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Rivista di estetica
66 | 2017
the auditory object
varia

Tra parola e canto. La voce tra


fenomeno e oggetto
pulsionale
CRISTIAN MUSCELLI
p. 210-223
https://doi.org/10.4000/estetica.3366

Abstract
Italiano English
Il canto mostra come la voce possa essere uno strumento di godimento. Per arrivare a
comprenderne le ragioni, occorre dapprima riconoscere come il carattere enigmatico
della voce sia stato tradizionalmente celato dall’idea che essa sia un trasparente veicolo
del significato, che riesce a svolgere la sua funzione in modo immediato, e che annulli la
distanza che separa l’espressione dal contenuto. Si può però pensare la voce quale
oggetto indipendente dalla relazione con il concetto, e rivolgersi a quei momenti nella
storia della riflessione filosofica in cui si è tentato di mostrare come la voce sia materia
acustica, e non sia un mero medium: la voce acquisisce in questa circostanza lo statuto di
“corpo”, e solo in quanto tale essa è capace di dare piacere. Attraverso la definizione di
Lacan della voce come “oggetto pulsionale” si possono esplorare le ragioni che fanno del
canto un godimento: l’oggetto, in psicoanalisi, è ciò attraverso il quale la pulsione riesce
a trovare soddisfazione. Oltrepassando la teoria freudiana, la voce è introdotta da Lacan
tra questi oggetti che consentono alla pulsione di raggiungere il suo obiettivo:
soddisfarsi. La voce lacaniana non solo non è in nessun modo assimilabile al discorso,
ma non ha proprio niente a che fare con il parlare: è in relazione solo con il corpo e con il
godimento. Così l’oggetto-voce, inteso come originario oggetto pulsionale, è quanto più
si avvicini a descrivere il “cantare”.

Singing shows how voice can be a means for enjoyment. In order to understand the
reasons we first need to acknowledge that the enigmatic character of voice has been
:
hidden by the traditional idea that it is a transparent vehicle for meanings, and that it
can immediately carry out this function because voice cancels the distance between
expression and the content of the expression itself. On the contrary, we can conceive of
voice as an object that is independent from its relationship with meaningful concepts. To
this end we need to look into the history of philosophy, at those attempts to demonstrate
that voice is essentially acoustic matter and it is not a mere medium. Under these
conditions voice becomes homogeneous with the body, and only as such it can give
pleasure. Through Lacan’s definition of voice as a “drive object” we can investigate the
reasons of singing as enjoyment: the “object”, in psychoanalysis, is that through which
drive can get its satisfaction. Beyond the Freudian theory, Lacan includes voice in the list
of those objects that allow drive to gain its goal: to satisfy itself. The Lacanian voice not
only cannot be reduced to speech, but it has nothing to do with speaking: it is tied with
the body and with enjoyment. Thus the object-voice, intended as drive object, is what
comes closest to singing.

Termini di indicizzazione
Keywords: voice, singing, Lacan
Parole chiave: voce, canto, Lacan

Testo integrale
1 Il canto è un’esperienza di piacere, non solo quando l’eventuale connotazione
artistica lo traduce nella complessità dell’esperienza estetica: c’è un’associazione
indissolubile tra la voce che canta e il piacere, tra la voce che diviene puro suono e
la soddisfazione che essa procura. Per provare a comprendere quali siano le
ragioni di questo piacere, e che tipo di piacere esso sia, possiamo provare a
seguire il percorso interdisciplinare indicato da Roland Barthes, che in un testo
dedicato al canto romantico sintetizzò la sua riflessione scrivendo che cantare è
«godere fantasticamente del mio corpo unificato» (1985: 276), un’affermazione
che suona come una descrizione puntuale di quanto accade nel canto: constata
infatti come il canto sia un godimento, cioè un’esperienza di profonda
soddisfazione; rileva come il piacere a esso associato, lungi dall’essere meramente
intellettuale, abbia una connotazione “fisica”; nota come nel canto la voce realizzi
una particolare unità, perché nella materia corporea della voce tutto il corpo si
sente unificato. Per descrivere questo nesso tra la materia acustica e il piacere che
essa genera nel corpo, tra la sostanza sonora e il godimento, Barthes ha utilizzato
il termine “grana” (ivi: 257-266): la grana della voce emerge giusto quando, con il
canto, la voce perde la sua valenza semantica e si fa corpo, ed è questo nuovo
statuto che la rende causa di piacere. La voce ha un corpo, seppur sottile, e
proprio e solo in quanto corpo può generare soddisfazione.
2 Il sonoro e il semantico sono stati tradizionalmente considerati un’unità, ma,
seppure inseparabili, la componente acustica della voce è stata ritenuta a servizio
di quella semantica: il significato deve precedere la voce, se l’essenza della voce
umana, a differenza di quella animale, è la capacità di veicolare un concetto.
Anche le difficoltà che la voce può incontrare fanno segno dell’antecedenza di quel
significato; anche quando fallisce nell’intento di comunicare, la voce avvisa di
qualcosa, è sintomo che dice del soggetto: dal balbettare all’interrompersi mentre
si parla, dallo schioccare la lingua alla perdita di controllo sulla tonalità della voce
fino all’afonia assoluta, sono tutte possibilità, non insolite, per manifestare ciò che
il soggetto non vorrebbe. La ricerca psicoanalitica ha mostrato che, seppur
:
nell’errore e nell’inciampo, la voce può farsi segno di un significato nascosto
nell’inconscio ed espresso in modo metaforico. Si tratta, nel complesso, di una
figura della voce che potremmo definire positivistica, poiché centrata sull’idea che
sia possibile pervenire a una verità semantica (Lagaay 2008).
3 È però possibile seguire anche gli sviluppi di una concezione “negativa” della
voce, che ne fa la manifestazione più semplice e immediata della vita (Bologna
1992) che precede l’istituzione del linguaggio: è una voce, per così dire, vuota, in
nessun modo veicolo del concetto. In questo senso, la voce che caratterizza
l’umano è proprio la voce che può significare niente: è la particolare dimensione
non-significante che umanizza la voce, nel senso che alla sparizione della
componente significativa, anonima e impersonale, corrisponde la comparsa
dell’unicità di una voce, fenomeno irriducibile della singolarità di un soggetto. Il
canto è la manifestazione esemplare di questo passaggio, perché nella voce che
canta la parte comunicativa e semantica si riduce fino a lasciar emergere la
materia di cui la voce è fatta, la sua corporeità.

La voce-fenomeno e il primato del


significato sul significante
4 Descrizioni e spiegazioni della voce come fenomeno ne fanno inevitabilmente
un fatto sociale, meramente comunicativo. Jacques Derrida (1968) ha mostrato
quali siano le implicazioni di questa prospettiva e ha rilevato come la voce abbia
fondato la metafisica e ne abbia segretamente servito gli scopi. La supremazia
della voce sulla scrittura ha servito l’intento di garantire l’essere come presenza,
cioè di pensare e garantire ogni significato prima di ogni rimando, di ogni
linguaggio, e di fare così del significato una sostanza; la scrittura è “segno di
segno”, mentre nella voce il significato – e dunque la sua verità – si dà
immediatamente: il significante, componente materiale del verbo, si cancella
nell’identità del significato. Può esistere in questo modo una verità sostanziale,
una verità prima del linguaggio, un significato puro, trascendentale, autonomo
rispetto al segno che lo indica. Per Derrida, anche il rigore fenomenologico della
teoresi di Husserl – per il quale la funzione primaria del linguaggio è senza
dubbio quella comunicativa (1968: § 9) – nasconde questa “presupposizione
metafisica”: «Husserl ha senza dubbio inteso mantenere uno strato
originariamente silenzioso, “prespressivo”, del vissuto» (ivi: 44). Anche per
Husserl il significato delle espressioni si decide prima nella propria mente, perché
l’atto significante, l’intenzione, viene prima del segno1. Ciò che si presuppone è
che prima del linguaggio verbale, fatto di segni, che consente la comunicazione –
che è essenzialmente “indicazione” – c’è una voce che consente il monologo
solitario della coscienza, una voce non compromessa con l’impurezza
dell’espressione: è una voce che simula la conservazione e la ripetizione degli
oggetti contenuti nella coscienza pre-verbale. Per la fenomenologia esiste una
dimensione dell’umano libera dal linguaggio, libera dalla necessità di significare
attraverso l’indicazione, attraverso il segno, e in questa dimensione la voce non
comunica nulla, non indica nulla, perché tutto è immediatamente presente. La
voce è dunque un’autoaffezione pura, voce che si ascolta immediatamente mentre
parla, impossibile da distinguere in trascendenza e intra-mondanità, pura
presenza, espressione immediata della coscienza; la voce fenomenologica è
:
l’evidenza della possibilità di un accesso immediato ai contenuti della coscienza,
senza alcuna contaminazione del mondo esterno.
5 C’è anche un altro punto nella critica di Derrida che ha particolare rilevanza per
gli sviluppi del nostro discorso, laddove individua nella voce fenomenologica
anche il fondamento della coscienza di sé: «La voce fenomenologica sarebbe
questa carne spirituale che continua a parlare e a essere presente a sé – ad
intendersi – nell’assenza del mondo» (ivi: 45). In una semplice equazione, la
presenza è coscienza e la coscienza si stabilisce attraverso la voce, perché parlare,
dice Derrida, significa “intendersi-parlare”, cioè parlare e capirsi
contemporaneamente in un’esperienza di auto trasparenza, di evidenza a se stessi.
S’entendre parler diventa così la definizione minima di coscienza.
6 Derrida finisce però con il cancellare la prolifica ambiguità che è propria della
voce: il fonocentrismo non comprende l’intera storia della metafisica. Anzi, dire
che logocentrismo e fonocentrismo coincidono non è del tutto corretto. Derrida
ha trascurato un indirizzo della storia del pensiero che considera la voce in
tutt’altro modo, osservandone appunto le ambiguità. Certa filosofia è stata
lungamente consapevole dell’ambiguità e dei pericoli della voce: la voce è stata
pensata anche come contraria all’auto-affezione, alla trasparenza a sé, al
significato e alla presenza; la voce è stata pensata anche come l’opposto del lògos,
il negativo del lògos (Dolar 1996: 24). Il luogo cui dirigere l’attenzione è
certamente la trattazione filosofica del canto, caso paradigmatico nel quale la voce
ha manifestato la sua enigmaticità fino a configurarsi, contrariamente a quanto
sostenuto da Derrida, come vera e propria minaccia alla presenza e alla costanza
del senso. Per questo movimento del pensiero metafisico, le cui prime tracce
risalgono al 2200 a.C. quando l’imperatore cinese Chun scrive i suoi precetti sulla
musica, la musica può realizzare una pericolosa divaricazione tra la voce e le
parole, tra suono e senso, significante e significato. La voce cantante che supera
con la sua intensità il valore significante delle parole diventa un’insensata e
seduttiva forza d’attrazione, e questa forza della parte sonora del canto è fatta
coincidere, già dall’antichità, con la femminilità, in opposizione alla mascolinità
del testo con la sua capacità di significazione.
7 La dicotomia tra voce e lògos è in gioco anche nel testo platonico che è denso
d’indicazioni che condannano la musica e la sua presunta capacità di deteriorare
le qualità individuali e le leggi della convivenza (Repubblica 4, 424c-e), fino a
sostenere che il processo di decadenza morale possa essere iniziato proprio dalla
musica, dove risiede la possibilità del piacere puro senza alcuna distinzione tra
bene e male (Leggi 3, 700d-e). Platone cerca di combattere le pericolose
potenzialità della musica stabilendo che musica e ritmo debbano sempre “seguire”
le parole: deve esserci un significato, chiaramente definito, e successivamente un
modo per esprimerlo. L’idea che possa esserci una voce la cui materialità sia più
piacevole della contemplazione della verità ideale è assolutamente impraticabile.
Quel che Platone mette in chiaro è che l’ambiguità terrifica della musica, la causa
del timore che essa provoca risiede nel suo essere a metà strada tra natura e
artificio.
8 Le stesse perplessità saranno espresse dalla filosofia cristiana, per esempio da
Agostino: anche in questo caso la soluzione è di ricordare sempre che la verità sta
nel significato della parola di Dio, non nel suo suono; il suono delle parole è
invece diabolicamente capace di causare piacere, in un rapporto sostanzialmente
carnale con l’uomo2.
:
La voce oltre il fenomeno
9 Seppure Derrida identifichi nella voce una questione fondamentale, una sorta
di “matrice della metafisica”, allo stesso tempo la intrappola nella stessa struttura
metafisica che avrebbe voluto decostruire; la voce di cui si occupa Derrida non è
in verità la voce “sonora”, quanto piuttosto un fenomeno concettuale. D’altra
parte, non è forse essenza dell’uomo essere “zòon lògon èchon”, e dunque capace
di un logos che è “phoné semantiké”? Se fosse solo la materia sonora della voce, la
sua parte musicale e non semantica – diremmo: la capacità di farsi canto – a
caratterizzare la voce dell’uomo, quale sarebbe la differenza con la voce degli
animali, con i suoni emessi dalle bestie? Intorno a questo tema Agamben (1982)
ha fornito commenti di grande efficacia: la voce umana è un’istanza puramente
negativa, in quanto, questo è il punto centrale, essa non è più mero suono, come
nel caso dei versi emessi dall’animale, ma non è ancora parola significante. La
voce è un non-più e un non-ancora: essa ha il carattere dell’elemento mediano,
tra l’insignificanza animale e la formalizzazione significante del mondo umano,
del suono naturale che non si è ancora innalzato al livello del linguaggio. Il
“pensiero della voce sola” dischiude una dimensione straordinaria: l’aver luogo
dell’istanza di linguaggio, prima che sopraggiungano i significati. In modo più
chiaro: la voce come intenzione di significare. Inoltre, aggiunge Agamben, la voce
(con la minuscola, suono) deve sparire, per far luogo all’apparizione del
significato, per lasciare che la Voce (con la maiuscola, articolata e significante)
accada: «La voce, la φωνή animale, è, si, presupposta dagli shifters, ma come ciò
che deve necessariamente esser tolto perché il discorso significante abbia luogo»
(ivi: 48). Agamben giunge a criticare la teoria di Derrida sulla tradizione
metafisica, e, pur riconoscendone il valore, denuncia come Derrida creda di aver
dato abbrivio al superamento della metafisica quando invece ne ha «solo portato
alla luce il problema fondamentale. La metafisica non è, infatti, semplicemente il
primato della voce sul gramma. Se metafisica è quel pensiero che pone in origine
la voce, è anche vero che questa voce è, fin dall’inizio, pensata come tolta, come
Voce» (ivi: 54). La voce, il sonoro, è ciò che deve essere posto e al tempo stesso
sottratto perché la metafisica abbia principio: così come sostiene Derrida, essa
deve essere posta in quanto garante del significato stabilmente istituito, ma anche
sottratta perché il permanere della voce impedirebbe la significazione.
10 All’interno di una prospettiva diversa, anche Adriana Cavarero (2003) critica la
posizione di Derrida – ma più in generale della filosofia – segnalando come egli
non arrivi a riconoscere la singolarità della voce come puro suono e resti invece
vincolato all’idea di una voce come pensiero: la voce della coscienza
fenomenologica è una voce del pensiero, per niente sonora. Riferendosi a Barthes,
Cavarero riconosce che la priorità del linguaggio condanna l’essere umano a una
certa comprensione del mondo e delle sue possibilità di azione, ma, senza negare
tale presupposto, riconosce pure che la voce rivela proprio la particolarità
dell’esperienza incarnata, quell’esperienza soggettiva di dolore e piacere che riesce
a sovvertire le determinazioni del linguaggio. La voce, la mera sostanza acustica,
ha una forza che «precede, genera ed eccede la comunicazione verbale» (ivi: 39),
una forza che identifica in modo univoco il soggetto, come quando si risponde
“sono io” alla domanda “chi è?” che ci rivolgono al telefono o al citofono (ivi: 192).
Prima di assumere la funzione significante, la voce è essenzialmente espressione
di “reciproca invocazione”, uno scambio musicale attraverso il quale si istituisce la
:
relazione intersoggettiva: è quanto accade nella relazione tra madre e infante,
nella quale la lallazione del bambino e le risposte della mamma si configurano
come un “duetto” e realizzano una melodia che canta la loro reciproca
dipendenza. La prima voce, la voce all’origine della storia del soggetto umano è
proprio la voce che canta, non quella che dice.

Voce e identità
11 In termini più prossimi alle ricerche della psicoanalisi, il “sentirsi parlare” di
cui ha detto la filosofia potrebbe ritenersi la forma primigenia di auto
affermazione della coscienza, il fattore elementare della costituzione dell’identità.
Jacques Lacan ha dedicato molta della sua iniziale speculazione alla formazione
dell’Io, al narcisismo elementare e allo strumento primario di tale narcisismo: lo
specchio (Lacan 2002a). Lo specchio ha la funzione di produrre l’auto
riconoscimento, ossia la costituzione immaginaria dell’identità, attraverso la
composizione in unità di un corpo che altrimenti, e primariamente, è avvertito dal
bambino “in frammenti”, cioè un insieme di pezzi e movimenti scoordinati; grazie
all’immagine allo specchio il corpo viene finalmente percepito come unità. Si
tratta di una percezione che, in ragione della soddisfazione che genera, dà il via
alla serie di identificazioni che consegneranno al soggetto l’illusione di essere un
io: in altri termini, le identificazioni danno una consistenza immaginaria al
soggetto.
12 Si può sostenere, sebbene Lacan non abbia sviluppato questo indirizzo della sua
riflessione3, che anche la voce contribuisca alla formazione dell’Io; si tratta di un
tipo di identificazione molto diversa, e probabilmente più complessa, che però
segue la stessa logica della deriva immaginaria della costituzione dell’Io: anche
nel caso della voce, la storia del soggetto passa per un momento illusorio in cui il
soggetto si riconosce nella voce dell’Altro. Il rapporto con l’Altro è sempre l’unica
e decisiva possibilità di costituzione del soggetto, e all’Altro il soggetto deve per
forza indirizzarsi: anche la voce, nell’atto stesso dell’emissione, si introduce nel
dominio dell’Altro per tornare nello spazio del soggetto, che può così riconoscersi
come tale (Silverman 1988). Per esempio il grido del neonato, che di per sé non
vuole significare niente, avrà quale sua meta necessaria il “farsi sentire”, cioè
dovrà raggiungere e passare attraverso l’Altro per poi concludere il suo giro
tornando al soggetto: al termine del suo giro il grido sarà diventato
un’invocazione, perché l’Altro lo avrà raccolto e avrà risposto all’appello. In modo
logicamente simile a quanto accade con l’immagine allo specchio4, la voce
dell’Altro è il ritorno della propria voce: la voce che risponde all’invocazione
consente all’infante di riconoscersi come io, come se la voce fosse stata riflessa da
uno “specchio acustico”. Erik Porge, nel tentativo di colmare la mancanza di
elaborazione della “pulsione invocante” da parte di Lacan, ha proposto di
aggiungere allo stadio dello specchio anche uno stadio dell’eco (2012), uno stadio
molto precoce in cui si realizza uno scambio di suoni, un rapporto di risonanze: in
questo stadio, prima di introdurre il mondo del significato, la voce si configura
come un “canto” che stabilisce il rapporto dell’infante con sé e col mondo, con
l’Altro. In questo momento del processo costitutivo dell’identità è la sola voce che
produce l’effetto di creare la relazione con l’Altro, e di certo la significazione non è
ancora coinvolta. Prendiamo ancora l’esempio del grido del neonato: non c’è un
significato nel grido del neonato prima che esso venga accolto dall’Altro, piuttosto
:
è l’Altro che assegnerà un significato a quel grido (“ha fame”, “ha mal di pancia”,
eccetera); la trasformazione da phoné a logos avverrà quando l’Altro farà dire al
soggetto ciò che vuole che il soggetto dica, cioè quando l’Altro depositerà nella
phoné inarticolata i significati che la renderanno espressiva. Prima di questo
accadimento la distinzione tra soggetto e oggetto non ha neppure compimento:
l’infante che grida non ha voce propria poiché non ha modo di dire “io grido”;
quel grido è improprio (non-proprio), è semplicemente nel mondo, indistinto;
quel grido, senza l’Altro, non può significare niente. Il passaggio attraverso l’Altro
consentirà dunque di distinguersi come soggetto, di essere riconosciuto e di
riconoscersi.
13 Sempre in una logica simile a quella della identificazione immaginaria allo
specchio, anche l’auto-affezione vocal-uditiva include la perturbante percezione
della difficile coincidenza fra l’emittente e il ricevente; c’è qualcosa nella propria
voce che sfugge sempre, qualcosa che rende la voce estranea al soggetto, che la
rende sempre in qualche modo la voce dell’Altro. Nel giro che va dalla bocca
all’orecchio la voce perde il suo marchio di proprietà, fino al punto che deve essere
nuovamente riconosciuta da chi l’ha emessa. Il perturbante caratterizza così sia lo
sguardo (e l’immagine) sia la voce (e il suono): nel registro immaginario il
soggetto si costituisce narcisisticamente attraverso il “vedersi vedere” o il “sentirsi
parlare”, ma è pur vero che nell’atto di realizzazione di tale riflessività qualcosa
sfugge al soggetto, e cessa di appartenergli; vedersi vedere e sentirsi parlare
significa anche fare esperienza dell’Unheimlich, del perturbante, dell’impossibilità
di far cessare lo sguardo che ci guarda o la voce che ci parla: la voce e lo sguardo
continuano a indirizzarsi al soggetto indipendentemente dalle sue azioni
volontarie, e possono condurlo occasionalmente a realizzare che qualcosa di voce
e sguardo non gli appartiene, come se il proprio sguardo e la propria voce
divenissero strumenti per l’azione scopica e invocativa di qualcun altro. Per
questo si può dire che la voce è anche sempre voce dell’Altro, dell’Altro che parla
attraverso il soggetto e del quale il soggetto non potrà mai appropriarsi.
14 Ecco perché per Lacan, al contrario di Derrida, l’auto-affezione realizzata dalla
voce è il punto di partenza di una questione: rilevare che la voce è un’auto-
affezione non dimostra la presenza della coscienza a se stessa, bensì vuol dire che
al centro della presenza c’è una scissione. Nella teoria lacaniana c’è alienazione
nel processo d’identificazione attraverso lo specchio, poiché l’immagine che rende
l’unità del soggetto sarà comunque sempre esterna al soggetto; allo stesso modo la
voce scinde il soggetto attraverso la sua alienazione nella voce dell’Altro. C’è un
doppio effetto nel processo di identificazione immaginaria, due distinti momenti
logici: l’immagine allo specchio provoca il riconoscimento giubilatorio dell’unità
dell’Io e allo stesso tempo l’alienazione della propria identità nell’immagine stessa
(che potrà poi essere avvertita come estranea); allo stesso modo l’esperienza della
voce si configura come riconoscimento di sé ma pure come rivelazione di
un’intima alterità costitutiva del soggetto, poiché anche la voce è in qualche modo
sempre esterna.
15 Queste considerazioni sulla similarità tra la logica dell’identificazione
immaginaria e dell’identificazione vocale ci permettono ora una prima sintesi –
che proveremo a sviluppare ulteriormente: il canto è un momento di unità del
corpo che equivale, in termini libidici, al momento giubilatorio del
riconoscimento di sé allo specchio, perché quando la voce torna a farsi canto il
corpo viene percepito come nuovamente unificato. Ci avviciniamo così un poco al
senso dell’affermazione di Barthes dalla quale abbiamo preso le mosse: «godere
:
fantasticamente del mio corpo unificato».

La voce come oggetto della


pulsione
16 Jacques Lacan assegna un valore davvero originale alla voce: ne fa un oggetto
pulsionale. Questa teoria è introdotta da Lacan nel Seminario X, un seminario
dedicato al tema dell’angoscia, ed è qui che Lacan discute il suo più autentico
contributo alla psicoanalisi: l’oggetto a. Come noto, l’oggetto è per la psicoanalisi
quel che la pulsione ricerca per – temporaneamente – soddisfarsi; ma l’oggetto a
di Jacques Lacan ha uno statuto affatto particolare che modifica radicalmente lo
stesso concetto psicoanalitico di oggetto, e nella lista degli oggetti a Lacan include
lo sguardo e la voce.
17 L’intervento lacaniano, dagli inizi degli anni Sessanta, distingue innanzitutto
due dimensioni dell’oggetto: l’oggetto-mira e l’oggetto-causa. L’oggetto-mira può
essere descritto dal modello fenomenologico, che con il termine oggetto intende
una classe molto ampia e varia di cose, incluse quelle immaginarie, astratte5;
l’oggetto-causa, che Lacan introduce nel Seminario X e che chiama appunto
“oggetto a”, non è invece rubricabile sotto la categoria degli oggetti intenzionali e
descrive l’esatto capovolgimento dell’oggetto husserliano, perché ha a che fare col
desiderio:

Per fissare la nostra prospettiva, dirò che l’oggetto a non è da situare in


nulla di analogo all’intenzionalità di una noesi. Nell’intenzionalità del
desiderio – da distinguere precisamente da quella della noesi – tale
oggetto deve essere concepito come la causa del desiderio. Per riprendere
la mia metafora di prima, l’oggetto è dietro il desiderio (2007: 110)

18 Lacan sta descrivendo quell’oggetto che spinge, che dà il via al percorso


metonimico del desiderio, all’inesauribile ricerca che movimenta la vita umana6.
Il modello fenomenologico non può arrivare a descrivere l’oggetto pulsionale: è un
oggetto che non solo non pertiene al registro non linguistico, ma si costituisce in
modo paradossale attraverso la sua mancanza: è infatti la mancanza dell’oggetto-
causa che spingerà il soggetto a tentare di recuperarlo attraverso l’inseguimento
incessante di tanti oggetti-mira.
19 Non è qui possibile descrivere la complessità dell’oggetto a, soprattutto in
relazione alla sua costituzione, ma per comprenderne la natura dobbiamo
necessariamente fare riferimento a due concetti: la pulsione e il godimento
originario (della Cosa). Freud descrive la pulsione come qualcosa a metà tra il
somatico e lo psichico, qualcosa che possiamo definire come un “istinto
artificiale” (Zenoni 1995: 169); l’obiettivo della pulsione è di completare il suo
circuito e tornare al punto di partenza, e per realizzare il suo intento, a differenza
del bisogno, la pulsione non si soddisfa con gli oggetti esterni – che sono di fatto
“pretesti” intercambiabili – ma si soddisfa con il corpo proprio. Lacan, fedele alla
pagina freudiana, insiste su un punto: la pulsione tende a rintracciare e ripetere
una prima esperienza di soddisfazione, un episodio in cui il soggetto avrebbe
conosciuto non solo la soddisfazione del bisogno, ma anche una soddisfazione
“autentica”, un godere che ha accompagnato l’appagamento del bisogno; la
pulsione, da allora, “gira” intorno a un oggetto vuoto, cerca di soddisfarsi con
:
questo oggetto, di goderne.
20 Una possibilità di sintetizzare la natura dell’oggetto a è riferirlo alla nozione di
traccia (Di Ciaccia 2012: 126). Il soggetto lacaniano deve essere cercato a partire
da una traccia, la traccia lasciata dalla cancellazione della soddisfazione
originaria, mai realmente accaduta ma già da sempre presupposta dal soggetto.
La traccia, secondo questa interpretazione, ha due destini, entrambi necessari:
diventare significante e trasformarsi in oggetto a. La traccia che diventa
significante è ciò che del godimento originario si cancella per iscriversi nel
simbolico, ciò che si traduce nella dialettica del linguaggio. La traccia che diviene
oggetto a è invece una “cancellazione-materializzazione”, perché è una
trasformazione della traccia in un posto nel quale si materializzeranno gli oggetti
a: seno, escremento, sguardo e voce.
21 Per esempio, il bambino non succhia solo perché ha fame e cerca il latte, ma
perché gira intorno a quell’oggetto – il seno – che è stato causa del godimento
originario, e che diventa vuoto perché non è più presente, non più a disposizione;
oltre alla soddisfazione del bisogno alimentare, il bambino è sempre sulle tracce
di un altro appagamento. La ricerca si risolve in se stessa, cioè si soddisfa nel
girare intorno a questo oggetto vuoto, ed è l’oggetto impossibile da mangiare, è
proprio il “vuoto” dell’oggetto, la sua mancanza, che è causa del desiderio: è ciò
che spinge incessantemente. Lacan può così specificare che l’oggetto(mira) è
affatto intercambiabile e può anche precisare che l’oggetto a non è propriamente
un oggetto, bensì un luogo che può essere occupato da una pluralità di oggetti,
qualunque oggetto in grado di prendere il posto del vuoto lasciato da quel primo
godimento originario (come nel caso del seno sostituito dal biberon):
«Quell’attività che in lui denominiamo pulsione (Trieb), è devoluta a far ruotare
tali oggetti per riprendere in essi e restaurare in lui la sua perdita originale»
(Lacan 2002b: 852). Allo stesso modo, ogni suono, anche non umano, può
fungere da oggetto-voce, perché ogni suono può avviare la ricerca desiderante
della voce perduta, la voce coinvolta nella prima mitica soddisfazione originaria7.
22 L’oggetto-voce è forse dell’oggetto più complesso, più “sottile” (Alemán e
Larriera 2009), perché più di ogni altro presenta la difficoltà di comprendere in
che modo esso debba essere costituito al suo centro da un vuoto, quel vuoto che
consente al soggetto di cercare il godimento e di desiderare8; il vuoto che si deve
realizzare non è solo quello dell’assenza – cioè la semplice scomparsa della voce –
ma pure il vuoto di significato: la voce, in quanto oggetto della pulsione è vuota di
ogni contenuto. Per la pulsione i significati, la funzione significante, il linguaggio,
non contano niente. Qual è allora la voce perduta che diventa oggetto della
pulsione, oggetto a?

La voce, il corpo e il godimento


23 Il soggetto lacaniano è sempre doppio, essenzialmente diviso: c’è il soggetto che
si lascia rappresentare dalle parole, dal simbolico, e il soggetto del godimento, che
niente ha a che fare con il linguaggio. Nel “primo Lacan”, fautore dello
strutturalismo, la categoria di godimento non è ancora disponibile ed è l’azione
del linguaggio, del simbolico, a tradurre il soggetto da una dimensione prossima
al regno dell’animalità a quella propria dell’umanità. Per il Lacan strutturalista,
non è, come ancora insegnava Kojève, la forza negatrice dell’intelletto a negare la
realtà biologica del vivente umano, ma la semplice violenza del linguaggio,
:
impersonale e anonimo così come lo ritrae il magistero dello strutturalismo
(Lacan 2004: 381-396): il linguaggio allontana irreversibilmente dall’animalità
perché l’istinto viene riferito – attraverso il linguaggio – all’Altro e inserito
nell’ordine simbolico. Nel “secondo” Lacan è invece il rapporto con il godimento a
fondare la costituzione della soggettività umana. La voce, ora, non è più
strumento necessario al linguaggio, ma è l’espressione di un’originaria relazione
“acustica” alla soddisfazione: parlare – il blablabla, dice Lacan – è un godere.
24 Il Seminario XX (2011), tenuto nel 1972-1973, è il momento in cui Lacan varia
la sua idea di parola e di linguaggio, e inventa un termine che dovrebbe indicarne
i nuovi caratteri: è lalangue, quella parola che non è più significante, ma è,
appunto, solo godimento. È una virata molto brusca del suo pensiero, che si dirige
verso l’identificazione di uno statuto più originario della parola: prima di essere
mezzo di comunicazione, prima di essere inclusa nella grammatica del linguaggio,
è una forma di godimento. Questo indica che, a questa altezza della sua
riflessione, Lacan cessa di credere che il simbolico sia primario, che il linguaggio
(inteso come la langue di De Saussure) presti la sua struttura al soggetto; c’è
invece una lingua che accade prima del linguaggio, prima di essere catturata dal
dizionario e dalla grammatica, prima del suo ingresso nelle strutture significanti:
è appunto la lingua come lalangue, una lingua svincolata dal linguaggio, dalla
significazione, dalla necessità di dire qualcosa, e che proprio per questa sua
libertà la lingua permette il parlare che fa godere, il blablabla, che non significa
niente. Quel che in Funzione e campo (1974), scritto del 1953, si chiamavano
linguaggio e parola, ora, in quanto espressioni ottuse della soddisfazione
originaria, cambiano in lalangue e blablabla. Dacché la nascita del soggetto è
rintracciata nel rapporto con il godimento, e non più con il simbolico, Lacan
individua un’altra funzione del linguaggio e un altro campo della parola, poiché
c’è un linguaggio che non intende comunicare e una parola che non vuole
significare. Lacan non abbandona la prospettiva strutturalista degli anni
Cinquanta, ma riconosce un’altra possibilità di relazione costituente col
linguaggio: il pre-linguistico fenomenologico, l’ipotesi di una coscienza in cui non
sia presente il linguaggio – nel senso che non sia stata istruita né pronta a
comunicare – è in altro modo recuperata; non si tratta ovviamente di una
coscienza vuota – non potrebbe esserlo per definizione – ma di una coscienza che
gode, piena di solo piacere. È questo un punto certamente controverso: per Lacan
non può esistere un tempo che precede il linguaggio, perciò il godimento deve
essere immanente al linguaggio, ossia deve delinearsi come ciò che, nel
linguaggio, non può essere detto dal linguaggio.
25 In ogni caso, rispetto al dettato strutturalista, obiettivo certo della proposta
lacaniana è di rielevare il corpo (e il godimento) al rango del linguaggio, di porli
sullo stesso piano. C’è una soddisfazione che non dipende in alcun modo
dall’Altro, ma è del corpo in quanto corpo, perché il corpo, secondo l’ultimo
Lacan, gode senza l’Altro, gode di se stesso: è questo quel che l’ultimo Lacan
chiama il godimento Uno, godimento del corpo proprio come luogo di godimento
che basta a se stesso, ed è questo il momento originario del soggetto
dell’inconscio9.
26 Il soggetto gode anche in ragione della parola insignificante, gode de lalangue,
del semplice fatto che il corpo parli, o meglio: che la voce abbia un corpo. Questo
godimento che è nella voce in se stessa dovrà poi essere perduto affinché la parola
sia possibile: se vogliamo che la voce “dica” qualcosa, bisogna che essa perda il
godimento di sé. La storiella riportata come esempio da Mladen Dolar all’inizio
:
del suo lavoro sulla voce (2014) è molto illustrativo: i soldati italiani, che durante
la Prima Guerra non vogliono eseguire l’ordine d’assalto urlato dal loro Capitano,
si concentrano sul puro suono del comando, e infine esclamano: “Che bella voce!”.
Prestare attenzione alla materia acustica della voce, significa perdere traccia dei
significati che essa veicola, vuol dire perdere il significato, e allo stesso tempo
ricondursi a quel piacere originario della voce. Ecco perché il sonoro è quella
parte dell’esperienza acustica che si deve perdere perché possa esserci la realtà,
perché possa esserci significato, e allo stesso tempo è ciò che offre la possibilità
alla ripetizione della soddisfazione originaria10.
27 Si gode col corpo che, misteriosamente, “parla” (Miller 2001: 37) e gode della
corporeità della parola, della parola in quanto sostanza corporea. Questa parola-
corpo è disconnessa dall’Altro, non si rivolge a nessuno, non vuole comunicare,
non vuole essere riconosciuta, è una mera figura del godimento: questa parola è
solo suono, materia sonora, dunque corpo. Ciò che più le assomiglia è certamente
la masturbazione, e infatti Lacan, nel Seminario XX, fa cenno alla possibilità di
interpretare il blablabla come forma di sublimazione: «il corpo parlante (…)
quando lo si lascia da solo, sublima a tutta forza tutto il tempo» (2011: 120-121).
28 Della sola voce il soggetto potrebbe continuare a godere se non fosse per
l’intervento dell’Altro che lo forza a rinunciare al godimento autistico e ad
accettare l’ordine del simbolico. La voce originaria, al contrario, non avrebbe
bisogno di significare, di dire, di parlare, perché è già un godere; è l’ingresso nella
dialettica con l’Altro (del circuito domanda-risposta, prevalentemente tra madre e
bambino) che obbliga a rinunciare al godimento e in questo modo consente alla
voce di dire e di significare. Per questo, sostiene Lacan, il soggetto sarà forzato a
cercare quella voce della soddisfazione perduta, quella voce che bastava a se
stessa, che non era del soggetto e non era di altri. Ciò che continuerà a cercare,
l’oggetto-causa del desiderio, è la voce che non dice niente, la voce come “corpo
insignificante” prima di ogni significazione, assolutamente non simbolico; in
questa la voce non conta più quanto sia sonora, piuttosto quanto sia capace di
essere un corpo che, in quanto tale, può procurare piacere al corpo, una
soddisfazione pulsionale senza sublimazione (eppure non sessuale).
29 Ecco dunque cosa desidera la voce che canta: realizzare la coincidenza tra voce
e corpo, e recuperare così il godimento originario, quella soddisfazione che invade
il corpo quando la voce non significa niente e il corpo non è differenziato, non è
territorializzato dal simbolico, dal linguaggio.

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Note
1 Husserl, avverte Derrida, ha sottomesso nuovamente «il segno alla verità, il linguaggio
:
all’essere, la parola al pensiero e la scrittura alla parola» (ivi: 55).
2 Nella storia del pensiero non mancano posizioni contrarie a questo imponente
paradigma intorno alla musica: è infatti presente una corrente d’interpretazione che
trova nella musica l’unica voce appropriata alla grandezza di Dio, della verità. La musica
è misteriosa proprio perché non comunica concetti, perché continua a esprimere ciò che
non può essere espresso, non l’indicibile bensì l’ineffabile, come scrive Janké́lé́vitch
(1998: 62).
3 Forse in ragione della teoria dello specchio, lo sguardo ha sempre goduto di un certo
vantaggio.
4 Seppure il paradigma strutturalista non lo consenta, ci sembra difficile non sospettare
che vi sia un ordine cronologico: le vicende della voce sono evidentemente anteriori a
quelle dello specchio, e ciò farebbe dell’identificazione acustica un fenomeno più
primitivo dell’identificazione immaginaria.
5 «Che l’angoscia mi prenda la gola, che il dolore mi roda un dente, che la pena mi
strugga il cuore, tutte queste cose le percepisco nello stesso modo in cui percepisco che il
vento scuote gli alberi» (Husserl 1968: 536).
6 La nozione di desiderio non trova una descrizione puntuale nella teoria lacaniana: è ciò
che resta dopo che bisogni – fisiologici – e domanda – di accoglimento nell’ordine
simbolico – sono stati soddisfatti; oltre i confini dell’organico e del simbolico, è ciò che
non può essere detto.
7 Per queste ragioni Roland Barthes può scrivere: «La voce umana è dunque il luogo
privilegiato (eidetico) della differenza: un luogo che sfugge a ogni scienza, perché non
esiste scienza (fisiologia, storia, estetica, psicanalisi) che esaurisca la voce: per quanto si
classifichi, si commenti storicamente, sociologicamente, esteticamente, tecnicamente la
musica, ci sarà sempre un resto, un supplemento, un lapsus, un non detto che si designa
da solo: la voce. Questo oggetto sempre differente è posto dalla psicanalisi tra gli oggetti
del desiderio in quanto mancante, cioè tra gli oggetti a» (2001: 268).
8 Dobbiamo precisare che gli oggetti sguardo e voce sono si correlati al desiderio – essi
causano il desiderio, sono «il supporto per il desiderio dell’Altro» (Lacan 1974: 852) –
ma c’è da distinguere la direzione, il verso del desiderio dell’Altro: la voce è oggetto-
causa del desiderio verso l’Altro, mentre lo sguardo è oggetto-causa del desiderio che
proviene dall’Altro.
9 Nel Seminario X troviamo descrizioni del corpo e degli organi secondo un approccio
naturalistico: non se ne comprenderebbe la ragione se non si tenesse presente che da
questo punto della sua speculazione Lacan cerca di ridefinire gli oggetti prima che essi
diventino simbolici, prima dell’intervento del linguaggio: si tratta, per esempio, di un
ritorno al seno reale, a un pezzo di corpo che non è ancora “segno d’amore”. Inizia a
cercare, per dirla con Nietzsche, la grande ragione del corpo.
10 La voce che per Agamben deve annullarsi per lasciar spazio alla Voce significante,
sarebbe, in termini psicoanalitici, il godimento cui il soggetto deve rinunciare per essere
ammesso nell’ordine simbolico.

Per citare questo articolo


Notizia bibliografica
Cristian Muscelli, «Tra parola e canto. La voce tra fenomeno e oggetto
pulsionale», Rivista di estetica, 66 | 2017, 210-223.

Notizia bibliografica digitale


Cristian Muscelli, «Tra parola e canto. La voce tra fenomeno e oggetto
pulsionale», Rivista di estetica [Online], 66 | 2017, online dal 01 décembre 2017,
consultato il 08 novembre 2023. URL: http://journals.openedition.org/estetica/3366; DOI:
https://doi.org/10.4000/estetica.3366

Autore
:
Cristian Muscelli
Articoli dello stesso autore
L’altro e il tempo dell’immediatezza [Testo integrale]
Apparso in Rivista di estetica, 56 | 2014

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