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Parole di vita

Collana diretta da Claudio Doglio


APOCALISSE
a cura di
Claudio Doglio
Imprimatur
Padova, 24 maggio 2012
Onello Paolo Doni, Vic. Gen.

ISBN 978-88-250-3056-3
ISBN 978-88-250-3290-1 (PDF)
ISBN 978-88-250-3289-5 (EPUB)

Copyright © 2012 by P.P.F.M.C.


MESSAGGERO DI SANT’ANTONIO – EDITRICE
Basilica del Santo - Via Orto Botanico, 11 - 35123 Padova
www.edizionimessaggero.it
PREFAZIONE

Nel 2000, anno del grande Giubileo, la rivista Parole di


vita aveva dedicato i sei fascicoli annuali alla presentazione
del­l’ultimo libro del canone neotestamentario: l’Apocalisse
di Giovanni. La fine di un millennio e l’i­nizio del nuovo
avevano risvegliato antiche curiosità: così lo studio esegeti-
co e teologico di tale testo permise a molti lettori di scoprire
che l’Apocalisse non è la previsione catastrofica della fine
del mondo, ma piuttosto la rivelazione gioiosa del Cristo
risorto accolto con fede dalla comunità cristiana sebbene,
verso la fine del I secolo, stesse attraversando un momento
cruciale e doloroso.
Il successo che il pubblico riservò a questa annata fu no-
tevole e in breve tempo i fascicoli andarono esauriti: mol-
ti lettori ci hanno chiesto una ristampa e al loro desiderio
viene incontro questa pubblicazione che, come le altre di
questa collana, intende riproporre in modo unitario i con-
tributi esegetici già editi sulla nostra rivista.
Non si tratta però di una semplice ristampa dei vari fa-
scicoli, perché gli articoli sono stati selezionati e distribuiti
in modo nuovo, così da poter offrire uno strumento comple-
to in grado di aiutare i lettori ad affrontare il difficile testo
dell’Apocalisse. Bisogna ammetterlo: l’Apocalisse è difficile!
Non basta leggerla per capirla; più che per altri libri biblici è
necessario avere una chiave di interpretazione, giacché senza
tale chiave il testo resta chiuso e il rotolo sigillato non si apre.
Anzitutto, dunque, si trova una sezione definita Intro-
duzione, perché svolge appunto la funzione di introdurre i
lettori dentro al testo, fornendo loro i criteri principali per
comprenderlo in modo corretto e teologicamente valido. Un
primo inquadramento storico delinea l’ambiente vitale in
cui l’Apocalisse ha visto la luce e poi uno sguardo al gene-
re letterario del­l’apocalittica giudaica illumina somiglianze

5
e differenze. Passando quindi all’esame del libro in sé, ne
viene presentata la trama narrativa e spiegato l’impianto
letterario, con particolare attenzione al fenomeno tipico dei
«settenari»; si considera quindi il modo con cui l’Apocalisse
rilegge l’Antico Testamento e adopera il simbolismo in mo-
do affascinante e complesso; viene inoltre affrontata la que-
stione della paternità dell’opera, mettendo in luce i rapporti
che legano l’autore dell’Apocalisse alla tradizione giovan-
nea. Infine un breve schizzo delinea la storia delle interpre-
tazioni che la rivelazione di Giovanni ha conosciuto lungo
i due millenni in cui è stata letta da ogni genere di lettore.
La seconda sezione, molto più corposa, è dedicata alla
Esegesi. Raccoglie infatti ventun saggi esegetici che diversi
autori dedicano alle pagine più importanti e significative
dell’Apocalisse. Anche se non si tratta di un commentario
completo, l’intero libro è presentato in modo esauriente con
seri contributi che aiutano ad aprire il rotolo sigillato e a
leggerlo con frutto, dalla rivelazione del Cristo risorto fino al
quadro conclusivo che descrive la nuova città che scende dal
cielo, passando attraverso i settenari di sigilli, trombe e cop-
pe, riflettendo sullo scontro fra la donna e il serpente, sulla
condanna di Babilonia la prostituta e sulle nozze dell’Agnel-
lo che si è preparato come sposa la nuova Gerusalemme.
L ’ultima parte di quest’opera, che intitoliamo Teologia,
raccoglie i contributi di riflessione sintetica su alcuni temi
particolarmente significativi nell’Apocalisse, quali la litur-
gia e la Chiesa, la testimonianza e l’idolatria, per concludere
con un saggio teologico sul simbolico «albero della vita»
che collega Apocalisse con Genesi, chiudendo mirabilmente
il cerchio della rivelazione divina. Infine è stato aggiunto,
come ultimo contributo, un repertorio bibliografico aggior-
nato per suggerire al lettore i vari sussidi – recenti e in lin-
gua italiana – diversificati per esigenze e interessi, utili per
continuare e approfondire lo studio dell’Apocalisse.
Con un toccante riferimento all’Apocalisse il santo Pa-
dre Benedetto XVI ha concluso l’esortazione apostolica Ver-
bum Domini (n. 124), invitando ciascuno a questo delizio-
so banchetto imbandito dalla parola di Dio:

6
A tutti i cristiani ricordo che il nostro personale e comunitario
rapporto con Dio dipende dall’incremento della nostra familia-
rità con la divina Parola. Infine, mi rivolgo a tutti gli uomini,
anche a coloro che si sono allontanati dalla Chiesa, che hanno
lasciato la fede o non hanno mai ascoltato l’annuncio di sal-
vezza. A ciascuno il Signore dice: «Ecco, sto alla porta e busso.
Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da
lui, cenerò con lui ed egli con me» (Ap 3,20).

Mentre ringrazio di cuore i numerosi biblisti, che hanno


messo a disposizione la loro competenza per realizzare que-
sto volume, auguro ai lettori uno studio sereno e fecondo,
convinto che la meditazione intelligente della parola di Dio
possa aiutare molto la crescita di cristiani maturi, capaci
di affrontare le crisi del tempo presente, seguendo con deci-
sione e coerenza il nostro pastore che è l’Agnello, immolato
ma vivo.
Claudio  Doglio

Abbreviazioni delle riviste citate


«Bib» Biblica
«BR» Biblical Research
«CBQ» Catholic Biblical Quarterly
«EuntDoc» Euntes Docete
«Greg» Gregorianum
«JBL» Journal of Biblical Literature
«JETS» Journal of the Evangelical Theological Society
«JSNT» Journal for the Study of the New Testament
«JTS» Journal of Theological Studies
«NT» Novum Testamentum
«NTS» New Testament Studies
«RasT» Rassegna di Teologia
«RivB» Rivista Biblica
«ZNW» Zeitschrift für die neutestamentliche Wissenschaft

7
PRIMA PARTE

INTRODUZIONE
Claudio Doglio
________

L ’ambiente vitale
dell’Apocalisse

La tradizione antica attribuisce la paternità dell’Apocalisse


all’evangelista Giovanni e la riconosce nata all’interno della
sua comunità, che ha il proprio ambiente geografico e cultu-
rale nella città di Efeso e nel suo territorio. La provincia ro-
mana d’Asia e il colto contesto efesino rappresentano dunque
la cornice storica in cui si trova a vivere la Chiesa dell’Apoca-
lisse, la quale, nella seconda metà del I secolo d.C., sperimen-
ta molte situazioni di conflitto verso l’esterno e anche al suo
stesso interno.
I primi anni di vita della comunità cristiana non furono fa-
cili. L ’annuncio della buona notizia di Gesù il Cristo era un
fatto nuovo e originale, ma non per questo semplice e chiaro.
Da subito gli uomini e le donne che avevano accolto la Noti-
zia si trovarono di fronte a concrete vicende con cui dovette-
ro fare i conti: incontrarono opposizione e rifiuto, derisione e
indifferenza, da parte dei giudei e da parte dei greci; vissero
eventi storici grandiosi, quali la caduta di Gerusalemme e l’or-
ganizzazione della struttura rabbinica, che richiedevano una
spiegazione nuova e un comportamento adeguato; si imbatte-
rono in difficoltà interne, quali divisioni e discussioni dottri-
nali, che domandavano soluzioni difficili da trovare.
Oltre alle rare informazioni della tradizione patristica, ri-
caviamo queste indicazioni dagli indizi presenti nello stesso
libro dell’Apocalisse, soprattutto nelle lettere inviate alle sette
Chiese (cc. 2-3), con cui l’autore vuole comunicare un mes-
saggio pastorale alle comunità cristiane legate a lui: inevita-
bilmente esse riflettono la situazione storica e religiosa delle
Chiese d’Asia verso la fine del I secolo d.C.1.
1
Studio classico sulle lettere è l’opera di W.M. Ramsay, The Letters to the Se-
ven Churches (edizione riveduta da M.W. Wilson), Peabody, MA 1994 (19041);

11
I difficili rapporti col mondo esterno
Sono due i principali interlocutori con cui il gruppo cri-
stiano entra in conflitto: l’autorità romana, forte della cultura
ellenistica, e le comunità giudaiche che rifiutano Gesù come
il Cristo.
Fin dall’inizio dell’Apocalisse emerge il tema della difficol-
tà. Giovanni, infatti, si presenta alle Chiese sottolineando la
condivisione comunitaria che accomuna l’autore e i suoi fede-
li: «Io, Giovanni, vostro fratello e solidale con voi nella soffe-
renza, nella regalità e nella pazienza in Gesù, venni a trovarmi
nell’isola chiamata Patmos a causa della parola di Dio e della
testimonianza di Gesù» (Ap 1,9). In quanto uniti a Gesù si tro-
vano tutti sottoposti a una pressione esterna, ma condividono
anche un’importante responsabilità regale e, soprattutto, han-
no la capacità di sostenere la prova.
Proprio questa introduzione fa pensare che il soggiorno di
Giovanni nell’isoletta di Patmos non sia volontario, ma obbli-
gato da un’autorità contraria; la tradizione patristica conosce
una condanna dell’apostolo al confino sull’isola e la causa di
questa condanna è mostrata nella fedeltà alla rivelazione divi-
na in Gesù Cristo e all’attiva opera di testimonianza.

La politica romana
Giovanni scrive verosimilmente verso la fine del I seco-
lo, cioè durante il regno dell’imperatore Domiziano (81-96),
quando le scelte della grande politica romana stavano provo-
cando vivaci reazioni nell’ambiente cristiano, a partire dagli
ultimi anni del regno di Nerone (64-68): i grandi apostoli Pie-
tro e Paolo erano già caduti vittime della giustizia imperiale.
Non si può parlare di vere persecuzioni contro i cristiani, ma
in molte parti dell’impero la vita della Chiesa si fa sempre più
difficile e conosce vivaci opposizioni e ingiuste discriminazio-
ni2. Una questione molto pericolosa nasce con la tendenza di

particolare attenzione per l’ambiente storico e sociale mostra C.J. Hemer, The
Letters to the Seven Churches of Asia in Their Local Setting, Sheffield 1986.
2
Uno studio accurato sul rapporto dei cristiani con la società romana nel-
la provincia d’Asia è sviluppato da L.L. Thompson, The Book of Revelation.
Apocalypse and Empire, Oxford 1990. Un dettagliato quadro della situazione
era già stato elaborato da P. Prigent, Au temps de l’Apocalypse. I: Domitien,
«Revue d’Histoire et de Philosophie Religieuses» [= «RHPR»] 54 (1974), pp.
455-485; II: Le culte impérial au 1er siècle en Asie Mineure, «RHPR» 55 (1975),
pp. 215-235; III: Pourquoi les persécutions?, «RHPR» 55 (1975), pp. 341-363.

12
Domiziano a intensificare il culto dell’imperatore, che per la
prima volta in quegli anni riceve il titolo di Deus et Dominus.
Nella provincia d’Asia tale culto si sviluppa velocemente e nella
città di Efeso viene subito innalzata una statua di Domiziano3.
I cristiani si trovano imbarazzati di fronte a questo peri-
coloso aspetto della politica romana; sanno di dover compie-
re precise scelte di opposizione, ma si accorgono anche di
rischiare seriamente. A Pergamo, ad esempio, famosa per il
tempio dedicato ad Augusto e Roma, simbolo solenne del cul-
to imperiale, è stato messo a morte il fedele cristiano Antipa
(Ap 2,13); la citazione di un unico nome fa pensare a un caso
isolato, ma da molti altri particolari si può facilmente risalire
a un diffuso clima di convivenza difficile. La comunità cristia-
na comincia a presagire lo scontro tremendo con il potere im-
periale romano.

Il paganesimo
Ma in quest’epoca il pericolo più grave è rappresentato
dal paganesimo intellettuale e dalla cultura ellenistica molto
diffusa nella zona di Efeso, soprattutto con connotazioni re-
ligiose di esoterismo e magia. Numerosi sono i filosofi e gli
insegnanti popolari che nel colto ambiente efesino aprono
scuole di pensiero e parlano comunemente di teologia, ma
con un’impostazione che non si adatta affatto al Vangelo di
Gesù Cristo, valutato spesso come una «stoltezza per i greci»
(cf. 1Cor 1,22). Molte idee di questo ambiente vengono cono-
sciute dai cristiani dell’Apocalisse e non sempre essi sono in
grado di valutarle e di respingerle; talvolta, forse spesso, si de-
ve assistere a pericolose deviazioni dottrinali e a compromessi
vergognosi con la cultura dominante, che riesce anche a im-
porre le sue idee religiose, perché ha innanzitutto conquistato
le persone con il suo stile di vita agiato e consumistico.

Il giudaismo
Oltre alla politica romana e alla cultura greca, la comunità
cristiana si trova in grave difficoltà di rapporti anche con il
mondo giudaico, che proprio in quegli anni si stava riorga-
nizzando intorno al gruppo dei farisei, unico superstite cultu-
rale dopo la caduta di Gerusalemme dell’anno 70. Perduto il
3
Fonte di informazione è lo storico romano Svetonio, nell’opera De vita
Caesarum VIII, 57.

13
tempio, il sacerdozio e la città santa, non rimaneva al giudai-
smo che la Torah: solo una ferma ortodossia legata alla Leg-
ge poteva garantire la sopravvivenza della religione ebraica.
La rigida riorganizzazione del giudaismo a opera dei rabbini
farisei, iniziata negli anni 80-90, porta alla separazione netta
e polemica con tutti quei giudei che avevano accettato come
Messia Gesù di Nazaret. Dopo decenni di convivenza, e forse
anche di equivoci, in questi anni si giunge a un forzato chia-
rimento: i giudeo-cristiani devono fare una scelta, o da una
parte o dall’altra. Qualunque sia la loro scelta, la parte che
rifiutano li considera settari o scomunicati. Una forte tensione
già esisteva fra le autorità giudaiche di Gerusalemme e il nuo-
vo gruppo cristiano; ne sono esempi drammatici le sentenze
capitali inflitte a importanti esponenti della Chiesa: Stefano
nel 36, Giacomo di Zebedeo negli anni 40, Giacomo parente
del Signore verso il 62. Ma alla fine del I secolo lo scontro vie-
ne allo scoperto e diventa feroce.
I due gruppi, entrambi forti nella zona di Efeso, si contrap-
pongono nella vita di tutti i giorni: i cristiani devono subire
emarginazione e angherie a causa di giudei che hanno un for-
te influsso sociale; ma, a loro volta, considerano la comunità
giudaica «sinagoga di satana» (Ap 2,9; 3,9), nella linea della
teologia giovannea che considera i giudei, avversari di Gesù,
come «figli del diavolo» (cf. Gv 8,44). Il popolo di Dio non si
identifica con una etnia, ma comprende tutti coloro che rico-
noscono in Gesù il Figlio stesso di Dio e unico salvatore del
mondo: proprio per questa distinzione teologica, la comuni-
tà cristiana si differenzia nettamente dal giudaismo nell’in-
terpretazione delle Scritture. I cristiani, infatti, danno vita a
una propria esegesi biblica e sono chiamati con forza a rileg-
gere gli avvenimenti contemporanei alla luce della loro fede.
Soprattutto la caduta di Gerusalemme si presenta come un
evento decisivo, terribile e significativo, che chiede di essere
interpretato: alla luce della precedente distruzione della città
santa ad opera dei babilonesi, la Chiesa cristiana riprende le
interpretazioni antiche che vi leggono un intervento puniti-
vo di Dio contro coloro che hanno tradito e violato l’allean-
za, mentre prendono sempre più coscienza di essere il popolo
della «nuova alleanza» che Dio ha scritto nel cuore dell’uma-
nità (cf. Ger 31,31-33).
Insieme a questo fatto decisivo, che segna la separazione
dal fariseismo giudaico, tutte le nuove scelte della comunità

14
cristiana, siano liturgiche o esistenziali, richiedono chiari-
menti e motivazioni, quindi rimandano a un’interpretazione
delle Scritture.

I problemi all’interno della Chiesa


Non solo romani e giudei costituiscono un problema; an-
che all’interno della comunità cristiana esistono pericolose
relazioni conflittuali. Gli studiosi che in questi anni si sono
cimentati nella ricostruzione della comunità giovannea sono
giunti a conclusioni diverse, ma tutti concordano nel ricono-
scere una varietà di sottogruppi in contrasto fra di loro4. In
mancanza di documentazione esterna, è comunque possibile
riconoscere una situazione di forte tensione, che sta dietro (e
forse causa) gli scritti giovannei. La terza lettera di Giovanni
rivela la presenza di persone come Diotrefe, autorevoli nella
comunità cristiana, che sono in contrasto con il Presbitero, la
grande figura di maestro che è all’origine di tutte queste ope-
re letterarie. Dalla prima lettera, inoltre, risulta anche chiara-
mente l’esistenza di un gruppo che si è separato dalla comuni-
tà per gravi divergenze dottrinali (cf. 1Gv 2,19): alcuni disce-
poli di Giovanni, membri della comunità, hanno contestato
il maestro e, separandosi dalla sua comunità, sono divenuti
sostenitori di una teologia cristiana ellenizzata e gnosticheg-
giante, che rifiuta la realtà dell’incarnazione e svaluta l’impe-
gno del credente nella concretezza della carità.
Anche nelle lettere dell’Apocalisse compare ripetutamen-
te il problema di conflitti con gruppi ereticali: la questione
fondamentale che emerge è la presenza dell’errore all’interno
delle comunità cristiane. Si accenna talvolta ai nicolaìti, co-
me a un gruppo distinto dalla comunità: la Chiesa di Efeso
è elogiata perché detesta le opere dei nicolaìti, che anche il
Cristo detesta (cf. Ap 2,6), mentre la comunità di Pergamo è
rimproverata perché ha al proprio interno dei sostenitori della
dottrina dei nicolaìti (cf. Ap 2,15).
In che cosa consista questa dottrina non è detto chiaramen-
te, ma attraverso altri rimproveri a persone che insegnano e
compiono il male nelle comunità cristiane d’Asia, si può rico-
4
Un’ipotetica ricostruzione di questa comunità è stata offerta da R.E.
Brown, La comunità del discepolo prediletto, Assisi 1982, pp. 196-216. Interes-
sante e nuova, rispetto a molte opinioni correnti, è la posizione di M. Hengel,
La questione giovannea, Brescia 1998.

15
struire una particolare situazione. I cristiani di Pergamo – do-
ve c’era il grande altare di Zeus, che Giovanni sembra identifi-
care con il «trono di Satana» – hanno fra di loro eroi della fede
come il martire Antipa, ma anche «sostenitori della dottrina
di Balaam, il quale insegnava a Balak a mettere inciampi da-
vanti ai figli d’Israele, incitandoli a mangiare carni immolate
agli idoli e a darsi alla prostituzione» (Ap 2,14). Il riferimento
simbolico a un personaggio dell’Antico Testamento sembra
colpire direttamente alcuni aspetti di un insegnamento per-
verso, relativo agli idolotiti e alla porneia, che sembra presente
già nella comunità paolina di Corinto negli anni cinquanta5.
Lo stesso tipo di errato insegnamento è sostenuto nella
comunità di Tiatira da una persona che viene presentata da
Giovanni con lo pseudonimo infamante di Gezabèle, l’anti-
ca regina idolatra che aveva traviato Israele e perseguitato il
profeta Elia: «La donna che si dice profetessa e insegna e in-
ganna i miei servi, incitandoli a darsi alla prostituzione e a
mangiare carni immolate agli idoli» (Ap 2,20). I seguaci della
sua dottrina sono ostinati e non vogliono convertirsi dall’at-
teggiamento che Giovanni definisce «prostituzione» e che noi
possiamo intendere come sfacciato adattamento alla mentali-
tà del mondo: essi pretendono di «conoscere le profondità di
satana – come le chiamano» (Ap 2,24), ovvero dottrine esote-
riche o rivelazioni segrete che rendono gli adepti indifferenti
alle realtà concrete della vita, nel senso che possono fare tutto
quello che vogliono.
Si può, pertanto, parlare di una diffusa mentalità di tipo
giudeo-cristiano e gnostico insieme, un’incipiente eresia per
la quale gli elementi materiali sono insignificanti e quindi l’a-
dattamento a tutti gli aspetti della vita pagana è visto come
normale e giusto. Alcuni cristiani, non sappiamo se pochi o
tanti, sono favorevoli a questa mentalità e professano un cri-
stianesimo ellenizzato, mettendosi in disaccordo con l’inse-
gnamento del grande maestro ed evangelista.
Giovanni, infatti, combatte decisamente a nome di Cristo
tale mentalità, rimprovera le comunità tiepide e arrendevoli,
elogia quelle fedeli e decise; tutte esorta alla costanza e alla
coerenza. È facile dedurre da tale insistenza una situazione
5
Paolo affronta il problema della prostituzione (porneia) soprattutto in
1Cor 6,12-20 e tratta diffusamente la questione delle carni immolate agli idoli
(idolotiti) in 1Cor 8,1-11,1 (cf. anche At 15,29; 21,25 dove i due termini proble-
matici sono connessi).

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ecclesiale alquanto instabile, con la presenza preoccupante di
cristiani tiepidi e insicuri, paurosi e incoerenti, indecisi e in-
clini al compromesso.

L ’ambiente liturgico
In questa difficile situazione il libro dell’Apocalisse appare
come un’autentica opera di nuova evangelizzazione, cioè l’an-
nunzio del messaggio evangelico a una comunità che è già cri-
stiana, ma per disparati motivi entra in crisi di fronte a gravi
novità che la sconvolgono. Tale opera trova nella celebrazione
liturgica il suo proprio ambiente vitale che ne illumina il con-
tenuto e ne chiarisce il senso, dal momento che è proprio l’as-
semblea liturgica la protagonista attiva di tutta l’esperienza
che il libro vuole comunicare6.
Nella liturgia, dunque, il gruppo di ascolto si impegna a
leggere e interpretare la propria storia nella luce del Cristo
risorto: la comunità è invitata a entrare nelle visioni propo-
ste, a comprenderne il senso e ad applicarlo concretamente
alla propria realtà. Possiamo così affermare che il libro dell’A-
pocalisse rappresenta l’impegno di comprensione della storia
da parte di una comunità cristiana che nelle proprie assem-
blee liturgiche celebra la vittoria di Dio realizzata nell’evento
storico di Gesù, culminato nel suo esodo pasquale di morte
e risurrezione: al punto che si potrebbe definire una specie
di «haggada pasquale cristiana». Proprio per tale riferimen-
to teologico, molto spesso le visioni riproducono scene di li-
turgia celeste: le immagini dell’antico culto di Israele, infatti,
ritenute «un’ombra e una copia delle realtà celesti» (Eb 8,5),
sono adoperate come figura della realtà e le celebrazioni che
vengono descritte nel cielo mirano a spiegare il compimento
reale delle antiche figure. Tutto l’antico patrimonio liturgico
della Bibbia diventa lo sfondo ideale per descrivere il mistero
della salvezza operato da Dio in Gesù Cristo.
L ’Apocalisse quindi, in quanto opera radicata nella liturgia,
è essenzialmente celebrazione del mistero pasquale, evento
fondamentale che costituisce la chiave di lettura e il princi-
pio dinamico di una storia totalmente nelle mani di Dio. Per

6
Cf. U. Vanni, L ’assemblea ecclesiale «soggetto interpretante» dell’Apocalisse,
«RasT» 23 (1982), pp. 497-513.

17
questo l’opera è idealmente collocata «nel giorno del Signore»
(1,10): giorno escatologico dell’intervento di Yhwh, memo-
riale della Pasqua di Gesù, domenica della settimana, giorno
della comunità cristiana che celebra la risurrezione di Cristo.
Nel giorno di domenica l’assemblea liturgica incontra il Cristo
risorto (è questo il senso della prima visione: 1,9-20), vive l’e-
sperienza dello Spirito e comprende attivamente il senso del-
la propria storia. Per questo l’opera è ricca di canti festosi, a
differenza di molte altre apocalissi, piene di pianti e lamenti.
Inserite in questa dimensione orante, le pagine dell’Apo-
calisse non si presentano più come l’artificiosa descrizione
di una realtà inaccessibile e strana, enigma stravagante per
esegeti fantasiosi; mostrano invece la riflessione corale di una
comunità che riconosce il dono della propria vita nuova, frut-
to dell’intervento «escatologico» del Messia, si impegna per
riconoscere nel difficile presente la sua opera di Signore uni-
versale e anela al compimento finale, quando il suo dominio
apparirà nella pienezza della sua forza salvifica.

L ’esperienza di Patmos: momento scatenante


Il contesto «domenicale» dell’Apocalisse è strettamente
connesso con il soggiorno di Giovanni a Patmos: l’aspetto lu-
minoso della vittoria di Cristo è infatti unito alla dimensione
sofferente della situazione contingente in cui si trova a vivere
la Chiesa. Come spiegare la presenza dell’autore su quest’iso-
la? E in quali anni collocarla?
L ’informazione più antica ci viene da Ireneo, che data l’A-
pocalisse «alla fine del regno di Domiziano» (Contro le eresie,
V, 30,3). Domiziano regnò fino al 96 e tale data non è troppo
tardiva, dal momento che lo stesso Ireneo afferma per due vol-
te che Giovanni, il discepolo del Signore, visse fino al tempo
di Traiano (98-117). Lo storico Eusebio conferma questa data:
Dopo Domiziano, che regnò quindici anni, ottenne l’impero
Nerva. Per una legge del Senato romano furono allora abroga-
ti tutti gli odiosi decreti di Domiziano e quelli che erano stati
ingiustamente esiliati rimpatriarono e ricuperarono tutti i loro
beni. Questo ci raccontano gli storici, che hanno descritto gli
avvenimenti dell’epoca. Così, secondo una tradizione traman-
data dai nostri antenati, anche l’apostolo Giovanni dall’isola
della sua relegazione ritornò al domicilio di Efeso (Storia Eccle-
siastica III,20,8-9).

18
Eusebio, inoltre, nella sua Cronaca colloca l’esilio a Patmos
e la composizione dell’Apocalisse nel 14° anno di Domiziano,
cioè nell’anno 94/95.
Il testo stesso non dice quando, ma esprime il motivo per
cui Giovanni si trova nell’isola: «Per (diá) la parola di Dio e la
testimonianza di Gesù» (Ap 1,9b). Con tale espressione non
viene indicato il fine per cui si è recato a Patmos, ma piuttosto
la causa che lo ha costretto sull’isola: questo, infatti, è il senso
comunemente inteso dalla tradizione antica.
Probabilmente l’isola di Patmos veniva usata dai romani
come bagno penale: il diritto penale romano conosceva bene
la deportatio in insulam, ma il semplice confino era una pena
riservata alle grandi personalità; se Giovanni era considerato
un personaggio illustre, allora può essere stato condannato
al confino; ma in caso contrario deve essersi trattato di una
condanna ai lavori forzati o, quanto meno, alla detenzione in
isolamento.
Questa data tradizionale da alcuni studiosi non viene accet-
tata7 e, sulla base di presunti riferimenti a situazioni storiche
anteriori, viene ipotizzata un’altra data di composizione. Il pe-
riodo che questi autori, in genere, ritengono più congeniale
per la prima stesura dell’Apocalisse è il momento della crisi
neroniana, con la prima violenta persecuzione anti-cristiana
nel 64, la caduta di Nerone nel 68 e la crisi dell’anno 69 con il
rapido succedersi di quattro imperatori.
In ogni caso è difficile immaginare nell’ambiente e nella
situazione di Patmos la reale stesura dell’opera apocalittica:
forse il dramma del confino sull’isola ha offerto l’ambientazio-
ne propizia per la riflessione cristiana sul senso della storia.
Infatti la stessa indicazione iniziale «mi trovai nell’isola chia-
mata Patmos» (Ap 1,9) permette di dedurre che, nel momento
della stesura letteraria, l’autore non si trovi più sull’isola. È
quindi possibile distinguere due tipi di date: quella dell’espe-
rienza mistica a Patmos e quella della composizione lettera-
ria definitiva. Con un po’ di fantasia possiamo immaginare un
precedente, forse lungo, lavoro comunitario e liturgico che,
nel momento della condanna sotto Domiziano, ha trovato la
7
Cf. R.B. Moberly, When Was Revelation Conceived?, «Bib» 73 (1992), pp.
376-393; J.C. Wilson, The Problem of the Domitianic Date of Revelation, «NTS»
39 (1993), pp. 587-605; L.G. Kenneth, Before Jerusalem Fell. Dating the Book
of Revelation. An Exegetical and Historical Argument for a Pre-A.D. 70 Composi-
tion, San Francisco-London-Bethesda 1997.

19
sua autenticazione e nel periodo seguente ha portato rapida-
mente alla stesura del testo definitivo. Oppure, datando il con-
fino sull’isola alla fine del periodo neroniano, si può immagi-
nare che le intuizioni avute in quell’occasione siano maturate
nella riflessione liturgica, portando lentamente alla composi-
zione letteraria verso la fine del primo secolo.

Un pressante invito alla resistenza


Per esprimere il messaggio cristiano a una comunità in
difficoltà Giovanni ha scelto il genere letterario apocalittico,
perché ai suoi tempi si presentava come uno strumento cono-
sciuto e largamente diffuso, spesso adoperato per consolare i
fedeli in momenti di travaglio, per spiegare il senso degli avve-
nimenti e per rinforzare la speranza in tempi migliori.
I modelli letterari e simbolici a cui si ispira l’Apocalisse
sono costituiti dai libri biblici dell’Antico Testamento: ma fra
tutti emergono Ezechiele e Daniele.
Come il profeta Ezechiele in esilio, Giovanni sperimenta la
presenza potente di Dio che lo chiama a essere profeta per
proclamare la fine della città corrotta e annunciare la costru-
zione di una nuova Gerusalemme ad opera di Dio: il maestro
cristiano, infatti, vede la distruzione della città santa ad opera
dei romani come il segno della fine dell’antico mondo rovina-
to dal male e giudicato da Dio, mentre la comunità cristiana
gli appare come l’immagine della nuova realtà, resa possibile
dall’intervento escatologico di Dio in Cristo.
La situazione in cui nacque il libro di Daniele, inoltre, è per
molti tratti simile a quella dell’Apocalisse e tale somiglianza
ne spiega gli stretti rapporti. La comunità dei fedeli, durante
la persecuzione di Antioco IV Epifane (167-164 a.C.), si era
trovata di fronte a una situazione tragica: un tiranno prepo-
tente ne minacciava la fede, la città santa e il suo tempio erano
profanati, le autorità religiose di Israele corrotte e conniventi
con il potere avversario non davano nessun affidamento; solo
un piccolo gruppo di devoti si opponeva al nemico per difen-
dere la fede, appoggiandosi unicamente alla potenza di Dio.
Le visioni di Daniele miravano appunto a confortare questi
fedeli e a incitarli nella resistenza, assicurando loro un immi-
nente intervento divino.
Alla fine del I secolo d.C. Giovanni si accorge che la sua co-
munità sta vivendo una situazione storica molto simile a quel-

20
la dei chassidim dell’epoca maccabaica: è minacciosa l’ombra
del tiranno romano che pretende di essere adorato come una
divinità, il fascino della cultura pagana conquista molti fedeli,
mentre Gerusalemme non esiste più e la classe dirigente di
Israele è ormai decisamente contraria al gruppo cristiano. Se
il dramma della storia si ripete, deve anche ripetersi la corag-
giosa testimonianza dei fedeli, con la loro resistenza pacifi-
ca, fondata unicamente sulla fiducia in Dio. Un punto molto
importante, però, distingue la visione teologica di Giovanni
dagli apocalittici del giudaismo: essi, infatti, attendevano per
il futuro l’intervento decisivo di Dio e lo annunciavano immi-
nente; mentre la comunità giovannea afferma con solennità
che l’intervento decisivo e definitivo di Dio nella storia si è già
realizzato con Gesù di Nazaret, morto e risorto, Signore della
storia, vivo nella sua Chiesa.
In questa prospettiva teologica il profeta Giovanni affronta
la concreta e difficile situazione della sua comunità, alle prese
con la tentazione idolatrica del sincretismo. L ’autore, infat-
ti, vede un pericoloso collegamento fra struttura imperiale e
benessere materiale: il culto all’imperatore significa gratitu-
dine al «benefattore» che garantisce una vita agiata e la strut-
tura sociale delle corporazioni legate alla religiosità ellenista
comporta anche per i cristiani la necessità di partecipare ai
banchetti idolàtrici. Rompere con questa situazione significa
mettersi contro il regime dominante e, quindi, escludersi dal
commercio e dal profitto. Se i nicolaìti optano per il compro-
messo finalizzato al benessere, Giovanni invece esorta con
tutte le forze alla coerenza impegnata e loda la povertà come
conseguenza di coraggiosa astensione dagli idoli. L ’Apocalis-
se, pertanto, può essere vista come un pressante invito alla
resistenza nei confronti dello stile di vita molle e decadente
del consumismo romano.
Giovanni comunica un messaggio di assoluta emergenza e
dà il segnale di un grave e immediato pericolo, lasciando tra-
sparire anche lo stato d’animo della trepidazione: egli insiste
perché teme di essere poco ascoltato, invita alla sapienza per-
ché le scelte dei cristiani, spiritualmente mediocri, non erano
guidate dalla fedeltà al vangelo di Cristo, esorta alla costanza,
perché dovevano essere comuni i casi di defezione; non invita
tuttavia a ritirarsi dal mondo, ma piuttosto a una coerenza
convinta, anche fino alla morte. L ’Apocalisse, dunque, mira a
infondere speranza in mezzo alla persecuzione e a rilanciare

21
l’impegno morale dei cristiani, non lasciandosi vincere dalla
tentazione del sincretismo e del compromesso.
Proprio per ottenere questo obiettivo di incoraggiamento e
di rafforzamento della fede, l’Apocalisse, in quanto «rivelazio-
ne di Gesù Cristo» (Ap 1,1), è fondamentalmente celebrazio-
ne della Pasqua, inno liturgico e annuncio della risurrezione
avvenuta, evento centrale della storia di salvezza, anello di
congiunzione fra l’inizio e la fine, passaggio necessario dalla
maledizione del peccato alla benedizione della vita con Dio.

Apocalisse
La parola «apocalisse» è la trascrizione italiana del sostan-
tivo greco apokálypsis, che compare all’inizio dell’ultimo libro
neotestamentario e ne è divenuto il titolo tradizionale. Questo
sostantivo deriva dal verbo greco che significa «azione del to-
gliere ciò che copre o nasconde», cioè «scoprire, svelare». La
traduzione corrente con «rivelazione» esprime bene l’azione di
chi rimuove il velo per mostrare ciò che era nascosto.
Nella lingua greca classica il sostantivo non compare; si usa
il verbo corrispondente, ma sempre con valore esclusivamente
umano. Nella versione dei LXX, dato l’uso linguistico greco, il
vocabolo apokálypsis è rarissimo (4 volte).
Nel Nuovo Testamento la parola «apocalisse», tradotta abi-
tualmente con «rivelazione», ritorna 17 volte in contesti diffe-
renti e con sfumature di significato, che possiamo raccogliere
in tre ambiti. Un primo gruppo di citazioni riflette un ambiente
liturgico ed eucologico: apocalisse indica la manifestazione di
una verità, la comunicazione di un messaggio illuminante che
permette di conoscere il progetto eterno di Dio (Lc 2,32; Rm
16,25; 1Cor 14,6.26; Ef 1,17). Nelle lettere di Paolo, però, lo stes-
so termine ritorna con un’accezione diversa e viene a indicare
un’esperienza straordinaria e mistica (Gal 1,12; 2,2; Ef 3,3; 2Cor
12,1.7). Infine, un terzo significato è quello che si è imposto nel
tempo, assumendo il valore di manifestazione escatologica, si-
nonimo di parusia o di compimento finale del piano divino (Rm
2,5; 8,19; 1Cor 1,7; 2Ts 1,7; 1Pt 1,7.13; 4,13).
Nell’uso moderno «apocalisse» è divenuto un termine tecni-
co, insieme all’aggettivo derivato «apocalittico», per indicare un
particolare genere letterario, una mentalità religiosa e un vasto
insieme di testi canonici e apocrifi. Ma nel linguaggio corrente,
giornalistico o cinematografico, la parola apocalisse, con signifi-
cato distorto ed erroneo, ha finito per indicare cataclisma, enor-
me disastro e fine del mondo.

22
Marco Rossetti
________

L ’apocalittica giudaica
e l’Apocalisse di Giovanni

Nel linguaggio comune le parole «apocalisse» e «apocalit-


tico» vengono utilizzate per designare avvenimenti catastro-
fici che dovranno coinvolgere l’intero universo. Potrà dunque
sorprendere il fatto che la radice greca di queste parole, cioè
apo-kalyptein (tradotto in latino con re-velare), significhi sem-
plicemente «rivelazione». L ’uso di questi termini deriva certa-
mente dall’Apocalisse canonica attribuita a san Giovanni. In
rapporto a quest’ultima in epoca moderna una serie di testi
biblici del Primo1 e del Secondo2 Testamento e una di opere
giudaiche3 venne ascritta al patrimonio di una corrente cultu-
rale e spirituale definibile come «apocalittica». Le apocalissi
giudaiche esercitarono un innegabile influsso sulla comunità
cristiana delle origini dove riscontrarono un certo successo;
l’attenzione del giudaismo andò invece diminuendo intorno
ai temi apocalittici dopo le vicende del 70 e del 132-135 d.C.4.
1
Gli scritti apocalittici del Primo Testamento sono: Ez 38-39; Is 24-27 (la
grande apocalisse); Is 34-35 (la piccola apocalisse); Zc 9-14; Daniele.
2
Nel contesto neotestamentario è ravvisabile una serie di scritti di indole
apocalittica. Prima di elencarli ci sembra doveroso osservare che non è pos-
sibile staccare queste pericopi dal contesto in cui furono inserite. Eccone la
lista: Mc 13,1-31 || Mt 24,1-44 || Lc 21,5-36 (la cosiddetta apocalisse sinottica);
1Ts 4,16-17; 2Ts 2,1-12; 1Cor 15,20-28; 2Pt.
3
Per una recensione di queste opere si veda: U. Vanni, Apocalittica, in P.
Rossano - G. Ravasi - A. Ghirlanda (edd.), Nuovo Dizionario di Teologia Bibli-
ca, Cinisello Balsamo 1994, pp. 98-106; A. Bonora - M. Priotto (edd.), Libri
Sapienziali e altri scritti, Torino 1997, pp. 437-474. Senza offrire una dettaglia-
ta recensione di testi o di frammenti, dobbiamo però considerare l’apporto
dato al tema dell’apocalittica dalla comunità di Qumran.
4
Si tratta rispettivamente dei fatti della distruzione del tempio a opera di
Tito, della seconda rivolta giudaica e dell’ultima insurrezione scoppiata sotto
l’imperatore Adriano. Tali eventi decretarono la definitiva perdita di ogni desi-
derata autonomia del popolo giudaico.

23
Intorno alla metà del 1900 si sviluppò una serie di studi
che rivendicarono all’apocalittica la sua reale importanza e ne
misero in luce l’originalità5. Opere per la maggior parte poste
sull’«orlo» della canonicità, le apocalissi costituiscono una fra
le riletture più alte della Scrittura Santa.

Il contesto storico e culturale


Gli anni dal 200 a.C. al 100 d.C. costituiscono un arco di
tempo tra i più tragici che la storia dell’antico Israele abbia
conosciuto. Proprio in questo periodo fu composta la maggior
parte dei libri apocalittici: è dunque innegabile che le vicende
storiche abbiano pesantemente influito su di essi.
L ’epoca inizia con la reazione che seguì alla profanazione
del tempio e alla persecuzione del giudaismo ad opera di An-
tioco IV Epifane e si conclude con la distruzione del tempio
ad opera di Tito. È, almeno inizialmente, il periodo della ri-
nascita del nazionalismo giudaico, capeggiata dai Maccabei
e continuata dai loro discendenti della dinastia asmonea. Si
tratta di un’epoca segnata da acerrime lotte tra giudei e forze
occupanti, ma anche tra gli stessi giudei a causa delle diverse
posizioni ideologiche in seno al giudaismo stesso. Uno dei fat-
tori che contribuirono a determinare tale conflitto fu la forza-
ta immissione dell’ellenismo in seno alla tradizionale cultura
giudaica.
Questo nuovo patrimonio culturale e spirituale si andava
via via affermando mediante l’introduzione di nuove pratiche
religiose e abitudini di vita. Il suo espandersi avrebbe potuto
portare a una totale ellenizzazione della Giudea: l’ellenismo fu
infatti recepito dai giudei più attaccati alle ancestrali tradizio-
ni come un autentico pericolo per la fede e l’unità nazionale,
ma da altri (molti dei quali persone in vista sia sul piano poli-
tico che religioso) venne invece ben accolto.
I libri apocalittici sono il riflesso di quest’epoca al di fuori
della quale non possono essere facilmente intesi. I loro autori,
liberi da ogni interesse di tipo cronachistico, intesero dare una
risposta di fede ai fatti brevemente descritti e all’oppressione
5
Ci riferiamo fondamentalmente alle seguenti opere: H.H. Rowley, The
Relevance of Apocalyptic, Oxford 1942; D.S. Russel, L ’Apocalittica giudaica
(200 a.C.-100 d.C.), Brescia 1991 (London 1964); K. Koch, Difficoltà dell’apo-
calittica, Brescia 1977 (Gütersloh 1970); P. Sacchi, L ’apocalittica giudaica e la
sua storia, Brescia 1990.

24
di Israele, riaffermando la realtà e il potere del mondo celeste.
I testi vennero intesi come capaci di fornire ai rivoltosi
il motivo più adatto a sostanziare la lotta: la speranza cioè
nell’intervento potente e invincibile di Dio a fianco dei suoi
fedeli contro i dominatori o gli usurpatori. Questo particola-
re processo non ci sorprende affatto. Giungono infatti a vol-
te nella nostra vita dei momenti talmente drammatici in cui
sembra che non ci sia più soluzione o via d’uscita. L ’oppres-
sione è così gravosa da spingerci a rinnovare la nostra fiducia
in Dio come l’unico capace di risollevarci e di donarci giorni
migliori. Ebbene, tale era la situazione di Israele in quei seco-
li: costretti a rinunciare a ogni speranza da riporre nel potere
politico o religioso, i giudei alzano i loro occhi verso Dio per
comprendere il perché di tutte quelle vicende e per invocarne
un miracoloso intervento. Gli scritti lasciano infatti intendere
che la situazione fosse così disperata da ritenere imminente il
momento in cui Dio avrebbe combattuto a fianco del suo po-
polo, portando a compimento il suo piano salvifico da sempre
mantenuto segreto. È proprio questa la «rivelazione» di cui
l’apocalittica vuol farsi carico: profondamente convinta della
sovranità di Dio, essa si prefigge di discernere il significato del
tempo e della storia in tutto il loro svolgimento, nella ferma
convinzione che il Signore sconfiggerà il male in ogni sua for-
ma, porrà fine al corso della storia presente e instaurerà cieli
nuovi e terra nuova.

Origini dell’apocalittica giudaica


La produzione degli scritti apocalittici giudaici è stretta-
mente collegata alla storia e ai grandi cambiamenti culturali
che caratterizzarono il periodo intertestamentario. Ciò po-
trebbe indurre a credere che il lavoro svolto dagli apocalittici
non fosse poi radicalmente diverso da quello dei profeti che,
in altrettanto drammatici momenti, si erano fatti portavoce di
Dio, avevano denunciato i peccati del popolo e avevano pro-
messo una radicale trasformazione della situazione, qualora
l’animo di Israele si fosse piegato al volere divino. Se a questo
si aggiunge il fatto che l’apocalittica nasce nel momento in cui
la grande profezia decade, si potrebbe concludere che essa ne
sia semplicemente l’erede e la continuatrice. Con un procedi-
mento contrario, non sarà poi difficile trovare tracce apoca-
littiche nella letteratura profetica del post-esilio. Il rapporto

25
tra profezia e apocalittica è certamente innegabile, ma da solo
non basta a esaurire la questione: entrambe sono interpreti di
fatti accaduti ponendoli nel contesto del piano storico-salvifi-
co, ma l’apocalittica rinnoverà dal di dentro questo modo di
discernere il reale.
Innegabili sono pure le radici sapienziali dell’apocalittica.
Il tema della determinazione divina dei tempi applicato al
problema della salvezza è caro anche agli scritti sapienziali,
in particolare a Siracide e a Qoèlet: «Tutte le cose, prima che
fossero create, gli erano note; allo stesso modo anche dopo la
creazione» (Sir 23,20).
Fin dall’inizio Dio ha inoltre fissato dei beni per i pii, ma
anche castighi e avversità per i malvagi (Sir 39,25). Tali cala-
mità sono «per la rovina degli empi»: esse sono «pronte sulla
terra per tutti i bisogni» (Sir 39,31).
Tutte queste opere del Signore vengono giudicate «buone»
e giuste per il loro tempo (Sir 39,33): l’uomo cioè non potrà in-
tuirne il valore se non comprendendole per il momento finale
deciso da Dio. Non siamo dunque lontani dal pensiero apo-
calittico secondo il quale Dio ha fissato da sempre le proprie
decisioni sia sulla sorte umana e dell’universo, sia sui tempi in
cui tutto si compirà6.
Altro tema centrale e comune è la speranza di un’imminen-
te fine del tempo presente, accompagnata da un giudizio sugli
empi7.
Svolgendo così un’analisi del contesto storico e culturale
particolarmente tragico e intrigante, l’apocalittica, sulla base
della tradizione profetica e sapienziale, ne propone un’inter-
pretazione e suggerisce ai suoi lettori adatte linee di compor-
tamento.

Caratteristiche distintive dell’apocalittica


Prendere in considerazione gli elementi distintivi dell’apo-
calittica è impresa difficile a causa delle notevoli differenze
riscontrabili nella vasta produzione: questa corrente cultura-
le e spirituale difficilmente può essere infatti intesa come l’e-
spressione di un singolo movimento o tradizione. Al di là delle

Si leggano, ad esempio, i seguenti due passi: Giub. 32, 21; En. 39,11.
6

Un’esaustiva trattazione sul rapporto tra sapienza e apocalittica in merito


7

ai temi della determinazione e della fine dei tempi si può leggere in G. von
Rad, La Sapienza in Israele, Genova 19953, pp. 235-252.

26
diversità, ciò che senza dubbio accomuna tali opere è quel dif-
fuso sentire spirituale che le permea e che si può definire sia
come certezza che l’esistenza e la salvezza dipendono unica-
mente da Dio, sia come fiduciosa apertura alla salvezza che il
Signore sta già realizzando nel tempo presente e che compirà
quanto prima. Dal punto di vista letterario, ci sembra che tali
caratteristiche possano essere così sintetizzate.
a) Gli autori hanno coscienza di vivere un’esistenza personale
e universale le cui realtà fondamentali sono nascoste. Tali
realtà vengono però rivelate a un uomo privilegiato che ri-
ceve l’incarico di renderle note a tutti.
b) Gli autori, pur esprimendosi in prima persona, non ama-
no dire il loro vero nome. Ricorrendo alla pseudonimia es-
si attribuiscono la loro opera a un celebre personaggio del
passato col quale si sentono in particolare sintonia. Questo
procedimento permetteva di porre nella grande tradizione
un messaggio riguardante il tempo presente.
c) La rivelazione viene ricevuta in vari modi: talvolta può es-
sere visiva, in forma di sogno (Dn 7) o di visione (come
nell’Apocalisse di san Giovanni); altre volte essa può essere
un discorso. Così, ad esempio, in Dn 10-12, dove un angelo
dice a Daniele che cosa sia scritto nel «libro della verità»;
anche Enoc insegna ai suoi figli quanto ha letto nelle tavo-
lette celesti (En 93). Altre rivelazioni sono il risultato di un
viaggio celeste che l’autore prescelto afferma di aver com-
piuto scortato da guide angeliche8.
d) Il contenuto di queste rivelazioni è espresso mediante un
linguaggio simbolico esoterico, in cui a espressioni o realtà
del vivere quotidiano viene attribuito un significato diverso
da quello che esse hanno nell’esperienza. La terra, il ma-
re, gli astri, i pianeti sono al centro di questo linguaggio:
considerati in sé vengono rapportati direttamente alla sfera
divina, in quanto oggetto di trasformazioni e di sconvolgi-
menti, vogliono invece suggerire un senso più forte della
presenza attiva di Dio nella storia. Molti sono i simboli che
provengono dal mondo umano. Anche gli animali sono al
centro di questo processo di simbolizzazione: trasformati
in bestie mostruose, essi popolano una fascia di realtà a
mezza strada tra Dio e gli uomini. I numeri vengono ugual-
mente assunti in questo linguaggio cifrato e utilizzati per
8
Tipica di questa tendenza è la letteratura enochica.

27
esprimere dei valori di qualità. Nell’Apocalisse di Giovanni
frequente è anche il ricorso ai colori per esprimere delle
qualifiche di natura spirituale o morale9. L ’uso del simbolo
ha il merito di staccare le apocalissi dal contesto storico in
cui sono poste. Esso contribuisce a fare del tempo narrato
un’epoca «indatabile», così che queste opere possono real-
mente avanzare la pretesa di fornire criteri di discernimen-
to per tutti i tempi. Poiché nel simbolo ogni momento sto-
rico può leggervi la propria vicenda, le apocalissi risultano
sempre «aggiornabili».
Dal punto di vista più marcatamente teologico, ecco alcuni
elementi essenziali della riflessione apocalittica.
Abbiamo già osservato come l’apocalittica sia legata alla
grande profezia. Mentre però nell’Antico Testamento la dimen-
sione profetica e apocalittica si erano susseguite nel tempo, in
questi scritti esse sono contemporanee, capaci di autocondi-
zionarsi. Passato, presente e futuro risultano così indisgiun-
gibili all’interno di una concezione unitaria della storia che si
ritiene essere coinvolta in un movimento irreversibilmente ri-
volto verso una conclusione definitiva. L ’apocalittica giudaica
pur essendo tutta incentrata su questo avvenimento conclusi-
vo, non perde però mai di vista né l’inizio né il momento stori-
co presente: tutto il tempo della storia e di ogni storia le sta a
cuore. Non solo le vicende di Israele, ma le vicende universali:
quelle della terra e quelle del cielo, quelle degli uomini, degli
angeli e dei demoni. Nessuno sfugge a questo comprensione
dei fatti: non vi sfugge l’autore, consapevole, come nel caso
dell’Apocalisse di san Giovanni, di essere profeta (Ap 10,11) e
di scrivere un’opera che ama intitolare «apocalisse» (Ap 1,1),
ma che subito dopo definisce «parole di profezia» (Ap 1,3);
non vi sfugge neppure il lettore che, come risvegliato al senso
della presenza di Dio nel tempo, dovrà farsi portatore di que-
sta carica profetica. La visione unitaria della storia è uno dei
contributi più affascinanti dell’apocalittica.
Negli scritti la storia è spesso divisa in periodi. L ’Apocalisse
delle Settimane (En) la divide in dieci generazioni; il secondo
e quarto capitolo di Daniele in quattro regni. Il quarto libro
degli Oracoli Sibillini fa proprie entrambe queste periodiz-
9
Per un’attenta disamina del linguaggio simbolico, soprattutto in relazione
all’Apocalisse giovannea, si veda U. Vanni, L ’Apocalisse: ermeneutica, esegesi,
teologia, Bologna 1991, pp. 31-62.

28
zazioni. Lo schema di divisione in settanta settimane di anni
suggerito da Dn 9 riscosse più fortuna di ogni altro.
La tensione della storia verso il punto finale è segnata da uno
scontro tra il bene e il male. Tale lotta storicamente si mostra
nella rivalità tra giusti e peccatori oppure in grandi operazioni
militari tra i potenti della terra. Essa assume toni drammatici:
a periodi di vittoria delle forze del bene, si alternano vittorie
delle forze del male che tolgono agli uomini facili illusioni. In
certi momenti il conflitto assume proporzioni cosmiche e si
esprime in fatti tragici che coinvolgono sia la terra che il cielo:
terremoti, carestie, paurose mutazioni negli astri, distruzioni
e incendi.
Lo scontro tra il bene e il male raggiungerà il culmine nel
Giorno del Signore, quando una fine sarà posta a questo mon-
do. Tale evento è considerato imminente10. In quel giorno se-
condo alcuni apocalittici Dio interverrà in forma grandiosa,
utilizzando strumenti colossali; secondo altri invece il Signore
userà mezzi assai modesti per far rilucere quanto gli basti po-
co per annientare la potenza del male.
Creature considerate al di sotto dell’onnipotenza divina, ma
al di sopra della realtà umana, angeli e demoni partecipano
attivamente a questo scontro. Il mondo degli spiriti è onni-
presente e influisce sulle vicende senza però mai oltrepassare
i limiti del monoteismo e senza oscurarlo: Dio rimane l’unico
autore della vittoria del bene sul male.
Un contributo essenziale alla buona conclusione di questa
lotta viene dato da due figure caratteristiche: il «messia» e il
«Figlio dell’uomo». Il «messia» deriva certamente dal Primo
Testamento, ma nell’apocalittica viene proiettato alla fine dei
tempi, quando apparirà: è infatti considerato come l’eroe del
conflitto che porterà a conclusione nella schiacciante sconfit-
ta delle forze maligne. Eletto da Dio, combatte per lui sconfig-
gendone i nemici e instaurando il regno divino: i cc. 17-18 dei
Salmi di Salomone, i cc. 36-40 del secondo libro di Baruch e
4Esd 12,31-34 lo descrivono come il re guerriero impegnato
a liberare Gerusalemme dai pagani. La sua figura rimane tut-
tavia per molti aspetti misteriosa11. Enigmatico appare anche
10
Si legga, ad esempio, 2Bar 85,10.
11
Non è qui assolutamente possibile compiere una discussione sull’identità
e sui ruoli del «messia». Questa disamina dovrebbe tra l’altro tenere in consi-
derazione tutta la riflessione contenuta nei Rotoli del Mar Morto, in partico-
lare nelle Regole della comunità di Qumran e, non ultimo, nel discusso fram-

29
il personaggio denominato «Figlio dell’uomo». Egli presenta
un’identità meno marcata, quasi una figura rappresentativa di
tutto il popolo. Unito al «messia», talvolta sembra identificarsi
con lui12.

L ’apocalittica e il libro
Proprio a causa della natura del suo messaggio, l’apocalitti-
ca scelse come suo «involucro» il libro. È questo un elemento
distintivo rilevante.
Il libro o le tavolette celesti (Dn 10-12; Giubilei 32,21; En
93), prima ancora di essere lo strumento scelto dagli apocalit-
tici, sono prescelti da Dio stesso come luogo per racchiudere i
suoi misteri. Esemplificativa al massimo di questa tendenza è
l’Apocalisse giovannea: «E vidi nella mano destra di colui che
era assiso sul trono un libro a forma di rotolo, scritto sul lato
interno e su quello esterno, sigillato con sette sigilli» (Ap 5,1).
Si tratta in questo caso di un libro tutto scritto e brandito
da Dio: esso è cioè a un tempo il testimone dell’esattezza con
cui è stato stabilito tutto quello che riguarda l’umanità e l’e-
spressione concreta del dominio divino sull’universo. Al pro-
feta Dio ordinava di proclamare la parola (Ger 13,12), all’a-
pocalittico invece di scriverla. Così nell’Apocalisse giovannea
leggiamo: «Quello che vedi, scrivilo e mandalo alle sette Chie-
se...» (Ap 1,11). La stessa ingiunzione si trova quando l’apoca-
littico affida a sua volta lo scritto ai suoi destinatari: «Ricevi
questo scritto...» (Ass. Mos. 1,16); il profeta si rivolgeva invece
ai suoi uditori esordendo: «Così dice il Signore» (Is 7,7).
Mentre dunque il profeta proclama dei messaggi (succes-
sivamente messi per scritto da lui o dai suoi discepoli) l’apo-
calittico li scrive destinandoli a una lettura. Tutto ciò è logi-
ca conseguenza di quanto sopra dicevamo intorno all’uso del
linguaggio simbolico e della concezione unitaria della storia:
poiché ogni apocalisse è per sua natura senza tempo e scorre
avanti e indietro nei giorni dell’uomo, solo il libro è lo stru-
mento adatto a contenerne fedelmente le rivelazioni e a por-

mento 4Q521. Sulla nozione di «messia» si veda J.J. Collins , Apocalypticism


in the Dead Sea Scrolls, London 1997. Per 4Q521 si veda il mio L ’unto in un
manoscritto di Qumran. Nuove prospettive da 4Q521 frr. 2 ii + 4, PIB. Exercita-
tio ad Licentiam, Roma 1998.
12
Si legga, ad esempio, En 46,3.

30
tarle con sé in ogni presente della storia affinché esse servano
a discernere tutti i tempi13.

L ’apocalittica e l’Apocalisse di Giovanni


Le forme letterarie e i temi tipici della letteratura apocalitti-
ca giudaica trovano nell’Apocalisse di Giovanni il loro miglio-
re punto di sintesi e di approfondimento: l’autore si serve di
tutti gli schemi apocalittici e li riempie di contenuti, anzi del
contenuto nuovo che è il Signore risorto. Il Giovanni dell’A-
pocalisse in quanto giudeo si fa depositario del ricchissimo
patrimonio culturale giudaico, ma in quanto credente in Gesù
Cristo si fa portatore di tutte le novità legate alla sua fede.
Il punto di partenza di questo libro è il medesimo di quello
di tutte le altre apocalissi. La comunità cristiana è profonda-
mente provata: il culto divino dell’imperatore, le persecuzioni
scuotono alla base la Chiesa nascente, i fedeli sono ancora una
volta attratti dal fascino della cultura pagana e delle religio-
ni misteriche in quel momento quanto mai proliferanti. Per i
credenti obbligati al confronto con un momento storico tragi-
co, nasce nuovo il bisogno di ancorarsi alla fiducia in Dio e di
comprendere ogni cosa alla luce del suo progetto di salvezza.
Se medesimo è il punto di partenza, diverse sono le conclu-
sioni. La novità è legata alla persona di Cristo: in lui Figlio di
Dio (Ap 2,18), Parola di Dio (Ap 19,13), Messia e Figlio dell’uo-
mo, Principio e Fine (Ap 1,17; 22,13) dell’universo, conflui-
sce ormai in modo definitivo ogni forma di autorità e potere
prima unicamente attribuiti a Dio. Tra Dio Padre e Cristo Fi-
glio vi è nel libro dell’Apocalisse una reale compenetrazione di
ruoli e una reciprocità mai prima pensate.
Il punto decisivo capace di modificare perfino la compren-
sione della fine della storia è la luce abbagliante della risurre-
zione, anzi è il Cristo risorto, il Vivente per sempre. Gli apo-
calittici attendevano in un futuro assai prossimo l’intervento
finale di Dio. L ’autore dell’Apocalisse fa invece chiaramente
percepire che nel mistero pasquale del Cristo, il Padre ha già
realizzato definitivamente il suo intervento salvifico. È insom-
ma il Cristo Agnello (Ap 5,6ss.), insieme morto e risorto (Ap
1,8; 5,6 «E vidi [...] un agnello in piedi come ucciso», hestekòs
13
P. Beauchamp, L ’uno e l’altro Testamento. Saggio di lettura, Brescia 1985,
pp. 19-45.

31
hos esphagménon) e dotato della pienezza dello Spirito da do-
nare agli uomini (Ap 5,6), a occupare una posizione centrale
nella storia della salvezza. Il Padre nel Figlio porta a compi-
mento la creazione e la storia, le rinnova dal di dentro po-
nendolo quale pietra angolare, chiave interpretativa di tutto il
cosmo e rinnovatore di ogni realtà (Ap 21,5).

La letteratura apocalittica giudaica e cristiana


Abbondante e varia fu la produzione di testi apocalittici tra il
II secolo a.C. e il III secolo d.C. Non tutti i seguenti scritti sono
apocalittici allo stesso modo e nello stesso grado; per questo il
lettore potrà facilmente trovare altre liste più ampie o ristrette.
Sotto il nome di Enoc sono stati tramandati due libri, uno in
lingua etiopica (En), l’altro in lingua slava (2En), denominato
anche Libro dei segreti di Enoc: il primo risale a un originale
ebraico o aramaico formatosi tra il II e il I secolo a.C., il se-
condo a un originale greco della metà del I secolo d.C. Vi sono
poi: il III libro degli Oracoli Sibillini (II-I secolo a.C., con alcune
aggiunte del I d.C.); i Salmi di Salomone; l’Assunzione di Mosè
col quale titolo si definisce il frammento, conservato in latino,
di un’apocalisse scritta in ebraico o aramaico; il Testamento dei
dodici Patriarchi, pervenutoci nella traduzione greca di un ori-
ginale ebraico, presenta sezioni di indole apocalittica. Ampia
la produzione di testi nei primi due secoli dell’èra cristiana, sia
da parte giudaica che da parte cristiana. Sul versante giudaico
abbiamo il IV Libro di Esdra (detto anche Apocalisse di Esdra),
tramandatoci in latino da un originale ebraico o aramaico (I se-
colo d.C.). Strettamente legato a questo, è l’Apocalisse siriaca di
Baruc, ancora da un originale in lingua semitica (II secolo d.C.);
l’Apocalisse greca di Baruc da un originale aramaico (II secolo
d.C.); l’Ascensione di Elia pervenutoci in etiopico e in parte in
latino; la Vita di Adamo ed Eva, nelle versioni greche e latine;
l’Apocalisse di Abramo, di cui possediamo sia il testo slavo che
la traduzione greca; il Testamento di Abramo, traduzione greca
da un originale semitico (I secolo d.C.); il IV libro degli Oracoli
Sibillini. Per maggior completezza dovremmo qui anche inclu-
dere i numerosi testi e frammenti provenienti dallo scriptorium
di Qumran, dato il notevole contributo da essi offerto alla rifles-
sione apocalittica.
Sul versante cristiano l’apocalittica si sviluppò a partire
dall’Apocalisse di san Giovanni. La produzione è assai abbon-

32
dante: il c. 16 della Didachè (I-II secolo d.C.); l’Assunzione di Isa-
ia (100-150), l’Apocalisse di Pietro (135 ca.); il Pastore di Erma
(150 ca.); l’Apocalisse di Paolo (III secolo). Vi è poi una nutrita
serie di apocalissi tardive, delle quali in alcuni casi possediamo
solo dei frammenti: l’Apocalisse di Tommaso (V secolo?); l’Apo-
calisse di Sofonia (il cui testo copto fu composto intorno al 400);
l’Apocalisse di Elia (fine del IV secolo?); l’Apocalisse di Zaccaria
e le tre Apocalissi di Giovanni (V, VI-VII, XI secolo); le due Apo-
calissi di Maria (VII, IX secolo); l’Apocalisse di Stefano, di cui
possediamo soltanto informazioni indirette.
Per una sintetica conoscenza del contenuto di queste opere,
si veda U. Vanni, Apocalittica, in P. Rossano - G. Ravasi - A. Ghir-
landa (edd.), Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, Cinisello Bal-
samo 1994, pp. 98-106. Si veda anche A. Bonora - M. Priotto
(edd.), Libri Sapienziali e altri scritti, Torino 1997, pp. 437-474.

33
Giancarlo Biguzzi
________

La trama narrativa
e l’impianto letterario

Uno dei più grandi commentatori del libro dell’Apocalis-


se, che è ancora citatissimo nonostante i cento e più anni, ha
scritto che la cristologia dell’Apocalisse è la più ricca del Nuo-
vo Testamento (W. Bousset 18961, 19066). Ma avrebbe ragione
anche chi dicesse che l’ecclesiologia dell’Apocalisse, o la sua
escatologia, o la sua dottrina su Dio, o la sua teologia della
storia, ecc., sono le più ricche del Nuovo Testamento. E si po-
trebbe continuare aggiungendo che l’Apocalisse ha anche la
più ricca teologia circa il giorno del Signore, circa la liturgia
della Parola, circa la Chiesa locale, circa la preghiera e la sua
forza nel muovere in avanti la storia, circa il martirio, circa
l’angelologia e la demonologia, ecc., e non si finirebbe più di
elencare i primati di questo libro dalla molteplice e quasi ine-
sauribile ricchezza. Ma è un libro di difficile lettura così che
i suoi tesori teologici e la sua bellezza letteraria rischiano di
restare una riserva di caccia per pochi intenditori.
Certo è che si va all’esplorazione del libro di Giovanni di
Patmos più facilmente se si ha un’idea, per quanto possibi-
le chiara, del suo contenuto e del suo impianto letterario. Le
opinioni al riguardo sono molte, ma almeno due opinioni – o
gruppi di opinioni – si possono in buona coscienza escludere,
per puntare così a proposte più accettabili.

Due indicazioni devianti circa il piano dell’Apocalisse


La prima indicazione deviante è quella di ritenere che la se-
quenza delle scene e degli episodi nell’Apocalisse di Giovanni
sia selvaggia. Di fatto, ci sono commentatori che dividono te-
sto e commento con tanti sottotitoli ma senza dare, né prima
né poi, un grafico riassuntivo della tessitura di tutto il libro.

34
Quei titoli sono dati solo per la comodità del lettore che, come
chi cammina, ogni tanto ha bisogno di riprendere fiato, ma
non intendono interpretare il progetto di chi ha scritto l’Apo-
calisse. Così hanno fatto quasi tutti i commentatori antichi e
così fa qualche moderno come il già citato Bousset, e poi R.H.
Charles (1920), W. Hadorn (1928), P. Prigent (1981). Giovanni
di Patmos, però, spesso descrive e conteggia tre, o quattro, o
sette, o addirittura dodici elementi simili, e questo fa pensare
che abbia disposto in ordine e in progressione anche l’intero
libro, e non solo qualche sua parte.
Una seconda indicazione deviante è quella di chi pensa che
l’Apocalisse sia costruita secondo uno schema «chiastico»: do-
po aver disposto alcune parti in progressione, e dopo avere
raggiunto il culmine a circa metà del libro, l’autore discen-
derebbe l’altro versante del libro, sino alla sua conclusione,
disponendo in ordine inverso elementi analoghi a quelli della
prima parte, a questo modo: a-b-c x c-b-a. Così hanno credu-
to d’interpretare la trama dell’Apocalisse commentatori come
W.N. Lund (1942), Elisabeth Schüssler Fiorenza (1968, 1977,
1991), J. Ellul (1975), K.A. Strand (1978, 1987, 1989), J.-P.
Charlier (1991) e F. Mondati (1997).
Questo modo di procedere comporta quasi inevitabilmen-
te delle forzature: la visione finale della Gerusalemme escato-
logica (Ap 21-22) dovrebbe, per esempio, essere parallela ai
sette messaggi indirizzati dal Cristo alle sette piccole e insi-
gnificanti Chiese d’Asia, in Ap 1-3. Ma la controindicazione
più evidente è che qualsiasi narratore, se proprio non è del
tutto mediocre – e Giovanni invece è un narratore di prima
classe –, mai metterebbe la scena più importante al centro del
suo libro o del suo film, né mai terminerebbe la sua opera «in
diminuendo», a coda di topo, e ripetendo cose già dette. No:
in un’opera narrativa anche non eccelsa, l’ultima scena è di
solito punto di gravitazione e di arrivo. Lo dicevano anche gli
antichi retori che si occupavano di come costruire un’arringa
in tribunale o un’allocuzione in senato. Quintiliano per esem-
pio (35-96 d.C. circa) – grande esperto di arte retorica tanto è
vero che l’imperatore Domiziano gli affidò l’istruzione dei due
nipoti da lui designati alla successione imperiale – scrive che
per un buon oratore o narratore il comandamento «numero
uno» è: «cavendum ne decrescat oratio – si deve fare di tutto
perché il discorso non vada scemando» (Quintiliano, De insti-
tutione oratoria V, 12,14; ix, 4,23).

35
Presumibilmente, dunque, l’Apocalisse di Giovanni ha un
ordine, e presumibilmente non è a schema concentrico ma a
sviluppo lineare e con un finale in crescendo: anzi, un finale
grandioso come non ha alcun altro libro del Nuovo Testamen-
to, e non solo del Nuovo Testamento. Così ritiene la grande
maggioranza dei commentatori. Vanno ricordati E.-B. Allo
(19211, 19333), E. Lohmeyer (1926), A. Wikenhauser (1947) e
soprattutto U. Vanni (19701, 19802) la cui strutturazione a svi-
luppo lineare in avanti è stata accolta da studiosi europei co-
me J. Lambrecht (1980), e americani come C.H. Giblin (1974,
1991), e per i cui meriti di pioniere l’Italia, da qualche decen-
nio, vede una vera e propria fioritura di studiosi e commenta-
tori dell’Apocalisse.

Struttura a sviluppo lineare in due parti


I molti interpreti che ritengono l’Apocalisse composta a svi-
luppo lineare e progressivo, la dividono in due parti diseguali:
la prima di tre capitoli, la seconda di diciannove (cc. 4-22). Le
ragioni per cui si può collocare tra Ap 3 e Ap 4 una forte cesu-
ra sono almeno quattro.
a) La prima: la vicenda di Ap 1-3 è ambientata a Patmos dove
Giovanni dice di essersi trovato «per la parola di Dio e la
testimonianza di Gesù» (Ap 1,9). Fin dal primo versetto del
capitolo la vicenda si trasferisce poi in cielo dove Giovanni
è invitato a salire e a entrare attraverso la porta aperta che
gli è apparsa. La minuscola Patmos da una parte (34 km2),
e la santa abitazione di Dio in cielo dall’altra, sono ambien-
ti così eterogenei e così sproporzionati tra loro che il lettore
– anche senza quasi rifletterci – non può non avvertire in
4,1 un salto nella narrazione.
b) La seconda: i primi tre capitoli s’interessano alle sette Chie-
se d’Asia, ai loro pregi e ai loro difetti, ai loro vizi e alle loro
virtù. Se non fosse che è il Cristo a evocare tutte queste co-
se, si potrebbe parlare quasi di pettegolezzo ecclesiastico,
tanto sono locali i problemi che nei sette messaggi vengono
discussi. Non è affatto così, invece, nei cc. 4-22, e cioè nella
seconda parte dell’Apocalisse, dove la Chiesa è quella uni-
versale: è il popolo dei 144 mila (7,1-8; 14,1), o addirittura
la folla innumerevole i cui membri vengono da ogni etnia,
tribù, popolo e lingua (7,9-17).

36
c) La terza ragione (di minor forza delle precedenti) sta nelle
diverse immagini di cui Giovanni si serve per parlare del
Cristo. In Ap 1,13-20 il Cristo è presentato come «Uno si-
mile a Figlio d’uomo» e tale resta anche nei due capitoli
seguenti nei quali il «Simile a Figlio d’uomo» detta a Gio-
vanni i sette messaggi per le sette Chiese. A partire dalla
visione dei cc. 4-5, invece, il Cristo è dapprima presentato,
e poi prevalentemente riproposto, come l’«Agnello».
d) La quarta ragione sta nell’importanza delle due scene inizia-
li, quella di Patmos e quella del cielo, perché sono all’origi-
ne di tutto quello che segue, ognuna per la propria parte: la
prima senz’ombra di dubbio, e la seconda perché inaugura
la seconda parte dell’Apocalisse con l’immagine del trono; e
il trono sarà anche l’immagine conclusiva (22,3-5) così che
i cc. 4-22 sono interamente sotto il segno della signoria di
Dio, re e sovrano universale che guida la storia con saggio e
potente governo.
Per quello che è stato detto e per quello che si aggiungerà,
le due parti si potrebbero intitolare: «Il Cristo e le sette Chiese
d’Asia», e: «Piano e azione di Dio nella storia».

Prima parte: il Cristo e le Chiese d’Asia


I primissimi versetti, Ap 1,1-2, sono come un ampio titolo
che definisce il libro in termini di «rivelazione di Gesù», di-
cendo anche che quella rivelazione viene da Dio e che, media-
ta dall’angelo e da Giovanni, deve giungere ai suoi servi. Dopo
una beatitudine per il lettore e gli ascoltatori (v. 3), seguono:
un indirizzo epistolare in cui Giovanni invoca sulle sette Chie-
se la grazia e la pace che vengono da Dio (vv. 4-5a), una dos-
sologia (vv. 5b-6) e una solenne dichiarazione divina circa la
venuta vittoriosa del Cristo (vv. 7-8).
La vera e propria narrazione comincia in Ap 1,9-10 dove
Giovanni dà al lettore le coordinate spaziali («nell’isola di
Patmos») e temporali («nel giorno del Signore») della piccola
vicenda dei primi tre capitoli, che si riassume tutta nell’appa-
rizione del Cristo-Figlio d’uomo a Giovanni, e nella dettatura
di un messaggio per ognuna delle sette Chiese. I tre capitoli
si lasciano, dunque, facilmente suddividere in due sezioni: la
cristofania (1,9-20, prima sezione), e i sette messaggi del Cri-
sto alle sette Chiese (Ap 2-3, seconda sezione). Ecco perché la
prima parte si può intitolare: «Cristo e le sette Chiese d’Asia».

37
Seconda parte: piano e azione di Dio nella storia
La seconda parte è molto più lunga (Ap 4-22) e più difficile
e discussa è la sua suddivisione. La struttura data qui di segui-
to si ispira al criterio dei settenari e delle visioni che li prepa-
rano o li completano. Dopotutto, come s’è visto, già la prima
parte è con tutta evidenza costruita con una visione (Ap 1,9-
20) e un settenario, quello dei sette messaggi alle sette Chiese,
a cui la visione introduce (Ap 2-3).
In secondo luogo, la somma di visioni introduttive e di set-
tenari dà vita a quelli che si potrebbero chiamare archi narra-
tivi che, in Ap 4-22, sono tre.

Primo arco narrativo: la rivelazione dell’Agnello


La visione introduttiva presenta anzitutto il trono di Dio
(4,1-11), poi nella destra di Dio un rotolo, scritto dentro e fuo-
ri, sigillato da sette sigilli (5,1-4), e infine l’Agnello (5,5-14).
L ’Agnello è l’unico che in cielo, in terra e negli inferi sia de-
gno e capace di aprire il rotolo chiuso dai sette sigilli, e di
svelarne il contenuto. Di fatto poi l’Agnello toglie uno dopo
l’altro i sette sigilli, portando a conoscenza di Giovanni e di
tutti il contenuto del rotolo che stava nella mano di Dio. Ecco
perché l’Apocalisse è «rivelazione di Gesù, data a lui da Dio, e
destinata ai suoi servi» come dice il titolo (1,1), ed ecco perché
quest’arco narrativo può essere chiamato «Ciclo del rotolo» o
«Ciclo della rivelazione dell’Agnello».
Anche qui, come si può ben vedere, si ripete lo schema di
Ap 1-3, perché anche qui una visione introduce a un settena-
rio che è il suo vertice e il suo punto d’arrivo: la visione è quel-
la di «trono - rotolo - Agnello» (prima sezione, Ap 4-5), e il
settenario è quello dell’apertura dei sette sigilli del rotolo, ad
opera del Cristo-Agnello (seconda sezione, Ap 6-7).

Secondo arco narrativo: i settenari di trombe e coppe


Fino a questo punto dell’Apocalisse le suddivisioni del testo
si impongono semplicemente, tanto sono evidenti. Le difficol-
tà vengono ora, dal c. 8 in avanti, ed è qui che il lettore si per-
de e magari abbandona la lettura. Se però si riesce a dominare
il tema di Ap 8-16, allora l’Apocalisse non appare più come un
rompicapo, ma diventa leggibile e intelligibile pressoché nella
sua interezza.

38
Subito, all’inizio del nuovo arco narrativo, c’è un’asimme-
tria. Nello stesso c. 8 dove finiva il settenario dell’apertura dei
sigilli (8,1), c’è un nuovo settenario, quello dello squillo delle
sette trombe: in 8,2 vengono introdotti sulla scena sette ange-
li, a ognuno di essi viene data una tromba, ed essi, uno dopo
l’altro dal primo al settimo, fanno squillare la loro tromba: «E
il primo [angelo] fece squillare la sua tromba […]. E il settimo
angelo fece squillare la sua tromba» (8,7; 11,15). Anche qui,
dunque, c’è un settenario, quello dello squillo delle sette trom-
be, ma manca la visione che lo prepara e lo motiva o, comun-
que, la narrazione di un qualche antefatto: ecco l’anomalia.
Un antefatto al nuovo e ultimo settenario si trova invece nei
cc. 12-14. Nel cielo appare la famosa «donna vestita di sole»
che, incinta e già alle doglie del parto, partorisce poi il Mes-
sia. Il drago, o satana, o serpente antico che in Gen 3 insidia-
va Eva e la sua discendenza, insidia qui il figlio della donna
(12,1-5). Essendo stato sconfitto e precipitato dal cielo sulla
terra (12,7-12), il drago si dà a perseguitare la donna e gli al-
tri figli della donna, e cioè i discepoli del Messia (12,12-17),
«i quali osservano i comandamenti di Dio e hanno la testi-
monianza di Gesù» (v. 17). In aiuto al drago, poi, salgono dal
mare una prima, mostruosa, bestia (13,1) e una seconda dalla
terra (13,11) che metteranno in piedi un’idolatria dai meto-
di suadenti e insieme vessatóri, per allettare e ingannare gli
abitanti di tutta la terra. Infatti, il racconto continua col dire:
«Allora la terra intera, presa d’ammirazione, andò dietro alla
bestia [venuta dal mare], e [… gli uomini] adorarono la bestia
dicendo: “Chi è simile alla bestia e chi può combattere contro
di essa?”» (13,3-4). Questo è l’antefatto: il suo settenario, pre-
disposto nel c. 15, è narrato nei suoi sette elementi al c. 16:
sette angeli vengono equipaggiati di sette coppe colme dell’ira
di Dio (Ap 15), e poi, uno dopo l’altro, rovesciano l’ira di Dio
sugli adoratori della bestia, sul suo trono e sul suo regno (Ap
16, in particolare 16,2.10). Anche qui dunque, per la terza vol-
ta, una sezione introduttiva conduce a un settenario, il quarto,
quello delle coppe.
Mentre nel primo arco narrativo le sezioni erano due, qui
sono tre: il settenario delle trombe (Ap 8-11, prima sezione), la
sezione dell’idolatria della bestia (Ap 12-14, seconda sezione),
e il settenario delle coppe (Ap 15-16, terza sezione). Resta da
dire perché i due ultimi settenari siano da includere nel me-
desimo arco narrativo, e perché quello delle trombe non sia
introdotto da nessun antefatto.

39
I flagelli di trombe e coppe contro le due idolatrie
Da quello che si è detto, il settenario delle coppe è il sette-
nario dell’ira di Dio, del quale i sette angeli coppieri sono evi-
dentemente al servizio, ed è altrettanto chiaro che l’ira divina
viene riversata sul mondo dell’idolatria della bestia. A ulterio-
re conferma, basti rileggere il testo della prima e della quinta
coppa: «Partì il primo angelo e versò la sua coppa sopra la
terra, e si formò una piaga cattiva e maligna sugli uomini che
recavano il marchio della bestia e si prostravano davanti al-
la sua statua» (16,2); «E il quinto angelo versò la sua coppa
contro il trono della bestia e il suo regno fu immerso nelle
tenebre» (16,10). Il settenario delle coppe è dunque un sette-
nario di flagelli anti-idolatrici, che però sono flagelli non di
distruzione, né di castigo, ma che devono indurre alla conver-
sione, anche se di fatto portano all’indurimento: «e gli uomini
[…] bestemmiarono il nome di Dio che ha in suo potere tali
flagelli, invece di pentirsi per rendergli gloria» (16,10-11; cf.
anche il v. 9).
Ebbene, se questo è evidente per il settenario delle coppe,
è vero anche del settenario delle trombe. Per rendersene con-
to, basta leggere la conclusione della sesta tromba: «Il resto
dell’umanità che non fu ucciso a causa di questi flagelli, non si
convertì dalle opere delle sue mani, non cessò di prestare culto
ai demoni e agli idoli […], e non si convertì dagli omicidi» (Ap
9,20-21). Anche nel settenario delle trombe, dunque, si parla
di idolatria, di flagelli contro l’idolatria, di flagelli che dovreb-
bero indurre gli idolatri alla conversione e di fronte ai quali
invece gli idolatri proseguono imperterriti nella loro condotta.
Questo è il motivo per cui i settenari delle trombe e delle
coppe possono essere raccolti insieme sotto il medesimo ti-
tolo di «Settenari di flagelli medicinali» e fanno parte dello
stesso arco narrativo. Pur essendo molto simili, il secondo è
evidentemente più importante del primo, dal momento che
Giovanni lo introduce con la lunga narrazione degli antefatti
(Ap 12-14), e lascia, invece, il primo senz’alcuna introduzione
o ambientazione. Il motivo è che Giovanni era preoccupato
della forte presa che l’«idolatria della bestia» aveva o poteva
avere sui cristiani delle Chiese d’Asia, un’idolatria molto più
suadente e in se stessa molto più pericolosa e blasfema che
non quella tradizionale degli idoli d’oro, d’argento, di bronzo,
ecc. Tra l’altro, tutti sanno che l’estrema pericolosità della be-
stia e della sua idolatria è detta da Giovanni anche col numero

40
666, che è «il numero del nome della bestia» (13,18): numero
che ogni lettore e ogni cristiano doveva saper ben calcolare,
per ben sapersi difendere, e con saggezza tenersi a distanza:
«Qui sta la saggezza. Chi ha intelligenza calcoli il numero del-
la bestia: è infatti numero di un essere umano. E il suo nume-
ro è seicentosessantasei» (13,18).

Terzo arco narrativo: giudizio e Gerusalemme nuova


Dopo avere fatto pressione sul mondo delle due idolatrie
per indurre gli idolatri alla conversione e dopo averne avuto
come risposta la scelta recidiva della bestemmia e dell’incal-
limento, a Dio non resta che la via del giudizio, perché la sua
santità è incompatibile e inconciliabile con il male. Così la pri-
ma sezione dell’ultimo arco narrativo è la sezione del giudizio
(Ap 17- 20). È un giudizio a quattro momenti.
Un angelo mostra a Giovanni Babilonia, la città corrotta,
la città corruttrice di tutti i popoli, la città in combutta con la
bestia (Ap 17). E poi mostra il suo giudizio: su di essa, che era
città ricca e potente e che è caduta in un solo giorno e che è
ormai maceria fumante per i secoli dei secoli, si eleva il tripli-
ce lamento funebre dei re vassalli, dei mercanti di terra e dei
mercanti di mare (Ap 18). Dopo questo primo giudizio, il se-
condo è quello delle due bestie (19,11-21), il terzo è quello del
drago e dei suoi eserciti, Gog e Magog (Ap 20,1-10), mentre
l’ultimo è quello di Morte e Ade (20,11-15), e cioè di quello che
Paolo chiama «l’ultimo nemico» (1Cor 15,26).
Se si concludesse con questi giudizi, l’Apocalisse sarebbe
davvero il libro di catastrofi «apocalittiche» che erroneamente
tutti credono. Ma il libro di Giovanni di Patmos, che già si
apriva con una beatitudine per il lettore e per l’assemblea dei
suoi uditori (1,3), si conclude anche con la più inebriante e in-
dicibile delle beatitudini. È la beatitudine dei cieli nuovi e del-
la terra nuova (21,1), ma soprattutto della Gerusalemme che
discende dal cielo e da Dio, tutta luce nel suo aspetto, perfetta
nelle sue misure e dimensioni, preziosissima nei materiali di
cui è costruita e adorna, sicura per le mura di cui è circon-
data, doviziosamente ricca per la gloria e l’onore che i popoli
portano nel suo seno, eternamente salvifica per l’acqua di vita
che la feconda e per l’albero di vita che essa produce e, infine,
beatificante per il trono di Dio e dell’Agnello che i redenti in
essa contemplano e adorano, regnando nei secoli dei secoli
(Ap 21-22).

41
Il piano dell’Apocalisse come itinerario dello spirito
Perché possa essere di reale guida e di aiuto nella lettura,
questa suddivisione dell’Apocalisse messa insieme frammento
dopo frammento, dev’essere ora presentata in sintesi, con il
suo titolo, l’introduzione e la conclusione epistolari (tutto il
libro sembra essere una grande lettera di ammonimento e di
incoraggiamento alle sette Chiese d’Asia), ma soprattutto con
le sue due grandi parti centrali: la prima in due sezioni, e la
seconda in cinque sezioni raccolte in tre cicli narrativi.

1,1-3: Titolo e beatitudine iniziale


1,4-8: Inizio epistolare [Introduzione alla 1a parte e a tutta l’Apocalisse]
Parte prima: Il Cristo e le Chiese di Asia
1,9-20: Cristofania iniziale nel giorno del Signore
2,1-3,21: I messaggi o «lettere» alle sette Chiese
[1° settenario: sette messaggi]
Parte seconda: Piano e azione di Dio nella storia
a) Ciclo del rotolo o della rivelazione dell’Agnello
4,1-5,12: Visione iniziale: il trono, il rotolo, l’Agnello
6,1-8,1: L ’Agnello apre i sette sigilli del rotolo
[2° settenario: sette sigilli]
b) Ciclo dell’intervento medicinale sulle due idolatrie
8,2-11,19: I flagelli contro l’idolatria tradizionale
[3° settenario: sette trombe]
12,1-14,20: Il drago, le due bestie, e l’idolatria della bestia
15,1-16,21: I flagelli contro l’idolatria della bestia
[4° settenario: sette coppe]
c) Ciclo dell’intervento giudiziale‑escatologico di Dio
17,1-21,8: Giudizio di Babilonia, delle due bestie, del drago e di
Morte
21,9-22,5: Palingenesi e discesa dal cielo
della nuova Gerusalemme

22,6-21: Conclusione epistolare
[Conclusione della 2a parte e di tutta l’Apocalisse]

Con i suoi poco più di 400 versetti, l’Apocalisse conduce il


lettore di ogni tempo attraverso un lungo viaggio dello spirito.
Dalla minuscola isola di Patmos e dalle piccole Chiese d’Asia,
lo porta alla Gerusalemme escatologica, radiosa e beatifican-
te; e dal giorno del Signore, vissuto da Giovanni in soggiorno

42
coatto quindi da una liturgia domenicale forzatamente disa-
dorna, lo porta all’invocazione dello Spirito e della Sposa, che
gridano: «Vieni, Signore Gesù». Ma soprattutto lo porta alla
confortante risposta: «Ecco, vengo presto, e la mia ricompen-
sa è con me […]. Sì, vengo presto» (22,12.17.20).
E tutto è propiziato e reso possibile dalla parola del Cri-
sto alle sue Chiese (Ap 1-3) e dall’azione di Dio che con mano
ferma conduce le vicende della storia secondo la sua esigente
misericordia (Ap 4-22)1.

1
Per ulteriore documentazione cf. G. Biguzzi, I settenari nella struttura
dell’Apocalisse, Bologna 1966. I commentari o gli studi sull’Apocalisse disponi-
bili in italiano sono: A. Wikenhauser, L ’Apocalisse di Giovanni, Brescia 1960
(Regensburg 1947); U. Vanni, La struttura letteraria dell’Apocalisse, Brescia
19802 (Roma 19711); P. Prigent, L ’Apocalisse, Roma 1985 (Lausanne-Paris
1981); Ch.H. Giblin, Apocalisse, Bologna 1993 (Collegeville, MN 1991); F.
Mondati, La struttura generale dell’Apocalisse, «Rivista Biblica» 45 (1997), pp.
289-327.

43
Giancarlo Biguzzi
________

I settenari dell’Apocalisse

Fin dai banchi di scuola abbiamo sentito parlare delle sette


meraviglie del mondo antico, tra cui c’erano le piramidi d’E-
gitto, il colosso di Rodi e il faro d’Alessandria; abbiamo impa-
rato a memoria quei versi del Carducci che dicono: «...sette
paia di scarpe ho consumato / di tutto ferro per te ritrovare...»,
e invece nella catechesi per la prima comunione abbiamo sen-
tito parlare dei sette giorni della creazione e dei sette sacra-
menti. Il numero sette si incontra dunque fin da bambini co-
me numero proverbiale, perfetto e magico, ed è il numero – si
potrebbe dire – di Giovanni di Patmos. L ’autore dell’Apocalis-
se neotestamentaria ama i numeri, egli che usa 10 volte il ter-
mine arithmós («numero») e usa ben 283 numeri tra ordinali,
cardinali e frazionali, con una media di 1,4 numeri per ogni
due versetti1. Tra tutti i numeri, comunque, quello preferito da
Giovanni è, senz’ombra di dubbio, il sette, che in Apocalisse
ricorre ben 60 volte2.

Natura e importanza dei settenari giovannei


La particolarità di Giovanni nell’uso del numero sette è che
in base a esso egli costruisce quadri narrativi che a partire da
Gioachino da Fiore († 1202) sono stati chiamati «settenari»3.
A dire il vero, nella sua Apocalisse Giovanni costruisce molte
narrazioni «seriali»: in 4,6-8, per esempio, egli descrive l’a-
spetto e l’azione di quattro Viventi; a partire da 6,1 descrive la
comparsa di quattro cavalli di diverso colore, ognuno monta-
1
Cf. G. Biguzzi, I settenari nella struttura dell’Apocalisse, Bologna 1996, pp.
11-12.
2
In Apocalisse l’ordinale «settimo» figura 5 volte, su di un totale di 9 ricor-
renze neotestamentarie, mentre il cardinale «sette» vi figura 55 volte su di un
totale di 88 ricorrenze nel Nuovo Testamento.
3
Cf. Biguzzi, I settenari, pp. 27-28.

44
to dal suo cavaliere; a partire da 8,13 annuncia e poi proclama
il compiersi di tre «guai!»; in 17,9-11 costruisce una sorta di
indovinello dove a cinque re ne succederanno altri due per un
totale di sette e – contemporaneamente e sorprendentemente!
– di otto. Ma è soprattutto negli ultimi capitoli, quando de-
scrive la Gerusalemme escatologica, che Giovanni accumula
le sue serie numerate: la città ha quattro lati, con tre porte e
tre fondamenti su ogni lato; ogni porta reca i nomi delle do-
dici tribù d’Israele e ogni fondamento i nomi dei dodici apo-
stoli dell’Agnello. I dodici fondamenti, poi, sono dodici pietre
preziose di cui sono dati i nomi «scientifici», e le dodici porte
sono dodici perle.
I settenari però sono altra cosa. Nei settenari Giovanni non
elenca sette oggetti simili, né narra sette episodi o sette se-
quenze di una piccola vicenda, perché di per sé nei settenari
non c’è vero sviluppo narrativo. Un settenario è diverso anche
dalla narrazione basata sullo schema del «6+1» il cui esempio
più famoso è quello dei sei giorni della creazione e del settimo
giorno del riposo di Dio (Gen 1,1-2a). Altri esempi sono quello
della presa di Gerico le cui mura caddero al settimo giro del
settimo giorno (Gs 6,15ss.) e, nel Nuovo Testamento, quello
della donna che sposò successivamente sette mariti e morì
anch’essa dopo avere sposato il settimo (Mc 12,18-27). Nella
narrazione a schema «6+1», l’elemento più importante è il set-
timo mentre i primi sei sono ripetitivi e incompleti. Nel sette-
nario invece il settimo elemento non è mai il più importante,
essendo o come gli altri, o addirittura più povero, perché di
trapasso o di commento4.
Nei settenari piuttosto, dopo aver messo in scena uno o
più protagonisti, Giovanni dice come essi ripetano un’azione
per sette volte. Sotto questo profilo i settenari si potrebbero
definire «un’azione settuplice». Si tratta presumibilmente di
un’azione importante, poiché tutto ciò che un narratore ripe-
te, di proposito e magari conteggiando le volte come spesso fa
Giovanni, è evidentemente un’azione importante.
In tal modo il lettore dell’Apocalisse è avvertito: se vuole
comprendere la trama del libro e coglierne il messaggio, non
deve in nessun modo perdere di vista i settenari: deve fare be-
ne attenzione a chi in essi agisce, a quale azione egli vi com-
4
È come i primi sei elementi la settima «lettera» (3,14-21), è di trapasso
per esempio il settimo sigillo (8,1), ed è di commento la settima tromba (11,
15-19).

45
pia, a chi mai la indirizzi e per ottenere quale scopo. Questo
vuol dire che i settenari sono importanti, e forse addirittura
centrali, nell’impianto di tutto il libro.

Numero dei settenari dell’Apocalisse


In Ap 10,3-4 Giovanni dice di aver udito lo scoppio, anzi
il parlare (lalèin), di sette tuoni nel cielo, e i commentatori
gridano al settenario, il settenario «dei tuoni»!, anche se sono
costretti a definirlo settenario «potenziale» perché Giovanni
avrebbe ben potuto riferire le parole del primo tuono, e poi del
secondo..., fino al settimo, ma non lo fa. Quello dei sette tuoni
è dunque un settenario mancato5. A maggior ragione non so-
no da considerare settenari le serie di sette visioni «non nume-
rate» che molti commentatori scoprono qua e là6. Giovanni,
quando vuole costruire un settenario, lo fa in modo compiu-
to e non solo potenziale, e lo fa in modo esplicito e non con
una pretesa serie «non numerata». Questo è da dire a scanso
di equivoci, dal momento che in Apocalisse sono stati contati
sette, otto, nove e da qualcuno7 perfino ventotto settenari. I
settenari, completi di sette azioni simili e in qualche modo
conteggiate da uno a sette, sono solo quattro.
Negli ultimi tre i sette elementi simili vengono conteggiati
dallo stesso autore. Alla fine di Ap 5 l’Agnello prende dalla ma-
no di Dio il rotolo scritto dentro e fuori (letteralmente «dentro
e di dietro»), sigillato da sette sigilli, apre quei sigilli uno dopo
l’altro per rivelare il contenuto del rotolo, e Giovanni tiene il
conto: «E quando l’Agnello aprì il primo dei sette sigilli..., e
quando aprì il secondo sigillo, ... e quando aprì il terzo sigil-
lo...» (6,1.3.5; ecc.). Allo stesso modo, a partire da 8,7 Giovan-
ni dice che sette angeli fecero squillare ciascuno la sua trom-
ba, e conteggia: «E il primo suonò la sua tromba... e il secondo
angelo suonò la tromba...». Infine, a partire da 16,2 altri sette
angeli riversano l’ira di Dio contenuta in sette coppe e, ancora
una volta, Giovanni conteggia: «Andò il primo e rovesciò la
sua coppa..., e il secondo rovesciò la sua coppa...», questa vol-

R. Baukham, La teologia dell’Apocalisse, Brescia 1994, p. 102.


5

A parlare di «unnumbered visions» è soprattutto A.Y. Collins, The Combat


6

Myth in the Book of Revelation, Missoula MT 1976, p. 13.


7
Cf. il «7  ×  7( ×  7)» del titolo di E.R. Wendland, 7  ×  7( ×  7). A structural and
thematic outline of John’s Apocalypse, in «Occasional Papers in Translation
and Textlinguistics» 4 (1990), pp. 371-387.

46
ta come le altre, proseguendo la numerazione progressiva fino
al settimo elemento.
Il primo settenario è in qualche modo anomalo, perché il
numero sette è soltanto nell’introduzione e Giovanni non con-
teggia i sette elementi, così che il terzo o il quinto elemento,
ecc., sono tali soltanto se il lettore fa il conto di sua iniziativa.
Si tratta del settenario delle sette lettere o, come sarebbe me-
glio dire, dei sette messaggi del Cristo alle sette Chiese d’Asia.
L ’introduzione al settenario è comunque inequivocabile pro-
prio circa il numero settenario sia delle Chiese sia, conseguen-
temente, dei messaggi: «Quello che vedrai, scrivilo in un roto-
lo e mandalo alle sette Chiese, a Efeso, a Smirne, a Pergamo,
a Tiatira, a Sardi, a Filadelfia e a Laodicea» (1,11), soprattutto
perché a queste parole fa accurato riscontro l’introduzione
a ogni messaggio: «All’angelo della Chiesa di Efeso, scrivi!...
All’angelo della Chiesa di Smirne, scrivi!...» (2,1.8.12; ecc.).

Estensione dei settenari


L ’Apocalisse è composta di ventidue capitoli, di solito ab-
bastanza brevi, tanto è vero che, per esempio, il c. 15 è costi­
tuito di soli otto versetti. In ogni caso, se si sommano i capitoli
coperti dai quattro settenari, si raggiunge quasi metà di tutta
l’Apocalisse: il settenario dei messaggi alle sette Chiese copre
i cc. 2-3, il settenario dei sigilli copre i cc. 6-7, il settenario
delle trombe i cc. 8-11, e infine il settenario delle coppe il c.
16, per un totale di nove capitoli su ventidue8. Ma il discorso
non si può sbrigare a questo modo, perché per esempio i sette
messaggi sarebbero sospesi nel nulla se non ci fosse a intro-
durli il c. 1: è infatti il Cristo, che appare a Giovanni nell’isola
di Patmos, a dettare i sette messaggi, dicendo volta per volta:
«All’angelo della Chiesa di..., scrivi!». Allo stesso modo, l’aper-
tura dei sette sigilli da parte dell’Agnello in Ap 6-7 è introdotta
dalla visione del trono divino in cielo e del rotolo sigillato in
mano al Sovrano che lo porge al cosmo perché se ne faccia let-
tura e solenne proclamazione. Infine, il settenario delle coppe
non si comprende se non in continuità con la vicenda del dra-
go e delle due bestie che salgono l’una dal mare e l’altra dalla
terra, perché è contro l’idolatria da esse organizzata che si ab-
batte l’ira di Dio contenuta nelle sette coppe.
8
Il conteggio è di E. Corsini, Apocalisse prima e dopo, Torino 1980, p. 84.

47
Se questo è vero, allora tutti i primi sedici capitoli sono
preparazione o sviluppo dei settenari. Senza dire che il resto
dell’Apocalisse, cc. 17-22, narra ciò che Dio farà nell’escatolo-
gia dopo che la sua azione nella storia attraverso gli interventi
settenari di trombe e coppe non avrà ottenuto conversione,
ma solo indurimento e bestemmia. La conclusione è, dunque,
che la comprensione di tutta l’Apocalisse giovannea passa per
la comprensione dei suoi quattro settenari.

L ’ordine dei numeri per irretire le forze del caos


Com’è noto, l’Apocalisse narra lo scontro tra forze del bene
e forze del male9. Nelle Chiese d’Asia serpeggiava la resa e il
compromesso con lo spirito antievangelico sotto l’influsso dei
nicolaiti, dei Balaamiti, e della profetessa Gezabele di Tiatira
per quanto riguarda il fronte interno, della sinagoga e del tro-
no di satana per quanto riguarda il fronte esterno. A più largo
raggio, i fedeli e i profeti cristiani erano sotto i colpi della ves-
sazione e della persecuzione in un grande impero multiraz-
ziale i cui popoli sembrano insediati attorno a un mare da cui
emerge, potente e temibile, la bestia-dal-mare. Essa costitui-
sce una triade antidivina insieme con il drago che la investe
del suo potere e del suo trono, e con la bestia che sale dalla
terra, un profeta tanto falso quanto servile nei confronti della
prima bestia. Il loro agire è inganno e seduzione (12,9; 13,14;
20,3.8.10; ecc.), bestemmia (13,1.5.6; 17,3), magia (13,13-15),
persecuzione (12,13.17; 13,7.17), blasfema autodivinizzazione
(13,4.8.12). La capitale di quell’impero è chiamata Babilonia,
il nome della città biblica sinonimo di caos; ed è la città cor-
rotta e corruttrice (17,2; 18,3.9), madre di tutte le prostituzio-
ni e abomìni (17,5), persecutrice dei servi di Dio fino a ubria-
carsi del loro sangue (17,6; 19,2).
Contro questo mondo di bestemmia, di violenza e di caos, il
Cristo e Dio agiscono con azione settuplice, con le sette azioni
dei vari settenari. Quanto al Cristo, prima egli detta a Gio-
vanni i sette messaggi alle sette Chiese, e poi apre l’uno dopo
l’altro i sette sigilli che impediscono a cielo, terra e inferi di
conoscere il progetto divino sulla storia. A sua volta poi Dio,
a due riprese successive, prima attraverso gli angeli che stan-

W. Bousset, Die Offenbarung Johannis, Göttingen 19066, p. 138, dice che


9

l’Apocalisse lo fa «con toni da fanfara».

48
no davanti alla sua presenza (8,2) e poi attraverso gli angeli
che vengono equipaggiati dell’ira del suo furore (15,7), agisce
«con mano potente e braccio disteso», si potrebbe dire pren-
dendo a prestito una famosa formula dall’Antico Testamento.
Per Giovanni, dunque, l’agire di Dio e del Cristo sono espri-
mibili con i numeri. L ’arma dei loro avversari è il caos e la
prevaricazione: l’arma di Dio e del Cristo è l’ordine dei nu-
meri. I numeri di Apocalisse – dice M. Rissi – sono come la
rete in cui le forze sataniche sono chiuse da ogni lato, cattu-
rate e vinte10. E – si può aggiungere – l’Apocalisse è il libro in
cui i nume­ri si trasfigurano come Gesù sul monte, restando se
stessi e, insieme, divenendo capaci di manifestare il mistero e
l’onnipotenza sia del Cristo che di Dio.

10
M. Rissi, Zeit und Geschichte in der Offenbarung des Johannes, Zürich
1952, p. 108.

49
Claudio Doglio
________

L ’Apocalisse rilegge
l’Antico Testamento

Il libro dell’Apocalisse nasce e si sviluppa in un contesto


di liturgia cristiana: durante queste celebrazioni il gruppo di
ascolto si impegna a leggere e interpretare la propria storia
nella luce della rivelazione di Gesù Cristo. Infatti, la comunità
è invitata a entrare nelle visioni proposte, a comprenderne il
senso e ad applicarlo concretamente alla propria realtà, per
cui tali pagine non possono essere semplicemente intese co-
me l’artificiosa descrizione di una realtà inaccessibile e stra-
na, una serie di enigmi stravaganti offerti a esegeti fantasiosi.
Non si tratta, infatti, dell’opera di un individuo isolato, distac-
cato dai suoi lettori e fuori dal tempo; e non è neppure un
testo che miri a informare sul futuro e a dare notizie curio-
se, ma tende piuttosto a formare una mentalità cristiana. Nei
simboli dell’Apocalisse, così, si mostra la riflessione corale di
una comunità che riconosce il dono della propria vita nuova,
frutto dell’intervento «escatologico» del Messia, e nello stesso
tempo anela al compimento finale.

Una comunità profetica


L ’Apocalisse di Giovanni rappresenta l’impegno profetico
di comprensione della storia da parte di una comunità liturgi-
ca che celebra la vittoria di Dio e del suo Cristo: in tutto que-
sto colui che svolge il fondamentale compito di interpretare la
volontà di Dio e di comprendere i segni dei tempi è il profeta.
Se era vero per gli antichi profeti biblici, resta valida e neces-
saria la loro funzione anche nella comunità cristiana.
Nel Nuovo Testamento, infatti, incontriamo più volte il ter-
mine «profeta» per indicare una persona che svolge un ruolo
autorevole all’interno della Chiesa in virtù di un particolare

50
dono. Anche l’Apocalisse si presenta come un’opera di pro-
fezia e riconosce all’interno della comunità la presenza di
profeti, che sembrano essere proprio i primi destinatari della
rivelazione di Giovanni con l’incarico di mediarla agli altri cri-
stiani1.
Pertanto è possibile e logico immaginare all’origine dell’A-
pocalisse una comunità guidata dal profeta Giovanni e da altri
profeti suoi collaboratori che hanno il compito di interpretare
le Scritture veterotestamentarie e anche la predicazione apo-
stolica: il loro studio e la loro riflessione aiutano gli altri fedeli
a comprendere nel modo corretto il significato delle parole bi-
bliche e degli insegnamenti di Gesù e a valutare con lucidità
il senso degli avvenimenti contemporanei in cui si trovano a
vivere, spesso con difficoltà. Tali profeti presiedono le assem-
blee liturgiche in cui si ascolta la parola di Dio e hanno il com-
pito di interpretarla e di attualizzarla; i loro interventi, però,
non si riducono a omelie esegetiche, ma impiegano frequente-
mente altre forme letterarie tipiche della tradizione profetica,
quali le «formule del messaggero» («Così dice...») e i «discorsi
in prima persona», dando voce al Cristo risorto, come se egli
stesso direttamente parlasse all’assemblea. Anche nel libro fi-
nito questi caratteristici elementi letterari si sono conservati,
offrendoci talvolta l’impressione di partecipare proprio all’in-
contro liturgico dell’antica comunità. Gli interventi di questi
profeti sono guidati dallo Spirito ed è proprio la loro media-
zione che permette ai fedeli di ascoltare la voce dello Spirito,
che è quella di Gesù Cristo e di Dio.
Un esempio concreto e convincente di questa realtà eccle-
siale ci è offerto da Paolo in 1Cor 14, laddove l’Apostolo af-
fronta la questione dei doni dello Spirito nella comunità di
Corinto, fra cui la profezia ha un posto decisamente privile-
giato, rispetto alla glossolalía che tanto piaceva ai carismatici
corinzi. Dalle disposizioni di Paolo a proposito di questi due
carismi all’interno delle assemblee cristiane risultano almeno
tre significative caratteristiche della profezia: innanzitutto il
profeta parte da una rivelazione (apokálypsis) divina che gli
è concessa; quindi egli espone pubblicamente le realtà che
1
Cf. Ap 11,18; 18,20.24; 22,6.9. Un argomento cardine è ricavato da 22,16
(«Io, Gesù, ho mandato il mio angelo, per testimoniare a voi queste cose ri-
guardo alle Chiese»), laddove si distingue fra «voi» e «le Chiese»: cf. D.E. Au-
ne, The Prophetic Circle of John of Patmos and the Exegesis of Revelation 22:16,
«JSNT» 37 (1989), pp. 103-116.

51
gli sono state rivelate; ma ciò che differenzia la profezia dalla
glossolalía sta nel fatto che le parole profetiche sono indiriz-
zate alle persone della comunità, sono chiare e comprensibili,
capaci di educare e costruire, vantaggiose per gli ascoltatori.
Il limite di chi parla in lingue è, secondo Paolo, quello di non
farsi capire dall’assemblea, per cui l’Apostolo ritiene necessa-
ria la presenza di un interprete; i profeti, invece, sono proprio
coloro che traducono in linguaggio comprensibile gli insegna-
menti divini ricevuti. Tale compito è un dono dell’unico Spiri-
to (1Cor 12,10).
La comunità efesina di Giovanni non doveva essere molto
diversa da quella corinzia così come emerge dall’epistolario
paolino e il ruolo e la funzione dei profeti erano sicuramen-
te simili: nell’assemblea liturgica essi, guidati dallo Spirito di
Dio, parlavano in nome del Signore e davano voce alla rive-
lazione di Gesù Cristo. Dunque, da tutto l’insieme risulta che
nell’Apocalisse il profeta cristiano è uno attraverso il quale lo
Spirito del Cristo risorto parla nell’assemblea e il suo compito
è quello di interpretare la storia e la Scrittura, perché questo è
il ruolo e la missione dello Spirito.
Nella liturgia la comunità cristiana, guidata dai «profeti»,
legge la Scrittura, ricorda gli eventi di Cristo e interpreta la
propria situazione presente: in questa dimensione celebrativa
«colui che legge e coloro che ascoltano» (1,3) compiono una
specie di lectio divina e possono cantare la realizzazione del-
la salvezza. Il libro dell’Apocalisse si presenta così come un
grande mosaico che celebra la gloria del Pantokrator e i tassel-
li che lo compongono derivano nella grande maggioranza da
raffigurazioni precedenti. Fuori metafora: l’Apocalisse è tutta
intessuta di frasi e immagini tratte dai libri della Scrittura che
i cristiani chiamano Antico Testamento.

La fede cristiana basata sulle Scritture


Nella difficile situazione in cui si trovavano i cristiani d’A-
sia alla fine del I secolo, in contrasto all’esterno con la politica
romana, la cultura ellenistica e l’ostilità giudaica e tormentata
all’interno da errori e divisioni, il libro dell’Apocalisse appare
come un’opera di nuova evangelizzazione, cioè la presenta-
zione del messaggio evangelico a una comunità che è già cri-
stiana, ma per disparati motivi entra in crisi di fronte a gravi
novità che la sconvolgono.

52
Nel contesto liturgico e sotto la guida dello Spirito, l’azione
fondamentale che il profeta cristiano fa compiere alla comu-
nità è la meditazione e l’interpretazione delle Scritture: tutta l’A-
pocalisse, infatti, dipende strettamente dall’Antico Testamen-
to e si costituisce come una sua rilettura cristiana2. Questo
lavoro ecclesiale, enorme e faticoso, vuole far comprendere gli
antichi testi come realizzati in Gesù Cristo: è davvero «profe-
zia» in quanto espone l’autentico pensiero di Dio, colto piena-
mente nella rivelazione del Messia, compreso anche alla luce
delle Scritture3.
La comunità cristiana primitiva per comprendere la figura
di Gesù e il senso della sua vicenda non aveva altri riferimenti
che i libri della Scrittura ed è proprio su questi libri, abitual-
mente letti e commentati in Sinagoga, che i primi predicatori
cristiani fondano le loro affermazioni teologiche e cristologi-
che. L ’evento di Gesù Cristo, di cui avevano fatto esperien-
za, viene interpretato con i testi della Scrittura e, a loro volta,
questi testi vengono interpretati alla luce dell’esperienza che
essi hanno fatto del Cristo. I libri che formeranno il Nuovo
Testamento derivano naturalmente dalle abituali omelie sulle
Scritture: da questo punto di vista l’Apocalisse rientra perfet-
tamente nella norma e rappresenta anzi un esempio privile-
giato di rilettura cristiana dell’Antico Testamento4.
In forza dell’esperienza storica di Gesù la comunità cristia-
na è riuscita a comprendere più a fondo le antiche Scritture e,
viceversa, alla luce delle profezie veterotestamentarie i profeti
cristiani riescono a interpretare il mistero di Cristo come pro-
fondamente inserito nel piano divino. Al cuore di questo im-
menso processo ermeneutico sta, senza dubbio, l’evento pa-
squale di morte e risurrezione, giacché la fede cristologica del
gruppo giovanneo efesino si radica proprio nell’esaltazione
gloriosa del Cristo, vincitore del male e della morte: «Le Scrit-
2
Gli studi più recenti sul rapporto fra Apocalisse e Antico Testamento
sono: J. Jenkins, The Old Testament in the Book of Revelation, Grand Rapids
1976; S. Moyise, The Old Testament in the Book of Revelation, Sheffield 1995;
G.K. Beale, John’s Use of the Old Testament in Revelation, Sheffield 1998.
3
U. Vanni, L ’Apocalisse; rilettura cristiana messianica dell’Antico Testamen-
to, in G. De Gennaro (ed.), L ’Antico Testamento interpretato dal Nuovo. Il Mes-
sia, Napoli 1985, pp. 455-480.
4
P. Grelot, Omelie sulla Scrittura nell’età apostolica (= Introduzione al
Nuovo Testamento, 8), Roma 1990, p. 207: «Si può presumere a priori che
la composizione del libro fosse stata preceduta da molto tempo da “letture
spiegate” di testi».

53
ture, rilette cristologicamente, sono il cielo dell’Apocalisse»5.
Una questione lungamente dibattuta riguarda il testo vete-
rotestamentario adoperato da Giovanni per le sue citazioni;
ci si domanda, cioè, se la comunità dell’Apocalisse adoperava
il testo ebraico o la versione greca dei LXX. Con i loro grandi
commentari H.B. Swete e R.H. Charles sono divenuti i pun-
ti di riferimento per le due opposte soluzioni: Swete, infatti,
è sicuro del riferimento alla LXX6, mentre Charles sostiene
con altrettanta sicurezza la dipendenza da un testo ebraico7. Il
problema non è di facile soluzione, perché esistono indizi a fa-
vore di entrambe le posizioni, ma la grande maggioranza de-
gli studiosi oggi propende per una diretta dipendenza dall’e-
braico e alcuni studi su settori particolari hanno confermato
decisamente questa linea.

Modo di utilizzo dell’Antico Testamento


Nonostante l’indiscussa dipendenza dalle Scritture vete-
rotestamentarie, non compare mai nel testo dell’Apocalisse
nemmeno un’esplicita citazione: l’unica volta in cui si nomina
un testo preciso, cioè il cantico di Mosè (in Ap 15,3), in realtà
viene poi riportato un inno diverso e il riferimento a Es 15 o
Dt 32 (entrambi cantici di Mosè) si rivela come semplicemen-
te simbolico.
Il metodo apocalittico di usare l’Antico Testamento non
conosce, infatti, le citazioni dirette con formule introdutti-
ve, come avviene in genere negli altri libri neotestamentari;
si tratta sempre, invece, di reminiscenze e allusioni, per cui
risulta molto soggettivo l’elenco preciso dei riferimenti all’An-
tico Testamento8.
5
J.-N. Aletti, Gesù Cristo: unità del Nuovo Testamento?, Roma 1995, p. 247.
6
The Apocalypse of St. John, London 1907, p. CLIV: «... the Apocalyptist
generally availed himself of the Alexandrian version of the Old Testament».
7
A Critical and Exegetical Commentary on the Revelation of St. John, 1 vol.,
Edinburgh 1920, p. LXVI: «John translated directly from the O.T. text».
8
Accurati elenchi delle citazioni veterotestamentarie presenti nell’Apoca-
lisse sono stati composti da: E. Hühn, Die alttestamentlichen Citate und Remi-
niscenzen im N.T., Tübingen 1900, pp. 234-268 (indica 3 citazioni esatte e 453
allusioni); W. Dittmar, Vetus Testamentum in Novo. Die alttestamentlichen Pa-
rallelen des Neuen Testaments im Wortlaut der Urtexte und der Septuaginta, Göt-
tingen 1903, pp. 263-279 (individua 19 citazioni precise e circa 150 allusioni);
H.B. Swete, The Apocalypse of St. John, London 1907, c. XIII: «Use of the Old
Testament and Other Literature», pp. CXXXIX-CLVII (registra 278 casi di uso
dell’Antico Testamento). Uno strumento molto utile per un esame comparato

54
Si definisce reminiscenza l’uso di un’immagine conosciuta
da precisi testi letterari e utilizzata spontaneamente, perché
ormai entrata a far parte della fantasia stessa dell’autore: mol-
te immagini dell’Apocalisse, infatti, derivano dall’Antico Te-
stamento, senza che Giovanni voglia riferirsi a un testo pre-
ciso, come quando parla di pastore o di tenda, di tempio o di
nozze.
Si parla invece di allusione, quando il riferimento a un testo
è voluto, senza essere esplicito: ogni volta, ad esempio, in cui
si ricorda lo «scettro di ferro» (Ap 2,27; 12,5; 19,15), viene fat-
ta un’allusione al Sal 2,9. L ’espressione infatti non è comune
e si ritrova proprio in quel passo del salmo regale che veniva
interpretato già dall’esegesi giudaica in senso messianico; per-
tanto è logico comprendere che quella formula serve all’apo-
calittico cristiano proprio per indicare il Messia Gesù. Basta
un’allusione a un particolare per richiamare implicitamente
tutto il testo da cui è tratto e offrire così una linea di interpre-
tazione9.
In ogni caso le «strane» citazioni dell’Apocalisse sono an-
che un continuo esempio di re-interpretazione. L ’autore, infat-
ti, usa i testi scritturistici come il suo grande codice, il tesoro
da cui estrae materiale antico per dire un messaggio nuovo
con un piano organico. Egli si avvicina ai passi biblici in mo-
do tematico e sfumato; per creare una stessa scena prende ele-
menti da più libri e li compone insieme con ritocchi e accre-
scimenti, in modo tanto originale da determinare un nuovo
significato.

I libri più letti


I libri da cui l’Apocalisse deriva il maggior numero di im-
magini e formule sono senza dubbio Ezechiele e Daniele, le
opere più vicine per linguaggio e mentalità all’ultimo libro
del Nuovo Testamento. Come il profeta Ezechiele in esilio ha
parlato della distruzione di Gerusalemme a causa della sua
infedeltà all’alleanza e ne ha preannunciato la ricostruzio-
ne per intervento generoso di Dio, così Giovanni vede la di-
struzione della città santa ad opera dei romani come il segno
della fine dell’antico mondo rovinato dal male e giudicato da

è: U. Vanni, Apocalisse e Antico Testamento: una sinossi, Roma 19872.


9
Il problema è stato puntualizzato da J. Paulien, Elusive Allusions: The
Problematic Use of the Old Testament in Revelation, «BR» 33 (1988), pp. 37-53.

55
Dio, mentre la comunità cristiana gli appare come l’immagi-
ne della nuova realtà operata dall’intervento escatologico di
Dio in Cristo. Per questo il profeta cristiano si sente in stretto
rapporto con Ezechiele e dal suo libro riprende moltissime
immagini, dalla visione iniziale del carro divino al gesto sim-
bolico di mangiare il libro, fino alla misurazione della nuova
Gerusalemme10. Ma anche al profeta Daniele Giovanni deve
gran parte delle visioni simboliche che caratterizzano il suo
libro, soprattutto le visioni angeliche e le raffigurazioni dei
mostri diabolici: infatti, come ai tempi della persecuzione di
Antioco IV Epifane l’opera di Daniele mirava a confortare i
fedeli e a incitarli nella resistenza, assicurando loro un immi-
nente intervento divino, così alla fine del I secolo d.C., in una
situazione storica molto simile, il profeta cristiano ripropone
la coraggiosa testimonianza dei fedeli contro l’aggressione be-
stiale del male, che comporta la loro resistenza pacifica e si
fonda unicamente sulla fiducia nella salvezza di Dio11.
Anche dal Secondo Isaia12, profeta della consolazione di
Israele e della sua liberazione da Babilonia, vengono tratti
molti spunti, così come dai poemi apocalittici di Is 24-27.34-
35; alcuni versetti di Salmi13, a loro volta, sono richiamati da
molteplici allusioni e importanti immagini derivano anche da
Geremia14, Zaccaria e altri15. Il libro dell’Esodo, infine, più che
singole citazioni, offre il substrato ideale con l’epopea delle
piaghe, la celebrazione dell’evento pasquale e il ricordo del
cammino nel deserto16.
10
A. Vanhoye, L ’utilisation du livre d’Ezéchiel dans l’Apocalypse, «Bib» 43
(1962), pp. 436-476 ha dato inizio a una serie di ricerche sull’utilizzo di singoli
libri veterotestamentari nell’Apocalisse.
11
G.K. Beale, The Use of Daniel in Jewish Apocalyptic Literature and in the
Revelation of St. John, Lanham 1984.
12
A. Gangemi, L ’utilizzazione del Deutero-Isaia nell’Apocalisse di Giovanni,
«EuntDoc» 27 (1974), pp. 109-144 e 311-339.
13
J.L. Monge Garcia, Los Salmos en el Apocalipsis, «Cistercium» 28 (1976),
pp. 269-278; 29 (1977), pp. 19-48.
14
G. Deiana, Utilizzazione del libro di Geremia in alcuni brani dell’Apocalis-
se, «Lateranum» 48 (1982), pp. 125-137.
15
M. Adinolfi, Echi di Osea nell’Apocalisse di Giovanni, in L. Padovese
(ed.), Atti del III Simposio di Efeso su san Giovanni Apostolo, Roma 1993, pp.
83-88; Id., Il libro della Genesi nell’Apocalisse, in L. Padovese (ed.), Atti del IV
simposio di Efeso su san Giovanni Apostolo, Roma 1994, pp. 97-103; A. Feuil-
let, Le Cantique des Cantiques et l’Apocalypse. Étude de deux réminiscences du
Cantique dans l’Apocalypse johannique, «ResSR» 49 (1961), pp. 321-353.
16
D. Mollat, Apocalisse ed Esodo, in San Giovanni. Atti della XVII Settima-
na biblica, Brescia 1964, pp. 345-361.

56
Dall’antico al nuovo
Nella rielaborazione dell’antico materiale biblico, a diffe-
renza di altri autori apocalittici, Giovanni non tende ad ar-
ricchire e sviluppare i testi che cita; opera, piuttosto, vigorose
condensazioni, abbrevia le formule e semplifica le immagini.
La scelta, la fusione e l’organizzazione delle immagini prese
dall’Antico Testamento dimostrano, nell’autore, una notevole
capacità artistica e teologica; soprattutto rivelano una lettu-
ra degli antichi testi che mira a una mutazione di significato,
perché tutti sono adoperati in riferimento a Cristo e al compi-
mento del mistero di Dio.
Vediamo un esempio concreto, in cui il reimpiego di ele-
menti letterari antichi è orientato a trasmettere un nuovo
messaggio che mostri in Gesù Cristo la realizzazione delle
Scritture. Nella descrizione iniziale del Figlio dell’uomo (Ap
1,13-16) vengono utilizzati particolari desunti da libri vete-
rotestamentari, ma adattati con particolare rilievo: i capelli
bianchi (1,14a) appartengono alla descrizione dell’Antico di
giorni, cioè Yhwh (in Dn 7,9) e il passaggio degli attributi da
un personaggio all’altro significa che, nella teologia simbolica
dell’autore, esiste un’equivalenza fra il Figlio dell’uomo e Dio
stesso; il paragone degli occhi col fuoco (1,14b) dipende da Dn
10,6 e si inserisce nella tradizione biblica che attribuisce vo-
lentieri a Dio le caratteristiche del fuoco, simbolo di amore e
di giudizio; la voce (1,15), infine, è paragonata al fragore delle
grandi acque, usando l’immagine che Ezechiele (1,24; 43,2)
adopera per descrivere la gloria di Dio: anche in questo caso
il passaggio degli attributi serve a indicare la potenza di Dio
presente nella parola del Cristo risorto.
Questa novità di senso è dono dello Spirito ed è la meta a
cui il profeta-autore vuole condurre la sua comunità nell’in-
terpretazione dell’Antico Testamento. Le forme simboliche,
inoltre, scelte dall’autore come strumento principale di comu-
nicazione del messaggio, non hanno la semplice funzione di
mascherare in modo enigmatico fatti storici contemporanei o
futuri, ma conservano il loro valore comunicativo per ogni co-
munità cristiana ed evocano le cose che devono accadere, cioè
il senso degli eventi storici guidati dal progetto divino e orien-
tati al compimento definitivo.
Proprio in quanto segni del Cristo, i simboli apocalittici
hanno una valenza che comprende, non una sola, ma tutte e
tre le dimensioni del tempo: il passato, il presente e il futuro,

57
che, nell’ambito della liturgia, si rafforzano e si integrano a
vicenda. Innanzitutto, infatti, nella celebrazione la comuni-
tà cristiana ricorda il passato salvifico degli interventi di Dio:
legge i testi biblici dell’Antico Testamento, li comprende in
pienezza nella luce del mistero pasquale di Cristo e li verifica
nella propria esperienza comunitaria; quindi, vive al presente
il suo dono di grazia e rinnova l’attesa e il desiderio del com-
pimento finale.
In questo senso il profeta Giovanni aiuta la sua comunità
a rileggere le antiche Scritture alla luce della Pasqua di Cristo
e, interpretandole nello Spirito che le ha ispirate, sa ricavar-
ne una comprensione di tutta la storia e un incoraggiamento
forte per affrontare le difficoltà presenti nella prospettiva glo-
riosa del futuro.

58
Marcello Marino
________

Il simbolismo dell’Apocalisse

Accingersi a leggere il libro dell’Apocalisse non è impresa


facile; infatti ci si imbatterà in ardue difficoltà interpretative;
una di queste riguarda certamente il linguaggio simbolico che
veicola il messaggio del libro. Questa difficoltà, seppur a livelli
diversi, accomuna i non addetti ai lavori come gli studiosi,
prova ne è la molteplicità di interpretazioni che nella storia
dell’esegesi sono state date a determinate immagini simboli-
che1. Quest’ampia gamma interpretativa se da una parte è ine-
vitabile, dall’altra è però rivelatrice di un mancato approfondi-
mento delle caratteristiche peculiari del linguaggio simbolico
di questo libro così misterioso e affascinante. Un contributo
notevole in questa direzione è stato apportato dal noto specia-
lista, padre U. Vanni2; vi faremo perciò ampio riferimento in
questo breve articolo.

Perché il linguaggio simbolico?


Il linguaggio simbolico non è un fenomeno nuovo per la
Bibbia; le visioni simboliche di memoria profetica (cf. Am 7-9,
1
Cf. C. Brütsch, La clarté de l’Apocalypse, Genève 19665.
2
Cf. U. Vanni, Il simbolismo dell’Apocalisse, in Id., L ’Apocalisse: ermeneuti-
ca, esegesi, teologia, EDB, Bologna 1988; Id., Linguaggio, simboli ed esperienza
mistica nel libro dell’Apocalisse. I., «Greg» 79/1 (1998), pp. 5-28; cf. anche per
un approfondimento: P. Prigent, Le symbole (1) dans le Nouveau Testament,
in «Revue de Sciences Religieuses» 49 (1975), pp. 101-115; l’articolo fa rife-
rimento al simbolismo del Quarto Vangelo e a quello dell’Apocalisse; S. Mi-
gliasso, Dal simbolo al linguaggio simbolico, in «Rivista Biblica» 29 (1981),
pp. 187-203; l’autore movendo dai contributi di P. Ricoeur offre interessanti
riflessioni in merito al problema ermeneutico; E. Lupieri, Esegesi e simbologie
apocalittiche, in «Annali di storia dell’esegesi» 7/2 (1990), pp. 379-396; l’autore
mette in evidenza nella prima parte del suo contributo la necessità di rein-
serire l’Apocalisse nel fiume della letteratura apocalittica giudaica, anteriore
e coeva; nella seconda offre un esempio di questa appartenenza a partire da
alcuni simboli.

59
Zc 1-6), come alcuni capitoli del libro profetico-apocalittico
di Daniele (cf. Dn 2, 4, 7, 8, 10) hanno certamente ispirato
l’autore dell’Apocalisse che vi ha fatto riferimento in modo
originale. Il dato inedito del nostro libro consiste nel fatto che
il linguaggio simbolico diviene costitutivo della teologia dell’A-
pocalisse. Non si può pertanto giungere a una buona interpre-
tazione teologica senza prima aver chiaro quale ruolo gioca
tale espediente letterario nell’economia globale dello scritto.
Dobbiamo porci previamente una domanda fondamentale:
perché il genere letterario apocalittico usa un linguaggio sim-
bolico anziché quello realistico? Pensiamo che gli elementi in
gioco siano almeno tre:

r Per la realtà trascendente di cui si parla. L ’Apocalisse pre-


senta una teologia della storia caratterizzata dalla lotta tra la
santa Trinità e le varie manifestazioni storiche del demoniaco.
Il linguaggio simbolico, avendo una valenza spiccatamente
evocativa rispetto a quella propriamente descrittiva del lin-
guaggio realistico, si rivela così propriamente adeguato per
esprimere una realtà trascendente, sia essa di segno positivo
che negativo, che sfugge di per sé, in qualche misura, alle ca-
pacità umane. L ’autore dell’Apocalisse per parlare della pre-
senza e dell’azione di Dio, dell’Agnello e dello Spirito nella sto-
ria degli uomini, offre così delle suggestioni fortemente evoca-
tive veicolate, appunto, mediante la forza dell’immagine. Lo
stesso, come già detto, vale per il demoniaco organizzato nella
triade satanica – il dragone (il demonio) e i due mostri (le sue
manifestazioni storiche) – che tenta, grottescamente, di scim-
miottare la santa Trinità.

r Per il modo precipuo di presentare ciò che caratterizza la sto-


ria degli uomini. La teologia della storia proposta dall’Apoca-
lisse è, chiaramente, una delle teologie presenti nel Nuovo Te-
stamento, non deve perciò essere assolutizzata ma semplice-
mente giustapposta alle altre. Tuttavia, non è forse azzardato
affermare che è il libro neotestamentario che più di ogni altro
si occupa della concretezza della storia offrendone chiavi di
lettura particolarmente suggestive (cf. per esempio, il sette-
nario dei sigilli: 6,1-17). L ’Apocalisse fa, infatti, esplicito ri-
ferimento alle strutture socio-politico-economiche che deter-
minano in gran parte il destino degli uomini. Queste struttu-
re sono viste dall’Apocalisse in modo radicalmente negativo:

60
rappresentano, infatti, lo strumento privilegiato dell’orditura
intessuta dalla triade satanica per distogliere gli uomini dall’a-
dorazione dell’unico vero Dio e dell’Agnello e illuderli che la
vita consiste essenzialmente nel godimento dei beni transeun-
ti. L ’uso del linguaggio simbolico, grazie alla sua frangia di
indeterminatezza, permette così una «ri-lettura» continua del
senso dell’immagine simbolica, rilettura esigita proprio dal
mutare del processo storico; in altre parole il simbolo offre
la possibilità di una perenne «attualizzazione» del messaggio
apocalittico riguardo al ruolo che tali strutture giocano nel
decorso della storia. La presentazione della «città di Babilo-
nia» (cf. cc. 17-18) – simbolo sintetico del «sistema terrestre»,
chiuso alla trascendenza – offre alcune feconde «categorie»
per una lettura profonda della realtà sociale in cui la Chiesa è
chiamata a vivere in un’epoca qualsiasi. Anzi, proprio il pro-
cesso storico costituisce la condizione di possibilità per espli-
citare incessantemente la fecondità dell’immagine simbolica.
In ogni epoca la comunità di fede riempirà questa sorta di
«contenitore vuoto» che è l’immagine simbolica dando un no-
me a quelle strutture politico-economiche che «ora e qui» in-
carnano la triade satanica.

r Per il coinvolgimento del destinatario. Mentre il linguaggio


realistico appella direttamente l’intelligenza del destinatario,
il linguaggio simbolico sprigiona una sua forza propria che
tende a coinvolgere tutta la persona: intelligenza, fantasia,
emotività. Questa «reattività» richiesta dall’immagine sim-
bolica al destinatario viene collocata dal libro nell’ambito li-
turgico (cf. 1,3)3. È un aspetto tipico della liturgia quello di
stimolare i partecipanti a vivere da protagonisti quello che si
sta celebrando. Il linguaggio simbolico non fa che enfatizzare
questo tratto proprio dell’esperienza liturgica: chi ascolta deve
prestare attenzione, meditare, fermarsi in silenzio, compren-
dere, prendere una decisione che ne orienti la prassi, custodire
quanto raccolto per continuare a riflettere in vista del discer-
nimento da operare nella realtà quotidiana. Questo coinvolgi-
mento è stimolato dall’autore rendendo partecipe l’assemblea
3
Cf. U. Vanni, L ’Assemblea liturgica si purifica e discerne nel “giorno del Si-
gnore” (Ap 1,10), in Id., L ’Apocalisse, pp. 87-98; Id., L ’annuncio e l’ascolto della
parola di Dio nel contesto della liturgia: la prospettiva dell’Apocalisse, «Rivista
Liturgica» 70 (1983), pp. 659-670.

61
liturgica delle visioni di cui egli è stato gratificato (cf. 1,10)4. Si
tratta di una vera e propria esperienza «transitiva» (cf. l’itera-
to passaggio dal «e vidi»... «ed ecco» = lett. «e vedi»: 4,1-2) che
permette, da una parte, all’assemblea di rivivere quel rapporto
vivo e coinvolgente col Cristo risorto sperimentato in prima
persona da Giovanni (cf. 1,11.19); dall’altra, la stimola a leg-
gere in profondità, con un acume spirituale – con sapienza –,
il senso della storia presente mediante la decodificazione delle
immagini simboliche e l’applicazione delle loro «equivalenze
realistiche» alla realtà in cui la comunità è immersa5. Il mes-
saggio simbolico dell’Apocalisse esige dunque un destinatario
che voglia lasciarsi coinvolgere dal messaggio che riceve, atti-
vo, pronto, sveglio; solo a questa condizione l’esperienza apo-
calittica sortirà l’effetto desiderato.

I «tipi» della simbologia dell’Apocalisse


La simbolica dell’Apocalisse presenta alcune costanti che,
una volta individuate, permettono al lettore di operare la de-
codificazione del simbolo con una certa disinvoltura. Li evi-
denziamo brevemente6.

r Il simbolismo cosmico. Questo simbolismo trova ampia


applicazione nel libro, si parla ripetutamente di stelle, sole,
luna, cielo, ecc. In modo abbastanza generale possiamo af-
fermare che esso tende a evocare una dimensione di trascen-
denza comune, anche se in modo diverso, alla sfera del divino
come a quella del demoniaco. Il «cielo» esprime così la zona
ideale propria di Dio (cf. 3,12); «stella» può indicare l’angelo
della Chiesa (cf. 1,20) come una realtà demoniaca (cf. 9,1) o
Cristo stesso (2,28; 22,16). In sintesi, il simbolismo cosmico
mira a evidenziare l’incidenza determinante della trascenden-
za nell’esperienza storica degli uomini.
4
«Nel genere letterario apocalittico le “visioni” sono l’espressione conden-
sata di un fatto complesso: comprendono riflessioni, intuizioni, creazioni let-
terarie, sentimenti, esperienze anche mistiche dell’autore. Nell’Apocalisse di
Giovanni in modo speciale non costituiscono quasi mai un quadro d’insieme
che si possa ricostruire visivamente» (Vanni, L ’Apocalisse, p. 80, nota 12).
5
Cf. U. Vanni, L ’assemblea ecclesiale «soggetto interpretante» dell’Apocalisse,
«RasT» 6 (1982), pp. 497-513; Id., Dal simbolismo alla vita: ermeneutica e rifles-
sione sapienziale, in Id., L ’Apocalisse, pp. 63-72.
6
Cf. Vanni, Il simbolismo dell’Apocalisse, pp. 34-55.

62
r Gli sconvolgimenti cosmici. La presenza, oseremo dire
strategica, di determinati fenomeni atmosferici mira a evoca-
re un fermento di novità che, mediante l’azione trascendente
di Dio, preme nella storia e la spinge verso un compimento
definitivo. È appunto il caso del riferimento alla formula qua-
si stereotipa: «Folgori, clamori, tuoni e terremoto» (4,5; 8,5;
11,19; 16,18).

r Il simbolismo teriomorfo. Questo tipo di simbolismo è par-


ticolarmente importante per la teologia dell’Apocalisse, basti
pensare che il Signore Gesù viene rappresentato con la figura
dell’«Agnello immolato ritto in piedi» (5,6) e il demoniaco co-
me un «drago» (12,3) al cui seguito si pongono due «mostri»
che escono dal mare (13,1.11): il potere politico-economico e
la propaganda di stato a servizio dell’ideologia. Caratteristica
tipica del simbolismo teriomorfo è di indicare una realtà tra-
scendente che sfugge a un tentativo di comprensione chiara e
distinta da parte dell’uomo: il bene promosso dalla santa Tri-
nità come il male ordito dalla triade satanica sono sottoposti
ineludibilmente a una certa opacità. Ciò che l’autore vuole co-
municare con forza alla sua Chiesa è che nonostante questi
«vuoti» di comprensibilità da parte dell’uomo il corso della
storia avrà un esito positivo per la vittoria conseguita, para-
dossalmente, dall’«Agnello immolato» (19,11.16), anche se nel
frattempo le forze del male, condannate alla sconfitta (12,11),
possono apparire vincenti (11,10).

r Il simbolismo cromatico. Anche i colori svolgono una fun-


zione particolare all’interno della trama simbolica del libro. In
questo caso il colore, anche se come gli altri simboli rimanda
ad altro da sé, svolge la sua funzione proprio in quanto colore,
premendo cioè sulla sensibilità visiva del destinatario. In pri-
mo luogo il «bianco»: indica la trascendenza divina (Dn 7,9)
realtà propria del Risorto (1,14.18) partecipata ora ai creden-
ti (3,4; 4,4; 6,11). Gli altri colori, rosso, nero, verdastro, ecc.,
possono essere compresi nella loro specificità solo grazie al
contesto immediato. Come esempio basti richiamare il colore
dei cavalli che appaiono nello scioglimento dei primi quattro
sigilli: il cavallo «rosso fuoco» (cf. 6,4) evoca una situazione
di scontro tra gli uomini tipico della guerra; quello «nero» (cf.
6,5) una dimensione «oscura» qual è l’ingiustizia sociale; infi-
ne, quello «verdastro» (cf. 6,7) fa riferimento esplicitamente,

63
ma più in generale rispetto agli altri colori, alla morte, l’espe-
rienza di radicale caducità propria di ogni uomo.

r Il simbolismo aritmetico. L ’autore dell’Apocalisse si serve


anche dei numeri per veicolare il suo messaggio. Caratteri-
stica di questa costante simbolica è il passaggio che il letto-
re deve fare dalla valenza «quantitativa» del numero a quella
«qualitativa». Per esempio, quando si vuole indicare l’iden-
tità del popolo di Dio si usa la cifra 144 mila (14,1-5): essa
è, con buone probabilità, il risultato della moltiplicazione di
12  ×  12   ×  1000. Il 12, richiamato due volte, evoca l’unità sto-
rico-salvifica tra le dodici tribù d’Israele e i dodici apostoli,
mentre il numero 1000 è il segnale tipico del tempo proprio di
Dio e del Cristo che si fa già presente nella storia (20,1-6). Un
altro esempio ci viene dalla ripetizione quasi ossessiva del nu-
mero 7 e della sua metà 3  ½. Il primo è un indicatore di totalità
– sette Chiese, sette sigilli, sette trombe, sette coppe –, mentre
il secondo segnala una parzialità; quando si riferisce al tempo
viene espressa anche attraverso i giorni [1260] o in mesi [42].
L ’indicazione di un tempo parziale può avere sia una valenza
positiva, indicando un tempo definito (cf. 11,3; 12,6), che ne-
gativa, indicando l’ineluttabile fallimento cui sono destinate le
forze del male (6,11; 20,3).

r Il simbolismo antropologico. Abbiamo lasciato per ultimo


questo tipo di simbolismo per accennarvi appena data la gran-
de quantità di elementi che troviamo in questo ambito speci-
fico: il vestiario, l’atteggiamento del corpo (in piedi, seduto,
ecc.), la relazione tra gli uomini (la città) e quella degli uomini
con Dio (il culto), sono solo alcune delle costanti simboliche
antropologiche presenti nel libro. Basti quindi un esempio,
quello delle vesti. L ’autore fa indossare sia a Cristo sia ai cre-
denti delle vesti bianche per rivelarne l’identità profonda; la
veste rende così esplicito ciò che non appare. Sia Cristo che
i credenti possono e devono essere compresi nella loro iden-
tità e dunque nella loro missione a partire dalla loro veste.
Lo stesso abito (himátion), per esempio, viene indossato da
Cristo (19,16) e dai cristiani (3,4; 16,15) a indicare la com-
partecipazione della vita divina propria della resurrezione, e,
di conseguenza, l’impegno che li accomuna nella missione-
testimonianza. Se Cristo ha scritto sulla sua veste il titolo: «Re
dei re e Signore dei signori» (19,16), i credenti sono chiamati

64
ad apportare il loro contributo all’instaurarsi della signoria
dell’Agnello grazie alla loro vigile testimonianza: «Beato chi
veglia e custodisce le sue vesti» (16,15).

La strutturazione del simbolo


L ’analisi delle immagini simboliche conduce all’individua-
zione di una triplice «struttura simbolica» che deve essere ac-
curatamente «smontata», elemento per elemento, se si vuol
raggiungere l’autentico messaggio dell’autore. Li presentiamo
con tre esempi:

r Struttura coerente. I quattro cavalli del settenario dei si-


gilli (6,1-8). I tre «elementi» della «struttura simbolica» sono
i tre diversi tipi di simbolismo: (a) teriomorfo: cavallo; (b)
croma­tico: bianco; (c) antropologico: cavaliere, arco, corona,
vittoria. L ’interpretazione conduce alla seguente equivalenza
rea­listica: la forza della trascendenza divina, non pienamente
verificabile per mezzo delle facoltà umane – simbolismo terio-
morfo –, immette nella storia il dinamismo proprio dell’ener-
gia della risurrezione – simbolismo cromatico – conducendola
verso un esito positivo – simbolismo antropologico della vitto-
ria – (cf. 19,16).

r Struttura spezzata. La presentazione di Cristo risorto (1,12-


16). Vi sono dei «vuoti» tra i vari elementi simbolici che devo-
no essere «riempiti» dall’impegno interpretativo del destinata-
rio. Quando, ad esempio, si dice che il «Figlio dell’uomo sta in
mezzo ai candelabri» (1,13) si deve fare uno sforzo interpreta-
tivo tendente a colmare la lacuna descrittiva: si dovranno di-
sporre i sette candelabri come in cerchio e il Figlio dell’uomo
ne occuperà il centro; l’equivalenza realistica indica la pre-
senza di Cristo risorto in mezzo alla sua Chiesa, soprattutto
durante l’azione liturgica. Dopo questa pausa integrativa si
potranno disporre le altre equivalenze realistiche senza sforzi
interpretativi particolari. Al v. 16 c’è di nuovo un «vuoto» da
colmare: «Avente sette stelle nella mano»; questa miscela di
simbolismo cosmico-aritmetico e antropologico appare etero-
genea e non è accolta subito nella mente. Occorre una nuova
pausa. I singoli elementi devono essere elaborati nelle loro
equivalenze: il quadro che ne risulta è intellettuale-teologico: il

65
Cristo risorto garantisce con la sua energia (tiene nella destra)
tutta (sette) la dimensione trascendente della Chiesa (stelle).
Così è della «spada affilata che esce dalla bocca»; la difficoltà
che presenta tale rappresentazione fantastica spinge a un’ela-
borazione intellettuale dei singoli elementi simbolici: Cristo
indirizza continuamente la sua parola alla Chiesa, una parola
che ha un’incisività tutta particolare (spada). Anche la frase
che segue, la «faccia di Cristo risplendente come il sole», non
è facilmente componibile con la spada che esce dalla bocca. Si
ha, quindi, un’evidente frattura con ciò che precede: la spada
che esce dalla bocca deve essere come «cancellata», lasciando
la fantasia sgombra per accogliere la nuova immagine con tut-
ta la sua forza espressiva. È questo il modo più comune con
cui l’autore costruisce i suoi simboli: ogni singolo elemento ci
si presenta allo «stato grezzo», deve essere decodificato ed ela-
borato; tra l’uno e l’altro abbiamo una discontinuità fantastica
che presenta dei «vuoti» che esigono un’interpretazione. Ogni
elemento, dopo essere stato interpretato deve essere messo da
parte, e così via. In questo caso l’interpretazione eccede sull’e-
spressione simbolica.

r Struttura ridondante. L ’uva gettata nel tino dell’ira di Dio


(14,19-20). Il sangue che esce dal tino non è un’immagine con-
seguente – la continuità fantastica è interrotta –: tra il vino,
il tino dell’ira e il sangue ci sono degli spazi vuoti da colmare
(simbolismo spezzato). Il simbolismo antropologico dell’uva
si riferisce alla maturazione del male nell’umanità; il tino si
riferisce, sempre nell’orizzonte del simbolismo antropologico,
al coinvolgimento di Dio nella vicenda umana; e il sangue, ul-
teriore elemento del simbolismo antropologico, riguarda l’an-
nientamento di tutto il male, dei nemici. Ciò che segue è però
refrattario a un’interpretazione: «Ne uscì sangue dal tino fino
all’altezza dei morsi dei cavalli per uno spazio di 1600 stadi»
(14,20b). L ’autore ha voluto, mediante questa ridondanza, so-
lo accentuare quanto detto prima, dando un’impressione del-
la potenza spaventosa di Dio, com’è espressa dalla quantità
del sangue. Così in 9,16 la ridondanza iperbolica del numero
crea solo un’impressione, non esprime un significato. Anche
in 21,19-20 l’indicazione delle diverse pietre preziose con cui
è costruita la città santa ripetuta per ben dodici volte indica il
«valore» di Dio che comunica la sua gloria alla città. La ridon-
danza, anche qui, moltiplica il significato di fondo. Troviamo,

66
al contrario del secondo caso, un eccesso della simbolizzazio-
ne sull’interpretazione.

Conclusione
Il simbolismo dell’Apocalisse determina soprattutto il suo
tipo di teologia. Se è possibile elaborare formulazioni concet-
tuali per esprimerla, è pur vero che esse per l’Apocalisse sono
astrazioni, sia pure legittime. Lo specifico dell’Apocalisse con-
siste nel fatto che le sue concezioni teologiche sono espresse
creativamente mediante il simbolo da decodificare e applicare
alla vita. Siccome l’interpretazione del simbolo esige un coin-
volgimento di tutta la persona, con una creatività interpreta-
tiva che la sintonizza con quella dell’autore e con tutto il peso
della concretezza della storia, la teologia specifica dell’Apoca-
lisse sarà quella che prenderà corpo nel soggetto decodifican-
te e ne recherà l’impronta.
Simbolo forgiato creativamente dall’autore, decodificazio-
ne operata dal destinatario per applicarne l’equivalenza rea-
listica al contesto storico, sono i tre aspetti che compongono
il triangolo ermeneutico che segna la specificità della teologia
dell’Apocalisse.

67
Claudio Doglio
________

L ’autore dell’Apocalisse
e la tradizione giovannea

Gli antichi codici biblici e la tradizione unanime presen-


tano quest’opera con il titolo Apocalisse di Giovanni: chiara-
mente il genitivo ne vuole indicare l’autore. Ma chi è questo
Giovanni? È Giovanni l’apostolo e si identifica con l’evange-
lista del Quarto Vangelo oppure è un’altra persona? La que-
stione dell’autore, pur non essendo molto importante ai fini
dell’esegesi, è stata lungamente dibattuta fin dall’antichità,
ma soprattutto negli ultimi due secoli, senza tuttavia giungere
a una soluzione che trovi d’accordo tutti gli studiosi. La af-
frontiamo in tre tappe: esaminando i dati interni dell’opera;
considerando le antiche testimonianze dei Padri; presentando
una panoramica sulle opinioni dei moderni a proposito della
«questione giovannea».

I dati interni all’opera


L ’autore di questa riflessione liturgica sul senso della storia
si presenta ripetutamente nel corso dell’opera con il nome di
Giovanni. Nel primo versetto, che serve da titolo e descrizione
dell’opera (1,1), viene presentata questa rivelazione come un
dono simbolico realizzato con un intenso processo di tradi-
zione che coinvolge tutte le persone partecipi della storia di
salvezza: Dio, Gesù Cristo, il suo angelo, il suo servo Giovanni,
i suoi servi. Nei confronti dell’intera comunità cristiana, de-
stinataria del messaggio, il servo Giovanni svolge il ruolo del
testimone (1,2): egli è colui che, presentando con simboli «ciò
che vide», «testimoniò la parola di Dio e la testimonianza di
Gesù Cristo»1.

La stessa formula ricorre altre volte nell’Apocalisse in passi particolar-


1

mente significativi: 1,9; 6,9; 12,11.17; 19,10; 20,4.

68
L ’inizio epistolare (1,4) ripete il nome di Giovanni in quan-
to mittente dell’opera, secondo lo schema classico con cui ini-
ziano le lettere. Una terza volta il nome Giovanni compare,
preceduto dall’enfatico pronome io, nell’introduzione alla vi-
sione inaugurale (1,9), offrendo alcune ulteriori indicazioni:
Giovanni è il fratello delle comunità destinatarie; condivide
con loro la sofferenza per le difficili situazioni, ma anche la
capacità di sostenere la prova; inoltre dice di essersi trovato
sull’isola di Patmos, proprio a causa della sua opera di testi-
monianza (cf. 1,2); qui fu preso dallo Spirito in un giorno di
domenica, memoriale della risurrezione (1,10), e dall’incontro
con il Cristo risorto ricevette l’incarico di comporre l’Apocalis-
se (1,11.19).
Da questo momento in poi, fino all’epilogo, il nome non
compare più, ma si succedono senza interruzione le forme
verbali in prima persona singolare («E vidi», «e udii», ecc.),
che devono avere naturalmente come soggetto lo stesso Gio-
vanni. Alla fine dell’opera, l’epilogo ripropone il nome dell’au-
tore con una formula di autentificazione: «E io [sono] Giovan-
ni, colui che ascolta e vede queste cose» (22,8).
Oltre al nome proprio, dall’insieme dell’opera possiamo an-
cora ricavare un’indicazione preziosa: l’autore si presenta ri-
petutamente con una connotazione profetica. Durante le visio-
ni riceve l’ordine di «profetare» (10,11) e, per due volte, l’ange-
lo interprete gli dice di essere un servo come lui e come i suoi
fratelli «profeti» (22,9), che custodiscono la testimonianza di
Gesù, cioè «lo spirito della profezia» (19,10). Riconosciamo
così che la comunità di Giovanni vive l’esperienza degli anti-
chi profeti e che la sua missione è di scoprire e comunicare il
senso del piano divino sulla storia. Giovanni, in quanto auto-
re, si presenta come portatore del dono profetico, rinnovato
nei tempi escatologici2.
I dati interni, che abbiamo rilevato, sono importanti ma
non decisivi: non ci dicono chi sia questo Giovanni; nessun
elemento esplicito lo identifica con l’apostolo, l’evangelista, il
figlio di Zebedeo e fratello di Giacomo; ma non troviamo nep-
pure espliciti elementi che contraddicano questa identifica-

2
Due studi recenti hanno ben focalizzato questa situazione letteraria e teo-
logica: R. Filippini, La forza della verità. Sul concetto di testimonianza nell’Apo-
calisse, «RivB» 38 (1990), pp. 401-449; M.E. Boring, The Voice of Jesus in the
Apocalypse of John, «NT» 34 (1992), pp. 334-359.

69
zione3. Per avere ulteriori dati, dobbiamo ricorrere agli scritti
degli antichi Padri, che ci permettono di conoscere la viva tra-
dizione della Chiesa e l’opinione che circolava nei primi secoli
sull’autore dell’Apocalisse.

La tradizione patristica
La prima testimonianza, in ordine di tempo, relativa all’au-
tore dell’Apocalisse è del filosofo Giustino, che visse a Efeso
verso il 132, dove ambientò il Dialogo con Trifone, primo sag-
gio di ermeneutica cristiana delle Scritture. In quest’opera,
rispondendo all’ebreo Trifone a proposito della ricostruzione
di Gerusalemme e del millenarismo, Giustino porta la docu-
mentazione dell’Antico Testamento, citando Is 65,17-25, e ag-
giunge la testimonianza dell’Apocalisse: «D’altra parte anche
da noi un uomo di nome Giovanni, uno degli apostoli del Cri-
sto, in seguito a una rivelazione da lui avuta, ha profetizzato
che coloro che credono nel nostro Cristo avrebbero trascorso
mille anni in Gerusalemme...» (Dialogo, 81,4). Il dato è im-
portante, perché l’informatore è attento e documentato: pochi
anni dopo la composizione dell’opera, nello stesso ambiente
d’origine, Giustino ha conosciuto l’Apocalisse come opera di
uno degli apostoli del Cristo. È un dato non desunto dal testo
stesso, ma proveniente dalla tradizione orale che lo accompa-
gnava.
Testimone di questa viva tradizione è anche il vescovo Ire-
neo, originario dell’Asia Minore e discepolo dell’anziano Poli-
carpo a Smirne, una delle città dell’Apocalisse (2,8): la fami-
liarità con Policarpo permette a Ireneo di risalire direttamen-
te alla sorgente della tradizione apostolica, giacché Policarpo
«fu istruito dagli apostoli e da essi fu stabilito per l’Asia nella
Chiesa di Smirne come vescovo» ed ebbe relazioni «con Gio-
vanni e con gli altri che avevano visto il Signore e ricorda-
va le loro parole e quel che aveva sentito raccontare da loro
a proposito del Signore»4. Nella sua grande opera contro la
falsa gnosi, composta verso il 180, Ireneo cita ripetutamente
3
Un elemento che spesso viene considerato come contrario a tale identifi-
cazione è il fatto che l’autore parli dei «nomi dei dodici apostoli dell’Agnello»,
scritti sui fondamenti della nuova Gerusalemme (21,14): egli dovrebbe esser-
ne escluso!
4
Contro le eresie, III, 3,4; Lettera a Florino, conservata da Eusebio, Storia
Ecclesiastica, V,20,6-7 [= St. Eccl.].

70
l’Apocalisse e in alcuni casi dice qualcosa anche dell’autore:
«Anche Giovanni, il discepolo del Signore, vedendo nell’Apoca-
lisse la venuta sacerdotale e gloriosa del suo regno [...]. Degli
ultimi tempi ha parlato ancora più chiaramente Giovanni, il
discepolo del Signore, nell’Apocalisse, indicando quali sono i
dieci corni visti da Daniele...» (Contro le eresie, IV, 20,11; V,
26,1). Con lo stesso titolo discepolo del Signore Ireneo qualifica
anche Giovanni apostolo ed evangelista, quando parla dell’au-
tore del Quarto Vangelo: è chiaro così che egli, ben informato
sulla situazione della Chiesa d’Asia, identifica l’autore dell’A-
pocalisse con l’autore del Vangelo e lo conosce come l’aposto-
lo Giovanni.
Anche la scuola alessandrina è testimone di questa tradi-
zione: Clemente Alessandrino (150-215) considera l’Apocalis-
se uno scritto apostolico e conserva alcune interessanti tradi-
zioni sulla figura di Giovanni5; anche Origene (185-254) parla
dell’Apocalisse come opera dell’apostolo Giovanni e non sem-
bra conoscere alcuna obiezione su questo punto6. Lo stesso
affermano gli scrittori latini. Tertulliano (II-III secolo) difende
l’autenticità dell’Apocalisse contro Marcione che la contesta-
va e l’escludeva dal canone7; Ippolito (III secolo), autore di
un commento sull’Apocalisse andato perduto8, anche altrove
si occupa di questo testo e ne considera autore il «Giovanni,
apostolo e discepolo del Signore»9; Cipriano, vescovo di Carta-
gine (249-258), conferma la medesima opinione10, come pure
il frammentario Canone Muratoriano, scritto a Roma verso la
fine del II secolo11.
La comune diffusione dell’Apocalisse nei primi tre secoli
e la concorde accettazione di quest’opera da parte di insigni
rappresentanti della Chiesa antica costituiscono un dato im-
portante anche per la questione della canonicità.

5
Quis dives salvetur? 42; Pedagogo, II,10,12; Stromati, IV,25; V,6; VI,13.
6
Commento a Giovanni, I,1.2.6.14; V, 3; Commento a Matteo, XVI,6.
7
Adversus Marcionem, III,14.24; IV,5; De praescriptione haereticorum,
XXXIII,10. Cf. anche De resurrectione carnis, 27: «Apostolus Johannes in Apo-
calypsi ensem describit...».
8
L ’informazione proviene da Girolamo, De viris illustribus, LXI,2.
9
De Christo et Antichristo (ed. Lagarde, p. 17).
10
Epistola XXVI,4; De bono patientiae, 24.
11
Si menziona, in barbaro latino, l’Apocalisse di Giovanni alle linee 57-58
e poi 71-72.

71
Le antiche contestazioni
La prima opinione discorde risulta quella di Gaio, scritto-
re romano vissuto fra il II e il III secolo. Egli scrisse un’ope-
ra contro il montanista Proclo e considerò non giovannei il
Quarto Vangelo e l’Apocalisse, attribuendoli all’eretico Cerin-
to. Scrive Eusebio:
Sappiamo che in questo tempo sorse l’autore di una nuova ere-
sia, Cerinto. Gaio, da noi sopra già citato, così scrive di lui nella
sua Ricerca: «Cerinto, per mezzo di rivelazioni (apokalypseon)
come scritte da un grande apostolo, mentendo ci racconta cose
strabilianti come se gli fossero state manifestate da angeli. So-
stiene che dopo la risurrezione ci sarà il regno terrestre di Cri-
sto e che gli uomini, redivivi nei loro corpi, soggiorneranno a
Gerusalemme, schiavi delle passioni e delle voluttà. E in aperta
opposizione con le divine Scritture, con la volontà di inganna-
re, aggiunge che ci sarà un millennio di feste nuziali» (St. Eccl.,
III,28,1-2)12.

Secondo Eusebio, che non riporta la notizia dell’opposi-


zione al Quarto Vangelo, Gaio fu ortodosso; secondo Dionigi
invece fu un eretico. Dionigi, infatti, conserva anche alcuni
brani di uno scritto di Ippolito (Capitoli contro Gaio), in cui
si chiarisce che le obiezioni di Gaio all’Apocalisse riguardano
presunte contraddizioni di questa rispetto agli scritti paolini13.
A Gaio, inoltre, vengono abitualmente accostati quelli che
Epifanio (Panarion 51) chiama gli Alogi, ovvero gli irragione-
voli avversari del Logos, che si opponevano alle opere giovan-
nee e le attribuivano anch’essi a Cerinto.
Sulla stessa linea si colloca Dionigi, vescovo di Alessandria
(248-265). Secondo notizie riportate da Eusebio, egli compose
l’opera Sulle Promesse, per confutare l’insegnamento di Ne-
pote vescovo di Arsinoe che aveva provocato uno scisma in
Egitto: la questione riguardava l’interpretazione letterale del
millennio e l’Apocalisse ne era il fondamento biblico. Dionigi,
dunque, affrontò lo studio dell’Apocalisse in chiave polemi-
ca ed Eusebio dedica un intero capitolo per presentare la sua
opinione al riguardo:
12
La precedente citazione di Gaio (in II,25,6) lo diceva «uomo ecclesiasti-
co» vissuto al tempo di papa Zefirino (199-217).
13
Dionigi bar Salibi, morto nel 1171, ci ha lasciato forse l’unico commen-
tario siriaco all’Apocalisse, scoperto da Gwyn in un manoscritto del British
Museum di Londra e pubblicato nel 1910 in CSCO.SS, t. 101, pp. 1-22, a cura
di I. Sedlacek.

72
Più avanti, così parla dell’Apocalisse di Giovanni: «Alcuni di
coloro che ci precedettero rigettarono e ripudiarono senz’altro
questo libro; lo confutarono capitolo per capitolo, lo dichiara-
rono inintelligibile e sconnesso e con un titolo menzognero. Di-
cono che non ne è Giovanni l’autore, che non si tratta di una
rivelazione, perché questa è celata sotto un velo di ignoranza
spesso e oscuro; che non deriva da alcuno degli apostoli né da
un santo, né da un membro della Chiesa, ma da Cerinto, il qua-
le ha originato un’eresia che da lui si denomina; ha voluto quin-
di attribuire la sua invenzione a un nome che le desse credito»
(St. Eccl., VII,25,1-2).

Forse fa riferimento a Gaio e ai suoi seguaci; in ogni caso


li ritiene esagerati e preferisce seguire una via più moderata.
Non rifiuta il valore ispirato del libro e la sua canonicità; ma
lo analizza con attenzione, applicando l’acuta critica lettera-
ria della scuola alessandrina. Prosegue infatti:
Io non oso rigettare questo libro, tanto più che molti fratelli
ne sono entusiasti. Ben trovo che il pensiero in esso contenuto
trascende la forza della mia intelligenza. Ma ciò mi fa conget-
turare che in ciascuna sua parte sia latente un senso arcano e
ammirabile. Del resto, se non comprendo, suppongo che nel-
le parole ci sia un significato molto profondo (St. Eccl., VII,25,
4-5).

È chiaro l’atteggiamento, finemente critico, di chi si oppo-


ne a una lettura superficiale e letterale; Dionigi pensava ai fon-
damentalisti del suo tempo che tanti problemi causavano alla
sua Chiesa, e voleva invitarli a uno studio serio e approfondi-
to, per poter cogliere il senso profondo e simbolico dell’Apo-
calisse.
Nella citazione frammentaria del libro Sulle Promesse l’at-
tenzione di Eusebio si concentra poi sulla questione dell’au-
tore dell’Apocalisse e riporta diffusamente l’analisi critica di
Dionigi, il quale non nega che l’autore si chiami Giovanni,
tuttavia trova difficile identificarlo con l’apostolo, autore del
Quarto Vangelo e dell’epistola cattolica. Egli afferma espres-
samente di congetturare che non si tratta di uno stesso autore
dal carattere dei due scritti, dalla forma della dizione e dal
piano di organizzazione dell’opera14. Nessuna notizia storica
14
St. Eccl., VII,25,7-27. Nei §§ 9-11.18-26 vengono esposte le riflessioni
lette­rarie di Dionigi sulle differenze fra Apocalisse e Quarto Vangelo.

73
e nessun dato tradizionale viene citato da Dionigi per accre-
ditare la propria opinione: si tratta, dunque, di un semplice
ragionamento ipotetico da studioso, basato su criteri letterari
di somiglianza e differenza. Anche la notizia sui due Giovanni
sepolti a Efeso è riferita per sentito dire; gli scavi archeologici
finora hanno restituito un’unica tomba. Dionigi non parla di
Giovanni il Presbitero; ipotizza semplicemente un altro Gio-
vanni, diverso dall’apostolo evangelista.
Lo storico Eusebio (265-340) è testimone di qualche incer-
tezza nell’accoglienza dell’Apocalisse. Quando presenta l’elen-
co dei libri canonici neotestamentari, fra quelli universalmen-
te riconosciuti (homologoúmena) inserisce l’interessante nota:
«Credendolo opportuno si può aggiungere anche l’Apocalisse
di Giovanni, su cui si sono pronunciati giudizi diversi»; ma fa
lo stesso anche per l’elenco dei libri contestati (nótha): «e, se
si vuole, anche l’Apocalisse di Giovanni, della quale sopra si è
osservato che, mentre alcuni la rigettano, altri l’aggiudicano
tra gli scritti di riconosciuta canonicità» (St. Eccl., III,25,2.4).
Eusebio non sembra favorevole a questo libro. La lettura
dell’opera di Dionigi d’Alessandria deve avergli offerto spunti
per togliere valore e credibilità all’Apocalisse. Egli poi trova
conferma all’ipotesi di Dionigi negli antichi scritti di Papia di
Gerapoli. In alcune sue oscure espressioni Eusebio è convinto,
infatti, di poter identificare la figura di Giovanni il Presbitero:
Così ha conferma quanto sostengono alcuni, che nell’Asia ci
furono due personaggi omonimi; esistono tuttora a Efeso due
tombe col nome di Giovanni. È necessario por mente a questo
particolare, perché, qualora si voglia escludere il primo (Gio-
vanni l’apostolo), è verosimile che fu il secondo (Giovanni il
Presbitero) ad avere le visioni dell’Apocalisse, attribuite appun-
to a Giovanni (St. Eccl., III,39,6).

L ’affermazione non è fondata storicamente, ma presenta-


ta come comoda ipotesi; se nell’antichità non ebbe fortuna,
fu accolta favorevolmente da molti critici moderni. Solo pre-
giudizi dottrinali e questioni letterarie avevano portato alcuni
studiosi a dubitare della paternità apostolica dell’Apocalisse;
esse erano circoscritte alla scuola di Antiochia e alla Chiesa
di Siria; tutte le altre comunità cristiane, secondo la generale
testimonianza dei Padri, greci e latini, attribuivano pacifica-
mente l’Apocalisse all’apostolo Giovanni, autore del Quarto
Vangelo.

74
La «questione giovannea»
La critica moderna ha ripreso le osservazioni di Dionigi e
ha elaborato, con grande fantasia, un’immensa gamma di so-
luzioni possibili. Il problema riguarda i rapporti fra le singole
opere del Nuovo Testamento attribuite a Giovanni: il Quarto
Vangelo, le tre Lettere e l’Apocalisse. I dati interni e le noti-
zie fornite dalla tradizione patristica non pongono particolari
problemi di incongruenza. Questi nascono dallo studio lette-
rario comparato delle varie opere giovannee, giacché moltis-
simi critici moderni hanno pensato di trovare serie differenze
fra l’Apocalisse e il Quarto Vangelo sul piano della lingua, del-
lo stile e della teologia15. A partire da uno studio di J.S. Sem-
ler (1776) molti esegeti hanno negato l’identità fra l’autore del
Quarto Vangelo e quello dell’Apocalisse: per più di due secoli
gli studiosi hanno passato in rassegna le differenze linguisti-
che e teologiche dei due scritti e hanno proposto le ricostru-
zioni più disparate. Può essere opportuno, senza passare in
rassegna tutte queste opinioni, riassumere schematicamente
le scelte possibili:

1) l ’Apocalisse e il Quarto Vangelo hanno lo stesso autore:


a) è l’apostolo Giovanni;
b) è un altro autore a noi sconosciuto;
2) l ’Apocalisse e il Quarto Vangelo sono opere di autori diversi:
a) l’Apocalisse è di Giovanni, il Quarto Vangelo di un altro autore;
b) il Quarto Vangelo è di Giovanni, l’Apocalisse di un altro autore;
c) i due scritti sono opere di autori diversi e sconosciuti.

Tutte queste soluzioni sono state sostenute, con le ulterio-


ri e innumerevoli sfumature che provengono dai tentativi di
dare un nome agli autori sconosciuti e dalle ipotesi di fonti
molteplici compilate nel tempo da diversi redattori. Tali pro-
poste si basano unicamente su osservazioni letterarie e sono,
inevitabilmente, soggettive: la giungla di opinioni conferma
l’eccesso di soggettivismo critico.

15
Sono le osservazioni già sviluppate da Dionigi d’Alessandria, il quale
concludeva: «L ’Apocalisse è di un genere tutto diverso e differente da questi
scritti. Non vi è tra loro contatto né parentela. Non ha con essi, per così dire,
neanche una sillaba comune» (St. Eccl., VII,25,22).

75
Il confronto attento delle due opere sul piano linguistico e
teologico arriva a notare reali punti di divergenza, ma anche
molti punti di convergenza; nessuna osservazione, soprattut-
to, è oggettivamente probante per una distinzione di autori.
Il minuzioso confronto elaborato da E.-B. Allo16 lo ha portato
a dire con sicurezza che la critica interna conferma il dato
tradizionale dell’unità di autore, giacché la filologia stabilisce
l’esistenza di una lingua giovannea, la critica letteraria fa sco-
prire un’arte giovannea molto personale e il confronto delle
idee teologiche rivela per lo meno l’esistenza di una scuola di
pensiero giovanneo. A una conclusione analoga sono giunti re-
centemente anche O. Böcher e M. Hengel, sostenendo un uni-
co ambiente d’origine, una comunità profetico-apocalittica in
cui sono nate, in momenti diversi e con intenti e sfumature
diverse, le varie opere giovannee17.
Accertata l’unità di ambiente d’origine e di autore, non si-
gnifica però aver identificato l’autore. Sicuramente il Giovanni
che ha scritto l’Apocalisse dimostra una notevole autorità nei
confronti delle comunità cristiane a cui si rivolge, contestan-
do con forza certi comportamenti giudicati scorretti, dispone
la lettura liturgica del suo scritto e non riconosce a nessun
altro il diritto di aggiungere o togliere qualcosa alla sua opera.
Difficilmente un anonimo e oscuro discepolo avrebbe visto ac-
cettare nella comunità cristiana un libro così strano e difficile.
Dionigi alessandrino notava come un limite l’assenza di ogni
titolo qualificante l’autore; mentre la presenza del semplice
nome sembra proprio un indizio a favore della paternità apo-
stolica: infatti, solo una persona molto conosciuta e stimata
può permettersi di non dire chi è; basta il nome di Giovanni e
tutti lo riconoscono.
Anche il caso della abituale pseudonimia negli scritti apo-
calittici non contrasta l’identificazione tradizionale: i presunti
autori delle apocalissi, infatti, sono personaggi molto antichi
(come Enoc, Baruc o Esdra), vissuti secoli prima dell’autore
reale, in grado di descrivere tutto il corso della storia che in-
teressa presentare come una profezia nascosta e finalmente
16
L ’Apocalypse de saint Jean (= Etudes Bibliques), Paris 19333, nel capitolo
intitolato: «La thèse de l’unité d’auteur des écrits johanniques devant la cri-
tique interne» (pp. CXCIX-CCXXII).
17
O. Böcher, Johanneisches in der Apokalypse des Johannes, «NTS» 27
(1981), pp. 310-321; M. Hengel, La questione giovannea (= Studi biblici, 120),
Brescia 1998.

76
rivelata. Giovanni, invece, è coevo all’opera che gli è attribui-
ta; il metodo pseudoepigrafico non ricaverebbe nulla da que-
sto artificio, se non dar valore e credibilità all’opera. Ma non
si può pensare che l’ambiente giovanneo avrebbe accettato in
modo così semplicistico un’opera che non fosse dell’apostolo.
Se non si vuole accettare l’identificazione di questo Giovan-
ni con il figlio di Zebedeo, si può ricostruire, come fa Hengel18,
un’altra storica figura di Giovanni, soprannominato l’Anziano
e qualificato come apostolo, anche senza essere dei Dodici.
Nato a Gerusalemme intorno al 15 d.C. come membro dell’a-
ristocrazia sacerdotale, questo Giovanni sarebbe stato attratto
dal movimento del Battista e poi avrebbe seguito Gesù stesso:
testimone degli eventi pasquali e inserito nella grande schie-
ra dei discepoli, sarebbe entrato a far parte della comunità
apostolica di Gerusalemme, divenendo, all’età di circa cin-
quant’anni, fondatore della scuola in Asia Minore, che fiorì
per circa trentacinque anni. Successivamente i suoi discepoli
guardarono a lui come all’Anziano, al discepolo del Signore, al
discepolo che Gesù amava, fondendo la sua figura con quella
dell’altro Giovanni, l’apostolo figlio di Zebedeo.

18
Hengel, La questione giovannea, pp. 263-318.

77
Claudio Doglio
________

Storia dell’interpretazione
dell’Apocalisse

L’Apocalisse è senza dubbio un libro affascinante: chi si la-


scia prendere dalla ricchezza dei suoi simboli e si impegna a
scoprirne la mirabile tessitura nella molteplicità dei particola-
ri, riesce a cogliere la bellezza dell’ardita architettura lettera-
ria e a gustare l’arte della comunicazione per immagini. Ep-
pure l’Apocalisse sconcerta anche: più di un lettore ha smesso
di leggerla, ritenendola incomprensibile o folle.
Effettivamente la comprensione dell’ultimo libro della Bib-
bia non è opera semplice; anche gli antichi se ne erano accorti
e in tutti i secoli, fino a oggi, molti si sono cimentati nella sua
interpretazione. San Girolamo presenta l’Apocalisse dicendo-
la superiore a ogni possibile elogio, ma riconoscendo, con una
formula sintetica ed espressiva, che ogni sua parola costitui-
sce un enigma, proprio perché ogni espressione vuole comu-
nicare un mistero («Tot habet sacramenta quot verba»)1.

I criteri per una corretta interpretazione dell’Apocalisse


Per poter interpretare un testo, bisogna anzitutto rispettare
il testo stesso e la sua realtà; all’Apocalisse, invece, si è fatto
dire di tutto, proprio perché spesso sul «testo» ha prevalso la
«testa» del lettore. Evidenziamo, dunque, in partenza alcuni
criteri ermeneutici fondamentali, da tenere sempre ben pre-
senti nell’esegesi dell’opera.
Prima di tutto bisogna considerare che l’Apocalisse nasce
in un contesto liturgico ed è rivolta a una comunità cristiana
che celebra il mistero pasquale di Cristo. Non è opera di un
individuo isolato, distaccato dai suoi lettori e fuori dal tempo;
1
Girolamo, Epistola ad Paulinum, L,6.

78
non è inoltre un’opera che miri a informare e dare notizie, ma
tende essenzialmente a formare una mentalità.
In secondo luogo, è opportuno ricordare che, nel contesto
liturgico, l’azione fondamentale che la comunità compie è la
meditazione delle Scritture: tutta l’Apocalisse dipende stretta-
mente dall’Antico Testamento e si costituisce come una sua ri-
lettura cristiana. Questo lavoro ecclesiale, enorme e faticoso,
vuole far comprendere gli antichi testi come realizzati in Gesù
Cristo: è «profezia» in quanto espone l’autentico pensiero di
Dio, colto pienamente nella rivelazione del Messia.
Inoltre, l’esegeta deve tenere presente che, per esprimere
questo messaggio cristiano, l’autore ha scelto il genere lette-
rario apocalittico e, di conseguenza, ha adoperato in grande
abbondanza il simbolismo come strumento abituale di comu-
nicazione. Attraverso i simboli, infatti, viene comunicato il
messaggio teologico e compito dell’esegeta è quello di com-
prendere il significato delle varie immagini simboliche, non
secondo un’impressione generale, ma rispettando il contesto
originale, l’impostazione letteraria e lo stretto rapporto con la
simbologia delle antiche Scritture.
Infine, proprio questa attenzione permette di non trascura-
re l’ambiente vitale in cui l’opera è nata. Molti indizi, infatti,
lasciano intravedere in Giovanni un forte interesse per la sto-
ria dell’umanità: egli non è un visionario che elabora specula-
zioni fuori dal tempo e dalle vicende degli uomini; piuttosto
scrive in forma di visioni l’annuncio evangelico sul senso della
storia umana. L’attenzione per la storia, infatti, risulta essere
il punto decisivo per l’interpretazione dell’Apocalisse e anche
il più difficile da chiarire.
Dunque, di fronte all’enorme varietà di proposte e di rilet-
ture, è arduo tratteggiare una sintesi di storia dell’interpreta-
zione dell’Apocalisse2; tentiamo, semplicemente, una rapida
carrellata storica, per evidenziare i momenti più significati-
vi di questo cammino e le scelte interpretative che sono state
preferite di epoca in epoca.
2
Per le principali linee interpretative cf. D. Mollat, Principi d’interpreta-
zione dell’Apocalisse, in «Abi», Apocalisse, Brescia 1967, pp. 9-36; B. Marcon-
cini, Differenti metodi nell’interpretazione dell’Apocalisse, «Bibbia e Oriente» 18
(1976), pp. 121-131; E. Corsini, Appunti per una lettura teologica dell’Apocalis-
se, in L. Padovese (ed.), Atti del II Simposio di Efeso su san Giovanni Apostolo,
Roma 1992, pp. 187-205.

79
L’antichità patristica: accoglienza e ostilità
L’opera di Giovanni esercitò fin dagli inizi un significativo
influsso letterario e teologico sugli scrittori ecclesiastici: in-
fatti, già nelle opere dei Padri apostolici si possono trovare
immagini ed espressioni che molto probabilmente dipendo-
no dall’Apocalisse. A partire dal II secolo essa risulta comu-
nemente accettata in tutte le Chiese e citata come Scrittura
ispirata da tutti i principali autori cristiani.
Questa grande diffusione del libro, letto e stimato da tanti
cristiani, si spiega innanzitutto con l’aiuto e l’incoraggiamen-
to che esso offriva alle comunità nei duri secoli delle persecu-
zioni e del non riconoscimento. Infatti, la carica combattiva
che l’Apocalisse contiene, soprattutto come critica spietata del
potere corrotto, fu di grande aiuto ai cristiani nei tempi dif-
ficili dello scontro con il potere romano: essi, infatti, erano
una minoranza disprezzata ed era chiaro per tutti chi fosse il
nemico oppressore. In tali situazioni i lettori credenti si sen-
tivano davvero seguaci dell’Agnello immolato e vincitore, ri-
cavando da tale lettura orante la forza per continuare la loro
pacifica testimonianza.
Inoltre il pensiero «catastrofico» dell’Apocalisse aveva for-
temente impressionato i lettori e il simbolo apocalittico del
«millennio» divenne fin dal II secolo un elemento determinan-
te nel panorama teologico e letterario della comunità cristia-
na. La sua interpretazione, letterale o allegorica, presente o
futura, divise gli autori ecclesiastici e produsse contestazioni,
critiche e rifiuti: molti commentatori, infatti, interpretarono
il millennio di Ap 20 in senso letterale, trasmettendo ai loro
gruppi il desiderio di veder presto realizzato in terra questo
sogno di vita paradisiaca3.
Ma con la svolta costantiniana le cose cambiarono: i cri-
stiani divennero maggioranza e la letteratura apocalittica ri-
tornò a essere appannaggio di minoranze. Proprio all’inizio
del IV secolo, infatti, l’Apocalisse cominciò a essere usata in
modo intensivo da movimenti ereticali, soprattutto da sette
millenariste in polemica con la grande Chiesa. Mentre perde
la propria incisività sulle comunità forti e riconosciute dal-
lo stato, l’Apocalisse conserva la sua carica rivoluzionaria per
3
C. Mazzucco - E. Pietrella, Il rapporto tra la concezione del millennio dei
primi autori cristiani e l’Apocalisse di Giovanni, «Augustinianum» 18 (1978),
pp. 29-45.

80
piccoli gruppi che continuano a sognare, in tanti modi diversi,
un rinnovamento del mondo. Per questo il testo di Giovan-
ni diviene sospetto e alcuni autori ecclesiastici si impegna-
no a ridimensionarne l’importanza: proprio dove è più usato
da gruppi contestatori, viene emarginato dalle autorità della
Chiesa.
Così, ad esempio, in Egitto, dove l’Apocalisse ebbe sempre
grande credito, fu tuttavia contestata dal vescovo di Alessan-
dria Dionigi, verso il 250, perché si era trovato a dover con-
trastare l’insegnamento scismatico di Nepote, vescovo di Arsi-
noe, il quale sosteneva l’interpretazione letterale del millennio
e usava l’Apocalisse come suo fondamento biblico. Dionigi,
dunque, affrontò lo studio dell’Apocalisse, non per conoscere
il testo in sé, ma in chiave polemica, per opporsi a una let-
tura superficiale e letterale, pensando ai fondamentalisti del
suo tempo che tanti problemi causavano alla sua Chiesa, e per
invitarli a uno studio serio e approfondito, in modo da poter
cogliere il senso profondo e simbolico del testo.
Così in Siria, dato lo squilibrato uso che ne facevano i mon-
tanisti, l’Apocalisse non godeva buona reputazione e il grande
storico Eusebio di Cesarea, vissuto all’epoca di Costantino, si
mostra non favorevole a questo libro: è lui, infatti, che riporta
le obiezioni mosse all’autore dell’Apocalisse da Dionigi d’Ales-
sandria, perché ritiene di avervi trovato uno spunto buono per
togliere valore e credibilità a un libro scomodo. In tal modo il
testo dell’Apocalisse, oggettivamente difficile da spiegare e fa-
cilmente frainteso da eretici vari, veniva trascurato e, proprio
per opposizione alle sette, si preferiva ignorarlo o denigrarlo.
Tutte queste incertezze spiegano il silenzio di molti Padri
greci sull’Apocalisse e l’assenza di antichi commentari greci a
questo libro.

Gli antichi commenti: un messaggio per la Chiesa


Solo nel VI secolo compare nella Chiesa greca un commen-
to completo all’Apocalisse ed è opera di uno scrittore non cal-
cedonese di nome Ecumenio, che non ebbe quindi un grande
influsso; invece alla fine dello stesso secolo Andrea, vescovo
di Cesarea, compose il commento classico bizantino (Hermé­
neia eis ten Apokálypsin), che, ripreso nel X secolo dal suo
successore Areta, resta il monumento esegetico della tradi-

81
zione greca sull’Apocalisse. La loro interpretazione è di tipo
storico, con frequenti riferimenti a episodi della vita di Cristo,
ma soprattutto allegorico, con l’utilizzo abbondante di figure
per chiarire la storia della salvezza. Bisogna inoltre aspettare
il XII secolo per incontrare il primo commento di un autore
siriaco: Dionigi Bar Salibi, morto nel 1171 come vescovo di
Amida, spiega l’Apocalisse, riprendendo le antiche interpre-
tazioni di Ippolito, con l’intento di comprendere il senso dei
travagliati eventi a lui contemporanei.
Nella Chiesa latina, invece, la tradizione esegetica dell’A-
pocalisse è molto più ricca ed è cresciuta immediatamente
dall’apocalittica dei primi tempi4. Il commento più antico a
noi pervenuto è opera di Vittorino, vescovo di Pettau (attuale
Ptuj in Slovenia), che morì martire sotto Diocleziano verso il
304: formato alla scuola di Ireneo, Ippolito e Origene, egli è
un sostenitore del millenarismo di tipo asiatico, per cui Gi-
rolamo revisionò il suo commentario un secolo dopo, correg-
gendo la lingua e soprattutto ridimensionando il chiliasmo e
l’origenismo.
Ma l’ambiente occidentale in cui l’Apocalisse trovò più ac-
coglienza e interesse è la provincia d’Africa, centro della teo-
logia latina fra il II e il IV secolo, segnata soprattutto dalla
problematica ecclesiale, che si caratterizza come crisi dona-
tista e riguarda la questione dell’unità e santità della Chiesa.
È proprio un autore donatista, di nome Ticonio, a comporre
verso il 300 un commentario all’Apocalisse, purtroppo per-
duto, che segnò profondamente l’esegesi latina e fece scuola
per secoli, soprattutto perché Agostino ne assunse molte idee:
egli legge tutto in chiave ecclesiologica e vede nell’Apocalisse
il cammino della Chiesa nella storia, specialmente i problemi
di rapporto e scontro con il potere.

J. Irmscher, La valutazione dell’Apocalisse di Giovanni nella Chiesa antica,


4

«Augustinianum» 29 (1989), pp. 171-176; C. Mazzucco, L ’Apocalisse: testimo-


nianze patristiche e risonanze moderne, in M. Naldini (ed.), La fine dei tem-
pi. Storia ed escatologia, Fiesole 1994, pp. 9-23; M.C. Paczkowski, La lettura
cristologica dell’Apocalisse nella Chiesa prenicena, «Studii Biblici Franciscani
Liber Annuus» 46 (1996), pp. 187-222; R. Gryson, Les commentaires patristi-
ques latins de l’Apocalypse, «Revue Théologique de Louvain» 28 (1997), pp.
305-337; 484-502; C. Nardi, L ’Apocalisse nella lettura dei Padri, in M. Naldini
(ed.), La Bibbia nei Padri della Chiesa (Letture patristiche, 8), Bologna 2000,
pp. 165-188.

82
Sant’Agostino riconosce che l’Apocalisse
è un libro oscuro

Sicuramente in questo libro chiamato dell’Apocalisse sono det-


te molte cose oscure, tali che mettono alla prova la mente del
lettore, e ve ne sono poche evidenti in base alle quali si possano
cercare laboriosamente le altre; soprattutto perché l’autore ri-
pete le medesime cose in molte maniere, così da sembrare che
dica cose diverse, mentre si scopre che dice le medesime cose,
ora in un modo, ora in un altro (De Civitate Dei, XX, 17).

Egli affronta direttamente l’esegesi dell’Apocalisse nell’ul-


tima parte della Città di Dio (soprattutto nel libro XX), dove,
commentando Ap 20, spiega il significato del millennio in sen-
so allegorico storico-salvifico come la vita della Chiesa sulla
terra dall’incarnazione di Cristo fino alla sua parusia, con l’in-
tento di spegnere l’attesa imminente della fine5.
Su questa linea interpretativa si collocano numerosi dotti
raccoglitori che nei secoli seguenti, tormentati dalle invasioni
barbariche, spiegano l’Apocalisse secondo il metodo di Tico-
nio. Primasio, vescovo di Adrumeto, scrisse verso il 540 cin-
que libri di commento all’Apocalisse, che costituiscono una
delle principali fonti per conoscere Ticonio e rappresentano la
sintesi finale del pensiero africano sull’Apocalisse; forse Cesa-
rio di Arles nello stesso periodo compose le diciannove omelie
sull’Apocalisse che erroneamente la Patrologia Latina ha attri-
buito a sant’Agostino; il dotto monaco Cassiodoro raccolse a
Vivario verso il 560 le sue Esposizioni riassuntive sull’Apocalis-
se, non perché gli interessi il libro, ma semplicemente perché
fa parte della Scrittura; infine, Apringio, vescovo di Beja in
Spagna, scrisse un originale commentario all’Apocalisse nella
seconda metà del VI secolo.
In queste opere l’Apocalisse viene interpretata nel contesto
di tutta la Scrittura, soprattutto in rapporto con le profezie
veterotestamentarie e con gli insegnamenti «escatologici»
dei Sinottici e di Paolo. L’attesa millenarista non continua;
viene considerata carnale ed errata, mentre i mille anni so-
no interpretati allegoricamente come il tempo che intercorre
dall’incarnazione del Cristo alla sua parusia gloriosa. In gene-

5
Cf. C. Noce, «L’Apocalisse nella storia: La Città di Dio di sant’Agostino»,
«Parole di Vita» 1/2000, pp. 46-48.

83
re, dunque, l’Apocalisse è letta in modo spirituale, soprattutto
come un messaggio per la Chiesa contemporanea.
Infatti, a differenza dei movimenti millenaristi, la conce-
zione bizantina della Chiesa, dove è decisiva la figura dell’im-
peratore cristiano, non sentiva come familiare l’immaginario
«catastrofico» dell’Apocalisse e ne ricavò un influsso differen-
te: dalle visioni di Giovanni, infatti, la grande Chiesa ereditò
soprattutto le immagini di signoria divina e di attualizzazione
liturgica. Le grandi figure del Cristo Pantokrator, con i sim-
boli tratti dall’Apocalisse, che dominano le antiche chiese in
Oriente e in Occidente, rivelano un’ecclesiologia influenzata
dall’escatologia realizzata: la città di Dio si pensa già presente
nel regno cristiano. Il trionfo non è visto come un fatto futuro
da aspettare, ma è ribadito come la Chiesa viva già nel presen-
te la vittoria del Crocifisso risorto.
Nelle situazioni storiche di conflitto, però, l’Apocalisse vie-
ne ripresa come strumento di consolazione che offre la garan-
zia divina della vittoria del regno cristiano sui vari nemici che
si presentano: persiani e arabi, vandali e visigoti, unni e nor-
manni. Dal punto di vista spirituale, si comincia ad assistere
a un restringimento di prospettiva, per cui l’attesa del compi-
mento diventa individuale e l’escatologia si riduce a una rifles-
sione sull’aldilà: significativo è l’insegnamento di Isidoro di Si-
viglia, il quale termina la sua Cronaca universale, ricordando
che la fine del mondo coincide con la morte di ciascuno.

Nel medioevo: l’affresco dell’ordine divino del mondo


Nel medioevo i biblisti, come «eruditi compilatori», ripren-
dono gli insegnamenti degli antichi e ripropongono ai loro
contemporanei la spiegazione delle Scritture. Per l’Apocalis-
se emergono tre grandi commenti, prodotti in tre diverse re-
gioni.

r In Inghilterra il Venerabile Beda, monaco benedettino, è


autore di una Spiegazione dell’Apocalisse, che scrive fra il 703
e il 709, compilando le numerose fonti che possiede: egli sce-
glie fra le varie interpretazioni oppure le fonde. Il tema de-
terminante per lui è la continuazione dell’annuncio cristiano,
la predicazione e la missione: secondo la mentalità nordica,
inoltre, sembra che l’attenzione alla morte e al giudizio risve-
gli l’interesse per l’Apocalisse.

84
r In Spagna Beato di Liebana, monaco nelle Asturie, fu la
guida teologica contro un’erronea posizione adozionista e ca-
po di un gruppo che contestava il collaborazionismo con gli
arabi, dato il grave problema della loro avanzata. Il suo com-
mentario all’Apocalisse dell’anno 776 è un’antologia di spie-
gazioni, in cui raccoglie semplicemente le opinioni dei padri,
soprattutto Ticonio e Apringio: doveva servire per la medita-
zione e lo studio dei monaci, come una specie di manuale sco-
lastico. Divenne famoso soprattutto per l’edizione del 784 in
cui furono aggiunte preziose miniature, che resero quest’ope-
ra un classico del libro miniato6.

r In Italia, infine, Ambrosius Autpertus, monaco benedetti-


no presso Capua nel ducato longobardo di Benevento, non si
occupa di storia, ma del senso spirituale e intellettuale delle
visioni di Giovanni. Scritto tra il 758 e il 767, il suo Commento
all’Apocalisse è un’opera gigantesca ed erudita che cerca di si-
stematizzare le scene apocalittiche con gli altri dati della teo-
logia.

La rinascita carolingia continua la tradizione monastica


di Beda e Autpertus e conosce sull’Apocalisse solo opere di
compilazione scolastica, disinteressate alla storia e concen-
trate sulla vita ecclesiale. Ne sono principali autori: Alcuino,
responsabile della scuola palatina intorno all’800, il monaco
Aimone d’Auxerre, e un autore sconosciuto che ha firmato il
suo commento, originale e interessante, con una criptografia
che lo fa riconoscere come Berengaudus7.
La teologia «imperiale» del medioevo, dunque, prosegue
l’interpretazione dell’Apocalisse nella linea della salvezza già
realizzata e offerta all’uomo nella Chiesa: così essa continua a
offrire le immagini per presentare l’ordine divino del mondo,
strutturato in forma piramidale e culminante col Christus im-
perator. In questo contesto culturale il libro di Giovanni ispira
soprattutto le arti figurative, che riproducono in diversi mo-
di le scene dell’Apocalisse, specialmente nelle miniature dei
grandi codici, splendida espressione della cultura monastica.
6
R. Cassanelli (ed.), Apocalisse. Miniature dal Commentario di Beato di
Liebana (XI secolo), Milano 1997.
7
Il suo testo (Expositio super septem visiones libri Apocalypsis) è stato pub-
blicato erroneamente fra le opere di sant’Ambrogio (in Patrologia Latina 17,
765-970): studi critici hanno proposto di datarlo al secolo IX oppure al XII.

85
Fra gli esempi più importanti si possono ricordare le minia-
ture del codice di Bamberga, dipinto forse a Reichenau verso
il 1000 per il re Enrico II, e il Liber floridus di Wolfenbüttel
eseguito verso la fine del 1100. Fra le raffigurazioni apocalitti-
che nelle chiese si impone per la sua complessità e ricchezza il
ciclo pittorico nella cripta della Cattedrale di Anagni, eseguito
nel secolo XIII; ma non si possono dimenticare le numerose
vetrate di cattedrali, fra cui meritano un posto di rilievo quelle
della cattedrale di York portate a compimento nel 1405 da J.
Thornton de Coventry; così come sono un capolavoro i grandi
arazzi realizzati nel 1380 da N. Bataille per Luigi I d’Angiò e
conosciuti come l’Apocalypse tissée d’Angers8.
Nel periodo della lotta per le investiture e della riforma gre-
goriana l’Apocalisse tornò di forte attualità per la sua tematica
di scontro fra la Chiesa e il potere: il fervente gregoriano Bru-
no d’Asti, vescovo di Segni, scrisse il suo commento nel 1079,
nel pieno del conflitto, spiegando il testo di Giovanni in difesa
del papato contro le pretese imperiali. Nel XII secolo, infine,
l’Apocalisse divenne uno strumento privilegiato di teologia
della storia, offrendo buoni spunti per una sistemazione uni-
versale della storia della salvezza, come dimostrano il gran-
de commento di Ruperto abate benedettino di Deutz, morto
nel 1129, e altre opere minori, fiorite specialmente in Francia,
nella scuola di Laon.
Con l’opera di Gioacchino da Fiore, poi, inizia una nuova
stagione per l’interpretazione dell’Apocalisse e la rilettura pro-
fetica riguardante il futuro attira un enorme interesse per il
libro di Giovanni che diviene nel 1200 un autentico best seller.

Gioacchino da Fiore:
l’Apocalisse come previsione di tutta la storia
L’interpretazione dell’Apocalisse come profezia futurologi-
ca e il sistema della storia universale trovano le proprie origini
nella teoria di Gioacchino da Fiore (1130-1202), riformatore
religioso «di spirito profetico dotato», che diffuse soprattutto
nell’ambiente dei fraticelli spirituali l’idea dell’Apocalisse co-
me previsione del futuro. Secondo l’abate calabrese la storia

Per una ricca raccolta di immagini ispirate all’Apocalisse cf. G. Quispel,


8

L ’Apocalisse. Il libro segreto della rivelazione, Bologna 1980.

86
del mondo è divisa in tre epoche, segnate dalle tre persone
divine: l’epoca del Figlio doveva terminare (secondo i suoi cal-
coli) nel 1260 con l’inizio dell’epoca dello Spirito Santo; se-
condo lui, pertanto, l’Apocalisse prevede la storia della Chiesa,
dividendola in sette periodi. Gioacchino pensava di trovarsi
nel quinto periodo, segnato dal contrasto fra la Chiesa e l’Im-
pero degenerato e attendeva come imminente il sesto periodo
dominato dalla venuta dell’Anticristo, sconfitto il quale sareb-
be iniziato il millennio, ultimo periodo della storia, prima del
definitivo giudizio. I suoi discepoli considerarono l’interpre-
tazione dell’abate come il «vangelo eterno» annunziato dal-
la stessa Apocalisse (14,6-7) e tale lettura assunse quindi per
molti spiriti religiosi una grande importanza9.
Con questo principio ermeneutico la fantasia di molti ese-
geti si sbizzarrì, trovando nell’Apocalisse le previsioni di tutti i
fatti storici accaduti fino a quel tempo; il movimento degenerò
presto nella polemica antipapale e il testo di Giovanni fu usato
come strumento contro la Chiesa, identificata con Babilonia,
e contro il papa, riconosciuto come l’Anticristo10. Il metodo
continuò per molto tempo a essere usato, soprattutto dai ri-
formatori in chiave anticattolica.
Il grande commentario biblico del francescano Nicolò di
Lyra (1270-1340), professore di teologia a Parigi, purificò que-
sto sistema interpretativo dagli eccessi polemici e lo consacrò
come legittimo nelle sue Postillae perpetuae del 1329: da quel
momento l’Apocalisse venne letta abitualmente come profezia
completa della storia universale, esposizione continuata degli
avvenimenti futuri, in ordine cronologico e senza ripetizioni.
Ancora oggi questo tipo di lettura è seguito da sette e movi-
menti tendenti al fanatismo: infatti, è quanto di più soggettivo
si possa immaginare, strumento valido per dir quel che si vuo-
le contro chiunque. Un tale metodo, facendo forza sull’idea di
rivelazione trascendente, non tiene in nessun conto l’apporto
dell’autore e dei destinatari umani, cioè l’ambiente d’origine,
9
Cf. S. Oliverio, Il «sabbatismo» di Gioacchino da Fiore, «Parole di Vita»
3/2000, pp. 44-47; Gioacchino da Fiore, Sull’Apocalisse, trad. a cura di A. Ta-
gliapietra, Milano 1994.
10
Appartengono a questo filone interpretativo la Postilla super Apocalypsim
di Pietro di Giovanni Olivi, morto nel 1297, e l’Arbor vitae crucifixae di Uberti-
no da Casale, opera composta verso la metà del ’300. A questa interpretazione
dell’Apocalisse si associa anche Dante Alighieri in diversi passi della Divina
Commedia: cf. Inferno XIX,106-111; Purgatorio XXIX,64-105; XXXII,109-160.

87
l’uso dell’Antico Testamento e il senso del genere apocalittico.
Si può con certezza dire che questo approccio è scorretto e
falsifica il senso dell’opera; mancando i punti sicuri di riferi-
mento fra il testo e la storia, ogni spiegazione risulta inevita-
bilmente infondata.

Le reazioni moderne:
fine del mondo o storia contemporanea
Proprio in reazione alle eccessive fantasie esegetiche del
metodo precedente si sviluppò alla fine del XVI secolo il siste-
ma interpretativo detto escatologico, secondo cui l’Apocalisse
tratta degli eventi finali della storia, senza nulla dire della fase
intermedia, ma profetizzando la futura fine del mondo.
Iniziatore di questo metodo esegetico fu il gesuita spagnolo
Ribeira, autore di un grande Commentario all’Apocalisse, pub-
blicato a Salamanca nel 1591. Il suo approccio fu seguito da
molti commentatori scolastici, fra cui il famoso Cornelius a
Lapide, enciclopedico raccoglitore di spiegazioni a tutti i libri
della Bibbia, che pubblicò il suo commento all’Apocalisse ad
Anversa nel 1625. Fra i moderni si riallaccia a questo filone lo
studio di E. Lohmeyer (Die Offenbarung des Johannes, Tübin-
gen 1926), per il quale tutte le figure simboliche dell’Apocalis-
se sono fuori del tempo e non riferibili a nessuna epoca deter-
minata, piuttosto vicine a immagini mitiche e astrali.
Nonostante innumerevoli sfumature, molti commenta-
ri moderni sostengono come idea fondamentale che l’Apo-
calisse è innanzitutto l’annunzio della fine dei tempi e della
venuta escatologica del Cristo. L’opinione corrente su questo
libro è influenzata da tale interpretazione e, con l’accentua-
zione dell’elemento catastrofico, «apocalisse» è divenuto nel
linguaggio comune sinonimo di fine del mondo. Anche que-
sto sistema ermeneutico, però, non tiene conto dell’ambiente
originale e non dà valore al linguaggio apocalittico ricolmo di
allusioni veterotestamentarie.
Sempre come reazione al metodo di storia universale codi-
ficato da Nicolò di Lyra, si sviluppò il sistema interpretativo
secondo cui l’Apocalisse fa riferimento alla storia contempo-
ranea al suo autore, cioè alle difficoltà incontrate nel I secolo
dalla giovane Chiesa cristiana nei confronti del giudaismo e
dell’impero romano.

88
Iniziatore di questa lettura fu il dotto esegeta gesuita Alca-
zar, autore di un’opera intitolata Vestigatio sensus Apocalypsis,
edita ad Anversa nel 1614: con sobrietà egli trovò nell’opera
giovannea i riferimenti ai grandi fatti della storia contempo-
ranea. Molti studiosi lo seguirono nel metodo, ma non nella
sobrietà, esagerando enormemente e in modo arbitrario gli
accenni a fatti di cronaca. La corrente tedesca dei «critici
letterari», a partire dalla fine dell’800, proprio basandosi su
questo presupposto ermeneutico, tentò di ricostruire le fasi di
composizione dell’opera a seconda dei riferimenti storici che
vi si potevano intravedere; e alcuni studiosi francesi di que-
sto secolo (Touilleux, Gelin, Giet), rivalutando il metodo ti-
pico delle apocalissi, hanno attribuito anche all’Apocalisse di
Giovanni la finzione di descrivere avvenimenti contemporanei
come se fossero futuri e hanno, con grande fantasia, ritrovato
in molti particolari simbolici allusioni a fatti di cronaca del I
secolo.
Questo metodo interpretativo ha il pregio di rispettare il
genere letterario e il contesto umano originale, ma nei suoi
eccessi è altrettanto arbitrario e ipotetico. L’idea di fondo è
comunque valida e degna di considerazione: l’Apocalisse, nata
nel I secolo, rispecchia quell’epoca e quelle vicende; inevitabil-
mente vi fa accenno e mira a formare la mentalità di cristiani
che stanno vivendo quegli avvenimenti storici. Tuttavia, que-
sto metodo non spiega il valore profondo dell’opera, che non
può ridursi a un riassunto simbolico ed enigmatico di fatti
contemporanei.

Oggi: il ritorno alla storia della salvezza


L’ambiente liturgico, il continuo riferimento all’Antico Te-
stamento e il simbolismo apocalittico inducono ad attribui-
re all’autore dell’Apocalisse un interesse storico più generale
e, soprattutto, più teologico: ciò che gli sta particolarmente
a cuore è il mistero di Gesù Cristo, evento fondamentale che
permette di comprendere il senso di tutto il progetto divino,
cioè la storia della salvezza, preparata nella storia di Israele,
attuata dal Messia e in via di compimento nella storia della
Chiesa.
Questo approccio ermeneutico, pur nella molteplicità delle
sfumature, è stato seguito dalla maggior parte dei commenta-
tori patristici e medievali fino al XII secolo e oggi è comune-

89
mente riconosciuto il suo valore, anche se molti esegeti che
lo seguono propongono interpretazioni diverse, sottolineando
aspetti differenti11.
Il passato, il presente e il futuro, nell’ambito della liturgia,
si rafforzano e si integrano a vicenda: il Signore «è venuto»
negli eventi fondamentali della sua Pasqua, «viene» nella vita
della Chiesa lungo la storia, «verrà» per il compimento fina-
le. Nella celebrazione liturgica la comunità cristiana ricor-
da il passato salvifico degli interventi di Dio – nell’economia
dell’Antico Testamento, nel mistero pasquale di Cristo, nella
propria esperienza comunitaria –, vive al presente il suo do-
no di grazia e rinnova l’attesa e il desiderio del compimento
finale. Nella liturgia, dunque, il gruppo di ascolto si impegna
a leggere e interpretare la propria storia nella luce del Cristo
risorto.
Le forme simboliche, inoltre, non hanno la semplice fun-
zione di mascherare fatti storici contemporanei o futuri, ma
conservano il loro valore comunicativo per ogni comunità cri-
stiana ed evocano «le cose che devono accadere», cioè il sen-
so degli eventi storici guidati dal progetto divino e orientati
al compimento definitivo. L’Apocalisse si può così qualificare
come la divina spiegazione del senso profondo della storia.

11
H.M. Feret, L’Apocalypse de saint Jean. Vision chrétienne de l’histoire, Pa-
ris 1946; E. Corsini, Apocalisse prima e dopo, Torino 1980; P. Prigent, L’Apoca-
lypse de saint Jean, Lausanne-Paris 1981 (tr. it. Roma 1985); U. Vanni, L’Apoca-
lisse: ermeneutica, esegesi, teologia (ABI, Supplementi alla Rivista Biblica, 17),
Bologna 1988; E. Lupieri, L’Apocalisse di Giovanni, Milano 1999.

90
secondA PARTE

ESEGESI
Clementina Mazzucco
________

Il prologo
(Ap 1,1-8)

In ogni opera letteraria la presenza di un prologo risulta


sempre importante e utile per comprendere gli scopi e l’impo-
stazione dell’autore; tanto più questo è vero per un libro come
l’Apocalisse, in cui tutto appare misterioso e difficile da capire
e che ha suscitato interpretazioni molto diverse nel corso del-
la tradizione. Neppure il prologo si può dire che sia sfuggi-
to alle discussioni, almeno in alcuni punti, ma nel complesso
fornisce indicazioni illuminanti e preziose per accostarsi al
testo e semmai si dovrebbe lamentare che non sia stato preso
abbastanza in considerazione, dato che tutta l’attenzione si è
concentrata sugli enigmi dei simboli e delle visioni, alla ricer-
ca per lo più di previsioni sul futuro e sulla fine dei tempi.
L ’unico elemento che invece ha calamitato l’interesse è la
prima parola del prologo e di tutto lo scritto: Apokálypsis, che
ha anzi acquistato una propria, crescente, autonomia, fino a
influenzare la lettura del testo. Già nell’antichità è stata assun-
ta a titolo dell’opera, ed è diventata, in età moderna, termine
comune non solo per indicare un genere letterario, ma l’idea
stessa di catasfrofe immane, di rivolgimento escatologico. Si
parla, come titolo, di «Apocalisse di Giovanni», dimentican-
do che il testo riporta invece come parole iniziali Apokálypsis
Iesoû Christoû, che vanno intese come «Rivelazione di Gesù
Cristo», dove l’accento è posto sul concetto di svelamento,
comunicazione chiarificatrice, e sulla figura di Gesù Cristo,
autore della rivelazione e probabilmente anche oggetto della
rivelazione stessa: il complemento risulta infatti ambiguo e
c’è chi preferisce l’una o l’altra interpretazione, ma non si può
escludere che entrambi i significati siano sottesi. L ’espressio-
ne viene poi sviluppata in un’ampia e complessa frase stretta-
mente collegata dal pronome relativo («Rivelazione di Gesù

93
Cristo che diede a lui Dio...»): il testo non fornisce dunque un
titolo autonomo, ma introduce al contenuto e al protagonista
dell’opera e spinge il lettore ad andare oltre per capire.

Traduzione del testo


Rivelazione di Gesù Cristo che diede a lui Dio per mostrare
1

ai suoi servi le cose che devono capitare rapidamente1, e [Gesù


Cristo la] manifestò inviando per mezzo del suo angelo al suo
servo Giovanni, 2 il quale testimoniò la parola di Dio e la testi-
monianza di Gesù Cristo, cose che vide.
3
Beato colui che legge e coloro che ascoltano le parole della
profezia e conservano le cose scritte in essa, perché il tempo [è]
vicino.
4
Giovanni alle sette Chiese che sono in Asia: grazia a voi e pa-
ce da colui che è, che era e che viene, e dai sette spiriti che stanno
davanti al suo trono, 5 e da Gesù Cristo, il testimone fedele, il
primogenito dei morti e il capo dei re della terra.
A colui che ci ama, ci ha sciolti dai nostri peccati col suo san-
gue, 6 e ha fatto di noi un regno, sacerdoti per Dio e padre suo, a
lui la gloria e la potenza nei secoli [dei secoli]. Amen.
7
Ecco, viene con le nubi, e lo vedrà ogni occhio, anche quanti
lo trafissero, e si batteranno il petto per lui tutte le tribù della
terra. Sì, amen.
8
Io sono l’alfa e l’omega, dice il Signore Dio, colui che è, che
era e che viene, l’onnipotente.

Una rivelazione che si comunica


Il tema della trasmissione della rivelazione è centrale in
tutta la prima sezione del prologo, che possiamo far coinci-
dere con i primi tre versetti. Formalmente questa sezione è
articolata in due parti distinte: una descrizione della storia
della rivelazione nei suoi elementi caratteristici (vv. 1-2) e una
beatitudine o macarismo (dal termine greco makários, «bea-
to», che la introduce: v. 3). Mentre la prima parte è scandita
da una serie di verbi al passato e delinea, in almeno due ripre-
se, la catena che ha portato la rivelazione divina all’umanità
credente (Dio - Gesù Cristo - i suoi servi; Gesù Cristo - il suo
1
La traduzione CEI, nell’ed. 1997 («Le cose che dovranno accadere tra
breve»), risulta meno letterale rispetto a quella del 1971: «Le cose che devono
presto accadere».

94
angelo - il suo servo Giovanni; Giovanni...), la seconda parte
manca in greco di verbi di modo finito e attira l’attenzione
sui destinatari ultimi della rivelazione: i credenti del tempo
dell’autore, ma possiamo dire di ogni generazione successiva,
che, raccolti nell’assemblea dove c’è uno che legge e gli altri
che ascoltano, accolgono ancora e sempre la rivelazione loro
comunicata nella lettura liturgica.
Anche chi scrive, che si presenta col suo nome, Giovanni
(cf. vv. 1.4.9), si propone qui come semplice rappresentante
dei «servi» di Dio e di Gesù e come anello, seppure autorevo-
le («testimoniò», «vide»), della catena di trasmissione. Sarà
la tradizione successiva a interrogarsi sull’identità storica di
questo Giovanni sollevando un dibattito che è lungi dall’es-
sersi esaurito (si tratta di Giovanni apostolo ed evangelista? o
piuttosto di un altro Giovanni? forse di Giovanni il presbitero
ricordato da fonti antiche?). La cosa più importante è il modo
con cui egli stesso vuole presentarsi: come «servo» (ossia fedele
discepolo) di Gesù e «testimone» della parola di Dio e della te-
stimonianza di Gesù Cristo. Subito dopo il prologo, iniziando
l’esposizione delle visioni ricevute, si definirà «fratello vostro e
compartecipe della tribolazione, del regno e della pazienza in
Gesù» e dichiarerà di essersi trovato nell’isola di Patmos (pro-
babilmente relegato là dall’autorità romana persecutrice) «a
causa della parola di Dio e della testimonianza di Gesù» (1,9).
Su questi concetti tornerà poi ancora molte volte nel cor-
so dell’opera, mostrando che tale identità e tali punti di ri-
ferimento (la parola di Dio e la testimonianza di Gesù) sono
propri di tutti i credenti, di tutti i tempi (cf. 6,9; 12,17; 20,4) e
implicano che nell’ambito umano la rivelazione si comunichi
nella forma della testimonianza, ossia non solo attraverso la
visione intellettuale o la parola scritta, letta e udita, ma at-
traverso un’adesione concreta nella vita, una fedeltà che per
lo più costa sofferenza, persecuzione, anche morte. Si tratta,
infatti, di testimoniare la testimonianza stessa di Gesù, «il te-
stimone fedele» per eccellenza (1,5), in quanto morto e risorto
e proprio per questo Signore («primogenito dei morti, capo
dei re della terra»)2.
2
Sul concetto di «testimonianza» (martyrìa), che qui si affaccia e che di-
venterà sempre più importante nell’Apocalisse si vedano: P. Prigent, L ’Apo-
calisse di san Giovanni, Borla, Roma 1985, pp. 21-23; E. Corsini, Apocalisse
prima e dopo, Sei, Torino 1980, pp. 42-49. Corsini in particolare sottolinea
come la testimonianza di Gesù, spesso sigillata dalla morte, sia propria non
solo dei cristiani, ma già dei profeti dell’Antico Testamento.

95
L ’Apocalisse come profezia
Solo più avanti comprenderemo che anche la definizione
del libro come «profezia» (v. 3; cf. 22,7) riconduce alla stessa
idea, ossia sottintende che il suo contenuto essenziale è la te-
stimonianza di Gesù: sarà quando un angelo, dichiarandosi
anche lui compagno di servizio di Giovanni e dei suoi fratelli
«che possiedono la testimonianza di Gesù» spiegherà: «Perché
la testimonianza di Gesù è lo spirito della profezia» (19,10).
Subito però possiamo cogliere nella definizione un aggancio
preciso alla tradizione profetica antica, rispetto alla quale
Giovanni si sente in piena continuità e lo dimostra anche at-
traverso tutta una serie di precisi richiami, o vere e proprie ci-
tazioni, di testi profetici, che vengono adattati e reinterpretati.
Una citazione esplicita, e quindi di grande rilievo, si avrà
nel v. 7, ma fin dalle prime parole troviamo echi di Amos (3,7:
«Il Signore non fa nulla senza rivelare il suo progetto ai suoi
servi, i profeti») e soprattutto di Daniele: l’espressione: «Le co-
se che devono capitare in fretta» è, infatti, ricalcata su un’e-
spressione che Daniele insistentemente usa a proposito del so-
gno della statua di Nabucodonosor (Dn 2,28.29.45 Teod.), per
indicarne il senso. Il profeta spiega infatti al re che con quella
statua fatta di materiali via via sempre meno preziosi, dalla te-
sta d’oro fino ai piedi d’argilla, che vengono infine frantumati,
e con essi l’intera statua, da un sasso – immagine dei regni che
si succederanno dopo il suo e saranno distrutti da un regno
eterno voluto da Dio –, Dio stesso gli ha svelato «le cose che
devono capitare negli ultimi giorni (o: dopo queste)». Giovan-
ni riecheggia questo passo di Daniele (e lo farà ancora in 1,19
e 4,1) ma, diversamente da Daniele, dà qui come complemen-
to del verbo en tachei, «rapidamente, in fretta». Ripeterà anco-
ra la frase, in modo identico, nell’epilogo (22,6), ma con un’ag-
giunta chiarificatrice: «Ed ecco, vengo rapidamente» (22,7),
ripresa altre due volte nello stesso epilogo (22,12.20) e due
volte nelle lettere alle chiese (2,16; 3,11), sempre in bocca a
Gesù, in quanto Figlio dell’uomo, Signore3. Possiamo pensare
che l’autore già nel prologo intenda alludere, con «le cose che
devono capitare in fretta», alla venuta di Gesù Cristo e intenda
far capire che è suo il regno eterno, sognato da Nabucodono-
sor, che deve soppiantare tutti i regni terreni.
3
Con il verbo «venire» viene usato l’avverbio tachù, ma il significato è iden-
tico.

96
Ma di quale venuta si tratta? E qual è il regno che deve esse-
re instaurato? Abbiamo qui un punto cruciale nel dibattito tra
gli studiosi, che si dividono tra quanti pensano a una venuta
futura ed escatologica, a breve scadenza4, e quanti pensano
alla venuta che già si è verificata nell’incarnazione5. Ma for-
se il testo stesso non costringe a un’alternativa troppo rigida.
L ’idea di un evento prossimo è certamente presente nella frase
conclusiva della beatitudine: «Perché il tempo [o: il momento]
è vicino» (v. 3), che sarà ripresa pure nell’epilogo (22,10); ma
è significativo che entrambe le volte sia inserita in un conte-
sto liturgico ed ecclesiale. La prossimità, che suscita attesa6,
riguarda innanzitutto i credenti e la comunità che costan-
temente rinnovano nel rito la venuta redentrice di Gesù e si
impegnano a riconoscerla e accoglierla nella vita. E tale pro-
spettiva non solo non esclude, ma presuppone che già si sia
verificata la venuta storica, e si apre ad altre venute future7.

Un Dio che viene


Del resto, il prologo stesso fornisce una chiave di lettura
nella sua seconda parte, non a caso incorniciata dalla duplice
definizione di Dio come «colui che è, che era e che viene» (vv.
4 e 8). La formula, che tornerà identica ancora una volta nel
libro (4,8), all’interno di una scena di liturgia celeste, riprende
e riadatta la celebre autodefinizione di Dio nell’Esodo (3,14:
«Io sono colui che è»), già ampliata nella tradizione giudaica
in «colui che è, che era e che sarà», ma con una modifica im-
portante: al posto di «che sarà», c’è «che viene». In questo mo-
do l’attenzione è spostata sulla continuità del venire e su una
presenza di Dio nella storia passata, presente, futura, che si
incentra in Gesù Cristo8. Ma tutti i versetti 4-8 si può dire che
4
Cf. A. Wikenhauser, L ’Apocalisse di Giovanni, Bur, Milano 1983, pp. 191-
192.
5
Cf. Corsini, Apocalisse, pp. 103-105.
6
In 22,10, subito dopo l’annuncio «sì, vengo rapidamente», l’assemblea
risponde: «Amen, vieni, Signore Gesù».
7
Cf. C. Doglio, L ’Apocalisse di Giovanni: linee di interpretazione, in S. Dia-
nich (a cura), Sempre Apocalisse. Un testo biblico e le sue risonanze storiche,
Piemme, Casale Monferrato 1998, p. 66.
8
Cf. Prigent, L ’Apocalisse, pp. 29-30. L ’idea di dominio sulla totalità del
tempo e della storia viene rafforzata nel v. 8 con l’aggiunta dell’espressione
«l’alfa e l’omega», ossia la prima e l’ultima lettera dell’alfabeto greco, a indica-
re tutto l’alfabeto.

97
sviluppino questa idea: si passa dalla presentazione della di-
vinità nella sua natura trinitaria, Padre, Spirito9, Gesù Cristo
(vv. 4-5a), alla descrizione dell’opera redentrice di Gesù Cristo
già compiuta (vv. 5b-6), alla proclamazione di una venuta che
avrà ulteriori effetti nel futuro (v. 7).
Proprio a questa venuta viene conferito particolare rilievo
dal fatto che è identificata, attraverso una citazione lettera-
le, con quella del Figlio dell’uomo di Daniele, «che viene con
le nubi» (7,13), secondo una famosa visione messianica a cui
costantemente l’Apocalisse si rifarà anche in seguito (1,13ss.;
5,11; 14,14; ecc.). Il passo di Daniele viene combinato con
un’altra profezia, di Zaccaria (12,10-14), che, in riferimento ai
tempi della salvezza escatologica per Gerusalemme, prefigura
un pentimento purificatorio di tutto il popolo per l’uccisione
di un misterioso personaggio. Chiaramente Giovanni applica
entrambe le profezie a Gesù Cristo: è lui il Figlio dell’uomo
destinato a ricevere ogni potere da Dio e a instaurare un regno
eterno (Dn 7,14), è lui l’ucciso davanti al quale «ogni occhio»,
«tutte le tribù della terra» (cf. Gen 12,3; 28,14), ossia l’umani-
tà intera (e non più soltanto il popolo di Israele), manifeste-
ranno riconoscimento e pentimento.
Anche in questo caso si potrebbe pensare a una venuta esca-
tologica, ma il contesto non lo impone neppure qui. Se è vero
che la prospettiva universalistica si apre al futuro, per quan-
to riguarda la possibilità concreta che tutta l’umanità ricono-
sca Gesù Cristo, il «venire con le nubi», in quanto manifesta­
zione messianica, si realizza innanzitutto nell’incarnazione-
passione-risurrezione. E inoltre l’elemento liturgico, ancora
ben presente10, suggerisce l’idea di un rinnovamento continuo
di tale venuta. Si può anzi notare che proprio l’elemento litur-
gico viene qui potenziato: evocato nel v. 3 come contesto idea­
le del pubblico a cui l’autore si rivolge, si esprime ora come
dialogo vivo e attuale tra Giovanni e le Chiese11, tra la divinità
9
Nel testo sono menzionati «i sette spiriti» (cf. anche 4,5; 5,6): molto pro-
babilmente indicano la totalità dello Spirito nella molteplicità dei suoi doni,
secondo il valore simbolico del numero 7 comune nell’Apocalisse; è possibile
un riferimento a Is 11,2, che, nella versione dei Settanta, elenca appunto sette
doni dello Spirito.
10
Cf. U. Vanni, L ’Apocalisse: ermeneutica, esegesi, teologia, EDB, Bologna
1988, pp. 73-79.
11
Sono sette probabilmente per indicare, come nel caso degli spiriti, la to-
talità della Chiesa. E sono quelle dell’Asia forse per sottolineare che si tratta

98
e l’assemblea, che interviene più volte con la tipica formula
dell’«amen» (vv. 6.7) e soprattutto con una suggestiva dossolo-
gia, vero cuore di tutto il prologo (vv. 5b-6). Qui l’opera com-
piuta da Gesù Cristo nella sua passione (il «suo sangue») a be-
neficio dei suoi fedeli viene vista sia, al passato, come libera-
zione dal peccato e costituzione di un regno di sacerdoti – com-
pimento di promesse antiche (Es 19,6; 23,22; Is 40,2; 61,6) –,
sia come manifestazione sempre attuale e duratura di amore.
Proprio la continuità dell’amore riceve la massima atten-
zione, posta com’è all’inizio dell’elenco, e a tale atteggiamento
ben corrisponde il dono della «grazia» e della «pace» che da
tutte e tre le persone della Trinità viene trasmesso ai credenti
preliminarmente (v. 4): non solo formula di saluto tipica delle
lettere (da Paolo in poi), ma comunicazione di favore e sal-
vezza, di amore, appunto, che dalla divinità passa agli uomini
credenti, identificati in persone concrete, prima in un «voi» (v.
4) e poi, insistentemente, in un «noi» (vv. 5b.6), a cui nessun
lettore può sentirsi estraneo.

Conclusione
In questo prologo, abilmente costruito, troviamo indica-
zioni abbastanza precise sull’autore, sui destinatari, sul con-
tenuto, e anche sul carattere del libro. Ma soprattutto siamo
colpiti da alcuni elementi, che appaiono in contrasto con l’i-
dea corrente di «apocalisse», come messaggio enigmatico ed
esoterico e come annuncio di eventi disastrosi e terrificanti:
— l’invito a leggere il libro in un contesto ecclesiale e liturgico,
per poter mettersi in sintonia con quel medesimo Spirito
che, «nel giorno del Signore», ha illuminato Giovanni (1,9);
per accogliere e custodire una rivelazione che è destinata a
tutti i credenti, senza preclusioni;
— la presentazione di un Dio che in Gesù Cristo è già venuto,
ma che viene continuamente nella storia umana e nella sto-
ria di ciascuno, per rivelare il suo progetto di amore, di ri-
scatto dal male, di restituzione della dignità regale e sacer-
dotale, che già era propria dell’uomo creato e che comporta
sovranità sulla creazione e possibilità di rapporto diretto
con Dio.

di Chiese concrete, di quelle Chiese che i destinatari dell’Apocalisse conosce-


vano.

99
Claudio Doglio
________

La rivelazione
del Cristo risorto
(Ap 1,9-20)

Concluso il dialogo liturgico introduttivo, inizia la narra-


zione in prosa: in prima persona Giovanni racconta alla co-
munità una forte esperienza che egli ha vissuto e che ha deter-
minato la composizione del libro stesso.
Questa prima visione ha, pertanto, il ruolo fondante per
tutta l’Apocalisse: l’incontro di Giovanni con il Cristo risorto,
infatti, è l’elemento decisivo che permette all’autore e alla sua
comunità di comprendere in profondità il senso del mistero
pasquale e della signoria universale che l’Agnello ha ottenuto.
Nel raccontare la propria esperienza Giovanni utilizza im-
magini ed espressioni tratte quasi tutte da testi veterotesta-
mentari e, intenzionalmente, crea un nuovo mosaico utiliz-
zando insiemi di tasselli preesistenti: il linguaggio è tradizio-
nale, ma il messaggio è decisamente nuovo. Un’analisi atten-
ta di ciò che è tradizionale consente anche di evidenziare la
grande novità.

Il racconto fondante
La struttura letteraria di questo testo è molto simile a quel-
la del c. 10 di Daniele e comprende quattro parti essenziali:
dopo la presentazione delle circostanze in cui si trovava l’io
narrante, viene descritta l’apparizione di un essere trascen-
dente; il veggente sente tremendamente la propria debolezza,
ma il personaggio glorioso lo conforta e gli affida un messag-
gio. Tale schema letterario trae origine dai racconti di voca-
zione dei profeti ed è stato rivestito dal linguaggio tipico della
letteratura apocalittica.
Ma qui non viene raccontata la vocazione dell’autore, ben-

100
sì l’incarico che gli è stato affidato di trasmettere per iscritto
la sua esperienza eccezionale. La narrazione di questo evento
introduce direttamente la serie dei sette messaggi alle Chiese
d’Asia, ma anche tutto il resto dell’Apocalisse prende origine
dalla visione iniziale. La pericope che la narra propriamente
non termina, perché contiene alla fine un discorso diretto che
prosegue nei cc. 2-3; nel c. 4, inoltre, la stessa voce riprende
a parlare e continua a rivelare al veggente «ciò che deve acca-
dere». L ’intento di questa prima pagina è soprattutto quello
di offrire una «divina legittimazione» al messaggio contenuto
nel libro: l’autore, cioè, vuole rimarcare con forza il proprio
ruolo di profeta portavoce, che parla e scrive in quanto ha ri-
cevuto da Gesù Cristo stesso questo preciso incarico1.
L ’evento determinante è raccontato con stile preciso e
asciutto, riducendo all’essenziale le azioni, soffermandosi solo
in modo ridondante nella descrizione del personaggio divino
che si mostra. Le unità letterarie che compongono il racconto
sono facilmente individuabili, ma la struttura narrativa dell’e-
pisodio può essere determinata in modi diversi. Si possono,
ad esempio, distinguere due parti caratterizzate da differenti
soggetti, ponendo la cesura a metà del v. 17, laddove cambia
il soggetto: dapprima il profeta, parlando in prima persona,
presenta se stesso e la propria situazione, quindi descrive ciò
che egli ha udito e visto; in un secondo momento diviene pro-
tagonista il Figlio dell’uomo che prende la parola, si presenta,
affida un incarico e spiega il significato dei simboli. Questa
struttura narrativa può essere così schematizzata:


1,9-17a ciò che fa il profeta:
9-10a ambientazione dell’esperienza;
10b-11 prima esperienza: ascolto;
12a conversione;
12b-17a seconda esperienza: visione.
1,17b-20 ciò che fa il Figlio dell’uomo:
17b gesto di conforto;
17c-18 autopresentazione;
19 incarico di scrivere;
20 glossa interpretativa.

1
D.E. Aune, Revelation 1-5, Dallas 1997, 115: «The purpose of this vision-
ary commission to write is to provide divine legitimation for a controversial
message».

101
Considerando la pericope da un altro punto di vista, si può
notare che la descrizione dettagliata del Figlio dell’uomo oc-
cupa una rilevante posizione centrale ed è introdotta e seguita
da un discorso diretto, pronunciato dalla stessa voce, ma udi-
to da Giovanni in due atteggiamenti differenti; questi discorsi,
inoltre, culminano in entrambi i casi con l’imperativo relativo
alla composizione scritta; infine la presentazione iniziale del
veggente e la spiegazione finale dei simboli possono conside-
rarsi elementi di cornice. In tal modo si verrebbe ad avere una
ricercata costruzione parallelistico-concentrica, che possiamo
schematizzare nel modo seguente:

1,9-10a ambientazione dell’esperienza;


   1,10b-11 le parole ascoltate «dietro»;
     1,12-17a la visione del Figlio dell’uomo;
   1,17b-19 le parole ascoltate «davanti»;
1,20 spiegazione dell’esperienza.

Con abilità il narratore condensa in pochi versetti una


grande ricchezza di contenuto, usando soprattutto il metodo
dell’allusione, che comporta il riferimento voluto a un testo,
senza citarlo esplicitamente: in ogni caso si tratta anche di
re-interpretazione. L ’autore, infatti, usa i testi dell’Antico Te-
stamento come il suo «grande codice», il tesoro da cui estrae il
materiale letterario per presentare il nuovo messaggio cristia-
no: egli si avvicina ai passi biblici in modo tematico e sfuma-
to, per creare una stessa scena prende elementi da più libri e li
compone insieme con ritocchi e accrescimenti, in modo tanto
originale da determinare un nuovo significato. Nel racconta-
re l’incontro con il Cristo risorto, Giovanni allude sostanzial-
mente a due testi veterotestamentari, che fonde insieme: l’ap-
parizione dell’angelo2 che rivela a Daniele la verità in Dn 10
e la visione del Figlio dell’uomo in Dn 7. Inoltre, i particolari
desunti da Dn 7 sono adattati in modo significativo, attribuen-
do al Figlio dell’uomo anche le caratteristiche dell’Antico di
2
La cristologia dell’Apocalisse sembra essere stata influenzata dall’ange-
lologia: cf. C. Rowland, The Vision of the Risen Christ in Rev. 1,13ff. The Debt
of an Early Christology to an Aspect of Jewish Angelology, «JTS» 31 (1980), pp.
1-11; L.T. Stuckenbruck, Angel Veneration and Christology. A Study in Early
Judaism and in the Christology of the Apocalypse of John, Tübingen 1995.

102
giorni: in questo caso non si tratta di semplice operazione let-
teraria, ma di interpretazione teologica mediata dall’uso delle
immagini e del linguaggio simbolico.

L ’ambiente dell’esperienza
Il racconto inizia con un enfatico pronome «io», seguito dal
nome dell’autore e dalle sue qualifiche: tale stile sembra deri-
vato dal linguaggio della cancelleria persiana che iniziava così
le lettere imperiali (cf. Esd 7,21), ma era ormai diffuso nella
letteratura giudaica per esprimere la forza e l’autorità di colui
che parla per spiegare o per comandare3.
Giovanni si presenta alle Chiese, sottolineando l’aspetto di
fratellanza ecclesiale e la condivisione comunitaria che ac-
comuna l’apostolo e i suoi fedeli: tale presentazione ha una
valenza retorica col fine di attirare la benevolenza dei destina-
tari e di disporli ad accettare il messaggio come divinamente
rivelato. La funzione retorica, tuttavia, non deve nascondere
la ricchezza teologica della formula giovannea che mette in
evidenza il valore della solidarietà: «Io, Giovanni, vostro fra-
tello e solidale con voi nella sofferenza (thlípsis), nella regali-
tà (basiléia) e nella pazienza (hypomoné) in Gesù» (1,9a). In
quanto uniti a Gesù si trovano tutti sottoposti a una pressione
esterna: il riferimento è evidente alla difficile situazione, ester-
na e interna, vissuta dalle comunità giovannee in Asia Minore
alla fine del I secolo. Ma tutti condividono anche un’importan-
te responsabilità regale, che comporta la collaborazione con il
Cristo per la trasformazione del mondo; e soprattutto hanno
la capacità di sostenere la prova, la forza di «resistere sotto»,
come dice il termine greco originale.
Fin dall’autopresentazione Giovanni intende coinvolgere i
suoi lettori ed esortarli alla resistenza: il proprio esempio e
la propria eccezionale esperienza possono servire da valido
incoraggiamento, per non arrendersi alle pretese del mondo.
Proprio questa introduzione fa pensare che il soggiorno di
Giovanni a Patmos non sia volontario, ma obbligato da un’au-

3
La formula «Io Daniele» ritorna sette volte nel suo libro (Dn 7,15; 8,15.27;
9,2; 10,2.7; 12,5); la stessa modalità è comune anche in altri testi apocalittici
come 1Enoc (12,3), 2Baruc (8,3; 9,1; 10,5; 11,1; 13,1; 32,8; 44,1), 4Esdra (3,1).
Anche l’apostolo Paolo la adopera, quando vuole sottolineare la propria auto-
rità in questioni significative (2Cor 10,1; Gal 5,2; Ef 3,1).

103
torità contraria; la tradizione patristica, da Ireneo in poi, co-
nosce una condanna dell’apostolo al confino sull’isola: la cau-
sa di questa condanna è mostrata nella fedeltà alla rivelazione
divina in Gesù Cristo e all’attiva opera di testimonianza.
All’indicazione spaziale dell’isola di Patmos, per presenta-
re la situazione iniziale del veggente, vengono aggiunte altre
due indicazioni – una mistica, l’altra temporale – strettamen-
te connesse fra di loro. Per due volte si ripete lo stesso verbo
all’aoristo (egenómen) che indica un fatto occasionale, acca-
duto nel passato, effetto di un cambiamento di situazione:
una traduzione letterale e strutturata del testo può aiutare a
comprenderne il senso:
Venni a trovarmi nell’isola chiamata Patmos […].
Venni a trovarmi nello Spirito
nel giorno del Signore (1,9b-10a).

Se l’indicazione geografica serviva per richiamare la situa-


zione storica in cui collocare la rivelazione divina, la seconda
precisazione è ancor più importante, perché vuole evocare il
contesto teologico in cui affonda le radici l’esperienza di Gio-
vanni. La formula «divenni in spirito» è esclusiva dell’Apoca-
lisse4 e il senso non è evidente: secondo alcuni indicherebbe
una particolare situazione del profeta tipo estasi, rapimento
estatico o trance; ma sembra più opportuno intenderlo a pro-
posito dello Spirito divino quale agente dell’esperienza visio-
naria5. Quindi il movimento a cui Giovanni allude può essere
indicato come una particolare esperienza spirituale, cioè un
incontro del profeta con lo Spirito Santo: «Quando si mette a
profetare l’autore “diviene nello Spirito”, quasi si immerge in
esso, al punto che lo Spirito diventa come l’ambito in cui egli
si muove»6. La meta a cui il profeta vuole condurre la sua co-
munità nell’interpretazione delle Scritture è la novità di senso
determinata dall’evento pasquale del Cristo: ma la compren-
sione di questa novità è dono dello Spirito e solo entrando

4
La stessa formula ricorre ancora in Ap 4,2; altre due volte compare una
formula analoga con la stessa indicazione «in spirito» (17,3 e 21,10).
5
R. Bauckham, Lo Spirito di profezia, in Id., La teologia dell’Apocalisse, Bre-
scia 1994, pp. 132-150; B. Moriconi, Lo Spirito e le Chiese, Roma 1983.
6
U. Vanni, L ’assemblea liturgica si purifica e discerne nel «giorno del Signo-
re» (Ap 1,10), in Id., L ’Apocalisse: ermeneutica, esegesi, teologia, Bologna 1988,
p. 93.

104
in comunione con lui l’autore è in grado di comprendere e
comunicare la rivelazione di Gesù Cristo. Ora, aggiunge Gio-
vanni, la comunione con lo Spirito, si inserisce «nel giorno del
Signore».
Il giorno storico della risurrezione di Cristo ha dato com-
pimento al «giorno del Signore» atteso dagli antichi profeti,
inaugurando il tempo nuovo di cui la domenica è il memoria-
le settimanale. Superando l’osservanza giudaica del sabato, la
comunità cristiana «vive secondo la domenica», dice sant’I-
gnazio, e si riunisce in assemblea ogni primo giorno della set-
timana, moltiplicando nel tempo la dimensione festiva della
Pasqua, per celebrare il Cristo risorto e proclamarlo «Signo-
re» nell’attesa del compimento definitivo. Proprio in questo
contesto domenicale Giovanni colloca la propria esperienza
fondante.

La «conversione» al Signore
L ’esperienza di Giovanni è presentata in due fasi ben di-
stinte, che corrispondono a due situazioni profetiche diverse
e sono caratterizzate da due modalità di relazione: udire di
spalle e vedere di fronte. Se isoliamo i verbi che narrano le
azioni del protagonista, possiamo scorgere facilmente la dina-
mica del racconto:
ascoltai (ékousa) dietro di me…,
mi voltai (epéstrepsa) ed essendomi voltato (epistrépsas)
vidi (éidon)…,
quando lo vidi, caddi (épesa)…

La prima esperienza è l’ascolto di una voce potente simi-


le al suono di tromba, ma che risuona alle spalle del profeta.
Perché abbia luogo la seconda esperienza, quella decisiva del-
la visione del Figlio dell’uomo, è necessario un cambiamento
di posizione da parte del soggetto: al narratore questo fatto
interessa particolarmente, perché adopera per ben due volte
lo stesso verbo in modo ridondante, con l’evidente intento di
sottolineare il gesto. Nel contesto simbolico dell’Apocalisse, il
gesto del voltarsi assume un valore molto forte, tanto più che
il verbo epistréphein era comunemente adoperato come ter-
mine tecnico per indicare un cambiamento esistenziale e una
conversione, soprattutto un ritorno a Dio. Lo stesso verbo è

105
adoperato da Paolo per indicare il movimento spirituale che
permette di togliere il velo steso sul cuore dei giudei e così con-
templare la pienezza della rivelazione: «Fino ad oggi, quando
si legge Mosè, un velo è steso sul loro cuore; ma qualora si
volti verso il Signore, quel velo sarà tolto» (2Cor 3,15-16).
Proprio perché «si è convertito», Giovanni ora vede. Lo
stesso messaggio simbolico si può ricavare dal racconto evan-
gelico della Maddalena al sepolcro che «si voltò (estráphe)
all’indietro» ed «essendosi voltata (straphéisa)» vide il Signore
risorto (Gv 20,14.16). Anche l’uso dei verbi segue un muta-
mento analogo nei due racconti: in un primo tempo si adope-
ra il verbo blépo che esprime una semplice percezione fisica
(Gv 20,1.5; Ap 1,11.12), mentre poi viene impiegato il verbo
horáo per indicare l’esperienza della fede (Gv 20,8.18; Ap
1,12.17). Il senso teologico di tale variazione lessicale è da ri-
cercare nell’intento giovanneo di mostrare il cammino di fede
del discepolo: all’origine stessa dell’Apocalisse l’autore vuole
dunque presentare in estrema sintesi la propria maturazione
spirituale, soprattutto a proposito dell’interpretazione scrittu-
ristica.
Il paragone della voce al suono di tromba, l’esperienza di
spalle e l’ordine di scrivere possono evocare efficacemente la
rivelazione del Sinai, ovvero la prima fase della rivelazione
divina: Giovanni, che bene la conosceva, ha dovuto fare un
serio cammino di conversione per comprenderla pienamente
e ora riconosce con un’espressione simbolica di averne visto
il senso profondo solo alla luce del mistero pasquale di Cristo,
avendo cioè incontrato personalmente il Risorto7. Nella pri-
ma esperienza, la voce ascoltata alle spalle ordina a Giovanni
di mettere per iscritto «ciò che vedi (ho blépeis)»: l’oggetto è
al singolare e il verbo della percezione fisica è al presente; in
stretto parallelismo viene poi detto che nella seconda espe-
rienza il Cristo risorto ripete lo stesso ordine, cioè di mettere
per iscritto «le cose che hai visto (ha éides)»: l’oggetto è al plu-
rale e il verbo della conoscenza di fede è all’aoristo. Il cam-
biamento avviene grazie all’incontro con Cristo: essendosi
voltato verso il Signore, il velo è stato rimosso dal suo cuore e
tale ri-velazione consente a Giovanni di interpretare in senso
nuovo e pieno le Scritture.

7
E. Corsini, Apocalisse prima e dopo, Torino 1980, p. 127.

106
Il Figlio dell’uomo
Il primo oggetto della visione sono «sette lampade (ly-
chnías) d’oro». Il termine greco adoperato da Giovanni nella
LXX traduce abitualmente l’ebraico menorah, cioè il classi-
co candelabro a sette bracci, simbolo tipicamente liturgico,
caratteristica del tempio di Gerusalemme: è descritto da Es
25,31-40 ed è al centro della visione di Zc 4,1-14 a cui l’Apo-
calisse sembra alludere. Data questa corrispondenza, piutto-
sto che immaginare sette candelieri staccati l’uno dall’altro,
è meglio pensare a un unico candelabro con sette lampade,
che, come sarà spiegato espressamente nel v. 20, corrispon-
dono alle sette Chiese destinatarie del libro. Il senso teologico
dell’immagine può essere rilevante: il nuovo ambiente liturgi-
co, infatti, non è determinato da un luogo sacro, ma dall’insie-
me delle comunità cristiane.
Ma il candelabro non è solo: al suo centro c’è il Figlio
dell’uomo. La scena, come molte altre nell’Apocalisse, non è
raffigurabile visivamente e proprio questo fatto induce a so-
stenerla: Giovanni, infatti, presenta delle «visioni mentali», un
modo cioè di vedere il mondo e la storia. Con tale simbolo egli
intende affermare che al centro delle comunità cristiane sta il
Cristo risorto.
«Uno simile a figlio d’uomo» è senza dubbio il personaggio
decisivo della scena. Il riferimento è con ogni probabilità alla fi-
gura misteriosa descritta da Daniele nelle sue visioni notturne:
Ecco apparire, sulle nubi del cielo, uno simile a un figlio di uo-
mo; giunse fino all’Antico di giorni e fu presentato a lui, che gli
diede potere, gloria e regno; tutti i popoli, nazioni e lingue lo
servivano; il suo potere è un potere eterno, che non tramonta
mai, e il suo regno è tale che non sarà mai distrutto (Dn 7,13-14).

La teologia cristiana, in seguito all’uso che ne aveva fatto


Gesù stesso, aveva già identificato questo personaggio tra-
scendente proprio con Gesù Cristo, soprattutto nel suo miste-
ro di morte e risurrezione. In tal modo Giovanni mostra, in
questa visione iniziale che dà il tono e il senso a tutta l’opera,
il Cristo risorto presente nella sua Chiesa, visto nella sua fun-
zione messianica e nella prospettiva del compimento.
Tutti gli elementi descrittivi sono desunti da testi veterote-
stamentari e hanno valore simbolico. L ’abito lungo e la fascia
d’oro (1,13) derivano da Dn 10,5 e sono un distintivo sacer-
dotale: nel contesto liturgico della visione il Cristo appare co-

107
me l’autentico sacerdote. I capelli bianchi (1,14a) sono un’im-
magine appartenente alla descrizione dell’Antico di giorni in
Dn 7,9: molto significativo è il passaggio degli attributi da un
personaggio all’altro e questo significa che, nella teologia sim-
bolica dell’autore, esiste un’equivalenza fra il Figlio dell’uomo
e Dio stesso. Il paragone degli occhi col fuoco (1,14b) dipen-
de da Dn 10,6 e si inserisce nella tradizione biblica che attri­
bui­sce volentieri a Dio le caratteristiche del fuoco, simbolo di
amore e di giudizio. Anche l’accostamento dei piedi al bronzo
incandescente (1,15a) deriva da Dn 10,6 e può evocare, oltre al
simbolismo del fuoco, anche una particolare forza e stabilità.
La voce, infine, è paragonata al fragore delle grandi acque,
usando l’immagine che Ezechiele (1,24; 43,2) adopera per de-
scrivere la gloria di Dio: anche in questo caso il passaggio de-
gli attributi serve a indicare la potenza di Dio presente nella
parola del Cristo.
La descrizione continua (1,16) con tre particolari originali
che alludono piuttosto all’opera del personaggio. Con la sua
potenza buona (la mano destra) controlla la totalità (sette)
delle «stelle», elemento non chiaro che ha bisogno di esplicito
chiarimento8. La sua parola è simile a una spada tagliente, in
conformità a quello che aveva detto il Servo di Dio: «Ha reso
la mia bocca come spada affilata» (Is 49,2; cf. anche Eb 4,12-
13); e la sua presenza, infine, ha la forza illuminante e gioiosa
del sole, alludendo all’espressione poetica che chiude il canti-
co di Debora: «Coloro che ti amano siano come il sole, quando
sorge con tutto lo splendore» (Gdc 5,31).
Come in molti altri passi dell’Apocalisse, il simbolismo è
discontinuo e l’immagine evocata nei vari particolari non deve
essere rappresentata visivamente in modo unitario: ogni par-
ticolare deve essere compreso, decodificato e superato.

Il mistero pasquale di morte e risurrezione


Con un formulario convenzionale viene descritta la reazio-
ne di Giovanni, che cade a terra come morto, e il gesto inco-
raggiante del personaggio glorioso, che lo tocca con la mano
destra (cf. Ez 1,28-2,2; Dn 8,18; 10,9-10).
8
Il v. 20, indipendente da ciò che precede, ha l’aspetto di una parentesi a
scopo di delucidazione. Il termine mysterion non significa solo «senso recon-
dito», ma evoca anche e soprattutto il progetto salvifico di Dio, rappresentato
qui sotto il velo dei simboli.

108
Dopo l’invito a non aver paura, classico nelle scene di ap-
parizione, il personaggio misterioso si presenta con cinque
espressioni che lo qualificano come «il Risorto» e lo identifica-
no con Gesù Cristo. Questi titoli si possono organizzare in una
elegante struttura parallela e concentrica:

A «Io sono il Primo e l’Ultimo


B e il Vivente.
C Io divenni morto
B’ ed ecco: sono vivente nei secoli dei secoli
A’ e ho le chiavi della Morte e del Mondo-dei-morti» (1,17b-18).

La formula «Io sono» (egò eimi) ha un valore molto forte,


in quanto richiama il nome proprio di Dio, rivelato a Mosè
(Es 3,14); tale forza aumenta ancora per il titolo che regge (ho
prótos kai ho éschatos), essendo attribuito nell’Antico Testa-
mento solo a Dio, creatore e signore del cosmo e della storia
(cf. Is 44,6; 48,12). Questo titolo corrisponde alla formula «Al-
fa e Omega» che nell’Apocalisse è detto del Signore Dio (1,8;
21,6): Dio è archê, cioè inizio e origine, colui «dal quale» tutto
esiste; ed egli è ugualmente telos, cioè conclusione e perfezio-
natore, meta e fine, colui «per il quale» tutto esiste. Ma ora
(come anche in 2,8 e 22,13) lo stesso attributo di Yhwh viene
dato a Gesù Cristo: il predicato di perfezione suprema che la
fede dei profeti attribuiva esclusivamente a Dio, l’autore cri-
stiano dell’Apocalisse lo estende ora anche al Messia e, nel suo
procedere simbolico, questo è un modo evidente per mostrare
il Cristo strettamente unito a Dio e partecipe della sua natura
divina.
In secondo luogo, egli si proclama «il vivente» (ho zôn): l’e-
spressione è cara alla teologia giovannea e con essa si vuole
affermare che il Logos-Figlio ha la vita in se stesso, indipen-
dentemente dalla creazione (cf. Gv 1,4; 5,26). Tale titolo, però,
deriva direttamente dalla formula veterotestamentaria «il Dio
vivente», usata soprattutto per i giuramenti. La fede di Israele
sa che Dio è la vita, da lui deriva ogni vita ed egli vive in eter-
no: l’Apocalisse ripete queste formule di fede, ma le estende
anche al Cristo e afferma che, come Dio, egli ha la vita in sé.
Al centro, però, emerge il drammatico fatto umano: «Di-
venni morto» (egenómen nekrós). È così presentata la sintesi
del mistero dell’incarnazione con cui il Cristo ha partecipato

109
storicamente alla morte dell’umanità. Se finora poteva esserci
qualche dubbio sull’identità del misterioso personaggio ap-
parso (Dio stesso? un angelo?), ora è fugata ogni incertezza:
non può trattarsi altro che di Gesù Cristo. Solo l’Apocalisse
parla del Cristo come nekros, usando il termine crudo per in-
dicare il morto in quanto cadavere; l’aoristo del verbo «diven-
tare», inoltre, evidenzia il fatto storico accaduto in un preciso
momento del passato. Il Vivente, colui che ha la vita in sé,
divenne cadavere, ma non rimase prigioniero della morte.
Nel quarto titolo, infatti, al passato remoto della morte si
contrappone il presente dell’altro titolo, che riprende in pa-
rallelo il secondo: «Sono vivente per i secoli dei secoli». La
risurrezione è evocata non come un atto, ma come uno stato,
un modo di essere di colui che divenne morto. Al momento
storico della morte viene contrapposta l’eternità della vita e di
Cristo viene detto ciò che altrove è detto del Padre, la vita nei
secoli (Ap 4,9.10; 10,6).
Infine, l’ultimo titolo mostra che, non solo è vivo, ma è
signore della vita, giacché è il padrone chi ha le chiavi. Con
un’immagine corrente nel giudaismo e presente in alcuni testi
targumici9, viene presentato il Cristo dominatore della morte
e del «mondo sotterraneo dei morti» (in greco: Ades; in ebrai-
co: Sheol), come colui che ne detiene le chiavi, cioè ha potuto
aprire quella porta tremenda del mondo infero, visto che, co-
me dice la sequenza di Pasqua, «Mortuus regnat vivus».
Il Cristo risorto si è mostrato a Giovanni per dargli un in-
carico:
Scrivi dunque: – ciò che hai visto:
– le cose che sono e
– quelle che devono accadere dopo queste (1,19).

Il dunque crea un legame di causalità fra la descrizione del


Figlio dell’uomo e il comando: Giovanni deve scrivere proprio
per comunicare il mistero decisivo della risurrezione di Gesù
9
Nella tradizione giudaica è presente un insegnamento sulle chiavi che
sono esclusiva proprietà di Dio e il Targum Palestinese, ritenuto in genere con-
temporaneo al Nuovo Testamento, offre due casi di haggadah sulle chiavi: nel
Targum Neofiti a Gen 30,22 e nel Targum Pseudo-Jonathan a Dt 28,12: «Quattro
sono le chiavi che si trovano nelle mani di Yhwh, Signore di tutti i secoli: la
chiave della pioggia, la chiave del nutrimento, la chiave delle tombe e la chiave
della sterilità». Se questa tradizione è veramente antica, l’affermazione dell’A-
pocalisse acquista un rilievo teologico ancor maggiore: infatti al Cristo viene
attribuito un possesso che è esclusivo di Dio.

110
Cristo, quello che egli ha sperimentato, la realtà in sé e tutte
le implicazioni e le conseguenze che si riflettono sulla storia
dell’uomo. La formula tripartita descrive l’oggetto della rivela-
zione e ne sottolinea i tre tempi, che vengono valorizzati dalla
celebrazione liturgica e nella dimensione sacramentale: la co-
munità, infatti, fa memoria dell’evento passato della Pasqua
di Cristo, sintesi di tutta la storia della salvezza, ne sperimenta
l’attualità nel presente e anela al compimento futuro.
La rivelazione di Gesù Cristo, l’Apocalisse dunque, è con-
nessa strettamente all’incontro personale con il Crocifisso ri-
sorto: grazie all’esperienza dell’autore, il libro che ne è deriva-
to permette a tutta la comunità di sperimentare personalmen-
te lo stesso incontro.

Patmos
Si tratta di un’isoletta rocciosa, che appartiene all’arcipelago
delle Sporadi meridionali, a circa 55 km dalla costa sud-occi-
dentale dell’Asia Minore, ma distante dalla città di Efeso circa
100 chilometri. L ’isola misura circa 12 km di lunghezza e ha
una larghezza massima di 7 km: l’intera superficie è di 34 km2.
Il suo paesaggio è caratterizzato da aride colline vulcaniche, che
determinano un suggestivo contrasto cromatico con l’intenso
blu di cielo e mare in cui l’isola è immersa. Ne parla lo scritto-
re romano Plinio il Vecchio (Naturalis Historia IV, 12,23), ma
non conferma l’uso dell’isola come luogo di detenzione. Oggi nel
punto più alto dell’isola di Patmos sorge il monastero fortezza di
San Giovanni Teologo, circondato dall’antico villaggio di Kora;
a mezza costa, invece, è stata identificata dalla tradizione mona-
stica bizantina la «grotta dell’Apocalisse», quella in cui l’autore
avrebbe avuto la rivelazione.

Il giorno del Signore


La visione di Giovanni è ambientata «nel giorno del Signore»
(Ap 1,10): en tê kyriakê heméra. L ’aggettivo greco kyriakós espri-
me una relazione con il Signore (in greco: kyrios): nel Nuovo Te-
stamento compare solo qui e in 1Cor 11,2 per indicare «la cena
del Signore».
Questa espressione – nuova ai tempi dell’Apocalisse – diven-
ne poi abituale nel linguaggio cristiano, come testimoniano le
antiche opere dei Padri, per indicare il giorno dopo il sabato,

111
il primo giorno della settimana ebraica, che nel linguaggio el-
lenistico era chiamato «giorno del Sole» (nome che sopravvive
nell’inglese Sunday e nel tedesco Sontag). Per i cristiani, però,
questo giorno divenne ben presto più importante del saba-
to, perché esso era legato al ricordo della risurrezione di Cri-
sto: quindi, in segno di rispetto e di prestigio, venne chiamato
«giorno del Signore». In latino si determinò lo stesso fenomeno
linguistico: dal termine Dominus (= Signore) deriva, infatti, il
nome dominica (dies) e, attraverso di esso, l’italiano domenica, il
francese dimanche e lo spagnolo domingo. La presenza nell’Apo-
calisse di questa espressione sembra la più antica testimonianza
della domenica cristiana.
La stessa espressione, però, secondo gli studiosi, può avere
anche altri significati: infatti, potrebbe indicare la stessa festa
di Pasqua (il giorno 15 di Nisan) e addirittura l’escatologico
«giorno del Signore» (yôm Yhwh), in cui, secondo gli annunci
profetici, Dio sarebbe intervenuto decisamente nella storia. Ma
nell’idea teologica della domenica tali significati possono essere
contenuti.

112
Attilio Gangemi
________

I messaggi alle sette Chiese


(Ap 2-3)

Nei cc. 2-3 l’autore dell’Apocalisse propone i sette messaggi


che il Signore attraverso di lui rivolge alle sue Chiese. Egli non
li introduce di sua propria iniziativa, ma li scrive obbedendo
a un comando che ha ricevuto e introdotto per la prima volta
nel v. 11: l’autore, secondo lo stile apocalittico, sente dietro di
sé una voce grande come di tromba che gli comanda di scrive-
re quanto vede. Destinatarie sono le sette Chiese che vengono
singolarmente elencate con il loro proprio nome. Quando poi
al v. 19 l’autore si sente ripetere il comando di scrivere non
sono più menzionati i destinatari, ma più dettagliatamente,
benché avvolto ancora nel mistero, è presentato l’oggetto che
deve essere scritto; si tratta ancora delle cose che l’autore ha
visto, specificate però in due aspetti: le cose che sono e le cose
che debbono accadere dopo.

Le sette Chiese
In entrambi i comandi, perciò, il soggetto che parla è il «si-
mile a Figlio di uomo». I destinatari sono le sette Chiese. Es-
se nel v. 11, dopo il primo comando, sono elencate nella loro
realtà storica, evocata dal loro stesso nome: Efeso, Smirne,
Pergamo, Tiatira, Sardi, Filadelfia, Laodicea. Sono sette Chie-
se dell’Asia Minore; il numero sette è reale perché di esse si
indica il nome concreto; è al tempo stesso simbolico perché
il numero sette indica una totalità. Scrivendo a queste sette
Chiese concrete l’autore si rivolge non solo a tutte le Chiese
dell’Asia, ma a tutte le Chiese di Gesù. Nel v. 20, invece, dopo
il secondo comando, mediante i simboli delle sette stelle e dei
sette candelabri, è evocato piuttosto il loro mistero.

113
Dei sette candelabri l’autore aveva già parlato nel v. 13, do-
ve aveva narrato che in mezzo a essi c’era «uno simile a Figlio
di uomo»; delle sette stelle aveva parlato invece nel v. 16, dove
aveva notato che esse erano nella destra ancora di quel «simile
a figlio di uomo». Ora, nel v. 20, indica il loro significato: «Le
sette stelle sono gli angeli delle sette Chiese, i sette candelabri
d’oro sono le sette Chiese». L ’autore si rivolgerà poi a ciascun
angelo delle singole Chiese.

L ’immagine dei candelabri


L ’immagine dei sette candelabri è abbastanza singolare.
Il candelabro a sette braccia era un accessorio del tempio,
menzionato diverse volte soprattutto nel libro dell’Esodo e dei
Numeri. In Es 25,31-36 è riferito il comando di Dio a Mosè
di costruire un candelabro (lychnía) d’oro; nel v. 37 poi sono
menzionate le sette lucerne (lychnoi). Secondo Lv 24,3-4 que-
sto candelabro deve ardere sempre davanti al Signore: pro-
babilmente esso esprime la perenne fedeltà di Israele al suo
Dio. L ’immagine del candelabro sarà poi ripresa da Zc 4,2, ma
con significato diverso, anche opposto: esso non indica più la
probabile fedeltà del popolo davanti al Signore, ma le sette
lucerne sono gli occhi del Signore inviati per tutta la terra.
Dunque l’Antico Testamento parla di un solo candelabro
(lychnía) con sette lucerne (lychnoi). Il nostro autore riprende
invece l’immagine in modo inverso. Non parla più di un solo
candelabro con sette lucerne, ma di sette candelabri con una
sola lucerna. Quest’unica lucerna è certo evocata dal «simile a
Figlio di uomo» in mezzo ai candelabri, ma si può notare che
in 21,23 l’autore dirà che la lucerna (lychnos) della città santa
è l’Agnello. Le sette Chiese brillano perciò di una sola luce,
quella del Cristo.

Struttura delle lettere


Dal punto di vista strutturale le sette lettere presentano
quasi identico schema.
r C’è anzitutto un’introduzione identica in tutte le lettere che
ripete il comando di scrivere: «All’angelo della Chiesa in [...]
scrivi». Varia ovviamente il nome della Chiesa alla quale è ri-
volto quel particolare messaggio.

114
r Segue in tutte, poi, un’espressione introduttiva di indole
profetica: «Queste cose dice», il cui soggetto poi è descritto
con un titolo diverso in ciascuna lettera.
r Si introduce, quindi, il messaggio specifico rivolto a cia-
scuna Chiesa; ognuno dei messaggi però inizia invariabilmen-
te con il verbo sapere alla prima persona singolare: «Io so»
(oîda). Il primo, il terzo, il quarto, il quinto e il settimo mes-
saggio introducono verso la fine un’esortazione alla conversio-
ne («convertiti»); è assente però nella seconda e sesta lettera,
rispettivamente a Smirne e a Filadelfia. In tutte le lettere poi
leggiamo l’espressione identica: «Chi ha orecchio ascolti ciò
che lo Spirito dice alle Chiese»; varia solo la sua posizione:
nella prima, seconda, terza e sesta lettera essa è collocata pri-
ma della menzione del vincitore; nella quarta, quinta e setti-
ma lettera, invece, è collocata dopo.
r In tutte le sette lettere, infine, è menzionato il vincitore a
cui è promesso un premio. Varia però la formulazione lette-
raria. Nella prima e terza lettera leggiamo una espressione
participiale al dativo: «Al vincitore» (tôi nikônti), nelle altre
leggiamo, invece, un’espressione participiale al nominativo, al
nominativus pendens nella quarta, sesta e settima lettera.
Prescindendo da particolari secondari, possiamo conclude-
re che gli elementi fondamentali delle sette lettere sono quat-
tro:
— la persona di Gesù che parla, caratterizzata da differenti
titoli cristologici;
— il messaggio specifico che riguarda la vita delle Chiese nella
loro situazione concreta storica;
— l’esortazione ad ascoltare ciò che lo Spirito dice alle Chiese;
— i diversi premi promessi al vincitore.

I titoli cristologici
I titoli cristologici non sono nuovi. Essi ripropongono i va-
ri aspetti che caratterizzano la visione del «simile a Figlio di
uomo» nel c. 1. Nella prima lettera, ad Efeso, Gesù è definito
come Colui che sorregge le sette stelle nella sua destra e cam-
mina in mezzo ai sette candelabri d’oro: si riprende in ordine
inverso la menzione dei sette candelabri e delle sette stelle ri-
spettivamente in 1,12b-13a e in 1,16a. Nella seconda lettera, a

115
Smirne, Gesù è definito il Primo e l’Ultimo, che divenne mor-
to ma che tornò a vivere: si richiama la stessa prospettiva in
1,17c-18a. Il titolo nella terza lettera, a Pergamo, Colui che ha
la spada quella a doppio taglio acuta riprende la caratteristica
di Gesù in 1,16b. Il titolo della quarta lettera, a Tiatira, è du-
plice: il Figlio di Dio e Colui che ha i suoi occhi come fiamma
di fuoco e i suoi piedi come bronzo splendente; il primo non
richiama alcun elemento nel c. 1, il secondo invece, quello ri-
ferito agli occhi e ai piedi, riprende 1,14b-15a. Il quinto tito-
lo, nella lettera a Sardi, si riferisce ai sette spiriti e alle sette
stelle: Colui che ha i sette spiriti di Dio e le sette stelle: esso
richiama il c. 1 solo per l’immagine delle sette stelle (1,16) già
menzionate nella prima lettera: i sette spiriti di Dio sono sta-
ti già menzionati in diverso contesto in 1,4 e saranno ancora
introdotti in 4,5 e soprattutto, con riferimento all’Agnello, in
5,6. Anche il sesto titolo, nella lettera a Filadelfia, è duplice:
il Santo e Verace e Colui che ha la chiave di Davide, che apre
e nessuno chiude e chiude e nessuno apre; solo parzialmente
riprende nel secondo aspetto 1,18b. Infine, il settimo titolo,
nella lettera a Laodicea, è pure duplice: il Testimone degno di
fede e verace e il Fondamento della creazione di Dio: solo il pri-
mo elemento è stato già riferito a Gesù in 1,5.
Pur senza dipenderne pedissequamente, in larghissima
parte l’autore ripropone nelle sette lettere, come titoli cristo-
logici, elementi già riferiti alla visione del Figlio dell’uomo nel
c. 1. Prescindendo sia dal senso specifico di ciascun titolo, sia
dall’interrogativo se l’autore li riprende a caso oppure abbia
seguito dei precisi criteri nella scelta di ognuno, possiamo di-
re comunque che essi non sono senza relazione alla situazio-
ne concreta delle singole Chiese alle quali l’autore li riferisce.
Inoltre, tale ripresa evidenzia la relazione strettissima tra il
Signore glorificato e le sue Chiese e dice con quale autorità a
esse si rivolga.
I singoli messaggi, però, sono rivolti all’angelo delle Chiese.
È difficile stabilire chi siano questi angeli. Alcuni li identifica-
no con gli angeli custodi, altri con i vescovi, altri ancora pro-
pongono altre interpretazioni. Da parte nostra propendiamo a
identificare questi angeli con le stesse Chiese1, viste come già
proiettate nella loro dimensione escatologica2.

1
«L ’angelo della Chiesa», genitivo epesegetico, l’angelo che è la Chiesa.
2
Cf. Ap 21,17; Zc 12,8; inoltre anche Mt 22,30; Mc 12,25.

116
I premi al vincitore
Prescindendo dalla nozione di vincitore, che rimanda a
12,11 e 15,2 e soprattutto a 21,7, pure i sette premi presentano
una varietà di immagini ed espressioni. Essi rimandano più o
meno direttamente alla descrizione della Gerusalemme cele-
ste nei cc. 21-22.
Così il primo premio, alla Chiesa di Efeso: al vincitore darò
da mangiare dell’albero della vita che è nel paradiso di Dio ri-
chiama la descrizione dell’albero della vita in 22,2-33. Il secon-
do premio, alla Chiesa di Smirne, nell’aspetto negativo di non
essere lesi da morte seconda, richiama 20,6.14 e soprattutto
21,84. Più difficilmente relazionabile appare il terzo premio,
alla Chiesa di Pergamo: mai infatti si parla altrove di manna
nascosta e di sassolino bianco, o di nome scritto che nessuno
conosce se non colui che lo riceve5. Il primo aspetto del du-
plice premio alla Chiesa di Tiatira, il potere di reggere tutte le
genti con verga di ferro, altrove è riferito a Cristo (12,5; 15,9),
mai però ai cristiani; il secondo aspetto, la stella del mattino,
richiama invece 22,166. Il quinto premio alla Chiesa di Sardi
nel suo triplice aspetto, delle vesti bianche, della non cancel-
lazione del nome dal libro della vita e della sua confessione
da parte di Gesù davanti al Padre e ai suoi angeli, richiama,
per le vesti bianche, il testo di 7,9.13, per il libro della vita,
negativamente, 17,8; 20,15; 21,27, ma anche 20,2, mai infine
è richiamata altrove la confessione del nome davanti al Padre
e ai suoi angeli da parte di Gesù. Più articolato è il sesto pre-
mio alla Chiesa di Filadelfia; esso gravita attorno al tema del
nome in tre aspetti: il nome di Dio, il nome della città santa, il
nome nuovo di Gesù. Questo premio, per la nozione di nome,
richiama il passo 22,4, ma anche 21,2 e 22,10 per la menzione
della città santa, la nuova Gerusalemme che scende dal cielo,
da Dio. Infine il settimo premio, a Laodicea, sedersi sul tro-
no di Gesù con lui così come egli si è seduto con il Padre sul
suo trono, direttamente non ha alcun riferimento, ma l’ultima
menzione del trono di Dio si ha in 21,3.
3
Sul senso di questo primo premio cf. A. Gangemi, L ’albero della vita (Ap
2,7), «RivB» 23 (1975), pp. 383-397.
4
Sul senso di questo secondo premio cf. A. Gangemi, La morte seconda (Ap
2,11), «RivB» 24 (1976), pp. 3-11.
5
Sul senso di questo terzo premio cf. A. Gangemi, La manna nascosta e il
nome nuovo (Ap 2,17), «RivB» 26 (1978), pp. 337-356.
6
Sul senso di questo quarto premio cf. A. Gangemi, La stella del mattino (Ap
2,26-28), «RivB» 26 (1978), pp. 241-274.

117
I sette premi, pur diversissimi ciascuno nella sua peculia-
rità, possono essere ricondotti, in modo parallelo, a tre tema-
tiche fondamentali. Il primo, secondo e quinto premio si ri-
conducono al tema della vita: si parla, infatti, dell’albero della
vita (I), della salvezza dalla morte seconda (II), del libro della
vita (V). Il terzo e sesto premio possono essere ricondotti al te-
ma della novità: si parla, infatti, del nome nuovo che nessuno
conosce se non colui che lo riceve (III), del nome della nuova
Gerusalemme e del nome di Gesù quello nuovo (VI). Infine,
il quarto e settimo premio evocano il tema della regalità che
i cristiani sono chiamati a condividere con Cristo: nel quarto
premio il tema della regalità è espresso mediante la citazione
del Sal 2,9, nel settimo premio invece è espresso mediante la
tematica del trono che, attraverso la fede primitiva, risale al
Sal 110,1 e a Dn 7,9-14.
Queste tre tematiche pervadono un po’ tutto il libro dell’A-
pocalisse, ma in modo particolare esse richiamano la descri-
zione della Gerusalemme celeste (cc. 21-22)7. Il tema della vita
emerge negativamente in 21,4 come superamento della mor-
te; positivamente poi emerge in 21,6 con l’immagine della fon-
te dell’acqua della vita, in 21,27 con l’immagine del libro della
vita e in 22,2 con quella dell’albero della vita; ma il tema della
vita era stato già introdotto in 20,4.6.13-15 (cf. anche 22,14-
17.19). Il tema della novità poi torna massiccio in 21,1-5, dove
l’autore, nello sfondo dei cieli nuovi e della terra nuova, parla
nel v. 2 della nuova Gerusalemme che scende dal cielo, da Dio;
poi, nel v. 5, l’autore introduce le parole con cui colui che siede
sul trono annunzia il rinnovamento di tutte le cose. Infine il
tema della condivisione della regalità, introdotto già in 20,4.6,
torna ancora in 22,5.
Tutte queste osservazioni permettono di concludere che,
mentre i sette titoli cristologici iniziali stabiliscono una rela-
zione tra il Signore risorto e le sue Chiese, i sette premi finali
invece proiettano le sette Chiese verso la Gerusalemme cele-
ste, alla quale del resto orienta anche l’espressione «colui che
vince» (ho nikôn). Il verbo vincere (nikáo), al participio pre-
sente con l’articolo, infatti, oltre ai sette usi nelle sette lettere,
si legge solo in 21,7.

7
Per la relazione tra le sette Chiese e la Gerusalemme celeste cf. anche A.
Gangemi, La Gerusalemme celeste nell’Apocalisse di san Giovanni, in Chiesa
straniera e pellegrina (= Psv, 28), Bologna 1993, pp. 231-266, specie pp. 242-249.

118
I messaggi alle sette Chiese
Tra la relazione al Signore risorto e la proiezione verso la
Gerusalemme celeste, ci stanno i messaggi alle sette Chiese, la
cui situazione è ben nota al Signore.
Di Efeso il Signore conosce il travaglio, la costanza e il fatto
che essa non può tollerare i malvagi; rimprovera però il fatto
di essersi raffreddata nella prima carità. Di Smirne il Signore
conosce la tribolazione, la povertà e la bestemmia che le pro-
viene da quelli che si dicono giudei ma non lo sono, ma sono
sinagoga di Satana: a essa annunzia un tempo di tribolazione
e la esorta alla fedeltà fino a morire. Di Pergamo al Signore
non sfugge il fatto che è uscita da poco da una persecuzione
cruenta scatenata da Satana, il cui martire più illustre è un
certo Antipa, e che in questa situazione ha tenuto saldo il suo
nome e non ha rinnegato la sua fede; egli però le rimprovera
la presenza di quelli che seguono la dottrina di Balaam e dei
nicolaiti. Di Tiatira il Signore loda le opere: la carità, la fede, il
servizio, la costanza, e aggiunge che le ultime opere sono più
abbondanti delle prime; le rimprovera però il fatto che tolle-
ra la presenza di Gezabele, la quale inganna i suoi servi inse-
gnando a fornicare e a mangiare carni immolate agli idoli. A
Sardi il Signore rimprovera che vive solo di nome, ma di fatto
è morta e le sue opere non sono state trovate piene davanti a
Dio; si salvano solo poche persone che non hanno contamina-
to le loro vesti. Filadelfia, poi, nonostante abbia poca forza,
non ha rinnegato il nome di Gesù e ha custodito la sua parola
di costanza. Infine, il Signore minaccia Laodicea di vomitarla
dalla sua bocca, dal momento che non è né calda né fredda;
essa, che pur si vanta di tante ricchezze materiali, in realtà è
povera, cieca e nuda.
In tutti questi messaggi si intrecciano allusioni storiche e
ripresa di linguaggio simbolico ed è difficile stabilire dove fini-
scono le une e comincia l’altra. Non è possibile perciò in que-
sta sede considerare più accuratamente ciascuno dei singoli
messaggi. Possiamo solo rilevare in essi un decrescendo. Pre-
scindendo dai messaggi della seconda e sesta lettera che sono
tutti positivi, quelli della prima, terza, quarta, quinta e settima
lettera, quelli cioè che, come abbiamo già notato, contengono
l’esortazione alla conversione, presentano un regresso o, se si
vuole, un progresso negativo. La prima lettera, ad Efeso, con-
tiene molti aspetti positivi ma anche qualche aspetto negativo.
Nella terza lettera, a Pergamo, gli aspetti positivi ancora pre-

119
valgono, ma aumentano pure gli aspetti negativi. Nella quarta
lettera, a Tiatira, gli aspetti negativi almeno letterariamente si
controbilanciano a quelli negativi. Nella quinta lettera, a Sar-
di, gli elementi negativi decisamente prevalgono, tuttavia non
manca qualche aspetto positivo. Infine, la settima lettera, a
Laodicea, è interamente negativa, priva di qualsiasi aspetto
positivo, se si eccettua l’esortazione alla conversione e l’invito
a comprare da Gesù.

Antitesi tra Cristo e Satana


I messaggi considerano la vita delle Chiese in relazione alla
loro fedeltà a Cristo e quindi alla loro fede, alla loro carità e al-
la loro eventuale apertura e chiusura a forze o persone malefi-
che. Tuttavia emerge chiara la presenza della potenza satanica
con la quale le Chiese ogni giorno hanno a che fare e alla quale
esse debbono resistere fino all’effusione del sangue.
A Smirne il Signore annunzia che Satana sta per gettare
alcuni in carcere. Di Pergamo non ignora che essa abita dove
Satana abita, proprio lì dove fu ucciso il servo fedele Antipa.
Satana poi si serve di suoi emissari per raffreddare e allentare
la fedeltà delle Chiese: questi nella lettera a Efeso sono i falsi
apostoli; nella lettera a Smirne sono quelli che si dicono giu-
dei ma non lo sono, essendo in realtà sinagoga di Satana; nel-
la lettera a Pergamo sono i seguaci della dottrina di Balaam
e dei nicolaiti, nella lettera a Tiatira sono quelli che lasciano
fare a Gezabele; nella lettera a Filadelfia sono ancora i giudei.
Dietro tutti costoro c’è sempre Satana. Emerge così nelle sette
lettere quell’antitesi tra Cristo e Satana che caratterizza tutto
il libro e che si fa particolarmente drammatica nei cc. 12-13.
Attraverso questi emissari Satana cerca di staccare le Chiese
da Cristo e tenta di allentare la loro fedeltà introducendosi
subdolamente nella loro vita e scatenando la persecuzione. Il
Signore però non manca di sostenere le Chiese esortandole,
lodandole, incoraggiandole. In questo terribile dilemma, che
caratterizza tutta l’Apocalisse, si dibattono appunto le sette
Chiese.

Lo schema dell’esodo
Ciascuna singola lettera, come abbiamo già notato, si arti-
cola in tre momenti:

120
— la relazione della Chiesa al Signore risorto nei titoli cristo-
logici,
— il cammino concreto delineato nei singoli messaggi,
— la proiezione verso la Gerusalemme celeste nei premi finali.
Questi tre momenti possono essere caratterizzati rispetti-
vamente come il punto di partenza, il cammino intermedio,
il punto di arrivo. Essi corrispondono allo schema dell’esodo
peraltro abbastanza presente in tutto il libro dell’Apocalisse.
Anticamente il popolo del Signore immolò l’Agnello (Es 12) e
uscì dall’Egitto, fu incamminato da Dio attraverso il deserto
dove sperimentò tutta la fatica della fedeltà, fu introdotto nel-
la terra promessa. Analogamente le Chiese partono dal Signo-
re risorto a cui appartengono8, vivono una situazione di trava-
gliata fedeltà ostacolata da Satana paragonabile al tempo del
deserto9, il termine del cammino sarà la Gerusalemme celeste.
In questo cammino intermedio la forza delle Chiese è rap-
presentata dalla fede in colui che «fu morto» ed è tornato a vi-
vere, il Signore risorto, e dalla speranza che sgorga dalla fede
e si orienta verso il suo ritorno, quando, vinto definitivamente
Satana (c. 20), la Gerusalemme celeste scenderà dal cielo e
non ci sarà più né morte, né gemito, né lutto, né pianto.
In questo contesto si può capire allora la frase identica in
tutte le lettere ma misteriosa: chi ha orecchio ascolti ciò che lo
Spirito dice alle Chiese. Che cosa dice lo Spirito alle Chiese?
La risposta è in 22,17: «Lo Spirito e la sposa dicono: “Vieni!”.
E chi ascolta, ripeta: “Vieni!”». Lo Spirito suggerisce alle Chie-
se quello che l’antica liturgia esprimeva come invocazione:
«Marana thà», cioè l’anelito «Vieni, Signore Gesù»10.
Istruite dallo Spirito, le Chiese nel loro travaglio esistenzia-
le determinato dall’opera di Satana, devono rafforzare la loro
fedeltà esprimendo il loro anelito: Vieni, Signore Gesù.

Cf. il tema dell’Agnello nell’Apocalisse, soprattutto nei cc. 4-5.


8

Cf. il tema del deserto in Ap 12.


9

10
Cf. A. Gangemi, Sì, vengo presto (Ap 22,20). Su Apocalisse 22,6-21, «Ho
Theológos» 9-10 (1976), pp. 7-30 (I); 16 (1977), pp. 5-52 (II-III).

121
Rita Pellegrini
________

La lettera
alla Chiesa di Laodicea
(Ap 3,14-22)

La lettera alla Chiesa di Laodicea (3,14-22)1 è l’ultima di


sette, ed è indirizzata alla Chiesa che riceve dal Signore ri-
sorto il giudizio più severo, le parole più dure. Per cogliere in
profondità il messaggio a lei rivolto è utile notare lo schema
letterario fisso che si articola in cinque punti e che, in forma
leggermente modificata, si ritrova anche nelle altre lettere:
— L ’indirizzo, indicato dall’espressione: «E all’angelo della
Chiesa di Laodicea scrivi» (3,14a).
— La rivelazione di Cristo, introdotta dal: «Così parla...» (táde
légei 3,14b).
— Il messaggio o giudizio di Cristo sulla situazione della Chie-
sa, che inizia con il verbo «conoscere» (oîda 3,15) e prose-
gue con l’invito alla conversione mediante i due verbi al­
l’imperativo: «Mostrati fervente [nell’amore] e convertiti»
(zéleue e metanóeson 19b).
— La promessa al vincitore (ho nikôn 3,21).
— L ’esortazione finale all’ascolto dello Spirito: «Chi ha orec-
chi, ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese» (3,22).

Uno scritto indirizzato alla Chiesa di Laodicea


Nell’indirizzo Giovanni riceve da Cristo l’ordine di mette-
re per iscritto quanto gli viene rivelato e di comunicarlo alla
Chiesa di Laodicea. L ’espressione simbolica: «E (kaì)2 all’an-
1
Cf. U. Vanni, La lettera a Laodicea: 3,14-21, in L ’Apocalisse: emeneutica,
esegesi, teologia, EDB, Bologna (1988), pp. 137-163.
2
La congiunzione iniziale – il kaì greco – che inizia l’indirizzo (dalla se-
conda alla settima lettera), indica che il messaggio deve essere letto in con-

122
gelo della Chiesa di Laodicea scrivi», è da riferire alla Chiesa
vista nella sua realtà umana e divina. La parola «angelo», sug-
gerisce una dimensione trascendente, mentre il nome geogra-
fico «Laodicea» è riferito alla Chiesa concreta vista nella sua
dimensione storica. La Chiesa è sulla terra, ma è, nello stesso
tempo nelle mani del Risorto (1,16.20). L ’imperativo «scrivi»
(grápso), è un fatto letterario che si ripete puntualmente all’i-
nizio di ciascuna lettera (2,1.8.12.18; 3,1.7.14). Esso sottoli-
nea innanzitutto che il messaggio è di Cristo risorto, e assicu-
ra l’autorità di tale parola trasmessa (cf. 1,3) la quale, proprio
perché scritta, viene ad assumere caratteristiche di definitività
e di universalità (cf. 1,3). Con questo messaggio epistolare, la
comunità di Laodicea può verificarsi a lungo, e non lei soltan-
to, ma anche tutte le comunità ecclesiali alle quali giungerà
questa Parola. Dopo l’indirizzo, Cristo si presenta in prima
persona, rivelando la sua identità.

La rivelazione di Cristo alla sua comunità cristiana


Cristo si definisce con tre attributi che illuminano il suo
mistero: «Così parla l’Amen, il Testimone fedele e verace, il
Principio della creazione di Dio». Egli invita la comunità a
prendere coscienza della sua trascendenza e signoria, come è
avvenuto a Giovanni nella visione. L ’espressione solenne «Co-
sì parla», che introduce i titoli cristologici, richiama il mo-
do di presentarsi di Dio negli oracoli dei profeti (koh ‘amar)
e conferisce alla parola del Risorto la stessa autorità ed effi-
cacia della parola di Dio dell’Antico Testamento. Questi titoli
cristologici sono gli ultimi che vengono a completare le altre
designazioni che Cristo ha fatto di sé negli altri messaggi alle
Chiese (2,1.8.12.18; 3,1.7) ed esprimono l’inesauribile mistero
del Crocifisso risorto.
Con il primo titolo il Risorto si qualifica come «l’Amen».
È questo l’unico caso in cui il termine è presentato nel Nuo-
vo Testamento come attributo di Cristo. Qual è il suo signi-
ficato? L ’espressione può essere compresa se letta alla luce
dell’uso che il termine ha nell’Antico Testamento e nell’Apo-
calisse. Nell’Antico Testamento questo titolo si trova riferito
solo a Dio, (due volte) in Is 65,16: «Chi vorrà essere benedetto

nessione agli altri messaggi precedenti rivolti alle altre comunità perché sia
completo (2,8.12.18; 3,1.7.14).

123
nel pae­se, sarà benedetto in Dio-Amen, chi vorrà giurare nel
paese, giurerà per Dio-Amen». Dio-Amen è colui che è fedele
alle sue promesse e alla sua Parola, è colui che non viene mai
meno ai suoi impegni e al suo amore. Cristo, designandosi
così, si assume dunque questa prerogativa di Dio. All’interno
dell’Apocalisse il termine «Amen» ricorre prima o dopo i canti
e gli inni liturgici (cf. 1,6.7; 5,14; 7,12 (bis); 19,4; 22,20) come
risposta di fede dell’assemblea ecclesiale o della corte celeste
alla parola di Dio proclamata, e dice anche il desiderio che,
quanto è stato espresso nella preghiera o nella lode, si realizzi
presto. Cristo, qualificandosi come «l’Amen», si definisce co-
me colui che è il «sì» pieno, totalmente obbediente all’inizia-
tiva divina, come colui che compie in sé e realizza quanto è
invocato dall’assemblea liturgica. In lui, Dio Padre dice irrevo-
cabilmente il suo «sì» all’uomo e, a sua volta, l’uomo risponde
con il suo «sì» a Dio (cf. 2Cor 1,19-20), perché in lui la parola
di Dio e la parola dell’uomo si sono incontrate, corrisposte,
abbracciate, fino a diventare la parola dell’alleanza definitiva.
È il testimone degno di fede e verace: il «testimone» (mártys)
è stato il primo termine usato da Giovanni per acclamare il
Cristo risorto nella breve introduzione liturgica (1,5); esso
va compreso in continuità con la teologia della testimonian-
za presente nel Quarto Vangelo. Cristo è il testimone perché,
nella sua parola ma soprattutto nella sua croce gloriosa, ma-
nifesta la verità di Dio (cf. Gv 18,37), l’amore gratuito e incon-
dizionato del Padre che getta luce su tutta la storia umana.
La sua testimonianza è degna di fede, pienamente attendibile,
non viene mai meno e giunge al suo compimento sulla croce.
Il principio (l’archè) della creazione di Dio3: questa espres-
sione così densa si illumina se letta alla luce del passo che si
trova nel dialogo liturgico che conclude il libro dell’Apocalis-
se: «Io sono l’Alfa e l’Omega, il Primo e l’Ultimo, il principio
(archè) e la fine» (22,13; cf. 1,4). Cristo si proclama qui come
Dio stesso si è nominato in 21,6. Il termine «principio» (archè)
si trova unito al termine «fine» (télos), ed è chiarito dalle altre
espressioni «Alfa e Omega», «Primo e Ultimo», che affermano
insieme l’universalità della signoria di Cristo. Il Signore risor-
to si definisce «la sorgente» di tutta la creazione che abbraccia
non solo il cosmo, ma anche tutta la storia umana nel suo di-
venire, dunque gli uomini e gli eventi che li riguardano. Egli è
3
Cf. U. Vanni, L ’opera creativa nell’Apocalisse, AVE (1993), pp. 26-35.

124
colui che ha dato inizio, insieme a Dio Padre, all’azione creati-
va (cf. Col 1,15; Gv 1,1-3), ne segue lo sviluppo, ne è coinvolto
e la porta progressivamente verso la sua realizzazione piena.
La storia umana, dunque, pur con tutte le sue contraddizioni
e drammi, è posta sotto la sua signoria, e si concluderà in lui
poiché lui è la meta, il fine a cui essa tende.
L ’insieme di questi titoli cristologici sono da leggersi in re-
lazione alla situazione concreta della Chiesa di Laodicea. La
comunità cristiana, alla quale è rivolta questa parola scritta, è
chiamata a fermarsi per contemplare la fedeltà di Cristo: egli
desidera da lei che essa giunga a essere come lui l’Amen fede-
le, capace di un’obbedienza piena al Padre, e di una testimo-
nianza che giunga fino al martirio (cf. 12,11.17), pronta ad
affidarsi a lui senza riserve, poiché egli è il senso pieno della
creazione e della storia. Dopo aver confortato la Chiesa con
questa sua rivelazione, Cristo prosegue rivolgendole parole di
rimprovero che hanno lo scopo di condurre la comunità a un
esame di coscienza serio e profondo.

Il messaggio alla Chiesa più ricca


«Conosco le tue opere»: la parola che introduce il suo «giu-
dizio» è il verbo oîda, che, in greco, esprime una conoscenza
piena, profonda, totale. Cristo segue con passione e interesse
la vita della comunità, sa tutto quello che accade all’interno.
Si realizza quanto Cristo aveva detto alla comunità di Tiati-
ra: «Tutte le Chiese sapranno che io sono colui che scruta gli
affetti e i pensieri e darò a ciascuno di voi secondo le vostre
opere» (2,23). Il verbo «dare» non dice la semplice retribuzio-
ne per le opere compiute, ma il fatto che Cristo vuole portare
a pienezza quel «poco» che le Chiese sanno fare di buono. Vi è
un compimento che sarà donato in modo gratuito ed ecceden-
te rispetto all’opera delle loro mani. Il giudizio sulla Chiesa di
Laodicea sorprende, però, perché mancano le parole confor-
tanti, piene di stima e di lode che Cristo rivolge alle altre co-
munità cristiane (cf. 2,3.9.13.19; 3,4.8). Quale grave errore mi-
naccia pastori e fedeli? Ascoltiamo le parole del rimprovero.
Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo. Magari tu
fossi freddo o caldo! Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né fred-
do né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca (3,15-16).

125
Il linguaggio è durissimo, le parole sferzanti. La comunità
riunita in assemblea, e chiunque ascolta, deve cercare di de-
cifrare queste parole che presentano immagini provocatorie:
colpisce l’espressione ripetuta «né freddo né caldo», e il fatto
che Cristo le rimproveri di essere «tiepida» e minacci di vomi-
tarla4 dalla sua bocca, cioè di separarsi del tutto da lei. Perché
le parole di Cristo sono così urtanti e annunciano una possi-
bile rottura (cf. 2,5)? Tale linguaggio forte e appassionato è
usato forse nella speranza di suscitare in lei un risolutivo salto
di qualità e di scongiurare così il pericolo di una distanza in-
colmabile? I termini «né freddo né caldo» dicono che la Chie-
sa si trova a essere tra due estremi, dunque in una posizione
intermedia: non ha rinnegato la fede, e non può essere accu-
sata di mancanze gravi. Non è compromessa la sua ortodos-
sia, come invece avviene alle comunità cristiane di Pergamo
e di Tiatira, che tollerano al loro interno ideologie sincretiste
che minacciano la purezza della fede (2,20; 3,14). Neppure si
trova a essere in una situazione di morte come avviene per la
Chiesa di Sardi (3,2). Eppure nessuna Chiesa provoca Cristo
a una reazione così violenta! In quali opere risulta mancante?
Cristo la rimprovera con le sue stesse parole: «Tu dici: Sono
ricco, mi sono arricchito; non ho bisogno di nulla» (v. 17). La
comunità è ripresa per la sua agiatezza, per la sua ricchezza;
è la Chiesa più potente, non ha necessità materiali, ha accu-
mulato denaro e acquisito prestigio e si illude di essere a posto
(cf. Os 12,9). Di fatto, sta seguendo le orme della città di Babi-
lonia che erge a sistema il lusso e il consumismo (18,3.15.19),
glorificando se stessa e assolutizzando il suo benessere. Tale
città sarà condannata alla rovina e il giudizio di Dio sarà su di
lei pesantissimo (c. 18). La Chiesa di Laodicea deve fuggire da
quel pericolo, come il popolo eletto dovrà fuggire da Babilo-
nia, per non associarsi ai suoi peccati (18,4ss.).
Laodicea era una città molto ricca, famosa per suoi interes-
si commerciali: le sue attività bancarie erano fiorenti, le sue
industrie tessili confezionavano abiti famosi in tutto il mondo
antico, possedeva anche una buona scuola medica con me-
dicine note per le loro proprietà terapeutiche (collirio). La
comunità partecipa a questo grande benessere. La situazione

4
L ’immagine del «vomito» usata per esprimere il possibile rigetto di Cri-
sto fa probabilmente allusione alla nausea che provocavano le tiepide e imbe-
vibili acque di Gerapoli che la città possedeva.

126
economica particolarmente agiata la porta a un senso di or-
goglio, di autosufficienza, essa può affermare, proprio in for-
za della sua situazione che «non ha bisogno di nulla». Il suo
peccato è quell’inganno della ricchezza rimproverato da Gesù
nella parabola del seminatore (Mc 4,19; cf. Zc 11,5) che chiude
il cuore, conduce alla presunzione, perché soffoca il seme del-
la Parola e soprattutto smorza l’amore verso il Signore («Dove
è il vostro tesoro là sarà anche il vostro cuore»: Lc 12,34, cf.
Mc 10,21-22). La comunità di Laodicea non vive la povertà
evangelica tanto raccomandata da Gesù e ritenuta assoluta-
mente indispensabile («Chi non rinuncia a tutti i suoi averi,
non può essere mio discepolo»: Lc 14,33), e rischia di non cor-
rispondere all’amore di Cristo (cf. 2,4).
Cristo rivela poi, alla ricca comunità, ciò che essa ignora.
Le sue parole la raggiungono provocando uno shock: «Ma
non sai che proprio tu sei un infelice, un miserabile, un po-
vero, cieco e nudo» (v. 17b). I cristiani di Laodicea si sentono
a posto, vivono un cristianesimo indisturbato, e invece Cristo
rivela loro qual è la vera situazione. I quattro sostantivi dan-
no l’immagine di questa comunità. Essa non sa di essere una
«infelice», il termine talaíporos allude a una mancanza, essa
ha bisogno di tutto; è «miserabile», suscita compassione e non
ammirazione; è «povera», non ha risorse spirituali; è «cieca»
(cf. Gv 9), manca di fede e di discernimento, è incapace di leg-
gere la storia; è «nuda», manca di una sua dignità, è come una
sposa che ha tradito l’amore dello sposo (cf. Ez 16).

«Ti consiglio di comprare...» (v. 18)


Cristo risorto, dopo aver spiegato alla Chiesa la sua situa-
zione, va oltre la semplice analisi negativa e incomincia a
esortare con parole accorate per stimolare un cambiamento,
dando delle indicazioni precise perché la Chiesa possa uscire
dalla sua negatività: solo se si rivolge a lui può trovare aiuto!
«Ti consiglio di comprare da me»: la comunità deve porre tut-
to il suo impegno per acquistare da Cristo tutto quello che le
manca; il verbo usato allude probabilmente all’attività com-
merciale nella quale la Chiesa è coinvolta. Il Signore risorto
le offre quei beni preziosi, i soli che costituiscono la vera ric-
chezza della Chiesa e che lei può comprare «senza denaro» e
«senza spesa» (cf. Is 55,1). Il testo elenca tutti i beni, usando
un simbolismo che esige di essere decodificato.

127
L ’«oro purificato dal fuoco» rappresenta la ricchezza genui-
na, autentica, che è Cristo stesso, il suo amore e la sua parola
potente.
Le «vesti bianche» indicano la santità che è propria di chi
appartiene al mondo di Dio (cf. Gv 20,12; Mc 16,5; Mt 28,3; Ap
4,4; 7,6.13) e di chi, attraverso un cammino di conversione, ha
«lavato le proprie vesti rendendole candide col sangue dell’a-
gnello» (7,14): la Chiesa è invitata a rivestirsi per nascondere
la vergognosa sua nudità (Ez 16). Solo così lei potrà identifi-
carsi con la sposa (gunè) dell’Agnello e arrivare «pronta» al
grande giorno delle nozze (19,7-8).
Il «collirio» che la Chiesa deve acquistare per ungersi gli
occhi (allusione alla scuola medica), è simbolo dello Spirito
che possiede il Risorto (5,6). In ambito giovanneo, infatti, i
termini «ungere» (enchrío) e «unzione» (chrísma) sono riferiti
allo Spirito (1Gv 2,20.27). Questo dono permetterà alla Chiesa
di guardare di nuovo lo splendore di Cristo, il cui volto è «co-
me il sole quando splende in tutta la sua forza» (1,16) e illu-
minata da lui, «luce del mondo» (Gv 8,12), potrà uscire dalla
sua cecità.
Il giudizio prosegue con delle parole che rivelano l’affetto
profondo di Cristo per questa Chiesa.

«Io, tutti quelli che amo, li rimprovero e li educo» (v. 19a)


«Io, tutti quelli che amo (philéo), li rimprovero (eléncho) e
li educo (paideúo)»: troviamo in questa frase tre verbi molto
significativi: «amare», «rimproverare», «educare» che Cristo
riferisce a sé.
Il verbo philéo esprime l’affetto di Cristo per la sua Chiesa;
si tratta di un sentimento particolarmente intenso, profondo
che dal contesto assume una sfumatura sponsale.
Il verbo eléncho significa «rimproverare, riprendere, correg-
gere, mettere in crisi», è il contrario del semplice «buttare in
faccia le colpe», quasi scaricandosi di un peso; nel Vangelo di
Matteo è il termine usato per indicare la correzione fraterna
(«Se tuo fratello pecca verso di te, riprendilo fra te e lui solo»
Mt 18,15).
Il verbo paideúo non ha il significato di «castigare» (tradu-
zione CEI), ma di «educare». Il Signore risorto si comporta
come un padre che non risparmia le maniere forti per educare

128
il proprio figlio. Le sue parole severe hanno uno scopo peda-
gogico come le parole rivolte da Dio al suo popolo in Pr 3,
11-12 (cf. Eb 2,4-6; Gv 15,1-2). Il rimprovero di Cristo è dun-
que rivolto con amore, intelligenza, riflessione, calore e forza
persuasiva e ha la finalità di correggere ed educare. Egli rim-
provera la sua comunità, perché essa possa tornare a essere
come è lui, testimone fedele e verace, capace di dire con tutta
la sua esistenza «l’Amen» dell’obbedienza. L ’esortazione ter-
mina con i due imperativi: «Mostrati dunque fervente nell’a-
more (zéleue) e convertiti (metanóeson)» (19b). La Chiesa non
deve ripiegarsi su di sé amareggiandosi e deprimendosi ma,
accogliendo subito l’amore appassionato di Cristo, veemente
come quello di uno sposo tradito e tenace come quello di un
padre che educa, deve lasciarsi purificare dalla sua Parola viva
ed efficace, certa che da questo momento è possibile cambiare
e convertirsi.

«Ecco: sto alla porta e busso» (v. 20)


Il lungo messaggio si conclude con una bellissima immagi-
ne che il Signore dà di sé al termine di questo lungo rimpro-
vero: «Ecco: sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia
voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli
con me». Con queste parole egli interpella in modo più diretto
le singole persone della sua comunità (eán tis) con la finalità
di ristabilire una profonda comunione personale con ciascu-
no. Dal tono imperativo si passa a un tono più discreto e de-
licato. L ’espressione «ecco» (idoú) tradotta letteralmente con
«vedi tu!» sollecita l’attenzione della comunità. L ’immagine di
colui che bussa alla porta e attende di entrare richiama il dia-
logo tra la sposa e lo sposo nel Cantico dei Cantici: «Un rumo-
re! È il mio diletto che bussa: Aprimi sorella mia...» (Ct 5,2).
Se la Chiesa ascolta la voce di Cristo, come la sposa accoglie la
voce dello sposo, e gli apre la porta, potrà fare l’esperienza di
una profonda comunione con lui. Si coglie l’esperienza della
reciprocità dell’amore qui espressa in termini di convivenza
familiare (cf. Gv 14,23), come sottolinea l’immagine della ce-
na. La comunità cristiana intravede nelle parole di Cristo un
richiamo alla fedele celebrazione del banchetto eucaristico,
luogo privilegiato per incontrarsi e rimanere uniti al Risor-
to: «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in

129
me e io in lui» (Gv 6,56). A questo punto la comunità sente
sciogliersi tutta la tensione accumulata durante il rimprove-
ro: il linguaggio sponsale con questo forte richiamo a vivere
l’intimità e la comunione, ha dato calore all’azione educativa
e ha messo in luce il tono affettuoso da cui era avvolto il seve-
ro giudizio. Rincuorata e disposta a convertirsi, la comunità
ascolta ora, con estrema attenzione, le ultime consolanti pa-
role del Risorto.

Promessa di un premio al vincitore


«Il vincitore lo farò sedere (dóso autôi kathísai) presso di
me, sul mio trono, come io ho vinto e mi sono seduto presso il
Padre sul mio trono» (v. 21). La comunità deve porre molta at-
tenzione per comprendere il significato teologico delle parole
che ascolta. Il linguaggio è un po’ enigmatico! Cristo annuncia
alla Chiesa di Laodicea che ha la possibilità di vincere! Ma in
che cosa consiste la vittoria e come può ottenerla? Troviamo
la risposta nel paragone che viene fatto tra la vittoria che la
Chiesa deve conseguire e la vittoria di Cristo. Alla Chiesa è
donato di partecipare alla vittoria stessa di Cristo: «Come io
ho vinto (eníkesa) e (come) mi sono seduto (ekáthisa) presso
il Padre». I due verbi all’aoristo indicano che la vittoria di Cri-
sto e la sua conseguente intronizzazione regale presso il Padre
sono già avvenute, attraverso la sua passione, morte e risur-
rezione (cf. 5,5.9). Questa sua vittoria si prolunga e produce
i suoi effetti nella storia (6,2), anticipando quella definitiva,
escatologica, quando tutte le forze ostili che abitano la storia
saranno definitivamente distrutte. La vittoria della Chiesa di
Laodicea consiste dunque nel recuperare la propria fedeltà a
Cristo dal cui sangue è stata lavata (1,5) e comprata (cf. 5,9-
10), ritornando a lui come la sposa torna allo sposo. Potrà così
vedere anticipato quel rinnovamento di tutte le cose che è la
meta sperata ma già realizzata nella Pasqua del Signore e ar-
rivare a condividere la gloria che Cristo riceve dal Padre (cf.
Lc 22,28-30), quella destinata alla Gerusalemme celeste (cc.
21-22).

«Chi ha orecchi ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese»


La formula che si ripete per la settima volta (2,7.11.17.29;
2,6.13.23), rivolta nel medesimo modo a tutte le comunità

130
cristiane, è indicativa della sua importanza. Ogni Chiesa, alla
quale giunge questa Parola scritta di Cristo, è invitata a met-
tersi in ascolto della voce dello Spirito che in essa risuona.
Lo Spirito è il grande protagonista nascosto dell’Apocalisse:
è presente e anima l’intero libro, riempie della sua sapienza
Giovanni che in lui è rapito, parla alle Chiese attraverso la
voce di Cristo risorto, suscita le visioni profetiche riferite da
Giovanni nella seconda parte del libro (4,1-22,5). L ’espressio-
ne sapienziale «Chi ha orecchi ascolti...», che in forma legger-
mente variata si ritrova nel contesto delle parabole (cf. Mc 9,4;
Mt 11,15; 13,43; Lc 8,8), è un invito a una riflessione attenta e
intelligente che implica impegno e coinvolgimento personale.
La Chiesa di Laodicea, come le altre, deve accogliere, inter-
pretare, vagliare, comprendere, applicare a sé il messaggio di
Cristo, per poi proseguire, una volta purificata, a comprende-
re il messaggio che Giovanni trasmette nella seconda parte del
libro, attraverso il linguaggio simbolico delle visioni.

Conclusione
Arriverà la Chiesa di Laodicea, come pure le altre Chiese
dell’Asia, ad accogliere questo itinerario di conversione? Il te-
sto allude a una risposta positiva, ma non dice nulla esplici-
tamente: la risposta sarà data da ogni comunità cristiana che,
nella liturgia, legge questa «parola profetica» lasciandosi se-
riamente interrogare.

131
Claudio Doglio
________

Il trono nel cielo


(Ap 4)

Con il c. 4, prende l’avvio la seconda parte dell’opera, che


comprende i tre grandi settenari, caratterizzati da sigilli,
trombe e coppe. Ognuno di questi settenari è introdotto da
una visione inaugurale che ne anticipa il tema e la portata
simbolica. I cc. 4-5, dunque, svolgono il ruolo di apertura per
il settenario dei sigilli (6,1-8,1), ma, contemporaneamente,
hanno anche il compito di introduzione generale a tutta la se-
conda parte dell’Apocalisse.

Il grande dittico introduttivo


Questi due capitoli costituiscono un’unità letteraria omoge-
nea e ben costruita: sono un’autentica ouverture che annuncia
e prepara i temi principali del settenario dei sigilli e di tutta
l’opera. I motivi annunciati si presentano tutti come simboli e
tre sono quelli fondamentali: un trono, un libro e un agnello.
L ’immagine generale richiama una scena della corte celeste,
in cui il veggente viene accolto per essere spettatore di un fat-
to straordinario che dovrà, poi, comunicare ai suoi destina-
tari, secondo uno schema narrativo comune ai profeti e agli
apocalittici1. La descrizione dei vari elementi e lo svolgimento
dell’azione determina due scene distinte e collegate: una spe-
cie di dittico, due tavole accostate, in una delle quali domina
il trono, mentre nell’altra campeggia l’Agnello. Al centro com-
pare, come fondamentale motivo di raccordo, il libro. L ’unica
azione che caratterizza l’introduzione consiste nella consegna
di questo libro da colui che siede sul trono all’Agnello.

1
Cf. L.W. Hurtado, Revelation 4-5 in the Light of Jewish Apocalyptic Analo-
gies, «JSNT» 25 (1985), pp. 105-124.

132
Attraverso i vari elementi simbolici possiamo dire che la
prima tavola è dominata dal motivo teologico della creazio-
ne2; rende esplicita tale tematica il canto di lode che conclude
la presentazione: «Tu sei degno, o Signore e Dio nostro, | di
ricevere la gloria, l’onore e la potenza, | perché tu hai creato
tutte le cose: | per il tuo volere vennero all’esistenza e furono
create» (4,11). La seconda tavola, caratterizzata dall’Agnello,
celebra l’evento decisivo della redenzione; anche in questo ca-
so è un canto di lode, strutturalmente simile al precedente, a
rendere esplicito il motivo dominante: «Tu sei degno di pren-
dere il libro | e di aprirne i sigilli, | perché sei stato immolato | e
hai acquistato per Dio con il tuo sangue | uomini di ogni tribù,
lingua, popolo e nazione» (5,9). La cerniera è costituita dal li-
bro del mistero: inserito fra creazione e redenzione, compen-
dia tutto il piano divino della salvezza. Emerge chiaramente
una struttura compositiva che può essere così schematizzata:

prima tavola: il trono (4,2-11);


elemento di raccordo: il libro (5,1-5);0 il libro (5,1-5);
seconda tavola: l’agnello (5,6-14).

Dedicando, ora, più attenzione al c. 4, possiamo riconosce-


re che l’intera pericope si articola in tre momenti. Un’intro-
duzione narrativa presenta il movimento del veggente che è
invitato a salire in cielo e, attraverso una porta aperta, è ac-
colto nella corte celeste; la seconda parte, quella centrale e
principale, descrive la sala del trono e i personaggi che vi sono
presenti; mentre l’ultima parte comprende un quadro liturgi-
co di lode e adorazione rivolta a colui che siede sul trono3. La
struttura del capitolo è questa:
— introduzione nella corte celeste (4,1);
— descrizione della sala del trono (4,2-8a);
— liturgia di adorazione (4,8b-11).

Cf. U. Vanni, L ’opera creativa nell’Apocalisse, «RasT» 34 (1993), pp. 17-61.


2

L ’intero dittico introduttivo ha una struttura liturgica e i contatti con


3

l’ambiente cristiano in cui l’Apocalisse è nata sono indiscutibili. Cf. L. Mowry,


Revelation 4-5 and Early Christian Liturgical Usage, «JBL» 71 (1952), pp. 75-84;
A. Gangemi, La struttura liturgica dei capitoli 4 e 5 dell’Apocalisse di san Gio-
vanni, in «Ecclesia Orans» 4 (1987), pp. 301-358.

133
Una porta aperta nel cielo
Il primo versetto funge da cerniera fra la prima e la secon-
da parte dell’Apocalisse e svolge il ruolo di introduzione alla
nuova scena; per questo è solenne e ridondante: «Dopo queste
cose guardai ed ecco una porta aperta nel cielo e la voce di pri-
ma, che avevo udito parlare con me come una tromba, diceva:
“Sali quassù e ti mostrerò le cose che devono accadere dopo
queste cose”» (4,1).
Tutta la frase è segnata dall’inclusione della formula «Dopo
queste cose»: si tratta di un’espressione tecnica del linguaggio
apocalittico, usata per indicare cambiamenti di argomento,
ma senza un valore cronologico. Non segna quindi il passag-
gio alla previsione del futuro dopo aver parlato del presente;
funziona invece da indizio narrativo di passaggio a una nuova
sezione, come la ripetizione del verbo («guardai») e dell’avver-
bio («ecco»).
Come in tutta l’Apocalisse, l’autore intende presentare in
queste pagine la propria visione di Dio e la propria esperienza
di fede: il metodo che sceglie per trasmettere le sue convinzio-
ni è quello del genere letterario delle visioni. Non solo, però,
dice quello che egli ha visto, ma invita anche la comunità che
ascolta a condividere la sua stessa visione: in greco l’espres-
sione idoù, che traduciamo con «ecco», è collegata al verbo
«vedere» e, letteralmente, si potrebbe tradurre: io ho visto e
ora cerca di vedere anche tu!
Ciò che Giovanni vede è una porta e si trova nel cielo4. Tut-
ti i particolari, in questo tessuto simbolico, devono essere in-
terpretati. Come capita con le lingue straniere, il principiante
per capire deve tradurre mentalmente ogni parola nel proprio
vocabolario; poi, quando è più esperto del nuovo idioma, ca-
pisce al volo, senza più tradurre; così il lettore dell’Apocalisse,
dapprima è costretto a decodificare ogni simbolo, traducen-
dolo in concetti logici e teologici, ma poi, divenendo esperto
del linguaggio simbolico, comprende il messaggio e apprezza
l’insieme delle immagini, senza parafrasi e spiegazioni. Dun-
que: il cielo indica il mondo proprio di Dio e la porta è un ele-
mentare segno di collegamento, che può esprimere apertura
o chiusura. Giovanni vede una porta aperta, participio perfet-
to medio-passivo (eneoigméne), che in greco indica uno stato
permanente e definitivo. Questa porta, dunque, segno della
4
Cf. G. Rinaldi, La porta aperta nel cielo (Ap 4,1), in San Giovanni. Atti della
XVII Settimana biblica, Brescia 1962, pp. 331-344.

134
comunicazione fra Dio e l’uomo, è stata aperta nel passato e
continua a restare aperta nel presente: più avanti Giovanni
dirà addirittura di vedere l’intero cielo aperto (19,11), non più
soltanto una porta nel cielo.
A entrare attraverso quella porta Giovanni viene invitato
dalla stessa voce che aveva udito all’inizio (cf. 1,10), la voce
di tromba che lo aveva indotto a voltarsi, cioè a convertirsi,
in modo tale da riconoscere e incontrare il Cristo risorto. È
lui che ora lo invita a salire, a entrare in contatto personale
con Dio, così da poter ricevere la rivelazione. Come sempre
i simboli usati dall’Apocalisse si riallacciano idealmente alle
immagini tipiche dell’Antico Testamento: la tromba, infatti, e
l’invito a salire ricordano il prototipo della rivelazione biblica,
cioè la teofania del Sinai. Come Mosè, anche Giovanni ha la
possibilità di incontrare il Signore nella sua gloria.
Ciò che il Signore vuole mostrare è espresso con una for-
mula tecnica dell’apocalittica: «Ciò che deve avvenire» (hà
deî genésthai), espressione derivata dal libro di Daniele (cf.
Dn 2,28.29) che ritorna nei punti chiave dell’Apocalisse (1,1;
1,19; 4,1; 22,6): essa non intende indicare la serie dei fatti, ma
il senso degli eventi; non vuole, cioè, dire che la rivelazione
di Giovanni riguarderà la previsione degli eventi futuri, ma
piuttosto l’interpretazione del senso profondo che ha la storia
guidata da Dio. È determinante, infatti, l’uso del verbo «dove-
re» (deî), che torna frequentemente anche altrove nel Nuovo
Testamento, per indicare il piano di Dio che si compie.

La sala del trono


Per esprimere la dimensione spirituale della propria espe-
rienza, Giovanni ripete a questo punto la formula già usata in
1,10, per descrivere l’incontro con il Cristo risorto: egenómen
en pneumati, cioè «fui in Spirito». Non è corretto tradurre:
«Fui rapito in estasi», perché, mentre il termine estasi indi-
ca un’uscita da se stessi, l’autore vuole al contrario indicare
l’ingresso dentro una realtà. Questa particolare realtà è lo Spi-
rito Santo, donato da Gesù Cristo. L ’esperienza di Giovanni,
quindi, è la stessa della comunità liturgica che vive la presen-
za dello Spirito, ed essendo immersa nella sua luce può com-
prendere la propria storia. L ’esperienza spirituale del profeta,
trasmessa alla sua comunità e mediata dai simboli, equivale
all’incontro personale con Dio.

135
La scena centrale del capitolo è tutta dedicata alla descri-
zione della sala del trono che Giovanni è ammesso a contem-
plare. Tutti i particolari descritti sono connessi con il grande
simbolo del trono; in sintesi:
   v. 2 Ed ecco: un trono;
   v. 3 «Colui che siede sul trono»;
   v. 4 intorno al trono: ventiquattro troni e ventiquattro anziani;
   v. 5a dal trono: lampi, voci e tuoni;
   v. 5b davanti al trono: sette lampade;
   v. 6a davanti al trono: un mare trasparente;
vv. 6b-8 in mezzo al trono e intorno al trono: quattro esseri viventi.

Il trono appartiene al simbolismo antropologico e indica il


potere e l’esercizio di governo: tutta l’attenzione è attratta da
questo simbolo, strettamente connesso con Dio e capace di
evocarne il ruolo di Signore dell’universo, creatore e governa-
tore di tutto. «Subito fui in Spirito ed ecco: c’era un trono nel
cielo e sul trono uno stava seduto» (4,2). Il trono è presentato
come un dato di fatto (c’era), non come risultato di un’azione;
non viene detto, come in Daniele, che il trono «fu collocato».
Inoltre, il trono non è vacante: c’è chi governa. Ma il personag-
gio seduto non è descritto. La scena è costruita su alcuni mo-
delli dell’Antico Testamento, prendendo lo spunto soprattutto
dai racconti della vocazione di Isaia, che vide il Signore assiso
sul trono (Is 6), e di Ezechiele, che contemplò il carro della
gloria divina (Ez 1).
«Colui che è seduto: simile nell’aspetto a pietra di diaspro e
cornalina e un arcobaleno tutt’intorno al trono simile nell’a-
spetto a smeraldo» (4,3). Tutti capiscono che il misterioso per-
sonaggio seduto sul trono è Dio, ma non viene detto e il suo
aspetto non è presentato; solo viene evocata un’impressione
luminosa. Giovanni paragona l’aspetto di colui che siede sul
trono alla meraviglia di luce prodotta da molte pietre prezio-
se, dai riflessi di diverse tonalità: la cornalina è rossa, lo sme-
raldo verde, il diaspro ha mille rifrangenze colorate. Il tutto è
avvolto dallo splendore dell’arcobaleno, con sottile riferimen-
to al testo della Genesi che, dopo il diluvio universale, celebra
con questo simbolo la rinnovata pace fra Dio e il creato (cf.
Gen 9,12-17).
Il seguito della presentazione si sofferma sugli elementi che
fanno corona al trono e contribuiscono a chiarirne il valore
simbolico: i ventiquattro anziani e i quattro esseri viventi. I
due gruppi sono separati nella descrizione da tre brevi anno-

136
tazioni simboliche, che prendiamo in considerazione subito,
perché strettamente correlate alla simbologia del trono. Nel
loro insieme vogliono presentare la figura di Dio come colui
che entra in relazione con il mondo.
«Dal trono escono fulmini e voci e tuoni» (4,5a). Il primo
elemento simbolico è costituito da un gruppo di termini che
appartengono al tipico linguaggio della rivelazione e dell’in-
tervento storico di Dio: evocano, infatti, le teofanie veterote-
stamentarie caratterizzate da questi fenomeni. Espressioni
analoghe ritornano più volte nell’Apocalisse in momenti mol-
to significativi (cf. 8,5; 11,19; 16,18), per segnare l’importanza
della rivelazione. Il trono, dunque, non è isolato in sé: Dio en-
tra in contatto con la realtà e si rivela.
«Sette lampade di fuoco sono ardenti davanti al trono, che
sono i sette spiriti di Dio» (4,5b). Il secondo elemento è quel-
lo centrale e più importante: riprende un’ambigua espressio-
ne già usata all’inizio dell’opera (1,4). Gli studiosi discutono
se i «sette spiriti di Dio» siano degli angeli oppure lo Spirito
Santo e i loro pareri sono discordi. Personalmente preferisco
interpretare questo simbolo come riferito allo Spirito Santo
nella sua pienezza, evocata dal simbolico numero sette, carat-
terizzato dalla figura del fuoco che scalda, illumina, purifica e
consuma. Il contatto di Dio con il mondo, dunque, è operato
grazie al suo Spirito.
«Davanti al trono vi è come un mare trasparente simile a cri-
stallo» (4,6a). Il terzo elemento, infine, contiene una ricca al-
lusione di teologia simbolica: si tratta, infatti, di un’evocazio-
ne del mostro caotico primitivo e insieme dello storico Mare
Rosso. Il mare è un simbolo del male, dell’inconsistenza e del-
la negazione di vita; ma esso è dominato da Dio, al punto da
essere reso solido e trasformato in supporto del trono. Questo
piccolo frammento simbolico intende unire l’evento creatore
del «firmamento» (cf. Gen 1,6) con la vittoria storica di Dio
sul mare e la definitiva sconfitta del mare-male (cf. Ap 21,1).
Il trono di Dio, dunque, è segno e garanzia di trionfo sul caos.

I personaggi della corte celeste


L ’attenzione ora si sposta ad altre figure che sono presenti
intorno al trono divino: si tratta di due differenti gruppi, de-
signati come anziani e animali. «Intorno al trono: ventiquat-
tro troni e sui troni ventiquattro anziani seduti avvolti in vesti
bianche e sulle loro teste corone d’oro» (4,4).

137
I ventiquattro anziani
Lo stesso termine «trono», usato per designare i ventiquat-
tro seggi di questi personaggi, lascia intendere che essi parte-
cipano in qualche modo al potere e al governo esercitato da
colui che siede sul trono [cf. Riquadro a p. 142].
Inoltre, sono vestiti di bianco e hanno corone d’oro in testa.
Il vestito è sempre simbolo di relazione e il colore bianco è
strettamente legato al mistero della trascendenza e della vi-
ta di Dio: dunque costoro sono in stretta relazione con Dio
e partecipano alla sua stessa vita. La corona, infine, esprime
riconoscimento per un’impresa compiuta e l’oro è il classico
metallo legato alla divinità: si tratta quindi di personaggi au-
torevoli e storici, associati a Dio nel governo del mondo.
Problematica è l’interpretazione del numero ventiquat-
tro [cf. Riquadro a p. 142]. Vittorino di Pettau, il più antico
commentatore latino dell’Apocalisse, ha pensato agli autori
dell’Antico Testamento che, secondo la tradizione giudaica,
sono appunto ventiquattro5; altri hanno proposto un riferi-
mento alle ventiquattro classi sacerdotali del tempio (cf. 1Cr
24,7). Nonostante queste ultime indicazioni debbano essere
prese in seria considerazione, bisogna riconoscere che il ri-
ferimento preciso non ci è chiaro, come attestano le innume-
revoli interpretazioni proposte: è opportuno accettare questa
oscurità e non pretendere di spiegare assolutamente tutto6.
Senza impegnarsi in concrete identificazioni, possiamo
però discutere sui metodi seguiti per arrivare ai vari ricono-
scimenti. È innanzitutto da escludere, perché non conforme
all’intento generale dell’Apocalisse, l’interpretazione mitica o
astrale, che vuole riconoscere negli anziani degli esseri celesti:
personaggi mitologici, figure angeliche, costellazioni o segni
zodiacali. Anche un metodo interpretativo che cerchi di iden-
tificare con precisione degli esseri umani nei ventiquattro pre-
sbiteri è da superare, perché ridurrebbe l’Apocalisse a una se-
rie di indovinelli enigmistici, senza possibilità di verificare se
5
Nell’apocrifo libro 4Esdra vengono nominati novantaquattro libri scrit-
ti da Esdra: di questi settanta devono essere conservati in segreto per essere
consegnati ai sapienti del popolo, mentre gli altri ventiquattro possono essere
resi pubblici in modo che li legga sia chi è degno sia chi è indegno (14,44-46).
I settanta libri sono gli scritti apocalittici segreti, mentre i ventiquattro costi-
tuiscono il canone veterotestamentario.
6
Cf. A. Feuillet, Les vingt-quatre vieillards de l’Apocalypse, «RB» 65 (1958),
pp. 5-32.

138
la soluzione sia esatta: risulta, infatti, infondato e indimostra-
bile affermare che i ventiquattro sono dei personaggi dell’An-
tico Testamento o del Nuovo, poiché non è affatto possibile
riconoscerli e definirli. La via migliore è quella di considerare
queste figure come degli autentici simboli, ovvero schemi da
colmare: essi, infatti, non vogliono rinviare a delle persone
precise, ma evocare tutti gli uomini che collaborano al piano
di Dio e hanno un ruolo attivo nella storia della salvezza. Per
questo il numero che fa riferimento ai libri biblici7 o alle classi
sacerdotali8 potrebbe essere significativo: con tale espediente
numerico, infatti, l’autore potrebbe alludere al ruolo storico
che alcune persone umane hanno avuto nel trasmettere la ri-
velazione di Dio e nel collaborare al suo progetto. Con un con-
cetto moderno potremmo dire che sono il simbolo della «sto-
ria», in quanto collaboratori storici di Dio per la realizzazione
del suo piano salvifico.

I quattro esseri viventi


L ’altro gruppo che circonda il trono è costituito da perso-
naggi chiamati zóa, termine greco che si traduce in genere
con «animali»; ma, dato lo stretto rapporto linguistico con
zoé («vita»), è meglio tradurre con «esseri viventi». Il modello
ispiratore di queste figure è nella visione introduttiva del pro-
feta Ezechiele (Ez 1), ma Giovanni ha rielaborato liberamente
le immagini, creando una descrizione simbolica complessa e
discontinua: il lettore deve decodificare ogni simbolo prima
di procedere a quello successivo, senza creare un’unica figura
che assommi i particolari. L ’autore non mira a una descrizio-
ne complessiva, ma a una sottile evocazione concettuale. I sei
tratti descrittivi sono posti in modo concentrico:

A collocazione (in mezzo e intorno al trono);


B pieni di occhi (davanti e dietro);
C forme (leone, vitello, uomo, aquila: come in Ez 1,10);
C’ ali (sei: come i serafini di Is 6,2);
B’ pieni di occhi (intorno e dentro);
A’ azione (cantano il «Trisagio»).

7
P. Prigent, L ’Apocalisse di S. Giovanni, Roma 1985, p. 167.
8
E. Lupieri, L ’Apocalisse di Giovanni, Milano 1999, p. 140.

139
Tutta la descrizione è racchiusa dai particolari che precisa-
no la loro collocazione: «In mezzo al trono e intorno al trono
ci sono quattro esseri viventi» (4,6b); e la loro azione: «Giorno
e notte non cessano di ripetere: “Santo, santo, santo | il Si-
gnore Dio, l’Onnipotente, | Colui che era, che è e che viene!”»
(4,8c).
In base ai valori simbolici risulta che sono al centro dell’a-
zione di Dio e riconoscono con la lode la trascendenza di Dio,
cantato come il Tre volte Santo, ma celebrano anche il suo in-
tervento storico, lodandolo come «Colui che viene». L ’elemen-
to strutturante è dato dall’insistenza sugli occhi; per due volte,
infatti, si afferma la grande quantità di occhi che li caratteriz-
za: «Pieni d’occhi davanti e dietro» (4,6c); «intorno e dentro
sono pieni di occhi» (4,8b). È l’autore stesso dell’Apocalisse
che ci aiuta in questo caso, perché in 5,6 spiega il senso degli
occhi dell’Agnello: «Sono i sette spiriti di Dio mandati su tutta
la terra». Dunque, i quattro esseri viventi sono presentati co-
me totalmente segnati dallo Spirito di Dio.
Al centro della descrizione, infine, Giovanni riprende gli
stessi particolari desunti da Ezechiele e Isaia, riguardo alla
quadruplice forma: «Il primo vivente è simile a un leone, il
secondo vivente è simile a un vitello, il terzo vivente ha l’aspet-
to d’uomo, il quarto vivente è simile a un’aquila mentre vola»
(4,7); e alle ali: «I quattro esseri viventi hanno ciascuno sei ali»
(4,8a). Non essendo creazioni originali dell’autore, non rive-
stono grande rilievo simbolico: semplicemente viene eviden-
ziato come, pur avendo le forme tipiche del mondo terreno
e umano, sono anche dotati di ali che caratterizzano invece
il cielo, che è il mondo di Dio. Il numero quattro, infine, è un
simbolo noto e chiaro: è la cifra, infatti, che designa la tota-
lità spaziale e rimanda, quindi, a una dimensione cosmico-
geografica.
Anche in questo caso l’identificazione non è facile e le
opinioni sono state e sono diversissime. La spiegazione più
semplice vi riconosce degli esseri angelici, che corrisponde-
rebbero ai cherubini di Ezechiele oppure ai serafini di Isa-
ia. Sant’Ireneo vi ha voluto riconoscere i simboli dei quattro
evangelisti e tale spiegazione è stata favorevolmente accolta
dalla tradizione che, soprattutto nelle arti figurative, ne ha fat-
to un motivo indiscusso: eppure non può affatto essere questo
il senso inteso dall’autore. In parallelo alla spiegazione data
per gli anziani, dal momento che questo gruppo è presentato

140
in modo strettamente affine all’altro, possiamo dire che sono
anch’essi autentici simboli ovvero puri schemi da riempire.
Sono i rappresentanti della creazione e del dinamismo cosmi-
co, simboleggiando l’universo creato e retto da Dio nella sua
molteplice varietà e nella sua diversità rispetto all’uomo. Uti-
lizzando anche in questo caso un concetto moderno, potrem-
mo dire che sono il simbolo della «natura», in quanto creature
che partecipano al grande progetto divino.

L ’annuncio della grande sinfonia


L ’azione dei quattro esseri viventi consiste nel canto: que-
sto particolare serve come passaggio all’ultima parte del capi-
tolo e funziona da elemento di aggancio. L ’adorazione di Dio,
infatti, chiude la prima tavola ed è espressa con due testi di
preghiere cantate, in mezzo alle quali è inserita un’importante
nota esplicativa. Schematicamente questo è il contenuto:

v. 8c canto al Dio «Tre volte Santo» (quattro esseri viventi);


vv. 9-10   annuncio dell’adorazione a Colui che siede sul trono;
v. 11 canto al Dio «creatore» (ventiquattro anziani).

La prima tavola del dittico termina senza azione; il quadro


descrittivo si conclude con un’anticipazione di ciò che verrà
descritto alla fine della seconda tavola. I vv. 9-10, infatti, non
descrivono ciò che avviene, ma indicano ciò che avverrà; han-
no infatti i verbi al futuro e non è corretto tradurli con for-
me verbali al presente o al passato. Non conviene tradurre:
«Ogni volta che davano gloria [...] gli anziani si prostravano e
adoravano...»; una versione fedele al testo originale potrebbe
suonare così: «E quando gli esseri viventi renderanno (dósou-
sin) gloria, onore e grazie a colui che siede sul trono e vive
nei secoli dei secoli, i ventiquattro anziani si prostreranno (pe-
soûntai) davanti a colui che siede sul trono e adoreranno (pro-
skynésousin) colui che vive nei secoli dei secoli e getteranno
(baloûsin) le loro corone davanti al trono» (4,9-10).
Queste indicazioni preparano la grandiosa scena seguen-
te: gli anziani e gli esseri viventi, ovvero la storia e la natura,
daranno gloria, si prostreranno, adoreranno e getteranno le
loro corone davanti al trono. Quando? Bisogna ascoltare il se-
guito. L ’espediente letterario mira a creare tensione e attesa:

141
la seconda tavola del dittico con al centro l’Agnello sarà quella
decisiva e offrirà la risposta. Infatti in 5,8-14 si compirà quel
che qui è stato anticipato9.
Il capitolo si chiude con una nota lirica e il canto finale,
anticipando la forma di 5,9, esplicita il tema di tutta questa
pagina introduttiva: «Tu sei degno, o Signore e Dio nostro, | di
ricevere la gloria, l’onore e la potenza, | perché tu hai creato
(éktisas) tutte le cose | e per il tuo volere vennero all’esistenza
(êsan) e furono create (ektísthesan)» (4,11).
La creazione è, dunque, il tema dominante: ma l’opera del
Dio creatore tende alla salvezza, anela al compimento della
redenzione, desidera l’intervento del Dio salvatore. Solo allora
l’universo potrà lodare in pienezza il suo Signore: sarà questo,
infatti, il tema della seconda tavola.

I ventiquattro anziani
I 24 personaggi seduti intorno al trono di Dio sono chiama-
ti presbyteroi, cioè «anziani»: così erano chiamati i capi delle
tribù di Israele e così vengono designati i ministri delle Chiese
cristiane (i preti). Il senso del numero 24 non è chiaro, giac-
ché non è un simbolo comune nell’apocalittica; se si sdoppia in
12 + 12, può evocare le tribù d’Israele e gli apostoli; nell’insieme,
invece, può richiamare i libri dell’Antico Testamento, che erano
appunto 24 secondo la tradizione giudaica, oppure le 24 classi
sacerdotali del tempio. Moltissime sono state le identificazioni
di questi personaggi, ma possono sinteticamente ridursi a tre:
a) sono esseri celesti: angeli o stelle;
b) sono uomini glorificati: 24 personaggi dell’Antico Testamento;
oppure 24 personaggi del Nuovo Testamento; oppure i 12 pa-
triarchi (Antico Testamento) e i 12 apostoli (Nuovo Testamen-
to);
c) sono autentici simboli, ovvero schemi da colmare: non voglio-
no rinviare a delle persone precise, ma evocare tutti gli uo-
mini che collaborano al piano di Dio e hanno un ruolo attivo
nella storia della salvezza.
Essi compaiono più volte nell’Apocalisse, in genere con la
funzione di lodare e adorare il Signore onnipotente e la sua ope-
ra di salvezza (Ap 4,10; 5,8.14; 7,11; 11,16; 19,4). Con concetto
moderno potremmo dire che sono il simbolo della «storia».

9
E. Corsini, Apocalisse prima e dopo, Torino 1980, p. 192.

142
I quattro esseri viventi
L ’altro gruppo che circonda il trono è costituito da 4 zoa, cioè
«animali» o «esseri viventi». Il modello ispiratore di queste figu-
re è nella visione inaugurale di Ezechiele che descrive il «carro
divino» sorretto da queste strane figure fantastiche: «Quanto al-
le loro fattezze, ognuno dei quattro aveva fattezze d’uomo; poi
fattezze di leone a destra, fattezze di toro a sinistra e, ognuno
dei quattro, fattezze d’aquila» (Ez 1,10). Giovanni ha rielaborato
liberamente le immagini, fondendole con la figura dei serafini,
che ha desunto dalla visione della vocazione di Isaia: «Attorno
a lui stavano dei serafini, ognuno aveva sei ali... proclamavano
l’uno all’altro: Santo, santo, santo è il Signore degli eserciti» (Is
6,2-3). Sono presentati al centro dell’azione di Dio e riconosco-
no con la lode la trascendenza di Dio e il suo intervento storico;
sono totalmente segnati dallo Spirito di Dio, simboleggiato da-
gli occhi. Le loro forme sono tipiche e indicano l’eccellenza nel
mondo terreno: il leone re degli animali selvatici, il toro simbolo
della forza fra gli animali domestici, l’aquila che emerge fra gli
uccelli e l’uomo vertice e signore di tutto il cosmo. Eppure que-
sti simboli terreni sono anche dotati di ali che caratterizzano in-
vece il cielo, mondo di Dio. Il numero quattro, infine, è il tipico
simbolo cosmico-geografico. Anche in questo caso l’identifica-
zione non è facile e le opinioni sono state e sono diversissime. Si
possono così riassumere:
a) sono esseri angelici: ripropongono in una fusione nuova i che-
rubini di Ezechiele o i serafini di Isaia;
b) sono i simboli degli Evangelisti (opinione di sant’Ireneo);
c) sono autentici simboli o schemi da riempire: rappresentanti
della creazione, del dinamismo cosmico, dell’universo creato
e retto da Dio nella sua molteplice varietà e nella sua diversità
rispetto all’uomo.
Utilizzando un altro concetto moderno potremmo dire che
sono il simbolo della «natura».

143
Claudio Doglio
________

Il libro e l’Agnello
(Ap 5)

La seconda tavola del dittico introduttivo (Ap 4-5) è in stret-


ta relazione con la prima e ne segna il compimento: all’attesa
generata nel c. 4 fa seguito la narrazione teologica del c. 5; alla
descrizione del Dio creatore e provvidente si aggiunge ora il
racconto della dinamica storica di redenzione e salvezza. Il
secondo grande quadro è incentrato sul simbolo dell’Agnello;
ma, prima di giungere a questo incontriamo un altro motivo
di raccordo, il simbolo del libro. L ’intero capitolo si può, così,
strutturare in tre momenti principali:
— il libro che nessuno può aprire (5,1-5)
— l’investitura dell’Agnello (5,6-7)
— l’adorazione di Dio e dell’Agnello (5,8-14)

Il libro del mistero


Ci troviamo di fronte a una narrazione drammatica con
personaggi, discorsi, problemi e soluzioni, eventi decisivi e
rea­zioni. L ’unità di raccordo, incentrata sul libro, ha una di-
namica narrativa che può essere così schematizzata:

v. 1 l’oggetto della visione: un libro;


v. 2 il problema;
vv. 3-4 l’impossibilità di risolvere il problema;
v. 5 l’annuncio della soluzione.

Anzitutto è presentato e descritto l’oggetto simbolico che


determina tutta la dinamica seguente.
E vidi nella mano destra di Colui che sedeva sul trono un libro,
scritto sul lato interno e su quello esterno, completamente sigil-
lato con sette sigilli (5,1).

144
Come sempre nell’Apocalisse, ogni elemento ha un suo va-
lore simbolico. Il libro (biblíon), secondo l’uso dell’antichità,
ha la forma di un rotolo e, quindi, visivamente può sembrare
anche uno scettro: tale sembra, infatti, la sua funzione. Si tro-
va nella mano destra di colui che siede sul trono: è legato al
governo del mondo e ha un valore positivo; inoltre, è scritto
all’interno e sul retro: si presenta come completo, non essen-
doci posto per aggiungere altro1; infine si dice che è sigillato
in modo assoluto. In greco viene usato un participio perfet-
to medio-passivo (katesphragisménon), che indica uno stato
permanente e definitivo, prodotto da qualche agente; inoltre
il valore simbolico del sette orienta a considerare una totalità.
Il sigillo, tuttavia, non aveva solo la funzione di chiudere un
documento, ma soprattutto serviva per identificare l’autore o
il proprietario di un oggetto importante. Questo rotolo dun-
que appartiene pienamente a Dio: è totalmente suo. Perciò è
nascosto e irraggiungibile.
Che cosa rappresenta questo libro? Come sempre, le rispo-
ste sono molte e varie2. Numerosi Padri della Chiesa – come
Ilario, Ambrogio, Agostino e il venerabile Beda – vi hanno vi-
sto il simbolo della Bibbia: esso rappresenterebbe, dunque,
l’intera rivelazione divina contenuta nella Scrittura; altri au-
tori – come Ippolito, Origene e Vittorino – preferiscono re-
stringere il riferimento al solo Antico Testamento, mettendo
in luce il fatto che gli antichi testi scritturistici devono essere
interpretati dall’Agnello per divenire comprensibili e accetta-
bili. Non mancano, da parte di studiosi moderni, altre propo-
ste di identificazione, alcune addirittura fantasiose: si potreb-
be trattare del «libro del destino», simile alle tavolette celesti
della tradizione apocalittica, contenente il piano prestabilito
delle vicende umane e cosmiche; oppure del «libro della vita»
con i nomi dei santi a cui farebbe riferimento Ap 20,12; per
altri autori si tratterebbe della notificazione di un debito, un
documento cioè che conterrebbe l’elenco dei peccati per cui
l’Agnello compie l’espiazione; oppure si potrebbe identificare
1
Un rotolo del genere nell’antichità si chiamava opistografo, perché scritto
eccezionalmente anche sul retro. Oppure si tratterebbe di un documento dop-
pio: un rotolo, scritto all’interno, è sigillato e avvolto da un foglio, che contiene
il riassunto leggibile del documento riservato. Cf. E. Lohse, L ’Apocalisse di
Giovanni, Brescia 1974, pp. 77-78.
2
Cf. R. Bergmeier, Die Buchrolle und das Lamm (Apk 5 und 10), «ZNW» 76
(1985), pp. 225-242.

145
con il libello di ripudio con cui il Cristo divorzierebbe dall’in-
fedele Sinagoga per sposarsi con la nuova Gerusalemme. Un
altro filone interpretativo ritiene, invece, che il rotolo del c. 5
sia in stretto rapporto con il resto del libro: esso conterreb-
be l’annuncio delle catastrofi escatologiche, oppure sarebbe
un libro nel libro e la sua apertura, permettendone la lettura,
comprenderebbe le scene presentate nel resto dell’Apocalisse.
Forse l’interpretazione migliore è quella più ampia, che si
astiene dall’identificarlo con precisione e conserva all’immagi-
ne un più profondo significato simbolico: il libro segreto con-
tiene il piano di Dio, è il suo progetto sulla storia dell’uomo, la
risposta ai grandi «perché» dell’umanità, pienamente rivelato
e realizzato da Gesù Cristo.

Un solenne annuncio pasquale


A questo punto, terminata la descrizione statica di tutti gli
elementi necessari, si passa all’azione. Con l’espediente lette-
rario dell’angelo interprete che rivolge una solenne domanda,
viene posta in rilievo l’assoluta inconoscibilità del piano divino.
E vidi un angelo forte che annunciava con voce grande: «Chi è
degno di aprire il libro e sciogliere i suoi sigilli?» (5,2).

Gli aggettivi «forte» e «grande» nell’Apocalisse non hanno


un valore fisico, ma servono per caratterizzare alcune realtà
come straordinarie e sovrumane. Il problema è proposto; ora
la notazione seguente evidenzia l’impossibilità umana di ri-
solverlo.
E nessuno né in cielo, né in terra, né sotto terra poté aprire il
libro e leggerlo. Io piangevo molto, perché nessuno fu trovato
degno di aprire il libro e di leggerlo (5,3-4).

Nessuno, né angeli, né uomini, né morti, può penetrare il


mistero di Dio: le creature non hanno la capacità di risolvere
le gravi questioni dell’esistenza. Il verbo «potere» ha particola-
re rilievo nella teologia giovannea e qui emerge chiaramente:
da una parte sottolinea che l’umanità è in una situazione di
impotenza in quanto radicalmente corrotta; dall’altra si dirà
che il Cristo «può», egli solo ha il potere di salvare l’umanità.
Questa è un’idea cardine nel pensiero apocalittico, e l’apoca-
littico Giovanni intende dire proprio questo: la sua reazione,
infatti, riassume simbolicamente lo stato dell’umanità di fron-

146
te al mistero insondabile e il grande pianto è simbolo dell’an-
goscia e della sofferenza di ogni uomo che non sa spiegarsi il
senso della vita. L ’unica risposta possibile è il Cristo morto e
risorto.
Allora uno degli anziani mi dice: «Non continuare a piangere;
ecco: ha vinto il leone della tribù di Giuda, il Germoglio di Davi-
de, in modo da aprire il libro e i suoi sette sigilli» (5,5).

Uno dei rappresentanti gloriosi della storia proclama un


solenne annuncio pasquale: il Messia ha vinto! Il Cristo viene
caratterizzato con due figure dell’Antico Testamento: è il forte
discendente della tribù di Giuda (cf. Gen 49,9-10), simile a un
leone che sbrana la preda e distrugge tutti gli avversari; ed è
anche il Germoglio della radice di Iesse (cf. Is 11,1), il discen-
dente di Davide che ha superato tutti gli ostacoli storici e ha
mostrato la fedeltà di Dio alle sue promesse. L ’annuncio che
il Cristo ha ottenuto la vittoria significa che egli è in grado di
rivelare il piano di Dio. In che cosa consista questa vittoria
non è detto. Con fine abilità l’autore prepara il grande colpo
di scena.

L ’Agnello
È stato annunciato un leone e compare un agnello; è stata
evocata la figura di un leone che vince sbranando e viene inve-
ce descritto un agnello sbranato. Lo stridente contrasto fra le
due immagini suggerisce il contrasto fra il modello di messia
militare atteso dal giudaismo del primo secolo e la realtà uma-
na di Gesù, caratterizzata come mite e sofferente.
E vidi in mezzo al trono e ai quattro esseri viventi e agli anziani
un Agnello, ritto in piedi come immolato, con sette corna e sette
occhi, che sono i sette spiriti di Dio mandati su tutta la terra (5,6).

L ’Agnello si trova «in mezzo al trono»: è questo un chiaro


particolare simbolico, non descrittivo; non dice, infatti, una si-
tuazione spaziale, ma una posizione di valore. Nel cuore dell’a-
zione di Dio c’è l’Agnello: da sempre egli condivide il trono con
Dio. Chi sia non viene detto, ma la comunità cristiana, già for-
mata, comprende immediatamente il simbolo di Gesù Cristo.
Con simbolismo discontinuo l’Agnello viene descritto: non
si tratta di disegnare una figura, che risulterebbe mostruosa,
ma di comprendere un messaggio teologico, decodificando il

147
significato simbolico di tutti i vari particolari. Il fatto di essere
in piedi lo caratterizza come vivo, eppure viene aggiunto che
è sgozzato. Il collegamento fra i due elementi è volutamente
provocatorio: è in piedi in quanto sgozzato! Fuori simbolo,
l’autore intende presentare Gesù Cristo nella sua dimensione
pasquale: è il Vivente proprio perché è stato ucciso. La teologia
del capovolgimento trova qui un’altra importante affermazio-
ne: Cristo ha vinto ma non come leone, bensì come agnello; ed
è vivo, non perché ha evitato la morte, ma perché l’ha accettata.
Gli altri due elementi descrittivi caratterizzano l’Agnello
con il segno della totalità: il numero sette, infatti, non è cifra
di perfezione, ma indizio di pienezza e corrisponde a una indi-
cazione di qualità, non di quantità. Il corno è termine comune
nel linguaggio biblico per designare la forza e la potenza: set-
te, per dire che ha ottenuto il potere universale. Inoltre ha set-
te occhi: se lo si disegna così, l’effetto è disgustoso! Ma non de-
ve essere raffigurato, bensì capito. Per evitare fraintendimenti
l’autore aggiunge l’interpretazione, spiegando che gli occhi
sono «i sette spiriti di Dio mandati su tutta la terra»; dunque,
l’Agnello è il datore dello Spirito divino nella sua pienezza3.
La figura dell’Agnello è al centro dell’Apocalisse e rappre-
senta il cuore della teologia cristiana, proprio perché è il ri-
chiamo simbolico al mistero pasquale di morte e risurrezione
e, quindi, al grande evento della redenzione. La comunità li-
turgica cristiana, mentre celebra la domenica «giorno del Si-
gnore», contempla al centro del mistero di Dio il Cristo risor-
to, colui che ha vinto morendo e rivela e comunica a tutta la
terra la vita di Dio, cioè il suo Spirito4.
L ’origine di questa immagine è senza dubbio nell’Antico
Testamento. In alcuni testi della tradizione giudaica l’agnello
compare come simbolo del capo e del comandante, talvolta
anche immagine del futuro Messia5; ma, anche se l’Apocalisse
3
«Le sette corna e i sette occhi rappresenterebbero allora le due fasi della
totalità dell’intervento spirituale nella storia della salvezza, l’antica e la nuova
alleanza» (E. Lupieri, L ’Apocalisse di Giovanni, Milano 1999, p. 146).
4
«Il «contatto» col Cristo vivente, morto e risorto [...] è anche punto di rife-
rimento, con tutta probabilità, degli inni cristologici che troviamo nel Nuovo
Testamento» (U. Vanni, L ’Apocalisse: ermeneutica, esegesi, teologia, Bologna
1988, pp. 183-184).
5
Nella cosiddetta Apocalisse degli Animali, presente nel libro apocrifo
chiamato 1Enoc (cc. 85-90), l’agnello compare con una connotazione regale e
messianica; nel Targum Pseudo-Jonathan a Es 1,15 Mosè è sognato dal faraone
come un agnello che distrugge l’Egitto.

148
stessa presenta l’Agnello come «pastore» (7,17), «guida» (14,1-
5) e «combattente» (17,14), non sembra questo il significato
principale da attribuire a tale simbolo. È decisamente più
importante il riferimento sacrificale. Infatti, nella tradizione
liturgica di Israele un agnello veniva sacrificato in diverse cir-
costanze: nel rituale quotidiano chiamato tamid, nelle offerte
per il perdono dei peccati, negli olocausti di consacrazione.
Ma l’elemento più caratteristico è l’agnello pasquale, che non
aveva un valore di espiazione, ma era il memoriale dell’uscita
dall’Egitto (cf. Es 12,1-27). Era comune nella prassi cristia-
na identificare il Cristo con l’agnello pasquale; come dimostra
san Paolo: «Cristo nostra Pasqua è stato immolato» (1Cor 5,7).
Nella morte in croce di Gesù, infatti, è stato visto il compi-
mento dell’antica figura ed egli è inteso come il vero agnello,
che determina l’esodo autentico, cioè il passaggio da questo
mondo al Padre.
Già i profeti avevano notato un legame fra l’agnello e la
condizione di alcune persone particolari. Geremia lo dice di
se stesso: «Ero come agnello mansueto condotto al macello»
(Ger 11,19); ma soprattutto il Servo di Dio viene presentato
in questo modo: «Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la
sua bocca; era come agnello condotto al macello, come pecora
muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca» (Is 53,
7). La figura del Servo sofferente che libera dai peccati con la
sua morte, può essere stata determinante nell’attribuire a Ge-
sù Cristo il titolo di Agnello6 e un particolare linguistico deve
aver giocato un ruolo di rilievo: in aramaico, infatti, il vocabo-
lo talya’ può significare sia «agnello» che «servo».
All’interno della teologia giovannea questa immagine assu-
me un pregnante significato cristologico. Il Quarto Vangelo,
infatti, si apre con la presentazione di Gesù fatta da Giovanni
Battista in questi termini: «Ecco l’Agnello di Dio che toglie il
peccato del mondo» (Gv 1,29.36); e culmina con la correla-
zione fra la situazione del Crocifisso e l’agnello pasquale al
quale non veniva spezzato alcun osso (Gv 19,36). Anche se nel
Vangelo si usa il termine amnós e nell’Apocalisse il termine
arníon, il loro significato è analogo e il valore teologico sem-
6
Proprio questo passo di Isaia viene commentato da Filippo all’Etiope per
presentare il ruolo messianico di Gesù (At 8,32-33). Anche l’antica catechesi
battesimale della Prima lettera di Pietro contiene questo riferimento (1Pt 1,18-
19). Particolare interessante è che anche nell’Apocalisse l’Agnello «non apre
bocca», nel senso che non dice mai nulla.

149
bra decisamente comune. L ’espressione giovannea «Agnello
di Dio» mette in stretta relazione i due termini, esattamente
come «Servo di Dio»: attraverso l’uso metaforico del vocabolo
e il riferimento al sacrificio vicario del Servo, l’agnello pasqua-
le ha assunto una nota di espiazione. Però, solo l’esperienza
storica della morte di Gesù e la comprensione post-pasquale
del suo significato salvifico hanno portato la comunità cristia-
na a riconoscere nel Cristo l’autentico agnello pasquale.

L ’investitura dell’Agnello
Alla presentazione dell’Agnello segue una sua azione:
E l’Agnello giunse e ha preso dalla destra di Colui che sedeva
sul trono (5,7).

Due verbi descrivono, in estrema sintesi, le azioni dell’A-


gnello. Innanzitutto si dice che «venne», verbo usato all’aori-
sto (êlthen), che in greco esprime un fatto avvenuto nel passa-
to e concluso. Ma prima era stato detto che l’Agnello si trovava
in mezzo al trono: in che senso, dunque, venne, se già c’era?
Ancora una volta non si tratta di un particolare visivo o de-
scrittivo, ma teologico: alla visione a-temporale dell’Agnello
che da sempre è in comunione con Dio, succede una consi-
derazione sulla dinamica storica della redenzione. È così pre-
sentato il mistero pasquale del Figlio che «va» al Padre (cf. Gv
13,1; 20,17). In una semplice forma verbale Giovanni racchiu-
de l’evento pasquale, che altre tradizioni neotestamentarie de-
scrivono come «salita al cielo».
Il secondo verbo («ha preso», eílephen) è formulato invece
al perfetto, che esprime una situazione iniziata nel passato,
ma permanente nel presente; l’autore forza provocatoriamen-
te la grammatica e la sintassi (fatto spesso non recepito dai
traduttori) per sottolineare qualche aspetto che ritiene impor-
tante. La conseguenza della venuta dell’Agnello è la sua parte-
cipazione alla vita e al potere di Dio: in greco, infatti, manca
l’indicazione dell’oggetto che viene preso e il verbo è in forma
assoluta. L ’insieme della narrazione lascia capire che ha preso
il libro, ma Giovanni sembra voler dire di più: come nel Van-
gelo di Giovanni si dice che lo Spirito «prenderà quel che è di
Gesù e lo comunicherà» (Gv 16,14), così qui si afferma che il
Cristo risorto ha preso dal Padre e condivide in modo stabile e
permanente con lui la signoria cosmica.

150
In tal modo si può comprendere il significato globale del-
la scena rappresentata in Ap 5. Non si tratta di una vera e
propria intronizzazione; non si dice che siede sul trono, come
recita l’antica formula: «Sedette alla destra del Padre» (cf. Mc
16,19). Neppure si può ridurre il senso della scena all’affida-
mento di un incarico, come avviene nel racconto della voca-
zione di Isaia (cf. Is 6,8) e nella visione narrata dal profeta Mi-
chea ben Imla (cf. 1Re 22,20). La scena può essere connotata
come «l’investitura dell’Agnello»7. Egli «ha preso» il segno del
potere, lo scettro della rivelazione, e tutto l’universo riconosce
che è degno di «prenderlo». Il linguaggio dell’intera scena è
derivato, molto probabilmente, dal libro di Daniele, quando
narra l’investitura del Figlio dell’uomo: «Giunse fino all’Antico
di giorni e fu presentato a lui, che gli diede potere, gloria e re-
gno; tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano; il suo potere
è un potere eterno, che non tramonta mai, e il suo regno è tale
che non sarà mai distrutto» (Dn 7,13-14). La novità dell’Apo-
calisse è di aver fondato tale investitura sulla morte sacrificale
del Cristo.

La sinfonia cosmica
L ’ultima parte del capitolo è caratterizzata da una grande
azione liturgica, ritmata con tre testi di inni e siglata alla fine
dall’Amen: brevi notazioni descrittive incorniciano in modo
armonioso i canti, per evidenziare la dimensione cosmica e
creare un tono di grandiosa solennità. In sintesi:

v. 8 i quattro viventi e i ventiquattro anziani adorano l’Agnello:


vv. 9-10 (1) canto nuovo all’Agnello redentore;
v. 11 voce di molti angeli:
v. 12 (2) canto all’Agnello immolato;
v. 13a coro di tutte le creature:
v. 13b (3) canto a Colui che siede sul trono e all’Agnello;
v. 14 i quattro viventi e i ventiquattro anziani adorano l’Agnello.

Il significato di quello che è stato descritto in 4,10 viene ora


esplicitato dal commento lirico:
7
Cf. R.D. Davis, The Heavenly Court Judgment of Revelation 4-5, Lanham-
New York-London 1992; J.D. Charles, An Apocalyptic Tribute to the Lamb (Rev
5:1-14), «JETS» 34 (1991), pp. 461-473.

151
Quando ebbe preso il libro, i quattro esseri viventi e i ventiquat-
tro anziani si prostrarono davanti all’Agnello, avendo ciascuno
una cetra e coppe d’oro piene di profumi, che sono le preghiere
dei santi (5,8).

Nel momento in cui l’Agnello «ha preso» il potere, scop-


pia l’adorazione e il canto per riconoscere la glorificazione del
Crocifisso e gli effetti del suo mistero di morte e risurrezione:
la natura e la storia si prostrano davanti al Cristo risorto coi
simboli della preghiera.
Tutta questa sinfonia cosmica è qualificata come «can-
to nuovo» (odè kainé). L ’espressione risale ai teologi dell’e-
silio, soprattutto al Secondo Isaia, che la impiegarono nella
celebrazione del nuovo esodo da Babilonia (cf. Is 42,10; Sal
96,1; 98,1), per caratterizzare questo fatto di attualità rispetto
all’antico canto che accompagnava l’uscita dall’Egitto. Ora il
canto è veramente nuovo, come è nuova l’alleanza stipulata
(Eb 8,13), nuovo l’uomo redento (2Cor 5,17), nuovi i cieli e
la terra (Ap 21,1), nuova la Gerusalemme che viene da Dio
(Ap 21,2); il canto nuovo, dunque, celebra il decisivo esodo
di liberazione dell’umanità intera e il cantico pasquale della
comunità cristiana.
All’anticipazione di 4,11 fa ora eco il canto di 5,9 che con-
nette strettamente il tema della creazione con quello della sal-
vezza:
Tu sei degno di prendere il libro | e di aprirne i sigilli, | perché
sei stato immolato | e hai acquistato per Dio, con il tuo sangue,
| uomini di ogni tribù, lingua, popolo e nazione | e li hai costitu-
iti, per il nostro Dio, | un regno e sacerdoti | e regneranno sulla
terra (5,9-10).

Di fronte all’umanità incapace e impotente si presenta il


Cristo glorioso, il solo che può aprire il libro del mistero. L ’ag-
gettivo «degno» (áxios) non ha valore morale, ma piuttosto
esprime capacità e potere; dicendo «tu sei degno» si riconosce
a lui solo la possibilità di fare ciò che nessun altro è stato in
grado di compiere. Il fondamento di tale potere sta nell’immo-
lazione: proprio perché è stato ucciso, l’Agnello ha vinto e può
rivelare il senso della storia e della vita di ogni persona8.

8
Cf. W.C. van Unnik, «Worthy is the Lamb». The Background of Apoc 5, in
A. Descamps - A. de Halleux (edd.), Mélanges bibliques en hommage au R. P. B.
Rigaux, Louvain 1970, pp. 445-461.

152
La sua «capacità», inoltre, viene offerta a tutti gli uomini
senza distinzione: con quattro tipici elementi (tribù, lingua,
popolo, nazione) è designata l’umanità intera, che la morte
dell’Agnello ha redento e riscattato (cf. 1Cor 6,20; 7,23). In tal
modo essa è abilitata a collaborare all’instaurazione del regno
con una mediazione tipicamente sacerdotale: la qualifica di
«popolo sacerdotale», attribuita a Israele al Sinai (cf. Es 19,6),
viene ora estesa all’umanità intera, grazie all’esodo pasquale
del Cristo risorto9.
Il canto liturgico che celebra la redenzione, a partire da co-
loro che stanno intorno al trono, si espande per tutto l’uni-
verso e un numero sterminato di angeli (5,11) partecipa alla
celebrazione di colui che ha redento l’umanità:
L ’Agnello, che fu immolato, | è degno di prendere potenza e ric-
chezza, | sapienza e forza, | onore, gloria e benedizione (5,12).

Questa formula ha il compito di ribadire le espressioni


cardine del capitolo: l’Agnello è celebrato in quanto «immola-
to», è ufficialmente riconosciuto «degno» e al decisivo verbo
«prendere» vengono uniti sette oggetti, che riassumono le sue
qualità di Signore.
La sinfonia si estende ancora e raggiunge dimensioni co-
smiche: tutte le creature di Dio, infatti, ovunque si trovino,
uniscono la loro voce all’immenso coro, unendo in un’unica
lode il Signore Dio e Gesù Cristo:
A Colui che siede sul trono e all’Agnello | benedizione, onore,
gloria e potenza, | nei secoli dei secoli (5,13).

Partito dall’alto, dopo aver raggiunto le profondità della


terra e del mare, il canto ritorna in alto e si conclude con l’«A-
men» solenne degli esseri viventi e l’adorazione degli anziani
(5,14). La grande sinfonia di apertura si conclude con un si-
lenzio stupito e contento: la lode di Dio creatore e salvatore
sfocia nella contemplazione.

9
Una tematica analoga si incontra anche in 1Pt 2,5-9. Cf. E. Schüssler
Fiorenza, Redemption as Liberation: Apoc. 1:5f. and 5:9f., «CBQ» 36 (1974),
pp. 220-232; U. Vanni, La promozione del regno come responsabilità sacerdotale
dei cristiani secondo l’Apocalisse e la Prima lettera di Pietro, «Greg» 68 (1987),
pp. 9-56.

153
Giancarlo Biguzzi
________

Il rotolo sigillato
e l’Agnello rivelatore
(Ap 6,1-8,1)

Sulla pietra di volta nei portali o nell’arco absidale di molte


chiese soprattutto romaniche, sulla copertina gemmata di an-
tichi lezionari o sugli amboni di ogni epoca, spesso campeggia
la figura dell’Agnello che regge il rotolo sigillato a sette sigilli.
Come è noto, l’immagine viene dall’Apocalisse. Del rotolo vi si
parla all’inizio del c. 5, ma, poiché esso si trova sulla mano del
Sovrano che governa il cosmo dal suo trono regale, l’immagi-
ne si può compiutamente comprendere solo cominciando la
lettura dal c. 4. Il testo dice: «Nella mano destra di colui che
sedeva sul trono vidi un rotolo, scritto sul lato interno e su
quello esterno, sigillato con sette sigilli» (Ap 5,1).
Per comprendere la natura e l’importanza del rotolo e della
sua sigillatura, bisogna dare la dovuta attenzione al c. 5, per il
quale rimandiamo all’articolo precedente1.

Interrogativi sul rotolo e sul suo contenuto


Le discussioni più importanti relative al rotolo sono tre:
due riguardano il suo contenuto, e la terza riguarda il simboli-
smo della dissigillazione. In primo luogo, non pochi commen-
tatori ritengono possibile la lettura del libro solo dopo che il
settimo e ultimo sigillo sia stato tolto, perché anche un solo
sigillo manterrebbe l’avvoltolatura del rotolo, impedendone la
lettura. Ma, si fa osservare, il linguaggio e l’immaginario di
Giovanni di Patmos è sovranamente libero dalla logica e dalle

1
Cf. C. Doglio, Il libro e l’Agnello, pp. 144-153.

154
leggi della natura: per lui per esempio si possono rendere can-
dide le vesti lavandole nel sangue (7,14), un agnello maneggia
con destrezza unica un rotolo come nessuno in tutto il cosmo
sa fare (5,7-8,1), e con una canna mensoria si misurano non
solo il santuario e l’altare, ma anche gli adoratori (11,1).
Di fatto, poi, all’apertura di ognuno dei primi sei sigilli Gio-
vanni colloca una visione, mentre dopo l’apertura del settimo
sigillo egli parla di un silenzio lunghissimo di mezz’ora per
poi non menzionare mai più né il rotolo né il suo contenu-
to. Commentando gli altri tre settenari, tutti i commentatori
collegano a ognuno dei sette elementi che li compongono la
narrazione che li segue. C’è motivo sufficiente per presuppor-
re che l’autore abbia costruito su questo schema anche il set-
tenario dei sigilli.
Con questo si avvia a soluzione anche un’altra questione,
quella del contenuto in senso stretto del rotolo. Autori antichi
e moderni ritengono che si tratti del rotolo dell’Antico Testa-
mento2, ma, a parte il fatto che non si saprebbero spiegare
le scene concomitanti l’apertura di ogni sigillo, per Giovanni
l’Antico Testamento non è affatto un libro né impenetrabile né
dal contenuto ignoto, e il Cristo non sembra affatto farsi inter-
prete delle Scritture anticotestamentarie, né in tutta la lunga
sequenza narrativa che va dal c. 5 al c. 8, né altrove nell’Apo-
calisse. Se dunque si desidera sapere che cosa mai contenga
il rotolo che il Sovrano universale regge nella sua mano e che
consegna al Cristo-Agnello perché lo dissigilli, allora si devo-
no leggere e interpretare quelle visioni. Ma bisogna prima di-
scutere quale sia la relazione dell’Agnello con il rotolo e che
azione sia quella di rompere o togliere i sigilli.

Aprendo i sigilli, l’Agnello rivela


J. Ellul – che non è un tecnico dell’esegesi biblica ma un
filosofo dell’interpretazione – si meraviglia che gli interpreti di
professione non si chiedano perché mai Giovanni abbia par-
lato di sette sigilli, sette trombe e sette coppe, e non invece di
sette scatole, di sette strofinacci o di sette spille3. La provoca-
zione di Ellul è sacrosanta e, per quanto riguarda il simboli-
smo del sigillo da rompere per aprire il rotolo e leggerlo, la
2
Così intendono O.A. Pipers (1951), L. Cerfaux - J. Cambier (1955), A.
Feuillet (1962), P. Prigent (1981), M. Trimaille (1992).
3
J. Ellul, Architecture en mouvement, Paris-Tournai 1975, pp. 36-37.

155
risposta è elementare e ovvia, e tuttavia viene proposta molto
di rado e in brevi, insufficienti accenni4.
Molti commentatori si perdono dietro a dettagli, portando
fuori dalla giusta strada. C’è, per esempio, chi vede nella scena
del rotolo una scena d’investitura. Come al giovane principe
che sale al potere si consegna lo scettro regale e lo si insedia
sul trono accanto al padre o al posto del padre, così qui – dico-
no quei commentatori – si consegna un rotolo, e non lo scet-
tro, all’Agnello il quale, attraverso quella consegna simbolica,
prende su di sé la cura del governo universale. Ma nel c. 5
dell’Apocalisse l’idea di accessione al trono è del tutto assente,
né mai vi si parla, per il Cristo, di una variazione di dignità o
di potere. La presa in consegna del rotolo da parte dell’Agnello
è sì importante, ma il testo di Apocalisse pone un’enfasi ben
maggiore sulla successiva apertura dei suoi sigilli, cosicché il
rotolo non equivale ad alcun scettro regale. È solo un libro
che, molto realisticamente, deve essere aperto e letto. Il sim-
bolismo è tutto giocato sulla negatività della sigillatura del ro-
tolo tanto che Giovanni ne piange e, poi, sulla positività della
sua dissigillazione, tanto che la corte celeste intona una litur-
gia in onore dell’Agnello che ne è l’artefice.
In altre parole, l’azione dell’Agnello è opera di rivelazione.
Per questo la prima parola dell’Apocalisse è appunto «rivela-
zione» (apokálypsis). E sono questi capitoli del rotolo dissigil-
lato dall’Agnello (Ap 5-8) che più di qualsiasi altra sezione del
libro realizzano l’enunciato programmatico del titolo. Esso
parla appunto di rivelazione che viene da Dio, di rivelazione
che è destinata ai suoi servi e della quale il rivelatore è Gesù:
«Rivelazione di Gesù Cristo, data a lui da Dio perché manife-
sti ai suoi servi le cose che devono presto accadere» (1,1).
Non resta, ora, che leggere il settenario vero e proprio, con
le scene che accompagnano l’apertura dei sigilli e che conten-
gono «la rivelazione dell’Agnello».

Le costanti della storia e il grido dei martiri


L ’apertura dei primi quattro sigilli porta sulla scena quat-
tro cavalli di colore diverso montati da altrettanti cavalieri.
Evocati da non si sa quale misterioso luogo con il perentorio

Si possono, per esempio, citare Th. Zahn (1924), N. Honjeck (1980), R.


4

Bergmeier (1985).

156
imperativo: «Vieni!», i cavalieri si presentano alla vista di Gio-
vanni e vengono da lui descritti nei loro attributi. Dopo la loro
comparsa, i cavalieri sembrano poi arrestarsi sul palcoscenico
della visione senza agire e, tranne il primo, senza andarsene.
Il primo, che cavalca un cavallo bianco, sembra essere sim-
bolo o personificazione della vittoria: «e uscì vincitore, per
vincere ancora» (6,1-2). Il secondo, che cavalca un cavallo
rosso fuoco, è simbolo o personificazione della guerra: «e gli
fu dato di togliere la pace dalla terra, affinché si sgozzasse-
ro a vicenda» (6,3-4). Il terzo, che monta un cavallo nero, è
probabilmente simbolo di ingiustizia sociale perché, tenendo
in mano una bilancia, simbolo di equità, riceve l’ingiunzione
di stabilire prezzi favorevoli ai ricchi e sfavorevoli ai poveri
(6,5-6)5. Del quarto, che cavalca un cavallo color cadavere, è
detto esplicitamente che è Morte e che il suo accompagnatore
è Ade, o regno dei morti: «e fu dato loro [...] di uccidere con la
spada, con la carestia, con la morte e con le bestie della terra»
(6,7-8).
Anche per influsso di una xilografia che A. Dürer incise e
pubblicò nel 1498, per qualche secolo è stata dominante l’in-
terpretazione secondo la quale i quattro cavalieri esprimono
tutti forze negative. Ma, pur essendo più che legittima, l’inter-
pretazione negativa del primo cavaliere non è l’unica possibi-
le. Sappiamo che nell’Apocalisse il colore bianco ha sempre
valenza positiva. In secondo luogo, ricordiamo che un altro
cavaliere, anch’esso a dorso di un cavallo bianco e anch’es-
so vincitore, in Ap 19 è inequivocabilmente identificabile con
il Cristo. Quest’unico cavaliere che «esce per cogliere [altre]
vittorie» sembra dunque rappresentare una forza positiva, e
sembra che con esso Giovanni intenda dare un inizio positi-
vo alla serie dei cavalieri per controbilanciare gli altri tre che
rappresentano senza dubbio forze negative.
A parte la loro precisa identificazione, il mistero che avvol-
ge i quattro cavalieri è fitto perché essi vengono da non si sa
dove e non vanno da alcuna parte. In mancanza d’altro, forse
è proprio dal fatto che essi non entrano in azione che biso-
gna partire e argomentare, oltre che dalla potestà o simbolo di
potestà consegnati a ognuno di loro: una corona (6,2), o una
spada (6,4), ecc. Poiché dunque non sono figure vuote ma col-
5
U. Vanni, Apocalisse: ermeneutica, esegesi, teologia, Bologna 1988, pp. 193-
213.

157
legate con qualche potere o autorità, e poiché però dalla loro
successiva comparsa e investitura non nasce alcuna vicenda,
sembra che i quattro cavalieri possano rappresentare le forze
che sempre si intrecciano e si scontrano nella vita degli uo-
mini e dei popoli, e dunque le costanti – positive e negative
– della storia.
Su questo sfondo, generico e statico, d’improvviso si accen-
de poi una vicenda e un dramma. All’apertura del quinto sigil-
lo Giovanni vede sotto l’altare le anime dei martiri che chie-
dono a Dio fino a quando vorrà attendere per fare giustizia
del loro sangue (6,9-10). Probabilmente quei martiri sono i
martiri delle Chiese d’Asia che, come l’Antipa di 2,13, erano
stati fedeli al Cristo fino al versamento del sangue. In quel gri-
do, ardito fino quasi all’irriverenza, Giovanni dà espressione
probabilmente allo sconcerto delle Chiese asiatiche di fronte
al prosperare dei persecutori e al silenzio di Dio. Forse nelle
Chiese ci si chiedeva perché Dio non si schierava a difesa di
chi gli era fedele: era una vera e propria crisi di teodicea, una
crisi di fede nei confronti della fedeltà di Dio e della sua giusti-
zia. Giovanni consegna la sua risposta al seguito dell’episodio
e dell’intero libro.

La risposta: ira divina, tribolazione e beatitudine


La risposta immediata è che ci saranno altri martiri: «e fu
detto loro di riposare ancora un breve tempo fino a che non
giungessero a maturazione i loro conservi e fratelli che dove-
vano morire come già essi erano morti» (6,11b). Nello stesso
momento, però, ai martiri viene consegnata una veste bianca,
simbolo di vittoria e di risurrezione (6,11a). Ma il preannun-
cio di altre sofferenze e anche la risposta data nel simbolo del-
la veste, sono deludenti per chi soffre e non sa trarre conso-
lazione da quello che sarà nell’escatologia. La risposta allora
è completata dalle tre scene del sesto sigillo: esse parlano di
come Dio offra risposte anche nella storia.
Il primo quadro è quello dei sette sconvolgimenti cosmici
che colpiscono terra, sole, luna, stelle, firmamento, monti e
isole, e che mettono nel panico sette gruppi di persone, così
che, dai re agli schiavi, tutti si chiedono chi mai potrà resiste-
re all’ira divina (6,12-17). Negli sconvolgimenti cosmici essa
è solo annunciata, e tuttavia è certo che vendicherà il sangue
dei martiri, come essi chiedevano nel loro grido contro «gli

158
abitanti della terra» (6,10).
Il secondo quadro sembra presupporre il primo. Presuppo-
ne che Dio stia per dare sfogo alla sua ira, ora rappresenta-
ta però nell’immagine dei quattro venti trattenuti ai quattro
angoli della terra. I venti dell’ira stanno per essere rilasciati
e stanno per abbattersi su terra mare e piante, ma l’angelo
dell’Oriente intima ai quattro angeli che li trattengono di far-
lo ancora, finché non siano contrassegnati sulla fronte, con
il sigillo del Dio vivente, i suoi servi. È così che un popolo di
144 mila viene segnato e in tal modo preservato dall’ira di Dio.
Nel suo modo di narrare, che è quello di coinvolgere il lettore
in modo attivo, Giovanni lascia qui a noi di colmare tre im-
portanti lacune: con ciò che il racconto stesso esige anche se
non lo esplicita (prima lacuna), e con ciò che diranno la scena
successiva (seconda lacuna) e i cicli narrativi seguenti (terza
lacuna).
Anzitutto, il lettore deve immaginare e collocare qui lo sca-
tenamento e poi l’infuriare dei venti, e cioè l’azione vendicati-
va dell’ira divina contro «gli abitanti della terra». In secondo
luogo, egli deve ricavare dalla visione seguente la consapevo-
lezza che il tempo dell’ira divina è per i servi di Dio tempo di
grande tribolazione, anche se essi sono protetti dal sigillo di
Dio: «“Questi, chi sono?” [...]. “Essi sono coloro che vengono
dalla grande tribolazione”» (7,13-14). In terzo luogo, il lettore
che ha nell’orecchio il termine «vendicare» (ekdikeîn) («fino a
quando tu, o Sovrano giusto e verace, non vendicherai il no-
stro sangue contro gli abitanti della terra?» [6,10]) dovrà, leg-
gendo e rileggendo tutto il libro, ricavare dal settenario delle
trombe e dal settenario delle coppe che l’ira di Dio non ha
l’intento di distruggere il persecutore, né quello di punirlo per
esempio con la legge del taglione, ma di convertirlo: «e non si
convertirono dalle opere delle loro mani [...] e non si converti-
rono neanche dagli omicidi», ecc. (9,20-21; cf. anche 16,9.11).
Come la seconda scena è tutta storica e terrestre, così la
terza e ultima scena del sesto sigillo è tutta escatologica e ce-
leste: Giovanni vede la folla innumerevole dei redenti da ogni
popolo e lingua, che già ha alle spalle la «grande tribolazione»
della storia (7,14) e che partecipa alla liturgia celeste, là dove
non c’è fame né sete né lacrima, ma accesso ai pascoli eterni e
alle acque di vita (7,9-17).

159
La mezz’ora di silenzio e di attesa fiduciosa
Questa è dunque la risposta di Giovanni a chi si chiedeva
che ne sarebbe stato dei perseguitati e dei persecutori. La ri-
sposta era: altra persecuzione, un difficile cammino attraver-
so la tribolazione della vicenda umana, ma protezione divina
e, oltre la grande tribolazione, la veste bianca e la palma della
vittoria (7,9).
Dopo aver condotto il lettore a questo che è uno dei vertici
della sua apocalisse, Giovanni torna poi alla formula della dis-
sigillazione per il settimo e ultimo sigillo, e parla al lettore di
un silenzio: «E quando l’Agnello aprì il settimo sigillo si fece
silenzio nel cielo per circa mezz’ora» (8,1). Il silenzio del set-
timo sigillo non ha nulla né di angoscioso né di angosciante,
come vorrebbe, ad esempio, tutta l’atmosfera del Settimo sigil-
lo di I. Bergmann. È invece un silenzio di quiete e di riflessio-
ne. L ’Agnello ha preso possesso del rotolo che era nella mano
di Dio e ha manifestato i piani divini, prima impenetrabili.
La vita e la storia, altrimenti immerse nel buio e nell’assurdo,
hanno ora senso e valore: i piani di Dio parlano anche di tri-
bolazione, ma parlano soprattutto della sua fedeltà, della bea­
titudine riservata ai suoi servi. Se Giovanni era scoppiato in
pianto quando il rotolo sembrava inaccessibile, ora che il ro-
tolo è aperto e i piani divini sono conosciuti, la reazione è il
contrario del pianto e si esprime in un silenzio pieno di attesa
e di fiducia, perché le promesse di Dio non conoscono penti-
mento e sono irrevocabili (Rm 11,29).
È così che tutta l’Apocalisse non è in alcun modo un libro
di catastrofi apocalittiche né di predizioni alla maniera di No-
stradamus, ma un libro che discute di Dio e della sua giustizia
nel guidare e nel governare la storia. È un libro che nasce tut-
to dal grido dei martiri, il quale è, a sua volta, eco ed espres-
sione dei dubbi di fede delle Chiese giovannee per il silenzio di
Dio di fronte all’impunità dei persecutori. È un nuovo libro di
Giobbe e prolunga le domande di molti salmi sulla sofferenza
dell’innocente. Ed è un nuovo libro dell’esodo verso una terra
promessa che non conosce precarietà.

160
Francesco Mosetto
________

Una moltitudine immensa


(Ap 7)

Prima che l’Agnello apra il settimo sigillo (Ap 8,1), il veg-


gente di Patmos ha una duplice visione: i «servi» di Dio, cen-
toquarantaquattromila, dodicimila per ciascuna delle tribù
di Israele, vengono segnati sulla fronte con il «sigillo del Dio
vivente» (7,1-8); poi, davanti al trono di Dio, una «moltitudine
immensa [...] di ogni nazione, razza, popolo e lingua» canta
inni di lode e rende grazie per la salvezza (7,9-17). In termini
chiari e sintetici la Bible pastorale dell’abbazia di Maredsous
così spiega il significato delle due scene: «Tra l’apertura del se-
sto e quella del settimo sigillo l’Apocalisse propone una medi-
tazione sul mistero della Chiesa nel tempo presente: in quanto
terrestre, la Chiesa forma un nuovo popolo di Dio preservato
e numerato in vista del suo ingresso nella terra promessa; in
quanto già celeste, essa è la folla immensa e universale che,
ricordando il suo esodo, celebra con riconoscenza la sua sal-
vezza e la realizzazione delle promesse»1.

L ’angelo e il sigillo
Con una serie di segni impressionanti il sesto sigillo (6,12-
17) annunciava il «grande giorno», l’intervento escatologico di
Dio che atterrisce i peccatori. Il quadro davvero apocalittico
termina con una domanda angosciata: «E chi vi può resiste-
re?». La risposta viene ora dalle due scene che compongono
il c. 7.
La prima si articola in due momenti coordinati tra loro:
quattro angeli sono pronti a scatenare sulla terra i quattro
venti che la devasteranno; un quinto angelo ordina loro di
1
Bible pastorale, Brepols, Turnhout 1997, p. 1690.

161
trattenere l’uragano distruttore finché i servi di Dio non siano
stati segnati con il suo sigillo (vv. 1-3). Segue l’enumerazione
dei centoquarantaquattromila segnati con il sigillo del Dio vi-
vente (vv. 4-8).
I «venti» sono le forze cosmiche capaci di cancellare ogni
forma di vita, anche le piante (vv. 1.3). Possiamo immaginar-
celi come i paurosi tifoni dei tropici. Gli angeli che li tratten-
gono «ai quattro angoli della terra» sono ministri di Dio, stru-
menti del suo dominio sul cosmo (cf. Eb 1,7). Da Oriente, il
luogo da cui viene la luce e la salvezza (cf. Lc 1,78), sale un
altro angelo, inviato appunto «per servire coloro che devono
entrare in possesso della salvezza» (Eb 1,14). In altre parole,
Dio stesso interviene per salvare i suoi «servi» dalla catastrofe
finale.
Prima che l’«ira» di Dio e dell’Agnello si abbatta sui pecca-
tori, l’angelo segnerà la fronte dei servi di Dio con il «sigillo del
Dio vivente». L ’immagine viene dal libro di Ezechiele, dove il
Signore, prima che gli angeli distruttori eseguano il castigo
di Gerusalemme, ordina a «un uomo vestito di lino»: «Passa
in mezzo alla città [...] e segna una tau sulla fronte di tutti gli
uomini che sospirano e piangono per tutti gli abomini che vi
si compiono» (Ez 7,4). La lettera ebraica T (tau) ha la forma
di una croce. Nella Seconda lettera di Paolo ai Corinzi l’im-
magine del sigillo è riferita al battesimo cristiano (2Cor 1,22).
Al di là di ogni ulteriore precisazione, il sigillo è un segno di
appartenenza e quindi una garanzia di salvezza dal castigo in-
combente (vedi anche 9,4). Nella visione del c. 14 si leggerà
che i centoquarantaquattromila «recavano scritto sulla fronte
il suo nome [dell’Agnello] e il nome del Padre suo» (14,1) e che
«sono stati redenti tra gli uomini come primizie per Dio e per
l’Agnello» (14,3). In questo modo il senso del sigillo è ancor
meglio definito: esso contrassegna i cristiani.

Centoquarantaquattromila
Il «numero di coloro che furono segnati» è reso con una
cifra precisa, di indubbio valore simbolico [cf. riquadro a p.
166]. Balza agli occhi il numero dodici, che è quello dei figli
di Giacobbe e delle tribù che ne portano il nome, le quali di
fatto vengono poi elencate. Da ciascuna delle tribù dei figli
di Israele i segnati sono dodici «migliaia» (khiliádes), termine
che si può intendere in senso matematico, ma altresì – come

162
in Es 18,21.25; Nm 1,16 – come indicazione di una «divisione
clanico-tribale caratteristica dell’Israele antico»2.
Nell’elenco delle tribù si nota che il primo posto è dato a
quella di Giuda, il quartogenito di Giacobbe. La ragione è ov-
via: dalla tribù di Giuda nacque il «germoglio di Davide» (5,5;
cf. Gen 49,8-12). Segue il primogenito Ruben. Oltre a Giusep-
pe, si nomina anche uno dei suoi due figli, Manasse. In com-
penso, è soppresso il nome di Dan (come nelle genealogie del
Primo libro delle Cronache: 1Cr 2-8): nella letteratura rabbini-
ca la tribù di Dan è considerata apostata; Ireneo scrive che da
essa sorgerà l’Anticristo (Adversus haereses, 5, 30,2).
Mentre nel censimento delle tribù che si legge all’inizio del
libro dei Numeri «i registrati della tribù di Giuda risultaro-
no settantaquattromilaseicento», quelli della tribù di Ruben
«quarantaseimilacinquecento», e così via (Nm 1), nel nostro
testo si parla di mille segnati da ciascuna delle dodici tribù.
«Si tratta quindi del resto di Israele, degli eletti dell’antico
popolo»3. Vi si può vedere l’ecclesia ex circumcisione, cui nella
scena seguente viene accostata la ecclesia ex gentibus. Si note-
rà tuttavia che nella visione parallela del c. 14 i centoquaran-
taquattromila sono detti i «redenti della [lett. “dalla”] terra»
(14,3), «redenti tra gli uomini come primizie per Dio e per l’A-
gnello» (14,4). Anche in quest’altro passo si tratta sempre del
«resto santo di Israele»4, oppure è lecito scorgervi con sant’A-
gostino «l’universalità dei santi» (De doctrina christiana, 3)? In
tal caso, i centoquarantaquattromila segnati con il sigillo e la
moltitudine immensa, che il veggente contempla nella secon-
da scena, rappresentano la medesima realtà.

La moltitudine immensa
Se il quadro precedente era ambientato sulla terra, la nuo-
va scena si svolge davanti al trono di Dio, dunque nel cielo
(cf. 4,1ss.). Invece di un numero simbolico, ma limitato, ora
il veggente contempla «una moltitudine immensa» di persone
biancovestite, che cantano inni (7,9ss.). Uno degli anziani che
stanno presso il trono di Dio (cf. 4,4) spiega a Giovanni «chi
sono» costoro e «donde vengono».
2
E. Lupieri, L ’Apocalisse di Giovanni, Mondadori, Milano 1999, p. 154.
3
C. Doglio, Apocalisse di Giovanni, in La Bibbia Piemme, Casale Monfer-
rato 1995, p. 3093.
4
Ivi, p. 3110.

163
Diversi elementi contribuiscono a qualificare la folla incal-
colabile, «di ogni nazione, razza, popolo e lingua» (v. 9). La
quadruplice indicazione (cf. 5,9) rafforza il concetto di uni-
versalità. Essi stanno davanti al trono di Dio e all’Agnello e
«lo servono giorno e notte nel suo santuario [naós]» (vv. 9.15);
in altri termini, vedono il volto di Dio (cf. 22,4; Sal 17,15),
godono della presenza sua e di quella di Cristo. Hanno perciò
raggiunto la meta del pellegrinaggio terreno, la celeste Geru-
salemme (cf. 21,1-22,5). «Servono» (latreúousin) Dio, ossia
celebrano il culto divino nel santuario celeste, del quale il tem-
pio gerosolimitano era solamente un’ombra (cf. Eb 8,5; 9,24).
Si tratta dunque del popolo di Dio, «regno di sacerdoti» (1,6;
5,9; cf. Es 19,6), «sacerdoti di Dio e del Cristo» (20,6), che par-
tecipa alla festosa liturgia celebrata dalle «miriadi di miriadi»
di angeli (cf. 5,11).
Le «vesti bianche» sono segno di vittoria (cf. 3,4), come pu-
re di santità, derivante dal sacrificio di Cristo (cf. v. 14; 22,14).
Anche le palme sono simbolo di vittoria (cf. 1Mac 13,51); ma
potrebbero anche essere un richiamo alla festa ebraica di
Sukkot (capanne o tende), durante la quale si svolge una gio-
iosa processione con rami di palma5.
Il breve dialogo tra il veggente e uno dei ventiquattro «ve-
gliardi» o anziani, che circondano il trono di Dio (cf. 4,4), ap-
porta ulteriori e preziosi elementi (vv. 13-17). Gli eletti sono
«coloro che sono passati attraverso la grande tribolazione», la
prova escatologica (cf. Dn 12,1; Mt 24,21), che si concretizza
nelle persecuzioni, ma non solamente; sta infatti per venire
sul mondo intero la tentazione (peirasmós) che metterà alla
prova gli abitanti della terra (cf. 13,10). Essi però «hanno la-
vato le loro vesti rendendole candide con il sangue dell’Agnel-
lo»: per i credenti il sacrificio di Cristo è principio di salvezza
(«redenzione»; cf. 5,9) e quindi di santità e di vita eterna (vedi
anche 22,14).
«Colui che siede sul trono stenderà la sua tenda su di lo-
ro» (v. 15). Nella visione conclusiva del libro l’immagine della
«tenda», che rimanda al santuario mobile del tempo dell’eso-
do (cf. Es 40,34-35), sarà superata: la nuova Gerusalemme è la
«tenda (skené) di Dio con gli uomini», perché «egli dimorerà
tra di loro e [...] sarà il Dio con loro» (21,3); anzi, «in essa non
5
Cf. P. Prigent, L ’Apocalisse di S. Giovanni, Borla, Roma 1985, pp. 244-
245.

164
ci sarà più tempio [naós], perché il Signore Dio [...] e l’Agnello
sono il suo tempio» (21,22).
Accolti nella tenda di Dio, i beati abitano nella sua stessa
casa, in comunione di vita con il Padre e con il Figlio (cf. Gv
14,2; 17,24). Nella casa di Dio gli eletti godono di una felici-
tà perfetta, senza ombra di sofferenza alcuna. Con linguaggio
attinto ai testi dei profeti, l’anziano assicura: «Non avranno
più fame, né avranno più sete, né li colpirà il sole né arsura di
sorta» (cf. Is 49,10), perché l’Agnello (il Cristo vivente) «sarà
il loro pastore e li guiderà alle fonti delle acque della vita» (cf.
Is 40,11; 9,10; Ez 34,23); «e Dio tergerà ogni lacrima dai loro
occhi» (cf. Is 25,8).

La dossologia
All’inno cantato dalla moltitudine (v. 10) risponde il coro
degli angeli (v. 11), che si prostrano in adorazione insieme con
i ventiquattro «anziani» e i quattro «viventi». Si tratta di una
delle numerose dossologie che costellano le visioni dell’Apoca-
lisse (cf. 1,5b-6; 4,8.11; 5,12-13; 11,15.17-18; ecc.). Come i cori
nelle tragedie greche, esse svolgono la funzione di commento
lirico al dramma. La vicenda della Chiesa, pellegrina nel mon-
do verso la patria celeste, rivela il suo significato nella celebra-
zione liturgica che unisce gli uomini agli angeli.
«La salvezza [appartiene] al Signore nostro Dio, che siede
sul trono, e all’Agnello» (7,10): così canta la moltitudine im-
mensa. È il canto dei redenti (cf. 14,1-5), i quali riconoscono
che il Signore del cosmo e della storia li ha guidati nel nuovo
esodo e li ha condotti felicemente nella sua casa.
Amen. Lode, gloria, sapienza, azione di grazie, onore, potenza e
forza al nostro Dio nei secoli dei secoli. Amen (7,15).

L ’inno dell’esercito celeste è racchiuso tra due «Amen».


Esultando per l’opera di Dio, il mondo angelico aderisce al
suo progetto e gli rende gloria. La dossologia si distribuisce
in due serie, la prima di quattro termini, la seconda di tre.
Campeggiano in quest’ultima gli attributi divini («potenza e
forza»); prevalgono nella prima gli atteggiamenti con i quali
le creature esaltano la bontà, la sapienza e la potenza di Dio
(«lode, gloria, [...] azione di grazie»).
Come uno squarcio di azzurro in un cielo tempestoso, il c.
7 dell’Apocalisse lascia intravedere il destino di felicità riser-

165
vato al popolo di Dio. I cristiani sono nel mondo, ma non del
mondo (cf. Gv 17,16). Essi appartengono a Dio, sono segnati
dal suo sigillo. Già possono contemplare la felicità eterna che
li attende e, celebrando le lodi del Signore, fin d’ora rendono
grazie per la salvezza realizzata da Cristo, Agnello pasquale e
pastore del suo gregge.
La costituzione dogmatica Lumen gentium del Vaticano II
dedica l’intero capitolo 7 all’«indole escatologica della Chiesa
pellegrinante» e alla «sua unione con la Chiesa celeste». «La
Chiesa peregrinante [...] porta la figura fugace di questo mon-
do e vive tra le creature, le quali sono in gemito e nel travaglio
del parto sino ad ora e sospirano la manifestazione dei figli di
Dio» (cf. Rm 8,19-22)». E tuttavia, «quanti siamo figli di Dio
e costituiamo in Cristo una sola famiglia (cf. Eb 3,6), mentre
comunichiamo tra di noi nella mutua carità e nell’unica lode
della Trinità santissima, corrispondiamo all’intima vocazione
della Chiesa e pregustando partecipiamo alla liturgia della glo-
ria eterna. Poiché, quando Cristo apparirà e vi sarà la gloriosa
risurrezione dei morti, lo splendore di Dio illuminerà la città
celeste e la sua lucerna sarà l’Agnello (cf. Ap 21,23). Allora tut-
ta la Chiesa dei santi con somma felicità di amore adorerà Dio
e “l’Agnello che è stato ucciso” (Ap 5,12), esclamando a una
voce: “A Colui che siede sul trono e all’Agnello benedizione,
onore, gloria e potenza per tutti i secoli dei secoli”» (Ap 5,13)6.

I centoquarantaquattromila
Il numero 144 mila ha da sempre incuriosito i lettori dell’A-
pocalisse, che si domandano quale significato esso possa avere;
a parte, naturalmente, i Testimoni di Geova, per i quali il nume-
ro è da prendersi rigorosamente alla lettera! Il numero ricorre
nel libro dell’Apocalisse in due passi: 7,4 e 14,1.3. Ricordiamo
come il simbolismo aritmetico costituisce una parte importante
del bagaglio simbolico dell’Apocalisse; i numeri non vanno in-
tesi in senso quantitativo ma qualitativo, e non di rado l’autore
stimola l’attenzione di chi ascolta proprio attraverso il ricorso a
vere e proprie operazioni matematiche.
Per comprendere la cifra 144 mila è necessario partire da una
ricorrenza più facile da spiegare: in 21,17 le mura della Geru-
salemme celeste misurano 144 cubiti d’altezza, ma l’autore ci

6
Lumen gentium, nn. 48.51.

166
avverte che si tratta di una misura simbolica, o meglio, dell’equi-
valente umano di una misura angelica. In 21,12 la città è descrit-
ta come fornita di dodici porte, su ciascuna delle quali è scritto
il nome di una delle dodici tribù d’Israele; in 21,14, poi, si legge
che la città ha dodici fondamenta e, su queste, i nomi dei dodici
apostoli dell’Agnello; la città è, infine, un quadrato di 12.000 sta-
di di lato (12 × 1000; Ap 21,16). Abbiamo così tutti gli elementi
del problema: le mura, che idealmente racchiudono la città, mi-
surano 144 cubiti, cioè 12 ×12; la Gerusalemme celeste è dunque
formata dalla fusione dell’antico Israele (le dodici tribù) con la
Chiesa (i dodici apostoli). Il numero 1000, poi, indica da un lato
una grandezza incommensurabile, ma anche, nell’Apocalisse, il
tempo del regno terrestre di Cristo (cf. Ap 20,1-7); i 12.000 stadi
di Ap 21,16 sono così il numero dodici portato alla perfezione.
Queste osservazioni ci permettono di cogliere il significato
del numero degli eletti, nei due passi sopra citati. In 7,4 è evi-
dente, prima di tutto, che i 144 mila sono una realtà diversa
dalla «moltitudine che nessuno poteva contare» presentata in
7,9. I 144 mila sono il simbolo di coloro che sono stati scelti
dal popolo d’Israele per essere salvati; 12.000 per ciascuna delle
dodici tribù (12 × 1.000), cioè un gruppo selezionato di eletti che
prenderanno parte al regno di Cristo. In Ap 14,1-5, dove di nuo-
vo sono presentati i 144 mila, si può pensare a un’operazione
più profonda; 144 mila non è soltanto il risultato di 12.000 × 12
(come in 7,4), ma è anche 12 × 12 × 1000; gli eletti, dunque, sono
una fusione dell’antico Israele (le dodici tribù) con la Chiesa (i
dodici apostoli) e rappresentano coloro che regneranno con Cri-
sto per 1000 anni (cf. Ap 20,1-7), cioè coloro che parteciperanno
al millenario regno terrestre di Cristo, probabilmente, in questo
contesto, coloro che gli sono stati particolarmente fedeli, come
i martiri, coloro che apriranno la strada alla salvezza degli altri
uomini. Queste brevi osservazioni rivelano così un aspetto della
complessità, ma anche della ricchezza del simbolismo numerico
dell’Apocalisse.

167
Giancarlo Biguzzi
________

Il settenario delle trombe


e l’idolatria
(Ap 8,2-11,19)

Proteso dall’alto della spianata del tempio sulla città, un le-


vita annunciava a suon di tromba ai gerosolimitani e ai pelle-
grini l’inizio del sabato. Noi lo sappiamo perché gli archeologi
hanno portato alla luce due pietre che nella distruzione del
tempio dell’anno 70 d.C. i romani scaraventarono sul lastri-
cato sottostante. In una pietra si intuisce l’incavo che nello
spalto della terrazza accoglieva il trombettiere, e l’altra reca la
scritta in ebraico: «Per lo squillo della tromba».
Nell’apocalisse giovannea c’è lo squillo successivo di sette
trombe, e non di una sola, così che si può parlare di «settena-
rio delle trombe», come si parla del settenario delle «lettere»,
dei sigilli e delle coppe. Non è il settenario più importante, ma
si tratta di una di quelle sequenze narrative che Giovanni di
Patmos ha costruito con molta cura come elementi portanti
della sua apocalisse.

Lo squillo delle trombe e il loro simbolismo


Le sette trombe dell’Apocalisse non sono collegate con il
giorno di festa, né sembrano avere a che fare con la liturgia:
dopo i sette squilli di tromba, infatti, nessuno interrompe il
lavoro per il sopraggiungere della festa o eleva preghiere per-
ché, anzi, la preghiera precede il primo squillo di tromba, e
nessuno offre sacrifici, né fa alcuno dei gesti collegati con il
culto o con le feste. Le trombe dell’Apocalisse sono più simili
a quelle che si fanno squillare in guerra, che non a quelle del-
la liturgia. E tuttavia quei commentatori, che a proposito di
queste trombe parlano di «guerra santa» in riferimento all’A-
pocalisse, devono poi moderare la portata delle loro afferma-

168
zioni perché di fatto nell’Apocalisse Dio non conduce alcuna
guerra contro nessuno e, soprattutto, l’intento nel suo agire è
ben altro da quello di un generale che schiera i suoi eserciti e
fa squillare le sue trombe1. Il parallelo con le trombe di guerra
vale solo in quanto, qui come in battaglia, lo squillo di tromba
dà il segnale per entrare in azione.
Le trombe dell’Apocalisse evocano fenomeni terrificanti
che, a volte dal cielo (8,10; cf. anche 8,7.8), a volte dagli inferi
(9,2-3), a volte da oltre un confine che sembrava invalicabile
(9,14ss.), si abbattono su questo o quel settore del cosmo e su
questo o quel gruppo umano. Sono come la voce di Dio che è
determinato a mandare a effetto i suoi piani. Sono la voce di
Dio che ordina, intima, precetta.

Il rito all’altare degli incensi


Dopo che il settenario dei sigilli si è chiuso con il lungo si-
lenzio di mezz’ora, Giovanni vede i sette angeli che stanno alla
presenza di Dio e che la tradizione giudaica chiamava «angeli
del Volto», e vede che vengono date loro sette trombe (8,2).
Prima di dire che cosa facciano gli angeli con le loro trombe,
Giovanni descrive un rito celebrato da un altro angelo all’alta-
re degli incensi (8,3-5): egli riceve misteriosi profumi perché
li unisca nel suo incensiere alle preghiere dei santi. È così che
dall’altare sale a Dio la preghiera degli uomini – probabilmen-
te dei martiri, come in 6,9-10 – purificata, rafforzata, e consa-
crata dal profumo della grazia divina.
La risposta alla preghiera è data in parte dall’angelo e in
parte dal fragore di fenomeni atmosferici che si possono chia-
mare teofanici perché di solito accompagnano le teofanie bi-
bliche. Quanto all’angelo, egli prende l’incensiere con cui ha
fatto salire la preghiera al trono di Dio e ne rovescia i carboni
ardenti giù, contro la terra (8,5a)2. Quanto ai fenomeni atmo-
sferici, invece, si tratta di «lampi, tuoni, fulmini e terremoto»
(8,5b): come in Es 19 erano segno che Dio si era approssi-
mato all’accampamento degli Israeliti sul monte, così qui essi
1
Poiché nella sua pretesa guerra santa il Dio dell’Apocalisse lascia ai suoi
nemici la possibilità della conversione, C.H. Giblin dice che Giovanni deve
aver introdotto delle «modificazioni» nell’ideologia della guerra santa (The Bo-
ok of Revelation, Collegeville MN 1991, p. 31).
2
Le versioni CEI del 1975 e del 1997 traducono – troppo debolmente –
«verso la terra» (1975), «sulla terra» (1997).

169
dicono che Dio approva il gesto dell’angelo e approva quindi
l’incendio da lui lanciato contro la terra. È a questo punto che
Giovanni riprende a parlare dei sette angeli con le sette trom-
be. Dopo questa sorta d’investitura e di direttiva di massima
per l’azione, essi si mettono in assetto di squillo (8,6). Il sette-
nario è dunque ormai introdotto, e di fatto prende il via con
la formula che si ripeterà sette volte: «E il primo [secondo /
terzo...] angelo fece squillare la sua tromba» (8,7; ecc.).

I flagelli su terra, acque salate e dolci, e astri


Il fenomeno provocato dallo squillo della prima tromba ri-
prende e prolunga il rito dei carboni perché parla di fuoco,
e di fuoco contro la terra: «E grandine e fuoco misti nel san-
gue furono gettati contro la terra, e un terzo della terra andò
bruciato...» (8,7). Il fuoco dei carboni si prolunga anche nel
secondo e nel terzo squillo di tromba: «come un monte gran-
de infiammato di fuoco» (8,8b), «e dal cielo cadde un grande
astro bruciante come una torcia» (8,10), ma obiettivo sono ora
le acque salmastre del mare che vengono cambiate in san-
gue (8,8c, seconda tromba), e rispettivamente le acque dolci
dei fiumi e delle sorgenti che vengono avvelenate (8,11, terza
tromba). La quarta tromba abbandona l’elemento del fuoco,
colpendo sole, luna e stelle per oscurare di un terzo la loro
luce e, di conseguenza, il giorno e la notte.
Il lettore che legge queste cose resta sconcertato ed ester-
refatto. Anzitutto perché proprio gli angeli stessi che «stanno
alla presenza di Dio» (8,2), e non angeli di secondo rango, si
fanno ministri di distruzione delle cose più belle del creato,
con una furia che offende la nostra sensibilità così attenta
all’ecologia. In secondo luogo, sorprende che tutta questa rab-
bia antiecologica sia frutto ed esaudimento della preghiera in-
nalzata a Dio dai santi nel tempio celeste. In ogni caso, a parte
gli angeli e la preghiera, è la tragica tetralogia di queste prime
trombe che ci sconcerta perché in essa vengono colpiti tut-
ti quegli ambienti di cui il decalogo dell’ecologista prende le
difese: il verde viene qui bruciato, le acque del mare vengono
cambiate in sangue, i fiumi e le sorgenti vengono avvelenati, il
sole e il firmamento vengono colpiti. Insomma, sembra si con-
figuri in questo testo un’inconcepibile e inaccettabile congiura
e ostilità del cielo ai danni della terra e della natura. Ma il v. 13
dice che questa linea interpretativa non è quella giusta.

170
I tre «guai!» contro gli «abitanti della terra»

Un’aquila che vola nel mezzo del cielo interviene a questo


punto a rompere la sequenza dei disastri ecologici che anda-
vano sempre più irritando il lettore. L ’aquila annuncia, però,
non un’inversione di rotta ma altre sciagure, perché grida a
gran voce: «Guai! Guai! Guai!...», e quei «guai!» – dice il gri-
do dell’aquila – prenderanno il via dallo squillo delle ultime
tre trombe. Mentre è ormai chiaro che quello delle trombe è
tutto un settenario di guai e di catastrofi, il grido dell’aquila
contiene un importante ragguaglio circa la destinazione dei
flagelli: «Guai! Guai! Guai! per gli abitanti della terra». Ber-
saglio dei flagelli non è dunque la terra, ma sono gli uomini.
Quanto alla formula «gli abitanti della terra», essa ricorre al-
tre dieci volte in Apocalisse e designa sempre il mondo ostile
a Dio e ai suoi fedeli: il mondo dell’irreligione, dell’idolatria
(3,10; 13,8.12.14b), della corruzione, del peccato (17,8), della
persecuzione (6,10; 11,10b).
È così che dall’annuncio dei tre «guai!» prendono il via il
flagello delle cavallette (quinta tromba), e quello della cavalle-
ria infernale (sesta tromba). I due testi dicono con chiarezza
chi siano i destinatari dei flagelli, precisando l’espressione «gli
abitanti della terra». Nella quinta tromba sono coloro che non
recano sulla fronte il sigillo del Dio vivente (9,4), ossia coloro
che non appartengono ai 144 mila, i quali, proprio in quali-
tà di servi di Dio, erano stati contrassegnati con il segno di
appartenenza a lui, per essere protetti dai flagelli dell’ira (cf.
7,1-8). Nella sesta tromba, poi, destinatari del secondo «guai!»
sono quelli che si dedicano al culto di demoni e di idoli. I due
testi, decisivi per la comprensione del settenario delle trombe,
dicono: «Fu detto loro [alle cavallette] di non recare danno
all’erba della terra, né a tutto ciò che è verde, né ad alcun al-
bero, ma solo agli uomini che non sono segnati con il sigillo
di Dio sulla fonte» (9,4: quinta tromba); «Il resto degli uomini
che non morirono a causa di questi flagelli, non si converti-
rono dalle loro opere, per continuare invece a prestare culto
ai demoni e agli idoli d’oro, d’argento, di bronzo, di pietra, di
legno, i quali non vedono, non odono e non camminano. E
non si convertirono dai loro omicidi, né dalle loro pratiche
magiche né dall’impudicizia, né dai loro furti» (9,20-21: sesta
tromba).

171
I flagelli delle trombe e il mondo dell’idolatria3
Ora è tempo di tentare un ’ interpretazione d ’ insieme del
settenario. Si possono fare almeno quattro importanti preci-
sazioni.

r Il settenario si richiama alle piaghe dell’antico esodo. So-


prattutto l’acqua cambiata in sangue (8,8), ma anche la gran-
dine e il fuoco (8,7) e le tenebre (8,12), non possono non evo-
care alla mente del lettore le piaghe d’Egitto4, così come il
contrassegno sulla fronte dei servi di Dio delle dodici tribù
richiama – attraverso la rielaborazione di Ez 9 – il segno fatto
col sangue dell’agnello sugli stipiti delle case degli ebrei, a loro
protezione dall’angelo sterminatore (Es 11-12). Anche il voca-
bolario è quello delle piaghe dell’esodo: «e fu colpito [eplêgê] il
terzo del sole» (8,12); «e chi non morì a causa di queste piaghe
[plêgais]» (9,20).

r La seconda precisazione è collegata alla prima: con que-


sto esodo neotestamentario Dio intende liberare i suoi servi,
non da una servitù di natura sociale come quella d’Egitto, ma
dall’asservimento agli idoli e ai demoni, e dai peccati tipici
dello stile pagano di vita: il furto, l’omicidio, i disordini ses-
suali e la stregoneria.

r Ciò che si arguiva dall’annuncio dell’aquila contro gli abi-


tanti della terra è ora ribadito e detto in termini espliciti: ber-
sagli delle piaghe del nuovo esodo sono gli uomini, e non la
natura o l’ambiente, così che i flagelli sono anti-idolatrici, e
non, dunque, antiecologici: «E fu detto loro di non fare danno
all’erba della terra, né a tutto ciò che è verde, né ad alcun al-
bero, ma solo agli uomini che non recano il sigillo di Dio sulla
fonte» (9,4). Dopotutto, lo lasciava intendere anche qualche
accenno delle prime quattro trombe: «e un terzo delle navi
[ovviamente degli uomini] andarono distrutte» (8,9: seconda
tromba); «e molti degli uomini morirono» (8,11: terza trom-
ba).

r Destinati agli uomini, i flagelli non sono né distruttivi né


3
Sull’idolatria nell’area dell’Apocalisse, vedi l’excursus su L ’Artemisio di
Efeso, a p. 175.
4
Cf. Es 7,20.21 per l’acqua cambiata in sangue, Es 9,23-25 per la grandine,
Es 10,21 per le tenebre.

172
punitivi, perché il loro scopo è quello di indurre alla conver-
sione chi è sviato dietro gli idoli ed è quindi sotto l’influsso dei
demoni. Lo dicono del tutto chiaramente i vv. 20-21 del c. 9:
«ma non si convertirono dalle opere delle loro mani per non
darsi più al culto dei demoni e degli idoli [...] e non si con-
vertirono dagli omicidi»5. In ogni caso, però, il risultato della
pressione messa in atto da Dio sul mondo dell’idolatria non è
la conversione ma, come nell’antico esodo, è l’indurimento.

Dal sesto al settimo squillo di tromba


Tra il flagello della sesta tromba, e cioè la cavalleria infer-
nale, e lo squillo della settima tromba, si inseriscono due epi-
sodi che non sono flagelli e il cui tema è quello della profezia,
non quello dell’idolatria.
Nel primo (Ap 10), un angelo possente viene a ergersi con
il piede destro sul mare e con il piede sinistro sulla terra e,
giganteggiando nel cielo, porge a Giovanni un rotolo che egli
deve mangiare e che gli sarà dolce al palato ma amaro per le
viscere. Si ripete dunque per Giovanni il rito d’investitura e di
missione profetica che fu già del profeta Ezechiele (Ez 3,1-3).
Per il conoscitore dei libri profetici il rito è già di per sé del tut-
to trasparente, e tuttavia esso viene commentato dall’ingiun-
zione che Giovanni riceve: «Tu dovrai profetizzare ancora: [e
ora lo dovrai fare] contro popoli, etnie, lingue e re numerosi»
(10,11). In altre parole, Giovanni comprende qui che il raggio
della sua attività profetica dovrà allargarsi e collocarsi d’ora
in poi a livello internazionale per opporsi ai potenti della po-
litica, dell’economia e del grande commercio: sono quelle che
E.-B. Allo chiama «profezie politiche» di Giovanni6.
Il secondo episodio è quello dei due testimoni (Ap 11,1-13).
Due personaggi senza nome vengono descritti con i tratti, sia
di Elia che fece discendere fuoco dal cielo, sia di Mosè che
cambiò l’acqua in sangue (v. 6). Essi svolgeranno la loro attivi-
5
Per qualche incomprensibile motivo, le versioni CEI (1975 e 1997) hanno
a tutti i costi voluto evitare il verbo «convertirsi» (metanoèin), che ricorre due
volte nel testo greco («non rinunziò alle opere delle sue mani [...], non rinunziò
nemmeno agli omicidi»), e hanno privato così il lettore di un decisivo elemen-
to d’interpretazione per tutto il settenario delle trombe.
6
E.-B. Allo, L ’Apocalypse, Paris 1921, p. 125. Tra l’altro il compito di Gio-
vanni sarà quello di profetizzare contro popoli, nazioni e re numerosi, e non a
loro riguardo, come dicono le traduzioni della CEI: «Devi profetizzare ancora
su molti popoli» (1975), «Devi profetizzare ancora su molti popoli» (1997).

173
tà di profeti in un ambiente oppressore come l’Egitto, corrotto
come Sodoma, e antimessianico come la città della crocifis-
sione del Signore (v. 8). Nessuno potrà fare loro del male (vv.
5-6), ma, dice Giovanni contraddicendosi, la bestia che sale
dall’abisso li ucciderà (v. 7). Da quel momento in poi, la loro
vicenda sarà modellata su quella del Cristo morto e risorto,
perché «tre giorni [e mezzo]»7 dopo la loro morte, come lui
saranno chiamati a salire in cielo sotto gli occhi dei loro per-
secutori (vv. 9-12).
Anche questo episodio sembra protendersi in avanti, ad an-
ticipare i capitoli che verranno, soprattutto per quella miste-
riosa bestia che qui vince e uccide i due testimoni, e che nel
c. 13 emergerà dal mare (v. 1) per «vincere i santi» (v. 7), per
allearsi in temibile complicità con il drago e con il falso pro-
feta (cf. Ap 13, e 16,13), dominando la scena dal c. 13 al c. 20.

Ansia pastorale e arte narrativa


Introdotto così il tema della profezia «politica» con l’inve-
stitura profetica di Giovanni (Ap 10), con l’universalizzazione
della sua profezia in quella dei due testimoni (Ap 11,1-13), e
con la comparsa anticipata della bestia (v. 7), Giovanni può
chiudere il settenario dicendo che anche il settimo angelo fece
squillare la sua tromba (11,15). A quello squillo faranno segui-
to non altri flagelli o altre anticipazioni, ma le parole e i gesti
di una liturgia nella quale la corte celeste canta l’approssimar-
si del giusto giudizio di Dio, fatto di ira per i corruttori della
terra, e di ricompensa per i servi, i profeti e i santi (11,16-19).
In tal modo il settenario delle trombe è composto:
— di una parte principale che è dominata dai flagelli anti-ido-
latrici (8,2-9,21),
— da alcune anticipazioni di quello che sarà detto con più
ampiezza nel seguito della narrazione e nel settenario delle
coppe (10,1-11,13).
Giovanni sembra dunque mosso da due esigenze molto di-
verse:
a) la prima è la trepidazione pastorale: le sue comunità erano

7
La differenza fra i tre giorni di Gesù e i tre-e-mezzo dei due testimoni, e
tra la sepoltura di Gesù e la loro insepoltura (11,9), deve probabilmente diffe-
renziare il Maestro dai discepoli, così come la crocifissione di Pietro a capo in
giù, di cui parlano i vangeli apocrifi, deve differenziare l’iconografia di Pietro
da quella di Gesù.

174
tentate quotidianamente dalle convenienze sociali ed eco-
nomiche che potevano venire dalla partecipazione ai riti
«pagani» del parentado, delle corporazioni professionali e
della città. Giovanni diceva allora che gli idoli sono un pez-
zo inanimato di pietra o di legno, e nulla più, e accumulava
sul capo degli idolatri la minaccia di tremendi flagelli e di
inaudite catastrofi;
b) la seconda, invece, è un’esigenza diversa, di tipo letterario:
come narratore di indiscutibile creatività fantastica e di
grande efficacia, egli collegava un arco narrativo all’altro
con la tecnica delle anticipazioni, così che il lettore fosse
catturato dall’incalzare degli episodi. In altre parole, Gio-
vanni sapeva che l’alternativa tra bene e male, tra Dio e ido-
li, è questione di vita e di morte, e che bisogna saper ben
presentare sia il bene che il male: il bene perché sia amato e
il male perché sia odiato. Ed è così che, da pastore-scritto-
re, anche nei flagelli di questo settenario, Giovanni di Pat-
mos sa instillare avversione al male e ai suoi ingannevoli
richiami.
Quanto a noi, che siamo disturbati dal carattere antieco-
logico dei flagelli dell’Apocalisse, dopotutto siamo più di altri
nella posizione giusta per comprendere gli espedienti esorta-
tivi di Giovanni: il prezzo pagato in termini di danno a natura
e ambiente per trattenere dal culto insensato degli idoli e dei
demoni, ci fa efficacemente apprezzare il valore e l’urgenza
del primo comandamento che dice: «Non avrai altro dio fuori
di me».

L ’Artemisio di Efeso
Apocalisse 9,20-21 parla degli idoli con formule stereotipe:
elenca cinque materiali di cui possono essere fatti e le azioni che
non possono eseguire, in quanto sono di metallo o di pietra o di
legno. Per ambedue gli aspetti Giovanni fa ricorso ai motivi tra-
dizionali dei polemisti giudei contro l’idolatria degli altri popoli
(cf. Sal 115,4-7; 135,15-17; Dn 5,4.23). Se il frasario è stereotipa-
to, il problema era però imponente e doloroso per un cristiano,
perché di quella che l’uomo biblico chiama «idolatria» era per-
meata la vita quotidiana e ufficiale delle città, ed evidentemente
anche la vita delle sette città dell’Apocalisse. Come tutte le città
greco-romane, esse erano piene di templi e di simulacri, e di

175
Giovanni dell’Apocalisse si sarebbe potuto dire ciò che gli Atti
degli Apostoli dicono di Paolo ad Atene: «Mentre Paolo attende-
va Sila e Timoteo ad Atene, fremeva nel suo spirito al vedere la
città piena di idoli» (At 17,16).
Di Efeso, per esempio, è universalmente famoso l’Artemi-
sion, il tempio alla famosa Artemide efesina, che da 16 su 24
liste a noi pervenute era elencato tra le sette meraviglie del mon-
do antico. Quanto a dimensioni, era il massimo edificio di tutto
il mondo ellenico, il primo edificio di grandi dimensioni a essere
costruito interamente in marmo. Si ergeva su di una base di 115
× 55 metri, era fitto di 375 colonne alte 18 metri, ed era prece-
duto da un altare dell’ampiezza di 40 metri. Tra l’altro, a Efeso
gli archeologi hanno messo in luce due statue, di grandezza na-
turale, di questa Artemide efesina, le quali erano state sepolte
con grande cura nell’area del pritanéo cittadino (il luogo dove le
città greche conservavano il fuoco sacro e dove accoglievano gli
ospiti illustri), probabilmente da sacerdoti della dea quando il
cristianesimo e gli editti imperiali antipagani lasciavano ormai
poco spazio alla religione tradizionale. Il simulacro di Artemide,
riprodotto all’infinito su monete, statuette votive, ex voto, nella
decorazione delle case, nei mosaici pavimentali, nei templi suc-
cursali della regione e di tutta l’area mediterranea, si riteneva
caduto dal cielo (cf. At 19,35), e tanto bastava a legittimarne il
culto con l’alone mistico di un’origine trascendente (cf. G. Bi-
guzzi, in «Nuovo Testamento» 40 [1998] 276-290).
Ma non c’era solo Artemide. Chi a Efeso-Selçuk visita il mu-
seo delle antichità efesine troverà raffigurazioni pittoriche e
statue di altri dèi: Zeus, Dioniso, Serapide, la Dea Madre, Apol-
lo, Efesto, Demetra, ecc. Lo stesso si deve dire delle altre città
dell’Apocalisse: delle maggiori, come Smirne, Pergamo (col fa-
moso altare di Zeus conservato oggi a Berlino, e con l’altrettanto
famoso ospedale-tempio in onore di Asclepio, dio della medici-
na) e Sardi (anche a Sardi si ergeva un grande tempio ad Arte-
mide), ma anche delle minori come per esempio Filadelfia (oggi
Alaşeir), divenuta meta di pellegrini più che di turisti, perché
non c’è altro motivo per visitare quel grosso paese agricolo se
non il messaggio rivolto da Cristo alla Chiesa di Filadelfia in Ap
3,7-13. Da visitare ad Alaşeir ci sono solo i ruderi di una grande
chiesa che era dedicata a San Giovanni dell’Apocalisse. Poiché
poco lontano dai ruderi della chiesa sorge una moschea, è evi-
dente che quello è da sempre stato un luogo di culto. Si sa bene
infatti che ogni conquistatore insedia i suoi templi sui templi del
popolo da lui vinto e spossessato: la moschea ha preso il posto
della chiesa, così come nei secoli cristiani la chiesa di San Gio-
vanni aveva preso il posto di un qualche tempio pagano.

176
Ap 9,20 parla di un culto ai demoni, e anche questo si può
illustrare a partire dall’archeologia di Efeso e della sua regio-
ne. Quando Ap 13,15 polemizza contro il falso profeta che fa di
una statua idolatrica una statua parlante, non è impossibile che
Giovanni intenda polemizzare anche contro gli oracoli pagani
e contro i demoni che li ispiravano. A sud di Efeso e di Mileto
sorgeva infatti il grande tempio oracolare di Didima (ventidue
chilometri a sud di Mileto) con gigantesche colonne e con tutto
l’apparato logistico, attorno e sotto la cella del dio Apollo, per gli
addetti al grande centro oracolare a cui chiese responsi anche
Licinio, avversario di Costantino. A nord di Efeso sorgeva, inve-
ce, l’altrettanto famoso oracolo di Claro (venti chilometri a nord
di Efeso), dove il profeta – così lo chiama Tacito negli Annali –
prima di emettere responsi, beveva alla sorgente sacra.

177
Giovanni Perini
________

L ’angelo e il libro
(Ap 10)

L ’Apocalisse è un libro da guardare, da «divorare» con gli


occhi. È forse questo il contributo richiesto al lettore perché
entri nella storia, non tanto in forma di conoscenza, quanto
in forma di esperienza emotiva, come è appunto quella che
nasce dalla contemplazione di un’opera d’arte. Sotto questo
aspetto la fortuna che, dai primi tempi del cristianesimo fino
al 1500, hanno avuto le rappresentazione pittoriche dell’Apo-
calisse1 è dovuta al fatto che la sua natura simbolico-raffigura-
tiva trova il suo corrispondente nella rappresentazione visiva,
più che nel commento delle parole. Nell’Apocalisse testo e im-
magine si appartengono vicendevolmente e inscindibilmente.
Tale commistione è oggi esplicitamente teorizzata, ad esem-
pio, da Chatman2 che individua un’analoga struttura narrativa
nei testi e nei film.
Il c. 10 ha trovato in Dürer il suo visibilizzatore più effica-
ce3. Tra le quindici incisioni da lui dedicate ad altrettante sce-
ne del nostro libro, ce n’è una che raccoglie insieme la visione
dell’angelo ritto con un piede sulla terra e l’altro sul mare e il
veggente nell’atto di mangiare il libricino che gli porge l’ange-
lo medesimo. Ma la scena non interpreta il testo, lo ritrascrive
semplicemente nello strumento visivo della raffigurazione, la-
sciando intatto al lettore-spettatore il compito della compren-
sione-contemplazione del senso.

1
L. Speciale, Mille e non ancora Mille. Dalla parola all’immagine, «Medioe-
vo» 12 (1999), pp. 48-53.
2
S. Chatman, Storia e discorso. La struttura narrativa nel romanzo e nel
film, Parma 1981.
3
W. Wætzoldt, Dürer and his Times, London 1955, p. 37.

178
Il contesto: la sezione delle trombe
Il c. 10 si trova nella terza sezione del libro, delimitata – co-
me ha dimostrato U. Vanni4 – dai cc. 8,1 e 11,14. Si tratta del-
le prime sei trombe del settenario omonimo e dei primi due
dei tre guai che coincidono con la quinta (9,1-12) e la sesta
tromba (9,13-11,14). Secondo il tipico schema d’emboîtement,
il settimo elemento del settenario apre e contiene il settenario
seguente5.
Gli eventi delle prime quattro trombe si svolgono secon-
do uno schema rapido e ripetitivo, ma quando si giunge alla
quinta e soprattutto alla sesta tromba, il ritmo si spezza e si
entra in un rallentamento della narrazione, quasi in una fase
meditativa. Davanti agli occhi e negli orecchi di chi contempla
sono fatte scorrere scene che solo il sapiente può interpreta-
re e che presentano lo svolgimento della storia terrena della
Chiesa secondo il modello celeste. Tutto avviene prima in cie-
lo: ciò che succede sulla terra ne è il riflesso. Tutto scorre già
nella visione di Dio e dei santi; solo il credente, il vero sapien-
te, riesce a penetrarne il mistero6.
Secondo un procedimento consolidato nella visione apoca-
littica la fine è segnalata da eventi che dicono la conclusione
dolorosa, il passaggio carico di sofferenza tra questo eone e
quello futuro. Perché non si può instaurare il tempo ultimo
se non portando a fine e distruggendo il tempo penultimo. La
storia è null’altro che questo processo di dissolvimento crono-
logico, che a sua volta denuncia l’emergere di un dissolvimen-
to più profondo e più interiore, costituito dall’allontanamento
e dal rifiuto di Dio. L ’unico a restare fedele in questa storia
d’alleanza infranta è Dio. Fin qui il c. 9. Il c. 10 e la sesta trom-
ba sono la risposta a questa esperienza e alla domanda pres-
sante che era risuonata in 6,10: «“Fino a quando...?” [...] “Non
vi sarà più indugio! [...] si compirà il mistero di Dio”».

I riferimenti all’Antico Testamento


Molti passi dell’Antico Testamento, soprattutto profetici,
presentano gli interventi punitivi di Dio come suo richiamo
ultimo al popolo perché si converta; oppure, riflettendo so-
4
U. Vanni, La struttura letteraria dell’Apocalisse, Roma 1971, pp. 191-195.
5
Cf. Vanni, La struttura, pp. 124.127.
6
Cf. gli appelli alla sapienza in Ap 13,18; 17,9.

179
pra i mali piombati sul popolo, perché riconoscano che sono
dovuti ai peccati e alle infedeltà di Israele, che, quantunque
ammonito, si è rifiutato di tornare al Signore7. Si stabilisce
così una connessione interpretativa tra le catastrofi storiche
d’Israele e il suo rapporto infranto con Dio. Normalmente al-
le minacce e alla confessione delle colpe segue un ulteriore
intervento di Dio portatore di promesse di ristabilimento, di
guarigione e salvezza. Il tempo è caratterizzato dalla pazienza
di Dio che spinge il peccatore alla conversione. Lo stesso pro-
feta, che prima era stato voce di Dio per annunciare i castighi
o interpretare i disastri storici come conseguenze dei peccati,
ora riprende la sua missione profetica per annunciare la re-
staurazione.
È questo lo schema sotteso al c. 10. Infatti, alla fine del c. 9
si leggeva: «Il resto dell’umanità che non perì a causa di questi
flagelli, non rinunziò alle opere delle sue mani; non cessò di
prestar culto ai demoni e agli idoli d’oro, d’argento, di bronzo,
di pietra e di legno, che non possono né vedere, né udire, né
camminare; non rinunziò nemmeno agli omicidi, né alle stre-
gonerie, né alla fornicazione, né alle ruberie» (9,20-21). E, alla
fine del c. 10, si trova il comando: «Devi profetizzare ancora
su molti popoli, nazioni e re» (10,11). L ’invito o l’ordine a con-
tinuare a profetare significa che il tempo non è ancora conclu-
so e che la fine non è imminente: si apre ancora la possibilità
della conversione e della fedeltà a Dio.
All’interno di questo schema la vicenda ha tutte le caratte-
ristiche di una nuova vocazione in continuità con quella pre-
cedente; vocazione che è preceduta o addirittura significata
da un intervento sulla bocca del profeta, come metonimia del
compito di profetizzare. La bocca può essere toccata e purifi-
cata (Is 6) oppure deve mangiare un rotolo che contiene pa-
role divine e misteriose (Ez 2,8; 3,1) e il cui duplice effetto di
gusto, amaro e dolce, sta a significare il duplice compito del
profeta, ben rappresentato nella vocazione di Geremia: «Ecco,
ti metto le mie parole sulla bocca. Oggi ti costituisco sopra i
popoli e sopra i regni per sradicare e demolire, per distruggere
e abbattere, per edificare e piantare» (Ger 1,9-10).
Oltre a questo schema interpretativo, il c. 10 è debitore
all’Antico Testamento per una serie di simboli o metafore: il
7
Cf. Dt 11,16ss.; 28,15ss.; Ne 9,16ss.; 2Mac 6,14ss.; Is 5,8ss.; Ger 18,11ss.;
29,16ss.; Bar 1,15ss.; Ez 5,5ss.; Dn 9,11ss.; Am 4,4ss.; ecc.

180
tuono, il ruggito del leone per indicare la voce di Dio o una
voce celeste (Ger 25,30; Os 11,10; Am 1,2; 3,8; Sal 29), il ge-
sto della mano alzata come segno del giuramento (Dt 32,40;
Gen 14,22); il mantenimento del segreto sul contenuto di una
rivelazione (Dn 12,4.9); la quantità definita dal «terzo» degli
elementi distrutti (Ez 5,12), a indicare limite e parzialità. Tali
riferimenti hanno la funzione di far leggere il testo giovanneo
alla luce di testi, soprattutto profetici, dell’Antico Testamento,
per indicare la continuità di una storia, della sua interpreta-
zione, delle sue prospettive e degli atteggiamenti risultanti da
assumere da parte della Chiesa.

Analisi del testo


Secondo la teoria di Chatman «la storia è ciò che viene rap-
presentato in una narrativa, il discorso è il come»8. Il discor-
so o espressione, a sua volta, si concretizza in manifestazioni
che possono essere verbali, cinematografiche, coreografiche,
fumettistiche, e altre ancora. Queste costituiscono la sostanza
dell’espressione. Non solo. Si dà il caso di opere dove gli stru-
menti espressivi sono mescolati, come ad esempio nei fumetti
e nei libri illustrati dove scritto e disegno collaborano alla pro-
duzione del senso, oppure difficilmente separabili, come nelle
descrizioni di paesaggi dove, pur utilizzando materialmente
il mezzo della scrittura, in realtà si producono immagini. C’è
ancora da notare come scrittura e pittura abbiano in comune
il codice visivo. Per queste ragioni è possibile leggere un testo
scritto in analogia a un testo rappresentato9.
Il c. 10 di Apocalisse è composto sia di sequenze verbali che
di scene10, cioè di sequenze rappresentate. Il criterio della sud-
divisione delle scene in sequenze visive è analogo al criterio
della suddivisione dei testi scritti in pericopi, con la differenza
che non gli aspetti letterari – come le inclusioni, il vocabolario
e le ricorrenze – sono utilizzati come segnali di suddivisione,
ma anzitutto gli elementi visivi e le loro trasformazioni o le
8
Chatman, Storia e discorso, p. 15.
9
Ivi, p. 23.
10
«La scena è l’immissione del principio drammatico nella narrativa. In
questo caso, storia e discorso hanno una durata relativamente uguale. Le due
componenti di solito sono dialogo e azioni fisiche esplicite di durata relati-
vamente breve, cioè che non richiedono più tempo per essere eseguite che a
essere raccontate» (ivi, p. 73).

181
messe a fuoco. Questo capitolo può essere diviso in quattro
sequenze o quadri, delimitati ciascuno dal cambio della sce-
na, che può avvenire o modificando sfondo e personaggi del
quadro precedente o concentrando e dirigendo la visione su
aspetti particolari, già presenti nel quadro precedente11.

Prima scena: l’angelo (vv. 1-3a)


La prima scena, che fa da sfondo a tutto il capitolo, pre-
senta un angelo diverso da quello nominato precedentemente
(il sesto che ha suonato la tromba), ma diverso anche dal se-
guente (il settimo: 11,15). Questa diversità interrompe volu-
tamente la successione del racconto e dà il segnale che qui si
apre un discorso nuovo all’interno della sequenza delle sette
trombe. La nube, l’arcobaleno, il volto e le gambe (v. 1) indi-
cano la qualità trascendente dell’angelo, la sua appartenenza
alla sfera del divino; egli infatti condivide con Gesù e con i due
testimoni del c. 11 la realtà della nube (benché l’espressione
«rivestito di una nube» sia unica); l’arcobaleno, che in 4,3 av-
volgeva il trono di Dio, qui avvolge la fronte dell’angelo; è an-
cora il volto di Gesù che splende «come il sole» in 1,16 (ma qui
si ha un altro vocabolo per indicare il volto); le gambe «come
colonne di fuoco» richiamano la descrizione di Gesù in 1,15 e
2,18. Le somiglianze lo collegano dunque al mondo del divino,
ma le differenze lo distinguono.
I vv. 2-3 proseguono presentando un elemento visivo e uno
uditivo. Si tratta dell’oggetto che si trova nella mano dell’an-
gelo, della sua postura e della voce dell’angelo medesimo e
dei sette tuoni. Anche di questi elementi, alcuni sono presen-
ti in altre parti dell’Apocalisse: l’endiadi terra e cielo, la vo-
ce possente, i tuoni12. Ma ci sono anche novità: il «libricino»
(biblarídion), che richiama quello del c. 5 ma se ne distingue
per il doppio diminutivo che fa pensare a un oggetto nuovo;
la postura dell’angelo a cavallo tra cielo e terra, e – ancora – il
numero «sette» dei tuoni.
La scena, come si è visto, presenta solo il quadro, lo sfondo
di un’azione che deve ancora avvenire e per la quale il lettore
11
Corrisponde nella sequenza filmica o al cambio di scenario o alla messa
a fuoco, all’interno dello stesso scenario, di un volto o un oggetto particolare.
12
«Terra e mare»: Ap 7,2; 10,5.8; 12,12. «Voce grande»: Ap 5,2.12; 6,10;
7,2.10; 8,13; 10,3; 11,12; 12,10; 14,7.9.15.18; 16,1.17; 19,1.17; 21,3. «Tuoni»:
Ap 19,6; al singolare: 6,1; 14,2. «Fulmini, voci e tuoni»: Ap 4,5; 8,5; 11,19;
16,18. Sull’uso di quest’ultima formula, cf. Vanni, La struttura, pp. 141-148.

182
è in attesa. Qui sono descritti tutti gli elementi che in qualche
misura interesseranno lo svolgimento dei fatti seguenti.

Seconda scena: i sette tuoni (vv. 3b-4)


Questa scena presenta soltanto elementi uditivi: i sette tuo-
ni e l’ordine dato al veggente di sigillare quanto hanno detto i
tuoni. A questo proposito è interessante notare che ogni volta
che si parla di un libro vengono nominati anche dei sigilli:
in Ap 5 c’è un libro sigillato, che solo l’Agnello può aprire, e
di fatto apre. In Ap 22,10 troviamo il comando opposto: non
sigillare! Nel nostro testo invece troviamo l’ordine di sigillare,
ma non direttamente il libro, che è aperto e di cui significati-
vamente si tace per ora il contenuto, bensì le parole dei sette
tuoni. In definitiva, abbiamo un libro da leggere (l’Apocalis-
se) nel quale vengono rivelati eventi che prima erano nascosti
(il libro del c. 5), e insieme parole che non devono diventare
scritte e che all’interno della rivelazione devono restare segre-
te. Il mistero, quindi, non è ancora del tutto rivelato.

Terza scena: il giuramento dell’angelo (vv. 5-7)


Qui si ritrovano uniti nuovamente elementi visivi e uditivi.
L ’angelo che giura dà valore affidabile e irrevocabile alle paro-
le che pronuncia: è il verdetto che segna la fine del tempo, in
risposta all’accorata invocazione di quelli che sono stati «ucci-
si a causa della parola» (Ap 6,10). Il mistero di cui si parla in
questo passo e che ha la sua realizzazione a partire da 11,15
per indicazione dello stesso autore, ha a che fare con l’esito
della vicenda umana e cristiana, sottoposta a tali pressioni e
persecuzioni, da far sorgere l’esigenza di conoscere chi alla
fine vincerà, se la forza del male o la debolezza della croce. È
infatti sintomatico che coloro che pregano sotto l’altare per
chiedere l’affrettarsi dell’avvento del giusto giudizio di Dio
(6,9-10), sono descritti con lo stesso termine con il quale è de-
scritto l’Agnello: «Sgozzati» (esfagménoi: cf. 5,6)13.
Con il suono della settima tromba termina il settenario, che
aveva ritmato il processo e il dinamismo della storia, e si apre
la fase conclusiva, il confronto determinante che vedrà la defi-
nitiva condanna del maligno e dei suoi rappresentanti.
13
Le altre ricorrenze: detto dell’Agnello (5,6.9.12; 13,8); detto dei credenti
(6,9; 18,24); una volta (13,3) della bestia che imita l’Agnello; una volta (6,4) a
indicare il compito del cavallo rosso.

183
Quarta scena: il «piccolo libro» (vv. 8-11)
La scena è composta da due comandi che la «voce» impar-
tisce al veggente, dalla loro esecuzione e infine da un comando
riguardante il futuro, espresso con la formula «è necessario»
(deî), che lega l’azione al progetto divino.
Il testo è parallelo a quello in cui il profeta Ezechiele riceve
un comando analogo (Ez 2,8; 3,1), anche se Giovanni, come è
sua abitudine, apporta una serie di modifiche al modello vete-
rotestamentario. Ezechiele parla di un «rotolo», Giovanni di
un «piccolo libro»; manca in Ezechiele la menzione del suo
sapore amaro; in Giovanni è assente il dato che nel rotolo so-
no scritti «lamenti, pianti e guai» e che è scritto «davanti e
dietro». Quest’ultimo dato è ripreso invece nella scena del c. 5.
Si può dire che esiste un legame tra il testo di Ezechiele e i due
passi dell’Apocalisse (5,1 e 10,2.8-11) che da esso traggono
ispirazione. Ma è il contesto di Ezechiele che può dare mag-
giori delucidazioni sul senso dell’episodio. La scena, infatti, in
cui il profeta riceve l’ordine di mangiare il rotolo, è una scena
di vocazione e di missione. Il profeta deve parlare a un popolo
che non ha intenzione di ascoltare, che ha «una dura cervice e
un cuore ostinato» (Ez 3,7), che anzi diventerà per lui «come
cardi e spine», per cui egli verrà a trovarsi come «in mezzo a
scorpioni» (Ez 2,6). A questo corrisponde forse l’amarezza del
libro ingoiato? Se procediamo nella lettura, l’episodio violen-
to di Ap 11 ci dà una risposta positiva: il compito profetico
del veggente e della Chiesa è fortemente contrastato e rifiutato
fino a sfociare nella morte violenta. Lo stesso Ezechiele, qual-
che versetto più avanti, traduce l’immagine del «mangiare» il
libro: «Figlio dell’uomo, tutte le parole che ti dico accoglile
nel cuore e ascoltale con gli orecchi». «Mangiare» è perciò il
simbolo dell’assimilazione, dell’accoglienza interiore e incon-
dizionata, del divenire quel che si mangia, assumendolo come
compito personale.
La citazione di Daniele con la quale si conclude questo te-
sto è altrettanto significativa. In Dn 3,4 la menzione dei popoli
e dei regni è nel contesto dell’invito all’adorazione della sta-
tua dell’idolo d’oro fatta costruire da Nabucodonosor. In Ap
7,14 gli stessi vengono menzionati nel contesto della visione
del Figlio dell’uomo al quale il Vegliardo conferisce un potere
eterno.
Il compito di profetizzare potrebbe allora essere compreso,
sulla scorta di questi testi, come la missione evangelizzatri-

184
ce che fa passare dall’idolatria e dal paganesimo al riconosci-
mento e all’adorazione del vero Dio.

Conclusioni
Il c. 10 conferma anzitutto l’impostazione e le principali
tematiche di tutto il libro: si tratta di una meditazione sulla
storia e in particolare sulla storia che la Chiesa perseguitata
deve affrontare. Se da una parte la persecuzione rende chiara
la forma privilegiata della sequela, dall’altra pone persisten-
temente il problema del male e di come si concili con la sal-
vezza già ottenuta dal sangue di Gesù Cristo. Da qui la forte
tensione verso la fine, il senso di una storia direzionata, che
solo nella fede e nell’ascolto della Parola può intravedere il
suo percorso e lo può percorrere alla sola condizione di perse-
verare nella fiducia.
La modalità, tipica dello svolgimento narrativo del libro
dell’Apocalisse, è quella di mostrare, di dipingere dei quadri,
che non necessariamente vanno letti in successione, quasi a
formare un grande mosaico, ma più similmente a una serie
di diapositive, ove ogni quadro, pur avendo rapporti con l’in-
tera storia, ha una sua compiutezza. Così avviene anche per
quanto riguarda il c. 10. La sua comprensione deriva non tan-
to dall’analisi di ciò che è scritto, quanto dai suggerimenti di
ciò che è disegnato.
La presenza dell’angelo e la sua posizione a cavallo tra ma-
re e terra dà al lettore-ascoltatore (contemplante) la ferma fi-
ducia che il mondo, nonostante le apparenze, rimane sotto il
benefico potere di Dio; che il male con tutta la sua virulenza,
che arriva a togliere la vita ai cristiani, sarà soggetto di un
severo giudizio di Dio. D’altra parte, la fine non è ancora così
imminente: la parola di Dio deve ancora essere annunciata e
predicata, la rivelazione ha in serbo ancora segreti, che vanno
conservati e custoditi per l’avvenire. Contro ogni fretta escato-
logica, viene qui riaffermato il progressivo svelarsi del disegno
di Dio e il suo dipanarsi nella storia degli uomini.

185
Roberto Filippini
________

I due testimoni
(Ap 11,1-13)

L ’episodio dei due testimoni chiude la lunga sezione ini-


ziata in Ap 9,13 con lo squillo della sesta tromba e precede
immediatamente il suono della settima (11,15), con cui è
annunciata la fase decisiva degli eventi degli ultimi tempi: il
compimento del misterioso piano che vedrà sconfitte una do-
po l’altra le potenze demoniache fino allo stabilirsi incontra-
stato del regno di Dio.

La funzione del brano nel suo contesto


È necessario tuttavia riconoscere, con molti studiosi, una
cesura fra i tre episodi della sesta tromba: il primo (9,13-21:
lo scatenarsi della cavalleria infernale) appartiene ancora alla
serie precedente dei flagelli-piaghe, con cui Dio vuole ammo-
nire l’umanità idolatrica ed empia per condurla al pentimento,
senza peraltro ottenere alcun risultato (cf. 9,20-21). Le altre
due scene (10,1-11: la consegna del piccolo libro a Giovanni;
11,1-13: il ministero dei due testimoni) si legano intimamente
fra loro e insieme propongono il tema della tormentata mis-
sione della Chiesa.
Quello che si vuole sviluppare nell’ampliamento della sesta
tromba, attraverso i due ultimi episodi, è il ruolo che devono
ricoprire i seguaci dell’Agnello – Giovanni, i profeti e tutta la
comunità ecclesiale – nello svolgersi della storia, prima che
scocchi il momento finale e squilli l’ultima tromba. Del resto,
il prolungarsi sproporzionato della sezione conferisce al rac-
conto un senso di dilazione e di ritardo, proprio del tempo fra
il «già» e il «non ancora», che viene protratto e che va riempi-
to dal compito missionario dei cristiani.
Il «piccolo libro», che l’angelo disceso dal cielo ha fatto
mangiare al veggente (10,2; cf. articolo precedente, ndr), ha
rivelato come i seguaci di Cristo debbano partecipare alla ve-

186
nuta del regno di Dio, offrendo a tutta l’umanità la testimo-
nianza di Gesù e imitandone il sacrificio e la vittoria. Ora, la
pericope dei due testimoni costituisce con tutta probabilità
il contenuto stesso del piccolo libro. L ’episodio mostra che il
regno di Dio viene «mediante la testimonianza sacrificale del
popolo eletto che già riconosce il dominio di Dio e porta an-
che le nazioni ribelli a fare altrettanto»1.
Un’ultima osservazione. Il rapporto dei tempi dei verbi
nel testo greco presenta, nella parte narrativa, un fenomeno
particolarmente curioso che la traduzione italiana ha quasi
eliminato: prima una serie di futuri (v. 3); poi una serie di pre-
senti (v. 9), infine una serie di passati puntuali, nella forma
dell’aoristo (vv. 11-13). La successione inversa rispetto a quel-
la naturale sottrae il racconto a una collocazione cronologica
precisa, ponendo il lettore di fronte a uno schema teologico
che interessa la Chiesa di ogni tempo e che ora veniamo ad
analizzare.

La Chiesa, popolo regale, sacerdotale e profetico


La prima scena del c. 11 presenta un nuovo contatto con il
libro di Ezechiele: mentre il profeta vede un angelo misurare
il tempio futuro (Ez 40,3ss.), Giovanni riceve egli stesso l’or-
dine di misurare e di distinguere due aree di attività specifica.
Avendo assimilato nel proprio intimo la rivelazione divina,
suo tormento e sua consolazione, egli non sarà solo spettatore
della storia della salvezza, ma vi sarà coinvolto come parte at-
tiva del suo svolgimento, proclamando con efficacia la Parola:
Poi mi fu data una canna simile a una verga e mi fu detto: «Al-
zati e misura il santuario di Dio e l’altare e il numero di quelli
che vi stanno adorando. Ma l’atrio che è fuori del santuario,
lascialo da parte e non lo misurare, perché è stato dato in balìa
dei pagani, i quali calpesteranno la città santa per quarantadue
mesi» (11,1-2).

Misurare significa dare dei limiti e distinguere. Ciò che è


misurato viene distinto da ciò che non lo è. Il santuario, l’al-
tare e coloro che vi prestano culto, col gesto profetico di Gio-
vanni, vengono collocati sotto la protezione e la difesa di Dio,
mentre viene escluso dall’egida divina il cortile più esterno,
1
R. Bauckham, La teologia dell’Apocalisse, Brescia 1994, p. 104.

187
quello dei gentili, che è visto però come un tutt’uno con il re-
sto della città.
Di quale città si parla? Come si chiarisce nel prosieguo del
testo, non è la Gerusalemme del 70 d.C. o di qualsiasi altro
periodo precedente o successivo; o, almeno, non è solo que-
sto. Infatti, più avanti è detta «la grande città» (v. 8) e quindi,
secondo l’usuale senso dell’espressione nell’Apocalisse, Ba-
bilonia ovvero Roma; ma è detta anche Sodoma ed Egitto: è
insomma il simbolo geografico di quella città terrena, di quel­
l’umanità, dove potranno imperversare le forze ostili che si
contrappongono alla città di Dio, la comunità vista nella sua
realtà liturgica ideale, il tempio, a cui viene invece assicurata
una permanenza indefettibile.
L ’autore vuole annunciare che nella storia di questa città
terrena vi saranno momenti di prevalenza delle forze ostili:
«L ’atrio del tempio [...] è stato dato in balia dei pagani, che
calpesteranno la città santa». Tuttavia, si tratterà di una vitto-
ria effimera dalla durata limitata: «I quarantadue mesi equi-
valgono a tre anni e mezzo, numero caratteristico della par-
zialità, della precarietà: è la metà di sette»2. In questo tempo
che corrisponde ai milleduecentosessanta giorni del v. 3, la
comunità ecclesiale riceverà da Dio una forza di resistenza e
di lotta, rappresentata dai due testimoni: «Farò in modo che i
miei due testimoni, vestiti di sacco, compiano la loro missione
di profeti per milleduecentosessanta giorni».
Sono state tentate molte identificazioni di queste due fi-
gure: personaggi reali dell’Antico Testamento (Elia ed Enoc;
Elia e Mosè), personaggi reali del Nuovo Testamento (Pietro
e Paolo; Giacomo e Giovanni); oppure si è pensato a gruppi
e categorie (i profeti dell’Antico Testamento e gli apostoli; gli
apostoli e i profeti della comunità). Ogni individuazione la-
scia molti dubbi e naufraga miseramente, specie quando si
tende a distinguere nella coppia ciascuno dei membri come se
avesse una propria precisa caratterizzazione. Al contrario, il
testo insiste sui medesimi poteri, le medesime qualità e le me-
desime azioni, enfatizzando così la loro identità nella comune
funzione di testimonianza, tanto che Giblin parla, a ragione,
di una coppia gemellare3.
Questi sono i due olivi e le due lampade che stanno davanti al
2
U. Vanni, L ’Apocalisse: ermeneutica, esegesi, teologia, Bologna 1998, p. 374.
3
Cf. Ch. Giblin, Apocalisse, Bologna 1993, pp. 84-86.

188
Signore della terra. Se qualcuno pensasse di far loro del male,
uscirà dalla loro bocca un fuoco che divorerà i loro nemici. Così
deve perire chiunque pensi di far loro del male. Essi hanno il
potere di chiudere il cielo, perché non cada pioggia nei giorni
del loro ministero profetico. Hanno anche potere di cambiar
l’acqua in sangue e di colpire la terra con ogni sorta di flagelli
tutte le volte che lo vorranno (vv. 4-6).
I riferimenti anticotestamentari e gli elementi simbolici si
accumulano così numerosi, in uno stupefacente effetto di so-
vraimpressione, che i due si sganciano da qualsiasi determi-
nazione precisa: si deve parlare piuttosto di modelli generali,
applicabili anche a personaggi concreti che nei diversi tempi
incarnano la missione di tutta la Chiesa, oppure di «personali-
tà corporative» che la rappresentano e la inglobano in sé.
Che i due testimoni siano simbolo della Chiesa nel suo ruolo di
testimonianza al mondo – sostiene Bauckham – viene mostrato
dalla loro identificazione come lampade, il simbolo delle Chiese
nel c. 1, dove le sette Chiese sono rappresentate da altrettante
lampade (Ap 1,12.20). Che essi siano solamente due non sta a
indicare che rappresentino soltanto una parte della Chiesa inte-
ra, ma è conforme alla ben nota esigenza biblica che attribuiva
validità a una testimonianza soltanto se resa da due testimoni
(cf. Dt 19,15)4.
Confermano questa decifrazione ecclesiale globale i riferi-
menti a Zc 4,1-14, individuabili nel v. 4: «Questi sono i due
olivi e le due lampade che stanno davanti al Signore della ter-
ra...». Per A.A. Trites5 si allude qui al carattere sacerdotale e
regale della comunità cristiana che, come leggiamo in 1,16,
Cristo ha liberato dai suoi peccati e ha costituito «regno, sa-
cerdoti per Dio e Padre suo»: è la Chiesa intera che ha eredi-
tato i compiti dei due «consacrati» del libro di Zaccaria, il re
Zorobabele e il sacerdote Giosuè.
Ma la Chiesa eredita soprattutto i caratteri della grande
profezia veterotestamentaria. Il «potere di chiudere il cielo
perché non cada la pioggia» (v. 6a) è un chiaro rimando a Elia
(cf. 1Re 17,1), mentre la facoltà di «cambiare l’acqua in san-
gue e di colpire la terra con ogni sorta di flagelli...» (v. 6b) ci
riporta ai prodigi dell’esodo e ai profeti di Yhwh che li hanno
compiuti, Mosè e Aronne (cf. Es 7,17.19-20).
4
Bauckham, La teologia, p. 105.
5
Cf. A.A. Trites, The New Testament concept of Witness, Cambridge 1977,
pp. 164-165.

189
C’è un altro accostamento con Elia che troviamo nel v. 5:
«Se qualcuno pensasse di far loro del male, uscirà dalla loro
bocca un fuoco che divorerà i loro nemici». Per Trites si può
parlare a ragione di una rebirth of images del miracolo di 2Re
1,10, una lettura reinterpretante, probabilmente influenzata
da Ger 5,14: «Ho fatto delle mie parole un fuoco nella tua boc-
ca e di questo popolo della legna, ed essa arderà», e special-
mente ispirata da Sir 48,1: «Allora il profeta Elia si levò come
un fuoco e la sua parola bruciava come torcia». I testimoni
sono dunque dotati delle stesse capacità e della stessa autorità
dei profeti, ma, al di là delle immagini, come per i profeti, è la
Parola a costituire l’arma decisiva della loro missione: il fuoco
che distrugge e purifica, metaforico quanto la spada a due ta-
gli che esce dalla bocca del Cristo glorioso (1,16; 13,16; 19,15;
cf. Os 6,5; Ef 6,17).
Lo scenario dello scontro, ci viene detto al v. 8, è «la grande
città, che spiritualmente si chiama Sodoma ed Egitto»: come
abbiamo anticipato, ci troviamo di fronte a una denomina-
zione-involucro, quasi una scatola cinese, con tutta una serie
di rimandi. La grande città (he pólis he megále) è infatti Babi-
lonia, per la maggior parte dei passi in cui compare (cf. 14,8;
16,19; 17,1ss.), ma dietro all’antica capitale caldea si nascon-
de Roma e il suo impero: «Le sette teste sono i sette colli sui
quali è seduta la donna [...]. La donna che hai visto simboleg-
gia la grande città che regna su tutti i re della terra» (17,9.18).
In questo modo, infine, si intravede tutto il mondo lonta­no
da Dio e corrotto, che viene rivelato nella sua identità pneu­
matikôs, cioè sotto l’influsso dello Spirito profetico, con le
denominazioni di «Sodoma», la città degli abomini sessuali-
cultuali (cf. Ez 16,46), ed «Egitto», luogo di idolatria e di
schiavitù (cf. Sap 19,14).
Fornicazione, idolatria e ingiustizia: non sono questi gli ob-
biettivi classici, contro cui si sono scagliati con i loro oracoli
i profeti di tutti i tempi, chiamando i loro ascoltatori a una
reale e radicale conversione di vita?

Testimonianza e martirio
La parola dei testimoni porta dunque il giudizio di Dio che
brucia un tale mondo e lo tormenta, «svelando la vera real-

190
tà degli uomini e delle cose»6. È questo che gli uomini non
possono tollerare: i testimoni perciò non devono aspettarsi
di essere trattati meglio dei profeti, loro predecessori; la loro
missione scatenerà una reazione violenta. È proprio l’accosta-
mento con la profezia a muovere l’idea della testimonianza
verso quella del martirio.
L ’atto comunicativo dei testimoni, similmente a quello dei
profeti, non si risolve infatti in un pacato scambio di infor-
mazioni, come può avvenire in un tranquillo congresso di ri-
cercatori o di fronte all’attento pubblico di una conferenza.
La parola di Dio da essi proclamata irrompe nelle contraddi-
zioni delle vicende umane; come il bisturi del chirurgo, opera
grandi incisioni, mettendo a nudo i mali della storia, le falsità
idolatriche, le ingiustizie e le perversioni più sordide: provoca
crisi, giudica e appella al cambiamento. Ma, inevitabilmente,
il profeta attira su di sé il male denunciato che gli si rivolta
contro, come una belva ferita.
Per l’autore dell’Apocalisse i discepoli di Gesù sono di fron-
te a un tempo di severa prova: si avvicina uno scontro selvag-
gio e mortale, che va affrontato assumendo coscientemente gli
atteggiamenti spirituali più idonei. I cristiani, tutti «potenzial-
mente profeti, se sono coerenti col loro battesimo»7, vengono
chiamati perciò a collocarsi alla loro sequela, disponendosi a
condividerne la sorte.
E quando poi avranno compiuto la loro testimonianza, la bestia
che sale dall’abisso farà guerra contro di loro, li vincerà e li uc-
ciderà (v. 7).
Entra così in scena questo personaggio mostruoso di de-
rivazione danielica (cf. Dn 7,21), che nei capitoli seguenti sa-
rà uno dei protagonisti della lotta fra le potenze demoniache,
Dio e i santi (cf. 13,1ss.). È l’immagine dell’imperium, il potere
assoluto del sistema politico-economico, emanazione storica
della potenza satanica, che pretende dagli uomini una devo-
zione senza riserve e che aggredisce e schiaccia gli adoratori
di Dio.
Con l’avversario non sono possibili accordi o compromessi
e lo scontro sarà mortale. La persecuzione e il martirio dei
6
P. Prigent, L ’Apocalisse di S. Giovanni, Roma 1985, p. 335.
7
J.P. Sweet, Maintaining the testimony of Jesus: the suffering of Christians
in the Revelation of John, in W. Horbury - B. Mc Neill, Suffering and Martyr-
dom in the N.T. Studies presented to G.M. Styler by the Cambridge New Testa-
ment Seminary, Cambridge 1981, p. 105.

191
testimoni si presentano dunque come l’esito «naturale» della
loro vocazione profetica; e tuttavia la loro morte non sarà solo
un fatto successivo al loro ministero. Essa stessa diventa un
gesto profetico, momento di testimonianza e di proclamazio-
ne, che ripresenta e rappresenta nel mondo l’evento centrale
della storia: la morte e la risurrezione del Messia crocifisso.
I loro cadaveri rimarranno esposti sulla piazza della grande cit-
tà, che spiritualmente si chiama Sodoma ed Egitto, dove il loro
Signore fu crocifisso (v. 8).
Babilonia, Sodoma, Egitto, Roma e Gerusalemme, cieca
alla venuta del suo re, si fondono in un unico spazio in cui si
svolge il dramma della rivelazione di Dio e dell’accecamento
umano. Ciò che si è compiuto in Cristo continua nei suoi por-
tavoce: può esserci un modo più adeguato di comunicare di
questo, in cui il mezzo si identifica col messaggio? Come per il
racconto del processo e della morte di Stefano in At 7, così per
i due testimoni di Ap 11 si ripete, in una mimesi suggestiva, la
passione di Gesù, anzi l’intero mistero pasquale.
Come per Gesù infatti, anche per i suoi testimoni, la morte
non è l’ultima parola: Dio interviene per risuscitare ed esaltare
i suoi eletti8.
Uomini di ogni popolo, tribù, lingua e nazione vedranno i loro
cadaveri per tre giorni e mezzo e non permetteranno che i loro
cadaveri vengano deposti in un sepolcro. Gli abitanti della ter-
ra faranno festa su di loro, si rallegreranno e si scambieranno
doni, perché questi due profeti erano il tormento degli abitanti
della terra. Ma dopo tre giorni e mezzo, uno spirito di vita pro-
cedente da Dio entrò in essi e si alzarono in piedi, e un grande
timore [fóbos méga] cadde su quelli che stavano a guardarli [epì
toûs theoroûntas autoûs] ( vv. 9-11).
Il popolo messianico, secondo la profezia di Ez 37,5-10, ri-
sorge, investito dalla potenza vivificante di Dio, e viene accol-
to in cielo, dove – lo si dirà nel c. 12 – il Cristo, il figlio maschio
della donna, ha già raggiunto il suo trono (cf. Ap 12,5).
Allora udirono una grande voce dal cielo che diceva loro: Salite
quassù! E salirono al cielo nella nube, e i loro nemici li videro
(v. 12).
8
Era del resto una convinzione ben radicata nei Salmi di lamentazione,
come il Sal 22, e nelle tradizioni circa gli amici di Dio: Enoc in Gen 5,24; Elia
in 2Re 2,11; Mosè secondo la tradizione giudaica: cf. l’ascensione di Mosè in
Clemente Alessandrino, Strom. 6,15.

192
Tutta la vicenda si conclude con questo «vedere» (theoreîn),
tipico vocabolo giovanneo di rivelazione, e con l’apocalittico
terremoto, che produce penitenza e conversione:
In quello stesso momento ci fu un grande terremoto che fe-
ce crollare un decimo della città: perirono in quel terremoto
settemila persone; i superstiti furono presi da timore [émfoboi
egénonto] e dettero gloria al Dio del cielo [kaì édokan dóxan tôi
theôi toû ouranoû] (v. 13).

È questo lo scopo ultimo di ogni profezia, il contenuto del


«Vangelo eterno da annunziare agli abitanti della terra e a
ogni nazione, razza, lingua e popolo: “Temete Dio e dategli
gloria, perché è giunta l’ora del suo giudizio”» (14,6-7).
Il risultato positivo straordinariamente universale della te-
stimonianza resa dai testimoni è sottolineato dall’aritmetica
simbolica del v. 13. Nei giudizi annunciati dai profeti dell’An-
tico Testamento una decima parte (Is 6,13; Am 5,3) o settemila
persone (1Re 19,18) sono il resto fedele che viene risparmiato,
mentre il giudizio annienta la maggioranza. Giovanni, che fa
propria l’allusione con un’inventiva tutta sua, capovolge la si-
tuazione. Un decimo soltanto subisce il giudizio; il resto, che
è risparmiato, sono i nove decimi. Non la fedele minoranza,
ma la maggioranza infedele viene risparmiata perché giunga
al pentimento e alla fede. Grazie alla testimonianza dei due
testimoni, il giudizio diviene effettivamente salvifico9. Se ci
si chiede come la testimonianza del nuovo popolo escatolo-
gico, che in essi è adombrato, possa produrre l’effetto che i
profeti dell’antica alleanza non riuscirono a ottenere, occorre
molto probabilmente rispondere che essa deriva il potere dal
suo contenuto, cioè dalla morte e dalla risurrezione del Cristo-
Agnello.
Perciò la missione profetica della Chiesa viene presentata
in questo passo dell’Apocalisse come un elemento necessario
della storia della salvezza. Il piano di Dio non arriva al suo
compimento, la settima tromba non suona prima che la Chie-
sa abbia avuto tempo di rispondere alla propria vocazione di
essere nel mondo il popolo dei testimoni che, con la parola, i
segni e i prodigi, ma soprattutto con la propria vita donata,
permettano ancora al Signore di parlare, operare, chiamare
alla conversione e salvare.
9
Cf. Bauckham, La teologia, p. 109.

193
Karin Heller
________

La donna e il serpente
(Ap 12)

Per un lettore familiarizzato con la cosiddetta letteratura


di fantasia, il c. 12 dell’Apocalisse contiene numerosi elementi
di un racconto fiabesco. In particolare, la combinazione del-
le «immagini» della donna, del serpente e del figlio neonato,
minacciato dal momento in cui esce dal seno materno, sono
propizi a nutrire l’immaginario umano in modo da accattivare
il lettore. Messo in scena da un produttore di film, il nostro
capitolo potrebbe sembrare uscire piuttosto da un’opera di
science-fiction che da un libro venerabile del canone biblico.

Le radici antropologiche del testo


La nostra osservazione non cerca affatto di diminuire il
carattere sacro della rivelazione contenuta in questa pagina
affascinante. Vuole solo sottolineare le radici antropologiche
comuni al racconto di Ap 12 e ad altre espressioni della ri-
flessione umana, mosse dalla realtà del permanente combatti-
mento tra le forze della vita e della morte, del bene e del male,
della luce e delle tenebre.
Il tema del drago che ruba donne per ingoiarle, poi vinto
dall’eroe che diventa in seguito lo sposo della donna liberata,
è particolarmente diffuso nelle mitologie dell’Europa e dell’A-
sia1. Il lettore di cultura mediterranea non avrà difficoltà a ri-
conoscere elementi simili nel mito di Leto incinta per opera di
Zeus. Hera gelosa, la farà perseguitare dal drago Pitone attra-
verso il mondo intero. Questi sa che, se non riesce a uccidere il
bambino, sarà messo a morte da lui. Leto, portata dalle ali del

1
Cf. il mito di Andromeda liberata da Perseo, in P. Grimal, Mitologia greca
e romana, Garzanti, 1990, p. 44.

194
vento del sud, trova rifugio sull’isola Delos dove metterà alla
luce Apollo, dio del sole. Quattro giorni dopo, Apollo uccide
Pitone2. Più vicino a noi, Carl Gustav Jung ha scoperto nella
rappresentazione del drago ucciso dall’eroe l’immagine della
lotta per liberarsi dalla madre. Solo questa liberazione per-
mette all’eroe una relazione adulta con le donne3. Tutti questi
esempi evocano, ciascuno a modo suo, l’alchimia misteriosa
che lega la vita alla morte o che fa uscire la vita dalla morte.
È ciò che costituisce anche lo sfondo antropologico del rac-
conto contenuto in Ap 12. La donna raffigura senza dubbio la
potenza di vita, colei che, grazie al suo parto e alla sua discen-
denza, assicura l’avvenire dell’umanità (12,2). Nel contempo,
ella appare minacciata da una creatura tenebrosa pronta a in-
goiarla con la sua discendenza appena nata (12,4). Il drago,
quindi, rappresenta queste potenze di morte che si oppongo-
no alla vita. Secondo le diverse tradizioni religiose esse sono
precipitate dall’alto o espulse come aborti maligni dalle regio-
ni inferiori di una Terra-Madre che manifesta così a volte il
suo viso ostile. Si verifica anche nel nostro testo: il drago viene
precipitato sulla terra dall’alto (Ap 12,9.13), mentre la bestia,
altra creatura malvagia, «sale dal mare», cioè dalle profondità
oscure della terra (Ap 13,1).
Davanti a queste similitudini evidenti, esegeti, teologi o
semplici lettori possono turbarsi. La tentazione è allora dop-
pia. La prima consiste nel rifiutare un qualsiasi legame con
il mondo delle espressioni «pagane». Ne consegue allora un
distacco tra la parola di Dio e le realtà umane; si scarta ciò
che i Padri della Chiesa chiamano «il seme del Vangelo» o «un
raggio della Verità che illumina ogni uomo» per riprendere
un’espressione del concilio Vaticano II4. La seconda tentazio-
ne è quella del ridurre il testo biblico a un qualsiasi testo uma-
no. Si elimina così la dimensione di «parola di Dio». Oggi, il
magistero della Chiesa sottolinea che gli scrittori sacri han-
no attinto alle espressioni comuni all’umanità per enunciare
la propria visione. Dio ci ha parlato umanamente, e per farlo
non ha disprezzato né la carne umana, né le espressioni for-
giate progressivamente dal pensiero umano da secoli, persino
2
Cf. K. Kerényi, Gli dei della Grecia, Il Saggiatore, 1994, pp. 118ss.
3
Cf. C.G. Jung, Métamorphoses de l’âme et ses symboles; cf. in particolare:
La lutte pour se délivrer de la mère (VI) e Le sacrifice (VII).
4
Cf. Nostra aetate 2.

195
millenni5. In questo modo, il proprio del discorso di Dio sta
nel parlare altrimenti utilizzando linguaggi umani6. Da qui
sorge una domanda: che cosa ci dice il testo? E che cosa ci
dice in particolare attraverso queste immagini impressionanti
presenti nel c. 12 dell’Apocalisse?

Il quadro del racconto: cielo e terra


Una giusta comprensione del nostro capitolo è inseparabile
da una realtà semitica fondamentale: la visione propria del
cielo e della terra. Ne sottolineiamo tre aspetti.

r Già nell’Antico Testamento, i diversi racconti della creazio-


ne non vogliono semplicemente presentare il modo con cui
il Dio di Abramo e di Mosè ha creato tutto. Essi assumono
invece una funzione apologetica, cioè proclamano la fede spe-
cifica del popolo d’Israele e lo confortano nella sua situazione
di popolo di Dio sottomesso a tentazioni e attacchi. Così il
racconto in Gen 1, redatto durante l’esilio in Babilonia, conte-
sta la superiorità degli dèi del vincitore babilonese. Riafferma
che il Dio di Israele è l’unico creatore del cielo e della terra e
di tutto ciò che contengono. Anche se Israele è stato sconfitto
dal re di Babilonia, né cielo, né terra, né sole, né luna o altre
creature hanno un carattere divino come è il caso nel mondo
babilonese.

r Nella visione ebraica, è il Dio creatore e redentore che gui-


da la storia di tutto ciò che capita in cielo come in terra. Il
cielo non si impone agli uomini alla maniera di una divinità
capricciosa. Egli stesso e tutto ciò che contiene è sottomesso
e obbedisce a Dio. Per Israele, il cielo esprime la volontà divi-
na quando dà la pioggia fecondante o la ritiene (Is 5,6 ed Ez
34,26), quando le sue creature come gli angeli vengono in aiu-
to agli uomini o applicano una sanzione divina7. Per Israele
il cielo è sottomesso a un giudizio, conosce un fine e va verso
una ricreazione (Is 51,6; 66,22). Niente di ciò che capita in
cielo e sulla terra sfugge quindi a Dio.
5
Cf. Dei Verbum 12.
6
Cf. P. Beauchamp, Théologie biblique, in Initiation à la pratique de la théolo-
gie, vol. I, Éd. du Cerf, 1982, p. 197.
7
Cf., ad esempio, l’angelo che assiste Tobia o quello che getta l’uva nel
grande tino dell’ira di Dio (Ap 14,19).

196
r Nella mentalità degli uomini del Medio Oriente antico esi-
ste una legge di corrispondenza tra le realtà terrestri e cele-
sti. Secondo questa concezione tutte le realtà terrestri sono le
«immagini» di realtà celesti. Paesi, città, fiumi, templi, creatu-
re di ogni sorta, hanno il loro «modello» nel cielo. Gli autori
dell’Antico Testamento esprimono questa convinzione nel mo-
mento dell’esodo in cui si procede alla costruzione della tenda
del convegno; essa è da eseguire secondo il modello dato a ve-
dere a Mosè sul monte (Es 25,9.40). Allo stesso modo preesiste
per Israele la Torah e il rotolo che contiene i decreti divini (Es
24,12; Ez 2,9-10), nonché la spada del Signore che si inebria
nel cielo prima di abbattersi su un popolo della terra per fare
giustizia (Is 34,5).

Alla luce di queste realtà bibliche possiamo adesso affer-


rare meglio la visione presentata in Ap 12. Si indirizza alla
comunità cristiana confrontata a una situazione di crisi. Es-
sa conosce sia l’opposizione da parte dell’impero romano e la
persecuzione, sia il rischio di affondare nella tiepidezza e lo
scoraggiamento, poiché la parusia sperata si fa attendere. In
questa situazione è data ai cristiani una visione celeste: ap­
paio­no nel cielo due segni: la donna e il drago. Lo scopo del-
la visione è di dare un senso alla situazione di vita concreta,
difficile dei cristiani. La loro situazione terrena corrisponde a
una situazione celeste. È dato loro a vedere «il modello divi-
no» di ciò che vivono sulla terra.
Al combattimento dei cristiani corrisponde una battaglia
celeste che scoppia tra Michele e i suoi angeli e il drago, anche
lui assistito dai suoi (12,7). Ai cristiani paurosi, scoraggiati
e tiepidi è assicurata la vittoria di Michele e del suo esercito
celeste. Il drago e i suoi seguaci sono sconfitti per sempre; non
c’è più posto per loro nel cielo, vengono precipitati sulla terra
(12,8-9) e si canta ormai il cantico della vittoria: «Si è compiu-
ta la salvezza, la forza e il regno del nostro Dio e la potenza
del suo Cristo» (12,10-12). Secondo la concezione biblica pe-
culiare del cielo e della terra, il messaggio di questa visione è
doppio. Essa proclama la vittoria di Dio e del suo Cristo nel
cielo; il «modello celeste» permette ai cristiani di scoprire la
sua replica sulla terra. La loro situazione non è quella di una
sconfitta, ma di una vittoria che si sta realizzando. Se la vit-
toria è già certa, la battaglia non è ancora compiuta; ormai il
diavolo e il suo esercito sono presenti sulla terra dove conti-
nuano la loro opera di seduzione e di persecuzione.

197
L ’identità della donna
La questione dell’identità della donna è stata dibattuta da
molti esegeti e teologi. Per i cristiani cattolici una frequen-
te interpretazione vedeva in questa donna la Vergine Maria.
L ’interpretazione è stata accompagnata dall’immagine della
Vergine coronata da dodici stelle, in piedi sul globo terrestre
sul quale schiaccia un serpente. Quest’iconografia si è diffusa
fortemente in seguito al concilio di Trento e poi alla procla-
mazione del dogma dell’Immacolata concezione (8 dicembre
1854). Dal punto di vista biblico quest’interpretazione era
collegata a un parallelismo tra il «Protovangelo» contenuto
in Gen 3,15 e la battaglia tra la donna e il drago enunciata
in Ap 12. Oggi la maggior parte degli esegeti ha abbandonato
la lettura probabilmente troppo affrettata di questo paralleli-
smo, poiché ignora molti elementi del racconto tramandato in
Ap 128. Dobbiamo quindi affrontare nuovamente la questione
dell’identità della donna.
Incontriamo l’immagine della donna coronata da dodici
stelle, ornata dal sole e dalla luna, già nelle culture del Me-
dio Oriente antico. In quel contesto rappresenta la «regina del
cielo», la dea dell’amore, Inana, più conosciuta da noi sotto
il nome di Afrodite o Venere9. Più esattamente, rappresenta
un tratto preciso di questa divinità celeste, cioè la dimensione
cosmica dell’amore. Difatti, nelle culture del Medio Oriente
antico, l’amore non è percepito come una realtà intima che
riguarda soltanto un uomo e una donna; l’amore ha una di-
mensione addirittura cosmica, poiché dal desiderio sessua-
le dipende tutta l’esistenza del cosmo. In questa prospettiva
la donna sotto l’aspetto astrale raffigura la vita cosmica che
trionfa sempre sulle forze del caos, delle tenebre e della morte
per mezzo della sua capacità di suscitare il desiderio sessuale
e di mettere in vita ogni essere in cielo e sulla terra.
I teologi del popolo d’Israele non sono stati totalmente
estranei a una tale visione. Essi hanno certo scartato e respin-
to vigorosamente l’idea di una divinità femminile, sposa del
Dio di Abramo e di Mosè. A motivo però della promessa di
8
Cf. P. Prigent, Il messaggio dell’Apocalisse, Borla, 1982, p. 164.
9
Cf. una delle rappresentazioni più antiche della dea dell’amore in Me-
sopotamia, in J. Black - A. Green, Gods, Demons and Symbols from Ancient
Mesopotamia. An Illustrated Dictionary, illustrations by T. Rickards, British
Museum Press, 1992, p. 108.

198
una discendenza ad Abramo e a Davide (Gen 15,1-18; 2Sam 7,
12-15), la tematica della donna partoriente e del figlio promes-
so da Dio e da mettere al mondo, è diventata una delle tema-
tiche centrali del messaggio biblico. In quel contesto l’imma-
gine della «donna» può significare una donna singola, come
è il caso dell’alma, la giovane donna, madre dell’Emmanuele,
cioè «Dio con noi». In generale però l’immagine va oltre il si-
gnificato di una donna particolare. La sposa di Dio è l’intero
popolo d’Israele (Os 1-3) o la città di Gerusalemme (Is 62). In
quest’ultima prospettiva si parla della Figlia di Sion che ha
dato alla luce un paese in un giorno e un popolo in un istante
(Is 66,7-8).
Nel capitolo che commentiamo «l’immagine» della donna
è preceduta da quella della visione dell’arca dell’alleanza nel
santuario celeste (11,19). Ricorda la fedeltà assoluta di Dio
verso il suo popolo, l’alleanza conclusa con Abramo, la pro-
messa divina di una terra e una discendenza, il patto stabi-
lito per mezzo di Mosè sul monte Sinai, il cammino dell’e-
sodo all’ombra dell’arca dell’alleanza conservata nella tenda
del convegno, riempita dalla gloria del Signore (Es 40,1-38).
Siccome il concetto biblico di alleanza evoca il rapporto tra
sposo e sposa, tra Dio e il suo popolo, il segno dell’arca è se-
guito logicamente da quello della donna.
Ella è «vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul suo
capo una corona di dodici stelle». Con quegli attributi l’autore
passa dalla visione del popolo di Dio nel deserto a quella del-
la città di Gerusalemme come è evocata nel c. 60 del libro di
Isaia. Essa non sarà più illuminata dal sole di giorno e dalla
luna di notte, perché il Signore stesso sarà per lei luce eterna,
in modo che il suo sole non tramonterà più e la sua luna non
si dileguerà (Is 62,19-20). Nell’Antico Testamento il sole è un
simbolo di Dio e in particolare della giustizia del Signore (Sal
84,12; Ml 3,20); nel Nuovo il sole rinvia a Cristo (Mt 17,2; Ap
1,16) e si dice dei giusti che «splenderanno come il sole nel
regno del Padre loro» (Mt 13,43).
La donna rivestita dal sole in Ap 12, come era già il caso
della sposa del Cantico dei Cantici, sposa «fulgida come il so-
le» (Ct 6,10), raffigura quindi il popolo di Dio. Quanto alla lu-
na che regola lo svolgimento del tempo, è ormai sotto i piedi
della donna. Ella domina le vicissitudini del tempo, perché

199
vive già nell’eternità di Dio10. La sua situazione vittoriosa è
sottolineata dalla corona, attributo tipico del vincitore e del-
la sposa. La sua vittoria sono le dodici stelle, simbolo tradi-
zionale delle dodici tribù d’Israele. Si può considerare con U.
Vanni che le dodici tribù e i dodici apostoli si sovrappongono,
«sottolineando così l’unità del popolo di Dio e dell’Antico e del
Nuovo Testamento»11.
Detto ciò, l’autore non si sofferma a questa visione vitto-
riosa. Torna all’immagine impressionante della partoriente,
minacciata dal drago pronto a divorare il bambino appena na-
to. Con questa immagine si riferisce alla situazione storica di
Israele che vive in mezzo alle nazioni come una donna incinta
che si contorce e grida nei dolori per mettere al mondo la di-
scendenza promessa da Dio ad Abramo (Is 26,17). Quando ha
ceduto alle tentazioni dei culti idolatrici delle nazioni (l’Egit-
to, la Babilonia, l’Assiria), partorisce vento (Is 26,18) oppure
si dice che «il figlio è privo di senno, poiché non si presenta
a suo tempo all’uscire dal seno materno» (Os 13,13). La mes-
sa al mondo del discendente e della discendenza si fa quindi
sempre sotto la minaccia del «drago», cioè delle forze politi-
che delle nazioni che parlano come se fossero dèi, ingannano
con i loro discorsi e fanno inciampare Israele. Così, già per
Israele, il faraone d’Egitto e il re di Babilonia Nabucodonosor
sono dipinti sotto i tratti di un tannin, cioè un serpente, mo-
stro marino, coccodrillo o drago12.
L ’autore dell’Apocalisse riprende poi l’immagine dell’Esodo
quando presenta la donna che fugge nel deserto «ove Dio le
aveva preparato un rifugio» (Ap 12,6). Il riferimento alle «due
ali della grande aquila» che le sono date per volare verso il
rifugio preparato da Dio, rinviano all’azione di Dio che ha sol-
levato Israele «su ali di aquile» per portarlo dall’Egitto fino al
monte santo (Es 19,4). Nella stessa linea si può pensare che il
nutrimento nel deserto, lontano dal serpente (Ap 12,14), evoca
la manna data da Dio lungo questo periodo di prova; esso è
espresso dalla formula «un tempo, due tempi e la metà di un
tempo», cioè un periodo ben determinato, limitato e del quale
Dio ha già segnato la scadenza, come fu anche il caso della
marcia attraverso il deserto (Nm 14,34).

10
Cf. U. Vanni, Apocalisse, Queriniana, 1990, p. 106.
11
Cf. Ivi.
12
Cf. Ez 29,3; Ger 51,34.

200
Tenendo conto di tutti questi elementi, si deve concludere
che il nostro brano vede nella figura della donna un collettivo,
il popolo di Dio, cioè «quelli che osservano i comandamenti di
Dio e sono in possesso della testimonianza di Gesù» (Ap 12,
17). Non si tratta di una dea, ma del popolo di Dio allo stato di
vero e autentico partner di Dio grazie allo statuto di alleanza.
Come tale è nel contempo una realtà preesistente in Dio, una
realtà storica e una figura escatologica. Ammesso ciò, rimane
da risolvere il problema della nascita del figlio maschio. Come
intendere questa nascita nel momento in cui si scarta l’identi-
ficazione della donna con Maria e si interpreta a favore di una
figura collettiva?

Il discendente e la discendenza
Nella mentalità dei cristiani e nell’iconografia ortodossa e
cattolica prevale senza dubbio l’immagine di Maria con Gesù
bambino. Non è facile determinare la natura esatta di que­
st’attaccamento talvolta eccessivo, nel contempo affettivo, psi-
cologico e religioso all’immagine della madre e del bambino.
La realtà però è che Gesù, diventato adulto, pronuncerà un
giorno questa parola sorprendente: «Chiunque fa la volontà
del Padre mio che è nei cieli, questi è per me fratello, sorella
e madre» (Mt 12,50). Di fronte a tale affermazione, il popolo
dei fedeli ha sempre avuto qualche difficoltà a passare dalle
immagini individuali della madre e del figlio a quelle collettive
della Chiesa e dei figli di Dio, la comunità dei fratelli e del-
le sorelle, attestate lungo la rivelazione neotestamentaria (Gv
1,12; 16,21-23; Eb 2,10-11).
Alla luce di questa osservazione, possiamo leggere il brano
che commentiamo nel modo seguente. All’interpretazione del-
la donna percepita come un collettivo corrisponde quella del
figlio maschio inteso anche lui come un collettivo, i fratelli,
inseparabili però dalla figura del Figlio unico, morto e risorto.
Si tratta più esattamente del corpo di Cristo, l’uomo perfetto,
che è da edificare «nella misura che conviene alla piena ma-
turità di Cristo» (Ef 4,13). Nel pensiero teologico di san Paolo
l’edificazione del corpo di Cristo è concepita sotto due aspetti:
si tratta di generare e di partorire le membra della comunità
cristiana (1Cor 4,15; Gal 4,19); quest’impegno è inseparabile
dall’entrata nella passione di Gesù (2Cor 4,7-15). La nascita
del figlio maschio presentata in Ap 12 ha quindi un doppio

201
significato: esprime la passione-risurrezione-elevazione di Ge-
sù, evento nel quale sono chiamati a entrare i membri della
comunità cristiana, affinché il corpo di Cristo sia portato a
compimento.
Nel nostro brano il parto della donna è intimamente le-
gato al figlio maschio «destinato a governare tutte le nazio-
ni con scettro di ferro» (Ap 12,5). Questo tratto caratteristico
del figlio rinvia al Sal 2 che costituisce un inno utilizzato nel
momento dell’intronizzazione di un re d’Israele. Il re è chia-
mato «messia» (Sal 2,2) e il giorno della sua intronizzazione
è considerato come il giorno di una sua nuova nascita: «Tu
sei mio figlio, io oggi ti ho generato» (Sal 2,7). Sembra che
questo salmo sia stato molto presto applicato dai cristiani alla
morte-risurrezione di Gesù (At 4,23-30). Il nostro brano non
parla quindi della nascita di Gesù a Betlemme, ma dell’evento
pasquale considerato come una nascita, un’entrata nella vita
nuova presso Dio.
È ciò che fa intendere la formula: «Subito rapito verso Dio
e verso il suo trono» (Ap 12,5); allude alla risurrezione-ele-
vazione di Gesù. Nel contempo enuncia l’evento escatologico
del giudizio delle nazioni; quanto ai cristiani, sono anche lo-
ro associati a queste realtà celesti (1Cor 6,2-3; Ef 2,4-10). Lo
sottolinea l’inno contenuto nei vv. 10-12. Proclama la vittoria
di Cristo e del regno di Dio; i cristiani partecipano a questa
vittoria nella misura in cui hanno condiviso la morte di Gesù;
così facendo, hanno vinto anche loro il grande drago, il diavo-
lo che seduce tutta la terra; di conseguenza, essi partecipano
all’applicazione della sentenza di giustizia: precipitato dal cie-
lo sulla terra, i giorni dell’accusatore dei fratelli sono contati.

Conclusione
Per colui che affronta oggi una pagina dell’Apocalisse come
quella che abbiamo commentato, la difficoltà di lettura pro-
viene soprattutto da due realtà:
— le immagini veicolate dal testo hanno ciascuna più signifi-
cati, come è il caso per ogni immagine nel mondo dell’arte
e della rappresentazione religiosa;
— la lettura corretta delle immagini dell’Apocalisse è insepa-
rabile da una conoscenza approfondita dell’Antico e del
Nuovo Testamento. Non ci si può accontentare di una vaga
somiglianza tra diverse immagini senza correre il rischio

202
di ridurre fortemente il messaggio del testo. Nel contempo,
occorre respingere certe letture che vogliono scoprire nei
diversi protagonisti personaggi storici molto precisi.
Abbiamo proposto una lettura che vale per la comunità
cristiana di ogni epoca. Difatti, sempre e dovunque la Chiesa
nelle sue membra è confrontata a situazioni di oppressione
spirituale, sia a motivo di una minaccia fisica da parte di di-
verse potenze politiche, economiche e sociali, sia in ragione
di un’insipidezza interiore. In un momento in cui le comunità
cristiane, in particolare nei paesi industrializzati, conoscono
una forte crisi (invecchiamento del clero, assenza di vocazio-
ni, chiusura di comunità religiose apostoliche e contemplati-
ve, famiglie spezzate, ecc.), il nostro brano proclama una spe-
ranza che oltrepassa ogni misura umana.
Difatti, la realtà della Chiesa non è quella che incontriamo,
vediamo quotidianamente nella nostra parrocchia, nel nostro
movimento, nel nostro paese o continente. Essa è dapprima
una realtà celeste, il corpo di Cristo portato con «le ali della
grande aquila» verso il Figlio e verso la fraternità filiale già
stabiliti presso Dio. Il tempo della nostra prova è limitato.
È Dio stesso che ha fissato il termine dell’ostilità. Quanto al
«grande drago» non riesce a impadronirsi né del bambino né
della donna. In quel contesto, «l’immagine» del «bambino»
(Ap 12,4) è particolarmente parlante. Significa la fragilità, la
vulnerabilità, l’insignificanza, la piccolezza, una vita minac-
ciata, termini che caratterizzano oggi molte comunità cristia-
ne e numerosi cristiani nella loro esistenza singolare. Eppure
è a questo «bambino» che Dio assicura un avvenire che ol-
trepassa tutto ciò che osa sognare l’essere umano. La provvi-
denza di Dio non ci lascerà mai mancare il suo nutrimento:
sempre e dovunque ci preparerà nel «deserto delle nostre vite»
la mensa della Parola e quella dell’eucaristia. Sempre e dovun-
que ci farà passare dalla morte a causa di Gesù alla pienezza
della vita presso il trono di Dio.

Drago o serpente?
Il termine greco drakon ha due significati principali: designa
un animale fiabesco, un serpente reale e una sorta di pesce; si
usa per designare un’insegna militare, una collana o un brac-

203
cialetto a forma di serpente o ancora un legaccio o una fascia.
Il termine greco ophis, designa un animale fiabesco, un serpen-
te reale e una sorta di braccialetto; significa inoltre una pianta
rampicante, uomini furbi, la costellazione stellare del Serpente
e Satana. In tutte le culture dell’Europa, dell’Asia, del continente
americano e quello africano, nonché nel Medio Oriente antico,
i draghi o serpenti appaiono nel contesto di racconti religiosi in
cui si manifestano sotto due aspetti.
Da un lato, rappresentano esseri del caos, responsabili del
disordine e della morte; come tali, sono vinti da dèi ed eroi.
Dall’altro, sono esseri potenti che vengono in aiuto agli uomi-
ni. Possiamo intendere in questo senso la rappresentazione del
dio Esculapio, simbolo dei medici e farmacisti. La proprietà del
serpente è di abbracciare la totalità dell’universo. Come drago
alato o ornato di piumaggio è un segno del cielo (uranico); come
mostro che terrorizza o aiuta gli uomini è terrestre (ctonico);
vivendo nelle profondità della terra diventa un segno acquatico
potente. La sua dimensione cosmica assicura al serpente un po-
sto eminente nella creazione dell’universo e nel momento della
sua distruzione. Per vari racconti, l’universo è stato creato a par-
tire da un drago o serpente vinto da una divinità. Alla fine del
mondo è ancora lui che rovina le fondamenta dell’universo. La
sua capacità di muoversi in cielo, sulla terra e nell’acqua gli ga-
rantisce la conoscenza del segreto della vita e della morte; ciò è
sottolineato dal fatto che muta. Siccome il serpente ha il potere
di cambiare pelle, possiede il segreto della vita eterna.
Nell’iconografia cristiana, il drago o serpente è legato a due fi-
gure cavalleresche molto popolari: san Giorgio e san Michele. A
queste si aggiunge l’immagine della Vergine Maria che ha sotto
i piedi un serpente; è la seconda Eva che trionfa sulle forze del
male. Si attribuisce lo stesso effetto a due vescovi francesi: san
Marcello, vescovo di Parigi (secolo V) e sant’Ilario di Poitiers (†
367 ca.). Nel loro caso, non sono le armi e le virtù del cavaliere
che vincono il male, ma il bastone pastorale del vescovo. La loro
funzione di uomini di cultura e di pacificatori fa che i draghi o i
serpenti non vengano uccisi, ma soltanto cacciati.

204
Michelangelo Priotto
________

Le due bestie
(Ap 13)

Con un simbolo potente ed efficace Giovanni evoca il mi-


stero della presenza e dell’azione del Maligno nella storia degli
uomini; le due bestie descritte dal c. 13, infatti, sottolineano
plasticamente il carattere antiumano della potenza demonia-
ca, replica di quella bestia accovacciata alla porta del cuore di
Caino ai primordi dell’umanità (cf. Gen 4,7). L ’attesa inquieta
che la finale del c. 12 suscita trova ora risposta nella descri-
zione di due bestie, che incarnano l’azione distruggitrice del
drago precipitato sulla terra e fermo sulla spiaggia del mare1.
Il contesto del c. 13 è costituito dai cc. 12-15, che fungono
da introduzione al settenario delle coppe (c. 16), centro di tut-
ta l’ultima sezione del libro (12,1-22,5); le due bestie apparten-
gono all’ambito del secondo segno, quello del drago.
Il c. 13 forma una chiara unità letteraria. L ’espressione ini-
ziale: «E vidi salire dal mare una bestia», segna il passaggio
dalla narrazione del capitolo precedente alla visione del no-
stro brano; l’espressione iniziale del c. 14, leggermente diversa
(«E vidi ed ecco l’Agnello...») introdurrà una nuova visione,
quella dell’Agnello. La nostra unità è poi articolata in due par-
ti (vv. 1-10; 11-18) delimitate da una medesima espressione in-
troduttiva («Vidi salire dal mare una bestia» e «Vidi poi salire
dal mare un’altra bestia»: vv. 1.11), e da una medesima espres-
sione conclusiva («In questo sta...» e «qui sta...»: vv. 10.18).
Appaiono così nel quadro della visione due bestie che sal-
gono rispettivamente dal mare e dalla terra. Questa nuova vi-
sione riprende, dunque, la narrazione del c. 12, descrivendo
1
Dal punto di vista letterario il passaggio dal c. 12 al c. 13 è assicurato
dalla ripresa del termine «mare», sul quale termina il c. 12 e che costituisce
ora l’ambito d’origine della prima bestia. Il termine «bestia» (theríon) da parte
sua si ricollega al drago (12,17), evidenziandone l’aspetto bestiale.

205
tramite le figure delle due bestie l’azione demoniaca del drago
nel mondo degli uomini.

La prima bestia (vv. 1-10)


«Theríon» è il termine tipico2 con cui l’Apocalisse definisce
la prima bestia. Questo termine, a differenza di «zôion», si ap-
plica solo agli animali in quanto contrapposti all’uomo e il suo
significato è fortemente negativo; simboleggia, infatti, forze
superiori a quelle dell’uomo, presenti misteriosamente nella
storia, ma sempre sotto il controllo di Dio3.
Si tratta poi di una bestia che sale dal mare. L ’allusione
all’isola di Patmos, luogo delle visioni di Giovanni, è evidente;
quanto a un ulteriore significato simbolico le risposte degli
esegeti sono diverse4. Sembra di poter affermare che qui il
mare designa propriamente il Mediterraneo, il mare di Roma,
dove in questo periodo della storia la bestia sta esercitando
la sua attività demoniaca; la connotazione negativa della re-
gione di provenienza è piuttosto data dall’abisso: è questa la
sua regione di appartenenza metastorica ed è da questa che
propriamente essa sale (cf. 11,7; 17,8)5.
La descrizione della bestia è ispirata alla visione nottur-
na di Dn 7,3-7, nella quale il veggente vede sorgere dal mare
quattro bestie orribili, simbolo dei quattro imperi che stori-
camente oppressero la comunità giudaica: Babilonia, Media,
Persia, Grecia. La bestia descritta da Giovanni, assommando
i tratti delle quattro bestie di Daniele6, intende denunciare
2
Su 38 ricorrenze theríon designa 36 volte questa prima bestia che sale
dal mare; in 13,11 designa la bestia che sale dalla terra e una volta ricorre al
plurale con riferimento alle bestie feroci quali strumento di morte (cf. 6,8).
3
Cf. U. Vanni, L ’Apocalisse: ermeneutica, esegesi, teologia, Bologna 1980,
p. 39.
4
Alcuni (cf. ad esempio, E. Bianchi, C. Doglio) interpretano il mare come
il segno primordiale del caos; per altri invece (cf. P. Prigent, D. Mollat) il mare
è semplicemente il segno dell’impero romano.
5
Cf. C. Biguzzi, «La terra» da cui sale la bestia di Ap 13,11, in L. Padovese
(ed.), Atti del VI Simposio di Efeso su san Giovanni apostolo, Roma 1996, pp.
113-116.
6
La prima bestia di Ap 13 riprende anzitutto i tratti della quarta bestia
di Daniele (le dieci corna), simbolo del regno di Alessandro Magno; seguono
poi in ordine inverso le allusioni alla terza bestia (la pantera), alla seconda
bestia (l’orso) e alla prima bestia (il leone). L ’inversione dell’ordine permette
di collegare la bestia dell’Apocalisse direttamente e anzitutto alla bestia più
terribile della visione di Daniele, in un crescendo che colloca la realtà descritta
da Giovanni all’apice della depravazione.

206
non soltanto la recrudescenza del male o un nuovo impero
oppressore, ma la stessa potenza demoniaca che si manife-
sta in tutta la sua violenza. Questa bestia, infatti, riproduce le
stesse sembianze del drago (dieci corna e sette teste con dieci
diademi: 12,3) e a essa il drago conferisce il suo stesso potere,
simulando con ciò l’azione del Padre verso suo Figlio (cf. 2,28;
3,21). Giovanni si muove, dunque, su due piani complemen-
tari: da un lato, un giudizio severissimo sull’impero romano;
dall’altro, una riflessione sulla realtà stessa del peccato visto
in tutta la sua forza devastante; la bestia di Ap 13 rinvia così
direttamente al serpente di Gen 3.
Dopo la descrizione della bestia lo sguardo di Giovanni si
posa sulla storia che egli vede percorsa da due liturgie con-
trapposte: una, imperiale facente capo alla bestia, e, l’altra,
cristiana, indirizzata all’Agnello. Come quest’ultimo, anche la
bestia parve colpita a morte7, ma la sua piaga mortale fu gua-
rita (cf. v. 3); è evidente la parodia della morte e risurrezione
di Gesù, l’Agnello che divenne morto, ma che ora è vivente per
i secoli dei secoli (cf. 1,18).
Al di là di un’ipotetica allusione a una leggenda diffusa in
Asia Minore, che diceva che Nerone, morto suicida nel 68 d.C.,
fosse ancora vivo e in procinto di ritornare8, la riflessione gio-
vannea mira a sottolineare una realtà più generale e profonda,
quella cioè di un potere totalitario che, anche quando pare
colpito a morte, risorge in forme nuove e più virulente, tali da
sedurre gli uomini. Ciò che Daniele aveva espresso tramite la
successione delle bestie Giovanni lo evidenzia qui nell’unica
figura della bestia, colpita mortalmente, ma di nuovo guarita
e attiva.
Il peccato si configura allora come adorazione del potere
totalitario, al quale sono attribuite le qualità stesse di Dio.
L ’adorazione della bestia ricalca quella riservata a Dio solo
e produce un nome nuovo, contrapposto a quello di Michele
(= «Chi come Dio?»): «Chi è simile alla bestia?». L ’adorazio-
ne della bestia con il suo conseguente riconoscimento divino
pare annullare la precedente vittoria di Michele sul drago (c.
12) e la vittoria di Gesù sulla tentazione satanica: «Sta scrit-
to: solo al Signore Dio tuo ti prostrerai, lui solo adorerai» (Lc
7
L ’espressione greca «hos esphagménen [come colpita a morte]» riprende
letterariamente quella di 5,6 («hos esphagménon»), dove è riferita all’Agnello.
È evidente l’intento allusivo del nostro testo.
8
Cf. Svetonio, Caes. 6,57; Tacito, Hist. 2,8.

207
4,8). Con quest’analisi il veggente di Patmos qualifica la strut-
tura del potere imperiale e ogni altra struttura che nella storia
accampasse simili pretese totalizzanti essenzialmente come
peccato di idolatria.
Ma questa vittoria della bestia è solo apparente e limitata
nel tempo. Per quattro volte nei vv. 5-7 compare martellante
l’espressione «fu data» (edóthe)9, che è un passivo teologico
mirante a sottolineare l’assoluta superiorità di Dio, dal quale
dipende la storia e in ultima analisi anche l’apparente vittoria
del male. A conferma di ciò si aggiunge che il tempo concesso
all’azione devastatrice della bestia marina è un tempo limitato
a quarantadue mesi. Questa cifra, che ritorna più volte nel li-
bro10, risale a Daniele, il quale descrive il tempo della persecu-
zione di Antioco IV Epifane con le espressioni: «Mezza setti-
mana» (9,27), o «Un tempo, due tempi e la metà di un tempo»
(7,25; 12,7). Effettivamente questa persecuzione durò tre anni
e mezzo (dalla metà del 167 al dicembre del 164 a.C.), ma la
cifra assume soprattutto un significato simbolico, quello di un
tempo ammezzato, incompleto (la metà di sette!), destinato
perciò a finire. L ’autore dell’Apocalisse intende, dunque, affer-
mare con forza che questo strapotere del Maligno è limitato
nel tempo e destinato presto a soccombere, perché soltanto
Cristo è Signore della storia.
La pretesa arrogante del potere totalitario di Roma viene
descritta da Giovanni coi medesimi tratti con cui Daniele de-
nuncia il peccato di Antioco IV Epifane (cf. Dn 7): è una be-
stemmia contro Dio e contro la sua dimora, ma anche una
bestemmia contro i cristiani che ormai costituiscono il vero
tempio dello Spirito Santo (cf. 1Cor 6,19). Pare che il potere
dell’impero abbia raggiunto tutto il mondo e tutti gli uomini,
instaurando una sorta di divinità terrena, ma il nome di questi
idolatri, non essendo scritto nel libro della vita dell’Agnello
immolato, non ha futuro. Soltanto dall’immolazione dell’A-
gnello nasce la vera vita; i cristiani ne partecipano proprio
condividendo con il loro Signore la prova della persecuzione.
9
Letteralmente il testo suona: «Le fu data una bocca [...] e le fu dato il po-
tere [...]. Le fu dato di fare [...], le fu dato potere» (vv. 5.7).
10
L ’espressione «42 mesi» ritorna ancora in 11,2; nella forma di «1260
giorni» compare in 11,3; 12,6. In 12,14 troviamo l’espressione parallela «un
tempo, due tempi e la metà di un tempo».

208
L ’invito all’ascolto (vv. 9-10)
La descrizione dell’azione della bestia marina si interrom-
pe bruscamente con un lapidario invito all’ascolto (v. 9); l’in-
vito è rivolto all’assemblea ecclesiale, alla quale l’autore sta
illustrando la visione. Non si tratta soltanto di una figura lette-
raria o di un semplice coinvolgimento psicologico, bensì della
necessità di interpretare i simboli della visione, che, data la lo-
ro natura, non sono sempre univoci, e di lasciarsi conseguen-
temente interpellare sul piano della vita.
Anche le sette lettere rivolte alle Chiese terminavano tutte
con un’esortazione generale di carattere fisso: «Chi ha orecchi
ascolti ciò che lo Spirito dice alla Chiesa» (cf. 2,7.11.17.29;
3,6.13.22). Ora sappiamo che il contenuto del messaggio dello
Spirito alle Chiese è costituito dalle visioni di cui Dio gratifica
Giovanni e che egli trasmette ai cristiani. Di fronte alla fal-
sa profezia della bestia che, proferendo parole di orgoglio e
bestemmiando, divinizza il potere imperiale, si contrappone
così la profezia di Giovanni, che nello svelamento e nell’inter-
pretazione delle visioni si offre come l’autentica parola che lo
Spirito dice alle Chiese.
Nel nostro caso la visione della prima bestia viene interpre-
tata tramite una citazione di Geremia (cf. 15,2; 43,11), dove si
sottolinea che colui che usa la violenza ne subirà egli stesso le
conseguenze11; di qui l’applicazione alla situazione presente:
la violenta persecuzione che il potere imperiale sta scatenan-
do contro i cristiani si ritorcerà contro lui stesso! Nel frattem-
po ai cristiani è richiesta la perseveranza nella loro condotta e
il mantenimento della loro fedeltà a Dio12.

La seconda bestia (vv. 11-18)


Se la prima bestia sale dal mare, la seconda sale dalla ter-
ra; anche in questo caso la connotazione non è qualitativa,
11
Si tratta probabilmente di un’allusione alla distruzione e profanazione
del tempio, avvenuta nel 70 d.C., e ai sacrifici davanti alle insegne e ai vessilli
romani.
12
Le incertezze nella trasmissione testuale del v. 10 testimoniano l’esita-
zione interpretativa dei primi lettori. Infatti il testo potrebbe significare non
l’idea del castigo dei persecutori, bensì l’ineluttabilità della persecuzione, a cui
i cristiani non possono sottrarsi, sapendo però che partecipano in tal modo
al martirio di Cristo. Seguono, ad esempio, questa seconda interpretazione P.
Prigent, E. Bianchi, L. Cerfaux, J. Cambier, D. Mollat. Opta per la prima inter-
pretazione Vanni, L ’Apocalisse, p. 67.

209
ma semplicemente geografica. Di quale terra si tratta? Non
si tratta della terra universale, teatro dell’azione della prima
bestia13; è quest’ultima infatti a essere ammirata e adorata da
tutta la terra (vv. 3b-4), mentre la seconda ha una sfera d’a-
zione più limitata. Essa organizza una seconda adorazione
distinta dalla prima, perché ha caratteristiche diverse e inte-
ressa in particolare una regione, non la terra intera.
Mentre l’adorazione della bestia marina è spontanea e av-
viene in un’atmosfera di gratitudine nei confronti del drago
e di grande ammirazione verso la bestia (cf. vv. 3-4), questa
seconda adorazione è imposta e forzata, come mostra la mi-
naccia della persecuzione fino all’eliminazione fisica (vv. 15-
17). Infine per provocare l’adorazione della seconda bestia si
ricorre a espedienti propagandistici, quali pseudoprodigi o
ostensioni di statue parlanti!
Tutti questi indizi fanno pensare a una realtà regionale,
cioè all’Asia Minore, dove sorgono le comunità cristiane a cui
Giovanni scrive e dove il culto imperiale è particolarmente vi-
vo e diffuso14. Anche se la terra di riferimento è una regione
limitata, sono però coinvolti tutti gli strati della popolazione:
piccoli e grandi, ricchi e poveri, liberi e schiavi (v. 16); è dun-
que un’universalità sociologica, possibile ovunque, in ogni
parte dell’impero.
Chi o che cosa rappresenta questa seconda bestia? Giovan-
ni non è solo un contemplativo profondo del mistero di Dio,
ma anche un acuto osservatore politico che smaschera e de-
nuncia il peccato dell’ideologia imperiale. Ora, abbiamo visto,
la prima bestia rappresenta precisamente questo potere impe-
riale di Roma e ogni altro potere che nella storia degli uomini
miri ad arrogarsi una dimensione divina. Questa denuncia pe-
rò rischia di essere teorica, in quanto il potere imperiale è una
realtà relativamente astratta. Ecco dunque la seconda bestia,
13
Mentre in 13,3 a proposito della prima bestia ricorre l’espressione «la ter-
ra intera [hólos]», espressione equivalente all’altra «tutta l’ecumene» (cf. 3,10;
12,9; 16,14), essa non compare mai a proposito della seconda bestia (Biguzzi,
«La terra», p. 117).
14
Fin dall’epoca di Caligola (37-41 d.C.) si diffonde in Asia Minore un cul-
to all’imperatore e Domiziano arriva a farsi costruire un tempio e una statua
a Efeso. Secondo la testimonianza di Plinio (cf. Lettera 96) si chiede agli accu-
sati sospettati di essere cristiani di invocare gli dèi e di offrire incenso e vino a
una statua dell’imperatore Traiano. E l’apocrifo L ’ascensione di Isaia afferma
che Belial-Nerone «erigerà la sua immagine in tutte le città» (4,11). Cf. P. Pri-
gent, L ’Apocalisse di S. Giovanni, Roma 1985, pp. 419-420.

210
il cui ambito regionale, l’Asia Minore, conferisce una chiara
visibilità storica, e la cui azione evidenzia un dinamismo inat-
teso e sconvolgente; non per nulla letterariamente risuona con
insistenza la voce del verbo «fare»15.
La bestia ha soltanto due corna, a differenza della prima;
esse però le permettono di somigliare all’Agnello, e di fatto
essa costituisce una parodia dell’Agnello cristiano. La nuova
fede cristiana s’impianta in Asia, come altrove, grazie al kerig-
ma, all’annuncio cristiano accolto e vissuto nell’appartenenza
a una nuova comunità: la Chiesa. È comprensibile, dunque,
che l’attività contrastante della seconda bestia si collochi so-
prattutto sul versante della falsa profezia; non a caso la bestia
comparirà ancora nell’Apocalisse sotto il nome di «falso pro-
feta» (cf. 16,13; 19,20; 20,10).
I tratti di questa attività pseudoprofetica della bestia sono
accuratamente descritti. Essa induce anzitutto gli uomini ad
adorare la prima bestia, promuovendo e organizzando con
una sottile propaganda ideologica il consenso al potere impe-
riale, presentato come l’unico e assoluto referente dell’uomo.
Pratiche magiche e manipolanti accompagnano questa ope-
ra di propaganda, fino a produrre prodigi e portenti, a imita-
zione di Elia che fa scendere sulla terra il fuoco dal cielo (cf.
1Re 18,38; 2Re 1,10-14). L ’erezione di statue all’imperatore e
agli dèi con la simulazione di movimenti e di suoni fa parte di
questa propaganda religiosa mirante a eccitare e inebriare il
popolino. A questi fedeli adoratori del potere imperiale ven-
gono pure offerti dei segni che affermino inequivocabilmente
la loro appartenenza alla bestia, parodia evidente del sigillo
dell’Agnello e del Padre sulla fronte degli eletti (cf. 14,1). Que-
sta attività ideologica mistificatrice giunge perfino a usare il
potere economico in favore del proprio disegno; Giovanni de-
nuncia così le rappresaglie economiche che colpiscono i cri-
stiani riducendoli in miseria (cf. v. 17).
Questo quadro impressionante e preciso della propaganda
e della persecuzione anticristiana probabilmente si riferisce
all’attività del potere religioso pagano e forse anche giudaico,
che, nel tentativo di salvaguardare i propri privilegi, usa le ar-
mi del discredito e soprattutto della manipolazione religiosa
15
Il verbo compare otto volte nel giro di pochi versetti: v. 12 (due volte);
v. 13 (due volte); v. 14 (due volte); vv. 15.16. Se prescindiamo dalla menzione
del v. 14a, dove compare in un inciso, si tratta di sette ricorrenze, che possono
simboleggiare tutta l’attività negativa della bestia.

211
per colpire la nuova fede. La manipolazione del divino è uno
dei peccati più gravi denunciati dalla predicazione profetica,
perché viola il primo comandamento, che vieta appunto le fal-
se immagini di Dio. Il potere demoniaco del drago raggiunge
la sua più alta espressione proprio quando usa lo strumento
della religione per edificare il proprio potere erigendolo a real­
tà assoluta.
In questo quadro drammatico e apparentemente senza spe-
ranze Giovanni afferma ancora una volta che questo potere
della bestia non è assoluto; la duplice ricorrenza del passivo
teologico («fu dato»: vv. 14.15) ricorda il primato di Dio e che
questa persecuzione pur nella sua perversione drammatica
non avviene fuori del controllo di Dio.

L ’invito finale (v. 18)


Giovanni interrompe ancora una volta la descrizione, come
già ai vv. 9-10, rivolgendosi direttamente all’assemblea litur-
gica che sta ascoltando. Essa è invitata a un discernimento
sapienziale, come sottolineano i due termini «sapienza» e «in-
telligenza».
Questo discernimento permette di rompere il velo delle ap-
parenze e di cogliere nella storia e nel mondo il senso profon-
do che proviene loro dal piano di Dio. In particolare si tratta
qui di «calcolare il numero della bestia»16, di andare oltre a
una denuncia astratta, perché dietro la bestia ci sono uomini
e istituzioni precise. Ora, secondo l’interpretazione più diffu-
sa17, il numero 666 rappresenta Nerone Cesare, nome signi-
ficativo perché sotto di lui si scatena la prima persecuzione
contro i cristiani e avviene il martirio di Pietro e di Paolo.
Ma l’impegno al discernimento da parte della comunità
non termina qui, perché il numero della bestia farà presto ri-
ferimento a nuove circostanze storiche e a nuovi responsabili.
Si tratta del compito profetico del cristiano, che grazie alla
parola di Giovanni potrà avere lo strumento per discernere e
smascherare il nome della bestia lungo tutto il cammino della
storia. In questo senso, senza contraddire all’interpretazione
16
Il verbo ricorre solo una volta in Lc 14,28. Etimologicamente fa riferi-
mento al calcolo coi sassolini (psêphos = sassolino); in connessione con una
cifra precisa, come nel nostro caso, significa «trovare il numero esatto». Cf.
Vanni, L ’Apocalisse, p. 68, nota 14.
17
Vedi a proposito la finestra: 666, il numero della bestia, a p. 213.

212
precedente, il numero 666 rappresenta pure un chiaro giudi-
zio sulla bestia in sé. Il numero sei nella simbologia biblica
significa l’imperfezione; la triplice ripetizione di questo nume-
ro rappresenta così l’imperfezione totale. Nonostante il suo
potere enorme e l’apparente vittoria, il progetto della bestia è
radicalmente destinato al fallimento. Lo sforzo prometeico di
costruire una nuova torre di Babele, cioè un potere di dimen-
sioni assolute e quindi divine, è così destinato al fallimento.
Con questo giudizio inequivocabile, ma anche impegnativo
per la comunità cristiana, Giovanni conclude la descrizione
delle due bestie, cioè del potere totalitario e del suo supporto
ideologico e propagandistico. Esse rappresentano sì l’espres-
sione della presenza di Satana, cioè del drago, nella storia
degli uomini, ma anche e soprattutto l’espressione della sua
radicale impotenza di fronte all’Agnello e ai suoi fedeli.

666, il numero della bestia


Né la lingua ebraica né la lingua greca dispongono di cifre;
al loro posto si usano le lettere. Una parola, dunque, può rivesti-
re un valore numerico calcolabile, fatto che permette giochi di
parole o messaggi cifrati. L ’interpretazione «Nerone Cesare» è
molto antica e anche confacente al contesto: il potere imperiale
non è solo un’entità astratta, ma si riferisce a una persona! La
forma greca Nèron Kaisar, scritta in lettere ebraiche, ha come
valore numerico appunto 666: nun: 50; res: 200; vau: 6; nun: 50;
qof: 100; samec: 60; res: 200. Che il nostro autore possa far riferi-
mento a parole ebraiche è confermato da 9,11 e 16,16.
Anche la variante 616, attestata da alcuni manoscritti e da
Ireneo, porta alla medesima interpretazione; essa infatti equi-
vale alla forma latina Nero Caesar, sempre scritta in lettere
ebraiche. Questo procedimento della gematria è conosciuto dal
cristianesimo primitivo (cf. Barn 9,8) ed è pienamente compren-
sibile in tempi di persecuzione.
Altri procedimenti, come il numero triangolare (666 sarebbe
il compimento o la ricapitolazione di 36, il quale a sua volta lo
sarebbe di 8), sono molto più problematici e ipotetici.

213
Marco Rossetti
________

Seguono l’Agnello
ovunque egli vada
(Ap 14,1-5)

Dopo aver presentato nel c. 13 le «bestie» che dominano


sulla terra, l’autore dell’Apocalisse passa alla descrizione di
una visione che sta ancora accadendo sulla terra, ma poi im-
provvisamente abbandona la realtà terrestre per trascinare
con sé il suo lettore nel clima celeste, tipicamente marcato
dalla trascendenza. Così facendo egli ci lascia storditi e come
frastornati a causa di tanti repentini mutamenti di ambiente.
Tutto questo si rivela però squisitamente funzionale al quadro
che egli viene presentandoci. In esso l’autore non solo contrap-
pone alle bestie la figura di Cristo-Agnello, ma implicitamente
risponde alla domanda, assai probabilmente nutrita dal cuore
di chi sta leggendo, circa la sorte di coloro che, non essendosi
lasciati abbagliare dalle lusinghe e dalle minacce delle bestie,
si volgono invece all’azione salvifica operata dall’Agnello nella
storia.

Studio del contesto letterario


Il c. 14 si pone nel contesto della seconda parte dell’Apo-
calisse (4,1-22,5). In essa impera la figura di Cristo-Agnello,
dettagliatamente descritta in 5,6. Non si tratta del Cristo con-
templato nella sua indicibile trascendenza (cf. 1,9-20), quanto
del Cristo presente nella storia e posto come centro dinamico
del suo divenire. Nella visione citata del c. 5 l’Agnello ci viene
infatti presentato come risorto e morto insieme, dotato della
pienezza della potenza messianica e dello Spirito. Potenziali-
tà che egli vuole comunicare agli uomini, costruttori con lui
della storia.
Lo studio di un contesto più immediato pone la pericope

214
14,1-5 nella sezione denominata del «triplice segno» (12,1-
16,16). Eccone uno schema riassuntivo:

12,1-2 un segno grande: una donna vestita di sole;


12,3-13,18 un altro segno: enorme drago rosso;
14,1-5 l ’Agnello e i 144 mila;
14,6-16,6 un segno grande e meraviglioso: sette angeli recanti le
sette coppe dell’ira di Dio.

Lo schema è volutamente molto generale: esso tralascia al-


cune vicende per concentrarsi soltanto sul movimento narra-
tivo più largo.
I tre segni (semêia) sono strettamente connessi tra loro (si
osservi come nello schema abbiamo evidenziato questi ele-
menti di unità: la ripetizione della parola «segno»; il modo
in cui il secondo segno viene raccordato al primo mediante
l’aggettivo «altro»; infine come il terzo riprende il primo me-
diante la ripetizione dell’aggettivo «grande»); dal punto di vi-
sta del tessuto narrativo dell’opera essi svolgono, poi, un ruolo
di grande rilevanza. Tra il secondo segno e il terzo l’autore
inserisce in modo improvviso la nostra pericope. Perché que-
sta cesura nella narrazione? Il motivo per cui l’autore com-
pie questa scelta deve essere probabilmente ravvisato nel suo
desiderio di enfatizzare la portata delle forze del bene con-
trapponendole marcatamente alle forze negative descritte nel
secondo segno. Ne emergerà così potente il ruolo decisivo di
Cristo-Agnello contro le forze seduttrici e coercitive cui è stato
conferito un potere temporaneo di imperversare sulla terra.

La struttura narrativa
La pericope appare ben strutturata. Alcuni elementi lessi-
cali permettono di definire una sua suddivisione utile a una
retta comprensione del testo:
vv. 1-3 Essi sono dominati dai verbi «vedere» (eîdon) e
«udire» (ékousa). Oggetti del primo verbo sono «l’agnello» (tò
arníon) e una turba di 144 mila personaggi caratterizzati da
un segno particolare; ciò che invece si ode è «una voce» re-
cepita chiaramente nella sua tonalità e nel suo contenuto. In
questa prima parte l’autore offre un «quadro simbolico» che il
lettore dovrà sforzarsi di interpretare.

215
vv. 4-5 Di indole esplicativa e applicativa, i versetti hanno
lo scopo di spiegare l’identità dei personaggi rimasti fino ad
ora misteriosi – il v. 4 inizia, infatti, con l’espressione tipica
«questi sono» (oûtoi eisín) ripresa di seguito ancora per due
volte – e quale sia il loro ruolo a fianco dell’Agnello. Il testo ap-
pare costruito con raffinatezza e unitarietà: alla visione della
prima parte corrisponde, infatti, la spiegazione-applicazione
della seconda. L ’intento dell’autore è far in modo che il suo
«vedere» e «udire» diventino l’esperienza stessa del lettore il
quale, guidato dall’azione dello Spirito, dovrà anch’egli vede-
re, udire, comprendere e immettere nel suo presente storico il
messaggio contemplato.

L ’Agnello e i 144 mila


Il v. 1 è lineare: esso presenta il contenuto della visione. Si
tratta dapprima dell’Agnello, cioè il Cristo risorto e recante
indelebili i segni della sua passione. L ’autore si richiama in
modo chiaro alla visione di 5,6 utilizzando il medesimo verbo
per indicare lo stare ritto dell’Agnello. È evidente che egli vo-
glia risvegliare nei suoi lettori il senso dell’efficacia con cui il
Risorto agisce nella loro storia. Dell’Agnello si dice che egli si
trova sulla sommità del monte Sion. Non si tratta di un’indi-
cazione topografica: Sion, la parte più alta di Gerusalemme è,
infatti, il luogo scelto da Dio per farne la propria residenza1.
L ’accentuazione data al termine «monte» – l’autore avrebbe
potuto indicare semplicemente il nome «Sion», essendo esso
già fortemente caratterizzato nella Scrittura – ci impone un
momento di riflessione. Le grandi teofanie veterotestamenta-
rie si verificarono sempre sulla sommità di un monte (l’Oreb, il
Sinai); anche nel Nuovo Testamento Gesù sale su di un monte
in occasione di grandi rivelazioni (la trasfigurazione, ad esem-
pio) o di catechesi particolarmente importanti. Tenendo pre-
sente questo contesto biblico, sembra chiaro che l’autore stia
preparando il lettore a qualcosa di meraviglioso e importante.
Mentre ormai tutto il mondo è sotto la malìa delle sue bestie
che salgono dal mare, l’Agnello si erge ritto sul «monte».
Col Cristo-Agnello si trovano 144 mila persone. Chi sono
costoro? I vv. 3-5 si occuperanno di loro in modo più esplicati-
1
Cf. Sal 2,6 e in particolare 48,3: «Il monte Sion, dimora divina, / è la città
del grande sovrano».

216
vo; per il momento l’autore ci coinvolge in un affascinante la-
voro di decifrazione del quadro simbolico che li definisce. La
cifra, simbolicamente parlando, ha negli scritti apocalittici un
valore qualitativo. Caratteristica dell’Apocalisse è poi la com-
binazione, spesso complessa, di numeri mediante operazioni
aritmetiche. Nel nostro caso la cifra è il prodotto di una mol-
tiplicazione: 12 × 12 × 1000. Districhiamoci un poco nel simbo-
lo. «Dodici» indica tanto le tribù d’Israele quanto gli apostoli.
Il fatto che le due cifre simboliche siano moltiplicate indi-
ca una «ideale» unione delle 12 tribù e dei 12 apostoli in un
unico popolo di Dio. La loro finale moltiplicazione per 1000
esprime il coinvolgimento reale di questo popolo nell’azione
salvifica dell’Agnello2. Questo numero, allora, offre indicazio-
ni per identificare questi personaggi in persone, sia dell’antica
che della nuova alleanza, che si sono particolarmente legate
all’azione operata dall’Agnello in seno alla storia. Non si tratta
di una moltitudine anonima – simile a quella di cui si dice
in 7,9 che «nessuno può calcolare» – bensì di un gruppo di
persone, che si distinguono per un ruolo specifico da svolgere
accanto all’Agnello.
Ancora una cifra ci rimane da svelare intorno a costoro:
essi infatti «avevano il suo nome», cioè quello dell’Agnello, «e
il nome di suo padre costantemente scritto3 sulla loro fronte».
In 7,3 i quattro angeli che sono posti sui punti cardinali del-
la terra, guidati da «un altro angelo che saliva dall’oriente e
aveva il sigillo del Dio vivente», hanno l’incarico di imprimere
quel sigillo sulla fronte dei suoi servi. Al sigillo sottentra qui
un nome scritto. Considerato poi il contesto immediato, tale
nome si contrappone significativamente al marchio, recante
«il nome della bestia o il numero del suo nome», impresso
sulla mano e sulla fronte degli abitanti della terra (13,16-17).
Ora il nome «costantemente scritto» – si noti, non più impres-
so – indica un’appartenenza per sempre di quelle persone4 a
Cristo e a suo Padre. Il doppio nome non indica certamente
una doppia appartenenza: i 144 mila sono di Dio, ma sono
particolarmente legati a Cristo.
2
Cf. U. Vanni, L ’Apocalisse: ermeneutica, esegesi, teologia, Bologna 1980,
pp. 52-54.
3
Traduciamo così il participio presente del testo greco.
4
Nel simbolismo antropologico dell’Apocalisse, la fronte indica propria-
mente la persona in ciò che la rende veramente tale.

217
Una voce dal «cielo» alla terra
Il v. 2 ci pone direttamente nel vivo del quadro simbolico:
come di consueto, alla visione segue un’audizione «dal cielo».
La descrizione appare costruita con una particolare raffina-
tezza che, a nostro parere, è il frutto della splendida sonorità
prodotta nella prima parte del versetto dalla ripetizione della
parole «voce» (phonè), nella seconda dallo splendido gioco di
parole utilizzate per descrivere i citaredi che suonano il loro
strumento: esse hanno tutte la medesima radice (kithára, ce-
tra o arpa). La funzione della voce è duplice: essa fa da vero
sfondo a questo versetto e al successivo, ma è anche di straor-
dinaria importanza giacché, in quanto proveniente «dal cie-
lo», ma udita sulla terra, tesse un rapporto ancor più stretto
tra Dio e gli uomini. Dato il retroterra biblico che sostanzia la
descrizione di questa voce5, possiamo senza dubbio affermare
che essa sia quella di Dio.
Siamo perciò in un quadro teofanico di solenne rivelazione
del quale l’autore ci avverte, come è suo solito, mediante una
significativa accumulazione di tre paragoni: i primi due enfa-
tizzano il timbro della voce («come di grandi acque [...] come
di tuoni possenti»), il terzo invece ci dice che la voce viene udi-
ta pienamente anche nel suo contenuto, essendo essa come il
canto e la musica di coloro che suonano la cetra. La scelta
dello strumento non è casuale: la cetra è infatti nell’Apocalisse
uno strumento riservato alla liturgia6. In modo perfettamen-
te coerente a numerose altre attestazioni, l’autore pone anche
questa visione in un clima spiccatamente liturgico: soltanto
nell’ambiente della celebrazione liturgica la voce di Dio potrà
essere rettamente interpretata.

Il «cantico nuovo»
Il v. 3 è interamente dedicato alla descrizione della scena
5
Si leggano Ez 1,24; 43,2. Anche l’autore dell’Apocalisse ricorre spesso
all’immagine della voce. Una «voce simile al fragore di grandi acque» è udita
anche in 1,15: essa ha per soggetto «uno simile a Figlio dell’uomo», cioè Cristo.
La medesima espressione si trova in 19,6 per descrivere l’inno di lode dell’im-
mensa folla intorno al trono; caratterizzata come «voce di tuono» essa viene
sentita in 16,1 e 19,6; Giovanni sente ancora «voci grandi» (11,15; 12,10; 19,1):
si tratta di voci di solenne lode e di rivelazione.
6
Gli anziani e i viventi inneggiano all’Agnello, impossessatosi del libro,
recando una cetra (5,8); coloro che «stanno vincendo» inneggiano recando le
«cetre di Dio» (15,2).

218
attorno al trono di Dio e al «cantico nuovo»7. L ’ouverture del
versetto potrebbe suscitare qualche confusione: chi è dunque
a cantare questo cantico, dato che la voce precedentemente
udita è stata definita come divina («dal cielo»)? In effetti la
voce parte da Dio: il cantico ne è il contenuto recepito come
la voce dei citaredi. Il canto è indirizzato a Cristo-Agnello e,
come nel contesto del c. 5, lo celebra solennemente per la sua
opera di salvezza: è lui la vera novità che spinge in avanti la
storia nel suo irreversibile movimento verso la salvezza. È lui
«l’uomo nuovo» che rende questo cantico inedito! Il luogo in
cui l’inno viene innalzato ci conferma dell’ambiente liturgico
di cui dicevamo: esso infatti è eseguito «davanti al trono e da-
vanti ai quattro viventi e agli anziani». Da contesti preceden-
temente enunciati dall’autore, deduciamo che questo cantico
sia innalzato davanti ai principali protagonisti della salvezza:
davanti a Dio che siede sul trono esercitando la sua azione in
favore degli uomini e davanti a questi personaggi che con lui
collaborano strettamente all’opera della salvezza.
Il v. 3 conclude avvisandoci che «nessuno poteva imparare
il cantico se non i 144 mila, i riscattati dalla terra». Si ripete
qui la medesima situazione descritta nel c. 5: là nessuno pote-
va aprire il libro «a forma di rotolo» e leggerlo se non l’Agnel-
lo; qui soltanto i 144 mila possono imparare il cantico poiché
essi sono già stati riscattati dal sangue dell’Agnello8: questa
è e sarà perennemente la loro situazione esistenziale. Il fatto
che costoro possano «imparare» l’inno indica implicitamen-
te la funzionalità di quell’azione: lo imparano per rieseguirlo.
Ciò aiuta a definire il ruolo sacerdotale di questi personaggi.
Il tutto è ancora perfettamente corrispondente a 5,9-10: Cri-
sto ha riscattato per Dio uomini di ogni tribù, lingua, popolo
e nazione, rendendoli sacerdoti. L ’azione di acquisto-riscatto
comporta che costoro siano separati «dalla terra».
Che cosa significa questo? Certamente non si tratta di una
separazione fisica: costoro si trovano infatti sulla terra, sulla
sommità del monte Sion. Alla luce del v. 4, dove si afferma
7
La stessa formula viene utilizzata in 5,9 a proposito dei quattro viventi
e dei ventiquattro anziani. Certamente qui il canto non può essere attribuito a
loro. L ’espressione «canto nuovo» è assai frequente nell’Antico Testamento e
si riferisce soprattutto alla celebrazione del ritorno dall’esilio babilonese: cf. i
Sal 33,3; 40,4; 96,1; 98,1; 144,9; 149,1; Is 42,10.
8
Si noti l’interessante contatto linguistico tra 14,4 e 5,9: in entrambi i ver-
setti viene utilizzato il verbo agorázo per esprimere l’azione della redenzione
attuata dall’Agnello sgozzato.

219
che essi «sono stati riscattati dagli uomini», si intende allora
«terra» come termine espressivo di tutti gli uomini che su di
essa vivono. Tra le due espressioni vi è un chiaro riferimento
e una mutua spiegazione: i 144 mila sono pensati sulla terra,
ma in qualche modo separati dal resto dell’umanità, che deve
ancora essere redenta. Si trovano, infatti, sulla sommità del
monte Sion, in un luogo alto, prossimo al «cielo». L ’autore
giustamente affermerà che essi sono «primizia», indicando
così che presto la loro situazione sarà estesa a tutti.

I 144 mila
I versetti sono particolarmente difficili. Pur trovandoci nel-
la parte esplicativa della pericope, l’autore torna a una serie
di definizioni simboliche che chiedono di essere decifrate e
portate a contatto col vissuto per poterle in qualche modo
verificare. Si tratta di capire chi siano «questi» 144 mila: la
triplice ripetizione del pronome «questi» ha infatti proprio
la funzione di spingerci a decodificare il messaggio per poi
applicarlo. Stando all’uso numerico del pronome, saremmo
portati ad affermare che a esso corrispondano tre categorie di
persone: i 144 mila sono coloro che non si sono macchiati con
donne e che per questo vengono detti «vergini», coloro che
seguono costantemente l’Agnello, coloro che furono riscattati.
Quest’ultima indicazione è però piuttosto ampia e tale da con-
tenerne altre oltre a quelle esplicitamente espresse.
Con ordine cerchiamo di districarci nell’ardito linguaggio.
Possiamo ricondurre fondamentalmente l’interpretazione dei
versetti a quattro tentativi di lettura:
1. Il primo modo di intendere il testo consiste nel prenderlo
alla lettera. Si indicano qui coloro che si sono astenuti da
rapporti sessuali. Tale lettura potrebbe essere suffragata da
altri testi del Nuovo Testamento in cui il matrimonio non è
considerato come la condizione privilegiata in vista di una
totale donazione a Dio (Mt 19,12; 1Cor 7,1.8.26)9.
2. L ’espressione richiama immagini tipicamente veterotesta-
mentarie per indicare l’idolatria. A questa conclusione si
giungerebbe osservando:
9
Questa lettura, ulteriormente sviluppata, si trova in P. Prigent, L ’Apoca-
lisse di S. Giovanni, Roma 1985, p. 440.

220
– che il termine parthénos (vergine) si riferisce sia agli uo-
mini che alla donne;
– che il verbo molyno (contaminare) viene utilizzato anche
in 3,4 riferendolo ai cristiani di Sardi che avevano rifiu-
tato l’idolatria.
3. Alla base di questa formula vi è un riferimento alla purità
rituale temporanea (Es 19,15; 1Sam 21,5-6) in vista sia di
una «guerra sacra» sia di un contatto con Dio o con le cose
a lui riservate.
4. Il versetto dà una risposta in chiave positiva al peccato de-
gli angeli descritto in 1Enoc 9,810.
Fino a qui una breve recensione delle possibili letture del
versetto. Ritorniamo ora al testo. Esso, letterariamente par-
lando, è chiaro nell’affermare che l’essere «vergini» di queste
persone, siano essi uomini o donne come sopra indicato, spie-
ga in un modo molto realistico il fatto che esse non si sono
«macchiate con donne», espressione che indica il rapporto
sessuale. Ciò posto, a noi sembra che il contesto di riferimen-
to più fruttuoso sia quello proposto dall’Antico Testamento a
proposito della purità per finalità liturgiche. Là si parlava di
una purità limitata nel tempo, qui invece il testo la considera
come stato permanente. Tutto questo si addice molto bene al
contesto teofanico e liturgico in cui la nostra pericope è im-
mersa: le persone di cui si dice possono stare continuamente
di fronte a Dio e possono imparare il «cantico nuovo» proprio
perché si trovano in uno stato di permanente purezza, che le
rende capaci e degne di prendere parte a questo momento li-
turgico di densa solennità. Esse si trovano in questa situazione
perché realmente hanno conservato la loro verginità e questa
situazione permette loro di seguire continuamente l’Agnello.
Particolarmente intensa è qui l’immagine dell’Agnello: di
esso si dice che è in continuo movimento allo scopo di portare
al culmine la storia della salvezza. Ciò impone ai 144 mila di
seguirlo «ovunque vada» con altrettanta dinamicità. La defini-
zione simbolica sembra essere a questo punto sufficientemen-
te decifrata. Il v. 4 conclude ricordandoci l’immagine del ri-
scatto-acquisto, sinonimo di redenzione. Solo apparentemen-
te il versetto ripete 14,3: qui si dice infatti che essi sono stati
riscattati «come primizia per Dio e per l’Agnello». L ’espressio-

Si legga il recente commento di E. Lupieri, L’Apocalisse di Giovanni, Mi-


10

lano 1999, p. 222.

221
ne enfatizza il fatto che costoro sono solo l’anticipazione di
una totalità: la primizia infatti ha significato solo se riferita a
tutto il raccolto che essa fa già presagire e pregustare. Di tale
messe e vendemmia si occuperà di fatto l’epilogo del c. 14.
Nell’idea di primizia è anche iscritto il concetto di una parte
del prodotto riservato a un’offerta rituale (ad esempio: Lv 1,1;
2,1; Es 30,13-16; Ez 45,13-16): davvero costoro sono l’offerta
acquistata personalmente da Cristo con il suo sangue e innal-
zata al Padre. Come per il nome scritto sulla fronte (cf. v. 1:
«Il suo nome e il nome del Padre suo»), anche qui non si deve
intendere una doppia appartenenza: ciò che l’Agnello fa e dice
riguarda direttamente Dio.
Il v. 5 chiude in modo eccellente la pericope intensificando
il quadro liturgico. L ’assenza di menzogna sulla bocca richia-
ma vari testi dell’Antico Testamento. Il Sal 32,2; Sof 3,13; Is
53,9. Un contatto di contesto si può stabilire anche col Sal 24,
in particolare con i vv. 3-5: «Chi salirà il monte del Signore, /
chi starà nel suo luogo santo? / Chi ha mani innocenti e cuore
puro / chi non pronuncia menzogna [lett. «colui che non sol-
leva a vanità la mia anima»], / chi non giura a danno del suo
prossimo. / Otterrà benedizione dal Signore, / giustizia da Dio
sua salvezza».
L ’ambiente vitale di questo salmo è un’azione liturgica ri-
conducibile o alla cerimonia con cui Davide introdusse l’Arca
nel tempio di Gerusalemme (2Sam 6), o a un’annuale festa di
rinnovamento dell’alleanza. Il salmo parla espressamente di
giusti che possono salire al monte del Signore e stare ritti al
cospetto della sua santità. Questa loro situazione appare es-
sere il frutto di una particolare benedizione che Dio elargisce
su coloro che agiscono e decidono rettamente: le mani sono
infatti lo strumento con cui si costruiscono le cose; il cuore,
secondo l’antropologia biblica, è la sede della volontà. La se-
conda condizione richiesta per potersi ergere alla presenza di
Dio è «non sollevare a vanità la mia anima»: l’espressione è
difficile.
Nel testo di Es 20,7 troviamo un asserto del tutto simile
a questo: si dice che non bisogna «sollevare il nome di Dio
invano». «Sollevare il nome» significa «pronunciare»: non bi-
sogna cioè servirsi del nome di Dio per la vanità, per i falsi
giuramenti, per la menzogna. Non si deve insomma nominare
Dio e poi non fare quello che lui dice, cadendo nella più bieca
menzogna. Il versetto è dunque mirabile sintesi di tutti i co-

222
mandamenti che riguardano l’amore a Dio. Il testo del salmo
chiude coerentemente affermando che non si deve giurare in
modo ingannevole neppure contro gli altri uomini: è qui con-
tenuto tutto il decalogo in quello che riguarda l’amore verso il
prossimo. Tutti quelli che vivranno così saranno benedetti da
Dio e riceveranno la sua giustizia, cioè saranno salvi: a loro
egli donerà la gioia di cercarlo, di trovarlo e di stare alla sua
presenza.
Questo assunto non ci sembra molto lontano da Ap 14,5:
in entrambi i testi il contesto è liturgico, in entrambi i verset-
ti la menzogna è qualcosa che si dice. Pertanto i 144 mila si
trovano in una situazione di totale assenza di comportamen-
to contro Dio e gli uomini, essi hanno sempre coerentemente
agito secondo verità, per questo ora sono «venuti alla luce»
(Gv 3,21). Sono in una situazione di totale conformità con il
Cristo-Agnello che è datore di verità (1,17), assertore della ve-
rità (8,40.45.46; 16,7), testimone della verità (18,37), verità in
persona (14,6).

Dal simbolo alla vita


Alla fine di questa lettura ci sentiamo forse un po’ stupiti di
fronte all’intensità del linguaggio e del messaggio da esso vei-
colato. Un senso di mistero ancora più grande ci sorprende.
Abbiamo decifrato il simbolo, ma non abbiamo ancora com-
piuto tutto il lavoro per raggiungere la beatitudine descritta in
Ap 1,3: beato colui che legge e coloro che ascoltano e mettono
in pratica le «parole di profezia» e le «cose scritte» in questo
libro. Resta da fare ora il più. Nell’intenzione dell’autore tutto
quanto fin qui abbiamo fatto è soltanto un lavoro previo; il se-
condo passo, ancor più appassionante e percorribile soltanto
alla luce dello Spirito, è verificare chi siano i 144 mila ora, nel
nostro momento storico ed ecclesiale. Con non poca invidia
lascio questo compito decisivo ai miei lettori e alle comunità
cristiane in cui essi vivono e operano. A essi chiedo accorata-
mente di non esimersi dal compiere quest’opera di discerni-
mento dei «segni dei tempi». Per questo il libro dell’Apocalisse
è stato scritto.

223
Luca Mazzinghi
________

La vendemmia e la mietitura
(Ap 14,6-20)

Ci troviamo nella seconda parte del libro dell’Apocalisse,


introdotta dalla doppia visione della donna e del dragone (Ap
12) e delle due bestie (Ap 13), visioni alle quali si contrappone
l’Agnello ritto sul monte Sion (14,1-5). La sezione che dob-
biamo commentare costituisce il preludio del giudizio esca-
tologico, descritto nei cc. 15-20. Il nostro testo serve così a
introdurre la drammatica scena finale, della quale i due ca-
pitoli precedenti hanno già indicato i protagonisti. Possiamo
facilmente individuare due parti, all’interno del nostro testo:
i vv. 6-12 contengono una triplice proclamazione angelica (vv.
6-7.8.9-12), chiusa al v. 13 da una misteriosa «voce», mentre i
vv. 14-20 contengono la descrizione di una doppia azione sim-
bolica: la mietitura e la vendemmia. Le due piccole unità lette-
rarie sono segnate da una caratteristica comune: il riferimen-
to a tre angeli che in entrambe intervengono, nella prima uni-
tà per parlare, nella seconda, invece, per parlare e per agire (si
veda ai vv. 15.17.18 la ripetizione della frase: «Un altro angelo
uscì»). Al termine della prima unità, la voce del v. 13 che pro-
clama la beatitudine dei santi va forse considerata anch’essa
una voce angelica; in questo caso si potrebbe vedere in 14,6-
20, pertanto, un piccolo settenario di angeli. Al centro dell’in-
tera sezione (14,6-20) si colloca in questo modo la visione del
Figlio dell’uomo (v. 14), presentato come Signore e giudice1.

Ap 14,6-13: la prima serie di tre angeli del giudizio


e la voce dal cielo
I tre discorsi dei primi tre angeli (14,6-11) formano una
1
Per la struttura letteraria del nostro brano cf. J.P. Charlier, Comprendre
l’Apocalypse, II, Paris 1991, pp. 19-21.

224
piccola unità letteraria piuttosto ben delineata: il primo di-
scorso è un avvertimento, un invito alla conversione espresso
con verbi all’imperativo; il secondo, la descrizione di un fatto
già accaduto («è caduta Babilonia»); il terzo discorso, infine,
è una minaccia, i cui verbi sono al futuro, che si apre però (v.
12 e, più chiaramente, la quarta voce del v. 13) nella procla-
mazione della felicità eterna dei santi. È l’insieme di questi
discorsi che costituisce il «vangelo eterno» che il primo angelo
porta; si osservi, tra l’altro, come questa è l’unica ricorrenza,
all’interno dell’Apocalisse, del termine «vangelo».

r Il primo angelo (vv. 6-7). La sua funzione è evidentemente


quella di annunciare il giudizio divino, cosa che l’angelo fa in
maniera solenne. Alla luce di quest’annuncio di giudizio, che
caratterizza tutta questa prima parte, si può capire meglio di
quale «vangelo eterno» il testo voglia parlare, tenendo conto
che ci troviamo di fronte a un’espressione unica nel Nuovo
Testamento. Non si tratta tanto del «piccolo libro» ricordato
in 10,2; si tratta, più in generale, della lieta notizia, diretta a
tutti gli uomini, relativa alla venuta, ormai definitiva (vedi l’u-
so dell’aggettivo «eterno»), del giudizio divino sul mondo. Può
sorprendere il fatto che tale «vangelo» non abbia contenuti
esplicitamente cristiani; in realtà, l’invito a temere l’unico Dio
e a convertirsi a lui in vista del giudizio è un elemento tradi-
zionale della predicazione ebraica, assunto anche dal primo
cristianesimo (cf. At 14,14 e 1Ts 1,5.9). È una lieta notizia che
riguarda tutti gli uomini, e non soltanto i cristiani, e riguarda
l’assoluta signoria di Dio sul mondo.

r Il secondo angelo (v. 8). La sua funzione è quella di annun-


ciare la caduta di Babilonia la grande (Dn 4,27), città nomina-
ta per la prima volta nell’Apocalisse, caduta che viene descrit-
ta combinando due testi profetici: Is 21,9 e Ger 51,8. Babilo-
nia è già in questi testi profetici il simbolo di un mondo che
ha spinto il popolo d’Israele ad abbandonare Dio, portandolo
all’idolatria, al peccato più radicale concepito dalla Scrittura.
In questo passo dell’Apocalisse tale idolatria è vista sotto l’ot-
tica della prostituzione, che, normalmente, è nei testi biblici
un’accusa rivolta non tanto ai pagani, quanto a Israele, dato
che la prostituzione di cui parlano i profeti presuppone il tra-
dimento di un legame sponsale. Nel contesto simbolico del
libro, si può pensare che Babilonia, la cui caduta verrà am-

225
piamente descritta in seguito, nel c. 18, incarni anche il potere
di Roma, come in genere appare nella tradizione apocalittica
(vedi, nel Nuovo Testamento, la conclusione di 1Pt 5,13), cit-
tà che tuttavia, nella sua corruzione, racchiude in sé anche il
male rappresentato da Gerusalemme, vista in Ap 11,8 come il
luogo della crocifissione del Signore. Il «vangelo» annuncia-
to dall’angelo consiste dunque non solo in un avvertimento,
ma, appunto, anche in un fatto ben preciso: il potente impe-
ro romano, nel momento del suo maggior splendore, appare,
agli occhi del profeta, già crollato e, se vuole pensare anche
alla città di Gerusalemme, l’opposizione dei giudei al vange-
lo, sulla quale più volte l’autore dell’Apocalisse si è fermato, è
considerata senza successo. Alla luce del probabile riferimen-
to a Roma, l’uso del termine «vangelo» acquista poi un senso
ferocemente ironico; con il termine greco euanghélion, infatti,
si indicava la buona notizia della salita al trono o dell’arrivo
dell’imperatore.

r Il terzo angelo (vv. 9-11). L ’annuncio affidato al terzo ange-


lo, espresso come si è detto con uno sguardo rivolto al futuro,
è più ampio e circostanziato. Il tema del messaggio portato
dall’angelo ruota intorno al problema dell’idolatria, che sta al-
la radice della condanna e della caduta di Babilonia. L ’ange-
lo annuncia il giudizio degli idolatri attraverso il simbolo del
vino versato nella coppa dell’ira di Dio e del giudizio tramite
fuoco e zolfo. Il primo elemento simbolico è già presente in
diversi testi anticotestamentari (Is 51,17.22; Ger 25,15ss.; 51,7
e soprattutto Sal 75,9) e serve a sottolineare l’intervento giu-
diziale divino nei confronti di un popolo colpevole; il secon-
do elemento, la punizione tramite fuoco e zolfo, è anch’esso
tratto dalle descrizioni del giudizio di Dio presenti fin da Gen
19,24-28 (l’episodio di Sodoma e Gomorra; cf. anche Is 34,9-
10). Contrariamente a molti altri testi apocalittici giudaici, la
descrizione presente nel nostro testo è in realtà piuttosto so-
bria: al nostro autore non interessa compiacersi nei particola-
ri del giudizio punitivo di Dio, ma annunciarne il definitivo in-
tervento contro l’idolatria. Se Babilonia, come sopra abbiamo
notato, non simboleggia soltanto Roma, ma racchiude in sé
anche le colpe di «Gerusalemme», la condanna appare diretta
anche contro i tradimenti d’Israele. In ogni caso, la durezza
delle immagini va vista nella prospettiva dell’ammonimento
che l’autore del libro rivolge agli adoratori della «bestia», per-

226
ché si rendano conto delle conseguenze tragiche del loro mo-
do di agire.

r La voce dal cielo. Improvvisamente, all’annuncio del terzo


angelo seguono due versetti (12-13) che fanno come da com-
mento al «vangelo eterno» annunciato dai tre angeli, versetti
nei quali si ha un ribaltamento di situazione: l’attenzione si
sposta sui «santi», cioè su coloro che hanno resistito alla be-
stia, rifiutandosi di adorarla (cf. v. 11). Essi sono caratterizzati
dalla virtù della ypomonê, la perseveranza, che li ha condotti
a resistere sotto il peso delle persecuzioni, fino a morire (v.
12). Il v. 13, affidato a una misteriosa voce, contiene così la
seconda delle sette beatitudini che percorrono il libro dell’A-
pocalisse2. La morte dei giusti non è priva di significato, per
coloro che «muoiono nel Signore» (cf. 1Cor 15,18; 1Ts 4,16);
l’espressione è tradizionale nel linguaggio cristiano, ma qui si
riferisce più precisamente alla morte dei martiri. Per costo-
ro, per i quali la fede si coniuga con le opere («le loro opere
li seguono») la morte è l’ingresso nel «riposo» di Dio (cf. Eb
4,3.9). Si tratta di una beatitudine posta per alcuni in bocca a
un altro angelo (vedi sopra), ma più probabilmente posta da
Giovanni in bocca allo Spirito («Dice lo Spirito»); in questo
caso la voce dello Spirito è qualcosa di particolarmente im-
portante; a parte le lettere alle sette Chiese (Ap 2-3), la voce
dello Spirito ritornerà soltanto alla conclusione del libro (Ap
22,17).

La mietitura (14,14-16)
Prima di introdurre una nuova serie di tre angeli il testo
dell’Apocalisse ci presenta, proprio al centro della scena (v.
14) la figura di Gesù, descritto come il Figlio dell’uomo. L ’im-
magine è desunta, evidentemente, dal celebre testo di Dn 7,13,
già utilizzato in Ap 1,13 in riferimento alla Chiesa; l’Apocalisse
applica dunque a Gesù risorto la misteriosa figura presentata
nel testo di Daniele (ma tale identificazione è già presente nei
Sinottici; cf. Mc 13,26). La nube bianca è simbolo della sua
risurrezione (questa è la settima e ultima ricorrenza del termi-
ne «nube» nell’Apocalisse) e l’essere seduto segno di autorità;
la corona d’oro è simbolo del suo potere regale. La novità di
2
Cf. anche Ap 1,3; 16,15; 19,9; 20,6; 22,7; 22,14.

227
questa descrizione sta nel fatto che il Figlio dell’uomo viene
presentato con una falce affilata nella mano (la falce è ricorda-
ta sette volte nel nostro testo), segno del suo potere di giudice.
Anche in questo caso l’immagine della mietitura, applicata al
giudizio di Dio, non è nuova ed era presente già nella predi-
cazione del Battista (Mt 3,12) e di Gesù stesso (Mt 13,30.39).
I vv. 15-16 contengono l’invito rivolto al Figlio dell’uomo da
parte di un nuovo angelo, uscito dal santuario celeste, perché
getti la falce sulla terra (il gettare è, di per sé, un gesto piutto-
sto strano)3, perché è giunta l’ora della mietitura; il giudizio è
così descritto come già compiuto, senza che il testo aggiunga
una parola sul suo svolgimento. Qui, il Figlio dell’uomo appa-
re come uno che prende ordini dall’angelo, volendo così sotto-
lineare la sua sottomissione al Padre (cf. Mc 13,32).
La scena della mietitura strettamente unita a quella se-
guente della vendemmia, in parallelo con la quale va sicura-
mente interpretata, nasce dalla lettura di un testo del profeta
Gioele (Gl 4,13); il profeta descrive il «giorno del Signore» che
avviene nella «valle della decisione». Il giudizio divino è im-
maginato così da Gioele: «Date mano alla falce, perché la mes-
se è matura; venite, pigiate, perché il torchio è pieno e i tini
traboccano [...] tanto grande è la loro malizia!». Le interpreta-
zioni della scena della mietitura e della susseguente scena del-
la vendemmia, a questo punto, divergono. Alcuni autori sono
convinti che le due scene debbano intendersi, alla luce del ci-
tato testo di Gioele, come entrambe negative: il castigo di chi
si oppone a Dio. Un secondo gruppo di esegeti ritiene invece
che la descrizione della mietitura vada vista in opposizione a
quella della vendemmia; quest’ultima è simbolo della condan-
na dei malvagi, mentre la mietitura rappresenta la salvezza
dei giusti, secondo quel simbolismo del mietere che caratte-
rizza molti testi dell’Antico Testamento (Is 9,3 ad esempio),
ma anche del Nuovo (Mc 4,29). Una terza possibilità è con-
siderare entrambe le scene come il simbolo della raccolta dei
giusti (la mietitura) e della sorte del popolo di Dio perseguita-
to (la vendemmia), cioè la sorte dei martiri. Ma queste due ul-
time interpretazioni appaiono un po’ forzate e dettate almeno
in parte dalla volontà di attenuare la crudezza delle immagini
che caratterizzano soprattutto la scena della vendemmia. La
3
La falce potrebbe in questo caso essere vista come un simbolo del de-
monio, utilizzato da Dio per punire gli uomini; cf. E. Lupieri, L ’Apocalisse di
Giovanni, Milano 1999, pp. 230-231.

228
prima lettura, in chiave di giudizio, anche alla luce dei paral-
leli neotestamentari e delle osservazioni che sopra abbiamo
ricordato, appare come la più fondata; in entrambe le scene ci
troviamo così di fronte alla descrizione di quel giudizio di Dio
sui malvagi e gli idolatri che ci era stato annunciato dal primo
angelo della sezione precedente (14,6-8)4.

La vendemmia (14,17-20)
Al secondo angelo, presentato nel v. 17, si rivolge un ter-
zo angelo (v. 18), che esce dall’altare dei sacrifici dove arde
il fuoco sacro, cioè dal cuore del tempio e dove si trovano le
anime dei martiri in attesa del giudizio di Dio (Ap 6,10). Que-
sto terzo angelo è presentato come padrone del fuoco, ovvero
come responsabile dell’efficacia dei sacrifici; egli invita il pre-
cedente angelo a iniziare la vendemmia sulla terra, anch’essa
eseguita con una falce affilata, come nel caso della precedente
scena della mietitura. Oltre al già ricordato testo di Gioele,
l’immagine della vendemmia come segno del giudizio divino
è suggerita dal testo di Is 63,1-6; in questo frammento, di te-
nore apocalittico, il profeta descrive il Signore come un ven-
demmiatore i cui abiti sono sporchi del succo spremuto nella
pigiatura, simbolo dei nemici di Israele calpestati e vinti (si
veda, in particolare, la descrizione tragica e terribile del v. 3).
L ’immagine della vendemmia applicata al giudizio opera-
to da Cristo ritornerà anche più avanti nel libro (19,13-15),
ma è in questo caso particolarmente impressionante. Prima
di entrare nei dettagli della descrizione c’è da chiedersi a che
cosa la vendemmia esattamente si riferisca: l’uva che viene
vendemmiata è simbolo dei peccatori che vengono stermina-
ti oppure dei loro peccati? Probabilmente è giusta la prima
interpretazione: l’immagine della vendemmia è un’anticipa-
zione della distruzione dei peccatori (cf. 20,7-15); ma tutto il
contesto ha un sapore antigiudaico che non può essere sotto-
valutato. Il testo vuole, drammaticamente, mettere in luce la
dimensione che il male ha raggiunto nel mondo e che questa
scena della vendemmia vuole mettere in luce.
Nella descrizione dell’Apocalisse l’uva pigiata nel tino
4
Cf. E. Lohse, L ’Apocalisse di Giovanni, Brescia 1974, pp. 150-151 per la
prima interpretazione; P. Prigent, L ’Apocalypse, Paris 1998, p. 153; per lui la
scena della mietitura è positiva; per E. Corsini, Apocalisse prima e dopo, Tori-
no 1980, pp. 383-384, invece, entrambe le scene sono positive.

229
dell’ira di Dio diviene immediatamente sangue che raggiun-
ge livelli incredibili: 1600 stadi (uno «stadio» equivale a circa
duecento metri, quindi ci si immagina una distanza di più di
trecento chilometri!), fino all’altezza del morso di un cavallo;
ma l’interesse del testo non è certo nei numeri. Quest’ultima
allusione, tra l’altro, è già presente nella descrizione apocalit-
tica del libro di Enoc (En 100,3)5 e rinvia ai cavalli dell’eserci-
to del Messia vittorioso (19,14.19), che trionfano sull’esercito
della bestia (19,9-10). Le dimensioni numeriche raggiunte dal
sangue hanno evidentemente un valore simbolico, come sem-
pre accade nell’Apocalisse: il numero 1600 è un multiplo di 4,
numero cosmico che indica la totalità dello spazio geografico
(4 × 4 × 100 oppure 40 × 40); la realtà del male pervade perciò
il mondo intero e solo il giudizio di Dio è capace di liberare il
mondo che ne è pieno.
La vendemmia avviene, secondo il v. 20, «fuori dalla città»,
cioè fuori da Gerusalemme; da un primo punto di vista siamo
all’interno di una prospettiva ben nota ai testi profetici che de-
scrivono il giudizio di Dio; sia in Gioele (Gl 4,2.12) che in Zac-
caria (Zc 14,2) il giudizio divino degli empi avverrà nella valle
di Giosafat, dunque appena fuori Gerusalemme, dove Israele
potrà continuare ad abitare in tutta sicurezza. Secondo alcuni
autori è possibile scorgere, in questa nota, un’allusione pre-
sente nel testo di Eb 13,12: «Gesù, per santificare il popolo
con il proprio sangue, patì fuori della porta della città». Il ti-
no dell’ira di Dio, perciò, non rimanda soltanto al sangue dei
malvagi che riempie la terra, ma forse anche al sangue di Cri-
sto che viene sparso per la salvezza degli uomini (cf. 5,9); altri
autori pensano invece al sangue dei martiri (cf. ancora 6,10).
Ma il tono di tutto il passo appare senz’altro molto più nega-
tivo; la scena della mietitura rinvia alla condanna dei pagani,
quella della vendemmia, invece, alla condanna dei giudei.

Conclusione
Alla luce dell’analisi sopra condotta, il messaggio di questo
testo può essere così sintetizzato: i primi tre angeli hanno lo

5
«I cavalli cammineranno fino al petto nel sangue dei peccatori, e i carri
vi saranno sommersi fino alla loro altezza». Nel testo dell’Apocalisse la strage
sembra ancora peggiore di quella descritta da Enoc, che, comunque, costitui-
sce il modello letterario del nostro testo.

230
scopo di annunciare a tutti i popoli il «vangelo eterno», ovvero
il lieto e definitivo messaggio della salvezza di Dio. È necessa-
rio credere solo in Dio (messaggio del primo angelo), perché
il potere idolatrico e la prostituzione di Babilonia (Roma e
Gerusalemme insieme) sono finiti (secondo angelo); pertan-
to ogni uomo deve decidersi, se si vuole evitare la triste con-
seguenza delle proprie scelte errate (terzo angelo). Solo così,
con la perseveranza nella fede, sarà possibile ottenere la vita
eterna, che è promessa in particolare a coloro che per il vange-
lo sono morti (vv. 12-13).
La seconda parte del testo costituisce la spiegazione della
prima: il Figlio dell’uomo, infatti (v. 14), è pronto a giudicare
tutta la malvagità che c’è nel mondo, sia tra i pagani (la scena
della mietitura) sia all’interno del popolo d’Israele (la scena
della vendemmia). Il vangelo è, dunque, anche un giudizio ra-
dicale e definitivo di Dio sul male, che, per chi crede, si trasfor-
ma in salvezza. Il brano che abbiamo esaminato serve dunque
bene a introdurre il tema del giudizio che sarà approfondito
dall’autore dell’Apocalisse nell’ultima parte del suo libro.

231
Giancarlo Biguzzi
________

Il settenario delle coppe


e l’idolatria della bestia
(Ap 15-16)

Il profeta Geremia fu testimone oculare della distruzione di


Gerusalemme nel 586 a.C. Nabuzaradan, il generale mandato
da Nabucodonosor – il Nabucco di Verdi – a punire la città
ribelle, uccise i figli del re Sedecia sotto i suoi occhi e quindi lo
accecò di sua mano con la spada perché fosse quella l’ultima
immagine vista dai suoi occhi. Poi incendiò la città e il tem-
pio, ma prima che l’incendio fosse appiccato, su suo ordine,
gli eserciti babilonesi «presero le caldaie, le palette, i coltelli,
i bacini per l’aspersione, le coppe e tutti gli arredi di bronzo
che servivano al culto» (Ger 52,18)1. Tra gli oggetti preziosi
sequestrati dal tesoro del tempio c’erano dunque delle coppe.
Il trasporto di qualcuno di quei recipienti poteva richiedere
l’opera simultanea di più inservienti, ma presumibilmente ciò
non era necessario per le coppe, le quali devono essere state di
dimensioni più ridotte. Anche le coppe d’oro (5,8; 15,7) di cui
parla l’Apocalisse dodici volte sono maneggiate da una sola
persona, più precisamente da un angelo (16,2 ecc.), e anch’es-
se sono vasi sacri, dal momento che sono collegate con la pre-
ghiera (5,8) o con il tempio celeste (15,4-8). Ma Giovanni di
Patmos dice ripetutamente che quelle coppe erano piene, non
di qualche liquido o di chissà quale materiale liturgico, bensì
dell’ira di Dio (15,7; cf. 16,1; 21,9).

1
Cf. anche 2Re 25,14-15 (spoliazione del tempio da parte dei babilonesi nel
586 a.C.), Esd 1,7-11 (ritorno degli esuli e ritorno dei vasi sacri a Gerusalem-
me nel 538 a.C.), e 1Mac 1,21-24 (spoliazione del tempio da parte di Antioco
iv Epifane nel 169 a.C.).

232
Il simbolismo delle coppe
L ’Antico Testamento collega con l’ira di Dio altre coppe o
recipienti dando vita a due immagini dell’«ira divina» che pos-
sono contribuire alla comprensione del nostro testo. La pri-
ma è quella del calice dell’ira: secondo il Sal 75,9, dal calice
dell’ira divina gli empi della terra «dovranno sorbire fino alla
feccia», e in Ez 23,31-34 la coppa dell’ira è profonda, larga, di
capacità grande, e il Signore dice a Gerusalemme che, come
sua sorella Samaria, dovrà berne fino a vuotarla, e che poi ad-
dirittura ne succhierà i cocci e con essi si lacererà il seno2. La
seconda immagine biblica è quella della coppa piena dell’ira
divina, che però non è da far bere, bensì da rovesciare contro
colui verso il quale si è adirati. Così in Os 5,10 l’ira di Dio sarà
rovesciata come acqua sui responsabili del regno di Giuda, e
in Lam 2,4 è stata invece rovesciata come fuoco sulla tenda
della figlia di Sion, e cioè su Gerusalemme (cf. anche Na 1,6)3.
Le due immagini non sono equivalenti e intercambiabili: la
prima, quella dell’ira da bere fino all’ultima goccia, mette l’ac-
cento sul destinatario dell’ira, meritevole di un castigo che va
fino in fondo; la seconda mette l’accento invece sul soggetto
adirato, come chi dà espressione a tutta la sua irritazione ro-
vesciando con violenza, da un recipiente, fuoco o acqua sul
bersaglio del suo sdegno.
Giovanni di Patmos, che conosce tutte e due le immagini, si
serve della prima, quella dell’ira da bere, due volte: dapprima
nell’annuncio minaccioso dell’angelo di Ap 14, secondo il qua-
le gli adoratori della bestia dovranno bere il vino schietto del
furore di Dio al calice della sua ira (14,10); e poi in Ap 16 dove
è detto che Dio si ricordò di dare da bere a Babilonia il calice
del vino del suo furore irato (16,19).
Ma il settenario delle coppe, ripetendo ben otto volte il ver-
bo «versare» (ekchéô) in riferimento all’ira di cui le coppe so-
no piene, non parla dell’ira da bere, bensì dell’ira da versare.

Il rito d’investitura dei sette angeli delle coppe


Un manipolo di sette angeli viene definito da Giovanni
2
L ’immagine deve ovviamente parlare della distruzione di Samaria del
721 a.C. e di quella di Gerusalemme del 586 a.C.
3
Con l’immagine del fuoco dell’ira gettato su Gerusalemme si fa allusione
all’incendio con cui i babilonesi distrussero la città nel 586 a.C.

233
come «segno grande e meraviglioso» (15,1). Egli ha già pre-
sentato altri due segni: la donna «vestita di sole» e il drago,
antagonista della donna (12,1.3). In questo terzo segno i sette
angeli sono fin dal principio equipaggiati con sette flagelli che
sono definiti «ultimi» (15,1; cf. 21,9), e in tal modo sono col-
legati all’indietro con i flagelli precedenti. Anche e soprattutto
in questo settenario, dunque, l’ira divina si rivela in tutta la
sua serietà e determinazione: i flagelli sono «gli ultimi», «quel-
li in cui il furore di Dio si compie» (v. 1), quelli in cui si com-
pirà l’esodo guidato dall’Agnello (v. 3), quelli che hanno ogni
priorità nei piani di Dio (v. 8).
Dopo che un cantico intonato dai vincitori della bestia ha
celebrato le opere grandi e potenti di Dio come opere del nuo-
vo esodo («Cantano il cantico di Mosè e il cantico dell’Agnel-
lo», 15,2-4), Giovanni assiste a un rito d’investitura analogo
a quello celebrato all’altare degli incensi in apertura del set-
tenario delle trombe (8,3-5). Vestiti di lino bianco e cinti al
petto con cinture d’oro come sacerdoti, i sette angeli ricevono
da uno dei quattro Viventi le sette coppe che danno il nome
al settenario, le coppe «piene dell’ira divina» (15,5-7). Rice-
vono, cioè, lo strumento di lancio dei flagelli, perché di quei
flagelli erano equipaggiati fin dalla prima comparsa (v. 1). Il
fumo della gloria di Dio, e cioè la nube teofanica che rivela e
nasconde la presenza divina, riempie allora il tempio celeste
e impedisce a tutti l’accesso nel santuario finché i sette flagelli
non abbiano fatto il loro corso (v. 8): quasi a dire che i sette
flagelli hanno ogni priorità nel pensiero e nell’azione di Dio.

I flagelli contro il regno della bestia


Una voce grida ai sette angeli coppieri: «Andate e versate
le coppe dell’ira di Dio contro la terra» (16,1). Il duplice im-
perativo è subito scrupolosamente eseguito dal primo angelo
della serie che, appunto, «andò e versò la sua coppa contro la
terra» (v. 2a). Il bersaglio del flagello non è lasciato nel vago
(«contro la terra»), ma è subito messo a fuoco con precisione4,
perché è detto che una piaga, cattiva e malvagia, binomio che
4
Nel settenario dei flagelli che si abbattono sull’idolatria tradizionale, i ve-
ri destinatari delle prime quattro trombe (Ap 8,7-12) non vengono indicati e
bisogna dedurne l’identità dalla quinta e dalla sesta tromba (9,4; 9,20-21). Cf.
G. Biguzzi, Il settenario delle trombe e l’idolatria (Ap 8,2-11,19), «Parole di Vita»
3/2000, pp. 25-31.

234
si potrebbe parafrasare con «dolorosa e ributtante», colpisce
quanti erano segnati col contrassegno della bestia e rendeva-
no culto alla sua statua (v. 2b). Con altrettanta precisione, più
sotto sarà detto che la bestia è bersaglio anche del quinto fla-
gello, questa volta nel suo trono e nel suo regno: «e il quinto
[angelo] versò la sua coppa contro il trono della bestia e il suo
regno fu oscurato» (v. 10).
Tutto questo è di estrema importanza per l’interpretazione
del settenario, soprattutto perché il cantico inserito nel rito
d’investitura dei sette angeli coppieri era cantato dai vincitori
«della bestia e della sua immagine» (15,2). Il rimando è, dun-
que, alla bestia di Ap 13,1ss., o meglio alle due bestie di quel
capitolo. In Ap 13, infatti, la bestia che sale dal mare si fa ado-
rare da tutti i popoli dell’impero affidatole dal drago, e cioè dai
popoli che abitano tutt’intorno a quel mare da cui, suadente e
insieme minacciosa, essa sorge. In Ap 13,11ss., poi, la seconda
bestia, o falso profeta (16,13; 19,20; 20,10), induce gli abitan-
ti della terra a costruire e poi ad adorare un’immagine della
prima bestia, e di essa imprime il marchio sulla destra e sulla
fronte degli adepti (13,16). È dunque contro l’idolatria resa al-
la bestia che i flagelli delle sette coppe si riversano, infliggen-
do ulcere e tenebre, come nel primo esodo, quello dall’Egitto.
Anche il secondo e il terzo flagello richiamano con piena
evidenza l’esodo dall’Egitto perché si abbattono sulle acque
del mare (16,3, seconda coppa) e su quelle di sorgenti e fiumi
(16,4, terza coppa), e le cambiano in sangue, così com’era ap-
punto avvenuto nel primo esodo. Ma di questi due flagelli è da
mettere in luce il particolare legame con la bestia e con la sua
idolatria.

Gli altri flagelli e l’intermezzo della persecuzione


Il secondo e terzo flagello delle coppe, che cambiano le ac-
que salate e rispettivamente le acque dolci in sangue («come
di cadavere», 16,3), sono seguiti da un intermezzo a due voci
che è come la loro chiave d’interpretazione.
La più importante è la prima voce, quella di un angelo, e
più precisamente dell’angelo «delle acque». Gli angeli «dei
quattro venti» di 7,1, l’angelo «del fuoco» di 14,18, e questo
angelo «delle acque» sono costituiti sopra gli elementi della
natura come i funzionari degli antichi imperi orientali lo era-
no per una provincia o per un settore dell’amministrazione

235
pubblica, o come i curatores romani che presiedevano al buon
funzionamento delle strade, delle mura, dei giochi pubblici o
dell’annona, ecc. Di fronte allo spettacolo delle acque putre-
fatte, l’angelo dovrebbe lamentarsene presso Dio e invece in-
nalza un cantico di lode alla giustezza delle sue opere e di quel
suo intervento perché «essi hanno versato il sangue dei santi e
dei profeti e tu sangue hai dato loro da trangugiare» proclama
l’angelo, e aggiunge: «Ne erano ben degni!» (16,6).
Queste parole dell’angelo dicono con sufficiente chiarezza
che quei flagelli non erano affatto contro le acque, ma contro i
persecutori dei «santi e profeti [cristiani]». Lo conferma la se-
conda voce, la quale approva le parole dell’angelo, e – ciò che
è importante – proviene dall’altare (v. 7). Con ogni probabilità,
infatti, l’altare è quello del tempio celeste e la voce è quella
dei martiri cristiani che da sotto quell’altare avevano gridato
a Dio: «Fino a quando tu, che sei Sovrano giusto e verace, non
vendicherai il nostro sangue contro gli abitanti della terra?»
(6,9-10). Avevano chiesto la vendicazione del loro sangue e ora
è stata loro concessa: «hanno versato il sangue di santi e pro-
feti, e tu sangue hai dato loro da trangugiare!».

«Occhio per occhio» e ricerca della conversione


Forse si può dire di più. Quei persecutori, infatti, sono da
cercare nelle file dei seguaci della bestia. Il tema della perse-
cuzione caratterizza Ap 13, perché «fu dato [alla bestia salita
dal mare] di far guerra contro i santi e di vincerli» (13,7), e
«fu dato [alla bestia venuta dalla terra] di uccidere quanti non
adoravano la statua della bestia» (13,15; cf. anche 13,9-10.16-
17). E come l’antica legge del taglione diceva «occhio per oc-
chio, dente per dente, piede per piede» (Es 21,24; Lv 24,20;
Dt 19,21), così dunque Giovanni dice «sangue per sangue». E
poco importa che si possa ridurre lo spessore della vendetta
precisando: «non “versamento di sangue per versamento di
sangue”, ma soltanto “trangugiamento di sangue per versa-
mento di sangue”».
Questa lettura, però, è giusta solo in superficie. Come già i
flagelli delle trombe (9,20-21), così anche i flagelli delle coppe
sono infatti finalizzati, non alla distruzione o al castigo, ma
alla conversione. Basta leggere le conclusioni della quarta e
della quinta coppa: «E bestemmiarono il nome di Dio [...] e
non si convertirono per dare a lui gloria» (16,9); «E bestem-

236
miarono il Dio del cielo e non si convertirono dalle loro ope-
re» (16,11). I flagelli divini intendono portare alla conversione
perché si dia gloria a Dio e invece, alla pressione di Dio – dice
Giovanni –, gli idolatri oppongono l’indurimento del cuore,
come il faraone dell’antico esodo.

La sesta e settima coppa come anticipazioni


La sesta coppa è di difficile interpretazione a motivo del
non chiaro collegamento tra i re dell’Oriente, ai quali viene
aperto il passaggio attraverso il fiume Eufrate (v. 12), e i re di
tutta l’ecumene che la triade antidivina convoca per la batta-
glia del grande giorno di Dio onnipotente (v. 14). È certo, però,
che il versamento della sesta coppa non provoca alcun flagello
anti-idolatrico. L ’iniziativa qui non è di Dio né dei suoi angeli
coppieri, ma del fronte opposto, il quale organizza un’impo-
nente e temibile coalizione sul luogo «in ebraico chiamato Ar-
maghedón» (vv. 13-14)5. Nella sesta coppa non c’è alcun flagel-
lo contro gli idolatri6, dunque, ma ci sono i loro preparativi di
guerra come se, induriti sulla loro posizione, essi tentassero di
andare al contrattacco e allo scontro finale.
Quanto alla settima e ultima coppa, essa potrebbe di per
sé essere interpretata come flagello contro Babilonia (16,19),
ma tale interpretazione incontra due forti difficoltà: la prima è
che la sesta coppa induce a ritenere chiuso il ciclo dei flagelli
essendone chiaramente sprovvista, e la seconda è che la ca-
duta di Babilonia, qui narrata per accenni, viene poi cantata
liricamente e con molta più ampiezza in Ap 18,1-19,4.
Sembra, dunque, che il settenario delle coppe sia composto
di due parti, dopotutto come già quello delle trombe7. La parte
principale è costituita da una serie di flagelli contro il mondo
5
Tra le molte proposte, la meno insoddisfacente è quella di intendere il
toponimo in rapporto con Megiddo, luogo di famose e tremende battaglie, da
quella vinta da Tutmose III nel 1475 a.C. a quella in cui perdette la vita il re
Giosia nel 609 a.C. (2Re 23,29). è ben vero Armaghedón in retro-traduzione
ebraica può significare «monte di Megiddo» e che Megiddo si trova nella piana
e non sul monte, ma le «citazioni» di Giovanni di Patmos sono sempre molto
libere. Per esempio, Gog e Magog di Ap 20,8 («sedurrà le nazioni, Gog e Ma-
gog»), nel precedente biblico cui Giovanni si ispira, non sono due popoli, ben-
sì un re e, rispettivamente, il suo popolo («Gog, principe di Magog», Ez 38,2).
6
Anzi, il Cristo che parla in 16,15, promette una sua venuta di beatitudine
per chi è vigilante e fedele.
7
Cf. G. Biguzzi, Il settenario delle trombe e l’idolatria (Ap 8,2-11,19).

237
del­l’idolatria della bestia per indurlo a conversione, e la se-
conda da due rimandi in avanti: i preparativi di una battaglia
che poi sarà descritta in 19,11-20,10, e un’anticipazione della
caduta di Babilonia (cf. 16,17-21), che ha un sorprendente pa-
rallelo nell’analoga anticipazione in 21,1-8 della discesa dal
cielo della nuova Gerusalemme di 21,9-22,5.

Bilancio circa il settenario e l’identità della bestia


Quanto a tutto il settenario, il quadro è oramai completo, e
si impongono le seguenti conclusioni:
— il settenario delle coppe è un settenario di flagelli che ripe-
tono le piaghe d’Egitto;
— è un settenario di flagelli anti-idolatrici come già quello del-
le trombe;
— i flagelli mirano non alla vendetta, alla distruzione o al ca-
stigo, ma alla conversione anche se provocano di fatto solo
l’indurimento;
— nei due settenari gli ambienti colpiti dai flagelli sono gli
stessi: la terra (prima tromba e coppa); le acque salate e le
acque dolci (seconda e terza tromba e coppa); il sole (quar-
ta tromba e coppa), la luna e le stelle (quarta tromba)8; e
tuttavia
— i due settenari si differenziano nei bersagli dei flagelli: le
trombe colpiscono il mondo dell’idolatria dei demoni e dei
(molti) simulacri, mentre le coppe colpiscono il mondo
dell’idolatria della bestia e della sua (unica) immagine;
— i capitoli che vanno da 8,2 a 16,21 possono, dunque, essere
raccolti sotto l’unico titolo di «intervento di Dio sulle due
idolatrie per indurre gli idolatri a conversione»;
— in tutti e due i settenari Giovanni esaurisce la sequenza dei
flagelli prima dello squillo della settima tromba e prima del
versamento della sesta coppa, inserendo episodi che trat-
teggiano in anteprima le vicende, narrate poi nel seguito
con maggiore completezza.
Resta da dire con quale idolatria storica potrebbe essere
identificata quella che Giovanni presenta come «idolatria del-
la bestia», differenziandola accuratamente dall’idolatria dei
8
Cf. anche il riferimento al fiume Eufrate sia nella sesta tromba (9,14) che
nella sesta coppa (16,12).

238
demoni e dei simulacri che è presa di mira nel settenario delle
trombe.
La discussione al riguardo è accesa e vede contrapposte
una minoranza che identifica la Babilonia di Apocalisse (e la
bestia) con Gerusalemme, e una maggioranza che la identi-
fica invece con Roma9. Il problema, dunque, è se l’Apocalis-
se debba essere considerata un libello antigiudaico o, invece,
un libello antiromano. La discussione ha ovviamente diversi
risvolti e dovrebbe essere molto articolata, ma anche le sole
cose dette finora rendono improbabile la soluzione antigiu-
daica. Bisogna infatti chiedersi come si possano mai ambien-
tare a Gerusalemme le due idolatrie contro le quali Giovanni
polemizza proprio nei capitoli centrali della sua Apocalisse.
In altre parole, bisogna, per esempio, chiedersi con quale mai
dei protagonisti della scena gerosolimitana del I secolo d.C.
possa identificarsi la bestia adorata nella sua statua. In secon-
do luogo, bisogna chiedersi che interesse polemico potevano
avere le sette Chiese d’Asia contro Gerusalemme, soprattutto
se la città era già stata distrutta e se era in mano ai conquista-
tori romani, dato e non concesso che Gerusalemme potesse
essere definita come città idolatrica10. Il discorso per Roma e
per il culto imperiale è invece del tutto praticabile, a partire,
per esempio, dalla prima e più importante delle città dell’Apo-
calisse: Efeso11.

L ’idolatria imperiale a Efeso e Giovanni di Patmos


L ’imperatore Domiziano aprì a Efeso due grandi cantieri
edilizi in due punti strategici della città. Il primo era a ridosso
dell’agorà politica, dove si tenevano i comizi e le grandi ce-
lebrazioni civiche, a ridosso del bouleutérion, luogo in cui si
radunava il parlamento cittadino, a ridosso del pritanéo, dove
9
Per l’interpretazione antigiudaica cf., per esempio, E. Corsini, Apocalisse
prima e dopo, Sei, Torino 1980, e E. Lupieri L’Apocalisse di Giovanni, Milano
1999.
10
L ’idolatria di cui parla l’Apocalisse non può essere intesa in senso me-
taforico (per poi essere più facilmente ambientata a Gerusalemme), a motivo
di quella statua della bestia che è un vero e proprio idolo (13,14 e passim), a
motivo poi degli idoli reali di cui si parla in 9,20-21 e, infine, a motivo delle
carni immolate agli idoli di cui si parla in 2,14.20, che sono carni anch’esse
non metaforiche ma reali.
11
Per l’idolatria tradizionale a Efeso cf. ancora G. Biguzzi, Il settenario delle
trombe e l’idolatria (Ap 8,2-11,19).

239
ardeva perennemente il fuoco sacro della città, e infine vici-
no al tempio costruito in onore di Augusto e della dea Roma,
simbolo della fedeltà efesina a Roma e al suo imperatore. Gli
architetti dovettero elevare immensi arconi a sostegno di una
grande piattaforma sulla quale fu eretto un elegante tempio di
stile corinzio con otto colonne sulla facciata e tredici colonne
sui lati lunghi. Le tredici iscrizioni giunte fino a noi dicono
che il tempio fu elevato a cura e con il contributo di tutta la
provincia romana d’Asia e che era in onore dei tre augusti del-
la famiglia Flavia: il padre Vespasiano morto nel 79 d.C., i figli
Tito, morto nell’81 d.C., e Domiziano che regnò dall’81 al 96
d.C. e che in tal modo fu il primo imperatore vivente cui fu
dedicato (o che si autodedicò) un tempio, con relativi altare,
sacrifici, feste e giochi provinciali.
C’è di più. A due riprese, nel 1930 e nel 1969-1970, gli ar-
cheologi hanno portato alla luce i frammenti di una statua
colossale (di sette metri di altezza), peraltro in buono stato
di conservazione, che rappresentava l’imperatore Tito12. Come
rivelano i fori e i tasselli per le opportune giunture di metallo
o di cuoio nei frammenti marmorei, la statua era acrolitica,
e cioè di marmo solo nelle estremità (capo, braccia, gambe),
mentre il busto era di legno; si trattava, dunque, di una statua
destinata a un ambiente coperto perché le intemperie avreb-
bero fatto marcire il legno e crollare la statua. Date le dimen-
sioni, poi, la statua non poteva essere conservata se non all’in-
terno del tempio, in assenza nei dintorni di altri edifici capaci
di contenerla. È allora pressoché inevitabile concludere che
era una statua cultuale come quella contro la quale polemizza
Giovanni di Patmos: «[Il falso profeta] sedusse gli abitanti del-
la terra dicendo loro di erigere una statua alla bestia» (13,14)13.
Il secondo cantiere di ristrutturazione urbana fu aperto da
Domiziano nella zona del porto, a ridosso della grande agorà
commerciale dove pulsava la vita economica di Efeso. L ’impe-
ratore vi fece costruire il più grande impianto sportivo di tutto
il suo principato, con ginnasi, palestre, terme, sale per attività
culturali, ecc. Lì avrebbero avuto luogo i giochi periodici in
onore dell’imperatore con la partecipazione di atleti di tutta
la provincia, in collegamento con i festeggiamenti «religiosi»
attorno al tempio imperiale. Tutto questo fu programmato a
12
Non si tratta di Domiziano, come spesso si trova scritto, a motivo delle
fattezze del volto.
13
La statua della bestia è menzionata undici volte nell’Apocalisse.

240
metà degli anni 80 e fu pronto nel giro di cinque anni.
Se davvero l’Apocalisse fu scritta intorno alla fine del regno
di Domiziano, come afferma Ireneo di Lione (Adversus haere-
ses 5,30,3), allora non è impossibile che essa sia stata provo-
cata proprio da questo fervore edilizio che sconvolse Efeso e,
soprattutto, dall’ideologia del culto imperiale che l’ispirava14.
Un uomo si faceva adorare al posto di Dio, e Giovanni gli si
contrappose frontalmente, fedele all’insegnamento di Gesù
che aveva detto di dare al Cesare di Roma quello che è suo, ma
a Dio quello che è di Dio.

Le coppe

Il quarto settenario dell’Apocalisse è quello delle coppe (Ap


16). Il termine coppa evoca istintivamente un recipiente, di soli-
to usato per bere. Poteva essere di terracotta, ma anche di vetro
e di metallo. Ne esistevano di diversi tipi e dimensioni. Doveva
essere abbastanza capace se durante il pasto solenne più perso-
ne potevano attingere a esso. L ’Apocalisse usa il termine phialê,
una parola esclusiva che ricorre dodici volte (di cui otto al c. 16)
e non ha altrove riscontro, in tutto il Nuovo Testamento. Sono
«strumenti» di angeli (undici volte) o di esseri che appartengono
alla corte celeste (cf. 5,8; 15,7). Li possiamo pensare come vasi
sacri, abbastanza maneggevoli, perché trasportati da una sola
persona. Una volta il termine ha il valore positivo di «coppe d’o-
ro come di profumi che sono le preghiere dei santi» (5,8). Negli
altri casi le coppe sono contenitori «dell’ira di Dio» (16,1). Nel
nostro settenario si tratta dell’ira da versare (otto volte), espres-
sione del castigo di Dio (cf. i sette flagelli di 21,9). Altre volte si
tratta dell’ira da bere; in questo caso però si usa il termine greco
potêrion (cf. 16,19; 14,10) e non più phialê, anche se la traduzio-
ne italiana rende entrambi i termini greci con «coppa»

Armaghedòn

«E radunarono i re nel luogo che in ebraico si chiama Ar-


maghedòn» (Ap 16.16). Tale denominazione compare solo qui,
in tutta la Bibbia. Sapen­do che i Settanta rendono Meghiddo

14
Per tutto questo paragrafo cf. G. Biguzzi, Ephesus, its Artemision, its Tem-
ple to the Flavian Emperors, and Idolatry in Revelation, «Novum Testamentum»
40 (1998), pp. 276-290.

241
con Magedon (Gdc 1,27; 2Cr 35,22), la parola equivale probabil-
mente a «monte [har] di Meghiddo». Meghiddo è una città della
pianura di Izreel (Esdrelon) ai piedi del monte Carmelo, dove
si svolsero sanguinose battaglie (cf. Gdc 4,12-16; 2Re 23,29).
Il monte di Meghiddo era un punto strategico che controllava
l’omoni­mo valico e sovrastava la pianura. La località, uno dei
pochi posti aper­ti che permettessero lo scontro frontale degli
eserciti, da sempre fu tea­tro di sanguinose battaglie. A partire
dal faraone Tutmosi III nel 1468 a.C. fino alla spedizione del
generale inglese Allenby nel 1917, il nome richiamava morte
e distruzione (cf. Zc 12,11). Senza spingere troppo l’interpre-
tazione, non è impossibile che l’autore abbia scelto un nome
tra­gicamente evocatore per creare la scenografia dello scontro
frontale tra i re coalizzati contro Dio e le forze del bene. È una
battaglia escatolo­gica. Diversamente, se vogliamo considerare il
nome in se stesso, come «monte di Meghiddo», possiamo rite-
nerla un’altura che rappresenta il culmine del potere avverso, il
polo opposto rispetto al monte escatologico di Dio (cf. Ap 21,10).
(Mauro Orsatti)

242
Felice Montagnini
________

La prostituta condannata
(Ap 17)

Nel c. 17 dell’Apocalisse si rifà viva la bestia già in scena


nel c. 13; in entrambe le comparse essa è in lotta contro Dio e
l’Agnello per contrastare l’attuazione del piano di salvezza, e
non solo dispiega tutta la sua potenza, ma ricorre anche alla
stessa strategia messa in atto nella morte e risurrezione di Cri-
sto, poiché si presenta essa pure colpita da una piaga mortale,
ma guarita e risalita dall’abisso (13,3; 17,8) e perciò degna di
essere adorata come potenza salvifica più e meglio dell’Agnel-
lo. È dunque simbolo di Roma idolatrica, che appare come
l’alternativa della fede in Dio e nell’Agnello salvatore.
Con questa fisionomia ora torna in scena, intenta, con l’aiu-
to delle forze infernali, a preparare l’attacco decisivo. Qui pe-
rò l’azione risulta assai più complessa: alla bestia si affianca la
prostituta, e le due in larga misura si identificano, a differenza
del c. 13, dove appare non la donna, ma una seconda bestia,
che rimane anche ben distinta dalla prima; inoltre, le sette te-
ste e le dieci corna che le adornano il capo prendono parte
attiva all’azione, mentre nel c. 13 ne veniva solo segnalata la
presenza, e niente più. La ripresa della scena con tratti nuovi
rende il tutto più enigmatico, sia nelle figure, sia, e ancor più,
nello svolgimento dell’azione. Precisamente, il simbolismo
degli attori appare sfuggente all’inizio, poi si lascia decifra-
re, almeno in una certa misura; il senso dell’azione invece è
indicato già nel v. 2, che annuncia la condanna della grande
prostituta, ma poi si complica in un vero groviglio di scene
che sembrano perdere di vista il punto di partenza program-
matico, dato che la sentenza non viene pronunciata, né qui
né in seguito. Solo nel c. 18, sentendo i lamenti di coloro che
ne sono stati colpiti e ne portano le conseguenze dolorose, il
lettore apprenderà che è già stata eseguita.

243
È forse dimenticata? Così parrebbe, a prima impressione.
Ma ci si può chiedere se la sentenza non sia piuttosto taciuta,
e se, passandola sotto silenzio, lo scrittore non voglia portare
in piena evidenza l’alta drammaticità e il carattere impareg-
giabile dell’evento. Alla domanda intendono dar risposta le
note che seguono, richiamando l’attenzione su un singolare
procedimento letterario, ben presente nella Bibbia e nelle let-
terature a essa vicine, il quale aiuta a rendersi conto che il
groviglio delle scene è l’elemento secondario (niente più che
il tributo pagato al genere apocalittico), ma che l’attenzione
va a ciò che non è scritto, vale a dire alla sapiente copertura
del silenzio sotto cui è passata la pronuncia della sentenza di
condanna.

Il labirinto del testo


Le singolarità del testo sono note. La prima, giusto all’ini-
zio, consiste nel modo con cui entra in scena l’angelo interpre-
te. Egli non si presenta nel modo consueto dell’apocalittica;
cioè non appare perché chiamato dal veggente bisognoso di
avere spiegazioni su ciò che gli si presenta, ma si fa avanti di
sua iniziativa, prima che la visione appaia, per prepararlo a
comprenderla: «Vieni, ti farò vedere la condanna della gran-
de prostituta» (v. 1). Quando poi questa si mostra in atteg-
giamento di sfida, esibendo sette teste e dieci corna e con il
fare provocante che le si addice (vv. 3-6), l’angelo lascia che
l’apparizione si delinei in tutti i particolari, senza pronunciare
parola; solo alla fine interviene promettendo che spiegherà il
«mistero». E così fa; ma il mistero che si è impegnato a spie-
gare è assai più fitto della visione che ha turbato il veggente: il
testo descrive prima in pochi tratti quel che fa la bestia, poi si
attarda a indicare l’identità delle sette teste e a dire come que-
ste faranno sentire il peso della propria presenza. Delle dieci
corna, per ora, non si fa parola. Riguardo poi alle sette teste, il
mistero si va ulteriormente infittendo, senza che si avverta al-
cuna traccia di sollecitudine di dipanarlo. Infatti, viene detto
con parole che più sibilline non potrebbero essere.
Va poi aggiunto il carattere oscillante del rapporto fra la
donna e la bestia. Nella visione (v. 3) esse erano praticamente
identiche: «Una donna seduta sopra una fiera [...] con sette te-
ste e dieci corna»; in seguito, nei vv. 7-11, la donna scompare e

244
la bestia rimane sola protagonista1. A differenza poi della don-
na, che era apparsa nell’atteggiamento statico di un’immagine
e lasciava il veggente in preda a grande stupore (v. 6a), la be-
stia si presenta nel dinamismo dell’azione, e nel corso di que-
sta l’intrico descrittivo tocca l’apice. A sua volta l’angelo, anzi-
ché intervenire per sbrogliarlo, si direbbe che stia ad osserva-
re se il veggente (e il lettore con lui) riesce a capirne qualcosa.
Nell’affastellarsi di tratti pressoché inspiegabili fa eccezio-
ne l’identità della donna. Nessun dubbio che essa è simbolo
di Roma; ma lo scrittore ha cura di ribadirlo: espressamente
nel v. 18 («la città grande, che regna su tutti i re della terra»)
e prima, con trasparente allusione, nel v. 9, dove le sue sette
teste «sono i sette colli sui quali sta seduta».
Alla certezza dell’identificazione geografica si accompagna
quella del crimine di cui Roma si macchia, e che attira su di
lei la condanna. L ’oro, la porpora e le perle che ostenta sono
l’abito delle prostitute, e lei stessa altro non è che «la madre
delle prostitute e degli abomini della terra» (v. 5); inoltre ha
come controfigura l’antica Babilonia, perché di essa rinnova
la crudeltà contro i credenti, ed è «ebbra del sangue dei santi
e del sangue dei martiri di Gesù» (v. 6). Le metafore indicanti
la città di Roma qual è, con i suoi eccessi ed empietà, sono
dunque illustrate con tratti trasparenti. Questo non si può af-
fatto dire quando la descrizione, che è statica, cede il passo al
dinamismo della narrazione.
In questo passaggio il mistero, che secondo la parola del­
l’angelo si cela sotto tutte le pieghe del testo, non si realizza
sempre allo stesso livello. Quando è detto della donna, non
riguarda il suo modo di presentarsi, poiché questo parla da sé
e la indica come la prostituta, madre degli abomini della terra,
e perciò prossima a ricevere il giusto castigo. Detto invece del-
le sette teste e della loro vicenda, il mistero si riferisce a come
si presentano, sia esse che la bestia, perché i loro movimenti
appaiono decisamente indecifrabili. Se il veggente e il lettore
riusciranno a capirne qualcosa, potranno coglierne anche il
senso teologico. Per ora cerchino almeno di dipanare la ma-
tassa della vicenda che stanno seguendo, come suggerito dal v.
9: «Qui ci vuole una mente che abbia saggezza!».
1
Le due appaiono identiche sia nel v. 3 che nel v. 7. Ma qualche dubbio
resta che siano in tutto e per tutto la stessa cosa. Quanto meno, un sintomo di
differenziazione è già presente quando appaiono unite per l’ultima volta (v. 7;
cf. sotto), prima di rivelarsi inaspettatamente nemiche nel v. 16.

245
Tornando al rapporto fra la donna e la bestia, notiamo che
nel v. 7 hanno, l’una e l’altra insieme, sette teste e dieci cor-
na. Perciò si identificano; ma non del tutto, sembra, almeno a
giudicare dal fatto che le sette teste sono attribuite alla donna
come simbolo dei sette colli (e a essi si accenna soltanto, poi li
si lascia perdere); attribuiti invece alla bestia sono simbolo di
sette re della cui vicenda, unitamente a quella della bestia, si
occupano i vv. 10-11.
All’identità della bestia e della donna, riconoscibile ma non
completa nel v. 9, si può accostare, nel v. 11, il rapporto che
corre fra la bestia stessa e i sette re. La bestia da un lato si
identifica con la lista, ma dall’altro se ne distingue, giacché «è
a un tempo l’ottavo re e uno dei sette» (v. 11), cioè non solo
ne completa il numero, ma va anche al di là. Strano modo di
rapportarvisi, come strano appare, del resto, il suo destino, il
quale si consuma attraverso una serie di passaggi fra trionfi e
disfatte: «era ma non è più, salirà dall’abisso, ma per andare
in perdizione. E gli abitanti della terra [...] stupiranno al vede-
re che la bestia era e non è più, ma riapparirà» (v. 8).
Quanto alle sette teste, da come se ne parla, è chiaro soltan-
to che esse rientrano nel simbolismo della Roma imperiale (v.
9); ma quello che se ne dice è talmente oscuro, che il richiamo
alla saggezza (v. 9) risulta più che mai giustificato. Basta legge-
re. Le sette teste sono sette re: «I primi cinque sono caduti; ne
resta uno ancora in vita, l’altro non è ancora venuto, e quando
sarà venuto dovrà rimanere per poco» (v. 10). Come se non ba-
stasse, la bestia si rapporta loro nel modo già ricordato: «era e
non è più, è a un tempo l’ottavo re e uno dei sette e va in per-
dizione», cioè rientra nella lista, ma se ne differenzia. E que-
sto sembra rendere il quadro definitivamente indecifrabile.
Che dire? Come già nel c. 13, si può affermare che i sette re
sono altrettanti imperatori, i quali, più o meno direttamente,
hanno a che fare con la persecuzione anticristiana. A questa
fondata ipotesi si può aggiungere che fra essi può bene pren-
dere speciale risalto la figura di Nerone e, ancora, che questi
presenta pure i titoli per apparire, da un lato, come uno dei
sette, e dall’altro per aggiungersi a essi come ottavo. Infierisce,
infatti, più di tutti contro «i martiri di Gesù» (v. 5), perciò rea­
liz­za appieno la figura del persecutore malvagio e ne diviene
l’icona, a somiglianza della quale vengono forgiati tutti gli al-
tri; per questo «va in perdizione», cioè è segnato dal marchio
della disfatta.

246
Più ipotetico resta il tentativo di individuare gli altri re, so-
prattutto i primi cinque, dei quali ci si dice soltanto che sono
caduti (v. 10). Dato che si tratta di persecutori dei cristiani, ciò
vuol dire che la loro ostilità non ha sortito l’effetto desiderato;
non, necessariamente, che siano stati travolti da una trage-
dia personale. Forgiati come sono a somiglianza di Nerone,
ne seguono anche il destino. Di costui si sottolinea la caduta,
e questa risulta talmente clamorosa e ben meritata, che getta
una luce sinistra sulla fine di tutti coloro che stanno in qual-
che modo in rapporto con lui, cioè su quelli che arricchiscono
la lista dei nemici del nome cristiano.
Dei due re rimanenti, quello tuttora in vita (v. 10) può es-
sere ancora Nerone. Se l’Apocalisse è composta negli anni
90, come comunemente si pensa, egli è ritenuto ancora in vi-
ta non fisicamente, ma nella fantasia popolare, che talvolta
conserva dei tiranni più efferati un ricordo ammirato, oppure
nella deprecazione dei cristiani, che ne hanno sperimentato
la ferinità. Comunque sia, per Giovanni il tasso eccezionale
di criminalità lo rende oltremodo nefando, fino a identificarlo
con la fiera stessa, «che è a un tempo l’ottavo re e uno dei set-
te» (v. 11). «Riapparirà» (v. 8), «ma va in perdizione» (v. 11).
Nella ricomparsa che precede la perdizione definitiva si può
sentire un’eco lontana della leggenda popolare, che favoleg-
giava del ritorno di Nerone, il quale non sarebbe morto, ma
fuggito presso i Parti e spiava il momento di tornare con essi
a riconquistare l’impero2. Qui, tuttavia, la leggenda verrebbe
evocata solo per affermare la certezza che i nemici dell’Agnel-
lo sono sconfitti definitivamente.
Nell’ultimo dei re, che «quando verrà dovrà rimanere per
poco» (v. 10), si può riconoscere Tito che, portando la respon-
sabilità di aver distrutto Gerusalemme, figura come raggiunto
ben presto dal castigo divino, dopo un breve regno.
Questo abbozzo di ricostruzione della lista ha il pregio di
non perdersi più di tanto nella ricerca dei nomi. Quello di Ne-
rone si impone; ma sull’identificazione degli altri non vale la
pena di insistere, perché la loro serie sfugge a ogni tentativo di
individuazione sicura. Considerare come primo Tiberio, che
non fu persecutore ma regnava quando Gesù, con la sua mor-
te e risurrezione, mise in moto l’odio dei persecutori, è una
2
Svetonio, Vita di Nerone 47. Cf. P. Prigent, L ’Apocalisse di S. Giovanni,
Borla, Roma 1985, p. 501.

247
proposta suggestiva3; ma anch’essa urta contro la difficoltà
di stilare una lista cronologica di sette imperatori; tanto più
se si vuole scendere fino a Domiziano, il secondo persecutore
che, in quanto tale, viene talvolta considerato reincarnazione
di Nerone4. La riconosciuta impossibilità di far questo ha un
suo peso; ma non impressiona più di tanto, se si tiene conto
del genere apocalittico (Daniele insegna!), che sfiora le situa-
zioni storiche, ma non si interessa affatto di ricostruirne le
fasi, poiché la sua preoccupazione è solo quella di professare
la fede nell’onnipotenza di Dio, che è capace di salvare anche
attraverso le circostanze più impensate.
Esaurita l’attenzione alle sette teste, si passa alle dieci cor-
na. Comparse esse pure all’inizio (v. 7) e poi nel v. 9, come di-
stintivo della donna e della fiera, esse si sono perse lungo i me-
andri dei versetti successivi. Ora lo scrittore si ricorda anche
di loro5, e le porta in scena (v. 12); lo fa senza darne alcun pre-
avviso, come se «l’ottavo re e uno dei sette» fosse indicato con
tutta chiarezza e non valesse la pena di trattenervisi oltre. La
loro presentazione rassomiglia a quella delle sette teste: «sono
dieci re, i quali non hanno ricevuto un regno, ma riceveranno
un potere regale, per un’ora soltanto, insieme con la bestia».
Sono dunque suoi alleati; con lei combatteranno e, come il
sesto dei sette re (v. 10), subiranno una fulminea sconfitta ad
opera dell’Agnello, il quale darà così la chiara prova di essere
«il Signore dei signori e il Re dei re» (v. 14).
A questo punto (v. 15) l’angelo fa un’ulteriore presentazione
della nuova serie, e nel corso di essa la situazione appare radi-
calmente mutata.
Anzitutto, i dieci re non figurano da soli, ma appaiono as-
sociati ai loro sudditi: «Popoli, moltitudini, genti e lingue»,
che appaiono in compagnia della prostituta sulle acque già
nominate nei vv. 1b-2, dove essa si presentava seduta «presso
le grandi acque». Con lei, si aggiungeva, «si sono prostituiti i
3
Cf. A. Strobel, Abfassung und Geschichtstheologie der Apokalypse nach
Kap. XVII.9-12, «NTS» 10 (1964), pp. 433-445.
4
Così, per esempio, Tertulliano, De pallio 4,5.
5
Fenomeni come questo sono fra gli argomenti addotti a prova che l’autore
fa uso di più fonti. Se a questo si aggiunge il frequente succedersi di diversi-
tà linguistiche, l’ipotesi appare ulteriormente fondata, anche se individuare
esattamente le fonti ipotizzate è impossibile, cf. R.H. Charles, The Revelation
of St. John (ICC), Clark 1920, II, p. 66ss. Cf. anche P. Prigent, L ’Apocalisse di
Giovanni, Borla, Roma 1985, pp. 500-501: a queste soluzioni non si ricorra, se
non quando non si presenti un’altra spiegazione.

248
re della terra, e gli abitanti della terra si sono inebriati del vino
della sua prostituzione». Tutti dunque, re e sudditi, sono sotto
il potere di Roma, e le grandi acque sono il Tevere. Stando as-
sisa su di esse, la meretrice li ha indotti a consumare con lei la
sua prostituzione (v. 7). Essi hanno accettato la sua sovranità
e si sono asserviti totalmente ai suoi dèi, fino ad arruolarsi
sotto le sue insegne nella lotta contro l’Agnello.
Ora però, ed è la novità radicale, questa supina sudditanza
è finita (v. 16): i vassalli, con i loro popoli, si ribellano alla
donna. Dopo la sua latitanza, questo ritorno in scena con la
qualifica di prostituta è per lei carico di sinistri presagi. Nel-
la presentazione delle sette teste, e poi in quella delle dieci
corna, essa stava sullo sfondo come «donna», e faceva pra-
ticamente tutt’uno con la bestia. Questa assimilazione ora è
scomparsa: la bestia si trova alleata con i ribelli, e tutti in-
sieme «odieranno la prostituta, la spoglieranno e la lasceran-
no nuda, ne mangeranno le carni e la bruceranno col fuoco».
In altre parole, la bestia, che ora non può essere altro che il
simbolo delle potenze infernali, fa causa comune con i ribelli
per annientare la prostituta; in tal modo tutti insieme, senza
nemmeno sospettarlo, si trovano al servizio dell’Agnello nel
portare ad effetto la condanna divina, che s’intravede nel v. 17
e nel c. 18 apparirà eseguita.

La sentenza taciuta
Lo scontro lungamente preparato è dunque avvenuto, co-
me ci si poteva attendere. Ma esso dà luogo a quella che a pri-
ma vista appare come la più inattesa delle sorprese: sembra,
infatti, che vi abbiano preso parte tutte le figure che si sono
presentate nel corso del capitolo. Proprio tutte? No. Ne man-
ca una: l’Agnello. Ed è la più importante, poiché è stato lui il
bersaglio contro il quale sono stati allestiti tutti i preparativi
nel corso del capitolo. Anche mentre questi venivano appron-
tati egli è rimasto sullo sfondo, celato, non s’è mai visto, né
nell’atto di presentarsi per essere descritto, né per apparire in
azione. Comunque è chiaro che la sentenza è stata pronuncia-
ta, perché lo scontro si è verificato e la meretrice è irrimedia-
bilmente sconfitta. E chi sia stato a emetterla lo dice, senza bi-
sogno d’altro, l’incriminazione di prostituzione e bestemmia
a lei mossa fin dall’inizio (v. 5). A questo punto il labirinto del
procedere letterario si schiude, il buio si dissolve e dal silenzio

249
in cui era lasciato, tanto fitto che il lettore nemmeno se ne
avvedeva, emerge il vero protagonista della vicenda: l’Agnello
divino.
Rimane da vedere come possa Roma essere incriminata co-
me prostituta e bestemmiatrice. Nella Sacra Scrittura la pro-
stituzione è l’apostasia da Yhwh e il passaggio al culto di altri
dèi. Siccome Yhwh ha stretto a sé il popolo come il marito la
propria sposa, quando questa rompe la fede e il patto sacro
del suo vincolo, pecca di adulterio e si dà al primo passante,
come una prostituta. Questa è l’accusa che i profeti muovono
al popolo: Osea (1-13) al regno del nord, Geremia (2,20; 3,1-
8) a entrambi i regni. In Ezechiele l’immagine è sviluppata
in due elaborate allegorie (16,1-44; 23,1-21)6. Il popolo aveva
posto in Yhwh la speranza; ora la cerca altrove, abbandona
Dio perché trova che non sa salvare. È vero che continua a
proclamarsi salvatore. Ma i fatti lo smentiscono; perciò i figli
del­l’adultera uniscono la propria voce a quella degli infedeli
e lo irridono come mentitore. Questo nel linguaggio biblico è
bestemmia7.
Se però dal precedente biblico passiamo all’Apocalisse e al
caso di Roma che perseguita Cristo, troviamo che l’appellati-
vo di prostituta richiede una spiegazione. Qualificando così
Roma imperiale, cittadella del paganesimo, il c. 17 si richia-
ma evidentemente alla taccia che la Scrittura rivolge al popolo
infedele. Ma i due casi non vanno semplicemente assimilati.
Roma, infatti, non si dà all’idolatria infrangendo un patto nu-
ziale con Dio; perciò non potrebbe esser considerata adultera
e prostituta. Se è bollata come tale, lo si deve al fatto che nella
metafora Yhwh non è detto soltanto sposo, ma anche Signore.
Partendo da questo titolo, la rampogna contro Roma emerge
da un cammino che può essere brevemente indicato come se-
gue. Yhwh è chiamato Signore per lo più nella preghiera, qua-
si sempre nei salmi individuali. L ’appellativo non è quindi un
6
La metafora si caratterizza appieno nei profeti (vari passi si trovano nel
Deutero e Tritoisaia) e si affaccia pure nella legge (ad esempio: Es 21,3; Dt
2,18; 6,4) e anche nei sapienziali (Pr 12,4); perciò appare ben radicata nel
pensiero biblico. Cf. J. Schreiner, Theologie des Alten Testaments, Echter Bibel
1995, pp. 214-224.
7
Nell’Antico Testamento e nella letteratura intertestamentaria è rivolta
quasi sempre contro Dio, nel Nuovo Testamento per lo più contro Cristo. Pao-
lo, quando ricorda che da persecutore cercava di costringere i cristiani a be-
stemmiare (At 26,11), intende dire che tentava di indurli a negare che Cristo
è il Salvatore.

250
titolo, ma un’invocazione, e solo indirettamente passa a pre-
sentarlo come dominatore e signore. Quest’idea non è affatto
assente, ma non appare nei salmi8, bensì in altri contesti e in
questi risulta collegata da presso all’affermazione che Yhwh
è Dio unico e salvatore. Il monoteismo biblico è quindi radi-
cato nella soteriologia, e spesso trova espressione anche nella
contrapposizione di Yhwh alle divinità pagane le quali, essen-
do incapaci di salvare, non possono nemmeno esistere. Come
unico salvatore, Yhwh è anche il solo vero Dio e Signore.
Il primo cristianesimo associa Cristo alla divina signoria
universale, e lo fa attribuendogli il titolo di Kyrios, usato come
rispondente all’ebraico Jhwh. La professione di fede in Cristo
quale Signore è sempre solenne, poiché si materia nel culto9,
e anche polemica, dal momento che Cristo non è un signo-
re come altri, ma è unico, come unico è Dio. La contrapposi-
zione ad altri presunti signori appare scontata10; ma quando
l’avversario è l’impero romano viene anche significativamente
rimarcata come, ad esempio, nel corso del processo di Paolo.
Nel pronunciare la provocatio l’Apostolo dichiara: «Mi appello
a Cesare», cioè insiste sulla formula giuridica, e così facendo
prende le distanze dal modo con cui vi si riferisce Festo, il ma-
gistrato romano, il quale afferma che Paolo «si è appellato al
signore» (At 25,12.26). E il signore in parola è Nerone che, se
non fu il primo a pretendere il titolo, osò accentuarne la valen-
za divina, come farà più tardi Domiziano, responsabile della
seconda persecuzione, decretata in base alla stessa pretesa11.
L ’accusa vera e propria mossa a Roma è dunque quella di
contendere a Cristo il ruolo di signore e salvatore, e non solo
a parole, ma facendo anche credere di meritarlo non meno di
Cristo, giacché i suoi accoliti, «il cui nome non è scritto nel
libro della vita», la vedranno risalire dall’abisso (v. 8), quasi a
voler mostrare che è risorta da morte e che il potere imperia-
le che detiene è quello del salvatore. Presunzione blasfema! e
lo scrittore si limita a opporre che questa ricomparsa, nella
persona del quinto re, sarà di breve durata (v. 9). A lui per
ora preme soprattutto ribadire la condanna della donna, e lo
8
Fatte poche eccezioni; cf. specialmente Sal 109(110),1: «Oracolo del Si-
gnore al mio signore».
9
Cf. Rm 10,9 e l’invocazione Maranà tha! (1Cor 16,22).
10
Cf. 1Cor 8,5-6: «Noi [...] abbiamo un solo Signore, Gesù Cristo».
11
Sull’origine di questa rivendicazione cf. C.P. Thiede, La nascita del cri-
stianesimo, Mondadori, Milano 1999, pp. 224-231.

251
fa bollandola col titolo infamante di prostituta. Alla luce dei
precedenti esso può non spettarle direttamente; ma è più che
meritato, poiché essa si spinge tanto oltre, da figurare come
«la madre delle prostitute e degli abomini della terra» (v. 5),
cioè di rappresentare il parametro di ogni ribellione contro
Dio, in quanto osa opporsi con tutte le forze al vero Signore,
che è Cristo.

Il perché del silenzio


Constatata la lapidarietà e chiarezza dell’accusa lanciata
contro la donna, resta da chiedersi da dove venga il silenzio
in cui questa è lasciata. Il silenzio si richiama a una tradizio-
ne letteraria riguardante il modo di presentare lo scontro fra
Dio e i suoi nemici, cioè il canone descrittivo della guerra di
Yhwh. Questa si delinea in due momenti: il primo è quello del-
la preparazione dello scontro finale, e vede all’opera i nemici;
il secondo è quello dello scontro mancato. Quando infatti tutti
gli apprestamenti sono fatti, allora si passa non alla battaglia,
ma direttamente alla constatazione che i nemici sono battuti.
Se Dio e i suoi non preparano la mischia, non per questo se
ne stanno inerti; solo, ciò a cui fanno ricorso non è nell’ordine
degli apprestamenti normali, anzi se ne scosta vistosamente.
Mentre infatti gli altri si danno da fare ad ammassare armi, i
fedeli celebrano una liturgia: si affidano a Yhwh, e lui vince, si
direbbe, senza sporcarsi le mani in una normale zuffa.
Questa concezione della guerra di Dio appare allo stato pu-
ro in Is 30,29-30. Sennacherib, dopo aver spazzato via i re-
gni della regione siro-palestinese, si trova aperta la strada di
Gerusalemme e si sta avvicinando alla città a grandi tappe.
Nel pericolo imminente l’oracolo chiama il popolo non già a
combattere, ma a celebrare una liturgia: «Voi innalzerete il
vostro canto / come nella notte in cui si celebra una festa [...]
per recarsi al monte del Signore, alla roccia d’Israele». All’as-
siro penserà il Signore: «farà udire la sua voce maestosa / e
mostrerà come il suo braccio sa colpire». La concezione sog-
giacente al passo di Isaia è esposta in linea di principio dal
salmista, quando sintetizza il significato della conquista della
terra promessa rivolgendosi a Dio con queste parole:
Non con la spada han conquistato la terra
e a salvarli è stato non già il loro braccio,
[...] ma la tua destra e il favore del tuo volto (Sal 44,4).

252
Nell’impiego di questo canone letterario, ulteriori tratti
della descrizione possono variare, ma i due momenti indicati
compaiono sempre. Basti vedere, per tutti, due esempi classi-
ci: il passaggio del Mar Rosso e la presa di Gerico.
Al Mar Rosso (Es 14) gli israeliti si trovano nell’estremo pe-
ricolo. Stretti fra la distesa delle acque e la cavalleria egiziana
che li incalza, possono solo ricorrere alla preghiera, cioè, nel
tipico linguaggio liturgico, gridare a lui invocandone l’aiuto.
Ad esso fa subito seguito la rassicurazione di Mosè: «Oggi ve-
drete la salvezza che il Signore opera per voi; gli egiziani che
vedete non li vedrete più». Il Signore non tarda a rispondere e,
nell’attesa che il mare si prosciughi, frappone tra i fuggiaschi
e gli inseguitori una nube. Tranquillizzati dalla sua presenza,
gli israeliti entrano nel mare e, raggiunta processionalmen-
te la sponda opposta, devono solo stare a guardare, come il
Signore scatena le acque a travolgere l’esercito del faraone.
Mosè e il popolo portato in salvo accompagnano lo spettacolo
con un solenne canto di lode e di ringraziamento.
Nella conquista di Gerico (Gs 6) il carattere liturgico dell’e-
vento è ancor più rimarcato, poiché la promessa di Dio a Gio-
suè: «Io metto Gerico nelle tue mani», è seguita da una se-
rie di istruzioni circa il modo di ripetere per sei giorni una
processione intorno alle mura della città, che attende l’assalto
sicura della solidità inespugnabile delle sue mura. Il settimo
giorno le processioni sono sei e sono seguite da una settima;
al termine di essa, cioè nel momento in cui le opere di Dio
giungono a compimento, suonano le trombe dei sacerdoti, le
difese crollano e il popolo entra nella fortezza, ancora in for-
ma processionale.
Tutta l’Apocalisse, e specialmente il c. 17, si ispira a questo
principio; insiste quanto più può sulla forza e determinazione
del più tremendo dei nemici, perché si consolidi la fede dei
cristiani nella vittoria di Cristo salvatore.

253
Mauro Orsatti
________

Il lamento
sulla caduta di Babilonia
(Ap 18)

Il brano narra la caduta di una grande città. Non si tratta


di una città qualsiasi, essendo stata descritta in Ap 17,18 co-
me una grande prostituta. Se i commentatori sono concordi
nell’affermare che dietro tale qualifica si celi una città e che
questa non è Babilonia, essi sono meno sicuri sul significato
del simbolo adoperato.
Il testo offre numerose chiavi interpretative, sia per la figu-
ra della grande città-prostituta, sia per la sua esegesi. Vi sono
molteplici ed espliciti riferimenti a testi dell’Antico e Nuovo
Testamento. Inoltre non mancano i punti di contatto con epi-
sodi precedenti, particolarmente con i cc. 13 e 14 e con la vi-
sione finale della Gerusalemme celeste. Il capitolo offre spunti
per la successiva determinazione della visione della storia da
parte dei cristiani: si tratta di un testo capitale per la teologia
della storia cristiana.

La struttura del capitolo 18

Il c. 18 si situa dopo il versamento della settima coppa e la


descrizione della mostruosa figura della donna seduta sulla
bestia. Ad esso seguiranno un inno di gioia, i combattimenti
escatologici finali e l’instaurazione definitiva della città di Dio.
Il continuo mutare degli attori principali, l’alternarsi di parti
in prosa e liriche e l’andirivieni fra terra e cielo ritmano lo
svolgersi di questo poema corale. La suddivisione risulta sem-
plice e abbastanza condivisa:

254
1. annuncio della caduta di Babilonia (vv. 1-3);
2. invito ad abbandonare la città (vv. 4-8);
3. lamento corale sulla città caduta:
    lamento dei re (vv. 9-10),
    lamento dei mercanti della città (vv. 11-17a),
    lamento dei marinai (vv. 17b-19);
4. canto di gioia nel/al cielo (v. 20);
5. la fine irrevocabile di Babilonia:
atto simbolico di un angelo    (vv. 21-24).

Annuncio della caduta di Babilonia (vv. 1-3)


Il testo si apre solennemente, come in altri momenti decisi-
vi. Dio interviene per mezzo dei suoi angeli per annunciare il
suo giudizio sulla storia, la fine di Babilonia. Il v. 1, ricordan-
do Ez 43,2, sottolinea la potenza di questo angelo che dal cielo
scende sulla terra. Dotato di splendore, eco di quello divino,
spesso ha accompagnato le rivelazioni veterotestamentarie di
Dio.
Qualche autore pensa a una cristofania, in quanto i diffe-
renti elementi descrittivi sono meglio riferibili alla persona di
Cristo. Meglio pensare a un angelo, il cui intervento manifesta
una situazione nuova: la terra subisce una trasformazione e
quindi non è più possibile vedere e valutare le cose con gli
occhi terreni. L ’angelo annuncia la caduta di Babilonia, già
anticipata in 14,8. La presenza di spiriti e di uccelli impuri
simboleggia sia la distruzione totale, senza alcuna possibilità
di nuova vita nella città, sia il primo apparire nel brano del
tema della lotta contro l’idolatria, soggetto che verrà ampia-
mente sviluppato in seguito.
Il riferimento alla prostituzione della città rimanda al te-
ma biblico dell’abbandono dell’alleanza, come già in Osea: la
prostituzione è idolatria. Nella stessa linea si muove il richia-
mo al lusso, espressione dell’uomo che si inorgoglisce della
propria potenza, dimenticando il proprio statuto di creatura
di Dio onnipotente, unico padrone degli uomini e delle cose.
Indipendentemente dall’interpretazione che si voglia dare al
passo, esso indica chiaramente l’inesorabile esecuzione di una
sentenza che non può più essere differita e che prevede una
netta divisione fra «buoni» e «cattivi».

255
Invito ad abbandonare la città (vv. 4-8)
L ’appello del v. 4 può essere variamente interpretato. Se-
condo la lezione profetica, non ci si deve mai stancare di
percorrere le strade dell’esodo, magari in senso metaforico o
escatologico. Non sono più possibili i compromessi. L ’invito a
lasciare la città potrebbe alludere alla fuga a Pella dei cristiani
di Gerusalemme nel 70 d.C. Il messaggio ha però una porta-
ta più universale e spirituale: i cristiani sono invitati a uscire
dal contesto pagano e idolatrico, di cui la capitale dell’impero
costituisce l’esempio. Essi devono essere «intransigenti testi-
moni del crocifisso»1. La situazione è davvero insostenibile,
perché il peccato è salito «fino al cielo», un richiamo all’orgo-
glio che ha coalizzato gli uomini nella costruzione della torre
di Babele. Il v. 6 parla del doppio castigo, tema già presente in
Ger 16,18 e Is 40,2. L ’espressione indica un castigo particolar-
mente grave. La pratica idolatrica è arrivata a un punto tale
per cui, al calice, uno dei simboli centrali del cristianesimo,
la prostituta ne contrappone uno analogo, che essendo servito
per i suoi riti orgiastici, sarà simbolicamente la causa della
sua rovina. La sfrontatezza della prostituta è ben sottolineata
al v. 7. Tuttavia, al versetto seguente, l’inesorabile condanna
dimostra come Babilonia, sotto l’apparente potenza, sia fra-
gile. Si parla di un incendio, forse come memoria di quello
gigantesco di Roma nell’anno 64. Al di là delle possibili inter-
pretazioni storiche, il messaggio risuona in tutto il suo vigo-
re, attivando la speranza: le forze del male non prevarranno.
L ’espressione in «un sol giorno» indica la rapidità e anche
l’effetto della sorpresa della sentenza. Non sono più possibili
dubbi e ripensamenti.
A conclusione di questa sezione potrebbe sembrare che
l’unica possibilità di salvezza consista nel fuggire dalla città
condannata. Penso che sia interessante e utile rilevare come
nella Bibbia il comando di fuggire dalla città e la distruzione
della stessa siano sempre e solo riconducibili a ordini o azioni
di Dio stesso o di intermediari designati da lui. L ’impero del
male non potrà mai essere superiore a quello del bene. Tutto
il creato, nolente o volente, rimane sempre sottoposto ai suoi
ordini, come si può leggere in Ap 13,7: «Le fu permesso di far
guerra contro i santi e di vincerli; le fu dato potere sopra ogni
stirpe, popolo, lingua e nazione».
1
P. Prigent, L ’Apocalisse di Giovanni, Borla, Roma 1985, p. 531.

256
Il lamento corale su Babilonia (vv. 9-19)
Inizia un lungo lamento corale sulla città caduta. In succes-
sione parlano i re (vv. 9-10), i mercanti (vv. 11-17a) e i marinai
(vv. 17b-19). La triplice elegia funebre va letta tenendo conto
sia di Ger 50-51, che profetizzava contro Babilonia, sia di Ez
26-28, che parlava della caduta di Tiro e del suo orgoglioso re.

Il lamento dei re (vv. 9-10)


Chi sono questi re? Secondo Corsani sarebbero «i capi dei
popoli che avevano sfruttato la potenza e la ricchezza di Ba-
bilonia e per questo avevano tradito la loro storia e le loro
tradizioni»2. Sono gli stessi di Ap 17,2 e 18,3, rivelatisi quin-
di complici della prostituta. Essi piangono e si lamentano. Ci
si può legittimamente chiedere se il loro pianto «a distanza»
(una novità rispetto al modello profetico), espresso al futuro,
sia veramente per la città, oppure non sia, più verosimilmen-
te, un pianto per se stessi. Infatti, la caduta di Babilonia di-
minuisce automaticamente la loro potenza e sicurezza, e non
sollecita il loro spirito di umana compartecipazione e neppure
un mutamento del loro atteggiamento. Essi sperano quindi,
grazie al loro attuale atteggiamento, di non essere coinvolti
nella punizione. Pianti e lamenti sono stati visti come segni
di lutto, ma si tratta molto probabilmente di segni puramente
esteriori. «In un’ora sola» è un’espressione che indica la rapi-
dità del castigo, simile a quella registrata in 18,8: «In un sol
giorno».

Il lamento dei mercanti (vv. 11-17a)


Il secondo coro di lamenti, espresso al presente, è formato
dai mercanti che piangono. Il loro lamento è ancora più egoi-
stico di quello dei re: con la scomparsa della città-prostituta
essi hanno perso la cliente più ricca. Questo fatto risulta in-
dubitabile, se si osserva come un verbo che fa parte del lin-
guaggio del lutto (pentheo), sia qui adoperato per segnalare la
perdita di merci.
Segue un elenco di merci preziose, che trova un indiscusso
parallelo in Ez 27,12-24. Come in Mi 7,1, tutto quel lusso or-
mai non esiste più. L ’elenco potrebbe essere considerato quasi
una dichiarazione di dogana dell’epoca. Come nei mercati, gli
2
B. Corsani, L ’Apocalisse, guida alla lettura, Claudiana, Torino 1987, p. 140.

257
oggetti sono raggruppati per categoria: vi sono quattro tipi di
gioielli, quattro stoffe, sei materiali per mobili e utensili di-
versi, cinque spezie e profumi, quattro prodotti alimentari, il
mercato di bestiame e schiavi. Sono citate mercanzie di lusso,
come la seta, menzionata solo qui in tutta la Bibbia: era un
segno di ricchezza e di potere assai raro e dunque di grande
spicco. Sono citati il marmo, e soprattutto le perle e il colo-
re scarlatto che evocano meglio l’idea di un lusso spinto fino
a raffinatezza inaudita. Gli ultimi due prodotti, già presenti
nella descrizione della prostituta di Ap 17,4, creano un’iden-
tità tra Babilonia e la grande prostituta. Non mancano merci
esotiche o rare, come i legni profumati di Tuia, provenienti
dall’Africa, l’amomo, una pianta dell’India da cui si ricava
un unguento profumato per i capelli, il cinnamomo, un al-
tro aroma, di provenienza incerta, molto prezioso, sul quale si
favoleggiava non poco. L ’intenzione dell’autore, più che ma-
gnificare un eccezionale supermercato, sottolinea l’accumulo
peccaminoso della ricchezza.
Di più difficile interpretazione sono i termini «schiavi e vite
umane» (letteralmente: «corpi e anime di uomini»): se per il
primo termine non vi sono soverchie preoccupazioni (la paro-
la corpo era usata nell’Antico Testamento greco, per esempio
in Gen 34,29 per designare gli schiavi), si propone invece di
tradurre il secondo con «anime servili»3, alludendo a quelle
persone che, di per sé libere, sono state ridotte in schiavitù
morale dalla lussuria. Nei commenti più tradizionali, viene
inteso come schiavi, «forse di qualità più alta, pedagoghi, let-
terati, artisti, gregge destinato agli anfiteatri o al lupanare»4,
senza però che venga rilevata una sostanziale differenza ri-
spetto ai primi. I mercanti, come i re, non entrano nella città
per esprimere il loro lamento; essi non si sentono legati a essa
e si autocommiserano per la perdita di una buona possibilità
di guadagno.

Il lamento dei marinai (vv. 17b-19)


Il lamento dei marinai, scritto all’aoristo, richiama testi
dell’Antico Testamento, come Ez 27,27-29; lo stupore per l’im-
mensa rovina è espresso in Is 34,10, Ger 22,8 ed Ez 27,32. Re e
mercanti sono nominati collettivamente, mentre al v. 17 sono
3
Cf. A. Läpple, L ’Apocalypse de Jean, Cerf, Paris 1970, p. 204.
4
G. Bonsirven, L ’Apocalisse di san Giovanni, Studium, Roma 1961, p. 262.

258
contemplate quattro categorie di marinai. Ciò suscita curiosi-
tà e discussione. Qualcuno vi legge l’onnipresenza della poten-
za commerciale della capitale, altri la lista di tutti i gradi della
marina, quasi a dire che tutto il mondo commerciale maritti-
mo è coinvolto.
Anche se il terzo gruppo non aggiunge nulla di particolar-
mente nuovo, ognuno dei tre partecipa al lamento con modi e
toni parzialmente diversi, logica conseguenza del ruolo avuto
nella peccaminosa ascesa della città. Re, mercanti, marinai,
tutti, seppur in maniera diversificata, hanno contribuito all’a-
scesa della grande prostituta e rincorrevano le sue ricchezze e
il suo lusso, senza preoccuparsi delle implicazioni e delle con-
seguenze. Ora, nel momento della caduta, si mostrano stupiti
per quanto è successo e se ne chiedono anche il perché, senza
arrivare alla soluzione. Si limitano a osservare lo spettacolo e
a cercare di dichiarare la loro estraneità con quanto successo.

Canto di gioia nel/al cielo (v. 20)


Con il v. 20 il quadro cambia completamente: si ritorna in
cielo con un canto di speranza, di gioia e di trionfo, innalza-
to forse dalla comunità celebrante o da un angelo. Si parla
di «santi, apostoli, profeti» che sono variamente interpretati:
chi li considera uomini di Dio, chi le vittime della prostitu-
ta. Il Prigent e il Läpple affermano che i santi sono i cristiani
in generale, i profeti quelli che sono distinti da un carisma o
ministero particolare, mentre gli apostoli gli inviati itineranti.
Avremmo qui un riflesso dell’organizzazione delle comunità
cristiane alla fine del I secolo d.C.5. Al quadro abbastanza fo-
sco dei versetti precedenti si contrappone questo grido di gio-
ia. Per chi ha seguito l’invito alla fuga da Babilonia, vi sono
dunque concrete speranze di poter entrare a far parte del re-
gno dei cieli. Inoltre, molto probabilmente, troviamo il primo
esplicito accenno di questo capitolo alla Chiesa primitiva, che
accoglie, conforta e offre vero rifugio ai suoi fedeli.

La fine irrevocabile di Babilonia:


atto simbolico di un angelo (vv. 21-24)
Il gesto simbolico compiuto dall’angelo al v. 21 trova un suo
celebre precedente in Ger 51,63-64. I sinottici lo hanno ripre-
5
Cf. Prigent, L ’Apocalisse, p. 542; Läpple, L ’Apocalyps, p. 205.

259
so per indicare la punizione di chi scandalizza i piccoli (cf.
Mt 18,6), mentre Ezechiele indica il mare quale pattumiera
per le macerie che non dovranno più essere utilizzate (cf. Ez
26,12). Dato che la bestia del c. 13 proveniva dal mare, ora es-
sa e i suoi adoratori ritornano da dove erano venuti. La mola
ha una duplice e contrastante azione, perché può essere utile
per la cucina e l’alimentazione, e, in negativo, può frantuma-
re e schiacciare. In analogia, la città avrebbe potuto nutrire
la gente, mentre invece ha preferito arricchirsi illecitamente,
prostituendosi. Come la mola, anche la città, per evitare che
possa nuocere ancora, una volta rese inattiva, è stata gettata
nel mare.
A partire dal v. 22 inizia un nuovo lamento. I normali segni
di vita di una città non esistono più. Regna sovrano il «deser-
to», raffigurato con clichés abbastanza diffusi: niente musica,
niente lavoro, niente affetto. Fra i vari paralleli possibili, par-
ticolarmente significativo è Ger 25,10: «Farò cessare in mezzo
a loro le grida di gioia e le voci di allegria, le voci dello sposo
e quella della sposa, il rumore della mola e il lume della lam-
pada». Si rimpiange l’assenza della vita stessa della città, con
le sue gioie e i suoi rassicuranti rumori. Questo silenzio di
morte e desolazione è stato causato dall’eccessiva ricchezza
accentratrice dei mercanti e dalla magica seduzione del pote-
re esercitato dai re, che hanno corrotto tutto. Niente e nessu-
no può essere salvato, in quanto la distruzione ora è radicale
e irreparabile.
Il capitolo si chiude al v. 24 con la terza grande accusa
contro Babilonia, che del resto era già stata anticipata in Ap
6,10; 16,6 e 17,6: si tratta di un motivo tipico, come testimo-
niano numerosi passi dell’Antico e del Nuovo Testamento6.
Non è casuale che questo versetto sia stato collocato a suggel-
lo dell’intera sezione. I commentatori invitano a vedervi «la
chiave teologica dell’intera serie di giudizi riguardanti Babi-
lonia», o a voler allargare «l’orizzonte: ben al di là della Roma
imperiale, vediamo la città del male, dominatrice, corruttrice,
omicida»7. Il versamento di questo sangue innocente, che gri-
da vendetta agli occhi di Dio, va collegato col versamento del
sangue dell’Agnello, uno dei temi centrali di tutto il libro.
6
Cf., per l’Antico Testamento: Ger 51,49, Ez 24,7; 36,18; per il Nuovo Te-
stamento: Mt 23,35-37; Lc 11,49; 13,34.
7
La prima citazione è di E. Schlüsser Fiorenza, Apocalisse, Queriniana,
Brescia 1994, p. 118, mentre la seconda è di Bonsirven, L ’Apocalisse, p. 263.

260
L ’ultima parte del capitolo intende offrire parole di speran-
za ai perseguitati. Il sangue versato dagli innocenti e soprat-
tutto dall’Agnello provocherà la disfatta degli elementi nega-
tivi: la grande città del male sarà condannata e scomparirà,
la terra sarà purificata dall’idolatria, la bestia tornerà da dove
è venuta. La vittoria non sarà solo escatologica. Infatti, il v.
20, con la sua apparente ambiguità (chi e dove si esulta?), po-
trebbe aiutarci a capire che ogni volta che il bene sconfigge il
male, si esulta, qui sulla terra e nel cielo.

Chi è la grande prostituta?


Dagli accenni anticipati durante l’analisi del testo, è suffi-
cientemente abbozzata l’identità della prostituta-città. Tutta-
via, aiutati anche dalla riflessione di Seebass8, può essere utile
richiamare alcuni aspetti:
— Il tema della città corrotta che è destinata a cadere in se-
guito a un irrevocabile giudizio divino non è nuovo, come
provato dai numerosi testi profetici citati da Isaia, Geremia
ed Ezechiele.
— Babilonia, per l’autore dell’Apocalisse, è soprattutto e fon-
damentalmente un simbolo. Ciò non poteva sfuggire anche
ai suoi primi lettori, che conoscevano l’Antico Testamento.
Se esaminiamo, ad esempio, i tre lamenti, notiamo nume-
rosi punti in comune con Ezechiele.
— Babilonia ha, dunque, unicamente una funzione simbo-
lica? Rispondiamo negativamente. Lo stesso testo biblico
offre alcuni elementi che hanno un diretto riferimento alla
storia. Ne elenchiamo alcuni: il numero 666, per lo più col-
legato con Nerone (13,18); la bestia del c. 17, che, seppure
con discussioni, rimanda al potere assolutistico di Roma;
il passo di 17,18, che ai primi lettori rimandava istintiva-
mente a Roma, l’unica grande potenza dell’epoca; e infine
i richiami al c. 18, alla ricchezza e al lusso, come pure alle
prime persecuzioni contro i cristiani. Il campionario è suf-
ficiente per sostenere che Babilonia non è una pura sigla
simbolica, perché richiama una realtà storica.
— Degna di nota è la varietà nell’uso dei tempi nell’elegia fu-
nebre: potrebbe indicare un superamento dei limiti tempo-
rali, normalmente imposti alle vicende umane.

Cf. H. Seebass, Babilonia, in AA.VV., Dizionario dei concetti biblici del


8

Nuovo Testamento, Dehoniane, Bologna 1976, pp. 142-144.

261
— Il fatto che si tratti dell’ultimo episodio «terrestre» prima
dei combattimenti escatologici finali, depone a favore di
una lettura storica, concreta, di Babilonia.
Secondo U. Vanni, il capitolo fa sentire al gruppo di ascolto
un contenuto, uno schema di intelligibilità teologica produ-
cendo una situazione spirituale nuova. Per lui Babilonia è
un tipo, uno schema e un paradigma teologico che ha trovato
nella Roma corrotta della fine del I secolo una sua attuazione
esemplificativa [...]. Babilonia è un simbolo che supera la vicen-
da della Roma storica ed è applicabile a tutte le situazioni simili
che si potevano realizzare. Il paradigma teologico espresso è
quello della città, della «convivenza» che si chiude nella sua im-
manenza ed erige a sistema il lusso e il consumismo9.

A questo punto risuona legittima la domanda perché Babi-


lonia abbia assunto una caratterizzazione simbolica così ne-
gativa e come si sia arrivati a identificare Babilonia con Roma.
La risposta potrebbe essere fornita da un autore cristiano del
IV secolo, Paolo Orosio, un contemporaneo di Agostino. Egli,
per ordine di Agostino, scrive un’opera storica10, in un’epoca
in cui lo stato romano, ormai decadente, non costituiva più un
pericolo per i cristiani. Infatti, con Teodosio, a partire dal 380
d.C., la religione cristiana era divenuta la religione ufficiale
dell’impero romano. Orosio ha buon gioco nel riprendere il
mito dell’impero universale e nel superarlo.
Babilonia fu il primo impero che aveva preteso di domina-
re tutto il mondo. Successivamente, nel corso della storia, vari
imperi si erano succeduti, conoscendo anch’essi momenti di
gloria, ma anche l’inevitabile rovina. Più di uno aveva creduto
di essere quello definitivo, destinato a durare nel tempo e a
dominare tutto il mondo. I fatti avevano sempre tragicamen-
te azzerato questa illusione. Vari storici antichi hanno perciò
elaborato una teoria che preconizzava il passaggio del potere
assoluto da un impero all’altro. Simbolicamente si è arrivati a
fissare quattro tappe, cioè quattro imperi universali, che si so-
no successivamente spartiti questo predominio. Il quarto im-
pero, quello contemporaneo allo scrittore, doveva essere quel-
lo definitivo. Per rendere ancora più universale questa teoria,
Orosio ha ipotizzato che i quattro imperi dovessero essere

U. Vanni, L ’Apocalisse, Dehoniane, Bologna 1991, p. 356.


9

Orosio, Le storie contro i pagani (a cura di A. Lippold), Mondadori, Mi-


10

lano 1976.

262
geograficamente posizionati ai quattro punti cardinali. Egli,
nella sua opera, suddivide gli imperi in due gruppi: quelli più
importanti (Roma e Babilonia) e quelli secondari (Macedonia
e Cartagine). Per illustrare la sua teoria, propone una serie
di paralleli cronologici fra Babilonia e Roma. Orosio doveva
fronteggiare un problema interpretativo non indifferente: co-
me avrebbe potuto condannare radicalmente Roma, che nel
frattempo era diventata cristiana? Per lui, la conversione al
cristianesimo permetterà a Roma di sopravvivere, di essere
l’urbs aeterna, secondo un’ideologia molto diffusa anche nel
mondo pagano. Agostino, che quasi sicuramente almeno in
parte si è servito del materiale storico raccolto ed elaborato
da Orosio, supererà la visione terrena e ottimistica del suo
contemporaneo, contrapponendo, secondo anche la lezione
dell’Apocalisse, a Babilonia-Roma la visione della civitas Dei
e adottando uno schema interpretativo diverso, basato sulle
sei età.
Concludendo questo richiamo, si può affermare che il mito
degli imperi universali aiuti a capire che questa pagina dell’A-
pocalisse ha una dimensione storica «attuale» (la decisa con-
danna del potere dispotico di Roma), ma nel contempo, pro-
prio perché riprende in filigrana uno schema interpretativo
molto diffuso in Oriente, vuole andare oltre, prospettando una
situazione valida per qualsiasi impero del male che dovesse
sorgere. Babilonia, anche per la tragica esperienza della catti-
vità e la sua pretesa di dominio su tutto e tutti, era diventata il
simbolo del male.

Conclusione
In questo testo Giovanni ha voluto affrontare alcuni grandi
temi: la lotta fra bene e male, il rapporto fra storia ed escatolo-
gia, il giudizio di Dio. Servendosi di numerosi modelli profeti-
ci, egli ci ha ricordato come non bisogna mai lasciarsi sedurre
dal male e come qualsiasi realtà umana sia destinata prima
o poi a esaurirsi. Lo documenta bene l’impero romano, così
ricco e potente, eppure condannato a una fine ingloriosa, ana-
loga a quella di Sodoma e Gomorra, Tiro, Edom, Babilonia, e
di tanti altri. I credenti perseguitati non devono essere attirati
dal superficiale sfavillio della città.
Questo giudizio sulla storia e sul mondo da parte di Dio,
destinato ad avverarsi compiutamente alla fine dei tempi, è

263
già stato inaugurato con la venuta di Gesù Cristo, che è morto
e risorto. Come ha scritto Prigent: «Il futuro dell’escatologia
non è, infatti, d’altra natura rispetto al presente della vita cri-
stiana. La vittoria di Cristo è una rivelazione, che capovolge
completamente le nostre categorie temporali»11. Non si creda
però che il processo continui in modo indeterminato senza
conoscere la parola fine. Babilonia, simbolo che riprende e
riassume tutte le bestie terrene negative nate per opera di Sa-
tana, viene definitivamente gettata nel mare. Ora non rimane
che il grande combattimento finale contro il drago. Poi la Ge-
rusalemme celeste potrà risplendere definitivamente di luce
divina.

11
P. Prigent, L ’Apocalisse, pp. 526-527.

264
Karin Heller
________

Il canto di nozze dell’Agnello


e la vittoria del Messia
(Ap 19)

Tra tutte le immagini che in ogni tempo hanno affascinato


gli uomini, due in particolare dominano il testo che commen-
tiamo. Si tratta dell’annuncio di uno sposalizio (19,7-9) e del-
la vittoria del Messia sulla bestia, sul falso profeta e sui suoi
seguaci (19,11-21). Si tratta di immagini propizie a suscitare
l’attenzione: chi di noi non si è fermato un attimo per mera-
vigliarsi davanti all’apparizione di una sposa che esce da una
chiesa, o non è stato preso dalla vicenda, magari televisiva, di
un «cattivo» finalmente assicurato alla giustizia?
Caratterizzato da uno stretto legame tra parola e immagi-
ne, il nostro brano, come del resto gran parte della lettera-
tura apocalittica, ricorda senza dubbio a modo suo il genere
letterario del racconto grafico moderno che combina una se-
rie di immagini accompagnate da brevi parole1. La visione
della sposa è accompagnata dall’ordine «scrivi» (19,9). Di più,
si può osservare che anche nel tempo in cui fu redatta l’Apo-
calisse, l’immagine si combina già con il suono, cioè la gran
«voce di una folla immensa, simile a fragore di grandi acque
e a rombo di tuoni possenti» (Ap 19,6). Il nostro brano insiste
particolarmente sullo sfondo sonoro costituito da un’alter-
nanza di voci di singoli protagonisti, un coro e un’assemblea
immensa. Il testo assomiglia quindi a un racconto sotto forma
di «disegni animati».
Teniamo a sottolineare questa dimensione molto moderna
del linguaggio biblico, dopo che il pensiero occidentale, filo-
sofico e teologico, ha manifestato per secoli grosse riserve ri-
1
Segnaliamo a riguardo le tappezzerie medievali conservate nel castello
di Angers (Francia) che rappresentano l’Apocalisse intera.

265
spetto all’immagine2. Oggi, grazie alle ricerche di C.G. Jung in
particolare, possiamo parlare di una «terapia mediante l’im-
magine». Infatti rappresentare il male, simboleggiare l’ansia,
figurare un pericolo, costituisce già un modo di dominarli, è
un mezzo «di esorcismo». L ’Apocalisse si colloca in questa li-
nea. Risponde – con il suo linguaggio di immagini, suoni e
parole – a cristiani che devono affrontare diverse situazioni
difficili che riguardano la vita all’interno della comunità cri-
stiana locale, della Chiesa e del mondo pagano. La «proiezio-
ne» quasi cinematografica della prospettiva dello sposalizio
dopo la «battaglia», della sconfitta dei nemici e della vittoria
del re messia, attesta la possibilità di una vita sopportabile, di
una felicità.
Il linguaggio proprio della letteratura apocalittica testimo-
nia la possibilità di oltrepassare il terrore, l’ansia esistenzia-
le. Esso costituisce una vittoria rispetto a una situazione co-
stringente e crea le condizioni necessarie per una trasforma-
zione progressiva dell’uomo. Così, tale linguaggio ha sempre
un aspetto terapeutico o, in termini teologici, ha un aspetto
redentore. Questa funzione è strettamente legata a un’altra,
quella del profeta, cioè di «colui che vede in visione», colui
che è «il veggente»3.

L ’annuncio della sposa vestita per l’Agnello


Il passo si apre con una beatitudine: «Beati gli invitati al
banchetto delle nozze dell’Agnello» (19,9), che ci ricorda la
proclamazione fatta durante la messa domenicale prima della
comunione eucaristica. La beatitudine, una delle sette conte-
nute nell’Apocalisse, comporta due aspetti: la partecipazione
a un banchetto e la sposa pronta per le nozze con l’Agnello.
L ’uso liturgico dell’invito al banchetto nuziale ci interessa,
tanto più che il nostro brano, qualche versetto dopo, parla di
un altro banchetto piuttosto scabroso, quello degli uccelli che
si nutrono della carne degli uomini e degli animali che stanno

2
Cf. G. Durand, L ’imaginaire. Essai sur les sciences et la philosophie de
l’image, Hatier, Paris 1994.
3
Nell’Antico Testamento il profeta che «vede in visione» è spesso un pro-
feta di corte (hozeh). Cf. anche 1Sam 9,9: «In passato in Israele, quando uno
andava a consultare Dio, diceva: “Su, andiamo dal veggente”, perché quello
che oggi si dice profeta allora si diceva veggente».

266
per essere sconfitti (19,18). La nostra riflessione permetterà
di scoprire perché infine sono beati gli invitati al banchetto
dell’Agnello. La tematica del cibo e della bevanda o del ban-
chetto è una delle più antiche per esprimere il rapporto tra gli
dèi e gli uomini. Nelle religioni antiche, cibo e bevanda dipen-
dono dagli dèi, cioè dalle forze cosmiche, sempre capricciose
e mai abbastanza generose. Per gli uomini, quindi, il fatto di
mangiare costituisce sempre una vittoria, anche se effimera,
sugli dèi che hanno tenuto la vita per se stessi. Mangiare signi-
fica strappare un pezzo di vita alle divinità fino al momento in
cui la morte toglierà tutto.
La tradizione biblica supera questo modo di comportarsi
di fronte alla divinità, perché il Dio d’Israele non ha serbato
la vita per se stesso. Egli è un Dio che non ha bisogno di man-
giare per vivere (Sal 50,12-13). Di conseguenza, si instaura nel
popolo di Dio un altro modo di nutrirsi, diverso da quello che
troviamo in altre culture. In Israele, cibo e bevanda non so-
no da strappare a un Dio che tiene gelosamente la vita nelle
sue mani, ma sono strettamente legati al modo in cui Israele
ascolta la parola di Dio e la mette in pratica. Il frutto della ter-
ra, necessario alla preparazione di un banchetto, è allo stesso
tempo dono divino e segno dell’uomo fedele alla Torah. Lo te-
stimonia Dt 28 che comporta promesse di prosperità e minac-
ce di disgrazia. Dall’obbedienza alla voce del Signore risulta
l’abbondanza di beni, dalla disobbedienza risultano carestie,
guerre e malattie. Siccome la parola di Dio è fonte inesauri-
bile di ogni vita fisica, psichica, morale, religiosa, la soprav-
vivenza d’Israele dipende dalla fede in ciò che Dio annuncia e
realizza sempre.
La tentazione permanente del popolo di Dio è di mangiare
come tutte le altre nazioni, cioè di assicurare la propria sus-
sistenza per mezzo di riti magici, cioè dell’idolatria. Lungo il
cammino dell’esodo, Israele deve imparare che non vive sol-
tanto di pane, ma di ogni parola che «esce dalla bocca del Si-
gnore» (Dt 8,3). In questo modo, impara a mangiare con la fe-
de in Dio che saprà sempre preparare una mensa in mezzo al
deserto (Sal 78,19) e far traboccare il calice sotto gli occhi dei
nemici del suo popolo (Sal 23,5). Per il popolo di Dio, mangia-
re per sopravvivere è proprio un’opera divina. Grazie alla sua
Parola, Dio fa esistere tutto ciò che occorre per mangiare, ren-
de possibile la fede che preserva Israele dall’idolatria e crea la
speranza che Israele vivrà per sempre in presenza di Dio.

267
Per il popolo di Dio, il pasto veicola quindi speranze che
superano quelle della sopravvivenza fisica. Siccome l’esisten-
za del Dio d’Israele non dipende dal cibo e dalla bevanda, egli
può creare condizioni di vita in cui non si mangia allo scopo
di allontanare al massimo la prospettiva della morte. Egli è
capace di aprire la strada del giardino dell’Eden, affinché l’es-
sere umano possa mangiare dal frutto dell’albero della vita.
Con questo linguaggio simbolico, Israele esprime la sua fede
in Dio che, per mezzo del cibo, fa partecipe l’uomo della stessa
vita divina. Il pasto diventa quindi un’espressione escatologi-
ca, ciò che appare già in Isaia. Il profeta annuncia il banchetto
per tutti i popoli preparato dal Signore sul suo monte santo (Is
25,6). La parentela tra questo annuncio profetico e certi brani
dell’Apocalisse è ovvia. Nei due casi si festeggia; Dio strappa il
velo e la coltre che coprono tutte le genti, eliminerà la morte
per sempre, asciugherà le lacrime e farà scomparire la con-
dizione disonorevole del suo popolo (Is 25,6-10; Ap 7,16-17;
19,9; 21,3-4).
Nell’Apocalisse però, il banchetto è propriamente un ban-
chetto nuziale. Questa precisazione mette in risalto un’altra
tematica fondamentalmente legata a quella del mangiare e del
bere, quella dello sposalizio. In tutte le culture religiose del
mondo, uno dei riti che rende un uomo e una donna marito e
moglie, consiste nel bere dallo stesso calice o nel condividere
un cibo, significando in questo modo la loro volontà di vivere
reciprocamente con l’altro e per l’altro. Dare da mangiare e
accettare un invito a mangiare stabilisce infatti una comunità
di vita e di esistenza fra due o più persone. La difficoltà del
popolo di Dio è proprio questa: Dio, lo sposo, non cessa di
far sgorgare ruscelli dalla rupe e piovere la manna per cibo
(Sal 78,15-25), mentre il popolo, la sposa, mette in dubbio la
sua parola dicendo: «Potrà forse Dio preparare una mensa nel
deserto?» (Sal 78,19). Il problema è quello di un popolo che
vuole mangiare, ma non vuole vivere con Dio e per Dio. Dio è
allora il marito disprezzato, ingannato, e Israele la sposa infe-
dele che rifiuta la vita di comunione con lui.
Da qui si capisce meglio perché sono chiamati «beati» co-
loro che sono invitati alla cena del Signore. Sono beati perché
hanno accolto la parola di Dio nella fede e possono, quindi,
manifestare in verità la loro volontà di vivere con Dio e per
Dio quando si accostano al banchetto nuziale. Ormai si pro-
clama: «La sua sposa è pronta, le hanno dato una veste di lino

268
puro splendente» (19,8), cioè letteralmente, seguendo il testo
greco, «è stato dato alla sposa di essere rivestita» dalle «opere
giuste». La sposa non è stata rivestita passivamente, ma Dio
le ha dato l’occasione di dimostrare la sua fedeltà che «la pro-
muove alla dignità suprema dei preparativi della grande festa
finale»4. La dimensione teologica qui enunciata è ripresa e at-
tualizzata in una pagina degli scritti di Teresa di Lisieux, che
descrive le prove che ella attraversa dall’epoca della sua ve-
stizione fino alla professione solenne in vista del «giorno bel-
lo delle mie nozze»5: combatte il suo «grande amor proprio»,
rompe la sua volontà sempre pronta a imporsi, trattiene una
battuta di risposta, rende «servizietti senza farli valere», per
dire infine: «Fu per mezzo di questi nonnulla che mi preparai
a diventare la “fidanzata” di Gesù»6.

Un giudice che combatte con giustizia


per mezzo della Parola
L ’annuncio del banchetto delle nozze dell’Agnello è seguito
da quello della vittoria del Messia. Mentre la sposa si prepara
attivamente per il suo sposo, egli si presenta nel suo splendo-
re: cavalca un cavallo bianco, ha sul capo molti diademi ed è
avvolto in un mantello intriso di sangue (19,11-13). Lo sposo
si presenta senza dubbio sotto la figura di un capo militare
che in più è anche re. Lo testimoniano i diademi, l’afferma-
zione che «egli governerà con scettro di ferro» (19,15), nonché
il nome scritto sul mantello: «Re dei re e Signore dei signori»
(19,16).
Lo scopo della scena è chiaro: prima dello sposalizio occor-
re ancora compiere una grande opera, cioè la sconfitta della
bestia e del falso profeta (19,20). Sarà il compito dello sposo
che non fa economia di mezzi: i suoi occhi sono come una
fiamma di fuoco (19,12) ed è seguito dagli eserciti del cielo,
tutti su cavalli bianchi, vestiti di lino bianco e puro (19,14).
Si possono identificare questi eserciti «con la schiera dei cri-
stiani fedeli, questi vincitori la cui esistenza può sin d’ora es-
4
P. Prigent, Il messaggio dell’Apocalisse, Borla, Roma 1985, p. 227.
5
Cf. Ms A 72r-76v (per la traduzione italiana, cf. Teresa di Gesù Bambino,
Gli scritti, Postulazione Generale dei Carmelitani Scalzi, Roma 1970, §§ 202-
217).
6
Cf. Ms A 68v (cf. Teresa di Gesù Bambino, Gli scritti, § 190).

269
sere chiamata celeste, poiché vivono la vita eterna»7. In questo
caso, l’esercito del cielo sono i santi che vengono in aiuto ai
confratelli ancora in cammino verso la patria celeste.
La guerra è dichiarata in modo solenne: un angelo addirit-
tura «ritto sul sole», invita tutti gli uccelli del cielo a radunarsi
per pascersi delle carni dei re, capitani, eroi, cavalli, cavalie-
ri, tutti gli uomini, liberi e schiavi, piccoli e grandi (19,17-
18). All’immagine del banchetto, simbolo della beatitudine, è
contrapposta un’altra, il banchetto dei rapaci. La scena non
manca del realismo crudele che segna ogni fine di battaglia.
Si osserva però che non è descritta la battaglia. Non si sente
neppure il rumore delle armi e delle armature. Ma dalla bocca
del re messia «esce una spada affilata per colpire con essa le
genti» (19,15).
Quest’immagine della spada, che esce dalla bocca, è un mo-
do particolarmente impressionante per designare la Parola.
Rinvia al Servo d’Isaia che «proclamerà il diritto con fermez-
za»; il canto annuncia inoltre che «per la sua dottrina saranno
in attesa le isole» (Is 42,3-4). Nell’Apocalisse si tratta quindi di
un re che non combatte per mezzo di una forza militare. Egli
combatte solo per mezzo della Parola che stabilisce il dirit-
to sulla terra. L ’immagine della spada-Parola significa che la
Parola è nel contempo azione. Il suo potere risiede nel creare
un ordine e nel vincere un disordine. La sconfitta della be-
stia e del falso profeta, cioè del potere totalitario servito da un
potere religioso pervertito, è ottenuta dalla sola potenza della
Parola.
Il testo insiste su questa realtà quando lega l’identità del re
messia, espressa dai diversi nomi, alla sua funzione. Si chia-
ma «fedele» e «verace» e si dice di lui che «giudica e combat-
te con giustizia» (19,11). Poi si afferma che «porta scritto un
nome che nessuno conosce all’infuori di lui» e si constata che
«il suo nome è Verbo di Dio» (19,12-13). L ’affermazione del
nome, nel contempo nascosto e rivelato, rinvia alla teologia
del nome sviluppata da Israele a partire da Es 3. La formula
«Io sono colui che sono» rinvia al mistero inesprimibile di Dio
(Es 3,12); allo stesso tempo però Dio si rivela come «il Dio di
Abramo, di Isacco e di Giacobbe» che afferma a Mosè: «Io
sarò con te» (Es 3,14-15). Nel pensiero semitico la rivelazio-
ne del nome implica sempre una comunicazione del proprio
7
Cf. Prigent, Il messaggio, p. 234.

270
essere. Il nome di Dio esprime la sua presenza misteriosa, ma
reale, in mezzo ai suoi. Per l’Antico Testamento come per il
Nuovo, questa presenza misteriosa si realizza per mezzo della
Parola «fedele» e «verace», che si rivela dal di fuori e tuttavia
risiede nell’intimo dell’uomo (Dt 30,14).
Nel mondo in cui regnano i rapporti di seduzione e di do-
minazione politica, sociale e anche religiosa (i falsi profeti),
Dio ha costituito il suo popolo portatore della Parola di veri-
tà, inseparabile dall’amore che rende capace la sposa di rive-
stirsi con l’abito delle nozze eterne. Questa Parola annuncia
chi è l’uomo realmente davanti a se stesso, ai suoi simili e a
Dio. Annuncia chi è Dio per gli uomini e per il suo popolo. La
battaglia non descritta è in fondo quella tra la Parola – che è
verità, vita e amore – e la menzogna, che è l’idolatria. Vince la
Parola di fedeltà e di verità, mentre i seguaci del falso profeta
periscono per mezzo della spada della Parola vera.
La Parola di verità è allo stesso tempo grazia e condanna.
La salvezza non consiste nel chiudere gli occhi sulle opere pic-
cole o grandi della menzogna, ma è sempre un rifiuto del male
e la sua condanna. Il testo esprime questa realtà esistenziale e
teologica in termini particolarmente impressionanti che rom-
pono con certe rappresentazioni «dolci» del giudizio divino.
Il re messia «governerà con scettro di ferro e pigerà nel tino
il vino dell’ira furiosa del Dio onnipotente» (19,15). Poi, si ri-
corre all’immagine dello «stagno di fuoco» improntata all’a-
pocalittica ebraica, cioè di un luogo di pene eterne. È ormai
la dimora «ardente di zolfo» (19,20) della bestia e del falso
profeta. Alla vita eterna si oppone una morte eterna come sarà
precisata nel capitolo successivo (20,4).

Un testo per oggi?


È proprio stupefacente constatare quanto nel mondo con-
temporaneo, dominato dalle immagini di science-fiction, sia
diventato difficile proporre le immagini del nostro testo. Per i
cristiani dei secoli passati esse ponevano apparentemente me-
no problemi. Sono entrate nell’arte religiosa che si esprime
sui frontespizi o sulle pareti delle nostre cattedrali, nei vetri
del medioevo o, per esempio, nei ritratti di Gerolamo Bosch
(1450/60-1516). A queste immagini, piene di azioni guerre-
sche, di sangue sparso e di «spada affilata a doppio taglio»
(1,16), sembra che si preferiscano oggi immagini religiose

271
più soft e rassicuranti. I cristiani di oggi, almeno nei paesi in-
dustrializzati, sarebbero diventati più impermeabili, perfino
timorosi davanti alle realtà enunciate dall’Apocalisse? Certo,
i ricordi delle diverse crociate, dell’inquisizione, di scienziati
perseguitati da qualche potere religioso, di streghe e di eretici
bruciati sulla piazza pubblica hanno reso più prudente il po-
polo di Dio nel maneggiare questo tipo di immagine. Il recen-
te riconoscimento, da parte del papa, dei peccati commessi a
nome della Chiesa e la domanda di perdono, sono un segno
forte per tutti i fedeli, un pressante invito a rompere con ogni
forma di dominazione totalitaria anche a motivo della «buona
causa».
Il nostro testo ci mette davanti a una scelta fondamentale
della vita cristiana. Ogni essere umano ha sempre una scelta
da fare: quella tra una felicità effimera sempre mescolata al-
la menzogna che si presenta spesso come una felicità «per se
stessi o se stessi prima» e una verità che è vita tout court. La
beatitudine non sarebbe quella di accogliere l’invito al ban-
chetto, di mangiare per vivere in presenza di Dio e del suo
Messia nell’eternità dell’amore fedele e verace?

272
Marco Rossetti
________

Il millennio
(Ap 20,1-21,8)

Cristo ha manifestato la sua potenza e la sua gloria. Egli ha


fatto irruzione nella storia segnandola indelebilmente del suo
nome. Uno scontro è avvenuto: l’esercito del male è stato scon-
fitto, con forza le bestie sono state catturate e gettate nella fos-
sa infuocata e maleodorante. Una simile sorte tocca a tutti i po-
tenti della terra che si sono lasciati ammaliare e pervertire. Essi
non possono resistere di fronte alla parola di Cristo che li an-
nienta. A un angelo spetta il compito di spiegare le conseguen-
ze di tali azioni di messianica potenza: così egli appare all’ini-
zio del capitolo ventesimo, brandendo la chiave dell’abisso e
una grande catena. La sua presenza è narrativamente impor-
tante poiché determina l’inizio di una nuova e intrigante scena.

La struttura letteraria
I quindici versetti del c. 20, come i primi otto del c. 21, de-
notano la presenza di elementi formali utili a una sua suddi-
visione. Ben visibile, tra gli altri, il motivo letterario dettato
dal verbo «vedere» che, ricorrendo in modo ritmante, serve
a strutturare la complessa dinamica delle azioni che si svol-
geranno. Grazie all’incalzare del verbo, il lettore viene emo-
tivamente coinvolto nella visione, quasi che lui stesso possa
vedere e godere degli effetti prodotti dall’azione di Cristo.
La scena può essere suddivisa in cinque momenti:
A e vidi: un angelo scendere dal cielo (20,1-3);
B e vidi: dei troni... (vv. 4-6);
C Gog e Magog cingono d’assedio Gerusalemme: secon-
do combattimento escatologico (vv. 7-10);
B’ e vidi: un trono e colui che siede su di esso... (vv. 11-15);
A’ e vidi: cieli e terra nuovi (21,1-8).

273
I primi due quadri (20,1-3.4-6) sono segnati dal tema dei
«mille anni»: esso appare in modo improvviso, ma ricorre poi
cinque volte (20,2.3.4.5.6) con una ripresa anche in 20,7. La
frequenza del richiamo ne indica l’importanza. Intorno a que-
sto millennio ruotano infatti molti dei personaggi e la mag-
gior parte delle vicende narrate.
In complesso, la scena è genialmente strutturata così da
poter ruotare sia indietro che in avanti. Remotamente, rimet-
te in gioco eventi che raggiungono qui il loro compimento;
immediatamente, riprende la narrazione del primo combat-
timento escatologico che rilegge in vista dell’instaurarsi dei
tempi nuovi.

La visione dell’angelo
L ’angelo, come gli altri che scendono dal cielo, è munito
di una grande potenza. Le chiavi che egli possiede gli vengo-
no infatti date per rinchiudere Satana dopo averlo incatenato.
L ’immagine richiama Ap 9,1: là Dio consegna le chiavi a un
altro angelo perché «apra le porte dell’abisso», concedendo
all’esercito infernale di imperversare sulla terra. Ora, Dio ri-
dà le medesime chiavi affinché si compia l’azione contraria,
quella cioè dell’asserragliare le schiere infernali1. Vi è anche
un riferimento esplicito al «secondo segno», l’«enorme drago
rosso con sette teste e dieci corna» (Ap 12,3ss.).
La scena depone a favore di un intervento divino volto a
neutralizzare ogni effetto negativo prodotto dal male. La nar-
razione fa ben assaporare come si stia rapidamente raggiun-
gendo il vertice spazio-temporale verso cui la storia della sal-
vezza è rivolta. È a questo punto che arriva la prima menzione
del millennio.
È possibile che il particolare dei «mille anni» affondi le sue
radici in particolare nel Sal 90,4: «Ai tuoi occhi, mille anni
sono come il giorno di ieri che è passato». Il senso del nume-
ro mille può essere diversamente interpretato: stando a Enoc
1
L ’Apocalisse canonica continua il tema dell’imprigionamento dei demoni
e degli uomini fattisi loro servi già iniziato dall’Antico Testamento (Is 24,21ss.)
e proseguito nella letteratura del tardo giudaismo. Particolarmente interes-
sante è il testo contenuto in Enoc 10,4-6 dove si narra di Dio che dà ordine a
un angelo di incatenare Satana (là chiamato Azazele) e di gettarlo nella tene-
bra. Altri testi sono: Enoc 18,13-16; 21,3.6.10; 53-54; Testamento di Levi 18,21;
2Bar 40, ecc. Il nostro autore si affianca a questi testi leggendoli nella chiave
del loro compimento: è cioè il Messia a compiere la sconfitta definitiva di Sa-
tana e dei suoi adepti celesti o terrestri.

274
18,16, dove si dice che il tempo della punizione inflitta a Sata-
na è di mille millenni, o a Enoc 21,6 dove essa è di diecimila
anni, si potrebbe intendere un numero che vuol indicare un
periodo di tempo significativo e considerato nella sua totalità.
Riferendoci, invece, al contesto del libro di Apocalisse, in cui
appaiono cifre multiple di mille (i 144 mila, i 12 mila) per de-
signare sempre persone coinvolte nell’azione salvifica di Dio e
dell’Agnello, si potrebbe rinvenire nella cifra l’espressione del-
la forza divina in azione nel divenire storico. Personalmente,
preferirei questa seconda interpretazione.
Che cosa si voglia designare mediante l’espressione «mille
anni», è questione più difficile da definire. Le opinioni degli
studiosi si riducono fondamentalmente a due:
— questo tempo va interpretato letteralmente e, in tal caso,
dovrebbe designare un periodo futuro rispetto a quello in
cui l’Apocalisse fu scritta: in esso si manifesterà la signoria
di Dio sulla storia;
— i «mille anni» vanno intesi simbolicamente e si devono per-
tanto riferire al presente.
Conoscendo l’indole costitutiva dell’Apocalisse giovannea,
la quale è una lettura profetica del presente per coglierne il
suo significato teologico più profondo, così come il fatto che
essa ricorra frequentemente a numeri o a periodi di tempo
dal valore simbolico per suggerire al lettore realtà e contenuti
altrimenti non comunicabili, è a quest’ultima linea interpreta-
tiva che mi atterrò.
Solo in una lettura teologica della storia si può dunque
comprendere «il millennio» come quel tempo che, considera-
to nella sua totalità, scorre dalla risurrezione di Cristo fino al-
la sua venuta e in cui l’agire salvifico è all’opera. Tale periodo
assume tratti fortemente cristologici: la salvezza è già realiz-
zata tramite l’unico sacrificio dell’Agnello, ma raggiungerà la
sua pienezza quando la gloria della croce e della risurrezio-
ne illuminerà tutto l’universo. La portata dei misteri pasquali
viene qui colta nei suoi risvolti positivi contro Satana. Egli
viene rinchiuso affinché non possa più sedurre. È questa una
chiara menzione del tempo post-pasquale in cui l’autorità dia-
bolica è stata neutralizzata: Satana può ancora nuocere all’uo-
mo, ma non potrà più sedurlo, sottraendolo all’amore di Dio.
Cristo risorto è infatti entrato nella casa del diavolo e, dopo
averlo legato, la sta saccheggiando (cf. Mt 12,29). Gli effetti
della vittoria di Cristo sono ormai visibili e fruibili, pur se di-

275
scretamente, nella creazione. L ’Apocalisse si pone in evidente
discontinuità con la tradizione giudaica che attribuiva a un
regno messianico sulla terra le caratteristiche del benessere e
della ricchezza. Non afferma che si tratta di un tempo di ab-
bondanza; le interessa però ben precisare che in esso il male è
stato ridotto in cattività. Tuttavia il v. 3 conclude affermando
che «bisogna» che Satana sia liberato «per un poco di tem-
po». Questa necessità deve essere teologicamente intesa come
funzionale a quella salvezza che sarà definitivamente recata
agli uomini quando la Gerusalemme nuova sarà instaurata in
mezzo a loro. È in vista di questo evento centrale e definitivo
che a Satana verrà concesso ancora poco tempo.

La visione dei troni e di una schiera celeste


La ripetizione del verbo «vedere» dischiude al lettore un
quadro in cui campeggiano dei troni e una non ben precisata
schiera di persone. Queste, trovandosi sedute su di essi, eserci-
tano le facoltà di governo e giudizio tipiche di «colui che siede
sul trono». La scena ha un precedente insigne in Dn 7, dove si
narra di una corte celeste che condanna l’oppressore e rende
giustizia alle sue vittime. Il testo viene ripreso qui, ma questa
volta le vittime vengono identificate con i martiri cristiani e
quanti si mantengono fedeli. Di costoro si dice che vivono nel-
lo stato della «prima risurrezione». Di che cosa si tratta? L ’au-
tore lascia capire che ci sarà anche una seconda risurrezione?
Non dobbiamo imporre allo scritto alcuna precomprensione:
nel prosieguo della narrazione nessuna menzione è fatta di
un tale evento. La «prima risurrezione» potrebbe indicare lo
stato di persone che, essendosi già decise per la totale obbe-
dienza a Cristo, ricevono fin da ora la vita eterna. Sono già un
popolo sacerdotale ed è necessario che così sia, finché non si
instauri la Gerusalemme nuova in cui perfino la presenza di
un tempio sarà superflua, dato che «Dio e l’Agnello sono il suo
tempio». Costoro non temono più nulla dalla «seconda mor-
te», quella spirituale che può sopraggiungere dopo la morte
fisica, poiché si sono decisi per l’Agnello.

Gog e Magog
Raggiungiamo il quadro centrale. La sua preminenza è do-
vuta al contenuto inerente il compimento del millennio. La

276
narrazione è peculiare perché sviluppa l’immagine della bat-
taglia escatologica nella sua fase conclusiva: quando sembra
che le forze infernali abbiano il sopravvento, è allora che im-
provviso giunge l’intervento divino il cui effetto sarà non più
la neutralizzazione di Satana e del suo seguito, ma il loro to-
tale annientamento.
La convivenza del mondo con Satana legato non è l’ultima
parola di Dio sulla storia. È necessario che il male sia sconfitto
e che l’uomo venga totalmente sottratto dalle sue malie, per-
ché appaia incontrastata la gloria divina.
La liberazione di Satana coincide con una ripresa della sua
tipica attività: sedurre e sviare. L ’azione è questa volta limita-
ta unicamente alle nazioni, cioè a quegli uomini che ancora
non hanno radicalmente deciso per l’Agnello. Contro il «cielo»
e coloro che là abitano il diavolo ora non può più nulla.
Gog e Magog vengono aizzati da Satana «liberato dalla sua
prigione». Chi sono costoro? È evidente una reminiscenza ve-
terotestamentaria che si rifà a Ez 38-39. In quel testo veniva
profetizzata la disfatta di Gog, re di Magog (Ez 39,6). È inutile
tentare di identificare costui. Lo si potrebbe definire come il
modello del conquistatore spietato. L ’Apocalisse riprende la
figura sdoppiandola in due persone, proposte come simbolo
dell’esercito demoniaco radunato da tutta la terra per sferra-
re l’attacco definitivo a Gerusalemme, «l’accampamento dei
santi2 e la città prediletta». L ’idea di un attacco sanguinoso,
recato da forze ostili contro Gerusalemme e, quindi, contro
Dio, il suo Unto e coloro che sono dalla sua parte, era radica-
to nella mentalità giudaica di epoca tarda: il Targum Neofiti
traducendo e parafrasando Nm 11,26 afferma: «Alla fine dei
giorni Gog e Magog salgono a Gerusalemme e sono vinti dal
re messia». L ’autore risente di questa tradizione, ma la rinno-
va, applicandola all’evento del Cristo vittorioso. Il messaggio
globale cui si può pervenire riguarda l’ultima manifestazione
ostile della terra issata da Satana contro il progetto divino.
A tale attacco risponde repentino un fuoco dal cielo. Esso è
simbolo che indica una punizione3, simile a quella di cui si era
già detto in Ap 11,5 relativamente ai due testimoni. È l’inizio
dell’intervento escatologico di Dio. Un particolare trattamen-
2
Intenso riferimento all’esodo, evocatore di un popolo condotto fuori dal-
la schiavitù. Raffinato il riferimento alla «dimora-tenda» di 21,3.
3
Si confrontino anche i testi di Gen 19,24 e di 2Re 1,10 a proposito della
funzione punitiva del fuoco.

277
to viene riservato a Satana: fino a questo punto della narrazio-
ne sapevamo che egli era stato precipitato dal cielo (Ap 12,9)
e che era stato legato (Ap 20,2). Ora egli viene definitivamente
cacciato fuori dal mondo, insieme con le sue due creature pre-
dilette (Ap 19,20) e con loro ridotto all’inattività perenne.

La visione del trono


È lo svolgimento del giudizio escatologico presieduto da
Dio seduto sul trono. L ’eco di Dn 7,9-10 è forte. Un riferimento
ad Ap 20,4-6 è evidente, anche se si notano elementi di diver-
sità: ai troni si contrappone l’immagine di un solo trono; alle
anime dei decapitati si contrappongono tutti i morti (grandi e
piccoli), paradossalmente ritratti «ritti davanti al trono», os-
sia come se fossero vivi. Tutti i defunti vengono restituiti in
forza del poderoso intervento divino: il mare stesso, mostro
demoniaco che tutto inghiotte, e gli inferi non hanno più la
capacità di trattenerli. L ’elemento cosmico ha del meraviglio-
so: il cielo e la terra scompaiono a indicare il capovolgimento
definitivo della situazione che fino ad ora il libro ci aveva fatto
conoscere. Il significato è chiaro: un mondo legato a un’esi-
stenza segnata dal male, non può sussistere alla presenza di
Dio che pronuncia il suo giudizio. Scompare materialmente,
lasciando lo spazio a qualcosa di nuovo4. Il giudizio che Dio
pronuncia ha l’evidente finalità di rispondere alla volontà di
creare un mondo nuovo.
Come in un tribunale umano, anche qui vengono aperti dei
libri. Tra essi, eccelle il «rotolo della vita», simbolo della mise-
ricordia che Dio dona a tutti. Quanti liberamente si sono sot-
tratti a tale progetto salvifico se ne autoescludono. Le opere
degli uomini sono ritenute importanti in quanto concretizza-
no la decisione dell’accoglienza o del rifiuto.
Apoteosi della scena è la distruzione della morte. Conside-
rata come una realtà al servizio di Satana, è chiaro che an­
ch’essa debba subire la medesima pena toccata al suo man-
dante. Insieme a lei sono gettati nello stagno di fuoco quanti si
sono opposti alla volontà salvifica divina. Tale evento è deno-
minato «seconda morte», spirituale rovina. Aleggia in tutta la
scena una forte tonalità cristologica: come non ritenere infatti
che queste azioni siano compiute dall’Unto di Dio?
4
L ’immagine raggiunge pienezza espressiva nella sua ripresa in 21,1-2.

278
I cieli e la terra nuovi
L ’ultimo quadro (Ap 21,1-8) si presenta con caratteristiche
simili ad Ap 20,1-3: non è però più un angelo a discendere dal
cielo per compiere l’incatenamento di Satana, bensì la Geru-
salemme nuova, simbolo perfetto dell’intervento escatologico
di Dio.
La pericope si snoda intorno ai temi del nuovo cosmo e
della città nuova, dimora divina in mezzo agli uomini. Si trat-
ta di tradizioni già elaborate sia dall’Antico Testamento5, sia
dagli scritti tardo giudaici. L ’intento evidente dell’autore è at-
tribuire a esse una portata maggiormente universalistica, ma
soprattutto escludere che tali ultimi eventi siano intesi come
una conquista dell’uomo. La novità di cui si dice è in grado di
pervadere ogni realtà e proviene da Dio.
Il tema della nuova creazione viene svolto come momento
sintetico di due correnti di pensiero:
— la prima pensava al rinnovamento come al frutto di una pu-
rificazione che elimina tutto quanto vi è di peccaminoso6;
— l’altra riteneva che Dio avrebbe compiuto un intervento to-
talmente nuovo, una nuova creazione7.
Per il nostro autore, il cosmo nuovo e la Gerusalemme nuo-
va sono il frutto di un agire salvifico che, dopo aver soppresso
totalmente il male, rifà la creazione.
I vv. 1-2 vanno compresi come l’espressione più alta di que-
sto intervento. Le nostre categorie spazio-temporali vengono
sconvolte e rovesciate. Davanti a Dio che appare nella sua glo-
ria l’universo si ritrae. Alla presenza del trono di Dio (v. 3) ciò
che era prima non può più sussistere: perfino il mare, simbolo
per antonomasia del male, «non è più». La figura corrisponde
a quella contenuta in Ap 4,6: anche là, alla presenza di Dio, si
affermava che il mare era divenuto «di vetro simile a cristal-
lo». Una nuova realtà si instaura e Gerusalemme – la città-
sposa, santa e nuova, pronta per accogliere Cristo-sposo – ri-
ceve la corona. A suggerire che cosa sia questa città è una voce
che esce dal trono: essa, pur non essendo qualificata come di
Dio, è profondamente suggestiva in quanto evocatrice di tante
profezie veterotestamentarie, che avevano per oggetto la ve-
nuta del Signore in mezzo al suo popolo. Risuonano così, ad
5
In particolare Is 25,8; 65,16-19.
6
Enoc 45,4-5; Giub. 1,29; 23,18.
7
Or. Sib. 3,83; 5,475ss.; 4Esd 7,29; 2Bar 3,7-4,1.

279
esempio, nel v. 3 le parole di Lv 26,11-12: Dio ora ha posto la
sua tenda in mezzo all’umanità; si compie anche quanto Eze-
chiele aveva predetto: «In mezzo a loro sarà la mia dimora: io
sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo» (Ez 37,27).
Il v. 4 dischiude al compimento di altre profezie di Isaia8
inerenti l’eliminazione del pianto a motivo della sconfitta del-
la morte e culmina nella proclamazione sobria ed efficace del
rinnovamento prodotto da Cristo: «Le cose di prima sono pas-
sate» (cf. 2Cor 5,17). Solo a questo punto si ode la voce di Dio
che per la prima volta ordina al veggente di scrivere le cose
viste e udite. Egli stesso le certifica come opera assolutamente
sua. Definendosi come «l’Alfa e l’Omega, l’inizio e la fine», Dio
afferma di essere centro della storia, avendone determinato
l’inizio, il farsi e garantendone ancora una crescita per il fu-
turo. Unicamente da lui ogni uomo deve attendere tutto: la
preziosità del dono viene paragonata all’acqua, elemento che
rende possibile la vita.
Il testo conclude con la promessa al vincitore. Accostandolo
ai vincitori menzionati nel settenario delle lettere (Ap 2-3), si
può affermare che la sua identità coincida con quella di ogni
fedele cristiano seriamente impegnato. Per costui si compie la
profezia di 2Sam 7,14: riceverà l’eredità più grande, in forza
della quale sarà annoverato tra i figli di Dio. La promessa è
espressa al futuro, non si dimentichi però che il contesto è
quello dettato dalla parola pronunciata da Dio: «Ecco è fat-
to!»; il mondo nuovo è presente e in esso sono i figli.
Un settenario di tentazioni idolatre, caratterizzate in altret-
tante categorie di uomini riassunte in quella conclusiva dei
«mentitori» od oppositori della verità, chiude la scena. La li-
sta, dai toni così cupi, dispiace un poco dopo le precedenti
descrizioni luminosissime. Essa però ha un significato assai
importante e risuona come un coraggioso avvertimento ai cri-
stiani di ogni tempo: che l’immagine gloriosa e solare della
Gerusalemme nuova non diventi un’utopia in cui evadere, ma
la meta che dinamicamente ci spinge a una quotidiana oppo-
sizione contro tutto ciò che avversa Dio.

8
Ad esempio Is 25,8; 35,10; ecc.

280
Gog e Magog

Gog è il nome di un personaggio di cui si parla in Ez 38-39.


Qui, egli viene presentato come il re di Magog, ma anche di Tu-
bal e Moshoch. Queste due ultime località si dovrebbero trovare
nell’Asia Minore. Sembra, tuttavia, che, parlando di Gog, Eze-
chiele non pensasse a nessun personaggio storico. Gog è una
figura tipo, le cui caratteristiche sono tratte dai re conquistatori
dell’esperienza storica di Israele. Viene infatti dal Nord, percor-
rendo la via tradizionale degli invasori. Nel lontano futuro – così
annuncia Ezechiele – Gog guiderà i suoi eserciti contro Israele,
ma sarà annientato da Yhwh, senza l’intervento dell’uomo. Il li-
bro dell’Apocalisse riprende questa figura e le affianca quella di
Magog. Con quest’ultimo nome, dunque, non si designa più la
terra su cui regna Gog, bensì un secondo re che si allea con lui.
Secondo Ap 20,8, ad entrambi è consentito di aggredire il regno
di Dio dopo i mille anni durante i quali Satana è legato. In Ap
20,10 si fa sapere che questo attacco poderoso ai santi di Dio e
alla città eletta è conseguenza della seduzione di Satana. Si in-
travedono le grandi tematiche care al libro dell’Apocalisse.

Mille non più mille


In Ap 20,1-10 si parla di un periodo di mille anni durante il
quale Satana è legato e i giusti regnano con Cristo. Alla fine di
questo periodo il demonio viene sciolto e raduna tutte le forze
contro la città santa. Viene però sconfitto e precipitato nell’abis-
so infuocato. Segue la risurrezione di tutti i morti e il giudizio
da parte di Dio. Questa concezione sembra basarsi su un pas-
so del libro di Enoc in cui si dice che il tempo del mondo è di
7000 anni, 1000 per ogni giorno della creazione. Il millennio di
cui parla Ap 20 sarebbe perciò il periodo del riposo sabbatico.
Un’interpretazione letterale del testo di Ap 20 aveva indotto a
identificare questo millennio con il primo millennio dell’èra cri-
stiana. Di conseguenza, con l’approssimarsi dell’anno 1000 d.C.,
ci si doveva attendere la definitiva vittoria su Satana e la conse-
guente fine di questo mondo. Da qui il detto: mille non più mille.
Questa opinione era sostenuta non solo da un certo numero di
sette eretiche nella Chiesa primitiva, ma anche da non pochi Pa-
dri della Chiesa. Essa aveva creato un clima di grande tensione
negli ultimi decenni del secolo X, raggiungendo in qualche caso
le punte dell’isterismo religioso.
(Pierantonio Tremolada)

281
Francesco Mosetto
________

La nuova Gerusalemme
(Ap 21,9-22,5)

L’estasi profetica di Giovanni culmina nella visione della


nuova Gerusalemme, beata pacis visio. Già intravista nella
figura della donna vestita di sole (12,1ss.), e prossimamente
annunciata da «una voce potente» uscita «dal trono» (21,3),
la «città santa» si presenta ora al veggente in tutta la sua af-
fascinante bellezza. L’ultima pagina dell’Apocalisse ne esalta
lo splendore che promana dalla presenza stessa di Dio, ne de-
scrive le mura con le loro fondamenta, le porte aperte ai quat-
tro punti cardinali, il fiume di acqua viva e vivificante che sca-
turisce dal trono di Dio e dell’Agnello. È questo infatti il cuore
della nuova Gerusalemme, sì che in essa non è più necessario
il tempio, perché «suo tempio è il Signore Dio, l’onnipotente,
e l’Agnello» (21,22).

Un nuovo cielo e una nuova terra


Nella sezione precedente (17,1-21,8) al veggente era mo-
strata la sconfitta di Satana e dei suoi emissari, in particolare
il giudizio della «grande prostituta» (cc. 17-19). Il quadro con-
clusivo (21,1-8), mentre minaccia ai peccatori «lo stagno di
fuoco e di zolfo» dove sono stati precipitati la bestia e il falso
profeta (cf. 19,20), introduce la scena finale dell’intero libro.
Giovanni vede infatti «un nuovo cielo e una nuova terra»
(21,1): come aveva annunciato Isaia, Dio ha posto mano a una
nuova creazione (cf. Is 65,17; 66,22). Si tratta della novità vera
ed escatologica, che supera ogni realtà effimera e compie per-
fettamente il disegno di Dio e, insieme, le aspirazioni profonde
dell’uomo. Anche Pietro, nella sua seconda lettera, scrive: «Se-
condo la sua promessa, noi aspettiamo nuovi cieli e una terra
nuova, nei quali avrà stabile dimora la giustizia» (2Pt 3,13).

282
Alla nuova creazione appartiene la Chiesa, che l’Apocalisse
giovannea ci presenta nella sua dimensione trascendente ed
escatologica. Il veggente contempla la «nuova Gerusalemme»,
la «città santa», la «sposa» dell’Agnello, pronta per le nozze
della comunione eterna con il suo Sposo (21,2.9-10; cf. 19,7).
L’abito nuziale di cui è rivestita sono «le opere giuste dei santi»
(19,8). Essa «scende dal cielo, da Dio» (21,2.10): prefigurata
dalla Gerusalemme terrestre, nella quale un tempo il Signore
scelse di dimorare (cf. Sal 132,13-14), la nuova Gerusalemme
è una real­tà preesistente, come la Torah e il Messia, rivelata e
donata agli uomini nell’eskhaton.

Le mura e le porte della città


Come nella visione profetica di Ezechiele (cc. 40-42) e in
quella di Zaccaria (Zc 2,5-9), un angelo misura le straordina-
rie dimensioni della nuova Gerusalemme e mostra al veggente
le mura fortissime che la cingono e le porte che si aprono ai
quattro punti cardinali.
«La città è a forma di quadrato», anzi di cubo: «La lunghez-
za, la larghezza e l’altezza sono eguali» e ciascuna è di ben
«dodicimila stadi» (21,16)! Le sue mura, a loro volta, «sono
alte centoquaranta braccia»... È inutile calcolare l’estensione
(o la cubatura!) della città e l’altezza delle sue mura. Chiara-
mente, forma e misure hanno un valore simbolico. Il nume-
ro dodici è quello delle tribù di Israele. Mille sta a indicare
una valore enorme, una grandezza di ordine divino. Le misu-
re suggeriscono l’ampiezza e la perfezione della nuova Geru-
salemme, capace di accogliere l’intero popolo di Dio nel suo
compimento escatologico.
Il muro che protegge la città dagli attacchi nemici e la ren-
de sicura poggia su «dodici basamenti, sopra i quali sono i
dodici nomi dei dodici apostoli dell’Agnello» (21,14). La tra-
sparenza qui è totale: la Chiesa, nata dalla predicazione degli
apostoli, ha in essa il suo fondamento perenne. La buona no-
vella del Signore Gesù, annunciata dai Dodici e resa presente
in ogni tempo e luogo da coloro che ne ereditano la missio-
ne, conferisce una stabilità indefettibile alla città di Dio tra
gli uomini. Anche secondo la Lettera agli Efesini la Chiesa è
costruita «sopra il fondamento degli apostoli e dei profeti» e
ha «come pietra angolare lo stesso Cristo Gesù» (Ef 2,20; cf.
1Pt 2,6). Si avverte l’eco della promessa di Gesù a Pietro: «Su
questa pietra costruirò la mia Chiesa» (Mt 16,18).

283
«Le mura sono costruite con diaspro [...]. Le fondamenta
delle mura della città sono adorne di ogni specie di pietre pre-
ziose» (21,18.19). È evidente il richiamo a Is 54: con immagini
iperboliche il profeta canta lo splendore della nuova Gerusa-
lemme, che Dio ha rinnovato con il suo amore: «Afflitta, per-
cossa dal turbine, sconsolata, ecco io pongo sulla malachite
le tue pietre e sugli zaffiri le tue fondamenta. Farò di rubini la
tua merlatura, le tue pietre saranno di carbonchi, tutta la tua
cinta sarà di pietre preziose». La parola profetica annuncia
una realtà, che Giovanni può ormai contemplare. Con eviden-
te compiacenza egli elenca una serie di dodici pietre preziose:
il diaspro, lo zaffiro, il calcedonio, lo smeraldo, il sardonice,
la cornalina, il crisolito, il berillo, il topazio, il crisopazio, il
giacinto, l’ametista (vv. 19-20). Al lettore non sfugge l’allusio-
ne al pettorale del sommo sacerdote, descritto in Es 28,15-21:
«Lo coprirai con una incastonatura di pietre preziose, dispo-
ste in quattro file. Prima fila: una cornalina, un topazio, uno
smeraldo [...]. La seconda fila: un turchese, uno zaffiro e un
berillo. La terza fila: un giacinto, un’agata, un’ametista. La
quarta fila: un crisolito, un onice, un diaspro [...]. Le pietre
corrisponderanno ai nomi degli israeliti [...] e saranno inci-
se come sigilli, ciascuna con il nome corrispondente, secondo
le dodici tribù». La dossologia iniziale dell’Apocalisse lodava
Cristo, perché «ha fatto di noi un regno di sacerdoti per il suo
Dio e Padre» (Ap 1,6; cf. 5,10; 20,6). Il sacerdozio dell’antica
alleanza si è trasferito alla città santa, ossia al popolo del Dio
della nuova ed eterna alleanza.
L’«alto e grande muro» che cinge la città ha «dodici porte»,
sopra le quali «stanno dodici angeli e nomi scritti: i nomi delle
dodici tribù di Israele» (21,12). «E le dodici porte sono dodici
perle: ciascuna porta formata da una sola perla» (21,21). Me-
diante le dodici porte, distribuite a tre a tre per ciascun lato e
rivolte ai quattro punti cardinali (21,13), la città si apre a tutti
i popoli della terra (21,26; cf. Is 60). Esse «non si chiuderanno
mai» (21,25). L’immagine della perla, in armonia con quella
delle pietre preziose, insiste sulla splendida bellezza della città
santa. Il numero dodici questa volta è posto direttamente in
relazione con quello delle tribù del popolo della prima al­lean­
za; un popolo universale, come suggerisce la collocazione del-
le porte e il richiamo al pellegrinaggio escatologico predetto
da Isaia. Viene così ripreso il tema già svolto nella visione dei
«centoquarantaquattromila» segnati con il sigillo del Dio vi-
vente, «dodicimila» per ciascuna delle dodici tribù dei figli di

284
Israele (c. 7). I dodici apostoli sono infatti i nuovi capostipiti
e, secondo una parola del Signore, i «giudici» del nuovo popo-
lo di Dio (cf. Lc 22,30). Agli angeli posti sopra le porte si deve
probabilmente attribuire il compito di custodi della città.

La gloria di Dio
La splendida bellezza della nuova Gerusalemme («La cit-
tà è di oro puro, simile a terso cristallo [...], il suo splendore
è simile a quello di una gemma preziosissima, come pietra
di diaspro cristallino»: 21,11) ha una sorgente: la presenza di
Dio. La città santa è «risplendente della gloria di Dio» (21,10).
Perciò «la città non ha bisogno della luce del sole né della luce
della luna, perché la gloria di Dio la illumina e la sua lampada
è l’Agnello» (21,23; cf. 21,5). Tale è questa luce che «non vi sa-
rà più notte» (21,25; 22,5).
La gloria di Dio altro non è che la sua stessa presenza sal-
vatrice, che si era manifestata nella nube luminosa dell’eso-
do (cf. Es 13,21-22; 40,35) e nel tempio salomonico (cf. 1Sam
8,11). Secondo (il deutero)Isaia, la gloria di Dio risplende su
Gerusalemme rivestendola di luce (cf. Is 60,1-2). Ezechiele, a
sua volta, dopo aver visto la gloria del Signore allontanarsi da
Gerusalemme (cf. Ez 10), la vede ritornare da oriente ed en-
trare nel tempio (cf. Ez 43). Superando lo stesso immaginario
biblico, Giovanni scrive: «Non vidi in essa [la nuova Gerusa-
lemme] alcun tempio, perché il Signore Dio, l’onnipotente, e
l’Agnello sono il suo tempio» (21,22); e insiste: «La gloria di
Dio la illumina e la sua lampada è l’Agnello» (21,23). In altre
parole, ogni mediazione è ormai superflua. La presenza di Dio
non è più legata a un luogo sacro. Dio (il Padre) e l’Agnello
immolato e risorto (Cristo) sono personalmente presenti nella
città santa: «Il trono di Dio e dell’Agnello sarà in mezzo a lei»
(22,3). Per questo la voce «dal trono» aveva annunciato: «Ecco
la dimora di Dio con gli uomini. Egli dimorerà con loro, ed
essi saranno suo popolo ed egli sarà il Dio con loro» (21,3).

Un fiume d’acqua viva


Dal trono di Dio e dell’Agnello scaturisce un «fiume d’acqua
viva, limpida come cristallo» che attraversa la città (22,1-2).
L’immagine viene di nuovo da Ezechiele: l’acqua che sgorga
dal tempio diventa a poco a poco un vero fiume, che fa rivivere
l’intera regione e risana le acque del Mar Morto (Ez 47,1-12).

285
«In quel giorno acque vive sgorgheranno da Gerusalemme»,
annuncia anche Zaccaria (Zc 14,8). Nel Quarto Vangelo Gesù
riferisce questa immagine biblica a se stesso e al dono del-
lo Spirito, allorché promette alla samaritana un’«acqua viva»
che «zampilla in vita eterna» (Gv 4,10.14) e, nell’ultimo giorno
della festa delle Capanne, proclama: «Chi ha sete, venga a me
e beva chi crede in me. Come dice la Scrittura, fiumi di acqua
viva sgorgheranno dal suo seno» (Gv 7,37-38).
Nella nuova Gerusalemme l’acqua viva, acqua pura di sor-
gente che fa vivere, scaturisce da Dio e dall’Agnello immolato.
Si realizza la solenne promessa: «A colui che ha sete darò gra-
tuitamente acqua della fonte della vita» (21,6; cf. Is 55,1; vedi
anche Ap 22,17). L’Agnello immolato e risorto è il pastore che
conduce il suo gregge «alle fonti delle acque della vita» (7,17).
Secondo Ezechiele, «lungo il fiume, su una riva e sull’altra,
crescerà ogni sorta di alberi da frutto» (Ez 47,12). Ora, nella
città santa cresce lo stesso «albero della vita» (22,2), quello
«che sta nel paradiso di Dio» (2,7; cf. Gen 2,9). Con il ritorno
alla santità e alla felicità delle origini e con la vittoria sulla
morte si compie la promessa divina e si realizza la speranza
dell’umanità. L’albero (non una singola pianta, ma un grande
numero, quasi un parco, dal momento che l’albero si trova
«in mezzo alla piazza della città e da una parte e dall’altra del
fiume»: 21,2) offre in tutte le stagioni i suoi frutti salutari: «Dà
dodici raccolti e produce frutti ogni mese». Le sue foglie sono
il divino antidoto contro ogni malattia: «Servono a guarire le
nazioni» (ivi).

La felicità dei santi


I tratti paradisiaci che descrivono la nuova Gerusalemme
convergono verso un elemento centrale, che la voce dal trono
così indicava: «Ecco la dimora di Dio con gli uomini. Egli di-
morerà con loro ed essi saranno suo popolo ed egli sarà il Dio
con loro» (21,3). Si riconosce la formula dell’alleanza (cf. Ez
36,28), strettamente associata al tema dell’abitazione divina,
come in Lv 26,11-12 («Stabilirò la mia dimora in mezzo a voi
[...]. Camminerò in mezzo a voi, sarò vostro Dio e voi sarete il
mio popolo»). Questa alleanza ha i colori dell’amore paterno e
della comunione sponsale: «Io sarò il suo Dio ed egli sarà mio
figlio» (21,7); la città santa è «la sposa dell’Agnello» (21,9). E,
dove Dio è presente come alleato, padre e sposo, non c’è più
posto per la sofferenza e la morte: egli «tergerà ogni lacrima

286
dai loro occhi; non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento,
né affanno, perché le cose di prima sono passate» (21,4); «non
vi sarà più maledizione» (22,3).
Dunque un paradiso ritrovato; meglio, il paradiso finalmen-
te realizzato. L ’ Eden ne era una lontana e pallida prefigura-
zione. Le promesse disseminate nei testi profetici lo facevano
presagire. Ma solamente la vittoria pasquale, alla quale Cristo
associa i fedeli, lo inaugura e lo rende accessibile a tutti gli uo-
mini: «Chi sarà vittorioso erediterà questi beni» (21,7; cf. 2,7;
ecc.). Nella nuova Gerusalemme i «servi» di Dio «vedranno la
sua faccia e [...] regneranno nei secoli dei secoli» (22,3-4). Ma
in essa «non entrerà nulla di impuro, né chi commette abomi-
nio o falsità, ma solo quelli che sono scritti nel libro della vita
dell’Agnello» (21,27; cf. 14,5).

Alfa e omega
La frase: «Io sono l’alfa e l’omega», che in Ap 1,8 si incontra
sulla bocca del Cristo risorto, va intesa a partire da un contesto
preciso, che è quello della lingua greca. Sono due gli aspetti che
devono essere evidenziati. Il primo fa riferimento al fatto che
l’alfa e l’omega costituiscono rispettivamente la prima e l’ulti-
ma lettera dell’alfabeto greco. Ciò significa che il Cristo risorto
si presenta qui come l’inizio e la fine, il principio e l’epilogo di
tutta la storia. Il suo mistero sta all’origine della storia e ne rap-
presenta insieme il fine ultimo.
Vi è però un altro aspetto: l’alfa e l’omega, in quanto prima e
ultima lettera, si presentano come gli estremi di un intero, che
è appunto l’alfabeto nella sua totalità. L’espressione ricorrente
nella lingua italiana: «dalla a alla zeta», esprime bene questo
aspetto. Indicando gli estremi si indica così il tutto. Ciò significa
che il Cristo risorto si rivela qui come colui che non soltanto sta
all’inizio e alla fine della storia, ma che la sostiene, la accom-
pagna, la guida e ne custodisce il senso. Tutta intera la storia
poggia su di lui.
In altre parole, il mistero dell’Agnello glorificato abbraccia
le tre dimensioni della storia: il passato, il presente e il futuro.
Per questo motivo, in Ap 1,8, alla dichiarazione: «Io sono l’alfa e
l’omega», segue immediatamente quest’altra: «Colui che è, che
era e che viene».
(Pierantonio Tremolada)

287
TERZA PARTE

TEOLOGIA
Michele Mazzeo
________

La liturgia nell’Apocalisse

L ’Apocalisse è un libro che ha una forte dimensione liturgi-


ca. Già dall’inizio s’intravede il rapporto che intercorre fra un
lettore e un’assemblea in ascolto (1,1-8)1. Leggendo il testo, ci
si accorge come davvero nessun altro libro biblico è così ricco
di frammenti di celebrazioni liturgiche, gesti cultuali, ogget-
ti liturgici, che manifestano una vera e propria vita liturgica,
che permea il libro dall’inizio alla fine.
Per contenere e focalizzare meglio l’ambito di questa pro-
posta consideriamo tre aspetti:
— la simbolica cultuale tipica del linguaggio (liturgico) dell’in-
contro con Dio;
— i frammenti delle liturgie cristiane: il giorno del Signore,
la preghiera, l’uso del Sanctus, le allusioni all’eucaristia, la
centralità della Parola, la gestualità liturgica, il ruolo sacer-
dotale dei credenti, l’Apocalisse come fonte liturgica;
— il tipo di liturgia e teologia liturgica che emerge leggendo il
libro dell’Apocalisse.

Simbolica cultuale: linguaggio dell’incontro con Dio


L ’autore dell’Apocalisse usa un linguaggio simbolico in
sintonia profonda con il linguaggio liturgico. I simboli ci
consentono di afferrare la realtà: sono una parola di vita che
raggiunge il cuore della storia, unificano la nostra percezione
del­l’universo e consentono di esprimere nel culto la luce e le
ombre della nostra vita e di avvicinarci nel tempo al mistero
di Dio. I simboli ci insegnano chi siamo. Sono lampade con le
quali esploriamo il nostro mondo interiore. Sono una grande
1
Su questo aspetto cf. U. Vanni, Un esempio di dialogo liturgico in Apoc 1,4-
8, «Biblica» 57 (1976), pp. 453-467. Sulla dimensione liturgica in generale cf.
P. Prigent, Apocalypse et Liturgie, Neuchâtel-Paris 1964.

291
luce sul mistero di Dio e collegano la liturgia alla vita perché si
radicano nell’esistenza umana. Il simbolismo è implicito nella
stessa azione liturgica, in quanto essa è un’azione simbolica,
non solo perché si avvale di materiali e gesti simbolici, ma è
simbolica in se stessa, per il suo svolgersi. C’è un legame in-
negabile fra questi due generi letterari apparentemente così
diversi, apocalittica e liturgia, che comporta anche un modo
speciale di comunicare, di presentare e vivere il culto. I sim-
boli liturgici sono corpi viventi e l’Apocalisse costituisce un
testimone inimitabile della simbolica biblica e liturgica.

Frammenti di liturgie cristiane


L ’Apocalisse è intessuta di preghiere, inni, azioni di grazie,
gesti sacri (inchini, prostrazioni), azioni cultuali (battersi il
petto, mettersi la polvere sul capo), processioni, adorazioni,
confessioni di fede, proclamazioni e formule liturgiche (amen,
sanctus, alleluia). Sono presenti elementi liturgici (santuari,
libri, candelabri, altari, incenso, turiboli, lampade, coppe d’o-
ro, vesti), simboli liturgici come le pietre preziose, le palme; le
due lettere simboliche di Dio e di Cristo: Alfa e Omega. Sono
anche presenti i cori celesti, i canti dell’assemblea con stru-
menti musicali e religiosi, come la tromba, il flauto e l’arpa;
dialoghi liturgici; sacerdoti, fedeli che si prostrano, adorano,
pregano, cantano; frammenti di celebrazioni come «il giorno
del Signore», feste liturgiche, che alludono al culto del tempio
terrestre e anticipano quello celeste. Tutto questo manifesta
una vita liturgica che attraversa il libro dall’inizio alla fine.
Davvero «l’Apocalisse è nutrita di liturgia»2.

r Il «giorno del Signore». L ’autore dell’Apocalisse scrive il


suo libro quale rivelazione datagli «nel giorno del Signore (ky-
riake heméra)» (1,10), cioè nella domenica, il giorno della ri-
surrezione di Cristo. Questa indicazione inquadra tutta l’espe-
rienza dell’autore, serve, cioè, a datare la rivelazione avvenuta
«nel giorno del Signore». L ’aggettivo kyriakos (usato solo qui
e in 1Cor 11,20 in tutto il Nuovo Testamento) significa «dome-
nicale» ed esprime un rapporto sia al Signore che al giorno
della settimana che ne porta il nome; da qui deriva il latino
dies dominicus e quindi il nostro termine domenica. Il testo è
2
Prigent, Apocalypse et Liturgie, p. 10.

292
preziosissimo perché qualifica la domenica come giorno del
Kyrios, memoriale della risurrezione, e anche perché situa tut-
ta l’Apocalisse nel giorno liturgico per eccellenza.
r La preghiera. Leggendo l’Apocalisse si rimane colpiti dalla
quantità, ricchezza e varietà di testi oranti (cf. 1,5b-8; 4,8.11;
5,9-10.12-14; 6,10; 7,12.16-17; 11,15-18; 12,10-12; 14,7-8; 15,3-
4; 16,5-7; 18-19; 21,3-7.22-27; 22,3-5). Per l’autore la preghiera
è l’incenso vero che la comunità cristiana offre a Dio, sono le
«coppe d’oro colme di profumi che sono le preghiere dei san-
ti» (5,8). Le grandi preghiere nel libro sono come delle pause
oranti, che invitano a riflettere sul senso di ciò che viene rive-
lato e collegano le visioni alla vita dei cristiani. Hanno dunque
un intento ermeneutico. Si tratta di una preghiera matura, ca-
pace di affrontare il male, la persecuzione, i conflitti, le scon-
fitte, la violenza e persino la morte con coraggio e speranza.
Pregando con questi testi si rimane conquistati dalla loro ric-
chezza, sobrietà e dalla fede potente in Dio e Cristo che con-
ducono la storia.
r Il sacerdozio dei credenti. I cristiani nell’Apocalisse sono
detti specificamente sacerdoti: «Colui che ci ama [Cristo] ci
ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue e ha fatto di noi
un regno di sacerdoti [hiereis] per il suo Dio e Padre» (1,5b-6;
cf. 5,10; 20,6). Cristo con il suo amore e il suo sacrificio sulla
croce ha fatto di tutti i credenti un regno di sacerdoti. I cristia-
ni sono chiamati a una mediazione sacerdotale che li mette in
rapporto singolarissimo con Dio Padre e, come Cristo, devono
diventare mediatori della paternità di Dio nel mondo3.
r L ’uso del Sanctus. In Ap 4,8 Dio viene glorificato sul suo
trono dalla corte celeste con le parole: «Santo, santo, santo il
Signore Dio, l’Onnipotente, colui che era, che è e che viene!».
Parte di tale dossologia si ritrova già in Is 6,3 ed era usata
anche nella liturgia giudaica del mattino (Yotser) che collega-
va la celebrazione di Dio, in quanto creatore di tutte le cose,
alla sua santità. C’è in questo caso una relazione diretta fra
Antico Testamento, tradizione giudaica, Apocalisse e liturgia
cristiana. La dossologia o trisaghion è stata dunque ripresa,
modificata e posta nel cuore della liturgia cristiana centrale:
la celebrazione eucaristica. I fedeli si uniscono agli angeli per
3
Per un approfondimento cf. M. Mazzeo, Dio Padre e Signore. Nel libro
dell’Apocalisse, Milano 1998, pp. 19-73.

293
cantare il trisaghion. La liturgia della terra è così una parteci-
pazione al culto eterno del cielo. La collocazione del Sanctus
nella celebrazione eucaristica risulta particolarmente felice
perché «colui che viene», il venire di Dio nella storia, è Cristo!
r Allusioni all’eucaristia. Oltre al «giorno del Signore» tro-
viamo nel libro alcune allusioni all’esperienza eucaristica.
In Ap 3,20 Cristo afferma: «Ecco, sto sulla porta e busso. Se
qualcuno ascolta la mia voce e apre la porta, io verrò da lui
e cenerò con lui ed egli con me». Nel testo ci sono diversi te-
mi (la porta, l’ascolto, la voce di Cristo, la sua venuta), ma
sono tutti tesi all’incontro del banchetto: «Cenerò con lui ed
egli con me». Si tratta di un’esperienza terrena dei credenti e
il cenare indica l’esperienza che la Chiesa vive nel celebrare
l’eucaristia. Abbiamo qui, in breve, lo schema liturgico della
Chiesa primitiva: ascolto della Parola seguito dall’eucaristia.
Prigent fa del testo un commento suggestivo: «La Chiesa sa
che il Signore è vicino […] lo sente bussare alla porta. Egli vie-
ne fin dal presente e, nel convito eucaristico, è lì, mangia con
i suoi»4. Altra allusione eucaristica la troviamo in 2,17, in cui
Cristo promette: «Al vincitore darò la manna nascosta». Cristo
dona se stesso nell’eucaristia quale vera «manna nascosta»,
vero pane vivo disceso dal cielo (cf. Gv 6)5.
r La parola. La parola nell’Apocalisse ha una centralità par-
ticolare. Essa non è solo proclamata e ascoltata, ma interpre-
tata e celebrata come componente liturgica in atto. C’è una
circolarità di tipo dialogico: un io di Cristo particolarmente
evidente nella prima parte del libro (1-3), del veggente Gio-
vanni nella seconda parte (4-22), che parla, dialoga con un tu
(collettivo dell’assemblea) e un voi che crea un noi e, da qui,
nasce il dialogo celebrativo in cui lo Spirito parla oggi, perciò
Cristo invita per ben sette volte «chi ha orecchi ascolti ciò che
lo Spirito dice alle Chiese» (2,7.11.17.29; 3,6.13.22). Risplende
4
P. Prigent, L ’Apocalisse di S. Giovanni, Roma 1985, pp. 154-155. Il testo fa
parte della lettera alla Chiesa di Laodicea; per un commento più approfondito
nel suo contesto, cf. M. Mazzeo, Lo Spirito parla alla Chiesa: nel libro dell’Apo-
calisse, Milano 1998, pp. 167-231. L ’interpretazione eucaristica è sostenuta
anche da E.B. Allo (cf. Saint Jean. L ’Apocalypse, Paris 1921, p. 45) e U. Vanni
(cf. L ’Apocalisse: ermeneutica, esegesi, teologia, Bologna 1988, p. 160).
5
Un riferimento al battesimo potrebbe trovarsi in Ap 7,14-15, in cui la pu-
rificazione («lavare le vesti»), operata dal sangue di Cristo, permette ai cre-
denti di rendere un culto gradito a Dio e di entrare nella Gerusalemme celeste
(cf. 22,14).

294
nell’Apocalisse la presenza attiva di Cristo: «È lui che parla
quando nella Chiesa si legge la Sacra Scrittura» (Sacrosan-
ctum Concilium 7).
r La gestualità liturgica. L ’Apocalisse aiuta a riscoprire e a
vivere i gesti liturgici con maggiore varietà, intensità e veri-
tà, riportandoci alla fonte originaria della liturgia cristiana.
In questo senso, mentre c’è stato un notevole sforzo di ricerca
per la parte parlata della liturgia, poco si è fatto per la parte
agìta, ma la liturgia è insieme parola e gesto. L ’espressione
gestuale è la manifestazione plastica, fisica di uno stato inte-
riore acquisito. Il nostro corpo è il primo a essere coinvolto
nell’azione simbolica, perché è il luogo della relazione con la
creazione, con gli altri e con Dio. L ’anima parla nel corpo e in
questo linguaggio si manifesta tutta intera la persona. Nell’A-
pocalisse i diversi gesti presenti, come l’essere in piedi, seduti,
in ginocchio, prostrati, l’alzare le mani, eccetera, esprimono
l’atteggiamento biblico di coloro che interpretano la propria
vita come il luogo storico del trionfo di Cristo.
r Dio come il vero tempio. Nell’annuncio della nuova e defini-
tiva comunione di Dio con l’umanità, non ci sarà più bisogno
di un tempio (cf. 21,22) perché ci sarà l’incontro faccia a fac-
cia tra Dio e l’umanità: «I suoi servi l’adoreranno; vedranno la
sua faccia e porteranno il suo nome sulla fronte» (22,3b-4).
r Apocalisse come fonte liturgica. L ’Apocalisse è usata nella
più grande solennità della liturgia, quella pasquale. Giovedì
santo, nella messa del crisma, per proclamare il sacerdozio
e la regalità di tutti i credenti è utilizzato Ap 1,5-8. Sabato,
durante la veglia, nella benedizione del cero pasquale, sono
usate parole che proclamano Cristo dominatore del tempo e
dello spazio: il Cristo, ieri e oggi, Principio e Fine, Alfa e Ome-
ga (cf. Ap 1,8; 21,6; 22,13). Dalla seconda domenica di Pasqua
fino alla sesta dell’anno C la seconda lettura è tratta dall’Apo-
calisse. Il libro viene ben valorizzato nel Lezionario6 e viene
ricollocato nel suo ambito specificatamente liturgico.
6
Così pure nell’Ufficio divino. Dopo l’invito della Sacrosanctum Concilium
35.1 di «una lettura della Sacra Scrittura più abbondante, più varia e meglio
scelta», furono ripresi molti brani dell’Apocalisse. Su questo aspetto cf. A.
Charbel, L ’uso dell’Apocalisse nella liturgia del Vaticano II, «Rivista Biblica
Italiana» 27 (1979), pp. 159-169.

295
Apocalisse e liturgia: fra memoria e interpretazione
La liturgia cristiana è un’azione che si svolge nel tempo:
il presente della celebrazione, il passato dell’avvenimento ce-
lebrato, il futuro dell’effetto atteso. Ma anche il tempo è og-
getto di rivelazione perché la temporalità e la sacralità della
liturgia implicano una concezione di Dio7. Tutto è opera di
Dio, tutto può servirgli da segno e tutto può servirci a incon-
trarlo. L ’unico ostacolo viene dal libero rifiuto dell’uomo. Per
cogliere più in profondità il rapporto fra Apocalisse e liturgia
bisogna assumere il rapporto fra Scrittura e storia, così come
lo ha espresso la Dei Verbum 2: «L ’economia della rivelazione
avviene con eventi e parole intimamente connessi tra loro, in
modo che le azioni, compiute da Dio nella storia della salvez-
za, manifestino e rafforzino la dottrina e le realtà significate
dalle parole, e le parole dichiarino le azioni e chiariscano il
mistero in esse contenuto». Leggendo l’Apocalisse, ci si ac-
corge di una dinamica: c’è un evento storico (Cristo-Agnello,
morto-risorto)8 che genera la parola (interpretazione dell’e-
vento), che diventa liturgia (celebrazione).
È proprio nella liturgia che l’assemblea entra nella dina-
mica dell’evento narrato-celebrato-vissuto. Tutto il libro vuo-
le condurre i credenti nell’orbita della vita e della vittoria di
Cristo, coinvolgendoli nella sua stessa missione. La liturgia
diventa così: profetica (annuncia un evento che trasforma la
storia); drammatica (rappresenta in modo efficace il dramma
permanente del Cristo crocifisso-risorto); cosmica (include
tutta l’umanità e il creato). È stata fatta l’ipotesi che le diverse
situazioni liturgiche dell’Apocalisse mostrerebbero un aspetto
della liturgia della Chiesa9.
La Chiesa è invitata nell’Apocalisse a entrare in una litur-
gia che abbraccia cielo e terra ed è capace di rendere il non-
ancora un già presente. La Chiesa, posta tra il già della realiz-
7
L ’autore dell’Apocalisse possiede un senso particolarmente acuto di Dio e
ne presenta un volto per certi aspetti molto originale nel panorama del Nuovo
Testamento (cf. M. Mazzeo, Il volto trinitario di Dio nel libro dell’Apocalisse,
Milano 1999).
8
Nell’Apocalisse troviamo per ben ventinove volte il titolo arnion («Agnel-
lo»), un termine che riassume tutto il mistero della vita di Gesù. Su questo
aspetto cf. M. Mazzeo, La sequela di Cristo nel libro dell’Apocalisse, Milano
1997, pp. 47-63.
9
Cf. D. Mollat, La liturgia dell’Apocalisse, in L ’Apocalisse (Studi Biblici Pa-
storali, 2) Brescia 1967, pp. 141-144. I diversi aspetti sarebbero: teocentrico in
Ap 4; cristocentrico in Ap 5; comunitario in Ap 7; escatologico in Ap 21.

296
zazione della salvezza operata da Cristo e il non-ancora della
manifestazione finale, percorre il cammino del deserto tem-
porale tra la Pentecoste e la Fine come visione diretta di Dio.
L ’assemblea terrestre vive contemporaneamente due dimen-
sioni: una visibile del qui e dell’ora, e una invisibile del là e del
non-ancora. L ’autore dell’Apocalisse è un profeta e, leggendo
il libro, si nota come la sua vita si identifica con il mistero che
celebra e la sua predicazione è rivelazione di quello che vive e
compie nel culto.
Emerge una stupenda visione della Chiesa e della stessa
liturgia. La famosa espressione del concilio Vaticano II: «La
liturgia è il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e, al
tempo stesso, la fonte da cui promana tutta la sua energia»
(Sacrosanctum Concilium 10) trova nell’Apocalisse una dimo-
strazione e una conferma mirabili.

Conclusione
Ogni pagina dell’Apocalisse presenta frammenti della litur-
gia cristiana primitiva, che rivelano una vita liturgica molto
intensa. Risaltano con particolare vigore la menzione del gior-
no del Signore (o domenica) e del Sanctus, la dimensione sa-
cerdotale di tutti i credenti e la gestualità liturgica, così ricca
e piena di significato anche per il nostro tempo. Ciò che viene
narrato, celebrato, interpretato e vissuto è la persona e l’opera
di Cristo come Agnello immolato e risorto. La liturgia è vista
nel contesto dinamico della conclusione della storia della sal-
vezza, prepara e anticipa la manifestazione gloriosa di Cristo,
quando «il mistero di Dio si compirà» (10,7).

297
Pier Luigi Ferrari
________

La Chiesa nell’Apocalisse

Il libro dell’Apocalisse offre un duplice contributo per una


meditazione sul tema della Chiesa: da un lato, consente di co-
noscere la situazione delle comunità dell’Asia una quarantina
d’anni dopo le lettere di Paolo; dall’altro, svela come la comu-
nità giovannea abbia compreso se stessa. Le immagini davve-
ro suggestive scelte dall’autore sono il riflesso di questa auto-
coscienza. Meglio di qualsiasi formula astratta, esse appaiono
capaci di introdurci nel significato più profondo della Chiesa.

Il mistero della Chiesa


Una convinzione costante che la comunità giovannea espri-
me in tutto il testo dell’Apocalisse è che essa non nasce «dal
basso», come aggregazione religiosa puramente umana, ma è
opera di Dio: essa è «la donna vestita di sole» (12,1) che «di-
scende dal cielo» (21,2), è colei che l’Agnello ha fatto sua «spo-
sa» (21,9) versando per lei il suo sangue sulla croce (5,6). La
comunità di Giovanni non può comprendere se stessa se non
a partire da questa sua propria sorgente, che è in ultima ana-
lisi il mistero stesso di Dio. Confermano tale identità la ter-
minologia e le numerose immagini che descrivono la Chiesa
come l’oggetto della benevolenza del Signore.

La terminologia
Anzitutto la parola ekklesía, che nel libro designa per venti-
tré volte la realtà delle Chiese locali (cc. 2-3), esprime la con-
sapevolezza della Chiesa di essere «convocata dal Signore».
Nel greco profano il termine indica l’assemblea popolare, ma
il Nuovo Testamento, richiamandosi alla Settanta, la Bibbia
della primitiva comunità di lingua greca, usa questa paro-
la con riferimento all’ebraico qahal jhwh, che è la comunità

298
«chiamata» e «abitata» dal Signore. La realtà della Chiesa è
anche indicata con il termine «i santi». Nel Primo Testamento
Israele è detto «santo» perché Yhwh lo ha «separato» dalle
genti e ne ha fatto il «popolo di sua proprietà». A tale signifi-
cato orientano anche i termini «gli eletti» (17,14), «i chiama-
ti» (17,14; 19,9), «i riscattati» (5,9; 14,3). Con essi la Chiesa
giovannea esprime il suo rapporto originario con il mistero
dell’amore di Dio che, in modo esclusivo, l’ha chiamata a esse-
re «sua» e al tempo stesso «segno» per il mondo intero.

Amata da Dio
La contemplazione degli infiniti atti di gratuità, che il suo
Signore le riserva, offre alla comunità dell’Apocalisse le ragio-
ni più profonde della sua stessa esistenza. È stupendo il modo
con il quale Gesù stesso, nelle lettere alle sette Chiese, presen-
ta il suo rapporto d’amore con ognuna delle comunità: egli
è in mezzo ai «suoi» e al tempo stesso li sorregge con la sua
mano (2,1), è presente nella realtà della sua Pasqua (2,8), met-
te in atto per la Chiesa la forza irresistibile della sua «spada
a due tagli» (2,13), possiede e dona la pienezza dello Spirito
(3,1), tiene la chiave per leggere ai «suoi» il senso della storia
(3,7), è l’Amen, cioè la fedeltà di Dio alle sue promesse (3,14).
La stessa dinamica troviamo nella promessa dei doni «ai vin-
citori»: con essi Cristo offre ai credenti un futuro saldamente
fondato sulla sua fedeltà: la «sua» Chiesa ha accesso all’albe-
ro della vita (2,7), le sono donati la manna e un nome nuovo
(2,17), è fatta sedere accanto a lui nel suo stato glorioso (3,21).
Anche nella scena della visione del trono (cc. 4-5) la Chiesa
scorge il significato più profondo dell’amore che Dio le riser-
va: «Colui che è seduto sul trono» si occupa della sua Chie-
sa in modo efficace (4,1-11); il libro «sigillato con sette sigil-
li» rassicura la Chiesa che il suo cammino non potrà essere
soggetto alle tragiche fatalità del destino, perché saldamente
tenuto nella destra di Dio; nell’Agnello essa può contemplare
colui che «ci ha riscattati per Dio con il suo sangue» (5,9), ci
ha fatti «suoi» e per questo introdotti nella sacralità cultuale
divina (5,10).

Il nuovo popolo di Dio


Il concetto di «popolo di Dio», che all’origine esprimeva
l’unità nazionale e religiosa d’Israele (cf. Es 6,6b), è stato uti-

299
lizzato nel Nuovo Testamento per connotare in modo efficace
la coscienza escatologica della Chiesa. Anche la comunità gio-
vannea esprime questa consapevolezza.

In continuità con il popolo d’Israele


La Chiesa dell’Apocalisse si comprende a partire dal pro-
cesso storico che l’ha istituita, cioè in una continuità ideale
con il popolo eletto, del quale si sente l’erede. L ’autore ne par-
la come se il rapporto «Yhwh-Israele», che ha caratterizzato il
Primo Testamento, fosse ora tutto confluito nella nuova realtà
«Cristo-Chiesa». Basteranno alcune delle numerose immagini
proposte dall’Apocalisse per farci cogliere la straordinaria ric-
chezza di questo confronto: come l’antica comunità d’Israele,
anche la Chiesa ha compiuto spiritualmente il suo esodo nel-
la Pasqua di Gesù, che l’ha resa suo «popolo» esclusivo; egli
ha «riscattato» gli uomini «con il suo sangue» e con essi ha
costituito il nuovo popolo come «regno di sacerdoti» (1,5-6);
la Chiesa è la comunità dei «segnati delle dodici tribù d’Israe-
le» (7,4-8), nutrita nel deserto come il popolo eletto (12,6.14),
miracolosamente preservata per l’intervento di Dio (Is 40,31;
Ap 12,6); essa è la sposa dell’Agnello (19,7) perché rivive quel
mistero d’amore espresso nell’intensa metafora sponsale (cf.
Os 2,4-25; Ger 2,2-3; Is 61,10). Se la Chiesa dell’Apocalisse si
sente, come l’antico Israele, in uno stato di elezione che la ren-
de «separata» dalle genti, questo non è per affermare un pri-
vilegio, ma solo in vista di una missione di salvezza per tutti i
popoli.

Un popolo radunato nel giorno del Signore


La trama letteraria dell’Apocalisse è tutta impostata su
un’assemblea radunata in una grande liturgia. Si offrono testi
e immagini che riflettono probabilmente usi e preghiere litur-
giche delle Chiese di tradizione giovannea. È soprattutto in
questo «raduno» che la Chiesa prende consapevolezza di esse-
re il «popolo» di Dio. Questo popolo, radunato «nel giorno del
Signore» (10,10), è consapevole di avere come guida lo Spirito
(3,22). Secondo la promessa di Gesù, egli aiuta la Chiesa a
purificare se stessa sottomettendosi al giudizio risanante di
Cristo risorto. È ancora nel contesto della preghiera liturgica
che la Chiesa riceve la rivelazione, l’ascolta, l’approfondisce,
la medita, le è data sapienza per leggere i segni dei tempi e

300
valutare la sua ora storica; radunata in preghiera, scopre la
presenza attiva di Cristo che sta in mezzo a lei ed esercita nei
suoi confronti un perenne servizio sacerdotale (1,14b); nel
contesto del raduno orante matura la sua risposta di fede, tut-
ta improntata a viva gratitudine: «A colui che ci ama [...] a lui
la gloria e la forza per i secoli. Amen» (1,5-6).

Un popolo che cammina nella storia


È un popolo che, camminando nel tempo, avverte il peso
della propria umanità. Nell’esame di coscienza con il quale
Cristo legge nel cuore delle sue Chiese («Io so...», cc. 2-3),
emergono vivi i tratti delle comunità dell’Asia, colti nella con-
cretezza delle vicende quotidiane. Costanza, rettitudine, as-
senza di compromessi (2,3), amore riservato a lui e servizio
rivolto ai fratelli, fedeltà nelle prove (2,19) convivono con una
diminuzione di fervore e un desiderio di tranquilla convivenza
che porta al compromesso (2,12-15.24), l’ostentazione di una
«ricchezza» che in realtà è povertà (2,9), l’apparente vitalità
esterna che nasconde la morte spirituale (3,1), l’ottusità mo-
rale di chi si crede autosufficiente ma si trova in situazione di
indigenza spirituale (3,15-17). È un ritratto nel quale possia-
mo leggere l’esperienza e la condizione della Chiesa di tutti i
tempi, simul sancta et peccatrix. Per questo l’appello di Cristo
alla conversione è insistente e accorato, talvolta severo, ma è
percepito come frutto del suo amore per la sua Chiesa.

Un popolo chiamato a soffrire


C’è insistenza sull’immagine di una Chiesa messa alla pro-
va, chiamata a camminare in una storia di violenza, di ingiu-
stizia e di morte (6,3-8). Giovanni soffre a motivo della sua fe-
de (1,9) e il suo messaggio è destinato a Chiese delle quali egli
si dichiara «compagno nella tribolazione» (1,9; cf. 7,14). Alla
radice di questa sofferenza la comunità credente vede l’opera
di Satana, l’avversario (2,9.13.24; 3,9; 20,2.7), il calunniatore
(2,10; 12,9.12; 20,2.10), il serpente antico (12,9; 20,2), l’accu-
satore dei fratelli (12,10). Il pericolo mortale strappa invoca-
zioni dove la fede si coniuga con accenti d’impazienza: «Fino
a quando, Signore?» (6,10), mentre le virtù tipiche che ven-
gono indicate ai credenti sono la costanza e la perseveranza,
«l’essere fedele» anche nella sofferenza e nella persecuzione
(2,10; 3,8-10), il non avere motivi di ansietà perché c’è un «pa-

301
store» che guida «alle fonti delle acque di vita» (7,17; 22,1).
In questo impegno la Chiesa si sente in compagnia di una
schiera innumerevole composta da «coloro che vengono dalla
grande tribolazione e hanno lavato le loro vesti e le hanno rese
candide nel sangue dell’Agnello» (7,14). Sono i martiri (6,9-
11), i testimoni (11,1-13). Anche nella morte essi hanno un
ruolo attivo nel popolo di Dio. Ora essi, nella loro situazione
celeste, continuano a intercedere presso Dio e la Chiesa avver-
te la forza di questa preghiera (6,9-11).

Pellegrina verso la città celeste


È questa un’altra forte consapevolezza che percorre la co-
munità di Giovanni: vive nel mondo, ma in stato di pellegri-
naggio. Presente nell’oggi della storia, essa è al tempo stesso
proiettata verso il futuro, partecipe in tal modo al mistero del
tempo come il suo Signore, colui che è «l’Alfa e l’Omega», che
vive «ieri, oggi e sempre» (1,8; 22,13).

Chiesa terrestre e Chiesa celeste


La comunità dell’Apocalisse vive nella coscienza di essere il
popolo di Dio degli ultimi tempi. Tuttavia se «regno di Dio» in-
dica consumazione e pienezza, allora essa si sente chiamata a
prendere coscienza della distanza che ancora la separa da tale
esito glorioso. Si spiega la tensione che continua ad animarla
fino al ritorno del suo Signore, che si esprime con l’invocazio-
ne «Vieni, Signore Gesù» (22,20), tramandata anche da Paolo
nella lingua aramaica, «maranatha» (1Cor 16,22).
Questa situazione ha inciso profondamente su un gran
numero di immagini usate dall’Apocalisse. Esse coinvolgo-
no spazio e tempo. L ’immagine spaziale, il rapporto cioè tra
«quaggiù» e «lassù», può avere un’analogia con quella esisten-
te tra il Santo e il Santo dei santi nella struttura topografica
del santuario del Primo Testamento: tra le due realtà c’è con-
tiguità nel contesto della medesima area sacra. L ’immagine
temporale, la tensione cioè tra ciò che è già avvenuto e l’ancora
atteso, suggerisce un rapporto ancora più stretto. La liturgia,
situazione tipica dell’Apocalisse, fa da sintesi meravigliosa: in
essa le distanze spaziali e temporali sembrano annullate. Così
l’assemblea della terra è coinvolta nella stessa lode proclama-
ta dai cori celesti; e i beati del cielo regnano e sono sacerdoti
di Dio e di Cristo (20,4-6) vivendo in modo duraturo e perfetto

302
una condizione che appartiene al cristiano già su questa terra
(1,6; 5,10).

La donna vestita di sole


Il rapporto tra Chiesa terrestre e Chiesa celeste compare
con l’immagine del conflitto primordiale tra la donna, cioè l’u-
manità che genera la vita, e il serpente che rappresenta un
essere demoniaco. La donna è la Chiesa, Madre di Cristo, ce-
leste e terrestre: rivestita del sole della fedeltà divina (12,1ss.),
posta in una dimensione di eternità (al di sopra della luna),
ella rappresenta anche le dodici tribù d’Israele e i dodici apo-
stoli, cioè la Chiesa che vive sulla terra prima e dopo Cristo
(le dodici stelle). Questa donna «dà alla luce» il Figlio di Dio,
cioè esprime faticosamente, giorno per giorno, il suo Cristo
nel travaglio delle persecuzioni (le doglie del partorire, 12,4),
mentre il drago si studia di divorare il frutto della sua mater-
nità.
Con ardita trasposizione simbolica la comunità dell’Apoca-
lisse si identifica con la donna, la Chiesa che continuamente
nella storia «dà alla luce» il Cristo, fino a raggiungere, alla fine
dei tempi, il Cristo completo (cf. Ef 4,14). L ’estensione mario-
logica, che ha la sua fonte nei Vangeli dell’infanzia (Mt 1-2; Lc
1-2) e in quello giovanneo della morte di Gesù (Gv 19,25-27),
intensifica la forza dell’immagine.

La sposa dell’Agnello
Dopo il c. 12, l’Apocalisse abbandona l’immagine della
Chiesa madre e adotta quella della fidanzata dell’Agnello (19,
7-8; 21,9; cf. 22,17) che è poi la Gerusalemme escatologica,
«discesa dal cielo da presso Dio» e «preparata come una sposa
adorna per il suo sposo» (21,2). Il libro termina con la visione
radiosa delle nozze. Mentre la prostituta è ebbra del sangue
dei testimoni di Gesù (17,6), la fidanzata, invece, è ricolma dei
benefici dell’«agnello sgozzato» (5,6.9.12; 13,8) il cui sangue
rende candide le vesti dei cristiani (7,14). Il mistero dell’Agnel-
lo, infatti, è il mistero dell’amore che si dona, è, in ultima ana-
lisi, il mistero stesso di Dio.
Anche in questa immagine si evidenzia il rapporto tra
Chiesa terrestre e pellegrinante. La contemplazione dell’amo-
re gratuito e crocifisso dello sposo non tarda a suscitare una
appassionata invocazione nella quale si esprime tutta l’atte-

303
sa dell’amata: «Lo Spirito e la sposa dicono: “Vieni!”» (22,17).
Poiché noi non sappiamo che cosa è conveniente domandare
nella preghiera, è lo Spirito stesso che viene in aiuto della no-
stra debolezza (Rm 8,16-27). Si comprende allora perché iden-
tico è il grido dello Spirito e quello della sposa. Al loro appello
Gesù dà il suo pieno consenso: «Sì, io vengo presto!» (22,20),
confermando l’imminenza della sua visita, ricordata per ben
sette volte nel corso del libro (2,16; 3,11; 16,15; 22,7.12.17.20).

La città
Nel piano che Dio ha concepito dall’eternità, l’azione della
salvezza sfocia in una risurrezione totale, che coinvolge uomo
e cosmo. Essa si simbolizza in una città: la nuova Gerusalem-
me (3,12; 12,1-2; 21,2) immagine a lungo preparata nel Primo
Testamento mediante una crescente idealizzazione teologica e
spirituale (cf. Is 27,13; 60,1-9.11.18; Tb 14,5; Sir 36,12-13). A
quello della città si aggiungano i motivi, tipicamente profeti-
ci, dei «nuovi cieli e della nuova terra» (Is 65,17; 66,22), della
«nuova creazione» (Is 41,4; 43,18-19; 44,6) e dei «nuovi nomi»
(Is 62,2).
A questa città la Chiesa pellegrinante è invitata a rivolgere
lo sguardo. Essa ha la lucentezza incomparabile delle pietre
preziose e dell’oro puro, perché «la gloria di Dio la illumina
e l’Agnello è la sua lampada» (21,23; 22,5); è il soggiorno dei
beati e Dio abita con loro in uno scenario che rievoca il para-
diso terrestre: una presenza trasparente, che non ha bisogno
di tempio (21,22), perché Dio sta a tu per tu con l’uomo in un
clima di familiarità e di amicizia. La strada verso l’albero della
vita torna a essere accessibile (22,1-2) e le sue foglie servono
per guarire i pagani (22,2); la maledizione che era sul primo
Adamo è scomparsa per sempre (22,3).
La Chiesa di Giovanni contempla la città futura, ma al tem-
po stesso sente che già essa le appartiene. «Chi ha sete», in-
fatti, può prendere gratuitamente fin d’ora l’acqua della vita
(21,6; Is 55,1) che sgorga dal trono di Dio e dall’Agnello (22,1).
Ciò significa che questa città non si pone al termine della vi-
cenda storica, ma già tocca la nostra terra. Il libero accesso è
consentito a coloro che «hanno lavato le vesti rendendole can-
dide nel sangue dell’Agnello» (22,14; cf. 7,14), che ha restituito
agli uomini la possibilità di accedere alla vita.
Si chiude, con questa meravigliosa immagine, il dramma
grandioso della libertà umana, iniziato nel paradiso terrestre.

304
Roberto Filippini
________

La testimonianza
nell’Apocalisse

Il tema della testimonianza ha una presenza così diffusa e


un ruolo così significativo nell’Apocalisse che potrebbe dare
origine a una seconda titolazione del libro giovanneo: Apoca-
lisse o Testimonianza di Gesù.
Del resto l’espressione campeggia a tutto tondo già nel pic-
colo prologo, dove si trovano le caratteristiche e, sintetica-
mente, il contenuto di tutta l’opera:
Rivelazione di Gesù Cristo che Dio gli diede per mostrare ai
suoi servi le cose che devono presto accadere e che egli ma-
nifestò, inviando il suo angelo al suo servo Giovanni il quale
testimoniò la parola di Dio e la testimonianza di Gesù Cristo,
quanto ha visto. Beato chi legge e chi ascolta le parole di [que-
sta] profezia e osserva le cose che in essa sono scritte, il tempo
infatti è vicino (1,1-3).

Il libro si propone, dunque, come la rivelazione (apokálypsis)


che viene da Dio sull’intero corso della storia umana: questo
sembra significare la formula «le cose che devono accadere»,
attinta da Dn 2,28. La frase è ripetuta altre due volte nel cor-
so del libro (cf. 1,19; 4,1) e nell’epilogo (22,6), come a ricon-
fermare retrospettivamente lo scopo dell’opera definita per-
ciò come «parole di profezia», attuale parola di Dio rivolta ai
«suoi servi», i profeti della Chiesa. Anzi, a un intero popolo di
profeti è manifestato il piano eterno di Dio: le cose che Gio-
vanni profeta-visionario «vede, quelle che sono e quelle che
saranno dopo queste» come leggiamo in Ap 1,19.
Il tratto però che distingue questa apocalisse e profezia di-
vina da tutte le altre possibili è detto nel primo versetto: essa è
l’apocalisse cioè la rivelazione di Gesù Cristo. Egli l’ha ricevu-
ta da Dio stesso e l’ha resa nota, semantizzandola (esémanen)

305
in simboli e visioni, attraverso l’invio di un angelo a Giovanni
che a sua volta «testimoniò [emartýresen] la parola di Dio e
la testimonianza di Gesù Cristo [tòn lógon toû theoû kaì tèn
martyrían Iesoû Christoû]»: le due espressioni, che sono in
paral­lelismo sinonimico progressivo, indicano che il messag-
gio proprio di Dio arriva al servo-profeta attraverso l’azione
mediatrice di Gesù, precisamente attraverso la sua testimo-
nianza.
Questo ruolo di Gesù è riconfermato dal titolo di «testimo-
ne fedele» che gli è attribuito al v. 5 e in Ap 3,14 e va iscritto
nella teologia della testimonianza propria del Quarto Vangelo
che ha il suo climax nell’evento pasquale. Nel racconto della
passione, di fronte a Pilato, Gesù stesso proclama solenne-
mente che il suo è il regno della verità e che la sua missione
regale si realizza nella testimonianza: «Tu lo dici; io sono re.
Per questo sono nato e per questo sono venuto nel mondo, per
rendere testimonianza alla verità [ína martyréso têi aletheíai]:
chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce» (Gv 18,37). Sia-
mo nel bel mezzo della concezione cristologica e soteriologi-
ca giovannea per cui salvezza e rivelazione si identificano in
Gesù, Parola eterna di Dio divenuta storia, «piena di grazia
e di verità» (Gv 1,14), «via, verità e vita» (Gv 14,6). Innalzato
sul patibolo-trono, il Figlio dell’uomo testimonia e manifesta
al mondo l’amore del Padre (cf. Gv 3,14-16), instaura il suo
regno e attira a sé tutti gli uomini (cf. Gv 12,32).
La formula «testimonianza di Gesù» (martyrían Iesoû) di
Ap 1,2 può quindi indicare l’opera intera del Cristo che dalla
sua croce gloriosa getta luce su tutta la storia umana e per-
mette ai suoi servi di discernere, negli eventi, la volontà salvi-
fica di Dio e di affrontare prove e sofferenze nella pazienza e
nella fedeltà1. In questo senso, unita a «parola di Dio», forma
«un’espressione pleroforica della rivelazione cristiana»2 e ad-
dirittura fornisce l’identità dei discepoli di Gesù. I cristiani,
infatti, sono indicati nell’Apocalisse come «coloro che hanno
la testimonianza di Gesù» (12,17) o semplicemente «coloro
che hanno la testimonianza» (6,9). L ’uso del verbo «avere»
(échein) sconsiglia il significato di «testimonianza resa dai cri-
stiani a Gesù», mentre risulta del tutto appropriato se si tratta
della testimonianza che essi «hanno ricevuta» in consegna,
1
Cf. R. Filippini, La forza della verità. Sul concetto di testimonianza nell’Apo-
calisse, «Rivista Biblica» 4 (1990), pp. 401-449.
2
H. Strathmann, Mártys, in GLNT, vol. VI, col. 1350.

306
come un tesoro prezioso da conservare, o piuttosto come un
messaggio da custodire fedelmente e da far conoscere al mon-
do. Il possesso della testimonianza li costituisce testimoni a
loro volta: testimoni della testimonianza-rivelazione di Cri-
sto, anche a costo di subire l’emarginazione e il confino come
Giovanni relegato a Patmos (1,9) o la violenta aggressione del
dragone (12,17) e persino la morte (2,13; 6,9; 11,3; 17,6; 20,4).

La testimonianza di Gesù è lo Spirito di profezia


Bisogna fare attenzione però a non intendere «la testi-
monianza di Gesù» alla guisa di un depositum intoccabile e
immutabile di verità rivelate che i discepoli dovrebbero tra-
smettere da una generazione all’altra, come la lezione di uno
straordinario maestro. Per l’Apocalisse, l’attestare di Gesù
non è relegabile nel passato della sua vita terrena: è un evento
attuale nella Chiesa, per l’azione dello Spirito che parla attra-
verso i profeti. Come leggiamo in uno dei testi più tormentati
del libro, «la testimonianza di Gesù è lo spirito di profezia»
(19,10): la testimonianza che Gesù ha offerto e offre ai suoi
servi, che essi possiedono e che devono conservare e comuni-
care, è un’azione che ha come ultimo soggetto lo stesso Spiri-
to dei profeti: lo Spirito della profezia e della rivelazione3. Per
confermarci in questa interpretazione, possiamo ripercorrere
la sezione delle sette lettere4, al termine di ognuna delle quali
si legge: «Chi ha orecchi ascolti ciò che lo Spirito dice alle
Chiese» (2,7.11.17.29; 3,6.13.22).
Ma del resto qual è la missione e il ruolo dello Spirito nella
tradizione giovannea? In Gv 15,26 Gesù promette: «Quando
sarà venuto il Paraclito, che io manderò dal Padre mio, lo Spi-
rito di verità che viene dal Padre, egli renderà testimonianza
su di me. Ma voi pure testimonierete, perché siete stati con me
fin da principio». Il contesto in cui si inserisce questo annun-
cio è quello dell’odio del mondo (Gv 15,18-25) e delle perse-
cuzioni (16,1-4). Sembra dunque una ripresa giovannea delle
parole di Cristo nei Sinottici, sul compito che avrà lo Spirito
Santo, quando i discepoli saranno trascinati davanti ai sine-
dri e nei tribunali (cf. Mt 10,17-22; Lc 12,11-12; Mc 13,9-14).
Lo Spirito testimonia perché i discepoli possano testimonia-
3
Cf. Filippini, La forza della verità, pp. 430-432; F. Mazzaferri, Martyría
Iesoû Revisited, «The Bible Translator» 39 (1988), pp. 114-122.
4
Vedi l’ampio commento in «Parole di vita» 2/2000, pp. 12-18.

307
re; ma nel Quarto Vangelo l’opera dello Spirito non consiste
solo in un sostegno interiore alla confessione di fede in tem-
pi di persecuzione. Giovanni insiste sul carattere rivelatorio
della testimonianza dello Spirito: «Quando egli sarà venuto,
lo Spirito di verità, vi condurrà in tutta la verità; poiché non
comunicherà nulla da se stesso, ma ciò che egli ascolterà lo
comunicherà e vi svelerà le cose a venire» (Gv 16,13). In altri
termini, alla luce delle parole e dell’opera di Gesù, lo Spiri-
to darà l’intelligenza della nuova economia di salvezza, cioè
del nuovo ordine di cose uscito dalla morte e risurrezione di
Cristo. Non è precisamente questo lo scopo e lo stesso conte-
nuto dell’Apocalisse: fornire ai cristiani, in vista di un tempo
di grande tribolazione, la parola di Dio, testimoniata da Gesù,
interpretata e attualizzata nella storia dallo Spirito di profe-
zia, perché tutti ne diventino testimoni e profeti?

Testimoni, profeti, martiri


Come nell’Antico Testamento i profeti sono gli intermediari
ispirati della parola di Dio, i testimoni di Gesù sono i porta-
voce della sua rivelazione, «che lo Spirito prende e pone sulla
bocca del profeta cristano»5. D’altra parte, è proprio questo
accostamento con la profezia a muovere l’idea della testimo-
nianza verso quella del martirio. L ’immagine del profeta con-
trastato e perseguitato a causa del suo messaggio è presente
fin dal periodo classico, basti pensare a Elia, ad Amos a Isaia
e ancor più decisamente a Geremia, quasi tipo del Servo sof-
ferente. Ma è soprattutto nel periodo postesilico che la raf-
figurazione del profeta acquista lo stereotipo del martire. Al
tempo di Gesù la tradizione del profeta-martire doveva essersi
largamente diffusa, se la troviamo così solidamente attestata
in numerosi passi del Nuovo Testamento: nell’ultima beatitu-
dine di Matteo: «Così infatti hanno perseguitato i profeti pri-
ma di voi» (Mt 5,12); nel lamento di Gesù su Gerusalemme
che uccide i profeti e lapida coloro che le sono inviati (cf. Lc
13,34; Mt 23,37); nella parabola dei vignaioli omicidi (cf. Mt
21,34-36); nei «guai» contro «gli scribi e i farisei ipocriti» che
venerano, ora, i sepolcri dei profeti uccisi, un tempo, dai loro
padri (cf. Mt 23,29-32); nella conclusione del grande discorso
di Stefano in At 7,51-52: «Quale dei profeti i vostri padri non
5
G.B. Caird, The Revelation of St. John the Divine, London 19842, p. 238.

308
hanno perseguitato? Essi uccisero quelli che preannunciava-
no la venuta del Giusto, del quale voi ora siete divenuti tra-
ditori e uccisori»; e ancora in 1Ts 2,15; Eb 11,11.37; Gc 5,10.
Gesù stesso, in Lc 13,33, interpreta il suo destino nella linea
del profeta martirizzato: «è necessario che oggi, domani e il
giorno seguente io vada per la mia strada, perché non è possi-
bile che un profeta muoia fuori di Gerusalemme».
Per l’autore dell’Apocalisse, i discepoli sono di fronte a un
tempo di severa prova: si avvicina uno scontro mortale col
mondo che va affrontato assumendo coscientemente gli at-
teggiamenti spirituali più idonei. I cristiani, tutti potenzial-
mente profeti, vengono chiamati perciò a collocarsi alla loro
sequela, disponendosi a condividerne la sorte. Bisogna dire
per il tenore delle lettere alle sette Chiese (2-3) che la perse-
cuzione sembra già iniziata, con manifestazioni locali e spo-
radiche che hanno visto d’altra parte rare risposte di coerente
testimonianza, come il caso di Antipas, «testimone fedele»
fino alla morte (2,13). Chissà se l’autore del libro non voglia
anche mettere in guardia una Chiesa che, perso lo slancio
delle origini, sta assimilandosi al mondo e, assestatasi nella
storia, rischia di tradire la propria missione di «convincere il
mondo» della verità di Cristo? Nell’episodio emblematico dei
due testimoni (11,1-11)6 egli vuole annunciare che i cristiani,
compiuta la loro testimonianza, si ritroveranno bersaglio di
un’ostilità feroce: «Contro di loro farà guerra la bestia che sale
dall’Abisso, li vincerà e li ucciderà» (v. 7b). Affermando che i
testimoni saranno vinti e uccisi, l’Apocalisse vuol presentare
ai cristiani la persecuzione e il martirio come l’esito «natura-
le» della loro vocazione. La morte stessa dei testimoni diventa
però un «gesto profetico» che proclama e ripresenta nel mon-
do l’evento centrale della storia: la morte del messia crocifisso.
Come per il racconto del processo e della morte di Stefano in
At 7, così per i due testimoni di Ap 11 si ripete, in una mimesi
puntuale, la passione di Gesù. E come per Gesù, anche per i
suoi testimoni la morte non è l’ultima parola: «Ma dopo tre
giorni e mezzo, uno spirito di vita procedente da Dio entrò in
essi, e si alzarono in piedi e un grande timore cadde su quelli
che stavano a guardarli» (v. 11). Ciò che si è compiuto in Cri-
sto, continua nei suoi portavoce: può esserci un modo di co-
6
Cf. R. Filippini, I due testimoni (Ap 11,1-11), «Parole di vita» 3/2000, pp.
38-43.

309
municare più adeguato di questo in cui il mezzo si identifica
pienamente col messaggio?

La vittoria della testimonianza


ovvero la forza della verità
L ’intero libro dell’Apocalisse si può considerare una pro-
clamazione in figuris della verità ultima della storia: «Ha vinto
il leone della tribù di Giuda» (5,5). Il versetto sembra un’eco
e un commento simbolico del grido di Gesù nel Quarto Van-
gelo: «Io ho vinto il mondo» (Gv 16,33). Tutto viene a pren-
dere il suo senso e il suo valore reale. I successi e le vittorie
del dragone-Satana e dei suoi eserciti, nonostante l’orrore con
cui si realizzano e il senso di impotenza che infondono, sono
realtà transitorie e senza futuro, come leggiamo in Ap 17,14:
«Combatteranno contro l’Agnello, ma l’Agnello li vincerà, per-
ché è il Signore dei signori e il Re dei re e quelli con lui chia-
mati ed eletti e fedeli». È sottinteso «vinceranno»: si parla qui
dei cristiani che parteciperanno alla vittoria di Gesù. Ebbene,
per otto volte nel libro il Signore promette le ricompense del
regno e della nuova Gerusalemme a coloro che riporteranno
la vittoria. Proprio da questi testi (cf. anche 3,5.12; 21,7) ci
rendiamo conto che si tratta di una vittoria da riportare sulla
terra, altrimenti l’esortazione sarebbe priva di senso. Non si
tratta certamente della risurrezione, né dell’entrata delle ani-
me in cielo. La vittoria dei cristiani non consiste nemmeno in
una dominazione temporale sulle potenze politiche o religiose
e neppure conferisce una sorta di immunità, perché è detto
esplicitamente che essi saranno messi a morte dalla bestia:
abbiamo visto che «essa li vincerà e li ucciderà» (11,7), ripor-
terà su di essi, cioè, una superiorità fisica. Tuttavia, malgrado
questa sconfitta, i cristiani che sono stati messi a morte nella
persecuzione, sono chiamati «vincitori»: «Vidi pure come un
mare di cristallo misto a fuoco e i vincitori della bestia e della
sua immagine e del numero del suo nome, che stavano ritti sul
mare di cristallo» (15,2).
Ma in che cosa consiste allora questa vittoria? Non possia-
mo capirlo che accostandola alla missione della testimonian-
za. Il testo più chiaro a riguardo sembra Ap 12,10-11: «Ora si
è compiuta la salvezza, la forza e il regno del nostro Dio e la
potenza del suo Cristo. Poiché è stato precipitato l’accusatore
dei nostri fratelli, colui che li accusava davanti al nostro Dio,

310
giorno e notte. Ma essi lo hanno vinto per mezzo del sangue
dell’Agnello e della parola della loro testimonianza e hanno
disprezzato la loro vita fino alla morte». L ’accento cade nuo-
vamente sulla testimonianza come atto di comunicazione. Il
testo infatti considera la morte come la prova suprema della
parola che l’avversario vorrebbe respingere nel silenzio. Non è
nella sofferenza sopportata eroicamente o nella forza d’animo
contro la resistenza del corpo che si trova la grandezza dei te-
stimoni, ma nella loro fedeltà alla rivelazione da trasmettere.
Il dovere dei cristiani, in prima istanza, non è quello di soffri-
re, ma di proclamare a ogni costo la verità perché essa risuoni
nel mondo: qui sta la loro vittoria7.
Colui che testimonia, senza arrestarsi neppure di fronte al-
le minacce di morte, è mortalmente pericoloso per il Principe
di questo mondo e le sue armate e le vince, perché lo scontro
fra Dio e il male, pur rappresentato da immagini militari e da
sconvolgimenti cosmici, si situa in realtà al livello del contra-
sto verità-menzogna. L ’opera di Satana è infatti volta a sedur-
re l’universo intero (cf. 12,9). Il titolo di Seduttore che trovia-
mo più volte nel libro (cf. 12,9; 18,23; 20,3.8.10), esplicita le
altre denominazioni del dragone: il Serpente antico, il Diavolo
(12,9) e riprende l’indicazione del Quarto Vangelo: «Menzo-
gnero e padre della menzogna» (Gv 8,44). Il mondo, secondo
la rappresentazione di Ap 13, è come racchiuso in un incante-
simo menzognero di cui gli uomini diventano vittime e insie-
me complici. Il dragone può tranquillamente rimanere fermo
sulla spiaggia del mare, quasi fuori scena, mentre dirige la sua
guerra da dietro le quinte e le due bestie, che da lui prendono
forza e potere, agiscono per lui. La loro forza e il loro potere
non sono solo fisici: essi destano ammirazione (v. 3) e sedu-
cono (v. 14), condizionando le menti e le coscienze. Il fulcro
del sistema sta infatti in questa capacità illusionistica dei due
mostri, uno che imita diabolicamente l’Agnello immolato (v.
3), l’altro, lo pseudoprofeta, che con i suoi prodigi propagan-
distico-religiosi scimmiotta i testimoni-profeti (cf. v. 13 con
11,5) e, costruendo un’immagine della prima bestia, persuade
tutti ad adorarla; infine omologa l’umanità intera, «piccoli e
grandi, ricchi e poveri, liberi e schiavi» con un marchio senza
il quale non è possibile vivere, «comprare e vendere» (v. 17).

7
Cf. J. Comblin, Le Christ dans l’Apocalypse, Tournai 1965, pp. 165-166.

311
Perché, frattanto, a questo si è ridotta la vita: uno scambio
interminabile di oggetti per la mera soddisfazione di bisogni8.
Niente di Altro né di Ulteriore: è il mondo senza il cielo di
Dio. Difatti è solo volgendosi verso il cielo, o portandolo nel
cuore, che si può smascherare l’inganno del drago e non pie-
garsi all’ossequio dell’adorazione: «Qui sta la sapienza. Chi ha
intelligenza calcoli il numero della bestia, perché è un numero
d’uomo» (v. 18). La seduzione allora perde il suo potere: ciò
che appariva eterno si rivela provvisorio, ciò che sembrava
onnipotente si scopre limitato, ciò che veniva presentato co-
me l’unica possibilità di vita si manifesta nella sua realtà di
morte e una certa morte è preferibile all’apparenza della vita:
«Chi ha orecchi, intenda: Chi deve andare in prigionia, vada in
prigionia; chi deve essere ucciso di spada, sia ucciso di spada.
Qui sta la resistenza paziente e la fede dei santi» (vv. 9-10).
Solenne risuona il richiamo ad affrontare con calma e for-
tezza d’animo la persecuzione e la morte, tenendo presente
l’intero disegno di Dio9 in cui anch’esse ricevono un senso. La
morte dei testimoni nell’Apocalisse non è tanto il coronamen-
to di un eroismo individuale, quanto un elemento del dramma
escatologico, un episodio necessario nella storia dei progetti
divini sul mondo e si iscrive «nel dibattito fra Dio e le nazio-
ni a proposito della vera sovranità e della vera adorazione»10.
Perciò i cristiani si rifiutano di adorare ciò che sanno non es-
sere divino e si oppongono alla bestia e al suo sistema, senza
accettare la sua logica e senza rispondere alla violenza con la
violenza. Il loro unico armamento è la Parola e la testimonian-
za di Gesù: «Sanno di far parte del numero delle anime sotto
l’altare, che non è ancora completo, e di non sfuggire al dolo-
re. Essi oppongono pazienza e fede alla rabbia della bestia. È
la pazienza che vive della pazienza di Cristo (cf. Ap 3,10), ed è

8
Cf. J.Calloud, Apocalypse 12-13. Essai d’analise sémiotique, «Foi et vie»
LXXV/4 (s.a.), p. 57: «Il diritto di comprare e di vendere è una definizione
della vita, e correlativamente della morte ma in un ordine completamente uti-
litarista e senza significato. La vita e la morte al livello dei bisogni o se lo si
preferisce, la vita ridotta all’uso degli oggetti e della moneta. In luogo della
comunicazione dei soggetti, lo scambio degli oggetti. È tutto quello che è pro-
posto a questa collettività strettamente controllata».
9
Cf. B. Prete, Il testo di Apocalisse 13,9-10: una minaccia per i persecutori
o un’esortazione al martirio?, «Studi Biblici Francescani» 27 (1977), pp. 102-
118.
10
Comblin, Le Christ, pp.160-161.

312
la fede che Cristo ha testimoniato»11. I discepoli di Gesù sono
consapevoli che lo scontro si fa sempre più acuto e spietato,
senza esclusione di colpi, ma essi non possono usare le stesse
armi dell’avversario, pena il cadere sotto il suo inganno e la
sua seduzione. La loro forza è solo quella di Gesù, la forza
della verità. Proclamando che la storia è ormai stata giudica-
ta da Dio nel Crocifisso e che proprio quell’uomo, agli occhi
del mondo sconfitto e fallito, ne è l’unico criterio di senso, i
testimoni dichiarano impotenti e nulli gli sforzi dell’antico
Serpente e nella propria morte rendono presente l’amore sof-
ferente e sovversivo di Cristo, il suo regno che non è di questo
mondo. Essi stessi diventano il luogo in cui la sconfitta del
male e il giudizio escatologico sono anticipati ed è in loro che
Gesù Signore regna. I testimoni vincono e regnano con il Si-
gnore, per l’atto stesso della loro testimonianza che trasforma
tutta la loro vita, e persino la loro morte, in vittoria.

11
H. Schlier, Il tempo della Chiesa, Bologna 1965, p. 41. Interessante a
riguardo della fede il testo di Ap 14,12: «Qui sta la pazienza dei santi che os-
servano i comandamenti di Dio e la fede di Gesù». Anche qui bisognerebbe
chiedersi: genitivo soggettivo od oggettivo? E che rapporto ha questa formula
con martyría Iesoû? Non hanno forse lo stesso contenuto?

313
Arcangelo Bagni
________

L ’idolatria nell’Apocalisse

Il tema dell’idolatria pervade tutta l’Apocalisse. Ci soffer-


miamo, innanzitutto, su alcuni testi che appaiono più signifi-
cativi. Verificheremo poi come il tema dell’idolatria interpelli
il credente e la comunità di oggi.

I diversi volti dell’idolatria


Le lettere alle Chiese (cc. 2-3) evidenziano problemi posti
dalle religioni pagane in genere e in particolare dal culto im-
periale. La Chiesa di Efeso, ostile ai nicolaiti, ha sofferto per
il nome di Cristo (2,3); la Chiesa di Smirne, opponendosi agli
eretici satanici, cammina verso la persecuzione e la possibile
morte (2,10-11). Nella Chiesa di Pergamo (2,12-17) abbiamo
l’accenno al «trono di Satana» e la definizione della città come
luogo «nel quale Satana ha la sua dimora»; essa diventa, co-
sì, l’immagine della città che si contrappone a Gerusalemme
e al suo tempio dove si trova il «trono di Dio». La Chiesa di
Tiatira (2,18-29) è alle prese con il problema delle carni immo-
late agli idoli, che Giovanni definisce «prostituzione» e, poco
dopo, «adulterio», parole spesso usate nell’Antico Testamento
per denunciare le pratiche idolatre di Israele (Gdc 2,17; 8,27-
33; Os 2,3; Ez 16,23). Nell’Apocalisse la parola prostituzione
è associata alla bestia e al culto che le viene tributato (14,8;
17,1-5; 18,3.9; 19,2). Anche la Chiesa modello di Tiatira deve
guardarsi da qualsiasi pratica religiosa idolatra ed è chiamata
a rifiutare qualsiasi prostituzione, intesa come sottomissione
al culto tributato all’imperatore.
È pure presente la tentazione della gnosi: i nicolaiti (2,3ss.)
pensavano di essere detentori di rivelazioni particolarmente
elevate, relative ai segreti più arcani dei disegni divini. Ma
tale ricerca è definita «profondità di Satana». La tentazione
gnostica diventa, infatti, una forma di idolatria, nella quale si

314
pensa che la salvezza possa essere ottenuta mediante la sem-
plice conoscenza di rivelazioni occulte, senza alcuna esigenza
di conversione.
Nella Chiesa di Sardi (3,1-6) abbiamo «alcune persone [...]
che non hanno macchiato le loro vesti». Nel Nuovo Testamen-
to il verbo «macchiare» viene usato solamente tre volte, di cui
due nell’Apocalisse (qui e in 14,4). In 14,4 è usato in riferimen-
to ai 144 mila che «non si sono macchiati con donne». La me-
tafora è chiara (cf. 1Cor 8,7): la contaminazione deriva dalla
partecipazione a pratiche idolatre.
Alla fine della pericope della sesta tromba (9,13-21) è illu-
strata la reazione degli abitanti della terra che, scampati allo
sterminio, non rinunciano ad adorare i loro idoli e non si con-
vertono dalle loro malvagità (vv. 20-21). Anziché accogliere i
segni e convertirsi, preferiscono bestemmiare il nome di Dio,
ingiustamente incolpato di tutto ciò che accade. Demoni e
idoli fanno, nel nostro testo, partito unico. L ’incapacità degli
idoli di vedere, capire e camminare appartiene alla tradizione
biblica (Sal 115,5-7; Lettera di Geremia). Significativa è, poi,
la radice idolatra di certi comportamenti umani: assassini,
sortilegi, adultèri. Su questo ritorna, più avanti, l’Apocalisse
(21,8; 22,15): la pratica dell’idolatria e delle sue opere diventa
lo spartiacque tra i cristiani e il resto degli uomini che sono
soltanto pagani idolatri.

I due testimoni
Il c. 11 pone in scena i due testimoni e la bestia che sale
dall’Abisso e che combatte contro di essi; li vincerà e li ucci-
derà. Ma questi, al soffio vitale di Dio, si alzeranno in piedi
(11,1-14). Merita attenzione l’atto di misurare che indica se-
parazione e preservazione: qui, il tempio, l’altare e quanti vi
fanno adorazione sono distinti, separati dagli altri. In questo
contesto di separazione e di lotta si collocano i due testimoni
che sono stati vinti e uccisi dalla «bestia che sale dal mare».
La stessa immagine è presente più avanti (c. 13), e indica le
forze demoniache che trovano la propria incarnazione storica
nello stato pagano che si fa adorare.
L ’espressione «grande città» è, nell’Apocalisse, applica-
ta sempre a Babilonia-Roma (11,8; 16,19; 17,18; 18,10; 14,8;
17,5; 18,2). La precisazione: «Là dove il Signore è stato croci-
fisso» obbliga a identificare la «grande città» con Gerusalem-

315
me, ma Giovanni precisa che essa simbolicamente si chiama
Sodoma o Egitto. Questa sovrapposizione di immagini ci pone
in una prospettiva teologica e non geografica, con una duplice
sottolineatura. La prima è che la corruzione, il paganesimo,
l’ostilità verso Dio e i suoi servi sono le molteplici forme che
l’idolatria assume: esse non appartengono a un solo luogo ma
si incarnano ovunque; infatti, la storia nella quale i cristiani si
trovano a vivere è, allo stesso tempo, il luogo santo nel quale i
fedeli adorano Dio e il luogo dell’azione di Satana. La seconda
sottolineatura: se teniamo presente il valore simbolico dell’E-
gitto (in modo particolare nei salmi), i due nomi «spirituali»
qualificano la città come luogo nel quale gli uomini di Dio non
possono incontrare altro che ostilità (cf. Mt 23,28-31.37ss.; Lc
13,33ss.; 21,20-24).
Gli abitanti della terra che rifiutano Dio e i suoi servi fanno
festa (v. 10) contemplando i cadaveri dei testimoni: essi gioi­
scono perché hanno eliminato i profeti ritenuti insopporta-
bili. Ma la persecuzione e l’esecuzione dei martiri non deve
essere interpretata come una sconfitta definitiva. L ’illusione e
la vacuità dell’idolatria sono ben espresse nel modo di narrare
di Giovanni: passato, presente e futuro sono già sotto il giudi-
zio dell’Agnello (cc. 4-5). La stessa indeterminatezza dei due
testimoni va collocata in questa prospettiva: la Chiesa di ogni
tempo, attuando il suo discernimento spirituale, è chiamata a
dare un nome sempre nuovo a queste figure che la caratteriz-
zano.

Le due bestie
Al c. 13 due bestie sono in primo piano nella scena: «La
bestia che sale dall’Abisso» e «la bestia che sale dalla terra»
(v. 11). Sono simili e diverse allo stesso tempo, ma insepara-
bili e associate l’una all’altra. La descrizione iniziale (vv. 2b-4)
forma un quadro che fa da contrappunto alla duplice liturgia
celeste in onore di Dio e dell’Agnello (cf. cc. 4-5): in ambedue
i quadri si parla di trono e di potere trasmesso. Tutta la terra è
presa da ammirazione e «andò dietro alla bestia e gli uomini
adorarono il dragone perché aveva dato il potere alla bestia e
adorarono la bestia».
La prima bestia, quella che sale dal mare è l’incarnazione
storica del dragone e il dragone è la sua potenza, il suo trono
e la sua autorità (13,2b). Essa è descritta nei suoi tratti essen-

316
ziali di modo che il discepolo sappia identificarla e ricono-
scerla nelle molteplici situazioni della storia («Chi ha orecchi,
ascolti!»). Le parole con le quali gli uomini esprimono la loro
adorazione sono evidentemente modellate sulle preghiere e
sulle lodi rivolte all’unico Dio dai suoi fedeli (Es 15,11: «Chi è
come te?», Dt 3,24; Sal 86,8; 113,5) o sulle proclamazioni dei
profeti che parlano in suo nome (Is 40,25; 44,4: «Chi è simile
a me?»). È importante rilevare che in tutti questi testi dell’An-
tico Testamento è sempre in gioco la polemica contro gli dèi
e gli idoli falsi: gli uomini, confessando il carattere incompa-
rabile della bestia che adorano, affermano e proclamano che
essa occupa il posto riservato a Dio stesso. Ma l’impresa della
bestia si presenta anche come una parodia della venerazio-
ne e del culto tributato a Dio e all’Agnello: «Tutta la terra [...]
si mise ad adorare il dragone [...] e adorarono la bestia» (si
confronti con i cc. 4-5). Il suo potere e la sua autorità si mani-
festano su tutta la terra, allo stesso modo che il regno di Dio.
Ma si tratta di una potenza ricevuta da Satana e non da Dio;
ed è proprio questa la potenza che Gesù stesso nella sua vita
terrena aveva rifiutato (cf. Lc 4,6-7). Come si manifesta? Ecco
i suoi tratti: «L ’arroganza e la bestemmia, cioè l’intolleranza
di Dio e la volontà di mettersi al suo posto (13,6), la pretesa
di essere adorata, vale a dire la pretesa di un’adesione totale
e incondizionata, una volontà di dominio universale (13,7b),
che è il sogno di tutte le idolatrie, da Babele in poi; la persecu-
zione contro tutti coloro che ne ostacolano il dominio o, più
semplicemente, che si sottraggono alla sua adorazione» (B.
Maggioni).
La seconda bestia (13,11-18) viene a completare quella che
è stata chiamata «la trinità satanica» (il dragone e le due be-
stie). Essa può agire solo per conto della prima e a servizio di
essa (vv. 12 e 14) e ha il ruolo di istigare «tutta la terra e tutti
i suoi abitanti a venerare la prima bestia» (vv. 12.14.15). D’o-
ra in poi Giovanni la chiamerà «falso profeta» (16,13; 19,20;
20,10). La bestia seduce gli abitanti della terra: questa è l’azio-
ne stessa di Satana (Ap 12,9; 20,3.8.10) e della Roma imperia-
le (18,23). Poco più avanti (19,20) viene utilizzata una formula
interessante: il falso profeta ha sedotto con i suoi prodigi quel-
li che avevano ricevuto il marchio della bestia e ne avevano
adorato l’immagine. Si crea paradossalmente un circolo vizio-
so: i miracoli della bestia, segni ambigui come tutti i miracoli,
ingannano soltanto coloro che adorano l’immagine e portano

317
il marchio idolatra. Accogliere questi miracoli significa mani-
festarsi come adoratori della bestia. Questo può accadere solo
a quanti non sono segnati con il sigillo di Dio (Ap 7,2; 9,2).

Lotta e trionfo
La visione dell’Agnello e degli eletti (c. 14) ci dice che questi
si sono sottratti al fascino dell’idolatria delle due bestie e del
dragone. Nella loro bocca non c’è menzogna. Nella Bibbia la
menzogna esprime spesso l’idolatria; non solo in quanto infe-
deltà e prostituzione verso i falsi dèi, ma anche e soprattutto
perché ciò implica l’adorazione dei vari idoli che, alla radice,
sono soltanto delle nullità.
Il messaggio dell’angelo (14,6-13) annuncia il giudizio di
Dio sulla vicenda umana quale vangelo eterno e per tutti: l’ab-
bandono dell’idolatria e l’adorazione all’unico Dio chiamano
in causa gli uomini e propongono un messaggio valido per
tutti. Il centro del messaggio è semplice: la potenza idolatra
che si ritiene intoccabile è, in realtà, già caduta. L ’annuncio
della caduta di Babilonia (14,14-20) libera tutti gli uomini dal-
le loro illusioni. È il momento ultimo e definitivo che svelerà
in pienezza ciò che già accade nella storia: gli idolatri sembra-
no avere la meglio, in realtà sono già giudicati.
Il canto di vittoria (c. 15) è modellato sullo schema dell’e-
sodo non tanto perché Giovanni attribuisca il cantico dei vit-
toriosi a Mosè, quanto piuttosto perché è lo stesso cammino
di liberazione che si attua. Ma c’è una differenza rispetto al
Mare delle Canne: non occorre più fare la traversata del mare
perché la vittoria è già acquistata da Cristo, morto e risorto,
vero Mosè che attua il vero esodo: la liberazione dal potere del
mondo e da tutte le sue seduzioni.
La descrizione delle sciagure escatologiche che colpiscono
l’umanità (c. 16) ha lo scopo di introdurre il racconto del giu-
dizio su Babilonia (cc. 17-18). Un dato solo ci interessa: nei
confronti delle sciagure che colpiscono l’umanità sono messi
a confronto due modi di leggere la stessa realtà. La lettura
secondo la parola di Dio (la voce dell’angelo, l’altare, la voce
che proviene dal tempio) e quella fatta da chi non si pone in
una prospettiva di fede (descritta nella reazione degli uomi-
ni). La prima vede nelle varie sciagure e nel crollo della città
il giudizio di Dio e del suo disegno. Diametralmente opposta
è la lettura degli increduli. Tre volte il testo dice: «Si misero

318
a bestemmiare» (16,9.11.12). Gli increduli, gli idolatri «non
negano che le sciagure vengono da Dio: questo lo ammettono.
Negano però che si tratti di una giusta punizione, non rico-
noscono che si tratta della logica conseguenza di ciò che essi
hanno costruito. Danno la colpa a Dio e non a se stessi, e di
conseguenza non comprendono che l’unico modo per salvarsi
è un cambiamento radicale. È una cecità che prima di essere
intellettuale è morale» (B. Maggioni).

Babilonia è caduta!
I due capitoli sulla caduta di Babilonia (cc. 17-18) sono
strettamente legati dal punto di vista della duplice simbologia.
Infatti Babilonia è rappresentata sotto le sembianze di una
meretrice (17,1-7.15-16; 18,3.9) e sotto le sembianze della cit-
tà (17,5.18; 18,2.4.10.16.18-19.21). Il tema dell’idolatria perva-
de tutto il c. 17. Tre i simboli maggiori: la donna, la bestia, i re.
L ’Apocalisse descrive tre donne: la donna vestita di sole (c. 12),
la sposa dell’Agnello (c. 22) e la donna prostituta del nostro ca-
pitolo: quest’ultima è l’antitesi delle prime due. Il termine pro-
stituta è la designazione più frequente (17,1.2.4.5.15.16) che
serve a svelare il contrasto tra apparenza (la preziosità delle
vesti e dei gioielli) e la meschinità della realtà (prostituzione e
oscenità). All’esterno, il lusso e l’opulenza; all’interno, il vuoto
e la violenza.
Secondo l’Apocalisse la tecnica dell’idolatria (e di Satana) è
sempre la stessa: il mascheramento; così come la sua radice:
la pretesa di atteggiarsi a Dio, la volontà di dominio, il lusso
sfacciato. Dietro le apparenze attraenti, Giovanni vede la falsi-
tà (l’idolatria), dietro l’ostentata sicurezza, l’imminenza della
disfatta. Perché? Perché l’idolatria si regge su valori inconsi-
stenti (vesti preziose, gioielli...), sull’intolleranza (ubriaca del
sangue del popolo di Dio e dei suoi martiri), sul dominio (eser-
cita la regalità su tutti i re della terra). Così la bestia svela tutto
il suo fascino, ma anche tutta la sua inconsistenza: «Attira i
re nella propria orbita e offre loro un regno, ma è per poco: in
realtà li sottomette e li trascina in una sconfitta irrimediabile.
La bestia sorregge la città idolatra ma poi l’abbandona, le si ri-
volta contro e la distrugge. Il sistema divora se stesso, gli idoli
si rivoltano contro i loro adoratori» (B. Maggioni).
La caduta di Babilonia (c. 18) è la sconfitta ultima e de-
finitiva dell’idolatria. L ’intero capitolo è come un’antologia

319
di canti con i quali i profeti hanno accompagnato le diverse
cadute di città quali Ninive (Na 3,4), Tiro (Is 23; Ez 26-28),
Edom (Is 34,8-14), la stessa Gerusalemme (Ger 7,34; 16,9) e,
in modo particolare, Babilonia (Is 13,20-22; 21,9; 47-48; Ger
25,27; 50-51). Tutti questi testi ci presentano l’idolatria non
solo come rifiuto di Dio ma anche come esaltazione arrogan-
te del benessere, dello sfrenato consumo, della potenza che
hanno caratterizzato la vita di queste città. Se Babilonia cade
significa che la menzogna, l’idolatria e la violenza non porta-
no a nulla. Così le parole dei profeti si sono avverate: i lettori
dell’Apocalisse devono essere certi che anche queste parole si
compiranno.

La vittoria del Risorto


La vittoria del Risorto (cc. 19-20) è celebrata dalla comuni-
tà che risponde alla lode con un solenne «Amen»: ora è il tem-
po della lode della Chiesa. Nella nuova Gerusalemme (21,1-
22,5), al centro sta il trono di Dio: egli solo ha diritto di si-
gnoria nella città dell’uomo, perché solo il trono di Dio libera
e riunisce. Non davanti ai troni degli dèi ma davanti al trono
di Dio l’uomo deve chinarsi. I vari troni umani sono lo sforzo
dell’idolatria illusoria e condannata. È Dio che ora parla per
dire: «Faccio nuove tutte le cose». Il rinnovamento della crea-
zione è possibile: la pienezza è futura ma la sua anticipazione
è una realtà presente («faccio»).
Mentre la città idolatra (Babilonia) ostentava i propri gio-
ielli e pretendeva di risplendere di luce propria, la nuova città
splende solo della luminosità di Dio e in essa non c’è più al-
cuna forma di idolatria. Il fiume dalle acque abbondanti ri-
chiama la simbologia di Genesi (c. 2) e viene rielaborata alla
luce di un testo di Ezechiele (c. 47): l’acqua ora scaturisce dal
tempio, cioè da Dio. In tal modo l’Apocalisse non ci proietta
verso la nostalgia di un paradiso perduto ma verso la speranza
in un mondo che sta già nascendo. Il libro si chiude (22,6-20)
proclamando la certezza che solo la parola di Cristo è vitto-
riosa, e che i martiri sono i veri protagonisti della storia. Tutte
le idolatrie, che sono poi anche la causa di molte contraddi-
zioni della storia, sono già giudicate. Di qui il pressante invito
ad abbandonare le città idolatre, i loro modi di vivere, le loro
false certezze. In questa prospettiva e con questa certezza i
credenti possono dire: «Amen. Vieni Signore Gesù!».

320
Una rilettura
Un’attenta e approfondita rilettura dei testi esaminati ci of-
fre almeno una triplice indicazione.

r Innanzitutto l’idolatria chiama in causa l’uomo nel suo rap-


porto con Dio. Collocandosi nella prospettiva idolatra, l’uo-
mo afferma di fatto di credere in un Dio diverso dal Dio bibli-
co. All’origine sta la pretesa dell’uomo di catturare Dio dentro
i propri schemi, un Dio che risponda alle domande dell’uomo,
che si manifesti secondo tempi e modi che l’uomo si attende.
Rifiutando Dio, l’uomo cerca di diventare libero, padrone del-
la propria storia. Ma la Bibbia attesta che se non si serve il
Dio biblico ci si trova necessariamente al servizio di altri dèi e
in definitiva si finisce per attribuire la salvezza alle opere del­
l’uomo.

r In secondo luogo, l’idolatria chiama in causa l’uomo e il suo


agire. L ’uomo idolatra non si accetta più creatura e fratello.
Non più creatura perché, prendendo il posto di Dio, vorrebbe
decidere lui ciò che conta e ciò che fa la storia. Così facendo
egli rinnega anche la fraternità: abbiamo notato, infatti, come
le opere dell’idolatria chiamino sempre in causa i rapporti con
gli altri. Idolatria e sopraffazione sembrano andare di pari
passo.

r Infine, è in gioco il senso della storia. Ogni pagina dell’Apo-


calisse ci propone una lettura della storia compresa alla luce
del Crocifisso-risorto (c. 4-5), unica chiave di lettura. Se, anzi-
ché guardare al Dio crocifisso, si guarda ad altri dèi, anche il
senso della storia è diverso. Le sofferenze, le lotte, le sconfitte
non sono più lette alla luce della vicenda della croce-risurre-
zione (il regno è già presente e vittorioso) ma sono viste come
una smentita della via della croce. Ecco allora la tentazione
del potere, del servizio al potere, della certezza che il potere,
che appare forte e vincente, sia la vera chiave di lettura del-
la storia. L ’idolatria diventa, in ultima analisi, una smentita
della croce, una sfiducia nell’amore di Dio e un concepire la
propria esistenza non in termini di donazione e servizio ma di
potere e prevaricazione. E mille sono i volti con i quali essa,
secondo questa logica, tenta oggi il credente e le comunità cri-
stiane.

321
Attilio Gangemi
________

«L ’albero della vita»


nell’Apocalisse

È noto che alla fine delle sette lettere – indirizzate nell’Apo-


calisse dal Signore Gesù o dall’autore per lui alle sette Chie-
se –, dopo un messaggio personalizzato a ciascuna Chiesa che
rispecchia la sua concreta situazione, è introdotta la promessa
di un premio riservato al vincitore. Al vincitore della Chiesa di
Efeso è promesso di poter mangiare dell’albero della vita che
è nel paradiso di Dio. Non si tratta perciò di mangiare di un
albero qualsiasi ma, precisamente, «dell’albero della vita», che
l’autore specifica con due articoli e che identifica con quello
«che è nel paradiso di Dio»1.
L ’espressione «l’albero della vita che è nel paradiso di Dio»
è chiara e oscura insieme. Per l’autore quell’albero è una real­
tà ben determinata e per i suoi ascoltatori verosimilmente
ben nota. Per i lettori seguenti invece non è priva di una certa
oscurità, tanto più che né nel contesto immediato né altrove
nel suo libro l’autore parlerà di «paradiso» o di mangiare da
un simile albero della vita. Gli antichi interpreti spiegarono
diversamente l’espressione; alcuni, in maniera più simbolica,
videro in quest’albero un’allusione a Cristo (Beda, Strabone)
altri anche alla sapienza del Padre (Alcuino). L ’espressione ri-
mane indubbiamente misteriosa e affascinante, bisogna per-
ciò ricercare nella letteratura precedente.

Fonti veterotestamentarie
Sia l’espressione «albero della vita», sia il verbo mangiare,
sia anche il termine paradiso ci rimandano ai cc. 2-3 del libro
della Genesi. In Gen 2,8 leggiamo: «Il Signore piantò un giar-
1
Cf. A. Gangemi, L ’albero della vita (Ap 2,7), «Rivista Biblica» 23 (1975),
pp. 383-397.

322
dino in Eden e quivi pose l’uomo che aveva formato». Nel v.
9 poi il testo menziona in particolare tre specie di alberi: «il
Signore Dio fece germogliare ogni specie di alberi piacevoli
a vedersi e buoni da mangiare, l’albero della vita in mezzo al
giardino e l’albero della conoscenza del bene e del male». I tre
alberi così sono: gli alberi piacevoli a vedersi e buoni da man-
giare, l’albero della vita e l’albero della conoscenza del bene e
del male. Possiamo però notare che in questo verso il mangia-
re non è riferito all’albero della vita, ma agli alberi piacevoli a
vedersi e buoni da mangiare.
In Gen 2,17 è evocata invece la proibizione che Dio dà
all’uomo: «Dell’albero della conoscenza del bene e del male
non puoi mangiare, perché, nel giorno in cui tu ne mangerai,
certo morrai». La morte è la logica conseguenza di quel man-
giare. Ma ancora una volta questo è riferito, nella forma nega-
tiva di una proibizione, non all’albero della vita bensì all’albe-
ro della conoscenza del bene e del male.
La relazione tra il mangiare e l’albero della vita è espressa
invece in Gen 3,22: «E disse il Signore: ecco, l’uomo è diventa-
to come uno di noi nella conoscenza del bene e del male; ades-
so non stenda la sua mano, prenda dell’albero della vita, ne
mangi e viva in eterno». In Gen 3,22 così si stabilisce, pur nella
forma negativa di una interdizione, una diretta relazione tra
l’albero della vita e il mangiare. I vv. 23-24 accentuano ancora
di più questo impedimento narrando che, dopo avere cacciato
l’uomo dal giardino dell’Eden, Dio pose dei cherubini che cu-
stodissero l’accesso all’albero della vita. Mangiare dell’albero
della vita, secondo il testo di Gen 3,22, vuol dire vivere in eter-
no e proprio questo Dio impedisce all’uomo.
Troviamo così nel testo genesiaco tutti gli elementi essen-
ziali che costituiscono la nostra espressione in Ap 2,7. In par-
ticolare troviamo il verbo mangiare, che si legge tre volte ri-
ferito alle tre categorie di alberi: in 2,9 è riferito agli alberi
piacevoli a vedersi e buoni da mangiare, in 2,17, in maniera
negativa di proibizione, all’albero della conoscenza del bene
e del male, in 3,22 riferito, ancora in maniera negativa di im-
pedimento, all’albero della vita. Il testo di 3,22 perciò diretta-
mente accosta il mangiare all’albero della vita. Possiamo allora
concludere che, per formare la sua espressione di Ap 2,7, il
nostro autore lesse e mise insieme i testi di 2,8, dove si legge
il termine paradiso, e di 3,22, dove il mangiare è relazionato
all’albero della vita.

323
Nel testo genesiaco però non si legge l’espressione «paradi-
so di Dio» che leggiamo invece nel testo di Apocalisse, ma si
parla solo di paradiso; l’espressione «di Dio» rimanda meglio
ai testi di Ez 28,13 e 31,8 dove appunto si parla di «paradiso
di Dio».
Emerge anche una notevole differenza di prospettiva tra
il testo di Genesi e il testo di Apocalisse, quasi un’antitesi:
mentre nel testo genesiaco il mangiare dell’albero della vita è
esplicitamente impedito, in Apocalisse invece è positivamente
prospettato come premio al vincitore. Possiamo dire che in
Apocalisse è promesso all’uomo ciò da cui all’origine era stato
escluso.

L ’albero della vita in Ap 22


Benché in maniera più generica, un altro accenno all’albe-
ro della vita è introdotto quasi alla fine del libro, in Ap 22,14.
La nozione di albero di vita, in 2,7 e 22,14, costituisce quasi
un’inclusione a tutto il libro. In 22,14 l’autore scrive: «Beati
quelli che lavano le loro vesti, perché sia il loro potere sull’al-
bero della vita ed entrino per le porte nella città». Questo testo
si legge nel contesto di un dialogo tra l’autore e Gesù dopo la
lunga visione della città santa, presentata come una novità in
21,1-5, e più direttamente descritta nei suoi elementi costitu-
tivi fin da 21,10.
Il testo di 21,14 è una beatitudine rivolta a «coloro che la-
vano le loro vesti»; in questa beatitudine sono accostati, in
maniera consequenziale, la menzione del potere sull’albero
della vita e il fatto di entrare per le porte nella città. Il potere
sull’albero della vita determina l’ingresso nella città attraverso
le porte. Ciò significa che l’albero della vita si trova nella città
santa.
Il potere sull’albero della vita non è un potere qualsiasi («un
potere»), ma un potere specifico che l’autore precisa mediante
l’uso dell’articolo («il potere»). Ciò induce ancora a stabilire
un parallelismo, stavolta antitetico, con Gen 3,22: all’origine
all’uomo fu tolto il potere sull’albero della vita («perché non
stenda la sua mano») e fu cacciato dal giardino; adesso è ri-
dato il potere ed è aperto l’accesso alla città. Il potere sull’al-
bero della vita è la ricompensa che Cristo viene a portare (cf.
22,12).
I due testi, di 2,7 e di 22,14, concordano nella prospettiva

324
dell’albero della vita; in entrambi esso appare non come una
conquista o una rivendicazione da parte degli uomini, ma co-
me un dono: in entrambi infatti esso è una promessa da parte
di Gesù.
In 22,14 la promessa dell’albero della vita è menzionata tra
una condizione previa (lavare le proprie vesti) e una conse-
guenza (entrare attraverso le porte). Ciò significa che nella cit-
tà santa può entrare chi ha il potere sull’albero della vita.
Il lavare le proprie vesti richiama poi Ap 7,14-15, dove l’au-
tore precisa che tale lavaggio avviene nel sangue dell’Agnel-
lo. In questo testo si parla della moltitudine che non si può
contare, di coloro cioè che vengono dalla grande tribolazione,
che hanno lavato le loro vesti e che le hanno rese candide nel
sangue dell’Agnello. Lavare le vesti nel sangue dell’Agnello si-
gnifica aderire a lui, restargli fedeli fino al prezzo della propria
vita, lasciarsi purificare da lui e accettare la nuova condizione
che dal suo sangue deriva. Ciò dà il diritto di stare davanti al
trono di Dio e servirlo giorno e notte (cf. Ap 1,5 e 5,9). Possia-
mo così stabilire anche una relazione tra 7,14-15 e 22,14: in
entrambi i testi si parla infatti di lavare le vesti. In 7,14-15 la
conseguenza è stare davanti al trono di Dio e servirlo; in 22,14
invece è avere il potere sull’albero della vita ed entrare attra-
verso le porte nella città.
L ’ultimo testo del libro, in cui l’albero della vita è menzio-
nato, è 22,19. Il contesto è la fortissima minaccia che Dio to-
glierà la propria parte dall’albero della vita a chi osa togliere
qualcosa dal «libro della profezia», cioè dal libro stesso dell’A-
pocalisse che l’autore ha scritto e ha presentato come una pro-
fezia (cf. 1,3). Pure in 22,19 l’albero della vita sta in relazione
alla città santa; leggiamo infatti: «Se qualcuno toglierà (qual-
cosa) dalle parole del libro della profezia, toglierà Dio la sua
parte dall’albero della vita e dalla città santa (cose) scritte in
questo libro».
Troviamo così due testi in cui albero della vita e città santa
stanno in relazione: 22,14 e 22,19. Ciò conferma che l’albero
della vita è nella città e indica anche che il vero paradiso in cui
all’uomo è promesso di entrare è appunto la città santa di cui
quello genesiaco, dal quale all’origine l’uomo fu cacciato, era
una semplice prefigurazione.
La relazione tra l’albero della vita e la città ci rimanda a
tutto il testo precedente di 21,9-22,5 dove l’autore, come si è
detto, descrive la città santa nei dettagli dei suoi vari elementi.

325
Specificamente la città con le sue porte richiama Ap 21,12-14
e l’albero della vita richiama Ap 22,2.
Prescindiamo dal testo di 21,12-14 e ci fermiamo solo a
quello di 22,2. L’autore descrive l’interno della città. Leggiamo
infatti: «Nel mezzo della piazza e da qui e da lì del fiume [vi
era] un albero di vita, facente frutti dodici volte l’anno; secon-
do ciascun mese dava il suo frutto. E le foglie servivano a gua-
rire le genti». Evitiamo un’analisi specifica del testo di 22,2; è
sufficiente dire che l’autore risente qui dell’influsso, e in parte
anche vi dipende, del c. 47 del libro di Ezechiele. In Ez 47,7
leggiamo: «Sulla sponda del fiume alberi numerosi assai». In
Ez 47,9 ancora leggiamo: «Dovunque arriva il fiume porterà
vita». Infine, nel v. 12: «Lungo il fiume, da qui, crescerà ogni
specie di alberi da frutto, in ogni mese porta frutti [...] e i suoi
frutti serviranno come cibo e le sue foglie sono medicina».
Globalmente la descrizione di Ap 22,2, pur con diversi adat-
tamenti, si riconduce ai testi di Ezechiele sopra citati. In que-
sti però non si parla di albero di vita: evidentemente l’autore di
Apocalisse sostituisce, con la sua, la menzione della generica
e rigogliosa vegetazione di cui parlano Ez 47,7 ed Ez 47,12. La
nozione di «albero di vita» deve perciò ricondursi ancora al
testo genesiaco.
Il nostro autore fonde così i due testi di Genesi e di Ez 47 e
di essi si serve per descrivere la città santa. Ciò ancora confer-
ma che il giardino genesiaco trova la sua realizzazione nella
città santa, la Gerusalemme che scende dal cielo, dove appun-
to si trova l’albero della vita. Il premio promesso alla Chiesa
di Efeso (2,7) rimanda perciò alla Gerusalemme celeste e lì
troverà il suo compimento.

La letteratura extrabiblica
L ’espressione «albero della vita» è assai rara nel resto della
Bibbia. Si legge solo in cinque testi: Pr 3,18; 11,30; 13,12; 15,4;
4Mc 18,18, ma si tratta in essi di una metafora senza alcun
riferimento all’albero della vita genesiaco. Un riferimento può
esserci invece in un sesto testo, Is 65,22 (secondo la versione
greca), dove Dio paragona i giorni del suo popolo, la sua dura-
ta cioè, a quelli dell’albero della vita.
Dell’albero della vita, con riferimento a Genesi, si parla in-
vece nella letteratura extrabiblica, nella quale è prospettata
anche la possibilità di un futuro ritorno a esso.

326
Tale possibilità emerge in maniera ancora timida nella ver-
sione aramaica di Genesi, il Targum palestinese. In Gen 2,25
il Targum osserva che l’uomo fu posto nel giardino per servire
la legge e osservare il comando; secondo il Targum l’uomo fu
cacciato dal giardino perché non osservò la legge. Gli venne
così precluso l’accesso all’albero della vita per non mangiarne
i frutti e vivere. Leggiamo infatti in 3,22, sempre del Targum:
«E per il fatto che non ha osservato ciò che ho comandato,
decretiamo contro di lui ed espelliamolo dal giardino dell’E-
den». Ancora nel v. 24b, sempre secondo la versione aramaica,
si legge: «Prima che il mondo fosse creato, egli creò l’insegna-
mento della legge e preparò il giardino dell’Eden per i giusti».
Questo testo già tradisce una prospettiva futura; a differenza
del testo originale ebraico, infatti, lascia intendere che si dà
la possibilità di un ritorno al paradiso e all’albero della vita
per i giusti che hanno osservato la legge. Il Targum Neofiti di
Gen 3,22 addirittura paragona la legge all’albero della vita per
quelli che la studiano.
Per quanto la parafrasi aramaica sopra indicata del testo
genesiaco si apra timidamente a una prospettiva futura, tutta-
via non parla in maniera esplicita di un ritorno al paradiso e
all’albero della vita. Di tale ritorno invece parla la letteratura
apocalittica. Possiamo citare il libro di Enoc (En 24,4-25,7)
che però non parla esplicitamente di albero di vita ma, non
senza una certa allusione a Ez 47, parla semplicemente di un
albero che sarà dato ai giusti da mangiare. La prospettiva fu-
tura si percepisce bene: quest’albero sarà dato ai giusti e non
prima del grande giudizio.
Secondo il Testamento di Levi (TLev 18,11-12) nel futuro
sarà aperto il paradiso e i giusti potranno mangiare dell’al-
bero della vita. La stessa prospettiva appare nel quarto libro
di Esdra (4Esd 8,52). Nei Salmi di Salomone (Sal 14,1-3) tro-
viamo addirittura l’identificazione dei pii con l’albero della vi-
ta, i pii sono coloro che osservano i comandamenti di Dio, lo
amano e vivono. Nel Midrash poi (EsR 25,8) leggiamo che Dio
porterà ai giusti frutti dal giardino dell’Eden e li nutrirà con
l’albero della vita.
Tutti questi testi testimoniano nella letteratura extrabiblica
un’attesa e un anelito verso il paradiso e verso l’albero della
vita. L ’attesa della letteratura apocalittica è appunto quella di
un ritorno a questo paradiso; esso però è riservato ai giusti
che si mantengono fedeli alle leggi di Dio.

327
La prospettiva dell’autore di Apocalisse
Nel filone di questa attesa sembra collocarsi, con la promes-
sa alla Chiesa di Efeso e con la descrizione della Gerusalemme
celeste, il nostro autore dell’Apocalisse. Il verbo futuro «darò»
(Ap 2,7) suggerisce appunto che il vincitore otterrà quello che
è promesso, ma non per il presente bensì per il futuro. La pro-
messa alla Chiesa di Efeso suggerisce così un cammino, una
tensione positiva verso il paradiso e verso l’albero della vita,
così come i testi extrabiblici suggeriscono. In questi testi si
dice che il paradiso e il mangiare dell’albero della vita è riser-
vato ai giusti. La prospettiva del nostro autore è analoga.
Letterariamente il nostro autore si ricollega al testo origi-
nale di Genesi, ma riprende la prospettiva soprattutto della
letteratura apocalittica. Il testo originale di Genesi si pone in
prospettiva negativa: l’uomo all’origine fu cacciato dal para-
diso e gli fu impedito l’accesso all’albero della vita. La lette-
ratura extrabiblica invece parla di un ritorno al paradiso e
all’albero della vita, riservati ai giusti e a quelli che osservano
i comandamenti di Dio.

L ’osservanza dei comandamenti


L ’osservanza dei comandamenti appare così come la con-
dizione indispensabile per il ritorno al paradiso e all’albero
della vita. Ma già il Deuteronomio parlava di tale osservanza
come la condizione indispensabile per ottenere la vita ed en-
trare nella terra che Dio ha promesso (cf. Dt 4,1ss.). Lo stesso
Deuteronomio poi presenta l’osservanza dei comandamenti
come espressione dell’amore verso Dio (cf. Dt 10,12).
Rivolgendosi alla Chiesa di Efeso, il nostro autore però non
parla di «comandamenti» ma di «amore». In ciò egli si distac-
ca dalla prospettiva della letteratura extrabiblica e si avvicina
di più alla prospettiva del Deuteronomio che stabilisce la du-
plice relazione tra amare Dio e osservare i comandamenti, tra
l’osservanza dei comandamenti e il conseguimento della vita e
l’ingresso nella terra promessa.
Il rimprovero che alla Chiesa di Efeso l’autore rivolge è
quello di avere abbandonato la sua prima carità: «La tua pri-
ma carità». Non è chiaro se qui si tratta – intendendo il termi-
ne «prima» in senso cronologico – della carità che Efeso aveva
una volta o se si tratta, intendendo il termine «prima» in senso
qualitativo, del primo comandamento, quello di amare Dio,

328
come leggiamo nei vangeli sinottici (cf. Mt 22,38). Benché il
contesto suggerisca il primo aspetto, probabilmente all’autore
non interessa precisare ulteriormente di quale amore si tratta,
ma, in maniera più ampia, interessa sottolineare la prospetti-
va stessa dell’amore. Una volta Efeso era fervente nell’amore,
adesso in questo amore si è affievolita.
Certo, Gesù – o l’autore per lui – non ignora gli sforzi della
Chiesa di Efeso, la sua perseveranza nel travaglio, la sua co-
stanza. Ma l’amore è importante: una tradizione afferma in-
fatti che l’amore porta alla vita.
Possiamo allora concludere che, mentre per la letteratura
extrabiblica e, in parte, anche per il Deuteronomio, la condi-
zione indispensabile per tornare al paradiso e all’albero della
vita era l’osservanza dei comandamenti; per il nostro auto-
re, più in linea con una tradizione del Deuteronomio e con il
Nuovo Testamento, la condizione indispensabile è la carità,
precisamente quella carità di cui Efeso è mancante e alla qua-
le essa è pressantemente esortata a tornare mediante un’ade-
guata conversione.
Se Efeso si converte e torna a quella prima carità , le è ri-
servato come premio di vincitore di poter tornare all’albero
della vita nel paradiso e mangiare di esso. L ’albero della vita
ovviamente è una metafora che indica la vita; infatti nella se-
conda lettera, a Smirne, l’autore parlerà di corona della vita
(Ap 2,10) e nella quinta lettera, a Sardi, parlerà del libro della
vita (Ap 3,5). In altre parole, alla Chiesa di Efeso è promesso
il ritorno alla vita.
Tale ritorno deve essere costruito oggi, ma si otterrà come
premio nel futuro, nella Gerusalemme celeste. L ’autore stabi-
lisce così una relazione tra la situazione presente della Chiesa
e la sua condizione futura nella Gerusalemme celeste, vista
come quel paradiso escatologico dove è presente l’albero della
vita, dove cioè si potrà sperimentare la vita. La Chiesa attuale,
nella sua condizione concreta e storica, è in cammino verso
la Gerusalemme celeste, dove potrà ottenere quanto oggi le è
promesso e per cui oggi deve porre le condizioni.

Conclusioni
Possiamo così tracciare, a riguardo dell’albero della vita, da
Genesi all’Apocalisse, una storia in quattro tappe.

329
r La prima tappa è costituita dal racconto genesiaco (Gen
2-3) con il suo dramma: avendo trasgredito il comandamento
di Dio, l’uomo fu cacciato dal giardino e gli fu precluso l’ac-
cesso all’albero della vita.
r La seconda tappa è costituita dalla letteratura giudaica, il
Targum e gli scritti apocalittici: è prospettata la possibilità,
per i giusti e per quelli che osservano i comandamenti di Dio,
di tornare al giardino e all’albero della vita.
r La terza tappa è costituita dal premio promesso dal Signore
al vincitore della Chiesa di Efeso (Ap 2,7) e riguarda il tempo
presente: esplicitamente è promesso di mangiare dell’albero
della vita che è nel paradiso di Dio.
r La quarta tappa, proiettata nel futuro, in prospettiva escato-
logica, è costituita dalla Gerusalemme celeste (Ap 21,10-22,5;
22,14.19); possiamo dire che essa è il vero paradiso futuro in
cui vi è l’albero della vita: su di esso avranno potere quelli che
lavano le loro vesti, i quali entreranno per le porte nella città.
Il dramma genesiaco, l’esclusione cioè dall’albero della vita
e perciò dalla vita stessa, sarà così pienamente superato nel
futuro escatologico, nella Gerusalemme celeste.

330
APPENDICE

PER LEGGERE
L’APOCALISSE
Claudio Doglio
________

Bibliografia ragionata

L ’Apocalisse di Giovanni conserva nei secoli il suo fascino


strano, attirando e respingendo i suoi lettori, come dimostra la
bimillenaria storia della sua interpretazione1.

Diversi metodi e interpretazioni


Per venire al nostro tempo, bisogna riconoscere che il sistema
della previsione storica universale è stato abbandonato in ambito
scientifico, anche se resiste in ambienti fondamentalisti, soprat-
tutto all’interno delle sette.
Al filone del sistema interpretativo detto escatologico, secondo
cui l’Apocalisse tratta degli eventi finali della storia, annuncian-
do la fine del mondo, si riallaccia fra i moderni il commentario
di E. Lohmeyer (Die Offenbarung des Johannes, Tübingen 1926),
per il quale tutte le figure simboliche dell’Apocalisse sono fuori
del tempo e non riferibili a nessuna epoca determinata, piutto-
sto vicine a immagini mitiche e astrali. Nonostante innumerevo-
li sfumature, molti commentari moderni sostengono come idea
fondamentale che l’Apocalisse sia innanzitutto l’annunzio della
fine dei tempi e della venuta escatologica del Cristo. In italiano si
possono leggere:
— J. Bonsirven, L ’Apocalisse di San Giovanni (Verbum Salutis),
Studium, Roma 1963 (ed. or. 1951);
— A. Wikenhauser, L ’Apocalisse di Giovanni (Il Nuovo Testa-
mento commentato, IX), Morcelliana, Brescia 1968 (ed. or.
1959);
— A. Lancellotti, Apocalisse (Nuovissima versione della Bibbia,
46), Paoline, Roma 1970;
— E. Lohse, L ’Apocalisse di Giovanni (Nuovo Testamento, 11),
Paideia, Brescia 1974 (ed. or. 19713).
La corrente dei «critici letterari», a partire dalla fine dell’Ot-
tocento, adottò il sistema interpretativo secondo cui l’Apocalisse
1
Vedi qui, di C. Doglio, Storia dell’interpretazione dell’Apocalisse, pp. 78-90.

333
farebbe riferimento alla storia contemporanea al suo autore, cioè
alle difficoltà incontrate nel I secolo dalla giovane Chiesa cristia-
na nei confronti del giudaismo e dell’impero romano. Basandosi
su questo presupposto ermeneutico, molti studiosi tentarono di
ricostruire le fasi di composizione dell’opera a seconda dei riferi-
menti storici che vi si potevano intravedere:
— D.E. Aune, Revelation (Word Biblical Commentary, 52), 3 voll.,
Dallas 1997-1998, per complessive pp. 1354. Questo volumi-
noso commentario tiene in grande considerazione gli apporti
della cultura greco-romana e degli eventi storici contempora-
nei all’Apocalisse, per trarne chiarimenti che illuminino l’enig-
matico testo cristiano.

L ’attuale situazione in Italia


All’estero, soprattutto in Germania e in Inghilterra, si sono
prodotti ai primi del ’900 e alla fine del secolo ponderosi commen-
tari all’Apocalisse. Oltre al già citato Aune, si vedano fra i recenti:
— H. Giesen, Die Offenbarung des Johannes (Regensburger Neu-
es Testament), Regensburg 1997, pp. 562;
— G.K. Beale, The Book of Revelation. A Commentary on the
Greek Text (New International Greek Testament Commen-
tary), Grand Rapids-Cambridge, UK 1999, pp. 1246;
— S.S. Smalley, The Revelation to John. A Commentary on the
Greek Text of the Apocalypse, Downers Grove, IL, 2005, pp. 634).
Fra i grandi commentari stranieri è stata tradotta in italiano
solo quest’opera:
— P. Prigent, L ’Apocalisse di S. Giovanni, Borla, Roma 1985 (ed.
or. francese 1981), pp. 816: privilegia l’interpretazione storico-
salvifica e dà importanza alla tradizione liturgica che soggiace
all’Apocalisse, guidandone la rilettura biblica.
In Italia invece si sono preferiti i commenti brevi, introduttivi
e divulgativi. Numerose sono le presentazioni complessive dell’A-
pocalisse, che servono come introduzione al mondo letterario
dell’apocalittica e alla complicata costruzione dell’opera giovan-
nea. Due grandi manuali introduttivi a tutta la Scrittura propon-
gono una sintesi scolastica:
— X. Alegre, L ’Apocalisse di Giovanni, in J.-O. Tuñí - X. Alegre
(edd.), Scritti giovannei e lettere cattoliche (Introduzione allo
studio della Bibbia, 8), Paideia, Brescia 1997, pp. 173-232;
— C. Doglio, Introduzione all’Apocalisse di Giovanni, in G. Ghi-
berti e coll. (ed.), Opera giovannea (Logos. Corso di Studi Bi-
blici, 7), LDC, Leumann (TO) 2003, pp. 133-178.

334
In genere i volumi di presentazione dell’Apocalisse raccolgono
in sintesi le varie opinioni interpretative e cercano di offrire un
quadro unitario, molto spesso con finalità pastorale e meditativa.
Fra le più recenti si possono citare in ordine cronologico:
— U. Vanni, Apocalisse. Una assemblea liturgica interpreta la sto-
ria (Leggere oggi la Bibbia, 2.15), Queriniana, Brescia 1979;
— A. Läpple, L ’Apocalisse: un libro vivo per il cristiano di oggi (Pa-
rola e Liturgia, 7), Paoline, Roma 1980;
— P. Prigent, Il messaggio dell’Apocalisse (Letture bibliche), Bor-
la, Roma 1982;
— D. Mollat, L ’Apocalisse: una lettura per oggi (Letture bibliche),
Borla, Roma 1985;
— B. Corsani, L ’Apocalisse. Guida alla lettura dell’ultimo libro del-
la Bibbia, Claudiana, Torino 1987;
— G. Ravasi, Il libro dell’Apocalisse (Ciclo di conferenze tenute
al Centro culturale S. Fedele di Milano), EDB, Bologna 1991;
— E. Morosi, Quando Dio dice: «Scrivi!». Lettere alle sette Chiese
dell’Apocalisse (Nuovi sentieri di Emmaus), Borla, Roma 1991;
— A. Chieregatti, Apocalisse. Lettura spirituale (Conversazioni
bibliche), Bologna 1993;
— M. Jiménez Bonhomme, L ’Apocalisse. La storia illuminata dalla
gloria di Cristo, Cittadella Editrice, Assisi 1996;
— É. Cothenet, Il messaggio dell’Apocalisse, LDC, Leumann (TO)
1997;
— B. Maggioni, L ’Apocalisse. Per una lettura profetica del tempo
presente, Cittadella Editrice, Assisi 19996;
— U. Vanni, «Divenire nello Spirito». L ’Apocalisse guida di spiri-
tualità, Edizioni ADP, Roma 2000;
— G. Bodson, I segreti dell’Apocalisse. Le profezie dell’ultimo libro
della Bibbia, Sonzogno, Milano 2000;
— G. Crocetti, L ’Apocalisse meditata e pregata (Lettura pastorale
della Bibbia, Bibbia e spiritualità, 20), EDB, Bologna 2003;
— C. Doglio, Apocalisse di Giovanni (Dabar-Logos-Parola: Lectio
divina popolare – Nuovo Testamento), EMP, Padova 2005;
— U. Vanni, Intervista sull’Apocalisse. Collasso del cosmo o an-
nuncio di un mondo nuovo?, EDB, Bologna 2009;
— R. Pérez Márquez, L ’Apocalisse della Chiesa. Lettere alle comu-
nità, Cittadella, Assisi 2011.
Ugualmente abbondanti sono i commenti «divulgativi» che
spiegano in modo completo e semplice il testo dell’Apocalisse.

335
Licenza edgt-6-2420777-109466289788825032901 rilasciata il 04 novembre
2013 a Giuseppe De Carlo
Anche in questo caso citiamo in ordine cronologico alcune opere
a partire dagli anni ’80:
— A. Cannizzo, Apocalisse ieri e oggi, M. D’Auria Editore, Napoli
1984;
— E. Bianchi, L ’Apocalisse di Giovanni. Commento esegetico-spi-
rituale, Edizioni Qiqajon, Magnano (VC) 1988;
— A. Vögtle, Il libro dei sette sigilli. Commento all’Apocalisse di
Giovanni («In Ascolto», 6), LDC, Leumann (TO) 1990;
— C.H. Giblin, Apocalisse (Lettura pastorale della Bibbia), EDB,
Bologna 1993;
— E. Schüssler Fiorenza, Apocalisse. Visione di un mondo giu-
sto, Queriniana, Brescia 1994;
— C. Doglio, Apocalisse di Giovanni, in La Bibbia Piemme, Casa-
le Monferrato (AL) 1995, pp. 3070-3135;
— J.-P. Prévost, Apocalisse, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI)
1997;
— G. Ravasi, Apocalisse, Piemme, Casale Monferrato (AL) 1999;
— I. Timossi, Apocalisse. Rivelazione di Gesù Cristo. Una cristolo-
gia per simboli, LDC, Leumann (TO) 2001;
— X. Pikaza Ibarrondo, Apocalisse (Guide alla lettura del Nuovo
Testamento, 17), Borla, Roma 2001.
Interessante per la prospettiva ecumenica è la recente tradu-
zione del commento fatto in russo da padre Aleksandr Men’, Leg-
gendo l’Apocalisse, LEF, Firenze 2006: al lettore italiano è così
offerta la possibilità di conoscere la meditazione ottimista di chi
ha vissuto la drammatica esperienza della persecuzione anticri-
stiana nel regime sovietico, in condizioni simili a quelle della co-
munità stessa di Giovanni.

I commentari
Il metodo interpretativo che valorizza i fatti della storia con-
temporanea del I secolo d.C. ha liberato l’esegesi dell’Apocalisse
dal­l’arbitrio polemico e dalla fuga in un’escatologia fantasiosa;
tuttavia il valore profondo dell’opera di Giovanni non può ridursi
a un riassunto simbolico ed enigmatico di fatti contemporanei.
Altri importanti aspetti sono stati presi in considerazione nell’e-
segesi più recente: il contesto «pasquale» della fede cristiana, il
continuo riferimento all’Antico Testamento e il simbolismo apo-
calittico. Tali approfondimenti inducono ad attribuire all’autore
del­l’Apocalisse un interesse storico più generale e, soprattutto,
più teologico: ciò che gli sta particolarmente a cuore è il mistero di

336
Cristo, evento fondamentale che permette di comprendere il senso
di tutto il progetto divino, cioè la storia della salvezza, preparata
nella storia di Israele, attuata dal Messia e in via di compimento
nella storia della Chiesa. Questo metodo esegetico, pur nella mol-
teplicità delle sfumature, è stato seguito dalla maggior parte dei
commentatori antichi fino al XII secolo e oggi ne è comunemente
riconosciuto il valore. I pochi commentari italiani ne condivido-
no l’impostazione, anche se gli esegeti che lo seguono propon-
gono interpretazioni diverse, sottolineando aspetti differenti.

r Eugenio Corsini, Apocalisse di Gesù Cristo secondo Gio-


vanni (SEI, Torino 2002, pp. 458). Nel panorama comune di
una visione «escatologista» dell’Apocalisse, una posizione ori-
ginale è stata proposta da Corsini, che pubblicò nel 1980 il suo
commento intitolato Apocalisse prima e dopo; recentemente è sta-
to riedito con un nuovo accattivante titolo e alcune integrazioni,
ma restando sostanzialmente uguale. Professore di letteratura
greca all’Università di Torino ed estraneo all’ambiente ecclesia-
stico dei docenti di Sacra Scrittura, egli insiste soprattutto sul
riferimento al passato della storia biblica e vede nelle varie scene
dell’Apocalisse i riferimenti agli eventi biblici che hanno trova-
to il loro compimento in Gesù Cristo. In tal modo si supera la
prospettiva della previsione futura e si privilegia la reinterpreta-
zione della tradizione biblica: Giovanni racconta in linguaggio
apocalittico e simbolico la storia della salvezza, mostrando gli
snodi principali dell’opera divina che culmina con la Pasqua di
Gesù Cristo. Tale prospettiva risulta valida, ma non deve esse-
re assolutizzata, né esagerata. L ’opera di Corsini ha segnato uno
spartiacque negli studi dell’Apocalisse e ha avuto il merito princi-
pale di riportare l’attenzione sull’interpretazione antica del testo:
tuttavia alcuni limiti devono essere superati. Il suo commento
non contiene note e quindi rarissimi sono i rimandi ad altri studi
e soprattutto è assente qualsiasi tipo di giustificazione delle idee
sostenute; solo i rimandi biblici servono per confermare l’inter-
pretazione, secondo l’antico principio di «spiegare la Bibbia con
la Bibbia». Inoltre pare eccessivo insistere solo sul passato bibli-
co e sul compimento di Gesù Cristo, tralasciando totalmente la
tensione verso il futuro. Oltre al passato infatti sono da prendere
in considerazione teologica anche il presente e il futuro, perché
nella visione giovannea i tre momenti si rafforzano e si integrano
a vicenda: il Signore «è venuto» nella storia di Israele e soprattut-
to negli eventi fondamentali della sua Pasqua, ma «viene» anche
nella vita della Chiesa lungo la storia e i fedeli sanno che egli
«verrà» nella gloria per il compimento finale.

337
r Edmondo Lupieri, L ’Apocalisse di Giovanni (Fondazione L.
Valla-Mondadori, Milano 1999, pp. 390). Nella stessa linea in-
terpretativa di Corsini, ma con molti approfondimenti e svariate
divergenze, si pone questo commento. L ’autore, docente di storia
del cristianesimo all’Università di Udine, dichiara in partenza di
voler scrivere un commento aperto, con l’intento principale di
riportare il lettore moderno al modo di pensare di un giudeo se-
guace di Gesù nel I secolo. Proprio l’attenta e documentata con-
siderazione della letteratura apocalittica giudaica si presenta co-
me il merito principale dell’opera. Contro il diffuso preconcetto
storico-critico Lupieri è convinto che uno studioso di oggi possa
avvicinarsi realmente al mondo culturale del I secolo e crede, al-
tresì, che Giovanni abbia composto un testo prevedendone più
livelli di lettura, almeno uno di superficie e uno profondo. L ’alle-
goria dunque non è scappatoia, ma metodo lecito e richiesto, dal
momento che un autore dell’epoca, nella linea di pensiero apoca-
littico, si aspetta una lettura a più livelli con ricorso all’allegoria.
Una presentazione del pensiero e della letteratura apocalittica
permette così di inquadrare l’opera di Giovanni in un pensiero
giudaico che riteneva il cosmo animato da innumerevoli realtà
spirituali e dominato dagli angeli ribelli: se dunque tutto il co-
smo è segnato da diavoli, la liberazione comporterà il crollo del
mondo e l’annuncio di tale catastrofe sarà parte integrante del
messaggio. Il grande rilievo dato all’angelologia si presenta come
un notevole pregio di questo commento, giacché offre la possibi-
lità di collocare in un coerente contesto culturale e cosmologico
alcune immagini, che ai moderni possono sembrare semplice-
mente strane.
Secondo Lupieri il problema principale per Giovanni, che sta
all’origine dell’Apocalisse, è la percezione di un grave pericolo
imminente sulle chiese d’Asia: rischiano di perdere la vera fede.
Giovanni, «erede cristiano di Enoc», reagisce quale intermediario
fra Dio e gli angeli delle Chiese, per contrastare i pericoli che ven-
gono da greci ed ebrei, alleati fra di loro nel rifiutare la divinità
di Gesù Cristo. L ’Israele storico e Gerusalemme sono il segno di
questa prostituzione al mondo greco-romano: l’esempio dei sette
angeli antichi e la storia esemplare di Gerusalemme, miseramen-
te distrutta dai romani, dovrebbero servire ai fedeli per scoprire
la retta via. Si impone così un’interpretazione fondamentale in
questo commento, che, sulla scia di Corsini, vede nella prostituta
Babilonia l’immagine stessa della vecchia Gerusalemme, infede-
le e idolatra. L ’interesse per questa identificazione si nota anche
dal fatto che al c. 17, incentrato sulla descrizione di Babilonia,
Lupieri dedica ben 32 pagine (248-280), molte di più rispetto ad

338
altri capitoli pur importanti. L ’Apocalisse dunque è considerata
un testo giudaizzante e, allo stesso tempo, antigiudaico; secondo
lo studioso rappresenta l’avanzata di un cristianesimo orientale,
avverso al giudaismo non cristiano e anche al cristianesimo pao-
lino. Con il Vangelo di Matteo l’Apocalisse rappresenterebbe una
linea cristiana anti-greca e non paolina. Sarebbe questo il motivo
per cui gli autori greci hanno avuto difficoltà ad accettarla.
La validità generale di questo commento può trovare un osta-
colo nell’impostazione editoriale del libro: già la distinzione
fra testo e commento rende difficile seguire le argomentazioni
dell’autore, ma ancor di più il sistema delle note alle varie espres-
sioni rende faticosa la lettura, che sembra riservata solo agli
specialisti che sanno già che cosa cercare. Inoltre viene riserva-
ta scarsa attenzione al senso globale delle varie parti dell’opera
per giungere a una visione d’insieme, che spesso manca oppure è
complessa e oscura: la minuziosa analisi sembra aver tolto spa-
zio a una limpida sintesi. Analogamente anche l’attenzione alla
struttura letteraria dell’Apocalisse è esigua.

r Giancarlo Biguzzi, Apocalisse (I libri biblici. Nuovo Testa-


mento, 20), Paoline, Milano 2005, pp. 480). Questo è il com-
mentario più recente pubblicato da uno studioso italiano. Prete
di Cesena e docente di Nuovo Testamento alle Pontificie Univer-
sità Urbaniana e Gregoriana di Roma, l’autore considera quest’o-
pera come il suo terzo assalto alla fortezza inespugnabile dell’A-
pocalisse. Il primo lavoro è un documentatissimo studio sulla
struttura dell’opera basata sul sistema dei settenari: G. Biguzzi,
I settenari nella struttura dell’Apocalisse. Analisi, storia della ricer-
ca, interpretazione (Supplementi alla Rivista Biblica, 31), EDB,
Bologna 1996. Il secondo è una raccolta di saggi che affrontano
la spiegazione di alcune questioni particolarmente complesse: G.
Biguzzi, L ’Apocalisse e i suoi enigmi (Studi biblici, 143), Paideia,
Brescia 2004. Utilizzando quei risultati, lo studioso propone un
commentario come opera di sintesi in grado di guidare un letto-
re alla comprensione dell’intera opera, evidenziando l’unitarietà
della trama del libro: proprio per rendere scorrevole il commen-
to, gli approfondimenti dei temi più complessi sono raccolti in
undici excursus.
Particolare attenzione è riservata alla struttura d’insieme, par-
tendo dalla constatazione che i settenari sono il fatto letterario
più appariscente dell’Apocalisse giovannea. Biguzzi ritiene che
debbano essere considerati tali solo i quattro settenari, che espli-
citamente Giovanni presenta con indizi testuali come una serie,
e cioè le sette lettere, che hanno caratteristiche a sé, e poi sigil-

339
li, trombe e coppe. Muovendo dalle diverse azioni dell’Agnello,
che nei sigilli rivela, e degli angeli, che nelle trombe e nelle cop-
pe danno corso all’ira di Dio contro l’idolatria, l’autore ritrova
la concatenazione dei settenari nel ruolo che il libro dissigillato
dall’Agnello gioca all’interno del libro stesso dell’Apocalisse: ciò
che l’Agnello rivela nei cc. 6-7 è ciò che viene poi descritto nei
cc. 8-22. Si tratta quindi degli stessi eventi che vengono narra-
ti due volte, ma accadono una volta soltanto. La strutturazione
dell’Apocalisse che Biguzzi propone è basata su archi narrativi
e sezioni: separata la prima parte (cc. 1-3), egli sostiene che la
seconda (cc. 4-22) si compone di tre archi narrativi suddivisi in
sette sezioni. Il primo arco narrativo mostra la rivelazione dell’A-
gnello (cc. 4-7), organizzata in due sezioni: l’Agnello con il rotolo
sigillato e il settenario dei sigilli; il secondo arco narrativo è dedi-
cato all’intervento medicinale di Dio (cc. 8-16), strutturato in tre
sezioni: flagelli contro l’idolatria dei simulacri (settenario delle
trombe), presentazione della Triade idolatrica e quindi flagelli
contro l’idolatria della bestia (settenario delle coppe); infine il
terzo arco narrativo ha per oggetto l’intervento giudiziale di Dio
(cc. 17-22) che, in due sezioni, presenta la distruzione dei nemici
e la palingenesi della nuova Gerusalemme.
Nell’ambito della spiegazione dei simboli principali inoltre Bi-
guzzi si pone in netta contrapposizione con Lupieri (e Corsini),
soprattutto a riguardo di Babilonia che interpreta come la Roma
imperiale, lussuosa e sfrenata, storicamente pericolosa per la co-
munità cristiana di Giovanni. Nelle Chiese d’Asia si assiste a for-
me contrapposte di resistenza e resa, dice Biguzzi. Da una parte i
nicolaiti rivendicano una conoscenza esoterica per giustificare il
proprio comportamento libertino, basato su un comodo compro-
messo sincretistico; dall’altra, Giovanni chiede alle comunità una
opposizione radicale contro la porneia e l’idolatria in cui opera-
no i demoni. Dietro alla questione degli idolotiti, si riconosce
un pericoloso collegamento fra struttura imperiale e benessere
materiale: mentre infatti i nicolaiti optano per il compromesso
finalizzato al benessere, l’autore dell’Apocalisse loda la povertà
come conseguenza di coerente astensione dagli idoli. Seguendo
questa interpretazione storica, Biguzzi vede nel sistema impe-
riale romano la bestia pericolosa che, con l’allettante prospettiva
del benessere, rammollisce gli spiriti: perciò sottolinea come l’in-
tento di Giovanni sia un pressante invito alla resistenza nei con-
fronti dello stile di vita molle e decadente della «pax romana».
L ’opposizione alla Roma imperiale si pone perciò come chiave
fondamentale di interpretazione e, forse, l’insistenza sulla storica
condizione delle chiese d’Asia rischia di offuscare il messaggio

340
teologico universale della costruzione giovannea che presenta
Babilonia come il simbolo personale e sociale della corruzione
idolatrica e dell’opposizione a Dio, valida per tutti i tempi e per
diverse circostanze.

A queste opere si possono aggiungere ancora alcuni commen-


tari di recente pubblicazione:
— U. Vanni, Apocalisse, libro della Rivelazione. Esegesi biblico-
teologica e implicazioni pastorali, EDB, Bologna 2009;
— Y. Simoens, Apocalisse di Giovanni. Apocalisse di Gesù Cristo.
Una traduzione e un’interpretazione, EDB, Bologna 2010 (ed.
orig. francese 2008);
— C. Doglio, Apocalisse. Introduzione, traduzione e commento
(Nuova versione della Bibbia dai testi antichi), Edizioni San
Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2012.

Gli studi monografici


A differenza dei commentari, sono numerose le opere di stu-
diosi italiani che hanno approfondito alcune importanti temati-
che poste dal libro dell’Apocalisse. Anzitutto occorre ricordare
i notevoli sviluppi nello studio della letteratura e della teologia
apocalittica compiuti da Paolo Sacchi e dalla sua scuola; il prin-
cipale testo di riferimento è P. Sacchi, L ’apocalittica giudaica e la
sua storia (Biblioteca di cultura religiosa, 55), Paideia, Brescia
1990.
Una particolare menzione inoltre merita l’opera del padre Ugo
Vanni che, essendo stato per molti anni insegnante all’Istituto Bi-
blico di Roma, ha formato un’intera generazione di biblisti e ha
diffuso in Italia la conoscenza, seria e gustosa, dell’Apocalisse, ri-
portandola nell’interesse della Chiesa. Alla sua prima ricerca (U.
Vanni, La struttura letteraria dell’Apocalisse [Aloisiana], Morcel-
liana, Brescia 19802) hanno fatto seguito molti altri studi specifi-
ci, raccolti poi in una ponderosa opera antologica che abbraccia
l’intero libro: U. Vanni, L ’Apocalisse: ermeneutica, esegesi, teologia
(Supplementi alla Rivista Biblica, 17), EDB, Bologna 1988. Il suo
contributo principale si può riconoscere nell’aver evidenziato la
dimensione liturgica dell’opera giovannea, mettendo in risalto il
ruolo decisivo del gruppo d’ascolto come soggetto interpretante
dei simboli. Recentemente ha raccolto una serie di saggi dedica-
ti al tema dell’antropologia: L ’uomo dell’Apocalisse, AdP, Roma
2008.
Da lavori per tesi dottorali, spesso dirette dallo stesso Van-

341
ni, sono nati diversi cospicui contributi esegetici a brani chiave
dell’Apocalisse o a suoi decisivi temi teologici. Ne ricordiamo al-
cuni:
— B. Moriconi, Lo Spirito e le Chiese. Analisi del termine «pneu-
ma» nel libro dell’Apocalisse (Studia Theologica, 3), Teresia-
num, Roma 1983;
— P. Byong-Seob Min, I due testimoni di Apocalisse 11,1-13: sto-
ria, interpretazione, teologia, Roma 1991;
— P. Farkaš, La «donna» di Apocalisse 12. Storia, bilancio, nuove
prospettive (Tesi Gregoriana, Serie Teologia, 25), Roma 1997;
— O. Pisano, La radice e la stirpe di David. Salmi davidici nel li-
bro dell’Apocalisse (Tesi Gregoriana, Serie Teologia, 85), Roma
2002;
— M. Marino, Custodire la Parola. Il verbo THPEIN nell’Apocalis-
se alla luce della tradizione giovannea (Supplementi alla Rivista
Biblica, 40), EDB, Bologna 2003;
— C. Doglio, Il primogenito dei morti. La risurrezione di Cristo e
dei cristiani nell’Apocalisse di Giovanni (Supplementi alla Rivi-
sta Biblica, 45), EDB, Bologna 2005;
— L. Pedroli, Dal fidanzamento alla nuzialità escatologica. La
dimensione antropologica del rapporto tra Cristo e la Chiesa
nell’Apocalisse, Cittadella, Assisi 2007;
— R. Pérez Márquez, L ’Antico Testamento nell’Apocalisse. Storia
della ricerca, bilancio e prospettive, Cittadella, Assisi 2010.

La preparazione al Giubileo del 2000 ha dato al padre Michele


Mazzeo l’occasione di sviluppare una serie di ricerche teologi-
che sull’Apocalisse, proposte come itinerario biblico di fede tri-
nitaria: M. Mazzeo, La sequela di Cristo nel libro dell’Apocalisse,
Paoline, Milano 1997; Lo Spirito parla alla Chiesa nel libro dell’A-
pocalisse, Milano 1998; Dio Padre e Signore nel libro dell’Apocalis-
se, Milano 1998; Il volto trinitario di Dio nel libro dell’Apocalisse,
Milano 1999.
Infine una proposta di sintesi sull’insegnamento complessivo
dell’Apocalisse si può trovare in R. Bauckham, La teologia dell’A-
pocalisse (Letture bibliche, 12), Paideia, Brescia 1994 (ed. or.
1993). Tuttavia le varie parti e l’intero libro dell’Apocalisse richie-
dono numerosi presupposti esegetici che rendono praticamente
impossibile una sintesi: ogni autore potrebbe proporne una di-
versa. Una panoramica delle varietà si ha leggendo ad esempio
queste miscellanee:

342
— S. Dianich (ed.), Sempre Apocalisse. Un testo biblico e le sue
risonanze storiche, Piemme, Casale Monferrato (AL) 1998;
— E. Bosetti - A. Colacrai (edd.), Apokalypsis. Percorsi nell’Apo-
calisse in onore di U. Vanni, Cittadella, Assisi 2005.

La storia degli effetti


Enormi e variegati sono gli influssi prodotti dall’Apocalisse
nella storia umana degli ultimi duemila anni, specialmente sul
pensiero e sulle arti.
Il pensiero «catastrofico» che la contraddistingue e l’enigmati-
co simbolo dei «mille anni» ha determinato il mito del millenari-
smo reale e futuro, che riaffiorò molte volte nel corso dei tempi,
per giungere fino a noi nelle vesti apparentemente nuove del New
Age:
— M. Introvigne, Mille e non più mille. Millenarismo e nuove reli-
gioni alle soglie del Duemila, Gribaudi, Milano 1995.

Ugualmente, la carica idealista e polemica contro il potere


corrotto, che caratterizza l’Apocalisse, ispirò, consciamente o
inconsciamente, molti movimenti riformatori e rivoluzionari
nell’antichità, nel medioevo, fino ai riformatori moderni e a vari
movimenti attuali:
— R. Gobbi, Figli dell’Apocalisse. Storia di un mito dalle origini ai
nostri giorni, Rizzoli, Milano 1993;
— N. Cohn, I fanatici dell’Apocalisse, Edizioni di Comunità, Tori-
no 2000.

L ’Apocalisse però ha ispirato soprattutto le arti figurative, che


in diversi modi riproducono scene del libro:
— F. van der Meer, Apocalypse. Visions from the Book of Revela­
tion in Western Art, London 1978 (studio completo sull’ar­
gomento);
— G. Quispel, L ’Apocalisse. Il libro segreto della rivelazione, Cap-
pelli, Bologna 1980;
— R. Cassanelli, (ed.), Apocalisse. Miniature dal Commentario di
Beato di Liebana (XI secolo), Jaca Book, Milano 1997.
Infine, per uno sguardo sulla presenza dell’Apocalisse nel­
l’arte cinematografica:
— E. Girlanda - C. Tagliabue (edd.), Apocalisse e Cinema (Centro
Studi Cinematografici), Roma 1995.

343
indice

Prefazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 5
Abbreviazioni delle riviste citate . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7

PRIMA PARTE
INTRODUZIONE

— Claudio Doglio
L ’ambiente vitale dell’Apocalisse . . . . . . . . . . . . . . . . 11
I difficili rapporti col mondo esterno . . . . . . . . . . . . . . . . . . 12
La politica romana . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 12
Il paganesimo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 13
Il giudaismo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 13
I problemi all’interno della Chiesa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 15
L ’ambiente liturgico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 17
L ’esperienza di Patmos: momento scatenante . . . . . . . . . . 18
Un pressante invito alla resistenza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 20
• Apocalisse . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 22

— Marco Rossetti
L ’apocalittica giudaica e l’Apocalisse di Giovanni . . 23
Il contesto storico e culturale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 24
Origini dell’apocalittica giudaica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 25
Caratteristiche distintive dell’apocalittica . . . . . . . . . . . . . . 26
L ’apocalittica e il libro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 30
L ’apocalittica e l’Apocalisse di Giovanni . . . . . . . . . . . . . . . 31
• La letteratura apocalittica giudaica e cristiana . . . . . . . . 32

— Giancarlo Biguzzi
La trama narrativa e l’impianto letterario . . . . . . . 34
Due indicazioni devianti circa il piano dell’Apocalisse . . . . 34
Struttura a sviluppo lineare in due parti . . . . . . . . . . . . . . . 36
Prima parte: il Cristo e le Chiese d’Asia . . . . . . . . . . . . . . . . 37

344
Seconda parte: piano e azione di Dio nella storia . . . . . . . . 38
Primo arco narrativo: la rivelazione dell’Agnello . . . . . . . 38
Secondo arco narrativo: i settenari di trombe e coppe . . 38
I flagelli di trombe e coppe contro le due idolatrie . . . . . . 40
Terzo arco narrativo: giudizio e Gerusalemme nuova . . . 41
Il piano dell’Apocalisse come itinerario dello spirito . . . . . 42

— Giancarlo Biguzzi
I settenari dell’Apocalisse . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 44
Natura e importanza dei settenari giovannei . . . . . . . . . . . 44
Numero dei settenari dell’Apocalisse . . . . . . . . . . . . . . . . . . 46
Estensione dei settenari . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 47
L ’ordine dei numeri per irretire le forze del caos . . . . . . . . 48

— Claudio Doglio
L ’Apocalisse rilegge l’Antico Testamento . . . . . . . . 50
Una comunità profetica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 50
La fede cristiana basata sulle Scritture . . . . . . . . . . . . . . . . 52
Modo di utilizzo dell’Antico Testamento . . . . . . . . . . . . . . . 54
I libri più letti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 55
Dall’antico al nuovo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 57

— Marcello Marino
Il simbolismo dell’Apocalisse . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 59
Perché il linguaggio simbolico? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 59
I «tipi» della simbologia dell’Apocalisse . . . . . . . . . . . . . . . 62
La strutturazione del simbolo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 65
Conclusione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 67

— Claudio Doglio
L ’autore dell’Apocalisse e la tradizione giovannea 68
I dati interni all’opera . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 68
La tradizione patristica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 70
Le antiche contestazioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 72
La «questione giovannea» . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 75

— Claudio Doglio
Storia dell’interpretazione dell’Apocalisse . . . . . . . 78
I criteri per una corretta interpretazione dell’Apocalisse . . 78
L’antichità patristica: accoglienza e ostilità . . . . . . . . . . . . 80
Gli antichi commenti: un messaggio per la Chiesa . . . . . . . 81

345
Sant’Agostino riconosce che l’Apocalisse è un libro oscuro 83
Nel medioevo: l’affresco dell’ordine divino del mondo . . . . 84
Gioacchino da Fiore:
   l’Apocalisse come previsione di tutta la storia . . . . . . . 86
Le reazioni moderne:
   fine del mondo o storia contemporanea . . . . . . . . . . . . 88
Oggi: il ritorno alla storia della salvezza . . . . . . . . . . . . . . . 89

secondA PARTE
ESEGESI

— Clementina Mazzucco
Il prologo (Ap 1,1-8) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 93
Traduzione del testo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 94
Una rivelazione che si comunica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 94
L ’Apocalisse come profezia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 96
Un Dio che viene . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 97
Conclusione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 99

— Claudio Doglio
La rivelazione del Cristo risorto (Ap 1,9-20) . . . . . . . 100
Il racconto fondante . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 100
L ’ambiente dell’esperienza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 103
La «conversione» al Signore . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 105
Il Figlio dell’uomo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 107
Il mistero pasquale di morte e risurrezione . . . . . . . . . . . . 108
• Patmos . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 111
• Il giorno del Signore . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 111

— Attilio Gangemi
I messaggi alle sette Chiese (Ap 2-3) . . . . . . . . . . . . . . 113
Le sette Chiese . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 113
L ’immagine dei candelabri . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 114
Struttura delle lettere . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 114
I titoli cristologici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 115
I premi al vincitore . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 117
I messaggi alle sette Chiese . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 119
Antitesi tra Cristo e Satana . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 120
Lo schema dell’esodo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 120

346
— Rita Pellegrini
La lettera alla Chiesa di Laodicea (Ap 3,14-22) . . . . . 122
Uno scritto indirizzato alla Chiesa di Laodicea . . . . . . . . . 122
La rivelazione di Cristo alla sua comunità cristiana . . . . . . 123
Il messaggio alla Chiesa più ricca . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 125
«Ti consiglio di comprare...» (v. 18) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 127
«Io, tutti quelli che amo, li rimprovero e li educo» (v. 19a) 128
«Ecco: sto alla porta e busso» (v. 20) . . . . . . . . . . . . . . . . . . 129
Promessa di un premio al vincitore . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 130
«Chi ha orecchi ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese» 130
Conclusione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 131

— Claudio Doglio
Il trono nel cielo (Ap 4) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 132
Il grande dittico introduttivo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 132
Una porta aperta nel cielo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 134
La sala del trono . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 135
I personaggi della corte celeste . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 137
I ventiquattro anziani . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 138
I quattro esseri viventi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 139
L ’annuncio della grande sinfonia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 141
• I ventiquattro anziani . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 142
• I quattro esseri viventi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 143

— Claudio Doglio
Il libro e l’Agnello (Ap 5) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 144
Il libro del mistero . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 144
Un solenne annuncio pasquale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 146
L ’Agnello . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 147
L ’investitura dell’Agnello . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 150
La sinfonia cosmica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 151

— Giancarlo Biguzzi
Il rotolo sigillato e l’Agnello rivelatore (Ap 6,1-8,1) 154
Interrogativi sul rotolo e sul suo contenuto . . . . . . . . . . . . 154
Aprendo i sigilli, l’Agnello rivela . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 155
Le costanti della storia e il grido dei martiri . . . . . . . . . . . . 156
La risposta: ira divina, tribolazione e beatitudine . . . . . . . 158
La mezz’ora di silenzio e di attesa fiduciosa . . . . . . . . . . . . 160

347
— Francesco Mosetto
Una moltitudine immensa (Ap 7) . . . . . . . . . . . . . . . . . 161
L ’angelo e il sigillo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 161
Centoquarantaquattromila . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 162
La moltitudine immensa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 163
La dossologia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 165
• I centoquarantaquattromila . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 166

— Giancarlo Biguzzi
Il settenario delle trombe e l’idolatria (Ap 8,2-11,19) 168
Lo squillo delle trombe e il loro simbolismo . . . . . . . . . . . . 168
Il rito all’altare degli incensi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 169
I flagelli su terra, acque salate e dolci, e astri . . . . . . . . . . . 170
I tre «guai!» contro gli «abitanti della terra» . . . . . . . . . . . . 171
I flagelli delle trombe e il mondo dell’idolatria . . . . . . . . . . 172
Dal sesto al settimo squillo di tromba . . . . . . . . . . . . . . . . . 173
Ansia pastorale e arte narrativa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 174
• L ’Artemisio di Efeso . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 175

— Giovanni Perini
L ’angelo e il libro (Ap 10) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 178
Il contesto: la sezione delle trombe . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 179
I riferimenti all’Antico Testamento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 179
Analisi del testo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 181
Prima scena: l’angelo (vv. 1-3a) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 182
Seconda scena: i sette tuoni (vv. 3b-4) . . . . . . . . . . . . . . . 183
Terza scena: il giuramento dell’angelo (vv. 5-7) . . . . . . . . 183
Quarta scena: il «piccolo libro» (vv. 8-11) . . . . . . . . . . . . 184
Conclusioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 185

— Roberto Filippini
I due testimoni (Ap 11,1-13) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 186
La funzione del brano nel suo contesto . . . . . . . . . . . . . . . . 186
La Chiesa, popolo regale, sacerdotale e profetico . . . . . . . . 187
Testimonianza e martirio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 190

— Karin Heller
La donna e il serpente (Ap 12) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 194
Le radici antropologiche del testo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 194
Il quadro del racconto: cielo e terra . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 196
L ’identità della donna . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 198

348
Il discendente e la discendenza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 201
Conclusione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 202
• Drago o serpente? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 203

— Michelangelo Priotto
Le due bestie (Ap 13) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 205
La prima bestia (vv. 1-10) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 206
L ’invito all’ascolto (vv. 9-10) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 209
La seconda bestia (vv. 11-18) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 209
L ’invito finale (v. 18) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 212
• 666, il numero della bestia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 213

— Marco Rossetti
Seguono l’Agnello ovunque egli vada (Ap 14,1-5) . . 214
Studio del contesto letterario . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 214
La struttura narrativa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 215
L ’Agnello e i 144 mila . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 216
Una voce dal «cielo» alla terra . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 218
Il «cantico nuovo» . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 218
I 144 mila . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 220
Dal simbolo alla vita . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 223

— Luca Mazzinghi
La vendemmia e la mietitura (Ap 14,6-20) . . . . . . . . . 224
Ap 14,6-13: la prima serie di tre angeli del giudizio
   e la voce dal cielo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 224
La mietitura (14,14-16) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 227
La vendemmia (14,17-20) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 229
Conclusione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 230

— Giancarlo Biguzzi
Il settenario delle coppe e l’idolatria della bestia
(Ap 15-16) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 232
Il simbolismo delle coppe . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 233
Il rito d’investitura dei sette angeli delle coppe . . . . . . . . . . 233
I flagelli contro il regno della bestia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 234
Gli altri flagelli e l’intermezzo della persecuzione . . . . . . . 235
«Occhio per occhio» e ricerca della conversione . . . . . . . . 236
La sesta e settima coppa come anticipazioni . . . . . . . . . . . 237
Bilancio circa il settenario e l’identità della bestia . . . . . . . 238
L ’idolatria imperiale a Efeso e Giovanni di Patmos . . . . . . 239

349
• Le coppe (Mauro Orsatti) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 241
• Armaghedòn (Mauro Orsatti) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 241

— Felice Montagnini
La prostituta condannata (Ap 17) . . . . . . . . . . . . . . . . 243
Il labirinto del testo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 244
La sentenza taciuta . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 249
Il perché del silenzio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 252
— Mauro Orsatti
Il lamento sulla caduta di Babilonia (Ap 18) . . . . . . 254
La struttura del capitolo 18 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 254
Annuncio della caduta di Babilonia (vv. 1-3) . . . . . . . . . . . . 255
Invito ad abbandonare la città (vv. 4-8) . . . . . . . . . . . . . . . . 256
Il lamento corale su Babilonia (vv. 9-19) . . . . . . . . . . . . . . . 257
Il lamento dei re (vv. 9-10) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 257
Il lamento dei mercanti (vv. 11-17a) . . . . . . . . . . . . . . . . 257
Il lamento dei marinai (vv. 17b-19) . . . . . . . . . . . . . . . . . 258
Canto di gioia nel/al cielo (v. 20) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 259
La fine irrevocabile di Babilonia:
   atto simbolico di un angelo (vv. 21-24) . . . . . . . . . . . . . . 259
Chi è la grande prostituta? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 261
Conclusione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 263
— Karin Heller
Il canto di nozze dell’Agnello e la vittoria
del Messia (Ap 19) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 265
L ’annuncio della sposa vestita per l’Agnello . . . . . . . . . . . . 266
Un giudice che combatte con giustizia
   per mezzo della Parola . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 269
Un testo per oggi? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 271
— Marco Rossetti
Il millennio (Ap 20,1-21,8) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 273
La struttura letteraria . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 273
La visione dell’angelo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 274
La visione dei troni e di una schiera celeste . . . . . . . . . . . . 276
Gog e Magog . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 276
La visione del trono . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 278
I cieli e la terra nuovi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 279
• Gog e Magog (Pierantonio Tremolada) . . . . . . . . . . . . . . 281
• Mille non più mille (Pierantonio Tremolada) . . . . . . . . . 281

350
— Francesco Mosetto
La nuova Gerusalemme (Ap 21,9-22,5) . . . . . . . . . . . . . 282
Un nuovo cielo e una nuova terra . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 282
Le mura e le porte della città . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 283
La gloria di Dio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 285
Un fiume d’acqua viva . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 285
La felicità dei santi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 286
• Alfa e omega (Pierantonio Tremolada) . . . . . . . . . . . . . . 287

TERZA PARTE
TEOLOGIA

— Michele Mazzeo
La liturgia nell’Apocalisse . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 291
Simbolica cultuale: linguaggio dell’incontro con Dio . . . . . 291
Frammenti di liturgie cristiane . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 292
Apocalisse e liturgia: fra memoria e interpretazione . . . . . 296
Conclusione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 297

— Pier Luigi Ferrari


La Chiesa nell’Apocalisse . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 298
Il mistero della Chiesa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 298
La terminologia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 298
Amata da Dio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 299
Il nuovo popolo di Dio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 299
In continuità con il popolo d’Israele . . . . . . . . . . . . . . . . 300
Un popolo radunato nel giorno del Signore . . . . . . . . . . . 300
Un popolo che cammina nella storia . . . . . . . . . . . . . . . . 301
Un popolo chiamato a soffrire . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 301
Pellegrina verso la città celeste . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 302
Chiesa terrestre e Chiesa celeste . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 302
La donna vestita di sole . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 303
La sposa dell’Agnello . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 303
La città . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 304

— Roberto Filippini
La testimonianza nell’Apocalisse . . . . . . . . . . . . . . . . 305
La testimonianza di Gesù è lo Spirito di profezia . . . . . . . . 307
Testimoni, profeti, martiri . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 308
La vittoria della testimonianza ovvero la forza della verità 310

351
— Arcangelo Bagni
L ’idolatria nell’Apocalisse . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 314
I diversi volti dell’idolatria . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 314
I due testimoni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 315
Le due bestie . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 316
Lotta e trionfo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 318
Babilonia è caduta! . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 319
La vittoria del Risorto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 320
Una rilettura . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 321

— Attilio Gangemi
«L ’albero della vita» nell’Apocalisse . . . . . . . . . . . . . 322
Fonti veterotestamentarie . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 322
L ’albero della vita in Ap 22 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 324
La letteratura extrabiblica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 326
La prospettiva dell’autore di Apocalisse . . . . . . . . . . . . . . . 328
L ’osservanza dei comandamenti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 328
Conclusioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 329

APPENDICE
PER LEGGERE L’APOCALISSE

— Claudio Doglio
Bibliografia ragionata . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 333
Diversi metodi e interpretazioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 333
L ’attuale situazione in Italia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 334
I commentari . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 336
Gli studi monografici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 341
La storia degli effetti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 343

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Finito di stampare nel mese di agosto 2012
Villaggio Grafica – Noventa Padovana, Padova

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