivo dello spettatore. Anche se
alcuni critici considerano queste forme ibridate come «mascolinizzazioni» di quelle femminili, sminuendo
così le basi femminili di buona parte dello storytelling televisivo, io sostengo che queste contaminazioni
sfumino le dicotomie di genere con un piglio progressista, invitando lo spettatore a immedesimarsi a
prescindere dal genere, e a lasciarsi intrattenere da elementi che, in realtà, non hanno nulla a che fare con
l’identità di genere. Warhol sostiene che la fruizione di narrazioni è una pratica fondamentale per l’identità
di genere, e che le forme seriali promuovono con forza la reiterazione di certi sentimenti; io sostengo che la
prevalenza del melodramma in molti generi della tv complessa offre spunti più che stimolanti per mettere in
discussione e rivedere le norme di genere consolidate

CAP 8
PARATESTI ORIENTATIVI

Ripercorrendo la storia dei network americani, potremmo dire che una delle loro caratteristiche principali
sia l’«accessibilità». Secondo le strategie commerciali dei palinsesti innervati da pubblicità, il successo di un
programma veniva decretato dalla sua capacità di attrarre, trattenere e far espandere un pubblico, che
poteva essere quantificato dai rilevamenti dei dati di ascolto e infine venduto agli inserzionisti. La
programmazione derivata da queste strategie basate sulla popolarità è stata definita «il contenuto meno
sgradevole possibile» (least objectionable content) o, in senso più dispregiativo, il «minimo comun
denominatore». Il primo compito del racconto televisivo è quello di evitare l’allontanamento di potenziali
spettatori. l’industria televisiva preferisce programmi che siano abbastanza semplici da risultare accessibili
anche agli spettatori occasionali. Le serie tv complesse mettono però spesso a repentaglio
quest’accessibilità agli spettatori occasionali, perché non temono il disorientamento e la confusione, e
lasciano che siano gli spettatori a sviluppare i propri metodi di comprensione tramite la visione e il
coinvolgimento a lungo termine. Questo capitolo analizza come, per comprendere al meglio le serie tv, gli
spettatori ricorrano a pratiche di orientamento e di mappatura, in particolar modo attraverso la creazione di
paratesti orientativi. La maggior parte delle pratiche di orientamento richiede dei paratesti, che si tratti di

109
liste e mappe o delle più effimere conversazioni con altri spettatori, dal momento che il tentativo di
orientarsi in un mondo narrativo ci pone al di fuori di esso. Questi paratesti vanno distinti da quelli
transmediali che estendono esplicitamente un universo narrativo su altre piattaforme. Essi infatti ci
pongono al di fuori del mondo narrativo, e ci consentono di capirlo a patto che lo si guardi da una certa
distanza, anche se, le pratiche vere e proprie rendono meno nette certe dicotomie. L’orientamento non è
necessario se si vogliono scoprire le verità interne a di un mondo narrativo, ma viene piuttosto usato per
creare un altro strato di senso intorno al programma, utile a capire come metterne insieme i pezzi o come
poterlo guardare da un punto di vista diverso, che potrebbe non essere stato contemplato dal progetto
originale degli autori. La produzione di un paratesto, che sia ufficiale o creato dai fan, modifica il modo in cui
vediamo il testo che l’ha generato. Nell’era di internet siamo circondati da una sfilza di informazioni
paratestuali, molte delle quali non sono state specificamente ideate per facilitare la comprensione di una
serie. In un’intervista, David Simon, creatore di The Wire e Treme, spiega a Emily Nussbaum il modo in cui
scrive televisione al giorno d’oggi: «“Vaffanculo le spiegazioni [...] Bisogna far vedere delle cose. Le
spiegazioni vengono dopo”. “Devo riuscire a incuriosirti abbastanza, per il resto esiste una cosa chiamata
Google”. Internet, sostiene Simon, offre libertà creativa, e permette agli autori di non dover spiegare più di
tanto, e ai personaggi di venir fuori attraverso la storia». La sua descrizione dell’utilità di internet evidenzia
come gli autori possano contare sulla facile accessibilità online di paratesti preesistenti, che aiutino lo
spettatore a comprendere i riferimenti storici e culturali. Internet può inoltre ospitare infinite risorse
paratestuali pensate specificamente per aiutare gli spettatori a orientarsi nelle serie tv. Le serie tv non sono
quindi trattate come un testo isolato e autoconclusivo né dagli ideatori né dai fan, ma al contrario esistono
all’interno di un paesaggio mediale in cui i paratesti online sono potenzialmente sempre accessibili agli
spettatori. I paratesti analizzati in questo capitolo sono più direttamente collegati alle loro sorgenti e
attraversano il confine tra paratesti ufficiali e paratesti non ufficiali creati dai fan: benché esistano evidenti
differenze tra queste diverse tipologie di paratesti, sia quelli ufficiali che quelli non ufficiali sono considerati
parte della stessa gamma di abitudini di consumo. Dopo aver delineato diverse prassi orientative seguite
dagli spettatori della tv complessa, mi sono concentrato su una forma particolare di paratesto orientativo, la
pagina wiki, prima di concludere con una considerazione su ciò che questi paratesti ci dicono sul modo in
cui guardiamo la televisione. Nel corso di questo capitolo userò Lost come caso studio principale, in buona
parte perché la serie è un raro esempio di successo di massa dalla trama talmente complessa che impone la
consultazione di numerose tipologie di paratesti orientativi.

Un catalogo delle pratiche orientative seriali


Per comprendere la vastità di queste pratiche dobbiamo quindi organizzarle a seconda degli aspetti della
narrazione che intendono spiegare, nel tentativo di aiutare la comprensione, l’interpretazione, l’analisi e la
creazione di estensioni paratestuali da parte dello spettatore. Se analizziamo la definizione di narrazione
proposta nell’introduzione (una serie televisiva crea un mondo narrativo duraturo, popolato da un gruppo
coerente di personaggi che vivono una catena di eventi lungo un certo arco di tempo), ci rendiamo conto
che sono quattro gli aspetti fondamentali dello storytelling che potrebbero aver bisogno di un
orientamento: tempo, eventi, personaggi e spazio. Per comprendere una narrazione televisiva abbiamo
innanzitutto bisogno di mettere in chiaro ognuno di questi aspetti, e a tal fine i paratesti costituiscono una
risorsa molto utile. La prima categoria, quella del tempo, riguarda probabilmente l’aspetto più importante di
una narrazione seriale, poiché la serialità è determinata proprio dalla manipolazione del tempo in quanto
variabile del racconto: guardiamo una storia in porzioni di tempo stabilite dai producer e ne elaboriamo i
contenuti durante gli intervalli obbligatori tra gli episodi e tra le stagioni.
Tempo della storia, tempo del discorso e tempo dello schermo, hanno tutti potenzialmente bisogno di prassi
orientative. L’ultimo di questi sembra quello più ovvio, ma evidenzia un presupposto fondamentale:
dobbiamo sapere quando gli episodi verranno trasmessi e in quale ordine dovremmo guardarli. Nella
televisione americana l’ordine in cui gli episodi andavano in onda era solitamente una preoccupazione
secondaria, nel caso delle serie in prima serata, poiché capitava che i network decidessero di trasmetterli in
110
orari o in ordini inusuali, spinti dalla concorrenza o da altri fattori: in alcuni casi, come per Firefly, un
network poteva decidere di mandare in onda gli episodi in un ordine che comprometteva la comprensione e
il divertimento dello spettatore. Spesso le repliche non seguivano la sequenza originale, il che rendeva
probabile che gli spettatori si imbattessero in un programma da un punto a caso, ed è per questo che molti
autori si adattavano alla mancanza di una sequenza garantita evitando di inserire macro-trame che
andassero al di là del singolo episodio, un’abitudine che persiste tutt’oggi per molti procedural a episodi e
per molte sitcom. Negli ultimi due decenni, con la diffusione dei canali via cavo e di altre tecnologie,
l’industria ha elaborato diversi modi per permettere allo spettatore di orientarsi con il tempo dello schermo,
il più importante dei quali è la guida elettronica ai programmi (EPG). Gli spettatori adattano il proprio modo
di gestire il tempo dello schermo attraverso la verifica online degli episodi e delle loro rispettive messe in
onda, ricorrendo a fonti generiche come Wikipedia, a siti come epguides.com, o a siti non ufficiali gestiti dai
fan, nonché ricorrendo ai videoregistratori digitali (DVR) per organizzare la propria visione della serie.
Cofanetti dvd, streaming e download costituiscono tecnologie che permettono agli spettatori di orientarsi
nel tempo dello schermo, poiché evidenziano la struttura suddivisa in puntate e stagioni, invitando a
guardare la serie nella sequenza originaria piuttosto che seguendo la riorganizzazione del network. La
pratica della pianificazione orientativa permette agli spettatori di gestire uno schema cronologico che,
anche quando ovvio, rimane fondamentale per comprendere al meglio le dinamiche narrative di una serie
tv complessa. Mentre il tempo dello schermo rispetta confini e strutture abbastanza rigide, il tempo del
discorso è molto più variabile e fluido, soprattutto per quanto riguarda le serie con una cronologia
complessa. Comprendere i flashback, i replay, i flash-forward e i vari salti temporali, spesso uno dentro
l’altro, di serie come How I Met Your Mother o FlashForward richiede che si faccia attenzione al dettaglio,
ma anche che si tenga nota degli indicatori di continuità temporale, ritrovabili anche nei densi riassunti
online su siti ufficiali e non. Una serie non ha bisogno di raccontare viaggi nel tempo per giustificare l’uso di
una cronologia orientativa: i fan di Battlestar Galactica ne schematizzano la trama attraverso delle timeline
che aiutino gli spettatori a comprendere sia la sequenza degli eventi, sia il rapporto temporale tra le varie
sequenze degli episodi. Il tempo del discorso si riferisce alla sequenza e alla selezione del materiale
narrativo proposte al pubblico, mentre il tempo della storia riguarda gli eventi di finzione che hanno luogo
all’interno dell’universo narrativo. Nel caso delle serie dalla cronologia serrata, comprendere il nesso tra il
tempo della storia e quello dello schermo può risultare più difficile e richiedere diverse strategie di
orientamento all’interno della serie. Ad esempio, anche se non gioca con la temporalità come fa Lost,
Breaking Bad propone una scansione temporale molto densa, per cui gli eventi della prima stagione
avvengono tutti nell’arco di un anno, ma tenere a mente questa scansione aiuta gli spettatori a cogliere le
conseguenze e la portata degli eventi che hanno segnato i personaggi. Per verificare il realismo storico degli
anni Sessanta di Mad Men, i suoi fan ricorrono a timeline in cui fanno un parallelo tra gli eventi della
finzione e quelli storici cui fa riferimento la serie, o che fanno da scenario. Questo tipo di calendarizzazione
orientativa ci permette di seguire una narrazione mettendone in primo piano la coerenza del mondo
narrativo con la storia reale, uno sviluppo piuttosto recente della narrazione televisiva. Anche quando il
mondo narrativo non è affatto realistico, schematizzarne la cronologia può risultare una strategia orientativa
fondamentale. Probabilmente la timeline televisiva più complicata è quella giocosamente «capricciosa» del
Doctor Who, soprattutto per quanto riguarda la relazione tra il protagonista e l’altra viaggiatrice nel tempo,
River Song. I fan hanno realizzato diverse rappresentazioni grafiche della relazione cronologicamente
bidirezionale tra River e il dottore, cercando di far combaciare le rispettive esperienze, qualcosa che fanno
gli stessi personaggi ogni volta che si incontrano, attraverso la sincronizzazione dei loro diari di viaggio e dei
loro ricordi. Ovviamente non si tratta di un’operazione a uso esclusivo dei fan, poiché la stessa Bbc ha
prodotto del materiale orientativo, tra cui un video che ripercorre la storia di River, raccontata dal suo punto
di vista. L’orientamento può essere quindi sia ufficiale sia non ufficiale e può essere rappresentato in diversi
formati, e non soltanto attraverso timeline grafiche o elenchi testuali. Uno dei paratesti orientativi più
interessanti tra quelli creati dai fan sono i video che ricostruiscono la temporalità lineare della serie. Due

111
sono i progetti dedicati a Lost che offrono ottimi esempi dei diversi modi dei fan di intendere la cronologia.
Nel video online intitolato «Lost: The Synchronizing», un fan ha selezionato tutte le sequenze dell’incidente
aereo apparse in tre stagioni, da punti di vista diversi, montandole insieme in uno split screen, simile a
quello di 24, sincronizzando la cronologia della storia e dimostrando come questi momenti convergano
nell’evento narrativo più importante della serie. Più ambiziosamente, un altro fan ha creato il sito
ChronologicallyLost.com per distribuire la sua versione rimontata della serie in ordine cronologico, suddivisa
in porzioni/episodi da 45 minuti. Come per qualsiasi tassonomia complessa, un solo asse non è sufficiente a
catalogare le pratiche orientative degli spettatori: oltre a sapere su «che cosa» ci si sta orientando (il tempo
o lo spazio), bisogna anche capire «come» avviene quest’orientamento. Una delle pratiche orientative è il
riepilogo, ossia il riassunto del materiale narrativo in modo chiaro e lineare, come possono fare un
calendario o una lista cronologica degli eventi. Un’altra pratica ricorre all’analisi, esaminando il materiale
narrativo attraverso una rappresentazione, spesso grafica o video, che amplia il lavoro già fatto dal riepilogo.
Mentre queste pratiche hanno lo scopo di spiegare ciò che succede all’interno di una serie, l’espansione
orientativa riguarda piuttosto ciò che succede al di fuori di essa, creando collegamenti tra la serie e altre
sfere extratestuali, che si tratti di altre serie di finzione o di elementi del mondo reale. Queste tre modalità, i
cui confini sono spesso labili, possono essere applicate a diversi aspetti della temporalità narrativa,
generando un diagramma delle pratiche orientative, come ad esempio i calendari analitici o le cronologie a
espansione. Queste tre modalità orientative possono essere applicate anche ad altre dimensioni narrative, e
non soltanto al tempo. Gli eventi narrativi sono strettamente connessi al tempo, poiché vengono
solitamente concepiti come «ciò che succede quando», e il tentativo di orientarsi tra gli eventi di una storia
richiede spesso indicazioni cronologiche e temporali. I riepiloghi della trama sono strumenti di
orientamento comuni, che si tratti delle sequenze del tipo «nelle puntate precedenti», delle sinossi ufficiali
sul sito del network o dei riassunti proposti dai fan sui siti non ufficiali. Questi riepiloghi sono concetti
astratti, perché la conversione di materiale televisivo in descrizioni testuali lo trasforma quanto può fare un
remix video, e la diffusione di riepiloghi umoristici su siti come Television Without Pity dimostra come
l’orientamento può diventare anche un atto creativo. Alcune analisi degli eventi estrapolano gli eventi
narrativi dalla loro cronologia per offrire un punto di vista diverso sulla storia, dagli elenchi dei personaggi
morti che si trovano su diverse pagine wiki dedicate alle serie fino alle infografiche che documentano le
decine di omicidi di Dexter, con la lista delle armi, delle motivazioni e dei rapporti tra le vittime. Queste
reinterpretazioni analitiche prendono una serie di eventi narrativi e la analizzano per comprenderne più a
fondo le cause e il significato, e possono essere fatte attraverso diversi formati. Ad esempio, il penultimo
episodio della quarta stagione di Breaking Bad, intitolato «Cercando vendetta», porta lo spettatore a
chiedersi chi abbia avvelenato un bambino; un fan ha pubblicato un video su YouTube in cui spiegava perché
secondo lui era stato Walter White ad avvelenare il bambino, mettendo insieme scene tratte dall’episodio
che fornivano indizi e prove di ciò che sarebbe stato confermato soltanto nell’episodio successivo. Queste
astrazioni e reinterpretazioni analitiche sono opera del fandom investigativo, che permette agli spettatori di
comprendere più a fondo una serie, o di proporne delle spiegazioni alternative, a prescindere dalla
cronologia e dal riepilogo. Le espansioni della trama mirano a contestualizzare gli eventi di una serie in una
rete ipertestuale più grande, di solito creando collegamenti tra il mondo reale e ciò che succede nella
finzione. Ad esempio, Treme racconta la vita a New Orleans dopo l’uragano Katrina, presentando molte
versioni finzionali di persone ed eventi reali; blogger e giornalisti, tra i quali Dave Walker del New Orleans
Times-Picayune, catalogano e analizzano i riferimenti culturali del programma, lavorando per orientare gli
spettatori sulle ispirazioni reali degli eventi di finzione.
Più rari sono quei paratesti che tentano di collegare gli eventi di una serie al mondo narrativo di un’altra, al
di là di quando è la stessa serie a farlo, come con i riferimenti a Happy Days fatti in Arrested Development:
ma parlando di paratesti, non esiste una pratica orientativa più disorientante della cosiddetta «teoria
dell’universo di Tommy Westphall». Nella ormai leggendaria puntata finale di A cuore aperto, il medical
drama degli anni Ottanta, veniva infatti svelato che tutto il contenuto della serie esisteva soltanto

112
nell’immaginazione di Tommy, un ragazzino autistico che fissava l’interno di una palla di vetro con neve. E
poiché la serie proponeva un numero cospicuo di episodi crossover e di riferimenti intertestuali ad altre
serie come Cin cin, Homicide e The Bob Newhart Show, i fan dedussero che anche tutte queste serie erano
prodotti della fantasia di Tommy. I fan catalogarono quindi questi crossover e crearono l’elaborata mappa di
un «multiverso» intertestuale: arrivati al 2014, lo schema includeva 375 programmi, da Lucy ed io fino a The
Wire. Benché questa teoria abbia chiaramente soltanto intenti giocosi, va detto che i fan la prendono
piuttosto seriamente. Sanno che questi collegamenti non sono «reali», nemmeno all’interno dei mondi
finzionali della tv, eppure sono in molti a dedicarsi con impegno alla creazione di paratesti espansivi come
se fossero «reali», prendendo in considerazione analisi e congetture in un modo simile a forme di gioco
recenti come gli «Alternate Reality Game (ARG)».
La terza tipologia di strumenti orientativi è quella che cataloga i personaggi di una serie. Le guide ai
personaggi, che si trovino nei siti ufficiali e nei libri tratti dalle serie (tie-in books) o nelle pagine wiki create
dai fan, offrono un’utile panoramica delle dramatis personae, ovvero dei personaggi; l’obiettivo di queste
guide è quello di orientarci sul cast, e di aiutarci a collegare un viso a un nome e al suo ruolo nella storia. Le
analisi dei personaggi creano di solito, attraverso altri media, uno schema dei rapporti, degli sviluppi e delle
personalità. Ad esempio, i dvd di Lost contengono una guida interattiva ai personaggi che passa in rassegna i
loro legami spesso casuali, e i fan creano degli schemi simili per evidenziare i legami e i rapporti tra i
personaggi. Alla guida può essere abbinato un testo di commento analitico, organizzabile per stagioni, con
pop-up che propongono riassunti scherzosi delle azioni e della morte del personaggio. Anche se molti dei
paratesti creati dai fan reinterpretano i personaggi, come fanno le fan fiction e i remix video, nella maggior
parte dei casi essi non sono «orientativi», poiché tendono più a espandere i mondi narrativi verso altre
possibilità che ad approfondirli, o quantomeno mirano a spiegazioni e analisi più emotive, un fenomeno che
meriterebbe di essere analizzato in futuro. Una delle forme più comuni nelle quali si manifesta la creatività
dei fan sono quelle espansioni intertestuali che mettono insieme personaggi di mondi narrativi diversi in un
unico universo, un genere conosciuto come crossover fiction. È raro che queste espansioni dei personaggi
permettano di comprenderli più a fondo, ma c’è un caso divertente di intertestualità che voglio segnalare: i
fan hanno adottato lo schema di analisi del classico gioco di ruolo Dungeons & Dragons, che misura la
moralità di un personaggio in base alle coordinate buono/cattivo e leale/sleale, e l’hanno adattato al cast di
diverse serie televisive. Probabilmente non esiste serie più adatta a questo gioco intertestuale di The Wire,
con le sue questioni morali e i codici comportamentali. Creare una mappatura dei personaggi sulla base di
uno schema da gioco di ruolo ci fa riflettere sul significato di lealtà e slealtà all’interno del contesto di The
Wire, e sulla possibilità di trovare qualcosa di buono in personaggi come Avon e Omar nonostante le loro
attitudini sanguinarie. Questa espansione intertestuale è un invito a riconsiderare le nostre impressioni su
una serie, a catalogarne diversamente i personaggi, nonché a immaginare paralleli tra questi e le figure
mitologiche del gioco di ruolo. L’ultimo dei paratesti orientativi riguarda il tipo più comune di mappatura,
quella spaziale, in questo caso rivolta al mondo narrativo. Benché le mappe siano fatte apposta per aiutare
l’orientamento spaziale, lo spazio sembra essere la dimensione della narrativa televisiva che necessita minor
aiuto esterno per essere compresa. Se nella televisione di oggi temporalità, trame e personaggi sono
diventati più complessi, lo spazio è rimasto abbastanza convenzionale e lineare. Lo spazio è semmai la
dimensione che la televisione è più disposta a non rispettare pur di aumentare la complessità delle altre
sfere; ad esempio, l’impegno di 24 a rispettare una rigida cronologia e una narrazione in un ipotetico tempo
reale comporta per contro elementi spazialmente non plausibili, mostrando i personaggi che attraversano il
traffico e le lunghezze di Los Angeles o Washington a una velocità irreale. Se da un lato molti fan cercano di
razionalizzare e spulciare le cronologie non chiare o la continuità dei plot, dall’altro le incoerenze
geografiche sono riconosciute soltanto da chi vive davvero nelle città rappresentate, rivelando che nel
processo di fruizione delle serie tv la coerenza temporale prevarica quella spaziale. Ciononostante, sia gli
spettatori che l’industria investono una certa energia nella creazione di paratesti orientativi spaziali dedicati
alle serie tv. Nel caso delle serie ambientate in luoghi di fantasia, le mappe possono rivelarsi utili agli

113
spettatori per orientarsi nelle relative mitologie, un espediente diffuso in altri media, come nei romanzi di
Tolkien, che includono le mappe della Terra di Mezzo. Possiamo ritrovare un parallelo televisivo nei titoli di
testa del Trono di spade, che contengono una mappa animata del mondo di fantasia della serie che a
seconda della puntata illustra i luoghi in cui si svolgono gli eventi. Il sito di Hbo propone inoltre una mappa
interattiva che riassume gli eventi di ogni episodio e le genealogie dei personaggi, integrando così diverse
dimensioni dell’orientamento direttamente all’interno della serie. Le mappe vengono solitamente proposte
all’esterno della serie, come nel caso della mappa-poster cartacea con la cosmografia di Battlestar Galactica,
che schematizza le Dodici Colonie di Kobol con legende dettagliate e grafiche inedite; questo poster era
persino firmato da Jane Espenson, uno degli autori di Battlestar, come conferma dell’autenticità. E quando
le serie fantasy o di fantascienza non pubblicano le proprie mappe spesso ci pensano i fan a colmare questa
lacuna. La creazione di mappe fa parte di una più ampia attività confermativa che Bob Rehak definisce
«cultura della verifica», poiché i fan si impegnano a documentare i fatti proposti da una finzione basata sulla
fantasia. Molte serie che diventano poi videogame ricorrono a queste produzioni per creare versioni virtuali
navigabili dei propri mondi di finzione. Quando le serie sono invece ambientate sulla Terra non esistono
strumenti di orientamento più utili di Google Maps, poiché sia i fan che gli staff di produzione creano mappe
personalizzate per decine di serie, in cui vengono segnate le aree delle riprese e gli indirizzi di finzione,
rappresentazioni cartografiche che vanno dalla realistica Baltimora di The Wire all’immaginaria città
californiana di Neptune in Veronica Mars. Un esempio interessante è quello di Seinfeld: nonostante la serie
sia stata girata principalmente a Los Angeles, le ambientazioni a New York sono un elemento fondamentale
della narrazione. Così sia la Sony (che ha prodotto il programma) sia i fan hanno creato la propria mappa a
tema: quella sul sito di Sony è patinata, essenziale e con video incorporati, mentre non sorprende che la
versione dei fan sia più esaustiva e includa più del doppio delle location di quella Sony. Queste mappe
possono quindi trasformarsi in una pratica attiva, perché permettono ai fan di esplorare virtualmente i locali
e gli ambienti delle loro serie preferite, una pratica che fa parte del crescente turismo a tema. il turismo
dedicato a una serie tv aggiunge all’esperienza un altro livello, perché se la serie è ancora in produzione i fan
non hanno soltanto l’opportunità di visitare i luoghi in cui potrebbero avvenire gli eventi narrativi futuri, ma
con un po’ di fortuna potrebbero persino assistere alle riprese di questi eventi. In questi casi, mappe e tour
servono, più che a facilitare la comprensione, a espandere la finzione fin dentro la vita degli spettatori e a
permettere loro di vivere per qualche ora all’interno dei loro universi narrativi preferiti. Un caso
interessante di mappatura di una serie tv è stato generato da Lost. La serie è infatti ambientata su un’isola
immaginaria, la cui geografia è fondamentale per la narrazione ma è anche legata a quella dell’isola delle
Hawaii realmente esistente sulla quale la serie è stata girata. Considerato l’enorme bacino di fan
partecipativi, non sorprende che alcuni abbiano creato una mappa dettagliata dell’isola reale su Google
Maps, catalogando le location dei set in base alle stagioni, ai personaggi e agli ambienti finzionali; né
sorprende che le agenzie turistiche hawaiane propongano tour dedicati alla serie. Google Maps ospita
inoltre una mappa collaborativa di qualsiasi luogo reale cui si fa riferimento nella serie, nonché delle
numerose estensioni transmediali collegate a questi luoghi, evidenziando come il programma abbia una
copertura globale nonostante sia stato girato quasi esclusivamente alle Hawaii. Google Maps è meno utile
se ci si vuole orientare nella location centrale del programma; a il fandom investigativo di Lost si è
impegnato maggiormente nella creazione di una mappatura della geografia interna dell’isola, un’attività che
richiede piattaforme che vanno al di là di Google Maps. Diversamente da quelli di Battlestar Galactica, i
producer di Lost non hanno fornito agli spettatori una rappresentazione chiara della geografia finzionale del
programma ma va notato che le mappe sono l’ossessione di diversi personaggi e che appaiono spesso sullo
schermo. Queste brevi apparizioni sono state catalogate dai fan investigativi su Lostpedia (e su altri siti
dedicati alla decodifica di Lost), ma niente meglio della cosiddetta «mappa della porta blindata», come la
chiamano i fan, può illuminarci su quanto queste pratiche siano a cavallo tra la spiegazione e l’ulteriore
disorientamento. Nell’episodio della seconda stagione intitolato «Chiusura», John Locke si ritrova
intrappolato in un bunker sotterraneo con una gamba incastrata sotto una porta blindata. Per qualche

114
secondo si accende una luce blu, che rivela una mappa disegnata a mano sulla porta, che però noi spettatori
vediamo per non più di sei secondi. Le informazioni contenute nella mappa, decodificate collettivamente dai
fan ore dopo la trasmissione dell’episodio, rimandano alla mitologia della serie ma anche alle sue estensioni
transmediali. Lo stesso Locke cerca di decifrare le rivelazioni geografiche della mappa, ma non riesce a fare
ciò che i fan sono riusciti a fare grazie a uno snapshot della porta, ai software di grafica e alle discussioni sui
forum collettivi. La mappa riappare in diversi modi per quattro volte, leggermente modificata e con
informazioni aggiuntive, confermando il proprio ruolo nella serie. Attraverso un’attività investigativa, gli
spettatori si procurano così scorci in anteprima su ciò che deve ancora essere rivelato. la mappa della porta
blindata serve a tutto tranne che a facilitare l’orientamento spaziale, poiché non dà elementi sul rapporto di
distanza tra i vari luoghi dell’isola che sono stati mostrati allo spettatore. La mappa funge più che altro da
elenco dei luoghi, dei nomi e degli indizi, e tiene vive le aspettative dei fan su ciò che dovrà ancora
succedere. La mappa propone inoltre una finestra sulla soggettività di alcuni personaggi, perché
rappresenta visivamente lo stato mentale dei suoi autori (che scopriremo chiamarsi Radinsky e Inman), ma
anche l’approccio ossessivo di Locke nel tentativo di decifrare un’immagine vista per pochi secondi. Infine la
mappa schematizza il tempo e gli eventi narrativi, cosa che induce gli spettatori a ipotizzarne la data di
realizzazione e a rendersi conto della propria conoscenza limitata del Progetto DHARMA. Probabilmente ai
fan che si sono impegnati nella decodifica delle diverse versioni della mappa non interessava tanto
orientarsi spazialmente, quando comprendere fin nel minimo dettaglio questa rappresentazione della serie
inglobata nel suo stesso universo narrativo, nonché i personaggi e gli eventi a essa legati in futuro.
I fan di Lost hanno anche creato mappe per orientarsi spazialmente nell’isola. Nel corso della serie ne sono
venute fuori parecchie, alcune illustrate, altre dettagliatamente topografiche, e persino simulazioni in 3D.
Come i diagrammi di Star Trek: Enterprise, si tratta di tentativi chiari di dar forma a uno spazio immaginario
attraverso gli strumenti e gli assunti del realismo scientifico. Benché non si veda mai una trasformazione
esplicitata dalla forma o della topografia dell’isola, il modo in cui l’isola muta nel tempo e nello spazio ci fa
pensare che una geografia realistica non fosse tra le priorità degli autori. I producer hanno inoltre aggiunto
nel tempo nuove location, come il faro dell’ultima stagione, senza preoccuparsi troppo della coerenza
spaziale dell’isola, nella comprensione della quale alcuni fan hanno investito parecchie energie. Ma
nonostante la serie si muova quindi nel regno del genere fantasy, più flessibile di quello realistico, alcuni fan
si sono comunque impegnati parecchio per creare una mappa coerente della geografia dell’isola; questo
attrito tra gli aspetti razionali della fantascienza e gli interessi più irrazionali e mistici del fantasy è al centro
di uno dei dibattiti più accesi riguardanti la serie. Ma Lost sollecita gli spettatori a orientarsi in una
dimensione che trascende quelle del tempo e dello spazio, e che è il concetto stesso di dimensione
parallela. Dopo aver sdoganato diverse varianti ludiche del modo di rappresentare il tempo e lo spazio, la
televisione complessa ha infatti di tanto in tanto esplorato le teorie sulle dimensioni parallele o multiple. Il
tema delle dimensioni multiple appare in alcuni episodi di serie come Community e Buffy, o anche come filo
conduttore a lungo termine di serie come Fringe, Life on Mars e C’era una volta. la stagione finale di Lost è
stata uno degli esempi più alti di storytelling televisivo multidimensionale. Abbandonando la struttura a
flashback che aveva caratterizzato le prime tre stagioni, i flash-forward della quarta stagione e i viaggi nel
tempo della quinta, la sesta stagione ha introdotto quelle che fan e producer hanno chiamato «realtà
parallele» o flash-sideways. In quasi tutti gli episodi, le azioni oscillano tra le fasi conclusive della storia che
conosciamo e un’apparente dimensione parallela in cui il volo 815 non è mai precipitato, molti personaggi
hanno vite completamente diverse e l’isola è affondata nell’oceano. Non sorprende scoprire che i fan sono
rimasti sia disorientati che elettrizzati dal tentativo di orientarsi in questa dimensione, soprattutto
considerato che non viene spiegato di cosa si tratti fino agli ultimi minuti della puntata finale della serie. Su
Lostpedia basta scorrere la cronologia del forum denominato «Flash Sideways Timeline» per imbattersi nel
lavoro di decine di fan, che per mesi hanno discusso della cronologia, dei personaggi e persino degli aspetti
ontologici della faccenda, e che quando la serie è giunta a conclusione hanno discusso sull’eventualità di
cancellare tutte le conversazioni, per via delle ambiguità temporali irrisolte riguardanti le realtà parallele. Il

115
caso della sesta stagione di Lost mette in evidenza una delle sfide maggiori derivanti dall’intersezione tra
complessità narrativa e serialità: man mano che un mondo narrativo diventa più complicato e impegnativo,
esso richiede un’attenzione maggiore per assicurarsi la comprensione degli spettatori. Ma orientarsi
all’interno di una serie tv significa creare una mappatura di un terreno instabile, trovare punti di riferimento
in un mondo narrativo che si evolve man mano che viene creato e fruito dagli spettatori. Gli spettatori di
Lost hanno guardato ore di «realtà parallele» senza sapere come orientarsi in questa dimensione, né come
metterla in relazione a quel mondo narrativo che i fan hanno trascorso mesi a documentare. Benché siano
pochi gli esempi all’altezza della complessità di Lost, un pericolo comune a tutte le serie complesse è che gli
spettatori possano non fare in tempo a capire come orientarsi prima che gli enigmi della serie siano stati
tutti svelati, e che a quel punto sia troppo tardi per interessarsene. Cosa ci insegnano queste pratiche
orientative del modo in cui guardiamo le serie tv complesse? Innanzitutto, è già interessante il solo fatto che
esistano, e che costituiscano una prova non solo del fatto che gli spettatori sono coinvolti attivamente dalla
visione (cosa che sappiamo da decenni), ma che la televisione di oggi gli richiede di aumentare il tempo e lo
spazio della visione per comprendere al meglio ciò che hanno visto. Non sono semplicemente gli spettatori
a essere attivi, ma è l’oggetto culturale a imporlo: le serie sono pensate per stimolare gli spettatori, per
confonderli in modo strategico e obbligarli a orientarsi nei vari mondi narrativi. , la diffusione della cultura
online è stata fondamentale per il successo della televisione complessa, poiché gli strumenti di
partecipazione e orientamento collettivo hanno permesso a questi programmi di sollecitare e coinvolgere gli
spettatori. Queste pratiche orientative ci aiutano inoltre a capire in che modo la televisione sfrutta la
complessità narrativa e a intuire i futuri sviluppi di questa modalità. Si è già sperimentato parecchio su plot
complessi e schemi temporali, e i rapporti tra i personaggi si sono rivelati un terreno fertile per la
complessità seriale. . I paratesti delle serie tv sono spesso anch’essi serializzati, e si espandono e modificano
in dialogo con la serie cui fanno riferimento. In alcuni casi, i producer di un programma possono monitorare
i paratesti creati dai fan per dedurre il loro coinvolgimento nella serie e ipotizzare come potrebbero
rapportarsi a nuovi paratesti, e può capitare che ai fan interessi maggiormente espandere e gestire i
paratesti che seguire la serie in sé.

Spazi partecipativi: le pagine wiki gestite dai fan

Una delle innovazioni tecnologiche più importanti emerse parallelamente alla diffusione della tv complessa
sono le pagine wiki Il software wiki, nato negli anni Novanta ma diventato famoso dopo l’inaspettato
successo di Wikipedia, propone agli utenti contenuti leggibili, come la maggior parte dei siti online, ma con
un semplice clic consente anche di apportarvi modifiche e di accedere alla cronologia delle revisioni. Le
pagine wiki dei fan possono assumere parecchie forme diverse, da area di lavoro per una fan fiction
collaborativa a mezzo per uno storytelling sperimentale, fino a coprire analiticamente un vastissimo raggio
di argomenti, come fa Tv Tropes, che cerca di catalogare le convenzioni narrative di quasi tutti i media e i
generi esistenti. Molte pagine wiki dei fan rimangono comunque oscurate dall’ombra di Wikipedia,
rispecchiandone l’approccio enciclopedico nello strenuo tentativo di documentare il mondo narrativo e le
altre informazioni riguardanti una serie, con intenti dichiaratamente esplicativi. Ho deciso di concentrarmi
su Lostpedia per due motivi. Innanzitutto, è l’esempio più alto e corposo di wiki dedicato a una serie tv, e ha
raggiunto dimensioni conseguite soltanto dai wiki dedicati a franchise che durano decenni come Doctor
Who, I Simpson e Star Trek. In secondo luogo, perché la mia conoscenza di Lostpedia è superiore a quella
della maggior parte degli utenti del sito, dal momento che ne sono stato editor mentre la serie veniva
trasmessa per la prima volta e, per circa sei mesi, nel 2006, sono stato uno dei circa dieci amministratori del
sito. Per questo posso analizzare le prassi di modifica di una pagina wiki avendole vissute dall’interno. Nel
2008 Lostpedia si è trasferito dal suo server indipendente a un dominio wikia.com, gestito dalla Wikimedia
Foundation; nonostante il trasferimento, la stessa community di lostpediani l’ha reso uno dei wiki più
famosi del mondo, creando più di settemila pagine di contenuti originali, attirando più di tre milioni di utenti
registrati, e ricevendo più di un milione di modifiche e più di centocinquanta milioni di visualizzazioni. La

116
mia analisi di Lostpedia prende in considerazione il modo in cui il sito ha aggregato la creatività e le
abitudini di fruizione dei fan, e i motivi di questi comportamenti e di queste preferenze. L’uso di Lostpedia è
stato decisamente influenzato dalle notevoli differenze tra Lost e le altre serie tv, tra cui l’enorme seguito in
tutto il mondo e la grande quantità di contenuti transmediali come videogiochi, romanzi, giocattoli e
speciali. Tra le ragioni principali del successo di Lostpedia c’è forse il fatto che la serie stessa si proponga
come un puzzle da risolvere, una sequenza di enigmi interconnessi, la cui comprensione richiede la ricerca
di materiale e l’esistenza di un archivio indicizzato. Questo tipo di logica narrativa ludica e di storytelling
transmediale, incoraggiando ricerche, collaborazioni, analisi e interpretazioni, è l’ideale per lo sviluppo di un
fandom investigativo. Nella sua analisi del fandom investigativo online di Twin Peaks, Henry Jenkins
osservava che i fan avevano trovato in tecnologie come il videoregistratore e la rete Usenet degli strumenti
fondamentali per comprendere i codici narrativi delle prime serie complesse.
La funzione principale di Lostpedia è quella di un archivio condiviso di informazioni narrative, che setaccia la
serie, i suoi paratesti ufficiali e i suoi riferimenti culturali allo scopo di aiutare gli spettatori disorientati a
comprendere gli enigmi e l’intreccio del programma. ha un complesso regolamento dedicato al trattamento
di materiale «a rischio» come speculazioni, ipotesi, parodie e paratesti creati dai fan. Questo tipo di
materiale rende infatti labile il confine tra documentazione e creatività, nonché quelli fra le tre funzioni
fondamentali dell’orientamento, ovvero riepilogo, analisi ed espansione, che su Lostpedia possono spesso
entrare in conflitto. Come fanno gli utenti che creano i contenuti del sito a distinguere questi materiali e a
regolamentarsi? Fare uno schema dei personaggi e dei loro rapporti è fondamentale per orientarsi in una
serie complessa con molti personaggi. I fan attivi spesso non si limitano a ricapitolare i rapporti esistenti tra i
personaggi, ma ne immaginano altri, o danno strane interpretazioni dei personaggi attraverso le fan fiction
e i remix video, ma un wiki costruito per documentare un mondo narrativo non sembra essere il luogo
ideale per questo tipo di produzioni speculative. La prima volta che ho fatto questa ricerca, nella primavera
del 2008, Lostpedia aveva una sezione intitolata «Pairings» («Unioni»), dedicata alle interpretazioni queer
dei personaggi e allo «shipping fandom». La sezione riportava questa descrizione: «Le unioni sono quelle
relazioni, sia reali che immaginarie, che i fan vorrebbero nascessero e si consumassero tra due personaggi. Il
desiderio che l’amore sbocci sull’Isola, a diversi livelli di coinvolgimento e affetto, viene ulteriormente
approfondito nelle fan fiction». Sotto questa descrizione si trovava una lunga lista di relazioni sentimentali
presenti nella serie, identificate da nomignoli inventati dai fan. Tutti questi rapporti, da quelli etero a quelli
slash (che in gergo indica le fan fiction omosessuali) fino a quelli extratestuali, come la fusione dei producer
Damon Lindelof e Carlton Cuse nel nomignolo «Darlton», avevano a disposizione lo stesso spazio, senza
apparenti gerarchie all’interno dell’universo di Lostpedia.
Uno dei problemi quando si cerca all’interno di un wiki è che l’oggetto dell’analisi potrebbe essere in
perenne evoluzione. Il 2 gennaio del 2009 la pagina «Pairings» è stata trasformata senza una discussione
preliminare, quando uno degli amministratori ha rimosso tutte le relazioni non canoniche dando come
unica spiegazione: «Rimosse le relazioni auspicate dai fan. Paccottiglia non enciclopedica». Rimase un link a
una pagina riguardante i nomignoli creati dai fan, ma i contenuti erano decisamente ridotti. Questa modifica
dimostra come spesso un contenuto di un wiki possa apparire o sparire per via delle preferenze di un
singolo utente, piuttosto che in seguito a un dibattito o a un consenso, nonostante le politiche di un wiki
siano chiare: e spesso questi cambiamenti rimangono semplicemente perché nessuno, all’interno della
community, nota la modifica, o perché gli utenti danno per scontato che un amministratore parli a nome
dell’intera community, e non che abbia agito soltanto in base alle proprie preferenze. Benché qualsiasi wiki
si basi sul consenso della community degli editor, è importante rilevare che spesso le modifiche sono frutto
di uno status quo passivamente accettato, piuttosto che di un accordo consensuale, e che gli editor più attivi
e influenti possono scavalcare le opinioni di quelli meno potenti o costanti.
Sebbene da accademico non posso stabilire quale sia l’uso più corretto di certi strumenti, va detto che wiki
consente di fare interventi alla luce del giorno e perfezionabili. E poiché non ero d’accordo con la decisione
di eliminare dal sito le relazioni immaginarie, il 27 marzo del 2009 ho creato una pagina intitolata «Pairings

117
(fanon)», per ripristinare la «paccottiglia» che era stata rimossa, anche se in uno spazio a se stante come
richiesto dalle regole di Lostpedia. Nessun utente si è lamentato di questa modifica, e da allora ci sono state
più di una decina di aggiunte a quella pagina. Ho apportato questa modifica diretta in quanto fan e utente
attivo, spinto dalla mia analisi di certe pratiche: la mancanza di una reazione ci fa intuire quanto spesso le
pagine wiki siano il risultato di decisioni individuali, accettate passivamente, più che di una community
collaborativa. Lostpedia può essere usata per confrontarsi sia sul modo migliore di guardare la serie, sia
sull’uso appropriato dello stesso sito.
I lostpediani hanno comunque alcune regole fondamentali (ma aperte a migliorie) su come organizzare e
catalogare i diversi contenuti presenti sul sito, cosa che dà adito a discussioni che rispecchiano i tanti modi
in cui gli spettatori si approcciano alla serie: così, mentre i fan cercano di stabilire se Lost sia più una serie di
fantascienza, un fantasy o un’avventura melodrammatica, i lostpediani discutono su che tipo di informazioni
e creazioni Lostpedia debba accogliere o rifiutare. Lostpedia distingue le proprie pagine in base ai contenuti,
tra cui: contenuti convenzionali, teorie, fanon (contenuti creati dai fan) e parodie. Queste categorie sono
fondamentali per l’organizzazione di Lostpedia, ma i loro confini non sono affatto scontati.
Una pagina approvata di Lost deve passare una serie di revisioni significative: all’inizio, bisogna stabilire se è
ufficiale o meno, fatto che dipende dall’eventuale presenza dell’approvazione dei creatori del programma.
Dopo che l’ARG The Lost Experience e il romanzo Bad Twin hanno reso più labili i confini del mondo
narrativo, i lostpediani hanno cominciato a discutere sui diversi livelli di ufficialità. Un editor tra i più attivi
ha proposto una suddivisione di ispirazione cattolica in canonici, deuterocanonici, ex cathedra e apocrifi.
Nonostante la community abbia rifiutato questi livelli, sia perché complessi per i nuovi utenti, sia per via
delle connotazioni religiose, la discussione che ne è derivata ha costretto i lostpediani ad affrontare i
complessi concetti di narrazione, autorità transmediale e intenzionalità. Le regole riguardanti l’ufficialità
sono oggi molto più chiare, e dividono i contenuti su tre livelli, ufficiale, semi-ufficiale e non ufficiale,
lasciando l’ultima parola agli autori della serie, che siano soltanto sceneggiatori o anche producer: se viene
trasmesso dalla Abc o detto dai producer, è ufficiale. Di solito. Una delle conseguenze principali di questo
regolamento è quella di far apparire i contenuti ufficiali come lo standard tacito del sito, cosa che si confà
alla forma tipicamente enciclopedica di Lostpedia: una pagina ufficiale non ha bisogno di essere segnalata in
quanto tale, ma è semplicemente una delle centinaia di pagine dell’archivio di Lostpedia. Per contro, la
maggior parte delle altre informazioni contenute nel sito sono segnalate in quanto «anticonvenzionali», per
creare una chiara gerarchia tra le verità approvate dai creatori della serie e le para-verità create dai fan
(truthuness). Le più rispettate tra queste modalità anticonvenzionali sono le teorie: fin dalla sua nascita,
Lostpedia è stato il luogo di discussione delle possibili spiegazioni degli enigmi dell’isola, ricorrendo a diversi
modi di scindere i fatti obiettivi dalle speculazioni e dalle riflessioni teoriche. Lostpedia ha sempre
consentito ricerche e analisi originali, incorporando le informazioni dedotte dai fan all’attività enciclopedica
di raccolta, organizzazione e verifica delle informazioni ufficiali. I lostpediani cercano attivamente di
determinare le differenze tra le diverse tipologie di teorie. Alcune teorie condivise, come quelle sulla natura
dell’isola, si sono guadagnate una propria pagina, come la Teoria del Giardino dell’Eden o quella del Buco
Nero: a queste macro-teorie è richiesto che espongano prove convincenti e link a fonti esterne, a supporto
delle proprie idee e della propria verosimiglianza. Le pagine di discussione su queste teorie tendono a
diventare un corposo dibattito sui meriti e sulle incoerenze di queste idee, un modello di coinvolgimento
collettivo che molti studiosi indicano come uno tra gli aspetti più partecipativi ed elettrizzanti della cultura
dei fan. Per rinforzare la distinzione tra i «fatti» verificati e le congetture, è stata studiata un’architettura che
permetta di posizionare le teorie all’interno dell’archivio: il «theory tab», una sotto-pagina autonoma
connessa a ogni articolo che dà spazio alle possibilità anticonvenzionali. I lostpediani si impegnano affinché
questi spazi non siano semplicemente luogo di discussioni e speculazioni senza fine, ma ospitino tentativi
elaborati di proporre e provare interpretazioni. Il «theory tab» è stato creato alla fine del 2006 per trovare
una soluzione alle pagine singole che venivano sommerse di speculazioni e teorie, riducendo lo spazio per le
informazioni ufficiali. La discussione sul «theory tab» ha riconosciuto che la presenza di teorie non è

118
condivisa dagli altri wiki nati dopo Wikipedia, ma al contempo che è compenetrata alla natura di Lost e del
suo specifico bacino di utenza. Per molti versi, la creazione del «theory tab» è servita a rendere più ufficiali i
contenuti del sito approvati dagli autori. La struttura del sito è stata pensata per concedere spazio anche
alle produzioni dei fan e creare così una sezione di informazioni non ufficiali che aiuti, per contrasto, a far
apparire più ufficiali quelle autorizzate. Il regolamento del sito stabilisce quindi che le informazioni ufficiali
siano più importanti delle teorie: quando una teoria viene confutata, dalla smentita dei producer o da nuovi
eventi della serie, viene cancellata dal «theory tab».
La discussione sulle teorie va dritta al cuore della definizione di Lostpedia e dei wiki in generale. Un editor
attivo, quello che ha avuto l’idea del «theory tab», sosteneva che le teorie rischiavano di intralciare gli
obiettivi del sito: «A mio modesto parere, gli editor di un wiki dovrebbero essere degli archivisti piuttosto
che degli articolisti, altrimenti rischiamo di influenzare gli altri con le nostre opinioni. Ho notato che molti
nuovi editor non fanno altro che modificare le teorie». Altri utenti hanno un approccio più pluralista e
includono le teorie nel campo di interesse di Lostpedia, considerato che dopo ogni episodio sono più le
modifiche alle teorie che le aggiunte alle informazioni ufficiali, e che non tutti gli utenti usano il sito come se
fosse un’enciclopedia. Per i producer di Lost così come per i fan, il sito Lostpedia è soprattutto un archivio di
informazioni neutrali, implementato (e reso meno affidabile) da un certo numero di speculazioni e teorie
arbitrarie. Per molti versi l’attrito tra i contenuti neutrali e quelli arbitrari di Lostpedia deriva dalla differenza
con Wikipedia, che è l’applicazione più nota del software wiki: non c’è un motivo intrinseco alla piattaforma
per cui essa debba essere usata più per documentare che per speculare, e molti wiki vengono d’altronde
usati per dar vita a creatività collaborativa, a brainstorming collettivi e altre attività che vanno oltre la
raccolta e l’organizzazione di materiale neutro. Ma alla maggior parte delle persone la parola wiki fa pensare
a Wikipedia e al suo ipotetico modello di scrittura. Questo legame tra i wiki e le enciclopedie è alimentato
dal nome di Lostpedia, che del nome composto di Wikipedia riprende il suffisso oggettivo -pedia piuttosto
che il prefisso collaborativo wiki-; benché il nome e la piattaforma scelta richiamino l’obiettività di
un’enciclopedia, le pratiche orientative di Lostpedia comprendono una gamma di produzioni creative e
analitiche molto più vasta di quella della maggior parte dei wiki stile Wikipedia.
Lostpedia concede ampio spazio a contributi di tipo creativo e speculativo. Inizialmente il sito accoglieva
pagine dedicate alle parodie, e permetteva agli editor di creare pagine che trasgredivano molte convenzioni
di Lostpedia e della serie stessa. Una delle mie pagine preferite tra queste era «Box», una teoria parodistica
secondo la quale una scatola di cartone realizzata dall’azienda di Hurley era la potente entità che aveva
generato tutti gli enigmi dell’isola: la pagina documentava ogni scena della serie in cui era apparsa una
scatola e riportava suggerimenti misteriosi come «Damon Lindelof e Carlton Cuse hanno descritto uno dei
nuovi personaggi chiave della terza stagione definendolo “cubico, cavo, marroncino e corrugato”». Questa
pagina ha affrontato una crisi mistica durante la terza stagione, quando Ben Linus fa riferimento a una
«scatola magica» che gli ha permesso di trasportare il padre di Locke sull’isola: gli editor hanno dovuto
differenziare i link alla «Box» per scindere la scatola magica davvero nominata dalla serie da quella
parodistica di Lostpedia, mentre alcuni editor hanno pensato che il riferimento di Ben alla scatola fosse un
ammiccamento dei producer rivolto alla stessa Lostpedia, una teoria che però non è mai stata confermata.
Nell’estate 2007 Lostpedia ha però cambiato idea sulle parodie. Dopo l’apparizione di parecchie pagine
parodistiche sempre meno entusiasmanti, la community si è chiesta come gestire le parodie malriuscite e se
accogliere le parodie fosse controproducente. . Il web era pieno di contenuti prodotti da fan, come video,
fan fiction, parodie e siti non ufficiali, e anche per questo Lostpedia ha rimosso tutte le pagine dedicate a
contenuti creati dai fan, inclusa «Box». Quest’azione è coerente con il ruolo di Lostpedia in quanto paratesto
orientativo, che può segnalare le produzioni creative ma non ospitarle direttamente. Non dobbiamo però
considerare questa decisione come un disconoscimento dell’architettura propria di un wiki, che è fatta per
consentire la creatività collaborativa. Una pagina creativa che non è stata cancellata è «Jackface», una
galleria di immagini di Matthew Fox, l’attore che interpreta Jack Shephard, immortalato in espressioni sopra
le righe. «Jackface» contiene la creatività in modo «wikificato», poiché la community ha stabilito le norme

119
per decidere quali sono i requisiti di una Jackface e apprezza collettivamente questa selezione. Lostpedia
permette inoltre una modalità di scrittura che potremmo considerare non-fiction creativa, con la
giustificazione che questo sguardo «non-finzionale» è comunque rivolto al mondo narrativo finzionale di
Lost. Ad esempio, le pagine catalogate con nomi da espedienti letterari, quali «Archetype», «Plot Twist» e
«Symbolism», propongono analisi originali che isolano alcuni elementi della serie per dimostrarne l’uso
specifico di alcuni strumenti dello storytelling: questo tipo di ricerca originale è severamente vietato su
Wikipedia, cosa che rivela come Lostpedia possa funzionare in modo molto diverso da un’enciclopedia.
Uno degli esempi più interessanti di questo tipo di ricerca collaborativa è la pagina «Economics». Abbozzata
nel giugno 2006 da un dottorando in economia, la pagina era inizialmente una tesina che analizzava il modo
in cui la distribuzione delle risorse sull’isola rispecchiava diversi modelli economici. Decine di editor
accorsero ad ampliare, approfondire e ripensare l’articolo originale, che alla fine del 2006 venne premiato
come «Featured Article of the Week», portando per la prima volta una pagina così analitica e non
enciclopedica a essere ospitata dalla homepage del sito. . La pagina «Economics», come altre pagine
analitiche di Lostpedia, non è etichettata come materiale non convenzionale. Quest’anomalia è stata notata
a luglio del 2007 da un fan appena unitosi a Lostpedia: «Perché viene considerata un’analisi? Perché può
essere usata? Una “analisi” come quella di “Economics” non è materiale neutrale (non credo che la parola
“socialismo” occorra mai nella serie), bensì materiale creato dai fan e basato sul materiale neutrale, anche
se non ne fa parte. Dopotutto, non è che tutti i prodotti dei fan debbano essere per forza inverosimili o
stravaganti». Sono trascorsi anni senza che nessuno gli rispondesse, fatto che rivela che distinguere l’analisi
dal materiale neutrale è molto meno prioritario, per i Lostpediani, che circoscrivere ed eliminare materiale
più esplicitamente creativo come parodie e fan fiction. a la community di Lostpedia sembra aver adottato
una gerarchia di valori ipotetici, permettendo la possibilità di ricerche, analisi e teorie, ma mantenendo una
distinzione che privilegia i contenuti ufficiali rispetto alla creatività esplicitamente arbitraria, una distinzione
sicuramente connessa alle differenze di genere (gender) rilevate da Toton e altri studiosi.

La duplice attività di Lostpedia, in quanto catalogo di informazioni e al contempo luogo di creatività, ha


trovato un interessante punto di sinergia nell’estate 2006 in The Lost Experience. Ovviamente la fusione tra
vita reale e universo finzionale faceva parte dell’appeal del gioco, una fusione disorientante che ha
contaminato Lostpedia. Una parte fondamentale di The Lost Experience era la caccia ai settanta elementi
che componevano un codice che, digitato in un sito, permetteva di accedere a un video con informazioni
chiave sullo stesso ARG e sul progetto DHARMA. Questi elementi erano perlopiù glifi grafici nascosti
all’interno di un certo numero di siti online o posizionati in luoghi fisici. In agosto, il «burattinaio» dell’ARG
aveva contattato un certo numero di siti creati dai fan, compreso Lostpedia, affinché inserissero questi glifi
grafici. Quando gli è stato chiesto di inserire un glifo in Lostpedia, l’amministratore Kevin Croy mi ha
contattato affinché mi occupassi di gestire la questione Lost Experience. Insieme, e attenendoci ai protocolli
wiki, abbiamo concepito un rompicapo che ripagasse i lostpediani più dediti al sito regalando loro un glifo
grafico. il rompicapo vero e proprio iniziò quando scoprirono che su Lostpedia aveva cominciato a postare
un nuovo utente chiamato proprio Rachel Blake. Una volta che il glifo fu trovato, un lostpediano commentò
sulla pagina di Blake: «Tutto ciò è elettrizzante! È come se Lostpedia mi stesse premiando! :-)» Il modo in cui
abbiamo collocato il materiale su Lostpedia infrangeva probabilmente il regolamento della community sulla
distinzione tra materiale ufficiale e non, un regolamento che sia i giocatori sia gli amministratori hanno
felicemente ignorato. Questo evento non ha soltanto creato un’interessante circolo virtuoso, nel quale mi
sono ritrovato a essere contemporaneamente ricercatore, giocatore ARG, membro della community e
burattinaio, ma dimostra anche come il guscio enciclopedico di Lostpedia possa essere penetrato per creare
una nicchia di intrattenimento ludico senza che il sito smetta di risultare, dall’esterno, una fonte di
informazioni autorevoli su Lost. Nonostante Lostpedia privilegi la neutralità, rispettando l’autorità dei
creatori di Lost, il sito mette anche a disposizione molto spazio per i contenuti non autorizzati, per gli
esperimenti creativi e per le produzioni non catalogabili. È impressionante la capacità del sito di discutere
collettivamente di diversi ambiti del fandom: shippers e archivisti, teorici e videoamatori. La piattaforma
120
consente di ripensare costantemente le proprie regole e i propri parametri, e i lostpediani la usano per
inserire contenuti non appropriati sul sito principale. . Per quanto le gerarchie e le attitudini del sito siano
importanti, esse sono fluide e in costante cambiamento (persino dopo la conclusione della serie, nel 2010),
e cambiano forma man mano che la community si evolve. E per quanto le gerarchie tra usi, coinvolgimenti e
identità persistano nelle varie sfere del fandom, le possibilità strutturali di wiki come Lostpedia
costituiscono un luogo para-testuale nel quale le differenze possono essere appianate modifica dopo
modifica.

Orientamento e penetrabilità: il fandom investigativo


Nel caso delle serie tv si riscontra un diverso tipo di coinvolgimento online: mentre i video virali diventano
effimeri successi tramite una condivisione esponenziale, le serie tv si diffondono grazie al proselitismo di
quei fan che vogliono trascinare i propri amici nelle proprie ossessioni narrative. E, anche se reso spalmabile
dalla distribuzione online il materiale riguardante le serie tv rimane di solito più collegato alla serie da cui è
tratto di quanto non lo siano quei contenuti tipicamente spalmabili, come i paratesti e le produzioni creative
dei fan. Per descrivere il coinvolgimento degli spettatori nei confronti delle serie complesse abbiamo
bisogno di ricorrere a un’altra metafora, pensando alla penetrabilità (drillability) di questi oggetti culturali,
piuttosto che alla loro spalmabilità (spreadability). Le serie tv complesse, infatti, invogliano i fan investigativi
a penetrare la superficie per comprendere la complessità del plot e dello storytelling.
Parlare metaforicamente di «penetrabilità» farebbe pensare che gli spettatori scavino per scoprire qualcosa
che si trova già lì, sotterrato, ma molto spesso il fandom investigativo si dedica ad analisi che propongono
uno sguardo alternativo sulla serie, che non tenga conto delle intenzioni degli ideatori, come nel caso della
Teoria di Tommy Westphall o delle analisi dei personaggi ispirate a Dungeons & Dragons: questo tipo di
paratesti penetra nella serie per ampliare il terreno dell’esperienza narrativa, senza che il risultato finale
aiuti lo spettatore a orientarsi. i fan dei prodotti culturali seriali hanno sempre investito molte energie
nell’analisi e nella documentazione dei media franchise, da Sherlock Holmes a Star Wars. Ciò che differenzia
i casi più recenti sono gli strumenti digitali che hanno permesso ai fan di unire i propri sforzi e il fatto che i
network stessi chiedano agli spettatori di prestare maggiore attenzione e di mettere insieme i loro puzzle
narrativi. Inoltre, oggi molte serie tv distribuiscono il proprio materiale narrativo su diversi formati mediali,
dando la possibilità e a volte imponendo agli spettatori di ricorrere a media diversi per comprendere
appieno i loro universi narrativi. Più aumenta la profondità, minore è il numero dei fan coinvolti, che
dimostrano però un impegno maggiore nella strutturazione di teorie sul mondo narrativo e sui suoi sviluppi,
o nella discussione delle rappresentazioni politiche o sociali di una serie. Questo tipo di penetrazione
dell’oggetto culturale richiede concentrazione e attenzione, e lo rende il campo d’azione dei fan più accaniti
e dediti: Battlestar Wiki conta quasi ottomila utenti registrati, anche se soltanto una parte contribuisce
attivamente al sito, costituendo una piccola nicchia all’interno dei milioni di spettatori della serie. Una serie
complessa in cui tutti gli aspetti della narrazione sono collegabili tra loro può comunque innescare una
gemmazione simile a quella dei video virali su YouTube. Un esempio lo si trova nella quarta stagione di
Battlestar, nel corso della quale uno dei personaggi si suicida senza alcun preavviso. I fan investigativi hanno
colto l’occasione per studiare i motivi e le conseguenze dell’evento, mentre un solo fan ha visto in esso un
elemento «spalmabile». Il fan in questione ha così postato su YouTube un video intitolato «Worst
Commercial Placement Ever», nel quale si vede prima la scena che sfocia nel suicidio, e che finisce con il
corpo della suicida in una pozza di sangue, seguita da una pubblicità della televisione canadese, in cui dei
cracker cadono in stop motion in una zuppa di pomodoro (che ricorda inevitabilmente il sangue) generando
un fiotto rosso, il tutto coronato da una canzoncina allegra che dice «I just want to celebrate another day of
living!» Questo video era adeguato agli standard di YouTube, perché era un momento di umorismo efficace
e involontario e non richiedeva alcuna conoscenza della serie: non sorprende che sia stato visto più di
250.000 volte e segnalato da molti blog e in diversi social network. E quando il video fu bloccato per aver
infranto il copyright i fan lo ripostarono in diverse copie per far procedere la diffusione.
Bisogna considerare spalmabilità e penetrabilità come vettori complementari del coinvolgimento culturale. I
121
media spalmabili incoraggiano una diffusione orizzontale, che non va di pari passo con un coinvolgimento a
lungo termine. I media penetrabili solitamente interessano un numero molto ridotto di persone, ma
chiedendogli più tempo ed energie nel processo di approfondimento verticale della loro complessità. È
necessario abbandonare qualsiasi pretesa di giudizio di valore o gerarchizzazione delle due modalità, e
considerarle entrambe come forme legittime di coinvolgimento culturale, più o meno adeguate a seconda
dei contesti e degli scopi dello spettatore, nonché rimanere aperti all’ipotesi di altre modalità. Dal momento
che la televisione è sempre stata considerata un mezzo cui dedicare un’attenzione passiva, è normale che la
diffusione di programmi che richiedono paratesti ed espansioni non soddisfi le aspettative di molti
telespettatori. Riconoscere le potenzialità specifiche delle serie complesse non significa sostenere che siano
migliori di quelle convenzionali, ma sottolineare in che modo abbiano ampliato il ventaglio delle modalità di
coinvolgimento e alimentato quel tipo di fandom investigativo che sembra essere un elemento
fondamentale della televisione contemporanea.

CAP 9
TRANSMEDIA STORYTELLING

Poche forme di racconto possono eguagliare la televisione seriale in termini di respiro e ampiezza narrativi.
In tv, un universo narrativo può andare avanti per anni. Anche le serie meno seguite vanno in onda per un
tempo relativamente lungo. Tra tutte le difficoltà che i creatori di fiction televisive devono affrontare, la
carenza di tempo dello schermo raramente è un problema. nel ventunesimo secolo sono emerse estensioni
narrative innovative che vanno sotto il nome di transmedia storytelling, una pratica che espande
sensibilmente la portata di una serie televisiva in una gamma di altri media, dai libri ai blog, dai videogiochi
ai puzzle. Per comprendere il fenomeno della tv transmediale è necessario esaminare le strategie messe in
atto da diverse serie, considerarne le motivazioni e analizzare le tattiche impiegate dagli spettatori per
venire a capo di questa vastità seriale espansa. e. Anche se il termine è nuovo, la strategia di espandere una
narrazione su altri media è vecchia quanto i mezzi di comunicazione. Anche agli albori della televisione
venivano impiegate strategie transmediali. Uno dei primi successi televisivi, Dragnet, adottava una
molteplicità di media: la serie, derivata da un programma radiofonico meno famoso, ha generato romanzi,
un film, una colonna sonora di successo, vari giocattoli (un gioco da tavolo, un distintivo da poliziotto e un
fischietto), e persino una riedizione televisiva, nei tardi anni Sessanta, dell’originale degli anni Cinquanta. Le
innovazioni tecnologiche hanno aperto nuove strade all’espansione degli universi narrativi: piattaforme
digitali come i video online, i blog, i videogiochi, i supplementi in dvd, e nuovi formati come i giochi ARG. I
producer usano i social network per coinvolgere gli spettatori e dar vita, attraverso questo dialogo, a
espansioni narrative e alle cosiddette esperienze second screen. A causa delle trasformazioni dell’industria,
inoltre, il numero di spettatori per i singoli programmi si è ridotto, mentre è aumentato il numero di canali e
case di produzione in competizione tra loro: in un palinsesto sempre più intasato, sperimentare strategie
transmediali nuove è un modo per farsi notare e per fidelizzare gli spettatori. Nonostante la crescente
onnipresenza della transmedialità, non bisogna fare confusione tra le estensioni transmediali in generale e
quelle invece peculiari del transmedia storytelling. Quasi tutti i prodotti mediali oggi propongono una
qualche forma di estensione transmediale, come siti web promozionali, prodotti di merchandising o
materiali sul «dietro le quinte»: questi prodotti si presentano come paratesti del testo base, sia esso un film,
un videogioco o una serie tv. Nel momento in cui un qualsiasi testo entra in circolazione diventa parte di una
rete intertestuale complessa. Come sostiene Jonathan Gray, in questa era satura di medialità non possiamo
considerare nessun testo separatamente dai suoi paratesti. Ciononostante, è necessario fare una
distinzione, seguendo le indicazioni di Gray: da un lato, quei paratesti che servono principalmente a
pubblicizzare, promuovere, presentare e discutere un testo, dall’altro quelli che fungono da espansioni
continuative della narrazione. . A questi aggiungerei una terza categoria, definendo paratesti orientativi
quelli che aiutano gli spettatori a comprendere una narrazione.

122
«Il transmedia storytelling è un processo in cui gli elementi essenziali di una fiction sono sistematicamente
disseminati su diversi canali, con l’obiettivo di creare un’esperienza di intrattenimento unificata e
coordinata. Idealmente, ogni medium dà il proprio personale contributo allo svolgimento della storia».

Se da un lato c’è il modello ideale della transmedialità equilibrata di Jenkins, in cui nessun medium o testo
ricopre una funzione primaria rispetto agli altri, nella realtà è più comune un modello di transmedialità
sbilanciata, che presenta un testo base chiaramente identificabile e una serie di estensioni transmediali
periferiche, più o meno integrate nella narrazione. Ad esempio, la maggior parte dei programmi televisivi di
prime time funziona da testo base rispetto al proprio franchise transmediale. Il caso di Agents of S.H.I.E.L.D.
è in questo senso piuttosto insolito, poiché presenta un approccio più equilibrato, in cui fumetti e film
ricoprono di volta in volta un ruolo centrale nella narrazione. Nella tv seriale il rapporto gerarchico tra i testi
è un elemento molto importante sia per le logiche industriali che per quelle narrative. Il modello di core
business della televisione commerciale americana è basato sulla capacità di attrarre spettatori verso un
programma, aggregarli in segmenti di audience misurabili e vendere questo bacino di utenti agli inserzionisti
in base agli indici di ascolto. Anche se oggi l’industria televisiva si sta spostando verso metodi più flessibili di
misurazione del coinvolgimento degli spettatori, per una serie tv è ancora fondamentale avere dati di
ascolto alti, perché si suppone che siano questi a garantire gli introiti necessari a finanziare tanto il prodotto
televisivo quanto le sue incursioni nei territori della transmedialità. Quella regola dell’industria, per la quale
è prioritario preservare e rafforzare il core business di un prodotto televisivo commerciale, produce inoltre
un vincolo creativo: ogni elemento transmediale deve proteggere la «nave ammiraglia», termine usato da
Damon Lindelof e Carlton Cuse, i producer di Lost, per definire la serie tv che è il cuore della loro armata di
estensioni transmediali. Dal punto di vista dell’industria, alcune estensioni transmediali possono anche
generare introiti extra, ma la loro funzione primaria resta quella di attrarre gli spettatori verso la serie
televisiva; dal punto di vista dei creatori, il transmedia storytelling deve sempre sostenere e rafforzare
l’esperienza narrativa principale, quella televisiva. Si tratta di obiettivi particolarmente importanti nel
formato seriale, dove gli intervalli tra gli episodi e tra le stagioni danno agli spettatori il tempo di distrarsi:
sono in molti, nell’industria televisiva, a considerare la transmedialità come un modo per mantenere viva
l’attenzione degli spettatori durante questi intervalli periodici. Quest’obbligo rende incompatibile l’ideale di
Jenkins di una transmedialità equilibrata con la realtà dei fatti: gli sceneggiatori televisivi sono costretti a
privilegiare il testo principale, creando esperienze che gli spettatori devono poter vivere in una serie di modi
diversi, nessuno dei quali deve mai mettere a rischio il loro coinvolgimento con il testo originario, a
prescindere dal fatto che siano al corrente dell’esistenza di estensioni paratestuali. La difficoltà di gestire lo
scarto tra i diversi livelli di coinvolgimento è ben rappresentata da uno dei casi analizzati in questo capitolo,
e che riguarda Lost: la serie mette in atto un’ampia gamma di strategie transmediali, mantenendo il duplice
obiettivo di proteggere il testo principale, per non disorientare gli spettatori che guardano soltanto la
televisione, e di gratificare i fan che invece consumano anche i prodotti transmediali. Nell’altro caso studio
di questo capitolo, Breaking Bad, ci imbattiamo in un diverso approccio ai paratesti, poiché la serie si
rapporta diversamente alla canonicità e alla continuità narrativa, mostrando i diversi modi in cui funziona il
transmedia storytelling in un universo narrativo espanso. Ma prima di analizzare questi casi nel dettaglio, è
importante fornire una mappatura di alcuni primi esperimenti transmediali nella storia della televisione, per
chiarire cosa si intende per storytelling quando si parla di transmedialità.

Precedenti di televisione transmediale

Nella tv complessa, personaggi e ambientazioni sono trattati in modo cumulativo e coerente all’universo
narrativo, in cui tutto ciò che succede e ogni personaggio che vediamo fanno parte di un mondo narrativo
persistente. Come ribadito più volte, questa persistenza cumulativa è una delle caratteristiche principali che
distinguono lo storytelling seriale da quello delle serie episodiche: un drama o una sitcom a episodi possono
avere gli stessi personaggi e lo stesso mondo narrativo, ma i personaggi raramente ricordano gli eventi
precedenti e la continuità tra gli episodi è ridotta al minimo necessario, consentendo così agli spettatori di
123
guardare la serie a intermittenza e senza tener conto della cronologia. La diffusione della tv transmediale e
l’espansione della serialità complessa hanno reso più articolata la questione del canone cumulativo,
mettendo i producer di fronte al problema di come collocare i paratesti transmediali rispetto al testo
principale che occupa il centro della narrazione. In questo senso troviamo precedenti importanti in alcuni
dei casi storici di televisione transmediale, che proponevano libri e videogiochi abbinati ai programmi. i libri
sono da tempo utilizzati come paratesti dei media audiovisivi. Generalmente, però, la loro funzione è quella,
risibile, di supplementi superflui, piuttosto che di contenuti transmediali integrati. I libri più comunemente
associati ai film sono adattamenti romanzeschi, ovvero ripetizioni dirette degli eventi, dei personaggi e delle
ambientazioni come mostrati in precedenza sullo schermo, e sono di solito prodotti mediocri e
standardizzati, adatti a un mercato di massa. Anche se questo genere di adattamenti letterari è lontano dal
modello di transmedia storytelling coordinato e diffuso concepito da Jenkins, spesso questi romanzi
aggiungono elementi al mondo narrativo colmando alcune lacune della storia. Nel caso delle serie tv
adattamenti veri e propri, che ripropongano quindi le storie trasmesse sullo schermo, sono molto più rari,
se non per alcuni classici di culto. Molti episodi della versione originale degli anni Sessanta di Doctor Who e
Star Trek, per esempio, sono stati adattati in forma letteraria. Nel caso di questi franchise televisivi, e in
alcuni esempi cinematografici come Star Wars, i romanzi possono entrare a far parte del mondo narrativo
canonico, e dettagli e personaggi che sono stati approfonditi nei romanzi possono a volte apparire sullo
schermo in episodi successivi. La forma narrativa delle serie tv si adatta a un altro tipo di supplemento
letterario, quello in cui il libro funziona come nuovo episodio. Questo approccio ha senso per programmi ad
alto tasso di episodicità, in cui i personaggi e le ambientazioni consolidate possono accogliere nuovi eventi
narrativi senza bisogno di tenere sotto controllo i confini canonici. Ad esempio, procedural come Dragnet, Il
tenente Colombo o CSI danno spesso vita a questo tipo di romanzi. Le singole trame sono spesso irrilevanti
per la continuità generale, e di conseguenza le questioni legate al canone contano poco. Anche nell’ambito
della fantascienza i romanzi legati alle serie sono abbastanza diffusi, ma le questioni di canone in questo
caso sono più spinose. Sono state pubblicate decine di romanzi che mostravano nuovi episodi dello Star
Trek originale, oltre alla riproposizione romanzesca dei contenuti della serie tv. I creatori del franchise li
consideravano perlopiù come prodotti non canonici, eppure molti fan li hanno accolti con favore. Le
estensioni romanzesche delle serie più recenti spesso si collocano in una zona semi-canonica e quindi
problematica: il team creativo del programma le approva, ma allo stesso tempo queste estensioni non sono
del tutto integrate nella macrostoria della serie. Uno di questi casi è quello di 24, i cui romanzi di solito
anticipano la continuità del programma, raccontando storie tratte dal passato dei personaggi, o di Buffy, di
cui sono stati pubblicati sia adattamenti romanzeschi delle puntate trasmesse in tv, sia nuovi episodi (in
forma di romanzo e di fumetto), che esplorano la mitologia del programma in un vasto arco temporale.
Questi prodotti di solito sono indipendenti dai creatori del programma, ma sono comunque basati su bozze
narrative approvate dagli showrunner e dalla produzione. In casi eccezionali, è invece il producer di un
programma a pubblicare supplementi canonici. Per esempio, il creatore di Buffy Joss Whedon ha scritto una
serie di fumetti, diventata famosa come la «Stagione 8», che porta avanti la continuità della serie dopo la
sua cancellazione. Capita anche che le estensioni letterarie di programmi di successo diventino piuttosto
popolari. Mentre i fan di norma valutano le estensioni letterarie per la loro capacità di catturare il tono,
l’ambientazione e i personaggi del testo principale, il genere di transmedia integrati che Jenkins tratta
nell’esempio del franchise di Matrix è più focalizzato sugli eventi narrativi: un modello in cui la trama risulta
distribuita tra vari media. Poche serie tv hanno provato a creare estensioni transmediali che offrano un
livello di integrazione canonica tale per cui il fruitore, per comprendere appieno, debba conoscere eventi
narrativi interconnessi veicolati da media diversi. Il motivo è certamente legato alle esigenze di un sistema
televisivo che dipende dagli incassi ottenuti dalla vendita di audience agli inserzionisti pubblicitari, e che
una transmedialità «obbligatoria» potrebbe inficiare.
L’opinione diffusa (e fallace) che la tv sia un mezzo disimpegnato e passivo costituisce un deterrente per gli
esperimenti che richiedono agli spettatori uno sforzo maggiore che stare semplicemente seduti a guardare

124
un episodio. Le narrazioni complesse hanno invece dimostrato che gli spettatori sono disposti a farsi
coinvolgere attivamente da un tipo di televisione impegnativa, e di conseguenza i producer hanno
sperimentato forme di storytelling transmediale più integrate a livello di canone.
Uno dei primi esempi di libro canonicamente integrato risale alla serie Twin Peaks: si tratta della
pubblicazione del Diario segreto di Laura Palmer nel 1990, tra la prima e la seconda stagione. Il volume,
scritto da Jennifer Lynch, figlia del regista David e coautrice della serie, appartiene a un genere peculiare di
transmedia: è un’estensione diegetica, ovvero un oggetto appartenente al mondo narrativo che viene
immesso nel mondo reale. Di solito le estensioni diegetiche sono oggetti che non hanno molto peso
narrativo. Il Diario segreto era una riproduzione del diario di Laura come veniva mostrato nella serie, con
alcune pagine strappate per nascondere elementi narrativi cruciali ancora da svelare, cosa che lo rendeva
allo stesso tempo un oggetto della serie e un primo esperimento di transmedia storytelling integrato. Il
diario, che ebbe un certo successo commerciale quando Twin Peaks era all’apice della sua popolarità, dava
numerosi indizi riguardo l’omicidio e il passato segreto di Laura. Se è vero che lo spettatore non doveva
necessariamente leggerlo per sciogliere la trama del programma, il diario forniva informazioni canoniche
rilevanti sulla storia, sugli eventi e sui personaggi, materiale che è stato poi esplorato nel prequel Fuoco
cammina con me. Dopo il diario sono stati pubblicati altri due libri diegetici connessi alla serie,
un’autobiografia dell’agente Dale Cooper, trascritta dalla sua segretaria Diane, e una guida turistica della
città di Twin Peaks, ma nessuno dei due ha avuto particolare successo.
Le estensioni diegetiche non sono necessariamente garanzia di transmedialità integrata: possono anche
essere non-canoniche. Per esempio, nel caso della Signora in giallo. Diversamente dai romanzi diegetici, che
nella serie tv sono considerati del tutto finzionali, i romanzi pubblicati nel mondo reale hanno come
protagonista la stessa Jessica Fletcher, nei panni di scrittrice di gialli che risolve crimini, fattore che li rende a
tutti gli effetti dei nuovi episodi della serie. Allo stesso tempo, mostrando il marchio autoriale della Fletcher,
i libri funzionano anche da estensioni diegetiche, benché tutto ciò generi una certa confusione riguardo ai
confini tra i personaggi della serie tv, quelli dei romanzi e quelli dettati dall’autorialità. Ma evidentemente,
visto l’enorme successo sia della serie televisiva sia di quella letteraria, i fan della Signora in giallo non
avevano tanto a cuore la coerenza canonica, e piuttosto consumavano la serie attraverso i diversi media per
una coerenza di tono e personaggi familiari, rispettando le regole del genere mystery.
Questo esempio dimostra che il successo di una serie può essere misurato in molti modi diversi, non
soltanto se risponde alla definizione integrata di Jenkins.
I videogiochi basati sulle serie tv hanno una storia più recente di quella dei romanzi, ma costituiscono un
altro ottimo esempio delle strategie e delle difficoltà della televisione transmediale. Anche in questo caso
non si tratta di fenomeni nati nel ventunesimo secolo. Per non parlare dei giochi da tavolo, ancora più
antichi. Ma nel caso delle serie tv più recenti stanno emergendo nuove strategie rivolte ai videogiochi,
nuove nel modo in cui trattano i personaggi, gli eventi e l’universo narrativo, nonché la questione del
canone. E sebbene la maggior parte di questi giochi non faccia parte di campagne di narrazione
transmediale più vaste, essi rivelano comunque quanto sia difficile estendere una serie continuativa su
diversi media. Quasi tutti i videogiochi connessi a serie tv mettono in primo piano il mondo narrativo del
proprio franchise televisivo originale, permettendo ai giocatori di esplorare l’universo che in precedenza
hanno visto soltanto sullo schermo.
Quasi tutti i videogiochi connessi a serie tv mettono in primo piano il mondo narrativo del proprio franchise
televisivo originale, permettendo ai giocatori di esplorare l’universo che in precedenza hanno visto soltanto
sullo schermo. Le ambientazioni possono essere le più diverse. I prodotti che hanno più successo sono di
solito quelli che ricreano gli universi delle serie tv mettendo in scena mondi narrativi vividi e immersivi.
Attraverso la ricostruzione spaziale, questo tipo di giochi non fornisce informazioni narrative importanti: un
criterio chiave che i fan usano per valutarne la qualità è l’accuratezza con cui ricreano l’universo narrativo e
il grado di coerenza rispetto ai luoghi che gli spettatori hanno imparato a conoscere negli anni guardando la
serie. In questo modo, questi giochi funzionano da mappe interattive. Nei videogiochi connessi alle serie il

125
trattamento dei personaggi presenta maggiori difficoltà. Se l’animazione digitale consente agli sviluppatori
di ricostruire le ambientazioni televisive in modo dettagliato e fedele, la creazione di personaggi solidi e
coinvolgenti rappresenta ancora una sfida tecnica: è un aspetto in cui i giochi sono nettamente indietro
rispetto alle produzioni televisive. Uno dei problemi ricorrenti deriva dal fatto che nei videogiochi i
personaggi non sono doppiati dagli attori cui sono ispirati, cosa che contribuisce ad aumentare la distanza
tra il personaggio televisivo e il suo avatar. Il legame più profondo che si instaura tra un fan e una serie tv è
con tutta probabilità l’affetto che questi prova per i personaggi: di solito un videogioco che non riesce a
riprodurre un personaggio respinge i fan della serie. Ma anche quando sono coinvolti gli attori originali, i
giocatori trovano comunque limitate le versioni virtuali dei personaggi, che ne riducono la profondità a
pochi tic, o a una gamma ristretta di azioni. Per esempio, nel gioco Buffy the Vampire Slayer: Chaos Bleeds è
possibile scegliere di usare diversi personaggi della serie, ma per il resto non rimane che esplorare la
Sunnydale virtuale, combattere i mostri e fare qualche battuta. Per i fan di Buffy si tratta di una
semplificazione drastica di personaggi che amano e che sentono di conoscere personalmente. I giochi
autorizzati attraggono i consumatori perché assecondano il desiderio dei fan di indossare i panni del proprio
personaggio televisivo preferito, ma probabilmente nessun videogame è mai stato in grado di ricreare il
piacere di passare del tempo con i personaggi di una serie tv. Spesso, per ovviare alla distanza tra il
personaggio televisivo e quello del gioco, si sposta l’attenzione su un nuovo protagonista, inserito in un
universo narrativo già consolidato. Per esempio, in Road to Respect, il videogame ispirato ai Soprano, il
giocatore incarna Joey LaRocca, il figlio del defunto gangster Big Pussy, un personaggio del tutto inedito. Nel
gioco si esplorano i luoghi del New Jersey finzionale della serie tv, come il Bada Bing e la macelleria Satriale,
e si interagisce con protagonisti come Tony, Christopher e Paulie Walnuts. Anche se Joey è un personaggio
nuovo, e dunque non ha la responsabilità di rispecchiare una versione televisiva, l’azione del gioco riduce la
portata dello storytelling alla vita violenta di un mafioso, eliminando l’interazione tra le due «famiglie» di
Tony, che poi è uno degli elementi che hanno reso la serie una pietra miliare della televisione. Che mettano
in scena figure nuove o meno, i videogiochi sono comunque caratterizzati da una semplificazione dei
personaggi, nonostante espandano l’universo narrativo originale, rendendolo immersivo. I personaggi dei
transmedia soffrono spesso di mancanza di fedeltà all’originale, ma è un terzo elemento, quello degli eventi
della storia, ad avere il rapporto meno chiaro con il materiale di partenza. I videogiochi generalmente
seguono le due opzioni che abbiamo identificato per i romanzi riguardo a quali eventi narrativi saranno
raccontati. La prima è la riproposizione degli eventi del materiale di partenza, che permette ai giocatori di
partecipare al nucleo narrativo originale. Questa strategia si trova spesso nei prodotti legati ai film: per
esempio, la maggior parte dei giochi derivati da franchise come Il signore degli anelli e Toy Story rispetta
perlopiù gli eventi narrativi dei film originari. Ma devo ancora trovare un gioco basato su un programma
televisivo che utilizzi una strategia di riproposizione narrativa paragonabile all’adattamento romanzesco. I
videogiochi legati ai prodotti televisivi fungono più spesso da nuovi episodi della serie, mostrando eventi
che in teoria potrebbero verificarsi nel corso della narrazione televisiva, ma che in pratica non sono
avvenuti. Così i giochi di 24 e di Alias. Nei casi peggiori, questi «nuovi episodi» non sono altro che giochi
convenzionali, che ripropongono le dinamiche stereotipate dei giochi di spionaggio o di azione, con qualche
richiamo al mondo diegetico e ai personaggi di una serie televisiva, ma niente di più. Nel migliore dei casi,
per esempio il gioco di The Walking Dead, i media connessi ai prodotti televisivi offrono nuove storie
ricavate da un mondo narrativo consolidato, che permettono ai giocatori di esplorare questo universo e di
interagire con i suoi personaggi. In tal senso, le operazioni ben riuscite sono piuttosto rare.
In genere i videogiochi legati ai prodotti televisivi non funzionano pienamente come forme di transmedia
storytelling. Nessun gioco derivato da una serie tv fornisce un reale appagamento narrativo integrato. Il
legame con il canone della serie è sempre superficiale, non significativo. Non credo che ciò dipenda da una
qualche lacuna del videogioco in sé come medium. Molti giochi propongono esperienze narrative efficaci,
personaggi profondi e ricchi di sfumature, e trame avvincenti. L’esempio del franchise di Matrix riportato da
Jenkins dimostra inoltre quanto un videogioco possa contribuire alla narrazione canonica. Il fatto che non

126
esista un gioco basato su un prodotto televisivo che sia efficacemente integrato alla narrazione rivela un
problema generale che riguarda la transmedialità: i vincoli dell’industria e le norme del consumo televisivo
richiedono che le estensioni transmediali di un franchise seriale premino coloro che le consumano, senza
penalizzare quelli che non lo fanno. La fragilità di questo equilibrio è evidente nel caso di Lost, che è
probabilmente il franchise con la strategia di transmedia storytelling più ambiziosa della televisione
complessa.

Lost nella televisione transmediale

Per comprendere la portata narrativa che una serie tv può raggiungere è utile analizzare in che modo un
determinato franchise costruisce una campagna transmediale estesa. Studiare il transmedia storytelling è
complicato perché molti paratesti sono difficili da trovare dopo la loro prima pubblicazione, che si tratti di
siti web ormai offline, di oggetti che spariscono dalla circolazione, o di nuove pratiche dalla vita breve. In
molti casi, come per esempio gli ARG, il paratesto stesso è più esperienziale che testuale, cosa che rende
impossibile ricreare il momento della partecipazione. Ho deciso di concentrarmi su Lost principalmente per
due ragioni. La prima è che Lost è senza dubbio uno degli esempi più vasti ed esaurienti sia di narrazione
televisiva complessa che di transmedia storytelling: nel corso delle sue sei stagioni ha generato estensioni
praticamente in tutti i media. In secondo luogo, posso analizzare la transmedialità di Lost sulla base della
mia esperienza diretta. Ho seguito con grande coinvolgimento, documentandolo, il primo gioco ARG, e ho
consumato in tempo reale la maggior parte degli altri paratesti. L’approccio di Lost al transmedia storytelling
è espansionistico: non solo nel senso che estende l’universo narrativo nei diversi media, ma poiché
introduce anche molti personaggi, ambientazioni, trame, periodi ed elementi nuovi. Se già il testo principale
di Lost aveva orizzonti narrativi più che vasti, le narrazioni transmediali sono riuscite a estenderli
ulteriormente. Questo espansionismo ha portato Lost ad ampliare le proprie sei stagioni televisive con
cinque ARG, quattro romanzi, un videogioco, diversi siti web, due serie di video online, contenuti extra in
dvd e una gamma di prodotti di merchandising da collezione. Lost si presta più di qualsiasi altra serie a
questo approccio espansionistico alla transmedialità: la narrazione viene così estesa verso l’esterno, in
nuove location e ambientazioni, con una prospettiva che potremmo definire storytelling centrifugo. Lost è la
serie ideale per lo sviluppo di estensioni transmediali, principalmente perché è ambientata in un unico
luogo misterioso e dal passato intricato. L’isola senza nome era stata abitata per secoli da diverse
popolazioni, risalenti almeno ai tempi dell’antico Egitto, e offre una fonte abbondantissima di antefatti cui
attingere. Come nel caso di altre mitologie complesse, come la Terra di Mezzo di Tolkien o l’universo di Star
Wars, per estendere il loro universo narrativo ad altri media i producer di Lost hanno usato una vasta
gamma di stili, personaggi ed epoche, seguendo quella tendenza, che Jenkins ha notato nei franchise
transmediali, a focalizzarsi più sulla costruzione del mondo che su un racconto basato sugli eventi. Queste
estensioni transmediali hanno spinto gli spettatori a farsi investigatori, a scavare nei paratesti per svelare i
loro significati nascosti e scoprirne i segreti, e a collaborare fra loro per creare ricchi database e paratesti
orientativi. Gli episodi televisivi di Lost iniziavano con sequenze di apertura che avevano l’obiettivo di
spingere gli spettatori a esplorare il mondo narrativo più approfonditamente. Queste sequenze erano di due
tipi: le Easter Eggs erano contenuti bonus che non comportavano ulteriori sviluppi narrativi; i trailheads
(«inizi di sentiero») invece aprivano la strada a sviluppi di lunga durata, che raramente erano centrali
rispetto alla narrazione principale di Lost, ma fornivano perlopiù dati sugli antefatti, riferimenti culturali o
approfondimenti sulla storia dell’isola. Lindelof e Cuse hanno detto in diverse interviste e podcast di aver
creato uno specifico test, una «prova del nove» per stabilire quali elementi della mitologia fosse meglio
svelare ed esplorare in tv e quali invece nelle estensioni transmediali: se per i protagonisti ha importanza,
allora apparirà in televisione; se per i protagonisti non ha importanza, non vi apparirà. La loro affermazione
ci aiuta comunque a capire che la serie aspirava più a essere un drama incentrato sui personaggi che un
fantasy con una sua mitologia. La mappa della porta blindata ci aiuta significativamente a comprendere
opportunità e insidie della transmedialità. Dopo la sua prima apparizione nella puntata «Chiusura», la

127
mappa diventa oggetto dell’attenzione di Locke, che cerca di ricrearne l’immagine e di scoprirne il segreto:
nel finale della seconda stagione, il bunker è infine distrutto e le origini della mappa vengono svelate
attraverso un flashback. Da quel momento la serie tv non fa più riferimento alla mappa della porta blindata,
ma essa riappare in vari paratesti: nel videogioco Lost: Via Domus, sul retro del puzzle ufficiale di Lost come
immagine fluorescente nascosta, come poster nella rivista ufficiale e nascosta nell’ultimo cofanetto di dvd
da collezione, quello con la serie completa. Le versioni transmediali della mappa la sganciano dall’interesse
di Locke e dagli eventi narrativi dell’isola, riducendola a un rompicapo divertente, derivato sì da Lost, ma
poco appagante in termini di storytelling integrato. Eppure la diffusione transmediale della mappa, anche
dopo la fine della serie, ha alimentato le aspettative di appagamento narrativo rivolte al testo principale,
facendo sì che i fan più accaniti si aspettassero ancora nuove rivelazioni anche quando non ce n’era traccia.
Proprio grazie a questo uso centrifugo della transmedialità, Lost ha potuto inglobare molti generi, stili e
attrattive diversi, proposti simultaneamente nel testo televisivo principale: un enigmatico mystery di
fantascienza, un romance multidimensionale, un’avventura travolgente nella natura e una parabola religiosa
sull’opportunità di lasciarsi alle spalle il passato e di trovare l’amicizia. Il finale televisivo ha sminuito
l’importanza delle piste enigmatiche disseminate nel corso della serie, tradendo così le aspettative di molti
dei suoi fan più accaniti. Lost ha sempre avuto difficoltà a gestire le diverse aspettative dei suoi fan. Di certo
è riuscito a far appassionare gli spettatori a molti suoi risvolti narrativi, dalla complessa mitologia alle
relazioni sentimentali, dalla fantascienza alle sequenze di azione.
Nel complesso la serie è stata capace di attrarre moltissime tipologie di spettatori, come forse non era mai
stato fatto prima. La strategia che ha permesso di conseguire questo traguardo è stata quella di incentrare la
serie televisiva principale sui personaggi, sulle loro avventure e i loro drammi, nonché sul modo in cui
scoprono la mitologia della serie, e di usare invece le estensioni transmediali per approfondire, esplorare e
spiegare la mitologia stessa. La maggior parte delle estensioni transmediali di Lost è incentrata
sull’espansione ed esplorazione del mondo narrativo, e non sugli sviluppi emotivi e i rapporti tra i
personaggi. A volte gli eventi narrativi che mostrano si collocano in una posizione ambigua rispetto al
canone. È il caso di due paratesti importanti che, originariamente proposti come estensioni canoniche, sono
stati in seguito disconosciuti dagli showrunner, poiché non pienamente connessi alla storia principale: il
videogioco Lost: Via Domus e il romanzo Bad Twin. Entrambi questi prodotti rientrano in quel modello di
racconto che prevede un «episodio nuovo» ed estraneo al percorso canonico principale, anche se questo
modello risulta problematico per un programma altamente serializzato in cui ogni episodio va sempre a
incrementare sviluppi narrativi più ampi. Per creare narrazioni transmediali che siano perfettamente
coerenti è necessario un controllo totale dello storytelling, una condizione che però il sistema produttivo
della tv di oggi sembra non riuscire a garantire. Considerato poi che in questi anni i budget di produzione si
sono ridotti, difficilmente i programmi futuri potranno contare su un personale adeguato alla gestione
efficace di queste narrazioni integrate. Nel caso di Lost, se non consideriamo i mini-episodi video che sono
apparsi online e in dvd (creati dagli stessi autori della serie tv), il paratesto più controllato dal team creativo
principale è probabilmente anche quello più innovativo: il primo gioco ARG, The Lost Experience. Attivato
nell’estate 2006, The Lost Experience (TLE) è il primo ARG esteso a essere stato pubblicato
contemporaneamente alla trasmissione di un successo televisivo mainstream, riempendo il vuoto tra la
seconda e la terza stagione del programma. Con una durata di quattro mesi, e diffuso su un gran numero di
media sparsi in tutto il mondo è probabilmente il più ambizioso ed esteso ARG mai prodotto in connessione
a una serie tv, a tal punto da aver stabilito un precedente di riferimento per l’industria mediale riguardo al
formato ARG, alle sue potenzialità e ai suoi limiti. TLE è stato concepito dagli showrunner di Lost Lindelof e
Cuse, guidati dall’autore Javier Grillo-Marxuach, ed è dunque a tutti gli effetti un elemento integrato del
canone narrativo del programma. TLE aveva tre obiettivi principali: offrire ai fan rivelazioni narrative
esclusive, che non sarebbero state fatte nella serie; sperimentare nuove forme di racconto; mantenere il
programma attivo agli occhi della stampa e nella mente del pubblico durante la pausa estiva. TLE doveva
costantemente trovare un equilibrio tra i desideri dei giocatori di ARG, che pretendono enigmi stimolanti e

128
innovativi, e le richieste dei fan televisivi, che invece esigono forme di appagamento narrativo più dirette. La
storia interna al gioco, in cui Rachel Blake indaga sulla Hanso Foundation, era perlopiù concepita come
un’ossatura su cui disseminare gli indizi. Rispetto all’universo narrativo consolidato nella serie tv, il gioco non
aveva una sua autonomia in quanto esperienza narrativa avvincente. I consumatori assidui di ARG hanno
considerato l’esperienza di gioco e il coinvolgimento immersivo di TLE troppo vaghi e troppo poco sofisticati,
e hanno dunque abbandonato il gioco dopo le prime settimane, lasciando giocatori meno esperti a tentare
di risolvere gli enigmi successivi. Inoltre, molti fruitori hanno trovato volgare e invadente il marketing
integrato nel gioco. Per quanto riguarda l’obiettivo di rivelare elementi narrativi della mitologia della serie
tv, l’ARG è stato fonte più di frustrazione che di appagamento. Il contenuto narrativo canonico non era
abbastanza integrato rispetto alla serie tv, con il risultato che alcuni giocatori hanno avuto la sensazione di
aver perso tempo con inezie piuttosto che aver saputo prima degli altri cosa sarebbe successo nella terza
stagione. Le più importanti rivelazioni di TLE erano mostrate nel cosiddetto «Sri Lanka Video». Questo video
conteneva un film orientativo in cui Alvar Hanso spiegava le origini e la mission del Progetto DHARMA, e il
significato dei «numeri» (un enigma centrale delle prime due stagioni) in quanto parte di un’equazione
capace di predire la fine del mondo, sulla quale il Progetto DHARMA stava indagando. Hanso dava anche
vari altri indizi che riguardavano direttamente il canone televisivo. Eppure queste rivelazioni non sono mai
comparse nella serie: nella stagione finale, ai numeri viene data una spiegazione diversa (ma non
contraddittoria). I fan che avevano giocato all’ARG consideravano già risolto il mistero dei numeri e la nuova
spiegazione ha avuto per loro il sapore di una beffa e li ha allontanati dalla serie, relegando gli eventi
narrativi dell’ARG in una dimensione ambigua e para-canonica. Viceversa, alcuni segreti svelati in TLE sono
rimasti «domande senza risposta» per gli spettatori televisivi, insoddisfatti della persistente ambiguità
mitologica di Lost. Sapere che i numeri e il Progetto DHARMA erano stati spiegati in modo più dettagliato
dall’ARG ha fatto aumentare la frustrazione degli spettatori nei confronti della narrazione televisiva, poiché
questo tipo di fan pretende che si possa capire appieno la serie senza necessariamente dover fare ricerche
online. Dall’altro lato, per i giocatori di TLE, il fatto che la serie tv non avesse mai menzionato, né quindi
contraddetto o rimosso, le rivelazioni dello «Sri Lanka Video» ha reso l’esperienza di gioco più frustrante se
considerata con il senno di poi, una perdita di tempo piuttosto che un bonus di narrazione. Le difficoltà di
sviluppare un ARG narrativamente integrato a una serie tv già di per sé complessa hanno scoraggiato
Lindelof e Cuse dal riprovarci, spingendoli a ridimensionare l’ARG successivo in modo tale che fosse meno
integrato al canone del programma. A prescindere da quanto piacevoli fossero questi giochi per i fan, spesso
non erano in grado di soddisfare la regola chiave: aggiungere elementi al racconto del franchise senza
togliere nulla all’esperienza televisiva principale. Una delle grandi contraddizioni di Lost è che ha costruito
l’universo mitologico più solido nella storia della televisione, ma ha poi sminuito l’importanza della sua
stessa mitologia relegando molti dei misteri alle estensioni transmediali, condannandoli così a essere
considerati più come «contenuti extra» che come elementi narrativi centrali.
Questa dicotomia tra fan investigatori che guardano (e giocano) cercando una coerenza e spettatori emotivi
che vengono trascinati dall’avventura e dal romance rispecchia una delle principali strutture tematiche del
programma: il contrasto tra la prospettiva razionale e quella sovrannaturale, incarnata nello scontro tra
«l’uomo di scienza» Jack Shepard e «l’uomo di fede» John Locke. Anche se alla fine nessuno dei due
sopravvive, il finale sostiene chiaramente che la fede batte la scienza, mostrando Jack che si sacrifica alle
forze mistiche dell’isola e appoggia la visione di John sul destino e sul senso spirituale. Dando una
preferenza alla fede rispetto alla scienza, e di conseguenza privilegiando l’avventura fantasy rispetto alla
fantascienza, Lost può lasciare irrisolti molti misteri che avevano attraversato la serie, dando invece spazio,
nei momenti conclusivi, alla celebrazione spirituale della prospettiva di Jack (che è anche, per estensione, la
nostra), quella di «lasciar perdere» il bisogno di comprensione razionale. Ma le estensioni transmediali del
programma rimanevano ancora dalla parte dell’esplorazione razionale della mitologia dell’isola, nonostante
un’incoerenza spesso snervante: l’ultima versione del dvd conteneva un «epilogo» bonus di dodici minuti
che forniva una valanga di risposte a questioni irrisolte riguardanti l’isola, DHARMA, Walt e vari altri misteri

129
mitologici. Si tratta di un video ironico, che fa l’occhiolino agli spettatori, mostrando per esempio un
impiegato del Progetto DHARMA che sgrida Ben dicendo «Aspetta, non puoi semplicemente andartene da
qui. Abbiamo bisogno di risposte»: in questo modo si fa riferimento in modo leggero all’insoddisfazione dei
fan riguardo al finale. è chiaro che questo contenuto extra è sì canonico ma non essenziale, relegato come è
a un paratesto che serve unicamente a placare i fan investigatori che non si accontentano di seguire il
consiglio finale di «lasciar perdere». La transmedialità di Lost prova a seguire alcuni parametri chiari: usare i
paratesti per allargare l’accesso al mondo narrativo e alla mitologia dell’isola, ma tenere gli sviluppi dei
personaggi e gli eventi principali ancorati al testo principale televisivo. Questa strategia può soddisfare i fan
accaniti disposti a espandere il proprio consumo narrativo a media diversi, ma certamente crea frustrazione
in altre categorie: tanto nei consumatori transmediali, cui questi piccoli premi non fanno né caldo né freddo,
quanto nei fan televisivi, che non vogliono essere costretti a «fare i compiti» per comprendere la loro serie
preferita. Il fatto che il programma utilizzasse la transmedialità per dare risposta ad alcuni misteri ha
comunque suscitato delle aspettative sulla possibilità di trovare soluzioni razionali, aspettative in contrasto
con l’accettazione spirituale offerta dal finale.

Breaking Bad e la transmedialità incentrata sui personaggi

Se Lost utilizza la transmedialità per espandere il proprio universo narrativo verso l’esterno, Breaking Bad
crea invece un tipo di transmedialità che si ripiega su se stessa attraverso uno storytelling centripeto. Nel
caso delle comedy la transmedialità può essere il contesto per sviluppare nuove gag o per dar spazio a
personaggi e trame secondari che non interferiscano con quelli del testo principale televisivo. Rispetto a
programmi di questo genere, Breaking Bad ha fatto un uso parsimonioso della transmedialità, ma le
strategie che ha messo in atto offrono un interessante termine di paragone. Se la transmedialità espansiva
di Lost metteva in scena nuovi eventi e allargava il mondo narrativo, Breaking Bad si è invece concentrata
principalmente sui personaggi. Questa scelta ha senso se consideriamo il genere e le strategie narrative di
Breaking Bad: non ci sono né una mitologia sottesa né misteri complessi da svelare, e di conseguenza le
estensioni transmediali non contengono eventi narrativi rilevanti per la storia principale.
La sua strategia transmediale si accorda bene al tono narrativo e all’ambito principale del programma. Il
mondo narrativo di Breaking Bad è una versione piuttosto realistica di Albuquerque, in New Mexico, motivo
per il quale i suoi prodotti transmediali non danno alcun peso all’ambientazione. Questa minimizzazione
dell’ambientazione e degli sviluppi della trama nelle estensioni transmediali è in parte legata al genere di
appartenenza del programma, il drama: eppure una serie altrettanto drammatica come Mad Men ha scelto
di legare le sue piccole escursioni nella transmedialità al proprio contesto storico, come per esempio
avviene sulle pagine web Cocktail Guide e Fashion Show. Le estensioni transmediali di Breaking Bad si
concentrano invece, sui personaggi già estremamente elaborati della serie, conferendogli ulteriore
spessore. I prodotti transmediali non sono quindi incentrati sullo sviluppo del protagonista Walter White
bensì su personaggi secondari, sottolineando il tono comico della trasmissione piuttosto che quello
drammatico. Troviamo video e siti web che raccontano in modo divertente il passato di Hank, Marie, Badger
e Saul. Ma anche quando al centro di un mini-episodio c’è il protagonista della serie, lo vediamo comunque
messo in una luce più comica. Questi mini-episodi non contraddicono la trama del programma, ma
propongono un diverso registro, comico eppure compatibile, per quanto secondario rispetto al tono cupo
del testo principale. Pur non avendo una mitologia sufficientemente vasta da incoraggiare la creazione di
giochi di esplorazione del mondo narrativo, Breaking Bad ha prodotto due mini-giochi online che puntano in
una direzione diversa. Entrambi sono stati creati per il sito web della Amc con il coordinamento diretto dei
producer del programma, e sono caratterizzati da una grafica in stile motion comic con un design narrativo
interattivo. Il primo, The Interrogation, è stato lanciato durante la terza stagione, nel 2010, mentre il
successivo, The Cost of Doing Business, è stato pubblicato sia per web che per dispositivi mobili prima della
quarta stagione, nell’estate 2011. The Interrogation mette il giocatore nei panni dell’agente della Dea Hank
mentre interroga un sospetto narcotrafficante; in The Cost of Doing Business, il giocatore impersona Jesse

130
che prova a farsi pagare da un cliente cui ha venduto della droga. In nessuno dei due casi la trama è
canonica rispetto alla serie, ma entrambi mettono in scena situazioni plausibili e coerenti ai personaggi,
utilizzando il modello del «nuovo episodio». L’aver privilegiato estensioni incentrate sui personaggi (nonché
coerenti con il tono della serie) rappresenta un punto di forza della transmedialità di Breaking Bad:
minimizzando la trama, le estensioni permettono agli spettatori di passare del tempo con i personaggi senza
stimolare un’attenzione di tipo investigativo verso la storia, come invece fa la maggior parte delle estensioni
canoniche. I mini-episodi incentrati su Jesse sono la dimostrazione di questo meccanismo. Nel programma
televisivo, le sottotrame che lo riguardano sono spesso piuttosto cupe e serie, mentre i mini-episodi
mostrano il suo gruppetto di dilettanti e le sue creazioni artistiche in chiave comica, lasciando da parte la
lotta contro la dipendenza, la graduale consapevolezza di essere un figlio surrogato di Walt o la ricerca di
una moralità di fronte alle sue azioni criminali. Il video più interessante è quello in cui si mostra l’anteprima
di un ipotetico cartone animato, Team S.C.I.E.N.C.E., i cui protagonisti sono versioni dei personaggi della
serie in veste di supereroi creati da Jesse, che invece di formare un’associazione criminale si trasformano in
una squadra anticrimine. Niente di quello che succede nel video è canonico, ma si colloca chiaramente al di
fuori dall’universo narrativo: forse è possibile interpretarlo come un’estensione diegetica di qualcosa che
Jesse farebbe se avesse il tempo, la capacità e la pazienza, ma più probabilmente si tratta di una
speculazione ipotetica che gioca con il genere, il tono e le modalità di produzione, pur rimanendo coerente
con il personaggio. Come la maggior parte dei prodotti transmediali di Breaking Bad, questi video
attraggono lo spettatore verso la serie televisiva principale, proponendo un approfondimento del mondo
narrativo piuttosto che la sua espansione. Tutte le estensioni del programma risultano potenzialmente
canoniche, anche per via di un orizzonte circoscritto che raramente si interseca con quello della serie tv, ma
non invitano lo spettatore ad analizzare le sottotrame come invece avviene con i prodotti transmediali di
Lost. Per quanto sembrino meno innovativi o immersivi di quelli di Lost, questi paratesti sono forse più
efficaci in quanto estensioni della narrazione principale, poiché fanno leva sul punto di forza della tv seriale:
la capacità di creare un legame con i personaggi. Nessun consumatore dei prodotti transmediali di Breaking
Bad potrebbe mai aspettarsi da questi una trasformazione o un depistaggio delle sue aspettative riguardo
alla serie, poiché queste estensioni sono proposte inequivocabilmente come materiali extra e opinabili, e
non come trame transmediali importanti. Nonostante il successo modesto, penso che queste estensioni
abbiano raggiunto più efficacemente l’obiettivo di appagare gli spettatori che li consumano senza
penalizzare quelli che non lo fanno.

«What Is» vs «What If?»: due modelli di transmedialità

Confrontando le strategie paratestuali di Lost e Breaking Bad, possiamo identificare due tra le tendenze
generali che caratterizzano le pratiche del transmedia storytelling, due approcci opposti che possiamo
identificare con le domande «What Is» e «What If?» Il primo è rappresentato da Lost, e coincide con la
definizione di Jenkins esemplificata da Matrix. La transmedialità «What Is» cerca di estendere la narrazione
in modo canonico, spiegandone l’universo narrativo con precisione e coerenza, e facendo sì che gli
spettatori lo comprendano e apprezzino più a fondo. Questo modello stimola il fandom investigativo con la
promessa di rivelazioni che avranno luogo quando tutti i pezzi del puzzle saranno al loro posto: l’esempio
emblematico di un paratesto sul modello «What Is» potrebbero essere gli enigmi di Lost, che richiedono di
assemblare i pezzi di quattro puzzle diversi se si vuole che vengano svelate delle informazioni aggiuntive,
nascoste nell’immagine fluorescente della mappa della porta blindata. La maggior parte delle estensioni
narrative ufficiali costruita per raggiungere gli obiettivi della transmedialità «What Is», e il parametro che
critici e fan usano per valutare i paratesti generalmente ne misura il successo sulla base del coordinamento
canonico e dell’integrazione narrativa. Ma esiste un modello opposto di transmedialità, che comporta
obiettivi narrativi e indicatori di successo diversi: quello delle estensioni del tipo «What If?», adottato da
Team S.C.I.E.N.C.E. di Breaking Bad. Questa concezione della transmedialità pone eventualità ipotetiche
piuttosto che certezze canoniche, invitando gli spettatori a immaginare storie alternative senza preoccuparsi

131
della loro potenziale canonicità. L’obiettivo per la transmedialità «What If?» è quello di sganciarsi dal testo
principale e di proiettarsi in dimensioni parallele, mettendo in primo piano il tono, il mood, i personaggi o lo
stile più che la continuità con la trama e il mondo narrativo canonico. Non si suppone che lo spettatore
creda che Jesse abbia realmente creato un fumetto e un cartone animato, ma viene comunque proposta
quest’eventualità: lo spettatore è invitato a chiedersi «e se lo avesse fatto?». La narrazione seriale si fa
amare perché crea mondi narrativi coinvolgenti nei quali possiamo immergerci: la transmedialità «What If?»
moltiplica le possibilità di quegli universi finzionali per mezzo di variazioni e trasmutazioni ipotetiche. Questi
due modelli transmediali vanno considerati come tendenze piuttosto che come categorie distinte, due
estremi che comprendono una zona fluida e densa di sfumature. Entrambe le tendenze transmediali si
caratterizzano per una qualità narrativa ludica, ma si affidano a differenti stili di gioco: Roger Caillois li ha
classificati efficacemente, opponendo il ludus normativo alla libera paidia. Le estensioni transmediali «What
Is» funzionano più come enigmi del tipo ludus, implicando vere e proprie soluzioni e rivelazioni finali,
mentre i paratesti «What If?» si caratterizzano più per un senso di paidia, come un travestimento o un gioco
di ruolo performativo, generando scenari che non portano a un risultato «reale» e che non hanno una
funzione narrativa canonica. Entrambe queste modalità transmediali hanno precedenti importanti nelle
opere prodotte dai fan e nelle loro pratiche di consumo. Alcune fan culture producono paratesti che si
collocano chiaramente nella tipologia «What Is», come per esempio gli schemi dettagliati che riguardano la
tecnologia dell’universo di Star Trek: queste pratiche sono state analizzate da Bob Rehak, che ha coniato per
esse l’espressione «cultura del progetto» (blueprint culture). Questi paratesti orientativi forniscono guide
affidabili sia per il testo principale che per varie estensioni transmediali, con l’obiettivo di spiegare
esaustivamente il materiale narrativo nella sua complessità. La strategia di mappare i prodotti di fiction si è
diffusa moltissimo con l’emergere delle pagine wiki, in cui i fan possono collaborare per creare una
documentazione enciclopedica riguardo un universo narrativo. In queste modalità di coinvolgimento attivo, i
fan mettono in primo piano l’autenticità canonica, perseguono una padronanza della narrazione,
riconoscono l’autorità dello showrunner e ricercano connessioni e teorie che colmino le lacune narrative.
Tutti questi aspetti sono tipici della transmedialità «What Is». Nei casi più noti, la produttività dei fan segue
il paradigma «What If?», generando fan fiction, video remix e altre forme di creatività che non pretendono
di essere canoniche ma piuttosto pongono, in modo leggero, tutta una serie di possibilità narrative
ipotetiche. Il valore di questi paratesti sta nella loro capacità espansiva e trasformativa, che va oltre i
territori del canone, postulando possibilità che non potrebbero essere «reali» nell’universo finzionale.
Alcune creazioni dei fan del tipo «What If?» raccontano storie che ambiscono a integrarsi con il testo
principale, oppure offrono interpretazioni alternative che i fan considerano in linea con lo spirito della serie,
e che a volte sono più congruenti della narrazione canonica stessa con la loro esperienza di consumo. Ma
quasi sempre questi prodotti si collocano esternamente al canone, per sviluppare piuttosto le sue possibilità
ipotetiche, anche se a volte possono rivelarsi più soddisfacenti del canone stesso.

Un caso interessante di transmedialità prodotta dai fan che gioca con entrambi i vettori è costituito da un
ARG non ufficiale della serie Alias, creato nel 2005 e generalmente chiamato Omnifam. Lanciato durante la
terza stagione del programma, e dopo che la Abc aveva prodotto degli ARG ufficiali nel corso delle prime
due stagioni, Omnifam non si presentava come paratesto non ufficiale, bensì, in puro stile ARG, come parte
del «mondo reale», senza far riferimento al fatto che la serie tv fosse un programma di finzione: soltanto nel
corso del gioco divenne chiaro che non era stato prodotto dalla Abc e che era opera dei fan. La cosa
interessante di questo esempio è che l’ARG non ufficiale era molto più fedele al complesso spirito
cospirativo di Alias di quanto lo fossero gli ARG ufficiali, che invece si presentavano più come mini-giochi
autonomi online e semplicemente si rifacevano all’iconografia e all’universo narrativo del programma.
Omnifam sembrava offrire informazioni narrative integrate, del tipo «What Is», riguardo alla mitologia di
Rambaldi: eppure si trattava di un gioco non ufficiale e non autorizzato dal team creativo del programma, e
dunque i suoi contenuti pseudo-canonici rientravano chiaramente nell’ambito del «What If?». Se da un lato
il caso di Omnifam mostra come i fan intervengano nella narrazione, creando contenuti transmediali
132
pseudo-canonici del tipo «What Is», dall’altro esiste anche una tendenza nella direzione opposta.
Considerato che il modello «What If?» è stato esplorato principalmente dai fan, può capitare che l’industria
trovi il modo di cooptare la loro creatività e di precludere così il regno dell’ipotetico ai producer dilettanti.
Il modello di Jenkins della transmedialità equilibrata del tipo «What Is», in cui una trama coerente è
distribuita su vari media, è una possibilità esaltante per gli autori e certamente merita l’attenzione che ha
ricevuto. Ma è un modello che potrebbe rivelarsi insostenibile nel caso delle estensioni transmediali delle
serie tv: i network non possono sostenere un franchise che rischi di erodere gli indici di ascolto di un
programma televisivo e di penalizzare gli spettatori non interessati ad andare oltre il piccolo schermo. Senza
contare la difficoltà di costruire trame complesse che funzionino sia nel tempo che su media diversi. Ritengo
che il modello di transmedia storytelling «What If?». possa essere potenzialmente più produttivo per lo
sviluppo di una serie tv, poiché si basa sui punti di forza propri del mezzo, ovvero la priorità di personaggi e
mood rispetto a trama e mitologia, e dà sfogo al piacere che provano i fan a immaginare situazioni non
canoniche. Lo sviluppo delle narrazioni transmediali ipotetiche offre insomma uno scenario del tipo «What
If?» e apre le porte di una nuova dimensione di complessità, ancora tutta da scoprire.

CAP 10
FINALI

Tutte le serie tv hanno un inizio, ma non tutte hanno una fine, o meglio, non tutte hanno una conclusione.
Un finale non è il contrario di un inizio, e la distinzione tra questi due estremi di una narrazione va
approfondita dal punto di vista linguistico: inizio è già di per sé un sostantivo, mentre finale è un aggettivo
che stabilisce il punto ultimo di qualcosa, intenzionale o imposto che sia. Ecco perché in questo capitolo
considero anche il doppio significato di fine intesa come «la parte finale di qualcosa» e «obiettivo o risultato
che si vuole ottenere». Nel caso delle serie tv, il fine è spesso quello di arrivare alla fine, intesa come
traguardo ideale verso il quale la serie è proiettata, collocato in una data ancora da stabilire.
Tutte le serie americane che non sono più in produzione hanno un ultimo episodio, ma è raro che si tratti
del finale: per chiudere, è molto più comune che si ricorra ad altri espedienti. La forma di chiusura più
diffusa è la sospensione, una fine brusca e non preventivata che subentra quando il network stacca la spina
a metà stagione (solitamente durante la prima). Una sospensione nasce sempre da motivi extratestuali:
spesso avviene perché il network ha perso fiducia in seguito a bassi dati d’ascolto o perché si sono verificati
problemi personali con gli autori o gli attori che hanno portato a una prematura interruzione della serie,
senza lasciare che ci fosse il tempo di imbastire una vera e propria conclusione. La serie Fox del 2005,
Reunion, rappresenta un ottimo esempio dei rischi di una sospensione, se si considera che è stata
bruscamente interrotta dopo nove episodi, lasciando irrisolto il caso di omicidio al centro della narrazione.
Ai producer è stato chiesto di raccontare come si sarebbe dovuta concludere la serie per accontentare la
curiosità dei fan, ma essi si rifiutarono di rivelare ogni cosa perché gli stessi autori non avevano ancora
deciso esattamente quale strada prendere. Il rischio di una sospensione prematura può disincentivare gli
spettatori dal provare a vedere una nuova serie, per il timore che essa venga cancellata prima di qualsiasi
spiegazione o sviluppo narrativo sufficiente. Un altro tipo di chiusura è il wrap-up, e avviene quando la fine
di una serie non è stata del tutto arbitraria ma nemmeno del tutto programmata. Di solito i wrap-up si
verificano alla fine di una stagione, quando si è giunti a un naturale momento di pausa, ma non ci sono i
presupposti per cominciare una nuova stagione. Nel caso delle serie le cui stagioni sono pensate per essere
autoconclusive, come Veronica Mars, ogni finale di stagione può fungere da wrap-up, anche se nessuno di
essi propone una spiegazione del tutto esaustiva. Il fatto che l’episodio finale della terza stagione fu anche
l’ultimo della serie non è stato giustificato dal punto di vista narrativo. Le serie cable che hanno stagioni più
brevi spesso gestiscono la puntata finale della stagione come se potesse fungere da potenziale wrap-up: sia
Terriers sia Rubicon, entrambe serie da una sola stagione, sono finite con un senso di chiusura anche se non
con una vera e propria conclusione. In questi casi, la maggior parte degli episodi è stata scritta prima che la
serie cominciasse ad andare in onda, per cui una stagione di dieci-tredici episodi è considerata come

133
un’unità narrativa che si chiude con un potenziale wrap-up, lasciando però un finale sufficientemente
aperto da rendere desiderabile un ipotetico seguito. Riguardo questo tipo di stagioni singole Greg Smith
dice che usano la «punteggiatura» tipica del climax narrativo e del finale sospeso, ma predisponendo
«ribaltamenti del gioco» che potrebbero permettere alla serie di prendere altre direzioni nel caso di una
seconda stagione.
Ancora meno comune è la conclusione, che avviene quando i producer riescono a realizzare un episodio
finale sapendo per certo che la serie chiuderà. A volte le conclusioni sono pianificate in anticipo dai
producer, altre volte gli sono imposte dall’esterno: prendendo ad esempio le due serie di Joss Whedon, la
settima e ultima stagione di Buffy era pianificata fin dall’inizio, mentre Angel è stata sospesa a metà
stagione, costringendo Whedon a ripensare alcuni episodi finali che fungessero in qualche modo da
conclusione last-minute. Una conclusione dà allo spettatore un senso di finalità e risoluzione, seguendo
l’assunto secolare che una storia fatta bene debba anche avere una fine. Queste risoluzioni, però, sono
relativamente rare per le serie tv americane: per l’industria il successo di una serie equivale piuttosto a
un’infinita proroga della fine, che rappresenta invece un fallimento. Questa tensione tra necessità narrative
e commerciali può creare conflitti, come è successo all’inizio della terza stagione di Lost, quando i producer
si sono resi conto di dover fare i «salti mortali» per procrastinare gli sviluppi narrativi senza aver idea di
quando far cominciare il finale già pianificato: a metà stagione, i producer hanno così ottenuto la certezza di
poter collocare la fine non prima di altre tre stagioni, evento senza precedenti che ha permesso loro di
procedere verso la fine senza più procrastinare gli sviluppi delle stagioni rimanenti. Di questi possibili finali
esistono poche varianti. Una di esse è la cessazione, che è una sospensione che non stabilisce che si tratti
della fine della serie. È piuttosto comune nel caso delle serie che si interrompono a metà stagione, lasciando
gli eventi futuri in un limbo, finché la serie non ricomincia a essere trasmessa o scompare del tutto dalla
programmazione dell’anno successivo. Meno comune è il caso di una serie che arriva alla fine della stagione
senza rendere chiaro se avverrà o no un possibile seguito. Una cessazione è un fenomeno derivato
dall’intersezione tra creatività e logiche commerciali, nel quale il racconto è vincolato dal tornaconto
economico, e questo mette un mondo narrativo in un limbo perpetuo, in attesa di un possibile ritorno.
Il contrario di una cessazione è una rinascita, che si ha quando una serie già conclusa torna in televisione o
anche su un altro medium. Alcune serie sono rinate dopo essere state interrotte con una sospensione o un
wrap-up: Firefly di Joss Whedon è rinata nel lungometraggio Serenity, mentre altre serie sono rinate come
fumetti a puntate, come successo a Buffy e Angel, sempre di Whedon: in tutti questi casi, il motivo sembra
essere stato il bisogno di raccontare i possibili sviluppi della storia e di farlo con la libertà concessa da altri
media. Capita anche che gli imperativi economici scavalchino gli obiettivi creativi, quando una serie rinasce
contro la volontà dei producer come successo con Scrubs. Una serie può anche oscillare tra la cessazione e
la rinascita, come è successo ad Arrested Development e Veronica Mars, che dopo essere state cancellate
sono state per anni oggetto di discussione, finché nel 2013 sono rinate entrambe, la prima con una quarta
stagione su Netflix e la seconda con un lungometraggio prodotto grazie al sito di crowfunding Kickstarter. E
infine abbiamo il finale, che è una conclusione con un «party d’addio». I finali si riconoscono più dai discorsi
extratestuali che da qualche proprietà narrativa intrinseca, poiché propongono conclusioni di cui si è a lungo
parlato e impostate come chiusura ideale di una serie amata (o almeno di successo). I finali non vengono
imposti ai creatori, ma emergono spontaneamente dal processo di creazione di una serie, e quindi dai
discorsi sulla presenza autoriale e sulle difficoltà di concludere nel modo migliore. Questo tipo di conclusioni
sono spesso accompagnate da materiale paratestuale, come articoli e interviste su riviste di settore, speciali
televisivi e la promessa di contenuti extra sui dvd che daranno ancora maggior peso all’episodio finale. Tutto
questo parlare alimenta le aspettative degli spettatori, motivo per cui i finali sono spesso fonte di delusione
e reazioni negative, nel caso in cui non riescano a soddisfare le aspettative di tutti. nell’era di internet è
aumentata la consapevolezza delle dinamiche di programmazione, rinascita o cancellazione, poiché i fan
possono seguire le vicissitudini produttive dei loro programmi preferiti, nonché fruire i paratesti riguardanti
il finale già pianificato. Sapere che una serie ha un finale già programmato sposta le aspettative dei fan sulla

134
stagione finale e può uniformare i diversi modi in cui essi si sono appassionati nel tempo, dando moltissimo
peso al modo in cui la serie saprà «raggiungere il traguardo» con i giusti tempi e in modo efficace
nell’episodio conclusivo. I finali e le rispettive stagioni conclusive di tre serie di alto livello come The Wire,
Lost e I Soprano costituiscono esempi chiave delle strategie usate dalle serie tv complesse per giungere alla
fine e dei modi in cui gli spettatori possono accogliere queste conclusioni.

Prepararsi alla fine: la metanarrazione delle stagioni conclusive di The Wire e Lost

Probabilmente nessun’altra serie tv, nella storia della televisione americana, ha ricevuto altrettante
pressioni e battage pubblicitario affinché si concludesse in modo soddisfacente per tutti. Per non deludere
questi encomi, la conclusione di The Wire doveva rispettare certi standard narrativi centenari, come
coerenza e drammaticità, ma anche attenersi all’affermazione del creatore David Simon secondo cui la serie
mirava ad analizzare in modo convincente certe condizioni sociali americane. Pochi critici eleverebbero Lost
agli standard estetici trasversali a molti media o all’idea diffusa di elevatezza, ma la sua stagione finale si è
fatta carico di altri fardelli che andavano al di là delle norme del mezzo televisivo. Molte analisi, compresa la
mia, sostengono che Lost funzionasse sia come serie che come gioco, poiché poneva domande e puzzle che
richiedevano delle risposte. Quest’ottica è stata rinforzata anche dalla costante presenza pubblica degli
showrunner Damon Lindelof e Carlton Cuse, che puntualmente assicuravano agli spettatori che tutti gli
enigmi avrebbero avuto una risposta e che la serie non stava procedendo per improvvisazione. Nel corso
dell’ultima stagione, l’iperattivo nucleo di fan di Lost ha creato una to do list delle domande in attesa di
risposta, discutendo persino l’eventualità che queste risposte rivelassero delle piste false (red herring).
Inoltre la fine di Lost è stata attesa con ansia per anni, per via della data di chiusura già prestabilita con largo
anticipo, cosa che ha portato gli spettatori a cercare tracce di questo finale per anni, alimentando le
aspettative. Anche per via di queste aspettative amplificate, le stagioni finali di Lost e The Wire hanno
deluso molti spettatori. Nel caso di Lost, secondo i fan troppe domande sono rimaste senza risposta, e la
serie non è riuscita a conseguire i suoi intenti ludici, virando alla fine su un approccio dogmatico rispetto ai
propri enigmi narrativi: da un lato, la fede religiosa come morale, dall’altra la fede negli autori, convinti che
una certa ambiguità sospesa fosse comunque più soddisfacente di una sequela di risposte esplicite. L’ultima
stagione di The Wire è stata considerata dalla maggior parte dei fan e dei critici come un passo indietro
rispetto alla terza e alla quarta, poiché l’iperrealismo della serie è stato adombrato da storie poco plausibili
di assassini inventati e giornalisti bugiardi. Ma le strategie narrative utilizzate da entrambe le serie per
arrivare alla conclusione hanno diversi punti in comune e identificano un procedimento chiave e ricorrente
per concludere una serie tv: un’involuzione nella direzione della metafiction. Questa strategia enfatizza il
racconto della serie e comporta spesso delle scene che si rivolgono allo spettatore in modo più diretto di
quanto faccia di solito una narrazione realistica. Tra le serie contemporanee ottimi esempi di finali
metanarrativi si trovano in Arrested Development, Seinfeld e Six Feet Under. I momenti finali di Arrested
Development (almeno per quanto riguarda la sua prima messa in onda, su Fox, prima della rinascita del
2013) rimettono insieme i diversi livelli di metanarratività della serie nel momento in cui Maeby propone la
storia della sua famiglia a Ron Howard, narratore e producer della serie: Howard dice di non essere
interessato, ma ipotizza che potrebbe essere materiale per un film, ventilando l’ipotesi di una rinascita
cinematografica poi non realizzata (senza però prevedere la rinascita sempre in forma di serie su Netflix). In
Seinfeld invece i personaggi principali subiscono un processo per via dei loro modi antisociali, attraverso una
carrellata di vecchi personaggi che testimoniano anni di condotta immorale, ponendo gli spettatori nel ruolo
di giudici e chiedendo loro di esprimere un giudizio su quei personaggi misantropici con cui hanno trascorso
anni e per i quali hanno spesso parteggiato. Seinfeld contiene anche un elemento narrativo circolare, poiché
riprende un dialogo di Jerry avvenuto nella prima puntata, ma spostandolo all’interno di una cella e
proponendo così un gioco di richiami dedicato agli spettatori più attenti. In Six Feet Under, invece, i temi
centrali della morte e della sofferenza sono enfatizzati tramite una carrellata in flash-forward che anticipa la
morte di tutti i personaggi. Anche se non ha l’esplicita metanarratività di Newhart o di Arrested

135
Development, questo finale ci pone a metà tra il coinvolgimento emotivo e la riflessione razionale sulla
norma intrinseca della serie che stava alla base della modalità «morto-della-settimana», e che stavolta è
invece applicata ai personaggi principali. Questo equilibrio sull’attenzione rivolta all’universo narrativo e
quella dedicata al racconto è un elemento tipico dell’estetica funzionale delle serie tv complesse. Entrambe
le serie adottano quella che Carlton Cuse ha definito «chiamata alla ribalta», cioè quando gli attori tornano
sul palco a sipario chiuso per farsi applaudire. Le stagioni finali rappresentano l’ultima possibilità di passare
del tempo con persone e in luoghi che i fan hanno frequentato per anni, che ciò avvenga attraverso i goffi
cameo del processo finale di Seinfeld o nel più raffinato montaggio conclusivo di Six Feet Under. La trama
dell’ultima puntata di The Wire è diluita in modo da incorporare scene chiave dedicate a Avon, Prez, Nick
Sobatka, Randy, Namond, Bunny Colvin, Poot e Cutty, o per rivedere location importanti delle stagioni
passate, come il porto, la scuola Edward Tilghman e la palestra di pugilato. I richiami possono essere usati
anche in modo meno evidente per premiare gli spettatori più attenti, come avviene al personaggio di
Johnny Fifty, che nella puntata finale riappare vestito da barbone. Benché questi momenti e queste
comparsate abbiano poco a che fare con la macrostoria della stagione o con lo sviluppo dei personaggi, il
piacere del riconoscimento mette in secondo piano la coerenza della trama. le chiamate alla ribalta, pur
evidenziando i meccanismi del racconto in accordo con l’estetica funzionale, non ci privano del piacere di
veder riapparire un personaggio, spesso con grande impatto emotivo, come succede col ritorno di Randy,
diventato un bullo incallito. Lost enfatizza in modo simile il ritorno di personaggi e luoghi visti in passato,
come parte integrante dell’atmosfera di congedo dell’ultima stagione. Veniamo infatti guidati in un tour
dell’isola, rivisitando location come la grotta, la spiaggia, le gabbie della stazione Idra e le baracche degli
Altri, ma viste attraverso i ricordi dei personaggi. Questi momenti servono a ricordarci dove siamo stati nei
vari anni della serie, ma fungono anche da parallelo con la necessità per i personaggi di affrontare il passato
e il loro destino: siamo testimoni del ricordo che essi hanno delle proprie esperienze in questi luoghi perché
sono anche i nostri ricordi della narrazione. Sia in The Wire che in Lost, nella stagione finale molti dei vecchi
personaggi sono morti e non possono quindi tornare in scena. La prima risolve questo problema ricorrendo
a un espediente tipico del genere, con un rapido montaggio delle foto della scena del crimine inserito nei
titoli di testa, una strategia simile a quella adottata da Breaking Bad, quando nell’ultima stagione Hank
riguarda le foto segnaletiche dei personaggi deceduti. Nel caso di The Wire tra le foto appare anche quella
di Ray Cole, un personaggio minore interpretato però dal producer Robert Colesbury, morto durante la pre-
produzione della terza stagione.
Lost si avvale della sua ampia gamma di strumenti narrativi per ricordare i personaggi deceduti nei modi più
diversi. L’inspiegabile capacità di Hurley di parlare con i morti permette a Michael di rifare la sua spettrale
apparizione, che va a implementare la mitologia dell’isola riguardante il ruolo di sussurri e spiriti. Ma la
maggior parte di questi cameo di defunti avviene al di fuori dell’isola, grazie alle «realtà parallele» tipiche
della sesta stagione, poiché grazie a questa modalità più di quindici personaggi defunti possono riapparire
sullo schermo, anche se il rapporto tra questo universo alternativo e l’universo narrativo principale rimane
misterioso fino alla rivelazione del finale.
È in questa realtà parallela che l’ultima stagione di Lost adotta maggiormente la metanarratività. Per gran
parte della sesta stagione la dimensione parallela pone una questione epistemologica sull’essenza del
mondo che ritrae e sul suo legame con l’universo narrativo che abbiamo frequentato per cinque anni,
portando all’ipotesi diffusa che l’esplosione di una bomba nucleare alla fine della quinta stagione abbia
creato un universo alternativo in cui l’isola era già stata distrutta nel 1977. Ma alla fine della puntata «La
fine» veniamo a sapere che il mondo parallelo è in realtà una sorta di limbo di transizione. Come viene
spiegato a Jack dal padre defunto, Christian, proprio nella scena finale: «Questo è il luogo che avete creato
tutti insieme, per potervi ritrovare. La parte più importante della tua vita è stata quella che hai trascorso con
queste persone. Ecco perché vi trovate tutti qui. Nessuno muore da solo, Jack. Tu hai bisogno di loro e loro
hanno bisogno di te. Per ricordare. E per lasciarselo alle spalle». Per gran parte della sesta stagione, le storie
parallele hanno la funzione di un’estensione narrativa sulla falsariga del gioco «What If?», e ci permettono

136
di immaginare sviluppi narrativi diversi, nei quali i nostri amati naufraghi non sono mai arrivati sull’isola né
hanno subito l’influenza mistica di Jacob. le estensioni transmediali di Lost nascono di solito dalla domanda
«What If?», oscillando tra storia ufficiale e apocrifa, ma è proprio all’interno della serie che Lost mette in
atto questo gioco, grazie appunto alle realtà parallele. Molte di queste possibilità alternative sono mondi
narrativi di puro intrattenimento ma non è chiaro in che modo queste alternative narrative ludiche possano
aiutare i personaggi a riconciliarsi con il proprio passato e a diventare una comunità unita per riuscire a
entrare nel limbo. Alcune storie sono più rilevanti di altre, ma tutte queste storie alternative permettono
agli spettatori di guardare i loro amati personaggi sotto una luce nuova, o di prospettare nuovi rapporti e
relazioni tra di loro. Anche se Lost è conosciuto soprattutto per i suoi enigmi intricati e per l’approccio
ludico, i suoi producer ne considerano i personaggi come l’elemento più attraente, e quindi non sorprende
che la novità narrativa dell’ultima stagione abbia dato più spazio a una chiusura dei conti emotiva con i
personaggi che alla coerenza della trama.
La mia lettura è che i mondi paralleli siano sì un trucco, ma che il risultato sia più coerente a livello
concettuale che narrativo. In quanto spettatori, speriamo di dover passare insieme ai personaggi la parte
più importante delle loro vite, e vogliamo credere che il nostro legame con loro abbia una qualche
importanza. Ci piace inoltre fare ipotesi in cerca di una spiegazione coerente all’interno di una narrazione
fantastica che spesso risulta davvero poco logica, e in tal senso i mondi alternativi rappresentano la nostra
ultima possibilità di partecipare a questo gioco interpretativo. Il mondo parallelo di Lost è un misto di
metanarrazione, riflessioni sul perché ci sia piaciuto trascorrere del tempo in compagnia di questi
personaggi, esaltazione delle commistioni di genere della serie e una rassegna di momenti emozionanti che
ne attraversano la narrazione a tratti grottesca e di basso livello. Ripensando al finale, risulta chiaro che
tutta la sesta stagione mirava a farci riconcentrare sui personaggi a discapito della mitologia, offrendo
l’appagamento di un lieto fine e la gioia di rivedere i personaggi deceduti senza il fardello di tutti i misteri
dell’isola. Di base lo scopo della fiction non è quello di passare un test sulla coerenza interna, ma di far sì
che gli spettatori rimangano sempre emotivamente coinvolti e divertiti.
I fan e i critici hanno reagito all’attesissimo finale di Lost nei modi più diversi. In molti hanno criticato
all’episodio di essere eccessivamente emotivo, hanno lamentato la mancanza di risposte chiare e deriso la
scappatoia religiosa per motivare l’universo parallelo.
Ma per molti fan l’amore è stato sufficiente, soprattutto perché vivacizzato dalla metafiction. Il finale è
ricorso al gioco del «What If?» per proporre dei momenti che molti spettatori avrebbero voluto vedere ma
che la «realtà» della narrazione rendeva impossibili: Charlie e Claire di nuovo insieme dopo la nascita di
Aaron; Sawyer che ritrova la sua amata defunta, Juliet; Ben che chiede scusa a Locke per averlo ucciso. Il
mondo parallelo è un’estensione del fan service e, proponendo confronti tra i personaggi, intrattenimento
romantico e spazio per le speculazioni, ci ricorda perché abbiamo amato la serie, mettendo in chiaro che
alla fine (e nell’episodio «La fine») lo scopo non era quello di risolvere gli enigmi, ma di godersi il tempo
trascorso a guardarla in compagnia. Ne è venuto fuori che l’approccio narrativo ludico di Lost era meno
fondamentale di quanto si pensasse. Al contrario la serie parlava più di come persone tra loro diverse
possono intrecciare dei rapporti di vario tipo e creare una comunità, di come possono approfondire le
proprie ideologie e fare scelte nocive o benefiche per se stesse e per gli altri. La mitologia della serie era lo
scenario di questo dramma umano, e serviva a intrattenere i fan per oltre sei stagioni con enigmi e puzzle; i
misteri dell’isola, però, non erano pensati per essere risolti, ma per facilitare l’evoluzione dei personaggi e
ottimizzare l’intrattenimento offerto della serie. The Wire aveva invece scopi che andavano al di là del mero
intrattenimento, sfociando nel giornalismo di inchiesta per mettere sotto i riflettori certe condizioni urbane
raramente prese in considerazione da altri media. La metafiction di The Wire è sia articolata in modo più
chiaro, sia più improbabile di quella di Lost, poiché lo slancio realista e l’elusione di uno storytelling
autoreferenziale sembrano rendere la serie il luogo inadatto per qualsiasi forma di metanarrazione. Eppure
la quinta stagione conteneva due sottotrame intrecciate che avevano come temi lo storytelling e il confine
tra verità e finzione: quella del giornalista bugiardo Scott Templeton e quella del serial killer inventato da

137
Jimmy McNulty. Secondo molti critici, l’attenzione a storie poco realistiche sembrava un dirottamento dalle
linee guida di The Wire, orientate al realismo e al sociale.
Ma attraverso la lente della metafiction, queste sottotrame rinforzano il ruolo della serie in quanto spazio di
una realistica analisi sociale. Nel caso di McNulty, la menzogna sul serial killer serve a scoprire la verità sul
boss Marlo Stanfield, e noi assistiamo a McNulty che cerca in diversi modi di far abboccare i suoi capi alla
bufala. Per quanto riguarda il giornalista Scott Templeton, invece, l’accumularsi delle bugie ci rivela le
pressioni economiche e editoriali che spingono il giornalismo a trascurare le notizie vere e a concentrarsi su
storie semplicistiche o sensazionalistiche, senza preoccuparsi della loro importanza sociale o di quanto siano
vere. Le due sottotrame ci spingono a riflettere sul confine tra verità e finzione e, nello specifico, a chiederci
come sappiamo quello che sappiamo.
La quinta stagione ci chiede di riflettere sul processo di storytelling e sul fatto che noi stessi, colpevolmente,
preferiamo le bugie. Il momento più metanarrativo della stagione si trova nell’episodio «Notizie infondate»
e mostra i redattori del giornale che discutono su come raccontare al meglio il fallimento delle scuole della
città. L’eroico redattore Gus Haynes sostiene che si debba pubblicare una serie di articoli che mostrino le
interconnessioni tra le istituzioni, piuttosto che limitarsi a «dare addosso» alle scuole, dicendo: «Credo che
il contesto sia necessario per esaminare qualunque cosa», una battuta che può fungere da dichiarazione
d’intenti per la serie stessa. Ma lo spietato editore James Whiting si raccomanda affinché non ci si ritrovi
con «una serie un po’ amorfa di articoli che fanno un elenco dei mali della società», una chiosa concisa che
sembra rivolta a certi detrattori della serie. Questi riferimenti metanarrativi non si fermano qui, poiché il
serial killer di McNulty richiama quei crime drama sensazionalistici che alimentano i dati d’ascolto,
disseminando nel corso della stagione allusioni a serie come CSI e Dexter, mentre il «vero lavoro della
polizia» di Bunk finisce per essere adombrato e sotto-finanziato. Nel frattempo Templeton vince premi
grazie alle sue bugie e Gus e Alma vengono degradati per non essere stati al gioco, cosa che costituisce un
richiamo non troppo velato della mancata vittoria, da parte di The Wire, degli Emmy e di altri riconoscimenti
assegnati a serie più convenzionali. La stagione finale racconta inoltre il tracollo dei gangster Proposition Joe
e Omar Little, che il Sun non racconta, preferendo non trattare la loro morte. La storia emotivamente più
coinvolgente della stagione è quella del recupero di Bubbles, e viene raccontata attraverso un raro
momento di giornalismo di qualità, mentre a noi spettatori è concesso di assistere al sobrio trionfo del
personaggio, che sale le scale per raggiungere sua sorella, soltanto attraverso le lenti della finzione
drammatica. Le esagerazioni inverosimili della quinta stagione acquisiscono senso soltanto se
contestualizzate tra le riflessioni metafinzionali della serie riguardanti la possibilità da parte della fiction,
nella televisione di oggi, di svolgere una funzione d’inchiesta.
The Wire riduce così l’acume giornalistico a una farsa, prendendo in giro gli eccessi cui McNulty e Templeton
devono ricorrere per creare le proprie finzioni, e strizzando l’occhio allo spettatore affinché si renda conto
che l’unico modo di far notare una storia criminale è spingerla al di là della credibilità, una critica rivolta sia
ai giornali che alla fiction televisiva. The Wire è sempre stata disposta a spingersi ai confini della credibilità
pur di affrontare verità più universali, come quando Stringer tenta di organizzare degli incontri sulla droga
usando una guida fai da te, o il sindaco Colvin prende la bizzarra decisione di creare Amsterdam. La serie
adotta queste iperboli per mostrare fin dove si può spingere la realtà, ma ne rivela sempre i costi umani: la
lunga sequenza in cui McNulty rapisce un barbone disabile, nell’episodio «Misure drastiche», colpisce
proprio per il suo eccesso, ma riesce a dimostrare quanto Jimmy e Lester siano caduti in basso,
disumanizzati dai loro tentativi di combattere un sistema indistruttibile.
Mentre l’ultimo episodio di Lost rivela i suoi meccanismi narrativi, quello di The Wire mantiene il livello di
realismo tipico della serie, evitando elementi troppo esplicitamente metanarrativi. Eppure sottolinea
l’importanza del racconto nel coinvolgimento del pubblico, proponendo diversi momenti in cui i personaggi
sono costretti a prendere atto della propria evoluzione e di ciò che la gente dice di loro. Bubbles impara ad
accettare il modo in cui è stato descritto nell’articolo di Fletcher, permettendone la pubblicazione con un
atto di umiltà e accettazione del proprio percorso di recupero. Daniels sacrifica la propria carriera nella

138
polizia, perché rifiuta di accettare le montature del «gioco», mettendo in chiaro quali storie è disposto a
raccontare e quali no. Marlo cerca di andare avanti nel suo nuovo ruolo di imprenditore «pulito», ma non
riesce a disancorarsi dal proprio passato e finisce per ricaderci. McNulty lascia la polizia inscenando una
veglia funebre, durante la quale l’istrionico Landsman racconta di nuovo la storia del «poliziotto nato». E
alla fine la natura ciclica delle istituzioni di Baltimora fa sì che la stessa vecchia storia sia perpetrata da una
nuova generazione di personaggi, nella quale Sydnor è il nuovo McNulty, Michael prende il posto di Omar,
Fletcher ottiene il lavoro di Gus e, purtroppo, Dukie prosegue le vecchie cattive abitudini di Bubbles. Benché
The Wire non espliciti mai i suoi meccanismi narrativi, è chiaro che si industri per offrire un senso di
conclusività che rispecchi le stesse riflessioni della serie sulla narrazione, sul giornalismo e sull’uso della
fiction per raccontare la verità.
L’atipicità della struttura delle stagioni finali di Lost e The Wire può essere apprezzata davvero solo se la si
considera una riflessione metanarrativa. Ma perché le serie ricorrono spesso a una metanarrazione proprio
nella loro stagione finale? Da un lato, sembra che gli autori rimangano intrappolati nei loro stessi universi
metanarrativi, così integrati nel proprio processo di storytelling da ricorrervi persino per congedarsi loro
stessi dalla narrazione, nonché per ribadire l’importanza e gli obiettivi del loro programma. Ciò si ricollega
all’hype che anticipa i finali, e che spesso è il propellente della produzione di una serie: diversamente da
forme autoconclusive come i film o i romanzi, il processo creativo delle serie tv si sviluppa parallelamente
alle reazioni dei fan e dei critici. La promozione e la ricezione spesso modificano le aspettative degli
spettatori e degli stessi creatori, dando maggiore importanza al modo in cui una serie tv si concluderà. I
finali metanarrativi sono uno dei compromessi più diffusi tra quelli adottati dai producer per porre fine a un
universo narrativo che è il risultato di anni di dialogo tra loro e gli spettatori, un confronto culturale unico
delle forme seriali. E non esiste un finale che abbia generato un dibattito pari a quello riguardante la pietra
miliare di Hbo: I Soprano.

Per me è morto: discutere la fine dei Soprano

Il 10 giugno 2007 I Soprano si concludeva con la scena leggendaria della famiglia di Tony a cena in una
tavola calda con il sottofondo di «Don’t Stop Believin’» dei Journey, scena interrotta da una schermata nera
senza audio che dura dieci secondi prima che partano i titoli di coda. Questo taglio è un effetto speciale
narrativo al contrario, un momento anonimo che costituisce un esempio di straordinario storytelling. Se gli
effetti speciali convenzionali spingono le immagini e il suono ai loro limiti, questo taglio richiama piuttosto
un errore tecnico, facendo pensare per un attimo agli spettatori di aver perso il segnale del decoder, o che il
televisore si sia rotto nel momento meno opportuno. Questo momento di vuoto è stato senza dubbio il più
analizzato e discusso della storia della serie e uno dei finali più controversi della storia della televisione.
Studiare questa sequenza e il dibattito che ha generato può aiutarci a comprendere la funzione dei finali e
l’influenza dei Soprano sullo storytelling televisivo di oggi. I Soprano ha alimentato il fandom investigativo e i
forum online molto meno della maggior parte delle serie analizzate in questo libro. In buon parte, ciò deriva
dal suo approccio incostante alla serialità; come già visto nel primo capitolo, la serie adotta sottotrame più
autoconclusive di quelle della maggior parte delle serie di prima serata e si concede spesso digressioni e
sequenze immaginative piuttosto che proporre enigmi narrativi, misteri o anche soltanto domande che
suscitino la curiosità. I Soprano spinge i fan a interpretare i temi trattati e il proprio simbolismo, piuttosto
che gli enigmi, i giochi logici o i crescendo che caratterizzano le serie simili che però alimentano una
maggiore attività online. Per cui sorprende che l’ultimissima scena dell’intera serie abbia generato
un’intensa attività online dei fan che cercavano di comprenderla in termini sia narrativi che concettuali. Per
analizzare l’ultimo caso studio di questo libro nel modo appropriato dobbiamo fare un salto indietro al più
fondamentale dei concetti dell’analisi di una narrazione, affrontato nell’introduzione: la distinzione tra storia
e narrazione. Il motivo principale che ha spinto all’analisi di questo finale sono state le grandi aspettative,
poiché i fan sapevano bene che la serie stava per finire e si aspettavano un senso di conclusività, o almeno
una conclusione chiara. A sorprendere non è stato il fatto che la scena finale si chiudesse con un pasto in

139
famiglia, ma che al posto di una dissolvenza in nero, o di un’immagine finale memorabile, l’unica violenza
contenuta nella scena riguardasse proprio la violazione delle norme basilari del mezzo televisivo, che ai
tempi non contemplava questo tipo di brusca interruzione. Dal momento che lo storytelling seriale alimenta
sempre le conversazioni e le interpretazioni tra un episodio e l’altro, l’assenza di un episodio successivo, in
questo caso, ha spinto gli spettatori a immaginare il seguito o le intenzioni degli autori attraverso
speculazioni e analisi. Questa scena finale esorta gli spettatori a ripensare al modo in cui il racconto è giunto
a quel punto, e cosa questo significhi in termini sia narrativi che concettuali.
Gli spettatori hanno dato diverse spiegazioni di questo finale non convenzionale. La reazione più immediata
è stata quella di pensare a un problema tecnico, alla rottura del televisore o a un cavo malfunzionante;
Naturalmente si è trattato di un taglio voluto, e non arbitrario, che avviene esattamente quando Tony
solleva lo sguardo per guardare Meadow che (si suppone) è appena entrata nella tavola calda, e nell’istante
in cui la canzone dei Journey recita «don’t stop» per l’ultima volta. Nel momento in cui lo spettatore capisce
che lo schermo nero non è un problema tecnico ma una scelta artistica, il dubbio fondamentale rimane un
altro, ovvero se questo taglio significhi qualcosa all’interno dell’universo narrativo o se si tratti soltanto di un
espediente metatestuale. Non c’è dubbio che abbia senso in termini narrativi, che segnali la fine della
narrazione e che l’assenza di immagini e audio dica allo spettatore che non c’è più nulla da vedere.
Quest’assenza è imposta in modo così provocatorio da aver bisogno di essere analizzata di per sé: è la
presenza del nulla piuttosto che la normale assenza di contenuto e forma. Nel brusco passaggio da Tony al
nero, dalla voce di Steve Perry al silenzio, non avviene nulla di esplicito all’interno della storia; ma per
quanto riguarda il racconto, questo «nulla» si manifesta in modo attivo e invadente: noi percepiamo questo
nulla, e la sequenza ci fa storcere il naso per tutto l’interminabile intervallo che va dal viso di Tony ai primi
titoli di coda. E allora, cosa significa questo nulla?
In molti hanno interpretato questo finale come un attacco diretto al desiderio degli spettatori di assistere a
una chiusura morale, contrapponendovi appunto la mancanza di una conclusione in malevolo antagonismo
a tutte le norme televisive e alle aspettative del pubblico. Benché Chase non sia stato chiaro a riguardo, ha
comunque negato con forza di aver usato il finale per sfidare o irritare il pubblico, ma ha al contrario
sostenuto che il suo scopo era quello di «sorprenderli».
Una variante di questa interpretazione vuole che la brusca interruzione sia stata sì un colpo duro nei
confronti dei fan, ma attuata non per trasgredire le norme, quanto per far loro percepire la fine con la stessa
intensità di una morte improvvisa. Questa ipotesi è ben riassunta dal critico Matt Zoller Seitz, secondo il
quale «La mancanza di una risoluzione – l’omissione assoluta e deliberata, o meglio, il rifiuto di concludere
qualcosa – funziona bene. Risulta più violenta e disturbante, più ingiusta dei più efferati omicidi che Chase
ha raccontato nel corso di sei stagioni, poiché stavolta le vittime siamo noi. Chase ha concluso la serie
schiaffeggiando lo spettatore». Per Matt Zoller Seitz, si tratterebbe di un modo di fermare la storia senza
esaurirla, tramite una brusca interruzione del racconto. Presa a grandi linee, si tratta di una critica ardita
delle strutture arbitrarie delle narrazioni seriali, e del rifiuto di attenersi alle aspettative e alle norme tipiche
del mezzo, un’attitudine refrattaria che d’altronde I Soprano ha sempre dimostrato. L’arbitrarietà del finale
deriva dal fatto che l’interruzione non è connessa ad alcun evento narrativo, poiché la scena non contiene
dinamiche di alcun tipo, nonostante sia permeata di un senso di minaccia e pericolo generato dal montaggio
nervoso abbinato alle grosse aspettative degli spettatori sul finale. L’azione chiave avviene a livello
dell’intreccio e non della storia, nel momento in cui è commesso un violento atto di interruzione a scapito
della comprensione degli spettatori: la storia di Tony potrebbe proseguire in svariati modi, ma siamo noi a
non poterla più seguire dopo aver ricevuto un vero e proprio «schiaffo» in faccia.
C’è un’altra interpretazione molto diffusa secondo la quale il taglio sarebbe direttamente motivato da eventi
narrativi: in altre parole, secondo molti nella scena si assiste alla morte di Tony raccontata attraverso il suo
punto di vista. Quest’analisi è avallata da molti spettatori, ma a farlo nel modo più dettagliato è stato
qualcuno nascosto dietro lo pseudonimo di Master of Sopranos, sul blog omonimo, attraverso un post
monumentale intitolato «Definitive Explanation of “The End”». In più di 45.000 parole, Master of Sopranos

140
cerca di dimostrare, senza lasciare nessun elemento scoperto, che «la morte di Tony è l’unica spiegazione
plausibile del finale». Il motivo per cui il dibattito è proseguito per anni, dopo la trasmissione dell’episodio, è
che alcuni hanno trovato il tentativo di una spiegazione così «definitiva» in contraddizione con l’ambiguità di
cui Chase sembrava voler permeare il finale: secondo il critico Todd VanDerWerff, accettare questa
spiegazione «ruberebbe il mistero a una serie che ne è sempre stata piena, e imporrebbe a ciò che potrebbe
significare tante cose di significarne una soltanto». Tutta la serie si presta all’ambiguità e all’apertura
interpretativa, evitando spesso di essere chiara su ciò che è effettivamente successo, per cui il tentativo di
spiegarne un elemento in modo definitivo andrebbe contro le norme intrinseche della serie stessa. Non ci
sono dubbi sul fatto che la sequenza finale sia stata pensata per non avere un significato immediato: quello
che bisogna chiedersi è se la risposta va cercata in una gamma di ipotesi narrative (come può esserlo la
morte di Tony) o se bisogna accontentarsi di un’ambiguità connessa soltanto alla sfera della narrazione. . Per
chi è a favore dell’ambiguità, come VanDerWerff e Seitz, la propensione morale dei Soprano non può mirare
a raccontare una morte conclusiva. Scrive Seitz: «Chase ha trascorso otto anni a imprecare contro i film e le
serie tv su criminali violenti che, per assolvere gli spettatori dal senso di colpa e di complicità, si chiudevan.
Io sostengo però che l’espediente narrativo indiretto usato per raccontare l’omicidio di Tony serva proprio a
eludere questo dilemma morale evitando agli spettatori di viverlo dal punto di vista emotivoo mostrando
questi personaggi in manette o con un proiettile in testa. Perché avrebbe dovuto ritrattare tutto proprio nei
momenti finali dell’ultimo episodio e decidere di uccidere Tony? E se ciò cui abbiamo assistito è davvero
l’assassinio di quello specifico personaggio, perché ci viene presentato in modo così artificioso e confuso?».
Io sostengo però che l’espediente narrativo indiretto usato per raccontare l’omicidio di Tony serva proprio a
eludere questo dilemma morale evitando agli spettatori di viverlo dal punto di vista emotivo. Una
rappresentazione «artificiosa e confusa» evita proprio la trappola di cui parla Seitz: se avessimo visto la
morte di Tony ci saremmo sentiti assolti per aver assistito per anni alle sue atrocità, e per scontare la nostra
colpa ci saremmo persino rallegrati di quella sete di sangue. Se avessimo visto il corpo di Tony, alcuni
spettatori si sarebbero sentiti moralmente superiori al criminale deceduto, mentre altri avrebbero provato
dispiacere per lui o pietà per i suoi familiari, che hanno assistito all’omicidio: ma nessuna di queste reazioni
rientra nell’ambiguità morale che la serie ha sempre dimostrato nei confronti del suo protagonista. Al
contrario, in questo caso non reagiamo emotivamente alla morte di Tony perché non capiamo che essa è
avvenuta prima di averci ragionato sopra analiticamente. Arriviamo a comprenderla con un distacco
analitico, quando non siamo più emotivamente legati all’universo narrativo: non siamo più dentro la tavola
calda insieme alla famiglia di Tony e quindi non viviamo con loro il momento della perdita. Abbiamo già
avuto il nostro momento di cordoglio, ma il dispiacere riguarda la perdita della serie, non del personaggio.
Per gli spettatori la serie è meno ambigua dal punto di vista morale di quanto lo sia il personaggio di Tony
Soprano, e quindi possiamo dispiacerci per la fine della serie senza sentirci complici né moralmente
superiori nei confronti dei crimini di Tony. La brusca interruzione della serie e della vita di Tony ci allontana
dal suo universo narrativo e ci pone sul piano della metanarrazione, ed è su questo piano che viviamo le
cinque fasi dell’elaborazione del lutto: neghiamo la fine prendendocela con dei presunti problemi tecnici; ci
arrabbiamo con Chase perché ci ha privato di una conclusione; cerchiamo indizi e spiegazioni razionali; ci
deprimiamo all’idea che non esista una risposta; accettiamo il fatto che la serie dovesse inevitabilmente
finire, prima o poi, e che la vita (e la televisione) devono andare avanti. Le nostre emozioni sono tutte
concentrate sull’autore desunto Chase e sul suo storytelling, non su Tony e sulla sua storia. Si tratterebbe
della vittoria definitiva di Chase, che sarebbe riuscito a uccidere il suo personaggio senza permettere al
pubblico di cadere in nessuna delle trappole emotive convenzionali, ma scatenando comunque una
reazione emotiva viscerale nei confronti del finale. Il rischio corso dal finale sperimentale dei Soprano è che
prende in giro la possibilità che le conclusioni non abbiano importanza, che siano arbitrarie e ambigue
piuttosto che chiare e risolutive: Hbo ha dato una festa per il finale della serie, ma l’ospite d’onore è
scomparso prima del brindisi. Alcuni spettatori hanno accettato questa fine sospesa, mentre altri avrebbero
preferito la chiarezza all’ambiguità. In entrambi i casi, questo finale dimostra quanto sia importante arrivare

141
alla fine nella televisione seriale offrendo un’immagine duratura (o l’assenza di essa) che verrà ricordata e
discussa a lungo anche quando il resto della serie sparirà a poco a poco dalla memoria.

I fini di un’analisi delle serie tv

Sembra che durante l’ultima stagione delle loro serie gli autori televisivi diventino prigionieri dei propri
universi narrativi, talmente assuefatti al proprio storytelling da ricorrervi per analizzare il loro rapporto con
la serie, nonché per discuterne metanarrativamente l’importanza e gli obiettivi. Il finale metanarrativo è
infatti tra quelli scelti dai producer per scendere a patti con la fine del loro universo, che è il risultato di quel
confronto tra producer e pubblico che è tipico soltanto della forma seriale. E allora qual è il fine di un’analisi
delle serie tv? Secondo molti studiosi di media, le domande principali al centro di ogni analisi sono «cosa
significa?» e «perché è importante?» Queste domande si interrogano sul significato politico di un oggetto
culturale, ossia su come esso rappresenta e tratta ideologicamente argomenti culturalmente rilevanti. Mi
sono piuttosto concentrato su due domande collegate ma distinte: «come dice quello che vuole dire?» e «in
che modo è importante?» Per rispondere alla prima domanda, e comprendere quindi le tecniche di
storytelling impiegate dalle serie tv, ricorro alla poetica storica e contestualizzo le scelte creative all’interno
dell’industria e dei suoi operatori, ricostruendo così in che modo questi significati vengono creati. La
seconda domanda si riferisce alla diffusione di questi programmi, e ripercorre il modo in cui i critici, gli
spettatori e i fan portano avanti la produzione di senso di una serie al di là della serie stessa: a volte, questa
diffusione rende le serie importanti da un punto di vista materiale, attraverso la creazione di paratesti che
consentono il processo di significazione. Ricorrendo alla poetica storica e ai casi studio, ho provato a
spiegare in che modo le serie tv funzionino sia come oggetti di intrattenimento che come stimoli culturali.
Secondo alcuni critici, queste domande sono sufficienti, poiché concedono molto spazio all’analisi della
forma e della funzione che sembrano caratterizzare le serie tv. Al contempo, molti studiosi dei media
sostengono che il proprio campo d’azione sia limitato alla scoperta del significato e all’analisi dei contenuti
politici, e che un progetto che si pone l’obiettivo di comprendere il «come» non sia utile in sé, ma al
massimo in quanto strumento per rispondere ad altre domande. Nelle pagine finali di questo libro, quindi,
voglio ampliare i miei obiettivi e dimostrare come alcune delle idee in esso esposte possano essere sfruttate
per analizzare questioni riguardanti l’influenza e i contenuti politici. Mescolerò quindi le due domande sopra
citate con altre due: «cosa significa attraverso il modo in cui lo dice?» e «perché è importante proprio per il
modo in cui lo dice?» In altre parole, come possiamo usare la poetica storica e la diffusione culturale per
analizzare le domande sul significato politico e sociale? Credo che ritrovarsi con uno studio dettagliato del
funzionamento dello storytelling televisivo possa aiutarci a comprendere più a fondo l’influenza e i
significati culturali, ma, come dimostrerò, lo studio dei meccanismi formali e delle pratiche culturali della
serialità rende l’analisi politicizzata di un testo ancora più complessa. Per comprendere come avviene
l’interpretazione politica di un oggetto culturale, si può prendere la sequenza iniziale dell’ultima puntata
della prima stagione di Homeland. L’episodio inizia con un video a camera fissa che il sergente Nick Brody
sta girando per spiegare perché progetta di morire suicida, uccidendo così numerosi politici e militari
americani, in seno a una cospirazione guidata da un terrorista mediorientale. Brody dice:

Mi chiamo Nicholas Brody e sono un sergente del corpo dei marines degli Stati Uniti. Ho una moglie e due
figli che amo. Quando guarderete questo video avrete già letto molte cose su di me e su quello che ho fatto.
Per questo motivo ho voluto spiegarvi le mie ragioni, affinché sappiate la verità. Il 3 maggio 2003, in quanto
membro di una coppia di cecchini impiegata nell’operazione «Iraqi Freedom», sono stato fatto prigioniero
da forze leali a Saddam Hussein. In seguito, quelle forze mi hanno venduto al leader di Al-Qaeda, Abu Nazir,
che dirigeva una cellula terroristica del confine siriano dove sono stato tenuto prigioniero per più di otto
anni. Mi hanno picchiato, torturato, e costretto a trascorrere lunghi periodi di isolamento totale. Vi diranno
che mi avevano plagiato, che mi avevano fatto il lavaggio del cervello. Vi diranno che mi avevano
trasformato in un terrorista e mi avevano insegnato a odiare il mio paese. Ma io amo il mio paese. Questo
perché sono un marine come lo erano mio padre prima di me e suo padre prima di lui. E in quanto marine
142
ho giurato solennemente di difendere gli Stati Uniti d’America da qualunque nemico, sia interno che esterno.
E se oggi ho deciso di agire è per proteggere il mio Paese da tale nemico interno. Parlo del Vicepresidente e
dei membri del suo team per la Sicurezza Nazionale, perché so per certo che sono dei bugiardi e dei criminali
di guerra e che sono responsabili di atrocità di cui non sono mai stati chiamati a rispondere. Lo faccio per
rendere giustizia a ottantadue bambini la cui morte non è mai stata riconosciuta e il cui omicidio
rappresenterà sempre una macchia sulla coscienza di questa nazione.

Il video si interrompe e l’episodio riprende, girato e montato in modo convenzionale. Ammesso che uno
spettatore casuale capisca che si tratti di finzione, il video ha tutti i connotati di un girato «autentico». Il
tono e l’intensità emotiva di Brody ci dicono che sta dicendo la verità o quantomeno ciò che lui crede essere
la verità. E se è vera, si tratta di una dichiarazione politica piuttosto radicale, perché accusa il vicepresidente
di essere un criminale di guerra, responsabile della morte di decine di bambini, e sostiene che il dovere
patriottico di un marine è quello di un violento atto di vendetta. la maggior parte degli spettatori ha visto (o
vedrà) questo video come parte integrante di undici ore di narrazione, spalmate nell’arco di due mesi (o
meno, se viste successivamente alla messa in onda originale). Nel corso della stagione, prima di arrivare a
questo momento, ci siamo chiesti se Brody avesse deciso di servire i propri carcerieri, abbiamo assistito alla
sua conversione all’Islam, visto tramite flashback la violenza che gli è stata inflitta durante la prigionia e,
infine, scoperto che ha in piano di morire suicida per eliminare il vicepresidente Walden. Ancora più
importante è il fatto che in questa sequenza assistiamo attraverso un flashback all’evento che ha spinto
Brody contro il suo governo: un drone americano che bombarda una scuola siriana uccidendo ottantadue
bambini, tra i quali anche il figlio del leader dei terroristi Abu Nazir, con il quale Brody ha vissuto in qualità di
amico e insegnante. Dopo l’attacco, Nazir mostra a Brody la conferenza in cui il vicepresidente nega che
durante il bombardamento siano rimasti feriti dei bambini, convincendo così Brody a inseguire la vendetta.
Per alcuni spettatori, e io tra questi, il contesto appena raccontato giustifica la dichiarazione e le convinzioni
di Brody a tal punto da farci accettare emotivamente l’ipotesi che si possa essere patriottici tramite il
terrorismo, un’idea terribilmente fuori luogo sulla televisione commerciale americana. La trasmissione della
prima stagione di Homeland, nell’autunno 2011, ha coinciso con la prima volta che gli spettatori americani
hanno sentito trattare il tema dei droni in televisione. Homeland ha alimentato il dissenso nei confronti
delle azioni militari americane, in un modo fino ad allora abbracciato soltanto dalla sinistra più pacifista e
mai visto prima nella televisione mainstream. Considerato tutto ciò, qual è il significato politico di quel
video? Poiché si trova all’inizio dell’episodio, costituisce un momento sconvolgente di sdegno emotivamente
fondato, e giustifica la prospettiva dei terroristi che ci considerano a loro volta vittime del terrorismo
militare americano. A quel punto ci siamo affezionati al personaggio di Brody, considerandolo un uomo
fragile e pieno di difetti ma anche giustificandone un’azione estrema contro un’amministrazione corrotta e
forse criminale, e questo trasforma il video in una dichiarazione che gli spettatori sono invitati a sostenere o,
quantomeno, a tollerare. Ma l’episodio non si ferma lì: Brody lascia ai suoi alleati terroristi la memory card
contenente la sua confessione e porta avanti il piano ordito per uccidere, all’interno di un bunker militare, il
vicepresidente, il segretario della difesa, i leader della Cia e molti altri politici, militari e tirapiedi. Brody
tenta di innescare la bomba, ma non ci riesce: dopo averla nascosta nel bagno riceve una telefonata dalla
figlia adolescente, Dana, che lo spinge ad abbandonare il suo piano per amore della famiglia, così l’uomo si
rende conto delle ripercussioni che l’attacco suicida avrebbe su sua moglie e sui suoi figli. L’episodio finisce
con Brody che cambia piano e invece di scagliare un attacco violento al proprio governo, diventa un
infiltrato per conto di Nazir. Questo sviluppo della trama è funzionale alla serialità, poiché permette a Brody
di tornare nella stagione successiva, nonché di portare avanti la sottotrama spionistico/sentimentale che lo
vede protagonista insieme a Carrie Mathison, l’agente della Cia convinta che Brody sia un traditore. Ma a
cambiare è anche il dissenso dell’uomo, che da politico diventa personale, poiché il suo legame di sangue
con Dana eclissa quello adottivo con il figlio di Nazir, Issa. Se la sequenza iniziale racconta di un possibile
atto di violenza contro l’America, inteso da un marine come dovere patriottico, la conclusione dell’episodio
si contrappone a questo radicalismo riproponendo il dissenso di Brody in quanto semplice desiderio di
143
vendetta per la morte di una persona amata, portandoci inoltre a parteggiare per Carrie e la sua caccia,
questa sì indiscutibilmente patriottica, di Brody e Nazir. Ma la prima stagione non è l’unico contesto di
questo video, poiché esso ritorna nella seconda stagione, ben nove mesi dopo. Il video ricompare in cinque
dei dodici episodi della stagione, creando una sorta di effetto domino in chi segue la serie. Nel secondo
episodio della seconda stagione, il capo divisione della Cia Saul Berenson scopre il video nascosto tra i beni
personali di un sospetto, a Beirut, e nell’episodio successivo lo fa vedere a Carrie, che reagisce
animatamente nel momento in cui si rende conto che le sue accuse contro Brody erano fondate. Attraverso
questa reiterata esposizione, da dichiarazione di dissenso politico il video diventa semplicemente una prova
della lotta al terrorismo da parte degli agenti americani: i sentimenti espressi da Brody diventano irrilevanti
e non vengono riproposti, poiché tutto ciò che importa è che la Cia dimostri che Brody è un traditore e che
va fermato. I contenuti politici radicali del video sono eliminati: esso diventa soltanto un elemento
dell’indagine, e l’interesse si sposta su come gli agenti della Cia riusciranno a catturare Brody e sulle possibili
conseguenze del suo tradimento. il video passa dall’essere un elemento «sintagmatico», ossia che fa
avanzare la trama, all’essere un elemento «paradigmatico», che innesca quindi le reazioni e le emozioni dei
personaggi, e va sottolineato che questi personaggi non concedono mai ai propositi violenti di Brody l’alibi
del presunto patriottismo. Il ripetersi di scene in cui un personaggio guarda il video richiama un elemento
metanarrativo presente in Homeland fin dai primi episodi, e sottolinea quanto sia importante per la serie
mostrare personaggi che osservano altri personaggi a loro insaputa. La quarta apparizione del video, nella
seconda stagione, avviene quando è proprio Brody a rivedersi sullo schermo, all’interno dell’episodio
«L’interrogatorio». Catturato e interrogato dalla Cia, Brody è costretto a guardare la propria confessione
dopo aver negato qualsiasi coinvolgimento con Abu Nazir; la scena è vista attraverso l’espediente
adeguatamente metanarrativo di una camera di sorveglianza, in modo tale da mostrarci Carrie nella stanza
di osservazione che guarda Brody che guarda se stesso nel video. Rivedere quel video serve sia a mostrare
come Brody reagisce a ciò che ha fatto, sia a rendere coinvolgente il resto dell’episodio nell’attesa di scoprire
come Brody e Carrie cercheranno di manipolarsi a vicenda. L’«interrogatorio» porta a conclusione la de-
politicizzazione del video nel momento in cui Carrie riduce il tradimento di Brody a una questione
personale, collegata sia all’affetto dell’uomo per Issa che alla mostruosità di Walden, che ha ordinato e poi
insabbiato il bombardamento del drone. Finito l’episodio non rimangono più dubbi sul fatto che Carrie e i
suoi colleghi della Cia siano i buoni, che Brody potrà redimersi aiutandoli e che la violenza da condannare
sia quella individuale di Walden e di Abu Nazir e non quella collettiva delle azioni militari. L’ultima
apparizione del video avviene nel finale della seconda stagione e recupera la sua funzione politica, ma
ricontestualizzata all’interno dell’egemonia americana: dopo che il quartier generale della Cia è stato
bombardato, Al-Qaeda invia il video ai telegiornali americani per accusare Brody dell’attacco, apparendo
agli spettatori sempre più nel ruolo del nemico proprio nel momento in cui si dissocia da quel personaggio a
noi più vicino che è Brody. Questa dissociazione si rinforza nel momento in cui guardiamo la famiglia di
Brody che guarda il video in televisione; lo shock e il rifiuto di sua figlia Dana sottolineano il fatto che l'uomo
non è più quello che si vede nel video, ammesso che lo sia mai stato. Lo stesso Brody vede il video in
televisione insieme a Carrie, e questo ricorda allo spettatore che adesso Brody è innocente e che si è
rifiutato di portare a termine il suo piano, e al contempo rinforza l’idea che i «veri» terroristi siano gli arabi
che hanno realizzato il video, e non il marine bianco che voleva manifestare il suo dissenso. Il video non
appare più nella terza stagione, che conclude la parabola narrativa del personaggio di Brody trasformandolo
in un martire segreto dei servizi segreti americani, ma noto pubblicamente come il terrorista che ha
distrutto la sede della Cia. Qual è quindi il significato politico del video di Brody? La serie ricontesualizza
costantemente il significato del video, ed è questo a renderne difficile l’analisi: la serie cambia man mano
che la si guarda, e il modo in cui racconta un dato evento ne modifica il significato. Il significato precedente
non viene negato, perché la prima apparizione del video veicola comunque una critica che non può
scomparire del tutto, né dall’universo narrativo né dalla mente degli spettatori. Eppure la definizione dei
significati politici di Homeland deve rimanere aperta e provvisoria fino alla conclusione della serie, nel

144
momento in cui essa ha dimostrato la propensione a correggere drasticamente il tiro dei suoi messaggi
politici. Questo bisogno di aspettare la fine non vale per tutte le serie: basta guardare la prima stagione di
The Wire o 24 per averne chiaro lo schieramento politico, anche se entrambe modificano leggermente nel
tempo le proprie posizioni su specifici argomenti, come la rappresentazione di genere o il ruolo dell’etnicità.
Ma nel caso di una serie come Homeland, la cui posizione politica è più ambigua e necessita di essere
interpretata, qualsiasi analisi che avvenga prima della fine della serie deve essere contestualizzata al punto
in cui è arrivato il racconto, e non può valere per l’insieme. Bisogna aspettare il finale di una serie non
perché siano le conclusioni a comunicarci la sua posizione ideologica definitiva, ma perché a quel punto
essa non avrà più tempo per rivederla e correggerne il tiro. Per capire meglio come funzionano queste
modifiche dei significati politici possiamo ricorrere al concetto di articolazione, intesa da Stuart Hall come il
legame politico che si viene a instaurare tra elementi culturali distinti. Le posizioni ideologiche più diffuse
sono il risultato del collegamento istintivo tra comportamenti sociali e significati culturali, che spesso
cambiano e si trasformano a seconda dei nuovi contesti: Brody è prima proposto come un terrorista ispirato
dal patriottismo, poi la serie ripropone il video con scopi antiterroristici e infine condanna il terrorismo e
ritratta le accuse fatte a Brody, rinforzando l’idea dominante che i terroristi siano gli arabi stranieri e non i
marine bianchi. L’articolazione si basa quindi sulla reiterazione di un elemento, che permette di chiarire
quali collegamenti culturali vanno mantenuti e quali rifiutati, sottolineando come l’interpretazione politica
di una serie debba sempre tener conto della mutabilità della rappresentazione e dei contesti. Questo modo
di alterare e rivedere un messaggio politico attraverso la sua ripetizione non è l’unico attraverso cui un
significato può essere riarticolato nel corso di una serie. Un altro importante fattore è il modo in cui la
distanza da un evento narrativo lo fa apparire diversamente con il passare del tempo. Consideriamo un altro
momento di una serie in cui viene criticata la politica militare americana: nell’episodio della seconda
stagione di Lost intitolato «Uno degli altri» c’è un flashback che ci mostra Sayid in servizio durante la Guerra
del Golfo. in quest’episodio scopriamo che era stato addestrato, motivato e pagato dall’esercito americano.
Quando l’episodio è andato in onda, nel 2006, nel momento in cui si cominciava a parlare dei dettagli delle
torture dei prigionieri perpetrate dagli americani in Iraq, la rappresentazione dell’argomento in televisione
era ancora un tabù, reso ancora più controverso dall’ipotesi che queste pratiche fossero iniziate negli anni
Novanta. Gli episodi successivi di Lost non ritrattano né contraddicono le connotazioni politiche degli eventi,
ma si limitano a ignorarle: non si fa più riferimento al legame di Sayid con l’esercito americano, e
quest’aspetto della sua storia si limita a rimanere un retroscena per i successivi ottantadue episodi. Per
molti spettatori si è trattato di un qualsiasi altro dettaglio narrativo, all’interno di un oceano di informazioni
sui personaggi, e non di una critica politica che potesse in qualche modo influenzare la loro idea delle
politiche militari americane, e questo dimostra come lo storytelling di una serie possa enfatizzare o ignorare
un particolare significato politico in base alla quantità di reiterazioni e articolazioni di un dato elemento
narrativo. Gli esempi di Homeland e Lost focalizzano l’attenzione sulla domanda «in che modo dice quello
che vuole dire» per comprendere come viene veicolato il contenuto politico di una serie, influenzandone
l’interpretazione. Per comprendere invece «in che modo è importante?», o in che modo la diffusione di una
serie modifica nel tempo i suoi contenuti politici, mi rifaccio alle politiche di genere di Breaking Bad. se ci
concentriamo sul personaggio di Skyler ci accorgiamo degli elementi melodrammatici disseminati nel corso
della serie, man mano che la donna si rende conto di essere una moglie vessata e spaventata che tenta di
proteggere se stessa e i propri figli da un marito abominevole. Questo punto di vista si fa più evidente nella
quinta stagione, soprattutto nell’episodio «Un ambiente migliore», in cui Skyler finge un esaurimento
nervoso per avere un pretesto per portare via di casa i figli e sottrarsi a Walt, diventato ormai aggressivo.
Non è una forzatura interpretare questa scena come un invito a parteggiare per Skyler e condannare la
discesa di Walt nell’amoralità, che ha distrutto ogni sentimento di amore e compassione che l’uomo può
aver provato in passato per la moglie. Eppure il punto di vista predominante di Walt ha incitato una grossa
fetta di fan di Breaking Bad a disprezzare se non addirittura a odiare Skyler, e a considerarla uno dei cattivi
della serie. la pagina Facebook intitolata «Fuck Skyler White», piena di post e commenti trasudanti violento

145
odio misogino, ha più di 31.000 fan. L’odio di questi spettatori nei confronti di Skyler sembra indifferente alle
re-articolazioni della serie, dando adito a commenti che incitano Walt a picchiarla o anche peggio, e
addirittura estendendo queste fantasie violente all’attrice Anna Gunn. Il creatore di Breaking Bad, Vince
Gilligan, ha detto la sua su quest’argomento, definendo «misogina, sterile e stupida» la cricca degli hater
online di Skyler, e dichiarando che non trova modo per giustificare una tale antipatia nei confronti di un
personaggio che è spesso la voce della razionalità posta al cospetto dell’amorale egoismo di Walt. La serie
stessa ha criticato l’odio nei confronti di Skyler mettendo in bocca a Walt le offese misogine degli hater,
proprio nel momento di massima cattiveria del personaggio, ovvero durante la telefonata nell’episodio
«Declino». Questa emulazione si è nuovamente riflessa sulla pagina Facebook anti-Skyler, con commenti del
tipo «Ho avuto un orgasmo quando Heisenberg ha chiamato Skyler “stupida puttana”. Aspettavo questo
momento da cinque stagioni». Sembra superfluo aggiungerlo, ma evidentemente non tutti i fan della serie
hanno compreso l’ambivalenza della telefonata. L’odio nei confronti di Skyler è stato parte integrante della
circolazione di Breaking Bad, e di conseguenza un aspetto importante delle sue politiche di genere, a
prescindere dal fatto che questa reazione fosse stata preventivata o meno dagli autori.
Per quanto possano risultare inaspettate o sgradevoli non possiamo ignorare certe interpretazioni
provvisorie, perché dipendono comunque dal modo in cui la serie esprime i propri contenuti, che a sua
volta influisce sull’importanza degli stessi. E per quanto io stesso consideri deplorevoli e ingiustificati gli
atteggiamenti di odio nei confronti di Skyler, essi sono comunque rilevanti.
Dobbiamo prima capire cosa intendiamo per «interpretazione» quando parliamo di una serie tv, ovvero di
qualcosa di perennemente mutevole, piena di lacune ed ellissi, dettata da infiniti contesti e paratesti, e da
una frustrante indefinibilità. Scrivere di serie tv impone al critico di accettare il fatto che costanti modifiche
e finali sospesi siano parte integrante del suo oggetto di analisi, abbandonando quella certezza categorica
tipica delle tesi accademiche.

Concludere un saggio critico seriale

Probabilmente l’aspetto più «politico» di questo libro si trova a un livello «meta», e riguarda la sua stessa
pubblicazione; è un significato politico in scala ridotta che mira a contribuire a un cambiamento nel modo in
cui è diffuso il sapere accademico. La pubblicazione online e a puntate delle bozze dei capitoli del libro ha
permesso a chiunque di accedervi, ha invogliato i lettori a proporre feedback e modifiche e, si spera,
potrebbe spingere altri studiosi a fare lo stesso con i loro progetti, e in tal senso mira a riarticolare il modo
in cui si diffonde il sapere accademico. La versione online di Complex Tv può essere considerata un «saggio
seriale» in due accezioni diverse: da un lato, è un testo critico sulle serie tv, dall’altro è un saggio pubblicato
sotto forma di serie. Ho cominciato a pubblicare il libro su MediaCommons Press nel marzo 2012, postando
un nuovo capitolo ogni due settimane, fino a giugno, e poi l’ottavo in agosto, quindi facendo una pausa
imprevista fino a marzo 2013. La differenza principale, nel mio caso, è stata la creazione in successione di
capitoli, pensati come parte di un insieme e pubblicati in una sequenza annunciata, e questo ha permesso a
chiunque fosse interessato di seguire lo sviluppo del libro come si fa con una serie tv. Ho deciso di
serializzare e rendere disponibili a tutti le bozze per via dell’esperienza di Kathleen Fitzpatrick, che ha
pubblicato i suoi testi su MediaCommons Press tutti in una volta, accorgendosi che gli ultimi capitoli
ricevevano un numero molto inferiore di commenti e visualizzazioni rispetto ai primi. Ho così sperato che la
serializzazione del libro potesse spingere l’interesse ad aumentare costantemente, invece di farlo scemare
col tempo, ma non ho raggiunto il mio obiettivo. Ma a prescindere dall’efficacia di questa modalità, questa
pubblicazione seriale delle bozze ha raggiunto l’obiettivo principale: rendere disponibile il testo a un
pubblico molto più ampio di quello tipico delle pubblicazioni accademiche. Un obiettivo secondario era
quello di comprendere meglio il processo creativo seriale in sé: volevo capire cosa succede quando si è già
resa nota una parte del proprio lavoro mentre si sta ancora lavorando al resto. Speravo che i feedback sui
primi capitoli mi avrebbero aiutato a perfezionarli al momento della pubblicazione finale, cosa che i creatori
delle serie tv non possono fare, nonché suggerito miglioramenti e modifiche per i capitoli successivi, come

146
invece succede anche con le serie tv: entrambe le speranze si sono avverate. Speravo inoltre che far
circolare dei capitoli già chiusi, invece di aspettare la conclusione dell’intero libro, avrebbe destato
l’interesse di altri studiosi, e devo dire che questa è stata la parte più riuscita del processo. Scrivere
serialmente e pubblicamente mi ha richiesto una certa flessibilità e disponibilità a modificare il mio progetto
iniziale. In alcuni casi, si è trattato di «delegare» parti della mia analisi ad altri studiosi che hanno trattato
ammirevolmente argomenti che all’inizio pensavo avrei affrontato da solo. Un altro capitolo è stato
eliminato in questo processo di scrittura seriale e pre-pubblicazione: trattava la storia della complessità
narrativa televisiva prima della svolta epocale avvenuta nel 1999. L’accessibilità del processo di scrittura ha
anche il vantaggio di mostrare il modo in cui un autore sviluppa un progetto, offrendo uno scorcio di quel
processo di scrittura che di solito rimane invisibile o nascosto. Quest’accessibilità ha significato anche che
chiunque ha potuto assistere ai momenti in cui mi sono trovato in difficoltà.

Non mi rimane che chiedermi come concludere al meglio questo libro. Cercherò ispirazione nei finali di
Homeland e del Trono di spade, che come quello di questo testo (al momento) esistono soltanto nel regno
delle infinite possibilità, eludendo così l’inevitabile delusione di una conclusione tramite l’incompletezza.
Anche se questo libro deve concludersi, infatti, lo studio delle serie tv si concede al massimo una pausa, per
rivedere materiale, riconsiderare argomentazioni e imboccare nuove strade. Ecco perché chiudo questo
libro con le tre parole preferite di qualsiasi studioso della serialità: to be continued.

147

You might also like