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Storia Dell'educazione e Delle Pedagogie
Storia Dell'educazione e Delle Pedagogie
Le grandi civiltà dell’antichità non ci hanno lasciato testimonianze di un’esplicita riflessione pedagogica che, però, non deve
essere mancata del tutto. È, in ogni caso, possibile avanzare qualche ipotesi fondata.
in primo luogo: la scuola delle origini si da un'organizzazione che richiama, in forme diverse, quella familiare,
religiosa e artigiana. Il ricorso alle punizioni corporali era comune a tutte le forme di rapporto educativo, il che
lascia intendere come l'affermazione del principio di autorità, la necessità di abituare i giovani alla subordinazione
e all'obbedienza fossero a un tempo mezzi e fini dell'educazione. Forse si può parlare di una "pedagogia implicita",
ma non per questo meno operante, se si pensa alla rigida struttura gerarchica di quelle società. Allo stesso principio
di autorità era improntato il rapporto tra capofamiglia e figli, tra artigiano e apprendisti, tra maestro e allievi: i
giovani andavano educati al rispetto e alla sottomissione alle tante autorità che governavano la loro vita;
in secondo luogo: via via che i processi di insegnamento-apprendimento si dilatano e acquistano consapevolezza
del loro valore individuale e sociale, si consolida un rapporto di continuità tra educazione e istruzione. Il caso
dello scriba è in questo senso esemplare: un'istruzione impartita come "ammaestramento passivo" mnemonico e
ripetitivo, mediato spesso dal potere coercitivo delle percosse, aveva una grande valenza educativa, che
comprendeva e superava, l'addestramento all'uso dello stilo e delle tavolette di argilla;
infine, la scuola del mondo antico presenta già alcuni caratteri che accompagneranno questa istituzione fino ai
giorni nostri: per quanto sia impropria per quei tempi la distinzione tra scuola pubblica e scuola privata, sappiamo
che vi erano insegnanti che privatamente impartivano lezioni a pagamento e ne traevano di che vivere. Inoltre, fin
da allora, i maestri rimproveravano ai loro allievi di essere svogliati, distratti, indisciplinati, da richiamare e punire
in continuazione; gli allievi a loro volta lamentavano la severità e la pedanteria dei maestri, la pesantezza dello
studio. Non mancavano infine i padri che cercavano di ingraziarsi la benevolenza dei maestri con regali di varia
natura, né i maestri che, per necessità o per cupidigia, apprezzavano quei doni e si mostravano compiacenti verso i
figli delle famiglie più generose.
2.4 I FENICI
A partire dal II millennio a.C., i Fenici e gli Ebrei si stanziano nella fascia che va dall’Egitto alla Siria: è un fascia di terra stretta
tra il Mediterraneo, i monti e i deserti retrostanti, adatta sia all’agricoltura sia al commercio marittimo. I Fenici popolavano
l’attuale Libano e anche se hanno dato vita a una civiltà, non sembra che abbiano mai costituito un vero e proprio regno. Il loro
modello politico-sociale è quello della città-stato e delle colonie commerciali fondate un po’ ovunque. La popolazione viveva di
agricoltura ma soprattutto di commercio marittimo per il quale svilupparono una abilità come navigatori. Fondarono una rete
mercantile nel Mediterraneo ricorrendo anche alla pirateria. Perfezionarono le tecniche per la tintura dei tessuti, per la
lavorazione del vetro, dell’avorio e del ferro.
A loro si deve l’uso dell’ alfabeto fonetico ottenuto riducendo a sole ventidue i precedenti e complessi sistemi di scrittura.
L’alfabeto fenicio è stato ripreso e modificato con l’aggiunta delle vocali e adottato da altre scritture come latino e greco. Diedero
vita ad una cultura fondata sull’esperienza e sul fare che influenzò la loro educazione, affidata ai soggetti tradizionali: famiglia,
maestro di bottega e ad alcune scuole commerciali.
2.5 GLI EBREI
Possiamo leggere nella Bibbia che da Adamo discendono i patriarchi e che il nuovo ordine del mondo nacque dal Patto
dell’Alleanza stabilito da Dio con Noè e i suoi figli. La successiva discendenza culmina con le figure di Abramo, suo figlio Isacco
e suo nipote Giacobbe. Abramo, in Mesopotamia, su ordine del Signore si stabilisce nella Terra Promessa, la terra di Canaan.
Gli Ebrei erano divisi in dodici tribù la cui origine viene fatta risalire ai dodici figli di Giacobbe e dopo una serie di guerre
diedero vita al Regno di Israele con capitale Gerusalemme legato ai nomi di re Saul, Davide e Salomone.
La Terra di Israele fu conquistata dagli Assiri, Egizi e Babilonesi che la saccheggiarono deportando la popolazione alla cattività
babilonese. Gli Ebrei si sollevarono contro Roma fino a quando Tito distrusse il secondo Tempio di Gerusalemme e Adriano
disperse il popolo nella diaspora. Il Dio di Israele è unico e non può essere né nominato né raffigurato.
Il popolo ebraico è il popolo eletto da Dio che indica la Terra Promessa e detta a Mosè le Tavole della legge. Il Pentateuco
(primi cinque libri della Bibbia) narrano la genesi del mondo, dell’uomo e della donna. Oltre a essere il testo primario della
religione ebraica fonda anche la cultura del popolo definendone lo statuto identitario. La religione ebraica ha trasformato del
dodici tribù in una nazione e dopo la diaspora ha salvaguardato il suo popolo che per due millenni è stato oggetto di
persecuzioni che vanno dai pogrom all’orrore della Shoah.
2.6 L’EDUCAZIONE NEL MONDO EBRAICO
L’educazione era fondamentale per il popolo ebraico. Il padre era il primo maestro del figlio e l’educazione aveva un carattere
popolare, potremmo dire di “massa’”, senza differenze tra ricchi e poveri; i genitori davanti alla comunità erano responsabili
delle azioni dei propri figli ed erano raccomandate le punizioni corporali.
L’educazione era fondata sulla Bibbia e sulla spiegazione del Pentateuco o Torah. Il libro di Neemia ci narra come dopo la fine
della cattività babilonese e la ricostruzione del Tempio si diffonde una didattica religiosa fondata sulla lettura della Torah
seguita da un’omelia che spiegava gli insegnamenti.
Anche se la Bibbia e la Torah erano tramandate per iscritto, in pochi erano in grado di leggere la Scrittura. Le letture e le omelie
erano in vigore per molto tempo a opera di scribi, farisei e rabbini, mentre nell’era cristiana sorsero le scuole nelle sinagoghe.
Nel mondo ebraico non era consentito insegnare sotto pagamento perché l’Eterno ha dato al mondo la Sua Legge senza chiedere
compensi e senza compensi la Legge doveva essere divulgata.
L’interpretazione e l’insegnamento della Torah devono rappresentare una ricompensa a se stessi. Nella tradizione cristiana il
Nuovo Testamento affida al Vangelo la diffusione della buona novella. Nell’ebraismo la conoscenza e l’interpretazione della
scrittura hanno un carattere più diffuso come dimostra il Talmud, che significa insegnamento, studio e commento. Si tratta di
un’opera di alcune migliaia di pagine nella quale vi sono due tradizioni orali: babilonese e palestinese. È una raccolta di passi
della Torah e della Bibbia, commentati dai rabbini nei diversi luoghi e nei diversi tempi delle due tradizioni e aveva una
funzione educativa.
CAP.3 → IL MONDO GRECO
3.1 L’EDUCAZIONE NELLA GRECIA ARCAICA
La cultura greca ha influenzato profondamente l’intero mondo occidentale. La sua visione del mondo e della storia si verrà
costruendo nel corso di alcuni secoli intorno a una centralità dell’uomo che rappresenta una delle novità più importanti del
mondo arcaico. Anche per questa ragione l’educazione acquisisce in Grecia un ruolo rilevante e ci consegna per la prima volta
una riflessione sull’educazione: una pedagogia.
Le prime notizie attendibili risalgono al III millennio a.C., quando nell’isola di Creta si sviluppò la civiltà minoica, dal nome
del re Minosse. È una società molto evoluta, dedita all’agricoltura e soprattutto alla lavorazione dei metalli e della ceramica,
con un fiorente commercio marittimo molto esteso. L’assetto socio-economico è centrato sul palazzo intenso in senso ampio in
quanto si trattava di costruzioni molto complesse, vere e proprie cittadelle che racchiudevano la residenza del re e della sua
corte, templi e santuari, strutture amministrative ecc: il mito del Labirinto di Cnosso reca in sé l’immagine della complessità del
“palazzo”.
La raffinatezza dei prodotti artistici e la diffusione di un sistema di scrittura (lineare A) fanno pensare a una civiltà ricca e
articolata, nonostante gli sconvolgimenti causati da eruzioni vulcaniche e terremoti che devastarono, più volte, l’isola. Si
presume infatti che la rovinosa esplosione dell’isola vulcanica di Santorini abbia prodotto conseguenze tali da determinare il
declino della civiltà.
Successivamente popolazioni greche provenienti da Micene occuparono Creta dando vita alla civiltà micenea o alle civiltà egee.
Nella seconda metà del Il millennio a.C. nel Peloponneso e nella Grecia continentale sono sorti alcuni regni con caratteri diversi
rispetto alla civiltà minoica. Si trattava di popolazioni achee che, insistendo su regioni poco adatte all'agricoltura, ricorrevano
alla guerra come mezzo di espansione territoriale e di acquisizione di materie prime. La loro organizzazione politica
richiamava quella dei più antichi regni territoriali, spesso in conflitto tra loro, con una rigida gerarchia sociale: il potere era
esercitato dal re con l'appoggio degli apparati militari e delle élite aristocratiche.
Le civiltà egee conoscevano la scrittura (lineare B), avevano buone strutture amministrative, praticavano l'agricoltura, la
lavorazione dei metalli, il commercio marittimo. Furono travolte nel XIII secolo a.C. dall'invasione dei Dori, che sembra
provenissero dalla regione danubiana, e che aprirono un'altra pagina nella storia della Grecia.
OMERO è stato definito da Platone l'educatore della Grecia, per la qualità letteraria e per il contenuto etico e il valore storico
dei due poemi che, per molto tempo sono state utilizzati come uno straordinario strumento educativo. L’Iliade e l’Odissea
hanno iniziato a circolare tra le popolazioni greche intorno al IX secolo a.C. in forma orale, tanto che gli aedi e i rapsodi, non
avendo un testo scritto da rispettare, memorizzavano i versi e vi introducevano di volta in volta varianti adattate a luogo e
pubblico, o formule ricorrenti.
Nella veste di un poema epico l'Iliade traccia un grande affresco della Grecia arcaica, ne descrive cultura, religione e morale. È
l’autobiografia di un ceto nobile e guerriero che narra se stesso. Ogni eroe è contrassegnato dall’ascendenza famigliare, dalle
divinità che lo proteggono, dalle gesta compiute e dell’educazione ricevuta.
Peleo, ad esempio, affida il figlio Achille al precettore Fenice affinché lo educhi nelle opere «della lingua e della mano» che
indicano per sineddoche le finalità dell’educazione arcaica secondo la tradizione omerica: le opere della mano sono le capacità
pratiche soprattutto nell'arte della guerra; mentre quelle della lingua si riferiscono all'abilità nell'uso della parola. Infatti
l'ideale di uomo che scaturisce dall'Iliade unisce la virtù (areté) del guerriero a quella del saggio che conosce la forza, il coraggio e
il valore nel combattimento ed è, al tempo stesso, giudizioso, ascolta il consiglio prudente, sa parlare e farsi ascoltare nelle
assemblee.
L'uomo dell'Odissea a questi tratti ne aggiunge altri: infatti, se l'Iliade delinea un ideale di uomo inteso come guerriero
aristocratico, discendente da eroi e divinità, l'Odissea vi affianca l'immagine più terrena di un uomo sì nobile e valoroso, ma
anche un po' canaglia, occupato in attività che non hanno più "nulla di regale", non insensibile alla seduzione femminile.
È il preannuncio di una "laicizzazione" della concezione dell'uomo, nel passaggio dall'età arcaica a quella classica. C'è anche
questo nel transito dalla tradizione orale a quella scritta; per parafrasare Marrou, la storia dell'educazione antica rispecchia il
passaggio progressivo da una cultura di nobili guerrieri a una cultura più mondana di artigiani e scribi mercanti.
L'educazione nella Grecia arcaica era riservata ai giovani delle migliori famiglie e comprendeva un ampio ventaglio di attività:
esercizi fisici attraverso il combattimento, l'uso delle armi, la pratica del cavalcare e del carro da guerra, ma anche musica,
poesia danza, canto, religione e poesia che, oltre ad essere una fonte di istruzione letteraria, era soprattutto una galleria di
modelli di etica dell'onore, di esaltazione del valore, di accettazione della morte in battaglia in nome di un ideale. La
formazione era affidata a più soggetti: al padre in primo luogo, e poi ad altre figure (sapienti, anziani e così via) appartenenti
allo stesso ambiente aristocratico.
I giovani di modesta condizione sociale avevano il loro riferimento educativo in un altro poema, più didascalico, Le opere e i
giorni di Esiodo che ha un'ambientazione rurale poiché le opere e i giorni sono quelli dei lavori da svolgere nei campi, non
mancano precetti religiosi, cosmogonie, storie di divinità e di eroi "popolari" proposti come modelli di vita.
Il più noto è Prometeo, il Titano punito dagli dei per aver rubato a loro il fuoco e averlo donato agli uomini: secondo il mito, il
giovane Prometeo aveva ricevuto da Atena un'educazione che potremmo definire pratica e "tecnica", basata sulla medicina,
lavorazione dei metalli, matematica e navigazione. Per Esiodo il lavoro è castigo divino e possibilità offerta all'uomo per
migliorare se stesso e perseguire ideali di giustizia.
3.2 L’EDUCAZIONE NELLA GRECIA CLASSICA
A partire dall'VIII secolo a.C. i regni dell'età arcaica si trasformano lentamente in un diverso modello di organizzazione sociale
e politica: rispetto all'assetto precedente, la polis del periodo classico è una città-stato con una dimensione territoriale più vasta,
una forte identità culturale al proprio interno, una vita economica più dinamica e aperta verso l'esterno.
L'espansione del commercio marittimo porta alla nascita di diversi insediamenti nel Mediterraneo e alla fondazione di
numerose colonie greche in Basilicata, Campania, Puglia, Calabria: è la Magna Grecia, non un regno, non un impero, ma una
civiltà legata alla madrepatria da lingua, arte, scienza e filosofia.
La polis del periodo classico presenta forme diverse di organizzazione del potere: vi sono monarchie, oligarchie, regimi tirannici
e le prime forme di democrazia, della quale Atene è un esempio significativo. Ad Atene, e non solo, le assemblee dei cittadini:
eleggono chi ricopre le cariche di governo;
amministrano la giustizia;
discutono e votano le leggi.
La distinzione tra i diversi ceti permane, viene messa in discussione e genera una più esplicita conflittualità sociale, che si
esprime in forme vivaci, talora aspre, ma sempre all'interno di un orizzonte condiviso di valori civili e "democratici".
Le poleis sono spesso in conflitto e anche in guerra tra loro, come nel caso di Atene e Sparta. La Grecia classica si presenta come
un sistema a mosaico, afflitto da continui conflitti interni che l’ha esposta a ripetute dominazioni straniere (Persiani, Macedoni,
Romani), ma non ha impedito che la sua cultura si affermasse in tutto il bacino del Mediterraneo, assumendo un ruolo egemone.
Arte, letteratura, scienza e soprattutto filosofia sono il suo lascito più ricco, uno dei fondamenti della nostra civiltà; a partire
anche dalla scrittura: la Grecia, infatti, ha ripreso l'alfabeto fenicio e, con l'aggiunta delle vocali e della direzione scrittoria da
sinistra a destra, lo ha reso ancor più funzionale, ponendo le basi dei modi di scrivere che saranno adattati, e adottati, in tutta
l'Europa.
Dal periodo arcaico, la Grecia classica eredita la centralità dell'uomo, seppure considerato in una prospettiva diversa: se prima
era un aristocratico, un eroe-guerriero, ora è un cittadino che partecipa alla vita della comunità, contribuisce al suo governo,
combatte nel suo nome. La religione è dentro questo passaggio; la concezione degli dei dell'Olimpo si allontana dagli originari
modelli orientali e alla natura divina aggiunge una coloritura più umana: gli dei sono uomini e donne con passioni e
debolezze terrene, a volte le stesse deformità.
La tragedia greca è un altro potente momento educativo che reca in sé la consapevolezza dei limiti insiti nella condizione
umana. A differenza della cultura arcaica, il dolore non nasce solo dalla natura mortale ed epicamente eroica del guerriero, ma
anche dal fatto che compete all'uomo l'esercizio responsabile delle proprie azioni: decidere, scegliere implicano la possibilità
dell'errore o della colpa. La più grave è l’hybris (empietà), l'azione che rompe l'equilibrio tra uomo, divinità e natura: una colpa
tale da meritare la punizione della némesis, la vendetta degli dei o l'intervento divino che ristabilisce la giustizia. L'ideale
classico rifugge gli eccessi e tende all'armonia e all'equilibrio.
L'educazione della Grecia classica riflette i contenuti ora accennati, con percorsi formativi differenziati a seconda del ceto e del
genere. Una funzione educativa fondamentale è svolta dalla vita associata: la polis si pone, infatti, come una sorta di "comunità
educante" ante litteram in quanto presuppone un robusto tessuto di conoscenze condivise e di idealità che accomunano la
generalità dei cittadini che, fin dall'infanzia, devono essere introdotti alla cultura della propria comunità, affinché ne rispettino
leggi, divieti e consuetudini.
In particolare è educativa la partecipazione dei cittadini ai diversi momenti che scandiscono la vita della polis:
1. assemblee→ luoghi di discussione nelle quali le diverse opinioni si confrontano, i voti si contano e le decisioni si
assumono a maggioranza. Platone riferisce che ad Atene, nelle assemblee «chiunque può alzarsi e offrire un
consiglio, sia egli un carpentiere, un fabbro, un calzolaio, un mercante, ricco o povero, nobile o di umili origini». In
queste vere e proprie “palestre” di democrazia cresce l'importanza dell'eloquenza, della dialettica e della retorica,
considerata come l'arte della persuasione: l'oratore deve informare il suo uditorio, coinvolgerlo, "trascinarlo", infine
dilettare;
2. rappresentazioni teatrali→ tragedie, come l’Edipo Re di Sofocle e Medea di Euripide, e commedie, che prendono di
mira i difetti dell' agire umano;
3. agonali→ giochi ginnici maschili e femminili che si svolgevano nel gymnásion. L'agone è gara, contesa, lotta e
combattimento per vincere una sfida, e già in questo svolge una rilevante funzione educativa: non solo mobilita le
energie fisiche, e con ciò contribuisce alla crescita armonica del corpo e delle sue membra, ma richiede anche
concentrazione mentale, perseveranza nello sforzo e volontà di eccellere, che sostengono lo sviluppo del carattere.
È l'ideale della kalokagathia cioè del kalòs kai agathòs, letteralmente "bello e buono", un ideale di stretto rapporto
tra le qualità fisiche e morali che l'uomo deve perseguire. La dimensione ludica si univa a quella religiosa e gli
spettatori erano più simili ai fedeli che partecipavano a una festa religiosa che al pubblico di un'odierna
manifestazione sportiva. I giochi assolvono così un ruolo formativo di più vasta portata;
4. cerimonie religiose→ nella polis la religione ha una dimensione sociale, comunitaria e, statale. La Grecia classica
venera alcuni santuari e in aggiunta a ciò ogni città predilige come nume tutelare una delle tante divinità, sempre
più umane, che popolano l’Olimpo.
Nella polis greca alla vita associata si affianca quella privata. L'oikos è la casa, intesa come abitazione e famiglia. Anche nello
spazio privato la funzione educativa è centrale, con i propri obiettivi e modalità: se l'uomo è protagonista soprattutto nella vita
pubblica, la donna ha la sua dimensione elettiva nell'oikos, all'interno del quale è moglie, madre e guida dei lavori domestici.
Nella Grecia classica, quindi, l'educazione familiare conserva almeno alcuni degli elementi propri delle società tradizionali:
nella prima infanzia i genitori, e più spesso la madre, introducono i figli alle funzioni fondamentali, come quelle connesse
all'acquisizione del linguaggio, alla motricità, alla socializzazione e quindi alle relazioni con la comunità domestica. Inoltre i
contenuti dell'educazione familiare si inseriscono in quell'orizzonte di senso che abbiamo definito la cultura del gruppo
familiare: usi e costumi, valori e principi, miti e leggende.
La bambina viene, quindi, educata fin dall'infanzia alla dipendenza prima dal padre, e poi dal marito. Divenuta poi sposa e
madre, le competono l'allevamento e la prima educazione dei figli, sempre sotto l'autorità del suo kyrios. Il bambino, raggiunta
l'età di sei o sette anni, affronta fuori di casa un percorso formativo affidato ad altri soggetti e istituzioni educativi, sempre sotto
la guida della figura paterna.
3.4 SOCRATE
Al periodo aureo della classicità appartengono i massimi esponenti della cultura greca, vere icone della filosofia senza limiti di
spazio e di tempo.
SOCRATE (470/469-399 a.C.) rappresenta una pietra miliare del pensiero occidentale e può a buon diritto essere considerato,
oltre che filosofo, un educatore. Come può educare chi ammette di "sapere di non sapere"? Attraverso una concezione della
conoscenza intesa come indagine critica che muove dall'interno di ciascuno ("conosci te stesso").
Per guidare tale ricerca, Socrate ricorre al metodo dialogico: mediante le domande rivolte al suo interlocutore e le risposte di
questi, lo accompagna in un itinerario di scoperta della verità. Che è dentro di noi, anche se non ne siamo consapevoli e quindi
il dialogo e la discussione tendono a "tirar fuori" la conoscenza che possediamo ma che non sappiamo di possedere.
Il "tirar fuori" richiama la maieutica, ovvero l'arte della levatrice che aiuta la partoriente a dare alla luce il suo bambino. Il
"conosci te stesso" acquista così il significato di una ricerca volta alla presa di coscienza dei principi morali propri dell'uomo,
non solo etici ma anche conoscenze specifiche.
Vi è uno stretto rapporto di consequenzialità tra la filosofia di Socrate e la sua paideia, che non possono essere separate l'una
dall'altra: la riflessione filosofica volta a definire i grandi temi fondanti della vita umana, tanto nella sua dimensione individuale
quanto in quella sociale, non è una scalata solitaria alle più alte vette del sapere, ma l'esercizio di una critica serrata che procede
attraverso dubbi e problemi.
L'educazione socratica coincide con la formazione del pensiero critico, e quindi con la ricerca filosofica, condotta da un maestro
che aiuta l'allievo a diventare maestro di se stesso. Il suo insegnamento rifiutava di "metter dentro" alla mente dell'interlocutore
le verità possedute dal maestro e consisteva, al contrario, nel "tirar fuori", mediante la maieutica e il dialogo, principi e valori
che rispondessero a criteri di ragione..
Il pensiero socratico, come quello dei sofisti, non risparmia né la religione né l'assetto politico della polis. La filosofia di Socrate
incrocia quella dei sofisti ma coincide solo in parte con il loro pensiero; ciononostante nel 399 a.C. anch'egli fu accusato di
empietà e di corruzione della gioventù e, anche se le accuse avevano un movente politico, il tribunale composto dai suoi
concittadini lo condannò a morte. Egli avrebbe potuto sottrarsi alla pena fuggendo in esilio ma, pur consapevole che la sentenza
era ingiusta, preferì affrontare il veleno (cicuta) perché «è meglio subire ingiustizia, che farla».
3.5 PLATONE
Il padre del metodo dialogico non ha lasciato opere scritte e dobbiamo al suo allievo Platone la conoscenza del pensiero del
maestro. Nel ricostruire il pensiero socratico Platone ne conserva la forma dialogica, anche perché gli stesso è convinto del
grande valore educativo della parola e del dialogo; utilizza i vantaggi della scrittura, ma non nega quelli dell’oralità. Quando
fonderà la sua scuola, l’Accademia, ne farà un luogo di discussione e insegnamento filosofici secondo il metodo dialogico.
Per Platone, l’anima dell’uomo è immortale e, prima di incarnarsi in un corpo, cioè prima di precipitare nella realtà terrena,
contempla nell’Iperuranio le idee pure, eterne ed immutabili. La realtà è solo l’imitazione imperfetta delle idee pure: in essa
esistono le tante manifestazioni di ciò che è bello, giusto, ecc., nell’Iperuranio vi sono i concetti puri delle Bellezza e della
Giustizia. L’incarnazione dell’anima nel corpo è imprigionamento nella dimensione del reale: l’anima dimentica l’Iperuranio,
vive nel mondo sensibile e tanta di conoscerlo attraverso i sensi; la conoscenza sensibile è ingannevole e genera al più
un’opinione (doxa), mentre la conoscenza vera (epistème) consiste nel ricordare le idee pure: spetta al filosofo risvegliarne la
memoria attraverso il dialogo.
Nella concezione platonica il Bello e il Buono (kalòs kai agathòs) coincidono nel senso che le belle anime, quelle che si nutrono
di idee vere, sono di necessità anche buone, volte al bene e ala giustizia.
Importante è la filosofia platonica di carattere civile, che indica come va governata la città. Questa è arte del suo pensiero è
esposta nelle Leggi e soprattutto nella Repubblica, nella quale immagina una polis divisa in tre funzioni o classi:
1. ai custodi o governanti compete il reggimento della città, interpreti dell’anima razionale e capaci di praticare il
bene e la giustizia nel più alto grado, attenti ai cittadini e alla loro educazione;
2. a guardiani e ai guerrieri spetta la funzione di difendere la polis esercitando il loro coraggio. Platone li paragona ai
cani domestici che sono «mitissimi verso le persone con cui vivono e che conoscono, e aggressivi verso gli
sconosciuti» e aggiunge che da un buon guardiano «che bisogna esigere che vi sia in lui anche natura di filosofo»;
3. i lavoratori, per la loro anima concupiscibile e per la temperanza che li caratterizza attendo alle attività
economiche, alla produzione e agli scambi.
Dalla stessa èlite di ceti medi alti provengono sia governanti che guerrieri. Non si tratta di classi sociali rigidamente chiuse in
quanto l’appartenenza di un cittadino a una delle tre funzioni non è legata alla nascita o al censo, bensì all’inclinazione di
ciascuno e all’educazione che riceve.
Anche nella Repubblica quindi l’importanza dell’educazione è uno dei compiti principali della polis: la paideia dell’uomo concerne
la dimensione personale e mira ad educare l’anima individuale indirizzandola alla conoscenza, al bene e alla giustizia. Ad essa
si accompagna la paideia del cittadino, che riguarda l’anima sociale, la dimensione civile e politica del vivere associato.
Nei dialoghi ricorre spesso ai miti che aiutano a spiegare in modo semplice concetti filosofici complessi. Nel Fedro, aveva
narrato come l’anima individuale sia siile a una biga alata, guidata dall’auriga (anima razionale) e tirata da due cavalli, uno
forte e generoso (anima irascibile) che tende verso l’Iperuranio; l’altro focoso e cedevole al richiamo dei desideri (anima
concupiscibile) che punta verso il mondo sensibile. È la stessa tripartizione che utilizza nella Repubblica per descrivere le tre
classi nelle quali è divisa la popolazione della polis.
Abbiamo visto come tanto per l'anima individuale che per quella sociale, sia essenziale la paideia, e a proposito dell'educazione
il filosofo osserva che è «difficile immaginarne una migliore di quella tradizionale, invalsa da tanto tempo: esercizi fisici per il
corpo e musica per l'anima»: la ginnastica tende all'armonia del corpo, mentre la musica che, comprende in senso lato il canto,
la danza e il patrimonio poetico-letterario, accosta l'anima al Bene.
Dell'educazione tradizionale, tuttavia, Platone critica una delle usanze più diffuse: la narrazione delle favole. Non si deve
permettere che «i bambini ascoltino favole inventate dal primo che capita». Noi, dunque, «dobbiamo sorvegliare gli inventori di
favole, accettando delle loro invenzioni ciò che è buono e respingendo ciò che è cattivo. Convinceremo le balie e le madri a
raccontare ai bambini solo quelle approvate da noi (...) le favole ora in voga vanno per lo più respinte».
Nel V libro della Repubblica affronta la questione del ruolo della donna nella polis e della sua educazione. Egli è consapevole che
le sue idee in proposito sono «abbastanza forti per il senso comune» e quindi le introduce con cautela ma, al tempo stesso, in
modo diretto: «attribuiamo alle donne la stessa natura e la stessa educazione che abbiamo dato agli uomini». Il paragone è,
ancora una volta, con il mondo animale: le femmine dei cani pastori si associano ai maschi nel fare la guardia al gregge, nella
caccia e nelle altre funzioni, e non si limitano a partorire e allevare i cuccioli. Quindi « se vogliamo attribuire alle donne le stesse
funzioni che riconosciamo agli uomini, dovremo impartire loro la medesima educazione», quella che si acquisisce attraverso la
musica e la ginnastica, tenendo presente che sono fisicamente meno forti.
Quanto alla concezione dell'educazione come "metter dentro" o "tirar fuori", alla quale si è accennato a proposito di Socrate,
Platone si schiera con il suo maestro: «l'educazione non è che una tecnica di orientamento dell'anima, essa le indica il modo più
facile ed efficace di muoversi nel campo della conoscenza; il suo compito non sta nel riversare la vista nell'organo mentale, ma
consiste, partendo dal presupposto che esso già la possieda, nel rendere possibile tale orientamento».
Per Platone la vera conoscenza, cioè la scienza, nasce «da una facoltà presente nell'anima di ciascuno e da un organo grazie al
quale ciascuno è capace di apprendere»; l'educazione è quindi direzione dell'attività dell'«organo mentale» affinché si muova con
tutta l'anima «verso l'essere e la sua parte più luminosa che è il bene».
3.6 ARISTOTELE
Aristotele nasce a Stagira. La sua educazione lo porta ad Atene, dove entra nell’Accademia fondata da Platone e vi rimane per
vent’anni. Dal 343 al 341 a.C. segue come precettore l’educazione del futuro Alessandro Magno, quindi torna da Atene dove
fonda il Liceo.
La riflessione di Aristotele abbraccia tutti i campi del sapere, dalla metafisica alla logica, dall'etica alla politica, dalla fisica alla
biologia. La sua non è una filosofia delle idee pure ma guarda piuttosto al mondo naturale nel quale agisce l'uomo, che lo
conosce, lo trasforma con l'arte e con la scienza, e che governa città e popoli.
Per Aristotele il maschio e la femmina non possono esistere separati in quanto la procreazione «è impulso naturale» e quindi
«la comunità che si costituisce per la vita quotidiana secondo natura è la famiglia» all'interno della quale «l'uomo esercita la sua
autorità sulla moglie e sui figli». A partire dalla famiglia, nucleo fondante della società, il filosofo argomenta che nell'uomo
«c'è il coraggio di chi comanda» e nella donna il coraggio «della subordinazione». Considera «conveniente che la donna si sposi
intorno ai diciott’anni, l’uomo ai trentasette» in modo che procreino «quando i corpi sono nel pieno delle loro forze»;
raccomanda che «le donne incinte devono prendersi cura del corpo» e a tal fine il legislatore deve ordinare che facciano una
passeggiata ogni giorno, mentre conviene che lo spirito «se ne rimanga in completa rilassatezza» per non influenzare il bambino
nel grembo materno. Come si vede, le indicazioni aristoteliche sono molto dettagliate e motivate con ragionamenti ed esempi
sui quali sarebbe lungo soffermarsi.
Quando i bambini sono ancora piccoli, prima dei cinque-sette anni di età, la loro educazione si svolge nella famiglia ed è
indirizzata soprattutto allo sviluppo fisico; poiché vengono allevati in casa, occorre vigilare affinché non apprendano «le
volgarità da quanto sentono e vedono» e non siano esposti a raffigurazioni e spettacoli indecenti. L'educazione successiva si
sviluppa in due periodi di uguale durata:
la pubertà, dai sette ai quattordici anni;
dai quattordici ai ventuno anni, che deve essere regolata da un'apposita legislazione e «deve perseguirsi in
comune» cioè ha carattere pubblico.
Quattro sono all'incirca le materie con cui si suole impartire l'educazione: la grammatica, la ginnastica, la musica e il disegno.
Aristotele si chiede se l’educazione vada impartita in vista della virtù o di ciò che è utile alla vita, ponendo un problema
storicamente dibattuto, con risposte ben diverse: educazione disinteressata, volta alla formazione delle qualità intellettive e
morali, o finalizzata all’utile e quindi al lavoro?. Egli arriva alla conclusione che l’educazione deve condurre alla virtù e che le
materie utili siano quelle indispensibili ovvero grammatica, aritmetica e geometria.
3.7 ELLENISMO
L’Ellenismo è un periodo storico che, attraverso una molteplicità di aspetti e trasformazioni, chiude l’età della Grecia classica.
È spesso considerato un’epoca di decadenza e tuttavia, guadando al complesso della sua eredità, occorre riconoscere che «si
tratta sì di un tramonto, ma di un lungo tramonto d’oro».
L’Ellenismo inizia convenzionalmente con il 323 a.C., anno della morte di Alessandro Magno, dura circa tre secoli e termina con
la nascita e il consolidamento dell’impero romano. In termini geografici si diffonde nel vasto impero di Alessandro Magno.
Sul piano politico, già nel 338 a.C., nella battaglia di Cheronea, Filippo Il di Macedonia, insieme con il figlio Alessandro,
sottomette la Grecia, che perde la sua libertà ma al tempo stesso conosce quell'unità che le era mancata nei secoli precedenti. Si
avvia al tramonto il modello della polis, con le sue forme più o meno compiute di governo democratico e si affermano vasti
Stati territoriali, regni e imperi retti da dinastie di (presunta) origine divina; il cittadino greco diviene via via l'uomo inserito in
una più ampia cosmopolis i cui abitanti non sono più "barbari" ma civilizzati e sempre più ellenizzati, cioè permeati di cultura
greca a partire dalla lingua.
Sul piano economico si diffondono la ricchezza e un relativo benessere. In una sorta di "globalizzazione" ante litteram:
si intensificano gli scambi commerciali;
si sviluppa l'artigianato;
cresce la popolazione e nascono nuove città tra cui Alessandria, fondata in Egitto da Alessandro Magno, una delle
città più prospere del mondo antico. La fiorente economia e la vivacità culturale la porteranno a superare la stessa
Atene per la ricchezza della sua biblioteca, meta di studiosi provenienti da tutto il mondo ellenistico.
Sul piano culturale si assiste a un processo di assorbimento della cultura greca da parte delle civiltà: a iniziare da una koinè
diálektos, un idioma greco comune, che diventa la lingua franca, parlata e scritta, attraverso la quale filosofi, letterati, artisti e
scienziati, ma anche mercanti e viaggiatori, per molto tempo comunicheranno tra loro.
Nel I secolo a.C. Augusto fa della Grecia una provincia romana e Orazio osserva che «Graecia capta ferum victorem cepit», la
«Grecia conquistata da Roma aveva conquistato il selvaggio vincitore» con la sua cultura, con la filosofia, con l'arte: la diffusione
della cultura greca nel mondo ellenistico si deve, oltre che alla sua secolare ricchezza e profondità, anche alle favorevoli
condizioni geopolitiche ed economiche assicurate dall'impero di Alessandro Magno, dai successivi regni ellenistici e
dall'impero romano.
L'Ellenismo esprime una concezione dell'uomo che privilegia la dimensione personale rispetto a quella pubblica;
l'individualismo prevale sulla socialità, con conseguenze profonde sull'arte, sulla letteratura e soprattutto sulla filosofia: dopo i
grandi sistemi di Platone e di Aristotele, si affermano nuove scuole di pensiero. Per lo stoicismo, che ebbe tra i suoi seguaci
Seneca e l'imperatore Marco Aurelio, la virtù del saggio consiste nel vivere secondo natura, seguire la ragione, perseguire
l'indifferenza, principio che ritroviamo anche nell'epicureismo e nello scetticismo. Questi brevi cenni alle filosofie
postaristoteliche testimoniano la nuova temperie culturale dalla quale scaturirà una paideia che riprende, innovandoli, principi e
modalità della Grecia classica.
I mutamenti politici ed economici si riflettono anche sulla composizione sociale delle città ellenistiche: l'antica aristocrazia di
guerrieri-eroi era già stata soppiantata da un ceto colto ed economicamente dinamico che ora, nelle nuove condizioni:
cresce in quantità, ovvero annovera un numero crescente di funzionari di corte, professionisti, mercanti e nuovi;
cambia in qualità, nel senso che i diritti di cittadinanza non dipendono dal luogo di nascita o dalla religione, ma
dallo status economico-sociale.
Questa più vasta "borghesia" di livello alto e medio si alimenta delle capacità e dello spirito di iniziativa del singolo individuo
che a queste attitudini va educato.
Per i ceti sociali meno fortunati l'educazione resta un compito della famiglia e della bottega artigiana, diverso il caso delle classi
medio-alte: la famiglia provvede alla prima formazione dei bambini e delle bambine fino all'età di sette anni, ne indirizza il
comportamento con le persone dentro e fuori la cerchia familiare, riserva uno spazio adeguato al gioco. Poiché le famiglie
benestanti potevano permettersi nutrici e bambinaie, spesso dialettofone o straniere, le sorvegliavano affinché non
"corrompessero" la lingua insegnata in età infantile.
Intorno ai setti anni i bambini e le bambine (in qualche caso anche di condizioni modeste) iniziavano a frequentare la scuola, che
si consolida come istituzione educativa.
La scuola ellenistica nasce dall’adattamento alle nuove esigenze del primo grado scolastico della tradizione greca. Spesso è
pubblica, gestita dalle città, e collettiva, nel senso che dalla dimensione individuale dell'educazione familiare si passa a
un'organizzazione per classi. Vi si insegnano la lettura, la scrittura, la grammatica, la musica, mentre diminuisce l'importanza
dell'educazione fisica. I docenti sono:
un didàscalos (maestro) addetto alla disciplina e alle nozioni generali;
un grammatistés (grammatico) per l'insegnamento della lingua: l'alfabeto, la lettura, la scrittura.
La didattica era monotona, mnemonica, basata sulla ripetizione di regole ed esercizi, afflitta dal grammatico e dalle punizioni
corporali. Gli insegnanti non ricevevano una specifica formazione, avevano uno status sociale piuttosto basso e retribuzioni
modeste.
Intorno ai dodici-quattordici anni, o quando un ragazzo aveva raggiunto una buona capacità di lettura e di scrittura, la sua
educazione proseguiva in un secondo grado scolastico, nel quale si applicava alla matematica euclidea e continuava gli studi
linguistici, con una maggiore attenzione alla letteratura classica.
L'istruzione secondaria terminava con l'efebia che conservava ben poco del modello della Grecia classica:
1. non esistendo più una polis da difendere, ma un vasto stato dotato di un esercito, veniva meno la sua funzione di
addestramento militare;
2. si svolgeva in un ginnasio molto diverso dall'originale ateniese.
L'istruzione superiore si dava nelle scuole filosofiche, che riprendevano i modelli ateniesi, anche in questo caso adattandoli ai
nuovi tempi. Alessandria, come detto, era famosa per la sua biblioteca e per il museo: entrambi erano centri di studio, luoghi di
intensi scambi culturali, ai quali accorrevano studenti e sapienti da tutto il mondo ellenistico.
Se Alessandria era il modello, le grandi città dell'epoca gareggiavano tra loro per assicurare percorsi di educazione
enciclopedica comprendenti tutti i saperi necessari a una formazione completa: gli studi filosofici in logica, etica, metafisica
avevano uno spazio non inferiore a quello dedicato alle discipline linguistico-letterarie e a quelle scientifiche.
La sua pedagogia è:
1. un disegno educativo che richiede l’impegno del soggetto e il sostegno misericordioso di Dio;
2. un percorso nel quale il recupero della cultura greca è all’insegna della superiorità, in primo luogo etica, del
cristianesimo;
3. l’affermazione di una verità, ricevuta da Dio, che dimora «all’interno dell’uomo».
5.4 IL MONASTERO
Il monaco era in origine un eremita che sceglieva la vita separata dal mondo e dai comuni mortali per dedicarsi ad una
dimensione mistica di preghiera e meditazione.
Da questa pratica nasce nel coro del IV i Egitto, Siria e Mesopotamia il monachesimo orientale: una piccola comunità si
raccoglieva in un cenobio (luogo di vita comune) per fare della separazione una ricerca di perfezione.
Tra il IV e il V secolo il monachesimo occidentale inizia a diffondersi in Europa grazie alla peregrinatio pro Domino: alcuni
monaci si spostavano da un territorio all’altro e fondavano monasteri e abbazie.
L’esperienza monastica più importante si deve a San Benedetto da Norcia che intorno al 530 fondò il monastero di
Montecassino e lo dotò di una Regola che, incardinata sui principi di obbedienza, silenzio e umiltà, dettava le norme di vita per
ciascun monaco. Ora et labora è ben più che un invito alla preghiera e al lavoro, è un precetto sia per la salvezza dell’anima sia
per la retta conduzione della vita terrena attraverso il lavoro.
Il monastero, costruito spesso lontano dai centri abitati, si sviluppò come un mondo autonomo e autosufficiente che vede
accanto alla preghiera e alle funzioni liturgiche altre attività.
La potenza di un monastero si misurava anche dalla ricchezza della sua biblioteca: vi si custodivano e si studiavano i testi sacri,
teologici, filosofici e letterali della cultura latina. Era spesso dotata di uno scriptorium nel quale gli amanuensi trascrivevano i
codici.
Verso la fine dell'VIII secolo un ignoto amanuense notava in margine a un codice il cosiddetto Indovinello veronese scritto in un
latino molto corrotto «se pareba boves alba pratalia araba et albo versorio teneba et negro semen seminaba»; la traduzione
letterale ( un immaginario contadino «teneva davanti a sé i buoi, arava bianchi prati e aveva un bianco aratro e un nero seme
seminava») nascondeva il senso vero dell' indovinello: si tratta del copista che scriveva su pagine bianche tenendo una bianca
penna d'oca, e tracciava segni neri; un lavoro faticoso, almeno nella percezione dell'autore, che lo paragonava a quello del
contadino.
Al di là della fatica, il senso della trascrizione dei testi è chiaro: nella dimensione interiore, la lettura condotta in silenzio e
accompagnata dalla comprensione era la precondizione per meditare sulla parola del Signore, una delle finalità fondanti
dell’esperienza monastica.
5.5 LE SCUOLE MONASTICHE
La diffusione del monachesimo in tutta l’Europa portò con sé l’affermazione della scuola del monastero come importante
istituzione educativa. La sua finalità principale era avviare i giovani alla scelta monastica, che poteva portare ad accedere o al
clero regolare, quello cioè che apparteneva a un ordine e seguiva una Regola, o al clero secolare, che svolgeva il proprio
ministero pastorale nel secolo, nella vita terrena, nelle città e nei paesi.
La scuola del monastero dedicava il proprio impegno educativo in modo quasi esclusivo a quanti si sarebbero dedicati alla vita
monastica: i bambini di 6/7 anni che fossero stati oblati, cioè offerti dalle famiglie al monastero, vivevano al suo interno come
novizi, obbedienti alla Regola e seguivano un percorso di istruzione religiosa e spirituale.
La formazione iniziava con l'apprendimento della lettura applicata al Salterio, il libro dei Salmi, e con il canto liturgico; meno
diffuso era l'insegnamento della scrittura, riservato agli amanuensi. La formazione del giovane oblato proseguiva con lo studio
della grammatica latina, limitatamente alle necessità della lettura dei testi sacri.
Per l'educazione monastica era fondamentale il ritorno alla conoscenza del latino, il cui uso si era ormai ristretto a esigui strati
di uomini di Chiesa, anche se rappresentava la "lingua ufficiale" del mondo cristiano.
La scuola monastica era educativa tanto per la vita che vi si conduceva quanto per gli insegnamenti che impartiva: secondo
l'impostazione più "rigorista", per il novizio imparare a leggere significava leggere solo la sacra pagina e la Bibbia era la fonte di
tutti i suoi saperi:
per la storia studiava l'Antico Testamento;
per l'astronomia il libro della Genesi;
per la morale e la filosofia il Nuovo Testamento;
per la poesia il Salterio.
La grammatica e la retorica persero molta dell'importanza che avevano nell'educazione romana. Non mancavano i monasteri
che accoglievano anche i pueri saeculares non interessati alla vita ecclesiastica ma desiderosi di formarsi a una cultura
mondana, secolare oltre che religiosa.
5.6 LE SCUOLE URBANE
L’espressione scuole urbane indica diverse sedi di istruzione che sono gestite dalla Chiesa. Dal IV secolo erano nate le scuole
episcopali cioè controllate dal vescovo. Nel concilio di Toledo la Chiesa dispone che coloro che vogliono intraprendere lo stato
clericale devono essere educati e avviati alla cultura ecclesiastica da un maestro sotto supervisione del vescovo.
Dopo il concilio di Vaison si raccomanda la diffusione delle scuole parrocchiali in cui tutti i preti devono accogliere i giovani
lettori in quanto celibi, educandoli spiritualmente, facendoli applicare allo studio dei testi sacri istruendoli alla legge del
Signore.
Nel X e IX secolo la Chiesa adegua la propria azione formativa alle nuove esigenze esortando i vescovi a aumentare la quantità e
la qualità delle scuole urbane. Si aggiungono le scuole laiche private di piccole dimensioni, ospitate nella stessa abitazione del
maestro. Anche i comuni si attivarono per istituire le proprie scuole pubbliche. Le scuole urbane hanno cercato di rispondere
alla domanda di formazione della società tardomedievale.
E’ possibile individuare delle differenze rispetto alle scuole monastiche:
1. a differenza dei monasteri, che di norma sorgevano in luoghi isolati, le scuole urbane erano collocate all’interno
delle chiese ed erano frequentate da giovani che vivevano in famiglia;
2. le scuole urbane, innovative per contenuti, metodi e finalità, rappresentavano un canale educativo parallelo alle
scuole monastiche;
3. a partire dall’XI secolo le scuole monastiche andranno incontro a un lento declino, mentre quelle urbane
evolveranno verso gli studi superiori.
L’educazione medievale presenta un quadro articolato che segnala impostazioni pedagogiche e metodi non sempre omogenei.
La diversità era data:
1. spazio→ la vastità del territorio cristianizzato comprenderà quasi tutta Europa e comportava differenze da un
luogo all’altro e disegnava una variegata geografia educativa;
2. tempo→ nel corso dei secoli i processi come la crisi delle istituzioni o la diffusione delle scuole monastiche si
verificheranno in tempi diversi;
3. cultura e mutamenti sociali→ nello sviluppo dell’educazione cristiana, si registravano sensibilità religiose con
tensioni all’interno della Chiesa sia sul piano della dottrina sia sul piano educativo.
Le scuole monastiche si opposero alla cultura laicizzata, chiudendo le loro scuole delle arti liberali. Attraverso la cultura araba
si diffusero le opere di Aristotele, della medicina greca e la scienza araba, che penetrarono nelle sette arti liberali del Trivio e del
Quadrivio.
5.7 CARLO MAGNO: “UNA VOCAZIONE PEDAGOGICA”
Abbiamo accennato all’impegno di Carlo Magno per la diffusione del cristianesimo come fondamento dell’identità culturale e
religiosa di tutto l’impero: era il disegno di un imperium Christianum retto dal re dei Franchi, a cui spettava anche il governo
della Chiesa.
Carlo infatti:
convocava e presiedeva i concili regionali, generali e quelli che si occupavano di questioni esclusivamente
dottrinali;
nominava i vescovi, vigilava sul loro operato e su quello degli abati dei monasteri.
Le scuole monastiche e quelle urbane raccoglievano un’esigua quantità di giovani e la loro azione educativa non era sufficiente
ad assicurare un’adeguata formazione:
numerosi erano i sacerdoti e i vescovi “indotti”, che ignoravano il latino e avevano scarse conoscenze teologiche e
liturgiche;
migliore era la situazione del clero regolare ma non mancavano monaci che commettevano errori nella trascrizione
dei codici.
La Chiesa faceva il possibile per migliorare l’istruzione del clero, che avrebbe dovuto, a sua volta, istruire i fedeli. La
situazione preoccupava Carlo Magno che avvertiva come una delle sue più importanti responsabilità quelle di « garantire il
livello morale e la preparazione culturale del personale ecclesiastico che predicava ai suoi sudditi la parola del Signore».
Era consapevole che il cristianesimo doveva fondare il proprio magistero anche sulla correttezza filologica della sacra pagina, la
cui interpretazione non poteva affidarsi a trascrizioni approssimative, e delle preghiere. Carlo agì su piani diversi iniziando con
il raccogliere intorno a sé i migliori studiosi del tempo come Alcuino di York e lo storico franco Eginardo.
L’Encyclica de litteris colendis, emanata tra il 780 e l’800, afferma che i vescovadi e i monasteri oltre all’osservanza della regola e
alla pratica della religione devono preoccuparsi che gli venga insegnato l’esercizio delle lettere perché così come la regola dà
ordine con altrettanto impegno deve essere insegnata la lingua.
Nel 789, prima ancora della sua incoronazione, emanava il capitolare Admonitio generalis, un’esortazione generale rivolta ai
vescovi e a tutti coloro che seguono la regola monastica affinché riuniscano non solo i bambini in condizioni servili ma anche i
figli dei liberi. Nelle scuole di lettura si devono apprendere i salmi, le note, il canto e devono trovare i libri canonici corretti
poiché molto spesso desiderosi di pregare Dio lo pregano male a causa della scorrettezza dei testi.
L’imperatore:
ordinò a molti vescovi di comporre degli opuscoli per spiegare al clero i problemi della liturgia;
raccomandò al clero lo studio del latino;
favorì l’incremento delle biblioteche stimolando lo scambio dei codici manoscritti;
favorì la diffusione della minuscola carolingia, una semplice forma di scrittura che venne imposta negli scriptoria
per la redazione dei documenti ecclesiastici e civili.
Un’altra esperienza promossa da Carlo Magno è quella della scuola palatina, collocata nel palazzo di Aquisgrana, l’unica
scuola a non dipendere dai vescovi. Provvedeva alla formazione del personale laico ed ecclesiastico alla vita di corte e
all’amministrazione dell’impero carolingio e vi si impartiva un’educazione cristiana. Era frequentata da figli di funzionari,
giovani aristocratici e di modesta condizione.
5.8 LA “RINASCITA CAROLINGIA”
L'insieme di queste iniziative, unite al risveglio della vita urbana e ai fermenti che portava con sé, ha indotto molti a parlare di
rinascita carolingia, un vasto movimento di rinnovamento religioso, culturale e educativo.
L'espressione coglie un innegabile dato di realtà anche se non è condivisa da tutti gli storici: il disegno imperiale di Carlo Magno
entrò in crisi dopo la sua morte e, come ha osservato Jacques Le Goff, se per un verso la sua azione ha migliorato «la cultura dei
figli dei nobili, allevati alla scuola di Palazzo, dei futuri chierici educati in qualche grande centro monastico, per un altro verso
essa ha posto fine ai resti dell'insegnamento rudimentale che i monasteri merovingi diffondevano tra i fanciulli delle campagne
circostanti»; quindi, secondo lo storico francese si è trattato di una «rinascita per una minoranza chiusa destinata a fornire alla
monarchia clericale carolingia un piccolo vivaio di amministratori e di uomini politici».
In campo educativo la rinascita carolingia ha stabilizzato le scuole monastiche, ha diffuso le scuole urbane e ha qualificato la
scuola palatina.
Accanto alle scuole ora richiamate, restavano i tradizionali soggetti educativi, a partire dalla famiglia che presso gli strati
sociali più poveri conservava le antiche finalità di avviamento dei figli ai lavori agricoli, alla pastorizia e, nel caso delle figlie,
alla cura della casa e all'allevamento della prole. Le famiglie nobiliari avviavano i primogeniti alla guerra, alla caccia e ai tornei
cavallereschi. Se il giovane non era portato alle imprese guerresche, ci si rassegnava a farlo studiare in un monastero o in una
scuola cattedrale, da dove avrebbe potuto intraprendere una promettente carriera ecclesiastica. Diverso era il caso del figlio
cadetto poiché, in base alle norme feudali, esso ma con un ruolo diverso: all'età di sette-otto anni era mandato come paggio
presso un signore, dove poteva accedere ugualmente al mestiere delle armi,veniva educato fino ai vent'anni, dove una
cerimonia lo investiva del titolo di cavaliere.
Per la Chiesa, che aveva definito le funzioni di questa importante figura all'interno della società medievale, il cavaliere doveva:
essere forte, coraggioso e d'animo nobile;
difendere la fede;
combattere gli infedeli;
lottare contro il male e l'ingiustizia;
proteggere i pauperes.
Se inizialmente la cavalleria era un'istituzione di giovani nobili, a partire dall’XI-XII secolo la Chiesa ne fece un potente
strumento militare e religioso a servizio della cattolicità.
Più articolata si presentava l'educazione borghese richiesta dai nuovi strati sociali interessati allo sviluppo delle arti e dei
mestieri, crescendo l'importanza delle relative corporazioni, quanti esercitavano la stessa professione o lo stesso mestiere si
univano tra loro, ad esempio, per difendere gli interessi comuni, per assistere gli associati e le loro famiglie.
Ogni corporazione si dotava di uno statuto che indicava diritti e doveri, regolava rigidamente la formazione dei giovani e il
loro accesso ai diversi mestieri e professioni, al fine di evitare un'offerta eccessiva di prodotti e servizi.
Per intraprendere una professione occorreva che il giovane fosse già provvisto di una buona formazione acquisita in una scuola
urbana e successivamente affiancasse il notaio o lo speziale che lo avviava a quella professione. Il ragazzo che più
modestamente aspirava a un mestiere veniva mandato da un mastro artigiano che se lo prendeva in casa: l' insegnamento
avveniva per gradi, dalle mansioni più semplici alle più complesse, per apprendere un mestiere che era sì manuale ma
richiedeva anche conoscenze in certa misura "intellettuali". La gradualità dell'insegnamento, oltre alle ovvie motivazioni
didattiche, ne aveva anche un'altra: solo alla fine il maestro artigiano svelava i segreti del mestiere all'apprendista.
L'istruzione scolastica della Chiesa raggiungeva solo una piccola parte della popolazione e, per educare cristianamente la
moltitudine degli analfabeti, il clero svolgeva una capillare azione pastorale articolata su piani diversi. La vita quotidiana aveva
nella liturgia, nei riti e nelle festività momenti di forte contenuto educativo: i sacramenti, ad esempio, scandivano i momenti
principali della vita del buon cristiano.
Agli analfabeti era rivolta la Bibbia dei poveri, un grande libro di figure le cui pagine erano aperte nella rete di chiese, abbazie
e monasteri: affreschi, quadri, mosaici, altari e statue che raffiguravano episodi biblici, la vita di Cristo, miracoli e scene di vita
quotidiana. Tutti i valori della catechesi cattolica erano affidati ad una pedagogia per immagini che era molto più efficace della
scrittura.
5.9 NASCE L’UNIVERSITÀ
L’università, uno dei frutti più maturi dell'età tardomedievale, è nata dalla progressiva trasformazione delle più vivaci e
prestigiose scuole urbane, sia ecclesiastiche che laiche. I comuni, in risposta alla crescente domanda di alfabetizzazione e di
formazione superiore, retribuivano esperti in discipline diverse affinché trasmettessero le loro conoscenze.
Quanto all'istruzione superiore, cambiavano finalità e contenuti, in una impostazione educativa che si allontanava sempre più
da quella religiosa propria dell'Alto Medioevo. In questo quadro, tra l'XI e il XII secolo alcune scholae urbane e anche alcune
scholae comunali, diedero vita a un'istruzione nella quale le arti liberali davano accesso allo studio di altre discipline quali il
diritto, la teologia, la medicina. Intorno alle scholae nasceva una categoria di magistri sempre più competenti, la cui fama
richiamava studenti anche da altri territori: la civitas che ospitava uno studium famoso ne traeva un grande prestigio culturale,
unito ai vantaggi economici connessi alla presenza di tanti studenti fuori sede che affittavano alloggi e frequentavano tabernae.
In questo modo la città diveniva sempre più centro di attrazione culturale e di vita educativa.
Il passaggio dalle scuole urbane all'università ha seguito strade diverse, che di solito vengono ricondotte al modello bolognese e
a quello parigino.
Bologna già dagli anni 1060-1070 era un importante centro di studi giuridici, legato al nome di Irerio. La fama della scuola
giuridica bolognese richiamò numerosi studenti chierici e laici che, provenendo da diversi paesi europei, si organizzarono in
nationes e poi in universitates, cioè in corporazioni, la cui nascita rispondeva a diverse esigenze:
1. vi era una spinta identitaria, riferita alla comune origine geografica e linguistica di quanti si trovavano a vivere come
studenti fuori sede in una città per loro straniera;
2. gli studenti erano spesso clerici vagantes protetti dal privilegium fori cioè dal diritto di essere giudicati da un
tribunale ecclesiastico;
3. gli studenti si iscrivevano al registro (matricula) della corporazione e versavano la collecta, una quota associativa
con la quale "assumevano" e retribuivano i migliori magistri, ne controllavano l'operato, li multavano se venivano
meno ai loro doveri, li cambiavano se l'insegnamento non era soddisfacente. In sostanza governavano la propria
università.
É così che nel 1088 nacque, per iniziativa degli studenti, l’universitas studentorum di Bologna. Gli studenti erano Citramontani,
cioè italiani o Ultramontani che, associati in universitates, eleggevano due rettori, uno per ciascun gruppo.
Diverso è il caso di Parigi, centro di insegnamento delle arti liberali e di studi in teologia e in filosofia; qui l'università è nata
intorno al 1170, per impulso della corporazione dei magistri.
Nelle diversità delle esperienze e dei percorsi hanno portato alla nascita dell’università ed è possibile identificare alcuni tratti
comuni:
1. il termine universitas indicava nel Medioevo una comunità di studenti e maestri. Tra le caratteristiche di molte
università vi era la salvaguardia della propria autonomia intesa come libertà di insegnamento e di ricerca;
2. le corporazioni universitarie si dotarono di veri e propri statuti che indicavano i privilegi, i diritti e i doveri degli
associati. L’adozione di uno statuto interveniva dopo un certo tempo dalla nascita della corporazione universitaria
ed era un punto di arrivo che ne ufficializzava lo status. Secondo Le Goff la potenza della corporazione si basa sui
privilegi dell’autonomia giurisdizionale, del diritto di sciopero e del monopolio di conferimento dei gradi
universitari;
3. l’universitas doveva confrontarsi con i due grandi poteri medievali (impero e papato). Entrambi colsero
l’importanza della formazione ciascuno e, per assicurarsi il controllo, diedero vita a nuovi studia prendendo quelli
esistenti sotto la loro protezione. Mentre diminuiva il numero delle università nate per aggregazione spontanea si
moltiplicavano quelle nate per iniziativa del papa;
4. in origine molte università non avevano sedi nelle quali svolgere le loro attività il che rendeva la peregrinatio
academica una possibilità che consentiva agli studenti in caso di conflitti di spostarsi da una città all’altra per avere
vitto e alloggio a prezzi più vantaggiosi. I maestri leggevano, facevano lezione in sedi messe a disposizione dal
comune o all’aperto;
5. la formazione superiore riprendeva le modalità educative delle più prestigiose scuole cattedrali e si presentava in
forme diverse da un’università all’altra. La prima alfabetizzazione veniva acquisita tra i sette e i quattordici anni
nell’età delle scuole urbane. Il passaggio successivo era l’applicazione dei saperi del Trivio e del Quadrivio che
erano propedeutici agli studi superiori tanto che quasi tutte le università istituirono le proprie facoltà di arti
liberali, molto frequentate sia per le conoscenze sia per i percorsi ai quali davano accesso. Era il primo grado
dell’istruzione superiore e durava sei anni; vi si accedeva a quattordici anni e dopo due anni si conseguiva il
baccalaureato. Il baccelliere poteva restare in università per seguire le lezioni e partecipare alle disputationes.
Questo a sua volta consentiva di dedicarsi all’insegnamento delle scuole cittadine, assumere incarichi nelle
cancellerie civili o nelle amministrazioni religiose. Il doctor proseguiva gli studi, all’età di vent'anni si accostava alle
materie superiori. Le università consentivano di acquisire le licentia docendi cioè il permesso di partecipare alla
diocesi. Per l’acquisizione dei titoli gli esami finali erano diversi per grado accademico e università e
comprendevano una molteplicità di prove e potevano durare anche alcuni mesi.
5.10 LA SCOLASTICA
L’università, per la prima volta, intesa come istituzione di maestri e studenti, univa educazione e ricerca, portando a
maturazione quella filosofia scolastica che aveva mosso i primi passi già al tempo di Alcuino ed era stata sviluppata da
Anselmo D’Aosta, Pietro Abelardo fino ad arrivare a Tommaso D’Aquino.
Nella sintesi che ne fa Le Goff, la Scolastica:
1. partiva dallo studio del linguaggio. Gli intellettuali medievali «accordavano alle parole un giusto potere e si
preoccupavano di definirne il contenuto. È essenziale per essi sapere quali rapporti esistano tra la parola, il
concetto è l’essere. La scolastica è basata sulla grammatica»;
2. «il secondo piano della scolastica è la dialettica, insieme di procedimenti che fanno dell'oggetto del sapere un
problema, che lo espongono, lo difendono contro chi lo attacca, lo sciolgono e convincono l' ascoltatore e il lettore»;
3. «si nutre di testi. Essa è un metodo fondato sull'autorità» dei grandi auctores dell'antichità classica e del
cristianesimo;
4. alle leggi dell'imitazione unisce le leggi della ragione, alle prescrizioni dell'autorità gli argomenti della scienza. La
teologia fa appello alla ragione e diventa una scienza.
La Scolastica si inseriva infatti nel dibattito del rapporto tra ragione e fede nel quale gli studiosi prima richiamati riconoscevano
il ruolo della ratio fide illustrata, della ragione spiegata alla fede. Vi si opponevano quanti restavano convinti che la fede,
superiore alla ragione, avesse bisogno di un accostamento mistico alla sacra pagina.
La pedagogia della Scolastica ebbe nell'università il suo grande laboratorio. L'insegnamento era svolto in latino e seguiva
regole abbastanza diffuse nelle diverse università.
Il magister iniziava con la lectio, cioè leggeva il testo da commentare:
1. con l'analisi grammaticale ne chiariva la littera;
2. con la spiegazione logica ne forniva il sensus;
3. concludeva con la sententia, ovvero l'interpretazione del «contenuto in scienza e pensiero».
Seguiva la disputatio (discussione) nel corso della quale «la lectio si sviluppa in quaestio». A questa discussione partecipavano
gli studenti e i baccellieri sotto la guida del maestro che non è più un esecutore ma un pensatore quindi offre soluzioni e crea la
sua conclusione cioè la determinatio.
Più rara era la discussione quodlibetale nel corso della quale chiunque poteva interrogare il maestro su qualunque argomento.
La Scolastica e la sua pedagogia, per l'uso delle fonti, per i contenuti e i metodi dell'insegnamento, erano fondate sulla
convergenza tra l'impegno educativo e quello di ricerca: un'indagine condotta con le leggi della ragione sulla correttezza
filologica del testo, sul suo significato, in altri termini sulla ricerca della verità.
L’ETÀ MODERNA
6.1 CARATTERI DELL’ETÀ MODERNA
L’età moderna si fa iniziare con avvenimenti diversi di grande portata storica:
alcuni studiosi indicano la caduta dell’impero romano d’Oriente (1453);
altri la scoperta dell’America (1492);
altri ancora la discesa di Carlo VIII in Italia (1494).
Ciascuna di queste date ha buone motivazioni storiche e in ogni caso tutto risalgono alla seconda metà del XV secolo.
Altrettanto convenzionale è la fine di questa età, che si fa coincidere con la Rivoluzione Francese (1789).
In tre secoli la società europea ha conosciuto notevoli cambiamenti che per molti aspetti presentavano novità rilevanti:
1. la crescita economica è stata accelerata dall’apertura di nuovi mercati e vie di comunicazione seguita alle scoperte
geografiche e, al tempo stesso, ha avviato la disgregazione degli ordinamenti feudali (ancime regime),
sopravvissuti formalmente fino alla Rivoluzione Francese;
2. la dimensione del comune, delle signorie e dei principali, è diventata sempre più limitata rispetto alle esigenze
della vita civile ed economica. Si apre così la strada alla nascita e al consolidamento delle monarchie nazionali in
Francia, Inghilterra e Spagna;
3. è sorta una coscienza nazionale veicolata dalle lingue volgari e narrata dalle rispettive letterature, mentre si
affermava la borghesia come elemento dinamico di rinnovamento sociale ed economico;
4. la Chiesa era scossa da avvenimenti drammatici che hanno segnato profondamente l’Europa. La Riforma
protestante di Martin Lutero nel 1517 e lo scisma della Chiesa d’Inghilterra hanno ridisegnato la carta geopolitica
di un’Europa divisa tra cattolici e protestanti;
5. l’Umanesimo e il Rinascimento riscoprivano il valore della cultura classica attualizzata nel presente e proietta al
futuro, contribuendo a una nuova visione del mondo centrata su homo faber fortunae suae;
6. l’arte era incoraggiata da un diffuso mecenatismo che esaltava i committenti e favoriva un nuovo linguaggio
artistico nel quale ai tradizionali soggetti religiosi si affiancavano quelli ispirati alla mitologia classica. Analogo
processo di laicizzazione interessava letteratura, filosofia e scienza:
Copernico ha capovolto l’astronomia aristotelico-tolemaica;
Keplero ha elaborato le leggi relative al movimento dei pianeti;
Galileo ha legato il suo nome al metodo scientifico sperimentale.
7. invenzione delle stampa a caratteri mobili (1455) ha rappresentato una vera rivoluzione per lo sviluppo della
cultura e dell’educazione.
6.2 LA FAMIGLIA, LA DONNA, L’INFANZIA
Fino alla fine del Medioevo, l’immagine della donna era definita dalla sua posizione nella famiglia: sposa, madre, custode della
casa ed erano ulteriormente suddivise in vergini, donne sposate e vedove. Si trattava di una concezione tradizionale ereditata
dall’età classica e il cristianesimo ne ha assorbito gli aspetti compatibili con i Vangeli e con la predicazione paolina (donna
sottomessa) aggiungendone altri come l’esortazione alla donna a esercitare la carità nei confronti di malati e bisognosi.
La donna è divenuta oggetto di una certa esaltazione, elevata in una condizione celeste rispetto alla dimensione terrena (donna
angelo).
Nel passaggio all’età moderna acquista risalto all’interno della famiglia: nobili, aristocratici e benestanti fanno un uso politico
del matrimonio. La sposa con il suo corpo, bellezza e purezza diventano gli strumenti per mettere pace a fazioni rivali. La donna
doveva assicurare continuità nel casato e il più alto numero di figli possibilmente maschi. Era questa la ragione per cui la donna
a dodici-tredici anni era destinata ad un promesso sposo più grande di lei. Negli accordi tra le due famiglie il fulcro era la
donna anche se il suo pensiero contava ben poco.
In età moderna alcune donne riuscirono ad accedere all’istruzione, alle arti, alle lettere e alla scienza. Si trattava comunque di un
fenomeno limitato alle classi medio-alte che ha avuto come protagoniste donne eccentriche. La modernità è anche caratterizzata
dalla scoperta dell’infanzia*: per millenni, i primi anni di vita erano stati considerati un’età di transizione ma soprattutto una
condizione a rischio. Tutta la vita era transitoria ma quella infantile lo era in particolare perché vi era un alto tasso di mortalità.
Le famiglie avevano cercato di evitare queste dolorose circostanze in modi diversi:
l’età precoce della sposa garantiva una prole più sana;
l’incremento delle nascite con la consapevolezza che mettendo al mondo molti figli solo alcuni sarebbero
sopravvissuti.
Un’altra soluzione era abbreviare la durata dell’allattamento per anticipare la ripresa della riproduzione della donna. Una
precoce privazione del latte materno esponeva il bambino a rischi di malattie. Le famiglie benestanti ricorrevano alle nutrici.
Tra il XIV secolo e il XV secolo cambia l’abbigliamento del bambino, i suoi giocattoli e i modi di rappresentarlo nella pittura e
scultura. Uno dei soggetti più diffusi erano la Madonna con il bambino di cui venivano sottolineati gli aspetti graziosi è teneri
della prima infanzia.
*È legata ad un insieme di fattori quali il miglioramento delle condizioni igieniche, delle cure mediche e dell’alimentazione.
Nel corso dell’età moderna l’attenzione all’infanzia porterà una maggior cura dei suoi bisogni con effetti specifici
sull’educazione.
La Compagnia di Gesù fu istituita da Ignazio di Loyola nel 1534, poco dopo la drammatica divisione tra cattolici e protestanti
ma prima del Concilio di Trento.
Tra i punti di forza della Compagnia vi erano:
1. l’obbedienza al papa, totale e assoluta perinde ad cadaver (come un cadavere);
2. lo slancio missionario che condusse i gesuiti in Cina, Giappone, India e Sudamerica;
3. il grande impegno educativo che portò all’istituzione di scuole, università e colleghi gesuitici.
Tali, sorti in forma di convitto a partire dagli anni quaranta del XVI secolo con lo scolo di istruire quanti desiderassero di entrare
nella Compagnia, si volsero ben presto all’educazione dei giovani aristocratici e della buona borghesia, per la formazione di un
ceto dirigente colto e devoto alla Chiesa.
I gesuiti nel 1599 elaborarono la Ratio studiorum, che disciplinava contenuti, metodi di studio e regole di comportamento per i
propri collegi, delineando una pedagogia cristiana che ebbe grande fortuna in Europa per quasi tre secoli.
Le discipline erano insegnate in classi omogenee per età, con programmi definiti nei contenuti e negli obiettivi, in un clima di
grande severità. Il corso di studi durava otto anni con largo ricorso alla memorizzazione, alla ripetizione di regole ed esercizi:
1. cinque anni erano dedicati agli studi linguistico-letterari;
2. tre alla filosofia aristotelico-tomistica con l'aggiunta di alcune conoscenze in scienze matematiche, fisiche e naturali;
per prendere i voti nell'ordine occorreva seguire un ulteriore corso di teologia. Non mancavano la musica sacra, il teatro (solo in
latino, su temi devozionali e senza la partecipazione di attrici) e l'addestramento alle buone maniere e allo stare in società.
L'asse formativo dei collegi era fondato sulla religione, sullo studio delle humanae litterae, del latino e dei classici, e di una
filosofia contenuta nei confini dell' ortodossia cattolica. Accanto a questo curriculum, un ruolo educativo importante rivestiva la
vita all'interno del collegio: i giovani vi risiedevano e ogni momento della loro giornata era rigidamente regolato, sorvegliato in
una dimensione pedagogica che tra lezioni, studio, funzioni religiose ed esercizi spirituali, riempiva persino il tempo libero.
Agli studenti si chiedeva l'abnegazione di se stessi:
annullamento del senso critico;
sottomissione e obbedienza ai superiori;
rigida disciplina spirituale.
La Ratio studiorum ha influenzato molti sistemi scolastici fino al XIX secolo, in particolare, per quanto ci riguarda, l'istruzione
secondaria classica del Regno di Sardegna e poi del Regno d'Italia. All'interno di una visione laica e nella temperie liberale del
Risorgimento, si componeva di un:
1. ginnasio quinquennale per gli studi linguistico-letterari;
2. liceo triennale dedicato la filosofia, alla storia, alle letterature (greca, latina, italiana), alla storia dell'arte, alla
matematica, alla fisica e alle scienze naturali.
A Roma sorge il Collegio romano (attivo fino al 1873) dal quale è nata la Pontificia università gregoriana, tuttora gestita dai
gesuiti.
La cultura laica, sviluppatasi nel corso della modernità, ha rivolto critiche anche aspre alla pedagogia gesuitica, fino alle
stroncature dell'Illuminismo.
6.3.4 MONTAIGNE
Montaigne, scrittore e filosofo, è vissuto in uno dei periodi più drammatici della storia francese, segnata dalle lotte di religioni
tra cattolici e ugonotti. Il padre, dopo essersi arricchito con il commercio, aveva acquistato il castello di Montaigne e, venuto in
Italia a seguito di Francesco I, aveva conosciuto la cultura rinascimentale, ristandone affascinato.
Curò, quindi, che il figlio ricevesse quell’educazione umanistico-rinascimentale che lo accompagnò per tutta la vita. La prima
istruzione gli fu impartita da un precettore tedesco che gli insegnava il latino, la lingua che non abbandonò più.
Alla morte del padre si ritira nel castello di famiglia inizia a scrivere la sua opera più importante, i Saggi, una sorta di libro in
fieri scritto nel corso di tutta la vita e pubblicato una prima volta nel 1580, poi nel 1588 e infine in edizione postuma nel 1595. I
Saggi raccolgono le riflessioni di Montagne nel campo della filosofia, della morale, della religione e rappresentano una delle
opere più importanti della cultura europea. Due saggi si occupano rispettivamente Della pedagogia e Dell'educazione dei fanciulli,
ma non mancano molte altre osservazioni sul tema nel resto del libro.
Partendo dalla domanda retorica «chi non vede che in uno Stato tutto dipende dall'educazione dei fanciulli e dal modo di
allevarli?», Montagne muove tre critiche all'educazione impartita ai suoi tempi:
1. contro il formalismo→ «bisognerebbe interessarsi di chiedere chi sappia meglio, non chi sappia di più». Questo è
un difetto dell'intera società e non solo dell'educazione, è quello che oggi definiremmo il primato dell’apparire
sull’essere. L'autore lamenta che «noi lavoriamo solo a riempire la memoria, e lasciamo vuoti l'intelletto e la
coscienza», cioè che l'istruzione del suo tempo mirava solo alla quantità delle nozioni trasmesse;
2. contro la pedanteria→ troppi maestri e precettori sono convinti che la propria cultura, limitata e superficiale, sia
immensa e profonda e che la insegnino con pignoleria riducendola a regolette e definizioni. Quindi il pedante è tale
per i contenuti del suo sapere e per i modi con i quali li dispensa;
3. contro il sapere mnemonico e libresco→ che viene riversato nella mente dell'educando, quasi fosse un vaso da
riempire. «Non bisogna appiccicare il sapere all'anima, bisogna incorporarvelo; non bisogna spruzzarla, bisogna
tingerla con esso; e se questo non la cambia e non migliora la sua condizione imperfetta, certo è molto meglio
lasciarla com'è».
Le tre critiche si distinguono per i tre diversi punti di osservazione dello stesso fenomeno: la qualità dell'educazione dipende
dalla capacità dell'educatore, dei saperi che impartisce e dei metodi che utilizza. Occorre che il precettore «abbia la testa ben
fatta piuttosto che ben piena», espressione che avrà grande fortuna in pedagogia, da Aristide Gabelli a Edgar Morin che la
richiamano con le stesse parole.
Quanto ai metodi, l'autore suggerisce che il precettore nel suo compito «si conduca in una maniera nuova e che fin dal principio,
secondo le possibilità dell'animo che gli è affidato, cominci a metterlo alla prova, facendogli gustare le cose, sceglierle e
discernerle da solo; a volte aprendogli la strada, a volte lasciando a lui di aprirla. Desidero che ascolti il suo discepolo».
Al precettore spetta di combattere il principio di autorità in quanto la verità e la ragione sono proprietà comuni a ognuno.
È viva in Montaigne l’idea di un rapporto personale tra educatore e educando, nel quale il primo sappia:
cogliere le inclinazioni (dimensione pedagogica) del secondo;
interessarlo al discernimento di cose e persone;
parlargli e ascoltarlo in una sorta di dialogo socratico;
rispettare la libertà nel momento stesso che lo guida al sapere.
6.4 L’EDUCAZIONE NEL XVII SECOLO
Nel corso del XVII secolo maturano ulteriormente alcuni processi già avviati in precedenza: si inasprisce lo scontro tra Riforma
protestante e mondo cattolico, si rafforza lo Stato moderno, cresce l’economia capitalista e si afferma una nuova concezione
della scienza.
1. La contrapposizione tra le diverse confessioni si radicalizzò con le guerre di religione, nelle quali si mescolarono
spesso motivazioni politiche e rivalità territoriali: già nel 1555 la pace di Augusta tra l'impero e i principi
protestanti uniti nella Lega di Smalcalda aveva sancito il principio del cuius regio, eius et religio: chi governa un
territorio vi afferma la propria religione, alla quale i sudditi debbono conformarsi. Di conseguenza l'unità religiosa
del Sacro romano impero fu sostituita dalla convivenza tra principi cattolici e principi protestanti, con uguali
doveri e diritti. In Francia divamparono la persecuzione degli ugonotti (protestanti di orientamento calvinista),
mentre in Inghilterra la guerra civile vide prevalere Oliver Cromwell su Carlo I Stuart. La guerra dei Trent'anni
(1618-1648) scoppiò tra cattolici e protestanti e fu uno dei conflitti più devastanti che l'Europa avesse conosciuto
fino ad allora. La pace di Vestfalia confermò il principio del cuius regio, eius et religio.
2. Il rafforzamento dello Stato moderno assunse la forma dell'assolutismo monarchico, secondo il quale re e
imperatore erano tali per diritto divino. Ciò ha comportato la crescita di apparati amministrativi sempre più vasti,
finalizzati a regolare la vita civile e quella individuale. Per i cattolici la monarchia assoluta rappresentava un ordine
voluto da Dio e la ribellione contro il re era un offesa al diritto divino. Sul piano sociale, invece, si ebbe un
impoverimento generale delle popolazioni investite dai diversi conflitti, mentre le migrazioni dei protestanti alla
ricerca di maggiore libertà religiosa determinarono conseguenze anche economiche destinate a durare nel tempo.
3. Cresceva l'economia mercantile e finanziaria alla quale si aprivano i vasti territori d'oltreoceano ricchi di materie
prime, metalli preziosi e schiavi. La borghesia protestante si affermava come il ceto sociale più dinamico e
intraprendente, un fenomeno che Weber spiegherà in termini sociologico-religiosi.
4. La scienza gettava le basi di una vera e propria rivoluzione. Si deve a Galileo Galilei l'adozione del metodo
scientifico basato sull'osservazione empirica, con il ricorso a esperienze sperimentali, misurazione, formulazione e
verifica di ipotesi. Ne Il Saggiatore lo scienziato affermò che il gran libro dell'universo «non si può intendere se
prima non s'impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne' quali è scritto. Egli è scritto in lingua
matematica». Rigore matematico, coerenza induttiva, spirito critico concorrevano a definire, insieme al metodo
della ricerca, un nuovo rapporto dell'uomo con la natura, una nuova scienza e una nuova conoscenza che
minavano alla radice il principio di autorità. La Chiesa, dinanzi a tutto ciò, si oppose con tutti i mezzi disponibili,
processando Galilei davanti al tribunale dell’Inquisizione.
L’educazione e la pedagogia furono influenzate dai caratteri del tempo, i luoghi dell’educazione restarono la famiglia, la bottega
artigiana, la Chiesa e le confessioni religiose. La scuola conosceva un lento sviluppo specie con i collegi sul modello gesuitico e
non mancarono iniziative per l'alfabetizzazione degli strati sociali medio-bassi, dei bambini e delle donne.
Nacquero le accademie, associazioni di studiosi che si impegnavano nello studio e nella diffusione delle scienze (Accademie
dei Lincei), delle lettere (Accademia della Crusca), della musica (Accademia di Santa Cecilia).
In pedagogia continuò il processo di laicizzazione dei fini educativi e dei relativi metodi, sempre più attenti alle specifiche
capacità e attitudini degli educandi.
6.4.1 COMENIO
Comenio è uno dei pedagogisti più importanti dell’età moderna. Pastore dell’Unione dei fratelli boemi, subì pesantemente le
conseguenze della guerra dei Trent’anni e degli aspri conflitti religiosi che l’hanno caratterizzata.
Nonostante le persecuzioni e le peregrinazioni, la sua vita fu molto operosa e sempre dedicata all'educazione, come:
insegnante;
fondatore e direttore di scuole;
autore di una gran quantità di scritti didattici/pedagogici e di progetti scolastici.
I testi più noti della sua vasta produzione sono l’Orbis sensualium pictus (1658), un libro scolastico per bambini che illustrava
con disegni le «parole relative alle cose più importanti dell'universo e alle principali attività».
Comenio vi sosteneva l’importanza di insegnare il latino e la lingua materna con un metodo che collegasse le parole, che sono i
segni delle cose, a oggetti o situazioni della realtà.
Più impegnata sul piano pedagogico è la Didattica Magna: magna perché non è rivolta sola alle discipline ma didattica della
vita, arte universale di insegnare tutto a tutti. La pansofia, totalità del sapere, si raggiunge tramite la pampaedia, l’educazione di
tutto il genere umano.
In quest’opera ricorda che Lutero, esortando le città dell'impero a costruire scuole, afferma due esigenze:
1. «in tutte le città, piazzeforti, villaggi si fondino scuole per istruire la gioventù dell'uno e dell'altro sesso » dove
«devono trovar tutti i bambini e le bambine, senza eccezione, nobili e popolani, ricchi e poveri», per «ricevere
regolari lezioni di lettere, scienze, morale e religione». Questa è sostenuta con diverse motivazioni, tutte all'insegna
della profonda religiosità dell’autore: l'uomo nasce come «immagine vera del suo creatore . Tutti perciò devono
essere avviati in modo che possano imbeversi bene di sapere, virtù e religione, così da prepararsi degnamente alla
vita futura(…)». L'istruzione per tutti deve includere anche quanti siano «tardi per natura» e le donne: anche loro
«sono immagine di Dio, partecipano alla sua grazia e al regno dell'altro mondo».
All'obiezione ricorrente «Cos'avverrà se i mestieranti, i contadini, i facchini e perfino le donnicciuole si daranno
agli studi?» Comenio risponde che l'istruzione e l'educazione universale non farà mancare a nessuno «materia di
buoni pensieri e desideri» e anche di buone opere, in modo che ciascuno sappia assicurare «il suo proprio posto»;
2. «le lezioni si facciano con metodo molto facile» affinché gli alunni non siano spaventati dagli studi, ma vi si
dedichino con piacere. L’autore critica la durezza dei metodi e la superficialità dei contenuti nelle scuole del tempo
che «sono considerate come lo spauracchio dei giovinetti o il tormento degli ingegni».
Per superare i difetti dell’istruzione del suo tempo, suggerisce di organizzare la classe in modo cooperativo e comunitario: il
maestro dividerà la scolaresca in tante squadre con un alunno caposquadra e un altro a capo dei capisquadra. Si tratta quasi di
un’anticipazione del mutuo insegnamento, che sarà praticato tra il XVIII e il XIX secolo da Joseph Lancaster.
Tale organizzazione consentirà di suscitare l'attenzione dei ragazzi e di mantenere la disciplina. Per Comenio l'educazione
deve coinvolgere la dimensione individuale, sociale e religiosa dell'uomo, in un percorso che dai sensi raggiunga la mente
(particolare→generale). L'istruzione scolastica deve essere pubblica e obbligatoria, organizzata in gradi secondo l'età:
dell'infanzia;
della puerizia;
dell'adolescenza;
della giovinezza.
L'insegnamento va impartito senza severità né costrizioni, fondando la disciplina sull'interesse e sulla motivazione
dell'educando.
La pedagogia di Locke riflette gli ideali e i principi della borghesia inglese che attraverso due rivoluzioni ha imposto
all'assolutismo monarchico i limiti di un parlamentarismo costituzionale. La figura del gentleman rappresenta il punto di arrivo
di quel profondo mutamento politico-culturale e insieme il punto di partenza per la costruzione dell'impero britannico.
La sua formazione esprime una specifica prospettiva educativa, approfondita con la lucidità di chi ha saputo leggere le esigenze
pedagogiche del suo tempo.
6.4.3 JEAN-BAPTISTE DE LA SALLE
Jean-Baptiste de La Salle fu un sacerdote francese che fece dell'educazione dei poveri la missione della sua vita; nel 1684 fondò
l'Ordine dei Fratelli delle scuole cristiane che si è conquistato un posto di rilievo nel panorama educativo.
La Salle andò oltre l'assistenza e la carità per i bambini poveri infatti costruì per loro una vera e proprio scuola, organizzata nei
metodi e pedagogicamente fondata. Istituì inoltre una scuola domenicale per gli adulti e scuole tecnico-professionali per
assicurare ai giovani possibilità di lavoro e di emancipazione dalla povertà.
Egli era molto attento alla qualità dei suoi maestri tanto da fondare una scuola dedicata alla loro preparazione.
6.5 L’EDUCAZIONE NEL XVIII SECOLO
I XVIII secolo racchiude diversi momenti di rottura della modernità che immettono in modo tumultuoso nell'epoca
contemporanea. I cambiamenti più profondi si riconducono alla rivoluzione industriale, a quella americana e a quella francese.
Tali cambiamenti vanno ricondotti nel quadro dell'Illuminismo.
RIVOLUZIONE INDUSTRIALE→ prese avvio avvio in Inghilterra nella seconda metà del secolo, per poi estendersi alla
Francia, alla Germania e via via ad altri Paesi.
Protagonista principale è stata la borghesia inglese che, con il favore di alcune innovazioni tecnologiche (macchina a vapore,
carbone come fonte energetica ecc.) e di altre circostanze ,ha trasformato la tradizionale economia agricola, mercantile e
artigianale in un sistema industriale capace di produrre e vendere grandi volumi di prodotti. L'ascesa della borghesia
industriale ha comportato la nascita di un ceto operaio salariato che nel corso del XIX e del XX secolo si organizzerà come
classe operaia interprete di un nuovo protagonismo e antagonismo sociale.
RIVOLUZIONE AMERICANA→ è stata la guerra per l'indipendenza dalla Gran Bretagna di tredici colonie nordamericane la
cui borghesia considerava i sistemi di tassazione e di rappresentanza praticati dalla madrepatria un attacco ai propri interessi
politici ed economici. Al temine di questa guerra nacque il nuovo Stato, con un assetto federale inedito all'epoca.
La Dichiarazione d'indipendenza (1776) e la Costituzione degli Stati Uniti d'America (1787) sancivano principi (separazione
dei poteri, uguaglianza dei cittadini) e garantivano diritti ispirati al pensiero liberale di Locke, al giusnaturalismo e
all'Illuminismo.
RIVOLUZIONE FRANCESE→ la borghesia diventa adulta in forza del suo peso economico, della sua visione del mondo e della
sua filosofia. La rivoluzione americana è stata un po' il prologo della rivoluzione francese contro l'ancien régime, tanto che la
Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino adottata a Parigi dall'Assemblea nazionale nel 1789 si ispirava ai principi
della Dichiarazione d'indipendenza americana.
La Costituzione del 1793, la più giacobina e inapplicata, proclamava all'articolo 22 il dovere della società di «mettere l'istruzione
alla portata di tutti i cittadini». Il tema del diritto all'istruzione ha animato il dibattito degli illuministi francesi divisi tra una
"destra", per la quale quel diritto non includeva le classi popolari, e una "sinistra" che invece le ammetteva agli elementi di base
del leggere, scrivere e far di conto.
ILLUMINISMO→ base filosofica e culturale delle trasformazioni intervenute nel XVIII secolo a partire dall'esaltazione dei
lumi della ragione. «L'Illuminismo è l'uscita dell'uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità è
l'incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se stessa è questa minorità, se la causa di essa
non dipende da difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di far uso del proprio intelletto senza
essere guidati da un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! È questo il motto
dell'Illuminismo»; la definizione di Kant esorta all'uso della ragione e rinvia un'eco della forza polemica che in molti Paesi
europei, e soprattutto in Francia, ha animato i philosophes come Diderot, d'Alembert, Voltaire, Montesquieu, Rousseau.
Polemica contro la religione, considerata una sorta di superstizione causa di oscurantismo culturale, scientifico,
educativo;
polemica contro il principio d'autorità, antico retaggio che considerava eterne e immutabili le conoscenze risalenti
a un'auctoritas;
polemica contro l'assolutismo monarchico dell'ancien régime e dei privilegi nobiliari, per un ruolo più incisivo del
Terzo Stato nel governo della cosa pubblica.
L'Encyclopédie fu un potente strumento di diffusione delle idee illuministe; redatta dai migliori studiosi dell'epoca
(Montesquieu, Voltaire, Rousseau ecc.) sotto la direzione di Diderot e d'Alembert, fu pubblicata tra il 1751 e il 1772 in 17 volumi.
6.5.1 JEAN-JACQUES ROUSSEAU
Jean-Jacques Rousseau è stato un esponente tra i più importanti dell'Illuminismo e uno dei fondatori della pedagogia
contemporanea. Nacque a Ginevra in una famiglia della piccola borghesia artigianale. Soggiorno a lungo in Francia, in Italia e
in Inghilterra, svolgendo lavori diversi e soprattutto studiando. Collaborò all'Enciclopedia di Diderot, scrisse saggi, commedie e
poemi, oltre alle opere più importanti:
il Discorso sulle scienze e le arti (1750);
il Discorso sull'origine e i fondamenti della diseguaglianza tra gli uomini (1754);
il romanzo epistolare Giulia o la nuova Eloisa (1761);
Il Contratto sociale e l’Emilio (entrambi nel 1762);
libri autobiografici pubblicati postumi.
Ebbe cinque figli, tutti abbandonati negli orfanotrofi: una scelta abbastanza diffusa in quell'epoca, della quale tuttavia si penti. I
suoi ultimi anni furono segnati da manie persecutorie che lo condussero a isolarsi dagli amici e anche da quanti, come Hume,
volevano aiutarlo.
Il suo pensiero esprime una forte critica della società quale si è venuta costruendo storicamente, colpevole ai suoi occhi di
essersi allontanata dallo stato di natura. L'uomo naturale viveva una condizione di libertà, felicità e virtù che è stata corrotta
dallo sviluppo delle arti e delle scienze, dalle abitudini e dalle regole del vivere associato; il suo posto è stato preso dall' uomo
sociale la cui condizione è all'origine della diseguaglianza e dei suoi mali.
Nel Contratto sociale, forse influenzato da alcune esperienze di autogoverno tipiche della Svizzera, delinea un ordinamento
individuale e comunitario nel quale la sovranità appartiene al popolo che esercita il potere legislativo; le leggi nascono dalla
comune volontà di cittadini liberi e uguali e spetta al potere esecutivo (governo) farle rispettare. La proprietà della terra è
consentita nei limiti del bisogno di ciascuno per il proprio lavoro e per la propria sussistenza.
La libertà dell'uomo naturale può essere indirizzata al bene o al male: di qui l'importanza dell'educazione, alla quale Rousseau
ha dedicato la sua opera più famosa, l’Emilio.
L'Emilio non è un trattato sull'educazione ma un romanzo pedagogico sulla formazione, possibile e necessaria, dell'uomo e del
cittadino. L'opera è divisa in cinque libri:
1. dedicato all'infanzia di Emilio e quindi alle cure dell'allevamento e della crescita;
2. si occupa del suo sviluppo sensoriale e motorio a contatto con la natura (fino ai 12 anni);
3. Emilio è ormai un ragazzo sano e robusto, pronto ad affrontare «il tempo del lavoro, dell'istruzione e dello studio»;
4. Emilio entra nell'adolescenza, una tempestosa rivoluzione annunciata «dal mormorio delle passioni nascenti»
allorché «sbalzi di umore, collere frequenti, continua irrequietezza dello spirito rendono il ragazzo quasi
incontrollabile, non vuole più essere indirizzato». Il precettore lo introduce all'educazione sociale e morale:
accanto allo studio della storia, viene avviato alla conoscenza religiosa. Qui compare la Professione di fede del vicario
savoiardo, quasi un libro nel libro, che delinea una religione naturale fondata sulla ragione: le leggi della natura
rivelano l'esistenza di Dio, buono, giusto, creatore e regolatore del mondo;
5. «Emilio è un uomo; gli abbiamo promesso una compagna, dobbiamo dargliela. Questa compagna è Sofia». Qui,
l’autore si concede una frecciata a Locke: «Visto che il nostro gentiluomo, dice Locke, è sul punto di sposarsi,
lasciamolo solo con la sua innamorata. Quanto a me che non ho l'onore di educare un gentiluomo, mi guarderò
bene dall'imitare Locke su questo punto». Sofia* racchiude in sé le virtù della sposa e della madre; Emilio ne è
attratto ma il precettore vuole che egli completi la sua educazione di cittadino con un lungo viaggio per conoscere il
mondo, i popoli, le culture; solo dopo i due si sposeranno.
Il libro consente a Rousseau di esplicitare i fondamenti del sua concezione:
l'educazione naturale legata alla bontà dello stato di natura: l'Emilio si apre con queste parole: «Tutto è bene
quando esce dalle mani del creatore delle cose: tutto degenera nelle mani dell'uomo», un tema centrale nella
pedagogia di Rousseau;
il puerocentrismo (una «rivoluzione copernicana» dirà Dewey) colloca l'educando al centro del processo
formativo. Il bambino è originariamente buono in quanto più vicino allo stato di natura; è quindi possibile e
necessario insegnargli «l'arte di saper vivere di diventare prima di tutto un uomo», senza finalità lavorative,
almeno fino all'adolescenza;
l'educazione indiretta in quanto ci deriva dalla natura o dagli uomini o dalle cose.
Occupandosi del neonato, Rousseau deplora la pratica molto diffusa di fasciarlo strettamente, con le membra «avvolte come un
gomitolo», impedito nei movimenti e ostacolato nella crescita.
Il suo vero bersaglio polemico sono «quelle dolci madri che, sbarazzate dei loro figliuoli, si abbandonano allegramente al
divertimenti della città».
L'autore spiega con espressioni colme di sdegno i danni che «usanza disumana» provoca al bambino e all'intera società. Anche i
padri vengono richiamati al loro dovere, che non si esaurisce nel procurare il benessere materiale dei figli: «allo stesso modo che
la vera nutrice è la madre, il vero precettore è il padre».
Un apparente paradosso della pedagogia di Rousseau è il concetto di educazione negativa: «la più grande, la più importante, la
più utile norma di tutta l'educazione non è guadagnare del tempo, ma perderne».
A suo avviso i bambini passano «dall'età dei poppanti a quella della ragione» seguendo i tempi di uno sviluppo naturale e
quindi sarebbe dannoso, prima dei dodici anni di età, educare una ragione che non sia ancora matura. «La prima educazione
deve essere dunque puramente negativa». Ma cos'è per Rousseau la prima educazione che deve essere puramente negativa? È
quella che precede la razionalità e il precettore fino ai dodici anni dovrebbe solo esercitare «il corpo, gli organi, i sensi, le forze
del fanciullo» per farlo crescere sano e robusto; per il resto deve tenere «inoperosa la sua anima» il più a lungo possibile per
lasciare «maturare l'infanzia». Ecco il senso del «non far nulla»: Emilio apprende dall'osservazione e dall'esperienza. Solo
dopo questa fase le prime lezioni del precettore apriranno i suoi alla ragione e l’acquisizione delle conoscenze avverrà in modo
attivo.
La ragione opera mossa da una finalità pratica:
mobilita le conoscenze pregresse;
guida l’osservazione dell’ambiente;
collega tra loro le diverse esperienze ed è per questa via che Emilio apprende.
Rousseau conferma: «Io odio i libri» eccetto il Robinson Crusoe «il più felice trattato di educazione naturale» tutto giocato sul
rapporto tra uomo, Dio e natura: questa sarà la prima lettura di Emilio.
*Nel quinto libro l’autore di occupa di Sofia, la donna a cui è destinato Emilio. I due sono stati tenuti separati fino al loro
incontro, “casuale”, perché uomo e donna sono destinatari di educazioni diverse: la donna infatti riceve un’educazione che
«deve essere relativa agli uomini».
Il precettore assicura a Emilio il libero sviluppo delle sue inclinazioni e al tempo stesso predispone situazioni che siano
educative nei fatti più che nelle parole, limitandosi a correggerlo con l'esempio e con la mano invisibile dell'intervento
indiretto. In realtà Emilio deve poter fare quello che vuole ma non deve volere niente di diverso da quello che il precettore vuole
per lui.
E allora l'educazione rousseauiana è spontanea o è assoggettata alla volontà del precettore?
La risposta va cercata in una lettura congiunta dell'Emilio e del Contratto sociale. Occorre traguardare il ruolo dell'educatore e
quello del legislatore: «Sia il legislatore che l'educatore basano la loro attività sull'esistenza di un patto: al patto sociale esplicito
che subordina il cittadino alla legge corrisponde il patto educativo implicito al quale il bambino viene sottoposto senza che ne
sia consapevole e che sarà in grado di accettare in modo esplicito dopo il compimento della sua educazione». L'Emilio sembra
adottare un'educazione naturale per la formazione dell'uomo e un'educazione più conformante per la formazione del cittadino,
che va salvaguardato da un incombente destino di corruzione.
Nel romanzo i due processi coesistono, anche se il successivo pensiero pedagogico ha privilegiato il primo, facendo di Rousseau
il padre dell’educazione infantile libera e spontanea.
6.5.2 CONDORCET
Marie-Jean-Antoine-Nicolas Caritat, marchese di Condorcet fu un importante matematico che nel suo impegno politico
attraversò gli anni della Rivoluzione francese e ne interpretò lo spirito enciclopedico. Legato a d'Alembert e ai philosophes
dell’Enciclopedia, fu membro delle maggiori istituzioni scientifiche e presidente dell'Assemblea nazionale. Per la sua vicinanza
ai circoli moderati dei Girondini venne imprigionato durante il breve periodo del potere giacobino.
A Condorcet si deve il progetto di riordinamento scolastico inserito nella Costituzione del 1791; anche se non ebbe
applicazione, restò un importante punto di riferimento per il rinnovamento dell'istruzione francese.
Secondo Condorcet l'istruzione deve essere:
libera dai pregiudizi e dalla miseria;
pubblica, gestita dallo Stato e diffusa su tutto il territorio nazionale;
aperta a tutti, uomini e donne;
laica.
Egli attribuiva un’importanza inedita all’educazione degli adulti. Tra le motivazioni di questa indicazione, l'autore richiama il
problema della mortalità infantile: occorre impartire agli adulti, uomini e donne, un'educazione fisica (intesa come norme per
igiene, alimentazione, cura del corpo ecc.) che consenta loro di generare e educare figli sani e robusti.
Il metodo di Pestalozzi tendeva a un'educazione naturale che unisse il libero dispiegamento delle facoltà dell'educando alle
esigenze pratiche della quotidianità, mobilitando le dimensioni del cuore (educazione morale e religiosa), della mente
(educazione in-tellettuale) e della mano (educazione al lavoro). In particolare, l'educazione intellettuale si serve dell'intuizione
per collegare l'insegnamento all'esperienza nel rapporto con l'ambiente; l'intuizione, a sua volta, racchiude in sé i tre elementi
sui quali si fonda l'istruzione elementare:
forma;
numero;
parola;
i due primi definiscono le qualità degli oggetti via via conosciuti, mentre la parola ne esprime il concetto.
Rielabora la rousseauiana libertà dell'educando con metodi più severi finalizzati all'adozione di abitudini ordinate, di
comportamenti composti; la funzione educativa della famiglia è fondamentale e su di essa va modellata l'istruzione pubblica
assicurata dallo Stato, per la formazione delle virtù civiche del cittadini. Non a caso l'autore dedica molta attenzione all'uso del
denaro perché i poveri vanno abituati al risparmio, a spendere secondo necessità, a difendere l'onesto guadagno.
All'interno dell'educazione familiare è notevole il rilievo che Pestalozzi attribuisce alla donna: Geltrude, infatti, è la prima figura
femminile il cui ruolo educativo è riconducibile solo in parte a una generica attitudine alla cura e all’allevamento dei figli.
6.5.4 JEAN ITARD
Jean Marc Gaspard Itard era un medico francese di cultura illuministica che studiò i disturbi dell'udito e del linguaggio,
collaborò con l'Istituto nazionale dei sordomuti di Parigi e, insieme al suo allievo Edouard Séguin, è considerato uno dei padri
della Pedagogia speciale.
Il suo nome è legato soprattutto alla vicenda del fanciullo selvaggio dell'Aveyron, un ragazzo di dodici anni che nel 1799 fu
trovato nei boschi, nudo, senza che si sapesse nulla di lui. Per quanto non fosse il primo ritrovamento del genere, questo caso
ebbe una particolare notorietà perché Itard svolse un lungo lavoro per ricondurre il ragazzo a una condizione per quanto
possibile "normale". Era convinto che l'educazione senso-motoria, unita a un adeguato processo di socializzazione e di
istruzione, avrebbe consentito a Victor di recuperare quello che sembrava solo un ritardo nella crescita. In realtà lo sviluppo di
alcuni organi, come quelli della formazione, era ormai compromesso e quindi Victor non era più in grado di parlare.
«L'uomo può trovare soltanto in seno alla società quel posto eminente che gli fu assegnato dalla natura e sarebbe, senza la
civiltà, uno degli animali più deboli e meno intelligenti»: con questa affermazione Itard si distacca dal suo contemporaneo
Rousseau e dimostra come lo stato di natura sia il punto di partenza del cammino umano che culmina appunto con la civiltà.
A suo avviso la psicologia, allora allo stato nascente, e la medicina «rischiarate dalla luce dell'analisi e sorreggendosi a vicenda
(...) si sono oggi liberate dai loro vecchi errori e hanno compiuto immensi progressi»; questo è l'Illuminismo di uno scienziato
più incline all'osservazione metodica e alle risorse dell'educazione.
Quanto al piccolo selvaggio dell'Aveyron, all'inizio molte persone «credettero che l'educazione di questo individuo avrebbe
richiesto appena qualche mese», mentre un noto psicologo emise una diagnosi di stupidaggine congenita.
Itard, incaricato dall'Istituto nazionale dei sordomuti di occuparsi del caso, attraverso l'osservazione dei comportamenti di
Victor giunse a «concepire qualche speranza, basandola sulla duplice considerazione della causa e della curabilità di quella
stupidaggine così vistosa». Le condizioni fisiche di Victor al momento del suo ritrovamento portarono Itard a ipotizzare che il
ragazzo avesse trascorso in assoluta solitudine circa sette anni e quindi che fosse stato abbandonato a un'età di quattro o cinque
anni.
Egli iniziò a prendersi cura di Victor nel 1801 e dopo cinque anni gli sembrava che «il processo di incivilimento» avesse
prodotto risultati incoraggianti in termini di capacità senso-motorie, sviluppo cognitivo e «facoltà affettive».
Si deve a Itard una nuova prospettiva nel trattamento dei soggetti disabili; una prospettiva scientificamente fondata, con un'
adeguata attenzione agli aspetti senso-motori, psicologici e relazionali, per quanto consentito da una neuropsichiatria ancora
allo stato nascente.
L’ETA CONTEMPORANEA
7.1 CARATTERI DEL XIX SECOLO
La Rivoluzione francese del 1789 segna convenzionalmente l’inizio dell’età contemporanea che racchiude gli ultimi due secoli
fino al primo scorcio del nuovo millennio.
A grande linee, nell’Europa nel XIX secolo si registrano:
1. il superamento degli assetti feudali o di quel che ne restava dopo l’abbattimento dell’ancien régime da parte della
Rivoluzione francese;
2. il fallimento della Restaurazione, cioè del tentativo di ritornare allo status quo ante rispetto alle guerre
napoleoniche, se non addirittura prima del 1789. Nella cultura europea si affacciava il nazionalismo, ideologia
espressione di esigenze diverse e spesso contrapposte: quella di un popolo che si identifica in una nazione e lotta
per la propria indipendenza e quella di uno Stato che in nome della propria superiorità economica e militare
sottomette altri popoli (imperi coloniali);
3. lo sviluppo del capitalismo industriale e agrario e la nascita del Positivismo come filosofia e culturale della
borghesia protagonista di quello sviluppo. Si affermavano anche il socialismo e le prime organizzazioni dl
movimento operaio e contadino, cioè di un proletariato sempre meno disposto a pagare il prezzo del nuovo assetto
socio-economico;
4. i progressi della scienza e della tecnica le cui conquiste vengono celebrate nell’Esposizione universale di Parigi del
1889 che inaura la Tour Eiffel.
Fuori dall’Europa si assiste all’ascesa degli Stati Uniti d’America, giovane potenza il cui manifest destiny investirà nel tempo uno
spazio globale.
7.2 EDUCAZIONE E SOCIETÀ XIX SECOLO
La cultura del XIX secolo ha conosciuto mutamenti importanti: Romanticismo, idealismo, Positivismo rappresentano le diverse
modalità con cui la borghesia afferma la propria identità nei campi della letteratura, dell’arte, della filosofia, della scienza e
della tecnica.
L’istruzione aveva funzione statale a gestione pubblica, dotata di risorse finanziarie e regolata da apposite leggi. Nel XIX la
scuola conobbe un’inedita espansione e non si trattò solo di un mutamento quantitativo ma anche qualitativo.
Generalmente l’analfabeta era escluso dal diritto di voto e da altri diritti di cittadinanza e ciò spinse le menti più aperte verso
una scolarizzazione che diffondesse una coscienza razionale in forza della quale l’appartenenza a una comunità desse sostanza
alla formazione dell’uomo e del cittadino.
La pubblica istruzione divenne anche funzione sociale di importanza primaria che affiancava l’educazione familiare e si
occupava della formazione artigiana. Lo Stato vide in essa la possibilità di garantire la riproduzione dei ceti dirigenti e formare
maestranze.
La pedagogia ha interagito con il cambiamento, ha preso atto di una pluralità di dimensioni educative e si è impegnata nel
superamento dell’impostazione filosofica. Nella sua ricerca ha incontrato discipline sempre più emancipate come la psicologia e
la sociologia: infatti è proprio nel corso del XIX secolo che la pedagogia si consolida come scienza dell’educazione.
7.3 HERBART, FRÖBEL E TOLSTOJ
È in Germania che i principali movimenti culturali del secolo sono nati o hanno trovato le espressioni più significative: lo Sturm
und Drang è sfociato nel Romanticismo (che avrà in Goethe il suo punto di riferimento), mentre nella filosofia europea è
scaturito l'idealismo tedesco legato ai nomi di:
1. Fichte→ dubitava di un'educazione fondata sulla libera volontà dell'educando e sosteneva la necessità che quella
volontà fosse severamente guidata verso il bene. La missione del dotto, una delle sue opere più importanti,
consisteva nell' educare gli uomini sia sul piano dei saperi sia su quello morale;
2. Schelling→ il più vicino al Romanticismo, avendo elaborato una filosofia secondo cui natura e spirito sono una
realtà unica e solo l'arte consente all'uomo di conoscerla nella sua distinzione e insieme nella sua unità;
3. Hegel→ ha elaborato, nel cuore della Prussia guglielmina, la dottrina dello Stato etico: libertà e moralità
dell'individuo possono dispiegarsi solo se si identificano con la volontà dello Stato, che rappresenta la totalità etica
e la realizzazione della libertà. L'educazione deve abbandonare ogni suggestione rousseauiana sulla spontaneità
dell'educando, che deve essere condotto all'obbedienza, intesa come accettazione delle ragioni e delle norme
universali che governano la vita civile.
Un posto a parte merita Wilhelm von Humboldt, ministro dell'Educazione della Prussia. Egli organizzò la scuola in 3 gradi:
1. elementare→ avviava l'alunno alla conoscenza della forma, del numero e della parola;
2. "scolastico"→ rilanciava l'istruzione umanistica fondata sul latino e sul greco e accompagnata dallo studio di
storia, geografia, matematica e fisica;
3. universitario→ l'insegnamento si fondava sull'unità del sapere scientifico, di cui la filosofia rappresentava il grado
più alto.
I primi due livelli scolastici erano finalizzati all'acquisizione delle capacità generali per la formazione disinteressata (cioè senza
finalità pratiche o lavorative) dell'uomo in termini spirituali e morali, secondo un'impostazione umanistica. La formazione del
cittadino, orientata alle specifiche professioni, era compito del terzo livello.
JOHANN F.HERBART apparteneva alla borghesia intellettuale tedesca, aveva studiato a Jena e a Gottinga, era stato precettore
e aveva visitato il collegio di Pestalozzi a Burgdorf. Dopo il dottorato in filosofia e pedagogia insegnò a Königsberg sulla
cattedra che era stata di Kant.
Tra le sue pubblicazioni vanno ricordate La pedagogia generale dedotta dal fine dell'educazione (1806), Filosofia pratica generale (1808),
Metafisica generale (1828-1829). In particolare Manuale di psicologia (1816) e Psicologia come scienza, nuovamente fondata sull'
esperienza (1824- 1825) testimoniano il suo interesse per la psicologia.
In filosofia Herbart è contrario al Romanticismo e all'idealismo, che riducono la realtà a una dimensione spirituale; ri legge Kant
alla luce di un proprio concetto di esperienza che lo porta a superare alcuni capisaldi del suo pensiero: la conoscenza non nasce
dalle facoltà dell'anima né dalle categorie spazio-temporali, non esiste alcuna sintesi a priori poiché la conoscenza si fonda su
ciò che viene percepito, sull'esperienza. Anche in pedagogia contesta quasi tutte le teorie correnti, a eccezione di alcuni aspetti
di Pestalozzi.
È considerato tra i padri della pedagogia come scienza filosofica finalizzata al "governo dei fanciulli" collegata a:
1. psicologia che coglie il filo che lega il dato di realtà alla conoscenza attraverso le percezioni sensibili e le
rappresentazioni che ne scaturiscono. Le stimolazioni sensoriali e i loro contenuti fattuali, si depositano nella
mente come rappresentazioni della realtà e, partendo da un'iniziale condizione di tabula rasa, costruiscono le
funzioni psichiche e le facoltà dello spirito;
2. etica che unisce l'esperienza al senso del dovere e tende alla formazione di un carattere autonomo e responsabile.
All'educatore spetta il compito di guidare l'educando e di controllare la correttezza del processo educativo. Deve
esercitare la propria autorità per assicurarsi che la natura del bambino si allontani da una spontaneità incontrollata
e cresca verso l'autodirezione.
Herbart è ben consapevole che l'educando ha una molteplicità di interessi, a volte dannosi, tuttavia la funzione educativa
dell'interesse e dell'attenzione da utilizzare all'interno del processo di insegnamento-apprendimento.
FRIEDRICH FRÖBEL è stato il padre dei Kindergarten, i giardini d’infanzia. Dalla Turingia trasse l’amore per i boschi e per la
natura che segnerà la sua pedagogia. La sua visione del mondo era fondata sull’unità di natura e spirito, unità a cui deve
tendere l’educazione.
Per Fröbel il bambino è buono in quanto vicino alla natura, che è buona a sua volta perché in essa Dio si manifesta e vive; nel
bambino parla la voce di Dio, e quindi «fin dalla sua nascita deve essere compreso nella sua essenza»; la sua educazione sarà
all'insegna del libero sviluppo e della conoscenza della natura nella quale troverà la propria dimensione spirituale.
Al Rousseau più romantico Fröbel accosta il principio idealistico di Schelling della profonda unità di natura e spirito e vi
aggiunge da parte sua due importanti riflessioni:
la necessità per il bambino di intrattenere intensi rapporti relazionali, perché «se gli uomini sono fatti per gli altri
uomini, anche i bambini sono fatti per gli altri bambini»;
l'importanza del gioco, che consente al bambino di stabilire un contatto creativo con l'ambiente circostante . Anche
quando gioca con le cose finisce per giocare con sé e gli altri e così riconosce l’unità tra sé e il mondo: il gioco è
creazione oltre che ricreazione.
Nel Kindergarten al bambino viene affidato un giardinetto per coltivare fiori e piccole piante: cosi facendo egli si manifesta come
«divino creatore» in quanto, come Dio, fa nascere la vita dalla natura. È un gioco, ma per il bambino è come se fosse un lavoro,
che gli consente di esprimere la propria intima spiritualità in una dimensione universale: «applicarsi per tempo al lavoro
significa rinsaldare ed elevare la religione».
Quanto alla scuola, il fine dell'insegnamento è «far conoscere l'unità di tutte le cose, che si basano, sussistono e vivono in
Dio» e il maestro è colui che sa «far conoscere a se stesso e agli altri l'intima spirituale essenza delle cose», sa coltivare «la
speranza e l'intuizione del bambino (...) l'intuizione del suo io e della sua natura spirituale».
Anche Frobel critica il formalismo della scuola intesa come l'istituzione attenta più alla quantità di ciò che si insegna che alla
qualità della formazione rivolta all'educando.
Per favorire l'intuizione infantile, che Fröbel considera una grande risorsa educativa, elabora la teoria dei doni, solidi
geometrici (sfera/palla, cubo e cilindro) di materiali e dimensioni diverse che, attraverso un'attività di manipolazione,
composizione e scomposizione, avviano il bambino all'intuizione di significati più profondi per i quali non avrebbero senso le
spiegazioni verbali.
Questa teoria conferma come per Fröbel il gioco non sia un semplice divertimento, ma un'attività conoscitiva attraverso la
quale il bambino riconosce i principi universali che sono già nel suo spirito.
Il giardino d'infanzia fröbeliano fu soppresso dallo Stato prussiano nel 1851 perché considerato troppo vicino alle idee
“liberali” che non avevano vita facile nel clima della Restaurazione; subì anche pesanti critiche dalle autorità cattoliche e
protestanti. Tuttavia l'esperienza dei giardini d'infanzia ebbe notevole diffusione in Europa nel corso dell'Ottocento allorché la
crescente industrializzazione pose a molte famiglie indigenti il problema dell'abbandono dei figli durante i pesanti orari del
lavoro di fabbrica.
Fröbel ha elaborato una pedagogia romantico-idealistica definita nei fini e nei metodi e ha sperimentato una didattica per
l'infanzia affidata a maestre preparate; una lezione che nel corso del tempo sarà ripresa e adattata in diversi Paesi europei.
LEV TOLSTOJ. Lo scrittore russo, autore di Guerra e pace (1865), Anna Karenina (1877), racconti, opere filosofiche e pedagogiche,
è una delle figure più interessanti del XIX secolo.
Nato a Jasnaja Poljana, condusse studi irregolari sull'onda dei suoi interessi culturali, gli stessi che lo portarono a viaggiare in
diversi Paesi europei. Pur appartenendo a un ceto sociale agiato, era animato da una forte sollecitudine verso gli ultimi e i
poveri, ai quali indirizzò iniziative filantropiche e educative.
Per sperimentare i suoi principi, nel 1859 fondò, nella tenuta di famiglia, una scuola rivolta ai figli dei suoi contadini, nella
convinzione che «la scuola non debba immischiarsi nel processo educativo, che è compito esclusivo della famiglia, e che non
debba premiare e castigare perché non ha il diritto di farlo».
Si tratta scuola gratuita con allievi di età tra sei e dodici anni, cui si aggiungono, in modo saltuario, tre o quattro adulti.
L’edificio comprende:
due aule;
alcuni attrezzi per la ginnastica;
un banco da falegname;
locali per i maestri.
Le lezioni iniziano al mattino, si interrompono per un pasto sobrio e riprendono nel pomeriggio fino al tramonto; i maestri
passano tutto il tempo con i ragazzi e spesso la sera lo stesso Tolstoj li riaccompagna a casa, nel loro villaggio.
«La classe di grado inferiore legge, scrive, risolve i problemi delle prime tre regole aritmetiche e racconta la storia sacra»; tra le
discipline vi sono grammatica, storia russa, canto, disegno, comandamenti divini e scienze naturali.
L'organizzazione è molto elastica, l'alunno non porta «niente con sé, né libri né quaderni», non esistono i compiti a casa,
l'allievo non è obbligato a ricordare nessuna lezione ma «porta soltanto se stesso, la propria natura ricettiva e la convinzione che
oggi a scuola ci sarà da divertirsi come ieri». Non si rimprovera chi arriva in ritardo e tuttavia nessuno ritarda, chi vuole ha il
diritto di non andare a scuola e, se è presente, di non ascoltare il maestro. Tutto ciò ovviamente produce disordine, che però
Tolstoj considera un «disordine esteriore» utile e insostituibile, chiamandolo «libero ordine»; la spiegazione dell'ossimoro sta nel
comportamento dei ragazzi che, quando inizia un'attività si radunano, si siedono dove vogliono, ascoltano, zittiscono chi
disturba: l'ordine che si stabilisce «spontaneamente e naturalmente» è il loro ordine «molto migliore e durevole di quello che noi
immaginiamo». Inoltre, se la lezione li appassiona, il maestro su loro richiesta la fa durare anche due o tre ore e con questo
insieme di comportamenti i piccoli contadini imparano a rispettare il maestro, che così non deve affermare la propria autorità
con rimproveri e punizioni.
Secondo l’autore, il maestro «involontariamente tende a scegliere il metodo di insegnamento a lui più comodo. Quanto più il
metodo di insegnamento è comodo per il maestro, tanto più è disagevole per gli allievi. È giusta soltanto quella forma di
insegnamento che soddisfa gli allievi».
Siamo in presenza di un' educazione umanitaria che sviluppa al massimo grado la lezione di Rousseau sulla centralità
dell'educando e sulla contrapposizione tra una natura buona e una cultura nutrita solo di formalismi.
La scuola da lui fondata intende «offrire agli allievi piena libertà di studiare e organizzarsi come vogliono», muove dai loro
interessi, tiene nella giusta considerazione le capacità e le inclinazioni di ciascuno.
7.4 PEDAGOGIA E EDUCAZIONE IN ITALIA
Nel corso del XIX secolo nella pedagogia italiana si approfondisce la linea di demarcazione tra laici e cattolici destinata a durare
nel tempo.
La pedagogia laica, di ispirazione liberale e democratica, comprende tra gli altri Vincenzo Cuoco, Carlo Cattaneo, Enrico
Mayer. Personalità diverse che convergono sulla necessità di una scuola pubblica, rivolta a tutti, distinta in un'istruzione
popolare, che assicuri le conoscenze fondamentali anche agli strati meno provveduti, la formazione secondaria e poi quella
universitaria per i ceti sociali più elevati.
L'educazione scolastica deve:
essere laica-scientifica, lontana dagli eccessi del nozionismo, rispettosa dello sviluppo psicologico dell' alunno;
essere animata da insegnanti preparati, attenti alla dimensione culturale e sociale dell'insegnamento;
deve concorrere alla formazione dell'uomo e del cittadino, contribuire allo sviluppo della sua identità nazionale;
favorire una convivenza armonica tra le diverse classi sociali.
La pedagogia cattolica è stata animata dallo spiritualismo di Antonio Rosmini e dal cattolicesimo liberale di Gino Capponi,
Nicolò Tommaseo, Vincenzo Gioberti, Ferrante Aporti.
In questo periodo si registrò in Italia un'attenzione crescente per l'educazione dell'infanzia e per l'istruzione elementare. In
Piemonte, in Lombardia e in Toscana i sacerdoti Ferrante Aporti e Raffaello Lambruschini diedero un notevole impulso agli
asili d'infanzia, ispirandosi almeno in parte a Pestalozzi e Fröbel.
In particolare gli asili aportiani abbandonarono la funzione "custodialista" (cioè di semplice custodia) delle sale d'asilo in favore
di attività educative organizzate: la lingua italiana veniva insegnata con racconti di storia sacra, con la nomenclatura (gli oggetti
di uso comune, le parti del corpo ecc.), con la conversazione e con i canti; vi era spazio per il disegno, per il gioco e ovviamente
per la preghiera.
ENRICO MAYER (1802-1877) è stato un esponente di rilievo della cultura laica e cosmopolita. Si occupò di asili infantili che
considerava luoghi di istruzione popolare per la crescita fisica e morale dei bambini poveri, ma anche un servizio sociale,
diremmo oggi, necessario allo sviluppo civile ed economico. Vi è in Mayer una forte sollecitudine per i ceti più disagiati i cui
mali andavano combattuti anche sul terreno educativo; è stato tra i primi a cogliere con tanta chiarezza l'importanza
dell'educazione per l'emancipazione delle classi inferiori.
DON GIOVANNI BOSCO (1815-1888) ha rappresentato una pedagogia attenta alle sorti degli strati popolari. Nato in una
famiglia povera che, secondo l'uso e le necessità del tempo, lo mandò in seminario per farlo studiare. Come cappellano nelle
carceri di Torino ebbe modo di riflettere su un'esperienza che lo segnerà a fondo: si rese conto che i comportamenti devianti non
erano dovuti tanto a una "naturale disposizione" al crimine, come sostenevano le controverse teorie scientifiche di Lombroso,
quanto piuttosto alla miseria e all'ignoranza.
Dall'unione di istruzione e lavoro sorse la prima esperienza educativa di don Bosco, un oratorio divenuto nel 1859 Società
Salesiana in onore di Francesco di Sales, santo francese e dottore della Chiesa; nel 1872 si aggiunse l'Istituto delle Figlie di Maria
Ausiliatrice per l'educazione femminile.
Tra le opere di don Bosco, Il sistema preventivo nell'educazione della gioventù (1877) racchiude fin dal titolo il senso del suo
impegno per i giovani, che egli non ha racchiuso in un sistema pedagogico, ma al quale ha indicato i principi dell'educazione
cristiana, con attenzione alla persona in un atteggiamento aperto e amichevole.
Negli oratori salesiani accanto all'istruzione trovava spazio anche la formazione al lavoro centrata sui valori di dignità,
emancipazione personale e stabilità sociale. I mestieri erano quelli tradizionali ai quali volle aggiungere quelli richiesti dalla
crescente diffusione della stampa. Don Bosco vi si dedicò con entusiasmo, introducendo i giovani alle nuove professionalità e al
tempo stesso impiegando quelle maestranze per stampare i materiali educativi e didattici da utilizzare negli oratori:
abbecedari e manuali scolastici;
opuscoli di preghiera;
testi con brani biblici e devozionali;
opere della letteratura europea, divulgate in forme compatibili con la morale cristiana e con la ferma volontà di
aprire agli umili un orizzonte culturale fino ad allora tipicamente borghese.
Anche questi elementi contribuirono alla fortuna degli oratori salesiani, insieme all'appoggio di ambienti ecclesiastici e di
benefattori privati.
7.5 GLI INSEGNANTI IN EUROPA
La diffusione dell'istruzione popolare, così come la lotta contro l'analfabetismo, dovette scontrarsi con diverse difficoltà:
in primo luogo pesava l'ostilità di vasti settori dell'opinione pubblica e dei gruppi dirigenti convinti che il povero
non dovesse essere colto, istruito ma piuttosto devoto alla religione, sottomesso all'autorità, rassegnato all'umiltà
della condizione. Il conte Monaldo Leopardi, padre del poeta Giacomo, fu un coerente sostenitore della
Restaurazione e nei Dialoghetti sulle materie correnti dell'anno 1831 condannava con vivace ironia, tra i frutti
avvelenati dell'Illuminismo, la libertà di stampa e «la troppa diffusione delle lettere» cioè dell'istruzione,
considerata dannosa in quanto accresce nel popolo lo scontento e la volontà di ascesa sociale. Ritroveremo questa
mentalità alla fine dell'800 nelle parole di Guido Baccelli, ministro della Pubblica istruzione del Regno d'Italia,
secondo il quale occorreva «istruire il popolo quanto basta, educarlo più che si può»;
al tempo stesso, e in secondo luogo, la diffusione della scuola elementare e la conquista dell'alfabeto non erano
sostenute da gran parte di quello stesso popolo che l'istruzione avrebbe potuto emancipare: i bambini e le bambine
delle famiglie povere erano condannati da una miseria secolare a un destino di fatica precoce nei campi e nelle
manifatture. Quindi anche le famiglie povere, per ragioni diverse da quelle agiate, guardavano con diffidenza
all'istruzione dei figli: non ne vedevano l'utilità e neppure la possibilità, in quanto sottraeva loro le braccia da
lavoro di cui avevano bisogno. Anche il rispetto dell'obbligo scolastico, quando sarà istituito, verrà ostacolato da
queste condizioni. La questione sociale pesava sulla scolarizzazione, con effetti che dureranno fino alla metà del XX
secolo;
in terzo luogo la mancanza di insegnanti adeguatamente preparati rappresentava una pesante ipoteca per quei
governi europei che cercavano di valorizzare l'istruzione come funzione statale. Il problema si poneva con
differente gravità da un Paese all'altro e riguardava in particolare la figura del maestro elementare, anche se non
risparmiava quella del professore. In realtà tra il XVIII e il XIX secolo la volontà dello Stato di occuparsi di pubblica
istruzione fu una scelta, per certi versi, obbligata poiché i grandi cambiamenti intervenuti in quell'arco di tempo
"imposero" ai pubblici poteri nuovi compiti e differenti modalità di governo della società; per quanto riguarda il
nostro discorso, l'assetto educativo dell'età moderna, compresi gli insegnanti che pure vi erano, si rivelerà sempre
meno adatto ad affrontare le esigenze del mondo contemporaneo.
Nel XVII secolo in Francia Jean-Baptiste de La Salle provvedeva a istruire in apposite scuole i propri maestri elementari, e lo
stesso fece più tardi Fröbel in Prussia per le maestre giardiniere. Alla fine del XVIII secolo un abate e educatore cattolico, Johann
Ignaz von Felbiger (1724-1788), riprese precedenti esperienze sistematizzando la scuola normale comprensiva di un tirocinio
pratico, per la formazione dei maestri e delle maestre. Quanto all'Italia e in quasi tutti gli Stati preunitari si registrarono
tentativi di avviare le scuole normali della durata di due o tre anni, alcune delle quali restarono allo stadio di progetti, senza
applicazione pratica. Sempre allo scopo di sopperire alla mancanza di insegnanti elementari, già dalla seconda metà del XVIII
secolo era sorto in Inghilterra e si era poi diffuso in Europa il metodo del mutuo insegnamento, avviato da Andrew Bell (1733-
1832) e perfezionato da Joseph Lancaster.
Al fine di istruire il maggior numero di bambini, si utilizzavano i ragazzi più grandi e più diligenti in funzione di monitori che
insegnavano ai più piccoli le conoscenze elementari apprese a loro volta dai maestri. Ciò consentiva di istruire diverse centinaia
di bambini per volta, con un sistema che richiedeva una rigida organizzazione dei tempi e delle attività.
Gabelli afferma che educare al metodo dell'esperienza dà risultati migliori che imbottire le teste con le nozioni intellettualistiche
e retoriche della scuola del tempo; formare lo "strumento testa", inoltre, ha un valore democratico in quanto è utile sia al
bambino ricco che a quello povero, così come entrambi imparano a camminare nello stesso modo.
7.8 SOCIALISMO E EDUCAZIONE
Le grandi rivoluzioni del XVIII secolo, seguite dagli assetti sociali ed economici ottocenteschi, avevano sancito il tramonto
definitivo dell'ancien régime. Lo sviluppo industriale, la diffusione di un'agricoltura razionalizzata, i progressi della scienza e
della tecnica, avevano accompagnato l'affermazione di una borghesia europea sempre più egemone in termini economici,
politici e civili. Questo quadro, tuttavia, non era privo di contraccolpi negativi: la maggiore capacità produttiva dell'industria si
fondava sul pesante sfruttamento dell'uomo, considerato erogatore di una forza-lavoro priva di professionalità, e sulle
durissime condizioni imposte anche alla manodopera minorile e femminile; la stessa capacità produttiva della fabbrica aveva
ridimensionato il ruolo dell'artigianato e liquidato per sempre i privilegi e la mutua assistenza di quelle antiche corporazioni o
di quel che ne restava.
Sono questi solo alcuni tratti di una più vasta questione sociale la cui portata non sfuggirà al magistero papale: l'enciclica
Rerum Novarum del 1891 di Leone XIII ne indicava cause e rimedi, dando vita alla dottrina sociale della Chiesa.
Quella che sarà definita classe operaia e contadina aveva la sua forza nel proletariato urbano e rurale: il proletario è tale perché
possiede solo la propria prole, è povero, ha un basso livello di istruzione, gode di minori diritti civili, dispone di una forza-
lavoro dequalificata e dunque facile da sostituire, tanto nelle fabbriche quanto nelle campagne.
Il socialismo è un insieme di teorie e pratiche rivoluzionarie volte a realizzare un riequilibrio, o un vero e proprio
rovesciamento, dei rapporti tra borghesia e proletariato sul terreno dell'economia, della proprietà dei mezzi di produzione, del
governo della società.
Esso esprime una visione politica, filosofica e culturale antagonista alla borghesia e al Positivismo. Gli ideali del socialismo,
nel quadro di una società giusta e solidale, sono:
la libertà;
l'uguaglianza senza distinzioni di genere e di censo;
i diritti politici;
la tutela del lavoro (orari, salario ecc.);
l'educazione.
Tali ideali iniziano a circolare in Francia e in Inghilterra alla metà del XVIII secolo, nella forma del socialismo utopistico (Saint-
Simon, Fourier, Owen, Proudhon) al quale nel XIX secolo si aggiunge il socialismo scientifico di Marx ed Engels, padri del
materialismo storico e autori del Manifesto del partito Comunista (1848).
Una delle condizioni principali per lo sviluppo del socialismo era l'acquisizione da parte del proletariato della coscienza di
classe cioè della consapevolezza di appartenere a una classe sociale di oppressi e di sfruttati che intendeva lottare per
emanciparsi e farsi classe dirigente.
Per il socialismo l'educazione e la cultura diventavano terreni di una più ampia lotta di classe, terreni per i quali è possibile
indicare alcuni punti fermi, pur nella diversità delle impostazioni e talora nella carica utopica delle proposte:
1. l'educazione deve riguardare tutti gli individui, compresi i soggetti fino ad allora tenuti ai margini o esclusi del
tutto, per formare un'identità personale onnilaterale improntata a un comune senso di umanità;
2. la famiglia deve sviluppare un'educazione sollevata dal peso dei legami tradizionali, libertaria e aperta a relazioni
sociali solidali;
3. la scuola deve farsi protagonista del rinnovamento sociale diffondendo i valori di libertà, laicità e democrazia.
Deve impartire un'istruzione politecnica che, nei contenuti e nei metodi, valorizzi il lavoro e la razionalità dei
saperi scientifici, accanto al senso storico della letteratura e delle arti.
Il socialismo italiano, come quello europeo, iniziò già dalla metà del secolo a dotarsi degli strumenti organizzativi necessari per
tradurre l'elaborazione teorica in iniziative politiche e sociali, attraverso la fondazione di società di mutuo soccorso, di leghe
operaie e contadine, la pubblicazione di periodici. Nel 1892 nacque il Partito dei lavoratori italiani, poi Partito socialista
italiano, seguito nel 1906 dalla Confederazione generale del lavoro. Tra le attività del movimento operaio organizzato, avevano
un posto di rilievo:
l'istruzione dei bambini e dei giovani di entrambi i sessi;
le prime forme di educazione degli adulti, dall'alfabetizzazione alla conoscenza dei diritti nelle fabbriche, nei
campi, nella società.
ANTONIO LABRIOLA (1843-1904) è stato un esponente di spicco del socialismo italiano, nel quale ha introdotto il
materialismo storico e dialettico di Marx ed Engels che ha interpretato con originalità di accenti. Per Labriola l'educazione è
connessa con le esperienze di vita dell'educando nel suo ambiente sociale ed economico, il che le conferisce il carattere di un
processo situato nella storia, esposto agli interessi e ai conflitti delle diverse classi sociali.
La marxiana categoria della prassi, che esalta il valore dell'esperienza e dell'agire umano come elementi di trasformazione della
realtà, trova nell'educazione la sua realizzazione più compiuta. Infatti la formazione dell'uomo appartiene a un tempo e a uno
spazio, cioè a una storia, che determina quella formazione e ne è a sua volta determinata.
A questa impostazione si collega il primo dei contributi pedagogici di Labriola, di carattere metodologico, Dell'insegnamento
della storia (1876), seguito da altri scritti nei quali valorizza l'educazione popolare e le attività extrascolastiche per la
socializzazione delle classi lavoratrici come strumenti di emancipazione civile.
IL PRIMO NOVECENTO
8.1 EDUCAZIONE E SOCIETÀ
Lo storico inglese Eric Hobsbawm ha definito il Novecento il «secolo breve» racchiudendovi gli anni che vanno dalla prima
guerra mondiale fino al collasso dell’Unione Sovietica (1914-1991); i mutamenti intervenuti sono stati così rapidi e sconvolgenti
che è opportuno fare una divisione in due periodi:
1. dal 1914 al 1945;
2. dal secondo dopoguerra alla fine del secolo.
Il prologo è rappresentato dalla cosiddetta Belle Époque, un periodo di pace in Europa (1870-1914) che ha segnato grandi
avanzamenti nell’economia, nel commercio, nella cultura, nell’arte e nella scienza, con numerose invenzioni e scoperte.
La prima guerra mondiale ha spazzato via l’ottimismo e la fiducia di questo periodo: dalla rivoluzione d’Ottobre del 1917 è nata
l’Unione Sovietica che ha posto fine all’impero russo; mentre l’esito del conflitto ha portato al crollo di altri tre imperi (Austria-
Ungheria, Germania, Turchia) e alla nascita di nuovi Stati nei Balcani, nell’Europa centrale e sul Baltico.
Le conseguenze dei trattati di pace, unite alla crisi economica del 1929, hanno determinato scontri e conflitti aprendo la strada a
una serie di regimi totalitari o dittatoriali, con l’effetto di rendere minoritaria in Europa la presenza dei sistemi democratici; gli
USA, nel passaggio dalla Grande Depressione al New Deal, si sono confermati come la più grande potenza economica e
militare, mentre l’impero giapponese affermava un aggressivo espansionismo in Estremo Oriente.
I precari equilibri scaturiti dalla Grande guerra sono stati sconvolti dalla seconda guerra mondiale, che per alcuni storici è stata
quasi una continuazione della prima; ne è nata la divisione del mondo in due blocchi che ha caratterizzato la seconda metà del
secolo.
Più in generale:
a. nella prima metà del XX secolo è sorto un nuovo modello sociale, la società di massa:
la popolazione è aumentata e si è concentrata nelle aree urbane;
la scolarizzazione si è via via estesa a strati sociali prima esclusi;
i partiti hanno acquisito un'ampia base sociale, favoriti dal suffragio universale, prima solo maschile e poi
anche femminile;
si è affermato un modello industriale standardizzato;
sono nati i sistemi di comunicazione di massa (giornali, radio, cinema) e una cultura di massa, con i suoi miti
e riti, distinta dalla cultura “alta”;
b. la società di massa ha definito una nuova concezione dell'uomo, esaltandone l'individualità e al tempo stesso
l'omologazione: bisogni, progetti, stili di vita hanno acquisito una dimensione individuale e gregaria;
c. buona parte del Novecento si è consumata nello scontro tra regimi totalitari o dittatoriali e sistemi liberal-
democratici a economia di mercato. Di fronte alla questione storicamente inedita di come si esercita il potere e si
governano le società di massa, i regimi totalitari hanno risposto con la soppressione delle libertà civili, politiche,
economiche; la risposta dei sistemi democratici è stata la difesa della tradizione, adattandola alle nuove condizioni;
d. per quanto le risposte degli uni e degli altri fossero del tutto divergenti, decisiva per entrambi era la questione
dell'acquisizione del consenso come legittimazione del proprio sistema sociale e politico. Le dittature hanno
soffocato il dissenso con la violenza; utilizzato una propaganda pervasiva che non ha risparmiato l'educazione e la
scuola; ha creato miti negativi (l’ebreo, il capitalista) o "positivi" (il Reich millenario, i colli fatali di Roma, la
dittatura del proletariato), spesso con forti cariche di populismo, irrazionalismo e revanscismo territoriale. Nei
sistemi democratici la ricerca del consenso si è basata invece sull’espansione delle libertà civili, politiche e
economiche; sulla capacità del mercato di assicurare occupazione e benessere a fasce sempre più ampie della
popolazione; nonché sull'impegno educativo in senso lato: scolarizzazione, educazione degli adulti, ma anche
intenso ricorso alle comunicazioni di massa.
La nuova concezione dell'uomo, della società e della sua regolazione, ha rinnovato finalità e metodi dell'educazione e della
ricerca pedagogica, terreni sui quali si è riproposta la forte contrapposizione novecentesca tra libertà e dittatura.
Per i regimi autoritari lo Stato era fine e strumento dell'educazione, esaltata come propaganda. La pedagogia veniva negata
come scienza o ridotta a prontuario normativo al servizio dell'ideologia unica.
Nei sistemi democratici, invece, l'attenzione si spostava sull'educando che includeva, oltre al "fanciullo", anche l'adulto, la
donna, il disabile. Dal rapporto tra democrazia e educazione scaturivano le ragioni per collocare i processi educativi nella storia
e nella società in una visione progressiva, tesa a valorizzare attitudini e meriti personali senza distinzione di genere, ceto, credo
religioso o politico, per la formazione di un uomo responsabile, di un cittadino portatore di diritti e doveri. La ricerca
pedagogica si ancorava al terreno scientifico, facendosi luogo di mediazione di altre scienze ormai mature i cui contributi
venivano utilizzati per il valore che avevano per i processi educativi.
Più in generale, la scolarità è cresciuta in risposta alla domanda proveniente dalle famiglie e dalle imprese, mentre il sistema
delle comunicazioni si è affermato come potente strumento di orientamento dell'opinione pubblica, come "educatore" di massa.
8.2 LE SCUOLE NUOVE
Quando si parla di scuole nuove ci si riferisce a un insieme di esperienze educative avviate nei primi decenni del secolo negli
Stati Uniti e in Europa da alcuni pedagogisti (Cecil Reddie in Inghilterra, Hermann Lietz in Germania, Edmond Demolins in
Francia). Vengono definite anche scuole attive (da non confondere però con l'attivismo pedagogico) e praticavano
un'educazione nuova o progressiva. Non si è trattato di un movimento in senso proprio, ma piuttosto di iniziative assunte da
singoli insegnanti, educatori, maestre di scuole d'infanzia o elementari, che operavano spesso in un clima di isolamento e talora
di ostilità.
Tali iniziative segnalavano un bisogno di rinnovamento dell'educazione, non solo scolastica, al quale esse hanno risposto con
esperienze pratiche, in contesti diversi, accomunate da alcune idee guida:
vi era l'insoddisfazione per la scuola (o educazione) tradizionale, un'accusa che ha caratterizzato tanti educatori
animati, in tempi e luoghi diversi, dall'esigenza di superare le detestate modalità educative pedanti e nozionistiche.
La carica di rinnovamento pedagogico e didattico ha esposto le scuole nuove alle critiche di una parte della
categoria magistrale e talora anche a sgradevoli provvedimenti delle autorità scolastiche;
le scuole nuove muovevano da una concezione dell'infanzia aggiornata alle ricerche della psicologia dello sviluppo
che confermavano la specificità della prima età, intuita a più riprese e in modi diversi da Comenio, Rousseau,
Fröbel e Tolstoj. Il bambino conosce la realtà - spinto dalla curiosità, motivato dai propri interessi - attraverso il
fare, l'agire nella realtà stessa; è attivo, un termine destinato a grande fortuna pedagogica, e gli educatori devono
metterlo in condizione di dispiegare il suo spontaneo dinamismo, dosando disciplina e libertà nel processo
educativo;
la scuola doveva aprirsi all'ambiente naturale per favorire la motricità del bambino, il suo bisogno di toccare,
manipolare, fare esperienze. Egli apprende in un modo globale che tiene insieme attività intellettuale e attività
pratica;
l'apertura all'ambiente andava intesa come continuità orizzontale tra dentro e il fuori la scuola, tra questa e
l'ambiente sociale a partire dalla quotidianità della famiglia. Significava consentire al bambino di portare dentro la
scuola gli oggetti delle sue prime esperienze, utilizzarli come “sussidi didattici”, e poi accompagnarlo fuori dalla
scuola perché osservasse con occhi nuovi ciò che già conosceva e insieme scoprisse aspetti diversi del suo stesso
ambiente.
MARIA BOSCHETTI ALBERTI E LA SCUOLA SERENA. Maria Boschetti Alberti (1884-1951) nata in Uruguay, è stata una
maestra attiva nel Canton Ticino, nella Svizzera italiana. Dopo qualche anno di tirocinio in scuole "tradizionali" incentrate sulla
disciplina e sulla figura del maestro, nel 1917 avviò la prima esperienza innovativa a Muzzano, dove mise in pratica una sua
interpretazione delle teorie di Maria Montessori, con bambini di sei-otto anni di condizione disagiata.
In una giornata-tipo, all'inizio della lezione gli alunni facevano ordine e conversavano con la maestra che svolgeva le attività
didattiche a partire dai loro interessi e curiosità, valorizzando il dialetto, la poesia popolare, i proverbi. Il suo metodo dava
ampio spazio alla libera espressione e alla spontaneità dei bambini, tanto che nel 1924 le autorità comunali di Muzzano lo
giudicarono così poco tradizionale da indurre la Boschetti Alberti a cambiare sede: nel 1925 nasceva così la sua esperienza più
nota, la scuola serena di Agno.
Anche grazie alla lettura idealista di Lombardo Radice, la scuola serena di Agno fu conosciuta e apprezzata dai maggiori
pedagogisti dell'epoca, anche se non mancò chi la riteneva a tal punto legata alla personalità di una maestra di grandi doti, da
essere di difficile trasmissibilità in situazioni diverse.
LE SORELLE AGAZZI E LE «CIANFRUSAGLIE». Rosa (1866-1951) e Carolina (1870-1945) Agazzi nel 1885 fondarono a
Mompiano (Brescia) una scuola materna fortemente innovativa. A Rosa in particolare si deve l'impegno per una educazione
infantile ispirata alla libera attività del bambino che non doveva avvertire la separazione tra il calore familiare e la scuola,
tanto che la maestra, oltre ad avere una buona formazione, doveva assolvere a una funzione materna.
Importanti erano l'ambiente e i materiali didattici:
1. il giardino segnava il superamento dell'esperienza fröbeliana, aveva animali e piante ed era luogo di libere attività,
scoperte, apprendimento indiretto e educazione estetica;
2. le cianfrusaglie, forse l'idea più originale delle sorelle Agazzi, erano gli oggetti più disparati portati dai bambini,
utilizzati come spunti per lezioni e attività di insegnamento che andavano ben oltre la povertà dei materiali;
3. i contrassegni erano semplici immagini con le quali i bambini segnavano i propri oggetti, sempre nell'intento di
abituarli all'ordine.
Infatti le sorelle Agazzi, come pure la Boschetti Alberti, davano grande importanza alla funzione educativa dell'ordine,
attribuendo alle attività relative un significato che oltrepassava il semplice “mettere a posto”. A loro avviso ordinare gli oggetti
per colore, forma, uso, stimolava la capacità di osservazione, mentre nominare gli oggetti favoriva l'apprendimento della
lingua, la costruzione della frase, la comprensione delle differenze con il dialetto: l'educazione linguistica era un altro
importante obiettivo delle scuole nuove che operavano, non solo in Italia, in situazioni marginali nelle quali la povertà
espressiva era un grave handicap per l'infanzia.
GIUSEPPINA PIZZIGONI E LA RINNOVATA. Giuseppina Pizzigoni (1870-1947), studiosa e maestra, nel 1911 fondò «fra i
campi e gli orti operai» del quartiere milanese della Ghisolfa la scuola Rinnovata secondo il metodo sperimentale la cui
denominazione fu consigliata dallo psicologo Prof. Zaccaria Treves che diceva bene come la base dell'apprendimento fosse
nell'esperimento, cioè nella esperienza di vita fatta dal ragazzo.
Grazie a una non comune sensibilità educativa e a utili consulenze in Psicologia, la maestra riprendeva i temi di fondo delle
scuole nuove, valorizzando in particolare le attività di socializzazione.
Il programma della Rinnovata tende:
1. alla formazione della retta coscienza, che si ottiene nei bambini attraverso
buone abitudini di vita singola e collettiva;
buone impressioni di vita vissuta;
una vita di lavoro;
un ripetuto e metodico esercizio di introspezione;
2. alla formazione del carattere attraverso l'assunzione «delle varie responsabilità che incombono allo scolaro (...) il
carattere si forma attraverso difficoltà superate da noi stessi, attraverso rinunce, con la perseveranza nel lavoro, con
la sincerità del giudizio sui nostri atti»;
3. «Il Programma parla di esperienze di vita (...) e siccome il lavoro è la nota dominante nel ritmo della vita, così il
lavoro nella scuola è il mezzo più sicuro per apprendere e educarsi».
Il metodo della Rinnovata:
è «il modo naturale di imparare, basato sulla verità, perché basato sulla conoscenza di ciò che è, e sulle esperienze
di Vita», un modo che «lascia aperto il campo alla visione soprannaturale, che guida l'occhio e l'anima
all'ammirazione del bello naturale; di qui al bello nell'arte, che alla natura si ispira» e dal bello naturale e artistico
fino alla bellezza eterna;
«vuole poche parole e molti fatti; vita attiva del bambino a contatto con molte cose e molti fatti e con molte
persone (...), mette l'informazione e il libro a un secondo posto; al primo posto mette il dar forza al corpo e allo
spirito dello scolaro attraverso la vita della scuola».
Sul tema spinoso del rapporto tra libertà e disciplina in educazione, la Pizzigoni fa propria la posizione di Maria Montessori e
argomenta: «per me disciplina e insegnamento si integrano vicendevolmente in un solo atto totale: l'educazione», nel senso che
la libertà delle esperienze e delle attitudini individuali porta con sé elementi di interesse e di attenzione che il maestro può
raccordare «con le tendenze migliori dell'umanità, ciò che è quanto dire con i principi eterni della morale».
8.3 L’ATTVISMO PEDAGOGICO
L'attivismo è stato un movimento pedagogico con un forte impianto teorico e pratico, ampiamente diffuso in Europa, negli
Stati Uniti e in generale nella cultura occidentale, che ha segnato in profondità l'educazione del Novecento.
Se le scuole nuove sono state l'espressione delle esperienze di singoli insegnanti e educatori, l'attivismo ha fornito loro il
retroterra scientifico e le ha affiancate nello scenario dell'educazione attiva.
L'attivismo consisterebbe in un approccio educativo basato solo sul libero dispiegamento delle attività del fanciullo e sul
primato dei suoi inviolabili interessi. A partire dalla fine del XIX secolo arrivando alla metà del XX, l'attivismo pedagogico:
è stato un movimento di portata mondiale, animato da una pluralità di studiosi, ciascuno con propri accenti e
sottolineature, impegnati nelle scienze psicologiche, neurologiche, sociologiche e antropologiche;
attraverso pubblicazioni, esperienze, dibattiti e polemiche, ha incontrato il favore di generazioni di insegnanti e di
educatori;
ha raccolto l'eredità di un pensiero pedagogico sviluppatosi dall'Illuminismo in poi, l'ha rilanciata, e l'ha superata,
sistematizzandola alla luce delle successive acquisizioni delle scienze umane e sociali;
si è posto come paradigma educativo, con una spiccata vocazione democratica e progressista, delle moderne
società di massa alle quali ha offerto i riferimenti teorico-pratici per la formazione di un uomo e di un cittadino
libero, critico, responsabile;
ha presidiato le esigenze dell'organizzazione democratica della società, del suo sviluppo economico,
dell'emancipazione dalla povertà e dall'ignoranza degli strati più svantaggiati.
Tra i punti più importanti dell'attivismo pedagogico vanno ricordati:
1. il puerocentrismo, definito da Dewey la «rivoluzione copernicana» e operata da Rousseau, pone il bambino, e più
in generale l'educando, al centro del processo educativo. Nasce da una più moderna concezione dell'infanzia, alla
quale la psicologia dello sviluppo ha dato fondamento scientifico, valorizzando le motivazioni e le modalità attive,
operative, ludiche con cui il bambino conosce l'ambiente. Per l'attivismo l'interesse è un legame che “sta in mezzo”,
che unisce il soggetto conoscente all'oggetto da conoscere e quindi rappresenta un utile risorsa educativa;
2. l'esperienza va oltre il fare, il manipolare e in genere le pratiche guidate da una cieca empiria fine a se stessa.
L’esperienza educativa è quella che reca in sé un momento riflessivo tale che “fare” e pensare rappresentano il
tramite conoscitivo tra il soggetto e il suo ambiente naturale e sociale. In questo quadro acquista importanza
educativa il gioco, in cui si realizza un equilibrio tra la spontanea iniziativa dell'educando e le regole, scelte
liberamente, che il gioco stesso comporta;
3. l'educazione alla socialità orienta il bisogno relazionale dell'educando per come si manifesta nei suoi molteplici
rapporti, verso uno “stare con gli altri” in cui la propria libertà rispetta quella dell'altro.
Sul terreno scolastico l'attivismo:
a. rifiuta l'autoritarismo dell’insegnante ma non la sua autorevolezza; ne ridefinisce il ruolo in termini di guida,
direzione; esalta la funzione docente raccomandando un'adeguata formazione degli insegnanti che fornisca le
necessarie competenze disciplinari, psicopedagogiche e relazionali;
b. rifiuta il nozionismo della scuola tradizionale che riduce l'insegnamento alla mera assimilazione mnemonica di
contenuti dei quali spesso sfuggono il senso e il significato. Stimolare l'interesse dell'educando, utilizzare i tanti
spunti forniti dal suo vissuto personale, sono tra le modalità che consentono un processo di insegnamento-
apprendimento più motivato ed efficace;
c. apre la scuola all'ambiente considerato come lo scenario dal quale un'osservazione opportunamente guidata può
trarre stimoli e informazioni per esperienze di conoscenza e per autonome scoperte;
d. apre la scuola alla democrazia intesa come insieme di norme, diritti e doveri dei quali alunni e studenti fanno
concreta esperienza.
Per l'attivismo la scuola deve coinvolgere anche chi ne è ancora emarginato nel rispetto dei principi di uguaglianza e di pari
dignità.
DECROLY E IL METODO GLOBALE. Jean-Ovide Decroly (1871-1932) è stato medico, neurologo e psicologo belga, approdato
alla pedagogia provenendo da studi sui “deficienti”.
Decroly trasferì ai ragazzi normodotati i metodi educativi sperimentati con i soggetti handicappati, elaborando alcuni principi
destinati a restare caratteristici dell'attivismo e in generale della pedagogia contemporanea:
1. individualizzazione→ i processi di insegnamento sono sempre rivolti a un determinato ragazzo, con propri
interessi, modi e tempi di apprendimento, stati emotivi e affettivi, che l'insegnante deve conoscere per costruire un
adeguato rapporto educativo con lo specifico educando al quale si rivolge;
2. globalizzazione→ il bambino percepisce la realtà in modo concreto e unitario, globale appunto, e solo nello
sviluppo successivo giunge a differenziare i particolari e ad associarli tra loro;
3. centri di interesse→ diversi punti focali dell'attività scolastica, a partire dai bisogni elementari dell'uomo e dal
suo ambiente. Gli alunni, in un processo didattico dentro e fuori la scuola, sono guidati all'osservazione scientifica
delle diverse risposte a quei bisogni; alla loro associazione con un tempo e uno spazio; alla libera espressione di
quanto osservato. È uno studio di ambiente animato dall'interesse e guidato dall'insegnante verso obiettivi di
apprendimento graduati sull'età degli alunni.
A partire da Decroly e dagli altri attivisti che hanno sviluppato i suoi temi, l'individualizzazione ha visto tanti insegnanti
impegnati nel perseguire quell'obiettivo. Il metodo globale e i centri di interesse sono entrati nella pratica educativa
dell'attivismo europeo, facendo di Decroly una figura di rilievo nella pedagogia del Novecento.
CLAPARÈDE E LA SCUOLA SU MISURA. Il ginevrino Édouard Claparède (1873-1940) è stato medico e neurologo con
rilevanti interessi in psicopedagogia. Nel 1912 ha fondato a Ginevra l'Istituto Jean-Jacques Rousseau, destinato a diventare uno
dei centri di ricerca più accreditati in psicologia e pedagogia. Da questo istituto è nato, nel 1925, il Bureau International de
l'Éducation (BIE), diretto per quarant'anni da Jean Piaget. Oggi è l'istituto dell'UNESCO per l'educazione, i metodi e le strategie
di insegnamento-apprendimento.
Claparède è stato esponente di rilievo del funzionalismo pedagogico, un filone di ricerca interno all'attivismo, che studiava i
fenomeni psichici come funzioni di adattamento dell'organismo all'ambiente fisico e sociale.
Due punti salienti della pedagogia di Claparède sono:
1. l'educazione funzionale→ così come nell'evoluzione della specie, l'attività psichica risponde a bisogni di rapporto
con l'ambiente, allo stesso modo l'educazione deve fondarsi su e rispondere a quei bisogni. Anche Claparède
giungeva a sostenere un insegnamento individualizzato che partisse dagli interessi dell'educando in relazione al
suo ambiente;
2. la scuola su misura→ in continuità con i criteri dell'educazione funzionale, la pedagogia doveva fondarsi sulla
capacità di rinnovare contenuti, programmi e metodi della scuola tradizionale, in quanto non adeguati alla realtà
psicologica e all'esperienza concreta di alunni e studenti; un rinnovamento a misura di educando.
COUSINET E IL LAVORO PER GRUPPI. Roger Cousinet (1881-1973) è stato un educatore e pedagogista francese impegnato
nella scuola come maestro elementare e ispettore scolastico, e nell'università come professore di pedagogia alla Sorbona. Alla
base del suo metodo troviamo alcune idee guida:
1. occorre conformare l'educazione alla natura dell'educando e quindi adattare, la pedagogia alla psicologia;
2. nel fanciullo il bisogno di agire socialmente è fortissimo ed è necessario soddisfarlo. Le attività socio-ludiche come
gioco, linguaggio, movimento sono forme di comunicazione interpersonale proprie della natura dell'educando,
anche prima dell'età scolare, in quella che l'autore chiama «vita di cortile», contrapposta alla vita scolastica;
3. nella scuola tradizionale quando il ragazzo entra in classe, alla presenza del maestro, deve agire da solo, senza
conoscere il vicino, senza aiutarlo, senza essere aiutato da lui. Egli cerca con tutti i mezzi di resistere a quella
autorità magistrale che gli impedisce di vivere socialmente: egli "suggerisce", "copia" e soprattutto "parla". Tale
resistenza «è una lotta segreta e porta i fanciulli alla dissimulazione, alla frode, vizi che sono opera dell'insegnante»
convinto di dominare «la sua classe perché è ascoltato o almeno sembra esserlo», quando invece per far sparire
quei vizi sarebbe sufficiente autorizzare la vita sociale e la cooperazione.
Già da questi primi accenni emerge come Cousinet muova da alcuni principi che sono tipici dell'attivismo pedagogico ai quali
aggiunge utili osservazioni provenienti dai migliori studiosi del tempo:
dallo psicopedagogista Stanley Hall trae la definizione di gruppo sociale e dei diversi ruoli che in esso si formano
spontaneamente;
da Piaget l'osservazione della difficoltà che incontra il maestro nel farsi comprendere dagli allievi;
da Dewey l'affermazione per cui, sebbene il maestro si sforzi di essere chiaro, le sue lezioni restano inerti se non
mobilitano l'interesse dell'alunno.
Dopo aver elencato questi e altri difetti dell'educazione tradizionale, Cousinet avanza la sua proposta: «Il lavoro di gruppo evita
tutti questi inconvenienti perché consente una vita normale. Cessa ogni contraddizione tra l'attività del cortile e l'attività della
scuola» e l'educando vede soddisfatto il suo naturale bisogno di agire socialmente. Nella sua classe il maestro dovrebbe
organizzare per i fanciulli, a partire dal nono o decimo anno di età, il lavoro per gruppi sulla base di indicazioni chiare, in modo
che ciascun allievo partecipi a un lavoro comune. I gruppi scelgono non solo il loro lavoro ma l'ordine nel quale lo eseguiranno
o più esattamente questo ordine si stabilisce naturalmente, via via che il lavoro si sviluppa. Il ruolo del maestro viene quindi
definito in termini di collaboratore, di guida.
Il metodo di Cousinet valorizza i nessi esistenti tra socializzazione e istruzione, collocando la formazione dell'educando
all'interno di una scuola organizzata in termini di vita comunitaria. Si tratta di un'indicazione che sarà ripresa da diverse
esperienze successive, attente ad assicurare insieme socializzazione e individualizzazione dell'azione educativa: con il lavoro di
gruppo ciascun allievo vive la dimensione comunitaria con gli altri e al tempo stesso può dare il meglio di sé, con i suoi tempi e
attitudini.
FREINET E LA PEDAGOGIA POPOLARE. Celestin Freinet (1896-1966) è stato un maestro elementare di origine contadina,
tornato dalla Grande guerra con i polmoni lesionati. La sua formazione si svolge all'insegna dell'éducation nouvelle legata, ai
nomi di Cousinet, Claparède e dell'Istituto Jean-Jacques Rousseau. Il giovane Freinet, impegnato in piccole scuole elementari di
campagna, va oltre quelle posizioni, a suo avviso troppo legate alla realtà scolastica urbana, in direzione di una pedagogia
popolare rivolta ai ceti più disagiati, periferici, portatori di altri interessi e disagi.
La pedagogia popolare, per rispondere a tali bisogni, propone un percorso educativo che muove dalle esperienze del bambino,
che affida al maestro il compito di orientarle mediante l'utilizzazione del lavoro nella scuola e facendo ricorso ad apposite
tecniche didattiche come il testo libero, la stamperia a scuola e il calcolo vivente.
L'insegnamento della scrittura «non si svolge secondo i moduli concepiti dalla scuola tradizionale ma attraverso una lenta
espressione per tentativi» che hanno il loro motore nella motivazione, nel bisogno del bambino di utilizzare ed espandere i
mezzi di espressione e i canali di comunicazione che possiede naturalmente: il gesto, la parola, il disegno. Tra i cinque e i sette
anni i bambini imparano a scrivere spinti da un «bisogno di espressione», procedendo per tentativi sperimentali: è la tecnica del
testo libero per mezzo del quale l'alunno scrive quando ne avverte il desiderio, comunica quanto gli interessa e così si
familiarizza con la scrittura.
Per ampliare il ventaglio delle possibilità comunicative, egli introduce il giornalino di classe e lo scambio di esperienze verso
l'esterno della scuola: gli amici, la famiglia, la corrispondenze con altre scuole. È la tecnica della stamperia a scuola, ovvero di
un piccolo complesso tipografico facile da usare ma capace di interessanti risultati educativi: introduce, infatti, il lavoro nell'aula
come attività regolata in funzione del risultato da raggiungere, come cooperazione, quasi un gioco sostenuto da motivazioni
condivise.
La tecnica del calcolo vivente avvia alle conoscenze aritmetiche mediante la soluzione di semplici problemi nati dalla vita
nell'aula.
Il giornalino scolastico compendia le tre tecniche:
il testo libero accompagna l'apprendimento della lettura e della scrittura;
la composizione della pagina richiede qualche piccolo calcolo matematico;
la stampa introduce al lavoro in forma anche ludica per ottenere un risultato;
il giornalino allarga l'orizzonte relazionale, gli scambi e la collaborazione con altre scuole.
All'interno del più vasto movimento dell'attivismo pedagogico vanno segnalate, tra le altre, due organizzazioni internazionali,
tuttora operanti: la NEF (New Education Fellowship), nata nel 1921 nel Regno Unito e poi diffusa anche negli Stati Uniti, e i
CEMEA (Centri d'esercitazione ai metodi dell'educazione attiva) nati in Francia nel 1937.
Anche le tecniche di Freinet hanno conosciuto una buona diffusione in Francia e in Italia, dove nel 1951 nasceva la Cooperativa
della Tipografia a scuola (CTS) per iniziativa di Giuseppe Tamagnini. La CTS si sviluppò in numerosi circoli territoriali,
pubblicò bollettini e materiali didattici per diffondere la pedagogia popolare, mobilitando tanti maestri e soprattutto maestre,
con la collaborazione di importanti pedagogisti accademici.
La sua crescita, faticosa ma consistente, portò alla nascita, nel 1957, del Movimento di cooperazione educativa, una delle più
note associazioni professionali di insegnanti di ispirazione laica e progressista.
8.4 MARIA MONTESSORI
Maria Montessori è stata una delle maggiori esponenti in campo internazionale dell’attivismo pedagogico. Si è formata
seguendo un percorso analogo a quelli di Decroly, Claparède e altri: laura in medicina, studi in psichiatria, impegno con i
bambini “anormali” utilizzando metodi non solo psichiatrici ma soprattutto educativi.
I primi frutti del suo interesse pedagogico emergono dall'esperienza della Casa dei bambini, fondata nel 1907 a Roma, nel
quartiere popolare San Lorenzo. Nelle case dei bambini, aperte negli stabili dove abitavano le famiglie dei bambini stessi, la
Montessori sperimentò quel metodo educativo innovativo che l'ha resa famosa nel mondo:
nella «casa socializzata» l'ambiente educativo è studiato fin nei dettagli per favorire lo sviluppo naturale dei piccoli
e rispettarne bisogni e potenzialità. Gli arredi sono di colori vivaci, a misura di bambino e comprendono anche gli
armadietti nei quali ciascuno ripone i propri oggetti, rendendosi indipendente; sulle pareti sono previste lavagne e
immagini allegre. «Le madri hanno l'obbligo di mandare i loro bambini puliti e di coadiuvare all'opera educativa
della direttrice, con cui dovranno scambiarsi notizie e consigli»; infatti la casa dei bambini è gratuita ma richiede
due obblighi cioè la cura fisica e morale dei propri figli. In quell'ambiente il bambino si muove in libertà senza
intralciare il lavoro degli altri, la socializzazione nasce dalla libertà di ciascuno, temperata dalla responsabilità del
proprio agire: riordinare gli oggetti, rispettare i compagni, attendere il proprio turno;
il materiale di sviluppo è pensato per finalità sia ludiche che di potenziamento senso-motorio. Il materiale di uso
individuale consiste in una serie di solidi da incastrare, oggetti da ordinare per forma, dimensione e colore, lettere
dell'alfabeto da manipolare e riconoscere al tatto (liscio/ruvido, grande/piccolo ecc.). Tali materiali rispondono a un
criterio analitico, nella convinzione che il bambino parta dalla singola qualità di un oggetto per poi giungere alla
sua conoscenza globale, in un percorso opposto a quello ipotizzato da Decroly;
nel rapporto tra disciplina e libertà rifiuta di identificare la disciplina con l'immobilità e il silenzio del bambino.
Introduce piuttosto il concetto di disciplina attiva che «non è facile né a comprendersi, né ad attuarsi. La libertà del
bambino deve avere come limite l'interesse collettivo» e quindi la maestra deve evitare rigorosamente l'arresto di
movimenti spontanei e l'imposizione di atti per opera d'altrui volontà. È quindi necessario che l'educatrice sappia
osservare con competenza e con rispetto il libero agire del bambino, cogliendone le motivazioni.
Nella complessità del pensiero montessoriano è possibile dare risalto a tre elementi:
1. l'approccio scientifico che, iniziando dall'osservazione attenta del bambino e della sua esperienza, riprende i temi
centrali dell'attivismo. La Montessori faceva della ricerca sperimentale il proprio metodo di lavoro, utilizzando gli
apporti di discipline diverse;
2. la fiducia nel libero svolgimento dell'attività del bambino: «è necessario che la scuola permetta il libero
svolgimento dell'attività del fanciullo perché vi nasca la pedagogia scientifica» aveva scritto nel 1910, e nel 1938
osservava: «vi è un periodo sensitivo molto prolungato fin quasi all'età dei cinque anni, che rende il bambino
capace in modo veramente prodigioso di impadronirsi delle immagini dell'ambiente». È il tema della mente
assorbente. Da questa impostazione discende la fiducia nell'educabilità del bambino; egli, come l'adulto, è unione
di corpo e psiche, e attraverso gli organi di senso è l'ambiente che irrompe nella sua mente e dunque i materiali di
sviluppo sono frutto della necessità di guidare l'esperienza infantile. E la guida è la maestra, che dirige e indirizza
la relazione del bambino con l'ambiente: «coi miei metodi la maestra insegna poco, osserva molto, e ha la funzione
di dirigere le attività psichiche dei bambini e il loro sviluppo. Perciò ho cambiato il nome di maestra in quello di
direttrice»;
3. l'aspirazione all'emancipazione sociale dei soggetti più deboli che comportava l'impegno in difesa dei diritti
dell'infanzia e della condizione femminile, in iniziative per la pace e per la fratellanza universale, a partire
dall'esperienza della Casa dei bambini nella quale li accoglieva per educarli, nella convinzione che chi è emarginato
dalla scuola sarà emarginato dalla società e che l'educazione intellettuale non deve restare privilegio per pochi.
Dalla metà degli anni trenta visse fuori dall'Italia, con lunghi soggiorni in India e in Olanda; tornò in patria solo nel 1947, dopo
la caduta del fascismo e la fine della guerra.
Nella sua vasta produzione scientifica vanno ricordati:
Il metodo della pedagogia scientifica (1909);
La pace e l'educazione (1933);
Educazione per un mondo nuovo (1947);
La mente assorbente (1949);
La scoperta del bambino (1950).
Maria Montessori è stata una «pedagogista scomoda» secondo la felice definizione di Giacomo Cives (1994):
il neoidealismo pedagogico di Gentile e di Lombardo Radice non le ha mai perdonato le origini positiviste;
il fascismo l'ha prima sostenuta in modo strumentale e poi l'ha contrastata per il carattere non fascista del suo
impegno, chiudendo nel 1936 l’Opera nazionale Montessori e la Scuola di formazione al suo metodo;
la pedagogia cattolica l'ha accostata con cautela.
Nell'attivismo pedagogico ha portato istanze diverse: grande spazio alla libertà del bambino, ma con attenzione alla disciplina,
all'autoeducazione e con materiali di sviluppo che hanno ben poco in comune con le "cianfrusaglie" delle sorelle Agazzi.
L'ambiente è considerato una risorsa educativa, a patto che sia organizzato in funzione di quella finalità.
8.5 JOHN DEWEY
John Dewey (1859-1952) è il più importante teorico dell'attivismo pedagogico. La sua formazione è stata influenzata
inizialmente dall'idealismo hegeliano, del quale gli resterà soprattutto l'istanza di un principio unificante, mentre hanno inciso
in modo più profondo l'evoluzionismo, il pragmatismo di Peirce e di James e la psicologia, che lo aveva interessato fin dagli
anni degli studi universitari in Filosofia.
Nella pedagogia deweyana ha un peso determinante la sua concezione della democrazia; uno dei suoi libri più apprezzati è
infatti Democrazia e educazione (1916).
L'approdo alla psicologia ha avvicinato Dewey, come altri esponenti dell'attivismo, all'educazione e alla pedagogia. Come
presidente della American Psychological Association, in Applied Psychology (1889) sosteneva che l'incontro tra psicologia e
educazione richiede:
a. una buona formazione psicologica degli insegnanti;
b. di fondare i fini dell'educazione a partire dalla dimensione psicologica dell'educando;
c. che i fini dell'educazione comprendessero una dimensione etica tale da consentire al soggetto di conoscere e
trasformare la propria realtà;
d. di centrare i mezzi dell'educazione sull'evoluzione psicologica dell' educando.
Dewey, che pure riconosceva la portata rivoluzionaria del puerocentrismo rousseauiano, ne rifiutava il naturalismo e lo
collocava in un contesto filosofico e scientifico inevitabilmente mutato. Nel 1896, con Jane Addams e con Ellen Gates Star diede
vita a Chicago all'esperienza della Hull House, un po' scuola e un po' centro di servizi sociali: in particolare istituì una scuola
elementare a carattere sperimentale, nello spirito della new education.
Per Dewey la scuola non andava separata dalla vita quotidiana dell'alunno ma doveva mantenere uno stretto rapporto con il
suo ambiente (naturale, familiare, sociale): in seguito dirà che la scuola non è preparazione alla vita, ma è vita essa stessa.
Tra i punti salienti del pensiero deweyano vanno ricordati:
1. affermazione per cui l'educazione è una necessità della vita→ già ne Il mio credo pedagogico (1897), affermava di
credere che «ogni educazione deriva dalla partecipazione dell'individuo alla coscienza sociale della specie»,
evidenziando i due poli del processo educativo ovvero il soggetto e l'ambiente sociale.
«La sola vera educazione avviene mediante lo stimolo esercitato sulle facoltà del ragazzo da parte delle esigenze
della sua situazione sociale»; pertanto il processo educativo ha due aspetti, uno psicologico (soggetto) e l'altro
sociologico (ambiente), e nessuno dei due può venire subordinato all'altro o trascurato poiché il loro equilibrio è
essenziale alla riuscita del processo educativo;
2. concetti di educatore e educando→ il primo è «una guida e un direttore» di un battello mosso dall'energia del
secondo. L'educando per Dewey è «immaturo», definizione da non intendere in negativo ma in positivo (ciò che
può diventare): l'autore si riferisce alla plasticità del bambino che dispone di un «capitale nativo di risorse» tra le
quali spiccano la curiosità e la suggestione. L'educatore non è il mero accompagnatore del libero dispiegarsi delle
risorse infantili, ma le dirige educando il pensiero attraverso l'esperienza;
3. pensiero riflessivo→ processo che nasce da una rottura dell'equilibrio tra individuo e ambiente, cioè da un
problema la cui soluzione passa attraverso cinque fasi:
a. la suggestione in cui il soggetto coglie, in modo ancora confuso, la motivazione, il desiderio di agire per
risolvere il problema;
b. l'intellettualizzazione;
c. l'osservazione attraverso cui la mente raccoglie dall'ambiente le informazioni necessarie a una migliore
definizione delle ipotesi-soluzione;
d. la formulazione mentale di ipotesi risolutive;
e. il controllo;
4. concetto di esperienza→ centrale nella sua pedagogia. In Democrazia e educazione afferma che l'esperienza è un
continuo scambio reciproco tra polo psicologico e polo sociologico, tra pensiero riflessivo e ambiente fisico-
naturale e sociale; è un'interazione grazie alla quale la mente conosce le connessioni tra i fatti. L'ambiente a sua
volta «consiste nelle condizioni che stimolano o inibiscono le attività» proprie dell'uomo, ha sempre un valore
relazionale, interattivo e in questo senso è educante. Il fare fine a se stesso non ha valore educativo se non diventa
esperienza riflessa che apre a ulteriori esperienze;
5. superamento delle antinomie→ «ogni separazione tra metodo e oggetto di apprendimento è radicalmente falsa»,
l'insegnamento consiste nel dirigere esperienze e attività di pensiero volte all'acquisizione e alla padronanza dei
saperi già sistematizzati. L'antica contrapposizione tra educazione come "metter dentro" o "tirare fuori", viene
superata da Dewey che respinge la separazione tra materie che insegnerebbero a pensare (matematica) e altre
che svilupperebbero la memoria (storia), tra studi intellettuali e studi pratici, tra gioco e lavoro. In parti-colare, sul
contrasto tra interesse e disciplina sostiene che il libero dispiegamento degli interessi personali non ha in sé nulla di
educativo; ne acquisisce il valore quando diventa osservazione e riflessione;
6. rapporto tra democrazia e educazione→ il sistema democratico gli appare il più idoneo al governo delle società di
massa. Una fede comune (1934) è una professione di fede laica nell'umanità e nella sua responsabilità di «conservare,
trasmettere, rettificare ed espandere il retaggio dei valori che abbiamo ricevuto, in modo che coloro che verranno
dopo di noi possano riceverlo più saldo e sicuro» e possano a loro volta trasformarlo, renderlo più accessibile e
condiviso. Per raggiungere tali finalità è fondamentale l'educazione che, legata saldamente alla democrazia, è
formazione al pensiero riflessivo e al «retaggio dei valori» della società democratica.
8.6 LA PEDAGOGIA DEL NEOIDEALISMO
Il neoidealismo è stato una corrente filosofica formatasi in Europa a cavallo tra il XIX e il XX secolo sulla scorta dell’idealismo
assoluto di Hegel. In Italia si è sviluppato a partire dal pensiero di Bertrando Spaventa per giungere fino a Benedetto Croce e
Giovanni Gentile che hanno rappresentato le punte più avanzate del neoidealismo italiano.
In particolare, Gentile, Croce e Lombardo Radice hanno affermato una visione dei problemi educativi in vivace opposizione al
Positivismo. Fin oltre la metà del XX secolo l’attualismo gentiliano e lo storicismo crociano hanno rinnovato la cultura italiana,
ma al tempo stesso la loro politica scolastica ha:
rafforzato il tradizionale asse retorico-umanistico;
svalutato i saperi scientifico-sperimentali;
ricondotto le scienze umane e sociali nell’alveo di una filosofia neoidealista lontana dalle altri correnti di pensiero
novecentesco.
Ciò ha contribuito, compresa anche l’autarchia culturale del ventennio fascista, ad un certo isolamento della cultura italiana del
dibattito internazionale.
L’ATTUALISMO DI GIOVANNI GENTILE. Giovanni Gentile (1875-1944) è stato il padre dell’attualismo, personalità
eminente della cultura italiana tra le due guerre, passato dall’amicizia con Croce alla polemica filosofica e politica fino alla
rottura nel 1924. Se il rifiuto del Positivismo li accomunava, Croce è stato il filosofo della libertà come religione dell’umanità,
mentre Gentile è stato l’ispiratore del Manifesto degli intellettuali fascisti (1925) al quale Croce rispose con il Manifesto degli
intellettuali antifascisti.
Professore universitario di Filosofia e Pedagogia, ministro della Pubblica istruzione dal 1922 al 1924 nel primo governo
Mussolini, ha fondato con Giovanni Treccani, e poi diretto, l'Enciclopedia Italiana; ha ricoperto numerosi incarichi di prestigio
(presidente dell'Istituto nazionale di cultura fascista). Nell'esercizio di tali funzioni ha cercato di salvaguardare la propria
indipendenza culturale, anche ricorrendo a collaboratori non fascisti, antifascisti, ebrei. Nel 1943 ha aderito alla Repubblica
sociale italiana e l'anno successivo è stato ucciso dai partigiani a Firenze. Tra le sue opere più importanti ricordiamo:
Teoria generale dello spirito come atto puro (1916);
Sommario di pedagogia come scienza filosofica (1913);
La riforma dell'educazione (1920);
Educazione e scuola laica (1921);
La riforma della scuola in Italia (1932).
Per l'attualismo non esiste una realtà al di fuori del pensiero e il rapporto tra l'una e l'altro si risolve nell'unità dell'atto spirituale
nel quale l'io è il principio assoluto, il soggetto che crea e in sé risolve l'oggetto. Guardando a Fichte, unifica pensiero e realtà,
natura e spirito, e dà vita a una filosofia che ritroviamo nella sua pedagogia.
In polemica con il filosofo e pedagogista Herbart, con il Positivismo e con l'attivismo, per Gentile la pedagogia è scienza
filosofica che fonda il processo di insegnamento sull'unione spirituale di maestro e alunno. Da Rousseau in poi la pedagogia
e la psicologia falliscono perché mantengono distinti e separati i due protagonisti del rapporto educativo, che vogliono fondato
sulla centralità dell'educando e dei suoi interessi. Nello stesso errore incorre anche la didattica, che va invece ricondotta alla sua
natura di creazione e comunicazione del sapere attraverso la già richiamata comunione spirituale tra docente e discente. Così
Gentile restituisce al maestro, alla sua cultura e autorità, il posto centrale nel rapporto educativo. La sua concezione
dell'insegnante recupera la secolare tradizione magistrocentrica e la inserisce in un sistema filosofico di innegabile rilievo.
Tramontato l'attualismo, di quella concezione resterà fino ai giorni nostri una semplificazione riduttiva: la funzione docente è
tutta nella conoscenza dei saperi, che contiene in sé sia la padronanza disciplinare che la competenza necessaria per insegnarli.
Gli effetti più rilevanti della pedagogia gentiliana si sono fatti sentire sulla scuola italiana attraverso la riforma del 1923 che
porta il suo nome. Il senso di quelle norme era il ritorno allo spirito autentico della legge Casati del 1859 che dall'Unità regolava
la pubblica istruzione, finalizzata in via prioritaria alla riproduzione delle classi dirigenti.
Nei decenni postunitari la scolarizzazione era cresciuta in una misura ritenuta eccessiva da Gentile, convinto che bastassero
«poche scuole, ma buone». La sua riforma:
accentuò il centralismo ministeriale della pubblica istruzione;
rilanciò il percorso ginnasio-liceo-università fondato sull'asse retorico-umanistico;
confermò il carattere subalterno dell'istruzione tecnica e dei relativi saperi, per la formazione dei quadri intermedi;
creò l'istituto magistrale per la «cultura spirituale del maestro», privandolo però del tirocinio;
disseminò la scuola di un gran numero di esami che, insieme ai percorsi "di scarico" (privi di ulteriori sbocchi
formativi), assegnavano alla pubblica istruzione una rigida funzione selettiva: da una parte gli esponenti dei futuri
gruppi dirigenti, dall'altra quanti erano fruges consumere nati, i «nati a consumare granaglie», cioè a vivere
poveramente;
ripristinò nella scuola elementare l'insegnamento della religione cattolica, considerata una philosophia minor in
grado di avviare i bambini a quei valori morali che sarebbero stati oggetto degli studi filosofici liceali;
diede grande importanza all'insegnamento della filosofia, da studiare direttamente sui testi degli autori, come
momento più alto della formazione spirituale espressa dalla triade arte-religione-filosofia;
lasciò in secondo piano le discipline tecniche e scientifiche.
Il rilievo della figura di Giovanni Gentile è stato notevole, anche se è rimasto circoscritto all'interno di un'Italia che in quel
tempo era un po' chiusa e provinciale anche sul terreno culturale; della sua pedagogia sopravvive quasi solo la già richiamata
concezione dell'insegnante e della sua professionalità, e non si tratta certo di un lascito positivo.
Più duratura è stata la sua riforma scolastica: di essa Piero Gobetti nel 1924 scrisse che era «più reazionaria che fascista» e che
«ha imposto alla scuola italiana un abito lugubre, clericale, bigotto». Tuttavia la riforma Gentile:
ha resistito ai "ritocchi" con cui il regime fascista ne ha attenuato la portata selettiva;
è passata attraverso la fascistizzazione della scuola e le leggi razziali;
è sopravvissuta alla Carta della scuola di Giuseppe Bottai (1939);
alla caduta del fascismo;
alla Costituzione repubblicana;
per alcuni aspetti è giunta fino alla fine del XX secolo (Istituto magistrale) e oltre (Liceo classico).
LA «CRITICA DIDATTICA» DI LOMBARDO RADICE. Giuseppe Lombardo Radice (1879-1938) uomo di scuola e professore
universitario, animatore di importanti riviste pedagogiche e di tante battaglie educative, ha collaborato con Gentile, dal quale si
è però allontanato nel 1924, assumendo una posizione sempre più defilata rispetto al fascismo.
Nella sua vasta produzione spiccano le Lezioni di didattica (1912), Athena fanciulla (1925), Pedagogia di apostoli e di operai (1936).
Nell'attualismo gentiliano, di cui pure fu seguace, ha portato accenti nuovi e una viva sensibilità didattica. In Athena fanciulla
elogiava la scuola serena della Boschetti Alberti, nella quale vedeva:
1. la realizzazione di modalità educative in forme ludiche funzionali ad apprendimenti adeguati all'età infantile;
2. la partecipazione attiva dei bambini sotto la guida della maestra, in un'atmosfera serena.
Lombardo Radice si differenzia dalla pedagogia gentiliana per alcuni aspetti solo in apparenza marginali:
concorda sulla centralità del maestro, ma sottolinea importanza di una sua formazione umana e di una
preparazione culturale non separata dalla didattica, che definisce in termini di «critica didattica», cioè di riflessione
critica e autocritica sull'agire educativo;
sostiene che nella formazione magistrale deve trovare adeguato spazio il tirocinio, sotto la direzione di un maestro
esperto;
pensa a un bambino che, pur nel prevalere della fantasia, necessita di un atteggiamento di comprensione e di
vicinanza da parte dell'adulto;
non enfatizza l'importanza dell'ambiente ma sostiene la continuità e la collaborazione tra famiglia e scuola.
8.7 LA PEDAGOGIA CATTOLICA
Nel dibattito educativo e scolastico che ha interessato la prima metà del XX secolo, la pedagogia cattolica ha portato il contributo
di un impegno e di un'esperienza secolari. Chiamato a confrontarsi con le sfide della contemporaneità, il mondo cattolico ha
reagito in modi diversi:
sul terreno sociale tra la fine del XIX secolo e l'inizio del XX si sono affiancate le iniziative rivolte ai lavoratori
(mutuo soccorso, cooperazione, leghe operaie e contadine) e agli imprenditori, con la nascita dell'Opera dei
congressi (1874-1904). Nel 1891 la Chiesa di Leone XIII, con l'enciclica Rerum novarum sulla "questione sociale", ha
preso una posizione che esortava alla collaborazione tra capitale e lavoro;
sul terreno educativo e scolastico, pur in presenza di nuovi fermenti all'interno del mondo cattolico, la Chiesa ha
riproposto gli aspetti più tradizionali del suo magistero. In particolare, con le encicliche Divini illius magistri
(1929, dopo i Patti lateranensi con il Regno d'Italia) e Non abbiamo bisogno (1931, in risposta alla soppressione
dell'Azione cattolica da parte del fascismo), Pio XI ribadiva con forza il primato educativo della Chiesa che, nella
prima, è presentata come «società di ordine soprannaturale e universale, società perfetta» il cui fine è «la salvezza
eterna di tutti gli uomini»; è «sposa immacolata di Cristo che genera, nutre ed educa» l'uomo, insieme madre e
«maestra suprema e sicurissima». Posto che la vera educazione è solo quella cristiana, essa «spetta innanzi tutto,
alla Chiesa e alla famiglia, spetta a loro per diritto naturale e divino, e perciò in modo inderogabile e ineluttabile»;
vi concorre la società civile (le istituzioni educative, culturali ecc. di ispirazione cattolica), mentre allo Stato resta il
ruolo residuale di salvaguardare i diritti della Chiesa, della famiglia e della scuola cattolica.
L'enciclica:
a. riprova «la scuola cosiddetta neutra o laica» e ne vieta ai fedeli la frequenza;
b. condanna la coeducazione (la compresenza nella stessa aula di bambini e bambine) e il naturalismo pedagogico;
c. richiama severamente «i potentissimi mezzi di divulgazione, spesso subordinati all'incentivo delle male passioni
ed all'avidità del guadagno».
Questa posizione resterà immutata fino alla «Dichiarazione sull'educazione cristiana» Gravissimum educationis (1965) del
Concilio Vaticano II ed eserciterà un peso notevole sui cattolici di tutto il mondo.
In questo clima vanno ricordati quegli educatori che hanno cercato di ricondurre l'esperienza dell'attivismo in un orizzonte
cattolico, come Andrés Manjón che in Spagna creò le Scuole dell'Ave Maria (1888).
Il personalismo è una filosofia che, a cavallo tra il XIX e il XX secolo, si è sviluppata in Europa e negli Stati Uniti a opera di una
molteplicità di studiosi cattolici, caratterizzati da diversità non marginali, tanto che si potrebbe parlare di personalismi. Al di là
delle differenti sensibilità, il personalismo si distingue per:
1. la centralità della persona umana creata a immagine di Dio, intesa in senso trascendente e integrale, ovvero nella
completezza delle sue dimensioni, nella pienezza delle sue funzioni e nella sua unità;
2. la polemica contro quelle filosofie che in nome di impostazioni storiciste, empiriste, materialiste finiscono per
negare o sminuire il valore della persona;
3. l'importanza dei valori cristiani come connotato inscindibile dello stesso concetto di persona, nel solco della
tradizione cattolica che in un certo senso viene aggiornata in risposta alle sfide della società contemporanea. Se
quest'ultima ha tra i suoi caratteri l'esaltazione dell'individualismo e dell'uomo-massa, l'antropologia cristiana vi
contrappone la persona, la cui centralità riposa sulla sua natura di imago Dei, che stabilisce un rapporto
indissolubile dell'uomo al Creatore.
L'UMANESIMO INTEGRALE DI MARITAIN. Jacques Maritain (1882-1973), filosofo francese, è stato professore universitario
in Francia, Canada, Stati Uniti, ambasciatore presso la Santa Sede, intellettuale prediletto da Paolo VI. Nella sua vasta
produzione sono fondamentali Umanesimo integrale (1936) e, sul piano pedagogico, L'educazione al bivio (1943) e Per una filosofia
dell'educazione (1959).
Maritain rivaluta Aristotele e san Tommaso e critica il pensiero moderno, al quale contrappone una visione integrale (fisica,
spirituale, morale, religiosa) della persona e dei suoi valori, una valorizzazione dell'uomo come microcosmo aperto a tutti gli
universi, grazie alla conoscenza e alla sua capacità di relazione con gli altri e con la realtà, nel nome di un umanesimo integrale.
Per realizzare ciò è necessario un impegno educativo altrettanto integrale che investa tutti gli aspetti della persona, nelle sue
dimensioni culturali e storiche, in uno stretto rapporto tra educazione e democrazia.
Il filosofo sviluppa così una critica serrata sia ai totalitarismi degli anni trenta, che esaltavano i presunti primati dello Stato e
della razza, sia a quello che gli appare un nuovo totalitarismo fondato sul binomio individualismo-massificazione. Vi
contrappone il primato della persona e dei valori che in essa si incarnano, insiste sul pluralismo e sulla tolleranza che,
attraverso il confronto dialogico, consentono il libero dispiegamento della persona e l'affermazione delle migliori energie volte
al bene comune.
Di queste finalità l'educazione deve farsi carico, anche con il contributo della psicologia, della sociologia e delle altre scienze
umane e sociali. Maritain distingue i tre significati del termine educazione che si riferisce:
1. «sia a qualunque processo per mezzo del quale un uomo è formato e condotto verso la sua perfezione (educazione
in senso più lato),
2. sia all'opera di formazione che gli adulti intraprendono nei confronti della gioventù,
3. sia (in senso più stretto) al compito specifico delle scuole e delle università».
Lo scopo dell'educazione è quello di guidare l'uomo nello sviluppo dinamico durante il quale egli si forma in quanto persona
umana mentre, nello stesso tempo, a lui giunge l'eredità spirituale della nazione e della civiltà alle quali egli appartiene. Il
mezzo per ottenere questo risultato è lo «sviluppo delle capacità umane in tutte le loro possibilità».
L'educando è persona a tutti gli effetti, sia pure in crescita, e l'educazione consiste nel suo risveglio umano verso la verità; è
un'arte che deve rivolgersi a tutti, sviluppare le capacità di giudizio di ciascuno, nel quadro di una fondamentale visione
cristiana dell'uomo dalla quale deriva una disciplina liberamente accettata, volta all'amore di Dio e alla conoscenza della verità.
Definendo la propria educazione liberale, Maritain non si riferisce alla tradizione del liberalismo europeo, ma alle verità di fede
che, in quanto tali, liberano l'uomo.
LA RIVOLUZIONE PERSONALISTA DI MOUNIER. Emmanuel Mounier (1905-1950) è stato un filosofo francese, fondatore
del personalismo comunitario le cui istanze ha diffuso con la rivista "Esprit" fondata nel 1932, con la Rivoluzione personalista e
comunitaria (1949) e Il personalismo (1952).
Per Mounier la rottura degli anni trenta rappresenta una vera e propria crisi della civiltà occidentale, alla quale indica la
prospettiva dell'umanesimo cristiano come terza via o terza forza tra il liberismo individualistico e i totalitarismi.
Nel personalismo comunitario egli vede l'incarnazione di un uomo che unisce in sé il tema della responsabilità personale,
proprio dell'esistenzialismo, e quello dell'impegno sociale di impronta marxista. Quindi la rivoluzione personalista comporta
una pedagogia che sappia guidare la famiglia, la scuola e la chiesa in un'educazione comunitaria capace di "suscitare" la
persona. La responsabilità e la socialità della persona si costruiscono attraverso un processo formativo che riguarda il corpo, lo
spirito e la comunità, cioè la collocazione storico-sociale della persona stessa.
8.8 LA PEDAGOGIA SOVIETICA
La rivoluzione d'Ottobre del 1917 aveva portato alla nascita, alla fine del 1922, dell'Unione delle Repubbliche Socialiste
Sovietiche (o Unione Sovietica). La costruzione del primo Stato socialista doveva affrontare, tra le altre grandi difficoltà, una
situazione scolastica molto arretrata: un territorio immenso con milioni di abitanti, un analfabetismo stimato al 90%
comprendente la totalità della popolazione rurale, e il collasso del vecchio apparato statale.
In questo quadro si inserivano le prime esperienze di politica scolastica a opera del commissario del popolo per l'istruzione,
Anatolij Lunacarskij. Borghese di nascita, come quasi tutti i dirigenti bolscevichi, intellettuale di ottima cultura, era stato esule
in Europa e aveva una buona conoscenza dei più recenti orientamenti pedagogici. Con Lenin e gli altri rivoluzionari
condivideva la convinzione che l'accesso al sapere fosse l'arma più potente per masse popolari, operai, soldati e contadini. Tra i
temi di fondo della sua azione possono essere indicati:
1. la necessità di combattere la piaga dell'analfabetismo mediante una scolarizzazione obbligatoria, gratuita e aperta
a tutti, senza distinzione di genere e con un'attenzione particolare agli adulti;
2. la distinzione fra istruzione, come trasmissione di conoscenze consolidate, e educazione, come processo che
accompagna l'uomo per tutta la vita e in tutti i luoghi di lavoro, di svago ecc;
3. l'istituzione della Scuola del lavoro, successiva all'istruzione di base e articolata in più indirizzi, non riprendeva i
modelli di formazione della borghesia capitalista, ma guardava, piuttosto alla lontana, ai giardini d'infanzia di
Fröbel, all'attivismo di Dewey e alla sua idea di un apprendimento che nascesse dalle esperienze di gioco e di
lavoro;
4. l'educazione socialista deve essere politecnica cioè fondata sui saperi scientifici e tecnici, capace di unire
formazione manuale e formazione intellettuale, di introdurre gli adolescenti alla cultura del lavoro, del suo valore
economico e sociale.
IL POEMA PEDAGOGICO DI MAKARENKO. Anton Semënovič Makarenko (1888-1939) è il più noto educatore e
pedagogista sovietico. Maestro elementare, direttore didattico, nel 1920, ai tempi della guerra civile, viene inviato a dirigere un
istituto di rieducazione per ragazzi abbandonati, con vite difficili, segnate spesso dalla violenza e dalla devianza. Della sua
esperienza nella colonia di lavoro Maksim Gor'kij (nome dell'istituto) darà conto nel Poema pedagogico, la sua opera più
importante, scritta tra il 1933 e il 1935.
All'inizio nella colonia si conduceva «una vita penosa e opprimente» e in particolare i «primi mesi furono per me ei miei
compagni mesi di disperazione e di inutili sforzi»:
all'esterno infuriavano la guerra e i «briganti della strada» (Makarenko dovette farsi dare una pistola);
all'interno «la colonia assumeva sempre più il carattere di un covo di ladri», con i «corrigendi» che si
comportavano da teppisti. «In tutta la mia vita non ho mai letto tanti libri di pedagogia come nell'inverno del
1920», con il risultato di non ricavarne «alcuna scienza, nessuna teoria»; gli occorrevano un'attenta analisi della
situazione e delle possibili iniziative per modificarla.
La soluzione, dopo tanti tentativi e tanti fallimenti, la trovò nel «collettivo pedagogico unitario»: organizzare i
«colonisti» in gruppi incaricati di svolgere turni di servizi necessari alla sopravvivenza della colonia:
andare nel bosco a spaccare la legna per il fuoco;
riparare il tetto;
cucinare;
pulire il dormitorio ecc.
Il collettivo era motivato a partecipare ad attività di cui i singoli ragazzi potessero cogliere il fine: la sopravvivenza della colonia,
che assicurava il soddisfacimento dei loro bisogni primari. Il collettivo rispondeva a una motivazione che era personale, in
quanto ciascun ragazzo era interessato al fine da raggiungere, e sociale, in quanto quel fine poteva essere conseguito solo
mediante la partecipazione condivisa dal gruppo. Il buon esito della sperimentazione del collettivo gli consentì di organizzare il
tempo dei «colonisti» in una mattina dedicata alle tradizionali lezioni in aula e in un pomeriggio riservato al lavoro produttivo;
quest'ultimo andava oltre la manutenzione della colonia e comprendeva anche la fabbricazione di oggetti/attrezzi destinati alla
vendita e quindi alla realizzazione di un guadagno.
Si rafforzava così il valore del lavoro come dimensione intrinseca alla natura dell'uomo e non solo come attività educativa: «la
forma di esistenza di un libero collettivo umano è il movimento in avanti».
In tutto ciò la disciplina aveva un ruolo importante, tanto che Makarenko simulò un'organizzazione di tipo militare: i ragazzi
erano inquadrati in reparti, eseguivano esercizi come soldati e capitava, per esempio, che si impegnassero nella repressione del
contrabbando di vodka che imperversava nel circondario.
L'esperienza di Makarenko proponeva il collettivo pedagogico come forma di educazione "situata" nella vita reale
(nell'ambiente, si potrebbe dire), e "guidata" da un congegno motivazionale non nuovo per la pedagogia occidentale.
In realtà l'attivismo e la pedagogia di Makarenko nascono in contesti socioculturali troppo diversi tra loro, se si pensa alla
situazione estremamente difficile della Russia rivoluzionaria. Tanto che dal 1935 ha polemizzato con l'educazione progressiva,
con l'attivismo e con le pedagogie occidentali che avevano ben poco a che vedere con le esigenze di una società socialista.
IL SECONDO NOVECENTO
9.1 EDUCAZIONE E SOCIETÀ
A partire dal 1945, dopo la fine della seconda guerra mondiale, si è delineato un nuovo assetto geopolitico i cui caratteri
principali posso essere sintetizzati così:
1. è nata la cosiddetta “guerra fredda”, cioè la contrapposizione tra due blocchi di Stati guidata rispettivamente dagli
Stati Uniti e dall’Unione Sovietica. Anche l’Europa, è in particolare la Germania, sono state divise dalla “cortina
di ferro” «da Stettino sul Baltico a Trieste sull’Adriatico», secondo la nota espressione di Winston Churchill, con un
Ovest filo americano (Repubblica federale di Germania) e un Est assoggettato all’Unione Sovietica (Repubblica
democratica tedesca). La contrapposizione, politica, sociale e ideologica, si è attenuata solo in parte con la teoria
della “coesistenza pacifica” (1956) soprattutto nei rapporti tra le due superpotenze è le relative sfere di influenza.
Al clima della guerra fredda va ricondotta anche la “gara spaziale”: l’URSS nel 1957 ha messo in orbita il primo
satellite artificiale e gli USA l’hanno superata nel 1969 con lo sbarco del primo uomo sulla luna;
2. si è avviato un difficile processo di decolonizzazione con la formazione di nuovi Stati mentre nell’Africa
subsahariana tutte le ex colonie hanno raggiunto l’indipendenza;
3. si è delineato il cosiddetto “Terzo mondo”, espressione che indica l’insieme dei paesi dei Paesi poveri, poverissimi
o sottosviluppati dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina;
4. la guerra fredda è stata superata a partire dal 1989 (crollo del muro di Berlino, dell’Unione Sovietica e del blocco
comunista, unificazione della Germania, disgregazione della Jugoslavia ecc.). Con la nascita dell’UE il vecchio
continente ha superato le divisioni degli ultimi quarant’anni, mentre alcuni gradi Paesi come Cina, India e Brasile,
si sono emancipati dal sottosviluppo.
Il periodo in esame ha conosciuto una lunga fase di relativa stabilità e di pace nel corso della quale l'economia ha registrato un
generale andamento espansivo, interrotto da alcuni shock petroliferi (1973 e 1979) e dalle conseguenti crisi energetiche.
A partire dagli anni Ottanta la globalizzazione economico-finanziaria-commerciale ha modificato i rapporti produttivi e di
scambio su scala planetaria: nuovi soggetti "anonimi", multinazionali e transnazionali, hanno incrementato il ruolo
dell'economia e della finanza a scapito dei poteri politico-statuali. All'interno di questa complessità, le accresciute
diseguaglianze tra Paesi ricchi e Paesi poveri hanno suscitato un fenomeno migratorio di portata epocale da quasi tutta l'Africa,
dall'Asia e dall'America Latina. A fronte di tale "invasione" i Paesi di arrivo non hanno saputo dare risposte adeguate in termini
di controllo e di gestione dei flussi migratori. Si è favorito così il diffondersi nell'opinione pubblica di una percezione negativa:
la percezione di una minaccia alla propria sicurezza, cultura, ai propri posti di lavoro, con effetti di chiusura verso le culture
"diverse" e di rivendicazione di un primato identitario, fino ai casi più recenti di "sovranismo" (riproposizione dei vecchi
fantasmi del nazionalismo) negli Stati Uniti, in Europa e in altri Paesi.
Per altro verso, è stato impetuoso lo sviluppo scientifico e tecnologico in molti settori. In particolare, i progressi
dell'informatica hanno favorito l'espansione del terziario avanzato, anzi di un vero e proprio "settore quaternario”, e la
diffusione di un modello socioeconomico variamente denominato. Con l'informatica e la telematica è cambiato il modo di
lavorare, di fare economia e finanza, di socializzare.
Le tecnologie dell'informazione e della comunicazione (TIC) hanno prodotto effetti rilevanti anche sui processi educativi: la
vecchia formazione a distanza (FAD di prima generazione, basata sull'invio postale di materiali cartacei come dispense) è stata
superata da quella di seconda generazione, che utilizzava i mezzi di comunicazione di massa (televisione soprattutto), e poi
dalla FAD di terza generazione: dall'uso in classe di dispositivi informatici (lavagne interattive multimediali e tablet) alle
diverse forme di insegnamento-apprendimento online (e-learning).
9.2 PIÙ EDUCAZIONE, PIÙ SCUOLA
La seconda metà del secolo ha registrato una considerevole espansione delle attività formative scolastiche ed extrascolastiche.
Nei Paesi sviluppati si è generalizzata la scolarizzazione di massa, in risposta a esigenze di crescita democratica e di accesso a
possibilità di vita e di lavoro incompatibili con bassi livelli di istruzione; nei Paesi in via di sviluppo si è fatto ricorso a vaste
campagne di alfabetizzazione.
L'educazione degli adulti, dopo gli esordi nel XIX secolo, ha ricevuto nuovi impulsi dai mutamenti intervenuti a partire dagli
anni cinquanta e sessanta del Novecento. L'UNESCO (Organizzazione delle Nazioni Unite per l'educazione, la scienza e la
cultura) ne ha promosso la diffusione secondo le esigenze dei diversi contesti territoriali:
nelle zone depresse e nei Paesi di recente indipendenza il problema più urgente era l'alfabetizzazione, compresa
quella degli adulti, come prerequisito per lo sviluppo;
nei Paesi avanzati la popolazione adulta esprimeva bisogni di qualificazione e di riconversione professionale,
insieme a forme più evolute di fruizione culturale e di impiego del tempo libero.
Le attività formative hanno dato vita a un vero e proprio mercato della formazione, con modalità che hanno affiancato le sedi
tradizionali (famiglia, scuola, lavoro):
a. attività formative formali che si svolgono in tempi e in spazi istituzionalmente finalizzati ai processi di
insegnamento-apprendimento e rilasciano certificazioni o titoli di studio riconosciuti;
b. attività formative non formali che sono gestite da soggetti per lo più privati, impartiscono conoscenze in campi
molto diversi e rilasciano attestati di frequenza ma non titoli formalmente riconosciuti;
c. attività formative informali che non sono legate a tempi o luoghi specifici e comprendono quei processi, anche non
intenzionali, che portano all'acquisizione di principi, valori, capacità e conoscenze, per l'azione esercitata da diversi
soggetti: ai tradizionali protagonisti educativi extrascolastici si sono aggiunte le associazioni politiche, culturali,
ricreative, fino alle attività del tempo libero la cui incidenza educativa può essere molto profonda. In questo senso
la crescita dei sistemi di comunicazione di massa, e in particolare della televisione, ha messo in campo un nuovo
soggetto educativo tanto potente quanto pervasivo. Il dibattito sugli effetti positivi o negativi della sua azione ha
coinvolto molti studiosi (contrapposizione tra Apocalittici e integrati di Umberto Eco) orientati per una posizione
cauta o negativa.
Nel 1972 l'UNESCO, con il Rapporto Apprendre à être, noto anche come Rapporto Faure (dal nome del suo curatore),
confermava l'orientamento di fondo dell'Organizzazione: «una educazione che dura tutta la vita, che sia vissuta da ciascuno nel
doppio obiettivo dello sviluppo della società e della realizzazione integrale dell'uomo».
Il Rapporto richiamava l'attenzione su tre idee-chiave destinate ad animare il dibattito internazionale sull'educazione:
1. l’indicazione dell'importanza di apprendere ad apprendere→ scopo della scuola è consentire all'uomo
di essere se stesso, assicurando l'espansione della democrazia e lo sviluppo economico. Per raggiungere
obiettivi così impegnativi, il Rapporto indicava la necessità di «insegnare a pensare, a imparare», nel
senso di stabilizzare nel discente modalità di apprendimento e procedure di acquisizione della
conoscenza che potessero essere trasferite sia da una disciplina all'altra sia dal "dentro" al "fuori" la
scuola. Si ufficializzava così, per la prima volta a livello internazionale, la finalità dell'apprendere ad
apprendere: non si trattava di "inventare" una nuova materia scolastica e tanto meno di "declassare" le
conoscenze disciplinari, ma piuttosto di impartirle all'interno di un procedimento nel quale i contenuti
("cosa" si apprende) e le modalità della loro acquisizione ("come" si apprende) stimolassero l'attitudine a
un apprendimento permanente;
2. l’impegno per l'educazione permanente (lifelong learning)→ scaturiva dalla stessa indicazione e dalla
constatazione che l'obsolescenza delle conoscenze e la crescente complessità economico-sociale
rendevano non più praticabile una formazione acquisita una volta per tutte, seguita da un'occupazione
sempre uguale per tutta la vita;
3. la prospettiva della comunità educante→ nasceva dalla consapevolezza della pluralità dei soggetti
educativi che si erano moltiplicati ben oltre la famiglia e la scuola: «l'educazione è diventata e diverrà
sempre più esigenza sociale di base di ogni individuo» e la scuola deve sì, provvedervi ma sempre meno
avrà il diritto di pretendere di gestire da sola le funzioni educative. La comunità educante diveniva così
un obiettivo di lungo periodo per famiglia, scuola, tessuto sociale e l'educazione extrascolastica
impegnate nel raggiungimento di obiettivi educativi consapevoli e condivisi. La prospettiva della
comunità educante ha avuto minor fortuna delle altre due idee guida, per via della sua carica utopica.
Dopo il 1945 l'Italia era alle prese con mille problemi, tra i quali la scelta della «forma repubblicana» (1946), l'entrata in vigore
della Costituzione (1948), l'avviamento della scuola a una faticosa normalità.
Trascorsa la fase più dura della Ricostruzione, tra la fine degli anni cinquanta e i primi anni sessanta, la società italiana ha
assistito a una grande trasformazione della vita civile, sostenuta da uno sviluppo economico che ha indotto molti osservatori a
parlare di "boom economico".
La scuola non ha conosciuto miracoli né esplosioni, anche se è cresciuta la domanda di formazione: la scolarizzazione
elementare ha raggiunto le relative fasce di età e nel 1962 è stata istituita la scuola media unica in attuazione della norma
costituzionale per cui «l’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita» (art. 34, comma 2).
Così anche nel nostro Paese si sono poste le basi della già richiamata scolarizzazione di massa che nei decenni successivi si è
estesa dalla scuola media alla secondaria e poi all'università. Vi hanno contribuito:
le famiglie, che hanno avuto maggiori opportunità di investire sul futuro dei figli;
il mondo produttivo, spinto dalla necessità di rivolgersi a una platea di consumatori e di clienti con un livello di
istruzione adeguato a una moderna società industriale.
La scolarizzazione di massa è stata un fenomeno del tutto inedito nella storia italiana, sia per la quantità dei giovani che
accedevano all'istruzione, sia per la qualità del "nuovo studente" appartenente agli strati più deboli della popolazione fino ad
allora relegati ai margini del sapere e residenti in zone svantaggiate. Esso portava con sé culture, mentalità, persino linguaggi
che hanno messo in difficoltà molti docenti della scuola media, abituati a un rapporto educativo con i giovani provenienti dai
ceti medio-alti.
In realtà l'allargamento della base sociale della scuola imponeva cambiamenti rilevanti nelle teorie pedagogiche, nelle
impostazioni didattiche e nei processi di insegnamento-apprendimento. Vi si opponeva una mentalità che, di fronte a una
scuola media divenuta obbligatoria, continuava a pensarla in termini di selezione: promuovere i ragazzi più bravi, bocciare gli
"indolenti'". Sarà un sacerdote, don Lorenzo Milani, a svelare cosa si nascondeva dietro un criterio educativo solo in apparenza
inattaccabile.
DON MILANI E LA SCUOLA DI BARBIANA. Don Lorenzo Milani (1923-1967) è stato sacerdote, educatore e scrittore
proveniente da una ricca famiglia fiorentina di solida tradizione laica e di alta tradizione culturale. Nel ministero sacerdotale
l'impegno a favore dei poveri è stato la sua prima scelta, quasi a volersi "riscattare" dalla propria condizione familiare.
Tra i suoi scritti vanno ricordati:
Esperienze pastorali (1958);
L'obbedienza non è più una virtù. Documenti del processo di Don Milani (1965);
Obiezione di coscienza (1965);
Lettera a una professoressa (1967).
Don Milani è stato un prete scomodo per la Chiesa del tempo, tanto che l'arcivescovo di Firenze lo inviò a Barbiana, piccola
frazione nell'Appennino toscano; una sorta di esilio nel quale tuttavia ebbe modo di proseguire la sua seconda scelta pastorale,
quella educativa.
Don Milani assegnava all'educazione un ruolo fondamentale per l'emancipazione degli ultimi e insisteva in particolare sulla
centralità della parola e sulla padronanza della lingua, che a suo avviso rappresentava il discrimine più odioso tra ricchi e
poveri. A Barbiana, a contatto con i figli dei contadini e dei montanari, colpito dalla loro emarginazione sociale e soprattutto
scolastica, svolse un'esperienza educativa che sarebbe diventata famosa.
Di quella vicenda, Lettera a una professoressa è quasi il racconto. Si parla di:
«Pierino del dottore» che «scrive bene»;
Gianni che parla e scrive la lingua del babbo contadino.
La Lettera parte dalla constatazione che la scuola «ha un problema solo. I ragazzi che perde». E in venti pagine di statistiche e
tabelle mostra che i Gianni, i figli degli operai e dei contadini sono il 65,4% della popolazione scolastica, e i Pierini solo il 14,5%
mentre tra quinta elementare e prima media vengono bocciati il 94,7% dei Gianni e solo 11,4% dei Pierini. Il problema è chiaro:
la scuola dell'obbligo attraverso le bocciature, gli abbandoni ecc. operava una forte selezione sociale in quanto colpiva
soprattutto i Gianni; e un selezione geografica, in quanto penalizzava i residenti in montagna, campagna o località isolate.
Affinché il sogno dell'eguaglianza non resti un sogno vengono proposte tre riforme:
non bocciare;
a quelli che sembrano cretini dargli la scuola a tempo pieno;
agli svogliati dargli uno scopo.
Non bocciare perché, alla professoressa che afferma di essere indifferente al mestiere del padre di un ragazzo bocciato o
promosso, don Milani risponde che è ingiusto far parti uguali fra disuguali. Di qui la proposta del tempo pieno: dare più scuola
a chi ne ha meno in quanto una famiglia povera e un ambiente sociale culturalmente deprivato non possono assicurare gli stessi
strumenti linguistici e culturali di una famiglia del ceto urbano medio-alto. Infine, la necessità di dare uno scopo agli svogliati
riprende il tema della motivazione, ormai acquisito dalla pedagogia novecentesca.
In quegli anni le cause e gli effetti della "selezione di classe" erano noti e denunciati negli ambienti politici e sindacali di sinistra,
nonché in parte del mondo cattolico. Tuttavia la denuncia di don Milani e dei suoi ragazzi ha avuto una grande risonanza,
amplificata di lì a poco dal Movimento studentesco del 1968, e ha suscitato un dibattito molto vivace, che riaffiora ancor oggi, a
distanza di più di cinquant'anni.
Dai suoi libri più importanti, La pedagogia degli oppressi (1971) e L'educazione come pratica di libertà (1973), emerge una
riflessione
pedagogica scientificamente più contestualizzata rispetto a quella dei descolarizzatori. Quando afferma che «nessuno educa
nessuno, e neppure se stesso», non intende alludere a una morte della scuola, ma invoca un'educazione "conviviale".
II suo pensiero è incardinato su alcuni temi di fondo:
1. il rifiuto della concezione depositaria dell'educazione, un suo modo personale di definire la nota antitesi tra
educare come "metter dentro" o "tirare fuori". Freire rifiuta l'educazione depositaria perché se la società
rivoluzionaria la conserva vuol dire che «è caduta in equivoco o si è lasciata "mordere" dalla sfiducia nell'uomo».
Infatti «l'educazione che proponiamo a coloro che veramente si impegnano per la liberazione, non può basarsi su
una concezione degli uomini come esseri "vuoti" che il mondo "riempie di contenuti"»;
2. l'affermazione della concezione problematizzante dell'educazione che considera gli uomini «come "corpi coscienti"
e si basa sulla coscienza come coscienza in rapporto intenzionale col mondo»*;
3. l'educazione come coscientizzazione alla quale assegna il compito di rendere evidente come l'organizzazione
sociale imponga un insieme di valori, modi di pensare ecc. volti al mantenimento dell'oppressione. Nell'educazione
come coscientizzazione convivono la crescita personale e l'azione trasformativa della realtà prodotte dalla
consapevolezza critica della propria condizione storica di oppresso e quindi della necessità di lottare per una
società diversa che rispetti la dignità e la libertà dell'uomo.
*Prerequisito dell'educazione problematizzante è «il superamento della contraddizione educatore/educandi» affinché l'oggetto
di un atto di insegnamento-apprendimento non sia il punto d'arrivo ma sia il mediatore dei protagonisti di quell'atto. In questo
senso «gli uomini si educano in comunione , con la mediazione del mondo»; è un'educazione dialogica, relazionale, dalla quale
emerge che «l'educatore non è solo colui che educa, ma colui che, mentre educa, è educato nel dialogo con l'educando , il
quale a sua volta, mentre è educato, anche educa. Ambedue così diventano soggetti del processo in cui crescono insieme».
In quegli stessi decenni sono sorte negli Stati Uniti nuove forme di istruzione riconducibili per qualche verso alle tesi dei
descolarizzatori: sperimentazioni (spesso autorizzate dalle autorità scolastiche) che riprendevano alcune tra le idee più diffuse
dell'attivismo pedagogico.
In anni più recenti, a quelle prime esperienze ne sono seguite altre di diverso spessore culturale, ancor oggi in via di sviluppo:
1. l’homeschooling ripropone la pratica dell'educazione e dell'istruzione in ambiente familiare a opera dei genitori e
di persone da loro incaricate;
2. le charter schools sono scuole private, autorizzate dai pubblici poteri che concorrono al loro finanziamento. Esse
danno vita a esperienze molto diverse tra loro in ragione della maggiore libertà organizzativa rispetto alle scuole
pubbliche:
i tempi e i luoghi sono pensati in funzione delle esigenze dei frequentanti;
l'insegnamento può essere mirato su particolari tematiche;
sfruttano tutte le risorse didattiche, da quelle fondate sullo studio ambientale a quelle basate sull'e-learning
e sull'uso delle TIC.
Rispetto ai modelli made in USA, in Europa, e anche in alcune regioni italiane, è più diffuso il voucher formativo, un contributo
statale o regionale che concorre alle spese delle famiglie per la frequenza delle scuole private che abbiano una qualche forma di
riconoscimento dalle autorità pubbliche.
Un altro aspetto
che caratterizza l'ultima metà del secolo è l'accresciuto interesse di alcuni organismi internazionali per il monitoraggio e la
valutazione dei sistemi scolastici e universitari, della qualità dell'istruzione, del rapporto tra costi e benefici. Le attività
dell'UNESCO e poi quelle dell'Unione Europea, dell'OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), del
Consiglio d'Europa e di altri centri di ricerca, hanno diffuso una cultura della valutazione di scuole, università, docenti, processi
di insegnamento-apprendimento.
9.4 LA RICERCA PEDAGOGICA
Anche la pedagogia ha conosciuto un grande sviluppo nella seconda metà del XX secolo. Compiuto il processo di
affrancamento dalla filosofia, la ricerca sull'educazione si è affermata come pedagogia sperimentale soprattutto nell'area
francofona (Francia, Belgio e Svizzera) e negli Stati Uniti.
Nel discorso pedagogico, accanto alla dimensione teoretica, si sviluppa la dimensione sperimentale:
la prima elabora le finalità dell'agire educativo, le sue coordinate di fondo, definite anche in termini problematici;
la seconda raccoglie, interpreta e riconduce a sintesi i dati, gli elementi fattuali, le esperienze educative.
Si tratta, in senso lato, di un rapporto tra teoria e pratica, proprio delle scienze in quanto tali, nel quale ogni soluzione teorico-
pratica è un punto di arrivo e, al tempo stesso, un punto di partenza per affrontare altre questioni.
In questo cammino la pedagogia è stata accompagnata da una quantità di apporti conoscitivi provenienti da discipline per più
versi vicine ai processi educativi e, per questo motivo, dagli anni ottanta del Novecento alcuni studiosi hanno suggerito di
sostituire il termine pedagogia con la più ampia espressione scienze dell'educazione.
9.5 IL COMPORTAMENTISMO
Il comportamentismo è una corrente psicologica che studia il comportamento in quanto direttamente osservabile, tralasciando
i processi mentali, introspettivi, che caratterizzano l'agire dell'essere vivente.
In quasi un secolo di studi e ricerche il comportamentismo ha elaborato una teoria dell'apprendimento che ha dato luogo a una
teoria dell'istruzione, molto discussa. La psicologia del comportamento nasce dagli studi di John Watson (1878-1958), un geniale
psicologo americano che utilizzò anche le ricerche del fisiologo russo Ivan Petroviò Pavlov (1849-1936) al quale si deve il
concetto di riflesso condizionato.
Sono noti gli esperimenti di Pavlov sul cane: quando gli si mostra del cibo (stimolo incondizionato), l'animale reagisce
emettendo saliva (riflesso incondizionato). Associando al cibo, per numerose volte, il suono di un campanello (stimolo
condizionato), il cane reagisce con analoga salivazione (riflesso condizionato). Se gli stimoli sono somministrati secondo regole
di contiguità e ripetizione, nel cane si stabilizza un arco riflesso di stimolo-risposta: l'animale ha quindi "appreso" un
comportamento. Più che di apprendimento si trattava di condizionamento, ma per Pavlov il passaggio dall'uno all'altro era
breve e infatti in seguito elaborò le prime leggi dell'apprendimento in prospettiva comportamentista.
A Edward L. Thorndike (1874-1949) si deve un importante sviluppo. Egli osservò che un gatto chiuso in gabbia tentava
confusamente di uscire, fino a trovare la leva di apertura; ripetendo le prove, gli errori diminuivano e infine l'animale aveva
"appreso" l'uso di quella leva. Thorndike formulò così la legge dell'effetto soddisfacente (1931) che segna il passaggio dal
reagire (Pavlov) all'apprendere a reagire: le catene associative tendono a fissarsi per effetto delle risposte positive. L'attenzione
si sposta così dallo stimolo alla risposta: se questa è soddisfacente, aumentano le probabilità che venga appresa.
Burrhus F. Skinner (1904-1990) ha superato il condizionamento "rispondente" (stimolo-risposta) di Pavlov e ha introdotto il
concetto di condizionamento "operante" o "strumentale" che produce operazioni osservabili in termini di modificazioni del
comportamento. Uno stimolo può originare risposte diverse per "tentativi ed errori"; solo la risposta soddisfacente viene
appresa e ripetuta in condizioni analoghe.
Skinner quindi introduce un "rinforzo", un premio, che conferma retroattivamente (feedback) la risposta corretta; poiché la
sequenza per tentativi ed errori gli sembra dispersiva, negli esperimenti con i piccioni "rinforza" la risposta soddisfacente
affinché l'animale apprenda rapidamente sequenze anche complesse di operazioni: è un apprendimento guidato e progressivo
che lo studioso definisce "modellamento". A quanti osservavano che il modellamento favorisse un apprendimento passivo
fondato su automatismi e limitasse la libertà di procedure più autonome, Skinner rispondeva sottolineando il rispetto dei
"tempi di apprendimento" del soggetto, che non devono essere controllati né dallo sperimentatore in laboratorio, né
dall'insegnante in classe: a ciascuno va lasciata la libertà di procedere secondo le proprie possibilità, con l'unico accorgimento di
offrirgli un percorso che riduca al minimo gli errori e gratifichi le risposte corrette.
Skinner elabora quindi una nuova teoria dell'istruzione, nota come istruzione programmata, nella quale l'oggetto di
apprendimento viene scomposto in unità informative minime, dalle più semplici alle più complesse: si somministra al
soggetto la prima unità di informazione, seguita da una verifica in forma di domande o esercizi; se la verifica è positiva, si passa
alla seconda unità di informazione, a un'altra verifica e così via.
Secondo Skinner il processo è:
1. autogratificante in quanto il soggetto è stimolato ad avanzare dai suoi stessi successi;
2. automotivante in quanto l'apprendimento rinforzato è motivazione a se stesso. Non si studia qualcosa perché
interessa, ma perché si è gratificati dai successi ottenuti in quello studio.
Un buon percorso di istruzione programmata deve essere costruito in modo tale che, a fronte di una risposta sbagliata, il
soggetto sia rinviato al concetto non compreso, cioè all'unità informativa trascurata che sta alla base dell'errore. Manca la
frustrazione del rimprovero perché l'errore non viene punito ma, una volta superato, viene quasi un incoraggiato.
L'istruzione programmata si è diffusa in tutto il mondo, anche se ha interessato più le competenze operative che le conoscenze
astratte. È un metodo efficace sia perché determina un apprendimento verificato, sia perché viene spesso aggiornato con nuove
procedure. Infine è un metodo che consentirebbe di fare a meno dell'insegnante, se il programma, i materiali, gli strumenti e le
procedure sono stati accuratamente preparati e testati.
A differenza dei comportamentisti, che in laboratorio isolavano il soggetto da possibili distrazioni, i gestaltisti studiavano un
soggetto in condizioni simili alla quotidianità, impegnato a fronteggiare il flusso continuo di percezioni, alcune delle quali si
presentano in forme ambigue e incomplete. Infatti i gestaltisti prima, e i cognitivisti poi, si interessavano a quel che accade
nella mente quando essa riceve un'informazione.
Per i cognitivisti la mente "legge" la nuova informazione alla luce delle conoscenze già possedute e l'informazione nuova tende a
ristrutturare tutto il campo delle conoscenze precedenti, retroagendo su di esse. È un modello costruttivista della conoscenza
che procede per costruzioni e ricostruzioni successive, a partire dal precedente vissuto esperienziale del soggetto e persino dai
suoi stati emotivi.
9.7 JEROME S.BRUNER
Jerome Seymour Bruner (1915-2016) è uno psicologo americano che ha percorso tutto il cammino dalla Gestalttheorie al
cognitivismo, si è occupato molto di problemi educativi e si è impegnato nella costruzione di strategie cognitive all'interno dei
processi di insegnamento-apprendimento.
Nel 1957 l'Unione Sovietica aveva lanciato e messo in orbita, per la prima volta nella storia, due satelliti artificiali ( Sputnik),
seguiti nel 1961 da un altro satellite con un uomo a bordo. Grande è stata l'impressione nell'opinione pubblica mondiale, grande
l'allarme negli Stati Uniti, dove ebbe larga diffusione il libro Cosa Ivan sa che Johnny non sa di Arther S. Trace, volto a
dimostrare che la scuola americana era più arretrata di quella sovietica non solo nelle conoscenze tecnico-scientifiche ma anche
nelle scienze umane. Dalla convinzione che gli Stati Uniti, per recuperare il ritardo nella gara spaziale, dovessero rivedere anche
la propria politica scolastica, era nata nel 1959 la Conferenza di Woods Hole (Massachusetts) promossa dall'Accademia
nazionale delle scienze, con la partecipazione di trentacinque scienziati di discipline diverse che avevano il compito di avanzare
proposte che consentissero alla scuola americana di competere con quella sovietica.
Bruner, chiamato a presiedere la conferenza, aveva idee molto chiare in proposito, a partire dalla critica a Dewey e a Piaget, con
argomentazioni che pubblicò nel 1961 in The Process of Education (tradotto in Italia nel 1964 col titolo Dopo Dewey) insieme ai
risultati della conferenza.
Alla pedagogia deweyana rimproverava la concezione dell'educazione come trasmissione culturale tra le generazioni e della
scuola vista in continuità con la società e con la famiglia, concezione dalla quale discendeva un'attenzione a suo avviso eccessiva
per la socializzazione dei giovani americani: «L'educazione non è semplicemente trasmissione di cultura, ma è anzitutto
formazione di un potere e di una sensibilità mentale che consentano a ciascuno di procedere da solo alla ricerca e di
costituirsi una personale cultura interiore». Il fine dell'educazione, dice Bruner, è la conoscenza del mondo e delle sue leggi,
conoscenza che ha una struttura e una storia che ci consentono di ordinare e definire l'esperienza. « Il metodo di insegnamento è
quello implicito in ogni attività conoscitiva: esso è uno sforzo ordinato e responsabile verso l'autoapprendimento, uno forzo per
disporre ogni particolare conoscenza in un'ordinata rappresentazione del mondo che rispetti il particolare, ma riconosca anche
che l'astrazione è essenziale per l'intelletto».
Quanto alla psicologia piagetiana, respinge la teoria evolutiva dello sviluppo infantile, a suo avviso inutilizzabile per "forzare"
tempi e modi della crescita. Nei decenni successivi Bruner ha modificato le sue posizioni sottraendosi al condizionamento delle
sfide geopolitiche e mostrando maggiore sensibilità per il contesto economico-sociale dell'educazione.
In Verso una teoria dell'istruzione (1967) afferma che gli esseri umani hanno sviluppato tre sistemi paralleli per elaborare
l'informazione e rappresentarla:
uno mediante manipolazione e azione;
uno mediante organizzazione percettiva e immagine;
uno mediante apparato simbolico.
Tali sistemi non vanno in alcun modo considerati come "stadi", ma piuttosto come caratteristiche salienti nel corso dello
sviluppo. I tre sistemi paralleli, o rappresentazioni, sono:
1. rappresentazione attiva→ consiste nel conoscere attraverso l'esecuzione di un'azione, come quando si vuol
insegnare a qualcuno ad andare in bicicletta: parole e immagini non servono, l'importante è passare attraverso
l'azione. È tipica dell'infanzia, ma è utilizzata anche in età adulta;
2. rappresentazione iconica→ opera sulle immagini e si fonda sulla percezione visiva che si raffigura le azioni
compiute, ne ricava immagini, le organizza nella mente, le fissa nella memoria, Non interessa una specifica età, ma
viene utilizzata lungo tutto l'arco della vita;
3. rappresentazione simbolica→ si realizza essenzialmente attraverso il linguaggio, cioè attraverso un sistema
simbolico che può riferirsi a situazioni reali («il cane ha morso l'uomo»), fantastiche («nel giardino c'è un
unicorno») o evocative («In principio era il verbo»). Il linguaggio permette di «capovolgere la realtà fino ai suoi
limiti, più di quanto sia possibile farlo attraverso le azioni e le immagini» e rappresenta quindi una forma di
conoscenza più ricca delle modalità attiva e iconica. È capace al tempo stesso di sintesi e di ampia versatilità
espressiva.
Le tre modalità non rispondono a un modello di sviluppo per stadi successivi, ma vanno acquisite e padroneggiate per tutta la
vita.
Se i comportamentisti privilegiano l'apprendimento realizzato, il prodotto, rispetto al processo, al percorso seguito per ottenere
quegli apprendimenti, Bruner vuole potenziare la formazione delle categorie e delle strategie del pensiero, delle capacità
critiche, oltre alla padronanza dei contenuti nelle diverse discipline.
La sua teoria dell'istruzione investe:
1. oggetto dell'insegnamento→ «nel processo educativo si dovrebbe attribuire un'importanza principale alle capacità
fondamentali cioè alle abilità nelle operazioni manuali, in quelle del vedere e dell' immaginare, e nelle operazioni
simboliche»;
2. curriculum→ inteso come sviluppo della «padronanza di determinate capacità che a loro volta conducono
all'acquisizione di nuove capacità più elevate, al costituirsi di sequenze che potremmo definire
"autoremuneratrici". Di ogni capacità o conoscenza esiste un'adeguata versione che può venire impartita a
qualsiasi età si desideri cominciare l'insegnamento. L'approfondimento e l'arricchimento di questa prima forma di
comprensione è sempre fonte di soddisfazione e di compenso per il lavoro della mente». Una teoria dell'istruzione
non può limitarsi all'apprendimento di nozioni destinate a una rapida obsolescenza, ma deve definire
quell'«adeguata versione» che rappresenta la struttura delle diverse e della loro didattica; deve guidare lo studente
ad apprendere quella struttura mediante un'opportuna articolazione del curriculum. In questo senso qualunque
capacità/conoscenza può essere tradotta in modo adatto alle forme di pensiero e all'età del discente;
3. programma a spirale→ definita la struttura di una disciplina, se ne insegnano gli elementi più semplici, per
passare via via a quelli più complessi, in un processo di approfondimento successivo che guida la crescita
dell'alunno;
4. metalinguaggio→ Bruner osserva che le conoscenze disciplinari vengono rapidamente superate a causa del
progresso scientifico, dell'avanzamento dei saperi e del mutamento tecnologico; molti lavori scompaiono, altri
cambiano, altri ancora nascono ex novo. Occorre quindi riposizionare l'educazione e le sue finalità: più che inseguire
il mutamento sociale occorre fornire alle persone gli strumenti per guidare un mutamento sempre più rapido.
Assegnare all'educazione compiti di incremento delle capacità fondamentali significa assegnarle il fine di
sviluppare un metalinguaggio inteso come capacità di «studiare le prospettive del possibile invece dei risultati
acquisiti», comprendere il mutamento sociale, governarlo, controllarlo, per assicurare «il senso della continuità pur
nel cambiamento. Quindi, nel momento stesso in cui si insegna una disciplina qualsiasi, è necessario insegnare a
pensare, a imparare, cioè stabilizzare nel discente modalità di apprendimento e strategie di conoscenza che egli
possa accrescere e affinare ben oltre l'età scolare;
5. problem solving→ è un insegnamento-apprendimento nel corso del quale allo studente si forniscono informazioni
che lo spingono ad andare oltre l'informazione data, a scoprire autonomamente leggi e principi, in un'elaborazione
cognitiva che giunge anche alla soluzione di un problema per il quale egli non disponeva di tutti i dati necessari. A
tale risultato possono concorrere strategie diverse, quali:
a. l'insight, un' intuizione che ristruttura il problema stesso e porta alla sua soluzione;
b. il transfer, cioè la capacità di trasferire conoscenze e procedure da una disciplina all'altra, da un problema
ad un altro.
Nel 1964 Bruner è stato presentato in Italia come il Dopo Dewey, forzando il titolo originale di The Process of Education. In realtà,
alcuni tratti nuovi della sua proposta rappresentano altrettante risposte all'esigenza tutta politica di recuperare il gap
tecnologico rispetto all'Unione Sovietica; in questo senso, più che di superamento dell'attivismo, si può forse parlare di un suo
radicale aggiornamento alle mutate condizioni della seconda metà del XX secolo.
L'indicazione di insegnare a pensare, imparare, era già nella consapevolezza di molti, tra i quali Dewey, con motivazioni del
tutto analoghe. In Bruner l'attenzione dell'educatore resta orientata all'educando, ma con un significativo cambiamento, nei
metodi e nei contenuti, della sua formazione; al tempo stesso, la concezione deweyana di un' educazione acquisita tramite
'"esperienza" del soggetto viene ricondotta al concetto di "operazione" e contestualizzata in un quadro psicopedagogico molto
più articolato rispetto ai decenni di fine Ottocento.
9.8 PIAGET, VYGOTSKIJ (E BRUNER)
LA TEORIA STADIALE DI PIAGET. Jean Piaget (1896- 1980), psicologo e pedagogista svizzero, è annoverato tra i maggiori
esponenti del cognitivismo. Nel 1955 ha dato vita a Ginevra al Centro internazionale di epistemologia genetica, dedicato a un
nuovo settore di studi inaugurato dallo stesso, per la ricerca teorico-sperimentale sulla genesi e sullo sviluppo della conoscenza
scientifica (in greco epistème).
Negli anni venti del 900, divenuto direttore dell'Istituto Jean-Jacques Rousseau di Ginevra, ha iniziato a coltivare l'interesse per
la psicologia che lo avrebbe accompagnato per tutta la vita.
Per Piaget l'intelligenza è la modalità più efficace di adattamento del soggetto al suo ambiente, mediante due invarianti
funzionali:
1. assimilazione→ il soggetto introietta un'esperienza o un'informazione nel proprio schema cognitivo, senza una
previa modificazione di quest'ultimo;
2. accomodamento→ si ha quando lo schema cognitivo del soggetto deve modificarsi al fine di accogliere
un'esperienza o un' informazione che diversamente gli resterebbe estranea.
Accanto alle invarianti funzionali, operano anche le varianti rappresentate dagli schemi cognitivi che accompagnano il soggetto
nella sua crescita. Partendo da una serie di esperimenti con i bambini e osservando il loro comportamento, Piaget ha costruito la
sua teoria degli stadi di sviluppo che individua quattro fasi:
1. fase senso-motoria (0-3 anni)→ il bambino non distingue il sé dagli altri e dagli oggetti in quanto il suo è un
pensiero "egocentrico" che non coglie i rapporti di causa ed effetto. I sensi sono i suoi principali veicoli di
conoscenza di quanto lo circonda. Il movimento lo avvia alla consapevolezza del suo corpo, al graduale controllo
dello schema motorio e amplia via via il suo campo conoscitivo;
2. fase intuitiva (3-7 anni)→ il bambino inizia a percepire la realtà come distinta da sé: il suo pensiero, infatti, è
sempre meno egocentrico e lo porta a immaginare che gli oggetti siano "animati" di vita propria: parla con loro,
ascolta e comprende le persone che gli sono accanto, usa il linguaggio, anche se in modo ancora inconsapevole,
come strumento relazionale;
3. fase operatorio-concreta (7-11 anni)→ scompare ogni traccia di pensiero egocentrico e il bambino, avendo ormai
sviluppato sensi, motricità e linguaggio, stabilisce rapporti più consapevoli con persone e cose;
4. fase ipotetico-deduttiva (11-14 anni)→ caratterizzata da un'ormai matura capacità simbolica e di astrazione che
consente al ragazzo di formulare ipotesi e trarre deduzioni.
Come ogni periodizzazione, anche questa va intesa senza rigidità e anzi con una gradualità che riguarda tanto la fasce di età, da
considerare orientative, quanto i caratteri delle diverse fasi. Resta il fatto che se una fase di crescita non prevede che il bambino
abbia maturato alcune capacità logiche, l'educazione non può che adeguarvisi "seguendo” la strada aperta dallo sviluppo.
Una delle obiezioni rivolte a Piaget riguarda la condizione sociale e culturale dei soggetti da lui osservati, in genere bambini di
Paesi europei con un livello di sviluppo medio-alto. Tuttavia le critiche più rilevanti sono state quelle di Bruner la cui
definizione dello sviluppo attraverso le tre forme di rappresentazione, attiva, iconica e simbolica, è in contrasto con la teoria
stadiale dello studioso svizzero. Per Bruner «lo sviluppo intellettuale dell'allievo non è una sequenza automatica di eventi in
quanto esso risente anche delle influenze ambientali e soprattutto dell’ambiente scolastico. Perciò l'educazione al pensare
scientifico non deve "seguire" passivamente il corso naturale dello sviluppo conoscitivo dell'allievo. Essa può anche "guidare" lo
sviluppo intellettuale».
VYGOTSKIS E LA ZONA DI SVILUPPO PROSSIMALE. Lev Semènovic Vygotskij (1896-1934) è uno psicologo russo che ha
esercitato una vasta influenza sulla psicopedagogia occidentale, nonostante le difficoltà che hanno accompagnato la diffusione
delle sue opere. La prematura scomparsa a soli trentotto anni e la messa al bando di quelle opere in epoca stalinista, hanno fatto
sì che il suo pensiero fortemente innovativo sia stato conosciuto solo negli anni sessanta, grazie a Bruner.
Per Vygotskij lo sviluppo dell'intelligenza del bambino è fortemente legato alle influenze dell'ambiente sociale, come
mostrano le osservazioni sui ritardi cognitivi dei bambini "istituzionalizzati", negli orfanotrofi ad esempio, rispetto ai loro
coetanei cresciuti in un ambiente familiare. I primi sono abbandonati in un contesto relazionale più povero di stimolazioni
sensoriali e di scambi verbali rispetto ai secondi. Il gioco, l'immaginazione e la creatività hanno in questo processo una grande
importanza, ma un ruolo fondamentale è svolto dalle interazioni verbali.
Nella sua opera più nota, Pensiero e linguaggio, pubblicata postuma nel 1934, sostiene che pensiero e linguaggio hanno diverse
radici genetiche e si sviluppano lungo linee differenti e tra loro indipendenti; pertanto nel bambino molto piccolo vi è:
1. una fase prelinguistica nello sviluppo del pensiero, nel momento in cui il bambino compie gesti o azioni che non
comportano una verbalizzazione a livello mentale;
2. una fase preintellettuale nello sviluppo del linguaggio, quando egli balbetta, emette suoni e gridolini.
Le due funzioni del linguaggio, quella emotiva (dolore, paura, gioia) e quella sociale (le relazioni che nascono a partire dal
riconoscimento della voce umana) si manifestano in forma elementare già nel primo anno di vita, mentre nel secondo anno
avviene il cambiamento più rilevante: «le curve dello sviluppo del pensiero e del linguaggio si incontrano e si uniscono per dare
inizio a una nuova forma di comportamento (...) il pensiero diventa verbale e il linguaggio diventa razionale».
A Vygotskij si deve il concetto di zona di sviluppo prossimale. gli distingue la zona di sviluppo attuale, cioè il livello
intellettuale del bambino in un dato momento, dal suo livello di sviluppo potenziale, al quale può giungere mediante un aiuto
o un sostegno esterno: la zona di sviluppo prossimale è lo spazio tra i due livelli e indica che anche l'apprendimento ha una
forte valenza socioculturale. Se il bambino viene opportunamente stimolato, per esempio con problemi che non può risolvere da
solo, ma per i quali necessita di una guida esterna, egli apprende nuove conoscenze e modalità di ragionamento, e il suo livello
di sviluppo acquisisce una parte della zona di sviluppo prossimale.
Decisivo, in questo processo, è il ruolo dell'insegnamento che:
stimola lo sviluppo mentale;
favorisce l'organizzazione dei concetti in una struttura;
produce nuove capacità.
9.9 TEORIE E METODI IN PEDAGOGIA
Negli ultimi decenni del Novecento e nei primi anni Duemila i processi di insegnamento-apprendimento, soprattutto all'interno
delle istituzioni scolastiche, hanno conosciuto novità rilevanti. Vi ha contribuito una molteplicità di cause, tra cui le spinte
provenienti dal mondo economico, le innovazioni tecnologiche e i progressi delle scienze dell'educazione.
Quello di capitale umano è un concetto introdotto nel 1962 da Gary. Ma che cosa è esattamente il capitale umano? In termini
generali potremmo definirlo come il patrimonio di abilità, capacità tecniche e conoscenze di cui sono dotati gli individui (vi
sono incluse forza fisica, resistenza alla fatica, abilità manuale, capacità di comunicare). Nell'attuale contesto tecnologico la
caratteristica più importante del capitale umano è data dal patrimonio di conoscenze, cioè dal bagaglio culturale, dalla
specializzazione, dalla capacità di eseguire compiti complessi e di lavorare con tecnologie sofisticate.
Almeno tre sono le dimensioni della conoscenza oggi indispensabili:
1. possesso delle elementari competenze linguistiche, di analisi quantitativa e in generale della capacità di elaborare
l'informazione e di utilizzarla nella soluzione di problemi o per apprendere;
2. capacità di operare con particolari tecnologie o di condurre particolari processi produttivi;
3. conoscenza scientifica, la capacità di utilizzare con pienezza un corpo organizzato di conoscenze in un campo che
può essere rilevante per l' avanzamento tecnologico.
Tutto ciò costituisce un capitale immateriale da investire per finalità sia individuali che sociali. Parlare di capitale umano
significa in effetti parlare di sistema scolastico e il sistema scolastico rappresenta proprio la fabbrica del capitale umano.
Questo è un punto di vista suggestivo, sorretto da valide argomentazioni, che definisce l'istruzione una risorsa strategica per la
crescita economica. Tuttavia alcuni studiosi sono giunti a considerare la scuola come un'azienda, forzando sia il ruolo formativo
della scuola sia la funzione produttiva dell'azienda.
LA PROGRAMMAZIONE EDUCATIVA E DIDATTICA. Le scienze dell'educazione e il mondo della scuola non sono rimasti
estranei a questi fermenti, sfociati in forme diverse di programmazione educativa e didattica. Alcuni punti fermi dell'attivismo
pedagogico sono stati tradotti in una sorta di “apprendimento personalizzato” che persegue il successo formativo di ogni
studente mediante strategie personalizzate non solo nei metodi ma anche negli obiettivi.
Una programmazione educativa e didattica prende l'avvio con una fase diagnostica volta all'accertamento dei prerequisiti
posseduti dallo studente, cioè della sua condizione iniziale in una o più discipline, in termini di conoscenze, competenze,
esperienze, tempi e modi di apprendimento. Questo punto di partenza aiuta a definire gli obiettivi didattici che è possibile
raggiungere, cioè il punto di arrivo; il percorso che separa l'uno dall'altro va precisato in una o più sequenze (per esempio, unità
didattiche) scandite nei contenuti, tempi, materiali didattici, nelle attività di insegnamento e nella valutazione.
Le prove di verifica e di valutazione dell'apprendimento acquistano grande rilievo: prima della valutazione "sommativa",
finale, si ricorre alla valutazione "formativa", cioè ad accertamenti svolti in itinere per evidenziare le criticità di apprendimento
di ciascuno e per porvi rimedio. Questa sequenza, molto generale, è stata di volta in volta arricchita e modificata da studiosi
diversi e dagli stessi insegnanti, ferma restando la volontà di fondo: personalizzare i processi di insegnamento-apprendimento.
È un'impostazione più vicina al concetto anglosassone di "curriculum" che alla pratica del "programma" indicato dall'alto.
Il programma è un documento nel quale le autorità preposte indicano gli obiettivi didattici che vanno raggiunti da tutti gli
studenti, senza tener conto delle loro personali specificità, in un procedimento top-down, dall'alto verso il basso. La
programmazione invece muove dal basso verso l'alto (bottom-up).
IL MASTERY LEARNING. Con il Mastery learning (apprendimento per la padronanza) siamo nel campo di una serie di
modelli didattici ai quali hanno dedicato la loro attenzione numerosi studiosi. I contributi più noti si devono soprattutto a
Benjamin S. Bloom, che fin dagli cinquanta del Novecento ha elaborato una tassonomia (classificazione) di obiettivi educativi
relativi all'area:
cognitiva (conoscenze, capacità, espressione);
affettiva (interesse, impegno, partecipazione);
psicomotoria (movimenti, percezione, comunicazione non verbale).
La tassonomia di Bloom ha avuto grande diffusione tra gli insegnanti per la sua ampiezza: vi si trovano obiettivi riferiti alla
sfera cognitiva del discente, a quella emotiva e socio-relazionale, a quella dell'espressione motoria. L'importanza di disporre di
una buona tassonomia di obiettivi educativi e didattici consente non solo un'adeguata personalizzazione dell'apprendimento,
ma si riflette anche sulle modalità di verifica e di valutazione dell'apprendimento stesso e quindi del lavoro dell'insegnante.
Più gli obiettivi sono generici, più difficile risulta la verifica del loro raggiungimento, con il rischio di valutazioni contaminate
da preferenze personali.
La psicologia sociale definisce "effetto Pigmalione" il fenomeno per cui le aspettative positive o negative di un insegnante nei
confronti di uno studente influenzano, in positivo o in negativo, il suo apprendimento: il ragazzo che riceve gratificazioni,
sostegno e incoraggiamento sarà più stimolato a impegnarsi, rispetto a un altro che avverta l'indifferenza del docente.
Una corretta definizione degli obiettivi aiuta a superare le valutazioni personali dell'apprendimento realizzato e, sul piano
dell'insegnamento, consente al docente di verificare e valutare i suoi stessi metodi.
COOPERATIVE LEARGING (apprendimento cooperativo). Si tratta di una strategia didattica nata dalle ricerche e dalle
esperienze di diversi studiosi, soprattutto anglosassoni. James H. Block ha sottolineato come la personalizzazione
dell'apprendimento sia favorita dal lavoro degli studenti in piccoli gruppi, nei quali la dimensione sociale e collaborativa esalta
l'impegno e il contributo del singolo. Ciò:
garantisce un' interazione positiva faccia a faccia nei gruppi;
crea le condizioni perché si stabilisca un'interdipendenza positiva;
promuove competenze cognitive e socio-relazionali.
Si esalta così il protagonismo degli studenti, la loro partecipazione attiva, il ricorso al peer tutoring, cioè all'assistenza e
collaborazione tra pari (un' eco dell'antico mutuo insegnamento), mentre l'insegnante diviene «progettista e regista dei percorsi
didattici, che sostiene, monitora, sollecita la rielaborazione delle esperienze condotte».
LE TECNOLOGIE DELL'INFORMAZIONE E DELLA COMUNICAZIONE. Numerose sono le iniziative di apprendimento
cooperativo condotte mediante l'uso delle TIC. Il ricorso ad esse per la semplice "trasmissione della conoscenza" rappresenta
una sorta di "grado iniziale" a fronte delle grandi possibilità che offrono: è anche vero che aumentano le modalità di
comunicazione e la quantità di informazioni, ma si resta pur sempre all'interno di un paradigma trasmissivo, per quanto
tecnologicamente manipolato.
Il passo successivo è rappresentato dalla formazione di "comunità di apprendimento online” nelle quali, a partire dagli stimoli
proposti da un docente e con l'assistenza di figure tutoriali appositamente formate, gli studenti interagiscono tra loro, si
scambiano materiali didattici, problemi, informazioni, dando vita a un lavoro di gruppo tra soggetti fisicamente lontani: l'aula
tradizionale è sostituita da quella virtuale e l'apprendimento si costruisce nell'interazione e nella cooperazione.
Le esperienze più recenti puntano sulla costruzione della conoscenza secondo un modello costruttivista socioculturale che ha
come riferimenti l'apprendimento cooperativo, il problem solving, l'e-learning; è il caso dalla KBC (Knowledge Building
Community, comunità di costruzione della conoscenza) proposta da docenti dell'Università di Toronto.
PROFESSIONE DOCENTE. Solo gli anni a venire diranno se il processo di insegnamento-apprendimento, per come si è
consolidato nel corso del tempo, sarà superato dal modello costruttivista socioculturale o da altri paradigmi dei quali per ora è
difficile intravedere i profili. Quel che è certo è che la professionalità docente, le conoscenze e le competenze che la sostanziano,
hanno conosciuto negli ultimi decenni novità rilevanti.
È ormai abbastanza diffusa la convinzione che alla professionalità docente concorrono due aree distinte, strettamente
interconnesse:
1. saperi disciplinari→ discipline di cui il docente è titolare, per l'ovvia considerazione che non può insegnare la
matematica, o qualsiasi altra materia scolastica, chi non la conosca a fondo;
2. saperi professionali→ la competenza disciplinare è condizione necessaria ma non sufficiente, se mancano adeguate
conoscenze in scienze dell'educazione. Non è dimostrato che il più brillante laureato in matematica sappia per ciò
stesso insegnarla. Si definiscono saperi "professionali" in quanto sono specifici della professionalità docente, o
"tra-sversali" in quanto interessano tutte le materie di insegnamento.
Aldo Visalberghi (1986) ha proposto una sintesi delle acquisizioni più consolidate nel dibattito pedagogico internazionale in
merito alle competenze dell'educatore, e in particolare dell'insegnante, distinguendole in quattro aree:
1. la conoscenza della materia, cioè le conoscenze disciplinari;
2. la conoscenza dell'allievo la cui necessità viene ricondotta a Rousseau e alla faticosa tradizione di pensiero giunta
fino all'attivismo pedagogico. Le ricerche in psicopedagogia hanno arricchito con dovizia di conferme questa
impostazione pedagogica e hanno dimostrato che il rapporto educativo, lungi dall' essere "monodirezionale"
(dall'educatore all'educando), ha una natura "relazionale a due vie" (educatore-educando e viceversa);
3. la conoscenza della società nella quale si svolgono il processo di insegnamento-apprendimento e la relazione tra
docente e allievo;
4. la conoscenza dei metodi, intesa come congruità delle modalità di insegnamento agli obiettivi da raggiungere, sulla
quale Pestalozzi aveva richiamato l'attenzione.
Altri studiosi hanno proposto proprie indicazioni sulle competenze della professionalità docente:
Gaston Mialaret la pone al punto di confluenza di una ricca elaborazione del concetto stesso di educazione, del suo
ampliarsi al quadro delle scienze dell'educazione, dei fattori e dei soggetti che influenzano i processi educativi;
Gilbert L. De Landsheere si è soffermato sulle interazioni verbali e non verbali all'interno della classe;
Philippe Meirieu riconosce nel lavoro dell'insegnante una forte valenza sociale per la crescita culturale dei soggetti
più deboli, da perseguire mediante una formazione docente basata sulle scienze dell'educazione;
Philippe Perrenoud ha teorizzato Dieci nuove competenze per insegnare (2002), dall'organizzare e animare le
situazioni di apprendimento alla cura per la propria formazione continua.
Da molti è stata sottolineata l'importanza delle competenze relazionali che rappresentano un requisito indispensabile della
professionalità docente, da sempre alle prese con le tradizionali componenti della vita scolastica: studenti e famiglie, insegnanti
e dirigenti. La progressiva apertura della scuola all'extrascuola ha accresciuto il numero e la varietà degli interlocutori:
amministratori locali, responsabili di centri e associazioni culturali, esperti ecc.
Su questo versante la competenza relazionale è certamente necessaria, considerato che al docente si chiede di allargare il
proprio orizzonte operativo al di fuori delle aule e delle mura scolastiche; di ideare, programmare e organizzare progetti
culturali, guidare comunità di apprendimento online, coordinando il lavoro degli studenti e dei tutor: si chiede di essere aperto
al cambiamento.
Altri studiosi hanno proposto altri modelli di professionalità docente:
a. Donald Schön ha elaborato il paradigma dell'insegnante come professionista riflessivo che non si limita allo
svolgimento delle proprie funzioni didattiche, ma le assume come oggetto di osservazione e riflessione per trarne a
sua volta spunti e insegnamenti;
b. Howard Gardner è il teorico delle intelligenze multiple di cui l'insegnante deve esserne consapevole e acquisire le
competenze che gli consentano di ricondurle tutte all'interno di un processo di insegnamento-apprendimento;
c. Carl Rogers ha elaborato il modello del docente facilitatore dell'apprendimento. A suo avviso la funzione del
docente deve essere centrata sull'alunno, nutrita di condivisione, empatia, capacità dell'insegnante di porsi dal
punto di vista del discente senza perdere di vista gli obiettivi educativi ai quali deve condurlo;
d. Lawrence Stenhouse pensa a un docente dalla "professionalità estesa", un docente "ricercatore", a partire dal rifiuto
dell'insegnamento volto esclusivamente all'acquisizione di comportamenti pratici o di abilità strumentali. Propone
una programmazione per principi procedurali che, muovendo dagli interessi dello studente, sviluppi in lui
modalità di riflessione e ragionamento, favorisca il senso critico e la capacità di cogliere relazioni, rapporti e nodi
concettuali, che sia svincolata dal criterio dell'utilità pratica.
In ordine alla formazione degli insegnanti la situazione italiana registra, purtroppo, pesanti ritardi. Fino alla fine del Novecento
per insegnare nella scuola dell'infanzia e in quella elementare erano sufficienti rispettivamente tre anni di Scuola magistrale e
quattro anni di Istituto magistrale; per la scuola secondaria di primo e secondo grado era richiesta solo la laurea nel settore
disciplinare (lettere, storia e filosofia, matematica ecc.) nel quale si desiderava insegnare. Si trattava di un impianto formativo
risalente alla filosofia gentiliana e, in parte, alla sua stessa normativa: l'Istituto magistrale era stato infatti istituito con la riforma
Gentile del 1923, e che la laurea fosse condizione necessaria e sufficiente per insegnare nella scuola secondaria, era un principio
presente già nella legge Casati del 1859, al quale Gentile ha poi dato una veste filosofica.
Solo all'alba del nuovo millennio, quasi ottant'anni dopo la riforma Gentile, è stata introdotta la formazione universitaria dei
docenti:
per l'insegnamento nella scuola dell'infanzia e nella scuola elementare nell'anno accademico 1998-99 è stato attivato
il corso di laurea in Scienze della formazione prima-ria, articolato in due indirizzi, di durata quadriennale
(divenuto quinquennale nel 2010;
per la scuola media e la secondaria nell'anno successivo è nata la scuola di specializzazione all'insegnamento
secondario (SSIS) di durata biennale, ovviamente post lauream (interrotto e sostituito da un percorso diverso sempre
nel 2010).
Sia il corso di laurea che la scuola di specializzazione erano a numero programmato e prevedevano l'assunzione in ruolo solo
tramite concorso. Il loro impianto formativo era aggiornato alle più recenti acquisizioni della ricerca sulla professionalità
docente, con adeguato spazio alle conoscenze disciplinari, ai saperi in scienze dell'educazione, ai laboratori didattici e
soprattutto al tirocinio, progettuale e monitorato.
Era la prima volta che il nostro Paese si dotava di moderni percorsi per formare i propri insegnanti, una condizione necessaria
per mettere in sequenza formazione e reclutamento del personale docente e per sanare la triste piaga del precariato.