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La pratica Gianluca

La pratica del bene comune


Gianluca Cavallo è dottore in Filo- Come può essere pensata oggi la po-
sofia e studente presso la Scuola di del bene Cavallo litica come pratica del bene comune?
Studi Superiori dell’Università di To- comune A partire da questa domanda l’autore
rino. propone una lettura dell’opera di due
Etica e politica fra i più noti filosofi viventi, mostrando
in Charles Taylor l’attualità della critica “comunitarista”
e Alasdair Macintyre al liberalismo. Riconsiderando temi
quali modernità, secolarizzazione, di-
ritti e intersoggettività attraverso l’ottica
di Charles Taylor e Alasdair MacIntyre
si individuano i limiti della pratica poli-
tica liberale (e, seppur indirettamente,
neoliberale) e si avanza la proposta di
un modello alternativo che ha al suo
centro l’idea del bene comune, come
mezzo costitutivo per la vita buona di

aA
ciascun individuo.

aA aAaAaAaAaAaAaAaA ccademia aA
university
aAccademia University Press press

Gianluca Cavallo
ISBN 978-88-99200-26-8

€ 14,00 9 788899 200268


La pratica Gianluca

La pratica del bene comune


Gianluca Cavallo è dottore in Filo- Come può essere pensata oggi la po-
sofia e studente presso la Scuola di litica come pratica del bene comune? del bene Cavallo
Studi Superiori dell’Università di To- A partire da questa domanda l’autore comune
rino. propone una lettura dell’opera di due
fra i più noti filosofi viventi, mostrando Etica e politica
l’attualità della critica “comunitarista” in Charles Taylor
al liberalismo. Riconsiderando temi e Alasdair Macintyre
quali modernità, secolarizzazione, di-
ritti e intersoggettività attraverso l’ottica
di Charles Taylor e Alasdair MacIntyre
si individuano i limiti della pratica poli-
tica liberale (e, seppur indirettamente,
neoliberale) e si avanza la proposta di
un modello alternativo che ha al suo
centro l’idea del bene comune, come
mezzo costitutivo per la vita buona di

aA
ciascun individuo.

aA aAaAaAaAaAaAaAaA ccademia aA
university
aAccademia University Press press
ISBN 978-88-99200-26-8

9 788899 200268

Gianluca Cavallo
La pratica
del bene
comune
Etica e politica
in Charles Taylor
e Alasdair Macintyre
La pratica
del bene
comune
Gianluca Cavallo

© 2015
Accademia University Press
via Carlo Alberto 55
I-10123 Torino

Pubblicazione resa disponibile


nei termini della licenza Creative Commons
Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 3.0

Possono applicarsi condizioni ulteriori contattando


info@aAccademia.it

prima edizione febbraio 2015


isbn 978-88-99200-27-5
edizioni digitali www.aAccademia.it/cavallo
http://books.openedition.org/aaccademia/

book design boffetta.com


Indice Introduzione VII

1. L’eredità complessa della modernità 3

2. Il fallimento della tradizione liberale 25

3. Crisi di legittimità e inadeguatezza del liberalismo 41

4. Libertà e democrazia in prospettiva repubblicana 55

5. L’etica delle virtù e la politica delle comunità 69

Bibliografia 85

Indice dei nomi 99

V
La pratica Introduzione
del bene
comune
Gianluca Cavallo

I nomi di Charles Taylor e Alasdair MacIntyre sono spesso VII


associati a quell’eterogeneo gruppo di critici del liberalismo
cui è stata assegnata l’etichetta di «comunitaristi»1. Se questa
può cogliere qualche elemento comune al pensiero politico
di entrambi gli autori, occorre però dire che il loro percor-
so intellettuale li ha visti ruotare intorno al medesimo polo
già ben prima che fosse coniata, a partire cioè dagli anni
Cinquanta e Sessanta, quando MacIntyre pubblicava sulla
rivista «The New Reasoner» e Taylor sulla «University and
Left Review». Le due riviste, che esprimevano l’esigenza di
una «Nuova Sinistra» attenta alla dimensione umanistica del
socialismo, si fusero nel 1960, dando vita alla «New Left Re-
view», ancora oggi in attività2. Vi è un legame tra questa espe-
rienza giovanile e quello che sarà il «comunitarismo» della

1. Cfr. Alessandro Ferrara (a cura di), Comunitarismo e liberalismo, Editori Riuniti, Roma
1992; Michael Sandel (ed.), Liberalism and Its Critics, New York University Press, New York
1984. Per non appesantire troppo la lettura, si è cercato di ridurre al minimo il numero
delle note, evitando i riferimenti non strettamente necessari. Per ulteriori approfondimen-
ti, si rimanda quindi alla Bibliografia finale.
2. Traggo queste informazioni da Émile Perreau-Saussine, Une spiritualité libérale? Char-
les Taylor et Alasdair MacIntyre en conversation, «Revue française de science politique», LV
(2005), n. 2, pp. 299-315.
La pratica maturità dei due autori, poiché essa esprimeva già l’esigenza
del bene di ripensare il legame sociale, superando il materialismo e
comune
Gianluca Cavallo l’economicismo di un certo marxismo per tornare a insistere
sulle fonti hegeliane del pensiero progressista, riscoperte an-
che mediante i Manoscritti economico-filosofici del 1844 di Marx
stesso, che, venuti alla luce nel 1932, cominciavano a essere
discussi in Occidente proprio in quegli anni. L’aumento del-
la ricchezza complessiva della società, lungi dal rappresen-
tare una soluzione ai problemi delle classi subalterne, aveva
creato nuove forme di alienazione e di individualismo, che
dovevano essere affrontate con nuove categorie filosofiche.
Secondo Perreau-Saussine, le principali opere dei due
autori nascono proprio da questa fonte comune a entrambi:
Dopo la virtù è una risposta alle domande della Nuova
Sinistra: analizza la dissoluzione della ragion pratica sotto
l’influenza dell’atomismo liberale e propone di ricostituire
delle «comunità» degne di questo nome. L’opera principale
di Taylor, Radici dell’io, riprende le questioni sollevate dalla
«University and Left Review».3
VIII Lo studioso francese evidenzia inoltre come «la nostalgia
della “comunità” [fosse] uno dei tratti dominanti della pri-
ma Nuova Sinistra»4. Tuttavia dietro questa affinità si cela
già l’origine della loro divergenza: i membri di «The New
Reasoner», cui era legato MacIntyre, provenivano perlopiù
dal partito comunista e non erano disposti a compromessi
socialdemocratici, mentre questa opzione sembrava più plau-
sibile secondo la linea della «University and Left Review». In
realtà entrambi gli autori abbandoneranno il marxismo, ma
andranno in direzioni diverse, che derivano da questa loro
divergenza iniziale.
La principale differenza tra i due autori emerge dalla ri-
spettiva posizione che hanno adottato nei confronti del «co-
munitarismo». Charles Taylor non ha rifiutato l’appellativo
di comunitarista, e ha specificato la sua posizione riferen-
dosi alla tradizione dell’«umanesimo civico», facendo capo
ad autori come Machiavelli e Mill (in parte) e soprattutto
a Rousseau, Humboldt, Tocqueville, fino ad arrivare alla

3. Ivi, p. 302.
4. Ivi, p. 304.
Introduzione Arendt5. Taylor sostiene che la sua posizione non è contra-
ria al liberalismo tout court, quanto piuttosto a una specifica
forma di esso, che in un luogo egli ha definito «liberalismo
della neutralità»6.
Al contrario, MacIntyre rifiuta l’appellativo «comunitari-
sta» e si pone al di fuori dell’ampia sfera del liberalismo.
Egli si situa consapevolmente nella alternativa tradizione
aristotelico-tomista, il cui modello politico non sono gli stati
nazionali moderni gestiti da una qualche forma di democra-
zia, quanto piccole comunità locali, gruppi di individui che
condividono un bene comune quale scopo e ideale regolati-
vo delle loro attività. Tali comunità sono il luogo dell’eserci-
zio delle virtù, le quali, secondo l’insegnamento aristotelico,
sono parte integrante del perseguimento attivo della «vita
buona»7.
In questo lavoro mi concentro sul pensiero politico che i
due autori hanno maggiormente articolato, senza fare rife-
rimento al primo periodo, legato all’esperienza della Nuo-
va Sinistra. Il punto di partenza (capitolo 1) è dato dalla
caratterizzazione della situazione contemporanea della vita
politica e morale, per descrivere la quale entrambi gli autori IX
si sono serviti di una complessa narrazione della modernità
che ha permesso loro di andare oltre la mera constatazione
e di giungere a un’ermeneutica complessiva in grado di da-
re ragione della nostra condizione attuale. Ripercorrendo
questo itinerario storico-filosofico, emergeranno anche le
due più autorevoli fonti dei nostri autori: Aristotele e Hegel.
Potremmo sinteticamente dire, infatti, che per MacIntyre la
modernità è la storia di un lungo congedo dall’aristotelismo,
che andrebbe però riscoperto quale strumento indispensa-
bile per articolare la nostra vita morale; mentre Hegel è un
autore fondamentale per Taylor sia perché egli sembra in
qualche modo ispirarsi al metodo della Fenomenologia per
tracciare la storia della modernità, sia perché egli intende
quest’ultima in termini espressamente hegeliani, cioè come
il luogo di incontro di tendenze centrifughe che nondimeno

5. Citiamo qui soltanto Ruth Abbey, Charles Taylor, Communitarianism, Taylor-made. An


interview with Charles Taylor, «The Australian Quarterly», LXVIII (1996), n. 1, pp. 1-10.
6. Charles Taylor, Il disagio della modernità (1991), Laterza, Roma-Bari 1994, p. 22.
7. Cfr. Kelvin Knight, Aristotelianism versus Communitarianism, «Analyse & Kritik», XXVII
(2005), pp. 259-273.
La pratica devono essere valorizzate e il più possibile armonizzate tra
del bene loro: i principi della libertà e della coesione sociale, dell’e-
comune
Gianluca Cavallo spressivismo individualista e dell’olismo comunitario8.
Nel secondo e terzo capitolo illustro la critica di entrambi
gli autori al liberalismo, nella peculiarità di ciascuna nonché
negli elementi comuni, per giungere infine (quarto e quinto
capitolo) a discutere la loro proposta filosofica e politica. Il
risultato della discussione delle loro tesi propenderà decisa-
mente verso una filosofia aristotelica della potenzialità uma-
na, in grado di definire i diritti dell’uomo meglio di quanto
abbia fatto il liberalismo, nonché di mostrare l’impossibilità
di un loro pieno riconoscimento al di fuori di un contesto in-
tersoggettivo che favorisca attivamente lo sviluppo dei singo-
li. Come emergerà nel corso della disamina, questo contesto
non può che essere quella che MacIntyre chiama una «rete
di dare e ricevere»9. In conclusione, proporrò un abbozzo
politico che vede a suo fondamento le comunità di piccole
dimensioni, integrate in un più ampio contesto statale quale
orizzonte ineludibile.

X Ringraziamenti
Questo libro nasce dall’approfondimento e dalla parziale riela-
borazione dei temi trattati nella mia tesi di laurea; il mio primo
ringraziamento va perciò al prof. Pier Paolo Portinaro per avermi
seguito durante la preparazione dell’intero lavoro. Ringrazio poi
in modo particolare la mia famiglia, senza il cui sostegno non avrei
potuto compiere quelle esperienze di cui questo testo è un risulta-
to, e Chiara, per la correzione degli errori di battitura e i consigli
di stile. Vorrei infine esprimere un grato senso di riconoscimento
nei confronti di tutte le persone con le quali ho avuto modo di
discutere di tematiche direttamente o indirettamente inerenti a
quelle che qui sono svolte, in particolare a coloro che sono legati
all’associazione culturale Petite Plaisance. Il dialogo con ciascuno
mi ha aiutato a maturare i miei convincimenti. Dedico il libro alla
memoria di una di queste persone, il prof. Costanzo Preve, a cui
in tanti dobbiamo molto.

8. Taylor è autore di un importante monografia sul filosofo di Stoccarda: Hegel, Cam­


bridge University Press, Cam­bridge 1975. Una versione limitata alla filosofia pratica e leg-
germente modificata rispetto all’originale è stata poi pubblicata con il titolo Hegel and
Modern Society, Cam­bridge University Press, Cam­bridge 1979; trad. it. di Andrea La Porta,
Hegel e la società moderna, Il Mulino, Bologna 1984.
9. Alasdair MacIntyre, Animali razionali dipendenti. Perché gli uomini hanno bisogno delle virtù
(1999), Vita e Pensiero, Milano 2001, p. 97.
La pratica
del bene
comune
Etica e politica
in Charles Taylor
e Alasdair Macintyre

Alla memoria di Costanzo Preve

La nostra destinazione nella


società è un avanzamento co-
munitario, un avanzamento
di noi stessi in virtù dell’uso
del libero operare degli altri
su di noi, e un avanzamento
degli altri tramite l’incidenza
del nostro operare su di essi
come enti liberi.

Fichte, La missione del dotto


La pratica 1. L’eredità complessa della modernità
del bene
comune
Gianluca Cavallo

In che direzione ci muoviamo noi?


Lontano da ogni sole? Non precipi-
tiamo sempre di più? E all’indietro,
di lato, in avanti, da ogni parte? Esi-
stono ancora un sotto e un sopra?
Non vaghiamo attraverso un nulla
infinito?
Nietzsche, La gaia scienza

La condizione attuale può essere descritta in termini di di-


sorientamento morale, sia per quanto riguarda la singola indi- 3
vidualità, sia la società nel suo complesso. Ciò significa che
il soggetto oggi non ha più sicuri parametri di riferimento
per orientare le proprie scelte in vista di un bene finale e
si trova a dover fronteggiare esigenze fra loro opposte e in-
conciliabili che spesso hanno su di lui lo stesso potere. Ma
questo disorientamento implica anche una perdita della pro-
pria identità: Taylor e MacIntyre sono concordi nel sostenere
che l’identità individuale si definisce sempre e soltanto in
relazione a un bene inteso aristotelicamente quale telos della
vita e quindi come orizzonte di ogni singola azione, ordinata
in vista di esso. Per rispondere alla domanda «chi sono io?»
il soggetto fa necessariamente riferimento a ciò che è per lui
di cruciale importanza. L’identità individuale, scrive Taylor,
è definita dagli impegni e dalle identificazioni che costitu-
iscono il quadro o l’orizzonte entro il quale posso cercare
di stabilire, caso per caso, che cosa è buono e apprezzabile,
che cosa devo fare, che cosa devo avversare o sottoscrivere.1

1. Charles Taylor, Radici dell’io. La costruzione dell’identità moderna (1989), Feltrinelli, Mila-
no 1993, p. 43. Di qui in poi citato con la sigla SS seguita dal numero di pagina dell’edizio-
ne italiana. Cfr. anche Id., La topografia morale del sé (1988), ETS, Pisa 2004.
La pratica Il fatto di definirsi cattolico, o anarchico, o italiano, significa
del bene per l’individuo identificare un legame con un insieme di
comune
Gianluca Cavallo significati che forniscono la base dei suoi giudizi morali,
quindi delle sue azioni, quindi del suo orientamento di vita2.
Il disorientamento odierno non è tanto dovuto al fatto
che non ci si possa più definire cattolici o anarchici o italiani,
quanto piuttosto al fatto che vi è stata una proliferazione di
possibilità differenti, tra le quali pare non esserci alcun supe-
riore criterio di scelta. Nel mondo premoderno l’orizzonte
morale era definito in maniera sostanzialmente univoca e
universale dalla volontà di Dio, o dal significato ontico del
cosmo, sulla cui base si reggeva anche l’ordine sociale, sicché
orientarsi nello spazio morale era quasi scontato. L’indivi-
duo non aveva difficoltà a riconoscere ciò che era buono
e aveva valore, distinguendolo da ciò che era male o non
aveva rilevanza.
Nel mondo moderno, al contrario, si è verificato l’emer-
gere progressivo di nuove fonti morali, la cui universalità
non è più scontata. Questo significa che l’individuo moder-
no deve far fronte a esigenze morali diverse, alcune delle
4 quali aspirano all’universalità (ad esempio l’essere cattolico
o anarchico), mentre altre sono ancorate al particolare (l’es-
sere italiano). Il conflitto può perciò emergere a più livelli:
tra particolarità e universalità (ad esempio tra le esigenze
della felicità individuale e quelle della giustizia sociale), o tra
pretese contrapposte di universalità (ad esempio tra l’essere
cattolico e anarchico), nonché all’interno di ogni singola
prospettiva che, dovendo fare i conti con alternative eviden-
temente possibili, diviene più fragile e incerta (ad esempio
tra l’essere credente e l’essere ateo). Essere disorientati, in
questo senso, significa non essere certi del proprio orienta-
mento, avere difficoltà a sceglierlo e a giustificarlo, ciò che
può anche condurre alla percezione di una totale perdita
di senso3.
Alasdair MacIntyre accentua la matrice aristotelica del
discorso, sostenendo che il bene che dovrebbe orientare la

2. Cfr. SS, p. 44
3. Cfr. Charles Taylor, L’età secolare (2007), Feltrinelli, Milano 2009. Di qui in poi citato
con la sigla SA seguita dal numero di pagina dell’edizione italiana. In queste righe ho
cercato di riassumere considerazioni che Taylor svolge a cavallo tra SS e l’opera qui citata.
I due libri sono in effetti strettamente intrecciati, come risulterà anche nel seguito.
L’eredità complessa vita umana, ma che oggi non è riconosciuto, è in qualche
della modernità modo radicato nell’essenza stessa del soggetto in quanto ap-
partenente a una specie. Com’è noto, secondo Aristotele, il
fine (telos) di ogni vivente è compiere l’opera che gli è pro-
pria (ergon), cioè quell’opera che è espressione della parte
dell’anima che lo caratterizza (nel caso della specie umana,
la razionalità). Il compimento di quest’opera coincide con la
realizzazione dell’essenza (ousia) del vivente e quindi con la
piena attualizzazione (energheia) delle potenzialità (dynamis)
che gli sono proprie per natura. Ogni cosa, infatti, realiz-
za pienamente la propria natura soltanto quando perviene
all’attualizzazione, in quanto «l’atto è l’esistere della cosa»4.
Questa «natura» dell’uomo è per Aristotele ineludibil-
mente politica5 e sia Taylor che MacIntyre riconoscono che
l’identità dell’io non può sorgere se non in un contesto co-
munitario. È infatti indispensabile un linguaggio condiviso
che articoli gli orizzonti comuni che definiscono una cultura
e inoltre è imprescindibile quella dialettica che si instaura
fra soggetti razionali e dialogici e che può condurre al rico-
noscimento comune di ciò che è bene.
Ma ciò ci porta a un secondo livello di disorientamento 5
morale, che aggrava il primo: quello sociale. A livello collet-
tivo, infatti, è del tutto assente un consenso su ciò che sia
buono, come è evidente negli interminabili dibattiti tanto
nella «società civile» quanto nel mondo accademico dei fi-
losofi morali. La filosofia e la politica odierne sono incapaci
di definire univocamente il bene e questo implica che non
ci sia consenso nemmeno sulle regole della discussione, in
quanto è chiaro che solo una determinata concezione del
bene potrebbe stabilire dei limiti al dibattito e il modo da
seguire per giungere alla deliberazione: se non si ha un fine
almeno genericamente fisso, la discussione (che dovrebbe
riguardare i mezzi utili a tal fine) sarà totalmente priva di
appigli e l’unica regola sarà di seguire l’opinione della mag-
gioranza6. Che questa opinione sia spesso distorta o ingiusti-
ficata e che le decisioni siano prese da una rappresentanza
ristretta, spesso in disaccordo o indipendentemente dalla

4. Metafisica Θ, 6, 1048a 32.


5. Cfr. Etica Nicomachea I, 5, 1097b 11; Politica I, 2, 1253a 2.
6. Cfr. Alasdair MacIntyre, Toleration and the goods of conflict (1999), in Id., Ethics and Poli-
tics. Selected essays, vol. 2, Cam­bridge University Press, Cam­bridge 2006, pp. 205-223.
La pratica volontà popolare, sono problemi dinanzi ai quali è bene
del bene chiudere entrambi gli occhi, in quanto non esiste alcuna
comune
Gianluca Cavallo soluzione alternativa. In tal modo la politica è degradata
ad arbitrio, il dibattito a scontro, la democrazia a dittatura
della maggioranza.
Questa situazione sembra obbligarci al relativismo, se non
addirittura al nichilismo, in quanto pare destituire di ogni
fondamento qualsiasi pretesa di verità, o addirittura minare
il senso profondo dell’esistenza umana. D’altro canto, essa
può apparire liberatoria, in quanto pare lasciare finalmente
spazio alle «differenze» precedentemente sopite o soppres-
se, alla libertà di scelta di ogni singolo individuo.
Com’è noto, la condizione attuale è stata definita da più
parti «postmoderna». Tuttavia, MacIntyre e Taylor, pur non
essendo mai entrati nel vivo della discussione sul tema7, han-
no elaborato alcune «grandi narrazioni» della modernità
che sono alternative tanto a quelle che il postmodernismo
ha rifiutato quanto a quella che, in fin dei conti, è il post-
modernismo stesso. La contemporaneità è da essi vista come
l’esito necessario di contraddizioni che erano presenti nella
6
modernità fin dalle sue origini. La differenza sta nel fatto
che Taylor – hegelianamente – considera la modernità come
una conquista dell’umanità cui sarebbe sbagliato (oltre che
impossibile) rinunciare, mentre MacIntyre tende a rifiuta-
re tutto ciò che la caratterizza, considerandola un progetto
fallito, ma proponendo una strada alternativa al postmo-
dernismo, come emergerà chiaramente nel prosieguo del
presente lavoro8.
Come ho accennato nell’Introduzione, il metodo di Taylor
richiama quello hegeliano della Fenomenologia dello Spirito.
Nella sua monografia su Hegel il filosofo canadese caratteriz-
za tale metodo nei termini di una «dialettica interpretativa»9,

7. Essi si sono limitati a riferimenti fugaci, esprimendosi però sempre criticamente nei
confronti dei pensatori postmodernisti. Cfr. ad esempio Charles Taylor, SA e Alasdair Ma-
cIntyre, Enciclopedia, genealogia e tradizione. Tre versioni rivali di ricerca morale (1989), Editrice
Massimo, Milano 1993.
8. Per un inquadramento storiografico dell’opera di MacIntyre, che prende in conside-
razione anche il postmodernismo, si veda Émile Perreau-Saussine, The Moral Critique of
Stalinism, in Paul Blackledge, Kelvin Knight (eds.), Virtue and Politics. Alasdair MacIntyre’s
Revolutionary Aristotelianism, University of Notre Dame Press, Notre Dame 2011, pp. 134-
151.
9. Charles Taylor, Hegel cit., cap. viii.
L’eredità complessa per cui la filosofia avrebbe il compito di ricostruire il passato,
della modernità le «avventure dello Spirito», in un modo che non sia né stori-
camente esaustivo né univocamente definibile. In altre paro-
le, la filosofia si distinguerebbe dal metodo storiografico in
quanto non interessata a un resoconto fedele dei «fatti» del
passato, ma a una loro interpretazione che li inserisca in una
linea evolutiva plausibile e in grado di fornire una possibile
spiegazione (non però l’unica) della condizione presente.
Ciò significa che la filosofia diviene in questo campo narra-
zione, che parte dal presente nel tentativo di spiegarlo e non
da un punto del passato per giungere all’attualità. Soltanto
comprendendo quali sono le differenti istanze presenti nella
cultura del proprio tempo si può muovere verso il passato
alla ricerca di elementi spirituali e materiali in grado di dare
loro profondità e spessore, in vista di una migliore compren-
sione. Ciò che così si sarà ottenuto sarà un
recupero di tutta la complessità e l’articolazione interna
dell’orizzonte e degli impegni morali che stanno alla base
della civiltà moderna e che una rappresentazione parziale
e distorta ha contribuito in maniera cruciale a oscurare.10
7
Difficilmente Hegel intendeva a questo modo il suo proget-
to, in quanto lo riteneva capace di identificare i momenti
necessari dello sviluppo dello Spirito. Tuttavia tale interpreta-
zione non è del tutto incompatibile con l’originale e inoltre
rappresenta una riappropriazione assai feconda del pensiero
del grande filosofo. Del resto, se «la nottola di Minerva inizia
il suo volo sul far del crepuscolo»11, non si può intendere il
sapere assoluto hegeliano come hybris di una ragione che
pretende di spiegare tutto e individuare insieme il fine e la
fine della storia. Se la filosofia non può dire nulla sulla realtà
non ancora compiuta, essa non può pronunciarsi sul futuro
(sul/sulla fine). Essa ha piuttosto il compito di comprendere
il presente nella sua verità, cioè come manifestazione del
progresso inarrestabile dello Spirito verso la libertà. Questo
implica una conoscenza storica che per Hegel probabilmen-
te individuava svolte necessarie, mentre più modestamente

10. Paolo Costa, Verso un’ontologia dell’umano. Antropologia filosofica e filosofia politica in Char-
les Taylor, Unicopli, Milano 2001, p. 153.
11. Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto (1820), Laterza, Roma-
Bari 20106, p. 17.
La pratica si può dire che colga ermeneuticamente degli snodi fonda-
del bene mentali. Questo sarebbe il sapere assoluto: comprendere la
comune
Gianluca Cavallo realtà come esito di un’evoluzione. Se è per noi impossibile
restare fedeli all’immagine hegeliana di Spirito, come in-
carnazione di Dio nella storia e nei popoli, nondimeno una
versione snellita di questo concetto, privata del fondamento
metafisico che Hegel gli ha assegnato, resta per noi disponi-
bile e anche fecondamente utilizzabile.
Ciò detto, ripercorrere qui tutta la narrazione tayloriana
sarebbe inutile e prolisso; mi limiterò perciò a tracciarne le
linee essenziali. In Radici dell’io Taylor ha inteso illustrare
come si sia formata e sviluppata l’idea moderna di identi-
tà. La caratteristica principale da egli individuata è l’inte-
riorizzazione delle fonti di senso, cioè la collocazione nella
«mente» dell’individuo della scaturigine della conoscenza
e della moralità. Per comprendere meglio cosa ciò signifi-
chi, è necessario accennare alla condizione premoderna,
che può essere illustrata facendo riferimento a Platone. Egli
non concepiva alcuna distinzione tra la ragione umana e
l’ordine cosmico, fondato sulle Idee. Essere razionali signi-
8
fica per Platone comprendere quest’ordine e adeguarsi a
esso; in questa prospettiva non può darsi il caso di un essere
razionale che abbia nondimeno delle conoscenze sbagliate.
Così vita buona è quella governata dalla ragione, non
tanto come visione del corretto ordine all’interno della no-
stra anima, quanto, e specialmente, come visione del cor-
retto ordine del tutto. (SS, 162)

Inoltre, conoscenza e moralità sono immediatamente unite,


in quanto conoscere la Verità (ossia l’Essere, le Idee) signi-
fica cogliere l’ordine complessivo e quindi agire conforme-
mente a esso, cioè correttamente. Il processo di interiorizza-
zione, che avviene in epoca moderna con Cartesio (il quale
ha però un antecedente in Agostino),
consiste nella sostituzione di questa concezione del domi-
nio della ragione con un’altra […] in cui l’ordine che entra
in gioco con l’egemonia della ragione non è qualcosa che si
trova, ma qualcosa che si fa o che si crea. (SS, 164)

Cartesio afferma infatti l’origine soggettiva di ogni certez-


za conoscitiva e morale. La verità della conoscenza diventa
rispecchiamento nella mente di ciò che è nella realtà ester-
L’eredità complessa na. L’ordine e il significato non risiedono più nel cosmo,
della modernità nell’intero di natura e spirito, ma vengono a essere intesi
come il prodotto della razionalità soggettiva. Privato della
sua pregnanza ontica, il mondo si presta perciò a divenire lo
strumento dei fini soggettivi. In campo morale, le passioni
dell’anima divengono oggetto di un sapere distaccato; la
ragione le può controllare relegandole alla loro funzione
strumentale, cioè al loro ruolo di indicatori naturali di ciò
che è utile o dannoso.
Il sé distaccato trova formulazione anche nella dottrina
lockiana, dove diviene evidente la conseguenza politica di
una simile impostazione di pensiero. L’io non è altro che un
«punto inesteso», privo di qualsiasi sostanzialità: esso è to-
talmente desocializzato e destoricizzato, un «atomo sociale»
che considera ormai anche la società come un mezzo stru-
mentale in vista dei propri fini soggettivi. Cartesio e Locke
sono perciò i fautori di una svolta nella storia del pensie-
ro che ha plasmato l’immaginazione moderna al tal punto
che oggi ci riesce spesso difficile pensare in termini non
atomistico-strumentali. Come ha scritto Taylor, «le visioni
atomistiche sembrano sempre più vicine al senso comune» 9
(SS, 247), anche perché caratterizzano gran parte della pra-
tica politica nei paesi occidentali12.
Questo processo di interiorizzazione ha indubbiamente
più di una causa, tra le quali va indicato il progresso scien-
tifico del xvii secolo. Un crescente interesse per la natura e
una sua conoscenza sempre più approfondita sicuramente
favorirono il distacco dalle fonti morali precedenti, radicate
nella credenza in Dio e soprattutto negli spiriti benigni e
maligni che secondo l’immaginario medievale dominavano
il mondo13. Taylor tuttavia si oppone a quelle che chiama
«ricostruzioni storiche sottrattive»14 che partono dal presup-
posto che la religione sia falsità e superstizione e spiegano
il suo declino nella società secolare sulla base dei progressi
scientifici. Sicuramente la scienza ha posto e pone delle sfide
alla fede, e certamente ha messo spesso in crisi quella fede
più ingenua e attaccata alla lettera della Bibbia che caratte-
rizzava il passato. Tuttavia non si può affermare in nessun

12. Per una trattazione più ampia dell’argomento, cfr., infra, cap. 3.
13. Su queste forme di credenza cfr. SA, cap. 1.
14. Cfr. SA, 43-47; 715-728; SS, 386-398.
La pratica modo che la scienza sia una confutazione della fede e perciò
del bene questa spiegazione del processo storico è inadeguata, non-
comune
Gianluca Cavallo ché ideologica.
L’interesse per la natura e un atteggiamento strumentale
verso di essa furono anzi favoriti, inizialmente, da motivazio-
ni teologiche: ritenere che il cosmo avesse un significato in
sé poteva sembrare una limitazione inaccettabile all’onnipo-
tenza divina. La creazione non può imporre alcuna regola al
creatore, il quale, secondo Guglielmo di Occam, può anche
agire contro quelle che per noi sono le leggi naturali. Ma se
la natura perde i suoi scopi intrinseci, chiaramente essa si
presta al controllo strumentale dell’uomo. E se questo era
inizialmente inteso come subordinato al volere divino, fu
poi facile eliminare l’orizzonte trascendente a favore delle
potenzialità dell’uomo.
Anche la Riforma protestante diede un impulso in questa
direzione, nel suo sforzo di preservare l’assoluta alterità del
divino e l’imperscrutabilità del suo disegno (SA, 132-134).
La Riforma, infatti, con il suo rifiuto di ogni presunta voca-
zione «superiore» e la sua estensione del sacerdozio a tutti i
10 fedeli, fu determinante per l’emersione di un altro aspetto
cruciale della modernità, che Taylor chiama «l’affermazione
della vita comune»15, cioè la valorizzazione di quegli «aspetti
della vita umana che hanno a che fare con la produzione
e la riproduzione, ossia il lavoro, la costruzione delle cose
necessarie all’esistenza e la nostra vita di esseri sessuali, ivi
compresi il matrimonio e la famiglia» (SS, 265). Ammettere
la superiorità di certe forme di esistenza rispetto ad altre
significherebbe concedere che sia possibile salvarsi median-
te gli atti di devozione e preghiera, i sacramenti, la bontà
delle intenzioni. La dottrina della giustificazione per sola
fede escludeva tutto questo; se si aggiungeva poi anche la
dottrina della predestinazione, che implicava che il succes-
so mondano fosse considerato un possibile segno di salvez-
za, si comprende come tutto ciò ebbe come conseguenza
l’attribuzione di un significato spirituale all’atteggiamento
strumentale nei confronti del mondo. Questa tesi coincide
sostanzialmente con quella weberiana secondo cui lo spirito
del nascente capitalismo fu favorito da questa spinta verso

15. Questo è il titolo della terza parte di SS, capp. 13-17.


L’eredità complessa una «ascesi intramondana» quale forma perfetta di vita per
della modernità il credente16.
L’affermazione della vita comune venne approfondita
dalla concezione deistica della natura e della felicità umana,
che si sviluppò nel corso del xviii secolo, secondo la quale
l’ordine che Dio ha provvidenzialmente stabilito nell’univer-
so è al servizio della felicità umana. Dio non ha più alcun
mistero: i suoi progetti possono essere intesi dalla ragione
umana, il cui compito è di portarli a compimento. E que-
sto compimento coincide con la felicità umana: «gli uomini
esistono per Dio, non Dio per gli uomini» (SS, 336). Questo
«restringimento degli scopi della divina provvidenza» (SA,
285) giustificava la concezione ormai diffusasi dell’ordine
cosmico e sociale come concatenazione di esseri utili l’uno
all’altro, secondo il modello economicistico degli scambi di
mercato che, regolati da una «mano invisibile», generano
l’armonia complessiva17. Questa concezione antropocentrica
dell’ordine provvidenziale era destinata ad aprire la possibi-
lità dell’ateismo, in quanto rendeva ormai disponibile una
fonte morale (l’ordine impersonale della natura e della so-
cietà di mercato) che poteva benissimo fare a meno di Dio. 11
La nascita del modo di produzione capitalistico e il corre-
lato sviluppo dei commerci sono naturalmente cause conco-
mitanti di questo processo complessivo, che non può essere
spiegato adeguatamente né in termini puramente materiali-
stici (secondo il metodo di un materialismo storico dogma-
tico), né solamente «idealistici» (secondo la connotazione
negativa che a questo termine Marx ha attribuito in opere
come L’ideologia tedesca)18.
Il deismo settecentesco suscitò tuttavia numerosi critici:
da una parte, si sosteneva che la fede deve implicare un
rapporto personale con Dio, la donazione di sé e il sacri-
ficio (questa fu la reazione ad esempio del welseyanismo
[SA, 337]); dall’altra si criticava il deismo per il suo facile
ottimismo e si intendeva restaurare una concezione più rea-
listica e conflittuale della natura umana, che lasciasse spazio
anche a una concezione del male e della depravazione (SS,
437-438).

16. Max Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo (1905), Rizzoli, Milano 1991.
17. Cfr. SA, 230-242.
18. Sull’eziologia storica, cfr. SA, 274-284; SS, 252-262.
La pratica Rousseau è un rappresentante di questa seconda corrente
del bene critica. Egli non poteva tollerare l’idea illuministica per cui
comune
Gianluca Cavallo la ragione e il progresso della conoscenza sarebbero stati
sufficienti per estirpare il male morale, e si erge come criti-
co di quella civiltà che si era autoproclamata espressione di
provvidenza, per metterne in risalto tutte le contraddizioni.
La civiltà separa dalla natura, che è intesa da Rousseau come
l’originaria fonte della moralità. Per il filosofo – scrive Tay-
lor – «la coscienza è la voce della natura così come emerge in
un essere che è entrato nella società ed è dotato di linguag-
gio e quindi di ragione» (SS, 441). Porgere l’orecchio alla
voce della natura non significa quindi rifiutare la civiltà, ma
armonizzare le sue istanze con quelle più profondamente
umane, che vuol dire poi accordare all’uomo la vera libertà
che gli spetta, e che coincide con l’autonomia in una società
ben organizzata. La volontà generale del popolo, come de-
scritta nel Contratto sociale, è espressione di questa autentica
e libera natura degli uomini.
Questo richiamo all’interiorità, ai sentimenti naturali,
era destinato a sfociare in una ribellione ancora più radica-
12 le al razionalismo illuministico. Essa trovò espressione con
il Romanticismo, di cui il primo rappresentante filosofico
è identificato da Taylor in Herder, che concepì la natura
come «una specie di grande corrente di simpatia che corre
in tutte le cose» (SS, 452). L’espressivismo romantico nasce
da un’esigenza spirituale di significato: il mondo mecca-
nicistico e materialistico del Settecento, «la natura senza
dèi» (die entgötterte Natur)19, appariva arido e vuoto, privo
di un autentico valore per l’uomo. Con il Romanticismo (o
almeno con un certo tipo di Romanticismo) si compie la
ricerca di un senso di unità tra l’uomo e la natura e tra gli
uomini tra loro. Il cosmo è inteso come permeato da un’u-
nica fonte vitale o spirituale, che si estrinseca e si attualizza
incarnandosi nei singoli, nei popoli e nella storia (Taylor
riconduce a questo clima culturale anche la filosofia hege-
liana del Geist)20.
Dal punto di vista morale, questo significa che la realiz-
zazione dell’individuo è data dall’attualizzazione della sua

19. Friedrich Schiller, Gli dei della Grecia, cit. in SA, 402.
20. Cfr. Charles Taylor, Hegel cit., capp. i-iii.
L’eredità complessa natura, ma questa non è intesa aristotelicamente come ca-
della modernità ratteristica propria della specie, bensì come peculiare a cia-
scuno. Secondo Herder «ogni essere umano ha una misura
sua propria e, quasi, un accordo distintivo e peculiare di
sentimenti» (cit. in SS, 459). Il filosofo tedesco estende poi
questa concezione anche ai popoli: ciascun Volk esprime la
propria cultura peculiare mediante il linguaggio, l’arte e la
storia (qui stanno le radici del nazionalismo ottocentesco).
L’espressivismo è alla base anche di una concezione
dell’arte interamente nuova, secondo la quale il compito
dell’artista è esprimere le profondità interiori dell’uomo
e della natura. Siccome però queste sono inoggettivabili,
non possono che essere espresse mediante un linguaggio
(poetico, figurativo, musicale) che crei il suo stesso oggetto,
rivelandolo e nascondendolo al contempo (SA, cap. 10).
L’esperienza estetica viene ad assumere un significato mo-
rale, aprendo un nuovo spazio per la «secolarizzazione».
Quest’ultima, secondo Taylor, caratterizza l’intera età mo-
derna. Ogni tappa che abbiamo descritto sin qui (Cartesio
e Locke, Occam e la Riforma, il deismo e il romanticismo)
costituisce un passo avanti nel processo di secolarizzazione, 13
il quale non dev’essere inteso come il frutto di un presunto
avanzare della razionalità, ma come la progrssiva individua-
zione di fonti della moralità indipendenti e alternative a Dio.
Il deismo in questo senso costituisce un punto di svolta, in
quanto ha aperto definitivamente le porte all’umanesimo
antropocentrico; le varie forme di reazione al deismo, poi,
hanno comportato un «effetto nova», cioè un’ulteriore mol-
tiplicazione delle alternative morali e spirituali (SA, 381)21.
Ciò non significa che non sia più possibile rintracciare nella
fede una motivazione per l’azione morale, ma che il creden-
te (al pari del non credente) non può più professare una
fede ingenua e irriflessa, essendo piuttosto costretto a giu-
stificarla a se stesso per aver motivo di sceglierla pur sapen-
do che esistono altre fedi, altre Weltanschauungen in grado
di dare risposte alternative alle domande fondamentali che
l’uomo si pone.

21. L’idea che il mutamento morale sia all’origine dei fenomeni di secolarizzazione (in-
vece che il contrario) è stata espressa anche da MacIntyre nelle Riddell Memorial Lectures
del 1964, poi pubblicate come Secularization and Moral Change, Oxford University Press,
London 1967.
La pratica La condizione attuale, che nelle sue linee essenziali co-
del bene mincia a profilarsi tra gli anni Sessanta e Settanta del Nove-
comune
Gianluca Cavallo cento, ha visto l’estensione all’intera società (e non soltanto,
come prima, alle élite intellettuali) sia dell’ideale espressi-
vista, secondo il quale ogni individuo è unico e si realizza
dando forma alla propria vita in piena autonomia, sia della
proliferazione delle risorse morali e spirituali (la «nova» si è
trasformata in «supernova» [SA, 519]). A ciò si aggiunga la
permanente influenza del modello di razionalità strumen-
tale che è stato codificato tra Cartesio e Kant, con l’annessa
concezione della società quale luogo dell’armonizzazione
tra gli interessi rivali di individui concepiti atomisticamente.
Ma prima di comprendere cosa tutto ciò comporti, è ne-
cessario svolgere ancora alcune considerazioni sulla forma
che ha assunto l’espressivismo romantico divenendo parte
dell’immaginario comune.
Ciascun individuo si sente oggi chiamato all’auto-realizza-
zione, ma in una modalità che non tiene conto degli orizzon-
ti comuni di significato e della genesi intersoggettiva dell’i-
dentità. L’ideale dell’autenticità è banalizzato e ripiegato
14 sull’individuo egoistico e narcisista. A livello teorico, si tratta
di una sintesi infelice tra i due opposti ideali dell’espres-
sivismo e della razionalità strumentale: l’auto-realizzazione
egoistica implica la strumentalizzazione dei legami dell’in-
dividuo con le altre persone e soprattutto con la società nel
suo complesso; nonché la negazione di ogni istanza superio-
re all’io, sia essa proveniente dalla natura, dalla storia, dalla
società o da Dio. Tutto ciò è supportato sia da una certa idea
di liberalismo22, sia da un facile nietzcheanesimo relativista,
secondo il quale ogni individuo ha il dovere di «superare la
morale» e affermarsi liberamente23.
Numerose sono le cause che possono essere evocate per
spiegare questo mélange culturale. Sicuramente va menzio-
nato l’accresciuto benessere e l’espansione dello stile di vita
consumistico:
Nel dopoguerra – scrive Taylor –, con la diffusione del
benessere e di quelli che prima venivano considerati beni di
lusso, è avvenuta una nuova concentrazione sullo spazio pri-

22. Su questo punto, cfr., infra, i due capitoli successivi.


23. Cfr. Charles Taylor, Il disagio della modernità cit., pp. 68-71.
L’eredità complessa vato e sui mezzi disponibili per goderne fino in fondo […]
della modernità La gente ha finito per concentrarsi sempre più sulla propria
vita e su quella del proprio nucleo famigliare. Si è spostata
verso nuove città o nuovi sobborghi, ha cominciato a vivere
più per conto proprio, cercando di godere della gamma
sempre crescente dei nuovi beni e servizi, dalle lavatrici ai
pacchetti vacanza, e degli stili di vita individuali più liberi
che questi nuovi beni offrivano. (SA, 596-597)

La cultura consumistica ha creato per la prima volta un set-


tore di mercato dedicato ai giovani, in cui riversare merci
che vanno dai capi d’abbigliamento ai brani musicali e che
sono diventate elementi identitari del singolo.
Le rivolte giovanili degli anni Sessanta e Settanta esprime-
vano una reale aspirazione all’autenticità, ed erano basate su
una critica alla società esistente che per molti tratti ricordava
quella romantica: il rifiuto della separazione tra ragione e
sentimento, tra gruppi sociali, tra i diversi ambiti della vita
(SA, 599). Questa spinta utopica e rivoluzionaria, che ebbe
vasta influenza, nella sua radicalità non trovò realizzazione.
Soltanto alcuni aspetti che la caratterizzavano entrarono a
far parte della cultura successiva, ma questi, isolati e astratti 15
dall’aspirazione complessiva, furono impoveriti e distorti.
L’ideale espressivo si è perfettamente integrato nella società
capitalistica, a tutti i livelli: quello del consumo, del carrie-
rismo e dell’atteggiamento nei confronti della professione
e della politica (ciascuno deve avere diritto di scelta). In
altre parole, la rivoluzione di quegli anni ebbe successo nel
dissolvere alcuni valori borghesi (ritenuti a torto o a ragione
oppressivi), ma, dal momento che a ciò non fece seguito
l’instaurazione di una società egualitaria, si ottenne il para-
dossale effetto di cancellare quelli che potevano essere gli
ultimi argini morali alla follia capitalistica. In tal modo si è
entrati in una fase in cui le logiche del capitalismo sussumo-
no sotto di sé l’intera realtà simbolica e sociale24.
Questo percorso tracciato da Taylor, che naturalmente è
molto più complesso rispetto alla sintesi qui presentata, ci
aiuta a comprendere quali siano le origini storiche di istan-
ze ancora presenti nella nostra cultura e soprattutto a con-
siderare ciascuna di esse in tutta la sua profondità: anche

24. Diego Fusaro, Minima mercatalia. Filosofia e capitalismo, Bompiani, Milano 2012, pp. 372
e ss.; Cfr. anche Costanzo Preve, Storia dell’etica, Petite Plaisance, Pistoia 2007.
La pratica laddove esse si sono snaturate, banalizzate e contaminate,
del bene sono tuttavia espressione di esigenze morali proprie dell’uo-
comune
Gianluca Cavallo mo moderno (dello Spirito, potremmo dire) e perciò non
possono essere ignorate.
Per Taylor come per Hegel il grande portato della moder-
nità è l’emersione della soggettività libera. Ma l’evento – agli
occhi di Hegel – tragico della Rivoluzione francese, conclu-
sasi con la negazione assoluta (la «furia del dileguare»)25,
mostra come questa soggettività moderna non sia stata in
grado di riempirsi di contenuto sostanziale. In seguito al tra-
monto dell’eticità greca l’individuo diviene categoria pura-
mente astratta dell’intelletto, un puro «vacuum», al pari del
Dio degli illuministi26. Hegel pensava che la Prussia sarebbe
stata in grado di realizzare una forma statale (delineata nei
suoi Lineamenti di filosofia del diritto) in grado di conciliare
le istanze dell’individualità moderna (incarnate nel «siste-
ma dei bisogni» e tutelate dal «diritto astratto») con quelle
dell’unità etica concreta, rappresentata dallo Stato nel suo
complesso. Il principio che avrebbe dovuto essere alla base
di questa integrazione è espresso dal filosofo nei seguenti
16 termini:
il diritto degli individui per la loro destinazione soggettiva alla
libertà ha il suo compimento nel fatto ch’essi appartengono
alla realtà etica, giacché la certezza della loro libertà ha la
sua verità in tale oggettività, ed essi nell’ethos posseggono
realmente la loro propria essenza, la loro interna universalità.27

Taylor, analogamente, sostiene la necessità di una sintesi


dialettica fra i diversi elementi emersi nella storia e vivi nel
presente. L’individualità astratta è ancora oggi un principio
caratterizzante della nostra realtà sociale: atomisticamente
intesa (desocializzata e destoricizzata), essa è titolare di dirit-
ti che ne difendono l’integrità e la libertà. Ma questa libertà
è intesa soltanto negativamente, come assenza di ingerenza
pubblica e interferenza fra privati. L’armonizzazione degli
interessi non è compresa in una dimensione superiore (l’e-
ticità), ma resta sul piano orizzontale del «sistema dei bi-

25. Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Fenomenologia dello Spirito (1807), Bompiani, Milano
20082, p. 791.
26. Ivi, p. 751.
27. Id., Lineamenti cit., § 153.
L’eredità complessa sogni». Al contempo, come abbiamo visto, è presente oggi
della modernità un’istanza espressivista declinata in senso soggettivistico, che
risente di un atteggiamento critico nei confronti dell’unila-
teralità della ragione strumentale, ma che al contempo si
serve di essa per conseguire un’autorealizzazione che non
include alcun bene superiore all’io. Questo espressivismo è
palesemente contraddittorio, in quanto, come nota Taylor,
«in un mondo in cui non ci fosse letteralmente nulla di im-
portante al di fuori dell’autorealizzazione, nulla potrebbe
rappresentare una realizzazione» (SS, 617).
L’individualismo strumentale e l’espressivismo soggetti-
vistico finiscono per avere le stesse conseguenze negative
sull’unità «etica» (in senso hegeliano), in quanto tendono
entrambe a erodere ogni legame comunitario. Sorge così
una terza istanza della contemporaneità, quella generica-
mente definibile «comunitarista», che sostiene la necessità
di recuperare un impegno pubblico per un bene comune
che sia superiore agli interessi privati. Ma vi è anche chi
ritiene che i comunitaristi non siano sufficientemente radi-
cali e che occorra rifiutare la modernità sia nelle sue forme
strumentali che in quelle espressivistiche (Taylor cita Leo 17
Strauss [SS, 620], ma il discorso potrebbe valere anche per
MacIntyre).
Per quanto Taylor possa essere quasi interamente sovrap-
posto al comunitarismo, resta comunque uno scarto tra la
sua posizione e tutte quelle qui presentate: egli ritiene in-
nanzitutto, come abbiamo visto, che ogni elemento dell’i-
dentità moderna sia un bene e che privilegiarne un aspetto
non debba significare in alcun modo la negazione di un
altro. Ma soprattutto egli è convinto che nessuna di queste
posizioni sia in grado di giustificare adeguatamente la mora-
le. È vero che esiste un vasto consenso su alcuni importanti
temi, quali il riconoscimento dei diritti umani, l’immoralità
di certe pratiche, la bontà della forma democratica di gover-
no. Tuttavia la loro formulazione non è univoca (e quindi
non è definito ciò che esse implicano) e inoltre non è chiaro
che cosa ci spinga a questo consenso, cioè se esso sia frutto di
convenzione, di adesione irriflessa, di incapacità di vedere
alternative, o se invece derivi da una profonda persuasione
circa la loro verità. Con le parole di Taylor, l’ordine morale
deve avere una «risonanza personale» (SS, 621), cioè neces-
sita di un’adesione interiore. Se questa non si dà, l’unica
La pratica giustificazione dei principi morali può venire soltanto dalla
del bene paura: dalla consapevolezza, cioè, che non rispettarli signi-
comune
Gianluca Cavallo ficherebbe essere pericolosamente anticonformisti, oppure
divorati dai sensi di colpa, oppure incorrere in sanzioni pe-
nali. Tutt’altra cosa è la motivazione di chi «agisce sulla spin-
ta dell’idea che tutti gli esseri umani sono eminentemente
degni di essere aiutati, nonché trattati con giustizia e con il
senso della loro dignità e del loro valore» (SS, 626). Ciò che
non è chiaro nella situazione odierna di disorientamento
morale è che cosa (o chi) possa persuaderci di questo valore
forte della persona (cfr. SA, 872 ss.).
Ciò che motiva un agente morale a compiere un’azione
conforme a quel che riconosce come bene, è chiamato da
Taylor «bene costitutivo», in quanto «costituisce» la bontà di
tutti gli altri beni, detti «beni della vita», che vengono ad esso
subordinati. Esempi di beni della vita possono essere le virtù,
come la benevolenza e il coraggio, o valori come l’autono-
mia e il benessere materiale; beni costitutivi possono essere
il sentimento della dignità umana, l’amore di Dio, la natura
come fonte espressiva. Ciascuno di questi beni costitutivi
18 «non agisce solo sulla ragione umana, bensì opera sul cuore
degli individui, chiedendone un’adesione non parziale, ma
completa»28. Dal punto di vista logico, il bene costitutivo, es-
sendo una motivazione che agisce sul sentimento individua-
le, non può essere il fondamento dell’etica. Questa, intesa
come discorso filosofico concernente il bene umano, dovrà
basarsi su considerazioni di carattere universale ed essere
razionalmente argomentabile. Il bene costitutivo può essere
soltanto «il fulcro di un best account o resoconto migliore»29
dell’esperienza morale di un individuo.
Per fare un esempio, si può argomentare razionalmente
la validità della Regola d’oro, secondo la quale si deve fare
agli altri ciò che vorremmo gli altri facessero a noi. In questa
argomentazione non si può fare appello, secondo la pro-
spettiva tayloriana, al sentimento, ma si dovrà partire dalla
considerazione di che cosa significhi essere un individuo
dotato di certi diritti che richiedono il riconoscimento reci-

28. Paolo Costa, Postfazione. Religione, modernità e secolarizzazione, in Charles Taylor, La moder-
nità della religione, Meltemi, Roma 2004, p. 127.
29. Ivi, p. 130.
L’eredità complessa proco30. Tuttavia, quando dovremo cercare di comprendere
della modernità che cosa può spingere un individuo ad agire in conformità
con questa regola, aderendo interamente ad essa, dovremo
accontentarci del resoconto migliore possibile, senza poter-
lo dimostrare: potremo supporre, ad esempio, che solo chi
apre se stesso all’amore di Dio, oppure che soltanto chi ri-
conosce un valore incondizionato alla dignità umana, può
agire eticamente.
La storia della modernità secolare ci lascia in eredità que-
sto interrogativo: qual è il bene costitutivo, la fonte morale
che può spingere gli uomini all’agire etico? Taylor sembra
ritenere che l’unica motivazione efficace per l’agire morale
sia l’agape, cioè l’amore di Dio come descritto dal Nuovo
Testamento. Essa è intesa da Taylor come la motivazione spi-
rituale in base alla quale l’individuo di fede aderisce a un’e-
tica della reciprocità, la quale, di per sé, ha un fondamento
unicamente antropologico. Questa concezione, del resto, è
in linea con la più originale riflessione teologica del Nove-
cento, sia cattolica che protestante, a proposito della quale,
infatti, si è parlato di «svolta antropologica», in quanto es-
sa ha riconosciuto – per limitarci al campo dell’etica – che 19
Dio può essere inteso, da coloro che credono, come il fine
ultimo dell’azione, come il Bene supremo, ma non come la
ragione del carattere vincolante dell’etica31. In generale, la
svolta antropologica ha permesso alla teologia di riscoprirsi
sorella della filosofia e ha aperto la possibilità per un rin-
novato dialogo tra le fedi e con l’ateismo, di cui il Concilio
Vaticano II costituisce, in area cattolica, un esempio impor-
tante, in cui Taylor si riconosce32.
La proposta teistica di Taylor è formulata con la consape-
volezza, tutta secolare, di essere solo una possibilità fra altre
e di potersi giustificare solo mediante l’adesione personale
e la fede. Essa tuttavia lancia una sfida ad altre forme di
umanesimo, raccogliendo a sua volta la provocazione anti-
umanistica di Nietzsche: infatti, scrive Taylor, «solo se esiste

30. Cfr., infra, cap. 3.


31. Cfr. ad esempio Wolfhart Pannenberg, Fondamenti dell’etica. Prospettive filosofico-teologiche
(1996), Queriniana, Brescia 1998. Si veda anche Rosino Gibellini, La teologia del xx secolo,
Queriniana, Brescia 1992.
32. Cfr. l’intervista di Élodie Maurot, Taylor: non c’è Chiesa senza agape, «Avvenire», 26 luglio
2012, p. 22.
La pratica l’agape o uno qualsiasi dei valori secolari che aspirano a suc-
del bene cederle, Nietzsche ha torto» (SS, 627). Cosa significa questo?
comune
Gianluca Cavallo La sfida di Nietzsche si basa sull’intuizione che se la mo-
rale può avere soltanto una giustificazione negativa (cioè
fondarsi in ultima istanza sulla paura) e non sull’afferma-
zione positiva del valore della persona, «allora la pietà è
distruttiva per chi la dona e degradante per chi la riceve»
(SS, 627). Ma l’importanza di Nietzsche è ancora più grande,
in quanto egli ha mostrato come il valore positivo dell’etica
non possa essere fondato da nessuno dei criteri emersi nella
modernità. Secondo MacIntyre la beffa che egli si è fatto di
ogni sistema morale era l’esito necessario di una serie di
fallimenti, dovuti all’inadeguatezza di tali criteri.
La narrazione di Alasdair MacIntyre non comincia con
Cartesio, ma con l’Illuminismo, che egli descrive come un
progetto che era destinato a fallire per le premesse stesse del
suo argomentare. Prima di tutto occorre ricordare che la cul-
tura illuministica si caratterizza per un radicale rifiuto delle
pretese normative delle teologia, la quale aveva dominato
non soltanto il Medioevo, ma aveva continuato a svolgere
20 un ruolo determinante anche nei secoli immediatamente
successivi. I pensatori illuministi, con una forma di inedito
«umanesimo esclusivo» (l’espressione è di Taylor), destitu-
irono di validità il discorso teologico, considerato la causa
di ogni intolleranza e di ogni abuso politico, e fondarono
tutta la loro rivoluzionaria filosofia sulle capacità dell’uomo
(questo sostanzialmente vale anche per il deismo).
Anche per MacIntyre, quindi, l’età moderna è un’età di
progressiva secolarizzazione. La peculiarità della sua narra-
zione sta nel porre l’attenzione sul fatto che la filosofia, di-
stanziandosi dalla religione, non si allontanò soltanto dalla
teologia, ma anche dall’aristotelismo che la accompagnava.
Con quest’ultimo (rifiutato già da Hobbes e Cartesio) veni-
vano a cadere, tra l’altro, l’etica delle virtù e l’idea di una
natura umana orientata teleologicamente.
I primi tentativi di rifondare la morale in completa au-
tonomia rispetto alla teologia possono essere rintracciati in
due delle figure più importanti della cultura europea del
Settecento: David Hume e Denis Diderot. Hume era nato
nel 1711 in Scozia, un paese in cui la vita pubblica era in
larga misura influenzata dai suoi importanti centri univer-
sitari, dove i docenti di filosofia morale erano ancorati a
L’eredità complessa una tradizione religiosa in cui si mischiavano elementi di
della modernità teologia calvinista e di filosofia aristotelica. Hume si pose
consapevolmente contro questa tradizione e visse gran parte
della sua vita nella più «avanzata» Inghilterra, mutando il
suo cognome da Home a Hume e rifiutando il carattere
teologico della filosofia scozzese33. In questo modo, egli do-
vette cercare un nuovo fondamento per la morale, e tentò
di farlo inaugurando quella che chiamò una «scienza della
natura umana», empiricamente fondata secondo le prescri-
zioni metodologiche che la cultura scientifica del tempo tro-
vava formulate nei Philisophiae naturalis principia mathematica
(1687) di Isaac Newton e le premesse gnoseologiche che
erano rintracciabili nel Saggio sull’intelletto umano (1690) di
John Locke.
Così Hume ritenne di aver rintracciato empiricamente
la vera natura dell’uomo, costituita da passioni determinate
che guidano l’azione dell’individuo. La razionalità pratica di
stampo aristotelico non trova qui alcuno spazio, in quanto la
ragione è considerata come semplice strumento per l’indivi-
duazione dei mezzi utili alla realizzazione di un fine indicato
dalla passione, di modo che, secondo Hume, «la moralità è 21
determinata dal sentimento»34. La correttezza morale della
passione stessa è determinata in base a criteri e regole social-
mente accettati e risultanti dall’«intreccio dei sentimenti» di
coloro che compongono la società35.
Hume sostiene che questa teoria, come qui l’abbiamo
sintetizzata, potrebbe anche non essere vera, e tuttavia an-
drebbe preferita rispetto ad altre, in quanto utile a promuo-
vere «gli interessi della società»36. È Hume stesso, dunque,
a riconoscere come la sua teoria filosofica sia strettamente
legata all’ambiente sociale dell’Inghilterra del suo tempo,
ambiente che lui aveva consapevolmente scelto preferendo-
lo a quello scozzese dove la nascita l’aveva collocato. Una ri-
cerca empirica sulla natura umana non poteva che constatare
la molteplicità delle passioni e degli interessi che spingevano

33. Cfr. Alasdair MacIntyre, Giustizia e razionalità (1988), Anabasi, Milano 1995, 2 voll.,
cap. 4 del vol. 2.
34. David Hume, Ricerca sui principi della morale (1751), Laterza, Roma-Bari 20092, appen-
dice I.
35. Cfr. ivi, sez. V, parte II.
36. Ivi, Conclusione, parte II.
La pratica gli uomini inglesi del tempo ad agire. Ma il metodo induttivo
del bene newtoniano non può funzionare per la realtà umana e socia-
comune
Gianluca Cavallo le e ha come conseguenza quella di ritenere universalmente
umano ciò che tale non è. Se le passioni che dominano gli
uomini di una certa cultura particolare sono socialmente
accettate, la loro approvazione presuppone una giustificazione
morale; dunque esse non ne possono essere il fondamento.
Questa inversione tra premessa e conseguenza mina il ra-
gionamento alla base, ma se ne comprendono le ragioni se
si considera il suo carattere fortemente ideologico37. Così,
le passioni che Hume crede moventi dell’azione di tutti gli
uomini di ogni tempo e luogo, altro non sono che «quelle
di un erede soddisfatto della rivoluzione del 1688»38.
A un fallimento analogo va incontro la teoria morale di
Denis Diderot che, com’è noto, fu uno dei più importan-
ti esponenti dell’illuminismo francese, ideatore e curatore
dell’Enciclopedia. La sua teoria filosofica è teoreticamente
meno elaborata di quella humeana, ma va tuttavia conside-
rata, tenendo conto dell’importanza storica del suo autore
e del clima intellettuale dell’illuminismo europeo. Molto
22 sinteticamente, egli cerca di fondare una morale naturale
basandola sugli istinti e i desideri dell’uomo, ma fallisce nel
tentativo di dimostrare l’esistenza di desideri naturali distinti
da quelli artificialmente imposti dalla società.
MacIntyre sostiene in maniera convincente che la filo-
sofia morale di Kant non fu altro che un’elaborazione di
questo fallimento: constatata l’impossibilità di fondare con
coerenza una teoria morale sulle passioni o sugli istinti, oc-
correva allora fondarla sulla ragione, e proprio questo egli
tenta di fare. L’imperativo categorico è un principio formale
che ingiunge al soggetto morale di agire sempre e soltan-
to in base a principi che potrebbero essere coerentemente
universalizzati. Tuttavia, come mostra MacIntyre, potrebbero
essere universalizzate senza contraddire l’imperativo catego-
rico anche «molte massime immorali e futilmente amorali»,
come ad esempio «“Perseguita tutti coloro che sostengono
false credenze religiose”» oppure «“Mangia sempre cozze
nei lunedì di marzo”»39.

37. Cfr. Alasdair MacIntyre, Giustizia e razionalità cit., vol. 1, p. 98.


38. Id., Dopo la virtù (1981), Armando, Roma 2007, p. 82.
39. Ivi, p. 79.
L’eredità complessa MacIntyre prosegue queste breve trattazione di storia
della modernità dell’etica individuando in Kierkegaard l’erede di questi fal-
limenti, il quale ha cercato di fondare l’etica sulla libera
scelta dell’individuo. Le opzioni che si presentano al sogget-
to stanno tutte tra loro in una relazione logica disgiuntiva:
Aut-aut è il titolo della sua principale opera di etica. Ciò che
sostanzialmente si sostiene in questo testo è che
i principi che definiscono la vita etica devono essere adottati
senza alcuna ragione, ma in base a una scelta che trascende la
ragione, appunto perché è la scelta di ciò che per noi deve
valere come una ragione.40

L’etica, così, viene esplicitamente destituita di qualsiasi fon-


damento.
In quest’ottica Nietzsche appare come colui che ha ri-
conosciuto con esattezza la vanità di tutti questi tentativi
illuministici e post-illuministici di fondare la morale. Egli è
dunque l’epilogo della modernità, ma secondo MacIntyre
non è il nostro destino: abbiamo infatti la possibilità (e il
compito) di riabilitare l’etica delle virtù, che appartiene a
una tradizione di ricerca morale alternativa rispetto all’Illu- 23
minismo e che perciò è restata intaccata dai suoi fallimenti.
Questi sono stati causati, piuttosto, proprio dal rifiuto dell’e-
tica delle virtù, che ha i suoi rappresentanti in Aristotele e
Tommaso d’Aquino.
Naturalmente la modernità conta assai più numerosi
tentativi di fondare l’etica, ma essi sono in qualche modo
riconducibili a quelli qui presentati. Hume, Diderot, Kant e
Kierkegaard in questo contesto vanno considerati quasi co-
me «idealtipi», dal momento che possono essere considerati
i maggiori filosofi che hanno tentato una fondazione dell’e-
tica rispettivamente sulle passioni, sugli istinti, sulla ragio-
ne e sulla scelta. In questo senso, ad esempio, gli utilitaristi
possono essere ricondotti al terzo idealtipo, anche se Kant
fu un loro critico severo e si distanziò notevolmente da essi.
Se le narrazioni di Taylor e MacIntyre raccontano qualco-
sa di vero, esse ci permettono di mettere a fuoco il problema
principale (in termini etici e politici) della nostra epoca: la
mancanza di un criterio condiviso per l’individuazione di
ciò che è bene e quindi l’assenza di un motivo persuasivo

40. Ivi, p. 75.


La pratica di fondazione dei principi morali. Questa è la ragione per
del bene cui fioriscono etiche proceduraliste liberali che credono di
comune
Gianluca Cavallo poter risolvere la questione senza fare riferimento a un’idea
condivisa di bene. Ma questo modo di intendere l’etica è
a sua volta figlio dell’Illuminismo ed è perciò destinato a
reiterare un fallimento che Taylor e MacIntyre ritengono
già compiuto. Vediamo quindi nel dettaglio la critica che i
nostri autori hanno mosso al liberalismo.

24
La pratica 2. Il fallimento della tradizione liberale
del bene
comune
Gianluca Cavallo

Fra i membri di una Grande società,


che in gran parte non si conoscono,
non vi è accordo sull’importanza dei
fini rispettivi.
Friedrich A. von Hayek,
Legge, legislazione, libertà

Per i liberali, la vita pubblica non può e non deve essere in- 25
formata da alcuna specifica visione del bene, perché questo
significherebbe imporre a tutti i cittadini dello Stato una vi-
sione etica che essi potrebbero anche non condividere e che
perciò percepirebbero inevitabilmente come oppressiva. Nel
peggiore dei casi, quest’idea del bene potrebbe giungere a
essere imposta con la forza, a impoverirsi fino a divenire ma-
schera ideologica di un regime dittatoriale. Occorre, allora,
che lo Stato sia neutrale nei confronti di rivali concezioni
del bene, le quali possono essere liberamente scelte da ogni
cittadino, che avrà la facoltà di decidere quale vita sia per lui
la migliore. Naturalmente dovranno essere posti dei limiti
all’arbitrio individuale, ma questi, anziché avere una base
etica sostanziale, avranno una base formale nell’idea di giu-
stizia espressa dalle istituzioni.
Se fra le diverse anime del liberalismo esistono motivi di
discordia sulle regole della giustizia distributiva, tutti sono
concordi nel ritenere che i principi fondamentali che devono
informare la vita pubblica sono quelli espressi già dai primi
teorici del liberalismo, secondo i quali lo Stato deve assicura-
re a ciascun cittadino la libertà di perseguire i propri scopi,
purché questa non comprometta la possibilità altrui di fare lo
La pratica stesso. Naturalmente, poi, questa libertà non dovrà rivolgersi
del bene contro le istituzioni dello Stato medesimo, poiché altrimenti
comune
Gianluca Cavallo sarebbe minata la base stessa della sua validità. Gli individui
sono considerati titolari di specifici diritti in quanto individui
e non in quanto membri di una comunità politica: lo Stato
non li conferisce ai cittadini, i quali possono anzi rivendicare
questi contro le ingerenze del potere, bensì né è solamente
il garante (troviamo questi principi, per esempio, in Kant).
I critici comunitaristi del liberalismo – e qui MacIntyre
concorda pienamente con loro – hanno sostenuto che questa
posizione sia ideologica, in quanto afferma di escludere qual-
siasi concezione del bene, mentre ciò non è assolutamente
possibile. Ciò è dimostrato dal fatto che proprio la libertà
che essi intendono difendere è l’idea di bene che informa la
loro dottrina. La contraddizione balza agli occhi quando, ad
esempio, lo Stato deve prendere una decisione legislativa in
materia di aborto: qualunque soluzione esso scelga non potrà
che essere informata da una specifica concezione del bene (è
bene che la vita del feto venga tutelata in quanto vita umana;
oppure è bene che la donna abbia la libertà di gestire in au-
26 tonomia la gravidanza). In realtà, John Rawls ammette che
vi sia un’idea del bene alla base dello Stato liberale, tuttavia
ritiene che essa sia una concezione non controversa e che
lasci spazio alla libera scelta morale dei cittadini. Ma il caso
dell’aborto, come ha sostenuto ad esempio Michael Sandel1,
sembra mostrare che la questione non è così semplice. Inol-
tre, se anche fosse vero che la concezione del bene liberale
non è controversa, questo potrebbe essere soltanto il frutto
di una contingenza storica, che non giustifica l’erezione di
un sistema di istituzioni e di leggi.
Per MacIntyre le istituzioni liberali «impongono una
concezione particolare della vita buona, del ragionamento
pratico e della giustizia a coloro che, volenti o nolenti, accet-
tano le procedure liberali e i termini liberali del dibattito». Il
carattere ideologico dell’occultamento, da parte dei teorici,
della loro concezione del bene è evidente: in ultima anali-
si «il bene primario del liberalismo non è né più né meno
che il continuo sostentamento del sistema sociale e politico

1. Michael Sandel, Il discorso morale e la tolleranza liberale: l’aborto e l’omosessualità (1989), in


Alessandro Ferrara (a cura di), Comunitarismo e liberalismo cit., pp. 251-274.
Il fallimento liberale»2. Ciò è dovuto al fatto che il dibattito su cosa sia
della tradizione liberale giusto e bene è destinato al fallimento, poiché il liberalismo
non ammette nessuna base per giudicare una concezione
superiore a un’altra e, in questo modo, tacitamente presup-
pone che non esista ordinamento sociale migliore di quello
da lui stesso sostenuto.
In Giustizia e razionalità MacIntyre legge il liberalismo co-
me una tra le molte tradizioni sociali e di ricerca che presen-
tano concezioni rivali del bene. Per «tradizione» MacIntyre
intende un insieme di ricerche filosofiche, legate ciascuna a
specifiche circostanze storiche e sociali, tra le quali sia possi-
bile tracciare una linea di continuità, basandosi sul fatto che
gli autori appartenenti a una medesima tradizione condivi-
dono una specifica idea di che cosa significhi realizzare un
ragionamento pratico corretto (ossia, individuare corretta-
mente le premesse e le conseguenze di un’azione). La forma
accettata di ragionamento pratico, naturalmente, presuppo-
ne specifiche concezioni di che cosa è bene, poiché è sem-
pre ciò che è ritenuto bene a fungere da scopo dell’azione
e quindi da premessa del ragionamento pratico. Inoltre, la
conseguenza dell’accettazione di una determinata idea di 27
bene e di ragionamento pratico avrà come conseguenza una
specifica concezione di giustizia. Quest’ultima, infatti, è ciò
che permette a ogni uomo di perseguire il bene.
Ma una tradizione non è un corpo stabile di dottrine:
ciascun momento storico porrà delle sfide pratiche a quanto
sostenuto in sede teorica dai suoi membri, che dovranno far
fronte a queste sfide se vorranno dimostrare che la tradizio-
ne cui essi si riferiscono è ancora viva, capace di avere un
significato per i contemporanei. Inoltre una tradizione dovrà
fronteggiare le obiezioni e i tentativi di confutazione avanzati
da appartenenti a storie rivali e, infine, dovrà fronteggiare
problemi interni al proprio bagaglio storico-concettuale e
risolvere apparenti contraddizioni3.
Ma come nasce una tradizione? Interpretando gli scritti di
MacIntyre possiamo affermare che ogni filosofia nasce come

2. Alasdair MacIntyre, Giustizia e razionalità cit., vol. 2, p. 167.


3. Questi temi sono affrontati da MacIntyre in diversi luoghi. Citiamo i più estesi: Ivi,
pp. 173 ss.; Id., Précis of Whose Justice? Which Rationality? (1991), in Kelvin Knight (ed.), The
MacIntyre Reader, Polity Press, Cam­bridge 1998 / Univeristy of Notre Dame Press, Notre
Dame 1998, pp. 105-108.
La pratica ideologia, cioè come espressione di specifiche strutture so-
del bene ciali (su questo punto MacIntyre si mantiene fedele a Marx,
comune
Gianluca Cavallo anche se a questo nome egli affianca quello di Collingwood).
Ogni ideologia ha tre caratteristiche: primo, individua certi
aspetti della natura o della società che servono a spiegare la
condizione presente ma che sono ritenute essere valide come
leggi generali (un esempio è lo stesso materialismo dialetti-
co di Marx). Secondo, afferma che il mondo è fatto in un
certo modo e che quindi bisogna agire in un certo modo. Di
conseguenza, l’ideologia implica delle considerazioni sullo
status da assegnare ad affermazioni morali e valutative, non-
ché sulla forma del corretto ragionamento pratico. Perciò
l’ideologia si sovrappone in parte al terreno della filosofia. In
terzo luogo, un’ideologia non solo è ritenuta vera dai mem-
bri di un determinato gruppo sociale, ma è creduta tale in
un modo che parzialmente definisce la loro stessa esistenza
all’interno del mondo (si può pensare, come esempio, ai tes-
serati di un partito comunista). Così, l’ideologia copre anche
parte del territorio della sociologia4.
La filosofia deve essere sempre consapevole di questa
28 sua origine particolare (così come la storia della filosofia
deve essere condotta tenendo conto di questi fondamentali
aspetti), ma al contempo essa implica una pretesa di verità
e pertanto il suo sforzo costante deve essere quello di eman-
ciparsi dalla particolarità per poter valere universalmente.
MacIntyre è un avversario del relativismo, che ritiene inso-
stenibile. La motivazione più elementare, ma efficace, per
rifiutarlo è che esso non è creduto vero da nessuno tra i
sostenitori di posizioni rivali, i quali, se credessero alla verità
del relativismo (ma il relativismo può pretendere per sé la
nozione di verità che nega agli altri?), non avrebbero più
alcuna ragione per sostenere le loro posizioni e il dibattito
con gli avversari5.
Per comprendere come la filosofia possa rivendicare la
verità, occorre tornare al concetto di tradizione, dato che
ogni filosofia esiste all’interno di una tradizione. Abbiamo vi-
sto che questa implica: (1) una concezione del bene, su cui si

4. Alasdair MacIntyre, The end of ideology and the end of the end of ideology, in Id., Against the
Self-Images of the Age. Essays on Ideology and Philosophy, Duckworth, London 1971, pp. 5-7.
5. Cfr. Id., Moral relativism, truth, and justification (1994), in Id., The Tasks of Philosophy.
Selected Essays, vol. 1, Cam­bridge University Press, Cam­bridge 2006, pp. 52-73.
Il fallimento fonda (2) uno specifico modello di ragionamento pratico; il
della tradizione liberale tutto giustifica (3) una specifica idea di giustizia. Ma abbiamo
anche rilevato come ogni tradizione nasca in uno specifico
contesto sociale e abbia (almeno inizialmente) il carattere di
ideologia. Ciò significa che il contesto sociale è determinante
per 1, 2 e 3 e che queste possono essere ritenute vere soltanto
se riescono a dimostrare la loro validità indipendentemente
dalla loro genesi particolare.
Prima di vedere cosa questo significhi, può essere utile
fare alcuni esempi. Lo Stato liberale e l’economia di libero
mercato sono specifiche strutture sociali che determinano (o
sono legittimate da) la prevalenza dell’idea che (1) il bene sia
ciò che ciascun individuo ritiene tale, entro i limiti della giu-
stizia. Questo è infatti il modello dell’economia politica, per
cui ciascun individuo è libero di scegliere le merci disponibili
sul mercato, di stipulare liberi contratti di lavoro, di persegui-
re obiettivi diversi per giungere a posizioni sociali differenti,
eccetera (l’insegnamento di Marx è qui imprescindibile).
Una siffatta concezione del bene, come frutto della scelta
individuale, fonda (2) un ragionamento pratico che serve a
individuare i mezzi adeguati al raggiungimento di un fine 29
scelto in base alla preferenza soggettiva. Esso avrà più o me-
no la seguente forma: «“Voglio che accada questo e questo.
Non vi è nessun altro modo che mi consenta ciò che preferi-
sco. Fare la tal cosa non frustrerà nessuna preferenza che sia
tanto forte quanto questa o più forte di questa”»6. In base a
queste premesse, (3) la giustizia sarà ciò che permette a ogni
individuo di svolgere questo ragionamento e quindi non po-
trà implicare una specifica concezione del bene, perché così
facendo inficerebbe una delle premesse del ragionamento
pratico.
Consideriamo un secondo caso. Una comunità di medie
dimensioni, ad esempio la polis aristotelica, informata dal-
la pratica politica di cittadini che riconoscono nello spazio
pubblico la dimensione adatta alla loro libertà, conduce alla
prevalenza dell’idea che (1) il bene sia qualcosa il cui perse-
guimento può avvenire soltanto all’interno di una comunità,
dove il dibattito razionale definisce i termini in cui il bene
stesso deve essere inteso. Questo esige che l’interesse perso-

6. Id., Giustizia e razionalità cit., vol. 2, pp. 161-162.


La pratica nale venga subordinato all’idea del bene, che non può essere
del bene soltanto individuale. La prevalenza dell’individuo sul colletti-
comune
Gianluca Cavallo vo (ad esempio nella forma della pleonexia) condurrebbe in-
fatti al disgregamento della comunità cittadina e graverebbe
sull’individuo rendendogli impossibile l’essere felice.
Questa concezione del bene è alla base di (2) una forma
di ragionamento pratico che vale a individuare i mezzi volti
all’ottenimento di questo bene comunitariamente definito.
Esso avrà una forma di questo genere: “Siccome il bene per
l’uomo è questo e questo, in queste specifiche circostanze
dovrò fare la tal cosa”. Si noti che il ragionamento implica
sia l’individuazione di un bene ultimo, sia l’ordinamento di
beni parziali (dipendenti dalle circostanze) in base a quello7.
Poste queste premesse, (3) la giustizia sarà ciò che permette
agli uomini di individuare e di perseguire insieme ciò che è
bene.
Naturalmente gli esempi non sono stati scelti a caso: il
primo corrisponde all’ossatura della filosofia espressa dalla
tradizione liberale, mentre il secondo a quella espressa dal-
la tradizione aristotelica, cui MacIntyre appartiene. Questi
30 esempi ci insegnano che se l’ordine di derivazione dal bene
alla giustizia è corretto, dato che l’idea del bene ha una for-
ma ideologica, allora anche l’idea di giustizia avrà tale forma.
Reclamare la verità per la propria posizione filosofica signi-
fica perciò dare ragione di quattro elementi: (A) una speci-
fica forma sociale, (B) un’idea del bene, (C) uno schema di
ragionamento pratico, (D) una concezione di giustizia. Dare
ragione di (A) significa fondare una risposta positiva alle do-
mande «è praticabile?» e «è coerente con (B) (C) e (D)?».
Dare ragione di (C), che implica (B) nelle sue premesse,
significa poter rispondere positivamente a «è conseguente?»,
mentre dare ragione di (D) significa dotarsi degli strumenti
per rispondere affermativamente a «è coerente con (B)?» e
«permette a (C) di concludersi con un’azione coerente?».
Quando si ha a che fare con un’ideologia la reale giu-
stificazione di (B) (C) e (D) è fornita da (A), per quanto
il discorso ideologico tenda a occultarlo. Emanciparsi dalla
particolarità della genesi, al contrario, significa per la filo-

7. Cfr. Alasdair MacIntyre, Rival Aristoteles: 1. Aristotle against some Renaissance Aristotelians,
2. Aristotle against some modern Aristotelians (2000), in Id., Ethics and Politics cit., pp. 3-40. Il
riferimento è alle pp. 32-33.
Il fallimento sofia che è (B) a dover fondare la validità di (C) e (D) e, in
della tradizione liberale conseguenza di questo, anche di (A). Perciò la dimostrazione
della validità di (B) è fondamentale (ed è anche la più com-
plessa). MacIntyre nega che possa esistere qualcosa come
una giustificazione definitiva di (B): non si può mai avere
la certezza di aver raggiunto la verità, anche se è possibi-
le, almeno in linea di principio, stabilire quale tradizione è
vera-fino-a-prova-contraria. Naturalmente, nulla esclude che
la prova contraria possa anche non giungere.
L’unica dimostrazione che è possibile fornire di (B) è di
tipo dialettico. Come Aristotele spiega nei Topici, la dialettica
è un metodo utile all’indagine filosofica, in quanto permette
sia di saggiare la consistenza di specifici assunti, sia – ed è
il caso che qui ci interessa – di mettere in atto un processo
diaporematico (cioè di soluzione delle difficoltà) quando «ci
si trovi in presenza di due asserzioni opposte di ugual forza
probante»8. Il procedimento dialettico in questione consiste
nel dedurre le conseguenze di entrambe le affermazioni che
pretendono la verità e di verificare se si incorre in una con-
traddizione; occorrerà poi risalire alle premesse per vedere
se sono state dedotte correttamente e se le premesse sono 31
vere (dato che è sempre possibile che la conclusione vera sia
stata dedotta da premesse false).
MacIntyre, tuttavia, non si basa soltanto sull’epistemologia
aristotelica, ma attinge anche alla filosofia della scienza di
Kuhn e Lakatoš. Egli estende alle tradizioni di ricerca morale
il concetto di «rivoluzione scientifica» del primo e il concetto
di «programma di ricerca» del secondo. Tuttavia, sostiene
che entrambi questi concetti, siano essi applicati alle scienze
naturali, a quelle sociali o alla storia della filosofia, possono
essere efficaci soltanto se inseriti all’interno di una «narrativa
drammatica»9. Questo significa che sia per rendere intelligi-
bili i mutamenti di paradigma, sia per valutare un program-
ma di ricerca è necessario che l’appartenente a uno di questi
sia in grado di scrivere una storia della propria disciplina che
possa rendere conto sia del perché il vecchio modo di guar-
dare alle cose era inadeguato e destinato a fallire, sia perché

8. Marcello Zanatta, Introduzione alla filosofia di Aristotele, Rizzoli, Milano 2010, p. 141.
9. Alasdair MacIntyre, Epistemological crises, dramatic narrative, and the philosophy of science
(1977), in Id., The Tasks of Philosophy cit., pp. 3-23.
La pratica il nuovo metodo è in grado di risolvere quei problemi che
del bene hanno portato alla «rivoluzione».
comune
Gianluca Cavallo La nozione di narrativa drammatica, applicata alle tra-
dizioni filosofiche, significa perciò che una tradizione, per
dimostrarsi superiore alle rivali, e quindi per sostenere la
verità della sua concezione del bene, deve essere in grado di
scrivere una storia che renda conto: (1) di come essa sia stata
in grado di risolvere i problemi a essa interni senza intaccare
la validità dei principi fondamentali da essa stessa accettati;
(2) di come sia stata in grado di adattarsi ai cambiamenti
sociali riuscendo a fornire risposte adeguate ai problemi via
via emergenti dalla realtà esterna; (3) del perché una tradi-
zione rivale debba essere considerata inadeguata e destinata
a fallire, mentre proprio quei problemi per quella letali siano
risolvibili nei propri termini.
Il terzo punto è forse il più complesso, in quanto richie-
de all’appartenente a una specifica tradizione di «mettersi
nei panni» del suo rivale, cercando di utilizzare le sue stesse
categorie filosofiche nel rispondere alle più diverse sfide. In
altre parole, il membro di una tradizione dev’essere in grado
32 di scrivere anche la storia della tradizione rivale e di mostrare
come essa sia fallita nei punti (1) e/o (2).
Si può dire che lo sforzo compiuto da MacIntyre in nu-
merosi suoi saggi e libri sia esattamente quello di scrivere
tutte queste storie nel tentativo di dimostrare la verità della
concezione aristotelico-tomista del bene in opposizione alla
tradizione liberale, che egli considera fallita. Per quanto chi
scrive sia convinto della superiorità della tradizione aristote-
lica su quella liberale, l’idea che sia possibile dimostrare la
verità di una tradizione su tutte le altre è sicuramente ecces-
siva (cioè infondata). Innanzitutto, MacIntyre evita di speci-
ficare un punto fondamentale, cioè quali siano i criteri che
permettono di identificare gli appartenenti a una medesima
tradizione. Egli non ci fornisce alcun chiaro criterio, ad esem-
pio, per rispondere a domande come «il repubblicanesimo
appartiene alla tradizione liberale?» oppure «Bruni e Picco-
lomini appartengono alla tradizione aristotelica?»10, oppure

10. Bruni e Piccolomini sono due autori aristotelici rinascimentali, criticati in Alasdair
MacIntyre, Rival Aristotles cit.
Il fallimento «esiste una tradizione cattolica? Se sì, il tomismo è una parte
della tradizione liberale di essa o una tradizione autonoma?»11.
Inoltre, posto che si riescano a identificare, sembra plau-
sibile supporre che due tradizioni, appartenenti a due mon-
di culturali completamente diversi, siano capaci entrambe di
soddisfare i requisiti di razionalità che la teoria di MacIntyre
richiede. Ma questo non le renderebbe meno incompatibili.
Il metodo proposto da MacIntyre andrebbe, oltreché per-
fezionato nell’indicazione dei criteri identificativi delle tradi-
zioni, anche ristretto a un unico mondo culturale, nel senso
che soltanto tradizioni rivali che debbano affrontare gli stes-
si problemi in termini di realtà sociale possono competere
nel dimostrarsi una superiore all’altra. Questo non significa
rinchiudersi nell’etnocentrismo e privarsi della possibilità di
dialogare con mondi differenti dal nostro. Al contrario, si-
gnifica rinunciare alla pretesa che una tradizione nata in un
contesto culturale (la civiltà Occidentale) possa dimostrarsi
superiore a una tradizione nata in un altro. Vi potrà essere,
in una cultura diversa dalla nostra, una tradizione che con un
armamentario concettuale completamente diverso dal nostro
sia rappresentativa di una concezione del bene umano che 33
noi, dal nostro punto di vista, pur non condividendola e non
potendola fare nostra, riconosciamo come degna di valore.
Quest’idea, inoltre, non è incompatibile con una prospet-
tiva aristotelica. Secondo quest’ultima, com’è stata delineata
anche da MacIntyre, ciò che rende valido un ordinamen-
to sociale è che esso permetta di perseguire il bene di ogni
uomo all’interno di una comunità ben ordinata. Se questo
fine è raggiunto, allora si può sostenere che tale comunità
realizza la medesima verità riconosciuta con categorie ari-
stoteliche, anche se probabilmente vi sarà giunta in tutt’al-
tro modo. La conclusione di MacIntyre, secondo la quale se
vi è una tradizione vera allora essa deve essere l’unica vera
ed essere superiore a tutte le altre, deriva dalla concezione
realista della verità come corrispondenza, che egli fa pro-
pria, ereditandola naturalmente da Aristotele e Tommaso
d’Aquino. Ma io credo che la teoria realistica della verità non
abbia alcuna rilevanza per la teoria morale, ammesso e non

11. La domanda sorge spontanea al conoscitore dell’opera di MacIntyre che si trovi a


leggere il suo ultimo libro: God, Philosophy, Universities. A Selective History of the Catholic Philo-
sophical Tradition, Continuum, London 2009.
La pratica concesso che ce l’abbia per la filosofia in generale. Questo
del bene perché essa è una teoria riguardante la nostra conoscenza del
comune
Gianluca Cavallo mondo esterno, mentre non vi è alcun mondo di res morali
da rispecchiare con la nostra conoscenza. Inoltre la stessa
teoria delle tradizioni, che nega un’acquisizione definitiva
della verità, sembra piuttosto incompatibile con il realismo.
Se la verità fosse corrispondenza, che cosa giustificherebbe
il mutamento di paradigma?
La verità filosofica va piuttosto intesa in un senso che è a
metà hegeliano e a metà aristotelico. Vero è – come insegna
Hegel – ciò che corrisponde al suo concetto. Ma, contraria-
mente a quanto pensava Hegel, la verità del concetto non è
identificabile una volta per tutte da uno Spirito giunto alla
trasparenza nell’autocoscienza. Piuttosto, la verità del con-
cetto deve essere l’oggetto della disputa dialettica, in seguito
alla quale si dovrà definire come vero tutto ciò che a esso
corrisponde. In altri termini, anziché tentare di adeguare l’i-
dea alla realtà, si dovrà adeguare la realtà all’idea. Nel nostro
caso, anziché cercare una realtà (quale?) che renda vero il
nostro concetto di Bene, dovremo chiarire dialetticamente
34 la natura di questo Bene e considerare vera ogni realtà che a
esso corrisponde. Così, le due tradizioni incompatibili di cui
si parlava sopra, potranno essere considerate entrambe vere
se entrambe corrisponderanno al concetto di Bene, senza
che questo implichi un’identità culturale12.
Chiaramente questa posizione, oltre che a Hegel, deve
molto al primo dei grandi idealisti, cioè Platone, più di quan-
to debba ad Aristotele. Anzi, essa è espressamente divergente
dalla teoria della verità che rintracciamo negli scritti dell’Or-
ganon. Tuttavia in quei testi (ad eccezione parziale delle Cate-
gorie) egli tratta di logica formale, non di ontologia o di mora-
le. Nella Metafisica, per contro, è dato rinvenire anche i segni
di una teoria ontologica della verità. È vero che non esiste una
trattazione integrale di questa nel corpus aristotelico, tuttavia
vi sono interpreti che hanno sostenuto la plausibilità di una
lettura che vada in questa direzione13. Inoltre, la proposta che
ho delineato non è incompatibile con i fondamenti filosofici

12. Per una simile concezione della verità, cfr. Costanzo Preve, Lettera sull’Umanesimo, Peti-
te Plaisance, Pistoia 2012, p. 123.
13. Cfr. ad esempio Paolo Crivelli, Aristotle on truth, Cam­bridge University Press, Cam­
bridge 2004.
Il fallimento aristotelici, né con la filosofia di MacIntyre. Volendo salvare
della tradizione liberale la tradizione aristotelico-tomista come egli la descrive, si po-
trebbe sostenere che la teoria della verità come corrispon-
denza è il frutto di una lettura incompleta di Aristotele e, in
base agli stessi strumenti offerti dalla tradizione, è giunto il
momento di scalzarla a favore di una teoria metafisica più
impegnativa e coerente14.
Ma torniamo alla critica di MacIntyre al liberalismo. Que-
sto, come si è visto, nega di basarsi su una concezione del
bene. Svelato il carattere ideologico di questa pretesa, Ma-
cIntyre dimostra che il liberalismo considera bene la vita che
gli individui conducono all’interno del suo ordinamento so-
ciale, perseguendo fini diversi e anche incompatibili. Ma, co-
me ogni teoria politica, il liberalismo necessita anche di una
teoria sociale della giustizia, cioè deve fondare dei principi di
giustizia distributiva. Molti tentativi sono stati fatti, all’interno
della tradizione liberale, per fornire giustificazioni a diversi
metodi distributivi, appellandosi a principi incompatibili tra
loro (come l’utilità o il dovere), o di definire il significato
della società politica, a volte giungendo a conclusioni diver-
genti anche partendo dalle medesime premesse (ad esempio 35
quelle contrattualiste, se pensiamo alla divergenza tra Locke
e Rousseau).
L’inconcludenza del dibattito su che cosa sia socialmente
giusto non è un carattere contingente, dovuto magari all’in-
sipienza dei filosofi universitari impegnati nella discussione.
Essa è piuttosto un carattere strutturale del liberalismo, il
quale «è una serie di accordi a essere in disaccordo» (a set of
agreements to disagree)15. La società liberale è fondata su due
principi incompatibili, secondo i quali «ogni individuo è inte-
so sia come qualcuno impegnato nel perseguimento dei pro-
pri interessi personali, qualunque essi siano, sia come qualcu-
no che corrispondentemente richiede protezione da coloro
similmente impegnati»16. Ogni teorico morale del liberali-

14. Interpretare Aristotele e Tommaso come teorici della corrispondenza tra ragione e
realtà, inoltre, non tiene adeguatamente conto del fatto che è soltanto con la modernità
che si dà una netta contrapposizione tra soggetto e oggetto.
15. Alasdair MacIntyre, A Partial Response to my Critics, in John Horton, Susan Mendus
(eds.), After MacIntyre: Critical Perspectives on the Work of Alsdair MacIntyre, University of Notre
Dame Press, Notre Dame 1994, p. 292.
16. Ibidem.
La pratica smo è impegnato a risolvere questo conflitto di principi, ma
del bene l’inconcludenza del dibattito si manifesta a ogni tentativo.
comune
Gianluca Cavallo Ciò che tutti i teorici liberali sono concordi nel rifiutare è
una concezione dell’essere umano «come partecipante per
sua natura a forme di comunità orientate a un singolo, anche
se complesso, bene»17. Si tratta delle concezioni che fanno ca-
po a Platone, Aristotele, Tommaso. Il problema è che proprio
negando questa base i teorici liberali sono impossibilitati a
dare risposta a cosa sia giusto. Se il giusto è una forma del
bene, o quanto meno ciò che preserva il bene, allora è im-
possibile determinare cosa sia giusto se si nega la possibilità
di comprendere cosa è bene per l’uomo.
Qui è necessario fare un chiarimento, perché sembra es-
serci una contraddizione. Si è detto che il liberalismo in re-
altà presuppone una concezione del bene; ora invece si dice
che il liberalismo non può risolvere i suoi conflitti perché
manca di tale concezione. Per chiarire la questione distin-
gueremo il «bene» (con la minuscola) dal «Bene» (già prima,
inavvertitamente, ci siamo serviti della maiuscola). Il libera-
lismo ha una concezione del primo, ma non del secondo. In
36 base al primo i teorici liberali sostengono che sia «bene» che
ciascuno possa seguire le proprie aspirazioni, i propri piani di
vita, i quali, secondo certi standard esterni, potranno essere
anche immorali, ma, finché non violano le regole della giu-
stizia, devono essere tutti accettati. La giustizia presupposta
da questa concezione non implica nulla al livello sociale, ma
sostiene semplicemente che nessuno deve interferire con
l’altro nel perseguimento dei propri scopi.
Questa concezione debole di «bene» è compatibile con il
fiorire di divergenti e incompatibili idee di cosa sia «Bene».
Con questo termine maiuscolo, indichiamo ciò è considerato
essere adatto allo sviluppo della vita buona per l’uomo, nel
senso aristotelico del termine. In una società liberale, po-
tranno convivere coloro che ritengono che il perseguimento
dell’interesse privato sia il «Bene», con coloro che ritengono
che quest’ultimo sia individuabile dal calcolo sociale volto a
determinare la maggiore utilità per il maggior numero, con
quelli che sostengono che il «Bene» sia l’azione disinteres-
sata, compiuta unicamente per rispetto al dovere morale;

17. Ibidem.
Il fallimento con quelli che identificano il «Bene» in una vita appartata,
della tradizione liberale lontana dagli affanni politici e quelli che lo identificano con
la partecipazione politica, ecc. È chiaro però che non esiste
nessun principio per stabilire quale concezione del «Bene»
sia quella corretta; quindi non esiste nessun principio per
stabilire in che cosa debba consistere la giustizia sociale (ri-
cordiamoci dalle pagine precedenti che la concezione del
Bene è alla base di quella della giustizia).
Ora, un liberale replicherà a questa accusa affermando
che essa non centra il bersaglio, in quanto egli è disposto
a riconoscere le conclusioni senza alcun problema. Il fatto
che il dibattito sia interminabile e che nessuna concezione
sostanziale del Bene prevalga, per lui non è affatto un proble-
ma. Anzi, egli è liberale proprio perché valuta positivamente
questi aspetti. I contenuti della giustizia sociale, secondo lui,
non possono essere derivati da una concezione del Bene,
ma devono essere determinati dalla preferenza espressa dalla
maggioranza. Questa tuttavia è una tesi che può essere so-
stenuta al massimo da un politico liberale e non da un filosofo
liberale. Ogni filosofo è infatti impegnato a sostenere la ve-
rità delle sue tesi, a meno che non sia un coerente relativista 37
(ammesso che ciò sia possibile), ma questo non è certo il caso
di Rawls o Nozick, né di Locke, né di Kant, né di tanti altri
filosofi liberali. Ma se la critica di MacIntyre si è mossa fin
qui su un terreno puramente filosofico, sarà sul medesimo
campo che i liberali dovranno rispondere. E qui sembra pro-
prio che MacIntyre abbia pienamente ragione: una filosofia
liberale esente da un interminabile dibattito non potrà mai
esistere. In questo senso, il liberalismo come tradizione di
ricerca ha fallito.
Che conseguenze ha per la politica il fallimento filosofi-
co del liberalismo? Innanzitutto esso significa che la politi-
ca liberale ha la sua unica fonte di legittimità nella volontà
popolare, in quell’espressione della maggioranza cui faceva
appello il difensore del liberalismo che abbiamo immaginato
qualche riga più in su. In secondo luogo, questo significa
che la politica è abbandonata all’arbitrio dei cittadini ed ha
perciò una base interamente relativistica. Affrontiamo le due
questioni separatamente.
La giustificazione politica sulla base della volontà popola-
re non è che un’ideologia, il cui carattere di falsa coscienza
emerge oggi in tutta la sua evidenza. Se mai vi è stata una
La pratica forma di direzione della politica da parte delle masse del-
del bene le democrazie moderne, la qual cosa è alquanto discutibile,
comune
Gianluca Cavallo quel che è certo è che ormai solo i più strenui e accaniti
ideologi possono continuare a sostenere una cosa simile. Da
ogni parte politica, infatti, è giunta l’ammissione, richiesta
dai più elementari principi di onestà intellettuale, che le mas-
se elettorali sono diventate quasi completamente impotenti.
È inutile spiegarne lungamente le cause, che sono note a
tutti. Limitiamoci a un rapido e incompleto elenco: distorsio-
ne mediatica dell’opinione pubblica, perdita della sovranità
nazionale degli Stati, emergenza di una classe capitalistica
transnazionale che determina gli spostamenti di ricchezza e
le politiche economiche degli Stati, capitalismo selvaggio e
globalizzato, crescente complessità delle interazioni globali,
disaffezione dei cittadini nei confronti delle istituzioni e al-
lontanamento dalla vita politica, ecc.
Si potrebbe obiettare che l’attuale configurazione dello
Stato democratico non è l’unica ammessa dal liberalismo e
che un’azione risvegliata delle masse potrebbe portare a un
cambiamento istituzionale; tuttavia questa obiezione non ri-
38 solve il problema, perché se l’osservatore politico potrebbe
continuare a sostenere che questa sarebbe la volontà della
maggioranza, e che andrebbe rispettata in quanto tale, quella
massa non potrebbe avere altro motivo di organizzarsi e agire
se non alleandosi a una concezione del Bene che vorrebbe
vedere incarnata nelle istituzioni.
Per quanto riguarda il relativismo, osserveremo con Ma-
cIntyre che esso implica la cancellazione della distinzione
tra rapporti manipolativi e non manipolativi18. La nostra vita
politica (e anche nei luoghi di lavoro), in altri termini, invece
di essere caratterizzata da un dibattito razionale, è basata su
un agonismo sofistico che inevitabilmente riduce la giustizia
al volere del più forte. L’aggettivo «sofistico» naturalmente ri-
manda ai Sofisti greci, il che ci ricorda come questi problemi
della democrazia fossero già perfettamente chiari all’epoca.
Per renderci conto di cosa tutto questo implichi, sarà suffi-
ciente allora leggere Platone.
Anziché essere determinata dal volere della maggioranza,
la direzione della politica e della giustizia sociale è determi-

18. Cfr. Alasdair MacIntyre, Dopo la virtù cit., pp. 55-68.


Il fallimento nata piuttosto dalla «forza»: vince chi è in grado, tramite i
della tradizione liberale media, di manipolare l’opinione altrui, di convincerlo tramite
un discorso persuasivo (sofistico e non veritiero). Vince chi
ha più denaro, chi è più scaltro, chi è più fortunato. Chiara-
mente questo non significa che se ogni cittadino credesse alla
verità e agisse di conseguenza i mali del mondo scomparireb-
bero. Piuttosto, ciò che si vuol sostenere è che l’ordinamento
politico e sociale in cui viviamo non ha alcuna legittimità, se
non per coloro che ritengono la politica dei Sofisti il miglior
modo per condurre la società in cui vivono. Questo ci impo-
ne di ripensare le forme della nostra convivenza, i beni che
perseguiamo quotidianamente, il nostro modo di intendere
la politica, in direzione di un cambiamento radicale. A que-
sto scopo la filosofia non è certo sufficiente (né, se intesa in
senso stretto, si può dire che sia necessaria), ma certamente
aiuta a chiarire i termini della questione.

39
La pratica 3. Crisi di legittimità e inadeguatezza del liberalismo
del bene
comune
Gianluca Cavallo

L’universale, questo spirito morto


frantumato negli atomi della mol-
teplicità assoluta degli individui, è
un’uguaglianza in cui Tutti hanno il
valore di Ciascuno, valgono cioè co-
me persone.
Hegel, Fenomenologia dello Spirito

Possiamo far cominciare la critica al liberalismo che muove- 41


remo seguendo Taylor dallo stesso punto da cui siamo par-
titi in compagnia di MacIntyre: cioè con la negazione della
presunta neutralità dello Stato liberale. Esso è un prodotto
della modernità e, in quanto tale, incarna i valori che da essa
sono emersi. Come abbiamo visto parlando di Hegel, con
la modernità è nata un’esigenza del tutto nuova, legata alla
libertà del soggetto individuale. Il mondo naturale e sociale
non è più all’origine del significato della vita umana, ma
diviene il mezzo mediante il quale questa può realizzarsi. Il
liberalismo è pienamente coerente con questo aspetto della
modernità: rifiutando qualsiasi concezione unitaria del Bene
(che, in termini aristotelici, presuppone un concetto meta-
fisico come quello di una «natura normativa», che è proprio
quanto il soggetto moderno è giunto a rifiutare), si fa fautore
di un’«etica delle regole»1 che si pretende neutrale.
Tuttavia Taylor, in linea con i comunitaristi e con Ma-
cIntyre, ritiene che questa neutralità rispetto al bene sia sol-

1. Charles Taylor, Le just et le bien, «Revue de Métaphysique et de Morale», XCIII (1988),


n. 1, p. 37.
La pratica tanto apparente. Infatti, la giustificazione che si può offrire
del bene delle stesse regole procedurali dovrà consistere «in una certa
comune
Gianluca Cavallo comprensione della vita umana e della Ragione, in una dot-
trina antropologica, e quindi in una concezione del bene».
La «logica della “natura” del “telos” e del “bene”»2, che sem-
brava essere stata rifiutata dalla modernità, ha allora soltan-
to cambiato contenuto, e in questo mutamento essa è stata
(ideologicamente) nascosta.
Per il soggetto moderno, il bene è agire liberamente sulla
base della propria ragione. Questo può essere interpretato
in diversi modi, a seconda di quale dottrina antropologica si
abbracci. Si potrà ritenere che la ragione è strumentale ri-
spetto alla passione che determina i fini (Hume e, con alcune
varianti, molti pensatori liberali); oppure che essa fornisce la
legge per valutare ogni massima delle nostre azioni in modo
da imporci di seguire quelle massime che possono essere
considerate conformi al dovere morale (Kant); ancora, si
potrà ritenere che la ragione deve calcolare le conseguenze
delle azioni compiute nel perseguimento dei nostri desideri,
in modo da massimizzare la felicità (utilitarismo); oppure,
42 che agire in base alla propria natura voglia dire riconoscere
l’eccesso nei nostri desideri come una corruzione eteronoma
della nostra libertà, causata dalla società (Rousseau).
Come sottolineato da MacIntyre, questa è la natura del
dibattito su cosa sia bene. Secondo Taylor tutte queste inter-
pretazioni concordano su quattro punti fondamentali che
definiscono la natura di un soggetto libero. Egli è considera-
to: (1) uguale a ogni altro essere libero; (2) titolare di diritti
che garantiscono la sua libertà; (3) capace di realizzare i suoi
propositi nella vita privata e di (4) influenzare il governo
della società e la direzione complessiva di questa nel suo con-
trollo della natura3.
A differenza di MacIntyre, Taylor non ritiene completa-
mente sbagliata questa idea di natura umana. Egli tiene per
valida l’aspirazione moderna all’autodeterminazione in base
a un’«etica dell’autenticità». Tuttavia i filosofi liberali, a suo
avviso, non sono stati sufficientemente fedeli a questo ideale
e hanno finito col cadere in contraddizione. Allo stesso modo

2. Ivi, p. 40.
3. Id., Legitimation Crisis?, in Id., Philosophy and the Human Sciences. Philosophical papers 2,
Cam­bridge University Press, Cam­bridge 1985, pp. 274-275.
Crisi di legittimità la pratica sociale del liberalismo si è pericolosamente impo-
e inadeguatezza verita, giungendo anch’essa in contraddizione con i principi
del liberalismo
in essa originariamente incarnati4. Vediamo come questo
possa essere avvenuto.
Le istituzioni moderne (lo Stato e il mercato capitalistico)
nascono, almeno in linea di principio, come incarnazioni di
quei quattro principi che abbiamo appena elencato. L’odier-
no modo di vivere e la società contemporanea sono eredi di
quelle concezioni e di quelle istituzioni. Per comprendere
se le istituzioni sono legittime, allora, occorre comprendere
se esse effettivamente permettono all’uomo di realizzare la
sua libertà o se questo termine non è più nient’altro che un
residuo ideologico. La mancanza di legittimità sarebbe una
questione filosofica e morale, ma avrebbe inevitabilmente
una rilevanza politica5.
Il sistema capitalistico entro il quale viviamo è basato sulla
crescita dei profitti. Anche questo, almeno in parte, risponde
a un’esigenza moderna, in quanto esprime una possibilità di
realizzazione del punto (3). Essere impegnati in un’impresa
economica al fine di massimizzare i propri profitti significa
essere liberi di realizzare i propri scopi personali, sia in ter- 43
mini lavorativi che in termini di soddisfazione dei bisogni e
dei piaceri mediante il denaro acquisito. Questo naturalmen-
te implica il lavoro subordinato, il cui scopo dovrebbe pari-
menti essere una realizzazione delle aspirazioni umane alla
libertà. Eppure gran parte del lavoro compiuto dagli uomini
è privo di questo significato, rivelandosi spesso un ostacolo
al raggiungimento degli obiettivi primariamente umani, im-
plicando noia, fatica, obbedienza. Anche in questo caso la
lezione di Marx resta insuperata.
Si potrà replicare che questi sono caratteri necessari del
lavoro, ma sembra invece che sia l’esigenza, implicita nel si-
stema capitalistico, di massimizzare i profitti a qualsiasi costo
a impedire una riorganizzazione delle attività lavorative che
possa portare a una democratizzazione all’interno dei luo-
ghi in cui si svolge, una riduzione dell’orario o magari una
rotazione tra tutti i cittadini nel compimento dei lavori più
pesanti. La crescita è intesa in termini meramente quantita-

4. Questi temi sono affrontati anche in Id., Il disagio della modernità cit.
5. Id., Legitimation Crisis cit., p. 277.
La pratica tivi, subordinando a sé qualsiasi bene umano che possa porle
del bene dei limiti.
comune
Gianluca Cavallo Taylor ritiene che questi evidenti caratteri della nostra so-
cietà non siano il prodotto alienante di una «formula imposta
sulle masse di lavoratori dalla classe dominante»6, come po-
trebbe essere sostenuto da un marxista ortodosso. Piuttosto,
sono proprio quei lavoratori alienati e quegli uomini il cui
bene è stato subordinato alle leggi del profitto a dare un
tacito assenso al sistema. L’uomo alienato ma critico verso il
sistema impersonale che lo domina, e l’individuo soddisfatto
della sua condizione di consumatore non sono due figure
diverse. La stessa natura della libertà moderna implica questo
carattere contraddittorio.
Se il lavoro ha il carattere disumanizzante che ha, il lavo-
ratore è comunque disposto a non reclamare maggiori dirit-
ti, perché questo significherebbe doversi impegnare in una
partecipazione democratica sul luogo di lavoro, dedicando
ad essa tempo ed energie. L’individuo preferisce accettare le
sue condizioni di lavoro per poter essere più libero in altri
contesti, dove ritiene di poter realizzare maggiormente se
44 stesso. L’importanza dello spazio privato è una fondamentale
componente dell’ideale moderno di libertà e realizzazione, e
il soggetto può sentirsi meglio come consumatore che come
partecipante alla direzione di un’impresa produttiva. Ana-
logamente il meccanismo irrazionale di una crescita fine a
se stessa viene accettato dal momento che questa permette
l’afflusso di ricchezze, la varietà e l’aumento dell’offerta dei
beni di consumo, mediante i quali il soggetto ritiene di rea-
lizzare la sua buona vita.
Questo ci porta a un’ulteriore contraddizione: l’oggetto
di consumo è una merce che viene presentata dalle agenzie
pubblicitarie come portatrice di una promessa di felicità; essa
sembra essere indispensabile alla determinazione dell’iden-
tità personale. Ma naturalmente si tratta di un linguaggio
volto alla manipolazione, alla quale l’individuo si sottopone
per poter perseguire il suo ideale di vita privata7.
Questa descrizione della condizione odierna svolta da Tay-
lor si addice perfettamente al periodo del «boom di consumi»

6. Ivi, p. 279.
7. Tutto questo discorso è svolto da Taylor ivi, pp. 278 ss.
Crisi di legittimità durante il quale egli scrive (gli anni Ottanta). Nel periodo
e inadeguatezza di crisi che attraversiamo attualmente la situazione si è fatta
del liberalismo
ancora più paradossale. Infatti l’ideale della realizzazione in-
dividuale nella costruzione di una vita privata sulla base del
consumo di beni sembra essere rimasto invariato, nonostante
sia diminuita per molti la possibilità di concretizzarlo. Anche
se fosse possibile ritornare a qualcosa di simile, il discorso di
Taylor vale a mostrarci l’assurdità di una simile speranza, in
quanto la società dei consumi è una società profondamente
contraddittoria, in base agli stessi criteri dell’individualismo
moderno.
Taylor non è un critico moralizzatore: come si è visto, egli
ritiene che il modello di vita consumistico incarni un fon-
damentale aspetto della costruzione dell’identità moderna.
Tuttavia è la medesima libertà soggettiva a richiedere che il
lavoro sia meno alienante, che la crescita sia sottomessa a
considerazioni sulla giustizia e sul bene umano, che le merci
di cui ci serviamo non abbiano una forma feticizzata, ma sia-
no considerate per quel che sono. Il modello consumistico,
perciò, è quantomeno parziale.
Secondo Taylor la contraddizione insita nell’attuale ordi- 45
namento sociale non è priva di soluzione. Così sarebbe se le
parti contendenti avessero uguale forza. Ma egli ritiene che
la visione affermativa (quella che ritiene che esistano spazi
di libertà) non sia vincolata a sostenere incondizionatamente
il capitalismo. Essa lo sostiene solo in quanto esso appare
una condizione per la libertà. La visione positiva è pertan-
to vulnerabile di fronte a quella negativa. Se questa mostra
che l’aspirazione moderna alla libertà è frustrata, o che può
esistere un’alternativa che meglio soddisfi le medesime esi-
genze, allora sarà superiore. E se sarà così, questo significa
che l’ordinamento politico e sociale in cui viviamo perde la
sua legittimità. La filosofia politica di Taylor sembra costruita
per mostrare che è proprio così e per delineare la possibili-
tà di un’alternativa. Di quest’ultima si parlerà nel prossimo
capitolo; ora compiamo un altro passo nella comprensione
del carattere contraddittorio della modernità.
Una delle caratteristiche salienti della condizione attuale
è la disaffezione dei cittadini nei confronti delle istituzioni
e quindi il calo della partecipazione politica. In generale,
si può dire che il processo democratico fallisce; Taylor ha
individuato quelle che a suo avviso sono le ragioni principali.
La pratica Il primo motivo è il crescente senso di alienazione dei
del bene cittadini di «società grandi, centralizzate e burocratiche»8.
comune
Gianluca Cavallo La macchina della politica sembra funzionare senza tenere
in considerazione gli interessi del popolo, non solo perché
il governo centralizzato è troppo lontano, ma anche perché
esso sfugge al controllo democratico e diviene preda del po-
tere economico in mano a potenti lobby, le quali a maggior
ragione sono fuori dal potere dei cittadini.
Una seconda ragione del fallimento del processo demo-
cratico è la divisione interna alla comunità politica, la quale
a sua volta può avere diverse cause. Una di queste è la di-
sparità eccessiva in termini di ricchezza e potere tra diversi
strati della popolazione. Oggi la dicotomizzazione marxista
del mondo sociale (diviso in proletari e borghesi) sembra
piuttosto inadeguata, così come il concetto stesso di «classe»,
in quanto questa presuppone, secondo l’insegnamento di
Lukács, una coscienza comune che oggi non è presente. Mol-
to più genericamente, il conflitto può nascere nel momento
in cui «i cittadini meno avvantaggiati percepiscono che i loro
interessi sono sistematicamente impediti o negati»9.
46 Un’altra causa di divisione all’interno del tessuto sociale
può essere dovuta alla sensazione, da parte di un gruppo
culturale, di non ricevere l’adeguato riconoscimento. Gli
esempi storici vanno dal caso dei neri americani considerati
inferiori ai bianchi alla negazione della parità dei sessi; oggi si
possono citare i casi del Québec, all’interno del quale nume-
rosi cittadini richiedono l’indipendenza, e degli omosessuali
che richiedono il diritto al matrimonio.
Queste forme di esclusione possono condurre alla fram-
mentazione, in quanto il gruppo che percepisce l’ingiustizia
non è più disposto a considerarsi parte di una comunità po-
litica e l’appello a questo concetto suona alle loro orecchie
come un’offesa.
Tutti questi fattori contribuiscono a generare l’impoten-
za politica, in quanto le persone divengono «sempre me-
no capaci di formare un proposito comune e di portarlo a
termine»10. Il fallimento del processo democratico è parti-
colarmente importante in quanto va a inficiare ben tre su

8. Id., The Dangers of Soft Despotism, «The Responsive Community», III (1993), n. 4, p. 22.
9. Ivi, p. 24.
10. Ivi, p. 26.
Crisi di legittimità quattro dei fondamentali aspetti della libertà moderna. Le
e inadeguatezza disparità culturali o economiche impediscono di realizzare
del liberalismo
il primo requisito, quello della eguaglianza (intesa come
eguaglianza delle opportunità e di trattamento giuridico).
Ma questo significa anche che i diritti di specifici gruppi
sociali non vengono adeguatamente riconosciuti e tutelati,
mancando così il secondo requisito della libertà. Infine, è
immediatamente evidente come l’impotenza politica sia la
negazione della capacità da parte degli individui di influen-
zare la politica della società in cui vivono (che è il quarto
requisito della libertà).
Questo discorso ci porta alla conclusione che l’unica li-
bertà rimasta all’individuo è quella concernente il proprio
spazio privato, al massimo famigliare, il quale può essere ar-
ricchito dall’accesso ai beni di consumo. Ma questo è un evi-
dente impoverimento del concetto di libertà. Inoltre, anche
questa residua libertà privata è ormai sempre più frustrata
dalle condizioni di vita al tempo dell’odierna crisi.
Ancora una volta, si può dire che il risultato non sia cau-
sato unilateralmente dalla volontà di una classe dominante
potente e malvagia, in quanto gli stessi individui che si ritro- 47
vano con una libertà monca sono in parte gli artefici della
loro condizione, dato che la mancanza di controllo demo-
cratico sulla vita politica è in buona parte imputabile al loro
disinteresse verso lo spazio pubblico. Ma il fatto che essi siano
corresponsabili, non rende la situazione meno drammatica.
Se è vero, come ritiene Taylor, che le istituzioni moderne
hanno tratto la loro legittimità dal fatto che potevano ga-
rantire (o erano ritenute capaci di farlo) i quattro requisiti
essenziali alla libertà di un soggetto autonomo e se è vero
che oggi questi sono negati dalle strutture del nostro ordi-
namento, allora la società è in contraddizione con se stessa e
ha perso i fondamenti della sua legittimità11. Taylor, perciò,
seguendo una strada diversa da MacIntyre, è giunto anch’e-
gli alla conclusione che il liberalismo ha fallito dal punto di
vista politico. Vedremo subito che i nostri autori concordano
anche sul fatto che il liberalismo ha fallito anche dal punto
di vista filosofico.
Secondo Taylor esiste un legame strettissimo tra teoria e

11. Id., Legitimation Crisis cit., p. 288.


La pratica pratica sociale. Egli ritiene che lo «spirito oggettivo» (l’am-
del bene biente culturale e istituzionale di una data epoca, secondo la
comune
Gianluca Cavallo sua interpretazione di Hegel)12 non sia un’entità autonoma
che possa essere studiata con i metodi delle scienze naturali.
Esso è piuttosto il prodotto e insieme il presupposto dell’agi-
re degli individui e costituisce l’orizzonte di significati entro
i quali essi comprendono se stessi e le loro relazioni. Perciò
ogni pratica sociale implica l’uso di un determinato linguag-
gio che non ha significato all’esterno di essa. Viceversa, una
pratica sociale non può esistere se il linguaggio che la sostie-
ne viene a mancare13. In ogni cultura vi sarà perciò un certo
numero di «significati intersoggettivi»14, nel senso che il con-
testo in cui un individuo è inserito non può essere compreso
se non mediante la condivisione di significati riguardanti le
pratiche in cui essi sono coinvolti (Taylor nega con Wittgen-
stein l’esistenza di un linguaggio privato). Ma oltre a questi
esistono anche dei significati più forti, i quali sono indispen-
sabili per la coesione di una comunità, e che Taylor chiama
«significati comuni»15. Essi sono beni non soltanto condivisi
da ogni individuo, ma anche consapevolmente ritenuti tali e
48 perseguiti collettivamente. Essi sono ad esempio quei valori
culturali che definiscono l’identità di un gruppo e che ven-
gono attivamente difesi e perseguiti (l’esempio del canadese
Taylor, come spesso accade, rimanda alla realtà degli abitanti
francofoni del Québec)16. Possiamo ricomprendere entro la
categoria di significato comune anche quei quattro valori
fondanti della libertà moderna che abbiamo considerato già
più volte.
Adesso si capisce meglio cosa significhi per Taylor una
crisi di legittimità: essa consiste nella divergenza (sempre
crescente) tra la pratica sociale e i significati comuni che
inizialmente la sostenevano17. Questi significati comuni pos-

12. Cfr. Id., Hegel cit., pp. 380 ss.


13. Id., Interpretation and the sciences of man (1971), in Id., Philosophy and the Human Sciences
cit., pp. 15-57. Si vedano in particolare le pp. 33-34.
14. Ivi, p. 36.
15. Ivi, p. 39.
16. Si noti che un significato comune non implica necessariamente una concordia unani-
me tra coloro che lo perseguono; ad esempio la libertà costituisce un significato comune
per gli abitanti del Stati Uniti, eppure essi divergono fra loro su come questo debba essere
compreso ed applicato. Cfr. Charles Taylor, Interpretation and the sciences cit., p. 39.
17. Cfr. Ivi, pp. 43-52.
Crisi di legittimità sono essere meglio compresi se dalla credenza diffusa degli
e inadeguatezza appartenenti a una determinata cultura ci si sposta al livello
del liberalismo
filosofico (o di teoria sociale). La filosofia, infatti, esprime
ciò che costituisce lo sfondo spesso inespresso delle creden-
ze più diffuse. Ora, se sussiste una stretta interrelazione tra
significati comuni, pratiche sociali e teoria filosofica, questo
ci porta alla seguente conclusione: se determinate pratiche
sociali falliscono nella realizzazione di quei beni richiesti dai
significati comuni, ciò significa che la filosofia che sta alla
base dell’auto-comprensione dei partecipanti alle pratiche
e che, di conseguenza, informa di sé le pratiche stesse, è
mal formulata. Infatti è al livello di filosofia/teoria sociale
che si avanza la pretesa che determinate forme sociali siano
adeguate al perseguimento di determinati fini che vengono
valutati come buoni.
Una teoria sociale non può essere considerata vera verifi-
cando se corrisponde alla realtà, poiché essa stessa è costitu-
tiva di questa realtà. Il metodo di verifica per una filosofia so-
ciale può essere soltanto pratico18, secondo quanto già Marx
aveva espresso nella seconda delle sue Tesi su Feuerbach. La
qual cosa, peraltro, serve anche a comprendere il modello 49
offerto da MacIntyre di tradizioni rivaleggianti: la verità di
una tradizione (o anche di più di una) può essere solo una
questione pratica.
È chiaro, dunque, il motivo essenziale per cui, anche
nell’ottica di Taylor, si debba considerare fallita la filosofia
liberale. Ma per completare il quadro, cerchiamo di capire
perché essa fosse destinata a fallire.
La filosofia politica liberale si basa su un’ontologia ato-
mistica19, in base alla quale il soggetto è considerato un’en-
tità in sé compiuta, titolare di diritti indipendentemente da
qualsiasi appartenenza sociale. Di conseguenza, egli non ha
nessun particolare «obbligo di appartenenza» (obligation to
belong) nei confronti della società in cui vive. Quest’ultima,
piuttosto, è soltanto il frutto di un accordo tra individui liberi
e razionali che riconoscono l’utilità di unirsi per perseguire
con maggiore efficacia i propri interessi. Lo Stato, dunque,
è inteso strumentalmente, come ciò che difende la libertà di

18. Id., Social Theory as practice, in Id., Philosophy and the Human Sciences cit., p. 104.
19. Le considerazioni che seguono fanno riferimento a Id., Atomism (1979), in Id., Philoso-
phy and the Human Sciences cit., pp. 187-210.
La pratica ognuno dalle ingerenze degli altri. La società è intesa come
del bene il mezzo per sviluppare delle facoltà che l’individuo potrebbe
comune
Gianluca Cavallo anche sviluppare in piena autonomia, se lo «stato di natura»
bastasse a garantire la sicurezza della vita e della proprietà.
Taylor contesta questa concezione dei diritti individuali,
mettendo in evidenza come il motivo che noi abbiamo per
accordare un diritto a qualcuno è che lo riconosciamo dotato
di una facoltà che comanda il nostro rispetto. Così, noi non
attribuiamo il diritto a scegliere il proprio piano di vita a un
albero, perché riconosciamo soltanto all’uomo una specifica
capacità – la ragione – che richiede il nostro rispetto in quan-
to caratteristica della natura propria dell’uomo.
In generale, è il riconoscimento delle capacità (o, in ter-
mini aristotelici, delle potenzialità) specificamente umane
che definisce chi sono i titolari di certi diritti e qual è il conte-
nuto di questi stessi. Ciò significa che l’agente A ha un diritto
naturale (e non meramente legale) a X, se fare o godere di
X è una parte essenziale della manifestazione delle capacità
specificamente umane (CSU). Ad esempio, se si riconosce
come una delle CSU la razionalità, allora attribuiremo ad A il
50 diritto naturale alla vita e a uno sviluppo non impedito della
sua razionalità. Allo stesso modo, l’agente A ha un diritto na-
turale a X se X è causalmente necessario alla manifestazione
di una CSU. Ad esempio, il diritto a una qualche forma di
proprietà come condizione per lo sviluppo della libertà.
Tutto ciò ha importanti conseguenze. In primo luogo, il
fatto che noi riconosciamo che un diritto appartiene natural-
mente agli esseri umani, significa che esso comanda un ricono-
scimento incondizionato. In secondo luogo, questo ricono-
scimento deve implicare qualcosa che vada oltre il semplice
precetto negativo di non interferire con A nel godimento dei
suoi diritti, cioè richiede che vengano positivamente favorite
nel loro sviluppo quelle CSU che sono alla base dei diritti
stessi. Ora, le CSU possono essere sviluppate dall’uomo in
quanto tale, come vuole l’atomismo, o richiedono qualcosa
di più?
Per rispondere a questa domanda occorre notare che l’at-
tualizzazione delle CSU può essere impedita non soltanto da
fattori esterni (come l’interferenza da parte di altri agenti),
ma anche da fattori interni. Ad esempio la paura può impe-
dirci di esercitare il nostro diritto di scelta; l’ignoranza può
ostacolarci nello sviluppo della razionalità; la malattia può
Crisi di legittimità mettere a rischio la nostra vita; una disabilità può inficiare il
e inadeguatezza nostro diritto a partecipare liberamente alle pratiche della
del liberalismo
vita sociale20. Taylor nota come il mancato riconoscimento di
queste banali considerazioni è dovuto all’accettazione di una
«facile psicologia morale» propria dell’empirismo, secondo
la quale le capacità umane sono dati di fatto, piuttosto che
potenzialità da sviluppare21. Ma poiché questa psicologia è
falsa, è evidente che lo sviluppo delle CSU può avvenire sol-
tanto in un contesto sociale e culturale in cui, per riferirci
agli stessi esempi, possa essere coltivato il coraggio di fare
una scelta in comunione con altri individui che si trovino ad
affrontare un problema simile al nostro, o che ci incoraggino
con i loro consigli ed esempi di vita; in cui l’ignoranza possa
essere curata da un’adeguata educazione; la malattia da un
giusto trattamento medico; la disabilità dalla solidarietà di
chi ci è vicino.
Una comunità che offra queste possibilità non può esse-
re considerata semplicemente in termini strumentali. Essa
ci richiede proprio quell’obbligazione di appartenenza che
l’atomismo negava. Infatti l’esercizio dei diritti individuali è
possibile solo all’interno di una specifica cultura e società. Il 51
«punto cruciale» avanzato da Taylor è il seguente:
dal momento che un individuo libero può mantenere la
sua identità soltanto all’interno di una società/cultura di
un certo tipo, egli deve preoccuparsi della forma di questa
società/cultura come totalità. Egli non può […] preoccu-
parsi soltanto delle sue scelte individuali e delle associazioni
formate in base a queste scelte a dispetto della rete in cui
tali scelte possono essere aperte o chiuse, arricchite o im-
poverite. È importante per lui che certe attività e istituzioni
si sviluppino nella società. È ancora più importante per lui
quale sia il contegno morale (moral tone) dell’intera socie-
tà – per quanto toccare questo tema possa essere scioccante
per molti libertarians – poiché la libertà e la diversità umana
possono fiorire soltanto in una società dove vi sia un gene-
rale riconoscimento del loro valore.22

20. Richiamo qui gli esempi della malattia e della disabilità che non compaiono in Taylor,
ma valgono ad arricchire il suo argomento. Essi sono tratti da, e sono pienamente com-
prensibili solo sullo sfondo di, Alasdair MacIntyre, Animali razionali dipendenti cit.
21. Charles Taylor, Atomism cit., p. 197.
22. Ivi, p. 207.
La pratica Questa conclusione di Taylor implica che la buona società in
del bene cui l’individuo può sviluppare le proprie capacità deve essere
comune
Gianluca Cavallo una comunità in cui ciascuno si prende cura dell’altro. Gli
esempi che abbiamo fatto sopra dimostrano come lo sviluppo
di un individuo dipenda da specifiche relazioni, perciò ogni
individuo che riconosca agli altri i medesimi suoi diritti (e
questo è ciò che richiede la giustizia, anche secondo gli ato-
misti), dovrà al contempo prendersi cura dell’altro affinché
anch’egli possa sviluppare le CSU.
Con quanto detto in queste considerazioni sull’atomismo,
abbiamo visto come Taylor contesti l’ontologia sociale del li-
beralismo e, quindi, come consideri fondamentalmente erra-
ta la sua concezione del soggetto. Passiamo adesso alla critica
che egli muove nei confronti dell’idea liberale di libertà23.
Quest’ultima è definita in termini negativi, come assenza
di costrizione e di intralcio: per essere libero l’individuo deve
(1) poter scegliere liberamente ciò che ritiene sia bene per
lui, senza che una determinata condotta gli venga imposta da
un’autorità esterna; (2) poter perseguire il bene così scelto
senza ostacoli di tipo sociale o economico.
52 Tuttavia, come abbiamo visto nel caso dell’esercizio dei
diritti (che è espressione di libertà), gli ostacoli possono
provenire anche dall’interno dell’agente stesso. Quando
noi riflettiamo sulle circostanze di un’azione siamo infatti
propensi a ritenere libero un individuo che agisce in base
ad un’autentica autonomia di ragionamento, ma questa ri-
chiede «autocoscienza, autocomprensione, discriminazione
morale e autocontrollo»24. Solo in questo modo la libertà può
essere intesa correttamente, nei termini di direzione autono-
ma dell’azione. Queste condizioni possono venir meno, ad
esempio, se il soggetto fallisce nel discriminare i fini che egli
ricerca, o se perde l’autocontrollo, se si auto-inganna, se ha
paura o se è fuorviato da una falsa coscienza. Naturalmente
tutto questo può avere le sue cause sociali, ma il punto im-
portante è che la libertà non può essere definita meramente
nei termini della capacità di agire in base alla volontà che di
volta in volta guida il soggetto, il quale dovrà invece essere

23. Le considerazioni che seguono fanno riferimento a Id., What’s wrong with negative liber-
ty? (1979), in Id., Philosophy and the Human Sciences cit., pp. 211-229.
24. Ivi, p. 215.
Crisi di legittimità capace di comprendere se questa volontà è autenticamente
e inadeguatezza sua, o se invece è stata in qualche modo condizionata.
del liberalismo
Abbiamo visto sopra, seguendo MacIntyre, che la pratica
politico-sociale liberale è informata da un relativismo che
cancella la distinzione tra rapporti manipolativi e non-ma-
nipolativi, aprendo l’arena pubblica all’azione di moderni
sofisti. Se applichiamo questa considerazione al discorso di
Taylor, dovremo concludere che la pratica politica liberale
non può essere espressione di vera libertà. Infatti la politica
sofistica tende a manipolare l’opinione, a condizionare l’e-
sito della maggioranza senza rispetto per la libera razionalità
di ogni agente. Si può obiettare che questa è una condizione
ineliminabile della vita politica, in quanto una completa tra-
sparenza nei rapporti pubblici e una perfetta razionalità nella
deliberazione sono ingenue chimere. Questo è certamente
in parte vero, tuttavia è necessario dotarsi degli strumenti
filosofici per distinguere un rapporto manipolativo da uno
non-manipolativo, in modo da tendere (se non la si può rag-
giungere) alla deliberazione il più possibile razionale. Ma la
filosofia liberale, con la sua concezione negativa della libertà,
non ci fornisce questi strumenti. 53
Una seconda importante critica che Taylor muove alla li-
bertà negativa comporta un’ulteriore riflessione sui moventi
dell’azione umana. I liberali sostengono infatti che l’uomo
abbia il diritto di agire in base al proprio desiderio, purché
questo sia compatibile con la giustizia. Ma un essere razio-
nale maturo non ha soltanto desideri, ma ha anche desideri
di «secondo ordine», cioè «desideri riguardo ai desideri»25.
Con ciò Taylor intende che noi generalmente discriminiamo
qualitativamente tra diversi desideri, giudicandoli «più alti o
più bassi, nobili o rozzi, integrati o frammentati, significativi
o triviali, buoni o cattivi»26. L’esercizio della razionalità ri-
chiede di mantenere una certa distanza da essi, in modo da
poterli valutare indipendentemente dalla loro forza attratti-
va. Questo suona molto platonico-aristotelico, ma anche un
liberale riconoscerà che un uomo che non sappia dare una
gerarchia ai propri desideri non può condurre una vita ordi-

25. Ivi, p. 220.


26. Ibidem.
La pratica nata, in quanto non riuscirà a raggiungere nessun obiettivo
del bene prima di averne trovato un altro al momento più attrattivo.
comune
Gianluca Cavallo Dovremo perciò ammettere che la libertà non può essere
disgiunta dalla possibilità di comprendere qual è il nostro
vero bene. Se un liberale accetta tutto questo, tuttavia, po-
trà sempre reclamare che è pur sempre l’individuo a essere
l’ultimo arbitro su cosa questo vero bene sia. Ma Taylor nega
la validità di questa posizione di salvataggio. Perché – egli
sostiene – siamo costretti ad ammettere la possibilità che
l’individuo si sbagli in questa valutazione. Negare questo si-
gnificherebbe assumere che ogni individuo è perfettamente
razionale in isolamento, cosa che abbiamo dimostrato falsa
nel nostro discorso contro l’atomismo.
La libertà, allora, come l’esercizio dei diritti (le due cose,
in realtà, sono state distinte solo per comodità espositiva),
non può essere un affare individuale, ma può essere realizza-
ta soltanto all’interno di un tessuto comunitario che incarni
una concezione del bene.
Questo ci porta, infine, a una considerazione circa l’im-
possibilità, già rilevata per altra via da MacIntyre, di identi-
54 ficare dei criteri per la giustizia distributiva in base ad una
concezione atomistica. Infatti i liberali basano le loro teorie
della giustizia distributiva sulla base della priorità dei diritti
individuali rispetto alla società. Ma se quest’ultima è stata
dimostrata da Taylor fallimentare (in quanto i diritti han-
no un significato solo all’interno della società), allora ogni
concezione che su questa si basi sarà insostenibile27. Siamo
così giunti, ancora una volta, a considerare la filosofia liberale
sostanzialmente insostenibile.

27. Cfr. Id., La natura e la portata della giustizia distributiva (1985), in Alessandro Ferrara
(a cura di), Comunitarismo e liberalismo cit., pp. 77-114. Qui Taylor discute le teorie liberali
della giustizia distributiva facendosi difensore di una visione aristotelica del bene umano,
posta a fondamento della giustizia.
La pratica 4. Libertà e democrazia in prospettiva repubblicana
del bene
comune
Gianluca Cavallo

Ad un governo monarchico o ad uno


dispotico non occorre molta probi-
tà per mantenersi o sostenersi. La
forza delle leggi nell’uno, il braccio
del principe ognora levato nell’altro,
regolano o reggono ogni cosa. Ma
in uno Stato popolare occorre una
molla in più, la quale non è altri che
la virtù.
Montesquieu, Lo spirito delle leggi

Il punto di partenza per delineare una teoria sociale alterna- 55


tiva al liberalismo non può che cominciare, per Taylor, dalla
ridefinizione delle condizioni alle quali una società possa
essere detta libera, cioè realmente rispondente alle esigenze
di autenticità del soggetto moderno. Come si è detto nell’In-
troduzione, Taylor si richiama alla tradizione dell’«umanesimo
civico» di Machiavelli, Mill, Rousseau, Mostesquieu, Tocque-
ville e altri, il cui pensiero egli vede focalizzato proprio su una
definizione di libertà alternativa a quella negativa proposta
dal «liberalismo della neutralità» (quale esemplificato, ai
nostri giorni, da Isaiah Berlin). Essi partono dal presuppo-
sto che ogni società richiede degli sforzi da parte dei suoi
appartenenti, che consistono nel contribuire alla fiscalità,
alla difesa, ecc. In generale, ogni individuo deve sacrificare
parte della sua libertà strettamente individuale, perciò dei
suoi interessi, in nome non soltanto della libertà altrui, ma
soprattutto di quell’organismo il cui respiro essi condivido-
no: lo Stato. Ora, se questi sacrifici venissero imposti con la
forza, chiaramente non vi sarebbe alcuna libertà per i citta-
dini (la libertà negativa infatti non è rifiutata, ma integrata
da una versione positiva). Occorre allora che essi compiano
questi gesti in maniera spontanea, ma perché ciò possa avve-
La pratica nire è necessario che essi considerino lo Stato una res publica,
del bene un autentico bene comune, cioè che si identifichino con le
comune
Gianluca Cavallo istituzioni e le leggi che regolano la vita pubblica. Questo, a
sua volta, presuppone che tali istituzioni e leggi non siano
percepite come un che di imposto, di alieno, di limitante, ma
come la forma perfetta di espressione della loro libertà. In
altre parole, la Repubblica richiede un forte senso di identità
e una qualche forma di autogoverno1.
Il senso di identità richiama l’idea di «significato comu-
ne», di cui abbiamo parlato nel capitolo precedente, e impli-
ca il fatto che lo spazio pubblico deve essere considerato un
progetto collettivo consapevolmente perseguito, valorizzato
e difeso. Questo tipo di azione comune è quella definita da
Montesquieu «vertu», un «impulso» che «trascende l’egoismo
nel senso che le persone sono effettivamente legate al bene
comune, alla libertà generale» (queste parole sono di Taylor,
non di Montesquieu)2. Un altro nome per questa virtù è
patriottismo3.
In una prospettiva liberale, non esistono autentici «beni
comuni», ma soltanto «beni convergenti». Questi ultimi so-
56 no quei beni assicurati dallo Stato, dei quali ciascuno gode
individualmente; nessun cittadino potrebbe permetterseli
da solo, ma questa è l’unica ragione per cui essi sono pub-
blici (un esempio è la difesa). Una concezione similmente
strumentale naturalmente lascia ampio spazio a free-rider, alla
noncuranza del bene pubblico, eventualmente anche alla
mancata copertura di alcuni strati sociali, se questi riescono
a essere mantenuti ugualmente sotto controllo. Al contrario,
i beni comuni sono tali da non poter essere goduti individual-
mente, in quanto parte del loro valore consiste proprio nella
condivisione. Nella prospettiva di Taylor, la Repubblica è un
esempio di questo tipo di beni4. La necessità di un’identifica-
zione patriottica ci collega immediatamente a un altro tema,
quello del pari riconoscimento per tutti i cittadini e le cultu-
re all’interno di uno spazio sociale (il tema è molto caro al

1. Cfr. Charles Taylor, Il dibattito fra sordi di liberali e comunitaristi (1989), in Alessandro
Ferrara (a cura di), Comunitarismo e liberalismo cit., p. 145.
2. Ivi, p. 146.
3. Ibidem. Cfr. Id., Why Democracy Needs Patriotism (1994), in Joshua Cohen (ed.), For Love
of Country. Debating the Limits of Patriotism, Beacon Press, Boston 1996, pp. 119-121.
4. Charles Taylor, Il dibattito fra sordi cit., pp. 147-151.
Libertà e filosofo in quanto legato a questioni dibattute nel suo nativo
democrazia Québec), perché se questo viene a mancare, si creano quelle
in prospettiva
repubblicana fratture sociali che impediscono ai cittadini di considerare la
Repubblica come un progetto collettivo.
L’ideale dell’autenticità, che caratterizza il soggetto mo-
derno, vale anche per i popoli: la radice filosofica è la stessa,
ed è individuabile in Herder. Qui è la genesi del moderno na-
zionalismo, «sia nella forma benigna sia in quella maligna»5.
Quest’ultima è, naturalmente, quella esclusivista, aggressiva,
fascista; la prima è invece quella che informa di sé le Rivolu-
zioni francese e americana e che è espressa da Herder stesso,
il cui nazionalismo «universalista» sostiene che tutti i Völker
(popoli) sono degni dello stesso rispetto6.
Il problema della politica del riconoscimento sta nella dif-
ficoltà della conciliazione di due sue divergenti pretese: da
un lato, il riconoscimento della pari dignità a tutti gli individui
e le culture, ciò che implica il diritto di ciascuno alla libertà;
dall’altro, il riconoscimento della peculiarità e quindi della
differenza fra ogni individuo/cultura7. Questi principi sono
destinati a dare origine a politiche conflittuali: quella basata
sul primo osteggerà l’altra accusandola di essere discrimina- 57
toria; la seconda accuserà invece la prima affermando che
essa nega l’identità a favore di un’omologazione imposta in
nome di una presunta neutralità che in realtà rispecchia la
cultura egemone8. Taylor opta in favore della seconda piut-
tosto che della prima, anche se naturalmente nessuna delle
due può essere del tutto sostituita dall’altra, se non si vuole
degenerare in un nazionalismo del tutto inospitale. Il model-
lo tayloriano vuol essere invece ospitale, in grado di ricono-
scere e valorizzare le differenze di un mondo multiculturale.
Per fare questo è necessario innanzitutto riconoscere quelle
libertà fondamentali riconosciute anche dai liberali, ma poi
andare oltre all’astrattezza procedurale, includendo nella vi-

5. Jürgen Habermas, Charles Taylor, Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento (1992),


Feltrinelli, Milano 20082, p. 16.
6. Charles Taylor, Democrazia ed esclusione (1999), in Charles Taylor, La democrazia e i suoi
dilemmi, Diabasis, Parma 2014, p. 78.
7. Cfr. Jürgen Habermas, Charles Taylor, Multiculturalismo cit., pp. 24 ss.
8. Ivi, p. 29.
La pratica ta politica una concezione del bene comune da difendere (in
del bene tal caso si tratta appunto delle identità culturali)9.
comune
Gianluca Cavallo Quanto poco neutrali siano le procedure è evidente se
si pensa al caso francese: proibire alle donne islamiche di
indossare il velo in nome della laicità dello Stato significa
negare il riconoscimento a una specifica cultura in nome del
prevalere di un’altra. Le istituzioni repubblicane dovrebbe-
ro essere invece il luogo in cui tanto i musulmani, quanto i
cristiani, gli atei, eccetera, possano sentirsi tutelati nella loro
specificità, nel rispetto di quella altrui. Oggi «non possiamo
più avere una religione civile – né basata su Dio, né sulla
laïcité e i diritti dell’uomo, né, invero, su una qualsiasi visione
particolare»10.
Una grande sfida oggi, secondo Taylor, è mantenere in-
tatto un senso di patriottismo democratico che possa valere
per diverse culture. Una condizione essenziale perché questo
possa avvenire – ciò che costituisce un’altra grande sfida – è
mantenere intatto un senso di solidarietà tra i popoli che
si trovano a convivere. Naturalmente l’aspetto culturale è
soltanto uno dei modi in cui il riconoscimento va inteso: la
58 solidarietà deve essere estesa anche all’aspetto politico ed
economico. Riconoscere la libertà a una persona/gruppo/
popolo di esprimere liberamente la propria cultura mera-
mente in termini di apparenza esteriore (ad esempio, con-
cedendo alle donne islamiche di indossare il velo) significa
mancare di riconoscere la profondità di ciò che una cultura
implica e che, per trovare espressione adeguata, necessita di
tutti i mezzi della democrazia: primi fra tutti la possibilità di
partecipare alla politica repubblicana e di ricevere un ade-
guato trattamento in termini economici11. Anzi, è soltanto
quando queste ultime condizioni sono soddisfatte che l’iden-
tificazione patriottica di diversi gruppi sociali può emergere:
come è stato detto nel capitolo precedente, la frammentazio-
ne sociale rende sospetta l’idea di comunità politica.

9. Cfr. ivi, pp. 46-47.


10. Id., Solidarity in a Pluralist Age, «The Project Syndicate», 27 settembre 2010, http://
www.project-syndicate.org/commentary/solidarity-in-a-pluralist-age (url visitato in data 8
agosto 2013). Sull’islamofobia si rimanda anche a Id., Block Thinking, «The Project Syndi-
cate», 10 settembre 2007, http://www.project-syndicate.org/commentary/block-thinking
(url visitato in data 8 agosto 2013).
11. Cfr. Id., Democrazia e solidarietà (2000), in Charles Taylor, La democrazia e i suoi dilemmi
cit., pp. 35-50.
Libertà e La politica del multiculturalismo può quindi trovare sen-
democrazia sata applicazione soltanto grazie alla «libertà repubblicana»,
in prospettiva
repubblicana la quale non può essere imposta senza riguardo alle identità
culturali, come dimostra l’esempio storico della Rivoluzione
francese: quando i suoi principi tentarono di essere esportati
dall’armata rivoluzionaria, «la sensazione di non essere parte
di – o rappresentati da – quel popolo sovrano in nome del
quale si stava facendo e difendendo la Rivoluzione» provocò
la reazione di paesi come Germania e Italia. Divenne chiaro
che «per possedere l’unità richiesta dall’azione collettiva, un
popolo sovrano, per avere l’unità necessaria a un’azione col-
lettiva, avrebbe dovuto avere un’antecedente unità, o cultura,
storia, o (più comunemente in Europa) lingua»12.
È dunque necessaria una base identitaria per il patriot-
tismo repubblicano, anche se quest’ultimo nega la fedeltà
assoluta richiesta dalla versione degenerata del nazionalismo,
condizionandola piuttosto alla sussistenza di un autogover-
no dei cittadini13. Naturalmente il mondo multiculturale e
globalizzato impone l’arduo tentativo di ridefinire costante-
mente questa identità, rendendola flessibile, aperta, ospitale,
adatta, cioè, ai comandi della solidarietà. Del resto, voler fos- 59
silizzare i caratteri di un’identità significa, per Taylor, negare
la storia. Infatti quest’ultima è fatta di mutamenti politici e
culturali che avvengono anche in seguito alle migrazioni14.
I rischi onnipresenti di un’esclusione dalla vita democrati-
ca, che può avvenire in molti e diversi modi, rendono questo
compito impossibile da risolvere definitivamente. Ma – so-
stiene Taylor – «non esiste alternativa» alla «condivisione
dello spazio identitario»:
con ciò bisogna intendere la negoziazione di un’identità
politica accettabile da tutti, che sia magari persino il frutto
di un compromesso tra le differenti identità personali o di
gruppo che vogliono/devono convivere nell’ordinamento
politico. Ovviamente alcune cose dovranno restare non ne-
goziabili, penso ai principi fondamentali delle costituzioni
repubblicane: la democrazia stessa e i diritti umani, tra gli
altri. A questa fermezza si deve affiancare, però, il ricono-

12. Id., Democrazia ed esclusione cit., p. 56 (tr. modificata)


13. Cfr. Id., Nationalism and Modernity (1997), in Id., Dilemmas and Connections. Selected Es-
says, The Belknap Press of Harvard University Press, Cam­bridge (Mass.) 2011, pp. 81-104.
14. Cfr. Id., Democrazia ed esclusione cit., p. 79.
La pratica scimento che tali principi possono essere realizzati in modi
del bene molto diversi e non potranno mai essere applicati neutral-
comune
Gianluca Cavallo
mente […].15

Il riconoscimento dell’altro può avvenire soltanto se vi è uno


sforzo, da parte di entrambi, di comprensione reciproca. Es-
so non implica che si debba rinunciare alla propria identità
per «mettersi nei panni» dell’altro, in modo da comprendere
la sua cultura, il suo stile di vita, il suo modo di ragionare e
di rapportarsi al mondo. Questo, infatti, sarebbe impossibile.
Ciascuno di noi è formato da una cultura dalla quale non può
mai staccarsi completamente e si rapporta all’altro sempre
a partire da una pre-comprensione che «dà forma ai nostri
giudizi senza che ce ne accorgiamo»16. Questo non significa
che l’altro sia destinato a restarci per sempre estraneo o che i
nostri pregiudizi etnocentrici siano destinati inevitabilmente
a fargli violenza. Innanzitutto, nel tentativo di comprendere
il diverso, si è costretti ad articolare, per contrasto, alcuni
aspetti della propria cultura che erano prima dati per scon-
tati, lasciati inespressi. Ciò può portarci a ritenere inadeguati
alcuni di questi, o quanto meno può far emergere la consa-
60
pevolezza che essi non rappresentano l’unico, né necessa-
riamente il migliore, modo di intendere o fare le cose. Così,
«la comprensione dell’altro cambia la comprensione di noi
stessi» (other-understanding changes self-understanding)17.
Secondo Taylor, che nell’articolare questo discorso rico-
nosce il suo debito nei confronti di Gadamer, noi possiamo
«liberare» e «lasciar essere» gli altri solo articolando un con-
trasto tra la loro e la nostra comprensione di aspetti della vita
e del mondo. Si procede perciò per comparazione, anche
implicita. Naturalmente questo non è semplice, in quanto
proprio quell’aspetto della vita o del mondo che noi ritenia-
mo essere il significato di diversi comportamenti è in realtà
modellato diversamente dai comportamenti stessi. Ma rico-
noscere questo limite può permetterci di continuare il nostro
sforzo di comprensione, consapevoli del fatto che esso non
può mai essere condotto a termine, in quanto non vi è mai

15. Ivi, pp. 85-86.


16. Id., Comparison, History, Truth (1990), in Id., Philosophical Arguments, Harvard University
Press, Cam­bridge (Mass.) 1995, p. 149.
17. Ibidem.
Libertà e la certezza di non aver distorto ciò che non ci appartiene. Lo
democrazia scopo è giungere a quella «fusione di orizzonti» di cui parla
in prospettiva
repubblicana Gadamer, la quale, tuttavia, non implica mai la negazione
del proprio orizzonte, per quanto possa comportarne una
notevole modificazione.
Gli orizzonti di A e B possono quindi essere distinti all’i-
stante t e la loro mutua comprensione imperfetta. Ma A
e B vivendo insieme possono arrivare a un unico orizzonte
a t+n.18

Solo mediante il costante sforzo di giungere a questo risul-


tato la democrazia può superare i motivi di esclusione ed
essere finalmente inclusivista. Occorre ora comprendere, più
concretamente, a quale modello di democrazia repubblicana
Taylor fa riferimento.
Un importante aspetto della vita politica della modernità
è quella che è stata chiamata «società civile», entro la quale il
cittadino ha spazio per la sua libertà. All’origine del pensiero
politico moderno, con i contrattualisti, troviamo una defini-
zione di società civile che la caratterizza come una sfera pre-
o non-politica. Essa è il luogo degli interessi individuali e la 61
scienza che ne descrive le dinamiche è l’economia politica19.
Inoltre essa è il luogo in cui si forma l’opinione pubblica,
che assume un ruolo anche politico, in quanto legittima o
condanna il potere, ma che rimane pur sempre in uno spa-
zio autonomo, non prendendo parte all’attività di governo.
Quest’ultimo è perciò semplicemente inteso come il mezzo
per gli interessi della società civile, e può essere fatto cadere
se esso fallisce nel servire ai suoi scopi.
A quest’idea, che appartiene a quel liberalismo criticato
da Taylor, è opposta quella di pensatori come Montesquieu,
Hegel, Tocqueville. Hegel ha compreso che la civil society20,
governata unicamente dalla «mano invisibile» del mercato, è
destinata a generare disordine e ingiustizia, rompendo così
l’unità dello Stato. Per questo Hegel ritiene necessario che
la società civile si organizzi in gruppi (le corporazioni) che

18. Id., Understanding the Other: A Gadamerian View on Conceptual Schemes (2002), in Id.,
Dilemmas and Connections cit., p. 33.
19. Cfr. Id., Invoking Civil Society, in Id., Philosophical Arguments cit., pp. 204-224.
20. Uso il termine inglese per non fare confusione con il concetto hegeliano di «società
civile». La civil society corrisponde piuttosto a quello che Hegel ha chiamato «sistema dei
bisogni», cercando di integrarlo nella sfera dell’eticità.
La pratica fungano da intermediari con lo Stato, unendo gli interessi
del bene privati all’interesse generale21.
comune
Gianluca Cavallo Ma il modello cui Taylor preferisce ispirarsi è quello di
Tocqueville, erede di Montesquieu. Secondo Tocqueville, la
civil society, essendo attenta solo all’interesse privato, rischia
di lasciar degenerare la democrazia in un despotisme doux, che
si realizza quando, mancando qualsiasi forma di autogover-
no, i cittadini vengono governati da un potere «immenso e
tutelare»22 in cui falliscono tutti gli scopi della democrazia
stessa. Onde evitare questo risultato, la partecipazione poli-
tica è indispensabile e deve essere organizzata in forme pra-
ticabili. Tocqueville ritiene indispensabili allo scopo le asso-
ciazioni volontarie dei cittadini, dove l’autogoverno diviene
pratica quotidiana, anche per scopi non immediatamente
politici. Esse non possono essere di grandi dimensioni, ma
devono moltiplicarsi su tutto il territorio e a diversi livelli del
corpo politico. Quest’ultimo, poi, deve essere decentralizza-
to, in quanto l’autogoverno non può essere praticato a livel-
lo nazionale, ma soltanto sulla scala più ridotta del locale23.
Queste associazioni devono anche essere il luogo in cui si
62 forma l’opinione pubblica, la quale deve assumere però un
significato politico attivo e non soltanto un ruolo di controllo
nei confronti del governo.
Ogni componente – singolo o gruppo – della sfera pub-
blica è legato agli altri dall’esistenza dei media: giornali,
radio, internet, eccetera, sono il luogo principale di emer-
sione dell’opinione pubblica, e costituiscono uno «spazio
metatopico»24 di elaborazione e scambio di idee in cui due
persone che non si sono mai viste possono giungere alla stes-
sa visione sulle cose. Si tratta di una visione semplificata, ma
comunque valida; la discussione razionale che permette di
arrivare a un esito condiviso è un ideale verso il quale ten-
dere cercando di arginare i rischi dovuti al suo controllo e
manipolazione da parte del potere politico o economico, o
da qualche combinazione dei due, nonché alla natura stessa
dei media, che non permettono mai una totale trasparenza,

21. Cfr. Charles Taylor, Invoking civil society cit., p. 222.


22. Alexis de Tocqueville, La democrazia in America (1835-40), Rizzoli, Milano 1999, p. 733.
23. Charles Taylor, Invoking civil society cit., pp. 221-223.
24. Cioè, non legato ad alcun luogo fisico particolare. Il termine è utilizzato ivi, ad esem-
pio a p. 271.
Libertà e e agli agenti ingaggiati nella discussione, la cui imperfetta
democrazia razionalità può lasciar spazio a falsità e pregiudizi25. Natu-
in prospettiva
repubblicana ralmente tutto ciò presuppone che i cittadini maturino un
interesse nei confronti della comunità di cui sono parte. Solo
se essi considerano l’autogoverno come un bene comune da
realizzare collettivamente, e quindi se stessi come agenti di
questo collettivo, allora sono in grado di vederne gli ostacoli
e di lottare per superarli.
Chiaramente, affinché vi sia quest’identificazione comu-
ne, è necessario che i cittadini si sentano uniti, ma ciò è im-
possibile finché persistono ampie differenze di reddito. Le
più stridenti diseguaglianze causate dal sistema capitalistico
alle sue origini sono state in parte sanate da decenni di lotte
partitiche e sindacali, ma il neoliberalismo emerso negli ul-
timi decenni (per combattere il quale, a mio avviso, il libera-
lismo classico non ha alcuno strumento) è stato alla base di
pratiche che hanno polverizzato la coesione sociale, acuito
il disagio e nel contempo privato i regimi democratici del
loro potere di controllo sulle dinamiche della speculazione
finanziaria, che è giunta a mettere sotto ricatto interi Stati.
Il modello repubblicano di Taylor potrebbe essere sostenuto 63
soltanto da un’economia di mercato fortemente controllata
dalla politica. Il filosofo canadese nega che sia auspicabile
una totale pianificazione, in stile sovietico, e propone un
modello ideale di economia mista ancora mai sperimenta-
to nella storia, in cui «una massa di imprenditori privati di
piccole dimensioni coesisterebbe a fianco di gradi imprese
pubbliche» gestite democraticamente dai lavoratori; il tutto
«coordinato da un mercato che sarebbe gestito secondo una
logica di pianificazione», elaborata da uno Stato decentraliz-
zato26. Senza decentralizzazione del potere, infatti, non può
esistere un reale autogoverno dei cittadini, ma questo richie-
de anche una decentralizzazione della sfera pubblica. «Il mo-
dello che qui sembra funzionare – scrive Taylor – è uno in cui
sfere pubbliche più piccole sono inglobate (nested) in quelle
più grandi, in modo che ciò che succede in quelle più piccole

25. Cfr. Id., Liberal Politics and the Public Sphere, in Id., Philosophical Arguments cit., p. 260 e
p. 273.
26. Id., Democrazia e comunità (1988), in Charles Taylor, La democrazia e i suoi dilemmi cit.,
p. 32.
La pratica condizioni l’agenda della sfera nazionale»27. In questo modo
del bene ciascuno avrebbe la possibilità di far valere le proprie istanze
comune
Gianluca Cavallo e di prendere parte, seppure in modo indiretto, alla delibe-
razione razionale volta al bene comune, così come definito
dalla maggioranza in seguito alla discussione.
Spostando lo sguardo dalla teoria di ascendenza tocque-
villiana alla realtà contemporanea, Taylor vede con favore
l’emergere in essa di movimenti di rivendicazione (advocacy
movements), come quelli femministi o ecologisti, che influen-
zano la vita politica. Essi dovrebbero essere l’espressione viva
di tutta la società civile e funzionare in simbiosi con il siste-
ma partitico, di modo che «persone e idee possano passare
dai movimenti sociali ai partiti e viceversa»28. Il problema
dei movimenti sociali è che essi tendono a non includere le
loro rivendicazioni in una visione politica più ampia, bensì
a concentrarsi su singole questioni e soltanto per il periodo
necessario a risolverle (a volte, nemmeno questo), diffidando
della politica dei partiti, che essi vedono come meccanismi
decrepiti e non realmente rappresentativi.
Questo mutamento nel modo di intendere l’efficacia de-
64 mocratica è dovuto anche al tramonto delle precedenti ide-
ologie con cui interi gruppi sociali potevano identificarsi: ad
esempio la classe operaia, che era un gruppo sociale (anche
se con caratteristiche diverse da quelle ad essa attribuite dal
marxismo), poteva identificarsi con l’ideologia della rivolu-
zione proletaria. Oggi ogni cittadino si allea piuttosto con
coloro che di volta in volta condividono una specifica lotta.
Inoltre, l’opulenta società dei consumi ci ha abituato a in-
tendere l’ideale dell’autenticità in una maniera impoverita,
portando gli individui a identificarsi soltanto con se stessi o
con gruppi formati in base a identici gusti di consumo, met-
tendo in secondo piano l’importanza della partecipazione
politica e, come dicevamo nel capitolo precedente, anche
nell’epoca dell’odierna crisi questa distorsione non ha perso
del tutto la sua forza.
Tutto ciò ci impone di riconsiderare la politica, ma una
strada da percorrere per raggiungere gli obiettivi proposti
da Taylor non è ancora visibile, né egli pretende di indicar-

27. Id., Liberal politics cit., p. 279.


28. Ivi, p. 286.
Libertà e la. Possiamo forse sperare che gli esiti disastrosi della crisi
democrazia sociale imposta da un capitalismo per nulla in crisi risveglino
in prospettiva
repubblicana nei cittadini la consapevolezza che senza autogoverno non
vi è reale democrazia e che soltanto questa può mettere in
questione le cieche dinamiche del capitalismo e del potere
politico che si confonde con esso. Alcune nuove forme di
solidarietà prendono vita in questo frangente storico disa-
stroso. Ad esempio reti di acquisto solidale a filiera corta,
organizzazioni interne a stabili occupati da famiglie sfrattate,
fino ad arrivare al famoso caso del supermercato modene-
se organizzato collettivamente, nel quale anziché pagare i
prodotti acquistati si rende servizio, a turno, all’interno del
supermercato stesso29. Ma vi sono anche nuove forme di or-
ganizzazione politica: i movimenti occupy, le mobilitazioni a
difesa dei beni comuni, ecc. C’è da sperare che tutte queste
esperienze, accomunate da una simile sensibilità, sappiano
coagularsi in un più vasto progetto politico. Il dissenso verso
un sistema che ha perso la sua legittimità si fa ormai sentire
con una certa frequenza, anche al livello della produzione
intellettuale, determinando nel complesso un clima politico
che di recente Alain Badiou ha definito di «rivolta latente», 65
e che potrebbe sortire «un esito imprevedibile rispetto alle
nostre mortifere “democrazie”»30.
È giunto ora il momento di domandarsi in che relazione
stia il repubblicanesimo tayloriano con il liberalismo della
neutralità. Abbiamo visto che Taylor, come gli altri comuni-
taristi, critica quest’ultimo in quanto non dà conto di alcun
bene comune, ma soltanto di beni individuali o «convergen-
ti», ossia dati dalla somma delle preferenze. Taylor ammette
che, su questioni sostanziali, gruppi diversi hanno «visioni
divergenti del bene comune»31. Tuttavia il modello di sfera
pubblica da lui prospettato vorrebbe far fronte a questo pro-
blema, permettendo una reale partecipazione di tutti i citta-
dini all’autogoverno, in modo tale che la decisione politica

29. Marta Castigliani, Nasce il supermercato per i disoccupati: lavoro in cambio della spesa gratis,
«Il Fatto Quotidiano», 25 marzo 2013, http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/03/25/na-
sce-supermercato-per-disoccupati-lavoro-in-cambio-della-spesa-gratis/541802/ (url visitato
in data 15 settembre 2013).
30. Alain Badiou, Il risveglio della storia. Filosofia delle nuove rivolte mondiali (2011), Adriano
Salani, Milano 2012, p. 38.
31. Charles Taylor, Democrazia e comunità cit., p. 13.
La pratica possa sempre essere il più possibile condivisa. Inoltre, poiché
del bene condizione per l’autogoverno è il sentimento patriottico (la
comune
Gianluca Cavallo vertu di Montesquieu) e questo può essere diffuso nel cor-
po sociale solo se questo è fortemente coeso, la democrazia
prevede, nell’ottica del nostro filosofo, una serie di requisiti
di eguaglianza e solidarietà. Solo in questo modo possono
essere difesi i due beni autenticamente comuni, su cui non
ci dovrebbe essere alcuna divergenza, in quanto propri di
ciascuno: (1) la cultura della comunità stessa, che deve es-
sere vitalizzata dall’intervento consapevole dei soggetti che
la riconoscono come bene e (2) le istituzioni repubblicane,
sede della libertà dei cittadini e dell’autogoverno.
Eguaglianza e solidarietà si fondano sul riconoscimento
reciproco dei diritti, il quale, come abbiamo visto alla fine
del capitolo precedente, richiede che ciascuno si prenda cura
attivamente dell’altro, in modo che questo possa sviluppare
in pienezza le proprie capacità specificamente umane (CSU).
Ma ciò non può essere garantito da un codice di leggi che
cerchi di istillare negli animi un senso di mutua appartenen-
za alla comunità, in modo che ciascuno si comporti, almeno
66 esteriorimente, secondo quanto l’etica prescrive. È necessa-
ria una motivazione interiore, dettata dal riconoscimento di
uno specifico «bene costitutivo»32.
Taylor ritiene che «soltanto nella misura in cui ci apriamo
a Dio» (SA, 881) siamo in grado di comprendere davvero il
valore dell’altra persona. L’agape, che è non soltanto l’amore
di Dio per noi, ma anche l’amore che Cristo comanda agli
uomini, «non può essere ridotta a una regola generale»; essa
«antepone a tutto la risposta viscerale a questa determinata
persona» (SA, 930); «non è soltanto un servizio che un essere
umano rende a un altro essere umano. Ha successo solo dove
vi è qualcos’altro e qualcosa di più, dove nasce un vincolo
d’amore: un legame in cui ciascuno è un dono per l’altro, in
cui ciascuno dona e riceve» (SA, 881).
Taylor ritiene che l’agape cristiana, o la karuna buddhista,
o l’equivalente in altre religioni, sia ciò che può motivare
un’azione disinteressata per il bene. Che cosa implichi questa
motivazione non lo si può comprendere fintanto che lo si è
sperimentato: non vi può essere una descrizione o una spie-

32. Cfr. supra, cap. 1


Libertà e gazione razionale, e di conseguenza non può essere in alcun
democrazia modo dimostrato che le cose stanno così. Tutto ciò che si può
in prospettiva
repubblicana fare è additare dei modelli, come Madre Teresa di Calcutta
o San Francesco di Sales. Soltanto la fede può dare ragione
di un simile sentimento, il quale costituisce per il credente
la prova del suo legame con il trascendente.
Ma anche il non credente, la cui motivazione all’agire
etico è fondata unicamente sul senso di dignità della persona
umana autonoma, si rapporta a queste questioni fondamen-
tali a partire da una «fede», nel senso che la motivazione
morale più profonda cui un soggetto può fare appello di-
pende, in buona misura, dalla visione globale della realtà
che l’ambiente culturale in cui ha vissuto gli ha fornito. Ci
si può sempre porre criticamente nei confronti di questa
(come avviene nei casi di conversione o di abbandono della
religione), o la si può abbracciare con crescente fiducia in
seguito a determinate esperienze, ma, come l’ermeneutica
filosofica insegna, «noi non giungiamo mai a un punto che
sia al di là di qualsiasi anticipazione, di qualsiasi presenti-
mento» (SA, 692).
Quale che sia la motivazione morale profonda, Taylor ri- 67
tiene che si debba andare «al di là del codice», per costituire
una società che si configuri come un insieme di «reti di cura
vivente» (SA, 932), in cui ciascuno «dona e riceve» (SA, 881).
Ricostruendo il ragionamento svolto fin qui, possiamo af-
fermare che, per Taylor, solo l’agape (o un suo equivalente
in un’altra religione o secolare, precisazione che d’ora in
poi lasceremo sottointesa) può fondare il riconoscimento
dei diritti, che implica una relazione di reciproca cura, in cui
ciascuno dona e riceve. Ma, siccome i diritti sono alla base di
un ordinamento sociale democratico, allora solo l’agape può
essere a fondamento di una reale democrazia attenta al bene
comune. Dobbiamo perciò domandarci: è possibile che la
politica dello Stato possa manter fede a questi principi, ossia
che una democrazia moderna si configuri come una «rete
di cura vivente»?
Taylor è consapevole che
la società umana, così come si presenta nella storia […]
comporta inevitabilmente qualche forma di confisca degli
ideali superiori a favore di interessi più angusti, e un insie-
me di altre imperfezioni. Non potrà mai esserci una fusione
La pratica completa della fede e di una qualche particolare società, e il
del bene tentativo di raggiungerla è pericolosa per la fede.33
comune
Gianluca Cavallo
Di conseguenza, egli sembra suggerire che il modello di una
società retta da legami di agape debba restare un’ideale rego-
lativo sulla cui base assumere una «distanza critica da quella
che potremmo giudicare come “la civiltà che finora è stata il
male minore”» (SA, 934), ossia la democrazia liberale e, nel
senso chiarito in questo capitolo, repubblicana34. L’alterna-
tiva, rifiutata da Taylor, consiste nel rimpiangere il passato
e auspicare la restaurazione della Cristianità, la qual cosa
però non potrebbe sortire gli effetti desiderati, perché non
è possibile, né auspicabile, imporre la fede o la motivazione
profonda che spinge gli uomini ad amarsi.
Di fronte a quest’alternativa tra democrazia repubblicana
e nostalgia reazionaria, la proposta politica di Alasdair Ma-
cIntyre si può intendere come una «terza via». Vediamo in
cosa consiste.

68

33. Charles Taylor, Una modernità cattolica? (1999), in Charles Taylor, La modernità della
religione, Meltemi, Roma 2004, pp. 79-110. La citazione è tratta da p. 86.
34. Circa il ruolo delle religioni nella sfera pubblica di una società liberale si veda la po-
sizione, decisamente laica, di Taylor in Jocelyn Maclure, Charles Taylor, La scommessa del
laico (2010), Laterza, Roma-Bari 2013; cfr. anche Charles Taylor, Why we need a Radical
Redefinition of Secularism, in Eduardo Mandieta, Jonathan VanAntwerpen (eds.), The Power
of Religion in the Public Sphere, Columbia University Press, New York 2011, pp. 34-59.
La pratica 5. L’etica delle virtù e la politica delle comunità
del bene
comune
Gianluca Cavallo

La comunità cittadina non è costitui­


ta soltanto dall’identità del luogo,
dall’astinenza dal danno reciproco e
dalla garanzia dei rapporti commer-
ciali, perché, sebbene queste cose
siano imprescindibili per l’esistenza
della città, tuttavia, anche se si realiz-
zano tutte, non c’è ancora una città,
ma questa è la comunità che garan-
tisce la buona vita e alle famiglie e
alle stirpi, e ha come fine una vita
indipendente e perfetta.
Aristotele, Politica

La proposta politica di MacIntyre è basata sulla tradizione 69


aristotelica e tomista, sulla cui base egli cerca di chiarire in
cosa consista il bene individuale all’interno di una comunità
giusta. Quest’ultima, «senza le virtù della giusta generosità e
della deliberazione condivisa» è sempre esposta «alla corru-
zione dalla limitatezza, dalla compiacenza, dal pregiudizio
nei confronti di chi sta fuori e da un’intera gamma di altre
deformazioni, comprese quelle che provengono dal culto
della comunità locale»1. Il primo passo da compiere, perciò,
sarà comprendere cosa sono le virtù e perché sono tanto
importanti.
Il testo di riferimento è After virtue, sicuramente l’opera
più importante di MacIntyre. Qui possiamo rinvenire una tri-
plice caratterizzazione delle virtù: esse sono ciò che permette
agli individui (1) di conseguire i beni interni alle pratiche;
(2) di ordinare la vita umana in vista della realizzazione del
loro bene proprio; (3) di comprendere la storia da cui si pro-
viene e le possibilità future da essa offerte2. Vediamo di com-

1. Alasdair MacIntyre, Animali razionali dipendenti cit., p. 140.


2. Cfr. i capp. 14 e 15 di Id., Dopo la virtù cit., pp. 225-272.
La pratica prendere questi tre punti, cominciando con il chiarimento
del bene del termine «pratica», cui MacIntyre assegna un significato
comune
Gianluca Cavallo peculiare:
Per «pratica» intend[o] qualsiasi forma coerente e com-
plessa di attività umana cooperativa socialmente stabilita,
mediante la quale valori insiti in tale forma di attività vengo-
no realizzati nel corso del tentativo di raggiungere quei mo-
delli che pertengono ad essa e parzialmente la definiscono.
[…] [A]rti, scienze, giochi, la politica in senso aristotelico, la
costruzione e la conservazione della vita domestica, cadono
tutti sotto questo concetto3.

Il fatto che una pratica sia un’attività «cooperativa» significa


che essa non può essere condotta da un individuo isolato, ma
soltanto mediante la collaborazione di almeno due persone,
che hanno come obiettivo comune il compimento dell’attivi-
tà stessa, nella forma migliore. La pratica, poi, è «socialmente
stabilita», cioè risponde a delle regole riconosciute colletti-
vamente e può esistere soltanto all’interno di una comunità.
Si potrebbe dire che una pratica implica uno specifico gioco
linguistico (nel senso di Wittgenstein), il quale, come si sa,
70 non può sorgere privatamente, ma solo in un contesto cul-
turale. Vediamo poi che MacIntyre attribuisce alle pratiche
dei «valori insiti» in esse e dei «modelli» verso i quali l’attività
tende. Entrambi questi aspetti possono essere ricondotti a
quelli che poco dopo, nel medesimo luogo, l’autore classifica
come «beni interni» alle pratiche, cioè quei beni la cui esi-
stenza e il cui perseguimento sono mediati dall’attività svolta.
Così, ad esempio, il gioco degli scacchi dà forma a specifici
beni (come l’abilità nel prevedere le mosse dell’avversario
o nel salvare la regina fino alla fine) che non hanno ragion
d’essere all’infuori della pratica e che soltanto partecipan-
do ad essa possono essere acquisiti. Inoltre, i partecipanti al
gioco riconoscono dei «modelli» che incarnano l’eccellenza
perseguibile all’interno della pratica. Nel nostro esempio, i
giocatori di scacchi avranno come modello quel tale famoso
che chiuse la partita nel minor numero di mosse. I modelli,
così, definiscono anche il fine della pratica: ad esempio, la
vittoria nel gioco.
Ma vi sono anche dei «beni esterni», che sono quelli legati

3. Ivi, p. 232
L’etica alle pratiche in maniera estrinseca e contingente. Il perse-
delle virtù guimento di questi implica un uso strumentale della pra-
e la politica
delle comunità tica, che può essere intesa come un mezzo per procurarsi
prestigio, onore, denaro. Chiaramente i beni esterni sono
indispensabili alla vita delle pratiche (come i beni materiali
alla vita individuale, secondo Aristotele), tuttavia quando essi
vengono intesi come il fine principale, se non l’unico, allora
la pratica cessa di essere tale, in quanto ciò che la caratterizza
propriamente sono i beni interni. I beni esterni, infatti, non
rispettano la sua natura «cooperativa socialmente stabilita»,
in quanto sono tali che «tipicamente più qualcuno ne pos-
siede, meno ne rimangono per altre persone»4. Restando al
nostro esempio, è chiaro che la vittoria agli scacchi non può
essere materialmente condivisa, tuttavia il suo perseguimen-
to è riconosciuto come un valore da tutti, mentre se uno
dei giocatori stesse giocando perché qualcuno segretamente
gli ha promesso una somma di denaro in caso di vittoria,
allora egli non sarebbe ingaggiato nella pratica in vista del
perseguimento del fine proprio di essa, ma per un interesse
strettamente personale.
Questo ci conduce a una distinzione fondamentale, quel- 71
la tra pratiche e istituzioni: le prime sono definite dai beni
interni, le seconde dai beni esterni. È chiaro, infatti, che chi
gioca a scacchi ha come fine la vittoria (in linea di principio),
mentre il club che organizza le partite deve preoccuparsi di
trovare il denaro per pubblicizzare l’evento, affittare il locale
in cui si svolgerà, pagare i suoi dipendenti che arbitrano gli
incontri, ecc. Ogni pratica deve essere sostenuta da un’istitu-
zione, ma la natura di quest’ultima è tale da esporla al rischio
che i beni esterni divengano il fine ultimo; al contrario, se i
beni interni alla pratica prevalgono, allora l’istituzione sarà
correttamente intesa quale mezzo per il sostentamento ma-
teriale dell’attività. Potremmo dire che una pratica richiede
il rispetto di un «imperativo categorico» del tipo: «considera
sempre la pratica in cui sei impegnato come un fine e mai
come semplice mezzo».
Questo ci permette di capire quale sia la relazione tra le
pratiche e le virtù. Infatti, il conseguimento dei beni interni
richiede di necessità almeno tre virtù fondamentali: la giusti-

4. Ivi, p. 235.
La pratica zia, il coraggio e l’onestà5. La giustizia vuole che non ci impe-
del bene gniamo nella pratica solo per il nostro interesse, ma trattiamo
comune
Gianluca Cavallo allo stesso modo tutti coloro che vi partecipano; l’onestà ri-
chiede che io dichiari esplicitamente le mie intenzioni, senza
perseguire scopi segreti, e che non inganni gli altri individui;
il coraggio è la dimostrazione del valore che io attribuisco
alla pratica e mi richiede la capacità di compiere dei sacrifici
per essa. Ma è chiaro che il conseguimento dei beni interni
richiede poi numerose altre virtù, come la saggezza pratica,
che permette di discernere il momento giusto per l’azione
giusta, la temperanza, che impedisce di imporsi sulla volontà
altrui, l’amicizia, come legame fondamentale tra gli aderenti
a una pratica che perseguono un fine comune, ecc.
Ora, gli scacchi non hanno molta importanza nell’ambito
di una teoria morale, ma è evidente che il catalogo delle virtù
ci è fornito da Aristotele. E, infatti, anche «la politica in senso
aristotelico» è una pratica. Ma per comprendere appieno co-
sa questa comporti, dobbiamo terminare la caratterizzazione
delle virtù, passando al punto (2).
Un individuo per vivere bene deve essere in grado di ri-
72 spondere alla domanda: «che cos’è il bene per l’essere uma-
no?». La risposta implica l’individuazione del Bene che deve
informare di sé ogni singola attività della vita personale, il
che significa che tale Bene non è una cosa che si possa acqui-
sire una volta per tutte, né è un sentimento o una sensazione
che caratterizzi aspetti specifici e passeggeri della vita. Esso
è piuttosto ciò che ci permette di considerare buoni tutti i
particolari della vita e di ordinare su una scala di priorità le
nostre azioni. È soltanto guardando alla totalità unitaria di
una vita umana che si può dire se essa abbia conseguito il
Bene oppure no. Per questo Aristotele diceva di non consi-
derare felice la vita di un uomo finché egli non sia morto.
La vita umana deve quindi avere un’unità narrativa, che ren-
da intelligibili tutti i suoi aspetti parziali come un insieme
ordinato, appartenente alla stessa persona, che è dichiarata
responsabile per ogni sua azione. Naturalmente questa nar-
razione comprenderà anche il mondo sociale e le singole
persone con cui essa si trova in contatto in diverse occasioni
della vita, e dovrà rendere intelligibili anche questi rappor-

5. Cfr. ivi, pp. 236-237.


L’etica ti, alla luce di quell’unitarietà fornita dal Bene6. Tutto ciò
delle virtù richiede l’esercizio delle virtù, che «ci consentono di capire
e la politica
delle comunità che cosa ancora e cos’altro sia la vita buona per l’uomo»7.
Questa unità della vita umana è oggi resa inintelligibile
dalle strutture del mondo sociale, che impongono una sua
«compartimentalizzazione». Quest’ultima non corrisponde
alla divisione dei ruoli, che infatti caratterizza qualsiasi so-
cietà, ma significa che ogni sfera di attività viene a essere
«governata dalle sue proprie norme specifiche in relativa
indipendenza dalle altre sfere»8. L’unità narrativa della vita
dell’individuo è dissolta nella molteplicità delle sue attivi-
tà, sicché egli è una certa persona in famiglia, un’altra sul
posto di lavoro, una terza nel gruppo sportivo, ecc. Con ciò
egli rinuncia alla propria responsabilità, la quale può essere
adeguatamente compresa soltanto se si mantiene una distin-
zione tra il ruolo specifico e la propria identità complessiva.
Le virtù, che hanno un significato solo all’interno dell’unità
narrativa, vengono confuse con le abilità tecniche, di modo
che «ciò che è giudicato eccellente in un contesto legato a un
ruolo può essere molto diverso da – e a volte anche incompa-
tibile con – ciò che è giudicato eccellente in altri»9. L’indivi- 73
duo perde perciò la possibilità di distanziarsi criticamente da
queste attività, per valutare se le richieste di ciascuna di esse
siano compatibili con il perseguimento di una buona vita.
Questo significa perdere la capacità di agire moralmente, e
spesso senza esserne consapevoli. Ma questa ignoranza della
propria condizione non può scusare il declino delle proprie
responsabilità morali, in quanto si tratta di un’ignoranza di
cui si è almeno in parte colpevoli10.
L’esercizio autentico delle virtù richiede di inserire il ruo-
lo occupato all’interno della storia della vita individuale, la
quale a sua volta può emergere soltanto dalla storia della co-

6. Il tema dell’unità della vita come narrazione è trattato ivi, cap. 14.
7. Ivi, p. 266.
8. Id., Social structures and their threats to moral agency (1999), in Id., Ethics and Politics cit.,
p. 197. Sul tema della compartimentalizzazione sono importanti anche Id., Moral philosophy
and contemporary social practice: what holds them apart? (1992), in Id., The Tasks of Philosophy
cit., pp. 104-122 e Id., Riconsiderazione di alcuni progetti illuministi (1995), in Richard Kear-
ney, Mark Dooley (a cura di), Questioni di etica. Dibattiti contemporanei in filosofia, Armando,
Roma 2005, pp. 277-291.
9. Alasdair MacIntyre, Social structures cit., p. 200.
10. Sul rapporto tra ignoranza e responsabilità, cfr. Aristotele, Etica Nicomachea III, 2.
La pratica munità. È quest’ultima, infatti, a definire in cosa consistano
del bene i ruoli e le responsabilità di ciascuno. L’identità individuale
comune
Gianluca Cavallo non può prescindere dal contesto sociale, anche se ciò non
significa che si debbano accettare le limitazioni morali da
esso imposte. «La ricerca del bene, dell’universale – scrive
MacIntyre – consiste appunto nel superamento di tali parti-
colarità. Tuttavia la particolarità non può mai essere sempli-
cemente lasciata alle spalle o cancellata»11.
Ciascuna pratica, sia essa artistica, scientifica, ludica o po-
litica, porta con sé una tradizione che definisce il contesto
all’interno del quale si trovano i suoi partecipanti. Ma le tra-
dizioni non implicano l’ossequio nei confronti di un passato
dogmaticamente appreso, bensì «implicano continui conflit-
ti», che determinano l’evoluzione della tradizione medesima
«mediante la critica e l’invenzione»12.
Una tradizione si esaurisce e scompare, se non viene man-
tenuta in vita dall’esercizio delle virtù adeguate. Il terzo ruolo
delle virtù, perciò, è quello di «sostenere quelle tradizioni
che forniscono sia alle pratiche sia alle esistenze individuali
il loro contesto storico necessario»13.
74 Le virtù, dunque, sono ciò che può rendere buona la co-
munità e, di conseguenza, anche la vita individuale che fiori-
sce in essa. La politica, in senso aristotelico, è una pratica i cui
«modelli» sono quelle persone sagge il cui comportamento
definisce la natura stessa delle virtù14 e che hanno conseguito
il Bene di una vita felice. La politica è, potremmo dire, la pra-
tica del bene comune, la «più direttiva e architettonica»15, in
quanto subordina a sé tutte le altre, ordinandole in maniera
tale da rendere possibile il perseguimento del bene comune,
il quale va identificato con la comunità stessa (non assoluta-
mente, ma solo se retta dalla pratica politica virtuosa). Ogni
azione o pratica subordinata al bene comune può essere con-
siderata un bene interno alla pratica politica. Infatti ogni atti-
vità buona (sia essa pratica, poietica o teoretica) è un mezzo
costitutivo del bene comune, il quale, a sua volta, è un mezzo

11. Alasdair MacIntyre, Dopo la virtù cit., p. 269.


12. Ivi, p. 268.
13. Ivi, p. 269.
14. Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, II, 6, 1107a 1.
15. Ivi, I, 1, 1094a 27.
L’etica costitutivo della buona vita per ogni uomo16. L’individuazio-
delle virtù ne del bene per ciascun individuo, quindi, «è inseparabile
e la politica
delle comunità sia dal conseguimento dei beni comuni delle pratiche sia dal
contributo al bene comune della comunità intera»17.
Lo Stato moderno non può in alcun modo essere il luogo
di tale politica comunitaria. Secondo MacIntyre è impossibi-
le, in esso, la formazione di uno spazio in cui le persone pos-
sano condurre un dibattito razionale intorno alla natura del
bene comune. Non è possibile, in altre parole, quella «sfera
pubblica» capace di influire sulla politica, come auspicato
da Taylor, il quale si pone in questo quale erede dell’illu-
minismo kantiano, fallendo con esso. L’idea di Kant di un
«uso pubblico» della ragione, secondo il quale il dibattito
razionale delle idee avrebbe condizionato l’attività di gover-
no, è stata frustrata dall’età post-illuministica, che ha visto
declinare qualsiasi cosa le assomigliasse18. La politica dello
Stato, secondo MacIntyre, è per sua stessa natura destinata a
concentrarsi nelle mani di élites di politici di professione, ad
assumere la forma di una complicata burocrazia e a essere
intrecciata con il mercato capitalistico. Egli perciò condivide
in gran parte le analisi del potere condotte da Max Weber, ma 75
aggiunge ad esse una critica di sapore marxiano. In quest’ot-
tica, «il potere statale moderno non è che un comitato che
amministra gli affari comuni di tutta la classe borghese»19. È
soltanto il frutto di una «superstizione»20, secondo Marx, ri-
tenere che la forza dirompente della civil society possa essere
arginata dalla politica statale, che è invece ridotta a mezzo
dal potere economico.
Sulla base di questo assunto marxiano MacIntyre rifiuta
un altro aspetto del pensiero di Marx e dei marxisti, che vede
la conquista del potere politico come una tappa necessaria

16. Intendiamo con «mezzo costitutivo» quel mezzo da cui non si può prescindere se si
intende raggiungere il fine. Per il liberalismo, al contrario, la società è un «mezzo strumen-
tale» rispetto alla felicità individuale.
17. Alasdair MacInytre, Politics, Philosophy and the Common Good (1997), in Kelvin Knight
(ed.), The MacIntyre Reader cit., p. 239 (il testo originale è stato pubblicato in italiano, ma
non ci è stato possibile consultare tale versione, per la quale si rimanda alla Bibliografia).
18. Cfr. Id., Riconsiderazione di alcuni progetti illuministi cit.
19. Karl Marx, Friedrich Engels, Manifesto del Partito comunista (1948), Einaudi, Torino
1998, p. 9.
20. Karl Marx, La sacra famiglia (1985), cit. in Id., Antologia. Capitalismo, istruzioni per l’uso,
Feltrinelli, Milano 2007, p. 53.
La pratica alla realizzazione della società comunista21. Secondo Ma-
del bene cIntyre si tratta di un errore perché «coloro che conquistano
comune
Gianluca Cavallo il potere statale sono sempre alla fine conquistati da esso e,
divenendo gli strumenti dello stato, diventano col tempo essi
stessi gli strumenti di una delle diverse versioni del capitali-
smo moderno»22.
MacIntyre, quindi, condivide quasi per intero l’analisi
marxiana della società capitalistica, rifiutando però la strate-
gia politica marxista23. Egli sostiene, ad esempio, che le rela-
zioni contrattuali tra lavoratori dipendenti e proprietari, così
come gli scambi sul mercato, non sono realmente liberi, ma
vengono imposti ai soggetti più deboli dalla struttura stessa
del capitalismo. Il mercato internazionale è oggi dominato
dalle grandi corporations, che impongono le loro condizioni
sia sul lavoro (a fronte di un potere sindacale indebolito,
in quanto rinchiuso nei confini nazionali che il capitale ha
varcato da tempo), sia sulle piccole imprese, spesso desti-
nate a soccombere, come è evidente in questi anni di crisi.
La libertà del mercato non coincide con quella degli indivi-
dui che in e mediante esso agiscono. Un mercato libero in
76 quest’ultimo senso sarebbe caratterizzato da piccole unità
produttive e subordinato alle necessità umane. Questo è, se-
condo MacIntyre, il modello che può essere coerentemente
accettato anche dalla dottrina sociale cristiana (quale espres-
sa, per esempio, nella Centesimus Annus di Giovanni Paolo II,
o ancor prima dalla celeberrima Populorum progressio di Pao-
lo VI), la quale condanna il capitalismo inteso come sistema
di sfruttamento e di arricchimento illimitato.
Un altro concetto fondamentale della dottrina marxia-
na che può trovare espressione nei termini di MacIntyre è

21. Nella teoria marx-engelsiana la conquista del potere da parte dei comunisti avrebbe
realizzato la «dittatura del proletariato». Il marxismo ha troppo sovente frainteso questa
espressione, occultando ad esempio quanto sostenuto da Engels, secondo il quale «ditta-
tura» era piuttosto sinonimo di «egemonia», come dimostra il fatto che egli intendesse
precondizione del suo instaurarsi la conquista della maggioranza parlamentare in una
democrazia repubblicana. Per tutti questi temi si rimanda a K. Marx, Critica al programma di
Gotha e testi sulla transizione democratica al socialismo, Editori Riuniti, Roma 1976, che contie-
ne anche scritti di Engels.
22. Alasdair MacIntyre, Three Perspectives on Marxism (1995), in Id., Ethics and Politics cit.,
p. 150.
23. Gli scritti giovanili dell’autore, che sono riconducibili al marxismo, sono ora raccolti in
Paul Blackledge, Neil Davidson (eds.), Alasdair MacIntyre’s Engagement with Marxism: Selected
Writings 1953-1974, Brill, Leiden 2008.
L’etica quello di alienazione, che egli però ‘colora’ di aristotelismo.
delle virtù L’individuo è alienato dalla società capitalistica e dai rapporti
e la politica
delle comunità di produzione che essa sostiene, non tanto perché cessa di
considerare l’oggetto come il frutto della sua attività pratica,
bensì perché esso non può più ritenerlo come il prodotto
di un’azione collettiva in vista del bene comune24 e, perciò,
viene a considerarlo come un che di estraneo e indipenden-
te da sé25. Quest’integrazione aristotelica è in grado, come
ha sostenuto Niko Noponen, di completare la concezione
marxiana dell’alienazione, la quale era lacunosa in quanto
non chiariva «da che cosa» l’individuo fosse alienato26. Sicco-
me il fine del capitalismo è unicamente il profitto e l’abilità
delle imprese nella concorrenza sui mercati, esso impedisce
in moltissimi casi lo sviluppo delle pratiche, imponendo il
perseguimento di beni esterni ad esse. Perciò l’individuo è
alienato da:
(1) forme di lavoro che siano buone, significative, importan-
ti e apprezzabili in quanto tali; (2) comprensioni comuni,
esperienze condivise, riconoscimento reciproco, e azione
collettiva con altre persone; (3) relazioni personali con i
compagni esseri umani; e conseguentemente (4) ciò che 77
è essenziale e costitutivo dell’essere umano in generale, o
natura umana.27

Secondo la prospettiva di MacIntyre, dunque, né lo Stato né


il mercato capitalistico hanno alcuna legittimità, in quanto
non sono giustificati da alcuna deliberazione comune e razio-
nale e di conseguenza non si fondano su alcuna concezione
del bene comune. La domanda che il nostro autore pone,
dunque, è: «quale forma di vita sociale e politica rende que-
sto possibile?»28.
Essa dovrà prevedere uno spazio di discussione, ricerca e
deliberazione che possa condurre democraticamente la vita
politica, almeno nei suoi principi generali (l’applicazione di

24. Cfr. Alasdair MacIntyre, Three Perspectives cit., p. 148 e Id., The Theses on Feuerbach: A
Road Not Taken (1993), in Kelvin Knight (ed.), The MacIntyre Reader cit., p. 225.
25. Cfr. Karl Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844 (1932), in Id., Opere filosofiche gio-
vanili, Editori Riuniti, Roma 19744.
26. Niko Noponen, Alienation, Practices, and Human Nature. Marxist Critique in MacIntyre’s
Aristotelian Ethics, in Paul Blackledge, Kelvin Knight (eds.), Virtue and Politics cit., p. 104.
27. Ivi, p. 105.
28. Alasdair MacIntyre, Politics, Philosophy and the Common Good cit., p. 247.
La pratica questi potrebbe anche essere delegata a persone specifiche).
del bene Questo impone di riconoscere che uno dei beni comuni del
comune
Gianluca Cavallo gruppo sociale, anzi, quello fondante, sarà la verità, intesa
quale scopo della deliberazione stessa, che dovrà tendere
a ciò che è bene per l’uomo29. Perché la verità possa essere
perseguita, la sua ricerca deve trovare «qualche posto conti-
nuativo e significativo nelle nostre vite». Occorre, inoltre,
anteporla a qualsiasi interesse, che potrebbe indurre la de-
liberazione a stagnare su una posizione di comodo. Ogni
persona impegnata nella deliberazione deve perciò essere il
più possibile priva di desideri, pregiudizi o interessi personali
che potrebbero indurla a prediligere i beni esterni rispetto
a quelli interni della pratica politica. Ma la razionalità della
ricerca richiede anche che ogni agente abbia buoni motivi
per fidarsi dell’altro e per non averne paura: la mancanza di
fiducia potrebbe creare delle divisioni e delle fratture, men-
tre la paura potrebbe indurre un soggetto a sottomettersi al
volere di un altro. Perciò sarà necessario che tutti i parteci-
panti alla deliberazione si impegnino a essere onesti e veri-
tieri, a mantenere le promesse fatte e a seguire una norma
78 che vieti di danneggiare gratuitamente la vita, la libertà o
la dimensione privata altrui. Proseguendo su questa linea,
secondo MacIntyre, si scopre che le condizioni necessarie, i
«principi primi»30, della ricerca razionale sono esattamente
quei precetti della legge naturale individuati da Tommaso
d’Aquino31. Da questa ricerca, pertanto, dovranno essere
esclusi coloro che violano queste leggi, cioè coloro che non
hanno alcun interesse al conseguimento del bene comune,
ma il cui scopo è palesemente quello di influenzare l’esito
della decisione per realizzare i propri interessi32.
Secondo il grande filosofo medievale la legge naturale
è qualcosa che tutti gli uomini, in quanto esseri razionali,

29. Id., Aquinas and the extent of moral disagreement, in Id., Ethics and Politics cit., pp. 64-82. Le
considerazioni che seguono fanno riferimento a questo testo. Cfr. anche Id., Natural law as
subversive: the case of Aquinas (1995), in Id., Ethics and Politics cit., pp. 41-63.
30. I principi primi si scoprono, ma non si dimostrano. Essi possono essere difesi soltanto
mediante la confutazione di chi intende negarli, mostrando come questi sia impossibilitato
a sostenere una reale ricerca della verità.
31. Il tema della legge è trattato da Tommaso in Summa Theologiae, Ia-IIae, 90-108. I pre-
cetti della legge naturale emergono poi nella discussione tomistica delle virtù, ivi, IIa-IIae,
1-170.
32. Alasdair MacIntyre, Toleration and the goods of conflict cit., pp. 214-216.
L’etica possono riconoscere; la legge positiva, il cui compito è dare
delle virtù attuazione ai principi generali di quella naturale, è razionale
e la politica
delle comunità soltanto se non si discosta da essa. Ogni individuo, perciò,
ha il diritto di non rispettare la legge positiva che violi i pre-
cetti della ragione, a meno che il non rispettarla implichi
azioni anch’esse contrarie alla legge naturale. Ora, è chiaro
come le leggi su cui si regge il nostro ordinamento sociale
siano ben lontane dall’essere un’applicazione di tali precetti.
Perciò MacIntyre ritiene che essi siano la base di una rinno-
vata concezione della pratica politica, che rifiuti il modello
dominante33.
Una comunità che possa essere gestita democraticamente
dai frutti di una deliberazione comune non può che essere
di piccole dimensioni, di modo che le persone che ne fanno
parte possano incontrarsi in uno spazio fisico (e non «meta-
topico»). Ma ciò che più conta è, come abbiamo visto, che
questo luogo deliberativo sia regolato dalla «legge naturale».
In altre parole, la comunità deve permettere lo sviluppo delle
virtù, condizione per perseguire la vita buona per l’uomo.
Soltanto in una simile comunità la politica può essere inte-
sa come una pratica «cooperativa», partecipando alla quale 79
ogni persona può imparare a definire che cosa è bene per sé
e qual è il bene comune.
Lo sviluppo delle virtù, però, richiede ancora qualcosa
di più, che va oltre la politica e che riguarda la condizione
animale dell’uomo34. Nel periodo della sua infanzia, la sua
educazione e crescita dipendono interamente dai genitori, in
primo luogo, poi dai parenti e da tutti coloro con cui viene in
contatto nei primi anni della sua vita. La sua formazione, na-
turalmente, procede nei più vasti ambienti della scuola, del
luogo di lavoro, della compagnia amicale, ed è partecipando
a queste attività sociali che egli diviene in grado di sviluppare
quelle che MacIntyre chiama le «virtù della razionalità pra-
tica indipendente». È la rete delle relazioni intersoggettive
che permette all’individuo di comprendere cosa significhi
impegnarsi in una pratica e perseguire i beni interni ad essa,
nonché ordinare ogni sua attività in vista di un Bene comples-

33. Cfr. Sante Maletta, MacIntyre and the Subversion of Natural Law, in Paul Blackledge, Kel-
vin Knight (eds.), Virtue and Politics cit., pp. 177-194.
34. Le considerazione che seguono sono basate su Alasdair MacIntyre, Animali razionali
dipendenti cit., pp. 63 ss.
La pratica sivo. Questo non significa che gli educatori e, in generale,
del bene tutti gli individui della comunità con cui veniamo in contatto,
comune
Gianluca Cavallo siano modelli di virtù dai quali colui che cresce in un simile
contesto possa apprendere. Ma ciò non fa che sottolineare
un ulteriore aspetto delle virtù: senza di esse non possiamo
essere buoni educatori.
Una volta divenuti adulti questo rapporto di dipendenza
nei confronti degli altri non viene meno, perché siamo sem-
pre esposti all’errore nel giudizio relativo sia alla bontà dei
fini che ci proponiamo di perseguire, sia a quella dei mezzi,
sia al comportamento altrui (e la fonte di questi errori può
essere sia morale che intellettuale). Inoltre il percorso com-
plessivo della nostra vita è tale per cui in ogni momento ci
troviamo, senza poterlo prevedere, a un diverso gradino di
una «scala di disabilità nella quale tutti noi siamo collocati»35.
Con questo MacIntyre intende una cosa semplicissima, cioè
che nessun individuo è indipendente, in quanto ci sono co-
se che egli non capisce o non sa fare o, più gravemente,
può trovarsi a dover affrontare malattie e disabilità fisiche di
diverso grado, transitorie o anche permanenti (magari fin
80 dalla nascita). Questo richiede che in una comunità buona
gli individui sviluppino anche le «virtù della dipendenza rico-
nosciuta», che sono alla base di quei comportamenti di cura
dell’altro, senza i quali non potrebbero fiorire nemmeno le
virtù del ragionamento pratico.
La comunità buona si dovrebbe configurare, perciò, come
«una rete di relazioni di dare e ricevere»36. Ciascuno di noi,
infatti, è quello che è perché ha ricevuto la cura degli altri:
genitori, educatori, amici, conoscenti che hanno non solo
aiutato lo sviluppo delle nostre capacità pratiche, intellettuali
e morali, ma che ci sono a fianco nei momenti più tragici,
rappresentati dalle varie forme di disabilità, accordandoci
quel riconoscimento che ci permette di comprendere che, no-
nostante la disabilità, noi siamo sempre la stessa persona e
abbiamo sempre la stessa dignità. Questa dipendenza ci im-
pone un obbligo morale a dare agli altri la stessa cura che
noi abbiamo ricevuto, o sappiamo dovremmo o potremmo
voler ricevere un giorno in futuro. Questo tipo di reciprocità

35. Ivi, p. 73.


36. Ivi, p. 97.
L’etica va oltre la giustizia comunemente intesa, poiché implica la
delle virtù disponibilità a dare senza tener conto di quanto noi abbiamo
e la politica
delle comunità già ricevuto o riceveremo e, inoltre, a dare senza riguardo a
chi si dona, poiché nella rete di relazioni in cui siamo inseriti
capita spesso che si riceva da qualcuno e si debba donare a
un altro, per poi magari ricevere ancora da un terzo, e così
via. La «virtù della dipendenza riconosciuta» per eccellenza
è quella che Tommaso d’Aquino chiama misericordia, che è
«afflizione o dispiacere per la sofferenza di qualcun altro»37
e che ci muove ad aiutarlo. In altre parole, una buona comu-
nità dovrà essere retta dal riconoscimento che ciascuno è il
«prossimo» di ogni altro.
Il lettore avrà notato come MacIntyre arrivi a questa con-
clusione senza far riferimento al cristianesimo. Egli fornisce
quindi una giustificazione razionale per un’etica dell’amore
reciproco, in modo più efficace di quanto non faccia Taylor.
Tuttavia il discorso, svolto da quest’ultimo, circa la motivazio-
ne che spinge l’individuo ad agire conformemente all’etica ci
porta a domandare se la misericordia possa essere una virtù
autonoma o se, invece, debba essere considerata insieme ad
un «bene costitutivo» più elevato. In effetti, per Tommaso 81
d’Aquino, alla cui filosofia MacIntyre fa riferimento per giun-
gere alle sue conclusioni, «la misericordia deriva dalla carità»
(misericordia consequitur ex caritate)38. Essa, infatti, presuppone
il superamento dell’interesse personale che è reso possibile
dalla carità, che ci apre alla disponibilità per l’altro. «Di con-
seguenza, la misericordia non è una virtù specifica» (Ergo
misericordia non est specialis virtus)39.
Si noti che in Tommaso il termine «caritas» non è altro che
la traduzione del greco «agape», ed è definita nella Somma teo-
logica del pensatore medievale come «un’amicizia dell’uomo
con Dio, fondata sulla compartecipazione della beatitudine
eterna». Nello stesso luogo il filosofo precisa che
questa compartecipazione non è basata sui beni di natura,
ma sui doni della grazia. Perciò la carità supera le capacità
della natura […] [essa] non può trovarsi in noi per natura,
né essere acquisita con le forze naturali, ma è dovuta all’in-
fusione dello Spirito Santo, che è l’amore del Padre e del

37. Ivi, p. 123.


38. Summa Theologiae, IIa-IIae, q. 30
39. Ibidem.
La pratica Figlio, e la cui partecipazione a noi offerta è precisamente
del bene la carità creata.40
comune
Gianluca Cavallo
Lo stesso MacIntyre, nel suo ultimo libro, dedicato alla tra-
dizione della filosofia cattolica, chiarisce che per Tommaso
ovunque vi sia una genuina virtù, essa è informata dalla cari-
tà e vi opera la grazia. Sicché una comprensione puramente
secolare della vita morale è sempre inadeguata e incompleta,
sia per quanto riguarda il suo fine, la visione di Dio […], sia
per quanto riguarda il tipo di carattere di cui si ha bisogno
per ottenere quel fine.41

Come ha scritto un critico in una recensione a questo testo,


MacIntyre, dopo aver fornito nelle sue opere precedenti una
giustificazione puramente filosofica della superiorità della
tradizione aristotelico-tomista, è giunto implicitamente a ri-
conoscere che determinate questioni possono essere affron-
tate e comprese soltanto da un punto di vista teologico42.
Anche per MacIntyre, dunque, l’agape cristiano è l’unica
motivazione efficace all’agire morale. Ciononostante entram-
bi gli autori sostengono la possibilità di pervenire razional-
82 mente a un’etica della reciprocità a partire da considerazioni
sulla natura dell’essere umano, costitutivamente dipendente
dagli altri. Dove Taylor parla di «reti di cura vivente» in cui
ciascuno «dona e riceve», MacIntyre parla di «reti di relazioni
di dare e ricevere» in cui ciascuno si affligge per la sofferenza
altrui. Integrando i rispettivi discorsi, si può affermare che
il riconoscimento delle capacità specificamente umane (che
abbiamo siglato CSU) va di pari passo con lo sviluppo delle
virtù della dipendenza riconosciuta.
Entrambi gli autori, infine, concordano nel ritenere che
lo Stato moderno non può dar luogo a una politica comu-
nitaria di questo tipo. Tuttavia, mentre Taylor riteneva di
dover scegliere tra il compromesso con il «male minore» e
la restaurazione della Cristianità, il discorso di MacIntyre ci
permette di uscire da questa dicotomia e di affermare che è

40. Ivi, IIa-IIae, q. 24


41. Alasdair MacIntyre, God, Philosophy, Universities cit., p. 92.
42. Cfr. Thaddeus J. Kozinski, After Philosophy, «First Principles», 1 gennaio 2008, http://
www.firstprinciplesjournal.com/ articles.aspx?article=1852 (url visitato in data 12 agosto
2014)
L’etica possibile dar vita a reti di «dare e ricevere», in comunità di
delle virtù dimensioni ridotte.
e la politica
delle comunità MacIntyre, nel rifiutare la politica dello Stato moderno,
non si allinea a quei pensatori anarchici che ritengono si
possa prescindere da esso, ma riconosce che anche le comu-
nità di piccole dimensioni possono sorgere soltanto al suo
interno. Non soltanto perché esse sono formate da individui
che si defilano dal sistema dominante senza farlo crollare
con un’azione rivoluzionaria organizzata, ma anche perché
lo Stato fornisce dei servizi da cui non possono prescindere.
MacIntyre cita ad esempio la sicurezza pubblica43, cui vorrei
aggiungere tutte quelle risorse che confluiscono in un paese
mediante l’ausilio delle relazioni internazionali, i commerci,
la politica estera dello Stato, nonché i beni pubblici che esso
gestisce. Insomma, anche per i membri di una comunità la
politica dello Stato continua ad avere una certa rilevanza, per
numerosi motivi, non ultimo l’esigenza etica di migliorare,
secondo ciò che si ritiene giusto, l’ambiente politico in cui
vivono tutti coloro che, pur non essendo membri della nostra
immediata comunità, sono pur sempre degni di quel rispetto
umano che implica il riconoscimento della loro esigenza di 83
giustizia.
Credo perciò che l’ideale politico cui guardare sia quello
di aderenti a singole comunità che non scelgano un auto-
isolamento per timore di influenze nefaste, ma che continui­
no ad agire nel più vasto contesto sociale in cui sono inseriti.
All’interno di quest’ultimo, l’azione politica condotta sulla
base di quanto proposto da Taylor potrebbe essere la miglio-
re soluzione.
Una simile politica può sembrare largamente utopica e,
in effetti, è esattamente così. Ma, come ha scritto MacIntyre,
si tratta di «un utopismo del presente, non [di] un utopismo
del futuro»44, intendendo con ciò che esso non è una fanta-
sticheria, ma si basa su quelle possibilità presenti che «sono
sempre di gran lunga maggiori di quanto l’ordine costituito
possa concedere»45. Del resto, anche se MacIntyre non vi fa
alcun riferimento, esiste già un gran numero di comunità

43. Alasdair MacIntyre, Animali razionali dipendenti cit., p. 130.


44. Id., How Aristotelianism Can Become Revolutionary: Ethics, Resistance and Utopia, in Paul
Blackledge, Kelvin Knight (eds.), Virtue and Politics cit., p. 16.
45. Ivi, p. 17.
La pratica in tutto il mondo, alcune religiose, altre semplicemente spi-
del bene rituali, altre ancora decisamente secolari46. Sono per lo più
comune
Gianluca Cavallo accomunate da un forte senso ecologico (alcune sono infat-
ti denominate «ecovillaggi») e da una pratica democratica
che in alcuni casi si distanzia dal metodo di contare i voti
e stabilire una maggioranza – cui siamo abituati – basandosi
piuttosto sul metodo del «consenso», secondo il quale ogni
membro dell’assemblea ha facoltà di porre il veto sulle deci-
sioni della maggioranza, bloccandone l’attuazione.
Tuttavia l’opzione comunitaria non è disponibile per tutti:
è difficile immaginare, ad esempio, come una grande me-
tropoli possa scindersi in piccole comunità. Ciononostante,
anche nella vita quotidiana delle persone è sempre possibile,
almeno potenzialmente, fare esperienza di quelle che Ma-
cIntyre ha chiamato «pratiche»: in alcuni casi sul luogo di
lavoro, nei gruppi sportivi, ricreativi, artistici, oppure in quei
contesti di cui abbiamo parlato nel capitolo precedente (ad
esempio lo stabile occupato). Dalla partecipazione a queste
pratiche può nascere una comprensione di cosa significhi
attuare una politica come pratica del bene comune e di come
84 questa sia ostacolata dalle strutture economiche e sociali esi-
stenti47, il che può portare a uno sforzo inteso a rimodellare
gli spazi sociali della propria vita quotidiana, a sottomettere le
istituzioni alle pratiche (cioè i beni esterni ai beni interni), e
così via. Ogni individuo, perciò, dovrebbe agire nella propria
quotidianità in base a quell’imperativo di cui abbiamo detto:
«considera sempre la pratica in cui sei impegnato come un
fine e mai come semplice mezzo». Naturalmente, anche la
politica istituzionale dei sindacati, partiti e movimenti può
contribuire alla realizzazione di questi obiettivi.
Riconoscere gli ostacoli che si frappongono alla realizza-
zione di una politica comunitaria autentica è sicuramente il
primo passo per oltrepassarli. Le speranze di poterla prati-
care nella vita quotidiana di ciascuno non sono molte, ma
si annidano negli anfratti nascosti della realtà. Occorre solo
scovarle, e dare loro attuazione.

46. Si vedano per esempio Volker Peters, Martin Stengel (eds.), Eurotopia. Intentional Com-
munities and Ecovillages in Europe, Volker Peters Verlag, Poppau 2005; Manuel Olivares, Co-
muni, comunità, ecovillaggi. In Italia, in Europa, nel mondo, Malatempora, Roma 2008.
47. Cfr. Alasdair MacIntyre, How Aristotelianism cit., p. 16.
La pratica Bibliografia
del bene
comune
Gianluca Cavallo

1) Opere di Alasdair MacIntyre e Charles Taylor 85


Si riportano di seguito, in ordine cronologico per ciascun autore,
soltanto le opere concernenti i temi trattati nel testo; per una
bibliografia completa, che comprende anche vaste indicazioni,
in costante aggiornamento, di bibliografia secondaria (pressoché
complete per quanto riguarda la produzione in lingua inglese) si
rimanda ai seguenti siti internet:
– http://www3.nd.edu/~rabbey1/ - Notre Dame University,
Charles Taylor Bibliography (url visitato in data 30 settembre
2014)
– https://metranet.londonmet.ac.uk/depts/lgir/research-cen-
tres/casep/research-resources/ macintyre-publications/ma-
cintyres-books.cfm – London Metropolitan University – Ala-
sdair MacIntyre’s books (url visitato in data 30 settembre 2014)

Alasdair MacIntyre, Secularization and Moral Change, Oxford Uni-


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−, La democrazia e i suoi dilemmi, a cura di Paolo Costa, Diabasis,
Parma 2014.

2) Altre opere
Si riportano di seguito, in ordine alfabetico, le opere di altri auto-
ri citate nelle note del testo e ulteriori suggerimenti per un primo
orientamento all’interno della letteratura secondaria.

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97
La pratica Indice dei nomi
del bene
comune
Gianluca Cavallo

99
Abbey, Ruth, ixn, 93 Cristo, 66
Agostino d’Ippona, santo, 8 Crivelli, Paolo, 34n, 94
Alvayay, Rodrigo, 89
Arendt, Hannah, ix, 93 Davidson, Neil, 76n, 94
Aristotele, ix, 5, 23, 31, 33, 34, 35, 69, Delaney, Cornelius F., 86
71, 72, 73n, 74n, 93 Diderot, Denis, 20, 22, 23
Dooley, Mark, 73n, 87
Badiou, Alain, 65, 65n, 93
Bauer, Joanne R., 91 Engels, Friedrich, 75n, 76n, 95
Baum, Gregory, 93
Bell, Daniel A., 91 Ferrara, Alessandro, viin, 26n, 54n,
Berlin, Isaiah, 55, 93 56n, 86, 89, 90, 94, 97
Bhargava, Rajeev, 91 Fichte, Johann Gottlieb, 94
Blackledge, Paul, 6n, 76n, 77n, 79n, Francesco di Sales, santo, 67
83n, 88, 94 Fraser, Nancy, 94
Borradori, Giovanna, 86 Fusaro, Diego, 15n, 94
Brennan, Geoffrey, 90
Bruni, Leonardo, 32 Gadamer, Hans-Georg, 60, 61
Gibellini, Rosino, 19n, 94
Cartesio, Renato, 8, 9, 13, 14, 20 Giovanni Paolo II, papa, 76
Casanova, José, 93, 94 Gordon, Peter E., 94
Castigliani, Marta, 65n, 94 Gormally, Luke, 87
Cohen, Joshua, 56n, 91 Gould, Carol C., 86
Cohen, Robert S., 86 Gray, John N., 89
Collingwood, Robin George, 28 Groffier, Ethel, 90
Constant, Benjamin, 96 Gutmann, Amy, 90, 95
Costa, Paolo, 7n, 18n, 94
La pratica Habermas, Jürgen, 57n, 90, 94 Occam, Guglielmo di, 10, 13
del bene Hayek, Friedrich A. von, 25, 95 Olivares, Manuel, 84n, 96
comune Heft, James L., 91
Gianluca Cavallo Hegel, Georg Wilhelm Friedrich, IX, 7, Pannenberg, Wolfhart, 19n, 96
8, 16, 34, 41, 48, 61, 95 Paolo VI, papa, 76
Herder, Johann Gottfried, 12, 13, 57 Paradis, Michel, 90
Hibbs, Thomas S., 95 Pazé, Valentina, 96
Hobbes, Thomas, 20 Pelczynksi, Zbigniew, 89
Horton, John, 35n, 87, 91, 95 Perreau-Saussine, Émile, viin, viii, 6n,
Humboldt, Wilhelm von, viii 97
Hume, David, 20, 21, 21n, 22, 23, 42, Peters, Volker, 84n, 96
95 Peterson, Grethe B., 91
Pezzano, Giacomo, 96
Kant, Immanuel, 14, 22, 23, 26, 37, 42, Piccolomini, Francesco, 32
75 Pirni, Alberto, 96
Kearney, Richard, 73n, 87 Platone, 8, 34, 36, 38, 96
Kerr, Fergus, 95 Portinaro, Pier Paolo, x, 96
Kierkegaard, Søren, 23 Preve, Costanzo, x, 15n, 34n, 96
Knight, Kelvin, ixn, 6n, 27n, 75n, 77n,
79n, 83n, 86, 87, 88, 94, 95 Rawls, John, 26, 37, 55, 96
Kontos, Alkis, 88 Redhead, Mark, 96
Kozinski, Thaddeus J., 82, 95 Reynolds, Frank E., 90
Kuhn, Thomas, 31 Rosenblum, Nancy R., 90
Rousseau, Jean-Jacques, viii, 12, 35, 42
Lakatoš, Imre, 31 Ruiz, Carlos, 89
Laslett, Peter, 88 Runciman, Walter G., 88
Lingua, Graziano, 95 Ryan, Alan, 88, 89
100 Locke, John, 9, 13, 21, 35, 37
Lukács, György, 46 Sandel, Michael, viin, 26, 96
Schiller, Friedrich, 12n
Machiavelli, Niccolò, viii, 55 Sen, Amartya, 89
MacIntyre, Alasdair, vii-x, 3-6, 13n, 17, Smith, Nicholas H., 97
20, 21n, 22-24, 26-28, 30-33, 35, 37, Stengel, Martin, 84n, 96
38, 41, 42, 47, 49, 51n, 53, 54, 68- Strauss, Leo, 17
70, 73n, 74-88.
Maclure, Jocelyn, 68n Taylor, Charles, vii-ix, xn, 3, 4n, 5, 6,
Madsen, Richard, 91 8-10, 12-20, 23, 24, 41, 42, 44, 45,
Maletta, Sante, 79n 47-68, 75, 81-83, 85, 88-94
Malpas, Jeff, 92 Teresa di Calcutta, Madre, 67
Mandieta, Eduardo, 68n, 93, 95 Tocqueville, Alexis de, 61, 62, 97
Marx, Karl, viii, 11, 28, 29, 43, 49, 75, Tommaso d’Aquino, santo, 23, 33, 35n,
76n, 77n, 95 36, 78, 81, 82, 93
Maurot, Élodie, 19n, 95 Tracey, David, 90
McKim, Robert, 91
McLean, George F., 93 VanAntwerpen, Jonathan, 68n, 93, 95
McMahan, Jeff, 91 Viroli, Maurizio, 97
Mendus, Susan, 87, 91, 95
Mill, John Stuart, viii, 55 Walsh, Cliff, 90
Montesquieu, Charles-Louis de Secon- Weber, Max, 11n, 75, 97
dat duca di, 55, 56, 61, 62, 66, 96 Williams, Bernard, 89
Wittgenstein, Ludwig, 48, 70, 97
Newton, Isaac, 21
Nietzsche, Friedrich, 3, 19, 20, 23, 96 Zanatta, Marcello, 31n, 97
Noponen, Niko, 77
Nozick, Robert, 37
La pratica Gianluca

La pratica del bene comune


Gianluca Cavallo è dottore in Filo- Come può essere pensata oggi la po-
sofia e studente presso la Scuola di del bene Cavallo litica come pratica del bene comune?
Studi Superiori dell’Università di To- comune A partire da questa domanda l’autore
rino. propone una lettura dell’opera di due
Etica e politica fra i più noti filosofi viventi, mostrando
in Charles Taylor l’attualità della critica “comunitarista”
e Alasdair Macintyre al liberalismo. Riconsiderando temi
quali modernità, secolarizzazione, di-
ritti e intersoggettività attraverso l’ottica
di Charles Taylor e Alasdair MacIntyre
si individuano i limiti della pratica poli-
tica liberale (e, seppur indirettamente,
neoliberale) e si avanza la proposta di
un modello alternativo che ha al suo
centro l’idea del bene comune, come
mezzo costitutivo per la vita buona di

aA
ciascun individuo.

aA aAaAaAaAaAaAaAaA ccademia aA
university
aAccademia University Press press

Gianluca Cavallo
ISBN 978-88-99200-26-8

9 788899 200268

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