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Quodlibet 78

Giorgio Agamben

A che punto siamo?


L’epidemia come politica

Quodlibet
© 2020 Quodlibet srl
Prima edizione in formato ebook luglio 2020
Macerata, via Giuseppe e Bartolomeo Mozzi, 23
www.quodlibet.it

ISBN 978-88-229-0539-0
e-ISBN 978-88-229-1105-6
Indice

Avvertenza
1. L’invenzione di un’epidemia
2. Contagio
3. Chiarimenti
4. A che punto siamo?
5. Riflessioni sulla peste
6. L’epidemia mostra che lo stato di eccezione è diventato la regola
7. Distanziamento sociale
8. Una domanda
9. La nuda vita
10. Nuove riflessioni
11. Sul vero e sul falso
12. La medicina come religione
13. Biosicurezza e politica
14. Polemos epidemios
15. Requiem per gli studenti
16. Il diritto e la vita
A che punto siamo?
L’epidemia come politica
Quando non diversamente indicato, i testi qui raccolti sono stati pubblicati per la prima volta
nella rubrica «Una voce» del sito quodlibet.it.
Avvertenza

La nave sta affondando e noi discutiamo sul suo carico.


Girolamo

Ho raccolto qui i testi che ho scritto durante i mesi dello stato di


eccezione per l’emergenza sanitaria. Si tratta di interventi puntuali, a
volte molto brevi, che cercano di riflettere sulle conseguenze etiche
e politiche della cosiddetta pandemia e, insieme, di definire la
trasformazione dei paradigmi politici che i provvedimenti di
eccezione andavano disegnando.
Trascorsi ormai più di quattro mesi dall’inizio dell’emergenza è,
infatti, tempo di considerare gli eventi di cui siamo stati testimoni in
una prospettiva storica più ampia. Se i poteri che governano il
mondo hanno deciso di cogliere il pretesto di una pandemia – a
questo punto non importa se vera o simulata – per trasformare da
cima a fondo i paradigmi del loro governo degli uomini e delle cose,
ciò significa che quei modelli erano ai loro occhi in progressivo,
inesorabile declino e non erano ormai più adeguati alle nuove
esigenze. Come, di fronte alla crisi che sconvolse l’Impero nel iii
secolo, Diocleziano e poi Costantino intrapresero quelle radicali
riforme delle strutture amministrative, militari ed economiche che
dovevano culminare nell’autocrazia bizantina, così i poteri dominanti
hanno deciso di abbandonare senza rimpianti i paradigmi delle
democrazie borghesi, coi loro diritti, i loro parlamenti e le loro
costituzioni, per sostituirle con nuovi dispositivi di cui possiamo
appena intravedere il disegno, probabilmente non ancora del tutto
chiaro nemmeno per coloro che ne stanno tracciando le linee.
Quel che definisce, però, la Grande Trasformazione che essi
cercano di imporre è che lo strumento che l’ha resa formalmente
possibile non è un nuovo canone legislativo, ma lo stato di
eccezione, cioè la pura e semplice sospensione delle garanzie
costituzionali. In questo essa presenta dei punti di contatto con
quanto avvenne in Germania nel 1933, quando il neo cancelliere
Adolf Hitler, senza abolire formalmente la costituzione di Weimar,
dichiarò uno stato di eccezione che durò per dodici anni e che di
fatto vanificò il dettato costituzionale apparentemente mantenuto in
vigore. Mentre nella Germania nazista fu necessario a questo fine il
dispiegamento di un apparato ideologico esplicitamente totalitario, la
trasformazione di cui siamo testimoni opera attraverso l’istaurazione
di un puro e semplice terrore sanitario e di una sorta di religione
della salute. Quello che nella tradizione delle democrazie borghesi
era un diritto del cittadino alla salute si rovescia, senza che la gente
sembri accorgersene, in un’obbligazione giuridico-religiosa che deve
essere adempiuta a qualsiasi prezzo. E quanto alto possa essere
questo prezzo, abbiamo avuto ampiamente modo di misurarlo e
continueremo presumibilmente a farlo ogni volta che il governo lo
riterrà nuovamente necessario.
Possiamo chiamare «biosicurezza» il dispositivo di governo che
risulta dalla congiunzione fra la nuova religione della salute e il
potere statale col suo stato di eccezione. Esso è probabilmente il più
efficace fra quanto la storia dell’Occidente abbia finora conosciuto.
L’esperienza ha mostrato infatti che una volta che in questione sia
una minaccia alla salute gli uomini sembrano disposti ad accettare
limitazioni della libertà che non si erano mai sognati di poter
tollerare, né durante le due guerre mondiali né sotto le dittature
totalitarie. Lo stato di eccezione, che è stato prolungato fino al 31
gennaio 2021, sarà ricordato come la più lunga sospensione della
legalità nella storia del Paese, attuata senza che né i cittadini né,
soprattutto, le istituzioni deputate abbiano avuto nulla da obiettare.
Dopo l’esempio cinese, proprio l’Italia è stata per l’Occidente il
laboratorio in cui la nuova tecnica di governo è stata sperimentata
nella sua forma più estrema. Ed è probabile che quando gli storici
futuri avranno chiarito che cosa era veramente in gioco nella
pandemia, questo periodo apparirà come uno dei momenti più
vergognosi della storia italiana e coloro che lo hanno guidato e
governato come degli irresponsabili privi di ogni scrupolo etico.
Se il dispositivo giuridico-politico della Grande Trasformazione è lo
stato di eccezione e quello religioso la scienza, sul piano dei rapporti
sociali essa ha affidato la sua efficacia alla tecnologia digitale, che,
com’è ormai evidente, fa sistema con il «distanziamento sociale»
che definisce la nuova struttura delle relazioni fra gli uomini. Le
relazioni umane dovranno evitare in ogni occasione per quanto
possibile la presenza fisica e svolgersi, come già di fatto spesso
avveniva, attraverso dispositivi digitali sempre più efficaci e
pervasivi. La nuova forma della relazione sociale è la connessione e
chi non è connesso è tendenzialmente escluso da ogni rapporto e
condannato alla marginalità.
Ciò che costituisce la forza della trasformazione in corso è anche,
come spesso avviene, la sua debolezza. La diffusione del terrore
sanitario ha avuto bisogno di un apparato mediatico concorde e
senza faglie, che non sarà facile mantenere intatto. La religione
medica, come ogni religione, ha le sue eresie e i suoi dissensi e già
da più parti autorevoli voci hanno contestato la realtà e la gravità
dell’epidemia, che non potranno essere indefinitamente sostenute
dalla quotidiana diffusione di cifre prive di ogni consistenza
scientifica. Ed è probabile che i primi a esserne consapevoli siano
proprio i poteri dominanti, che, se non presentissero di essere in
pericolo, non avrebbero certo ricorso a dispositivi così estremi e
disumani. Ormai da decenni è in atto una progressiva perdita di
legittimità dei poteri istituzionali, che questi non hanno saputo
arginare che attraverso la produzione di una perpetua emergenza e
il bisogno di sicurezza che essa genera. Per quanto tempo ancora e
secondo quali modalità potrà essere prolungato l’attuale stato di
eccezione? Quel che è certo è che saranno necessarie nuove forme
di resistenza, a cui dovranno impegnarsi senza riserve coloro che
non rinunciano a pensare una politica a venire, che non avrà né la
forma obsoleta delle democrazie borghesi né quella del dispotismo
tecnologico-sanitario che le sta sostituendo.
1.
L’invenzione di un’epidemia
«il manifesto», 26 febbraio 2020

Di fronte alle frenetiche, irrazionali e del tutto immotivate misure di


emergenza per una supposta epidemia dovuta al virus corona,
occorre partire dalle dichiarazioni del CNR, secondo le quali non
solo «non c’è un’epidemia di SARS-CoV2 in Italia», ma comunque
«l’infezione, dai dati epidemiologici oggi disponibili su decine di
migliaia di casi, causa sintomi lievi/moderati (una specie di influenza)
nell’80-90% dei casi. Nel 10-15% può svilupparsi una polmonite, il
cui decorso è però benigno in assoluta maggioranza. Si calcola che
solo il 4% dei pazienti richieda ricovero in terapia intensiva».
Se questa è la situazione reale, perché i media e le autorità si
adoperano per diffondere un clima di panico, provocando un vero e
proprio stato di eccezione, con gravi limitazioni dei movimenti e una
sospensione del normale funzionamento delle condizioni di vita e di
lavoro in intere regioni?
Due fattori possono concorrere a spiegare un comportamento così
sproporzionato. Innanzitutto si manifesta ancora una volta la
tendenza crescente a usare lo stato di eccezione come paradigma
normale di governo. Il decreto-legge subito approvato dal governo
«per ragioni di igiene e di sicurezza pubblica» si risolve infatti in una
vera e propria militarizzazione «dei comuni e delle aree nei quali
risulta positiva almeno una persona per la quale non si conosce la
fonte di trasmissione o comunque nei quali vi è un caso non
riconducibile ad una persona proveniente da un’area già interessata
dal contagio di virus». Una formula così vaga e indeterminata
permetterà di estendere rapidamente lo stato di eccezione in tutte le
regioni, poiché è quasi impossibile che degli altri casi non si
verifichino altrove. Si considerino le gravi limitazioni della libertà
previste dal decreto: a) divieto di allontanamento dal comune o
dall’area interessata da parte di tutti gli individui comunque presenti
nel comune o nell’area; b) divieto di accesso al comune o all’area
interessata; c) sospensione di manifestazioni o iniziative di qualsiasi
natura, di eventi e di ogni forma di riunione in un luogo pubblico o
privato, anche di carattere culturale, ludico, sportivo e religioso,
anche se svolti in luoghi chiusi aperti al pubblico; d) sospensione dei
servizi educativi dell’infanzia e delle scuole di ogni ordine e grado,
nonché della frequenza delle attività scolastiche e di formazione
superiore, salvo le attività formative svolte a distanza; e)
sospensione dei servizi di apertura al pubblico dei musei e degli altri
istituti e luoghi della cultura di cui all’articolo 101 del codice dei beni
culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo 22 gennaio
2004, n. 42, nonché l’efficacia delle disposizioni regolamentari
sull’accesso libero e gratuito a tali istituti e luoghi; f) sospensione di
ogni viaggio d’istruzione, sia sul territorio nazionale sia estero; g)
sospensione delle procedure concorsuali e delle attività degli uffici
pubblici, fatta salva l’erogazione dei servizi essenziali e di pubblica
utilità; h) applicazione della misura della quarantena con
sorveglianza attiva fra gli individui che hanno avuto contatti stretti
con casi confermati di malattia infettiva diffusa.
La sproporzione di fronte a quella che secondo il CNR è una
normale influenza, non molto dissimile da quelle ogni anno ricorrenti,
salta agli occhi. Si direbbe che, esaurito il terrorismo come causa di
provvedimenti d’eccezione, l’invenzione di un’epidemia possa offrire
il pretesto ideale per ampliarli oltre ogni limite.
L’altro fattore, non meno inquietante, è la condizione di insicurezza e
paura che in questi anni si è evidentemente diffusa nelle coscienze
degli individui e che si traduce in un vero e proprio bisogno di stati di
panico collettivo, al quale l’epidemia offre ancora una volta il pretesto
ideale. Si direbbe che una gigantesca onda di paura, causata dal più
piccolo essere esistente, stia percorrendo l’umanità, e i potenti del
mondo la guidano e orientano secondo i loro fini. Così, in un
perverso circolo vizioso, la limitazione della libertà imposta dai
governi viene accettata in nome di un desiderio di sicurezza che è
stato indotto dagli stessi governi che ora intervengono per
soddisfarlo.
2.
Contagio
11 marzo 2020

L’untore! dagli! dagli! dagli all’untore!


Alessandro Manzoni, I promessi sposi

Una delle conseguenze più disumane del panico che si cerca con
ogni mezzo di diffondere in Italia in occasione della cosiddetta
epidemia del coronavirus è nella stessa idea di contagio, che è alla
base delle eccezionali misure di emergenza adottate dal governo.
L’idea, che era estranea alla medicina ippocratica, ha il suo primo
inconsapevole precursore durante le pestilenze che fra il 1500 e il
1600 devastano alcune città italiane. Si tratta della figura dell’untore,
immortalata da Manzoni tanto nel suo romanzo che nel saggio sulla
Storia della colonna infame. Una «grida» milanese per la peste del
1576 li descrive in questo modo, invitando i cittadini a denunciarli:

Essendo venuto a notizia del governatore che alcune persone con


fioco zelo di carità e per mettere terrore e spavento al popolo ed
agli abitatori di questa città di Milano, e per eccitarli a qualche
tumulto, vanno ungendo con onti, che dicono pestiferi e contagiosi,
le porte e i catenacci delle case e le cantonate delle contrade di
detta città e altri luoghi dello Stato, sotto pretesto di portare la
peste al privato ed al pubblico, dal che risultano molti
inconvenienti, e non poca alterazione tra le genti, maggiormente a
quei che facilmente si persuadono a credere tali cose, si fa
intendere per parte sua a ciascuna persona di qual si voglia
qualità, stato, grado e conditione, che nel termine di quaranta
giorni metterà in chiaro la persona o persone ch’hanno favorito,
aiutato, o saputo di tale insolenza, se gli daranno cinquecento
scuti…

Fatte le debite differenze, le recenti disposizioni (prese dal governo


con dei decreti che ci piacerebbe sperare – ma è un’illusione – che
non fossero confermati dal parlamento in leggi nei termini previsti)
trasformano di fatto ogni individuo in un potenziale untore,
esattamente come quelle sul terrorismo consideravano di fatto e di
diritto ogni cittadino come un terrorista in potenza. L’analogia è così
chiara che il potenziale untore che non si attiene alle prescrizioni è
punito con la prigione. Particolarmente invisa è la figura del portatore
sano o precoce, che contagia una molteplicità di individui senza che
ci si possa difendere da lui, come ci si poteva difendere dall’untore.
Ancora più tristi delle limitazioni delle libertà implicite nelle
disposizioni è, a mio avviso, la degenerazione dei rapporti fra gli
uomini che esse possono produrre. L’altro uomo, chiunque egli sia,
anche una persona cara, non dev’essere né avvicinato né toccato e
occorre anzi mettere fra noi e lui una distanza che secondo alcuni è
di un metro, ma secondo gli ultimi suggerimenti dei cosiddetti esperti
dovrebbe essere di 4,5 metri (interessanti quei cinquanta
centimetri!). Il nostro prossimo è stato abolito. È possibile, data
l’inconsistenza etica dei nostri governanti, che queste disposizioni
siano dettate in chi le ha prese dalla stessa paura che esse
intendono provocare, ma è difficile non pensare che la situazione
che esse creano è esattamente quella che chi ci governa ha più
volte cercato di realizzare: che si chiudano una buona volta le
università e le scuole e si facciano lezioni solo online, che si smetta
di riunirsi e di parlare per ragioni politiche o culturali e ci si scambino
soltanto messaggi digitali, che ovunque è possibile le macchine
sostituiscano ogni contatto – ogni contagio – fra gli esseri umani.
3.
Chiarimenti
17 marzo 2020

Un giornalista italiano si è applicato, secondo il buon uso della sua


professione, a distorcere e falsificare le mie considerazioni sulla
confusione etica in cui l’epidemia sta gettando il Paese, in cui non si
ha più riguardo nemmeno per i morti. Così come non mette conto di
citare il suo nome, così nemmeno vale la pena di rettificare le
scontate manipolazioni. Chi vuole può leggere il mio testo Contagio
sul sito della casa editrice Quodlibet. Piuttosto pubblico qui delle
altre riflessioni, che, malgrado la loro chiarezza, saranno
presumibilmente anch’esse falsificate.

La paura è una cattiva consigliera, ma fa apparire molte cose che si


fingeva di non vedere. La prima cosa che l’ondata di panico che ha
paralizzato il Paese mostra con evidenza è che la nostra società non
crede più in nulla se non nella nuda vita. È evidente che gli italiani
sono disposti a sacrificare praticamente tutto, le condizioni normali di
vita, i rapporti sociali, il lavoro, perfino le amicizie, gli affetti e le
convinzioni religiose e politiche a un pericolo di ammalarsi che,
almeno per ora, non è statisticamente nemmeno così grave. La nuda
vita – e la paura di perderla – non è qualcosa che unisce gli uomini,
ma li acceca e separa. Gli altri esseri umani, come nella pestilenza
descritta da Manzoni, sono ora visti soltanto come possibili untori
che occorre a ogni costo evitare e da cui bisogna tenersi alla
distanza almeno di un metro. I morti – i nostri morti – non hanno
diritto a un funerale e non è chiaro che cosa avvenga dei cadaveri
delle persone che ci sono care. Il nostro prossimo è stato cancellato
ed è curioso che le chiese tacciano in proposito. Che cosa diventano
i rapporti umani in un Paese che si abitua a vivere in questo modo
non si sa per quanto tempo? E che cosa è una società che non ha
altro valore che la sopravvivenza?
L’altra cosa, non meno inquietante della prima, che l’epidemia fa
apparire con chiarezza è che lo stato di eccezione, a cui i governi ci
hanno abituati da tempo, è veramente diventato la condizione
normale. Ci sono state in passato epidemie più gravi, ma nessuno
aveva mai pensato a dichiarare per questo uno stato di emergenza
come quello attuale, che ci impedisce perfino di muoverci. Gli uomini
si sono così abituati a vivere in condizioni di crisi perenne e di
perenne emergenza che non sembrano accorgersi che la loro vita è
stata ridotta a una condizione puramente biologica e ha perso ogni
dimensione non solo sociale e politica, ma persino umana e affettiva.
Una società che vive in un perenne stato di emergenza non può
essere una società libera. Noi di fatto viviamo in una società che ha
sacrificato la libertà alle cosiddette «ragioni di sicurezza» e si è
condannata per questo a vivere in un perenne stato di paura e di
insicurezza.
Non stupisce che per il virus si parli di guerra. I provvedimenti di
emergenza ci obbligano di fatto a vivere in condizioni di coprifuoco.
Ma una guerra con un nemico invisibile che può annidarsi in ciascun
altro uomo è la più assurda delle guerre. È, in verità, una guerra
civile. Il nemico non è fuori, è dentro di noi.
Quello che preoccupa è non tanto o non solo il presente, ma il dopo.
Così come le guerre hanno lasciato in eredità alla pace una serie di
tecnologie nefaste, dai fili spinati alle centrali nucleari, così è molto
probabile che si cercherà di continuare anche dopo l’emergenza
sanitaria gli esperimenti che i governi non erano riusciti prima a
realizzare: i dispositivi digitali si sostituiranno così nelle scuole, nelle
università e in ogni luogo pubblico alla presenza fisica, che resterà
confinata, con le dovute precauzioni, nella sfera privata e nel chiuso
delle pareti domestiche. In questione è, cioè, nulla di meno che la
pura e semplice abolizione di ogni spazio pubblico.
4.
A che punto siamo?
20 marzo 2020

Che cosa significa vivere nella situazione di emergenza in cui ci


troviamo? Significa, certo, restare a casa, ma anche non lasciarsi
prendere dal panico che le autorità e i media diffondono con ogni
mezzo e ricordarsi che l’altro uomo non è soltanto un untore e un
possibile agente di contagio, ma innanzitutto il nostro prossimo, cui
dobbiamo amore e soccorso. Significa, certo, restare a casa, ma
anche restare lucidi e chiedersi se l’emergenza militarizzata che è
stata proclamata nel Paese non sia, fra le altre cose, anche un modo
per scaricare sui cittadini la gravissima responsabilità in cui i governi
sono incorsi smantellando il sistema sanitario. Significa, certo,
restare a casa, ma anche far sentire la propria voce e chiedere che
agli ospedali pubblici siano restituiti i mezzi di cui sono stati privati e
ricordare ai giudici che aver distrutto il sistema sanitario nazionale è
un crimine infinitamente più grave che uscire di casa senza il modulo
di autocertificazione.
Significa, infine, chiedersi che cosa faremo, come riprenderemo a
vivere quando l’emergenza sarà passata, perché il Paese ha
bisogno di tornare a vivere, indipendentemente dal parere tutt’altro
che concorde dei virologi e degli esperti improvvisati. Ma una cosa è
certa: non potremo semplicemente ricominciare a fare tutto come
prima, non potremo, come abbiamo fatto finora, fingere di non
vedere la situazione estrema in cui la religione del denaro e la cecità
degli amministratori ci hanno condotto. Se l’esperienza che abbiamo
attraversato è servita a qualcosa, noi dovremo reimparare molte
cose che abbiamo dimenticato. Dovremo innanzitutto guardare in
modo diverso la terra in cui viviamo e le città in cui abitiamo.
Dovremo chiederci se ha senso, come sicuramente ci diranno di
fare, ricominciare a acquistare le inutili merci che la pubblicità
cercherà come prima di imporci, e se non sia forse più utile esser in
grado di provvedere da noi almeno ad alcune elementari necessità,
invece di dipendere dal supermarket per qualsiasi bisogno. Dovremo
chiederci se è giusto salire nuovamente su aerei che ci condurranno
per le vacanze in luoghi remoti e se non sia forse più urgente
imparare nuovamente a abitare i luoghi in cui viviamo, a guardarli
con occhi più attenti. Perché noi abbiamo perso la capacità di
abitare. Abbiamo accettato che le nostre città e i nostri borghi
fossero trasformati in parchi di divertimento per i turisti, e ora che
l’epidemia ha fatto scomparire i turisti e le città che avevano
rinunciato a ogni altra forma di vita sono ridotte a non-luoghi
spettrali, dobbiamo capire che era una scelta sbagliata, come quasi
tutte le scelte che la religione del denaro e la cecità degli
amministratori ci hanno suggerito di fare.
Dovremo, in una parola, porci seriamente la sola domanda che
conta, che non è, come ripetono da secoli i falsi filosofi, «da dove
veniamo» o «dove andiamo?», ma semplicemente: «a che punto
siamo?». È questa la domanda a cui dovremo provare a rispondere,
come possiamo e dovunque siamo, ma in ogni caso con la nostra
vita e non soltanto con le parole.

(Testo richiesto e poi rifiutato dal «Corriere della sera»)


5.
Riflessioni sulla peste
27 marzo 2020

Le riflessioni che seguono non riguardano l’epidemia, ma ciò che


possiamo capire dalle reazioni degli uomini ad essa. Si tratta, cioè,
di riflettere sulla facilità con cui un’intera società ha accettato di
sentirsi appestata, di isolarsi in casa e di sospendere le sue normali
condizioni di vita, i suoi rapporti di lavoro, di amicizia, di amore e
perfino le sue convinzioni religiose e politiche. Perché non ci sono
state, come pure era possibile immaginare e come di solito avviene
in questi casi, proteste e opposizioni? L’ipotesi che vorrei suggerire è
che in qualche modo, sia pure inconsapevolmente, la peste c’era
già, che, evidentemente, le condizioni di vita della gente erano
diventate tali, che è bastato un segno improvviso perché esse
apparissero per quello che erano – cioè intollerabili, come una peste
appunto. E questo, in un certo senso, è il solo dato positivo che si
possa trarre dalla situazione presente: è possibile che, più tardi, la
gente cominci a chiedersi se il modo in cui viveva era giusto.
E ciò su cui occorre non meno riflettere è il bisogno di religione che
la situazione fa apparire. Ne è indizio, nel discorso martellante dei
media, la terminologia presa in prestito dal vocabolario escatologico
che, per descrivere il fenomeno, ricorre ossessivamente, soprattutto
sulla stampa americana, alla parola «apocalisse» e evoca, spesso
esplicitamente, la fine del mondo. È come se il bisogno religioso, che
la Chiesa non è più in grado di soddisfare, cercasse a tastoni un
altro luogo in cui consistere e lo trovasse in quella che è ormai di
fatto diventata la religione del nostro tempo: la scienza. Questa,
come ogni religione, può produrre superstizione e paura o,
comunque, essere usata per diffonderle. Mai come oggi si è assistito
allo spettacolo, tipico delle religioni nei momenti di crisi, di pareri e
prescrizioni diversi e contraddittori, che vanno dalla posizione eretica
minoritaria (pure rappresentata da scienziati prestigiosi) di chi nega
la gravità del fenomeno al discorso ortodosso dominante che
l’afferma e, tuttavia, diverge spesso radicalmente quanto alle
modalità di affrontarlo. E, come sempre in questi casi, alcuni esperti
o sedicenti tali riescono ad assicurarsi il favore del monarca che,
come ai tempi delle dispute religiose che dividevano la cristianità,
prende partito secondo i propri interessi per una corrente o per l’altra
e impone le sue misure.
Un’altra cosa che dà da pensare è l’evidente crollo di ogni
convinzione e fede comune. Si direbbe che gli uomini non credono
più a nulla – tranne che alla nuda esistenza biologica che occorre a
qualunque costo salvare. Ma sulla paura di perdere la vita si può
fondare solo una tirannia, solo il mostruoso Leviatano con la sua
spada sguainata.
Per questo – una volta che l’emergenza, la peste, sarà dichiarata
finita, se lo sarà – non credo che, almeno per chi ha conservato un
minimo di lucidità, sarà possibile tornare a vivere come prima. E
questa è forse oggi la cosa più disperante – anche se, com’è stato
detto, «solo per chi non ha più speranza è stata data la speranza».
6.
L’epidemia mostra che lo stato di eccezione è diventato la regola
Intervista con Nicolas Truong, «Le Monde», 28 marzo 2020

In un testo pubblicato sul «manifesto», Lei ha scritto che la


pandemia del Covid-19 era un’epidemia supposta, nient’altro che
una specie di influenza. Tenuto conto del numero delle vittime e
della rapidità di propagazione del virus, in particolare in Italia,
rimpiange queste affermazioni?

Io non sono né virologo né medico e nell’articolo in questione non


facevo che citare testualmente quelle che erano in quel momento
(circa un mese fa) le opinioni del Consiglio Nazionale delle Ricerche.
Del resto, in un video che chiunque può vedere, Wolfgang Wodarg,
che è stato presidente della commissione per la salute del Consiglio
d’Europa, va ben oltre e afferma che oggi non stiamo misurando
l’incidenza della malattia causata dal virus, ma l’attività degli
specialisti che ne fanno oggetto delle loro ricerche. Ma non è mia
intenzione entrare nel dibattito fra gli scienziati sull’epidemia, mi
interessano le conseguenze etiche e politiche estremamente gravi
che ne derivano.

«Si direbbe che esaurito il terrorismo come causa di provvedimenti


d’eccezione, l’invenzione di un’epidemia possa offrire il pretesto
ideale per ampliarli oltre ogni limite». In che senso si tratta di
un’invenzione? Il terrorismo come un’epidemia, pur essendo reali,
possono portare a delle conseguenze politiche inaccettabili?

Quando si parla di invenzione in un ambito politico, occorre non


dimenticare che questo non deve essere inteso in un senso
unicamente soggettivo. Gli storici sanno che vi sono delle
cospirazioni per così dire oggettive, che sembrano funzionare come
tali senza che siano dirette da un soggetto identificabile. Come
Foucault ha mostrato prima di me, i governi che si servono del
paradigma della sicurezza non funzionano necessariamente
producendo la situazione di eccezione, ma sfruttandola e dirigendola
una volta che essa si è prodotta. Non sono certo il solo a pensare
che, per un governo totalitario come quello cinese, l’epidemia è stato
lo strumento ideale per verificare la possibilità di isolare e controllare
un’intera regione. E che in Europa ci si possa riferire alla Cina come
a un modello da seguire, ciò mostra soltanto il grado di
irresponsabilità politica in cui la paura ci ha gettato. E bisognerebbe
interrogarsi sul fatto alquanto strano che il governo cinese dichiari
chiusa l’epidemia quando lo ritiene conveniente.

Perché secondo lei lo stato di eccezione è ingiustificato, se il


confinamento appare agli occhi degli scienziati come il solo modo di
arginare la propagazione del virus?

Nella situazione di confusione babelica dei linguaggi che è la nostra,


ogni categoria persegue le sue ragioni particolari senza tener conto
di quelle degli altri. Per il virologo, il nemico da combattere è il virus,
per il medico il solo obiettivo è la guarigione, per il governo si tratta
di mantenere il controllo ed è possibile che anch’io faccia lo stesso
quando ricordo che il prezzo da pagare non deve essere troppo alto.
Ci sono state in Europa epidemie molto più gravi, ma nessuno ha
mai pensato a dichiarare per questo uno stato di eccezione come
quello che in Italia e in Francia ci impedisce praticamente di vivere.
Se si tiene conto del fatto che la malattia non ha toccato per ora in
Italia che meno dell’uno per mille della popolazione, ci si domanda
che cosa si farà se l’epidemia dovesse aggravarsi. La paura è un
cattivo consigliere e non credo che trasformare il Paese in un Paese
appestato, in cui ciascuno guarda ai suoi simili come a un’occasione
di contagio, sia veramente la soluzione giusta. La falsa logica è
sempre la stessa: come di fronte al terrorismo si affermava che
bisognava sopprimere la libertà per difenderla, così ora si dice che
bisogna sospendere la vita per proteggerla.

Stiamo forse assistendo alla messa in atto di uno stato di eccezione


permanente?

L’epidemia ha mostrato chiaramente che lo stato di eccezione, col


quale i governi ci avevano da tempo familiarizzato, è divenuto la
condizione normale. Gli uomini si sono talmente abituati a vivere in
uno stato di crisi permanente che non sembrano accorgersi che la
loro vita è stata ridotta a una condizione puramente biologica, che ha
perduto non solo la sua dimensione politica, ma anche ogni
dimensione semplicemente umana. Una società che vive in uno
stato di emergenza permanente non può essere una società libera.
Noi viviamo oggi in una società che ha sacrificato la sua libertà alle
cosiddette «ragioni di sicurezza» e in questo modo si è condannata
a vivere in uno stato di paura e di insicurezza permanente.

In che senso noi viviamo oggi una crisi «biopolitica»?

La politica moderna è da cima a fondo una biopolitica, in cui la posta


in gioco è in ultima analisi la vita biologica come tale. Il fatto nuovo è
che la salute diventa un obbligo giuridico da adempiere a qualsiasi
costo.

Perché il problema non è la gravità della malattia, ma il crollo di ogni


etica e di ogni politica che essa ha prodotto?

La paura fa apparire molte cose che si fingeva di non vedere. La


prima è che la nostra società non crede più in nient’altro che nella
nuda vita. È per me evidente che gli italiani si sono dimostrati
disposti a sacrificare praticamente tutto, le loro condizioni normali di
vita, i rapporti sociali, il lavoro e persino le amicizie, gli affetti e le
convinzioni politiche e religiose al rischio di contagiarsi.
La nuda vita non è qualcosa che unisce gli uomini, ma piuttosto li
acceca e separa. Gli altri uomini, come nella peste descritta da
Manzoni nel suo romanzo, non sono più che degli untori, che devono
essere tenuti almeno a un metro di distanza e puniti se si avvicinano
troppo. Anche i morti – e questo è veramente barbaro – non hanno
diritto a un funerale e non è chiaro che cosa avvenga dei loro
cadaveri. Il nostro prossimo non esiste più ed è veramente
sconcertante che le due religioni che sembravano reggere
l’Occidente, il cristianesimo e il capitalismo, la religione di Cristo e la
religione del denaro, tacciano. Che ne è dei rapporti umani in un
Paese che si abitua a vivere in simili condizioni? Che cos’è una
società che crede soltanto nella sopravvivenza?
È uno spettacolo avvilente vedere un’intera società, messa di fronte
a un rischio del resto incerto, liquidare in blocco tutti i suoi valori etici
e politici. Quando tutto questo sarà passato, non credo che potrà
mai tornare allo stato normale.

Come sarà, secondo lei, il mondo dopo l’epidemia?

Quello che mi preoccupa non è solo il presente, ma quello che verrà


dopo. Come le guerre ci hanno lasciato in eredità una serie di
tecnologie nefaste, è più che probabile che, dopo la fine
dell’emergenza sanitaria, si cercherà di continuare gli esperimenti
che i governi non erano ancora riusciti a realizzare: si chiuderanno le
università agli studenti e i corsi si faranno online, si cesserà di
riunirsi per parlare insieme di questioni politiche o culturali e
dovunque sarà possibile i dispositivi digitali sostituiranno ogni
contatto – ogni contagio – fra gli esseri umani.
7.
Distanziamento sociale
6 aprile 2020

Non sappiamo dove la morte ci aspetta, aspettiamola ovunque. La meditazione


della morte è meditazione della libertà. Chi ha imparato a morire, ha disimparato a
servire. Saper morire ci libera di ogni soggezione e da ogni costrizione.
Michel de Montaigne

Poiché la storia ci insegna che ogni fenomeno sociale ha o può


avere delle implicazioni politiche, è opportuno registrare con
attenzione il nuovo concetto che ha fatto oggi il suo ingresso nel
lessico politico dell’Occidente: il «distanziamento sociale». Sebbene
il termine sia stato probabilmente prodotto come un eufemismo
rispetto alla crudezza del termine «confinamento» finora usato,
occorre chiedersi che cosa potrebbe essere un ordinamento politico
fondato su di esso. Ciò è tanto più urgente, in quanto non si tratta
soltanto di un’ipotesi puramente teorica, se è vero, come da più parti
si comincia a dire, che l’attuale emergenza sanitaria può essere
considerata come il laboratorio in cui si preparano i nuovi assetti
politici e sociali che attendono l’umanità.
Benché ci siano, come ogni volta accade, gli stolti che suggeriscono
che una tale situazione si può senz’altro considerare positiva e che
le nuove tecnologie digitali permettono da tempo di comunicare
felicemente a distanza, io non credo che una comunità fondata sul
«distanziamento sociale» sia umanamente e politicamente vivibile.
In ogni caso, quale che sia la prospettiva, mi sembra che è su
questo tema che dovremmo riflettere.
Una prima considerazione concerne la natura davvero singolare del
fenomeno che le misure di «distanziamento sociale» hanno prodotto.
Canetti, in quel capolavoro che è Massa e potere, definisce la massa
su cui il potere si fonda attraverso l’inversione della paura di essere
toccati. Mentre gli uomini temono di solito di esseri toccati
dall’estraneo e tutte le distanze che gli uomini istituiscono intorno a
sé nascono da questo timore, la massa è l’unica situazione in cui
tale paura si capovolge nel suo opposto.

Solo nella massa l’uomo può essere redento dal timore di essere
toccato… Dal momento in cui ci si abbandona alla massa, non si
teme di esserne toccati… Chiunque ci venga addosso è uguale a
noi, lo sentiamo come ci sentiamo noi stessi. D’improvviso, è come
se tutto accada all’interno di un unico corpo… Questo
capovolgimento della paura di essere toccati è peculiare della
massa. Il sollievo che si diffonde in essa raggiunge una misura
vistosa quanto più densa è appunto la massa.

Non so che cosa avrebbe pensato Canetti della nuova


fenomenologia della massa che ci troviamo di fronte: ciò che le
misure di distanziamento sociale e il panico hanno creato è
certamente una massa – ma una massa per così dire rovesciata,
formata da individui che si tengono a ogni costo a distanza l’uno
dall’altro. Una massa non densa, dunque, ma rarefatta e che,
tuttavia, è ancora una massa, se questa, come Canetti precisa poco
dopo, è definita dalla sua uniformità e dalla sua passività, nel senso
che «un movimento veramente libero non le sarebbe in alcun modo
possibile… essa attende, attende un capo, che dovrà esserle
mostrato».
Qualche pagina dopo, Canetti descrive la massa che si forma
mediante un divieto, «in cui molte persone riunite insieme vogliono
non fare più ciò che fino a quel momento avevano fatto come singoli.
Il divieto è improvviso: essi se lo impongono da soli… in ogni caso
esso incide con la massima forza. È categorico come un ordine; per
esso è tuttavia decisivo il carattere negativo».
È importante non lasciarsi sfuggire che una comunità fondata sul
distanziamento sociale non avrebbe a che fare, come si potrebbe
ingenuamente credere, con un individualismo spinto all’eccesso:
essa sarebbe, proprio al contrario, come quella che vediamo oggi
intorno a noi, una massa rarefatta e fondata su un divieto, ma,
proprio per questo, particolarmente compatta e passiva.
8.
Una domanda
13 aprile 2020

La peste segnò per la città l’inizio della corruzione… Nessuno era più disposto a
perseverare in quello che prima giudicava essere il bene, perché credeva che
poteva forse morire prima di raggiungerlo.
Tucidide, La guerra del Peloponneso, II, 53

Vorrei condividere con chi ne ha voglia una domanda su cui ormai


da più di un mese non cesso di riflettere. Com’è potuto avvenire che
un intero Paese sia senza accorgersene eticamente e politicamente
crollato di fronte a una malattia? Le parole che ho usato per
formulare questa domanda sono state una per una attentamente
valutate. La misura dell’abdicazione ai propri princìpi etici e politici è,
infatti, molto semplice: si tratta di chiedersi qual è il limite oltre il
quale non si è disposti a rinunciarvi. Credo che il lettore che si darà
la pena di considerare i punti che seguono non potrà non convenire
che – senza accorgersene o fingendo di non accorgersene – la
soglia che separa l’umanità dalla barbarie è stata oltrepassata.

1) Il primo punto, forse il più grave, concerne i corpi delle persone


morte. Come abbiamo potuto accettare, soltanto in nome di un
rischio che non era possibile precisare, che le persone che ci sono
care e degli esseri umani in generale non soltanto morissero da soli,
ma che – cosa che non era mai avvenuta prima nella storia, da
Antigone a oggi – che i loro cadaveri fossero bruciati senza un
funerale?
2) Abbiamo poi accettato senza farsi troppi problemi, soltanto in
nome di un rischio che non era possibile precisare, di limitare in
misura che non era mai avvenuta prima nella storia del Paese,
nemmeno durante le due guerre mondiali (il coprifuoco durante la
guerra era limitato a certe ore), la nostra libertà di movimento.
Abbiamo conseguentemente accettato, soltanto in nome di un
rischio che non era possibile precisare, di sospendere di fatto i nostri
rapporti di amicizia e di amore, perché il nostro prossimo era
diventato una possibile fonte di contagio.
3) Questo è potuto avvenire – e qui si tocca la radice del fenomeno –
perché abbiamo scisso l’unità della nostra esperienza vitale, che è
sempre inseparabilmente insieme corporea e spirituale, in una entità
puramente biologica da una parte e in una vita affettiva e culturale
dall’altra. Ivan Illich ha mostrato, e David Cayley l’ha qui ricordato di
recente, le responsabilità della medicina moderna in questa
scissione, che viene data per scontata e che è invece la più grande
delle astrazioni. So bene che questa astrazione è stata realizzata
dalla scienza moderna attraverso i dispositivi di rianimazione, che
possono mantenere un corpo in uno stato di pura vita vegetativa.
Ma se questa condizione si estende al di là dei confini spaziali e
temporali che le sono propri, come si sta cercando oggi di fare, e
diventa una sorta di principio di comportamento sociale, si cade in
contraddizioni da cui non vi è via di uscita.
So che qualcuno si affretterà a rispondere che si tratta di una
condizione limitata del tempo, passata la quale tutto ritornerà come
prima. È davvero singolare che lo si possa ripetere se non in mala
fede, dal momento che le stesse autorità che hanno proclamato
l’emergenza non cessano di ricordarci che, quando l’emergenza
sarà superata, si dovrà continuare a osservare le stesse direttive e
che il «distanziamento sociale», come lo si è chiamato con un
significativo eufemismo, sarà il nuovo principio di organizzazione
della società. E, in ogni caso, ciò che, in buona o mala fede, si è
accettato di subire non potrà essere cancellato.

Non posso, a questo punto, poiché ho accusato le responsabilità di


ciascuno di noi, non menzionare le ancora più gravi responsabilità di
coloro che avrebbero avuto il compito di vegliare sulla dignità
dell’uomo. Innanzitutto la Chiesa che, facendosi ancella della
scienza, che è ormai diventata la vera religione del nostro tempo, ha
radicalmente rinnegato i suoi princìpi più essenziali. La Chiesa, sotto
un Papa che si chiama Francesco, ha dimenticato che Francesco
abbracciava i lebbrosi. Ha dimenticato che una delle opere della
misericordia è quella di visitare gli ammalati. Ha dimenticato che i
martiri insegnano che si deve essere disposti a sacrificare la vita
piuttosto che la fede e che rinunciare al proprio prossimo significa
rinunciare alla fede.
Un’altra categoria che è venuta meno ai propri compiti è quella dei
giuristi. Siamo da tempo abituati all’uso sconsiderato dei decreti di
urgenza attraverso i quali di fatto il potere esecutivo si sostituisce a
quello legislativo, abolendo quel principio della separazione dei
poteri che definisce la democrazia. Ma in questo caso ogni limite è
stato superato, e si ha l’impressione che le parole del primo ministro
e del capo della protezione civile abbiano, come si diceva per quelle
del Führer, immediatamente valore di legge. E non si vede come,
esaurito il limite di validità temporale dei decreti di urgenza, le
limitazioni della libertà potranno essere, come si annuncia,
mantenute. Con quali dispositivi giuridici? Con uno stato di
eccezione permanente? È compito dei giuristi verificare che le regole
della costituzione siano rispettate, ma i giuristi tacciono. Quare silete
iuristae in munere vestro?
So che ci sarà immancabilmente qualcuno che risponderà che il pur
grave sacrificio è stato fatto in nome di princìpi morali. A costoro
vorrei ricordare che Eichmann, apparentemente in buona fede, non
si stancava di ripetere che aveva fatto quello che aveva fatto
secondo coscienza, per obbedire a quelli che riteneva essere i
precetti della morale kantiana. Una norma che affermi che si deve
rinunciare al bene per salvare il bene è altrettanto falsa e
contraddittoria di quella che, per proteggere la libertà, impone di
rinunciare alla libertà.
9.
La nuda vita
Intervista con Ivar Ekman alla Radio pubblica svedese
19 aprile 2020

Le restrizioni applicate alla vita sociale possono essere considerate


lo stato di eccezione definitivo? Ci si deve aspettare che restino tali
anche oltre la fase acuta di questa crisi?

La storia del Novecento mostra con chiarezza, in particolare per


quanto riguarda l’avvento al potere del nazismo in Germania, che lo
stato di eccezione è il meccanismo che permette la trasformazione
delle democrazie in Stati totalitari. Da anni nel mio Paese, ma non
soltanto nel mio Paese, lo stato di emergenza è diventata la tecnica
normale di governo e attraverso i decreti di urgenza il potere
esecutivo si è sostituito al potere legislativo, abolendo di fatto il
principio della separazione dei poteri che definisce la democrazia.
Ma mai prima di ora, nemmeno durante il fascismo e le due guerre
mondiali, la limitazione della libertà era stata spinta fino a questo
punto: non soltanto le persone sono confinate nelle loro abitazioni e,
private di ogni rapporto sociale, ridotte a una condizione di
sopravvivenza biologica, ma la barbarie non risparmia nemmeno i
morti: le persone decedute in questo periodo non hanno diritto a un
funerale e i loro corpi sono bruciati. So che qualcuno si affretterà a
rispondere che si tratta di una condizione limitata del tempo, passata
la quale tutto ritornerà come prima. È davvero singolare che lo si
possa ripetere se non in mala fede, dal momento che le stesse
autorità che hanno proclamato l’emergenza non cessano di
ricordarci che, quando l’emergenza sarà superata, si dovrà
continuare a osservare le stesse direttive e che il «distanziamento
sociale», come lo si è chiamato con un significativo eufemismo, sarà
il nuovo principio di organizzazione della società.
Può per favore spiegare il concetto di «nuda vita» e come si
relaziona con ciò che sta accadendo oggi?

Lei mi chiede della nuda vita. Il fatto è che quello che ho descritto è
potuto avvenire perché abbiamo scisso l’unità della nostra
esperienza vitale, che è sempre inseparabilmente insieme corporea
e spirituale, in una entità puramente biologica da una parte (la nuda
vita) e in una vita affettiva e culturale dall’altra. Ivan Illich ha mostrato
le responsabilità della medicina moderna in questa scissione, che
viene data per scontata e che è invece la più grande delle astrazioni.
So bene che questa astrazione è stata realizzata dalla scienza
moderna attraverso i dispositivi di rianimazione, che possono
mantenere un corpo in uno stato di pura vita vegetativa. Ma se
questa condizione si estende al di là dei confini spaziali e temporali
che le sono propri, come si sta cercando oggi di fare, e diventa una
sorta di principio di comportamento sociale, si cade in contraddizioni
da cui non vi è via di uscita. C’è bisogno di ricordare che il solo altro
luogo in cui degli esseri umani sono stati mantenuti in uno stato di
pura vita vegetativa è il lager nazista?

Lei appartiene a una categoria della popolazione in cui il tasso di


mortalità del virus sembra non essere in singola cifra, ma tra il 10 e il
20 percento. È spaventato quando incontra le altre persone? Questa
paura dovrebbe guidare il comportamento della gente, al di là delle
regole imposte dalle autorità?

Il rischio di contagio, nel cui nome si limitano le libertà, non è mai


stato precisato, perché le cifre che vengono comunicate sono
lasciate intenzionalmente nel vago, senza analizzarle, come sarebbe
d’obbligo se in questione fosse veramente la scienza, in rapporto
alla mortalità annuale e alle cause accertate del decesso. Le
risponderò comunque con una frase di Montaigne: «Non sappiamo
dove la morte ci aspetta, aspettiamola ovunque. La meditazione
della morte è meditazione della libertà. Chi ha imparato a morire, ha
disimparato a servire. Saper morire ci libera di ogni soggezione e da
ogni costrizione».
La reazione della politica al virus – i diversi stati di eccezione – non è
un monolite. Esistono diversi modelli di restrizioni alla vita e agli
spostamenti delle persone in varie parti del mondo, o anche
all’interno di una sola nazione. In Svezia, la maggior parte delle
limitazioni sono volontarie; il nostro primo ministro ha detto che le
persone devono essere guidate dal loro buon senso (la parola che
ha usato è, precisamente, «folkvett», tradotta all’incirca con «senso
del popolo»). E le persone si autolimitano, ma ancora in tanti qui – e
sono molti di più negli Stati confinanti, dove le regole sono ancora
più stringenti – hanno reagito con forza, chiamando irresponsabili i
leader svedesi, come se l’unico modo per tenere ferme le persone
fosse attraverso i decreti e mobilitando la polizia. Questo è solo un
esempio, ma lei crede che ci sia un modo sensato di affrontare
questa minaccia, oltre il bianco e nero del «morte o dittatura»?

Sulle forme che prenderà il governo degli uomini negli anni a venire
si possono soltanto fare delle ipotesi, ma quello che si può dedurre
dalla sperimentazione in corso è tutt’altro che rassicurante. L’Italia,
come si è visto durante gli anni del terrorismo, è una sorta di
laboratorio politico in cui si sperimentano le nuove tecnologie di
governo. Non mi stupisce che essa sia ora all’avanguardia
nell’elaborazione di una tecnologia di governo che in nome della
salute pubblica fa accettare delle condizioni di vita che eliminano
puramente e semplicemente ogni possibile attività politica. L’Italia è
sempre sul punto di ricadere nel fascismo e molti segni mostrano
che oggi si tratta di qualcosa di più che di un rischio: basti dire che il
governo ha istituito una commissione che ha il potere di decidere
quali notizie sono vere e quali devono essere considerate false. Per
quanto mi concerne i grandi giornali in Italia si rifiutano puramente e
semplicemente di pubblicare le mie opinioni.
10.
Nuove riflessioni*
«Neue Zürcher Zeitung», 27 aprile 2020

Da più parti si va ora formulando l’ipotesi che in realtà noi stiamo


vivendo la fine di un mondo, quello delle democrazie borghesi,
fondate sui diritti, i parlamenti e la divisione dei poteri, che sta
cedendo il posto a un nuovo dispotismo che, quanto alla pervasività
dei controlli e alla cessazione di ogni attività politica, sarà peggiore
dei totalitarismi che abbiamo conosciuto finora. I politologi americani
lo chiamano Security State, cioè uno Stato in cui «per ragioni di
sicurezza» (in questo caso di «sanità pubblica», termine che fa
pensare ai famigerati «comitati di salute pubblica» durante il Terrore)
si può imporre qualsiasi limite alle libertà individuali. In Italia, del
resto, siamo abituati da tempo a una legislazione per decreti di
urgenza da parte del potere esecutivo, che in questo modo si
sostituisce al potere legislativo e abolisce di fatto il principio della
divisione dei poteri su cui si fonda la democrazia. E il controllo che
viene esercitato tramite videocamere e ora, come si è proposto,
attraverso i telefoni cellulari, eccede di gran lunga ogni forma di
controllo esercitata sotto regimi totalitari come il fascismo o il
nazismo.
Occorre mettere in questione il modo in cui sono comunicate le cifre
relative ai decessi e ai contagi dell’epidemia. Almeno per quanto
riguarda l’Italia, chiunque abbia qualche conoscenza di
epistemologia non può non essere sorpreso dal fatto che i media per
tutti questi mesi hanno diffuso delle cifre senza alcun criterio di
scientificità, non soltanto senza metterle in rapporto con la mortalità
annua per lo stesso periodo, ma senza nemmeno precisare la causa
del decesso. Io non sono un virologo né un medico, ma mi limito a
citare testualmente fonti ufficiali sicuramente attendibili. 23 mila morti
per Covid-19 sembrano e sono certamente una cifra impressionante.
Ma se li si mettono in rapporto con i dati statistici annuali le cose,
com’è giusto, assumono un aspetto diverso. Il presidente dell’ISTAT
(l’istituto statistico nazionale in Italia), dottor Gian Carlo Blangiardo,
ha comunicato qualche settimana fa i numeri della mortalità
dell’anno scorso: 647.000 morti (quindi 1772 decessi al giorno). Se
analizziamo le cause nei particolari, vediamo che gli ultimi dati
disponibili relativi al 2017 registrano 230.000 morti per malattie
cardiocircolatorie, 180.000 morti di tumore, almeno 53.000 morti per
malattie respiratorie. Ma un punto è particolarmente importante e ci
riguarda da vicino. Cito le parole della relazione: «Nel marzo 2019 i
decessi per malattie respiratorie sono state 15.189 e l’anno prima
erano state 16.220. Incidentalmente si rileva che sono più del
corrispondente numero di decessi per Covid (12.352) dichiarati nel
marzo 2020». Ma se questo è vero e non abbiamo ragione di
dubitarne, senza voler minimizzare l’importanza dell’epidemia
bisogna però chiedersi se essa può giustificare misure di limitazione
della libertà che non erano mai state prese nella storia del nostro
Paese, nemmeno durante le due guerre mondiali. Nasce il legittimo
dubbio, per quanto concerne l’Italia, che diffondendo il panico e
isolando la gente nelle loro case si sia voluto scaricare sulla
popolazione le gravissime responsabilità dei governi che avevano
prima smantellato il servizio sanitario nazionale e poi in Lombardia
commesso una serie di non meno gravi errori nell’affrontare
l’epidemia. Quanto al resto del mondo, credo che ogni Stato abbia
modalità diverse di usare ai suoi fini i dati dell’epidemie e di
manipolarli secondo le proprie esigenze. La consistenza reale
dell’epidemia si potrà misurare solo mettendo ogni volta in relazione
i dati comunicati con quelli statistici sulla mortalità annua per
malattia.
Un altro fenomeno da non lasciarsi sfuggire è la funzione svolta dai
medici e dai virologi nel governo dell’epidemia. Il termine greco
epidemia (da demos, il popolo come entità politica) ha un immediato
significato politico. Tanto più pericoloso è affidare ai medici e agli
scienziati decisioni che sono in ultima analisi etiche e politiche. Gli
scienziati, a torto o a ragione, perseguono in buona fede le loro
ragioni, che si identificano con l’interesse della scienza e in nome
delle quali – la Storia lo dimostra ampiamente – sono disposti a
sacrificare qualunque scrupolo di ordine morale. Non ho bisogno di
ricordare che sotto il nazismo scienziati molto stimati hanno guidato
la politica eugenetica e non hanno esitato a approfittare dei lager per
eseguire esperimenti letali che ritenevano utili per il progresso della
scienza e per la cura dei soldati tedeschi. Nel caso presente lo
spettacolo è particolarmente sconcertante, perché in realtà, anche
se i media lo nascondono, non vi è accordo fra gli scienziati e alcuni
dei più illustri fra di essi, come Didier Raoult, forse il massimo
virologo francese, hanno diverse opinioni sull’importanza
dell’epidemia e sull’efficacia delle misure di isolamento, che in
un’intervista ha definito una superstizione medievale. Ho scritto
altrove che la scienza è diventata la religione del nostro tempo.
L’analogia con la religione va presa alla lettera: i teologi dichiaravano
di non potere definire con chiarezza che cos’è Dio, ma in suo nome
dettavano agli uomini delle regole di condotta e non esitavano a
bruciare gli eretici; i virologi ammettono di non sapere esattamente
che cos’è un virus, ma in suo nome pretendono di decidere come
devono vivere gli esseri umani.
Se lasciamo l’ambito dell’attualità e proviamo a considerare le cose
dal punto di vista del destino della specie umana sulla Terra, mi
vengono in mente le considerazioni di un grande scienziato
olandese, Louis Bolk. Secondo Bolk, la specie umana è
caratterizzata da una progressiva inibizione dei processi vitali
naturali di adattamento all’ambiente, che vengono sostituti da una
crescita ipertrofica di dispositivi tecnologici per adattare l’ambiente
all’uomo. Quando questo processo sorpassa un certo limite, esso
raggiunge un punto in cui diventa controproducente e si trasforma in
autodistruzione della specie. Fenomeni come quello che stiamo
vivendo mi sembrano mostrare che quel punto è stato raggiunto e
che la medicina che doveva curare i nostri mali rischia di produrre un
male ancora più grande.

*L’articolo riprende e svolge il testo di un’intervista pubblicata sul quotidiano «La Verità» il
21 aprile 2020.
11.
Sul vero e sul falso
28 aprile 2020

Com’era scontato, la Fase 2 conferma per decreto ministeriale più o


meno le stesse decurtazioni di libertà costituzionali che possono
essere limitate solo per legge. Ma non meno importante è la
limitazione di un diritto umano che non è sancito in alcuna
costituzione: il diritto alla verità, il bisogno di una parola vera.
Quella che stiamo vivendo, prima di essere una inaudita
manipolazione delle libertà di ciascuno, è, infatti, una gigantesca
operazione di falsificazione della verità. Se gli uomini acconsentono
a limitare la loro libertà personale, ciò avviene, infatti, perché essi
accettano senza sottoporli ad alcuna verifica i dati e le opinioni che i
media forniscono. La pubblicità ci aveva abituato da tempo a dei
discorsi che agivano tanto più efficacemente in quanto non
pretendevano di essere veri. E da tempo anche il consenso politico
si prestava senza una convinzione profonda, dando in qualche modo
per scontato che nei discorsi elettorali la verità non fosse in
questione. Quello che ora sta avvenendo sotto i nostri occhi è, però,
qualcosa di nuovo, se non altro perché nella verità o nella falsità del
discorso che viene passivamente accettato ne va del nostro stesso
modo di vivere, della nostra intera, quotidiana esistenza. Per questo
sarebbe urgente che ciascuno cercasse di sottoporre quanto gli
viene proposto al vaglio di una almeno elementare verifica.
Non sono stato il solo a notare che i dati sull’epidemia sono forniti in
modo generico e senza alcun criterio di scientificità. Dal punto di
vista epistemologico, è ovvio, ad esempio, che dare una cifra di
decessi senza metterla in relazione con la mortalità annua nello
stesso periodo e senza specificare la causa effettiva della morte non
ha alcun significato. Eppure è proprio questo che si continua ogni
giorno a fare senza che nessuno sembri accorgersene. Ciò è tanto
più sorprendente in quanto i dati che permettono la verifica sono
disponibili per chiunque avesse voglia di accedervi e ho già citato in
questa rubrica la relazione del presidente dell’ISTAT Gian Carlo
Blangiardo in cui si mostra che il numero dei decessi per il Covid-19
risulta inferiore a quello dei decessi per malattie respiratorie nei due
anni precedenti. Eppure, per quanto inequivoca, è come se questa
relazione non esistesse, così come non si tiene alcun conto del fatto,
pur dichiarato, che viene contato come deceduto per Covid-19
anche il paziente positivo che è morto per infarto e per un’altra
causa qualsiasi. Perché, anche se la falsità viene documentata, si
continua a prestarvi fede? Si direbbe che la menzogna viene tenuta
per vera proprio perché, come la pubblicità, non si preoccupa di
nascondere la sua falsità. Com’era avvenuto per la Prima guerra
mondiale, la guerra contro il virus può solo darsi motivazioni fallaci.
L’umanità sta entrando in una fase della sua storia in cui la verità
viene ridotta a un momento nel movimento del falso. Vero è quel
discorso falso che deve essere tenuto per vero anche quando la sua
non verità viene dimostrata. Ma in questo modo è il linguaggio
stesso come luogo della manifestazione della verità che viene
confiscato agli esseri umani. Essi possono ora soltanto osservare
muti il movimento – vero perché reale – della menzogna. Per questo
per arrestare questo movimento occorre che ciascuno abbia il
coraggio di cercare senza compromessi il bene più prezioso: una
parola vera.
12.
La medicina come religione
2 maggio 2020

Che la scienza sia diventata la religione del nostro tempo, ciò in cui
gli uomini credono di credere, è ormai da tempo evidente.
Nell’Occidente moderno hanno convissuto e, in certa misura, ancora
convivono tre grandi sistemi di credenze: il cristianesimo, il
capitalismo e la scienza. Nella storia della modernità, queste tre
«religioni» si sono più volte necessariamente incrociate, entrando di
volta in volta in conflitto e poi in vario modo riconciliandosi, fino a
raggiungere progressivamente una sorta di pacifica, articolata
convivenza, se non una vera e propria collaborazione in nome del
comune interesse.
Il fatto nuovo è che fra la scienza e le altre due religioni si è riacceso
senza che ce ne accorgessimo un conflitto sotterraneo e
implacabile, i cui esiti vittoriosi per la scienza sono oggi sotto i nostri
occhi e determinano in maniera inaudita tutti gli aspetti della nostra
esistenza. Questo conflitto non concerne, come avveniva in passato,
la teoria e i princìpi generali, ma, per così dire, la prassi cultuale.
Anche la scienza, infatti, come ogni religione, conosce forme e livelli
diversi attraverso i quali organizza e ordina la propria struttura:
all’elaborazione di una dogmatica sottile e rigorosa corrisponde nella
prassi una sfera cultuale estremamente ampia e capillare che
coincide con ciò che chiamiamo tecnologia.
Non sorprende che protagonista di questa nuova guerra di religione
sia quella parte della scienza dove la dogmatica è meno rigorosa e
più forte l’aspetto pragmatico: la medicina, il cui oggetto immediato è
il corpo vivente degli esseri umani. Proviamo a fissare i caratteri
essenziali di questa fede vittoriosa con la quale dovremo fare i conti
in misura crescente.
1) Il primo carattere è che la medicina, come il capitalismo, non ha
bisogno di una dogmatica speciale, ma si limita a prendere in
prestito dalla biologia i suoi concetti fondamentali. A differenza della
biologia, tuttavia, essa articola questi concetti in senso gnostico-
manicheo, cioè secondo una esasperata opposizione dualistica. Vi è
un dio o un principio maligno, la malattia, appunto, i cui agenti
specifici sono i batteri e i virus, e un dio o un principio benefico, che
non è la salute, ma la guarigione, i cui agenti cultuali sono i medici e
la terapia. Come in ogni fede gnostica, i due princìpi sono
chiaramente separati, ma nella prassi possono contaminarsi e il
principio benefico e il medico che lo rappresenta possono sbagliare
e collaborare inconsapevolmente con il loro nemico, senza che
questo invalidi in alcun modo la realtà del dualismo e la necessità
del culto attraverso cui il principio benefico combatte la sua battaglia.
Ed è significativo che i teologi che devono fissarne la strategia siano
i rappresentanti di una scienza, la virologia, che non ha un luogo
proprio, ma si situa al confine fra la biologia e la medicina.

2) Se questa pratica cultuale era finora, come ogni liturgia, episodica


e limitata nel tempo, il fenomeno inaspettato a cui stiamo assistendo
è che essa è diventata permanente e onnipervasiva. Non si tratta più
di assumere delle medicine o di sottoporsi quando è necessario a
una visita medica o a un intervento chirurgico: la vita intera degli
esseri umani deve diventare in ogni istante il luogo di una ininterrotta
celebrazione cultuale. Il nemico, il virus, è sempre presente e deve
essere combattuto incessantemente e senza possibile tregua. Anche
la religione cristiana conosceva simili tendenze totalitarie, ma esse
riguardavano solo alcuni individui – in particolare i monaci – che
sceglievano di porre la loro intera esistenza sotto l’insegna «pregate
incessantemente». La medicina come religione raccoglie questo
precetto paolino e, insieme, lo rovescia: dove i monaci si riunivano in
conventi per pregare insieme, ora il culto deve essere praticato
altrettanto assiduamente, ma mantenendosi separati e a distanza.
3) La pratica cultuale non è più libera e volontaria, esposta solo a
sanzioni di ordine spirituale, ma deve essere resa normativamente
obbligatoria. La collusione fra religione e potere profano non è certo
un fatto nuovo; del tutto nuovo è, però, che essa non riguardi più,
come avveniva per le eresie, la professione dei dogmi, ma
esclusivamente la celebrazione del culto. Il potere profano deve
vegliare a che la liturgia della religione medica, che coincide ormai
con l’intera vita, sia puntualmente osservata nei fatti. Che si tratti qui
di una pratica cultuale e non di un’esigenza scientifica razionale è
immediatamente evidente. La causa di mortalità di gran lunga più
frequente nel nostro Paese sono le malattie cardio-vascolari ed è
noto che queste potrebbero diminuire se si praticasse una forma di
vita più sana e se ci si attenesse a una alimentazione particolare. Ma
a nessun medico era mai venuto in mente che questa forma di vita e
di alimentazione, che essi consigliavano ai pazienti, diventasse
oggetto di una normativa giuridica, che decretasse ex lege che cosa
si deve mangiare e come si deve vivere, trasformando l’intera
esistenza in un obbligo sanitario. Proprio questo è stato fatto e,
almeno per ora, la gente ha accettato come se fosse ovvio di
rinunciare alla propria libertà di movimento, al lavoro, alle amicizie,
agli amori, alle relazioni sociali, alle proprie convinzioni religiose e
politiche.
Si misura qui come le due altre religioni dell’Occidente, la religione di
Cristo e la religione del denaro, abbiano ceduto il primato,
apparentemente senza combattere, alla medicina e alla scienza. La
Chiesa ha rinnegato puramente e semplicemente i suoi princìpi,
dimenticando che il santo di cui l’attuale pontefice ha preso il nome
abbracciava i lebbrosi, che una delle opere di misericordia era
visitare gli ammalati, che i sacramenti si possono amministrare solo
in presenza. Il capitalismo per parte sua, pur con qualche protesta,
ha accettato perdite di produttività che non aveva mai osato mettere
in conto, probabilmente sperando di trovare più tardi un accordo con
la nuova religione, che su questo punto sembra disposta a
transigere.
4) La religione medica ha raccolto senza riserve dal cristianesimo
l’istanza escatologica che quello aveva lasciato cadere. Già il
capitalismo, secolarizzando il paradigma teologico della salvezza,
aveva eliminato l’idea di una fine dei tempi, sostituendola con uno
stato di crisi permanente, senza redenzione né fine. Krisis è in
origine un concetto medico, che designava nel corpus ippocratico il
momento in cui il medico decideva se il paziente sarebbe
sopravvissuto alla malattia. I teologi hanno ripreso il termine per
indicare il Giudizio finale che ha luogo nell’ultimo giorno. Se si
osserva lo stato di eccezione che stiamo vivendo, si direbbe che la
religione medica coniughi insieme la crisi perpetua del capitalismo
con l’idea cristiana di un tempo ultimo, di un eschaton in cui la
decisione estrema è sempre in corso e la fine viene insieme
precipitata e dilazionata, nel tentativo incessante di poterla
governare, senza però mai risolverla una volta per tutte. È la
religione di un mondo che si sente alla fine e tuttavia non è in grado,
come il medico ippocratico, di decidere se sopravviverà o morirà.
5) Come il capitalismo e a differenza del cristianesimo, la religione
medica non offre prospettive di salvezza e di redenzione. Al
contrario, la guarigione cui mira non può essere che provvisoria, dal
momento che il dio malvagio, il virus, non può essere eliminato una
volta per tutte, anzi muta continuamente e assume sempre nuove
forme, presumibilmente più rischiose. L’epidemia, come l’etimologia
del termine suggerisce è innanzi tutto un concetto politico, che si
appresta a diventare il nuovo terreno della politica – o della non-
politica – mondiale. È possibile, anzi, che l’epidemia che stiamo
vivendo sia la realizzazione della guerra civile mondiale che secondo
i politologi più attenti ha preso il posto delle guerre mondiali
tradizionali. Tutte le nazioni e tutti i popoli sono ora durevolmente in
guerra con sé stessi, perché il nemico invisibile e inafferrabile con
cui sono in lotta è dentro di noi.
Com’è avvenuto più volte nel corso della storia, i filosofi dovranno
nuovamente entrare in conflitto con la religione, che non è più il
cristianesimo, ma la scienza o quella parte di essa che ha assunto la
forma di una religione. Non so se torneranno ad accendersi i roghi e
dei libri verranno messi all’indice, ma certo il pensiero di coloro che
continuano a cercare la verità e rifiutano la menzogna dominante
sarà, come già sta accadendo sotto i nostri occhi, escluso e
accusato di diffondere notizie (notizie, non idee, poiché la notizia è
più importante della realtà!) false. Come in tutti i momenti di
emergenza, vera o simulata, si vedranno nuovamente gli ignoranti
calunniare i filosofi e le canaglie cercare di trarre profitto dalle
sciagure che esse stesse hanno provocato. Tutto questo è già
avvenuto e continuerà a avvenire, ma coloro che testimoniano per la
verità non cesseranno di farlo, perché nessuno può testimoniare per
il testimone.
13.
Biosicurezza e politica
11 maggio 2020

Ciò che colpisce nelle reazioni ai dispositivi di eccezione che sono


stati messi in atto nel nostro Paese (e non soltanto in questo) è
l’incapacità di osservarli al di là del contesto immediato in cui
sembrano operare. Rari sono coloro che provano invece, come pure
una seria analisi politica imporrebbe di fare, a interpretarli come
sintomi e segni di un esperimento più ampio, in cui è in gioco un
nuovo paradigma di governo degli uomini e delle cose. Già in un
libro pubblicato sette anni fa, che vale ora la pena di rileggere
attentamente (Tempêtes microbiennes, Gallimard 2013), Patrick
Zylberman aveva descritto il processo attraverso il quale la sicurezza
sanitaria, fino allora rimasta ai margini dei calcoli politici, stava
diventando parte essenziale delle strategie politiche statuali e
internazionali. In questione è nulla di meno che la creazione di una
sorta di «terrore sanitario» come strumento per governare quello che
veniva definito come il worst case scenario, lo scenario del caso
peggiore. È secondo questa logica del peggio che già nel 2005
l’organizzazione mondiale della salute aveva annunciato da «due a
150 milioni di morti per l’influenza aviaria in arrivo», suggerendo una
strategia politica che gli Stati allora non erano ancora preparati ad
accogliere. Zylberman mostra che il dispositivo che si suggeriva si
articolava in tre punti: 1) costruzione, sulla base di un rischio
possibile, di uno scenario fittizio, in cui i dati vengono presentati in
modo da favorire comportamenti che permettono di governare una
situazione estrema; 2) adozione della logica del peggio come regime
di razionalità politica; 3) organizzazione integrale del corpo dei
cittadini in modo da rafforzare al massimo l’adesione alle istituzioni
di governo, producendo una sorta di civismo superlativo in cui gli
obblighi imposti vengono presentati come prove di altruismo e il
cittadino non ha più un diritto alla salute (health safety), ma diventa
giuridicamente obbligato alla salute (biosecurity).
Quello che Zylberman descriveva nel 2013 si è oggi puntualmente
verificato. È evidente che, al di là della situazione di emergenza
legata a un certo virus che potrà in futuro lasciar posto ad un altro, in
questione è il disegno di un paradigma di governo la cui efficacia
supera di gran lunga quella di tutte le forme di governo che la storia
politica dell’Occidente abbia finora conosciuto. Se già, nel
progressivo decadere delle ideologie e delle fedi politiche, le ragioni
di sicurezza avevano permesso di far accettare dai cittadini
limitazioni delle libertà che non erano prima disposti ad accettare, la
biosicurezza si è dimostrata capace di presentare l’assoluta
cessazione di ogni attività politica e di ogni rapporto sociale come la
massima forma di partecipazione civica. Si è così potuto assistere al
paradosso di organizzazioni di sinistra, tradizionalmente abituate a
rivendicare diritti e denunciare violazioni della costituzione, accettare
senza riserve limitazioni delle libertà decise con decreti ministeriali
privi di ogni legalità e che nemmeno il fascismo aveva mai sognato
di poter imporre.
È evidente – e le stesse autorità di governo non cessano di
ricordarcelo – che il cosiddetto «distanziamento sociale» diventerà il
modello della politica che ci aspetta e che (come i rappresentanti di
una cosiddetta task force, i cui membri si trovano in palese conflitto
di interessi con la funzione che dovrebbero esercitare, hanno
annunciato) si approfitterà di questo distanziamento per sostituire
ovunque i dispositivi tecnologici digitali ai rapporti umani nella loro
fisicità, divenuti come tali sospetti di contagio (contagio politico,
s’intende). Le lezioni universitarie, come il MIUR ha già
raccomandato, si faranno dall’anno prossimo stabilmente online, non
ci si riconoscerà più guardandosi nel volto, che potrà essere coperto
da una maschera sanitaria, ma attraverso dispositivi digitali che
riconosceranno dati biologici obbligatoriamente prelevati e ogni
«assembramento», che sia fatto per motivi politici o semplicemente
di amicizia, continuerà a essere vietato.
In questione è un’intera concezione dei destini della società umana
in una prospettiva che per molti aspetti sembra aver assunto dalle
religioni ormai al loro tramonto l’idea apocalittica di una fine del
mondo. Dopo che la politica era stata sostituita dall’economia, ora
anche questa per poter governare dovrà essere integrata con il
nuovo paradigma di biosicurezza, al quale tutte le altre esigenze
dovranno essere sacrificate. È legittimo chiedersi se una tale società
potrà ancora definirsi umana o se la perdita dei rapporti sensibili, del
volto, dell’amicizia, dell’amore possa essere veramente compensata
da una sicurezza sanitaria astratta e presumibilmente del tutto
fittizia.
14.
Polemos epidemios
Intervista con Dimitra Pouliopoulou per la rivista greca «Babylonia»
20 maggio 2020

1.

Le epidemie hanno accompagnato la storia umana da sempre,


causando nel loro manifestarsi sconvolgimenti nelle società e nelle
persone. La recente epidemia di coronavirus resterà nella storia,
sembrerebbe, non tanto per la sua azione letale rispetto ad altre
epidemie quanto per la mobilitazione globale senza precedenti
messa in atto per affrontarla. Molto è stato scritto su quello che
accadrà in seguito. Pensa che questa epidemia costituirà una
frattura della realtà sociale e che parleremo di un prima e un dopo
l’era del coronavirus?

Devo premettere che parlerò soprattutto del Paese che conosco,


cioè dell’Italia. Ma non si deve dimenticare che l’Italia, a partire dalla
fine degli anni Sessanta del secolo scorso, è stato il laboratorio in cui
sono state elaborate le nuove tecniche di governo di fronte al
terrorismo ed è possibile che anche oggi essa stia svolgendo la
stessa funzione rispetto all’emergenza sanitaria.
Epidemia, come mostra l’etimologia del termine dal greco demos,
che designa il popolo come corpo politico, è un concetto innanzitutto
politico. Polemos epidemios è in Omero la guerra civile. Quello che
oggi vediamo con chiarezza è che l’epidemia sta diventando il nuovo
terreno della politica, il campo di battaglia di una guerra civile
mondiale – poiché è evidente che la guerra civile è una guerra
contro un nemico interno, che abita dentro di noi.
Stiamo vivendo la fine di un’epoca nella storia politica dell’Occidente,
l’età delle democrazie borghesi, fondate sulle costituzioni, sui diritti,
sui parlamenti e sulla divisione dei poteri. Questo modello era da
tempo in crisi, i princìpi costituzionali erano sempre più spesso
ignorati e il potere esecutivo si era sostituito quasi integralmente a
quello legislativo, che esercitava, come avviene ora in modo
esclusivo, attraverso decreti-legge. Con la cosiddetta pandemia è
stato mosso un passo ulteriore, nel senso che quello che i politologi
americani chiamavano Security State, Stato di sicurezza, che si
fondava sul terrorismo, ha ceduto ora il posto a un paradigma di
governo che possiamo chiamare «biosicurezza», che si fonda sulla
salute. È importante comprendere che la biosicurezza supera per
efficacia e pervasività tutte le forme di governo degli uomini che
abbiamo conosciuto. Come si è potuto costatare in Italia, ma non
solo in Italia, non appena in questione è una minaccia alla salute la
gente accetta senza reagire limitazioni delle libertà che non avrebbe
mai accettato in passato. Si è giunti così al paradosso che la
cessazione di ogni relazione sociale e di ogni attività politica viene
presentata come la forma esemplare di partecipazione civica.
Credo che anche un solo esempio mostri con evidenza quanto
profonda sia nel regime della biosicurezza la trasformazione di tutti i
paradigmi politici democratici. Nelle democrazie borghesi, ogni
cittadino aveva un «diritto alla salute»: questo diritto si rovescia ora,
senza che la gente se ne accorga, in un’obbligazione giuridica alla
salute, che occorre adempiere a qualsiasi prezzo. E quanto alto sia
questo prezzo lo si è visto attraverso le misure eccezionali senza
precedenti cui i cittadini hanno dovuto sottoporsi.

2.

Gli Stati, al livello istituzionale, erano già attrezzati dalle crisi


precedenti e hanno applicato politiche che erano già state
sperimentate su scala planetaria. Il termine «guerra» è stato
ampiamente utilizzato nel caso dell’attuale pandemia, mentre Lei
parlava di «guerra civile» poiché il nemico è dentro di noi e non fuori.
Quali caratteristiche della quarantena crede siano destinate a
restare? Considera che l’epidemia potrebbe costituire il terreno per
nuovi dogmi politici autoritari?
Il paradigma della biosicurezza non è temporaneo. Le attività
economiche riprenderanno e stanno già riprendendo e le misure di
limitazione dei movimenti cesseranno, almeno in buona parte.
Quello che resterà è il «distanziamento sociale». Occorre riflettere
su questa formula singolare, che è apparsa contemporaneamente in
tutto il mondo come se fosse stata preparata in anticipo. La formula
non dice «distanziamento fisico» o «personale», come sarebbe stato
normale se si fosse trattato di un dispositivo medico, ma
«distanziamento sociale». Non si potrebbe esprimere più
chiaramente che si tratta di un nuovo paradigma di organizzazione
della società, cioè di un dispositivo essenzialmente politico. Ma che
cos’è una società fondata sulla distanza? Si può ancora chiamare
politica una tale società? Che tipo di relazioni si possono stabilire tra
persone che si devono mantenere a un metro di distanza, col viso
coperto da una mascherina? Naturalmente, il distanziamento si è
potuto realizzare senza difficoltà, perché in qualche modo c’era già. I
dispositivi digitali avevano abituato da tempo a dei rapporti virtuali a
distanza. Epidemia e tecnologia qui si intrecciano inseparabilmente.
E non è certo sorprendente che il capo della cosiddetta task force
nominata dal governo italiano per fronteggiare le conseguenze
dell’epidemia sia il dirigente di una delle più grandi reti di
comunicazione digitale e che egli abbia subito annunciato che la
messa in opera del 5G contribuirà ad evitare ogni possibilità di
contagio – cioè di contatto – fra gli esseri umani. Gli esseri umani
non si riconosceranno più guardandosi nel volto, che potrà essere
coperto da una maschera sanitaria, ma attraverso dispositivi digitali
che riconosceranno dati biologici prelevati in anticipo e ogni
«assembramento» – curiosa espressione per l’incontro fra più esseri
umani – continuerà a essere vietato, che sia fatto per ragioni
politiche o anche semplicemente per amicizia.

3.

Nel Suo libro Homo Sacer. Il potere sovrano e la vita nuda Lei
afferma che in ogni Stato moderno c’è una linea che delimita il punto
in cui il potere sulla vita si trasforma in potere di morte e la biopolitica
si trasforma in tanatopolitica. Pertanto su questa base il sovrano
agisce in stretta collaborazione con l’avvocato, il medico, lo
scienziato, il prete. Oggi la medicina può concedere al potere la
possibilità o l’illusione della sovranità, che influisce sia sul piano
politico che su quello etico. La subordinazione della vita alle
statistiche conduce inevitabilmente alla logica di una vita che non
vale la pena di essere vissuta e il corpo politico si trasforma in un
corpo biologico. Infatti, in un recente articolo, Lei ha sottolineato che
nel mondo contemporaneo occidentale le tre «religioni» (il
cristianesimo, il capitalismo e la scienza) coesistono e si incontrano,
mentre oggi il conflitto tra la scienza e le altre due religioni si è
riacceso e si è concluso con la vittoria della scienza. Come valuta la
posizione degli scienziati, e della medicina in particolare, nell’attuale
crisi e come si relaziona con la gestione del potere?

Occorre non sottovalutare la funzione decisiva che la scienza e la


medicina hanno svolto nell’articolazione del paradigma della
biosicurezza. Come suggerivo nell’articolo che ha citato, esse hanno
potuto esercitare questa funzione non in quanto scienze rigorose,
ma in quanto hanno agito come una sorta di religione, il cui Dio è la
nuda vita. Ivan Illich, forse il critico più acuto della modernità, ha
mostrato come la medicalizzazione crescente dei corpi ha
profondamente trasformato l’esperienza che ogni individuo ha del
suo corpo e della sua vita. Non si può comprendere come mai degli
esseri umani abbiano accettato le restrizioni eccezionali cui venivano
sottoposti se non si tiene conto di questa trasformazione. Quel che è
avvenuto è che ogni individuo ha spezzato l’unità della sua
esperienza vitale, che è sempre nello stesso tempo
inseparabilmente corporea e spirituale, in una entità puramente
biologica da una parte e in una esistenza sociale, culturale e politica
dall’altra. Questa frattura è secondo ogni evidenza un’astrazione, ma
un’astrazione potente e quello che il virus ha mostrato con chiarezza
è che gli uomini credono in questa astrazione e hanno sacrificato ad
essa le loro condizioni normali di vita, le relazioni sociali, le loro
convinzioni politiche e religiose e perfino le amicizie e gli amori.
Ho detto che la scissione della vita è un’astrazione, ma voi sapete
che la medicina moderna intorno alla metà del xx secolo ha
realizzato questa astrazione attraverso i dispositivi di rianimazione,
che hanno permesso di mantenere a lungo un corpo umano in stato
di pura vita vegetativa. La camera di rianimazione, con i suoi
meccanismi di respirazione e di circolazione sanguigna artificiali e le
sue tecnologie di mantenimento dell’omeotermia, attraverso i quali
un corpo umano è tenuto indefinitamente in sospeso fra la vita e la
morte, è una zona oscura, che non deve uscire dai suoi confini
strettamente medici. Ciò che è invece avvenuto con la pandemia è
che questo corpo artificialmente sospeso fra la vita e la morte è
diventato il nuovo paradigma politico, sul quale i cittadini devono
regolare il loro comportamento. Il mantenimento a ogni prezzo di una
nuda vita astrattamente separata da quella sociale è il dato più
impressionante nel nuovo culto istaurato dalla medicina come
religione.

4.

Una critica che Le viene fatta riguardo alla Sua concezione dello
stato di eccezione e della maniera in cui si struttura il potere è quella
di pessimismo. Infatti, secondo la Sua teoria, nelle democrazie
moderne capitaliste siamo tutti potenzialmente homines sacri e il
contesto dello stato di emergenza crea le condizioni affinché la
sovranità diventi una condizione insormontabile che le società
difficilmente possono contrastare. Vorremmo un Suo commento.
Inoltre, quali sono secondo Lei i margini di resistenza nella
situazione attuale, e quale il nuovo che potrebbe nascere?

Pessimismo e ottimismo sono delle categorie psicologiche che non


hanno nulla a che fare con le analisi politiche e coloro che se ne
servono mostrano soltanto la loro incapacità di pensare. Simone
Weil, che ha riflettuto in modo esemplare sul cambiamento delle
categorie politiche nella modernità, in una serie di articoli degli anni
Trenta aveva messo in guardia contro coloro che, di fronte all’ascesa
del fascismo in Europa, si riscaldavano con delle aspettative vuote e
con delle parole che avevano perso il loro significato. Credo che
dobbiamo oggi chiederci seriamente se certe parole che continuiamo
a usare – come democrazia, potere legislativo, elezioni, costituzione
– non abbiano in realtà da tempo perso il loro significato originario.
Solo se saremo capaci di fissare lo sguardo con lucidità sulle nuove
forme di dispotismo che si sono andate sostituendo a quelle potremo
eventualmente riuscire a definire le nuove forme di resistenza che
potremo opporre.

5.

Negli ultimi anni, la questione dei rifugiati è emersa come un


problema principale che l’umanità si trova ad affrontare. Lo
spostamento delle popolazioni nelle condizioni attuali può essere
paragonato storicamente, almeno in termini numerici, con quello che
è accaduto dopo le due guerre mondiali. Sia la Grecia che l’Italia, a
causa della loro posizione geopolitica, stanno vivendo intensamente
la questione del violento espatrio di grandi popolazioni da est a
ovest. In un Suo testo intitolato Oltre i diritti umani, Lei indica che le
Dichiarazioni dei diritti costituiscono il luogo dove avviene la
transizione dalla sovranità di origine divina alla sovranità nazionale,
cioè basata sulla nascita (natio in latino significa nascita). Così la
vita viene integrata nella sfera della sovranità statale. La
trasformazione del suddito in cittadino significa la trasformazione
della nuda vita naturale (della nascita) in un corpo che incorpora e
fonda la sovranità. Il principio di nascita e il principio di sovranità,
divisi nell’ancien régime, vengono ora uniti irrevocabilmente per
costituire il fondamento del nuovo Stato-nazione. Quindi ci troviamo
di fronte all’identificazione della nascita con la nazione, mentre
l’accesso al diritto può essere attribuito all’uomo solo dal momento in
cui esso è registrato come cittadino nella sfera della sovranità
statale. Il rifugiato costituisce il punto di rottura tra la nascita e la
nazionalità, rompe l’identificazione tra l’uomo e il cittadino, e quindi
crea una crisi nella narrativa dominante, nel trittico Stato-nazione-
territorio. Oggi, la strategia europea nei confronti dei rifugiati si
svolge attraverso grida di guerra, usando Paesi come la Grecia, la
Turchia e la Libia come depositi di anime. In questo testo, si
sottolinea l’urgente necessità di una ridefinizione del concetto di
cittadinanza nel mondo europeo, che consentirà una più agevole
integrazione di queste popolazioni. Vorremmo un Suo commento a
questo riguardo.

Nel testo che lei cita, avevo cercato, sulle tracce di un articolo di
Hannah Arendt che si intitolava We Refugees (Noi rifugiati), di
contrapporre la figura del rifugiato a quella del cittadino come
paradigma politico fondativo. Si trattava di mettere in questione il
senso della dichiarazione dei diritti dell’89 e della sua ripresa nel xx
secolo, con la sua equivoca distinzione-identificazione fra l’uomo e il
cittadino. E come Arendt aveva scritto che i rifugiati erano in realtà
l’avanguardia del loro popolo, così proponevo di sostituire il rifugiato
al cittadino come fondamento di un nuovo orizzonte della politica, la
cui urgenza era ormai inaggirabile. La nozione di cittadinanza, che
da Atene alla modernità era al centro della vita politica della città, si
era andata progressivamente svuotando negli ultimi decenni di ogni
contenuto politico reale. Sotto l’influsso della dimensione biopolitica
e poi con l’istaurazione del paradigma della sicurezza, la
cittadinanza esprimeva una condizione sempre più passiva, oggetto
di un crescente e onnipervasivo controllo.
Col nuovo paradigma della biosicurezza che si sta istaurando sotto i
nostri occhi, la nozione di cittadinanza è ormai completamente
cambiata e il cittadino è diventato l’oggetto passivo di cure, controlli
e sospetti di ogni tipo. La pandemia ha mostrato senza possibili
dubbi che il cittadino si riduce alla sua nuda esistenza biologica. In
questo modo egli si avvicina alla figura del rifugiato fin quasi a
confondersi con essa. Il rifugiato è diventato ormai interno al corpo
stesso del cittadino. Si disegna così una nuova guerra civile, nella
quale il nemico è, come il virus, interno al corpo proprio. E, come
suole avvenire ogni volta che coloro che si combattono sono
diventati troppo simili, la guerra civile si fa ancora più feroce e senza
possibile tregua.

6.
La situazione estrema creata dall’epidemia ha causato un clima di
panico. La risposta è venuta prevalentemente dagli Stati nazionali, e
non tanto dalle organizzazioni internazionali, molto confuse riguardo
al da fare. L’espansione della globalizzazione – ma anche
l’incapacità del sovrano a legittimare le fondamenta del suo potere –
sugli individui e nella società, sembrava eliminare il ruolo degli Stati
nazionali nella gestione politica, erigendo il mercato ad unico fattore
regolatore. Oggi, di fronte all’epidemia, il concetto di leader si è
rafforzato e i governanti degli Stati si presentano come i salvatori
della società – è quello che stiamo vivendo in Grecia. Quale pensa
che sarà la condizione dello Stato-nazione dopo la pandemia?

Le mie indagini archeologiche sulla storia della politica occidentale


mi hanno mostrato che il sistema che essa stabilisce è sempre
bipolare. In un libro giustamente celebre, Karl Polanyi ha dimostrato
che già all’epoca della prima rivoluzione industriale l’ideologia del
mercato, che sembrava contrapporsi al potere statale, faceva in
realtà sistema con esso e solo attraverso questa segreta
collaborazione ha potuto attuare la sua grande trasformazione della
società occidentale. In ogni epoca il potere statale ha sempre
convissuto con le nuove forze che si affermavano al suo interno o
fuori di esso, e questo vale sia per la dualità fra potere temporale e
potere spirituale nel Medioevo che per l’antagonismo fra movimenti
operai e organizzazione statale nel xx secolo. Quando oggi si parla
di globalizzazione e di grandi spazi e della conseguente eclissi dello
Stato-nazione non si deve dimenticare che questa apparente antitesi
sfocerà in una trasformazione dei poteri statali, ma non nella loro
abolizione. Il sistema bipolare che definisce la politica occidentale
continuerà a funzionare in nuove forme. La pandemia ha mostrato
chiaramente che una strategia certamente globale come quella
prevista dall’Organizzazione mondiale della Sanità e da Bill Gates, di
cui l’OMS è di fatto un’emanazione, non può essere realizzata senza
il decisivo intervento degli Stati-nazione, che sono i soli che possono
prendere, come hanno fatto, le misure coercitive di cui quella
strategia ha bisogno. L’epidemia – che rinvia sempre a un certo
demos – s’iscrive così in una pan-demia, in cui il demos non è più un
certo corpo politico, ma una popolazione biopolitica.

7.

Sulla stampa tedesca abbiamo recentemente letto degli articoli che


sollevavano la seguente questione: quale forma di governo ha
affrontato nel miglior modo la crisi pandemica, la democrazia o il
dispotismo? La domanda aristotelica riguardo allo stato ottimale, che
era stata a lungo sottomessa alla supremazia trionfante della
democrazia liberale, sta prudentemente tornando. La contestazione
dello status quo liberale e globalizzato sarà costretta ad attraversare
le reti autoritarie e centralizzate, oppure c’è una prospettiva di
ricreare una politica democratica oltre lo Stato e il mercato?

Che rispetto all’epidemia uno Stato totalitario possa essere citato


come modello mostra a che punto di irresponsabilità politica si possa
giungere. L’errore qui non consiste nel sollevare la questione
dell’eventuale inadeguatezza del sistema democratico. Già
Heidegger in un contesto diverso si era chiesto non a torto se la
democrazia fosse la forma politica adeguata di fronte
all’onnipervasività della tecnologia. Il vizio sta nel porre l’alternativa
fra democrazie e dispotismo. Occorre pensare un’altra figura della
politica, che sfugga all’eterna oscillazione, cui assistiamo ormai da
decenni, fra una democrazia che degenera in dispotismo e un
totalitarismo che assume forme apparentemente democratiche.
Sappiamo già da Tocqueville che la democrazia tende a degenerare
in dispotismo e per un osservatore attento è difficile decidere se noi
viviamo oggi in Europa in una democrazia che assume forme
sempre più dispotiche di controllo o in uno Stato totalitario che si
maschera da democrazia. È al di là di entrambi che dovrà
configurarsi una politica a venire.

8.

Nelle Sue dichiarazioni più recenti, ha criticato l’amministrazione


statale per la sua gestione della pandemia, ed in particolare per
l’imposizione di misure di divieto e di sospensione di tante attività
sociali. Tuttavia, queste misure sono state accolte con evidente
cautela, se non con ostilità, anche da un numero significativo di
funzionari governativi. Gli esempi caratteristici sono Donald Trump,
Jair Bolsonaro, Boris Johnson, dittatori come Aljaksandr Lukašėnka
ed ovviamente tanti attori del mercato internazionale. Come valuta
questa avversione per le misure proibitive espressa da alcune
sezioni dell’élite internazionale?

Anche in questo caso si può misurare il grado di confusione in cui la


situazione di emergenza ha gettato le menti di coloro che
dovrebbero restare lucidi, come anche a che punto l’opposizione fra
destra e sinistra si sia completamente svuotata di ogni contenuto
politico reale. Una verità resta tale sia che sia detta a sinistra che se
viene enunciata a destra. Se un fascista dice che 2+2= 4, questa
non è un’obiezione contro la matematica. Così di recente in
Germania un movimento di estrema sinistra che si chiama
significativamente Demokratischer Widerstand, «resistenza
democratica», e che protestava a ragione contro le violazioni delle
libertà costituzionali è stato violentemente attaccato dai media
perché condivideva queste proteste con l’estrema destra. Uno degli
organi del sistema dominante, lo «Spiegel», mi ha intervistato per
conoscere la mia opinione in proposito, dal momento che quel
movimento si richiamava esplicitamente al mio nome. Quando io ho
dichiarato che non avevo nulla a che fare col gruppo, ma che
ritenevo che essi avevano tutto il diritto di esprimere la loro opinione
e che il fatto che l’estrema destra avesse simili rivendicazioni non ne
inficiava minimamente la validità, il giornalista dello «Spiegel»,
secondo la cattiva abitudine che contraddistingue quella rivista, ha
semplicemente tagliato la mia risposta, pubblicandone soltanto la
prima metà.
Occorre in questi casi analizzare le ragioni che hanno spinto i leader
politici che lei ha citato a professare una certa opinione piuttosto che
un’altra e esaminare le strategie in cui un’opinione in sé corretta
viene utilizzata, e non mettere in questione la verità di quell’opinione.
15.
Requiem per gli studenti
24 maggio 2020

Come avevamo previsto, le lezioni universitarie si terranno dall’anno


prossimo online. Quello che per un osservatore attento era evidente,
e cioè che la cosiddetta pandemia sarebbe stata usata come
pretesto per la diffusione sempre più pervasiva delle tecnologie
digitali, si è puntualmente realizzato.
Non c’interessa qui la conseguente trasformazione della didattica, in
cui l’elemento della presenza fisica, in ogni tempo così importante
nel rapporto fra studenti e docenti, scompare definitivamente, come
scompaiono le discussioni collettive nei seminari, che erano la parte
più viva dell’insegnamento. Fa parte della barbarie tecnologica che
stiamo vivendo la cancellazione dalla vita di ogni esperienza dei
sensi e la perdita dello sguardo, durevolmente imprigionato in uno
schermo spettrale.
Ben più decisivo in quanto sta avvenendo è qualcosa di cui
significativamente non si parla affatto, e, cioè, la fine dello studentato
come forma di vita. Le università sono nate in Europa dalle
associazioni di studenti – universitates – e a queste devono il loro
nome. Quella dello studente era, cioè, innanzitutto una forma di vita,
in cui determinante era certamente lo studio e l’ascolto delle lezioni,
ma non meno importante erano l’incontro e l’assiduo scambio con gli
altri scholarii, che provenivano spesso dai luoghi più remoti e si
riunivano secondo il luogo di origine in nationes. Questa forma di vita
si è evoluta in vario modo nel corso dei secoli, ma costante, dai
clerici vagantes del Medioevo ai movimenti studenteschi del
Novecento, era la dimensione sociale del fenomeno. Chiunque ha
insegnato in un’aula universitaria sa bene come per così dire sotto i
suoi occhi si legavano amicizie e si costituivano, secondo gli
interessi culturali e politici, piccoli gruppi di studio e di ricerca, che
continuavano a incontrarsi anche dopo la fine della lezione.
Tutto questo, che era durato per quasi dieci secoli, ora finisce per
sempre. Gli studenti non vivranno più nella città dove ha sede
l’università, ma ciascuno ascolterà le lezioni chiuso nella sua stanza,
separato a volte da centinaia di chilometri da quelli che erano un
tempo i suoi compagni. Le piccole città, sedi di università un tempo
prestigiose, vedranno scomparire dalle loro strade quelle comunità di
studenti che ne costituivano spesso la parte più viva.
Di ogni fenomeno sociale che muore si può affermare che in un
certo senso meritava la sua fine ed è certo che le nostre università
erano giunte a tal punto di corruzione e di ignoranza specialistica
che non è possibile rimpiangerle e che la forma di vita degli studenti
si era conseguentemente altrettanto immiserita. Due punti devono
però restare fermi:
1) I professori che accettano – come stanno facendo in massa – di
sottoporsi alla nuova dittatura telematica e di tenere i loro corsi
solamente online sono il perfetto equivalente dei docenti universitari
che nel 1931 giurarono fedeltà al regime fascista. Come avvenne
allora, è probabile che solo quindici su mille si rifiuteranno, ma
certamente i loro nomi saranno ricordati accanto a quelli dei quindici
docenti che non giurarono.
2) Gli studenti che amano veramente lo studio dovranno rifiutare di
iscriversi alle università così trasformate e, come all’origine,
costituirsi in nuove universitates, all’interno delle quali soltanto, di
fronte alla barbarie tecnologica, potrà restare viva la parola del
passato e nascere – se nascerà – qualcosa come una nuova cultura.
16.
Il diritto e la vita
Inedito

La situazione attuale, in cui la salute degli esseri umani è diventata


la posta in gioco nel diritto e nella politica, offre l’occasione di
riflettere sui corretti rapporti che devono intercorrere fra il diritto e la
vita. Un grande storico del diritto romano, Yan Thomas, ha mostrato
come nella giurisprudenza romana la natura e la vita naturale degli
esseri umani non entrano mai come tali nel diritto, ma restano
separati da questo e funzionano soltanto come un presupposto
fittizio per una determinata situazione giuridica. Così il principio
naturale secondo cui tutto è comune a tutti vale solo come una
limitazione che esclude dalla sfera della proprietà giuridica l’aria, il
mare e le rive, ma la cosa comune a tutti diventa immediatamente
una res nullius, che fonda la proprietà del primo che se ne
impossessa. Analogamente, la cittadinanza è un dato giuridico
imprescrittibile e indisponibile, che, a differenza del domicilium, che
dipende dalla residenza fisica in un certo luogo, si acquista
attraverso l’origo, la quale non è, però, il fatto naturale della nascita,
ma una costruzione giuridica legata al luogo di nascita del padre.
I giuristi del xix secolo hanno trasformato questo artificio giuridico
nello ius sanguinis, in cui, come scrive Yan Thomas, «una mistica
del sangue che conduce all’ideologia biologica oggi dominante si
sovrappone a quella che era soltanto una costruzione genealogica
fittizia». Quel che è avvenuto a partire dai primi decenni del
Novecento è che il diritto ha progressivamente teso a includere in sé
la vita, a fare di essa il suo oggetto specifico, di volta in volta da
tutelare o da escludere. Questa presa in carico della vita da parte del
diritto non ha soltanto, come si potrebbe credere, degli aspetti
positivi, ma apre invece la via ai rischi più estremi. Come gli studi di
Michel Foucault hanno efficacemente mostrato, la biopolitica tende
infatti fatalmente a convertirsi in tanatopolitica. Quanto più il diritto
comincia a occuparsi esplicitamente della vita biologica dei cittadini
come un bene da curare e promuovere, tanto più questo interesse
getta immediatamente la sua ombra nell’idea di una vita che, come
recita il titolo di un’opera celeberrima pubblicata in Germania nel
1920, «non merita di essere vissuta [lebensunwertes Leben]».
Ogni volta che si determina un valore, si pone infatti
necessariamente anche un non-valore e l’altra faccia della
protezione della salute è l’esclusione e l’eliminazione di tutto ciò che
può condurre alla malattia. Dovrebbe farci attentamente riflettere il
fatto che il primo esempio di una legislazione in cui uno Stato si
assume programmaticamente la cura della salute dei cittadini è
l’eugenetica nazista. Subito dopo l’ascesa al potere, nel luglio 1933,
Hitler fece promulgare una legge per proteggere il popolo tedesco
dalle malattie ereditarie, che portò alla creazione di speciali
commissioni per la salute ereditaria (Erbgesundheitsgerichte) che
decisero la sterilizzazione coatta di 400.000 persone. Meno noto è
che, ben prima del nazismo, una politica eugenetica, potentemente
finanziata dal Carnegie Institute e dalla Rockefeller Foundation, era
stata programmata negli Stati Uniti, in particolare in California, e che
Hitler si era esplicitamente richiamato a quel modello. Se la salute
diventa l’oggetto di una politica statuale trasformata in biopolitica,
allora essa cessa di essere qualcosa che riguarda innanzitutto la
libera decisione di ciascun individuo e diventa un obbligo da
adempiere a qualsiasi prezzo, non importa quanto alto.
Come Yan Thomas ha mostrato per la storia del diritto che il diritto e
la vita non devono essere confusi, così è bene che anche diritto e
medicina restino separati. La medicina ha il compito di curare le
malattie secondo i princìpi che segue da secoli e che il giuramento di
Ippocrate sancisce irrevocabilmente. Se, stringendo un patto
necessariamente ambiguo e indeterminato con i governi, si pone
invece in posizione di legislatore, non soltanto, come si è visto in
Italia per la pandemia, ciò non conduce a risultati positivi sul piano
della salute, ma può condurre a inaccettabili limitazioni delle libertà
degli individui, rispetto alle quali le ragioni mediche possono offrire,
come dovrebbe oggi essere per tutti evidente, il pretesto ideale per
un controllo senza precedenti della vita sociale.
«Argumentum e silentio. Parla tu ora più forte, parola taciuta».
«Argumentum e silentio. Parla tu ora più forte, parola taciuta».
QUODLIBET

1 Gilles Deleuze, Giorgio Agamben, Bartleby. La formula della creazione


2 Silvio D’Arzo, L’uomo che camminava per le strade
3 Robert Walser, Una cena elegante
4 Robert Walser, Pezzi in prosa
5 René, Il testamento della ragazza morta
6 Giorgio Agamben, L’uomo senza contenuto
7 Colerus, Lucas, Le vite di Spinoza
8 Erri De Luca, Pianoterra
9 Blaise Pascal, Compendio della vita di Gesù Cristo
10 Gino Giometti, Martin Heidegger. Filosofia della traduzione
11 Miljenko Jergović, Le Marlboro di Sarajevo
12 Antonio Delfini, Poesie della fine del mondo
13 Jean-Luc Nancy, L’essere abbandonato
14 Furio Jesi, Lettura del «Bateau ivre» di Rimbaud
15 Dolores Prato, Scottature
16 Jacob Taubes, In divergente accordo. Scritti su Carl Schmitt
18 Francesco Nappo, Genere
19 Louis-René des Forêts, La stanza dei bambini
20 Emmanuel Lévinas, Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo
21 Gilles Deleuze-Félix Guattari, Kafka. Per una letteratura minore
22 Gianni Carchia, La favola dell’essere Commento al «Sofista»
23 Clio Pizzingrilli, Il tessitore
24 Silvio D’Arzo, L’osteria
25 Ginevra Bompiani, Le specie del sonno
26 Giorgio Manganelli, Contributo critico allo studio delle dottrine politiche del ’600 italiano
27 Maries Gardella, Fastigio
28 Mauricio Kagel, Parole sulla musica
29 Clio Pizzingrilli, Ioa lo spaccapietre
30 Gilles Deleuze, Pourparler
31 Scholem/Shalom, Due conversazioni con Gershom Scholem su Israele, gli ebrei e la
qabbalah
32 Ingeborg Bachmann, Quel che ho visto e udito a Roma
33 Eugenio De Signoribus, Memoria del chiuso mondo
34 Carmelo Bene-Gilles Deleuze, Sovrapposizioni
35 Franco Fortini, I cani del Sinai
36 Furio Jesi-Károly Kerényi, Demone e mito. Carteggio 1964-1968
37 Yona Friedman, Utopie realizzabili
38 Luigi Trucillo, Le amorose
39 Alexandre Kojève, Kandinsky
40 Gilles Clément, Manifesto del Terzo paesaggio
41 Günther Anders, Kafka. Pro e contro. I documenti del processo
42 Rem Koolhaas, «Junkspace». Per un ripensamento radicale dello spazio urbano
43 James George Frazer, La crocifissione di Cristo, seguito da La crocifissione di Aman di
Edgar Wind
44 Karl Marx, Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, con aggiunte di Clio
Pizzingrilli
45 Cesare Brandi, La fine dell’Avanguardia
46 Massimo De Carolis, Il paradosso antropologico
47 Luigi Trucillo, Darwin
48 Emilio Garroni, Creatività
49 Jakob von Uexküll, Ambienti animali e ambienti umani. Una passeggiata in mondi
sconosciuti e invisibili (Illustrazioni di Georg Kriszat)
50 Gianni Carchia, Nome e immagine. Saggio su Walter Benjamin
51 Karl Marx, Introduzione alla critica dell’economia politica
52 Margherita Morgantin, Titolo variabile
53 Luca Zevi, Conservazione dell’avvenire. Il progetto oltre gli abusi di identità e memoria
54 Franco Fortini, Lezioni sulla traduzione
55 Daniele Giglioli, Senza trauma. Scrittura dell’estremo e narrativa del nuovo millennio
56 Pavel A. Florenskij, Stupore e dialettica
57 Carl Leonhard Reinhold, I misteri ebraici ovvero la più antica massoneria religiosa
58 Elettra Stimilli, Il debito del vivente. Ascesi e capitalismo
59 Gianfranco Contini, Dove va la cultura europea?
60 Luca Della Robbia, La condanna a morte di Pietro Paolo Boscoli
61 Gilles Clément, Breve storia del giardino
62 Gilles Clément, Giardini, paesaggio e genio naturale
63 Enzo Melandri, I generi letterari e la loro origine
64 Georges Perec, Pierre Lusson, Jacques Roubaud, Breve trattato sulla sottile arte del go
65 Yan Thomas, Il valore delle cose
66 Emiliano De Vito, L’immagine occidentale
67 Giorgio Agamben, Gusto
68 Hans Kelsen, Che cos’è la giustizia? Lezioni americane
69 Renato Solmi, Introduzione a Minima moralia di Theodor W. Adorno
70 Paolo Virno, L’idea di mondo. Intelletto pubblico e uso della vita
71 Gilles Clément, L’Alternativa ambiente
72 Yan Thomas, Fictio legis. La finzione romana e i suoi limiti medievali
73 Franz Rosenzweig, Della comune intelligenza sana e di quella malata
74 Michele Cometa, Il Trionfo della morte di Palermo. Un’allegoria della modernità
75 Gabriele Guercio, Il demone di Picasso. Creatività generica e assoluto della creazione
76 Gino Trucillo, Altre amorose
77 Enzo Melandri, L’inconscio e la dialettica
78 Giorgio Agamben, A che punto siamo? L’epidemia come politica

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