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PAOLO DI TARSO

E LE COMPONENTI ELLENISTICHE DEL SUO PENSIERO


ROMANO PENNA
[Seminario di aggiornamento per studiosi e docenti di S. Scritttura]
Pontificio Istituto Biblico – 23-27 gennaio 2017

Nella storia della ricerca sui rapporti tra Paolo e la grecità è rimasto celebre ciò che ebbe
a scrivere ironicamente Albert Schweitzer nel 1930 a proposito della inutilità di ricorrere
all’ellenismo per spiegare il pensiero dell’Apostolo; questo infatti sarebbe comprensibile
soltanto in base all’escatologia giudaica: «Coloro che si affaticano a spiegarlo in base
all’ellenismo sono simili a chi vuole trasportare da lontano l’acqua in annaffiatoi bucati per
irrigare un giardino posto accanto a un ruscello»! Fuor di metafora egli riteneva che, ben-
ché sia indiscutibile la possibilità che Paolo insieme alla lingua greca abbia assunto idee el-
leniche, tuttavia «la maggior parte di ciò che finora è stato addotto dalla letteratura greca
per spiegare il mondo concettuale di Paolo, non ha gettato su di esso la luce che ci si aspet-
tava»1. Schweitzer scriveva queste parole specificamente a proposito della mistica paolina,
che appunto secondo lui troverebbe la sua sostanza soltanto nel concetto di una escatolo-
gia già realizzata mediante la partecipazione del cristiano al Cristo risorto. Le sue parole
sono tanto più singolari in quanto egli proveniva da una stagione, quella della religionsge-
schichtliche Schule, che appunto aveva ripetutamente tentato di spiegare il meglio delle ori-
gini cristiane e in specie del paolinismo col ricorrere soprattutto alla grecità e al suo enor-
me patrimonio culturale e religioso, approdando però a derive sincretistiche2.
Ma da allora ad oggi la ricerca ha fatto grandi progressi, a livello sia di una maggiore
conoscenza delle fonti sia nell’applicazione ad esse di una metodologia adeguata, e di con-
seguenza di una maggior cautela nel trarre conclusioni in materia. Un riconosciuto studio-
so delle origini cristiane, come il danese Prof. Engberg-Pedersen dell’Università di Copen-
hagen, giunge a scrivere che «Paolo non era né specificamente giudeo né specificamente
greco»3, volendo dire con ciò che l’Apostolo, pur dovendosi collocare senza dubbio
all’interno del giudaismo, era però un giudeo ellenista di Tarso e viveva in un ambiente in
cui il Giudaismo aveva subìto in diversi modi un processo di ellenizzazione4. Una ammis-
sione del genere è però soltanto il minimo che si possa affermare. Infatti, ormai varie pub-
blicazioni si sono interessate a una specifica comparazione tra Paolo e il mondo greco-
romano, producendo interessanti documentazioni a livello sia generale5 sia particolare6.
———————
1
A. Schweitzer, Die Mystik des Apostels Paulus, Mohr, Tübingen 21954 (= 1930), 140 e 138.
2
Si veda il quadro tracciato da W.G. Kümmel, Das Neue Testament. Geschichte der Forschung seiner Proble-
me, K. Alber, Freiburg-München 1958, 21970, 310-357 («Die religionsgeschichtliche Schule»). In più, tra le
produzioni di quel tempo, si dovrebbero aggiungere, in ambito tedesco, G. Anrich, Das antike Mysterienwesen
in seinem Einfluss auf das Christentum, Vandenhoeck, Göttingen 1894; e, in ambito italiano, V. Macchioro, Orfi-
smo e paolinismo, Ed. Cultura Moderna, Montevarchi 1922.
3
T. Engberg-Pedersen, ed., Paul in His Hellenistic Context, T&T Clark, Edinburgh 1994, XIX.
4
Vedi il classico studio di M. Hengel, Judentum und Hellenismus. Studien zu ihrer Begegnung unter besonde-
rer Berücksichtigung Palästinas bis zur Mitte des 2.Jh v.Chr, WUNT 10, Mohr, Tübingen 1969 (tr.it. Paideia, Bre-
scia 2001). Cf. anche D.E. Aune, «Religioni greco-romane», in Dizionario di Paolo e delle sue lettere, a cura di
G.F. Hawthorne-R.P. Martin-D.G. Reid, a cura, San Paolo, Cinisello Balsamo 1999, 1293-1310 specie 1306.
5
Cf. N. Hugedé, Saint Paul et la culture grecque, Labor et Fides, Genève-Paris 1966; E.M. Yamauchi, «Elle-
nismo», in Dizionario di Paolo e delle sue lettere, 528-536; T. Engberg-Pedersen, ed., Paul Beyond the
Judaism/Hellenism Divide, Westminster, Louisville 2001; J.P. Sampley, Paul in the Greco-Roman World. A Hand-
book, Trinity Press, Harrisburg-London-New York 2003; C. Breytenbach, ed., Paul’s Graeco-Roman Context,
BETL cclxxvii, Peeters, Leuven 2015 (con 34 saggi su altrettanti temi di comparativismo culturale).
6
Cf. per esempio G. Wagner, Pauline Baptism and The Pagan Mysteries. The Problem of the Pauline Doctrine of
Bapism in Romans VI.1-11, in the Light of its Religio-Historical “Parallels”, Oliver & Boyd, Edinburgh-London
2 – Seminario sulla letteratura paolina – PIB 23-27 gennaio 2017

Una pubblicazione piuttosto recente enumera addirittura 236 testi paolini che impliche-
rebbero altrettanti parallelismi con fonti pagane diverse, anche se a volte le coincidenze ri-
sultano un po’ stiracchiate7.

1. Precisazioni metodologiche.
Nelle pagine che seguono si prendono in considerazione solo le lettere paoline (non gli
Atti), e solo quelle la cui autenticità non è messa in discussione. Per quanto riguarda que-
ste lettere, escludo esplicitamente dal mio esame un paio di tematiche che, benché abbiano
un sicuro corrispettivo nell’ambiente ellenistico contemporaneo alle origini cristiane e sia-
no perciò degne di una specifica comparazione, appartengono piuttosto alla periferia del
pensiero paolino. Il primo di questi settori concerne gli aspetti formali del discorso paoli-
no, e cioè, oltre al tipo di lingua greca impiegata dall’Apostolo8, l’eventuale assunzione di
elementi propri della retorica classica nella composizione delle sue lettere9 (con presumibi-
le particolare riferimento al genere della diatriba)10. Un altro settore riguarda il confronto
delle chiese paoline con le associazioni religiose o con le scuole filosofiche del tempo11, nel-
la misura in cui il fenomeno è appunto constatabile nelle lettere12. Questi settori concerno-
no rispettivamente l’aspetto linguistico-letterario degli scritti e quello socio-religioso delle

———————
1967; P. Rossano, «Morale ellenistica e morale paolina», in Aa.Vv., Fondamenti biblici della teologia morale. Atti
della XXII settimana biblica, Paideia, Brescia 1973, 173-185; A.J.M. Wedderburn, «The Soteriology of the Mys-
teries and Pauline Baptismal Theology», NT 29 (1987) 53-72; F.G. Downing, Cynics, Paul and the Pauline
Churches, Routledge, London-New York 1988; C.E. Glad, Paul and Philodemus. Adaptability in Epicurean and
Early Christian Psychagogy, NT Suppl. 81, Brill, Leiden-New York 1995; T. Engberg-Pedersen, Paul and the Sto-
ics, T&T Clark, Edinburgh 2000; A. du Toit, «Paulus Oecumenicus: Interculturality in the Shaping of Paul’s
Theology», NTS 35 (2009) 121-143 (ristretto ai temi della cháris e della ekklēsía).
7
Così C.A. Evans, «Paul and the Pagans», in S.E. Porter, ed., Paul: Jew, Greek, and Roman, Pauline Studies
5, Brill, Leiden-Boston 2008, 117-139 (in più vengono calcolati anche 22 passi in At).
8
Cf. per esempio l’opera ormai classica di E. Norden, La prosa d’arte antica, dal VI secolo A.C. all’età della ri-
nascenza, I, Ed. Salerno, Roma 1986 (1a ediz. Stuttgart 1898), 508-519.
9
In merito cf. soprattutto G.A. Kennedy, Classical Rhetoric and Its Christian and Secular Tradition from An-
cient to Modern Times, Fireplace, Chapel Hill NC 1980; Id., New Testament Interpretation through Rhetorical Crit-
icism, Chapel Hill/London 1984; S.E. Porter & T.H. Olbricht, edd., Rhetoric and the New Testament: Essays from
the 1992 Heidelberg Conference, JSNT Suppl. 90, Sheffield 1993; R.D. Anderson, Ancient Rhetorical Theory and
Paul, BET 18, Kampen 1996; J.-N. Aletti, «Paul et la rhétorique. Etat de la question et propositions», in J.
Schlosser, dir., Paul de Tarse. Congrès de l’ACFEB (Strasbourg, 1995), LD 165, Cerf, Paris 1996, 27-50; A. Pitta,
«Così ‘inesperto nell’arte retorica’? (cfr. 2 Cor 11,6). Retorica e messaggio paolino», in Id., Il paradosso della
croce. Saggi di teologia paolina, Piemme, Casale Monferrato 1998, 17-53; S.E. Poter & D.L. Stamps, edd., The
Rhetorical Interpretation of Scripture. Essays from the 1996 Malibu Conference, JSNT Suppl. 180, Sheffield 1999;
C.J. Classen, «Paul’s Epistles and Ancient Greek and Roman Rhetoric», in Id., Rhetorical Criticism of the New
Testament, Mohr, Tübingen 2000, 1-28; R. Penna, «La questione della dispositio rhetorica nella lettera di Paolo
ai Romani: confronto con la lettera 7 di Platone e la lettera 95 di Seneca», Bibl 84 (2003) 61-88; F. Bianchini,
L’analisi retorica delle lettere paoline. Un’introduzione, San Paolo, Cinisello Balsamo 2011.
10
Cf. S.K. Stowers, The Diatribe and Paul’s Letter to the Romans, Scholars, Chico CA 1981; Ch. Song, Reading
Romans as a Diatribe, SBL 59, Lang, New York-Bern 2004.
11
Si veda in particolare J.S. Kloppenborg & S.G. Wilson, edd., Voluntary Associations in the Graeco-Romans
World, London 1996; U. Egelhaaf-Gaiser & A. Schäfer, edd., Religiöse Vereine in der römischen Antike, STAC 13,
Mohr, Tübingen 2002; P.A. Harland, Associations, Synagogues, and Congregations: Claiming a Place in Ancient
Mediterranean Society, Fortress, Minneapolis 2003; R. Penna, «Chiese domestiche e culti privati pagani alle
origini del cristianesimo. Un confronto», in Id., Vangelo e inculturazione. Studi sul rapporto tra rivelazione e cul-
tura nel Nuovo Testamento, SBA 6, San Paolo, Cinisello Balsamo 2001, 746-770; Id., «La casa come ambito cul-
tuale nelle chiese paoline», in: Tempio, culto e sacerdozio. Atti del XII Convegno di Studi Neotestamentari (Fara
in Sabina, 13-15 settembre 2007), RSB 21 (2009,2) 183-202.
12
A questo ambito possiamo associare un aspetto che parimenti lascerò da parte: quello che riguarda la
titolatura propria dei responsabili delle comunità cristiane (proistámenos, epíscopos, diákonos, prostátēs) nella
misura in cui questi termini hanno un corrispettivo sul versante greco. Cf. A.D. Clarke, A Pauline Theology of
Church Leaders, LNTS 362, T&T Clark, London-New York 2008, 42-78).
R. Penna, Paolo di Tarso e le componenti ellenistiche del suo pensiero – 3

comunità paoline. Entrambi, del resto, sono da tempo oggetto di studio e hanno suscitato
un’ampia bibliografia.
Procederò di fatto non per esame di specifici testi paolini13, ma per comparazione di te-
mi o concetti propri dell’Apostolo nella misura in cui essi presentano degli evidenti paral-
lelismi con analoghi temi o concetti propri della grecità. L’ambito del riferimento compara-
tivistico è rappresentato naturalmente dalla grecità, ma senza ignorare che il mondo cultu-
rale della prima età imperiale include necessariamente anche la latinità nella misura in cui
essa è dipendente appunto dalla cultura greca14, soprattutto se teniamo conto di quanto un
filosofo ebreo come Filone Alessandrino scrive a proposito di Ottaviano Augusto, che ha
«accresciuto l’Ellade di molte altre Elladi»15.
Lascio però da parte una serie di vocaboli importanti, con i relativi concetti, che, essen-
do privi di un corrispondente termine ebraico, si spiegano soltanto in base al lessico gre-
co16. Così è per egkráteia (Gal 5,23; con il verbo egkrateúomai in 1Cor 7,9; 9,25), euschēmosýnē
(1Cor 12,23: e derivati: Rom 13,13; 1Cor 7,35; 12,24; 14,40; 1Tes 4,12), paidagōgós (1Cor 4,15;
Gal 3,24.25), parousía (impiegato da Paolo tanto in senso storico-biografico: 1Cor 16,17;
2Cor 7,6.7; 10,10; Fil 1,26; 2,12; quanto in senso cristologico-escatologico: 1Cor 15,23; 1Tes
2,19; 3,13; 4,15; 5,23), políteuma (Fil 3,20; con il verbo politeúesthai in Fil 1,27), prokopē (Fil
1,12.25), syneídēsis (Rom 2,15; 9,1; 13,5; 1Cor 8,7.10.12; 10,25.27.28.29; 2Cor 1,12; 4,2; 5,11; cf.
il verbo in 1Cor 4,4), hyiothesía (Rom 8,15.23; 9,4; Gal 4,5). A questa serie vanno aggiunti
tutti i vocaboli provenienti dall’ambito sportivo: agōn (Fil 1,30; 1Tes 2,2; con il verbo
agōnízomai in 1Cor 9,25), brabeîon (1Cor 9,24; Fil 3,14), pykteúō (1Cor 9,26), stádion (1Cor
9,24), stéfanos (1Cor 1Cor 9,25; Fil 4,1; 1Tes 2,19), synathléō (Fil 1,27; 4,3), tréchō (Rom 9,16;
1Cor 9,24.26; Gal 2,2; 5,7; Fil 2,16). Tutti questi vocaboli, se non sono proprio assenti dalla
versione della LXX (ma brabeîon, paidagōgós e hyiothesía mancano del tutto)17, vi sono rara-
mente attestati e non con la valenza che è attribuita loro da Paolo18.
Il mio interesse invece si limita a prendere piuttosto in considerazione alcuni elementi
contenutistici del vero e proprio pensiero paolino, in quanto offrono sufficienti spunti di
indagine essenzialmente in rapporto ai due settori fondamentali della grecità: la filosofia e
la religione.
Certo può ben essere che, come un po’ enfaticamente sostiene Hengel, tutti gli elementi
della dottrina paolina, in quanto non siano stati modellati da Paolo stesso e appaiano di
origine greca o ‘orientale’, sono comunque mediati dal giudaismo e dalle sue molteplici
sfaccettature (compresa ovviamente quella del giudaismo ellenistico)19. Ma in ogni caso si
tratta di rintracciare, al di là di ogni mediazione, proprio quelle componenti che nella loro
origine si trovano appunto in ambito greco. Un esempio tipico in questo senso è il tema
della conoscenza naturale di Dio: documentato in Rom 1,19-20, esso è certamente ricondu-
———————
13
Così procede invece la monografia di T. Engberg-Pedersen, Paul and the Stoics, T&T Clark, Edinburgh
2000.
14
Vedi anche R. Wallace & W. Williams, The Three Worlds of Paul of Tarsus, Routledge, London 1994.
15
Filone Al., Leg. ad C. 146-147.
16
Per alcuni di essi, cf. C.A. Evans, «Paul and the Pagans», 126-136.
17
Vedi però agōn e il verbo brabeúesthai in Sap 10,12. La voce stádion (Dan 4,9; 13,37; 2Mac 11,5;
12,9.10.16.17.29) ha il significato di misura di distanza ma non di luogo di giochi.
18
Quanto a parousía, attestato in Ne 2,6; Gdt 10,18; 2Mac 8,12; 15,21, non ha mai la semantica escatologica
propria di Paolo. Políteuma si trova solo in 2Mac 12,7. Quanto a syneídēsis, l’unica occorrenza affine a Paolo è
Sap 17,11; invece in Qoh 10,20 (traduzione dell’ebraico madāc) il senso è quello di «pensiero» (con oggetto il
re), mentre in Sir 42,18 si tratta solo di una variante nel codice S. Molto frequenti sono stéfanos e tréchō, ma
non in contesti sportivi.
19
Cf. M. Hengel & A.M Schwemer, Paul between Damascus and Antioch. The Unknown Years, SCM Press,
London 1997, 282-283.
4 – Seminario sulla letteratura paolina – PIB 23-27 gennaio 2017

cibile a un caposaldo della filosofia greca (che va almeno da Platone a Dione di Prusa), ma
giunge a Paolo mediato da una riflessione propria del giudaismo ellenistico quale si trova
in Sap 13 (e anche in Filone Al.)20.
Nonostante che Paolo equipari polemicamente la sophía/sapienza dei Greci alla
mōría/stoltezza (cf. 1Cor 1,22-24), ciò avviene solo a proposito dell’annuncio della croce di
Cristo e del suo significato21. In molti casi invece la prossimità, e anzi il debito verso la
grecità è comunque un dato reale che va constatato e onorato per se stesso.

2. Il condizionamento culturale di Tarso.


Già per la sua nascita a Tarso in Cilicia, e quindi a differenza di Gesù legato invece al
piccolo villaggio galilaico di Nazaret22, Paolo doveva essere dotato di una struttura menta-
le tendenzialmente aperta al patrimonio ideale tipico della grecità. L’importanza culturale
di Tarso, infatti, godeva di una notevole fama, come attesta chiaramente il geografo Stra-
bone, che di Paolo fu in parte coevo (ca. 63 a.C.-21 d.C.): «Tanta passione hanno quegli
uomini (di Tarso) per la filosofia e per ogni altra formazione enciclopedica, da superare
Atene, Alessandria e qualsiasi altro luogo in cui sorgano scuole e diatribe di filosofi. Ma
differisce da esse perché tutti gli studenti sono del posto e i forestieri non vengono facil-
mente. Tuttavia gli indigeni non restano in patria, ma espatriano per perfezionarsi e poi si
stabiliscono volentieri all’estero, mentre solo pochi tornano in patria»23. Ma l’affermazione
circa il fatto che gli stranieri non vi si recavano facilmente va corretta con la notizia che ab-
biamo sul celebre filosofo itinerante Apollonio di Tiana (ca. 10-ca. 95), che a Tarso si recò
da ragazzo per la propria formazione intellettuale24. Lo stesso Strabone ci tramanda un nu-
trito elenco di filosofi tarsioti, soprattutto stoici25, uno dei quali fu addirittura precettore di
Ottaviano Augusto26. La sua importanza, non da ultimo, è segnalata anche dal semplice
fatto che nel 52-51 a.C. M.T. Cicerone vi soggiornò un anno in qualità di Proconsole della
Cilicia27 e dal fatto che là si recò M. Antonio dopo la vittoria di Filippi in Macedonia nel 42
a.C. e proprio là nel 41 a.C. gli andò incontro addirittura Cleopatra provenendo
dall’Egitto28. Altre notizie sulla dimensione culturale della città ci vengono dal filosofo
eclettico, di poco posteriore a Paolo stesso, Dione di Prusa o Dione Crisostomo (ca. 45-ca.
115), che vi soggiornò un paio di volte tenendovi due significativi discorsi29.
———————
20
Cf. R. Penna, Lettera ai Romani, EDB, Bologna 2010, 97-102.
21
Del resto, a ben vedere, la confessione di Dio come unico vero sapiente (cf. 1Cor 1,19-20; Rom 16,27) è
riconducibile nientemeno che a Socrate, secondo il quale, a confronto con la sapienza divina, «la sapienza
umana vale poco o nulla» (Platone, Apol. 23a)! Sulla tradizione socratica in Paolo, cf. H.D. Betz, Der Apostel
Paulus und die sokratische Tradition, Mohr, Tübingen 1972, ma lo studio riguarda essenzialmente l’uso
dell’ironia.
22
Sul basso profilo della cultura ellenistica nella Galilea al tempo di Gesù, cf. R.A. Horsley, Galilea. Storia,
politica, popolazione, Paideia, Brescia 2006 (orig. ingl. 1995), 313-333; M.A. Chancey, Greco-Roman Culture and
the Galilee of Jesus, SNTS MS 134, University Press, Cambridge 2005.
23
Strabone, Geogr. 14,5,13. In più, Strabone aggiunge che Roma è piena di eruditi provenienti da questa
città (cf. 14,5,15).
24
Cf. Filostrato, Vita di Apollonio di Tiana 1,7 (il maestro si chiamava Eutidemo di Fenicia).
25
Cf. Geogr. 14,5,14-15 (= Antipatro; Archedemo; Nestore; 2 di nome Atenodoro; Plutìade; Diogene; Ar-
temidoro; Diodoro; Dioniside). Vedi anche M. Adinolfi, «Tarso, patria di Stoici», in Id., Ellenismo e Bibbia.
Saggi storici ed esegetici, Antonianum, Roma 1991, 145-186.
26
Cf. Strabone, Geogr. 14,5,14.
27
Cf. Plutarco, Vit.Cic. 36.
28
Cf. Plutarco, Vit.Ant. 25-27.
29
Si tratta delle Orationes denominate appunto Tarsica prior e Tarsica secunda (= Or. 33 e 34). In merito, cf.
R. Penna, «Le notizie di Dione di Prusa su Tarso e il loro interesse per le lettere di S. Paolo», in Id., Vangelo e
inculturazione, 255-274. Proprio da Dione di Prusa ricaviamo la notizia di una festa che si teneva a Tarso in
R. Penna, Paolo di Tarso e le componenti ellenistiche del suo pensiero – 5

3. Il concetto greco di ‘inculturazione’.


Come si sa, Paolo definisce se stesso «apostolo dei Gentili» (Rom 11,13), ed effettiva-
mente questa fu la missione, alla quale era stato designato già sulla strada di Damasco (cf.
Gal 1,15-16)30 e per la quale si era poi ufficialmente impegnato a Gerusalemme (cf. Gal 2,9).
Ciò significa che i destinatari della sua predicazione non erano primariamente i Giudei ma
i Non-Giudei, quelli che in seguito sarebbero stati chiamati latinamente pagani ma che egli,
in un binomio antitetico con Ioudaíoi, preferisce denominare Héllēnes, «Elleni/Greci» (5
volte: Rom 3,9; 1Cor 1,22.24; 10,32; 12,13; cf. «greci e barbari» in Rom 1,14)31 o anche con il
singolare collettivo ho Héllēn, «il Greco» (5 volte: Rom 1,16; 2,9.10; 10,12; Gal 3,28); ancora
più frequentemente egli li designa come Éthnē, «genti» (così 45 volte nelle lettere autenti-
che, di cui 28 nella sola Rom: cf. Rom 1,5.13; 2,14.24; ecc.), una denominazione che suppo-
ne una evidente precomprensione giudaica nei confronti di chi è estraneo al giudaismo,
ma con la quale venivano identificati praticamente soltanto gli appartenenti alla cultura
greco-ellenistica. La menzione dei bárbaroi in Rom 1,14 ha solo una valenza retorica per in-
dicare l’universalità della destinazione dell’evangelo secondo il diffuso ‘topos’ della con-
trapposizione tra Greci e Barbari documentabile in vari autori antichi32; storicamente, però,
di fatto Paolo non uscì dall’ambito geo-culturale di area grecofona33.
Dobbiamo anche concretamente ritenere che le chiese alle quali erano destinate le sue
lettere fossero in maggioranza composte da Gentili grecofoni, anche se a Roma i suoi letto-
ri dovevano essere prevalentemente di stampo giudeo-cristiano. Nel capitolo conclusivo
della Lettera ai Romani Paolo parla addirittura di saluti rivolti alla coppia Prisca e Aquila
da parte di «tutte le chiese dei Gentili» (Rom 16,4), senza che mai altrove egli contrappon-
ga o affianchi a esse un riferimento a ‘chiese dei Giudei’! Perciò non deve sorprendere se
nei suoi sforzi missionari di «guadagnare qualcuno» tra quelli che sono «fuori della Leg-
ge» (1Cor 9,21) egli dovesse necessariamente impiegare categorie, concetti, allusioni e ri-
chiami che fossero familiari a una audience non giudaica. Senza dubbio questa strategia
faceva parte di ciò che egli intendeva dicendo di essere diventato «come uno che è senza
Legge» (1Cor 9,21; cf. Gal 4,12) al fine di poter raggiungere coloro che erano essi stessi fuo-
ri della Legge. Certo è che, per esempio, concetti come «giustizia di Dio, peccato, grazia,
fede/opere, promessa, alleanza, salvezza», per non dire di ciò che modernamente si inten-
de per escatologia e apocalittica, erano tendenzialmente estranei alla normale precom-
prensione propria della cultura greca. Naturalmente Paolo li impiega a dimostrazione di
una fedeltà di base alla propria matrice ebraica, e anzi quelle nozioni costituiscono la strut-
tura portante della sua ermeneutica evangelica. Ma egli non si ferma lì.
———————
onore del dio locale Sandon, identificato secondo la interpretatio graeca con Eracle (cf. Or. 33,46-47). Ma è or-
mai tramontata la tesi di chi ha voluto vedere in quel dio e in quella festa un motivo di influsso sulla cristo-
logia paolina, come riteneva H. Böhlig, Die Geisteskultur von Tarsos im augusteischen Zeitalter mit Berücksichti-
gung der paulinischen Schriften, FRLANT 19, Vandenhoeck, Göttingen 1913 (per la critica, cf. R. Penna, loc.cit.,
267-269; inoltre: M. Hengel & A.M Schwemer, Paul between Damascus and Antioch, 167-171: «Pagan and philo-
sophical-rhetorical influences on Paul?»).
30
«L’evangelizzazione dei gentili non rappresenta un corollario rispetto alla rivelazione teofanica o cri-
stologica ma la sua stessa finalità» (A. Pitta, Lettera ai Galati, EDB, Bologna 1996, 96).
31
Cf. anche At 11,20; 14,1; 17,4; 18,4.17;19,10;20,21; 21,28.
32
Cf. H. Windisch, in Grande Lessico del Nuovo Testamento II,89-95.
33
Egli infatti non andò né verso oriente (Mesopotamia e Persia), né verso sud (Arabia; su Gal 1,17 cf. i
commenti), né verso sud-ovest (Egitto e Libia), e con ogni probabilità neppure verso l’estremo occidente del-
la penisola iberica (chi invece sostiene che vi sia andato deve ammettere che quel viaggio, oltre ad essere du-
rato «non più di una sola estate», sia stato un fallimento, il cui «motivo più probabile resta il fatto che il greco
non fosse parlato diffusamente. Se questo è vero, il litorale meridionale della Gallia e l’Italia del nord non sa-
rebbero stati un campo più fertile»: così J. Murphy-O’Connor, Vita di Paolo, Paideia, Brescia 2003, 404).
6 – Seminario sulla letteratura paolina – PIB 23-27 gennaio 2017

L’Apostolo infatti ha largamente praticato il principio della adattabilità o condiscen-


denza culturale, che oggi chiameremmo ‘inculturazione’34. Lo denota esplicitamente il
passo classico di 1Cor 9,19-23 («Pur essendo libero da tutti mi sono fatto servo a tutti per
guadagnarne il maggior numero…»), oltre a Rom 14,1-15,13 (sul rapporto tra forti e debo-
li). Ebbene, questo criterio appartiene al concetto di sygkatábasis (in latino condescensio),
«accondiscendenza, adattamento», che è proprio della tradizione greca35. Qui, pur preci-
sando che una tale prassi non va identificata con il carattere e il comportamento del kó-
lax/«adulatore», che invece è condannato da molti scrittori greci36, si sostiene che la
sygkatábasis dev’essere attuata con misura, come si legge per esempio in Epitteto: «Chi
scende di frequente a contatto (sygkathiénta) con gli altri … dovrà necessariamente o ugua-
gliarsi a loro (ekeínois exomoiōthênai) o trasportare loro al proprio livello (ekeínous metatheî-
nai epì tà autoû). Infatti, se si pone un carbone mezzo spento vicino a uno che brucia, o
quello spegnerà questo o questo infiammerà quello … Poiché dunque il rischio è alto, bi-
sognerà essere molto circospetti nell’accondiscendere (eulabôs deî sygkathíesthai) a simili re-
lazioni…»37. In quanto tale il criterio era applicato, oltre che in retorica38, soprattutto a
proposito di un appartenente a una classe sociale alta che si china verso chi stava più in
basso39. Una sua specificazione riguarda la condiscendenza divina, come si legge in Filone
Al. a proposito del sogno di Giacobbe circa la scala con gli angeli che salivano e scendeva-
no (cf. Gen 28,12-13): «Salgono e scendono le parole divine: quando salgono portano
l’anima con sé…, quando scendono lo fanno per accondiscendere con amore e misericor-
dia (sygkatabaínontes dià filantrōpían kaì éleon) verso il nostro genere»40. Ecco per esempio ciò
che scriverà Clemente Alessandrino sull’adattamento di Paolo secondo il passo di 1Cor
9,19-23: «Colui che accondiscende a questo adattamento per la salvezza del prossimo (solo
ed esclusivamente per la salvezza di coloro per i quali si adatta) non adopera nessuna fin-
zione … non subisce alcuna costrizione. Solo per il bene del prossimo farà certe cose, che
non avrebbe mai fatto a priori, se non per amor loro: questo come esempio per quanti sono
in grado di succedergli nel compito di educatore, amico degli uomini e amico di Dio; que-
sto per mostrare la verità delle sue parole, per rendere attivo l’amore verso il Signore»41.
Non c’è dunque affatto da meravigliarsi se l’Apostolo praticò una synkatábasis anche a
livello culturale e precisamente nell’assunzione di determinati concetti tipici del mondo
greco, a cui appartenevano i suoi normali destinatari. Lo possiamo constatare in rapporto,
sia allo stoicismo, sia a temi di varia natura, sia probabilmente anche all’ambito propria-
mente religioso.
———————
34
Cf. R. Penna, «Vangelo e cultura/e: un rapporto indispensabile», Teologia [Milano] 39 (2014) 509-537.
35
Cf. M. M. Mitchell, «Pauline Accomodation and ‘Condescension’ (synkatábasis): 1Cor 9:19-23 and the
History of Influence», in T. Engberg-Pedersen, ed., Paul Beyond the Judaism/Hellenism Divide, 197-214;
C.E.Glad, «Paul and Adaptability», in J.P. Sampley, Paul in the Greco-Roman World, 17-41; C.E. Glad, Paul and
Philodemus, 185-332.
36
Cf. Aristotele, Et.Eud. 1221a7; Teofrasto, I caratteri II; Plutarco, Quomodo adulator ab amico internoscatur (=
Mor. 48e-74e); su Filodemo cf. E. Kondo, «Per l’interpretazione del pensiero filodemeo sulla adulazione nel
PHerc. 1457», Cronache Ercolanesi 4 (1974) 43-56.
37
Epitteto, Diatr. 3,16,1-3 (dove il verbo sygkathíēmi risulta sinonimo di sygkatabaínō); in Ib. 2,9,19-22 Epit-
teto addirittura identifica il Giudeo con chi non deflette dalle proprie convizioni.
38
Cf. Cicerone, De oratore 1,31,138: «Primo dovere dell’oratore è parlare in modo adatto a persuadere (ad
persuadendum accomodate)».
39
Cf. Polibio 26,1.3 (in Ateneo, Deipnosofisti 5,193d: a proposito di Antioco Epifane).
40
Somn. 1,147. Filone Al. impiega anche il termine eterómorfos per indicare le diverse manifestazioni di
Dio, che conversa con gli uomini come un amico con amici (cf. De somn. 1,232-233). Ma il tema della
sugkatábasis sarà sviluppato propriamente in ambito cristiano-patristico (cf. K. Duchatelez, «La ‘condescen-
dence’ divine et l’histoire du salut», NRT 95 [1973] 593-621).
41
Clemente Al., Stromati 7,9 (53,4-5).
R. Penna, Paolo di Tarso e le componenti ellenistiche del suo pensiero – 7

4. Paolo e lo stoicismo.
Sono più di uno i segni della presenza o almeno di qualche eco della filosofia stoica nel-
le lettere di Paolo42. I princìpi di questa scuola, infatti, per loro natura non sono lontani da
alcuni elementi propri del cristianesimo, se appena teniamo conto di quanto ne scrive Se-
neca: «Nessuna scuola è più benevola e gentile (benignior leniorque), nessuna più amante
degli uomini (amantior hominum) e più attenta al bene comune (communis boni attentior), co-
sicché suo oggetto dichiarato è di essere di utilità e aiuto (usui esse et auxilio) e di conside-
rare non soltanto l’interesse individuale ma l’interesse di ciascuno e di tutti (universis sin-
gulisque)» (Clem. 2,5,2-3)43. L’ormai classica monografia di Engberg-Pedersen ha fatto una
disamina approfondita di questa presenza stoica nelle tre lettere ai Filippesi, ai Galati, e ai
Romani, sia pure indulgendo un po’ troppo sulle somiglianze più che sulle differenze44.
Certo va detto chiaramente che Paolo non è affatto un rappresentante dello stoicismo, e
una piccola ma significativa spia della differenza si vede nel suo uso pressoché inesistente
del concetto di aretē/«virtù», che egli impiega una volta sola (in Fil 4,8), in un testo peral-
tro formulato in termini assiomatici, mentre lo stoicismo già con Zenone di Cizio la esalta
addirittura come «sommo bene»45 e la identifica perfino con la felicità46.
Ma vediamo più in dettaglio e in sintesi, senza presumere la completezza47, alcuni punti
che di fatto costituiscono un evidente terreno comune tra le due parti.
4.1 - In primo luogo richiamo quei testi, in cui l’Apostolo definisce la comunità cristiana
e soprattutto gli stessi singoli cristiani come tempio-abitazione di Dio (cf. 1Cor 6,19: «Non
sapete che il vostro corpo è tempio dello spirito santo che è in voi e che avete da Dio?»). E’
vero che l’immagine del tempio applicata alla comunità intera (cf. 1Cor 3,16.17b) non è
stoica, trovandosi invece a Qumran (cf. 1QS 8,5; 11,8s), ma propriamente stoica invece è
l’idea di una presenza o inabitazione di dio o del divino in ogni singolo uomo. Infatti lo si
legge a chiare lettere in più autori, e cioè in Seneca48, in Epitteto49, e in Marco Aurelio50.

———————
42
Eventuali componenti del pensiero di Paolo riconducibili a schemi propri del cinismo (cf. F.G. Dow-
ning, Cynics, Paul and the Pauline Churches. Cynics and Christian Origins II, Routledge, London 1998) si posso-
no benissimo inserire all’interno della prospettiva stoica. Infatti, pur tenendo conto che «i Cinici svolgevano
la loro attività nei vicoli e per le strade di campagna, come predicatori e consolatori dei membri delle classi
inferiori, … quella che essi diffondevano come “filosofia cinica” in realtà non era altro che uno stoicismo più
grossolano … Del resto, le differenze tendevano tanto più facilmente ad obliterarsi in quanto anche alcuni
Stoici si sentivano chiamati ad assistere spiritualmentegli infelici e gli oppressi … Epitteto trasfigurava il Ci-
nico ideale in un messo di Dio…» (M. Pohlenz, La Stoa. Storia di un movimento spirituale, Bompiani, Milano
2005, 583-584).
43
Cf. in generale T. Engberg-Pedersen, «Paul, virtues, and vices», in J.P. Sampley, Paul in the Greco-Roman
World, 608-633.
44
Cf. T. Engberg-Pedersen, Paul and the Stoics, cit.; Id., «Stoicism in Philippians», in Id., Paul in His Hellen-
istic Context, 256-290. Sulle differenze, a proposito di Rom 12, insiste troppo Ph.F. Esler, «Paul and Stoicism:
Romans 12 as a Test Case», NTS 50 (2004) 106-124; in polemica con questo Autore si dimostra invece giusta-
mente più equilibrato R.M. Thorsteinsson, «Paul and Roman Stoicism: Romans 12 and Contemporary Stoic
Ethics», JSNT 29 (2006) 139-161 specie 147-159.
45
In SVF I,47,187.
46
In SVF I,47,189; cf. anche Crisippo, in SVF III,16,66.
47
Per esempio, sul concetto tipicamente stoico dell’indifferenza/adiaforía (anche se in Paolo manca il les-
sico specifico), cf. W. Deming, «Paul and indifferent things», in J.P. Sampley, Paul in the Greco-Roman World,
384-403; sul suo valore nello stoicismo, cf. M. Pohlenz, La Stoa. Storia di un movimento spirituale, 245-249.
48
Cf. Epist. 41,1-2: «Dio ti sta vicino, è con te, è dentro di te (prope est a te deus, tecum est, intus est) … In noi
dimora uno spirito divino (sacer intra nos spiritus sedet), che osserva e sorveglia il male e il bene che facciamo».
49
Cf. Diatr. 1,14,14s: «Quando chiudete la porta e spegnete la luce, non dite mai che siete soli: non lo siete,
in realtà, ma c’è Dio all’interno (ho theòs éndon estì), e c’è il vostro demone»; 2,8,14: «Dio stesso nel tuo intimo
tutto osserva e tutto ascolta».
8 – Seminario sulla letteratura paolina – PIB 23-27 gennaio 2017

Ovviamente la differenza sta nella concezione di questo ospite interno, che per gli stoici è
il logos razionale mentre per Paolo è lo Spirito Santo (cf. anche 2Cor 1,22; Gal 4,6). Ma
l’affermazione di una presenza divina nell’individuo è del tutto analoga.
4.2 - Tipico ideale stoico è l’autárcheia, cioè la facoltà di disporre autonomamente di se
stessi senza dipendere dalle circostanze esteriori. Paolo condivide questo ideale e lo dice
con chiarezza in 1Tes 4,12 («Non avere bisogno di nessuno») e in Fil 4,11-12 («Ho imparato
a bastare a me stesso [autárchēs eînai] in ogni occasione: ho imparato a essere povero e ho
imparato a essere ricco; sono iniziato a tutto, in ogni maniera; alla sazietà e alla fame,
all’abondanza e all’indigenza»). Analogamente Epitteto dice di sé: «Sono senza casa, senza
città, senza beni, senza schiavi; il mio giaciglio è la terra; non ho moglie, non figli, non una
casetta, ma la terra soltano e il cielo e un unico mantello. Eppure, che cosa mi manca?»
(Diatr. 3,22,47). Il medesimo concetto paolino viene espresso da Marco Aurelio quando af-
ferma esplicitamente di avere imparato ad «aver bisogno di poche cose e a fare da solo»
(Ric. 1,5: tò oligodeès kaì tò autourgikón). Le parole e le idee di Paolo dunque ricalcano né più
né meno quelle dello stoico51.
4.3 - Affine a questa tematica è il concetto di hypomonē, «pazienza, sopportazione» (Rom
5,3.4; 8,25; 15,4.5; 2Cor 1,6; 6,4; 12,12; 1Tes 1,3). Si tratta di un atteggiamento tipico della fi-
losofia stoica, tanto che Seneca le dedicò un intero trattato: De constantia sapientis, «La fer-
mezza/inalterabilità del saggio». Qui il filosofo si esprime con i bellissimi accenti di un
ascetismo, che avrà notevoli influssi anche sulla successiva spiritualità cristiana. Vi leg-
giamo che il sapiente è come uno scoglio, contro cui si infrangono le onde più minacciose
senza alcun suo danno (cf. 3,5)52: «Egli sopporta ogni cosa, come sopporta il rigore
dell’inverno, le intemperie, la febbre, la malattia e tutte le altre circostanze dovute alla sor-
te … Egli appartiene alla categoria degli atleti, i quali con lungo e costante esercizio sono
riusciti ad acquistare la forza di sopportare e di fiaccare ogni assalto nemico» (9,1.5); tutto
ciò è possibile nella misura in cui il saggio «fondato sulla ragione (ratione innixus) passa at-
traverso le vicende umane con animo divino» (8,3); di qui l’esortazione conclusiva: «Di-
fendi il posto che la natura ti ha assegnato. Tu chiedi qual è questo posto? Quello di uo-
mo!» (19,4)53. Ciò che distingue l’Apostolo sono le motivazioni: esse non risiedono nella
sola ragione, ma si fondano sui dati della fede e in specie dell’assimilazione a Cristo e della
inabitazione dello Spirito54.
4.4 - In Rom 1,24-31 Paolo enumera una serie di vizi ritenuti conseguenza della idolatria
come misconoscimento della vera identità di Dio da parte degli uomini. Per tre volte
(vv.24.26.28) egli afferma in termini ripetitivi che «Dio li consegnò» a una serie di passioni
disonorevoli, che vanno dalla omosessualità alla mancanza di misericordia. In questo mo-
———————
50
Cf. Ric. 3,4: «Un uomo che non indugia a mettersi tra gli ottimi è uguale a un sacerdote … che si dedica
al culto di quella divinità che è in lui» (cf. 3,5: «Quel dio che è in [ho en soì theós] te ti diriga…»). Vedi anche
Menandro, Monostichoi 107: «La coscienza è Dio per tutti i mortali»!
51
Più in generale sulla filosofia morale di età imperiale, cf. Teresa Morgan, Popular Morality in the Early
Roman Empire, University Press, Cambridge 2007.
52
L’immagine si ritrova in Marco Aurelio, secondo cui bisogna «assomigliare allo scoglio, contro cui si in-
frangono continuamente le onde ed esso rimane fermo e intorno ad esso si placa il ribollire delle acque» (Ric.
4,49).
53
Ancora più famosa è la formula lapidaria attribuita a Epitteto come sigla e sintesi dell’intera morale
stoica, enunciata con un’altra terminologia ma dall’uguale significato: Substine et abstine, «sopporta e astieni-
ti» (in greco, anéchou kaì apéchou: Aulo Gellio, Notti attiche 17,19; secondo questo autore, inoltre, Epitteto «so-
leva dire che i due difetti di gran lunga più gravi e spregevoli sono la mancanza di sopportazione e
l’intemperanza»).
54
Cf. R. Penna, «La forza della pazienza (hypomonē) in Paolo», Parola Spirito e Vita 55 (2007,1) 139-149.
R. Penna, Paolo di Tarso e le componenti ellenistiche del suo pensiero – 9

do, evidentemente, Dio esercita un giudizio su di un’ampia varietà di peccatori. Ma la cosa


interessante è che questo giudizio, tutt’altro che essere rimandato al futuro escatologico
(così sarà soltanto nella successiva sezione Rom 2,1-11), si compie nel fatto stesso del com-
portamento immorale e depravato proprio dei viziosi, secondo quello che essere il princi-
pio di una giustizia immanente. Ebbene, traspare qui un concetto tipicamente stoico, che è
quello secondo cui, così come la virtù è premio a se stessa, allo stesso modo il vizio è casti-
go a se stesso. È esattamente ciò che leggiamo in Seneca: «La massima punizione dei delitti
sta in essi stessi» (Epist. 87,24: maximum scelerum supplicium in ipsis est)55. Questa enuncia-
zione stoica si fonda su delle premesse di fondo. In effetti, come scrive Pohlenz, «l’etica
greca deduce la moralità unicamente dalla physis dell’uomo … e fa astrazione da qualsiasi
potenza superiore che regoli il suo agire dal di fuori … Uno Zeus che con un suo decalogo
crei la moralità sarebbe stato inconcepibile per gli Elleni»56. L’uomo greco, infatti, fonda la
moralità nient’altro che nella legge di natura e nel logos inerente all’uomo57. Il fatto che
Paolo in Rom 1,24-31 non faccia nessun riferimento a un giudizio divino metastorico, oltre
a porre una questione sulle dipendenze redazionali della lettera, è segno che, almeno in
quella sezione, egli dipende da un background culturale extra-giudaico.
4.5 - Ciò che Paolo dice della comunità cristiana come sôma, «corpo» (Rom 12,4-5: «un
solo corpo in Cristo»; 1Cor 12,27: «voi siete corpo di Cristo»), ha delle chiare equivalenze
nella filosofia stoica58. La definizione non appartiene certamente alla tradizione giudaica,
perché nell’ottica di Israele non si poteva e non si può assolutamente parlare di un “corpo
del Cristo cioè del Messia” e tanto meno di un “corpo di Adonai, cioè di Yhwh”59. Perciò
l’interrogativo fondamentale consiste nel chiedersi se eventualmente esista a livello com-
parativistico un sintagma analogo a quello in oggetto a livello extratestuale60. A questo
scopo è necessario evitare (cosa che invece per lo più non si fa) quei casi in cui il concetto
di corpo viene utilizzato soltanto in forma generica o assoluta, anche se in rapporto a una
totalità, per esempio quando Crisippo definisce rispettivamente un’assemblea, un esercito
e un coro come se ciascuno di essi fosse «un corpo solo» (hèn sôma)61. Piuttosto, possono
entrare in conto solo quei casi in cui il termine «corpo» è costruito in modo tale da reggere
———————
55
Seneca continua: «Ti sbagli se rimandi la punizione al carnefice o al carcere: i delitti vengono puniti non
appena sono stati commessi, anzi mentre si commettono» (Epist. 87,25). Qualcosa di analogo si legge anche
in Sap 11,16 («con le cose con cui uno pecca, con quelle viene punito»; cf. pure 12,23); ma là si tratta di una
prospettiva per così dire più estrinsecistica, poiché il testo si riferisce agli Egiziani del tempo dell’esodo, i
quali quasi per contrappasso (ma si può ipotizzare anche il principio del taglione) vennero puniti dagli stessi
animali che erano oggetto di venerazione (cf. i Commenti).
56
M. Pohlenz, La Stoa. Storia di un movimento spirituale, 272.
57
Perciò, secondo Ario Didimo, può essere sgradito agli dèi solo ciò che è contro la virtù (in Stobeo II,105-
106). Del resto, già Zenone sentenziava che «nulla è male se non ciò che è moralmente turpe e vizioso» (SVF
I,46,185).
58
Cf. R. Penna, «La chiesa come Corpo di Cristo secondo S. Paolo. Metafora sociale-comunitaria o indivi-
duale-cristologica?», Lateranum 68 (2002) 243- 257.
59
Va però ricordato il misticismo seriore dello Shiur qomah/«misura del corpo», attestato in una successiva
corrente di età rabbinica (il più antico manoscritto è del sec. X) e consistente nella descrizione dell’ampiezza
del «corpo del creatore» a dimensione cosmica (cf. P. van der Horst, «The Measurement of the Body. A
Chapter in the History of Ancient Jewish Mysticism», in D. van der Plas, ed., Effigies Dei. Essays on the History
of Religions, Brill, Leiden 1987, 56-68, con traduzione del testo e bibliografia). È possibile che questa specula-
zione corrisponda ad altre di origine pagana, per cui v. sotto.
60
Vedi l’ampia e fondamentale documentazione in E. Schweizer, sw/ma ktl., GLNT XIII, 611-659.
61
SVF II, p. 124, 367. Su questa linea, vedi anche il celebre detto di Seneca a proposito del nostro inseri-
mento nel mondo: Membra sumus corporis magni, «Siamo tutti membra di un grande corpo» (Epist. 95,52; cf.
92,30). A questo uso appartiene anche il genitivo epesegetico impiegato da Platone: «il corpo dell’universo»
(Tim 31B: tò toû pantòs sôma), «il corpo del cosmo» (ib. 32,c: tò toû kósmou sôma). Analogamente Filone Al. af-
ferma che il cosmo è «il più grande dei corpi, tò mégiston sōmátōn, ed esso contiene nel proprio seno la molti-
tudine degli altri corpi come sue proprie membra, hōs oikeîa mérē» (Plant. 7).
10 – Seminario sulla letteratura paolina – PIB 23-27 gennaio 2017

uno specifico genitivo di specificazione. Ma i tipi di corpo sono tanti, e lo stoicismo in par-
ticolare ne enumera più di uno62. Perciò bisogna ulteriormente escludere sia il riferimento
al solo corpo morto di un persona63, visto che Paolo intende comunque una entità vivente,
sia il suo uso come semplice perifrasi per indicare una qualche persona viva individuale64,
sia anche la sua associazione a un termine astratto65.
Occorre invece tenere in conto eventuali designazioni di un insieme, possibilmente di
una collettività in quanto dipendente da una persona precisa o comunque relazionata ad
essa, in modo tale che specifichi il corpo con un genitivo. Ebbene, per quanto è dato sape-
re, una costruzione di questo genere esiste per esprimere una doppia semantica: a livello
cosmico per indicare l’universo e a livello politico per indicare la società civica. La prima,
attestata in testi orfici di non facile datazione, descrive il cosmo come un corpo immenso
identificato con Zeus (cf. Frammenti orfici 168,12.24: «Tutte queste cose [fuoco, acqua, terra,
aria, notte e giorno] giacciono nel grande corpo di Zeus, [Pánta gàr en Zēnòs megalōi táde
sōmati keîtai], … corpo raggiante, incrollabile, immenso») oppure ne indica le varie parti
come «membra» di un dio (cf. Inni orfici 11,3: qui, dopo aver definito il dio Pan come «tota-
lità del mondo», si definiscono il cielo, il mare, la terra, il fuoco, come membra dello stesso
Pan [táde gàr mélē estì tà Panós]»; nell’Inno 66 gli stessi elementi sono detti «membra di Efe-
sto»)66. A livello politico, invece, una interessante costruzione analoga a quella paolina è
reperibile in un dialogo dello stoico Seneca, nel quale il filosofo si rivolge a Nerone dichia-
randogli addirittura: «Tu sei l’anima della ua repubblica ed essa è il tuo corpo (tu animus
rei pubblicae tuae es, illa corpus tuum)»67, dove l’espressione «il tuo corpo» con l’aggettivo
possessivo equivale di fatto a come se avesse il nome proprio («il corpo di Nerone»). La
distinzione qui operata tra animus e corpus è sicuramente interessante, ma in ogni caso il
tono dell’insieme è celebrativo ed encomiastico; il filosofo infatti, scrivendo nell’anno 56,
vuole fare l’elogio della clemenza di Nerone (quello dei primi anni!), che in quanto princi-
pe «è il legame grazie al quale l’insieme della cosa pubblica resta coeso» (vinculum per quod
res publica cohaeret)68.
Una cosa è certa: il sintagma paolino non intende etichettare né una dimensione cosmi-
ca né un insieme politico, e per di più non è affatto laudativo. Resta perciò legittimo chie-
dersi come mai Paolo sia arrivato a una definizione tanto nuova e soprattutto che cosa
propriamente essa significhi. A questo proposito bisognerà certamente richiamare alcuni
———————
62
Seneca, seguendo la tradizione stoica, individua tre tipi (corpora continua, composita, ex distantibus): «Al-
cuni corpi sono continui, com’è l’uomo; altri composti, come una nave, una casa e tutti quelli le cui parti so-
no unite mediante commessure; altri sono costituiti da elementi discontinui e le loro parti rimangono separa-
te, come un esercito, un popolo, il senato; infatti, gli elementi, da cui tali corpi risultano, stanno uniti per leg-
ge o per ufficio, mentre per natura sono divisi e ciascuno sta a sé» (Epist. 102,6).
63
Oltre a Platone (cf. Republ. 469d: «E’ cosa ignobile … ritenere nemico il corpo di chi è morto, tò sôma toû
tethneōtos»), cf. anche Mc 15,43 dove si racconta di Giuseppe di Arimatea che chiese a Pilato «il corpo di Ge-
sù», e analogamente in Lc 24,3 secondo cui le donne al sepolcro «non trovarono il corpo del Signore Gesù».
64
Cf. Euripide, Medea 1108: «un figlio (sôma…téknōn) è giunto al fiore della giovinezza»; Erodoto 1,32,8:
«una persona sola (anthrópou sôma hén) non è affatto sufficiente a se stessa».
65
Cf. «il corpo del peccato» (Rom 6,6: tò sôma tês hamartías) o «il corpo della morte» (Rom 7,24: tò sôma toû
thanátou).
66
Ricordiamo qui che il testo citato dai Frammenti orfici si trova in Eusebio di Cesarea, Praep. Evang. 3,9
(ed è attribuito a Porfirio), mentre gli Inni orfici sono una raccolta di cui parla già Pausania nel sec. II d.C.
(9,30,12), ma che non esclude aggiunte successive. C’è chi sintetizza questa concezione sotto l’etichetta di
«Allgott als Makroanthropos», cioè del Dio universale come macro-uomo (cf. K.M. Fischer, Tendenz und Absi-
cht des Epheserbriefes, FRLANT 111, Vandenhoeck, Göttingen 1973, 68-75).
67
Seneca, De clementia 1,5,1.
68
Poco più avanti nello stesso paragrafo, rivolgendosi a Nerone, scrive: «Risparmi te stesso quando sem-
bra che risparmi qualcun altro. Bisogna risparmiare anche cittadini riprovevoli così come si risparmiano le
proprie membra malate»!
R. Penna, Paolo di Tarso e le componenti ellenistiche del suo pensiero – 11

dati cristologici tipici della fede cristiana, che qui tralasciamo. Ma in ogni caso un paralleli-
smo almeno formale con l’ambito stoico è innegabile.
4.6 - Resta da considerare un aspetto dello stoicismo, il cui influsso sull’Apostolo Paolo
è forse il più consistente. Si tratta dell’universalismo e dei suoi risvolti sulla concezione
dell’uomo e della società. Bisogna infatti ricordare che Paolo vive in una società da tempo
ormai globalmente segnata dall’impresa di Alessandro Magno, e che questa, almeno se-
condo la nobile interpretazione datane da uno scrittore come Plutarco di poco posteriore al
nostro Apostolo, era profondamente caratterizzata da fattori insieme di universalismo e di
unitarietà irrevocabilmente introdotti dal Macedone nel pensare comune. Ecco infatti ciò
che ne scrive Plutarco:
«(Alessandro) ritenendo di essere venuto come inviato divino (theóthen), armonizzatore e ricon-
ciliatore di tutte le cose (…) condusse a unità le cose più svariate, mescolando come in una cop-
pa dell’amicizia le vite e i costumi e i matrimoni e i modi di vivere; egli ordinò che tutti ritenes-
sero come patria l’intera ecumene, (…), come consanguinei i buoni e come stranieri i malvagi, e
che il Greco e il Barbaro non si distinguessero né per il mantello né per lo scudo né per la spada
né per la sopravveste, ma che il genere greco si dimostrasse tale per la virtù e il barbaro per la
malvagità. (...) Egli volle rendere tutto ciò che è sulla terra soggetto a una sola legge e a una sola
città (henòs lógou kaì mías politeías) e che tutti gli uomini si mostrassero come un solo popolo (hé-
na dêmon). A ciò egli del resto conformava se stesso. E se la divinità che aveva inviato quaggiù
l’anima di Alessandro non lo avesse richiamato troppo presto, una sola legge governerebbe tutti
gli uomini ed essi guarderebbero a una sola norma di giustizia come a una luce comune; ora in-
vece quella parte della terra, che non vide Alessandro, è rimasta priva della luce del sole. Infatti
il primo proposito della sua spedizione lo rivela come un filosofo, che pensa non di procurare
per sé delizie e opulenza ma per tutti gli uomini concordia e pace e comunione vicendevole
(homónoian kaì eirēnēn kaì koinōnían pròs allēlous)»69.
Certo è che, come scriveva il Wendland all’inizio del secolo XX, l’ampliamento dell’o-
rizzonte politico e geografico generò un vivo interesse per i popoli stranieri, tale da affie-
volire se non proprio eliminare l’orgogliosa autocoscienza nazionale che un tempo, dopo
le guerre persiane, aveva determinato in Grecia la drastica contrapposizione ai barbari70.
Fu la filosofia stoica a recepire e sviluppare ampiamente queste premesse. Come ben si
esprime il Pohlenz, «una rapida marcia trionfale portò la Stoa a una posizione di primato
nella vita spirituale dell’Oriente. (...Essa) si rese interprete del nuovo sentimento della vita
ellenistico, proclamò l’idea di un’umanità i cui membri sono tutti uniti l’uno all’altro da
un’inclinazione naturale e annunciò un nuovo ideale, che imponeva sì all’uomo dei doveri
verso i suoi simili, ma nello stesso tempo lo liberava da tutti i legami fisici e nazionali e ne
faceva un essere puramente spirituale»71, parte di un’ampia comunità sovranazionale, in
cui dominava il semplice principio dell’obbedienza alla legge naturale. In ambito giudaico
———————
69
Plutarco, De Alexandri Magni fortuna aut virtute 6.8.9 (= Mor. 329 CD, 330 DE); cf. L. Canfora, Ellenismo
(BCM 944), Roma-Bari 1987, 45s. Un altro personaggio molto più vicino nel tempo, Cesare Augusto, merita-
va elogi analoghi, che gli vengono infatti tributati da Filone Alessandrino, per «aver ammansito e composto
in armonia tutti i popoli selvaggi, ...aver accresciuto l’Eliade di molte altre Elladi, ...facendosi guardiano della
pace, ecc.» (Filone, Leg. ad C. 146-147). Cf. anche R. Penna, «L’immagine di Roma in Filone Alessandrino in
Flaccum e Legatio ad Caium», in: P. Catalano - P. Siniscalco (a cura), Roma fuori di Roma: istituzioni e immagini
(Da Roma alla Terza Roma-Studi V), Università degli studi “La sapienza”, Roma 1994, 45-57.
70
Cf. P. Wendland, La cultura ellenistico-romana nei suoi rapporti con giudaismo e cristianesimo (Biblioteca di
storia e storiografia dei tempi biblici 2), Paideia, Brescia 1986 (or. ted., Tübingen 19724, 19121), 62. Vedi anche
M. Hengel, Ebrei, Greci e Barbari. Aspetti dell’ellenizzazione del giudaismo in epoca precristiana (SB 56), Paideia,
Brescia 1981 (or. ted., Stuttgart 1976), 111-136.
71
H. Pohlenz, La Stoa. Storia di un movimento spirituale, 535 e 565-566. Cf. anche M. Spanneut, Permanence
du Stoicisme. De Zénon à Malraux, Gembloux 1973, 110-111.
12 – Seminario sulla letteratura paolina – PIB 23-27 gennaio 2017

è soprattutto Filone Alessandrino a dimostrare massicciamente nelle proprie opere


l’influsso di idee stoiche, oltre che platoniche. Per quanto sia dibattuta la questione se eti-
chettare il filosofo ebreo come stoico, platonico, eclettico o altro72, la presenza di tesi stoi-
che nelle sue opere, sulle quali però non ci soffermiamo, è non solo indubitabile ma ben
consistente73. Certamente stoicizzante è ciò che scrive a proposito dell’uomo quando lo de-
finisce «cittadino del mondo (kosmopólitos)» in quanto si conforma a una legge comune
come volontà della natura74.
Per quanto riguarda la specifica dottrina dell’universalismo, essa può certamente avere
delle radici e delle connotazioni di tipo cinico75, ma finì per contraddistinguere tipicamen-
te la scuola stoica, forse anche per il fatto che gran parte dei filosofi del Portico furono di
origine non greca. Se alcuni studiosi negano queste idee per quanto riguarda la Stoa Anti-
ca di Zenone di Cizio76, esse sono però indubbiamente caratteristiche già di Crisippo e par-
ticolarmente della Media Stoa di Posidonio77. Quest’ultimo definisce significativamente il
cosmo come «un sistema di dèi e uomini e di tutto ciò che avviene per opera loro»78, così
da suggerire l’idea di un sýndesmos, un vincolo, che lega unitariamente tutti gli esseri tra di
loro79. Persino un poeta come Meleagro di Gadara, della Trasgiordania palestinese (ca.
140-70 a.C), sapeva che era del tutto indifferente la sua origine semitica: «Anche se sono un
siro, che importa? Noi abitiamo il mondo, o straniero, come se fosse un’unica patria»80! La
cosa è ancor più esplicita nella Stoa di età imperiale, e soprattutto in Seneca. Nessuno co-
me lui ha sottolineato l’uguaglianza tra gli uomini, come quando scrive che «la virtù è
possibile a tutti, e tutti per essa siamo nobili»81. È vero che il suo discorso in materia viene
esemplificato col ricorso alle disparità interne alla società (tra cavaliere, liberto, schiavo)82
———————
72
Vedi il buon status quaestionis di base tracciato da R. Arnaldez, «Introduction generale», in: Id., De opifi-
cio mundi (Les Oeuvres de Philon d’Alexandrie 1), Les Belles Lettres, Paris 1961,70-96.
73
Esemplificando si può accennare alle seguenti nozioni: la funzione del Logos, la provvidenza divina che
dà un’organizzazione finalistica all’universo, l’uomo come microcosmo, il mondo come città e la sua orga-
nizzazione come una costituzione della città, la teoria delle passioni e delle virtù, il dovere dell’uomo di ob-
bedire alla legge razionale che gli indica la via della vita nell’esercizio della virtù, ecc.
74
Filone Al., Opif. 1.
75
Questo dato è fortemente sottolineato da F.G. Downing, «Cynic Preparation for Paul’s Gospel for Jew
and Greek, Slave and Free, Male and Female», NTS 42 (1996) 454-462. Effettivamente, a quanto pare, già
Diogene di Sinope, «interrogato di dove fosse, rispose: kosmopolítēs» (Diog.L., Vit.phil. 6,63). Ma, prima anco-
ra, leggiamo già a proposito di Aristippo di Cirene, iniziatore della scuola edonistica, che, per non sottostare
alle regole della polis e quindi non condividere posizioni né di comando né di schiavitù, perseguiva la piena
libertà individuale col sentirsi «forestiero dovunque» (Senofonte, Memor. 2,1,13: xénos pantachoû eimi).
76
Cf. M. Isnardi Parente, Lo stoicismo ellenistico (I filosofi 59), Laterza, Roma-Bari 1993, 39-40. Contraria-
mente all’interpretazione che ne darà poi Plutarco, la Politeia di Zenone «è un modello teorico di città senza
barriere che nulla ha a che fare con l’opera di unificazione etnica progettata e in parte compiuta da Alessan-
dro: tale assenza di barriere non riguarda gli uomini in generale, né tanto meno i popoli, ma i sapienti, che di
tale città perfetta sono i soli e veri cittadini» (39).
77
Secondo Crisippo, «il cosmo è governato secondo intelletto e provvidenza» (in: Diog.L., Vit.phil. 7,138 =
SVF 11,634) e «le nostre nature individuali sono parte di quella universale» (in: Ibid. 7,87 = SVF 111,4). Ancor
più, secondo Posidonio, esiste una syn-géneia fra le stirpi umane (il tema è già accennato in Eschilo, Pers. 185-
186, dove la Grecia e la barbara Asia appaiono come una coppia di sorelle della stessa razza), che vengono
guidate non tanto dalla Týche quanto dalla Prónoia divina; questa, ancor più positivamente di quella, fa sì che
popoli oscuri possano emergere dall’ombra per diventare dominatori di altri popoli famosi e potenti (come i
Macedoni nei confronti dei Persiani, o come i Romani nei confronti della Grecia e dei regni ellenistici): essi
così si fanno quasi strumenti e concause del governo provvidenziale del cosmo, che è come una sola città ret-
ta sapientemente. Cf. Isnardi Parente, Lo stoicismo ellenistico, 104-105 e 149-151.
78
In: Diog.L., Vit.phil. 7, 138.
79
Cf. É. des Places, Syngéneia. La parenté de l’homme avec Dieu d’Homère à la Patristìque, Klincksieck, Paris
1964, 145-149.
80
Anth. Graeca VII, 417,5-6 (e continua: «l’unico Caos ha generato tutti i mortali»).
81
L.A. Seneca, Epist. 44,3.
82
Cf. L.A. Seneca, Epist. 31,11.
R. Penna, Paolo di Tarso e le componenti ellenistiche del suo pensiero – 13

più che non alla diversità con i barbari o tra i popoli in generale. Tuttavia, egli parla degli
uomini senza alcuna distinzione, quando, chiedendosi quali norme possa fornire per il lo-
ro comportamento, così si esprime:
«Posso brevemente insegnare la seguente norma a cui deve attenersi l’uomo nel compimento
del suo dovere: Tutto quello che tu vedi, in cui è racchiuso insieme il divino e l’umano, costitui-
sce una sola cosa; siamo membra di un solo grande corpo (omne hoc quod vides... unum est;membra
sumus corporis magni). La natura ci ha generati stretti da legami di intima parentela (cognatos),
poiché siamo formati degli stessi elementi e tendiamo allo stesso fine. Essa ci ha ispirato un
amore reciproco e ci ha fatti socievoli. (...) Ci stia sempre nel cuore e sulle labbra quel verso fa-
moso: Sono un uomo, e nulla di umano ritengo a me estraneo»83.
Questa tematica concernente l’uomo come cittadino del mondo, e quindi superiore a
ogni particolarismo di qualsiasi specie, si ritrova pure in Epitteto e in Marco Aurelio84.
È fin troppo facile richiamare e collocare sulla stessa linea anche alcuni passi delle lette-
re paoline, che si presentano obiettivamente paralleli; nessun commento, del resto, manca
di annotarlo. Lo si può costatare, non solo dove l’Apostolo parla della comunità dei bat-
tezzati come unico «corpo di Cristo» (cf. sopra), ma soprattutto là dove egli nega
l’esistenza di qualunque distinzione tra Greci e Barbari (cf. Rom 1,15) o tra Giudeo e Greco
(cf. Rom 3,9; 1Cor 13,13; Gal 3,28; Col 3,11). Il fatto inoppugnabile, per cui il vincolo inteso
dall’Apostolo non è quello della comunanza di natura bensì quello del battesimo e della
comune fede in Cristo, distanzia certo materialmente i due punti di vista, ma formalmente
si mantiene nella stessa ottica. Del resto, l’effettivo impegno apostolico dispiegato da Paolo
su vasta scala sta a dimostrare all’evidenza che per lui tra gli uomini «non c’è nessuna di-
stinzione» (Rom 3,22.29; 10,12)! Proprio la sua «tollerante indifferenza alle differenze» è ciò
che colpisce anche qualche autore contemporaneo non-credente85.

5. Concetti di provenienza varia.


Paolo dimostra di conoscere alcune concezioni di carattere tipicamente ellenico, espres-
se non solo in singoli vocaboli (cf. sopra: 1) o in concetti filosofico-stoici (cf. sopra: 4), ma in
sintagmi variamente costruiti e comunque espressione di un modo di esprimersi propria-
mente greco. Ne enumeriamo cinque.
5.1 – Il più interessante concerne il senso della morte di Gesù in quanto «mor-
to/consegnato per», apéthanen/parédōken hypèr…86, dove la destinazione della morte stessa
in Paolo è specificata o in senso impersonale («per i peccati»: formulazione tradizionale)87
o più frequentemente in senso personalistico («per noi, per me, per tutti, per gli empi, per
il fratello»)88. Ebbene, «questa formula non trova corrispondenze nell’Antico Testamento e
nella sfera delle lingue semitiche ed è, invece, frequente nei testi greci»89. Infatti, nella Bib-
bia l’eventuale destinazione di una morte è precisata con altre preposizioni (TM le, cal, min;
LXX perí e diá: sia nei testi sacrificali di Lev sia nel carme del servo di YHWH in Is 53), per
di più sempre in senso impersonale e non personalistico. La grecità invece attesta abbon-
———————
83
L.A. Seneca, Epist. 95,52s (con citazione di Terenzio, Heautontim. 77).
84
Vedi rispettivamente: Epitteto, Diatr. 2,5,26; 2,10,3-5 («Tu sei cittadino del mondo [polítēs toû kósmou] … Il
tutto è più importante della parte e la città più del cittadino»); e Marco Aurelio, Ric. 7,13 (dove si invita l’uomo
a considerarsi «membro» [mélos] e non solo «parte» [méros] dell’insieme/sýstēma degli esseri razionali).
85
Cf. A. Badiou, San Paolo. La fondazione dell’universalismo, Cronopio, Napoli 1999, 153.
86
Cf. le precisazioni di M. Hengel, Crocifissione ed espiazione, Paideia, Brescia 1988, 181-182.
87
Cf. 1Cor 15,3; Gal 1,4.
88
Cf. Rom 5,6.8; 14,9; 1Cor 1,13; 8,11; 2Cor 5,14.15.21; Gal 2,21; 3,13; 1Tes 5,10.
89
M. Hengel, Crocifissione ed espiazione, 196-197.
14 – Seminario sulla letteratura paolina – PIB 23-27 gennaio 2017

dantemente il tema di una morte affrontata e sostenuta in favore di altri ed espressa con la
preposizione «per», hypér (compreso il verbo composto hyper-apothnéskein), e la sua desti-
nazione può essere variamente specificata: «per la città, per gli amici, per la legge, per la
libertà, per tutti i Greci, per la salvezza, per la verità, per il paese»90. Valgano per tutti due
testi: uno di Euripide sul sacrificio di Ifigenia («Dò volentieri il mio corpo ad essere sacrifi-
cato per la mia patria e per l’intera Ellade»)91 e uno di Epitteto sull’amicizia («… mettersi
in pericolo per l’amico e, se è necessario, morire per lui»92.
5.2 – In Rom 2,14-15 Paolo afferma che i Gentili «pur non avendo legge sono legge a se
stessi: manifestano così che l’opera della legge è scritta nei loro cuori». Con queste parole
l’Apostolo fa chiaro riferimento al tema del nómos ágrafos, che è tradizionale nella grecità
antica. Esso è testimoniato in un arco di tempo che parte da Eraclito (con il concetto analo-
go di «armonia invisibile, migliore di quella visibile»)93 e da Sofocle («leggi non scritte e
immutabili degli dèi», ágrapta kasfalê theôn nómima)94 e giunge almeno fino a Dione di Pru-
sa (che contrappone le leggi positive degli stati con «la legge della natura», ho tês fýseōs
nómos)95. Pur non essendo quindi un tema esclusivo dello stoicismo, è tuttavia la filosofia
del Portico a svilupparlo96, dove si parla in termini di «legge comune» (koinòs nómos) come
si vede per esempio nell’«Inno a Zeus» di Cleante97 e in Epitteto98, per non dire di Cicero-
ne99. Sul versante giudaico un ruolo molto importante, anche sul piano linguistico, è stato
svolto da Filone Alessandrino100.
5.3 – In Rom 7,19, servendosi di un «io» retoricamente configurabile come fictio/enallage
personae, Paolo scrive: «Non compio il bene che voglio ma il male che non voglio»101. Sullo

———————
90
Oltre alla documentazione offerta da M. Hengel, Crocifissione ed espiazione, 139-165, cf. anche G. Pulci-
nellli, La morte di Gesù come espiazione. La concezione paolina, San Paolo, Cinisello Balsamo 2007, 199-215; R.
Penna, «“Morì per i nostri peccati” (1Cor 15,3b). Due categorie culturali intrecciate», in: F.Bianchini e S. Ro-
manello, a cura, Non mi vergogno del Vangelo, potenza di Dio. Studi in onore di Jean-Noël Aletti SJ, nel suo 70°
compleanno, AnBib 200, G&BPress, Roma 2012, 199-219.
91
Euripide, Ifig. in Aul. 1553-1555: toumòn dè sôma tês emês pátras / kaì tês hapásēs Helládos gaías hýper / thŷsai
dídōm’ hekoûsa.
92
Epitteto, Diatr. 2,7,3: kindyneûsai hypèr toû fílou, àn dè kaì apothaneîn hypèr autoû kathēkēi.
93
Fr. 54 D-K. Vedi M.Gigante, Nomos basileús, Bibliopolis, Napoli 21993, 50-55.
94
Sofocle, Antig. 454s.
95
Dione Crisostomo, Orat. 80,5-6; lo stesso Dione distingue esplicitamente tra legge ágrafos ed éggrafos (in
Orat. 76,1.3; vedi pure Dionigi di Alicarnasso, Ant.rom. 2,74,1).
96
Cf. H. Koester, «Nomos physeos. The Concept of Natural Law in Greek Thought», in J. Neusner, ed.,
Religions in Antiquity, Leiden 1968, 521-541; Ph. Mitsis, «Natural Law and Natural Right in Post-Aristotelian
Philosophy: The Stoics and Their Critics», in ANRW II,36.7, 4812-4850.
97
Cf. già il v.2 («Zeus, principio della natura, che tutte le cose con legge governi») e poi i vv. 12.20.24.38.
Vedi J.C. Thom, Cleanthes’ Hymn to Zeus. Text, Translation, and Commentary, STAC 33, Mohr, Tübingen 2005,
49-52.
98
A proposito del principio secondo cui ciò che è migliore deve prevalere su ciò che è peggiore, egli parla
insieme di «legge della natura e di dio» (Diatr. 1,29,19: nómos tês fýseōs kaì toû theoû; in 3,17,6 lo stesso princi-
pio viene definito «legge naturale», nómos fysikós).
99
Cf. De rep. 3,22,33: «La vera legge è la retta ragione in accordo con la natura (est quidem vera lex recta ratio
naturae congruens), universalmente presente, stabile ed eterna (diffusa in omnes, constans, sempiterna), che
chiama al dovere con i suoi comandi e distoglie dal male con i suoi divieti … Né possiamo scioglierci da
questa legge per opera del senato o del popolo, né va cercato un altro da noi che la spieghi o la interpreti, né
c’è una legge a Roma e un’altra ad Atene, o una adesso e un’altra in futuro, ma una sola, eterna e immutabile
legge sarà valida per tutti i popoli e in tutti i tempi, e uno solo sarà il maestro e la guida di tutti, Dio, lui che
di questa legge è autore, promulgatore e applicatore». Vedi anche De fin. 1,18-19: «La legge è la più alta ra-
gione insita nella natura [lex est ratio summa insita in natura], che ordina le cose da farsi e proibisce le contra-
rie, … è infatti la forza della natura [est enim naturae vis])».
100
L’Alessandrino impiega i sintagmi lógos fýseōs («ragione di natura»: De Jos. 29), thesmoì tês fýseōs («or-
dinamenti della natura»: ib. 30), orthòs lógos tês fýseōs («retta ragione della natura»: ib. 31).
101
Cf. R. Penna, Lettera ai Romani, 507-510.
R. Penna, Paolo di Tarso e le componenti ellenistiche del suo pensiero – 15

sfondo si potrebbe scorgere la discussione sulla akrasía o «intemperanza», propria di chi


non sa dominare se stesso, alla quale Aristotele dedica l’intero libro 7 della sua Etica Ni-
comachea (cf. 7,1,1145b: «L’incontinente, a causa della passione, compie azioni pur sapen-
do che sono malvagie»). Ma il vero topos a cui è riconducibile il testo paolino comincia con
il testo classico di una tragedia del sec. V a.C., la Medea di Euripide, dove l’eroina straniera,
già a Corinto e tradita dal marito Giasone, si fa violenza per uccidere come ritorsione i loro
due figli ed esclama: «Sono vinta dai mali (nikômai kakoîs), e capisco (manthánō) il male che
sto per fare, ma la collera è più forte della mia volontà (thymòs dè kreíssōn tôn emôn bouleu-
mátōn), essa che è la causa dei mali peggiori tra i mortali»102. Anche Platone afferma ripetu-
tamente che gli uomini, pur conoscendo il bene, tuttavia compiono il male103 e dà come
motivo il semplice fatto che il bene non è all’altezza di vincere il male104, cosicché «l’anima
tiranneggiata non farà affatto ciò che vuole (hēkista poiēsei hà àn boulēthêi), ma sempre tra-
scinata con violenza da un pungolo, sarà piena di turbamento e di rimorso»105. La figura di
Medea diventa poi un archetipo soprattutto nella letteratura e nello stoicismo. Per la lette-
ratura si deve citare Ovidio, anche se egli trasferisce il dramma di Medea al momento ini-
ziale, quando ella ancora nella Colchide non sa resistere alla fiamma d’amore per lo stra-
niero Giasone: «Dopo aver lottato a lungo, vedendo di non poter vincere con la ragione
quella folle passione (postquam ratione furorem vincere non poterat), dice: Invano, Medea, cer-
chi di resistere, dev’esserci qualche dio che si oppone … Mio malgrado, un impulso mai
prima provato mi trascina (sed trahit invitam nova vis) e la bramosia mi consiglia una cosa,
la mente un’altra. Vedo le cose migliori e le approvo, ma seguo le peggiori (video meliora
proboque, deteriora sequor)»106. Anche Seneca in una sua tragedia ripete questo modulo, pur
trasponendo il dramma nell’amore incestuoso di Fedra per il figliastro Ippolito: «Io so che
quanto dici è vero, ma una folle passione mi costringe a seguire le cose peggiori (sed furor
cogit sequi peiora). Pur sapendolo, la mia anima va verso il precipizio e invano cerca buoni
consigli (…) Che può fare la ragione? Vince e regna la folle passione, e un dio potente sog-
gioga tutta la mente (…) Chiamo a testimoni tutti voi, o Celesti, che io non voglio ciò che
voglio (hoc quod volo me nolle)» 107!
Nello stoicismo di età imperiale si ritrova la stessa tematica soprattutto in Epitteto. In
lui riemerge l’intellettualismo etico di Socrate applicato proprio a Medea: «Ella ha ritenuto
più vantaggioso indulgere alla collera e vendicarsi dello sposo piuttosto che salvare i figli
… Mostrale chiaramente che si è ingannata (exēpátētai) e non lo farà (kaì ou poiēsei)»108;
«Ogni sbaglio infatti implica una contraddizione (pân hamártēma máchēn periéchei). Poiché
chi pecca non vuole peccare ma fare la cosa giusta, è chiaro che non fa ciò che vuole (ho
mèn thélei ou poieî) … E’ dunque abile chi può porre davanti a ciascuno la contraddizione
che lo induce nello sbaglio e provargli chiaramente che non fa quello che vuole ma quel
———————
102
Med. 1077-1080. Lo stesso Euripide, in un’altra tragedia e in termini più moralistici, confessa per bocca
di Fedra: «Già altre volte nelle lunghe notti riflettevo sul come si corrompa la vita degli uomini. E mi sembra
che essi facciano le cose peggiori non per predisposizione naturale (ou katà gnōmēs fýsin), poiché tanti sono
sani di intelletto. Ma per me le cose stanno così: noi apprendiamo e conosciamo il bene (tà chrēst’epistámetha
kaì ginōskomen), ma non ci impegnamo a praticarlo (ouk ekponoûmen) o per pigrizia o perché si antepongono
al bene altri piaceri» (Ippol. 375-382).
103
Cf. Platone, Protag. 352d.355a-c.
104
Cf. ib. 355c-d.
105
Platone, Republ. 577e.
106
Ovidio, Metam. 7,10-11.19-21. Vedi anche Diodoro Siculo 1,71,3: «Spesso alcuni, pur sapendo che stan-
no per sbagliare, tuttavia commettono atti deplorevoli, sopraffatti dall’amore o dall’odio o da qualche altra
passione».
107
Seneca, Fedra 177-185. 604s.
108
Epitteto, Diatr. 1,28,7-8.
16 – Seminario sulla letteratura paolina – PIB 23-27 gennaio 2017

che non vuole (ho thélei ou poieî kaì ho mē thélei poieî). Se si riesce a mostrare questo a un
uomo, egli tornerà indietro da sé»109.
5.4 – Una diffusa presenza di presupposizioni elleniche si trova anche nel brano 2Cor
4,7-5,10 a livello di concezioni antropologiche110. A parte l’immagine del «vaso» (cf. 4,7:
«Abbiamo questo tesoro in vasi di creta»), che appartiene piuttosto alla Bibbia greca e pre-
suppone l’idea ebraica di Dio come vasaio111, Paolo ricorre a quattro immagini che hanno
delle chiare ascendenze greche. La prima riguarda la distinzione tra «il nostro uomo este-
riore» (ho éxō hēmôn ántrōpos) e «quello interiore» (ho ésō hēmôn) (2Cor 4,16). Sullo fondo si
intravede una prospettiva platonica112 rinvenibile particolarmente in Rep. 9,589a-b
(«l’uomo interiore deve avere la massima padronanza dell’essere umano», toû anthrōpou ho
entòs ánthrōpos éstai egkratéstatos), ma poi attestata in varie altre fonti113. La seconda concer-
ne l’immagine della «casa/oikía» (2Cor 5,1-2a), che a monte può ritrovare l’idea platonica
della morte come metoíkēsis, «cambiamento di casa, trasloco» (cf. Apol. 40c), così come Filo-
ne Al. ritiene precisamente il corpo come oikía dell’anima114. A questa immagine appartie-
ne anche quella affine di «tenda/skênos» (2Cor 5,1: oikía toû skēnous), altrettanto ben attesta-
ta nella grecità pagana, oltre che in quella biblica115. Una terza immagine è quella
dell’esilio (cf.2Cor 5,6.8.9). Già Socrate parlava della prorpia morte come «emigrazione»
(apodēmía: Platone, Fed. 67), anche se il concetto, oltre che in Plutarco (cf. De facie 943C), è
attestato soprattutto in Filone Al.116. Un’ultima immagine antropologica usata da Paolo è
quella del contrasto «vestito-nudità» (2Cor 5,2b-4). Già Empedocle parlava della carne co-
me «rivestimento» (fr. 126 D-K), ma l’idea emerge all’evidenza in Platone (cf. Gorg. 523 c-d
sul giudizio divino: ora i vivi sono «vestiti/ampechómenoi», ma poi saranno «nu-
di/gymnoí») e si ritroverà in Seneca (cf. Epist. 92,13; 102,25). Per un giudizio su questi vari
debiti paolini verso la grecità bisogna riconoscere che essi sono più di linguaggio che di
sostanza. Due differenze vanno infati segnalate: da una parte, Paolo in questo discorso an-
tropologico non impiega mai il binomio antitetico sôma-psychē, «corpo-anima», evitando
così il tipico dualismo platonico; dall’altra, di conseguenza, egli non deprezza mai il corpo,
tanto che il concetto di immortalità/athanasía viene da lui paradossalmente impiegato
proprio e soltanto a proposito del corpo (cf. 1Cor 15,53.54)117.
———————
109
Ib., 2,26,1-5. Una ulteriore eco del caso di Medea si ritrova in uno scritto minore di Galeno, che parla di
due istanze (dýo archaí) nell’uomo: una logikē con la quale si conoscono le cose e una álogos che conduce alle
passioni irrazionali («Proprio questa ha fatto violenza [ebiásato] a Medea»: Plac. Hipp. et Plat. 408s).
110
Cf. R. Penna, «Sofferenze apostoliche, antropologia ed escatologia in 2Cor 4,7-5,10», in Id., L’Apostolo
Paolo. Studi di esegesi e teologia, San Paolo, Cinisello Balsamo 1991, 269-298, specie 281-288; D.E. Aune, «An-
thropological Duality in the Eschatology of 2 Corinthians 4:16-5:10», in T. Engberg-Pedersen, Paul Beyond the
Judaism/Hellenism Divide, 215-239; e l’esegesi di A.Pitta, La seconda lettera ai Corinzi, Borla, Roma 2006, 211-251.
111
Cf. tuttavia Cicerone: «Il corpo è come un vaso o un contenitore dell’animo, nam corpus quidem vas est
aut aliquod animi receptaculum» (Tusc. 1,22,52); inoltre: Lucrezio, Rer.nat. 3,440 e 555.
112
Cf. T.K. Heckel, Der Innere Mensch. Die paulinische Verarbeitung eines platonischen Motivs, WUNT 2.53,
Mohr, Tübingen 1993.
113
Cf. Filone Al., Det.pot.ins. 22s; Agr. 8.108; ecc.; Epitteto, Diatr. 2,7,3; 2,8,14; 3,3,13; inoltre: Corpus Herme-
ticum 1,15; Plotino, Enn. 3,2,15.
114
Cf. Det.pot.ins.33; Praem. 120; Omn.prob.lib. 111; in Virt. 77 la morte è detta apoikía. Si veda anche l’idea
contraria, secondo cui il corpo non è una vera casa ma una aliena domus (Cicerone, Tusc. 1,22,51; e Senect.
23,84; Seneca, Epist. 65,21) poiché la vera casa è il cielo dopo la morte (cf. Cicerone, Tusc. 1,22,51; Divin.
1,25,53).
115
Cf. W. Michaelis, skênos, in GLNT XII, 486-487.
116
Cf. Rer.div.her. 82: «La vita nel corpo tutta intera è un esilio»; cf. anche ib. 276; Somn. 1,180-181; Conf.
76-82.
117
Perciò l’esortazione che si legge in Rom 8,13 («Se con lo Spirito mettete a morte le azioni del corpo, vi-
vrete») stando al contesto (in cui si contrappone lo Spirito alla carne) significa semplicemente rinunciare a
un’autonoma affermazione di sé; bisogna infatti precisare che non dice di ‘mortificare’ il corpo ma le sue
R. Penna, Paolo di Tarso e le componenti ellenistiche del suo pensiero – 17

5.5 – L’eco di un background greco si può intravedere anche nell’affermazione di Fil 2,6-
7, là dove, nella celebrazione innica di Gesù Cristo, si parla di un cambiamento di morfē da
quella di Dio a quella di schiavo118. L’affermazione si comprende al meglio, tenendo pre-
sente un assunto fondamentale della filosofia greca, con il quale il nostro testo si trova in
antitesi. Questo principio si trova chiaramente espresso in una pagina celebre della Repub-
blica di Platone, dove il filosofo polemizza direttamente contro i miti e i mitografi, che de-
scrivono le varie metamorfosi degli dèi, disonorandoli:
«Credi tu che il dio sia un ciarlatano capace di apparire a piacimento secondo aspetti diversi (en
állais idéais), mutando la sua apparenza (alláttonta tò hautoû eîdos) in molte forme (eis pollàs
morfás)? Oppure credi che sia semplice e non esca assolutamente mai dal suo aspetto? … La di-
vinità e ciò che la concerne godono in tutto e per tutto della condizione migliore … Di conse-
guenza il dio sarà l’essere meno soggetto ad assumere molte sembianze (pollàs morfás) … Sem-
mai muta se stesso in ciò che è migliore e più bello … Ti sembra che qualcuno, non importa se
dio o uomo, possa rendersi peggiore di sua volontà? È impossibile! Perciò è anche impossibile
che un dio voglia mutare se stesso (hautòn alloioûn); al contrario, avendo il più alto grado di bel-
lezza e di virtù, ognuno di essi resta sempre assolutamente nella propria forma (ménei aeì aplôs
en têi hautoû morfêi)» (380d-381c).
Platone prosegue subito dopo disapprovando i racconti dei poeti mitografi, segnata-
mente di Omero e di Eschilo, e raccomanda alle madri di non lasciarsi influenzare da loro
nell’educazione dei bambini (cf. 381c-383c)119. Naturalmente questa idea della divinità
coincide con quanto Platone pensa e scrive anche altrove circa la sua assoluta immutabili-
tà. Nel Timeo, infatti, a proposito delle espressioni temporali del verbo «essere», egli scrive:
«Lo Era e il Sarà sono forme generate del tempo, che noi inconsapevolmente riferiamo a
torto all’essere eterno. Infatti, noi diciamo che esso Era e che E’ e che Sarà, e tuttavia solo lo
E’ gli conviene veramente, mentro lo Era e il Sarà si devono dire di ciò che è generato nel
tempo» (37e-38a). Su questa linea si pone anche la dottrina aristotelica della divinità intesa
come motore «immobile, impassibile e inalterabile», akínēton, apathēs, analloíōton (cf. Metafi-
sica L [XII], 6-7,1071b-1073a).
All’opposto, Omero fa dire a Odisseo rivolto ad Atena: «E’ difficile, o dea, riconoscerti
quando t’incontra un mortale, anche se è molto saggio: tu infatti ti rendi simile a chiun-
que» (Odissea 13, 312-313: ... sé gàr autēn pantì eískeis). Da parte sua, Euripide nelle Baccanti
fa dire a Dioniso: «Ho mutato la mia forma da quella di un dio in una umana/mortale
(morfēn d’ameípsas ek theoû brotesían) … Ho un aspetto mortale in seguito a un cambiamento
(eîdos thnētòn alláxas échō), e ho mutato la mia forma (morfēn t’emēn metébalon) in quella del-
la natura di un uomo (eis andròs fýsin)» (vv.4 e 53-54)120. D’altra parte, Ovidio inizia le sue

———————
azioni compiute sotto l’influsso della carne (cf. R.H. Gundry, «Sôma» in Biblical Theology, with Emphasis on
Pauline Soteriology, SNTS MS 29, University Press, Cambridge 1976, 39).
118
Oltre ai Commenti (tra cui A. Pitta, Lettera ai Filippesi, Paoline, Milano 2010, 139-147), cf. in specie R.
Penna, «Dalla forma di Dio alla forma di schiavo: due categorie culturali sullo sfondo di Fil 2,6-7», in: S.
Grasso – E. Manicardi, a cura, «Generati da una parola di verità» (Gc 1,18). Scritti in onore di Rinaldo Fabris nel
suo 70° compleanno, EDB, Bologna 2006, 279-287.
119
Cf. 382d: «In un dio non ci può essere un poeta mentitore». In questa direzione andava già sostanzial-
mente la critica di Senofane di Colofone, Framm. 11.12.15.16 D-K.
120
Ancor più eloquente è il caso di Apollo raccontato dallo stesso poeta nell’Alcesti fin dal suo incipit: qui
il dio ricorda di aver fatto il bovaro per un anno al servizio di Admeto re di Fere in Tessaglia, costretto dal
Padre Zeus che lo aveva cacciato dal cielo. Il mito racconta che Zeus cacciò Apollo dal cielo per un anno co-
me punizione per aver ucciso i Ciclopi; questa uccisione era stata un atto di ritorsione contro Zeus, che aveva
loro commissionato di forgiare il fulmine con cui fulminò il medico Asclepio (figlio dello stesso Apollo e del-
la donna mortale Coronide) poiché costui aveva resuscitato dei morti, un’attività che Zeus non poteva tolle-
18 – Seminario sulla letteratura paolina – PIB 23-27 gennaio 2017

Metamorfosi (che certo trattano di dèi, anche se non soltanto di loro) con questo verso pro-
grammatico: In nova fert animus mutatas dicere formas / corpora («L’estro mi spinge a narrare
di forme mutate in corpi nuovi»).
Ebbene, l’affermazione di Fil 2,6-7 si pone direttamente in rotta di collisione con la sud-
detta concezione filosofica della divinità, mentre invece si trova paradossalmente sulla li-
nea di quella mitologica, che la filosofia combatteva! Il fatto poi che parli addirittura di
una kénōsis di colui che era «in forma di dio» non ha alcun confronto linguistico possibile.
Lo gnosticismo successivo, semmai, parlerà della divinità come appartenente alla sfera
della «pienezza»/plērōma e di questo mondo inferiore come di un vuoto/kénōma121. Ma che
la divinità si sia svuotata, non si legge da nessuna parte. Certo l’affermazione di Fil 2,7
(heautòn ekénōsen) va letta come una metafora, comprensibile in quanto tale sia per il parti-
colare contesto celebrativo in cui si trova inserita, sia per lo sfondo di un uso immaginoso
del verbo kenoûn, quale si ritrova nel greco della LXX (cf. per esempio Rut 1,21 dove Noe-
mi esclama: «Ero partita piena e il Signore mi fa tornare vuota», cioè umiliata). In ogni ca-
so, ciò non infirma la concretezza estrema dell’asserzione e la ‘scandalosità’ che essa dove-
va suscitare in lettori o ascoltatori più raffinati. Forse è per attenuare una simile impres-
sione che Origene, riprendendo la categoria platonica dell’immutabilità, giustifica il cam-
biamento avvenuto in Cristo: «Per il suo amore verso gli uomini “svuotò se stesso” …
Nessun mutamento vi fu per lui dalla eccellenza alla estrema bassezza: come è possibile
infatti che sia estrema bassezza la bontà e l’amore per gli uomini?» (Contra Celsum 4,15).
Resta il fatto dell’affinità del nostro testo con la mitologia. Ciò non deve sorprendere
più di tanto. Anzi la constatazione è interessante e feconda. La fede cristiana, infatti, non
ha da proclamare una verità astratta sulla natura della Divinità o dell’Essere in sé, ma ha
essenzialmente qualcosa da raccontare. La sua professione di fede è più vicina alla narrati-
va che alla filosofia. Ricordiamo, del resto, che il termine mythos in greco significa fonda-
mentalmente «racconto»122. Certo il racconto dell’evangelo cristiano non riguarda a sua
volta una qualche mera verità sapienziale, universale e disincarnata, ma al contrario si in-
centra su di un personaggio storico in quanto protagonista di eventi unici nel loro genere,
che vanno narrati anche se interpretati. Detto con linguaggio giovanneo, la storia di Gesù è
quella di una ‘incarnazione’. Analogamente, il passo di Fil 2,6-7 esprime una sua propria
ermeneutica del kerygma narrativo che gli sta a monte. Esso all’inizio si interessa dello
stadio pre-storico di Gesù Cristo o meglio del suo passaggio da una condizione di esisten-
za a un’altra, da una morfē a un’altra. La persona e la storia di Gesù vengono così interpre-
tate in senso cristologico, col dire che colui che si fece obbediente «fino alla morte e a una
morte di croce» era inizialmente in una condizione totalmente altra, divina123, alla quale
inopinatamente rinunciò per assumere una condizione di schiavo. In tutto ciò, la categoria
della mitologia funziona come un puro mezzo espressivo, che evidenzia una certa qual

———————
rare temendo che essa sconvolgesse l’ordine del mondo (cf. P. Grimal, Dizionario di mitologia greca, Paideia,
Brescia 1987, 77-78 con citazione delle fonti).
121
Cf. K. Rudolph, La gnosi. Natura e storia di una religione tardoantica, BCR 63, Paideia, Brescia 2000, 117-
141. Nel Corpus Hermeticum il trattato ‘Poimandres’ specula sul Noûs divino che produce l’uomo, a cui dona
la propria morfē (cf. I,12-15).
122
Cf. la finale stereotipa delle favole di Esopo: ho mýthos deloî, «il racconto (non soltanto: la favola) inse-
gna». In generale, cf. per esempio J.-P. Vernant, Mito e pensiero presso i Greci. Studi di psicolologia storica, Ei-
naudi, Torino 2001. Per una buona messa a punto della discussione in materia, cf. G. Betori, «Mito», in P.
Rossano, G. Ravasi, A. Girlanda, a cura, Nuovo dizionario di teologia biblica, San Paolo, Cinisello Balsamo 1988,
993-1012.
123
Sul rapporto nel v.6 tra en morfêi theoû e tò eînai ísa theôi, cf. D. Burk, «On the Articular Infinitive in Phi-
lippians 2:6: A Grammatical Note with Christological Implications», TyndBull 55 (2004) 253-274.
R. Penna, Paolo di Tarso e le componenti ellenistiche del suo pensiero – 19

analogia basata su di una comparazione culturale, ma che ovviamente a livello contenuti-


stico diverge totalmente.
In più, va ancora precisato che i racconti mitologici della grecità non hanno un reale
confronto con l’ambito semitico124. Qui esiste naturalmente un pantheon assai numeroso,
contrassegnato da un diffuso e marcato antropomorfismo. Ma la presenza degli dèi tra gli
esseri umani avviene piuttosto mediante specifiche e solenni teofanie, a parte il fatto che si
crede nella divinità di alcuni uomini (di fatto i re) ed eventualmente di alcuni animali. Ciò
non implica però vere e proprie metamorfosi temporanee delle varie divinità in forme
umane, di cui pertanto non esistono racconti paragonabili a quelli della mitologia greca125.
Una eccezione parrebbe quella raccontata nel mito babilonese di Era (dio degli inferi e del-
la distruzione); qui, riecheggiando alcuni momenti tragici vissuti da Babilonia nella II metà
del II millennio a.C. quando fu invasa da nomadi sutei, ci si rivolge al dio così: «Tu hai
cambiato la tua divinità per farti simile a un uomo, tu hai rivestito le tue armi e sei entrato
nella città … Tu hai assunto l’aspetto di un leone e sei entrato nel Palazzo» (IV,4 e 21)126.
Ma è chiaro che si tratta di pure metafore per dire che gli invasori erano emissari e rappre-
sentanti del dio.
5.6 – Da ultimo va segnalato il testo di Fil 2,17, dove Paolo enuncia la possibilità di «es-
sere versato in libagione (ei kaì spéndomai) sul sacrificio della fede» dei cristiani di Filippi.
Come è stato ben dimostrato127, la metafora si riferisce non alle sofferenze apostoliche di
Paolo sopportate in vita (specie nella prigionìa) ma alla prospettiva drammatica di una
morte imminente. Ebbene, mentre la voce spéndomai, che è un tipico verbo di ambito cul-
tuale (= versamento di liquidi [di volta in volta olio, vino, acqua] in onore di un Dio)128
nelle 21 occorrenze del greco della LXX non è mai utilizzato per designare la libagione del
sangue, lo è invece in alcuni testi della letteratura greca e latina129. A questo proposito en-
trano in conto Pausania, Perieg. 8,2,3 (dove Licaone liba a Zeus con il sangue di un bambi-
no sacrificato), e Tacito, Ann. 16,35,1-2 (dove si descrive il suicidio che per ordine di Nero-
ne compie il console Trasea Peto, che con il suo sangue liba a Giove Liberatore)130. Perciò il
mori lucrum di Paolo rappresenta un caso analogo, motivato non certo dal disprezzo della
vita o dalla insopportabilità delle sofferenze patite, ma dal desiderio di essere con Cristo e
dall’utilità che la sua morte può avere per la fede dei Filippesi.

6. Analogie con i culti misterici?


Il punto interrogativo riguarda la possibilità di individuare in Paolo delle eventuali
consonanze/dipendenze nell’ambito del linguaggio non soltanto filosofico ma anche pro-
priamente religioso. Nello stesso tempo esso vuole anche rendere onore alle molte per-
———————
124
Cf. per esempio S. Moscati, Le antiche civiltà semitiche, Feltrinelli, Milano 1961, 43-45; P. Garelli-V. Niki-
prowetzky, Le Proche-Orient Asiatique – II. Les empires mésopotamiens, Israël, PUF, Paris 1974, 169-172; e D. Mo-
denini, Mitologia delle origini, Spaziotre, Roma 2000.
125
Altra cosa è la credenza in esseri angelici (o demoniaci) intermedi, che appaiono sì agli uomini, ma che
non condividono la divinità in senso stretto.
126
Cf. R. Labat, Les religions du Proche-Orient asiatique. Textes babyloniens, ougaritiques, hittites, Fayard, Paris
1970, 129-130.
127
Cf. A. Pitta, «Quale tipo di “libagione” in Fil 2,17: ministerialità o tanatologia?», in N. Ciola-G. Pulci-
nelli, a cura, Nuovo Testamento: teologie in dialogo culturale. Scritti in onore di Romano Penna nel suo 70° com-
pleanno, RivBibl Suppl. 50, EDB, Bologna 2008, 305-315.
128
Cf. la documentazione in O. Michel, in GLNT XII,855-876; e il lessico di Bauer-Danker, s.v. .
129
In latino abbiamo il verbo libare, peraltro corrispondente al greco leíbō di uso poetico (cf. Euripide, Alc.
1015).
130
Analogo è il caso del suicidio di Seneca, che però liba con l’acqua calda della sua vasca, sia pure come
allusione al valore sacrificale della propria morte (cf. Tacito, Ann. 15,64,3-4).
20 – Seminario sulla letteratura paolina – PIB 23-27 gennaio 2017

plessità, che gli studiosi avanzano in questo settore del comparativismo. In effetti, per dir-
la subito con un riconosciuto cultore della materia come Walter Burkert, nei misteri pagani
«non c’è nulla di così sonoramente esplicito come i passi del Nuovo Testamento, special-
mente in san Paolo e nel Vangelo di Giovanni, concernenti il morire con Cristo e la rinasci-
ta spirituale. Non c’è ancora nessuna prova di carattere storico-filosofico che tali passi sia-
no derivati direttamente dai misteri pagani»131.
Tuttavia, e ciò sia detto in linea di principio, non bisogna lasciarsi affrettatamente acce-
care da preoccupazioni apologetiche132; l’importante invece è considerare con obiettiva
onestà i testi e i temi relativi all’argomento. Certamente non si tratta soltanto del binomio
morire-rinascere/risorgere, su cui Burkert può certamente avere ragione133. Per esempio,
quando Paolo scrive che «sia in cielo sia in terra (...) ci sono molti dèi e molti signori»
(1Cor 8,5), non si può non pensare che egli avesse presente, oltre al culto citato più sopra a
proposito di Tarso, la molteplicità degli altri culti ellenistici del tempo. Resta pur vero che
egli conosceva meglio di noi le espressioni della religiosità greco-romana, e se in Rom 2,22
rimprovera il Giudeo di «rapinare i templi» (hierosyleîn) è perché dimostra almeno un ri-
spetto formale verso i luoghi di culto pagani134. Del resto, è interessante osservare che
l’Apostolo polemizza molto di più contro la Legge mosaica (a cui dedica ampie argomen-
tazioni)135 che contro la religiosità pagana (cf. Rom 1,18-23)136!
Ci sono due aspetti della questione, su cui vorrei attirare l’attenzione per tentare di
formulare almeno una ipotesi su Paolo.
6.1 – Tradizione e novità. Come sappiamo, i culti misterici di età ellenistica137 sono volti a
soddisfare il bisogno di una religiosità personale. Essi infatti implicano il superamento del

———————
131
W. Burkert, Antichi culti misterici, Laterza, Roma-Bari 1989, 134. Vedi anche M.M. Wedderburn, Baptism
and Resurrection. Studies in Pauline Theology against Its Graeco-Roman Background (WUNT 44), Tübingen 1987;
M.W. Meyer, “Mystery Religions”, in: ABD IV, 941-945; D.E. Aune, “Religioni Greco-Romane”, 1293-1310
(con bibliografia). Contro queste conclusioni molto prudenti, per non dire negative, non valgono le afferma-
zioni massimalistiche e preconcette di H. Maccoby, Paul and Hellenism, London-Philadelphia 1991, secondo
cui soprattutto l’idea di una salvezza procurata da «un dio disceso in terra e morto con violenza» (p. 183) al-
lontanerebbe irrimediabilmente Paolo dal giudaismo.
132
Persino un apologista come Giustino non si faceva scrupolo di affermare: «Quando noi diciamo che il
Logos, che è il primogenito di Dio, Gesù Cristo il nostro maestro, è stato generato senza connubio, e che è sta-
to crocifisso ed è morto e, risorto, è asceso al cielo, non portiamo alcuna novità rispetto a quelli che, presso di
voi, sono chiamati figli di Zeus» (I Apol. 21,1; egli però è pronto ad affermare le eccezioni, come in 55,1 sulla
crocifissione).
133
Cf. anche E. Ferguson, Backgrounds of Early Christinity, Eerdmans, Grand Rapids MI 1987, 21990, specie
132-240.
134
Il caso prospettato da Paolo, anche se non doveva verificarsi molto spesso, è comunque ben attestato
nell’ambito del giudaismo ellenistico, in quanto i Giudei della diaspora, pur non condividendo l’idolatria dei
Gentili, sono spesso sollecitati a rispettare comunque la religione dei pagani, compresi gli dèi e i loro templi.
Così Filone Al. e Fl. Giuseppe fanno valere il testo di Es 22,27 secondo la versione greca dei LXX che, a diffe-
renza dell’ebraico («Non bestemmierai Dio»), reca curiosamente il plurale: «Non bestemmierai gli dèi»! Filo-
ne, pur constatando con disgusto che il mondo conosciuto è pieno di idoli di legno e di pietra, afferma: «Noi
dobbiamo astenerci dall’insultarli perché non avvenga che i seguaci di Mosè prendano l’abitudine di trattare
con leggerezza il nome “dio” in generale, essendo esso un titolo degno del più alto rispetto e amore» (Mos.
2,205; cf. 2,203-205; Spec.leg. 1,53.). Giuseppe scrive esplicitamente: «Che nessuno bestemmi gli dèi venerati
dalle altre città, né rubi nei templi altrui (mēdè sylân hierà xeniká), né prenda un tesoro che sia stato dedicato
nel nome di qualche dio» (Ant. 4,207; cf. C.Ap. 2,237). Paolo, dunque, da una parte riconosce lo zelo anti-
idolatrico dei Giudei di Roma, ma dall’altra constata e biasima il fatto che esso sia smodato e irrispettoso del-
la religiosità altrui.
135
Cf. per esempio A. Pitta, Paolo, la Scrittura e la Legge, EDB, Bologna 2008, 131-160 («La lettera ai Galati e
lo scacco della Legge»).
136
Cf. R. Penna, Lettera ai Romani, 102-105.
137
Se ne veda una eccellente esposizione in R. Turcan, Les cultes orientaux dans le monde romain, Les belles
lettres, Paris 1989; e più in breve in E. Ferguson, Backgrounds of Early Christianity, 197-240.
R. Penna, Paolo di Tarso e le componenti ellenistiche del suo pensiero – 21

tradizionale culto cittadino prestato agli dèi olimpici. A differenza di questi, gloriosi e im-
passibili, i cosiddetti «dèi in vicenda» dei misteri offrivano la garanzia di una maggiore vi-
cinanza ai bisogni dell’uomo e la certezza di un loro intervento di salvezza, sia in questa
vita (con la liberazione dalle malattie e dai pericoli) sia in quella futura (con l’assicurazione
della beatitudine dopo la morte)138. Essi perciò in qualche modo rompevano il quadro con-
solidato del culto civico, di quello che l’oracolo di Delfi, secondo Cicerone, chiamava il mos
maiorum da seguirsi sempre139.
La tipologia di questi misteri è diversificata; ma è interessante la classificazione proposta
dal Burkert, che individua tre tipi principali140: il primo è quello imperniato sulla figura di
un singolo veggente, professionista itinerante o carismatico (cf. Alessandro di Abonuteico);
c’è poi quello che privilegia il clero connesso con un santuario dove si amministra il culto
(per esempio il culto di Asclepio o di Iside); infine abbiamo il tipo impostato sul gruppo dei
devoti, il thíasos o il koinón (in latino il collegium), dove prevale l’idea del riunirsi insieme tra
eguali per interessi comuni (tipico è il culto di Dioniso). Tutte e tre le tipologie sono comun-
que innovatrici rispetto al quadro cultuale della tradizione religiosa civica141. È vero che,
come documenta un importante studio di Goodman, nessuno di questi culti esercitò una ve-
ra attività di proselitismo142. Ma, dove essi giungevano e venivano praticati, si metteva in at-
to e si viveva una sorta di alternativa nei confronti della religione cittadina. Il carattere de-
stabilizzante e comunque alternativo di alcuni di questi culti appare ben chiaro in almeno
un paio di casi, in cui si operò una reazione polemica nei loro confronti. L’uno riguarda il
culto di Dioniso con i connessi Baccanali nella Roma dell’inizio secolo II a.C.; il console Po-
stumio, che ne condusse le indagini, si rivolse al popolo romano subito prima del decreto di
bando (emanato dal Senato nel 186 a.C.) dicendo che gli antenati «erano convinti che nulla si
presta tanto a distruggere il sentimento religioso quanto il compiere i sacrifici non secondo
le norme tradizionali ma con riti stranieri (non patrio sed externo ritu)»143. L’altro caso, ancora
a Roma, concerne il divieto del culto di Iside emanato da Tiberio, prima che si affermassero
le simpatie isiache di Caligola: i sacerdoti di questo culto furono crocifissi, il tempio di Iside
venne abbattuto e la statua della dea fu gettata nel Tevere144.
L’ipotesi che con ogni circospezione si potrebbe formulare a proposito di Paolo, sulla
base di queste constatazioni, è che l’Apostolo si sia comportato nei confronti di Israele ana-
———————
138
Cf. U. Bianchi, Prometeo, Orfeo, Adamo. Tematiche religiose sul destino, il male, la salvezza, Edizioni
dell’Areneo & Bizzzarri, Roma 1976, 79-94; Id., «Misteri di Eleusi. Dionisismo. Orfismo», in: J. Ries, Trattato
di antropologia del Sacro - 3. Le civiltà del Mediterraneo e il Sacro, Jaka Book, Milano 1992, 259-281 (con la chiari-
ficatrice distinzione tra religiosità olimpica e religiosità mistica); H. Dorrie, «Mysterien (in Kult und Religion)
und Philosophie», in: M.J. Vermaseren (a cura), Die orientalischen Religionen im Römerreich (EPRO 93), Brill,
Leiden 1981, 341-362; W. Burkert, Antichi culti misterici, 5-42.
139
Secondo Cicerone, agli Ateniesi che interrogarono l’oracolo delfico per sapere quali fossero i culti mi-
gliori da praticare, esso rispose semplicemente: Quae essent in more maiorum; e poiché gli Ateniesi osservaro-
no che il costume degli antenati era spesso cambiato, l’oracolo ribadì che doveva ritenersi come ottimo ciò
che era antiquissimum et deo proximum (Leg. 2,40).
140
Cf. Burkert, Antichi culti misterici, 45-74.
141
È l’ultimo tipo che potrebbe presentare delle affinità con le comunità cristiane. Cf. R. Penna, «Chiese
domestiche e culti privati pagani alle origini del cristianesmo. Un confronto», in Id., Vangelo e inculturazione,
746-770; Id., «La casa come ambito cultuale nelle chiese paoline», imminente in RSB 2009.
142
Cf. M. Goodman, Mission and Conversion. Proselytizing in the Religious History of the Roman Empire, Cla-
rendon, Oxford 1994, 28-31, secondo il quale «solo uno fu almeno potenzialmente una religione di proseliti-
smo, cioè il culto imperiale, (...) che nelle sue pretese fu almeno potenzialmente universalista» (p. 31). Ma si
trattò di un fenomeno essenzialmente politico, stante anche il fatto che il nome dell’Imperatore non veniva
invocato nelle necessità individuali, come invece succedeva per le divinità vere e proprie.
143
Tito Livio 39,16.
144
Cf. Fl. Giuseppe, Ant. 18,65.80. Vedi E. Köberlein, Caligola e i culti egizi, Paideia, Brescia 1986, 26-27;
A.A. Barrett, Caligola. L’ambiguità di un tiranno, Mondadori, Milano 1992, 326-329.
22 – Seminario sulla letteratura paolina – PIB 23-27 gennaio 2017

logamente all’iniziatore di un nuovo culto dalle dimensioni più accessibili e più universa-
listiche di quanto la consolidata religione israelitica prevedesse o permettesse145. Voglio
dire che i culti misterici possono aver influito su di lui, se non nel dettaglio delle loro com-
ponenti costitutive, almeno nella loro caratteristica fondamentale di alternativa al tradi-
zionale fissismo del culto cittadino ufficiale. Già il Cumont nel suo classico studio sulle re-
ligioni orientali nell’impero romano, interrogandosi sui vari possibili motivi della loro
propagazione, osservava saggiamente tra l’altro che «il conservatorismo, mentre tutte le
cose sono sottoposte a un cambiamento continuo, porta sempre in se stesso un germe di
morte»146. La fede cristiana, che secondo l’ermeneutica paolina era intesa come anti-
cultualistica per la sua interiorità e universalmente accessibile per la sua semplicità, può
aver giocato forse inconsciamente in Paolo il ruolo di un’alternativa al quadro religioso
consolidato dalla tradizione. Ed è ben questo il rimprovero che, secondo Luca, il giudeo-
cristiano Giacomo rivolge all’apostolo quando questi giunge a Gerusalemme al termine
del cosiddetto terzo viaggio missionario: «Hanno sentito dire di te che vai insegnando a
tutti i giudei sparsi tra i gentili che abbandonino Mosè, dicendo di non circoncidere più i
loro figli e di non seguire più le nostre consuetudini» (At 21,21). Che l’Apostolo così si
comportasse nei confronti dei Giudei è certo discutibile, e i commentatori lo fanno notare,
ma che egli adottasse questa libertà nei confronti dei Gentili è fuor di dubbio.
6.2 – La comunione con il dio cultuale147. Punto di riferimento per questa parte del mio di-
scorso è la figura di Dioniso come dio del vino e dell’estasi legata all’ebbrezza148. Lasciamo
qui da parte la mitologia delle sue origini e in particolare la storia della sua «passione»149.
Ciò che m’interessa notare, in primo luogo, è il fenomeno di una certa identificazione tra il
dio e il suo iniziato150. Infatti bákchos, pur essendo di etimologia incerta, non è soltanto un
epiteto del dio (cf. Sofocle, Edipo re 211), ma diventa anche una qualifica propria di colui
che «è preso» dal dio (cf. Erodoto 4,79,1-4). Platone riporta come noto e diffuso il detto, se-
condo cui «molti sono quelli che portano il tirso, ma pochi sono bákchoi» (Fed. 69C), per di-
re che occorre, sì, un invasamento dall’alto, ma che per questo i fortunati vengono assimi-
lati alla divinità (tanto che nell’aldilà «abiteranno con gli dèi», invece che «nella melma»).
———————
145
Non che Israele mancasse di propri movimenti o gruppi diversificati al proprio interno (cf. ora D.J.
Chalcraft, ed., Sectarianism in Early Judaism. Sociological Advances, Equinox, London 2007), ma essi, oltre ad
essere minoritari, si restringevano sostanzialmente alla sola terra d’Israele senza una vero respiro universali-
stico (cf. anche R. Penna, «Che cosa significava essere Giudeo al tempo e nella terra di Gesù. Problemi e pro-
poste», in Vangelo e inculturazione, 63-88).
146
F. Cumont, Les religions orientales dans le paganisme romain, Librairie orientaliste P. Geuthner, Paris
1906,19635, 32
147
Più ampi sviluppi in R. Penna, «Il vino e le sue metafore nella grecità classica, nell’Israele antico, e nel
Nuovo Testamento», in Id., Vangelo e inculturazione, 145-179, specie 168-177.
148
Cf. per esempio W. Burkert, I Greci, II, Storia delle religioni 8/2, Jaka Book, Milano 1983, 238-239; H.
Jeanmaire, Dioniso. Religione e cultura in Grecia, Einaudi, Torino 1972, 16-19; K. Kerenyi, Dionysos. Archetypal
Image of Indestructible Life, Bollingen, London 1976. Certo l’esperienza dionisìaca va ben oltre il semplice
aspetto alcoolico e può esserne del tutto indipendente, tanto che la manía/«follia» diventa uno stato conse-
guibile per se stesso, celebrato da Platone come desiderabile invasamento divino. In più va riconosciuto che
l’estasi dionisìaca non è normalmente un fenomeno individuale, ma collettivo, che si propaga quasi per con-
tagio (cf. W. Burkert, I Greci, II, 238.).
149
Cf. in proposito la buona trattazione di H. Jeanmaire, Dioniso, 371-389. «I miti dell’invenzione del vino
suonano invece lugubri e sinistri: Icario, che per primo in Attica apprese dal dio stesso l’arte della coltura
della vite e della pigiatura, venne ucciso perché i contadini credettero di esser stati avvelenati; sua figlia Eri-
gone, dopo lunghe ricerche, trovò il cadavere del padre in un pozzo e s’impiccò. Morte del padre e sacrificio
di ragazze gettano ombre sul piacere del vino» (W. Burkert, I Greci, II, 241).
150
«Chi si abbandona a questo dio deve rischiare di perdere la propria identità borghese ed “essere folle”
(...) Durante tale metamorfosi adoratore e dio, caso assolutamente straordinario nel complesso della religione
greca, si fondono l’un l’altro: “Bacco” sono chiamati entrambi» (W. Burkert, I Greci, II, 238); cf. Id., Antichi
culti misterici, Laterza, Roma-Bari 1989, 148-149.
R. Penna, Paolo di Tarso e le componenti ellenistiche del suo pensiero – 23

In secondo luogo, rileviamo in questo genere di religione la tipica importanza del vino,
che giunge fino ad essere equiparato al sangue. Se già nella Bibbia il vino viene descritto
immaginosamente come «sangue di uva» (LXX haîma stafylês: Gen 49,11; Sir 39,26), altrove
nella grecità pagana la metafora viene spinta molto oltre, tanto da designarlo addirittura
come «sangue di Bacco» (haîma Bakchíou: così il poeta ditirambico del sec. V-IV a.C. Timo-
teo, fr. 4). La stessa assimilazione è implicita nel verso di Euripide, dove si afferma per me-
tonimia che Dioniso «è diventato un dio che si versa in libagione agli altri dèi» (Bacc.
284)151. Su questa sorta di identificazione ironizzerà Cicerone, giudicando irragionevole ri-
tenere ‘dio’ la sostanza materiale di cui ci si nutre152. In più, dobbiamo constatare la pre-
senza del vino come parte integrante del concreto svolgimento del culto dionisìaco, come
avviene nelle varie feste dedicate al dio153.
Ora, se passiamo al Nuovo Testamento, vi troviamo l’esplicita dichiarazione paolina se-
condo cui l’assunzione del calice di vino nella cena eucaristica costituisce una comunione
con il sangue di Cristo: «Il calice della benedizione, che benediciamo, non è forse comu-
nione del sangue di Cristo (ouchì koinōnía estìn toû haímatos toû Christoû)?» (1Cor 10,16a). Al
centro della frase c’è l’indubbia affermazione di una particolarissima «comunione» con
Cristo e con il suo sangue, che costituisce il dato essenziale dell’atto compiuto. Ebbene,
poiché una formulazione del genere è esclusiva di Paolo e non si trova altrove nel N.T., si
pone inevitabilmente un problema: di dove l’Apostolo può aver derivato una simile con-
cezione? Certo diamo per scontato che alla base del testo paolino ci sia la tradizione proto-
cristiana circa le parole di Gesù sul calice durante l’Ultima Cena (cf. 1Cor 11,23-26),dove
però non si parla di koinonía.
A questo punto si potrebbe fare una digressione sull’origine del vino come ingrediente della ce-
lebrazione della Pasqua giudaica. Come si sa, il racconto biblico della cena pasquale contiene
solo accenni all’agnello e agli azzimi, ma non al vino (cf. Es 12). Si pone quindi il problema di
sapere quando esso abbia fatto il suo ingresso nella celebrazione pasquale154. Il celebre ‘papiro
pasquale’ di Elefantina, datato l’anno 5 di Dario II (cioè nel 419-418 a.C.), tra le varie prescri-
zioni dice anche di «non bere» per i sette giorni degli azzimi155. Il testo più antico che si possa ci-
tare in materia risale alla fine del sec. II a.C. ed è Giub. 49,6 («E tutto Israele se ne stava a man-
giare carne di Pasqua e a bere vino, a lodare, celebrare e benedire il Signore»: con riferimento alla
Pasqua dell’esodo!). Ancora Filone Al. vi farà un cenno molto vago, quando scrive che nella ce-
na pasquale i commensali si sono precedentemente purificati, «poiché essi si trovano là non
come in altri banchetti per soddisfare il ventre con vino e vivande, ma per compiere un costume
———————
151
Allo stesso modo Euripide fa dire a Ulisse di aver dato da bere a Polifemo il dio Bacco stesso (cf. Cicl.
519s: hòn pieîn édōká soi); cf. anche Platone, Leg. 773d.
152
Cf. M.T. Cicerone, Nat.deor. 3,41: «Quando chiamiamo il grano Cerere e il vino Liber [= nome latino di
Dioniso], usiamo un’immagine diffusa. O forse pensi tu che qualcuno sia tanto irrazionale da credere che ciò
che lo nutre sia un dio?». Ma ancora Properzio scrive di vivere il resto dei suoi giorni grazie a lui e per lui (cf.
3,17,19-20).
153
Ciò avviene sia nelle Dionisie rustiche o contadine (cf. Aristofane, Acarn. 247-283) sia nelle Dionisie cit-
tadine (le Lenee e le Antesterie); cf. H. Jeanmaire, Dioniso, 34-54; e anche M.P. Nilsson, The Dionysiac Myste-
ries of the Hellenistic and Roman Age, Ayer, Lund 1957. Quanto ai santuari di Dioniso, invece, solo sporadica-
mente qualcuno di essi reclama fenomeni prodigiosi che hanno a che fare con il vino. Il più curioso è il caso
di un tempio in Elide, su cui si tramanda che alla vigilia della festa si ponevano in esso tre recipienti vuoti, i
quali al mattino seguente si trovavano ripieni di vino (cf. H. Noetzel, Christus und Dionysos. Bemerkungen zum
religionsgeschichtlichen Hintergrund von Johannes 2,1-11, AzT 1, Stuttgart 1960, specie 22-38).
154
Cf. J. Jeremias, Le parole dell’Ultima Cena, Paideia, Brescia 1973 (orig.ted., Göttingen 41967), 55-58; e B.M.
Bokser, «Unleavened Bread and Passover, Feasts of», in The Anchor Bible Dictionary, vol. 6, New York-
London 1992, 755-765 (con bibliografia).
155
Generalmente si completa la formulazione del divieto nel senso di una proibizione di bere birra (cf. P.
Grelot, Documents araméens d’Egypte, LAPO 5, Paris 1972, 378-396 qui 383), ma resta il fatto che del vino non
si fa menzione.
24 – Seminario sulla letteratura paolina – PIB 23-27 gennaio 2017

ancestrale con preghiere ed inni» (Spec.leg. 2,148). Ma Fl. Giuseppe non vi fa alcun genere di al-
lusione (cf. Ant. 2,311-313; 3,248-251). Inoltre, tanto i Targumîm su Es 12 quanto l’antico mi-
drash Mek.Ex. circa il rito pasquale discorrono solo del mangiare e mai del bere156. La prescri-
zione rituale vera e propria di bere vino nella festa di Pasqua si trova soltanto più tardi nella
Mishnah (cf. m.Pes. 10,1: «Nella vigilia di Pasqua, da quando si avvicina il tempo di offrire il sa-
crificio vespertino, non è più permesso di mangiare finché non si fa notte; e anche il più povero
in Israele non deve mangiare finché non si è messo a sedere appoggiato; e non deve avere meno
di quattro calici di vino, anche se fosse di quelli che si alimentano con la scodella dei poveri»); tut-
tavia anche qui le tre cose principali del banchetto pasquale sono ritenute essere l’agnello, gli
azzimi, e le erbe amare (cf. ib. 10,5), quindi non il vino, nonostante la sua relativa quantità157.
Quanto al significato di quest’ultimo, esso consiste sicuramente nel fatto che il vino è segno di
festa, poiché di solito era bevuto soltanto in circostanze del tutto particolari.
Ma questo non basta ancora per rispondere esaurientemente al nostro interrogativo, visto
che comunque Gesù non parla di koinonìa. In effetti, va ulteriormente ricercata la possibile
precomprensione che può aver fornito all’Apostolo il modulo interpretativo della celebra-
zione eucaristica e aver così permesso di concepire e soprattutto di formulare in questo mo-
do la realtà di una comunione ‘verticale’ (e non solo ‘orizzontale’ tra i commensali). Allora
però il discorso non riguarda più soltanto il vino, ma anche il pane (cf. 1Cor 10,16b: «Il pane
che spezziamo non è forse koinōnía con il corpo di Cristo?») e addirittura l’intera cena. Que-
sta infatti è definita non a caso come kyriakòn deîpnon, «cena del Signore» (1Cor 11,20), in
quanto cioè si tratta di un pasto, che non solo è contrapposto a quello di ciascuno (cf. 1Cor
11,21: tò ídion deîpnon), ma soprattutto è contrassegnato dal Signore stesso, sia in quanto esso
è imbandito da lui o in suo nome, sia in quanto è dominato dalla sua presenza158.
Allora la risposta può essere di due tipi, a seconda dei due diversi ambiti religioso-
culturali che si possono scorgere sullo sfondo del testo.
In primo luogo, si può tentare un riferimento allo sfondo biblico-veterotestamentario.
Infatti Paolo dopo la citazione riportata sopra continua così: «Guardate l’Israele terreno:
coloro che mangiano le vittime sono partecipi dell’altare (koinōnoì toû thysiastēríou)» (1Cor
10,18); e non può che trattarsi di un’allusione al cosiddetto «sacrificio di comunione» (TM
zebāH šelamîm; LXX thysía sōtēríou), descritto nel libro del Levitico (cf. Lev 3; 7,11-36)159. Ma
a questo proposito bisogna osservare due cose. L’una è che, secondo il testo biblico, detto
sacrificio non implica nessuna unione mistica con Dio, poiché si tratta solo di mangiare
«davanti al Signore» (cf. Dt 27,7: TM lifnê YHWH; LXX enantíon kyríou) e non «con» lui160.
———————
156
Un accenno al vino, ma in altro senso, si trova solo in Mek.Ex. 10 (su Es 12,20): nel contesto della proi-
bizione di mangiare ogni sorta di pane lievitato (dolci, torte, pasticcini, ecc.), si esclude anche «il pane della
povertà» (cf. Dt 16,3), purché esso non sia impastato con vino, olio, o altro succo di frutta (cf. J.Z. Lauterbach,
Mekilta de-Rabbi Ishmael, I, Philadelphia 1976 [= 1933], 81).
157
La spiegazione più comune dei quattro calici è quella che li pone in relazione con i quattro verbi di Es
6,6-7 che contengono altrettante promesse: dell’esodo («vi sottrarrò ai gravami degli Egiziani»), della prote-
zione («vi libererò dalla loro schiavitù»), della redenzione («vi riscatterò con braccio teso»), e della predile-
zione («vi prenderò come mio popolo»); cf. V. Castiglioni, Mishnaiot, I/2, Roma 1962-5722, 126 (nota 6 a Pes.
10,1). Altre spiegazioni sono ricordate da I. Klein, A Guide to Jewish Religious Practice, New York 1979, 122. In
più va ricordato che m.Pes. 3,1 esclude tassativamente dalla cena pasquale ogni tipo di birra.
158
Sul costrutto in quanto tale, cf. tà basilikà deîpna (in un’iscrizione di età sillana: SEG 39,1244,101), tò
deîpnon toû theoû (in «Biografi Minori», cit. in Bauer-Danker, s.v. deîpnon b), deîpnon toû Anoúbidos
(Fl.Giuseppe, Ant. 18,73). Vedi anche Lc 14,24 («Nessuno di quegli uomini, che sono stati chiamati, gusterà la
mia cena, mou tò deîpnon»); Ap 19,9.17 (tò deîpnon tò méga toû theoû).
159
Cf. I. Cardellini, I sacrifici dell’Antica Alleanza. Tipologie, Rituali, Clebrazioni, SBA 5, San Paolo, Cinisello
Balsamo 2001, 63-87.
160
Una concezione mistica del sacrificio in Israele va decisamente negata: cf. J. Milgrom, Leviticus 1-16,
AB 3, New York-London 1991, 221 (cf. 217-225: excursus sul «sacrificio di comunione», reso in inglese «well-
being offering»). Filone Alessandrino, quando parla in generale dei sacerdoti che non hanno parte al territo-
R. Penna, Paolo di Tarso e le componenti ellenistiche del suo pensiero – 25

La seconda è che in questi sacrifici, pur incentrati necessariamente sul sangue (cf. Lev
7,14), non solo il sangue non è e non può essere bevuto161, ma esso non ha neanche nulla a
che fare con il vino, che infatti dai sacrifici è totalmente escluso162.
Di conseguenza, in secondo luogo, si prospetta la possibilità di vedere un elemento di
condizionamento culturale della concezione paolina proprio sullo sfondo greco163 e in par-
ticolare nelle celebrazioni di Dioniso. Teniamo come punto di riferimento soltanto il tema
della reciproca identificazione mediata dal vino164. Ora, bisogna ammettere per la verità
che dai testi concernenti il culto di Dioniso non risulta lo specifico vocabolario della
koinōnía165. Esso semmai può derivare a Paolo dalla concezione dei culti misterici in gene-
rale, nei quali è comunque ben attestato166. La scienza religionista ha elaborato in materia
un certo vocabolario specifico, tra cui spiccano i termini tecnici di «theophagìa» e di «theo-
xenìa», ma non esiste un vocabolo che suoni come «theoposìa», che cioè esprima diretta-
mente l’idea di una comunione con la divinità per il tramite dell’atto del bere. Tutto ciò
deve metterci in guardia dal maggiorare i dati comparatistici a nostra disposizione (anche
perché né Paolo né altri alle origini del cristianesimo parlano mai di una manducazione di
dio!). Tuttavia, come abbiamo visto, il dio greco del vino viene celebrato non soltanto a li-
vello di composizioni poetiche, ma anche e soprattutto a livello cultuale.

———————
rio come le altre tribù (cf. Dt 18,1-2), dice che essi «diventano partecipi con Dio (koinōnoì theoû) delle offerte
che Gli vengono consacrate in ringraziamento» (Spec.leg. 1,131); tuttavia, quando si dilunga a spiegare speci-
ficamente i sacrifici di comunione (cf. ib. 1,212-225), egli afferma che questi, appartenendo ormai a Colui al
quale la vittima è stata offerta, vengono da Lui generosamente donati al convitato, che diventa perciò «parte-
cipe e commensale dell’altare» (koinōnòn toû bōmoû kaì homotrápezon) (ib. 1,221).
161
Vedi l’esplicita proibizione formulata in Lev 17,10-16 (cf. 1,5): «Ogni uomo, Israelita o straniero dimo-
rante im mezzo a loro, che mangi di qualsiasi specie di sangue, contro di lui, che ha mangiato il sangue, io
volgerò la faccia e lo eliminerò dal suo popolo» (17,10).
162
In materia esiste, infatti, una precisa proibizione ai sacerdoti in Lev 10,9 (cf. Ez 44,21). Tuttavia, in
Giub. 7,5-6 si dice che Noè, dopo aver raccolto il frutto della vigna piantata dopo il diluvio e durante il suc-
cessivo sacrificio, «spruzzò il vino sul fuoco» che bruciava la vittima e poi «bevve, lui e i suoi figli, con gioia,
di quel vino».
163
Già «in Omero i sacrifici sono banchetti festosi, a cui prendono parte gli dèi [cf. Odissea 3,51ss; 8,76;
Iliade 1,67.423ss; 9,535; Pausania 4,27,1s]. Uomo e dio divengono compagni di pasto e di tavola» (F. Hauck,
koinōnós, in GLNT V,699).
164
Non prendo qui in considerazione la tesi orfico-dionisìaca circa il superamento del limite tra l’umano e
il divino in base al mito antropogonico orfico, che fa nascere il genere umano dagli avanzi dei Titani incene-
riti da Zeus per aver sbranato Dioniso-Zagreus (su cui si esemplò il rito del diasparagmós [sbranamento di
una vittima viva] e della homophaghía [manducazione della carne cruda della vittima-dio]). Cf. H. Jeanmaire,
Dioniso, 249-267; H.-J. Klauck, Herrenmahl und hellenistischer Kult. Eine religionsgeschichtliche Untersuchung zum
ersten Korintherbrief, NA 15, Aschendorff, Münster i.W. 1982, 109-112; D. Sabbatucci, Saggio sul misticismo
greco, Ateneo, Roma 1979, 116-126.
165
Il testo di Plutarco, Thes. 23, in cui si dice che nella festa delle Oschoforie (processioni con tralci di vite)
anche alcune donne «partecipano al sacrificio» (koinōnoûsi tês thysías), non fa in realtà al caso nostro, poiché si
tratta di semplice partecipazione fisica di alcune di esse alla solennità.
166
In merito si possono citare, sia il culto di Zeus Panamaros (villaggio della Caria nell’entroterra di Ali-
carnasso) con il banchetto in suo onore, per cui si parla di «mensa comune» e di «comunione alle cose sante»
(vedi il testo in R. Penna, L’ambiente storico-culturale delle origini cristiane. Una documentazione ragionata, EDB,
Bologna 62012, 154-155), sia soprattutto il banchetto in onore di Serapide, un dio di cui Elio Aristide scrive:
«Solo con questo dio gli uomini entrano in vera comunione (koinōnoûsin … tēn akribê koinōnían), invitandolo
al loro focolare e riconoscendogli il posto di convitato e insieme di padrone di casa, tanto che, mentre altri
dèi partecipano ciascuno a banchetti diversi, questo invece partecipa a tutti, occupando la funzione di sim-
posiarca in mezzo a coloro che sempre si radunano nel suo nome»! Inoltre, secondo Platone, i sacrifici (in
quanto comprendono anche pasti rituali) vengono definiti sulla base di «una comunione vicendevole
(koinōnía… pròs allēlous) tra gli dèi e gli uomini» (Symp. 188b-c). Vedi anche H.-J. Klauck, Herrenmahl und hel-
lenistischer Kult, 260s (cf. 265s: «Un incontro del cristianesimo primitivo con i culti misterici è possibile, anzi
del tutto verosimile»); secondo H. Maccoby, Paul and Hellenism, 124, l’idea di una comunione con la divinità
«è caratteristica dei culti misterici e totalmente estranea al Giudaismo».
26 – Seminario sulla letteratura paolina – PIB 23-27 gennaio 2017

Perciò, dobbiamo onestamente constatare che l’unico parallelismo possibile con il con-
cetto paolino della comunione con Cristo per il tramite del vino, scambiato nel suo sangue,
si trova proprio nella tradizione greca concernente Dioniso, che può ben aver funzionato
come una provvidenziale praeparatio evangelica, pur dovendo precisare che «il problema
della genesi della nozione di koinonía non va confuso con quello della sua originalità teolo-
gica»167. Su questo tipo di correlazione, può essere assai interessante ricordare anche un
apocrifo giudaico, sicuramente ritoccato da mani cristiane, che ci offre una originale specu-
lazione sull’albero della vite e sul suo frutto. Si tratta di 3Bar (o Apocalisse greca di Baruch),
databile nei primi due secoli dell’era volgare168.
Secondo questo libro, l’albero con cui Adamo ed Eva peccarono era la vite, e il diavolo invidioso
per mezzo di essa («la sua vite») li ingannò; perciò Dio adirato maledisse la vite e il diavolo (cf.
4,8). A Baruc, che giustamente chiede come mai allora essa sia di così grande uso, l’angelus inter-
pres dà questa spiegazione: quando ci fu il diluvio, le acque giunsero fino al Paradiso e distrus-
sero ogni pianta; ma Dio rimosse di là il germoglio della vite e lo portò fuori. Passato il diluvio,
Noè scoprì la pianta e non sapeva cosa farne; quando il solito angelo gli spiegò ogni cosa, egli si
chiese: «Se Adamo per suo mezzo venne distrutto, incontrerò anch’io l’ira di Dio attraverso di
essa?» (4,13), e implorò Dio durante 40 giorni per sapere che cosa avrebbe dovuto farne. Allora
Dio gli mandò l’angelo Sarasael, che così gli parlò: «Alzati, Noè, e pianta il germoglio, poiché
così dice il Signore: “La sua amarezza sarà trasformata in dolcezza, e la sua maledizione diven-
terà una benedizione, e il suo frutto diventerà il sangue di Dio (genēsetai haîma theoû), e come la
razza degli uomini venne condannata per suo mezzo, così per mezzo di Gesù Cristo Emmanue-
le con esso riceveranno l’invito e l’ingresso in Paradiso”» (4,15).
Come si noterà, la mano cristiana è evidente, anche se interviene su di un fondo sicu-
ramente giudaico. Ma la cosa più sorprendente è la designazione del frutto della vite, cioè
del vino, come «sangue di Dio». L’allusione all’eucaristia, anche se non ulteriormente spe-
cificata, dovrebbe essere fuori di ogni dubbio; ma in ogni caso, la qualifica è del tutto ori-
ginale e, per quanto mi risulta, priva di ogni paragone, se non appunto (semmai) con la
tradizione greca circa la celebrazione del vino in rapporto a Dioniso-Bacco. Infatti,
l’espressione è eccessiva persino per un cristiano, che tutt’al più parla del «sangue di Cri-
sto», ma non «di Dio». In ogni caso, qui il vino viene presentato positivamente non per se
stesso, bensì solo per una dimensione che possiamo definire ‘sacramentale’. Ed è come di-
re che il nuovo dio, di cui il vino ora è sangue, non va più identificato con Dioniso ma con
«Gesù Cristo Emmanuele».

7. Conclusione.
Da quanto abbiamo detto, risulta che la battuta di A. Schweizer, citata all’inizio, va ri-
dimensionata o addirittura corretta, poiché in realtà, accanto al giardino del pensiero di
Paolo, scorre non solo il ruscello del giudaismo ma anche quello dell’ellenismo, tutt’altro
che lontano!
Sicuramente ci sono tematiche paoline, assolutamente centrali nel pensiero di Paolo, che
non hanno nessun debito verso la grecità: così è, oltre alle premesse giudaiche del mono-

———————
167
P.C. Bori, KOINONIA. L’idea della comunione nell’ecclesiologia recente e nel Nuovo Testamento, Paideia, Bre-
scia 1972, 107. Vedi anche E. Franco, Comunione e partecipazione. La koinônia nell’epistolario paolino, Morcelliana,
Brescia 1986, specie 249-289.
168
Cf. l’edizione a cura di J.C. Picard, Apocalypsis Baruchi graece, Brill, Leiden 1967; e l’introduzione e tra-
duzione di H.E. Gaylord, jr., in J.H. Charlesworth, The Old Testament Pseudepigrapha, II, 653-679.
R. Penna, Paolo di Tarso e le componenti ellenistiche del suo pensiero – 27

teismo, del messianismo, e del ricorso esclusivo alle Scritture d’Israele169, tutto ciò che ri-
guarda la giustificazione per fede senza le opere della Legge, la risurrezione di Gesù, e an-
che l’intera tematica concernente l’escatologia. D’altronde, c’è anche qualcosa che non de-
ve nulla né ai Giudei né ai Greci, come l’idea della rivelazione della potenza di Dio
nell’impotenza della Croce, che è scandalo per gli uni e stoltezza per gli altri (cf. 1Cor 1,18-
25).
Ma non si deve sottovalutare il fatto che l’Apostolo si dimostra comunque sensibile
all’ambiente greco-romano in cui prevalentemente vive e opera, servendosi dialogicamen-
te di alcune sue categorie per esprimersi. Si potrà dire che gli agganci con la grecità si col-
locano piuttosto a livello di linguaggio e che sono comunque marginali nel quadro del
pensiero paolino. Resta il fatto che per sua stessa ammissione, l’Apostolo, oltre ad essere
Giudeo con i Giudei, si è fatto «con chi è fuori della Legge come se fosse senza Legge»
(1Cor 9,21), ed è come se dicesse di essersi fatto «Greco con i Greci»170.
La storia del pensiero cristiano continuerà su questa linea in forma anche più massiccia,
come si vedrà per esempio a partire da san Giustino (con il suo concetto di lógos sperma-
tikós) fino almeno a san Basilio (con il suo Discorso ai giovani sulla cultura ellenica). Certo è
che, pur senza cedere a forme di sincretismo ellenizzante171, e contrariamente a quanto ri-
teneva Tertulliano172, «tra Atene e Gerusalemme» ci sono più cose in comune di quanto si
sia preventivamente disposti a pensare.

———————
169
Resta sempre sorprendente constatare che Paolo, a differenza di Filone Al., non fa mai ricorso a testi
della letteratura greca. La sola eccezione di 1Cor 15,33 («Le cattive compagnie corrompono i buoni costu-
mi»), in cui è probabile un riporto dalla Taide di Menandro (fr. 218), non basta ad affermare una dipendenza
di Paolo da quella letteratura, tenuto conto che il detto aveva assunto un valore proverbiale (cf. anche Dio-
doro Siculo 16,54,4; Filone Al., Det.pot. 38).
170
Cf. W. Schrage, Der erste Brief an die Korinther, II, EKK VII/2, Benziger/Neukirchener, Solo-
thurn/Neukirchen-Vluyn 1995, 343.
171
Sul topos della ellenizzazione del cristianesimo, coniato a suo tempo da Harnack, cf. E.P. Meijering, Die
Hellenisierung des Christentums im Urteil Adolf von Harnacks, North-Holland, Amsterdam 1985. L’incultura-
zione è una prassi costante anche nella storia d’Israele, a partire almeno da una certa legislazione mosaica
(che denota alcuni parallelismi con il Codice di Hammurapi) fino ai Maccabei (il concetto stesso di risurre-
zione, di probabile ascendenza persiana).
172
Cf. Tertulliano, De praescriptione haereticorum 7 («Che ha a che fare Atene con Gerusalemme,
l’Accademia con la Chiesa?»). Vedi in generale J.J. Collins, Between Athens and Jerusalem: Jewish Identity in the
Hellenistic Diaspora, Crossroad, New York 1983; J.M. Reynolds, When Athens Met Jerusalem: An Introduction to
Classical and Christian Thought, InterVarsity Press, Downers Grove IL 2009.

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