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Solution Manual For Mechanism Design Analysis and Synthesis 4 e 4th Edition Arthur G Erdman George N Sandor Sridhar Kota
Solution Manual For Mechanism Design Analysis and Synthesis 4 e 4th Edition Arthur G Erdman George N Sandor Sridhar Kota
Solution Manual For Mechanism Design Analysis and Synthesis 4 e 4th Edition Arthur G Erdman George N Sandor Sridhar Kota
Erdm
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E chi ci dirà che la precipua causa del poco bene scriver nostro e del
non farci leggere sia lo scarso studio della filosofia, ci parrà uomo
che nell’arte sa elevarsi dai canoni consueti della scuola.
Dalle meschinità di Francesco Soave uffizialmente adottate, l’Italia
era stata buttata nel sensismo vulgare di Condillac, benchè serj
filosofi il combattessero; come il Gerdil, che sostenne non poter
l’idea dell’ente derivare dai sensi, eppure essere idea formata; il
Falletti, che al canone della sensazione surrogò il leibniziano della
ragione sufficiente e la generale idea dell’essere, dedotta dal me
pensante; il Draghetti, che divisò una più compiuta dottrina sulle
facoltà dell’anima, fondandola sopra l’istinto morale e sopra la
ragione; il Miceli che, ripulsando l’Ontologia di Wolf, prevenne
Schelling nel divisamento di un nuovo sistema delle scienze. Il padre
Pino (1779-1823), nella Protologia, il principio e il fondamento d’una
scienza universale trova nella natura divina, sorgente della ragione
umana, ch’è distinta dai sensi; è una e identica in tutti gli atti del
pensiero: ma a malgrado di quest’unità, noi siamo il soggetto e
l’oggetto dell’intelligenza, e lo spirito intelligente che in Dio cerca la
causa e il modello. Ogni luce e verità proviene da Dio; e la natura
divina, cioè il dogma della Trinità, si riflette necessariamente in tutti
gli oggetti che noi conosciamo, e diviene la base di tutte le scienze e
della morale. Con ciò opponevasi all’incredulità irruente e alle inezie
condiliachiane, e preveniva De Maistre e Donald nel professare che
la parola non potè che essere rivelata. Al tempo stesso Palmieri e
Carli combattevano le conseguenze del sensismo nella religione e
nel diritto pubblico. Anche Pietro Tamburini bresciano (1737-1827),
ripudiando il sensismo e la morale dell’interesse, traeva
l’obbligazione morale dal bisogno della perfezione, pur confutando il
progresso indefinito di Condorcet. Meno ascoltati, non impedirono
che a braccia aperte si accettasse da noi la gretta ideologia del
Tracy, cui il traduttore Compagnoni aggiunse un catechismo morale,
prettamente empirico.
Così il sensismo si diffuse: e la sensazione essere l’idea fu
sostenuto dal pseudo Lalebasque (Pasquale Borelli) nella
Genealogia del pensiero. Pasquale Galuppi di Tropea (1770-1846),
pur tenendosi alla filosofia sperimentale, diverge dai puri sensisti in
quanto, cogli elementi objettivi della cognizione ammette anche lo
spirito umano, che meditando ascende dal condizionale all’assoluto
in forza dell’intuizione mediata del raziocinio stabilito sulle nozioni.
Scrittore scorrettissimo e tutto infranciosato, pure chiaro, senza
formalismo nè pedanterie, senza abbaruffamenti, e con aria di una
persuasione dabbene e il tono d’amichevole maestro, si fece leggere
più d’altri che di gran lunga il superavano; divulgò l’analisi
psicologica della scuola scozzese; diede a conoscere la tedesca,
poco conoscendola egli stesso; alle empiriche formole
condiliachiane surrogò il linguaggio della scienza moderna,
impastandola fra Locke e Reid. Ammette verità primitive di sperienza
interna; non procedenti da mero empirismo o dai principj a priori di
Kant, bensì dalla subjettività stessa dello spirito, come sue leggi
originali. L’ontologia confonde colla psicologia: mal procede nella
logica; della filosofia, «scienza del pensiero umano», non scorge le
attinenze colla morale, colla politica, coll’economia pubblica.
Nell’estetica è affatto gretto: nella dottrina morale ammette giudizj
pratici a priori, qual sarebbe l’imperativo Fa il dovere; e colloca la
legge morale nella retta ragione che dirige la volontà al nostro ben
essere, indicandoci quali atti possono produrre o impedire la felicità.
Nel suo paese Mancini e Tedeschi vacillarono nell’eclettismo;
Winspeare giureconsulto espose le teoriche di Kant, ma serbando
venerazione per Reid, e in lontananza per Leibniz; De Grazia (Sulla
realtà della scienza umana) sta fedele a Locke, pur attento ad
ovviare le conseguenze del sensismo, e lasciava all’intimo senso il
giudicare inappellabilmente la verità del metodo sperimentale,
svincolata dal razionalismo.
Le teorie che Giuseppe De Maistre oppose alla filosofia sensista e
alla storia enciclopedistica, parvero eccessive, e si tentò conciliare
l’esperienza colla ragione, quasi soltanto dal loro accordo possa
venire un accettabile sistema [264]. Con questo si scivolò in un
eclettismo, pel quale Cousin non trovava ne’ nostri che un gretto
raccogliere di ciò che i Francesi hanno già repudiato [265]; mentre
Baldassare Poli volle rionorare la scuola italiana, seguendone le
traccie attraverso ai secoli fino a noi, e correggendo l’eclettismo in
modo che non si limiti a scernere ciò che v’ha di vero nei discordanti
sistemi, ma metta in relazione fra loro i due supremi principj
dell’empirismo e del razionalismo.
Per Terenzio Mamiani pesarese, sbrigliatosi dalle tradizioni religiose
e dal formalismo scolastico, Filosofia è storia naturale dell’intelletto,
e suo uffizio lo studio de’ metodi antichi; attesochè il metodo sia
tutto, e ogni riforma nasca dal suo cangiamento; la scienza non sia
che la verità metodica, e ogni discussione filosofica possa ridursi a
quistione di metodo. Il tempo, cioè lo spirito umano, fa sempre una
scelta; e di ciò che v’ha di vero in ciascuno accresce le proprie
ricchezze; il resto porta via. Gli antichi Italiani conobbero il metodo
vero, e chi lo rinnovasse integrerebbe la scienza, da cui si
dedurrebbe che le estreme conclusioni della filosofia razionale
devono coincidere coi dettami del senso comune: e col titolo di
filosofia italiana blandisce la boria patriotica: ma avvi nazionalità
nella filosofia, cioè nella ricerca del vero?
In questo ristauramento del passato il padre Gioachino Ventura
siciliano (-1861), all’opposto resuscita la scolastica per innestare la
filosofia sulla rivelazione; mostra il valore del sillogismo e i meriti di
san Tommaso, al quale s’appoggia per sostenere che la ragione
abbandonata a sè è bensì dimostrativa, ma non inventiva, e nessuna
verità può trovare, neppure l’esistenza di Dio. Nè però nega all’uomo
la ragione, ma ne fa un’esistenza sostanziale, che ogni verità trae
dalla ragione di Dio; sicchè, ammettendo un principio solo di
conoscenza e per ciò una sola sostanza, cadrebbe nel panteismo se
la fede nol rattenesse. Perocchè la filosofia cristiana sempre ammise
due principj di conoscimento, la rivelazione e la ragione, essendo
necessario discernere essenzialmente lo spirito dalla materia,
l’individuo dalla specie, la specie da Dio.
Posto il qual canone, fa stupore come la taccia di panteismo si
lancino a vicenda i due grandi filosofi cattolici. L’abate Antonio
Rosmini di Rovereto (1797-1835) con logica irresistibile abbatte i
sistemi dei precedenti, i quali, nel ricercare l’origine delle nozioni che
sono indispensabili per formare un giudizio, o troppo negano o
troppo suppongono; e dimostra che non è necessario ammettere
d’innato se non l’idea della possibilità dell’ente, la quale, unita alla
sensazione, basta a produrre le altre, e l’intelletto è quel lume della
ragione pel cui mezzo arriva a conoscere. Pensare è sentire,
dicevano i sensisti: pensare è giudicare, dice Rosmini; e comincia a
distinguere nella conoscenza umana il materiale dal formale. Materia
della cognizione sono soltanto gl’individui sussistenti d’una specie:
ma la sussistenza non è conoscibile per sè, non entra nell’intelletto;
mentre oggetto di questo non è che l’idea, la specie. La sussistenza
viene percepita con un atto essenzialmente diverso da quello onde
s’intuisce la specie; con un atto che per sè non è cognizione,
attesochè un’azione dei corpi sopra di noi produce impressione ma
non cognizione. Se poi alla percezione degli oggetti esterni noi
applichiamo l’intuizione dell’idea che è in noi, diciamo che quella è la
realizzazione di questa; e per tal modo la percezione diviene
intellettiva. Quest’atto non è una semplice intuizione dell’idea; bensì
un giudizio, un’affermazione che ci fa persuasi della realtà d’un ente,
il quale corrisponde all’oggetto intellettivo da noi intuito. Tutte le
qualità delle cose hanno la loro idea, e perciò appartengono alla
cognizione pura e formale; solo la sussistenza è estrania alla
conoscenza, e ne costituisce la materia.
Così ridotta la cognizione alle pure idee, ai possibili, alle essenze,
egli paragona le idee fra loro, e vede che le più determinate
rientrano sempre nelle meno determinate, sicchè, distribuendo le più
particolari e molteplici prima, poi le meno particolari e meno
numerose, via via si giunge a un’idea prima, che vale per tutte, e che
in tutte si moltiplica mediante differenti determinazioni.
A tal modo coglie l’idea dell’essere possibile indeterminato, come
fonte pura di tutto lo scibile; idea che esiste indipendente dall’uomo e
da ogni realtà. Se l’uomo consideri tutte le cose sussistenti e da lui
conosciute, s’accorge che in esse non trovasi nulla di ciò che si
chiama la conoscenza. Eppure la conoscenza vi è, perocchè egli
conosce. Quest’è segno che sono cose affatto distinte la
conoscenza e la sussistenza; e la prima è una forma di essere, in
opposizione alla sussistenza. Non può dunque formarsi da nessuna
delle sussistenze cognite, nè dal mondo materiale, nè dall’anima, ma
procede da qualche altro principio, la cui essenza mantiene tale
opposizione a tutto ciò che esiste. Tale principio, che non è sostanza
reale nè accidente, è l’ente intelligibile, la possibilità delle cose,
l’idea; principio che si raggiunge ancora più col contemplare che col
ragionare.
Questa prima percezione dell’ente, intuíto in universale, non
possono neppure gli scettici dubitarla illusione; onde è fondamento
della certezza, e genera la cognizione dei corpi, di noi, di Dio, della
legge morale, il nesso del mondo ideale col reale, della vita teoretica
e speculativa colla pratica. Sommo teorico del pensiero, sebbene usi
una lingua pulitamente stentata, e più prolissa che non converrebbe
a quell’irrepugnabile argomentare; e sebbene l’insistente dialettica,
specialmente nella confutazione, sappia di cavillo, nuovo movimento
impresse al pensiero filosofico, tolto dalle angustie dell’empirismo, e
diretto ad abbattere il mondo della sofistica e dell’errore, per elevare
il mondo della scienza e della verità. Indipendente di atti e di
pensare, coerente nelle opere come nei principj, il ricco patrimonio
erogava in opere pie e nel sorreggere i Sacerdoti della Carità
(-1854), da lui istituiti per formare buoni ministri dell’altare.
Pure la vita eragli stata amareggiata da contrarietà, non solo per
parte de’ materialisti ch’egli bersagliò in Gioja, Foscolo, Romagnosi,
ma anche de’ religiosi, dai quali fu promosso avanti al pubblico un
attacco d’inverecondi improperj, e avanti alla Congregazione
dell’Indice un’accusa di errori teologici, ma la suprema autorità lo
mandò irreprovato.
Suo antagonista il torinese Gioberti (1801-52) asseriva «che al dì
d’oggi in Europa non v’ha più filosofi», colpa del metodo psicologico,
al quale vuol sostituire l’ontologico di Leibniz, Malebranche, Vico;
ultimi filosofi, la cui via fu guasta da Cartesio, «nuovo Lutero, che
all’autorità cattolica surrogò il libero esame». Poichè questa ricerca
dell’ente mena difilato al panteismo, sia l’ontologico che confonde il
reale infinito col possibile, sia il cosmologico che immedesima Iddio
col creato, Rosmini avea voluto garantirsene coll’asserire che
l’intelletto non intuisce l’ente reale ma il possibile; Gioberti accetta
l’idea dell’ente come primo psicologico, ma crede repugni il dedurre
il concetto di realtà da quello di possibilità, e che precipita nel
panteismo il supporre che questo esista senza di quello. Li distingue
dunque per mezzo dell’atto creativo, mediante la formola L’ente crea
l’esistente.
Questa formola è il primo filosofico, che comprende il primo
psicologico e il primo ontologico, vale a dire la prima idea e il primo
ente. Toglie dunque, nell’intuizione dell’assoluto, ogni intermedio fra
lo spirito creato e l’ente in cui stanno objettivamente tutte le idee, e
vuole che l’intuizione dello spirito umano sia nell’ente divino, ideale,
reale, creante; mentre Rosmini fa l’intuizione per sua natura ideale, e
il reale colloca come scopo del sentimento: laonde lo spirito nostro
non intuisce direttamente Dio; l’idea dell’ente, rappresentandogli
l’essere come possibile e universale, non gli discerne il necessario
dal contingente, mentre il sentimento della realità divina appartiene
ad uno stato soprannaturale. Se in Rosmini l’ente è possibile e
indeterminato, in Gioberti è reale e creante; perocchè, in quella sua
proposizione egli avvisa nel primo membro una realità assoluta e
necessaria, nell’ultimo una contingente, e vincolo tra essi la
creazione, atto positivo e reale, ma libero. Ecco tre realtà
indipendenti dallo spirito nostro; ecco affermati il principio di
sostanza, quel di causa, l’origine delle nozioni trascendenti, e la
realtà objettiva del mondo esterno. Da quella deduce egli l’intera
enciclopedia, divisa in tre rami; filosofia o conoscenza
dell’intelligibile, fisica e matematica. La prima appartiene all’essere,
la seconda all’esistenza, la terza alla copula, cioè al creato. Viene
poi la teologia rivelata, dov’è l’ente che redime l’esistente.
È un tentativo di ricondurre all’ontologia gli spiriti, traviati dall’analisi
psicologica, ripristinando la scienza in opposizione alle scuole
tedesche, vergenti al panteismo. Ma Gioberti, declamando
incessante contro i psicologi, ingombrò la dottrina con metafore e
tono oratorio, con parole artificiosamente inintelligibili e sinonimi in
mancanza d’idea precisa; con neologismi inutili e formole nuove
indossate a idee anche comuni, mentre gli studj speculativi vogliono
elocuzione chiara, precisa. Il razionalismo combattendo in Lutero
che scosse l’autorità della Chiesa, in Cartesio che sconficcò
l’infallibilità della Bibbia, in Kant che annichilò la validità della
metafisica cristiana, ripone l’essenza del cattolicismo nel riconoscere
l’assoluta sovranità della Chiesa nel definire il vero morale e
religioso: sovranità che si annichila col negarne anche una minima
parte. Lo avesse egli ricordato anche tra l’ardore della polemica,
dove, fatto del vero un mezzo, non un fine, si prostrò davanti ai
proprj equivoci, secondando l’opportunità.
Attorno a Rosmini e Gioberti si dibatterono le capitali quistioni
dell’ontologia, della psicologia, dello scetticismo, del panteismo,
dell’origine ed autenticità delle cognizioni, del valor logico della
dialettica nel conciliare i contrarj, della natura dell’assoluto,
dell’ideale, del reale, degli universali, del primo enciclopedico che
spiega l’universo. Conciliava i due sistemi onde raggiungere la
sintesi che meglio giovi alla vita individuale in relazione
coll’universale civiltà. Tentarono Tommaso Mora e Francesco
Lavarino nell’Enciclopedia scientifica (1856), associando l’intuito
dell’ente creato e quel dell’ente possibile non sequestrato dal reale,
in modo che l’ontologia sia reale, ideale, mista, e il filosofo deva
contemplarne tutte le parti, ma non gli sia possibile impossessarsene
senza l’autorità della Chiesa, la quale è l’ontologia stessa fatta
sensibile, e la sola che possa insegnare la realtà oggettiva delle
cose; è il vero principio del mondo scientifico, dove la filosofia non è
che il mezzo. I criterj filosofici usitati sono sempre arbitrarj e gratuiti,
destituiti di valore enciclopedico, il cui supremo valore è quello della
contraddizione: ed essi con logica serrata lo riscontrano attuato in
tutte le cose, da Dio sino all’atomo.
V’ha altri cui viene paura che gli studj dell’ente e quelli dell’idea non
conducano dalle universalità dell’essere alle universalità della
sostanza, dall’unità ideale alla sostanziale, cioè dalla semplice unità
ideale alla negazione delle realtà estrinseche. A tal pericolo si
oppongono gagliardamente i filosofi religiosi, fra’ quali segnaliamo il
gesuita Pianciani (-1876), che dopo avere colla molta sua scienza
fisica commentati i sei giorni della creazione, volle con quella
scienza stessa illustrare la metafisica.
Altri credono che la filosofia abbia fondamento in san Tommaso,
giovata dalle ricerche de’ moderni; e tale è l’opinione del Liberatore,
che i Gesuiti oppongono al Rosmini. Con quest’ultimo accampano
Pestalozza, Curti, Sciolla, Manzoni...; con Gioberti stanno Bertinaria,
Vittorio Mazzini e molti piemontesi. V’ha chi risale a Kant, pur
declinandone gli errori, come Baroli; chi tiensi agli scozzesi, come
Ravizza; Bertini nella Filosofia della vita, deriva la morale dall’amore
disinteressato della bellezza morale degli atti virtuosi: il Centofanti
con vigoria ed ardimento fino nell’erudizione tesse la storia de’
sistemi filosofici.
L’ontologia e le aspirazioni alla scienza assoluta sono combattute da
Giuseppe Ferrari, il quale asserisce che con ciò non si fa che
duplicare i misteri, trasportando la verità prima fuor della certezza
descrittiva; e poichè non è data all’uomo che la descrizione, facile
riesce abbattere i sistemi ontologici e, confutati questi, sembrano
distrutti anche i fatti che essi spiegavano. Passaggio matematico
non v’ha dall’ente ai fenomeni, dall’uno al vario, dalla sostanza alla
creazione; sicchè fra tali ricerche la ragione isterilisce nel dubbio,
mentre dovrebbe limitarsi alla descrizione de’ fenomeni, ripudiando
come impossibile ogni dimostrazione di là dai limiti della certezza
vulgare. Neppur alla morale dà fondamento l’ontologia, avvegnachè
la virtù è una poesia, la morale un irresistibile impulso del cuore, la
libertà e la responsabilità un fatto di coscienza, inseparabile dalla
moralità e inesplicabile come questa [266]. Con Ausonio Franchi
proclama i diritti della ragion pura, e che sol dopo ottenuta la libertà
del pensiero potrà conseguirsi la libertà degli atti; sicchè è mestieri
distruggere dogmi se vogliasi arrivare al riscatto politico della
nazione.
Queste divergenze accertano il bisogno di dare un fondamento alla
filosofia, la quale più non s’isfrivolisce coll’acquisto individuale di
idee e di cognizioni, ma ricorre all’universalità, o chiamisi senso
comune, o idea innata, o forme universali, o spontaneità della
ragione, o indaghi nel linguaggio i depositi della comune, la sintesi
dell’umanità; certo però collo spirito negativo non risolverà i grandi
problemi della natura e della civiltà, nè ripristinerà nell’uomo
l’immagine divina.
La filosofia sensista aveva avuto rinfianco da Melchior Gioja prete
piacentino (1767-1829), che buttatosi alla repubblica, parve
eccessivo fino ai demagoghi; poi dal Governo italiano fu destinato a
coordinare le statistiche. «Cercare i fatti, vedere quel che ne risulti,
ecco la filosofia», diceva egli: «le scienze non sono che risultanze di
fatti, concatenati in modo che facile ne sia l’intelligenza, e tenace la
ricordanza»; umile uffizio per una scienza! Conseguente al quale,
raccolse fatti sconnessi e neppur provati, e fenomeni disgiunti dalla
propria causa; e pretendeva dedurne verità generali. Così diede una
filosofia e una scienza sociale affatto vulgare, dove spesso sagrifica
la verità al sistematico spirito di contraddizione, al gusto di celiare e
diffondere il dubbio. Per rendere quasi visibili le teorie, e offrire
simultaneo ciò che nel discorso è successivo, moltiplicava i quadri
sinottici, solo metodo, secondo lui, per «provare qualche cosa in
morale ed in economia, rinvigorire le idee col mezzo della
sensazione, e avere un esatto confronto dei diversi elementi». Ma
questo formolare stanca l’attenzione, e aggrava la memoria di
particolari, a scapito degli universali.
La tirannide amministrativa non ebbe campione più risoluto di lui,
che domanda una direzione dispotica sopra l’esercizio delle arti e le
professioni, e privilegi, tariffe, corporazioni; si scandalizza di Smith
che disse, le passioni private abbandonate a se stesse tendere al
pubblico bene; riduce tutta la grandezza nello Stato, tutte le cure allo
sviluppare la forza amministrativa [267]; all’esperienza, alla libertà,
alla dignità umana surroga decreti che guidino o frenino questo
pazzo imbecille che è l’uomo, non esitando a introdurre l’occhio della
Polizia fin nel sacrario domestico per valutare il merito e le
ricompense, le ingiurie e i danni. Ma nel cercare le soddisfazioni
dell’ingiuria cambia spesso di criterio; spesso lo desume dagli
accidenti della natura umana, anzichè dalle sue leggi costanti e
universali, o dal risentimento che nell’uomo nasce da passioni
disordinate. Non crede la moneta possa servire di misura ai valori,
nè che convenga al solo argento conservare la funzione di
moneta [268]; combatte i Fisiocratici dove prendono la terra per unica
sorgente della ricchezza, ma sconobbe l’ampiezza della dottrina di
Beccaria e di Smith che la fanno nascere dal lavoro; delle politiche
istituzioni non si diè briga, nè del nesso fra l’economia e la
legislazione, nè delle finanze. Oltre la produzione e la distribuzione
delle ricchezze, tratta anche della consumazione: ma volge il dorso
alle moltitudini, della poveraglia non tratta, antepone i grossi
manifatturieri ai minuti, i grandi possessi ai frazionati; si sgomentò
della libertà di commercio e dell’aprirsi del porto di Odessa che
svilirebbe le mercedi e porterebbe il pane a buon mercato, e loda
l’Inghilterra che proibiva l’introduzione dei grani, cioè condannava
molti a morire di fame [269]; le tariffe considerava come «mezzo di
difesa dell’industria nazionale contro una concorrenza più
potente» [270], ed esclama: — La libera importazione equivale a
diminuzione de’ prezzi; diminuzione de’ prezzi equivale a
diminuzione dei capitali della classe agricola; diminuzione di capitale
in quella equivale a scarsezza o mancanza di mercedi; scarsezza o
mancanza di mercedi equivale ad impotenza a comprare il pane a
basso prezzo».
Abbiatelo a saggio del formulario matematico che indossava alle sue
idee, per cui la felicità definiva il numero delle sensazioni gradevoli,
sottrattone quello delle spiacevoli: e nel Merito e Ricompense e
nell’Ingiuria e Danni riduceva a cifre e valore persino i fatti morali; e
con Bentham asseriva che «leggi, diritti, doveri, contratti, delitti, virtù,
non sono che addizioni, sottrazioni, moltipliche, divisioni di piaceri e
dolori, e la legislazione civile e penale non è che l’aritmetica della
sensibilità» [271].
«I mezzi primarj per accrescere la civilizzazione consistono
nell’accrescere l’intensità e il numero de’ bisogni, e la cognizione
degli effetti che li soddisfano [272]. I discorsi al pari delle azioni sono
subordinati alla legge generale del maggior utile e del minor
danno [273]; e una buona digestione val cento anni
d’immortalità» [274]. La speranza di procurarsi i piaceri del lusso è
pungolo potentissimo pel basso popolo, senza del quale egli si
avvicina allo stato d’inerzia, e al vizio che l’accompagna [275]: per
quello la donna si vende; ma l’uomo onde comprarla lavora, e così
sviluppa l’industria, talchè il lusso conduce alla morale. E morale per
lui è la scienza della felicità; la società è un mercato generale, in cui
ciascuno vende le cose sue e i suoi servigi per ricevere gli altrui;
anche quando si rendono servigi in apparenza gratuiti, gli è per
procurarsi un piacere vivissimo, come chi spende per procurarsi un
fuoco d’artifizio [276]. Vuole il divorzio, giacchè l’uomo non può
rispondere de’ suoi affetti futuri; la prostituta ottenga onore qual
ministra di felicità: impudenze che non han tampoco il merito
dell’originalità, essendo levate di pianta da Bentham, dietro al quale
poneva fra i delitti punibili il digiunare, il celibato, il mortificare la
carne; fra le superstizioni il battesimo de’ bambini, la festa degli ulivi,
il sonar le campane ne’ temporali.
Vanto di lui fu la statistica, scienza de’ fatti primarj e attuali, che si
manifestano nei differenti dominj della vita sociale, e che servono di
lume alla pubblica amministrazione, e di computo dei mezzi
nazionali. Accentrati i Governi, dovette diventare importantissima
questa scienza, che però molti riducono ad arte; mentre il suo
creatore Schlözer voleva fosse l’applicazione del proverbio La
pubblicità è il polso della libertà. Il Gioja, col definirla «descrizione
economica delle nazioni», dispensa dal tener calcolo complessivo di
tutte le forze politiche, mediante le quali misurare la vera potenza
intima della società.
Nel Prospetto delle scienze economiche, il quale insomma è raccolta
non di scienza ma di materiali, radunò «sopra ciascun oggetto
d’economia pubblica e privata quanto pensarono gli scrittori,
sancirono i Governi, costumarono i popoli». Poi nella Filosofia della
statistica insegnò a coordinare gli oggetti e i fatti sociali sotto sette
categorie: ma è possibile mai ridurre tutto a numero e misura? è
desiderabile una società, dove si tenga conto d’ogni uovo e d’ogni
pensiero che nasce? Su quel modello molti secondarono la
materialità dell’amministrazione, ove l’uomo non è considerato come
un essere intelligente, ma come macchina da produr denaro.
In fatto ai grandiosi e inquietanti sobbalzi della Rivoluzione
sostituivasi una nuova dottrina, il soddisfacimento degl’interessi, e a
ciò mira l’economia pubblica; ma essa «riveste un’aria di gretta e
tirannica sensualità, nella quale la parte più preziosa della carità e
dignità della specie umana viene dimenticata». Così lamentava Gian
Domenico Romagnosi piacentino (1771-1835), il quale pertanto non
volle considerarla come puro studio della produzione, distribuzione e
consumazione delle ricchezze, ma come l’ordine sociale di queste; e
porla sotto al diritto pubblico, come questo sotto al diritto naturale.
S’accorge egli che «ciò che rende sociale la ricchezza è il
commercio», e disgrada l’inutile ingerenza de’ Governi; ma a ciò lo
conduce piuttosto il buon senso pratico, che una logica deduzione
dalle sue teorie, giacchè anch’egli inciampa allo scoglio comune, e
nel mentre ripete «Lasciate fare, lasciate passare», all’autorità
attribuisce poteri che assorbono la libertà dell’individuo; quasi
fossero necessarj per dare unità, concordia, efficacia alle azioni e ai
voleri singoli: insomma al posto del naturale surroga l’ordine
artifiziale.
Da Wolf, testo filosofico nel collegio Alberoni dov’egli fu educato,
trasse l’unità, la vastità, la concatenazione sistematica, la precisa
distinzione delle idee, la ben determinata terminologia, ma anche un
formalismo faticoso tra il procedimento matematico e
l’argomentazione scolastica. Testa geometrica, faticò tutta la vita ad
armonizzare principj in apparenza repugnanti, l’equità romana e il
formalismo britannico, la virtù di Platone e l’utilità di Bentham, la
giustizia metafisica di Vico e la necessità di Hobbes, l’amministrativa
e l’attività privata, la stabilità e il progresso; coordinamenti troppo
difficili. Romagnosi ripudia francamente il contratto sociale come
base dei diritti e doveri, ma vi surroga una ragione presuntiva, una
volontà generale e sovrana, una legge che tutta la forza deduce da
legge anteriore, qual è il bisogno assoluto del viver sociale; e il diritto
umano e pubblico fonda sulla necessaria tendenza dell’uomo a
cercar il piacere ed evitare il dolore (§ 97) e sulla conseguente
necessità del viver sociale (§ 415); di modo che il diritto deriva dal
complesso degli attributi essenziali dell’uomo e delle relazioni co’
suoi simili, raccolti e tutelati nella convivenza civile, la quale è lo
stato naturale dell’umanità. Ma fuori e prima della società non v’è
nulla; «non esiste una potenza esterna superiore, illuminante l’uomo
sull’ordine dei beni e dei mali, sui beni e i diritti. Dunque ha dovuto
precedere un lungo periodo, nel quale, a forza di milioni di
sperimenti, d’errori, di vicende, l’uomo grezzo e ignorante è passato
bel bello allo stato di ragionevolezza e di lumi. Questo corso si può
considerare come una legge di fatto della di lui natura» [277].
L’uomo dunque senza la società non sarebbe che un bruto, lo che
riconduce alla primitiva bestialità di Rousseau, e a sagrificare
l’individuo alla società, l’uomo non avendo che un valor sociale; e
l’attribuirlo al maggior numero dei conviventi è lo scopo della scienza
e dell’arte. Male non è che il nuocere alla società, «tanto che un
uomo il quale per tutta la sua vita pensasse ed amasse il male, e
operasse giusta l’ordine, non potrebbe essere chiamato ingiusto;
anzi giusto sarebbe ad ogni modo» [278]: esclusione del concetto
morale che genererebbe l’ipocrisia. Il suo confondere sempre il
desiderio di sentire aggradevolmente coll’amor del bene, cioè il
piacere coll’ordine, esclude ogni concetto morale superiore; nè vi
rimedia col porre fine ultimo della società la pace, l’equità, la
sicurezza, poichè ciascuna di queste importa una moralità, cioè pace
nell’ordine, equità ma con giusta proporzione, sicurezza ma per la
sola virtù. Costituito il diritto di proprietà sopra il diritto di sussistere,
dovette dar in fallo discorrendo dell’eredità.
Fra i diritti della società è quello di punire; la necessità, come ne è la
fonte, così ne è il limite. Sebbene nella pena introduca un elemento
morale, facendo che colla colpa l’uomo decada dal diritto che aveva
alla vita e sicurezza propria; non per questo si eleva sino
all’espiazione, portata da tutt’altro ordine di idee, e si arresta alla
difesa indiretta. Questa non è più necessaria quando il delitto è
consumato; ma poichè alla società sovrasta la minaccia di rinnovata
offesa, ella ha diritto di prevenirla punendo. Qui manca il nesso,
giacchè pel nome medesimo, una punizione non può concernere
che il passato; il padre punisce il figlio che percosse un altro, sebben
nulla abbia a temere per sè; e Dio punisce anche quando l’essere
misto cessò di poter delinquere. Scolaro degli Enciclopedisti, il
Romagnosi trae da quelli molti pregiudizj, sebbene non ne accetti il
gretto materialismo; da gran legista ripudia molte conseguenze, pure
distingue le leggi come sono dalle leggi come devono essere; se ne’
particolari è spesso utilitario, nel complesso investiga il principio
razionale: insomma ha il merito di mostrare gli sbagli del sistema
vecchio, ma non ne erige un nuovo; e se anche se ne rifiutano i
canoni, la mente è giovata dal suo metodo.
Nell’Introduzione allo studio del diritto pubblico universale vuol
congiungere l’ordine dottrinale coll’operativo, la scienza della ragione
con quella della volontà, troppo dimentica dai pubblicisti; la quale
scienza si collega nel tempo col diritto d’opportunità, ch’è
spiegazione della storia. Cercando dunque ajutare il triplice
perfezionamento economico, morale, politico, formò una filosofia
ch’egli intitolava civile, media fra la razionale e la scienza della
legislazione. E come suo carattere udiamo attribuirgli l’insistere sulla
fusione della giurisprudenza coll’economia, la quale altrimenti è
scienza sbranata e disastrosa; sebbene non precisano la natura di
questa relazione fra l’economia, la morale, la giurisprudenza, la
politica. Anche quel suo ampliare l’oggetto dell’economia politica,
nelle ricchezze comprendendo e il giusto e l’onesto, l’utile