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CANTO III

Il canto si distingue in una successione di episodi: la Porta dell’Inferno (v.1-21); la schiera dei pusillanimi
(v.22-69); la riva d’Acheronte, dominata da Caronte (70-136). L’esordio ex abrupto (all’improvviso) crea la
tensione attraverso l’iterazione anaforica del primo emistichio ‘Per me si va’ congiunti a settenari paralleli:
‘nela città dolente / nel’etterno dolore / tra la perduta gente). L’iscrizione sulla porta dell’Inferno non solo
avvisa che, di là da essa, si estende la civitas diaboli, il regno del dolore disperato. Attraverso l’iscrizione, e
la personificazione della porta, l’Inferno stesso parla per rivendicare la propria origine divina. La porta
dell’Inferno rappresenta la giustizia divina, cui il potere di Satana è comunque sottomesso: Dio permette la
tentazione per dare contenuto alla libertà dell’uomo. Apparentemente questo è il regno di Lucifero e dei suoi
neri angeli, ma in realtà prima di tutto è la loro prigione creata da Dio come opera di giustizia. L’inferno è
l’ultima delle cose create etterne che non avrà termine. L’iscrizione sovrasta la porta dell’Inferno e deve
immaginarsi come redatta in una lingua miracolosamente intelligibile da tutti gli uomini. Una volta varcata la
soglia, l’ambiente è caratterizzato da buio pesto, dal suono di un tumulto di percosse, sospiri, pianti, grida di
dolore. Con ‘diverse lingue e orribili favelle’ Dante distingue fra lingua, codice verbale di una comunità, e
favella -modo personale di parlare una lingua. Le favelle sono orribili, quasi disumane. Una delle prime
rivelazioni dell’Inferno fanno riferimento alla pluralità linguistica: la pluralità delle lingue umane è effetto e
segno del peccato riguardante la superba edificazione della Torre di Babele. Dio cancellò dalla mente degli
uomini la lingua perfetta e incorruttibile a suo tempo donata ai progenitori. Ciascuno dei gruppi che si erano
creati per lavorare alla torre ebbe una nuova lingua inintelligibile agli altri e mutevole nello spazio e nel
tempo. Quindi l’inferno è tenebroso e babelico. La diversità linguistica vale anche come simbolo, perché
l’inferno è il regno della differenza: il Sommo Bene è Uno e rispettivamente il male è pluralità, è disunione. I
dannati del terzo canto sono i pusillanimi, la loro pena è inseguire nudi -come tutte le anime dell’Inferno- per
l’eternità un’insegna bianca che corre veloce e gira su sé stessa (simbolo della loro incapacità a decidersi),
mentre vesoe e mosconi li pungono di continuo. Questa infelice condizione tocca a coloro i quali vissero
‘sanza infamia e sanza lode’ quindi a coloro che non hanno lasciato alcuna traccia nel mondo. Costoro si
sono esonerati nella scelta fra il bene e il male e il vile rifiuto è esso stesso il male. La radice è
profondamente cristiana e riprendono le parole di Cristo ‘qui non est mecum contra me est’. La versione
dantesca ha un’ispirazione vicina alla Visio Pauli: davanti all’inferno, coloro che non furono né giusti né
empi sono immersi in un fiume di fuoco. Il tema del destino eterno riservato a costoro si ispira, anche se
molto rielaborato, ad un altro motivo tradizionale: gli angeli che rimasero neutrali fra Dio e Lucifero. Nella
Navigazione di San Brandano si parla di angeli che seguirono Lucifero per la fiacchezza e non per vera
ribellione, collocati poi in una specie di Limbo. I pusillanimi invidiano anche i peccatori dannati, atto
estremamente meschino in quanto sorte di quelli è obiettivamente peggiore. Dante, tra la calca, riconosce
l’ombra di colui che ‘per viltate fece il gran rifiuto’. Rispetta, tacendo il nome, e allo stesso tempo
contraddice il ‘non ragionar di loro’ di Virgilio. L’ombra è papa Celestino V, che rinunciò alla carica dopo
tre mesi di regno (29 agosto – 13 dicembre 1296). Quando Dante scrive, nel 1307/1308 ritiene bene che la
vicenda terrena di Celestino sia destinata all’oblio: di lui tutto si dimenticherà, tranne che il suo gran rifiuto.
La viltade dell’ombra è la stessa che Dante supera varcando la porta dell’Inferno. Non ha ceduto alla viltà ed
ha accettato l’incarico che la Provvidenza gli ha affidato. I due poeti passano oltre e Dante nota una massa di
anime che manifestano una grande volontà di essere trasportate sull’altra via. Questo episodio si costruisce
sul VI libro dell’Eneide: Enea e Sibilla passano l’Acheronte sulla barca di Caronte. L’Acheronte, così come
nell’Eneide, è il fiume che limita lo spazio infernale vero e proprio. (da diffusa interpretazione pseudo
etimologica del nome ‘sine gaudio’). I due Poeti giungono alla riva del fiume mentre sta per approdarvi
Caronte, il traghettatore dei dannati. È il primo funzionario infernale che si presenti, differentemente da
alcuni dei e semidei pagani trasformati da Dante in demoni, Caronte serba ancora la figura umana perché
deve serbare quel tanto di dignità che risulti coerente con la facoltà di pronunciare severi sentenza -come
quella nei confronti dei due viaggiatori. Caronte nasce come divinità minore, cui già l’Eneide attribuisce la
figura di vegliardo di vecchiezza verde, ovvero energica. Il detto di Caronte è ambivalente: suona minaccioso
e ostile eppure prefigura a Dante un destino di salvezza. Virgilio risponde a Caronte ‘vuolsì così colà dove si
puote ciò che si vuole e più non dimandare’: formula che svolge una funzione analoga a quella talismanica,
che ha, nell’Eneide, il ramo d’oro esibito da Sibilla a Caronte. Alla fine del canto il territorio infernale è
scosso da un terremoto, ripete misticamente quello che accompagnò la morte di Gesù: anche Dante deve
‘morire’ (perdere conoscenza) per poter ‘risorgere’.

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