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Michelaucig Giacomo, maggio 2023

I Balcani. Civiltà, confini, popoli (1453-1912) di Egidio Ivetic (Il Mulino, 2020,
218 pagine) si compone di dodici capitoli, corredati di cronologia e apparato
cartografico, e aperti da una premessa euristica: l’autore si propone di offrire una
sintesi storica della regione balcanica che sia, ‹‹al contempo, un saggio
interpretativo›› (p. 8), il cui baricentro ermeneutico è costituito dal mar
Mediterraneo. I Balcani sono infatti presentati come una espressione specifica
dell’Europa meridionale, come un ‹‹terzo meridione›› che si somma alla penisola
Iberica e all’Italia. Si tratta di tre zone di confine, divenute, in particolar modo
dall’Ottocento in avanti, via via più marginali nel quadro della storia europea. La
marginalità dei Balcani è tuttavia radicale, nonché particolarmente durevole. È
infatti specialmente lungo il proprio confine sud-orientale che l’Europa ha nei
secoli negoziato la sua identità, individuando i molti ‹‹altri›› rispetto ai quali
definirsi per opposizione. Il Sud, mediterraneo e nordafricano, e l’Est, dapprima
bizantino, poi ottomano, poi russo e turco, si incontrano e saldano proprio nei
Balcani, sviluppatisi nei millenni come una zona strutturalmente liminale e ibrida,
la ‹‹più intricata e frammentata d’Europa e del mondo›› (p. 18), segnata dal
sovrapporsi di innumerevoli civiltà e attraversata da molteplici e cangianti confini
interni, essa stessa limite e nesso mobile tra mondi eterogenei.
L’ambiguità della regione balcanica si riflette innanzitutto sul piano geografico.
A differenza degli altri due meridioni, entità territoriali precise e ben definite già
per i romani (Hispania e Italia), I Balcani, come concetto geografico, hanno una
storia assai più recente. Lo stesso termine Balcani fu coniato, per altro in modo
estremamente approssimativo, solo all’inizio del diciannovesimo secolo. Ad oggi
geografi e storici sono concordi nell’individuare il limite settentrionale dei Balcani,
quello decisivo trattandosi di una penisola rivolta a sud, lungo la linea che conduce
da Fiume alle foci del Danubio nel mar Nero, passando per Karlovac e Belgrado, e
seguendo grossomodo i corsi incrociati dei fiumi Danubio, Sava e Kupa. Si
individua così una regione che possiede due connotazioni storiche fondamentali,
che non valgono per il resto dell’Europa sud-orientale, ovvero Croazia
settentrionale, Romania, Moldavia e Vojvodina, in Serbia: i domini diretti e
prolungati dell’impero bizantino prima (secoli VI e XI-XII) e dell’impero ottomano
poi (secoli dal XV al XX), con i rispettivi lasciti culturali e religiosi (cristianesimo,
“ortodosso” dallo Scisma in poi, e islam). A tali eredità va poi a sovrapporsi la
riconquista austriaca, cattolica, cominciata alla fine del XVII secolo.
A livello etnico, invece, dopo la romanizzazione dei precedenti sostrati illirici e
traci, i Balcani videro nel VI e VII secolo la penetrazione di comunità slave, che
con le loro incursioni tormentarono la regione per diverse generazioni. Per quanto
in minoranza esse riuscirono a imporsi sulle popolazioni locali e la lingua slava,
divenuta una sorta di lingua franca, si diffuse grandemente nelle regioni interne
della penisola, lasciando tuttavia intatte alcune oasi romanze e greche. Bisanzio
riuscì a conservare di fatto la fascia costiera dal Bosforo al Peloponneso,
ellenizzata a partire dal VIII secolo, e da lì sino a Cherso nell’alto Adriatico, dove
invece si conservò la romanità latina. Un’ulteriore novità, parallela all’arrivo degli
slavi, fu l’avvento dei bulgari, una popolazione di origine turcomanna, ben presto
slavizzata, diffusasi lungo le sponde del mar Nero, che fondò uno stato riconosciuto
dall’imperatore bizantino già nel 681. Sino al 1018, data del primo suo tramonto,
l’impero bulgaro fu l’unica alternativa politica a Bisanzio nei Balcani, cui si
aggiunse più tardi il regno dei serbi, riconosciuto nel 1217. Alla fine del Trecento
cominciò infine la conquista ottomana dei Balcani, culminata nelle capitolazioni di
Costantinopoli del 1453 e del despotato di Serbia nel 1459.
Fu soltanto con gli Ottomani che i Balcani vennero integrati sul piano
amministrativo, costituendosi come regione storica: nacque la Rumelia, da rum,
romani, ovvero cristiani, regione configuratasi dunque da subito come terra
cristiana dominata da musulmani. L’avanzata turca fu graduale ma costante, fatta di
battaglie, scorrerie e trattative con i potentati locali volte alla creazione di reti
vassallatiche. L’organizzazione territoriale dei Balcani ottomani fu avviata già nella
seconda metà del Trecento. Progressivamente le compagini vassalle persero il loro
status e vennero integrate nella provincia, beilerbelik, di Rumelia, sotto la sovranità
diretta del sultano. Dal beilerbelik di Rumelia si crearono per distacco degli eyalet
o pascialati. Nel 1600 i Balcani erano suddivisi negli eyalet di Rumelia (capoluogo
Sofia), di Bosnia (capoluogo Sarajevo) e dell’Arcipelago, che comprendeva il
Peloponneso, l’Ellade, le isole Cicladi e Sporadi, Smirne, i Dardanelli e la Bitinia.
Vi era inoltre il pascialato di Belgrado, compreso nell’eyalet di Buda. Tale assetto
si mantenne stabile fino al Settecento.
I sudditi dell’impero ottomano erano di due categorie a seconda della fede
religiosa: i musulmani e i non musulmani. Ai primi era permesso di accedere ai
ruoli di governo. Soltanto gli alti prelati della chiesa ortodossa, greca e serba, erano
comparati, per autorità, ai loro corrispettivi musulmani. Il 95% della società
apparteneva ad ogni modo alla raya, la massa dei sudditi. I non musulmani
(cristiani ed ebrei) dovevano pagare un’imposta personale a titolo di protezione da
parte del sultano. L’unico dispositivo di mobilità interconfessionale era costituito
dal corpo dei giannizzeri: si trattava di giovani cristiani prelevati dalle famiglie e
poi addestrati alla vita militare nella capitale. I più capaci fecero carriera, e alcuni
divennero persino gran visir, massima carica dopo il sultano. Una parte della
popolazione cristiana si islamizzò volontariamente, accettando insieme l’islam e
l’appartenenza allo stato ottomano, specialmente in Macedonia, Albania e Bosnia.
La chiesa ortodossa venne integrata nel sistema: l’autorità religiosa del patriarca di
Costantinopoli fu riconosciuta da Maometto il Conquistatore (metà del XV secolo),
che conferì inoltre al clero ortodosso la funzione giudiziaria in materia di conflitti
di natura civile. Diversa fu la sorte della chiesa cattolica, che non poteva essere
riconosciuta come tale dal sultano in quanto essa aveva un suo vertice sovrano, il
pontefice, al di fuori dei confini dello stato ottomano.
L’espansione ottomana nei Balcani proseguì fino alla fine del Seicento e si
sviluppò lungo le due direttrici del limes marittimo e di quello continentale. Sul
primo fronte l’avversario fu Venezia, contro cui l’impero ottomano combatté una
serie di guerre tra il 1463 e il 1669. Mentre sul secondo fronte Istanbul sbaragliò in
pochi decenni l’Ungheria, capitolata nel 1526 e spartita in seguito con gli Asburgo.
Dal 1529 al 1791vi fu un susseguirsi di conflitti, ricordati come guerre austro-
turche: dieci guerre in quasi tre secoli, riassumibili in quattro fasi. La prima fu
segnata dall’avanzata turca (1529-1593). La seconda (1593-1683) vide la creazione
di una Lega santa (1595) che, sotto l’egida del pontefice, segnò la nascita ufficiale
del cosiddetto Antimurale Christianitatis. Tale fase non modificò nulla sul piano
territoriale, ma culminò con il celebre assedio di Vienna, sventato dalle forze
cattoliche. Fu una svolta nel conflitto, e inaugurò la sua terza fase (1683-1718): gli
Asburgo riconquistarono l’Ungheria e si impossessarono della Serbia;
parallelamente, anche Venezia riguadagnò terreno, giungendo a prendere Mostar
(1690). L’ultima fase (1718-1791) corrisponde alla resistenza degli Ottomani, che
si ripresero il pascialato di Belgrado.
L’equilibrio sul piano internazionale si mantenne fino al 1878. Sul piano interno,
invece, già dai primi anni dell’Ottocento si avviò nei Balcani un processo di
frammentazione. Il potere centrale perse il controllo delle periferie, sempre più in
mano ai sistemi di potere locali (la casta dei giannizzeri su tutti). Lo stato ottomano
rimase importante soltanto per la popolazione musulmana, mentre i vari popoli
cristiani, sfruttando il decisivo appoggio russo, progressivamente se ne
distaccarono: la Grecia divenne indipendente nel 1829; la Serbia, dopo una serie di
insurrezioni, ottenne nello stesso anno lo status vassallatico di principato
autonomo, sino a guadagnare l’indipendenza nel 1878, con il congresso di Berlino,
con il quale si riconobbe inoltre l’indipendenza di Romania e Montenegro.
Tale assetto, carico di tensioni, si mantenne sino al 1912, quando si stipulò una
serie di accordi bilaterali tra Serbia e Bulgaria, Bulgaria e Grecia, Serbia e
Montenegro e infine tra Montenegro e Bulgaria, impropriamente definiti “Lega
balcanica”. Dietro c’era la Russia, desiderosa di limitare l’espansionismo austro-
ungarico e di colpire lo stato ottomano. Tale coalizione, semisegreta, era finalizzata
a muovere guerra alla Turchia e spartirsene i possedimenti europei. Nell’autunno
del 1912 l’autonomia dell’Albania scatenò una crisi: l’Austria-Ungheria propose un
nuovo assetto della Turchia europea, per nulla in sintonia con le aspirazioni serbe,
bulgare, greche e montenegrine. Gli alleati balcanici ruppero così gli indugi e
dichiararono guerra all’impero ottomano, sconfiggendolo rapidamente. Le rivalità
latenti tra gli alleati, relative alla spartizione dei territori sottratti agli ottomani,
condussero ad una seconda guerra, stavolta interna alla Lega, nel giugno 1913. La
Bulgaria ne uscì sconfitta, subendo perdite nei confronti di Serbia, Grecia e
Romania, unitasi al conflitto; anche l’impero ottomano ne approfittò per riprendersi
parte di ciò che aveva perso pochi mesi prima.
Le varie rivalità non si sopirono affatto. Su tutte, quella tra Austria e Serbia,
intrecciate soprattutto per la questione bosniaca, fu la più incendiaria. L’annessione
asburgica della Bosnia del 1908, formalmente austriaca sin dal 1878, aveva già
portato ad una crisi internazionale: era infatti divampata l’ostilità delle comunità
serba, che vide sfumare la possibilità di integrazione con la madrepatria, e croata.
Nacque così la questione jugoslava, l’ipotesi di uno stato comune per gli slavi del
sud, e sorse l’organizzazione Giovane Bosnia, di cui fecero parte serbi, croati e
anche musulmani. Gavrilo Princip ne fu senz’altro l’esponente più decisivo:
assassinando l’arciduca Ferdinando d’Asburgo, nel giugno 1914, innescò la terza
guerra balcanica, amplificatasi poi in conflitto mondiale.
I Balcani si frammentarono così definitivamente. L’unità, peraltro parziale,
restituitagli dalla Jugoslavia dal primo dopoguerra in avanti fu infatti tragicamente
apparente ed effimera. L’autore, pertanto, termina qui la propria esposizione, non
senza lasciare al lettore la curiosità di approfondire le modalità con cui le faglie dei
conflitti in gioco si siano prolungate sino ai tremendi epiloghi di fine secolo,
nonché gli splendidi momenti di integrazione e collaborazione che hanno
attraversato la regione in maniera altrettanto decisiva. Si tratta nel complesso di un
ottimo libro, preciso ed avvincente, che riesce nell’impresa non banale di
accompagnare il lettore attraverso una storia a dir poco intricata. Estremamente
fecondo è il pluralismo delle prospettive teoriche (dalla geografia alla storia
militare, dalla giurisprudenza all’urbanistica, ecc.) e temporali (dalle analisi
sincroniche, strutturali, a quelle diacroniche, di breve e lunga durata), che nel
complesso va a comporre un prisma eterogeneo e insieme sistematico. Lo stile è
ben bilanciato: pillole di erudizione accompagnano riferimenti alla cultura
popolare, rendendo il tessuto narrativo variegato e stimolante. Non si riscontrano
passaggi critici o controversi: l’autore, pur trattando di argomenti tutt’oggi
scottanti, riesce a mantenere uno sguardo equilibrato, neutro ed imparziale, senza
con ciò aggirare episodi dolorosi e problematici. Si riscontra anzi l’invito implicito,
in qualche caso esplicito, come nel caso dei riferimenti alle drammatiche
migrazioni serbe dal Kosovo, a ricondurre conflitti ancora d’attualità alla loro
genesi storica, relativizzandoli e disinnescandone in tal modo il potenziale
esplosivo.

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