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Luigi Lombardi Vallauri, Diritto, voce in Enciclopedia filosofica, Bompiani, Milano 2006

DIRITTO (law; droit; Recht; derecho). – Esaminato da moscerini di corta vista e vita un elefante è rugoso
tronco, è muscoloso agitato lenzuolo, è cavo serpente, flessibile cordicella, eburneo scettro. . . non è un
elefante. Esaminato dai moscerini «gius-teorici generali» l’elefante d., nella sua formidabile maestà spazio-
temporale e strutturale, rischia di mostrarsi, riduttivamente, per circoscritte aree storico-geografiche, per
tipologie non esaustive, per singoli profili o parti costituenti cui venga inconsapevolmente conferita indebita
prevalenza.
Questa voce tenterà di presentare alcune importanti prospettive sul d. coordinandole in una visione
d’insieme che ne salvi gli specifici apporti concettuali, ma tolga loro la pretesa indebita di generalità o
esaustività: evitando sia la piattezza di una semplice rassegna delle principali definizioni del d., sia
l’arbitrarietà di ogni angolazione troppo stretta. Terrà conto delle voci teorico-giuridiche presenti in questa
Enciclopedia, per da un lato evitare ripetizioni, dall’altro «rendere forti le cause deboli», cioè mettere in rilievo
aspetti solitamente trascurati dalla teoria generale del d. (v. DIRITTO, TEORIA GENERALE).

SOMMARIO: 1. AMPIEZZA E COMPLESSITÀ DELL’OGGETTO D. - 2. IL D. «PIENAMENTE EVOLUTO». - 2.1. CONCETTO DI D. - 2.2. CONCETTO DI D.
VIGENTE. - 3. CREATIVITÀ DELLA SCIENZA DEL D. - 3.1. D. GIURISPRUDENZIALE. - 3.2. D. LIBERO, GIUSLIBERISMO. - 4. D. SOGGETTIVO. - 5. D. E
LOGOS. - 6. D. E UMANO ESSERE-AL-MONDO.

1. AMPIEZZA E COMPLESSITÀ DELL’OGGETTO D. – Trascurata, e impressionante, è anzitutto l’estensione e la


varietà tipologica degli oggetti cui può ragionevolmente applicarsi il termine d. Se assumiamo (riservandoci
di svilupparla al § 2.1) la definizione di d. come ordinamento, ossia come insieme di norme che organizza un
corpo sociale (v. GIURIDICO, ORDINAMENTO), ci si allarga davanti, a perdita d’occhio, un paesaggio sterminato:
tanti diritti quanti i corpi sociali ordinati, di tutti i generi e di tutti i tempi. Partendo dal «basso»: come
escludere le innumerevoli – anche tipologicamente – società animali, oggetto di studio della sociobiologia
(v.) e dell’etologia (v.)? Non certo in base alla vetusta, ma anche neo-attuale definizione ulpianea del diritto
naturale come quello ius, quod natura omnia animalia docuit. . . ius non humani generis proprium, sed
omnium animalium, quae in terra, quae in mari nascuntur, avium quoque commune (Dig. 1.1.1). Qualcosa
che è d. per Ulpiano (v.) deve esserlo, prima facie, anche per il teorico generale: è al negatore che incombe
l’onere della prova.
«Salendo» dall’animalità all’archeo-umanità incontriamo società ominidi databili fino a oltre i due milioni di
anni (!), nelle quali è forse più difficile negare la presenza di d. che la presenza di linguaggio (v. infatti
RODOLFO SACCO, Il diritto muto, in «Riv. Dir. Civ.» 1993, pp. 689-708); poi, lungo le centinaia di millenni (!),
società erectus, sapiens, sapiens sapiens; società nomadi, stanziali (il più durevole gruppo umano di tutti i
tempi è la comunità erectus della grotta di Zhoukoudian, occupata ininterrottamente per 270.000 anni);
società paleo-, meso-, neo-litiche; arboricole, di caverna, di accampamento, di villaggio. . . il rigoglio quasi
irrappresentabilmente protratto nel tempo (in vaste zone del pianeta fino ai nostri giorni) dei diritti viventi che
possiamo chiamare «primitivi».
Con le protocittà e i protoimperi (antichi anche più volte la c.d. «era cristiana») iniziano i diritti che possiamo
chiamare «evoluti»: tutti almeno in qualche misura scritti, tutti fortemente gerarchici in campo
«costituzionale», spietatamente crudeli in campo «penale», pesantemente ieratico-sacrali in campo
«ideologico», ma, a parte questi tratti formali comuni, fantasiosamente diversificati nei presupposti mitici,
negli stilemi culturali, nei contenuti normativi. Il d. evoluto, come la storia stessa, è figlio della città. Con la
città inizia anche una divisione del lavoro tale da consentire il formarsi di un ceto di esperti in d., di «giuristi»,
spesso coincidente, all’inizio, con il ceto «sacerdotale», poi, quasi ovunque, progressivamente più
autonomo. L’esistenza di giuristi può considerarsi il tratto determinante per assegnare a un d. evoluto la
qualifica di «pienamente evoluto».
Se si prendono sul serio le decine di milioni di anni di d. animale non umano, i milioni di anni di d. ominide, le
decine di millenni (fino a oggi, in molte zone della Terra!) di d. umano primitivo, i molti millenni di d. urbano
arcaico, si ridimensiona, come non essenziale al concetto di d., il carattere della statalità. La maggioranza
dei corpi sociali, anche umani, è vissuta, finora, o senza Stato (v.) o con uno Stato remoto, quasi inesistente.
Se si deve indicare una correlazione forte, almeno a partire da homo sapiens non è tra d. e Stato ma,
piuttosto, tra d. e «società globale» o societas perfecta o «popolo» (v.), inteso come quel corpo sociale che
assicura l’humanum culturale di base, l’umanizzazione dell’animale uomo a tutti i livelli, da quelli della
sopravvivenza a quelli simbolici e spirituali. Veicolo primario del d. – come di tutte le forme della cultura
umana – è non tanto lo Stato quanto il popolo. Tuttavia non conviene riservare in esclusiva nemmeno al
popolo la qualifica di corpo del d. Esistono fin dall’antichità – e si accrescono esponenzialmente insieme con
il complessificarsi e liberalizzarsi delle civiltà urbane evolute – corpi sociali costituiti per il conseguimento di
fini, o la realizzazione di valori, parziali, diversi dall’humanum di base: religiosi, ideologici, economici,
scientifici, artistici, educativi, assistenziali, ricreativi, a volte «criminali». Tutti hanno il proprio ordinamento
normativo, che non si vede come designare altrimenti che col termine «d.». Pur nell’esilità dei corpi sociali
da essi organizzati, ordinamenti monastici come il Vinaya Pithaka buddista o la Regula Benedicti cristiana
sono tra i sistemi giuridici più longevi e ramificati della storia; tuttora vigenti, essi rivaleggiano in durata con
gli ordinamenti di colossi temporali e territoriali estinti come gli imperi-Stati egiziano, cinese, romano; i loro
princìpi sono spesso superiori in perfezione etica. Un altro ordinamento religioso, quello della Chiesa
cattolica romana, può esibire una longevità doppia di quella di qualsiasi Stato esistito insieme a lei in
Occidente (v. CANONICO, DIRITTO). Le grandi organizzazioni sportive contemporanee (basta pensare al gioco
del calcio, all’atletica) estendono la rete minuziosa dei loro regolamenti e delle loro giurisdizioni al di là dei
confini statali, su tutta la Terra. Le grandi multinazionali economiche hanno ognuna il proprio ordinamento
giuridico interno. L’ONU non è uno Stato, ma certamente ha il proprio d. Internet sta costruendosi il suo. (V.
anche INTERNAZIONALE, DIRITTO; ORGANIZZAZIONE).
Scientificamente e contemplativamente s’impone la teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici.

2. IL D. «PIENAMENTE EVOLUTO». – Acquisite – e tenute ben presenti – l’immensa estensione spazio-temporale


e l’impressionante varietà tipologica del d. inteso come la collezione dei sistemi normativi aventi la funzione
di organizzare corpi sociali, questa voce proseguirà concentrandosi sull’area – limitatissima – degli
ordinamenti «pienamente evoluti» e, dentro quest’area, sugli ordinamenti delle società «globali» o
«perfette», diciamo pure «politiche». Questa scelta – che sospinge in direzione della città e dello Stato (v.) –
contrarierà lo storico, il comparatista, il canonista, l’internazionalista, il sociologo, l’antropologo culturale,
l’etologo, in genere gli studiosi dei diritti non urbano-statali. La scelta – compiuta per lo più
inconsapevolmente, come se fosse ovvia, dalla «teoria generale» – può giustificarsi con l’argomento che i
diritti «pienamente evoluti» statali esibiscono una complessità strutturale e culturale finora massima, tale da
fornire quasi una gigantografia di aspetti embrionalmente presenti negli altri diritti. Può servire un paragone
biologico: già la cellula svolge tutte le funzioni essenziali del vivente, ma queste si «solidificano» e si
evidenziano in altrettanti articolati subsistemi specializzati quando svolte dagli organismi pluricellulari evoluti:
studiando i quali si comprende meglio anche la cellula. Salvo indicazioni in contrario, con d. s’intenderà nel
seguito della voce il d. «pienamente evoluto» (v. DIRITTO, TEORIA GENERALE DEL).
2.1. CONCETTO DI D. – Come già detto, la definizione di d. più comprensiva e feconda è quella
(normativista-istituzionalista, kelseniana-romaniana) per cui il d. è un ordinamento giuridico (v. KELSEN,
HANS; ROMANO, SANTI), inteso come un insieme o sistema di norme che organizza un corpo sociale. Questa
definizione permette di catturare quasi tutti gli apporti concettuali delle altre teorie – del d. come norma (v.
NORMA; NORMATIVISMO), come rapporto, come istituto (v. ISTITUZIONE; ISTITUZIONALISMO), come azione o
attività o esperienza, come valore –, apporti in base ai quali dev’essere ora sviluppata e articolata.
a. – Le norme dell’ordinamento giuridico non sono solo norme di condotta, ma anche norme di struttura:
le prime attribuiscono a un certo comportamento qualificazioni deontiche come «permesso», «vietato»,
«obbligatorio» (v. LOGICA DEONTICA, B) DIRITTO); le seconde individuano soggetti o costituiscono organismi
che saranno poi destinatari o autori di norme di condotta: i cittadini, i legislatori, i giudici, la pubblica
amministrazione; perimetrano il territorio, conferiscono la capacità giuridica e di agire. Sono norme di
struttura, che rendono «dinamico» (anziché «statico», a differenza dai sistemi etici o matematici)
l’ordinamento giuridico, le norme sulla produzione di norme (v. SISTEMA GIURIDICO). Mentre il d. contiene
necessariamente norme di struttura, la morale contiene solo norme di condotta: norme morali di struttura
sarebbero improprie o ridicole.
b. – Le norme dell’ordinamento giuridico sono o generali, cioè a soggetto tipico («il compratore»,
«l’omicida»), o individuali, cioè a soggetto nominativo («Mario Rossi», «la Fiat», «la regione Emilia-
Romagna»). Norme individuali sono la sentenza, il negozio giuridico (v.), le decisioni amministrative, i pareri
dei consulenti, i lodi arbitrali. Le norme individuali devono esibire un sufficiente grado di conformità alle
norme generali (costituzioni, codici, leggi, precedenti giudiziari, usi o consuetudini, opinioni della dottrina).
c. – Le norme giuridiche di condotta, diversamente dalle norme morali, sono bilaterali, cioè non
riguardano una sola persona ma almeno due, di cui una è soggetto di una situazione attiva, l’altra di una
corrispondente situazione passiva. Di fronte a un «permesso» (situazione attiva) sta un divieto di impedire
(situazione passiva); di fronte a un «obbligatorio» o a un «dovere» (v.) (situazione passiva) sta una facoltà di
pretendere (situazione attiva); di fronte a un «vietato» (situazione passiva) sta un potere di punire (situazione
attiva). In altri termini, le norme giuridiche di condotta istituiscono rapporti giuridici: confermando – a livello
molecolare o cellulare – la vocazione «organizzante» del d.
d. – Le norme giuridiche, specialmente quelle degli strati più antichi, formano spesso istituti, cioè fasci di
norme unificate da un fine pratico (p. es. la proprietà, il contratto, il matrimonio, l’eredità, la pena, il sovrano).
In genere gli istituti sono composti di norme non statuite ma appunto «istituite», cioè a produzione
spontanea-progressiva del tipo «sentiero nel bosco», come le norme linguistiche (paragone caro ai
romantici) (v. DIRITTO, SCUOLA STORICA DEL).
e. – Restano da integrare le teorie del d. come azione/attività/esperienza giuridica e del d. come valore
(semplificando, come giustizia). È chiaro che le diverse categorie di norme dell’ordinamento giuridico, e
l’ordinamento giuridico nel suo insieme, nascono da azioni umane; e può sembrare preferibile guardare
all’attività giuridica, piuttosto che ai suoi prodotti oggettivi, per capire il d. Così hanno fatto, p. es., i filosofi
idealisti (Croce, Gentile) e i filosofi dell’esperienza giuridica (v. CAPOGRASSI, GIUSEPPE). E anche la teoria
generale del d. non ha potuto non dare un posto (talvolta eminente) all’azione. Ma probabilmente l’unico
modo per definire l’attività generatrice di d. è definirla come quell’attività che pone, istituisce, interpreta,
applica, osserva, viola norme di un ordinamento giuridico. Anzi lo stesso ordinamento giuridico nel suo
insieme può essere visto, dinamico-diacronicamente, oltre che come insieme di norme, anche come
concatenazione di atti concernenti norme: come «processo giuridico». Ciò non toglie la priorità logica del
concetto di ordinamento giuridico.
f. – Quanto al valore (ius est ipsa res iusta), è utile distinguere tra ordinamento giuridico e singola norma.
A meno di cadere in un insostenibile massimalismo giusnaturalista, si deve ammettere che gli ordinamenti
giuridici storico-positivi non coincidono con la perfetta giustizia (v.) e sono tuttavia d.: in altre parole, può
esistere d. ingiusto. Qualificarlo come non-d., invece che come d. ingiusto, serve a poco. Ma a ben
guardare, mentre singole norme possono essere, per così dire, «totalmente ingiuste» (esempi classici le
norme sullo sterminio degli eretici o degli ebrei), l’ordinamento giuridico nel suo insieme, se vuole reggersi,
deve rispettare, almeno tra le componenti sociali forti, un minimo di valori e di logos giuridico (v. oltre, § 5).
Anche la mafia (v.) o la società dei sadici hanno bisogno, al loro interno, di una dose di «inner morality of
law» (v. FULLER, LON LUVOIS).
g. – A questo punto possiamo condensare il nostro discorso in una definizione/descrizione del d.
sufficientemente completa: è opportuno pensare il d. come un ordinamento giuridico, ossia come un insieme
o sistema di norme (di condotta e di struttura, generali e individuali, statuite o istituite) che, nel rispetto o per
la realizzazione di alcuni fondamentali valori, organizza un corpo sociale, in particolare: α) al livello delle
norme di condotta, costituendo dei rapporti giuridici (la norma giuridica come bilaterale); β) al livello delle
norme di struttura, costituendo degli organi per l’interpretazione, applicazione, sanzione delle proprie norme.
h. – Quanto aggiunto in α) e soprattutto in β) serve a distinguere il d. dal costume, dai mores, cioè dalla
morale non di coscienza o filosofica, ma sociale, storico-positiva. L’elemento discriminante è la
«giustiziabilità», cioè l’esistenza di organi giudiziari in senso lato davanti ai quali far valere il d. in caso di
controversia su, o asserita violazione di, norme. Il come-si-deve (o il come-si-fa) sociale diviene
«propriamente giuridico» là dove lo supporta un’istanza giurisdizionale almeno nel senso di una terzietà
autorevole (v. GIURISDIZIONE). Nelle società animali o umano-primitive questa manca, quindi non c’è una
distinzione ben netta tra d. e norme sociobiologiche o mores. Nelle società non politiche (p. es. in quelle
finalizzate alla perfezione sapienziale o religiosa) l’efficacia della giurisdizione dipende non tanto dall’uso
della forza quanto dall’assenso dei consociati. È opportuno considerare la giurisdizione (in senso lato), non
la legislazione (in senso lato), decisiva per circoscrivere, all’interno delle norme sociali, le norme giuridiche:
in quanto la prima è un «universale giuridico» molto più universale della seconda; e in quanto, mentre la
legge (v.), anche quella che più si pretenda «completa», ha sempre lacune, la macchina del d. non può
permettersele: in caso di controversia deve sempre, comunque, colmarle.
2.2. CONCETTO DI D. VIGENTE. – Abbiamo finora esaminato le teorie che rispondono alla domanda «cos’è
il d.» (teorie dell’essenza); dobbiamo ora esaminare le teorie che rispondono alla domanda «cos’è il d.
vigente» (teorie dell’esistenza giuridica). Un d. sicuramente tale può non essere d. vigente: per ragioni
temporali (il d. giustinianeo oggi), per ragioni territoriali (il d. italiano in Cina), per ragioni ontologiche (il d.
utopico).
Ci sono tre, e solo tre, teorie fondamentali della vigenza del d.: su un versante il giusnaturalismo (v.),
sull’altro il giuspositivismo (v.) formalista e il giuspositivismo realista (v. REALISMO GIURIDICO). Secondo il
giusnaturalismo è vigente la norma giuridica dotata di valore (buona, giusta) per il suo contenuto,
indipendentemente da atti di posizione o di osservanza storici. Secondo il giuspositivismo formalista (v.
KELSEN, HANS; BOBBIO, NORBERTO; DIRITTO, TEORIA PURA DEL) è vigente la norma giuridica che è stata posta
conformemente a una norma di produzione – e che nel contempo non contrasta con una qualunque norma -
«superiore». Secondo il giuspositivismo realista (v. ROSS, ALF; LLEWELLYN, KARL) è vigente la norma giuridica
che o è stata osservata finora (teoria dell’effettività statica), o si può presumere verrà osservata nel prossimo
futuro (teoria dell’effettività dinamica) da un numero sufficiente di utenti. I tre (soli) possibili concetti della
vigenza della norma giuridica sono dunque: valore, validità (v.) formale (v. FORMALISMO), effettività.
Idealmente sarebbe desiderabile che la norma avesse tutt’e tre le vigenze; di fatto può anche averne una
sola, o due sole. Le filosofie del d. si distinguono forse più sulle questioni di esistenza che su quelle di
essenza. Ma è possibile mostrare che nessuna delle tre vigenze da sola rende completamente ragione del
funzionamento concreto del d.: alle gigantomachie tra giusnaturalismo, formalismo e realismo devono quindi
subentrare proposte di articolata integrazione; con primato teorico, in termini di positività, dell’effettività sulla
validità (v. DIRITTO, FILOSOFIA DEL; DIRITTO NATURALE E DIRITTO POSITIVO).

3. CREATIVITÀ DELLA SCIENZA DEL D. – Nella definizione del d. (§ 2.1) non è stata menzionata la scienza del d.
(v. GIURIDICA, SCIENZA) o giurisprudenza (v.), perché esiste solo negli ordinamenti giuridici pienamente
evoluti. Spesso essa viene trascurata dalla teoria del d. come ordinamento giuridico, probabilmente perché
si assume la sua natura puramente logico-ricognitiva e dunque la sua esternità al processo generativo del d.
L’assunzione è errata. La giurisprudenza, intesa o come l’attività o come il ceto degli esperti in d., non si
limita a offrire la conoscenza di un d. già interamente formato, ma contribuisce alla stessa formazione del d.:
è creativa. E questo non solo nei grandi, millenari ordinamenti giuridici non legalisti, come il d. romano (v.), il
d. comune (v.) europeo continentale, il common law (v.) anglosassone, il d. indiano e il d. islamico
tradizionali, ma anche là dove vige formalmente il postulato legalista, come negli ordinamenti giuridici statali
europei di matrice illuministica. L’irriducibile lacunosità del d. impone alla giurisprudenza una duplice
creatività: come libertà e come autorità (v.). Sempre in qualche misura libera nel senso di costretta ad
inventare il d., la giurisprudenza tende a divenire sempre in qualche misura anche fonte di d. Si profilano,
così, sul versante dell’autorità un «d. giurisprudenziale» da collocare tra i vari complessi concorrenti nel
formare il d. positivo, accanto per es. al d. legale, al d. giurisdizionale, al d. burocratico, al d.
consuetudinario; e sul versante della libertà un immancabile «momento giurisprudenziale del d.», cioè una
fase di lavorazione inventiva da parte della giurisprudenza attraverso cui ogni norma, anche il d.
giurisprudenziale, deve «sempre ancora» passare per governare l’azione. Il riconoscimento della duplice
creatività della giurisprudenza – questa grande dimenticata – impone un aggiustamento di quasi tutti i
concetti della teoria generale del d. (v.).
3.1. D. GIURISPRUDENZIALE. – Riconoscere l’esistenza di d. giurisprudenziale porta a rivedere la teoria
della norma, delle fonti, della vigenza, dell’ordinamento giuridico nel suo insieme. Il concetto di norma va
esteso a configurazioni deontiche (criteri, modelli esemplari) non facilmente traducibili in proposizioni
prescrittive. Occorre aggiungere alla norma-comando e alla norma-conformità/osservanza l’idea, che nasce
forse in ambito estetico, della norma come dialogo (mai chiuso, diacronico) tra esperti. In teoria delle fonti
cade la «costruzione a gradi» kelseniana, perché la giurisprudenza è quasi sempre fonte non ufficialmente
autorizzata da norme di produzione ma auto-legittimata, originaria, così che il d. giurisprudenziale gode non
di validità formale ma di effettività: anche per questo motivo spetta all’effettività il primato sulla validità, la cui
funzione rimane, ma in un quadro di realismo giuridico integrato (v. § 2.2). Bisogna estendere il concetto di
potere (v.) oltre i tre poteri ufficiali montesquieuiani sempre imperfettamente divisi: riconoscendo qualcosa
come un quarto potere, che è poi il potere della ragione giuridica in sé (v. PUBBLICI POTERI). E facendo posto
– nella teoria dell’autorità (v.) – all’autorevolezza; anche per questo verso corroborando il concetto esteso di
norma come criterio («per tua norma»), come proposta esperta, collaudata, di soluzione di problemi.
3.2. D. LIBERO, GIUSLIBERISMO. – Riconoscere, in secondo luogo, l’esistenza di una insopprimibile dose di
libertà della giurisprudenza nel colmare le lacune del d. positivo, disegna un identikit del giurista non come
avalutativo operatore logico-formale simile al matematico, ma come (lo sappia o no, lo voglia o no) valutante
(wertend) operatore co-produttivo del diritto simile al politico; porta a rivedere lo stile argomentativo dei
giudici, degli avvocati, dei giuristi in genere – e dunque la formazione universitaria e la preparazione dei
concorsi – nel senso di esigere aperte, critiche e non criptiche, considerazioni filosofiche (a fondazione dei
giudizi di valore) e sociologiche (a fondazione dei giudizi di fatto) quali si addicono a un attuale o futuro co-
responsabile del d.; così superando per sempre l’ipocrisia del logicismo (v. GIURIDICA, DOGMATICA).
L’insopprimibile libertà dell’interprete (v. INTERPRETAZIONE, B) GIURIDICA) impone alla teoria generale di
collocare accanto alla triade giusnaturalismo-giuspositivismo formalista-realismo giuridico (v. § 2.2.) una
quarta (forse la più completa ed evoluta) concezione complessiva del d.: il giusliberismo (v. DIRITTO LIBERO,
SCUOLA DEL), e di aggiungere alle proprie categorie, oltre al d. giurisprudenziale, il d. libero, inteso come
l’insieme dei criteri esterni al d. positivo (ma già sufficientemente «giuridicizzati») cui l’interprete fa ricorso
per colmare le lacune. Il concetto di d. libero attende ancora un’elaborazione adeguata, che lo distingua sia
dal d. naturale sia dal d. positivo. Il d. libero non è necessariamente buono/giusto/naturale; è
necessariamente non valido né effettivo; è complementare al d. positivo nell’unico d. storico integrale. Il d.
«tutto positivo» non esiste, esiste il d. positivo in completamento; d. positivo e d. libero sono i due co-princìpi
dell’unico d. storico in completamento, dell’unico processo giuridico (v. sopra, § 2.1.e), che si svolge come
una concatenazione di atti tutti anche di politica del d. La peculiare essenza ed esistenza del d. libero come
d. para-positivo a contenuto virtuale plurimo attende ancora il suo teorico; si tratta probabilmente del
concetto più ghiotto rimasto da cogliere sull’albero della teoria generale del d. (primi spunti analitici in LUIGI
LOMBARDI VALLAURI, voce D. libero, in Digesto, IV ed., vol. VI Civile).
Sui criteri suscettibili di formare il d. libero non è il caso qui di trattenersi; possono essere della natura
più varia, compresi gli interessi non apertamente confessabili del giurista o dei suoi clienti, economici o
ideologici. I criteri di natura universalistica sono gli stessi che valgono per il buon legislatore, in quanto il
buon interprete (secondo la felice espressione dell’art.1 del cod. civ. svizzero, del giusliberista Huber) è
chiamato a colmare le lacune «secondo la regola che egli adotterebbe come legislatore» (v. GIUSTIZIA;
DIRITTI UMANI; GIUSNATURALISMO; MORALE E DIRITTO; DIRITTO NATURALE E DIRITTO POSITIVO; in genere le voci
concernenti i valori etici e politici).

4. D. SOGGETTIVO. – Abbiamo fin qui trattato del d. in senso oggettivo, dell’insieme o sistema di norme. Ma
«d.» (come ius, droit, Recht, derecho) designa anche il d. in senso soggettivo, d.–di, d.–a, facoltà di agire
non impediti o di pretendere comportamenti altrui, omissivi o commissivi. Anzi nel linguaggio comune chi
dice «il mio d.» allude quasi sempre al d. in senso soggettivo come prerogativa del cittadino o senz’altro
della persona umana, e intende il d. oggettivo primariamente come un apparato la cui legittimità si misura in
base alla capacità di tutelare i diritti. Le norme giuridiche di condotta, in quanto norme bilaterali che
costituiscono rapporti giuridici (v. § 2.1.c), conferiscono a uno dei soggetti del rapporto un qualche tipo di
situazione attiva; tra i tipi possibili rientra il d. soggettivo. Ma nell’orizzonte del moderno, quando si parla di d.
al plurale (diritti umani, diritti animali, diritti del fanciullo, dell’embrione) i diritti vengono visti come aventi il
loro fondamento nell’ontologia dei rispettivi titolari più che nel sistema oggettivo di norme. Ed è
primariamente al d. in senso soggettivo che si riferiscono le carte costituzionali e internazionali e le
rivendicazioni storiche dei diritti. Sul tema dobbiamo rinviare alle v. DIRITTO OGGETTIVO E SOGGETTIVO; DIRITTI
UMANI; HOHFELD, W.N., per non compromettere l’economia del nostro discorso.

5. D. E LOGOS. – Un altro aspetto trascurato dalla teoria generale egemone è quello che possiamo chiamare
il logos del d., intendendo con logos l’intelligibile necessario presente in un dominio di esperienza. Se
esistono (cfr. AA. VV., Logos dell’essere logos della norma. Studi per una ricerca coordinata da L. Lombardi
Vallauri, Bari 1999) un proto-logos (p. es. in matematica), un cosmo-logos (p. es. in fisica, in biologia), un
antropo-logos (p. es. in linguistica, in urbanologia), sembra dover esistere, nonostante la storicità del d.,
anche un diceo-logos, un logos «regionale» che presieda alla formazione del d. non tanto dal punto di vista
assiologico della giustizia quanto da quello onto-logico della giustezza (Richtigkeit). Il logos è stato
variamente intuito e designato: idee platoniche, «modelli» sumerici, archetipi normativi, forme ben formate,
essenze e leggi di essenza, eide, concetti giuridici primitivi o fondamentali, princìpi costitutivi, natura delle
cose, moralità intrinseca del d., condizioni trascendentali, fondamenti a priori; volendo sostituire «logos» con
altra formula di sintesi, si può scegliere «universali giuridici», pensati come «essenziali» e non puramente
statistici. Si tratta in ogni caso di stampi, di vincoli posti al fiat lex del sovrano come al fiat ius dei
comportamenti conformi, diciamo a qualunque atto di volontà di qualunque provenienza, anche divina, a
qualunque mero fatto. Tra le fonti del d. è quindi la giurisprudenza (v. § 3.1) quella naturalmente vocata a
riconoscere e tradurre in storia il logos del d.; che non va identificato senz’altro con il suo valore etico, visto
che si danno leggi essenziali anche del pessimo (contro l’asserto di Reinach: «Certamente ciò che vige a
priori è in sé e per sé in pari tempo ciò che deve essere»).
Il logos del d. non è solo concettuale-astratto, sistema di eide e teoremi simil-matematico; il d. conosce
anche – fondante – un logos che ne giustifica causalmente l’esistenza, un logos che potremmo chiamare dei
bisogni. Primo bisogno umano è il bisogno dell’altro uomo: il d., eideticamente, inizia da un minimo
assiomatico, la fine dell’interdistruzione, il riconoscimento reciproco di esistenza. Questo minimo, se
sviluppato more geometrico, va già, come ordine del rapporto tra esterni, molto lontano. Ma poiché l’uomo,
biologicamente e culturalmente, non può esistere al di fuori del corpo sociale, il d. osservabile è subito anche
(in un certo senso, ancora prima) ordine interno, se necessario cogente fino alla brutalità, di comportamenti
cooperativi. Nessun d., dunque, senza gli universali del riconoscimento (v.) e della cooperazione (v.). La
quale non può non riguardare almeno le necessità materiali: ossia la riproduzione dei membri del gruppo, la
produzione economica di base, la difesa contro le aggressioni esterne, la repressione della violazione
interna di norme. Nelle società complesse, a divisione specialistica del lavoro, la cooperazione avviene sotto
il comando di autorità in varia misura sovrane, e il d. aggiunge ai propri compiti primari quello di regolarne in
modo possibilmente incruento la selezione (v. DIRITTO PRIVATO; INTERNAZIONALE DIRITTO; DIRITTO PENALE;
CRIMINE; PENA; DIRITTO PUBBLICO; COSTITUZIONE). Si deve ancora aggiungere che, come «grosso animale»
simbolico dotato di visione del mondo, il gruppo umano intreccia la trama delle strutture giuridiche portanti
all’ordito delle proprie credenze sacrali e valoriali, così che il d. risulta tessuto di necessità razionale-
sopravvivenziale e immaginazione mitopoietica, la seconda a volte quasi prevalendo sulla prima per
l’influsso di apposite caste sacerdotali.

6. D. E UMANO ESSERE-AL-MONDO. – Non ci si può congedare da una voce «d.» senza una riflessione
metagiuridica sul posto che il d. ha nella vita, sui significati del d. per l’umano essere-al-mondo. Questa
riflessione, tipicamente filosofica, deve muovere dai risultati della teoria generale (§§ 1-4) e dell’onto-logia
del d. (§ 5) integrandoli in contesti antropologici via via più ampi. L’estrema varietà-complessità dell’oggetto
d. (§ 1), paragonabile a quella del linguaggio, offre all’osservatore una quasi non recensibile molteplicità di
aspetti da interpretare, che a sua volta si moltiplica per le prospettive filosofiche suscettibili di interpretarli:
creando un imbarazzo della scelta non superabile.
Quello che si può dire, irenicamente e cumulativamente, è che il d., con i suoi chiaroscuri, traccia un
affidabile ritratto dell’uomo, per cui conoscendo l’uomo si comprende il d. e conoscendo il d. si comprende,
si incontra, l’uomo. Più precisamente si incontra, come sapeva Aristotele, l’umano medio o mediocre, quello
non degli uomini-bestie (i Ciclopi eslegi) né degli uomini-dei (i sapienti, legge a se stessi), ma degli uomini-
uomini: l’umano comune. L’esperienza giuridica non è, in nessuna direzione, il culmine dell’esperienza
umana. La superano, ciascuna nel proprio ordine, le grandi scienze, la creazione poetica e artistica, l’etica
sapienziale, le forme più alte e intense della solidarietà e della comunicazione interpersonale: la
«compassione» buddista, la «carità» cristiana, la nonviolenza, l’amicizia, l’amore in senso sia erotico che
esistenziale. Il d., come sapeva Kant, non è che socievole insocievolezza; può unire gli estranei e gli ostili,
unisce per divisioni e per delimitazioni. È superamento, ma anche espressione e legittimazione, della
diffidenza, del conflitto, della violenza, della coazione, dell’avidità, della separatezza, dell’egoismo. Anche il
d. meglio orientato al pieno sviluppo della persona può solo promuoverlo presuntivamente, operando su beni
esterni, su condizioni oggettive; attinge il soggetto non autenticamente in quanto persona (Selbstsein), ma
organizzativo-normativamente in quanto portatore di ruoli (Als-sein); in ogni caso comprime, per il bene del
tutto, la libertà della parte. La pienezza/il fiore della giustizia giuridica non è la pienezza/il fiore dell’umano.
La pace giuridica non è l’ultimo – l’intimo – della pace (v.).
I limiti ontologici del d. sono il rovescio di altrettanti pregi. L’amoralità del d. rende vivibile una società di
moralmente imperfetti. L’impersonalità del rapporto giuridico, che non esige, come l’amicizia o l’amore, un
incontro vita con vita, rende pensabili forme di socialità ecumeniche nello spazio e perenni nel tempo: il d.
rivelandosi, conclusivamente, come l’involucro organizzativo della continuità storica della comunicazione
umana, quindi come il supporto organizzativo del farsi universale della persona; in direzione del mai
giuridicamente attingibile pléroma.
Il d. non è la vita, è la casa della vita. Non è la danza; è il piancito sul quale, più è solido, meglio può
slanciarsi la danza della creazione della vita.
BIBL.: la ricchezza dei rinvii interni ad altre voci consente, la sconfinatezza di qualunque non arbitrario corredo bibliografico di una voce
«d.» consiglia, di considerare come bibliografia di questa voce la somma delle bibliografie delle altre voci di rinvio, integrandola
semplicemente con la menzione di alcuni lavori dell’autore della voce stessa che fondano e integrano il discorso qui svolto: Saggio sul
d. giurisprudenziale, Milano 1967; Corso di filosofia del d., Padova 1981; Il d. come ordinamento, in «Atti del X Congresso nazionale di
filosofia giuridica e politica», Milano 1975; voce Giurisprudenza – 1) Teoria generale, in Enciclopedia giuridica, vol. XV, Roma 1988 (per
quanto riguarda i §§ 2 e 3); Amicizia, carità, d. L’esperienza giuridica nella tipologia delle esperienze di rapporto, Milano 1974; voce D.
naturale, in Digesto, IV ed., vol. VI Civile (per quanto riguarda i §§ 5 e 6).

L. Lombardi Vallauri

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