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Marketing The Core 6th Edition Kerin Solutions Manual 1
Marketing The Core 6th Edition Kerin Solutions Manual 1
Solutions Manual
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I. INTRODUCTION
viii
TABLE OF CONTENTS (Continued)
I. INTRODUCTION PAGE
ix
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CHAPTER CONTENTS
PAGE
POWERPOINT RESOURCES TO USE WITH LECTURES ........................................... 1-2
LECTURE NOTES
• Chapter Opener: Launching a New Billion-Dollar Food Category—In Just Seven
Years! ........................................................................................................................... 1-4
• What Is Marketing? (LO 1-1) ....................................................................................... 1-5
• How Marketing Discovers and Satisfies Consumer Needs (LO 1-2; LO 1-3) ............ 1-7
• The Marketing Program: How Customer Relationships Are Built (LO 1-4) .............. 1-11
• How Marketing Became So Important ....................................................................... 1-15
x
CHAPTER CONTENTS
PAGE
POWERPOINT RESOURCES TO USE WITH LECTURES ........................................... 2-2
LECTURE NOTES
• Chapter Opener: Starting a Business by Getting an “A” in an Ice Cream Making
Course! ......................................................................................................................... 2-5
• Today’s Organizations (LO 2-1) .................................................................................. 2-5
• Strategy in Visionary Organizations (LO 2-2; LO 2-3) .............................................. 2-10
• Setting Strategic Directions (LO 2-4).......................................................................... 2-17
• The Strategic Marketing Process (LO 2-5; LO 2-6; LO 2-7)..................................... 2-23
xi
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CAPITOLO CXXII.
Scienziati. I libri. La stampa.
Tutto ci fa sentire che tocca al fine l’età sinora descritta: onde vogliamo
fermarci a salutare ancora un tratto questa generazione che passa;
generazione di istinto più che d’intelletto, che non avea la conoscenza
compiuta della morale verità, nè seppe le passioni trasformare in principj
morali.
Le città erano impresse d’un carattere monumentale, che manca alle
moderne. Tutte cinte di mura, difesa pubblica; e benchè così frequenti
fossero e sieno nel nostro paese, fra l’una e l’altra incontravansi spesso
borgate e villaggi, la più parte fortificati, talchè intercettavano o
difendevano le comunicazioni. Davanti alle città o nel cuore v’avea quasi
dappertutto almeno un ponte, che offriva altri ostacoli al nemico. In
ognuna vedeansi i resti delle torri, da cui aveano dominato le prische
famiglie signorili, e che la libertà aveva svettate o ridotte a mero
ornamento. Dove poi erasi elevato un principe, a difesa propria e offesa
altrui aveva elevato una rôcca, la quale doveva incutere tanto sgomento,
quanta confidenza ispiravano le chiese.
Queste non pareano mai troppe quando la religione era anima della
società; e grandeggiava la cattedrale, che dall’esterno o dai luoghi di
primitiva devozione era stata trasferita nel centro degli abitari. Isolarla
non sarebbesi pensato, benchè davanti solesse avere una piazza, e in giro
un sagrato erboso, talvolta cinto di muro e acconcio alle adunanze.
Finchè durò la dominazione de’ vescovi, il palazzo di questi era distinto
dalla città, munito, e spesso comprendeva vastissimi tratti; ma
dappertutto dovette cedere ai Comuni, salvo Udine e poc’altri: però que’
recinti e gli amplissimi chiostri rimasero sempre luogo d’asilo. Ed
ecclesiastici e monasteri possedevano la maggiore e miglior parte della
campagna; e aspetto e intenzione religiosa conservavano tutti gl’istituti
di pietà e di educazione, fondati e diretti dalla Chiesa o sotto i suoi
auspizj.
Le case eransi congegnate malamente di legno, fango, paglia, quali ne
mostra ancora tante la pulitissima Francia: non frenato da regolamenti,
ognuno invadeva quel più che potesse dello spazzo pubblico, sporgeva i
piani superiori e le scale e gli agiamenti sopra le vie, che ne rimanevano
anguste e soffogate (Capitolo princ.) Di buon’ora però si volle
abitare meglio; e la pietra, i mattoni, i tegoli provvidero alla solidità e
alla sicurezza. La regolare disposizione delle strade di Torino ne palesa
l’origine principesca.
I nomi alle vie applicavansi popolarmente secondo i luoghi cui
mettevano e principalmente le chiese vicine: spesso secondo l’industria
che vi si esercitava, o la famiglia che v’avea casa: il che pure ci rivela
una stabilità di famiglie e di botteghe, oggi svanita. Degli odierni numeri
teneano vece o un motto, o uno stemma, o una insegna fabbrile, una
pittura, una terra cotta, uno smalto.
Illuminazione notturna non si conosceva; solo in parte supplivano le
lampade accese ai frequenti tabernacoli. Fortunate le città che avessero
acque correnti per lavarsi, o spesse pioggie! altrimenti la poca cura nel
gettare le immondizie, massime nelle intercapedini, i branchi di majali
che razzolavano liberamente tra queste, l’abbondanza di stalle donde
ogni mattina menavansi fuori le giovenche a pascere, come tuttora
accade di vedere in parecchie città di Romagna, impedivano la pulitezza.
Fra le case plebee discernevansi i palazzi signorili, che talvolta
abbracciavano vasti quartieri; come in Milano quel de’ Visconti, che
giungeva da San Giovanni in Conca fino all’arcivescovado, e quel dei
Pusterla da Sant’Alessandro fin alla Vedra. Spesso v’erano annessi
portici, o prolungati tutt’al lungo delle strade, come in Bologna, in
Mantova e altrove, od isolati, come il coperto de’ Figini e la loggia degli
Osj a Milano, la loggia de’ Bardi e le altre di Firenze, ove convenivano i
dipendenti d’una famiglia, od un’intera fazione a confabulare, spassarsi,
trattare di affari. Una più grande faceva l’uffizio delle borse odierne, e
spesso erano sotto alla sala del parlamento, come vedesi ancora nella
piazza de’ Mercanti a Milano, nel broletto a Monza, e così a Padova, a
Vicenza, altrove.
Il palazzo del Comune, oltre servire alle adunanze, era e una
testimonianza della ricchezza del paese, e un deposito de’ suoi ricordi,
ornandosi con cimelj antichi e con lapide e monumenti nuovi, massime
cogli stemmi o cogli encomj de’ magistrati. Come la chiesa aveva
campana, così volle averla il Comune succedutole; ed era vanto il farne
elevata o ricca la torre. Sulla piazza stava spesso eretta la forca, feroce
simbolo della podestà di sangue. Oltre l’armeria, non dovevano mancare
vasti magazzini, ove un’esagerata precauzione riponea gran quantità di
grano, di fieno, di vino, spesso imponendo a tutti i possessori della
campagna di portarvi la metà o un terzo del ricolto.
Non che le città, ogni borgo aveva istituzioni caritatevoli, massime per
infermi e pellegrini, fondate da qualche pio o da una confraternita o da
un’arte. Nel secolo che descriviamo si cominciò a concentrare anche la
beneficenza, che lo spirito domestico del medioevo aveva sparpagliata, e
ne vennero i grandiosi ospedali nelle città, meglio amministrati per certo;
se più conducenti al servizio de’ poveri, lo dica altri. Nel 1431, per opera
del vescovo, gli ospedali di Palermo furono riuniti in quello di Santo
Spirito; a Milano Francesco Sforza dei varj formò l’ospedal Grande,
reggia dei poveri; a Como persuase altrettanto il beato Michele da
Carcano nel 64; ad Asti nel 55 il vescovo Filippo Roero per quello di
Santa Maria; così a Cremona nel 50, e alquanto più tardi a Messina per
l’ospedale di Santa Maria della Pietà.
Nella lor cerchia ogni città conservava vita propria, propria politica;
mercanti dotati del senso pratico della vita; legulej sottili fino alla
malizia; nobili ancora spadaccini, ma già togati; clero basso e
mestierante colla sollecitudine del guadagno, ma colla drittura ingenua e
l’amor della giustizia; corporazioni laiche, oculatissime a conservare i
privilegi; tutti attenti a bilanciarsi fra la brutalità de’ tiranni e la brutalità
della canaglia. Spesso ancora, quantunque crescessero gli eserciti, erano
chiamati a difendersi dai soldati. Avvicinavasi una banda? Contadini e
pastori ravviano alla città i bovi, le pecore, i bufali, vi conducono le
scorte, i grani, gl’istromenti rurali. Si chiudono le porte, si ritirano i
ponti, si calano le saracinesche, si tendono le catene; gli uni corrono di
casa in casa a cercare graticci, materasse, botti da serragliare le vie ed
ammortire i colpi; altri vanno ad allogare i poveri e gli avveniticci per le
taverne, i conventi, i portici; altri si stringono a consiglio col comandante
della piazza sopra i mezzi di difesa; mentre in palazzo si divisano i modi
di tenere d’occhio il comandante stesso, e impedire che tradisca, egli
mercenario. Quel misto d’eroismo e di paura, d’esaltamento e di
codardia, di gonfie minaccie e di accasciata aspettazione, di litanie ed
esposizioni in chiesa e di esercizj sul campo che accompagnano
l’avvicinarsi del pericolo, suscitano cento aspetti e discorsi differenti,
che si mescolano al rintocco della campana, allo squillo delle trombe, ai
falsi allarme che poi risolvonsi in risate. Fra ciò arrivano feriti, infermi,
spogliati, paurosi; e i loro racconti, avidamente ascoltati, ripetuti,
ingranditi, crescono l’ansietà: qualche spavaldo giura vendicarli; qualche
sofferente crede e compatisce il coloro soffrire; altri è spedito a
patteggiare col nemico, a riscattarsi a denaro dal saccheggio; e
ottenutolo, versansi dalla città, abbracciandosi con quei che dianzi erano
nemici, bevendo, cantando con loro. Così protraevasi quell’attività
febbrile e quell’ansietà giornaliera che costituivano la educazione
dell’uomo, e produceano a vicenda esaltamento e prostrazione, slancio
irriflessivo o concentrazione devota, ma sempre la coscienza d’essere
qualche cosa, di qualche cosa potere; lontano dalla vulgarità in cui cade
(noi lo vediamo) una società governata da scettici, o da un despotismo
che dà le apparenze di ordine all’anarchia morale.
E noi da queste trasportiamoci in quelle città per adocchiarne a minuto le
costumanze ed i caratteri.
Ai Francesi, nelle diverse loro calate in Italia, appongono i cronisti
l’avere insegnato ai nostri a surrogare alle avite usanze novità sempre
varie, cercar di parere belli anzichè buoni, e ambire non tanto la lode
delle opere e dell’ingegno, quanto la vana e folle gloriola delle frastaglie
e del vestire acconcio, e variare portature, e quel lusso che preferisce gli
oggetti dilettevoli ai necessarj. Le carrozze furono sostituite ai giumenti
ed alle cavalcature, fin dagli uomini: sciali nel vitto, nel vestire, nelle
spese nuziali, nelle donazioni; perfino artefici plebei, dice l’aulico
pavese, usavano alle mense maggior varietà e raffinata delicatura che
non i nobili d’una volta; nè le donne vulgari la cedevano alle ricche e
gentili. E l’autore della vita di Cola Rienzi, in suo favellar romanesco: —
Di questo tempo cominciò la gente ismisuratamente a mutare abiti, sì de
vestimenta, sì de la persona. Cominciò a far li pizzi de li cappucci
lunghi; cominciò a portare panni stretti alla catalana e collari, portare
scarselle a le correggie, e in capo portare cappelletti sopra lo cappuccio.
Po’ portavano barbe grandi e folte, come bene gianetti spagnuoli
vogliano seguitare. Dinanzi a questo tempo queste cose non erano anco;
se radeano le persone la barba, e portavano vestimenta larghe e oneste; e
se ciascuna persona avessi portata barba, fora stato avuto in sospetto
d’esser uomo de pessima ragione, salvo non fosse spagnuolo ovvero
uomo de penitenzia. Ora è mutata condizione, idea, deletto: portano
cappelletto in capo per grande autoritate, folta barba a modo di
eremitano, scarsella a modo di pellegrino. Vedi nuova divisanza! e che
più è, chi non portassi cappelletto in capo, barba folta, scarsella in cinta,
non è tenuto covelle, ovvero poco, ovvero cosa nulla. Grande capitana è
la barba: chi porta barba è tenuto».
Del 1388 Giovanni Musso dipingeva i Piacentini sontuosissimi in tutto,
specialmente negli abiti. Le donne portano vesti lunghe e larghe di
velluto di seta di grana, o di panno di seta dorato, o di panno d’oro o di
lana scarlatto o pavonazzo, con ampie maniche fin a mezza la mano, ed
altre che pendono fin in terra, aguzze a maniera di scudi. E sopra vi si
pone talvolta da tre in cinque once di perle, che costano dieci fiorini
l’oncia; o nastri o cerchi d’oro al collo, a guisa dei colletti dei cani; e in
vita belle cinture d’argento dorato e di perle, da valere venticinque fiorini
ciascuna; e con tanta varietà di anelli e pietre preziose pel costo di trenta
in cinquanta fiorini: a tacer quelle che portano le cipriane, vesti
larghissime al piede e strette indecentemente dal mezzo in su, e tutte
impomellate dalla gola fin ai piedi con bottoni dorati o perle. Ricchissimi
poi sono i vezzi del capo. Alcune usano mantellette che coprono appena
le mani, foderate di vajo e di zendado, e belle filze di coralli o d’ambra:
le matrone e le vecchie un mantello ampio, rotondo e crespo, sparato
davanti, se non che una spanna verso la gola ha bottoni d’argento dorato:
e ognuna ha tre mantelli, un cilestro, un pavonazzo, uno di camelloto
ondato. Le vedove istesso, ma tutto bruno senz’oro o perle. I giovani
hanno gabbani lunghi e larghi fin a terra con belle fodere di pelli
domestiche e selvatiche, di panno i più, altri di seta e velluto: e sotto han
vestiti corti e assettati, e dappertutto galloni di seta o d’oro, e talvolta con
cinture. Gli uomini maturi usano cappucci doppj di panno e sovr’essi
berrette di grana fatte a ferri; i giovani non portano cappuccio che
d’inverno, con becco lungo fin a terra; bianche le scarpe, e talvolta con
punta lunga fin tre once, imbottita di borra; rasa la barba da mezzo
l’orecchio in giù, e gran zazzera di capelli rotonda. E tengono cavalli fin
a cinque, e servi, a ciascun de’ quali si dà fiorini dodici l’anno e il vitto.
Giovan Villani non volle «lasciare di far memoria di una sfoggiata
mutazione d’abito, che recarono di nuovo i Francesi che vennero in
Firenze il 1342. Chè colà dove anticamente il vestire ed abito era il più
bello, nobile ed onesto che niun’altra nazione, al modo dei togati
Romani, sì si vestivano i giovani una cotta, ovvero gonnella corta e
stretta, che non si potea vestire senza ajuto d’altri, e una coreggia come
cinghia di cavallo, con isfoggiata fibbia e puntale, e con isfoggiata
scarsella alla tedesca sopra il pettignone, e il cappuccio a modo di
sconcobrini (giocolieri) col battolo infino alla cintola e più, ch’era
cappuccio e mantello con molti fregi e intagli. Il becchetto del cappuccio
lungo sino a terra per avvolgere al capo per lo freddo, e colle barbe
lunghe per mostrarsi più fieri in arme. I cavalieri vestivano con sorcotto
ovvero guarnacca stretta, ivi suso cinti, e le punte de’ manicottoli lunghe
infino in terra, foderate di vajo ed ermellini. Questa istranianza d’abito,
non bello nè onesto, fu di presente preso per li giovani di Firenze; e per
le donne giovani disordinati manicottoli».
Anche Galvano Fiamma, sotto il 1340, deplora che i giovani milanesi
sviarono dalle orme dei padri, e si trasformarono in straniere figure;
presero ad usare strette vesti alla spagnuola, e chiome tonde alla
francese, lunga barba alla barbarica, cavalcare con furiosi sproni alla
tedesca, parlare con varie lingue alla tartara. Le donne pure vagano
scollacciate, con vesti di seta e talvolta d’oro; acconcio il capo con ricci
alla forestiera; succinte in zone d’oro come amazzoni; camminano coi
calzari ritorti in su; giocano a tavole e dadi: cavalli da guerra, splendenti
armadure, e ch’è peggio, virili cuori, libertà degli animi, sono ornamento
delle donne e cure di tutta la gioventù, sprecando le sostanze sudate dai
genitori frugali.
Troviamo da altri deriso il farnetico delle donne, ora di ringrandire la
persona rizzando sul cucuzzolo i capelli, ora imberrettate, ora colla
chioma disciolta sulle spalle, con diverse maniere di bestie appiccate al
petto: l’alchimia faceva sua arte coprendone le magagne, e con varj
avvisi medicando la pelle. Ora, aperto il collaretto, sfacciatamente
mostravano; poi di tratto l’alzavano su fino agli occhi: talora, stretta la
cintura, gonfiavano di sotto come pregnanti; tal altra con piombini
tenevano intirizzite le guarnacche, a coprire il calcagnino che le rialzava
dal suolo; qualche altra poneano mantello a somiglianza degli uomini
Veneti, Genovesi, Catalani, che prima serbavano mode proprie, si
meschiavano poi talmente, da non distinguerli. I milordini non
chiamavansi contenti se l’uno non superava l’altro in novità; sicchè ora
s’adattavano la berretta notturna, ora strozzati alla gola e allacciati di
corde come fossero balle, tantochè non potevano sedere che non ne
schiantassero alcuna: sempre anelanti dietro foggie straniere l’uno di
Sorìa, quello di Arabia, un terzo pareva d’Armenia, un altro portava il
farsettino all’ungherese; e chi larghi manicottoli, e gabbani di più versi,
con maniche giù dal dosso pendenti come fossero monchi, e larghe punte
di scarpe [185].
Queste lagnanze, oltre il solito andazzo di imbellire il passato a
rimprovero del presente, a noi sono indizio del crescere della
democrazia, per cui non rimanevano le condizioni separate fin nell’abito
e nelle guise. Che che poi ne dicano i declamatori, il cangiare foggie non
era consueto; e oltre che ciascun paese ne conservava di proprie, per le
quali si diceva «Questo è napoletano, questo lombardo, questo
genovese», anzi discerneasi il fiorentino dal pisano e dal lucchese, gli
abiti bastavano l’intera vita e tramandavansi da una all’altra generazione.
L’addobbo dei Fiorentini ci è bello ed elegantemente descritto da
Benedetto Varchi: — Passato il diciottesimo anno, vestivano in città una
veste o di saja o di rascia nera, lunga quasi fino a’ talloni, e a dottori ed
altre persone più gravi soppannata di taffetà e alcuna volta d’ermesino o
di tabì, quasi sempre nero, sparata dinanzi e dai lati, ove si cavano fuori
le braccia, ed increspata da capo, dove s’affibbia alla forcella della gola
con uno o due gangheri di dentro, e talvolta con nastri e passamani di
fuora, la qual veste si chiama lucco. I nobili e i ricchi lo portano anche il
verno, ma o foderato di pelli, o soppannato di velluto, e talvolta di
damasco. Di sotto poi chi porta un sajo, chi una gabbanella, od altra
vesticciuola di panno soppannata, che chiamano casacche, e dove la state
si porta sopra il farsetto o giubbone solamente, e qualche volta sopra un
sajo o altra vesticciuola scempia di seta, con una berretta in capo di
panno nero scempia, o di rascia leggerissimamente soppannata con una
piega dietro, che si lascia cader giù in guisa che cuopre la collottola, e si
chiama una berretta alla civile. Nè ora si portano più sajoni con pettini e
colle maniche larghe che davano giù a mezza gamba, nè berrette che
erano per tre delle presenti, colle pieghe rimboccate all’insù, nè scarpette
goffamente fatte con calcagni di dietro.
«Il mantello è una veste lunga per lo più insino al collo del piede,
ordinariamente nero, ancorchè i ricchi, massimamente i medici, lo
portino pagonazzo o rosato, e aperto solo dinanzi e increspato da capo, e
s’affibbia con gangheri come i lucchi, nè si porta da chi ha il modo a
farsi il lucco, se non di verno sopra un sajo di velluto o di panno e
foderato. Il cappuccio ha tre parti; il mazzocchio, che è un cerchio di
borra coperto di panno, che gira e fascia dattorno alla testa e di sopra, e
soppannato dentro di rovescio, copre tutto il capo; la foggia, o quella che
pendendo in sulle spalle, difende la guancia sinistra; il becchetto è una
striscia doppia del medesimo panno, che va fino a terra: si piega in sulla
spalla, e bene spesso s’avvolge al collo, e da coloro che vogliono essere
più destri e più spediti, intorno alla testa. Il pappafico era un altro modo
di cappuccio che copriva le gote.
«La notte, nella quale si costuma in Firenze andar fuori assai, s’usano in
capo tôcchi, e in dosso cappe chiamate alla spagnuola, cioè colla
capperuccia dietro. In casa usa mettersi indosso un palandrano o un
catalano, con un berrettone in capo. La state alcune zimarre di guarnello,
o gavardine di sajo con un berrettino. Chi cavalca, porta o cappa o
gabbano, o di panno o di rasia; e chi va in vaggio, feltri. Le calze tagliate
al ginocchio, e con cosciali soppannati di taffetà, e da molti frappate di
velluto e bigherate. Mutan ogni domenica la camicia, increspata da capo
e alle mani, e tutti gli altri panni fino al cintolo, ai guanti ed alla
scarsella. Il cappuccio nel far riverenza non si cava mai, se non al
supremo magistrato, a un vescovo o cardinale: e solo a cavalieri o
magistrati, o dottori o canonici, chinandosi il capo in segno d’umiltà,
s’alza alquanto con due dita dinanzi» [186].
Agli eccessi del lusso continuavano ad opporsi leggi suntuarie (t. , p.
125), ma la ripetizione ne rivela l’inutilità: predicatori e moralisti
declamavano, e intanto le pompe crescevano di più in più. S’aprivano
talvolta corti bandite, ove i signori accorreano come a rare occasioni di
riunirsi e sfoggiare; i cavalieri a romper lancie, ed a meritare in premio
del valore l’applauso e i sospiri delle belle; i popolani alle mense
apprestate a tutti, ai vini che talora perfino zampillavano da artifiziose
fontane: abiti si regalavano a profusione, e mille persone furono vestite
dalla moglie di Matteo Visconti nelle nozze di Galeazzo suo figlio, con
Beatrice d’Este. La quale usanza di regalar cose utili, anzichè un anello o
una tabacchiera, a lungo fu conservata.
Buonamente Aliprando, il quale stese la cronaca di Mantova nelle più
rozze terzine che uom possa leggere, descrive la corte bandita dai
Gonzaga menando tre spose in una volta. Assai baronia venne da tutte
parti, ognuno portando un dono di vesti di velluto, o di mischio di lana, o
di vajo e scarlatto, foderate quale d’agnello, quale di volpe o coniglio,
quale di vajo, con bottoni d’argento: ed erano non meno di
trecentrentotto, le quali furono compartite a buffoni e a magistrati.
D’argenteria chi donava coppe, chi cucchiaj, chi bacini, in tutto pel peso
di ducencinquanta marchi. Altri presentò taglieri e ciotole di legno,
quante bastassero a tutta la corte; la comunità de’ mercanti regalò mille
ducati; chi recò carne e pollame, chi superbi destrieri. Essi Gonzaga poi
regalarono ventotto cavalli, del valore di duemila ducento ducati: le altre
spese del fieno, dell’avena, del mangiare, sommarono a
cinquantaduemila lire. Venticinque cavalieri di nobiltà furono vestiti: ed
otto giorni si durò fra tornei, giostre e bagordi, e sonare, ballare, cantare
numerandosi fino a quattrocento sonatori, con buffoni che se ne
tornarono contenti di robe e di denaro.
Fu spettacolo nuovo, alla pace celebrata in Vicenza nel 1379 fra Bernabò
Visconti e gli Scaligeri, il vedere fuochi d’artifizio, pei quali tutti stavano
cogli occhi verso il cielo [187]. Nel 1397 Biordo de’ Michelotti, signore di
Perugia e delle circostanti città, ordinò feste per menar moglie Giovanna
Orsini. — E primieramente (leggesi ne’ Diarj del Graziani) fu ordinato
che ogni famiglia del contado facesse un presente, e poi che ogni
comunità, villa e castello facesse il suo presente, che furono paglia,
biada, legne, grano, vino, polli, vitelli, castrati, ova, cacio. Biordo fece
bandire per tutte le terre, che ciascuna persona che non fosse ribelle o
condannata del Comune di Perugia, potesse venire alle dette feste
sicuramente; ed invitò tutti i signori circonvicini, ordinando corte bandita
per otto giorni; e inoltre fece venir per guardia della sua vita moltissime
genti delle sue terre. Tutte le terre d’intorno gli mandarono ambasciatori
con onorevolissimi doni, e anche Venezia e Fiorenza; e quel di Fiorenza
menò dodici uomini d’arme per giostrare. Madonna contessa entrò con
un vestimento d’oro tirato, con molte gioje in testa; davanti andavano tre
paja di cofani, e sei donzelle con loro vestimenti di drappo. Ella portava
in capo una ghirlanda di sparagi; venivano con essa lei a cavallo messer
Chiavello signor di Fabriano, gl’imbasciatori di Venezia e di Fiorenza.
Tutte le gentildonne onorate le si fecero incontro ballando, vestite a porta