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Il Cavaliere Di Bronzo - Puskin

Il cavaliere di bronzo scritto nel 1833 e pubblicato nel 1841 da Aleksàndr Sergeevič
Puškin, è un poema narrativo sulla statua equestre di Pietro il Grande a San
Pietroburgo.

Diviso in tre parti, di cui la prima è il proemio.

Nel proemio viene elogiata la natura della creazione della nuova capitale russa,
Pietroburgo, vista come una "finestra sull' Europa" fondata da Pietro il Grande per
essere un baluardo difensivo da cui tenere sotto controllo l'Europa, non solo dal punto
di vista militare ma anche, e forse soprattutto, da quello culturale. E' una vera e
propria ode a a Pietroburgo, un’ode al genio di Pietro .La trasformazione portentosa
dell’oscura costa finnica nel miracolo della terra settentrionale, nella forza vivida e
festosa della nuova capitale. Alla portentosa bellezza della nuova città, della nuova
Russia, corrisponde la straordinaria bellezza del verso : sonora, limpida, che resta
impressa per sempre. Il tema poetico dell’Introduzione è la vittoria.

Nella prima parte viene presentato Eugenio, un uomo discendente da una casata
una volta in auge e adesso decaduta, senza nessun genio particolare e con una vita
mediocre, lamentoso nei confronti del proprio destino, attaccato alla vita solo in
prospettiva della sua speranza, il suo "sogno", una ragazza, Paraša, e la sua vedova
madre. È il cosiddetto piccolo uomo, senza ambizioni se non quelle di avere una
stabile vita. Per tutta la notte la Neva, il fiume di Pietroburgo, lotta con le forze
esterne del mare, che però alla fine ha ragione delle sue difese e invade la città, che
resta in balia della distruzione per una notte intera. Una volta terminata la furia della
tempesta, la città torna alla normalità, con il freddo popolo indifferente agli
accadimenti e pronto a portare avanti la quotidianità senza troppi patemi. Il «triste
racconto» della sciagura, dell’inondazione, dell’impiegatuccio la cui vita viene
distrutta dall’inondazione. La descrizione della piena costituisce l’apice della
narrazione.

Nella seconda parte, però, il «povero Evgenij» getta sul fondatore della città la colpa
della morte della fidanzata, lancia una sfida alla sua statua (appunto il Cavaliere
di bronzo) e diventa vittima della persecuzione da parte della statua stessa che
d’un tratto prende vita. La statua insegue il protagonista, non si capisce se solo
nella sua coscienza ottenebrata o nella realtà, la cosa resta imprecisata. La narrazione
termina con la morte del protagonista che ha perso la ragione:«seppellirono il suo
cadavere per amor di Dio».Questo l’ultimo verso del poema, che richiama
ironicamente il sogno del «povero Evgenij», il protagonista:«e i nipoti ci
seppelliranno».Può essere che il destino di Evgenij sia la risposta alla creazione
storica di Pietro, sia cioè il giudizio su colui che ha creato una città condannata? Il
nucleo di questa enigmaticità, penso, sta proprio nell’inafferrabilità dell’idea su cui
poggia il conflitto centrale del soggetto. Cosa si nasconde dietro le figure di Pietro e
di Evgenij, in che modo si collega a questi due personaggi così incommensurabili la
forza elementare dell’inondazione, cosa ne provoca lo scontro e come si spiega lo
scioglimento, in cosa sta la «morale»? Pietro è il simbolo della monarchia e del
dispotismo, Evgenij è un borghese. Dunque, nel Cavaliere di bronzo agiscono due
temi: convenzionalmente parlando, c’è il «Tema di Pietro» e il «Tema di Evgenij».

San Pietroburgo è la città voluta dallo zar Pietro il Grande e da lui fondata trecento
anni fa sul Mar Baltico, su quella foce del fiume Nevà che costituiva l’unico sbocco
settentrionale sul mare, ottenuto dai Russi dopo secoli di guerre. È costruita secondo
schemi, volontà e progetti precisi, per dare un impulso europeo e occidentale alla
Russia, contro il volto asiatico che costituisce da sempre l’altra metà dell’anima
russa, col quale dà vita a quel contrasto intestino che è tipico della Russia e che non
finirà mai. Ma l’enorme potere dello zar, che sposta la capitale da Mosca alla foce di
un fiume nordico, soggetto ad alluvioni ad ogni primavera, nulla può contro la natura;
lo afferma esplicitamente lo stesso Pietro che a tratti Puškin fa parlare nel poema.
La costruzione di San Pietroburgo costrinse al lavoro in condizioni impossibili
migliaia di uomini e non solo: anche viverci, a costruzione ultimata, non doveva
essere semplice per il popolo, che ad ogni alluvione rischiava di perdere la casa, i
negozi e gli averi. L’alluvione è l’imprevisto prevedibile, di fronte alla cui evidenza
l’ottusità del potere è distratta e cieca perché a rimetterci è sempre il suddito. Tutto
ciò che appariva bello e solido, così come viene presentato nel proemio, è spazzato
via dall’imprevisto della storia, che in un attimo distrugge gli schemi, i bastioni, le
finte garanzie del potere. In questa lotta la persona, per Puškin, è schiacciata e
distrutta. Il romantico e neoclassico, byroniano e shakespeariano Puškin, che si
aggrappa poeticamente alle forze dell’individuo e della natura, ha una visione tragica
del destino della persona di fronte alla violenta e gigantesca volontà del potere.

Anche di questo Il cavaliere di bronzo è efficace ed affascinante metafora. È la


questione eterna e così drammaticamente attuale del rapporto tra l’uomo e il potere.
C’è un punto preciso nel poema da cui inizia la disgrazia dell’uomo Evgenij: quello
in cui comincia a far progetti, a sistemare il futuro suo e della sua fidanzata. Si noti
che è l’unico punto in cui Puskin fa parlare il protagonista e da lì inizia la sua
tragedia.
Quando la persona è sconfitta? Quando assomiglia al potere.
Quando come quello pretende di ingabbiare la vita e di schematizzare il tempo. E nel
farlo afferma, come il potere, la sua autosufficienza e autoreferenzialità. La fiducia di
Evgenij nelle sue forze e nelle sue capacità viene d’un colpo spazzata via
dall’alluvione e lui muore. Il potere lo ha reso presuntuoso e, intrinsecamente, solo d
fronte all’imprevisto. Il rapporto che s’instaura tra la statua di bronzo di Pietro il
Grande e Evgenij ormai impazzito è gotico e mostruoso, è un non-rapporto tra due
solitudini, tra due autoreferenzialità che il mistero degli avvenimenti naturali
distrugge. Il potere, secondo Puškin, ci fa fuori facendoci credere capaci di guidare il
nostro destino con le nostre forze solitarie e perdenti.

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