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Introduzione
Sono seduto ad una pasticceria in centro città e parlo con un vecchio
amico, Daniele.
Non ci siamo frequentati molto da giovani, lui era taciturno, mi
sembrava riottoso, in mezzo ad una compagnia di coetanei immensa
e molto espansiva, ciò bastava a non avvicinarlo con frequenza.
Abbiamo poi passato gran parte della vita in viaggi che ci hanno fatto
rincontrare per brevissimi aggiornamenti, frasi brevi, saluti frettolosi,
cene con amici e rapidi incontri al bar.
Da qualche anno ci vediamo più spesso, la gigantesca compagnia di
una volta si è molto ristretta e lui, continuando con attitudine
riservata, è divenuto un riferimento. Tantissimi sono spariti.
Facciamo anagraficamente parte di quella generazione, cresciuta nel
primo dopoguerra, che, nella nostra città, è stata sovralimentata di
speranze ed ha passato una gioventù fantastica negli anni comodi,
durante una crescita costante dell’economia, fino all’inizio degli anni
’70. Ci siamo sentiti velocemente al telefono:
“Sai, ho voglia di fare un libro con la storia dei tornei di calcio di
Gaibola, ma non trovo nessuno che mi aiuti od abbia voglia di
ricordare quel periodo, un amico mi ha detto che tu forse potresti
aiutarmi, ti andrebbe?”
“Si, certo, vediamoci e parliamone, quando?”
“Anche oggi, non nel primo pomeriggio, un po' più tardi, …”
Ho risposto in modo affrettato, ma è un percorso che ho già fatto da
solo tante volte e quindi conosco già a memoria.
Due anni di clausura quasi totale, pandemia e conseguente attenzione
alla salute ci hanno obbligati a ripetuti ricordi consuntivi sul nostro
passato. Lui, come me, come tutta la mia generazione, sta rivedendo
a ritroso la sua esistenza, periodicamente, con frequenza sempre più
ansiosa, accelerato da notizie giornaliere che paiono bollettini di
guerra per i nostri coetanei, scappiamo da qualcosa che ci fa stare
sospesi. In troppo breve tempo tutta la nostra generazione è
caduta da un olimpo e dalla sensazione di immortalità ad una
percezione ctonia, terrestre e casuale.

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Ci siamo ritrovati improvvisamente anziani e precari nella nostra


vita, quasi estranei ad essa.
Un mattino ci siamo sfuggevolmente guardati allo specchio e ci
siamo scoperti, con gelida paura, trasparenti.
Ricopio un breve capolavoro, un haiku nazionale di un nostro grande
poeta, Eugenio Montale, per non deviare con goffe imitazioni la
emozione del momento:

Forse un mattino andando in un'aria di vetro,


arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:
il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro
di me, con un terrore da ubriaco.

Poi, come s'uno schermo, s'accamperanno di gitto


alberi, case, colli per l'inganno consueto.
Ma sarà troppo tardi; ed io me n'andrò zitto
tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.

Il mio amico, prima che alle sue spalle il vuoto lo raggiunga, ha


raccolto i ricordi belli che hanno marcato la sua gioventù felice ed ha
deciso di condividerli coi suoi coetanei.
Io ho già compiuto questa strada a ritroso, la ho usata per cura di me
stesso, come passeggiata giornaliera, ne conosco gli sviluppi ed i
particolari, le difficoltà di percorso e gli intransigenti obblighi da
rispettare, ma anche la ineluttabile circolarità che ti permette un
ritorno alle esaltanti emozioni del passato, ma che, alla fine del
giorno, come per un infame destino, quando avremo la percezione di
stare per acchiappare il senso della nostra gioventù ed il più
bell’istante della nostra vita, scompariranno d’incanto, come fumi di
una illusione, come momenti mai vissuti, nelle nebbie della nostra
memoria e ci precipiteranno ancora nella deprimente condizione di
anziano appena riconosciuta.
Anche noi, come Sisifo, abbiamo tentato un inganno troppo ardito e
siamo stati scoperti. Con tutti si può essere falsi, tranne che con gli
dèi e con sé stessi, pertanto, questa sarà la nostra punizione, accettare

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di essere mortali e perennemente riiniziare il ciclo di sforzi di


memoria che ci ridia il senso della felicità perduta, la nostra età ha
bisogno di ritrovare questo valore della nostra vita in epoca perduta,
prima che svanisca coi nostri ricordi più cari, cancellando la nostra
identità umana.
Guardo il mio amico con empatia e curiosità, lui non può percepire
cosa pensi, ma ne intuisce la direzione, estrae un vecchio album di
foto, ordinato con cura, da come mi descrive i particolari capisco che
le ha estratte e sfogliate tante volte, gli sono care.
Un amico è sempre anche uno specchio in cui ci si confronta, che ti
impone l’obbligo di notare le differenze e le diversità, ad allinearti
quando le riconoscessi importanti o futili.
“Non vorrai solo creare una memoria fotografica”.
“No, occorre anche scrivere qualcosa io ho scritto, ma faccio fatica”.
“Va bene, a scrivere penso io, ma tu questo libro perché lo vuoi
fare?”
Io so perché, ma gli ho rivolto la domanda per sapere se lui ha
chiarito con sé stesso il perché.
Mi risponde qualcosa di impacciato, mi parla di calcio, di Gaibola, di
una generazione precedente alla sua che già giocava, non mi parla di
gioventù felice o di vita sociale, però dice che il libro non deve
essere solo calcio, ma da lì prende lo spunto.
“Io credo si debba dire che in quegli anni il torneo di Gaibola ha
mostrato la fine di ogni restrittività nell’ambiente giovanile, che
mescolò, nella pratica dello sport più popolare, tutte le categorie e
componenti culturali del momento. Intorno al campetto di Gaibola,
complice il calcio, si riunivano e mescolavano formazioni e
rappresentanze di ogni tipo, i gruppi più selettivi ed i più popolari, i
più anziani ed i più giovani, le classi più agiate e quelle povere, in un
festival primaverile di puro divertimento e su uno scenario di verdi
colline e primo pallido sole ristoratore.
Fu un successo unico determinato da tantissime componenti, ma per
prima quella di una società giovanile senza barriere, erano crollati i
muri, non tutti, ma tanti”.

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“Anche la presenza tra il pubblico di ragazze fece la sua parte, fu il


primo torneo dove vidi delle ragazze tra il pubblico”.
In pochi minuti cominciamo a guardare l’album, escono ricordi,
personaggi, storie, si, ci siamo, si rigenera l’ambiente del mito, il suo
scenario, adesso occorre creare la sua epica.
“Io posso scrivere, ma tu mi devi alimentare, ricordo qualcosa, ma
non tutto, ho pochi dati. Non vorrei inoltre mettere nomi e cognomi,
se non li abbiamo tutti si fanno dei torti, e se li ritrovassimo tutti
diventerebbe un elenco del telefono”.
“Io i nomi li metterei, almeno quelli importanti, anche di quei
personaggi caratteristici che si notavano, non solo di chi giocasse”.
Sto pensando che andrà scritto in stile story telling, e che dovrò
essere sia cantastorie che contastorie, tanto per non pensare di
passare da mito a logos con una sequenza di particolari inutili,
occorre qualche foto, ma molta vaghezza nel ricordo. Per questo
siamo già pronti.
“Abbiamo bisogno di un editor, qualcuno che stia fuori delle parti e
legga quello che scriviamo facendo commenti anche non benevoli,
che ci richiamino all’interesse ed allo scopo”.
Daniele non vede l’ora di togliersi il giogo della scrittura:
“Dammi la mail, ti invio tutto quello che ho scritto finora, l’editor ce
l’ho io, ha giocato anche nel torneo, credo sarà interessato, legge
molto”.
Io non vedo l’ora di iniziare a scrivere e rilancio:
“Comincio a scrivere subito la prefazione, ti invio ogni capitolo
quando finisce, per correggerlo a quattro mani”.
Quanto sopra è esattamente, visto dalla mia parte, la origine di
questo libro.
Non descriverò nel libro i contenuti dolorosi del ricordo e del ritorno
all’epoca, come spero farà Daniele, non parlerò più dei contorni
sfumati degli avvenimenti, della nostra fatica a ricordare, né del fatto
che più ci si allontana nel tempo più svaniscono i ricordi ingrati, e la
possibilità di recuperare quelli rimossi, declinerò tutto il racconto al
presente o imperfetto, malgrado siano quasi passati sessanta anni,
vedremo se funziona.

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Andiamo a fare una passeggiata sulla zona, usciranno, come nebbia


dal terreno, le prime storie, nella nostalgica magia del ricordo.
Gaibola e Via di Gaibola
Elenco alcuni dati geografici per ubicare l’area.
Da via dell’Osservanza raggiunge la chiesa parrocchiale di San
Michele Arcangelo di Gaibola e prosegue verso sud senza sfogo.
Quartiere Santo Stefano.
Questa via è antichissima e serviva per raggiungere la chiesa di San
Michele Arcangelo di Gaibola, documentata almeno fin dal 1221.
Ora la via, a sud della chiesa, non ha sfogo, ma fino all’inizio del XX
secolo raggiungeva via dei Colli, con un percorso ben documentato
nelle mappe IGM del 1884 (SIT) e di Lodovico Facchini.
La carta topografica IGM del 1884 assegna alla nostra via il nome
di Strada dell’Osservanza, considerandola evidentemente estensione
di via dell’Osservanza.
Pare che via di Gaibola fosse in passato nome assegnato
all’attuale via dei Pozzetti, nome quest’ultimo che invece sarebbe
stato di pertinenza della nostra via. Uno scambio di nomi, insomma
(vedi Fanti, I, 382 e II, 681 e 682).
Per quanto riguarda il significato dei toponimi Gaibola e Pozzetti, il
Fanti, per Gaibola propose la derivazione dal
latino Caveola da Cavea, che intese con il significato di “gabbia”.
Non essendo questo significato riconducibile ad alcunché di chiaro, il
Fanti propose l’interpretazione di Gaibola, come “insegna da osteria
fatta con rami d’albero (frasca)”, confortato dal fatto che gli Statuti
di Bologna del 1245-1267 (Luigi, Frati, I, 174)
riportano garbola, caibola, caybola con questo significato, e quindi
immaginando la presenza di una osteria in un punto non bene
precisato.
Probabilmente però il significato di Gaibola è molto più semplice di
quanto qui esposto.
La derivazione di Gaibola da cavea è quasi certamente corretta. Ma il
significato da dare a cavea non è quello di gabbia, ma quello
(sicuramente proprio) di cavità. Gaibola è toponimo proprio della
zona in cui sorge la chiesa, nota con questo nome, come si è visto,

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fin dal 1221. Se a quell’epoca vi fossero osterie presso la chiesa è


tutt’altro che certo, ma che vi fosse allora, come oggi e come da
epoca preistorica, una grotta accessibile attraverso uno stretto varco
proprio dal prato di fronte alla chiesa è cosa nota da sempre e
documentata, per esempio, dal Calindri (III, 26) nel1782.
Quindi la nostra piccola grotta, o caveola, fu quella che diede il
nome allalocalità.
Il pozzo di accesso alla grotta non è l’unico accesso, ma ve ne è
almeno un altro poco lontano in località Fontanino, e l’area,
tipicamente carsica, è punteggiata di inghiottitoi. È assai probabile
che l’odonimo via dei Pozzetti faccia riferimento non ad un fondo
rustico (di cui non vi è traccia con questo nome) o a dei generici
pozzetti di scolo ad uso agricolo (Fanti, II, 682), che in territorio
collinare avrebbero poco senso, ma ai pozzi di accesso alla grotta
(lunga più di un chilometro) e agli inghiottitoi che costellano l’area.
San Michele Arcangelo di Gaibola
Chiesa parrocchiale tuttora esistente, la cui costruzione è
tradizionalmente fatta risalire addirittura all'VIII secolo, in piena età
longobarda. Le prime notizie documentate con certezza sull'esistenza
della chiesa risalgono però solo al 1221. Fu poi più volte restaurata
nel corso dei secoli, nel XIV e nel XV. A metà del Seicento la chiesa
di Gaibola, eretta a pieve, svolgeva funzione di controllo
amministrativo su tutte le chiese del suburbio circostante: Casaglia,
Roncrio, Paderno, Santa Maria della Misericordia e San Giuseppe
Sposo. La costruzione attualmente visibile risale al 1859.
Sotto la chiesa di San Michele Arcangelo si trova la "Grotta di fianco
alla Chiesa di Gaibola" o "Grotta della Gaibola", la cui lunghezza
complessiva risulta superiore al chilometro e la cui profondità è di 37
m. In queste cavità scorre un rio sotterraneo alimentato da diversi
punti di infiltrazione che punteggiano l'area soprastante (fratture
beanti e inghiottitoi), le cui acque vengono a giorno presso il
Fontanino, una delle poche risorgenti carsiche ancora visibili nel
comprensorio dei gessi bolognesi (quasi tutte sono andate distrutte
dalle cave). A Gaibola i gessi sono sempre stati sfruttati per la
produzione di scagliola: l'ultima cava ha chiuso a seguito di un

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incidente alla fine degli anni '50. In questo piccolo microcosmo di


gesso, raggiungibile dal centro della città con mezzi pubblici, è
possibile compiere una breve escursione che dalla chiesa di Gaibola
raggiunge la risorgente del Fontanino, mentre nel bosco adiacente
alla chiesa si osservano i fronti abbandonati delle vecchie cave di
gesso.
Fonti:
Calindri: Dizionario corografico, georgico, crittologico, storico, ecc.
ecc. ecc. della Italia. Opera della Società Corografica, di Serafino
Calindri. 6 volumi stampati a Bologna dalla Stamperia di S.
Tommaso d’Aquino, tra il 1781 e il 1785.
Facchini: Carta topografica della provincia di Bologna, seconda metà
sec. XIX, disegnata e incisa da Lodovico Facchini. Dalla Cartografia
Storica Bolognese della Biblioteca Digitale dell’Archiginnasio di
Bologna.
Fanti: Le Vie di Bologna. Saggio di Toponomastica Storica,
di Mario Fanti, Istituto per la Storia di Bologna, 2000.
SIT: Sistemi Informativi Territoriali del Comune di Bologna.
Marcello Fini, Bologna sacra. Tutte le chiese in due millenni di
storia.
Il gioco del calcio a Bologna.
L'unico club vetusto bolognese dedito al calcio fu la Società
Sezionale di Ginnastica in Bologna, creata nel 1871 (e oggigiorno
conosciuta come Società di Educazione Fisica Virtus), la quale
organizzò il 9 maggio 1891 la prima esibizione del football in Italia
di cui sia abbia notizia, e aprì nel 1910 un settore dedicato alla
disciplina. Il Bologna Football Club nasce sui tavoli della Birreria
Ronzani in Palazzo Lambertini il 3/10/1909.
Il gioco del calcio a Bologna divenne popolare dopo la Prima guerra
mondiale.
Il primo scudetto è datato 1925, da quella squadra nasce la struttura
portante dello squadrone che fino alle soglie della Seconda guerra
mondiale vinse sei scudetti, due coppe d’Europa, oltre ad essere, con
questi successi, la prima squadra italiana a vincere un trofeo
internazionale.

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Durante questo percorso esaltante si inaugura la nascita del nuovo


Stadio, l’allora “Littoriale”.
Il Bologna fornì inoltre importanti risorse alla nazionale italiana del
1934 e del 1938 campione del mondo. Questa traiettoria vittoriosa fu,
purtroppo, interrotta dalla guerra che ne disperse gli attori
protagonisti, non la gloria.
Il gioco del calcio, fin dalle origini era nato come gioco
interclassista, attingendo risorse sia da club riservati ad altre
discipline più nobili che dall’ambiente studentesco o del lavoro o
dalle campagne. A Bologna si creò anche un ambiente
internazionale, grazie al fondatore ed ai primi grandi allenatori di
origine d’oltralpe.
Questa epopea, che arriverà alle soglie della guerra, fece nascere in
noi una cultura del calcio generatore dei miti che tuttora amiamo
nello sport: la gioia del gioco piuttosto che l’esercizio fisico,
divertente più che faticoso, liberatorio e fantasioso, non disciplina
obbligata.
Allego poche righe di uno dei suoi più famosi appassionati che
testimoniano tale senso.
“Io sono tifoso del Bologna. Non tanto perché sono nato a Bologna
quanto perché a Bologna sono ritornato a quattordici anni e ho
cominciato a giocare a pallone. I pomeriggi che ho passato a
giocare a pallone sui Prati di Caprara (giocavo anche sei-sette ore
di seguito, ininterrottamente: ala destra, allora, e i miei amici,
qualche anno dopo, mi avrebbero chiamato lo "Stukas": ricordo
dolce bieco) sono stati indubbiamente i più belli della mia vita. Mi
viene quasi un nodo alla gola, se ci penso. Allora, il Bologna era il
Bologna più potente della sua storia: quello di Biavati e Sansone, di
Reguzzoni e Andreolo (il re del campo), di Marchesi, di Fedullo e
Pagotto. Non ho mai visto niente di più bello degli scambi tra
Biavati e Sansone. Che domeniche allo stadio Comunale!”
(PIER PAOLO PASOLINI, Allo stadio la passione non cambia, dalla
rubrica. Il caos del settimanale Tempo, 4 gennaio 1969)
“Il calcio è l'ultima rappresentazione sacra del nostro tempo. È rito
nel fondo, anche se è evasione. Mentre altre rappresentazioni sacre,

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persino la messa, sono in declino, il calcio è l'ultima rimastaci. Il


calcio è lo spettacolo che ha sostituito il teatro. Perciò considero il
calcio l'unico grande rito rimasto al nostro tempo.”
(Guido Gerosa intervista Pier Paolo Pasolini. L'Europeo, 31
dicembre 1970)
Qualche anno dopo anche noi, bambini, crescevamo con questa
passione. Una funzione sociale del calcio è evidente, oggi per trovare
un amico si cerca tra i compagni di scuola o ci si rivolge ai social, ai
nostri tempi era sufficiente andare ai giardini con un pallone sotto il
braccio per trovare un gruppo di “amici” ed iniziare a fare le squadre
con il fatidico “Bim bum bam”. Chi aveva il pallone aveva diritto a
scegliere per primo, si formavano le squadre e si cominciava.
Giocavamo dovunque, nei cortili, in casa, a volte in strada. I campi
erano pochi, e da bimbi non giocavamo nei campi grandi, ma in
campetti minimi, segnando le porte con le cartelle o coi cappotti,
senza scarpe particolari o divise, coi vestiti di sempre, per le scarpe
poi non c’era problema, il piede cresceva più in fretta del tempo che
impiegavamo noi a romperle dando calci. Le parrocchie attrezzarono
i cortili con porte fatte in casa e spesso giocava con noi qualche
giovane parroco, le piazze erano zone di “partita” a tutte le ore.
Dietro casa mia, in piazza San Francesco, a qualsiasi ora in piazza
c’era chi correva con un pallone. Durante la pausa pranzo, dopo
avere consumato sul posto un magro pasto il campo era lasciato ai
“grandi”, ma dopo le due era “nostro”. La “merenda” del pomeriggio
era un pezzo di pane o un frutto, il pane lo si comprava da Perin, una
grande panetteria in piazza Malpighi, dove alla cassa trovavamo lui,
il campione. A volte, guardando le foto attaccate al muro, ci narrava
con orgoglio il suo passato, era già stato giocatore nel primo scudetto
e aveva vinto pure un mondiale con la nazionale.
Le divise di ginnastica e la biancheria intima si compravano da
Schiavio. Spesso andavamo a fare atletica al campo della Virtus, e ci
fermavamo fino a sera a vedere Biavati insegnare ai ragazzini, ed a
volte Sansone, che allenava i pulcini all’antistadio. I campioni erano
sempre tra noi, a ricordare un periodo epico, ed il calcio ha scandito
tutte le nostre stagioni, con le sue cadenze.

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La nostra generazione, dei nati tra il ‘40 ed il ’50, ha due sport amati
in prevalenza, calcio e ciclismo, ma il ciclismo era fatto di fatica,
impegno e sudore, il calcio di talento e fantasia.
Per il calcio noi eravamo la generazione di appassionati che
desideravano rivivere il mito dello “Squadrone che tremare il mondo
fa”, ma, in attesa di nuove glorie, tutti ci convertimmo a quel gioco.
Il ciclismo aveva i suoi miti viventi in quegli anni ed era per noi, alla
fine della scuola, motivo di grandissimo interesse, ma durante la
pausa del campionato di calcio.
Il grande duello Coppi Bartali, amplificato dalla Gazzetta dello
Sport, e da tutti gli altri giornali sportivi creava un interesse
diffusissimo ed inatteso. Bartali si ritirò nel ’54 e Coppi morì nel ’60.
Da allora fino alla fine degli anni ’60 il primo sport per la nostra
generazione fu il calcio. In quegli anni il presidente Dall’Ara non
riuscì a ripetere i successi degli anni precedenti la guerra, solo
mantenne una decorosa presenza in serie A ed un pubblico
domenicale di tifosi appassionati.
Nel ’61 arrivò ad allenare la squadra Fulvio Bernardini ed in pochi
mesi il gioco della squadra divenne celestiale. In giro per la città, si
cominciò a respirare un clima euforico, agli allenamenti
infrasettimanali i tifosi riempivano gli spalti della tribuna, glorie
cittadine, giovanissime, ebbero accesso alla prima squadra, creando
tra noi, di poco più giovani, modelli da emulare.
La crescita fu immediata ed inarrestabile, in tre anni arrivammo a
vincere l’ultimo scudetto, poco rispetto al gioco che la squadra
riusciva ad esprimere, ma tanto se si considerano le povere risorse
economiche a disposizione e le strutture finanziarie delle avversarie.
Il 4 giugno del 1964, a Roma, ad una settimana dalla perdita del
nostro grande Presidente, la squadra, con un atteggiamento cauto ma
vittorioso affrontò la grande Inter di Herrera e batté sul campo la
squadra e tutte le operazioni avverse degli ultimi mesi perpetrate dai
media e dalla Lega. Il presidente era deceduto nella sede della Lega
Calcio da pochi giorni, in vista di una riunione preparatoria con il
Presidente Moratti. Quel giorno la Lega gli avrebbe proposto, per
l’anno in corso di assegnare due scudetti ex aequo, offerta non

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accettabile, ma segno di un tentativo da parte di qualcuno di volere


riparare ai torti eseguiti. Nello spareggio, unico della storia del calcio
nazionale e giocato a Roma allo Stadio Olimpico, nel secondo
tempo, il Bologna, superato il timore nei confronti della più titolata
Inter e della classe dei suoi giocatori, meritava la vittoria con un
risultato di 2-0, provocando una esplosione di gioia di tutta la città.
Come spesso ricordava Pasolini “classe” non sempre vuole dire
simpatia, essa è come la grazia: crudele. Da quel giorno ogni
bolognese che si rispetti detesta i “bauscia” interisti.
Quel giorno io ascoltai la telecronaca della partita alla radio,
studiando per il mio primo esame universitario, Analisi I, che diedi
durante la settimana seguente in preappello, ma in serata si gridò in
piazza fino a notte inoltrata. La squadra meritò il detto “Così si gioca
in Paradiso” e lo Stadio, che muta nome con le generazioni, fu
intitolato “Stadio Dall’Ara”.
Lo sport a Gaibola.
Gaibola, fino dai primi del secolo, come tutta la città, partecipò alla
omologazione del calcio quale sport lider ed ebbe i suoi campioni di
bandiera. Provenendo da un insieme sociale più selettivo i campioni
erano atleti che arrivavano al calcio da altre discipline, soprattutto
tennis.
Angiolino Pilati a 21 anni era una promessa del tennis, campione
regionale di doppio assieme a suo fratello Cito ed ottimo giocatore di
calcio, meritando l’ingresso nella prima squadra del Bologna
giovanissimo.
Si trasferì a giocare a calcio a Firenze, dove era militare, un anno
giocò nella Fiorentina, poi tornò al Bologna da titolare. Prima di lui
il fratello più anziano di dieci anni, Piero aveva militato tra le file del
Bologna. Notato giovanissimo da un dirigente quando giocava in un
collegio studentesco a Ferrara, dove era stato relegato per scarso
rendimento scolastico, dall’anno dopo giocò in prima squadra. Quale
parte della famiglia Vallisi, Piero era centrale a Gaibola, abitando il
“Palazzo” e divenne un modello per lo sport calcistico di tutta la
zona.

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Angiolino, fratello minore di Piero, crebbe nei "Giovani" del


Bologna dove si segnalò come ottimo attaccante. Esordì in prima
squadra nel 1928. Giocò il campionato 1927-28 con il Bologna, poi
andò a Firenze nel 1928-1929 dove rimase per un solo anno con il
club gigliato, 15 le presenze e due i gol. Nel 1929-30 tornò al
Bologna, con cui disputò il primo campionato di Serie A a girone
unico, con 14 presenze e 3 reti. Tennista di livello nazionale,
nel 1929, assieme ai fratelli maggiori Alfonso e Francesco e a
Ermete Alfieri, vinse i campionati italiani a squadre di II categoria,
con la maglia della sezione tennis della Virtus Bologna.
Pur bravissimo nei due sport, nel calcio non avrebbe probabilmente
raggiunto la maestria di Piero, ma aveva invece incassato una
maggiore notorietà tra amici e donne del suo ambiente.
Una malaugurata sera di settembre del 1930, era salito con Bubi
Scimeca sulla Lambda di altri amici per andare a prendere dei dischi
a palazzo Vallisi, con cui organizzare una festicciola improvvisata.
All’ultima curva, prima della villa degli Scimeca a Iano, la auto
decapottabile si rovesciò ed i due amici, seduti sul sedile posteriore,
persero la vita.
La politica ed il calcio.
La velocità con cui la passione del calcio divampò in tutta Europa
rappresenta un fenomeno che va ben oltre la sua dimensione ludica o
sportiva che abbiamo citato e interseca motivi storici, sociali, politici
ed antropologici.
Ho già citato precedentemente Pasolini che menziona il calcio, per il
suo tempo, come l’ultimo rituale mistico dell’umanità.
Per confermare tale percezione possiamo ricordare le sensazioni che
ricevemmo dalle vittorie dei mondiali di Spagna del 1982 e
Germania del 2006 e degli europei del 2020, le quali scatenarono
neofite estasi collettive e liberatorie di ingenti quantità di masse
popolari.
Non ero presente nel 1934 e 1938, ma anche allora mi riferiscono si
siano liberate analoghe reazioni, con esplosioni di smisurato
entusiasmo ed apparizioni di bandiere e vessilli nazionalistici anche

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in aree che per la complessità di cultura e storia vivevano il


nazionalismo in modo imbarazzante.
Certamente il primo che si rese conto di ciò, analizzando il fenomeno
dal punto di vista storico politico, fu Leandro Arpinati, il quale,
proprio a Bologna aveva avvertito la capacità di questo sport di
creare coesione sociale, appartenenza e orgoglio, emulare, con
mistica calcistica, prima che con altri sport, la meno popolare mistica
fascista.
Il calcio, rispetto alle altre discipline sportive, dunque, si affrancò
come sport più popolare e più amato, superando altre discipline
sportive ben più antiche.
Arpinati, figura complessa e controversa, ricevette dal fascismo, dal
1926 al 1933 il ruolo di organizzatore plenipotenziario del calcio e
dello sport. Grazie al suo costante impegno ed alle sue capacità
organizzative il mondo del football si avviò ad una lunga stagione
indimenticabile di successi internazionali.
Esula dallo scopo di questo libro un giudizio storico critico, peraltro
molto difficile, della persona, che in varie fasi della sua vita fu
comunque: socialista di origini, anarchico, interventista, operaio,
giornalista, politico, fascista, organizzatore di squadre d’azione
bolognesi, manganellatore e forse omicida, podestà, presidente della
Federazione Italiana Gioco Calcio, fiero oppositore dell’idea di
creare un Ministero dello Sport, segretario del ministero degli interni,
proprietario di testate giornalistiche, fino ad arrivare al climax di
potere come seconda figura del fascismo nazionale e ad una
immediata rapida caduta che lo portò al confino prima ed agli arresti
poi.
Un suo successivo ritiro dalla scena politica e contatti con forze
partigiane non gli evitarono, comunque, una fine violenta in
circostanze misteriose, nel 1945, ad opera di una brigata partigiana.
Per quanto riguarda i suoi intrecci con la vita calcistica del Bologna
possiamo ricordare i seguenti interventi.
- Lo scudetto del campionato italiano di calcio della stagione
1924 - 1925 è da sempre l’emblema di una grande ingiustizia
sportiva, perpetrata a chi, come il Genoa, vincendo lealmente la sua

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gara agonistica sul campo, si vedeva impunemente sottratto dalla


violenza e dalla prepotenza un alloro preziosissimo e fondamentale
per la sua storia.
Solo dopo la fine della guerra alcuni giornalisti sportivi
riferirono che Arpinati, con un gruppo di militanti armati
invase il campo ed obbligò l’arbitro ad assegnare un goal al
Bologna.
La stampa nazionale tacque l’evento, solo alcuni giornali
esteri lo riportarono senza echi nazionali. Le spirali di calcio
e potere si incrociano da allora.
- Questa fine campionato generò, come conseguenza, la
creazione, da parte delle società partecipanti, delle “Liste di
ricusazione”, con cui potevano rifiutare alcuni arbitri non graditi. La
categoria arbitrale rispose a tale affronto con uno sciopero di classe a
oltranza.
Il Consiglio Federale, incapace di gestire la crisi, rilasciò le
dimissioni, delegando i suoi poteri al CONI. Il Presidente del
comitato olimpico colse l’occasione per nominare un
comitato di tre esperti con il fine di superare la crisi e
adattare il calcio italiano alla nuova realtà politica, dettata
dalla “rivoluzione” fascista.
I tre Commissari redassero la “Carta di Viareggio” in fretta e
furia, che, nel giorno stesso rese esecutivo un Direttorio
Federale, potere che fu subito assegnato ad Arpinati che
aveva designato la commissione. L’obbiettivo di assorbire
nel sistema totalitario il gioco del calcio era così raggiunto.
- Il podestà di Bologna immediatamente trasferì la sede della
FIGC da Torino a Bologna, che divenne così la capitale del calcio
italiano. Le successive decisioni della Federazione trasformarono il
calcio da disciplina dilettantesca ad attività professionistica.
Fu inoltre creato un Comitato Italiano Tecnico in
sostituzione della associazione AIA (italiana arbitri).
Vennero pertanto anche regolate le condizioni di
trasferimento dei giocatori da una squadra all’altra, sia a
livello dilettantesco che professionistico.

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A partire dal campionato 1926 – 1927 fu ammesso, per ogni


squadra un solo giocatore straniero, e dal 1927 – 1928
nessuno straniero per squadra. Tali regole furono
naturalmente aggirate dai grandi club attraverso l’ingaggio di
giocatori sudamericani con origini italiane, i cosiddetti
“oriundi,” che in alcuni casi, nonostante la contrarietà di
Arpinati, vennero convocati in nazionale.
- Il campionato divenne campionato nazionale integrando
Nord e Sud e comprese 18 squadre. La formula del campionato,
destinata a rimanere la stessa per diversi anni, comprendeva
trentaquattro giornate di campionato con due punti a vittoria e un
punto per il pareggio.
A definitivo riconoscimento dei successi riscossi con la
gestione del calcio, Arpinati, dal 1931, accorpò la presidenza
del CONI e la affiancò alla gestione della FGC.
Bologna divenne quindi, in quegli anni, capitale del calcio, per
questo Arpinati pensò anche ad un luogo celebrativo dove accogliere
una folla popolare per vedere, conoscere e diffondere il gioco del
calcio. Il Bologna giocava le sue partite al campo dello Sterlino,
certamente non all’altezza delle ambizioni di Arpinati, il quale lanciò
il progetto dello stadio Littoriale, il primo grande stadio calcistico
costruito in Italia.
Primo obiettivo di Arpinati fu ottenere quei finanziamenti necessari
per un’impresa così ambiziosa. Il Governo mise a disposizione un
milione di lire (pari a 728.000 euro), mentre il Partito investì tre
milioni (2.186.000 euro). Il Comune, su richiesta di Arpinati,
contribuì per il 3% dei costi sull’interesse del capitale stimato
all’epoca attorno ai 4 milioni di lire, per un periodo di quindici anni.
Il ras di Bologna, al fine di completare velocemente la costruzione
dello stadio, richiese un contributo volontario anche alla cittadinanza.
Appellandosi ai bolognesi, Arpinati lanciò dalle pagine del Resto del
Carlino la campagna
“Acquista un mattone”. Con un invito piuttosto pressante, il ras
chiedeva alle aziende bolognesi, di ogni settore, un versamento di
almeno 1.000 lire. Persino le poche cooperative rosse sopravvissute

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nel regime fascista offrirono un proprio contributo. In questo modo


Arpinati riuscì a raccogliere ben 857.175 lire. Lo stadio, secondo
quanto riferito dal periodico l’Assalto, costò alla fine 16.600.000 lire,
nonostante Arpinati, pur senza produrre prove a supporto, affermasse
che, in realtà, la spesa non superasse i 12 milioni complessivi.
Accanto allo stadio furono poi costruite due piscine: una scoperta da
50 m e una più piccola coperta e riscaldata d’inverno, che fu la
prima, con queste caratteristiche, mai costruita in Italia.
Il Littoriale, costruzione maestosa e unica nel suo genere, fu dotato
di oltre 50.000 posti, capienza enorme per una città che aveva allora
circa 200.000 abitanti. Arpinati intendeva, da un lato, esaltare la
“grandezza” del regime e, dall’altro, erigere quasi un monumento a
sé stesso. Per questo motivo lo stadio fu ironicamente
soprannominato dal popolo “Mole Arpinatiana”. Lo stesso Mussolini
riconobbe i meriti di Arpinati, definendo il Littoriale «un fulgido
esempio di ciò che si può fare con la volontà e la tenacia del
fascismo, personificata a Bologna da Leandro Arpinati». Come
accaduto per gran parte dell’architettura fascista, anche lo stile dello
stadio di Bologna avrebbe dovuto ispirarsi all’antichità romana. E, in
particolare, come ebbe a dire lo stesso Arpinati, le terme di
Caracalla. La facciata dello stadio presentava anche una forte
impronta medievale, grazie ai mattoni rossi, che ricordavano le mura
cittadine. A sottolineare il valore monumentale dell’impresa fu eretta
la torre di Maratona. Sotto di essa fu posta una statua bronzea
raffigurante Mussolini a cavallo. Dopo la caduta del regime questa
statua fu abbattuta dalla folla. Il cavallo, rimosso nel 1947, fu fuso e
riutilizzato dallo scultore Luciano Minguzzi per forgiare due statue
raffiguranti i partigiani, a ricordo della battaglia di Porta Lame. Lo
stadio, non ancora completato e con i lavori visibilmente in corso, fu
inaugurato da Mussolini la mattina del 31 ottobre 1926.
Il capo del governo fece il suo ingresso a cavallo, tra una folla
plaudente. Nel tardo pomeriggio dello stesso giorno, il dittatore fu
oggetto di un fallito attentato ad opera dell’anarchico quindicenne
Anteo Zamboni, che fu barbaramente linciato dalla folla.
L’inaugurazione ufficiale dello stadio avvenne in occasione della

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partita Italia-Spagna del 29 maggio 1927. Presenziarono circa 55.000


spettatori e, tra questi, il re d’Italia Vittorio Emanuele III (che si
narra non fosse particolarmente attratto dal calcio) e l’infante
Alfonso.
La domenica successiva, il 5 giugno, anche il Bologna debuttò al
Littoriale.
Quanto descritto sopra serve per inquadrare il clima generale e
l’interesse che il calcio aveva creato in meno di quindici anni
effettivi di vita, dalla fine della Prima Guerra Mondiale, fino alla
espulsione dal partito fascista di Arpinati nel 1933.
Credo resti evidente che il Fascismo aveva creato, tramite Comitati
Olimpici ed altre organizzazioni parallele, una grande attenzione allo
Sport, ma che, malgrado la velocità con cui Arpinati riuscì a
cavalcare il fenomeno, nel calcio, il traente fu la passione popolare,
non la rivoluzione fascista. Con una sua vita autonoma questa
disciplina sportiva, pur nata da poco, riusciva a generare passioni ed
interessi popolari che offrivano una finestra di colloquio con i ceti
medio bassi mai raggiunta prima. Questa base tanto allargata divenne
terreno fertile per tutte le attività che, per svilupparsi, avessero
necessità di grande diffusione, nacquero quindi in embrione in questo
periodo tutte le radici degli sviluppi futuri che ancora oggi
alimentano e traggono alimento dal football. (es. Pubblicità e
Marketing, Editoria Sportiva, Calcio scommesse, Sisal, Totocalcio,
etc.…)
Io sono nato alla fine della guerra, nel 1944, non posso pertanto
ricrearmi emozioni, con queste ricostruzioni, ma posso tentare di
percepire un ambiente ed una mentalità subito precedente alla mia
nascita, tentando, aldi là di una muraglia tempo spaziale creata
dall’evento bellico, di riaccostare i capi della storia del calcio in
questa città.
Se è permesso dire qualcosa di positivo a favore di Arpinati, non
voglio ricordarlo come Fascista, ma come tifoso rossoblù, accanito
nella passione dello sport quanto distaccato come politico, tentò
sempre di tenere la politica fuori dell’ambiente sportivo, senza
inquinare il calcio con dottrine politiche o maneggiamenti da

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faccendiere, fra le altre cose non pretese mai che i suoi dipendenti
fossero iscritti al partito, e scelse, per la Nazionale, un commissario
tecnico, Vittorio Pozzo, che non ebbe mai la tessera.
Parte in causa in un proto-processo di corruzione tra Torino e
Juventus, dopo la squalifica del Torino, quell’anno primo in
classifica a fine campionato, non fece assegnare lo scudetto alla sua
squadra, il Bologna, arrivata seconda, semplicemente non assegnò lo
scudetto, spiegando con una lettera alla Gazzetta dello Sport le
motivazioni:
“Ho sempre agito in tutta la mia vita con molta prudenza e molto
equilibrio prima di pronunciarmi… Chi ha sbagliato deve pagare. Il
football italiano è pervaso da qualche tempo a questa parte da un
sottile veleno che lo mina alle origini. Guai se il pubblico comincia
a dubitare che anche nel football, giuoco collettivo e passionale al
massimo grado, siano possibili losche ed interessate pattuizioni di
singoli, intese a falsarne i risultati sportivi. Ho motivo di ritenere
che sarebbe a breve scadenza la fine per lo sport del calcio che se
pure godesse ancora dei favori delle folle piomberebbe nel
discredito così come è avvenuto purtroppo per altri sport che furono
pure in largo onore in Italia. Queste sono le ragioni per cui ho
voluto essere, ripeto, inesorabile e non ho considerato null’altro che
le buone ragioni del sano ed onesto sport. Ma quando ho acquistata
una certezza, quando ho scoperto qualche cosa di poco pulito, sono
sempre stato inflessibile e non ho mai guardato in faccia a nessuno.
Il titolo di campione d’Italia passerà ora al Bologna? Assolutamente
no. Il risultato dell’inchiesta è tale che ho riportato l’impressione
precisa che talune partite di campionato abbiano falsato l’esito del
campionato stesso. Il Bologna non avrà perciò il titolo tolto al
Torino; il campionato 1926-27 non avrà il suo vincitore”.
Altro commento singolare che voglio fare è che ancora oggi venga
ricordato, come motivo storico della uscita di scena di Arpinati, una
sua lite con Storace per il rifiuto fatto a lui ed ai suoi uomini di
entrare gratuitamente ad una partita di calcio a Roma, imponendogli,
come a tutti di pagare il biglietto.

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Ancora oggi, novanta anni dopo, non è difficile distinguere nella


tribuna dello Stadio Olimpico decine di politici “non paganti” soli od
accompagnati, a volte con bambinaie e prole.
L’ultimo commento che voglio fare è sulla abitudine, oramai
esistente da secoli, a Bologna, di fondere le statue in bronzo dopo la
caduta del potere che le aveva generate.
Certamente, l’avere fuso la unica statua in bronzo esistente di
Michelangelo, raffigurante Giulio II, alta oltre tre metri ed a detta di
tutti, con uno sguardo pietrificante, per costruirne una colubrina e
chiamarla “Giulia” fu un atto di maggiore ignoranza artistica che
irriverenza.
Dopo avere assistito dalla mia nascita in poi a tanti caroselli di statue
in bronzo voglio dare un consiglio ad un lettore che casualmente un
giorno diventasse famoso: “Non farti a Bologna una tua statua in
bronzo, perisce presto, falla in argilla, resiste di più, magari non
colorarla”.
La figura di Arpinati esce quindi bifronte, come le saliere di
Romagna, sua terra, modesto uomo del pepe come fascista, ma
ottima massaia come dirigente sportivo.
Durante la presidenza della Figc, Arpinati riorganizzò il calcio ad
uso fascista, ispirando riforme che avrebbero permesso a questo
sport di dotarsi di strutture più moderne e organizzazioni più
professionali. Con la scelta di Pozzo a C.T. della nazionale pose le
basi per i futuri successi degli azzurri ai mondiali del 1934 e 1938.
Grazie al suo lavoro e alle sue indubbie capacità organizzative, lo
sport e il calcio in particolare raggiunsero in Italia un’importanza mai
avuta in precedenza. Arpinati agì seguendo il suo istinto, con quello
spirito di autonomia che lo aveva sempre contraddistinto in passato.
Come scrisse lo storico Antonio Ghirelli sul Corriere della Sera,
Arpinati «partito come altri con la missione di mettere la camicia
nera al Coni e al calcio, divenne ben presto il più feroce paladino
dell’autonomia dello sport contro tutte le sopraffazioni del regime,
seguendo il filo logico di una concezione della vita in cui avevano il
primo posto la competenza, il disinteresse personale, un feroce anti
conformismo».

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Fonte: Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», ISSN


2280-8833, 52, dicembre 2021 | 24
Gaibola.
Durante il periodo descritto sopra Gaibola, quartiere di alta borghesia
nella stagione estiva, si allineava perfettamente ai desiderata del
regime. Molte famiglie di allora comprendevano iscritti al partito che
spesso frequentavano riunioni e ricevevano visite di gerarchi.
Daniele mi informa che, a quei tempi, al “Palazzo”, spesso ci furono
riunioni anche con membri della sua famiglia. Esclude che qualcuno
fosse particolarmente acceso, con un commento che non lascia adito
a dubbi: “Tanto che nessuno dovette scappare e restò, comunque,
vivo, nell’immediato dopoguerra”.
Io non ho la percezione degli avvenimenti del dopoguerra sui colli
bolognesi, certamente, dopo la caduta del fascismo, qualche torto
ricevuto precedentemente fu vendicato in modo violento.
Dopo la creazione del centro sportivo allo stadio Littoriale, in città,
presero iniziative altre attività sportive, i campioni di Gaibola del
calcio sono già stati ricordati, ma altre discipline crearono campioni
a livello regionale e nazionale.
Nel periodo d’oro del calcio bolognese la città aveva poco più di
250.000 abitanti (censimenti: 1931-249.226; 1936- 281.162) e le
strutture sportive erano, proporzionalmente, le stesse o superiori a
quelle attuali.
Uno sguardo alla Bologna che fu.
La qualità di vita, da cui tutti abbiamo tratto benefici negli anni ’60,
deriva anche da tutti gli sforzi e le risorse introdotte dalla gestione
cittadina e dagli abitanti della città nelle generazioni precedenti. Il
Littoriale, infatti, non fu l’unica struttura sportiva della città, ma
tante altre erano già esistenti per l’innegabile interesse cittadino.
La prima sede della Società sezionale di Ginnastica di Bologna, era
situata nel locale della Scuola Tecnica di San Domenico in p.zza
Galileo, ma si rivelò ben presto insufficiente.
Una nuova e più consona sistemazione, fu trovata nella chiesa di
Sant'Agata, in Piazza del Francia.
Concessa dal marchese Gioacchino Napoleone Pepoli, la sede era

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situata accanto a Palazzo Pepoli Campogrande, nell'area dove nel


1911, fu edificato il palazzo delle Poste.
All'apertura della nuova palestra i soci erano 82 ed inizialmente le
discipline praticate erano essenzialmente la ginnastica, la scherma ed
il tiro a segno.
Nel 1873 il Comune cedette la chiesa soppressa di Santa Lucia in via
Castiglione, all’ Associazione sportiva (futura Virtus) e dall'8
maggio essa ne fece la propria sede. Utilizzata per attività culturali e
la diffusione della ginnastica, fu attrezzata con tutte le “macchine
ginnastiche" necessarie.
L'assegnazione della sede fu caldeggiata anche da Giosue Carducci
in nome della Lega Bolognese per l'Istruzione del Popolo e definì la
palestra di ginnastica per il popolo, una istituzione necessaria e
"reclamata dalla moderna civiltà".
L'antica chiesa sconsacrata divenne in breve la più grande palestra
d'Europa e per qualche tempo fu utilizzata anche dalle vicine scuole.
Il 18 settembre 1921 fu inaugurato solennemente, con i Campionati
Nazionali di Atletica Leggera, il primo campo sportivo cittadino,
gestito dalla Società di ginnastica Virtus. L'impianto fu costruito su
iniziativa dell'imprenditore Alberto Buriani, dodicesimo presidente
della Virtus, che nel 1919 acquistò un vasto appezzamento di terreno
(oltre 24mila mq) in località Crocetta, vicino all'alveo del torrente
Ravone, tra le vie Saragozza e Andrea Costa.
Inizialmente, il campo sportivo fu dedicato ad atletica, calcio,
pallacanestro e pallavolo.
Nel 1922 il gruppo sportivo venne rinominato Società Educazione
Fisica Virtus (SEF Virtus) e nei suoi primi 50 anni, la Società fece da
volano all’intero sport bolognese articolandosi in tante sezioni
quante erano le discipline sportive allora praticate: dalla scherma al
tiro a segno, al ciclismo, alla lotta, al nuoto, al sollevamento pesi,
alla ginnastica.
Negli anni successivi gli sport predominanti furono calcio e basket.
Nell’inverno del 1925, l’impianto della SEF Virtus al Ravone fu
dotato di due campi da tennis, uno dei quali ricavato dal campo di
Palla al Cesto. In aprile dell’anno successivo, la Virtus organizzò il

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primo Campionato Bolognese Studentesco ed in ottobre il primo


Torneo Nazionale “che richiama un ottimo numero di racchette” e
divenne un valido strumento di propaganda per la disciplina
tennistica.
Alla fine dell’anno i soci del tennis erano già un centinaio e pochi
mesi dopo furono aperti quattro nuovi campi da gioco. Quello
centrale fu intitolato nel dopoguerra al grande campione Orlando
Sirola (1928-1995).
Nel 1945, alla morte di Buriani, il campo del Ravone fu acquistato da
una società controllata dal presidente del Bologna FC, Renato
Dall'Ara, e la Virtus fu costretta a dividere con la squadra di calcio,
l'uso dell'impianto.
Per lungo tempo rimase indipendente solo la Sezione Tennis e la
società della V nera entrò in possesso dell'intera area sportiva, tra le
vie Valeriani e Galimberti, solo il 29 novembre 1984.
La Società sportiva Fortitudo fu fondata nell'ottobre 1901 da don
Raffaele Mariotti (1867-1920). L'idea del sacerdote era molto chiara:
"mettere lo sport al servizio della formazione dei giovani, cioè lo
sport per raggiungere una finalità ideale e non come ragione
meramente ricreativa". Desideroso di porre rimedio al disagio che
minacciava la pace e l’ordine della società in quel periodo, Don
Mariotti maturò il progetto di dare un riparo morale oltre che fisico, a
quei giovani uomini che oggi chiameremmo "disadattati", che dopo il
lavoro cercavano un po’ di sollievo e di passatempo. Concepì allora
un Ricreatorio maschile (il primo, molto primitivo, prese vita nel
1890 in via Zamboni), dove si potevano radunare i ragazzi che, di
solito, si divertivano a tirar sassi a chi passava per i viali di
circonvallazione. La sua idea ebbe un immediato successo perché i
giovani poterono appagare la loro naturale inclinazione al gioco e al
divertimento in un ambiente sano. Questo esempio fece scuola e i
ricreatori si moltiplicarono. Nel maggio del 1901, Bologna aveva
ospitato il V Concorso Ginnastico Federale e nell'occasione in Piazza
dell'Otto agosto era stato allestito uno “Stadio Greco”. La perfetta
esecuzione di esercizi, lo sventolio degli stendardi delle società
ginnastiche e i colori delle divise degli atleti che attraversavano in

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lunghi cortei la città, contribuirono a rendere solenne e festosa la


manifestazione. Don Mariotti fu testimone, assieme ad un gruppo dei
suoi giovani, di quell’evento e seppe coglierne tutte le implicazioni
sul piano della spettacolarità e della capacità attrattiva propria di quel
genere di dimostrazioni, al punto che già qualche mese dopo, il 3
ottobre 1901, in seno all’Opera dei Ricreatori e da subito affidata alla
Reale Federazione Ginnastica d’Italia, venne istituita la Società
Ginnastica Fortitudo. Ma l'opera di Don Mariotti non si esaurì solo
nello sport, nei Ricreatori, infatti, recitavano anche gli attori di una
Filodrammatica, si svolgevano spettacoli di burattini ecc... Un'altra
caratteristica era quella di avere una fanfara che si esibiva in ogni
occasione di festa e durante i concorsi ginnici. Era usuale che la
squadra di ginnastica si presentasse in campo preceduta dal vibrante
suono degli ottoni. La fanfara della Fortitudo era diretta dal Maestro
Ferdinando Cavallari ed era una delle più ammirate dell'epoca, tanto
da meritarsi il primo premio al concorso di Venezia del 1904.
Nel 1902 venne acquistato il Ricreatorio di Via San Felice che
divenne ben presto la sede della Direzione Generale dell’Opera dei
Ricreatori. Il complesso fu costruito in via San Felice al n. 103,
posizione scelta per l'ampia area cortiliva. Nel tempo, grazie a
numerose donazioni, furono costruiti anche una palestra e un teatro.
Nel piccolo stadio all'aperto erano state erette due tribune.
Non mancavano una cappella, il circolo ricreativo, gli uffici della
Società e l'abitazione del direttore. Purtroppo, alcune demolizioni e i
bombardamenti della Seconda guerra mondiale danneggiarono
irrimediabilmente la sede (poi ricostruita) e oggi di tutto ciò che
esisteva è rimasta solo una piccola parte di una Tribuna, che fa da
sfondo a via Lenzi.
La Ginnastica fu la prima Sezione sportiva che esordì ufficialmente
in campo agonistico nel 1904, a Firenze, partecipando al concorso
federale con sessanta ginnasti. In quell'occasione, i bolognesi
riuscirono ad aggiudicarsi molte medaglie e riconoscimenti che
furono confermati successivamente dando tanto lustro allo sport
cittadino. La Società partecipò al Concorso Internazionale tenutosi
nel maggio 1909 ad Angers, in Francia. In quell'occasione la

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Fortitudo rappresentò la F.G.N.I. e ne portò il vessillo. In tutte le


gare, sia individuali che a squadre, gli atleti della Società fecero man
bassa di medaglie e corone d'alloro.
Tra gli atleti seguiti da Leone Giorgi: Giuseppe Domenichelli,
Luciano Savorini, Giuseppe Berti e Alfonso Cacciari. I più grandi tra
suoi ginnasti furono Domenichelli e Savorini, oro alle Olimpiadi di
Stoccolma del 1912 nel concorso a squadre e Monetti campione
italiano al corpo libero e preolimpionico per le Olimpiadi di Berlino
del 1936. La storia sportiva della Società continuò sino a metà degli
anni Cinquanta e poi cessò. Nel 1994, dopo quasi mezzo secolo, la
S.G. Fortitudo, per rinverdire il suo illustre passato, deliberò la
riapertura della Sezione Ginnastica. Il suo ricco medagliere conta:
Olimpiadi (4 ori, 3 argenti e 4 bronzi), Mondiali (4 argenti e 3
bronzi), Europei (6 ori, 4 argenti e 3 bronzi), Campionati Italiani
(oltre 200 titoli assoluti). I suoi atleti possono vantare inoltre 2
primati mondiali e oltre 100 primati italiani Assoluti. "Nel
pomeriggio del giorno otto maggio del 1920, in via Pasubio, è stato
inaugurato il Velodromo Bolognese costruito per iniziativa della
Società in accomandita Pasquali-Minelli-Ghezzi e C., la quale ha
saputo dotare Bologna di un magnifico campo sportivo, moderno e
grandioso, che può stare alla pari coi più importanti impianti del
genere esistenti in Italia ed all’Estero.
Il Velodromo Bolognese sorge fuori Porta Saffi, a poco più di un
chilometro dalla vecchia Porta S. Felice, su di una nuova strada,
attualmente in costruzione, che unisce alla via Emilia il sobborgo
Crocetta. Due edifici, per i quali si stanno iniziando i lavori aventi
prospetto su di essa, fiancheggiano l’ingresso principale rivolto a
levante. Nel centro del campo che copre la superficie di mq. 30.000,
sorge la pista di corsa interamente in cemento armato. Questa,
misurata sulla linea della corda rossa, è lunga m 400, ed è formata di
due rettilinei, di notevole lunghezza (m. 53,50) che consentono facile
sviluppo alle "volate", e di due tratti circolari del raggio di m. 34
raccordati a quelli, da curve di passaggio: sono appunto queste curve
che costituiscono uno dei vanti caratteristici della nuova pista di
Bologna, poiché la soluzione originale che per esse è stata adottata, e

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che consente ai corridori di passare con estrema facilità ed


insensibilmente dai rettilinei alle curve, e quindi di sviluppare le
maggiori velocità, non è stata usata mai in nessuna pista.
Trasversalmente la superficie di corsa della pista è larga m. 7 ed ha
nei rettilinei la pendenza di circa 9° che aumenta gradatamente ai
tratti di massima curva, fino a circa 43°. Nell’interno della pista vi è
un campo rettangolare, destinato al gioco del Football, al quale si
accede oltreché traversando la pista, anche mediante un
sottopassaggio costruito all’estremità ovest del campo, e ciò per
avere facile comunicazione anche durante le corse ciclistiche.
1923, 6 aprile, al Velodromo debutta con una brillante vittoria una
bicicletta a motore guidata da Mario Cavedagna. È fabbricata dalla
G.D, industria meccanica appena fondata in viale Aldini
dall'avvocato Mario Ghirardi e dall'ingegnere Guido Dall'Oglio. Nei
primi anni di attività la G.D domina in campo agonistico con una
motocicletta di 125 cc di cilindrata, che nel 1924 stabilisce il record
mondiale sul chilometro lanciato.
Nello stesso anno il quotidiano "Il Resto del Carlino" del 22 maggio
riporta la cronaca di un avvenimento eccezionale per Bologna: al
Velodromo si è tenuta una corrida. Sì, una vera e propria corrida
spagnola. Il velodromo è stato attrezzato per ospitare i più famosi
"espada" di Siviglia, Granada, Madrid.
1948, 4 ottobre, arrivo solitario al Velodromo di Fausto Coppi al
traguardo del Giro dell'Emilia, che si disputa per la prima volta nel
giorno di San Petronio. Il Campionissimo ha lanciato il suo attacco
sull'Abetone, si è presto lasciato alle spalle gli avversari ed è giunto a
Bologna con dieci minuti di vantaggio, salutato negli ultimi
chilometri da due ali di folla esultante. Vana la difesa del suo grande
rivale Gino Bartali, attardato in montagna da una foratura. Coppi, già
primo nel 1941, vincerà nuovamente l'Emilia nel 1948, mentre
Bartali trionferà nelle edizioni 1952 e 1953.
L'Ippodromo Zappoli era situato appena fuori Porta San Felice, tra le
attuali vie Vittorio Veneto, Timavo, Pasubio e Col di Lana con
accesso da via Saffi. Fu costruito dall'omonima famiglia su progetto
di Filippo Buriani e venne inaugurato il 12 giugno nel 1888 per

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sostituirsi alla Montagnola. L'anno successivo si tenne il primo


'Derby' della città, su iniziativa di Giuseppe Ballarini. Nel 1890
Buffalo Bill si esibisce con il suo 'Wild West show', mentre nel 1906
la sua compagnia quando tornerà a Bologna si esibirà ai Prati di
Caprara. Nel sito si tennero anche numerose gare ciclistiche e fu sede
della società sportiva Libertas.
Fu sede dell'attività ippica bolognese, in particolare con le gare su
seggiolini, mentre quelle al trotto si tenevano prevalentemente ai
Prati di Caprara.
Fu in funzione fino al 1928, anno in cui venne smantellato per far
posto a nuovi insediamenti edilizi. Il nuovo Ippodromo venne
costruito a Corticella.
Cominciamo con gli esercizi di memoria.
I Campi di Caprara offrivano anche la possibilità di giocare con
continuità a calcio, prima della costruzione dell’Ospedale Maggiore,
come pure il campo della Cesoia, di fronte all’ingresso dell’Ospedale
Sant’Orsola od il campo della Salus, uno di quelli da noi preferiti,
perché dentro porta e di dimensioni abbastanza ridotte, tanto da
permettere partite con squadre di qualsiasi dimensione, sopra i sette
giocatori. Nel dopoguerra, per mio ricordo, in ogni spiazzo, su ogni
prato d’erba, in ogni cortile di abitazione privata o di parrocchia,
tante volte per strada, nell’ora di pausa, qualcuno arrivava dando un
calcio al pallone, lanciandolo in aria più alto possibile, e quando
ricadeva le squadre erano già formate. A volte si giocava a porta
romana, a volte si triangolava col muro di confine, io, da piccolo, ho
giocato con palle di carta e di stracci legate con filo di ferro, con
palle di gomma e con palline da tennis, per me, da bambino, il
pallone di cuoio era troppo pesante, quando poi ci fosse il terreno
bagnato, assorbiva fango e diventava un macigno. La cucitura, se
avessi colpito una pallonata di testa con la fronte avrebbe potuto
creare cicatrici e lividi, ma in partita non si sentiva nulla. Solo chi
giocava nei pulcini del Bologna o fosse tesserato con squadre
giovanili aveva scarpette da football, noi giocavamo con scarpe
normali. Esisteva una sola marca nazionale di scarpe sportive e non
più di due o tre modelli e due colori, o bianche o blu. Anche i

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giocatori di basket avevano scarpe basse normali, qualcuno, tornando


da viaggi all’estero arrivava con scarpe speciali, qualcuno, dicevamo
noi, comprava le scarpe al reparto valigeria, per il numero grande,
ma non esistevano negozi specializzati con numeri enormi.
Da ragazzi, spesso, in primavera, ci incontravamo alla gelateria Pino,
in via Castiglione, un giorno vidi arrivare Tufo zoppicando, piegato
in due dal dolore ad una gamba:
“Cosa hai fatto?”
“Mi hanno rovinato, sono andato a giocare a calcio nel cortile di un
mio compagno, all’Istituto Cavazza, quello dei ciechi”.
“Ma come giocano?”
“Non lo sapevo, mi ha chiesto, vuoi giocare? Gli ho detto di sì”.
“E allora?”
“Sono arrivati con un barattolo di latta, lo buttano per aria, e quando
cade in terra arrivano in tre o quattro a calciare sul rumore, mi hanno
massacrato”, e rideva….
Non ho riportato questo racconto per ridere di una invalidità, bensì
per fare capire come il calcio, nella nostra gioventù non fosse uno
sport, ma un modo di vivere. Noi per rilassarci o sfogarci o dedicare
un po’ di tempo allo svago non praticavamo Yoga o pilates, non
conoscevamo le palestre o lo stretching, correvamo dietro ad un
pallone, a perdifiato, a volte per ore.
Pino era una gelateria, una delle poche con negozio, aperta estate e
inverno, non tante nei primi anni ’60, le altre erano “baracchine” ed
avevano apertura stagionale, quasi tutte aprivano in marzo.
Poco distante dalla gelateria aveva la sua tabaccheria Gino Cappello,
grande centravanti e gloria storica del Bologna, personalità discussa,
ma grande giocatore. Al bar di fronte, “Del pescatore” si andava per
giocare a carte o bigliardo fin dalle dieci di mattina, durante il
“fughino”. Con la primavera si andava ai Giardini Margherita; dopo
la metà degli anni ’50 i vigili urbani cominciarono a proibire di
giocare a pallone, se non sui due grandi prati dove, anni prima,
andavo a vedere giocare a polo.

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Quel circolo, sede del Circolo Ippico, nel dopoguerra ospitò anche il
neonato Circolo del Bridge, dove mio padre mi portava da
piccolissimo.
La Salus aveva un guardiano speciale, legato al campo stesso come
in un contratto matrimoniale, lo ho visto invecchiare col campo per
oltre quaranta anni, da bambino fino alla partita fra colleghi con
pancetta e colleghi giovani. Credevo dormisse anche lì. La mattina,
prima delle otto, quando passavo andando al liceo, lo trovavo già che
annaffiava quei quattro fili verdi che erano sopravvissuti sul
campetto, certe sere, giocando dopo cena, attendeva che uscissimo
dagli spogliatoi dopo le ventitré, poi puliva. Sono certo che se, dove
si trova adesso, gli dessero una sola ora di libera uscita, non andrebbe
a vedere i suoi discendenti, ma passerebbe dai fatiscenti spogliatoi e
docce per vedere se abbiamo lasciato pulito.
Qualche tempo fa ho trovato la porta socchiusa e sono entrato a
curiosare. Tutto uguale, mi aspettavo di vederlo uscire da dietro un
angolo, come sessanta anni fa, come se per lui il tempo fosse quello
leggendario della vita del campetto, non quello degli uomini.
“Di qua”, mi sono detto, “è passata tutta Bologna”.
Qui, negli ultimi tempi in cui giocava, una sera, venne con noi Ezio
Pascutti. In allenamento, con la squadra, non lo facevano giocare,
aveva un ginocchio “di vetro”, e siccome gli piaceva fare partita,
veniva in campo con noi. Dopo una mezz’oretta si fermava, perché il
ginocchio gli si gonfiava.
Era sempre disponibile ad un saluto, ad un sorriso, ad un racconto.
Aveva due personalità, una in campo, da eroe omerico, forte,
combattiva e fiera, si trasformava in guerriero, quella per cui noi tutti
lo abbiamo amato, la seconda, nella vita comune, di persona
qualunque, modesta, quasi timida, molto silenzioso dopo la sua la
partita contro l’URSS.
Ci raccontava della Nazionale, dei compagni, di Lo Bello; “E’
l’unico arbitro con cui sto tranquillo in campo, non permette entrate
pericolose, con lui mi sento sicuro per le gambe, quando gli passo
vicino delle volte mi dice: “vai faina!”

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La partita di Mosca del ’63 fu per lui una caduta dalla torre degli
asinelli, una perdita della popolarità che si era guadagnata in campo e
della stima del pubblico nazionale che gli dava forza.
Era l’unico racconto che non ci faceva volentieri, per rispetto a lui
non lo ricordo, non lo merita. L’ultima volta lo ho visto vicino al
mercato delle erbe, la gente lo salutava ancora con affetto in strada e
lui passava, con sguardo da basso profilo, occhi bassi, quasi a
schermirsi, a non credere di essere ancora popolare.
Ezio era stato una colonna della mitica squadra che vinse l’ultimo
scudetto del Bologna nel campionato 1963-64, l’ultimo scudetto del
Bologna F.C., prima che il calcio diventasse attività industriale,
eliminando dai sogni delle squadre provinciali lo Scudetto.
Alcuni anni che seguirono furono, per la nostra generazione, come
ho accennato, un periodo di crescita positiva per tutta la città, una
presa di coscienza della qualità della vita bolognese, un miracoloso
momento di equilibrio di tutte le energie cittadine. Sacro e profano,
pubblico e privato, lavoro e tempo libero, cultura e lavoro, studio e
svago trovarono equilibri e giusti dosaggi che furono le condizioni al
contorno per generare quel benessere sociale in cui noi abbiamo
vissuto.
La costruzione della gioia ha sempre origini lontane e valori di base
che possono essere facilmente individuate con lo studio degli eventi.
Credo valga la pena perdere alcuni minuti in questo esame.
La Bologna del ‘900.
La nostra città, analizzandone la storia del ‘900, deve partire da un
politico di riferimento, Francesco Zanardi. Nato a Mantova, da
famiglia agiata nel 1873, si laurea a Bologna in Farmacia e,
successivamente in Chimica.
Svolge attività politica ed amministrativa nel Partito Socialista
Mantovano e nel 1902 diviene sindaco di Poggio Rusco ed assessore
al comune di Bologna.
Il 15 luglio 1914 si riunisce il primo consiglio comunale a
maggioranza socialista di Bologna che elegge sindaco Francesco
Zanardi, «in nome del popolo». Bologna, dotta, liberale e turrita sotto
l'egemonia della Camera del lavoro e dell'analfabetismo, così titola

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«l'Avvenire d'Italia» per dare la notizia che ormai «la teppa


comanda» la città. Il 28 giugno 1914 la lista socialista vince le
elezioni amministrative forte di un programma di reale cambiamento
della gestione della cosa pubblica in favore dei lavoratori e nella
convinzione che il comune è «la Patria più vera», patrimonio
collettivo e rappresentanza di tutti i cittadini. Il significato del voto
viene letto come espressione della volontà popolare perché “le
elezioni, quando non sono un balocco innocuo per bambini,
esprimono nuovi indirizzi, nuovi metodi, nuove aspirazioni”. Ed è in
nome di queste esigenze che emergono dai ceti sociali dei lavoratori,
che Francesco Zanardi porta all'interno del comune, “centro della
vita civica e sintesi e nucleo centrale di ogni forma di vita sul
territorio”, la politica delle riforme dei modelli di governo delle
istituzioni.
Il riformista Francesco Zanardi guida la città negli anni difficili della
Prima guerra mondiale, ma mette in pratica le teorie del
municipalismo socialista nell'evoluzione dell'ente locale, terreno di
prova delle prime amministrazioni delle grandi città come Bologna e
Milano. “Pane e alfabeto”, sono la sintesi del programma elettorale
socialista, parole semplici che racchiudono significati fondamentali
nell'emancipazione delle donne e degli uomini che lavorano.
Vogliono dire buona alimentazione a prezzi popolari, qualità dei cibi,
abitazioni adeguate, igiene delle case e delle persone, istruzione e
scuola per tutti, colonie per i bambini, sistema fiscale più equo, in
definitiva tutti quei risultati indispensabili per raggiungere l'obiettivo
del progresso sociale dei lavoratori. Le promesse della vigilia
saranno mantenute e Francesco Zanardi passerà alla storia come il
“sindaco del pane”. Si realizza in questo modo la sintesi degli istituti
di emancipazione dei lavoratori attraverso il sostegno di una rete di
interventi integrati: la cooperazione per la tutela dei consumatori,
l'ente di previdenza per il mutuo soccorso, l'assistenza alla malattia e
alla disoccupazione; l'educazione e l'istruzione popolare, con un
incremento notevole delle strutture scolastiche. È un tessuto di
sostegno che ha al centro il lavoratore, ma anche la sua famiglia, una
rete di difesa della condizione sociale dei più poveri che diventa

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ancora più importante dopo la dichiarazione di guerra, a sostegno del


"fronte civile". Il conflitto mondiale inibisce il grande disegno
riformatore della giunta Zanardi, ma non lo interrompe. Il comune
gestisce il delicato equilibrio tra socialismo pacifista e città in guerra
modellando l'organizzazione pubblica in difesa delle donne, degli
anziani, dei giovani, dei più deboli, quella retrovia civile che trova
nel municipio il punto di riferimento morale e civile. Il sindaco
socialista Zanardi fa issare sul municipio la bandiera tricolore dal 24
maggio 1915 al 4 novembre 1918.
Contemporaneamente alla costituzione dell'Ente Autonomo dei
Consumi, l'amministrazione comunale decide di entrare nel campo
della produzione realizzando un impianto per la panificazione a
prezzi popolari, così da costituire un vero e proprio pubblico
servizio. Il pane quotidiano, afferma Francesco Zanardi, "è uno dei
prodotti che devono essere sottratti ad ogni speculazione; è
necessario che questo alimento possa essere distribuito a tutti, sano,
igienico e abbondante". Il Forno viene creato nell’edificio
attualmente sede del Mambo.
La scuola rappresenta un interesse particolare per quelle innovazioni
che caratterizzano l'attività dell'assessore Mario Longhena, il quale
affermava che se la guerra al fronte “cominciava il suo ritmo inutile
di morte, la vita rinasceva in tutte le scuole di Bologna”, che infatti
non chiusero neppure un giorno. Non solo, vengono sperimentate
nuove Scuole all'aperto, tentativo socialista di rinnovamento
elementare che non vuole dire solo il contatto con la natura, ma
riempie il suo contenuto di insegnamenti perché dalla natura i ragazzi
possono attingere forze fisiche per prepararsi a vivere fuori dal
chiuso delle stanze, coi piedi ben posati sulla terra. Scuole infantili;
l'amministrazione con il programma “in ogni scuola deve esserci un
asilo”, dai due del 1914 costituisce al 1920, 52 asili o giardini
d’infanzia, introducendo il metodo di Maria Montessori e registrando
duemila bambini iscritti e 50 maestre che vi lavorano con personale
di servizio, medici scolastici, refezione calda, giardinetti e ampi spazi
per il gioco. Gli asili sono aperti ai bambini di ogni provenienza, un

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atto di uguaglianza e di parità che il comune riconosce a tutti nel


campo dell'istruzione.
Francesco Zanardi appartiene a quella generazione di socialisti
riformisti (oggi estinta) che si dedicarono con tutte le loro energie
alla difesa e all'elevazione della classe lavoratrice.
Uomo dal carattere generoso, caratterizzò tutta la sua attività di
politico e di amministratore più che ai discorsi e agli scritti, a cui fu
sempre poco incline, all'estrema chiarezza e dedizione nel lavoro di
amministratore ispirandosi al principio del "culto del dovere fino al
sacrificio ed il disinteresse personale".
Il 31 ottobre 1920 il PSI di Bologna vinse le elezioni amministrative,
conquistando il Comune, l’Amministrazione provinciale e quasi tutti
i comuni della provincia.
Nel corso della campagna elettorale gli esponenti della lista di destra
(della quale faceva parte anche il Fascio di combattimento)
sostennero che avrebbero impedito ai socialisti di entrare a Palazzo
d’Accursio, se avessero vinto le elezioni per la seconda volta. Nel
pomeriggio del 21 Palazzo d’Accursio fu parzialmente isolato da uno
schieramento leggero di soldati. Nella piazza Vittorio Emanuele II
(oggi piazza Maggiore) e in quella attigua del Nettuno vi erano
alcune centinaia di socialisti. Lungo via Rizzoli e via
dell’Archiginnasio i fascisti (da Ferrara erano giunti ingenti rinforzi)
premevano per entrare nelle piazze.
Quando, poco dopo le 15, Enio Gnudi, il nuovo sindaco socialista di
Bologna si presentò al balcone della Sala rossa per salutare la folla, i
fascisti cominciarono a sparare contro il palazzo e le persone che si
trovavano nelle piazze. Nella piazza si ebbero 10 morti e non meno
di 50 feriti. La maggior parte dei morti e dei feriti risultarono essere
stati raggiunti da colpi di arma da fuoco.
Mentre nella piazza si consumava la strage (le vittime erano quasi
tutte di parte socialista) nella sala del consiglio si verificò un’altra
sparatoria.
Non un solo fascista fu arrestato, a cominciare da Leandro Arpinati
che aveva guidato l’assalto.
Il prefetto, dal momento che Gnudi non aveva avuto la capacità né il

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coraggio di riconvocare il consiglio, per completare la nomina della


giunta, nominò un commissario straordinario.
Nelle settimane seguenti, mentre la violenza fascista dilagava nella
provincia e il fronte operaio si divideva e indeboliva con la scissione
comunista, il questore fece arrestare decine di dirigenti e militanti
socialisti con le accuse più incredibili e inconsistenti. La montatura
poliziesca fu sgonfiata dalla magistratura, dalla quale furono
prosciolti in istruttoria e liberati, sia pure dopo una lunga detenzione,
quasi tutti gli arrestati.
Da questo momento in poi le violenze fasciste, supportate dalla
questura, aumentarono fino alla presa di potere definitiva.
Non commento i comportamenti politici durante il periodo fascista,
perché lo scopo di questa analisi è esaminare i riflessi del passato
sulla vita del dopoguerra della nostra generazione, vorrei solo porre
la attenzione sul calcio nel periodo tra le due guerre. La figura
centrale di Arpinati è bifronte ed antinomica, despota fascista in
divisa, convinto tifoso, fanatico ed attento quando si trattava di
calcio.
Per lui il calcio non rappresentò i giochi circensi donati al popolo dal
potere perché non si lamentasse degli abusi ricevuti, ma un vero
momento di gioia comune, un successo di grande adesione popolare
cui lui stesso partecipava con passione. Ciò permise al calcio di
crescere ed essere amato come puro rito liberatorio, come lo cita
Pasolini, anima di sensibilità troppo attenta per potersi innamorare di
uno sport complice di strategie di potere.
Certamente le stanze romane del potere se ne servirono ad ogni
occasione, ma erano trainati dalla passione popolare per questo sport,
non ne erano i nocchieri. Il calcio attirava per suo conto.
Un’ultima nota prima di superare di balzo il periodo bellico, privo di
eventi sportivi notevoli, è dovuta al ricordo del segno lasciato sul
calcio nazionale dalle leggi raziali e dalle persecuzioni conseguenti il
1938, perché non venga dimenticata questa infamia inflitta anche al
mondo del calcio dove alcuni illuminati esponenti della borghesia
ebraica elevarono a livello internazionale le nostre capacità.

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I due maggiori allenatori della serie A, quelli che avevano


maggiormente generato talenti per la Nazionale vincitrice dei due
mondiali e dell’Olimpiade intermedia, Arpàd Weisz, allenatore del
Bologna e dell’Inter, ed Ernò Egri Erbstein, allenatore del grande
Torino, furono costretti ad abbandonare il calcio che già con editti
precedenti aveva bloccato l’arrivo di stranieri.
Il dopoguerra, la nostra infanzia felice.
Uno dei grandissimi desideri inappagabili di un anziano sarebbe
sapere come fosse da bambino, per questo anche io passo ore a
cercare di ricordare, al limite della memoria, dove il ricordo, le
fisionomie, i suoni, i colori, i giochi, i sapori, gli affetti, i sentimenti
e tutte le emozioni dell’infanzia, sono sfumati, attutiti da una nebbia
surreale ed illusoria che sfalsa le percezioni, tanto che a volte non so
più se sto ricordando, inventando o idealizzando la mia infanzia.
Ho ricordi sparsi a macchia di leopardo, tutti sognanti, che mi fanno
credere quel periodo sia stato felice, ma non ho un tracciato continuo
delle mie giornate, non ricordo se il mio giorno fosse lungo o corto, a
che velocita fluisse allora il tempo, se la mia casa fosse grande o
piccola, se mangiassi molto o poco, se fossi socievole ed allegro o
ritirato e musone, se i miei amici fossero pochi o tanti, se mi sentissi
sommerso di affetti e cure, come suppongo oggi, o se avessi
sensazioni di abbandono e solitudine. Cosa ricordo meglio sono le
figure umane che mi stavano attorno, e di tutte loro ho un ricordo
affettuoso.
Uscivamo dalla Seconda guerra mondiale, ed a tanti parve stesse
iniziando una nuova era, un tempo desiderato tutta la vita, si usciva
da un incubo durato oltre cinque anni.
La mia famiglia, trasferita a Bologna dal meridione, aveva perso le
tracce di tanti parenti ed amici che ricominciarono ad avere, nella
nostra città, un luogo di incontro e di riferimento.
Rientri dal fronte, dalla prigionia e dalla condizione di sfollati,
permisero alle famiglie di radunarsi, contarsi e riorganizzarsi, di
capire che non tutto era distrutto, di ritornare alle gioie quotidiane
della vita, vivere era diventato più facile.

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Una fetta di pane in più od un bicchiere di vino erano di per sé un


piccolo dono, i desideri da esaudire erano semplici e soddisfabili con
poco sacrificio, chiunque sentiva di avere davanti a sé un futuro da
costruirsi.
In questo clima di positività ho vissuto la mia infanzia e sono
cresciuto, ma di quanto sto dicendo ho cognizione storica, non
memoria, e per quanto cerchi di ricordare, intorno a me si viveva una
vita piena, ma non v’era la sensazione di felicità che oggi vogliamo
attribuire a quella epoca, vivevamo senza avere coscienza di stare
conoscendo la felicità, la cercavamo assiduamente, attenti a nuovi
modelli di vita, alcuni estranei alla nostra cultura, ma con sembianze
o attrattive migliori.
Del passato credevamo di conservare ben poco, già che poco era
rimasto comunque, tutto veniva superato o ristrutturato in una
revisione modernista che molto spesso era di peggior gusto di quanto
sostituisse, ma aiutava a creare nuovi obbiettivi e nuovi modelli di
vita.
I cardini di riferimento di tutta la nostra cultura venivano cambiati da
una nuova visione della umanità e della storia; il problema sociale,
che allora sembrava essere dominante, era al centro di tutti i dibattiti,
creando un terreno ideale per ulteriori scontri, ma la cultura ereditata
dai padri, che sembrava morta e sotterrata, era semplicemente
nascosta, bloccata ma latente, rimossa ma non assopita.
Dello spaesamento generato derivante dal naufragio dei vecchi ideali
pochi ebbero coscienza, ma una nuova era avanzava; con cammino
inarrestabile ma incerto, ognuno trovò, nei primi anni del
dopoguerra, la direzione da seguire, il suo nuovo mito, le nuove
regole di vita ed i nuovi modelli a cui cercare di omologarsi. Le
nuove culture non risanarono le perdite originarie, solo colmarono i
vuoti senza eliminare quanto esistente.
I miei primi anni, dunque, furono vissuti in una giungla culturale,
sovrabbondante di regole e modelli vecchi e nuovi sovrapposti,
spesso antinomici, in cui il caos e le contraddizioni erano la prima
realtà che si osservava, ma di cui pochi capivano le origini e cui
nessuno dava importanza.

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Non esisteva il tempo per fermarsi a riflettere, occorreva correre


senza chiedersi dove andare. Tutto, intorno a me, era in continuo
cambiamento ed io assorbivo, con lo stupore e la meraviglia del
bambino, tutte le contraddizioni che affollavano il mio intorno,
assieme ad una quantità di novità e conoscenze che non ha avuto
uguali negli anni a venire, in un clima di scontro tra vecchio e nuovo
che inconsciamente obbligavano a comportamenti di vita incoerenti
da cui tuttora tanti miei coetanei non sono usciti.
La mia generazione è cresciuta così, ancora oggi pochi hanno avuto
modo di capirlo, perché nessuno li ha aiutati. Molti di quelli che lo
hanno intuito devono ringraziare più il caso fortuito esterno che
attenti insegnanti o tutor od il loro spirito autocritico.
Io, nell’ambiente in cui ero cresciuto, subivo tutto ciò, malgrado,
solo oggi, dopo anni ed anni, ne avverta, finalmente, i controsensi.
Senza ulteriori elucubrazioni, sempre importanti, ma solo a margine,
inizio il disordinato percorso del gioco della memoria.
Bologna nel dopoguerra era una città in continua corsa, una città in
cui gli eventi importanti si susseguivano ed in cui ogni abitante si
sentiva centro di attenzione per mostrare al mondo intero quanto
contribuisse con il suo apporto ad un benessere sociale.
La politica di partito del dopoguerra a Bologna assorbì le uniche
politiche sociali note fino ad allora e impose, a livello
amministrativo, quanto appreso dalla eredita socialista a cavallo del
900.
Dozza ed il partito emiliano si allinearono quindi ad una crescita
all’interno di qualcosa di preesistente, pur aderendo al Cominform,
che negava una possibile convivenza all’interno di società
occidentali.
Il suo modello non fu un modello bolscevico, ma fu il “Sindaco del
Pane” dei momenti di fame della Prima guerra mondiale, di pura
marca della sinistra storica e Socialista.
Bologna divenne non solo la più importante città italiana a gestione
Comunista, ma la più importante del mondo occidentale, non
esistevano altri esempi di eguale peso.

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Il grado di ruralità emiliano era elevatissimo nel dopoguerra perché il


processo di industrializzazione era partito in Emilia con fortissimo
ritardo. La rivoluzione Emiliana fu quindi, in un primo tempo, lotta
alla rendita fondiaria, più che al capitalismo industriale, ribellione
alla mezzadria ed alla proprietà terriera.
Questo spiega una adesione massiccia al partito ed una perdita di
adesioni del partito socialista che presentava meno coesione, una
politica amministrativa decentrata e meno classismo, tendendo la
mano alla borghesia colta e rispettando le coscienze religiose.
La crescita contemporanea di tutti i settori industriali e la solida
garanzia dell’area agricola più ricca d’Italia in produzioni granarie ne
faceva un centro di benessere unico. La crescita economica ed il polo
universitario attiravano studenti danarosi, figli e figlie di papa da
tutta Italia, l’affitto di camere, alloggi, appartamenti, le osterie, le
mense, le trattorie familiari ed i ristoranti oltre a tutti i tipi di svago
prosperarono. Queste premesse, sommate alla tendenza generale
degli abitanti a “tirare tardi”, ne faceva una città allegra, spensierata
e divertente.
Le industrie, nate di recente, prosperavano e molte passarono da
piccola a media nel giro di dieci, quindici anni. Erano industrie di
prima generazione dove molti industriali partivano da posizioni
economiche modeste e modesti titoli di studio, ma col desiderio di
inglobare risorse neolaureate a consolidamento della loro capacità
gestionale.
Addirittura, in una grande corsa al benessere, il partito comunista
emiliano attuò politiche keynesiane, certamente non figlie del
politicismo di Togliatti, ma ereditate dal riformismo storico emiliano
romagnolo. Il pragmatismo emiliano e le ovvie contraddizioni in cui
si mosse permisero di creare una area di benessere e di fornire ad un
popolo contadino in rapida transizione, gli aiuti necessari ad
installarvisi in cambio di un suffragio elettorale di larga maggioranza
e di una delega incondizionata all’operato dei funzionari del partito.
Questa vita facile è durata fino alla fine degli anni ‘60 senza
tentennamenti o cambi di tendenza. In questo fiume di attività ed
ottimismo verso il futuro sono cresciuto e mi sono formato, in una

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continua corrente di benessere in cui sarebbe stato difficile dubitare


che qualcosa non fosse politicamente corretto.
In questa valle di comodità i bolognesi, a partire dal primo cittadino,
in una corsa al primato, si impegnarono per anni per rendere migliore
la vita di città, in tutti i sensi e senza risparmi di sorta, anche la curia,
ingaggiata in questa corsa alla felicità, non badò a spese e limitò i
toni delle morali, in quanto lamentarsi in un momento di grazia non
avrebbe aiutato un avvicinamento alla Chiesa da parte degli abitanti
di una città tanto materialista.
La città si adeguò subito a questo stato di cose, ed in Bologna, con un
accordo tacito, convissero politiche, culture, fedi e idee altrimenti
incompatibili. La politica era un affare del Partito Comunista, il
quale accorpò e gestì in Bologna, grazie ad un impegno straordinario,
in un unico coro, anche le risorse di matrice Socialista e
Repubblicana, sopportò una Curia che si interessasse solo di
problemi liturgici ed ecclesiastici, senza fare troppa propaganda
politica o radicalismo religioso.
In Italia il PCI credeva fosse in atto una rivoluzione proletaria,
secondo Togliatti ed il Cominform, ma mai un movimento di piazza
impedì ai Bolognesi di andare a casa per pranzo o per cena in orario.
Le marce di piazza finivano regolarmente affettando salumi e
stappando bottiglie di vino a sazietà, pur sapendo tutti che la unica
caratteristica comune alle rivolte e alle rivoluzioni di qualsiasi parte
del mondo era sempre stata lo stomaco vuoto.
Gli studenti ebbero, fino alla fine della mia adolescenza, un
brevissimo sussulto con frequenza al più decennale e per i moti di
Ungheria, la scossa fu subito assorbita da un commento che veniva
dall’alto: “Se erano fascisti, ben gli sta!”.
Le reazioni furono molto blande in città ed il desiderio di quieto
vivere assopì ogni rancore.
In quegli anni il “Modello Bolognese” di città grassa, ricca e rossa,
divenne l’emblema del partito Comunista emiliano e nazionale, il
quale usò la città come facciata di promozione, facendo credere che
la ricchezza generata ed in ricaduta sulla stessa area fosse puro
merito delle politiche di Partito, non di una somma di contingenze

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particolari, della coscienza dei singoli, di indubbia produttività, di


ricchezza agricola dell’area e di strategie esterne, nonché aiuti
finanziari da ogni dove. Io ho assistito a queste trasformazioni con lo
spirito e lo stupore di un bambino al teatro, dove tanti, come me, non
capivano che ciò che si rappresentava era finzione scenica, e si
sentivano il centro di spinta di quel generatore di benessere che
Bologna rappresentò fino alla fine degli anni ‘60.
Il cittadino medio era orgoglioso di vivere a Bologna, quando
parlava della sua città diceva: “Noi”, si sentiva integrato, frequentava
circoli, feste di quartiere, anche cellule a volte. Il Partito, del resto,
aveva capito che era meglio una balera od una bocciofila che un
discorso in piazza, e si muoveva nella direzione del tempo libero. Le
feste dell’Unita erano l’evento sociale dell’anno, un luogo dove
andare a vedere cosa c’era di nuovo, farsi vedere con tutta la famiglia
e mostrare alla famiglia stessa quanto si fosse presi in considerazione
all’interno della propria struttura politica, chissà presentare qualche
figlio in età da lavoro a qualche presidente di Cooperativa.
Oggi capisco che nei primi anni del dopoguerra una porzione della
popolazione attese l’evento rivoluzionario quale oggettivazione di un
obbligo sociale e di una impellente necessità storica.
Per queste persone l’istante rivoluzionario avrebbe determinato la
fulminea autorealizzazione e oggettivazione di sé quale parte di una
collettività. Lo spazio individuale di ciascuno, dominato dai propri
simboli personali, il rifugio del tempo storico che ciascuno ritrova
nella propria simbologia e nella propria mitologia individuale, si
sarebbero ampliati divenendo lo spazio simbolico comune a un’intera
collettività, il rifugio del tempo storico in cui un’intera collettività
trova scampo. Si può amare una città, si possono riconoscere le sue
case e le sue strade nelle proprie memorie più remote e segrete, ma
solo nell’ora della rivolta la città è sentita veramente, da loro, come
la fortezza e, al tempo stesso, come la propria città: propria poiché
dell’io e al tempo come degli altri; propria, poiché campo di una
battaglia che si è scelta e che la collettività ha scelto; propria, poiché
spazio circoscritto in cui il tempo storico è sospeso e in cui ogni atto
vale di per se stesso, nelle sue conseguenze immediate. Ci si

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appropria di una città fuggendo o avanzando nell’alternarsi delle


cariche e degli impegni, molto più che giocando da bambini per le
sue strade o passeggiandovi più tardi con una ragazza.
Nell’ora della rivoluzione non si sarebbe stati più soli nella città.
Quella ora non venne mai.
Tanti la hanno sentita così, queste idee hanno creato seguaci negli
anni del dopoguerra, ma i presupposti di una visione tanto aggressiva
sono andati sfumando nel tempo ed il solo tentativo di raduno
popolare in pochi anni diventò la giornata del 25Aprile o del 1°
maggio.
Il 1° maggio, a parte il garofano rosso, anch’esso di memoria
Socialista, arrivavano a Bologna dalla mattina anche tutti i capi
famiglia delle aree vicine, perché in quel giorno non si lavorava da
nessuna parte, la cittadinanza era invitata alla sfilata, qualcuno aveva
un fazzoletto rosso al collo. Il pomeriggio, invece, era dedicato a
passatempi materiali, tutti si aggiravano in stradine laterali dove i
bambini non avevano permesso di andare a giocare, anche se non vi
transitavano mai automobili. Noi ne avevamo una di lato a casa, col
nome di un Santo bambino. Mio nonno vi passava alla larga pur
allungando il tragitto, malgrado camminasse col bastone, ed ogni
volta, con la curiosità del bimbo, chiedevo: “Perché non passiamo di
là, nonno, è più corta.” Perché di là non porta bene e non sta bene.”
Capii molto tempo dopo cosa fossero le case di tolleranza, e sempre
mi restò un preconcetto verso quegli ambienti.
Molto frequentate quel pomeriggio erano anche le osterie, dove era
possibile mangiare affettato ed a volte una minestra e bere un quarto
di vino.
Bologna ha sempre avuto una buona quantità di osterie, dove era
possibile passare tutto il tempo libero dal lavoro e che accoglievano i
clienti come un vero e proprio centro sociale.
La festa si è andata trasformando nel tempo, nei primi anni del
dopoguerra la lotta alla mezzadria fu uno degli impegni civili e
sociali più sentiti, con grande partecipazione popolare, dopo qualche
anno in generale il lavoratore non aveva una valenza od un genere
prevalente, se non di appartenenza ad una classe povera, dall’inizio

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anni ’60 qualsiasi segnale sociale veniva trasmesso attraverso i


sindacati, nella nostra città dalla camera del lavoro partivano verso
piazza maggiore cortei ininterrotti di lavoratori, spesso con in testa la
rappresentanza dei metalmeccanici. In quegli anni ancora qualcuno
parlava di rivoluzione, non più di rivolta bakuniana. Negli anni che
seguirono alla morte di Stalin iniziarono ad affiorare differenti linee
di partito che giungevano da lontano.
La immagine della Russia “paradiso del lavoratore” restò
inossidabile ancora per diversi anni, ma le distanze dai socialisti e dai
socialdemocratici cominciarono ad allargarsi ossidando le
connessioni.
La spinta rivoluzionaria andò evaporando e negli anni ’60 le lotte
sociali bolognesi erano già di tipo salariale, fortemente materializzate
e con scarsa valenza politica internazionale, dovuta ad uno
spaesamento causato da derive ungheresi e da inizi di revisioni
rumene, polacche e cecoslovacche.
Oggi, ancora, alle celebrazioni, è presente l’ANPI con qualche
sopravvivente con bandiera e medaglie, come quando, nelle mie
passeggiate di bambino, per le stesse ricorrenze, vedevo in un angolo
della piazza degli smorti garibaldini.
Tutti sanno, oramai, che la nostra città non rincorre ideali
rivoluzionari, ma vita comoda.
Bologna cavalcò, da subito, fedele alle sue origini, alternative di
coesistenza pluralista, generando nel complesso decennio che va dal
’59 alla fine degli anni ‘60 un clima di sufficiente quiete sociale che
permise un aumento costante di benessere e qualità di vita che tuttora
rimpiangiamo.
Non a caso, negli anni seguenti, Berlinguer venne qui alla Bolognina
per la svolta del partito
La generazione dei nostri padri, ancora giovane alla fine degli anni
’50, non aveva esaurito una gioia di vivere esplosa nel dopoguerra.
La continua linfa giovanile generata in città da nuovi afflussi
studenteschi di ceti medio alto che provenivano da altre aree
creavano una attenzione allo svago ed al divertimento che ha segnato
la nostra crescita.

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La nostra città viveva 24 ore, giorno e notte, era in movimento


continuo, come le grandi capitali del mondo, era a misura umana, ma
con infinite possibilità di lavoro e di svago.
Fu meraviglioso ritrovarsi adolescente a Bologna all’inizio di quel
periodo, Daniele ed io, immeritatamente, ci fummo e siamo qui a
raccontarlo.

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Daniele ed io.
Scrivere un libro in due non è cosa facile.
Ognuno di noi ha impiegato oltre settanta anni a crearsi, del
mondo reale, una sua costruzione soggettiva, fatta di
percezioni personali ed immagazzinate in una memoria
filtrante, deviante ed a volte opaca nei ricordi.
Oltre a ciò, ci sforziamo di ricordare un periodo di vita in cui
le nostre coscienze personali e sociali non erano
completamente costruite, non avevano l’equilibrio raggiunto
con l’età, non si erano sedimentate cognitivamente.
Abbiamo quindi pensato di mantenere le due memorie
contemporaneamente, invitando anche altri coetanei che
abbiano partecipato agli eventi, non per creare un
monumento della memoria, ma un ologramma della
memoria. In più tributassimo un ricordo, tanto più
soggettivo, tanto più ne uscirebbe una visione vivida e reale,
declinata in tutte le sue forme.
In poche parole, Gaibola, come Bologna, come le sue mura,
le sue architetture ed i suoi abitanti, sono in continuo
movimento, nella nostra memoria, anche le due torri, che ci
sembrano ferme, si sono mosse, nella nostra mente, proprio
come Dante vide muoversi verso lui la Garisenda,
paragonandola al gigante Anteo. Le ritroveremo nella loro
posizione di allora solo se saremo in tanti, allora le coscienze
cittadine di tanti non creeranno quella dinamica che non ci fu
mai, ma eliminerà i bradisismi della memoria che mutano
luoghi, cose, architetture e persone, e con essi le emozioni
che se ne ricevono.

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La seconda considerazione, che voglio fare, è la seguente.


Una amicizia non nasce da una scintilla, ma deriva da una
sedimentazione di continui confronti, da un mutuo, continuo
rispecchiamento con l’altro, come arrivare a conoscere un
totale di differenze, anche quelle impercettibili ravvisate, nel
paragone con l’amico, tra cosa si pensa e cosa pensi l’altro.
Mantenere nei racconti queste differenze ci permetterà di
avere una dimensione narrativa polivalente e migliorare il
nostro rapporto. Sto parlando del rapporto di allora, perché
noi, dal primo nostro incontro, ci incontriamo in una epoca
della memoria, sfumata e labile, come si addice a degli
ottantenni, ma comoda per entrambi, come fosse il vecchio
bar di sempre.
Daniele ricorda.
Mi permetto di usare una frase del testo di una canzone di
Paolo Conte che mi è sempre piaciuta:
Genova, dicevo, è un'idea come un'altra
Quella faccia un po' così
Quell'espressione un po' così
Che abbiamo noi
Mentre guardiamo Genova
Come ogni volta l'annusiamo
E circospetti ci muoviamo
Un po' randagi ci sentiamo noi.
Chiaramente, arrangiandola, sostituisco Genova con Bologna e
“Noi” che siamo di Gaibola..., ma andrebbe molto bene anche il
contrario!
Ho sempre sentito parlare di un certo atteggiamento snobbistico dei
gaibolesi nel rapporto con altri, questo è assolutamente sbagliato, pur
dovendo ammettere che il nostro comportamento è assolutamente
particolare ma animato di grande disponibilità ed empatia.
Gaibola è stata sempre da noi considerata un’isola felice, dove si
venivano a passare le vacanze estive, in una comunità che accettava
chiunque nella sua grande famiglia allargata.

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Quando in primavera si apriva casa, le porte non venivano richiuse,


restavano aperte fino all’autunno, non ci salutavamo incontrandoci,
ma parlavamo direttamente, come si fa in casa propria, in famiglia.
Questa famiglia allargata, col tempo è andata infoltendosi, con
personaggi adattati ed altri entrati per divisioni territoriali successive,
ma gli eventi di cui parlo ora sono ancora di quel luogo di frontiera
dove si andava per vivere una estate comoda e felice fuori del tempo.
A tale riguardo vorrei ampliare questa affermazione. Tempo fa ho
trovato in soffitta un volumetto, una specie di diario, che raccontava
dell’estate del 1897, passata dall’autrice con la comunità gaibolese.
I dettagli delle gare di ballo, della gita a Paderno, ecc.…, mi hanno
ricordato le “Vacanze di Messier Hulot”, film comico vintage cult.
Personalmente ricordo molte gare della Gaibola della mia infanzia:
tennis, ping-pong, croquet, gita a Pieve del Pino sul motocarro
guidato da Raffaele Pistani.
Di sera, molto meno sportive, gare di peti, che, mi assicurano,
facevano anche i miei nonni, seduti sulle panchine verdi del giardino
dotate di ottima risonanza.
A parte questo inizio…
Quando si parla di Gaibola, di solito, si parla di sport, ed in
particolare si ricordano i tornei di calcio tra gli anni ’60 e ’70,
disputati nel campetto ricavato sullo spiazzo davanti alla chiesa.
Il campetto fu benedetto dall’arciprete, don Enea Montanari, fratello
di un campione motociclista, e fu intitolato alla memoria di un
gaibolese DOC, “Angiolino Pilati”, che morì tragicamente in un
incidente d’auto nel 1929.
Angiolino Pilati ancora giovanissimo, 21 anni, era già una promessa
del tennis, campione emiliano di doppio con il fratello Cito e buon
giocatore di calcio. Aveva, infatti, giocato a Firenze, dove era
militare, nella Fiorentina, per un campionato. Era poi passato al
Bologna, dove era titolare.
Piero
Piero Pilati, fratello maggiore di Angiolino, circa dieci anni prima
aveva già militato nelle file del Bologna.

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Faceva parte della famiglia Vallisi che dimorava e tuttora risiede al


“Palazzo” vero centro della comunità gaibolese.

1. Il Palazzo Vallisi
Le prime avvisaglie che sarebbe stato un ottimo giocatore di calcio le
diede a Ferrara, dove era stato messo in collegio per punizione, per
scarso rendimento scolastico, cosa comune in famiglia anche in
futuro.
Piero scrive nelle sue lettere alla madre un fatto curioso. Giocando
nella squadra del collegio come attaccante un compagno ricco e
grasso gli propose come patto di procurargli una pasta ad ogni goal
che avesse fatto. Piero si impegnò tanto che fece cinque goals nella
partita seguente, con il compenso di cinque paste.
A parte la facezia, Piero giocando nella squadra del collegio fu
notato da qualche dirigente del Bologna e segnalato come talentuoso
alla società, per cui arrivò a giocare come mediano sinistro col N° 8
nella squadra felsinea nei campionati 1920-21 e 1921-22.
Convocato per la
nazionale giovanile si

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infortunò al menisco, e questo, a quei tempi, significava la fine della


carriera.
Che già a diciassette anni fosse un campione lo dimostra il parere di
un esperto molto
2. Piero Pilati Col Bologna 20-21
amato dai bolognesi:
Fulvio Bernardini, detto
“Fuffo”, il quale, in una
intervista al Resto del Carlino
ebbe a dire che, in una ipotetica
squadra nazionale di tutti i
tempi, avrebbe certamente
inserito Piero Pilati mediano
sinistro, che, come classe, gli
ricordava il Romano Fogli del
1964.

3. Piero Pilati

3. Angiolino e Cito

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4. Angelo e Piero 5. Angiolino Bubi e Beppe Sibona


Angiolino.
Pur essendo molto bravo sia a tennis che a calcio, non arrivava ai
livelli del fratello maggiore, ma, al contrario di Piero, aveva
raggiunto maggiore notorietà: molti amici, molte donne, etc.…
Una sera di settembre del ’30, salì a Iano con l’amico Bubi Scimeca
su una Lancia Lambda di altri amici per andare a prendere alcuni
dischi a “Palazzo” Vallisi per improvvisare una festicciola.
Durante il ritorno, all’ultima curva prima della villa, la decapottabile
si ribaltò ed i due passeggeri del sedile posteriore (Bubi ed
Angiolino) restarono schiacciati. Angiolino morì all’istante e Bubi
poco dopo in ospedale.

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6.La Macchina dopo L'Incidente.

7. La Lancia Lambda Nuova.


La stampa nazionale diede notizia dell’evento e riporta che alla guida
fosse il Sig. Amleto Faccioli e che nell’incidente fosse rimasto ferito
l’avv. Mariani. Angiolino era campione italiano di II serie di tennis

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nel doppio per la società Virtus oltre a fare parte della prima squadra
del Bologna. Aveva 21 anni.
Bubi era il vezzeggiativo di Carlo Antonio Scimeca, figlio di un
Generale di Fanteria, comandante la sesta guarnigione di stanza a
Milano.
Il fatto creò sgomento in tutta la città e molto scalpore nell’ambiente
sportivo, poiché i due ragazzi, della Bologna “bene” erano molto
conosciuti ed amati.

8.Angiolino Pilati con La Squadra del Bologna.1930


Angelo, nella foto con la squadra è il primo a sinistra in ginocchio. È
sepolto nel Cimitero Monumentale della Certosa di Bologna con
tanti campioni della sua epoca ed il Presidente Dall’Ara.

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Negli anni a seguire altri


Gaibolesi, o integrati come
tali, si distinsero in vari sport:
Cito e Chicco Pilati nel tennis,
sci e salto con l’asta;
Francesco Consolo nel rugby;
Mario Vancini nel nuoto;
Benvenuto Mignani nel disco;
Franco Golfieri nel tennis.
Dopo il periodo fra le due
guerre mondiali occorrerà
arrivare agli anni ’50 e ’60 per
parlare ancora di calcio a
Gaibola. Vediamo come.
L’ambiente di Gaibola,
paragonato a quello della
Fortitudo era totalmente
differente. I ragazzini che
giocavano a pallone erano
educati, non dicevano
parolacce e tantomeno
bestemmie. Per avere un
numero sufficiente a fare una
partitella chiamavamo i figli
degli abitanti della zona.
Ricordo che il piccolo
Pizzighini fu portato a
Gaibola per giocare a pallone
9. Il Padre di Daniele
vestito da Juventino, aveva
maglia, pantaloncini, scarpe e calzettoni. Era quello vestito meglio,
ma gli altri giocatorini, stracciati e scalcagnati, non gli fecero toccare
palla.
I più piccoli giocavano sul pratone di palazzo Vallisi ed i più
grandicelli si recavano all’eremo di Ronzano, esisteva un campetto,
tuttora esistente, dove giocavano a volte i fraticelli, e nelle pause ce

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lo facevano usare. Per noi era bellissimo, in quanto la alternativa era


il campetto di Gaibola davanti alla chiesa che aveva un buco in
mezzo con una grotta carsica ed alberi incombenti che limitavano
quello che sarebbe diventato il campetto dei tornei.
Il campo di Ronzano per noi era un lusso, in quanto aveva fondo
sabbioso e chiazze
d’erba, vere porte di
legno dipinte di
bianco, ed era
circondato da una rete
di protezione e di
contenimento, in
quanto il pallone,
superata la rete, lo
avremmo dovuto
4 Campetto dell'Eremo di Ronzano recuperare alla facoltà
di Ingegneria, praticamente a Porta Saragozza.
Le squadre si facevano col metodo classico: “Bim bum bam” di due
capitani, di solito Bubi Scimeca ed io li sceglievamo uno per uno, dai
più bravi ai più scarsi, e poi si iniziava.
Di fatto Bubi sceglieva sempre Sergio Orsi, forte attaccante, ed io
Angelo Balocchi, ottimo portiere, ma con questo la mia squadra
perdeva sempre.
L’idea di un Torneo di calcio cittadino.
Erano i primi anni ’60, in città si disputavano vari tornei che si
giocavano in campi da sette. Avevano carattere stagionale ed erano
spinti da quella ereditata passione per il calcio inteso come voglia di
divertirsi e giocare più che come momento ginnico. Il Bologna non
era uno squadrone, ma cominciava a farsi valere nel campionato di
serie A ed aveva risvegliato anche tra i vari licei cittadini una voglia
di emulazione.
Nel torneo Galvani giocava la mitica “Real Galvani” (io la chiamavo
così), che in poco tempo diventò la squadra imbattibile della Salus.
Musiani,

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Trentini, Tedeschi, Monari e Crocioni vinsero in III a B il torneo del


1959.

11. Real Galvani


Nel secondo Torneo del S. Luigi giocò anche Giacomo Bulgarelli.
Non per vantarmi, ma pure io ho giocato una partita in arancione,
colore della maglia della prima media, scelto per la squadra da
Giorgio Correggiari, diventato poi uno stilista di moda ed altro.

12. Squadra di Scimeca al San Luigi. 54


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La vera squadra da battere, però, era quella di Bubi Scimeca,


Ludergnani, Poggioli, Rimondi ed altri. Il torneo principale, senza
dubbi, era quello di primavera inoltrata, in notturna, alla Salus dove,
ricordo, si pagava qualcosa per entrare, ma quei pochi soldi si
versavano volentieri, perché era matematico che, fra il pubblico dei
vari bar, scoppiasse qualche rissa a seguito di sfottò sempre molto
ameni. Tra i grandi provocatori c’erano i figli del grande Marino
Perani, mitica ala destra del Bologna dello scudetto.
Quando giocava il loro bar lo spasso era assicurato.
La alternativa, del resto, sarebbe stato il solito cinemino serale
all’aperto.
C’era dunque grande voglia di giocare al pallone in quella stagione,
ma penuria di campetti di calcio. Basti pensare che un gruppetto di
ragazzi, tra cui: Federico Possati, Manlio Pilati, Bruno Luppi,
Mastrorilli, Bubi Scimeca e “la pompa” Possati, ai quali si univano
alcuni di Gaibola, venivano tutti i sabati pomeriggio e si vestivano in
divisa per giocare a porta romana nel campo antistante la chiesa.
Nel centro del campo c’era una voragine di tipo carsico di sei metri
di diametro, un pino sul lato dell’area giocabile, e la porta era
formata da due alberelli cresciuti provvidenzialmente sulla linea di
fondo. Il fondo era sconnesso perché v’erano solo alcune rare
chiazze d’erba.
La scomodità era immensa, l’impegno grande ed il divertimento
assicurato.
Questo particolare ci aiuterà dopo a capire quanta fatica ci costò
creare il campo per i nostri tornei.
Organizzare un torneo ci sembrava sostanzialmente facile, occorreva
per prima cosa un campo da sette, come quello della Salus, che era
perfetto, oppure averne uno proprio. Qui ci venne l’idea di attrezzare
alle nostre necessità il campetto di Gaibola.
L’altro punto da risolvere fu: dove troveremo le squadre
partecipanti?
A quei tempi i gruppi di ragazzi che sarebbero stati interessati a
formare squadre frequentavano:

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PINO, famosissima gelateria dove dopo la scuola si andava a


prendere la focaccia con panna. Il liceo Galvani ed il Manzoni si
trovavano poco lontani da lì.
Questo fenomeno va spiegato meglio.
In quegli anni il gelato era una cosa per bambini, lo si prendeva alle
baracchine sui viali (specialmente i ghiaccioli “Cof”) o da Pino, che
fu uno dei primi negozi fissi aperti tutto l’anno.
C’è chi si ricorda Pino, prima che aprisse il negozio in via
Castiglione, girare con un furgoncino a vendere gelati per strada, sul
suo mezzo aveva disegnato Biancaneve e i sette nani che
mangiavano il gelato. La conseguenza della mancanza di concorrenti
e della qualità del suo gelato, molto buono, fu che, nel week end,
c’era la fila per mangiare un gelato, e nei giorni feriali era diventato
il punto di ritrovo dei fughinisti e dei ragazzi dell’alta borghesia che
abitavano la parte sud della città, considerata la più benestante.
Tre episodi degni di nota:
L’uovo della Ianna.
Spesso, davanti a PINO, verso le 12,30, all’uscita delle scuole, si
radunavano gruppi di ragazzi, più tutti i fughinisti, in cerca di
qualche bravata che facesse ridere tutti e mettesse qualcuno in
difficoltà.
Di fronte a PINO c’era il bar del Pescatore, ed a fianco di questo bar
una polleria, con grandi ceste di uova fresche. Quel giorno, quando
arrivai alla gelateria, notai che qualcuno aveva comprato delle uova
in polleria, sicuramente non per friggerle a casa.
Pensai che in breve sarebbe scoppiata una battaglia a colpi di uova
tra due fazioni, oppure un bel lancio vicino ad una ragazza avrebbe
provocato schizzi per sporcare gambe e gonne.
In pochi minuti, sul marciapiede opposto, passò Marzio Cortinovis,
che accompagnava a casa tre belle ragazze verso Porta Castiglione.
Accompagnare belle ragazze a 17 anni aumentava la autostima di
parecchio, Marzio era arrivato fin lì senza intoppi, ma non aveva
calcolato che sarebbe passato davanti a PINO, sul lato opposto, che
era un affollato e tremendo punto di osservazione sul passaggio di
ragazze a quell’ora.

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Beppe Iannini, detto “la Ianna”, circondato da amici e compagni


lanciò un uovo che, con una traiettoria parabolica perfetta quanto
fortunosa, colpì la tempia del malcapitato Marzio. Ciò provocò
l’ilarità spontanea di tutta la strada, comprese le ragazze che stava
accompagnando.
Le conseguenze si possono immaginare.
Il lupo Ezechiele.
Nando Nascé, in arte “Il lupo Ezechiele”, o semplicemente “Il
Lupo”, era una persona che stazionava perennemente davanti a PINO
col bel tempo, dentro quando pioveva.
Altra caratteristica del Lupo era quella di stare sempre con dei
sedicenni. Con alcuni di questi aveva sviluppato una vera amicizia.
Del gruppo dei più giovani mi ricordo Maurizio Marsili, Gianmario
Gallerani, Ermanno Rizzi, detto “La capra” per la zazzera, Carlo
Vico e Lorenzo Seragnoli, questi tre anche compagni di classe.
Purtroppo, Lorenzo si ammalò ed in brevissimo tempo se ne andò
per una leucemia fulminante. Fu un grande lutto per tutti.
La cassiera di Pino.
Ad un amico di cui non posso fare il nome (Riccardo) per ragioni di
riservatezza, quando compì 18 anni, fu regalato, dallo zio un
rapporto sessuale con una donna compiacente ma sicura.
Questo regalo, di solito veniva fatto dallo zio e non dal padre, perché
sarebbe stato imbarazzante spiegare da dove venisse tale conoscenza,
ed anche per evitare il trauma della “iniziazione” con una donna dei
viali, che avrebbe potuto essere portatrice di malattie o di altri
problemi. La seconda opzione era una certa Citti, di via Bertiera, che
per decenni era stata la nave scuola dei ragazzi bolognesi.
Così lo zio consegnò al suo amico le chiavi del suo “trappolo” e gli
disse di andare quel pomeriggio stesso ed aspettare la visita di una
persona…
Questa persona suonò all’appartamento, salì le scale e… sorpresa
delle sorprese, si rivelò essere la cassiera di PINO, una giovane e
bionda, non la mora più anziana, che a volte arrotondava lo stipendio
con tali opere di carità. L’imbarazzo e lo stupore furono, immagino,

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grandissimi, perché i due si conoscevano, almeno di vista, molto


bene.
Tengo a dire che il soggetto di questo aneddoto non sono io. Anche a
me fu proposto un simile incontro da mio zio, ma, purtroppo, non si
materializzò mai. Dovetti sbrigarmela da solo.
Tirando le somme da queste esperienze sessuali bisogna ammettere
che noi ragazzi, dai 16 ai 18 anni, praticavamo abbondantemente la
masturbazione: privatamente in casa, nella solitudine del bagno, ma
con una grande fornitura di riviste che mostravano le foto delle attrici
preferite seminude. Ciò aiutava molto, oppure c’era la masturbazione
in batteria, molto meno arrapante ma anche divertente che veniva
praticata d’estate possibilmente in un fienile o spazio simile, al
momento della “gabbanella” pomeridiana.
L’amico di cui sopra, prima dello svezzamento, non scherzava
affatto anche con la masturbazione: ci disse, infatti che, a parte la
pugnetta classica, avvolgere il pene in un asciugamano bagnato con
acqua calda e fare cadere lentamente una goccia molto calda sulla
cappella assicurava buoni risultati, ma la soluzione migliore, anche
se un po’cara, era quella di comprare dal macellaio una fettina di
carne, scottarla appena, con qualsiasi cosa a forma di tubo,
avvolgerla dentro all’attrezzo e, con una buona fantasia, raggiungere
vette di godimento eccelse .
Non so se qualcuno avesse provato ad imitarlo, ma gli appiopparono
il soprannome: “bistecca”.
Nessuno che conosca, di quel periodo, ebbe problemi gravi alla vista,
malgrado le prediche dei nostri parroci.
Bar del Pescatore.
Era il tempio dei fughinisti, di fronte a PINO, dotato di un biliardo e
quattro tavoli per gioco carte nel retrobottega, sedie e tavolini fuori
in estate, orario di apertura di almeno 16 ore al giorno.
Riceveva clienti su due turni: fughinisti e studenti durante l’orario di
scuola, clientela normale durante il giorno, clienti abituali a tutte le
ore. Non mi ricordo un solo giorno in cui entrando, a qualsiasi ora,
non abbia trovato il biliardo occupato.

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Frequentatori fissi ricordo: Il Lupo Ezechiele, Giorgio Biavati, prima


di trasferirsi a Milano alla Accademia del Piccolo Teatro di Giorgio
Strehler, il Pompiere, Amadesi, Pessina, Morsiani il pappone, tra gli
studenti i fratelli Bonaga, Iannini, Tufo, Valerio Tarabusi, Rino
Basile, Lele Giordani, Gigi Nanni e, a seconda delle stagioni, tutti i
fughinisti. L’ambiente era vario, vasto e trasversale, la specialità
della casa erano le crescentine che sembravano fritte nell’olio di
tornio. Tre anni in questo bar equivalevano, alla data attuale, ad un
Master alla Bocconi od alla Louis in management, le lezioni teoriche
dei maestri erano sempre aiutate da prove di laboratorio, al chiuso od
all’aperto.
Picnic.
Era il posto più amato dai motorizzati, specialmente quelli con la
macchina, perché ai piedi dell’Ospedale Rizzoli e di San Michele in
Bosco offriva una grande possibilità di parcheggio.
Era soprattutto frequentato da amanti dei motori, più d’automobile
che di moto, si parlava in continuazione di auto truccate e di corse in
salita. Spesso venivano a salutare gli amici Sauro Mingarelli,
meccanico ufficiale dei tagliandi Ferrari per Bologna, con Bruno
Deserti, futuro sfortunato pilota della Scuderia Ferrari in Formula
Uno, prima di avere il tragico incidente.
Tra tutti i frequentatori sarebbe stato difficile costruire una squadra
di calcio, ma senz’altro qualcuno sarebbe venuto a curiosare.
Tra i frequentatori assidui: Arrigo Protti, Marco Magri, Paolo
Tullini, Guido Del Fante, Tufo, Franco Martelli, Leopoldo Canetoli,
Beppe Brilli, Beppe Galassi, Gianmaria Fava, Maurizio Randaccio,
Norberto Ferretti, Antonio Pelliccioni, Paolo Cerioli, Marco
Tavasani e tantissimi altri.
Una mattina, verso mezzogiorno, davanti al PICNIC pienone di
gente e di auto parcheggiate molto malamente. a salutare gli amici
Dall’ospedale Rizzoli scende Nino Benvenuti, il pugile, che si
accorge che la sua auto parcheggiata bene è chiusa da un’altra auto in
seconda fila. Non ci pensa due volte, sale sull’auto che intralcia, la
mette in moto e la sposta. Quando scende l’avvocato Del Fante gli fa
notare di avere commesso un arbitrio proibito ed anche punibile, ma

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che, anche se lui fosse stato il proprietario dell’auto che intralciava,


non avrebbe mai voluto dirimere la questione con la forza od
addirittura con le mani.
L’intervento provocò una risata generale ed anche qualche applauso.
Zanarini.
È il bar dei cosiddetti fighetti, sembra impossibile, ma si formò una
squadra gestita da Ninni Veronesi che non solo partecipò al torneo,
ma lo vinse anche aggiudicandosi la prima Coppa Gaibola, “Autunno
1968. La squadra era “Gli Idoli”.

13. Ninni Veronesi Alza la Coppa del Torneo.


Il Bar era frequentatissimo da ogni tipo di persona e di ceto sociale,
ma un ristretto gruppo di giovani che, in quegli anni, lo avevano
scelto a proprio “Ufficio” e vi passavano intere giornate, ne
decretarono il genere. Dopo l’orario di lavoro si riempiva di una
quantità di persone, fino a sera, che rappresentavano tutta la città.
Guardandomi indietro rivedo, prima dei mondiali del ’66 a Londra,
seduti ad un tavolino, all’ora dell’aperitivo, Mondino Fabbri,

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Giuseppe Pasquale e Aldo Bardelli a parlare tra loro all’ora


dell’aperitivo.
Venivano al bar professori universitari, artisti, attori di teatro,
magistrati e professionisti, così come studenti, playboy, fighetti e
fannulloni, la piazza antistante era piena di macchine di lusso
parcheggiate e la passeggiata elegante delle signore e delle ragazze
aveva questo angolo di Pavaglione come percorso obbligato.
Ideal Bar.
Altro posto frequentatissimo in quegli anni dai fughinisti era l’Ideal
Bar, un baracchino semiabusivo posto sui colli in via delle lastre,
vicino alla casa di Carlo Avoni.
Io e Maccio vi andavamo spesso, a volte per pubblicizzare il nostro
torneo.
C’erano molti ragazzi ed anche molte ragazze per l’aperitivo, quasi
tutti muniti di una specie di specchio di stagnola, stavano al sole per
abbronzarsi meglio.
L’Ideal era molto di moda, quindi frequentatissimo.
Una nota stonata fu l’incidente mortale di Paolino Rizzoli. Arrivata
l’ora di rincasare partì con la sua Honda 600 verso Bologna, ma alla
seconda curva, per qualche motivo che non so, cadde ferendosi
mortalmente. Stefano Bonaga, partito poco dopo di lui, se lo vide
morire tra le braccia.
Bar Donini
Andiamo al Bar…che bello il Bar…
andiamo al Bar…evviva il Bar…
che divertimento al Bar…ecc.
Questa è la canzone del Bar
composta per il Bar Donini. Ora
non si chiama più così, era situato
sotto il portico di fronte alla chiesa
di Santa Maria della Carità, in via
San Felice.
Il Signor Mario, il proprietario, la
moglie…la ciospa e la figlia detta

14. Bar Donini 61


62

“la merda”, (non so perché) erano tutti e tre orrendi, ma sempre


presenti.
I vecchi frequentatori del Bar erano per lo più figli dei commercianti
della zona ed i giovani che abitavano in via San Felice o
frequentatori della Fortitudo.
Gli argomenti discussi al Bar erano strettamente sportivi:
90% calcio, con interisti contro tifosi del Bologna e 10% basket, con
Virtussini contro Fortidussini, come allora si chiamavano…, perché
Ello, praticamente, giocava da professionista, Beppe Lamberti
frequentava il Bar…
In una delle tante discussioni fra sostenitori Inter e Bologna
intervenne il Signor Mario con una considerazione molto banale, che
fu definita da Tubertini, figlio del fornaio: “Quasta l’è onna caghè
clan sta gnanch’in vatta al badil”. Il signor Mario, oltre ad essere
tifoso del Bologna, ma poco esperto di calcio, era molto gentile e si
prestava a tenere oggetti vari da riconsegnare più tardi al
proprietario. Chiaramente Maccio, considerato il più trasgressivo del
Bar, abusò di questo servizio e si presentò con un “Garand”, fucile da
guerra americano, che voleva vendere a qualcuno che doveva venire
al Bar ma era in ritardo. La soluzione fu semplice, consegnare l’arma
al Signor Mario e passare a riprenderla dopo due ore. Quella volta il
Signor Mario sbottò e infamò Maccio, provocando l’ilarità generale.
Sul retro del Bar c’era la pasticceria, col pasticcere soprannominato
Poblet perché’ assomigliava molto a un noto ciclista spagnolo di quei
giorni, specialista di arrivi in volata, cioè un velocista che era
completamente pelato, nonostante ancora giovane.
Avvenne che per una Santa Pasqua Poblet confezionasse una decina
di torte da vendere al pubblico e le esponesse nella vetrina che dava
sulla strada.
Ben presto gli avventori del Bar si accorsero, dando una occhiata alle
torte, della scritta “Buona Pascua”, e fecero notare l’errore al
pasticcere.
Lui confessò l’errore e promise che avrebbe riparato alla svista;
infatti, il giorno seguente riespose le torte con la scritta “Buona

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Pascqua”. È noto che i pasticceri, al massimo, hanno fatto la quinta


elementare, quindi perché’ meravigliarsi? Forza Poblet!
Maccio, noto sparagnino, a volte, al bar, avrebbe mangiato volentieri
una o due paste alla crema, ma non gli andava di pagarle. Con gli
amici Aldo, Paglia, La foca, ecc. si organizzarono in questo modo:
gli amici avrebbero fatto da paravento a Maccio che, dalla vetrinetta
doveva afferrare due paste e mangiarle molto velocemente, di
nascosto dal Signor Mario per non pagarle.
Tutto andava come previsto, Maccio aveva la bocca gonfia di paste,
il paravento degli amici si aprì e lui dovette a malincuore dichiarare
al Signor Mario: “Due paste e un caffè”.
Fra i frequentatori del Bar c’è il super perbenista Angelo Zani ed il
grande N9 Bruno Zucchini che, smesso col calcio, aveva attività non
molto legali, come trattare con un paio di prostitute con cui era molto
amico.
L’episodio comico riguarda Angelo, che, per nascondere le sue
intenzioni, sperando di non farsi capire dai vari amici presenti, si
rivolgeva a Brunino con un “Hei, Zu…andiamo a pu…?”
Bruno piantava lì il biliardo e se ne andavano con l’auto di Angelo
credendosi inosservati.
La via San Felice.
Questa via è stata molto importante
per me che abitavo in via Saffi N°1,
proprio a lato del grande edificio
della Fiat di Porta San Felice ora
abbattuto e di rimpetto alla vasta
caserma “Mameli”, dove mio nonno
aveva lavorato in quanto Militare.
Questi sono i luoghi dove ho passato
gli anni decisivi della mia
giovinezza, che quindi mi sono
rimasti impressi nel ricordo.
15. Soldati Americani Davanti a Quando si usciva non si andava in
Casa di Daniele periferia, ma sempre verso il centro,

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da Porta Saffi fino a via Marconi e poi ritorno, questo era il nostro
territorio.
I miei ricordi sono forse stupidi o insignificanti, ma molto nitidi e
pregnanti.
Da bambino, fu un attraversamento imprudente, di corsa della strada
verso la caserma Mameli, non c’erano i semafori, passai mentre
arrivava un camion che mi mancò per un soffio. Rimasi terrorizzato,
ma udii chiaramente la bestemmia del camionista: “Porca Mad…”
1 C’era un piccolo negozio di fotografo, praticamente di fronte
alla casa di Pinotti, circa al N°122, che aveva la vetrina
zeppa di foto di soldati, fra le quali spiccava il ritratto del
comico Franco Franchi. Più tardi compresi che i militari di
leva si facevano le foto da inviare alla famiglia e Franco era
stato uno di loro.
2 A questo punto vorrei parlare della famiglia Pinotti, tipica
della Bologna povera, come era la parte bassa di via San
Felice. Erano in sei, padre, madre, tre figli maschi ed una
femmina. Davanti ad uno degli ultimi numeri della via San
Felice veniva parcheggiata sempre una moto, di grossa
cilindrata con il manubrio all’americana. Questa era la moto
del padre, un tipo non tanto alto con barba e baffi rossi.
Era un pittore, ma in pratica faceva il cartellonista
pubblicitario, quindi: “un artista”.
La madre, una tambucciotta, modello lavandaia, sempre
molto truccata, portava un fazzoletto in testa annodato sulla
fronte che, come tutti pensavano, doveva nascondere una
forte calvizie, agghindata così assomigliava a Moira Orfei ed
era soprannominata” La spagnola”.
I tre figli maschi erano: Valerio, Claudio, detto Pegno e
Marco, morto purtroppo in un incidente stradale vicino a
Milano e Patti (Patrizia), la più piccola, che frequentava le
elementari con mia sorella Valeria.
Tutti i ragazzi Pinotti frequentavano la Fortitudo e
rappresentavano un livello medio alto di quell’ambiente
della Polisportiva che vi lascio immaginare.

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Fortitudo.
Io avevo il divieto assoluto di recarmici, da parte dei miei genitori,
che preferivano la parrocchia. Per me era molto più noiosa, in quanto
si poteva giocare solo a ping-pong o pallavolo.
Narro alcuni episodi per rendere meglio l’idea di cosa facessero i
frequentatori della Fortitudo, oltre a giocare ininterrottamente per
tutto il giorno, cioè fino alla sera a dopo il tramonto.
Per giocare a pallone, oltre al numero di giocatori, che sempre era in
eccesso, c’era bisogno del pallone, che nessuno aveva, e che quindi
nessuno portava.

16. Don Corrado con un Gruppo di Giovani Calciatori, tra cui Brunino
Perciò entrava in ballo la “Vecia Pandora”, madre di Don Corrado,
direttore della Fortitudo, che forniva il pallone solo se veniva lasciato
del denaro od un pegno che veniva restituito a sera alla riconsegna
della palla. Avvenne che per alcuni giorni nessuno avesse denaro od
oggetti di valore da dare alla “vecia pandora” in pegno al pallone,

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qualcuno pensò, quindi, di lasciare il fratellino di Valerio Pinotti


(Claudio), che poi la sera veniva riaccompagnato a casa.
Da allora, per tutti, ebbe soprannome “Pegno”. Io, per sapere il vero
nome ho dovuto chiedere a vecchi amici, non lo ricordavo più.
Altro episodio, meno simpatico, che mi ricordo è quello della
iniziazione che chiunque doveva subire per potere frequentare la
Fortitudo. Il malcapitato iniziato veniva messo a gattoni, su di lui
veniva messa una porta da hockey ribaltata che lo confinasse in
gabbia e tutti i presenti dovevano sputargli addosso. Dopo la prova
iniziatica veniva accettato.
Si parla anche di
grandi gare di
sputo, dove vinceva
chi avesse sputato
più distante di tutti.
Campione
indiscusso di questa
specialità sportiva
era un certo Lucio
Dalla, che allora
aveva soprannome
“Sputino”. Non a
caso la prima
barchetta di Lucio
si chiamò “Catarro”
e non a caso, sul
campanello di casa
Lucio aveva scritto
“Domenico Sputo”.
In Fortitudo
successe anche di
17. Squadra di Basket con Lucio e Aldo Venturi.
peggio.
Si dice che dopo uno screzio di alcuni ragazzi con Don Corrado, una
mattina, apparve sui muri del campetto a caratteri cubitali, cioè a

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grandezza d’uomo la scritta:” DON CORRADO BUSAN” seguita


dallo Slogan: “Don Corrado Busan Schiavo del Dio…Boia”.
Non si seppe mai chi fosse stato, ma la dimestichezza coi pennelli ed
i colori per me furono come una impronta digitale.
Parlando con Tobia, di qualche anno più anziano di noi ed uno dei
protagonisti del Bar Margherita, ho saputo che ai suoi tempi c’era
una litania, dedicata a Don Cleto, precedente direttore della Salus-
Fortitudo, che rimava: voce solista “nel primo mistero glorioso si
contempla San Cirillo, che con l’uccello a spillo inculava i microbi”
coro “Don Cleto Busan”.
I personaggi cambiano, come si vede, ma lo spirito dissacratorio
rimase sempre in ambiente.
Altro avvenimento, con protagonista Don Corrado fu il seguente.
Un gruppo di delinquentelli, nemmeno più tanto giovani, del Bar di
piazza San Francesco, decise di murare dentro casa sua il nostro Don
Corrado.
Il vero motivo di questo blitz rimase sconosciuto.
L’azione fu messa in atto di notte, ma per fortuna, il muretto fu eretto
solo per l’80% ed il prete riuscì a salvarsi senza interventi esterni.
In tanti anni gran parte dei giovani della città sono passati dalla
Fortitudo, io del mio periodo ricordo in particolare:
Massimo Monteguti (Maccio)
Beppe Galassi
Osvaldo Girasole
Mauro Paglia
La Foca
Aldo Venturi
Brunino Zucchini
Lucio Dalla
Sergio Serenari
Valerio Pinotti e tantissimi altri…
Per quanto riguarda la pallacanestro, molto frequentata era la
chiesetta sconsacrata dell’Abbadia, a metà di via San Felice, dal
primo pomeriggio a sera inoltrata si giocava a basket e vi erano

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istruttori od anziani o tutor, alcuni di ottimo livello, che giocavano


con noi.
Vi si allenavano anche squadre femminili, cosa che aumentava
l’interesse generale, specialmente aiutava ad essere puntuali, per non
perdere l’opportunità di incontro all’incrocio degli orari.
Tra i vari allenatori che frequentarono la palestrina ricordo Tracuzzi
e Lamberti, allenatori di prima squadra, che, comunque, non
disdegnavano di quando in quando, di insegnare qualcosa ai
ragazzini. Entrambi erano stati giocatori, ed entrambi cominciarono
ad allenare squadre giovanili, sia maschili che femminili mentre
ancora giocavano. Avevano una passione immensa per questo sport.
Tracuzzi, quasi di una generazione precedente a quella del secondo,
venne a Bologna da Varese ed allenò per qualche anno la Virtus
quando ancora giocava in Sala Borsa, ultimo scudetto vinto da lui nel
1956. Prima di lui, a Bologna, la figura dell’allenatore non era
centrale ai risultati di squadra. Con Beppe Lamberti nasce la figura di
dirigente a tutto tondo, l’anima della squadra e l’immagine della
Società, per di più con origini bolognesi, addirittura cresciuto alla
vita sportiva in quella palestrina dell’Abbadia, che oggi è in vendita,
e fu la prima casa della società sportiva che nasceva. Lui abitava, da
giovane, in via San Felice 14 e prima dei 17 anni era già nazionale
giovanile.
3 Al 118 abitava l’amico Maccio, figlio del Dottor Monteguti,
medico come mio padre, l’amico giusto per me. Andavamo a
fare i compiti insieme da una maestra in pensione, tale
Signora Brunetti, molto cattolica (aveva un figlio prete), mia
madre mi portò a giocare da Massimo alla fine del
doposcuola.
Appena entrato Massimo mi mostrò le sue doti di acrobata,
alla Tarzan, riuscendo a raggiungere la cucina, tre stanze più
in là, senza toccare terra.
Finita tale esibizione mi mostrò la sua collezione di fumetti,
con le storie di Pecos Bill eroe del Far West che io non
conoscevo, in quanto avevo permesso di leggere solo
Topolino.

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Abbandonati i fumetti andammo su una terrazza dove mi


sfidò a calcio, sport che non avevo mai praticato.

18. Interno del Garage Manaresi


Naturalmente vinse facilmente.
Notai che dalla terrazza, sulla quale mi sfidò, si vedevano le
auto allineate del sottostante Garage di Manaresi. Massimo
abitava al primo piano, mi dissero poi che Massimo,
giocando in terrazza, aveva sfondato la vetrata ed era
precipitato giù in garage, fortunatamente atterrando sulla
capote di un’auto. Non si era fatto troppo male, ma,
esaminata la situazione, mia madre giudicò Massimo troppo
vivace per i suoi gusti e non andai più a giocare a casa sua.
Malgrado tutto restammo amici e, di nuovo compagni di
classe al liceo, diventammo inseparabili.

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4 Davanti a casa di Maccio c’erano due rivendite, oggi sparite,


che mi ricordano qualcosa: il Carbonaio, importante perché
allora il riscaldamento era a carbone e, per noi che
abitavamo al quarto piano, senza ascensore, il trasporto era
un problema. Il Vinaio, osteria e mescita di vino sfuso,
considerato dai miei un luogo cui non avvicinarsi, per cui io
gli passavo davanti veloce per non restare contaminato, ma
ancora oggi ricordo l’odore acre del vino.
5 La mappa ulteriore della via San Felice dei miei amici e
conoscenti era:
N 86: Stefano Casanova (Antipatico)
N 88: Sorelle Muratori: Sandra e Cetti, quest’ultima fiamma
di Maccio, perennemente in ritardo agli appuntamenti, una
volta lo fece aspettare due ore.
N 88 Vanna Roversi, bella ragazza, idolatrata da Zani, negli
anni seguenti sposerà Angelo Rovati, giocatore della
Fortitudo storica di Lamberti, insieme a Dado Lombardi,
Gary Baron Schull, Pellanera e Bergonzoni
N 89 Bruna Scandiani, poi moglie di Aldo Venturi (Peppo)
N 98 Gianni Verati (La Salamandra)
N 113 Mauro Paglia, protagonista di un evento bomba
(Scappò con la moglie del titolare del club rossoblù che era
poco più avanti in via San Felice)
N 116 Corrado Tossani, notissimo “Mossiere”
N 118 Maccio e Vittorio Manaresi
N129 La Camiciaia Conficconi
N120 La Titti, fece lingua in bocca con tanti… andava con
Zani al Grottino.
N 121 Brunino Zucchini (La Medicina), Paolo Labanti (Il
Ladrino), La Violetera (Trans venditore di strada di fiori),
Bichicchi.
Ho segnalato tutti queste persone perché vivevano tutti
nell’area di 150 metri dalla Fortitudo, al N 103, e ne erano
grandi frequentatori.

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La metà dei miei compagni di scuola erano topi grigi, a mala


pena mi ricordo di loro: Negri, Nalini, Brillanti, Carolingi,
che

19. Classe Elementare di Daniele.


portava scarpe di tela sia d’estate che di inverno perché ne
aveva solo un paio, Ferri, certamente il più povero, si
addormentava sul banco per stanchezza a causa della
denutrizione. Per lui la maestra Corazza si mise d’accordo
con mia madre per farmi portare tutte le mattine un ovetto di
gallina che lei forava e glie lo faceva bere. Io a sei anni non
capivo la situazione, ma mi sentivo imbarazzato.
Una situazione comica si presentò alla famiglia Vancini,
proprietari dell’omonimo mulino che distava a poche
centinaia di metri da casa mia in via Saffi.
Anche i Vancini erano Gaibolesi nel periodo estivo, in
inverno abitavano a Bologna per comodità e per la scuola dei
bambini. A Paolino, nei primi giorni di scuola elementare fu
chiesto che lavoro facesse suo papà. Lui che aveva visto
Mario spostare sacchi di grano in spalla al mulino,
candidamente rispose: “il facchino”.

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La maestra di Paolino, dopo alcuni giorni, chiamò mamma


Sofia per dirle di avere ottenuto, per suo figlio, il servizio di
refezione gratuito per le persone non abbienti.
La Signora Sofia, che non si era presentata vestita da moglie
di facchino, chiarì l’equivoco e la cosa terminò lì.
Rivedo questi fatti e mi accorgo che la scuola, allora, era
molto attenta anche allo stato sociale dei ragazzi, non curava
solo la didattica con aste, lettere e numeri. Certo la
situazione era differente, ancora nel dopoguerra ci si sentiva
ancora in emergenza.
6 La cosa che ora è sparita, con mio grande rammarico, è il
canale a cielo aperto che scorreva appunto all’angolo di via
San Felice e Riva Reno.

20.Il Canale di via Riva di Reno in secca per la Copertura.

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I lavori,
necessari per
ragioni di igiene,
si svolsero alla
fine degli anni
’50 e
cancellarono una
tipica opera della
Bologna
medievale che
conta una vasta
rete di canali,
oggi tutti
sotterranei, con
21. Monumento alle Lavandaie poche vestigia
affioranti. Tra le attività di lavoro, estintesi per ultime, vi è
quello delle lavandaie, che, piegate a livello acqua o inserite
in grossi tubi fognari asciutti verticali, lavavano i panni nel
Reno, sbattendo e risciacquando per ore. Dopo l’inizio degli
anni ’60 le case si riempirono di lavatrici. Ricordo bene certe
grosse pantegane che circolavano liberamente, spesso più
grosse di un comune gatto, che temevano solo i ragazzetti
locali che le cacciavano con sassi od altre armi improvvisate
come passatempo primario.
Di tutto ciò è rimasto solo il ricordo, oltre ad una ampia
strada con semaforo ed un parcheggio. Dalla parte di via
della Grada, dove erano rimaste alcune macerie è accosciata
una strana statua in bronzo di Sara Sarmenghi, raffigurante
una lavandaia praticamente nuda dentro una bacinella
d’acqua. La statua è dedicata al lavoro femminile, ma ha
ricevuto scarsa approvazione da quanti si ricordassero le
lavandaie al lavoro che in tre giorni ti restituivano i tuoi
panni lavati e stirati a prezzi onesti.
Un secondo lato negativo per la città dovuto alla copertura di
praticamente sette tra torrenti ed affluenti coperti in città è

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stato l’innalzamento delle temperature serali per mancanza


di ventilazione di fondo valle che seguiva i percorsi fluviali.
L’unica area di continuo flusso di brezza di fondo valle è
rimasto l’incrocio Riva di Reno Marconi.
Riporto da una locandina del Comune:
I Canali di Savena e di Reno sono stati costruiti in epoca
medievale per portare le acque dei due fiumi nel cuore della
città. Dalla Chiusa di San Ruffillo sul torrente Savena ha
origine il canale omonimo che entra nel centro storico a
Porta Castiglione. Il Canale di Reno nasce da una grande
chiusa che si trova nel vicino Comune di Casalecchio di
Reno ed in città scorre al di sotto delle vie della Grada e
Riva di Reno, sino a via Capo di Lucca. Le loro acque, una
volta uscite dal centro, confluiscono nel Navile, canale un
tempo navigabile, lungo 36 km, che consentiva i
collegamenti con le città del Nord ed il commercio
internazionale. Bologna nasconde un complesso reticolo di
circa 60 km di vie d’acqua, soltanto in parte visibile. Fin dal
XII secolo la città si dota di un sistema idraulico artificiale
composto da chiuse, canali e condutture sotterranee che
distribuivano l’acqua, utilizzata prevalentemente come fonte
di energia per le attività produttive.
Fonte: Acque nascoste a Bologna. Comune di Bologna.
7 Altro luogo degno di menzione è la Pizzeria D’Amore, prima
pizzeria a Bologna. Ora il locale è circa al N 20 di via San
Felice. Negli anni ’50 un signore napoletano corpulento si
mise a fare quelle strane pizze dove c’era la biglietteria del
cinema estivo della parrocchia.
Io non avevo mai sentito parlare di “Pizza”, la prima mi fu
comprata da mio padre da D’Amore. Mi fu data in un pezzo
di carta da giornale, era urente, da non potersi addentare, da
tutti i lati uscivano bave filacciose di mozzarella e la parte
sotto era
sporca di farina e fuliggine. Questa mia prima esperienza fu
totalmente negativa, poi col tempo modificai l’idea

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23. Attuale Pizzeria

22. Ingresso Cinema della Parrocchia.


8 Una battaglia al Bar Donini.
Quella sera nevicò abbondantemente, dopo il cinema ci si
ritrovò al Bar per due chiacchiere, prima di rincasare.
Improvvisamente, alcuni che avevano attraversato la strada e
raccolta della neve dalle macchine in sosta lanciarono alcune
palle che colpirono quelli rimasti davanti al Bar. Da quel
momento scoppiò una battaglia che doveva durare a lungo.
Roberto Salerno improvvisò una scenetta comica, si mise
allo scoperto, e quando veniva colpito, facendo il verso
dell’orso si girava su sé stesso, e se di nuovo colpito si
rigirava, mimando e facendo il verso di un tiro a seno
automatico elettromeccanico che era nelle sale giochi.
La battaglia finì quando da una finestra del primo piano
gettarono in strada il contenuto di un pitale.
Come in ogni Bar, anche al Bar Donini c’era il fanatico
dell’automobile, noi ne avevamo uno, Paolo Rubini. Aveva
una seicento rossa che pistolò totalmente, cambiando vari
pezzi della sua macchina con quelli di un’altra in
demolizione, ma preparata per le competizioni.
Quando arrivò al Bar non lo si vedeva nemmeno per come
stava sdraiato ed allungato sul sedile arretrato al massimo, si

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scorgeva a mala pena la testa. La leva del cambio era


diventata talmente corta che a mala pena la si poteva
impugnare, era diventata di legno, come il volante, più
piccolo di quello di serie, così si usava sulle auto da corsa.
Franco Notari, detto: “La Bionda”, non fece granché di
sportivo, ma riuscì a cappottare due volte la sua rossa 500
partendo dal Bar e voltando per via Riva Reno, che dista solo
10-12 metri.
La bionda, a parte queste bravate automobilistiche amava
accodarsi ai ben noti mossieri: Corrado Tossani, Alfiero
Bernardi, Gino Moscatelli, Piero Foresti, Giorgio Poli e, a
volte, Paolo Rubini e Sandro Gottardi, per andare a ballare il
sabato sera nelle più note balere di Bologna, tipo: Drago
Verde, Sporting, Sirenella, ecc. La “pastura “era eccellente,
cioè le ragazze che si incontravano erano di un livello medio
alto. ma quello che mancava era la finezza, del resto erano
donne che lavoravano, di estrazione medio bassa, sulla quale
si sorvolava, soprattutto se si arrivava al “macchero“, cioè se
si riusciva a…combinare. A me divertivano, comunque, i
racconti del giorno dopo. Il più esilarante fu appunto quello
della bionda. Immaginiamo la bionda che invita una
biondona assai procace, la sala nella penombra per una serie
di tre lenti...la ragazza che chiede: “Ma forse hai mangiato
carciofi stasera? La bionda, alquanto stranito, ci pensa un
poco poi risponde: “no, no, ma perché? “Non so ma mi
sembra di sentire un gambo qui sotto”
Una ragazza molto spontanea ma anche molto simpatica.
Nelle vicinanze, parallela, c’è via del Pratello, dove abitava
l’amico Alberto Ronchi con la moglie francese Marie.
L’appartamento era situato in una casa vecchia e fatiscente,
con molte scale ed una luce a tempo che scadeva sempre a
metà salita o discesa. Di fatto, una sera, sul tardi, Alberto
ricevette la visita di due propagandisti religiosi (testimoni di
Geova) che gli dissero di portare… “la luce”, che il loro

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credo era…”la luce”, e che questa” luce” avrebbe illuminato


il mondo di chi aveva bisogno di “luce”, e così via…
Quando Alberto li mise alla porta, i due religiosi
cominciarono a scendere le scale, e quando la luce si spense,
non trovando l’interruttore, cominciarono a chiedere a
squarciagola: “dateci la luce, presto”. La risposta di Alberto
fu: “Pensateci voi alla luce, che dite di portarne tanta”.
Altri caposaldi di riferimento della mia gioventù furono S.
Isaia N 90, l’ospedale dei Matti, il “Roncati”, lo ricordo
bene, perché dire a qualcuno che sragionava di “andare al
90” era una espressione usatissima, non volgare ed efficace,
per le minacce ai ragazzi si parlava del “Riformatorio” di via
del Pratello, dove venivano rinchiusi i “discoli”, cioè i
delinquenti minorili.
9 Cinema Italia e Cinema Saffi erano i due cinema di via San
Felice. In verità, abitando oltre la porta frequentavo anche il
cinema Marconi, dove vidi il mitico film di Elvis Presley con
“Jail Rock” “Il delinquente del rock and roll”, che piacque
anche a mia nonna che mi accompagnò.
Degli altri due, l’Italia era ok, ma il Saffi…no, perché il
cinema programmava due film; quindi, si poteva stare dentro
fino a quattro ore; quindi, era matematico che prima o poi si
venisse avvicinati da qualcuno che ti metteva una mano fra
le gambe.
Questo era noto a tutti, per cui il cinema era considerato off
limits.
10 A pochi metri dal cinema c’era il negozio di Carbonchi: la
CAM, che originariamente vendeva maglieria sportiva per
divise da calcio e ciclismo, e che, in seguito, divenne uno dei
primi negozi di “articoli sportivi” di Bologna. È chiaro che
se qualcuno del Bar avesse avuto bisogno di un indumento
sportivo, conoscendo Gianni, il figlio del Signor Carbonchi,
sarebbe andato alla CAM. Ma non era solo per quello,
Zacaria, uomo tuttofare del negozio, arrotondava lo stipendio
fornendo, dietro piccolo obolo, la visione di alcuni filmetti

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porno in 8 e super 8, portandosi dietro anche schermo e


proiettore personale.
Zacaria era molto timoroso e si raccomandava che il
pubblico fosse ridotto e fidato.
Maccio ed io decidemmo, dopo alcune rappresentazioni a
pubblico ridotto, di allargare la platea, per includere più
amici.
La serata fu di sabato sera, ci trovammo davanti al Bar
Donini, poi Zanarini, Pino, ecc. da 4-5 macchine arrivammo
ad una quindicina di automobili in corteo, il pubblico fu di
40 persone, fortunatamente Marco Ferrara mise a
disposizione la sua villa di campagna disabitata in inverno e
potemmo accomodarci tutti.
Durante il viaggio Maccio ed io temevamo un disastro
organizzativo, Zacaria non aveva mai visto tante persone,
avrebbe potuto rifiutarsi di procedere con la visione dei
filmati per paura di una denuncia, ma vista la quantità di
gente alzò il prezzo del forfait e tutto andò avanti. L’ultimo
problema fu la raccolta dei soldi, infatti ci sarebbe voluta una
biglietteria ed una cassa, ma anche se qualcuno fece la beata,
raccogliemmo la cifra, questa esperienza ci servì per i tornei.
La proiezione iniziò in un silenzio assoluto, ma uno Zacaria
emozionato da tanto pubblico esordì con un cartone di
Topolino per sbaglio: urla e fischi come allo Stadio, poi
finalmente arrivarono i porno. Le pellicole erano vecchie ed
il proiettore sfocato, tanto che qualcuno in sala sbottò: “ma
non si capisce cos’è questo groviglio di corpi” la risposta che
arrivò da dietro fu “non preoccuparti, queste sono le riprese
dall’interno”.
La serata risultò comunque divertente, qualcuno, malgrado la
pochezza dei filmini, si eccitò tanto da iniziare dei caroselli
sui viali in cerca di prostitute, altri, credo, quella sera,
dimostrarono che…non si resta ciechi, almeno per grande
maggioranza dei casi.

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11 Di fronte alla CAM c’era la chiesetta sconsacrata


dell’Abbadia di cui abbiamo parlato, tempio dei giovani
cestisti bolognesi: si andava, ci si cambiava, si giocava e ci si
divertiva. Qualcosa di simile si ripeterà a Gaibola con il
calcio, non c’erano distinzioni di sorta, né ceto, né fisico, né
di amicizia, si giocava e basta, erano ancora lontani i tempi
dei Virtussini e dei Fortitudini.
12 La trattoria “Danio”, frequentatissima dai soldati della
Mameli che vi si precipitavano in libera uscita, attratti dai
prezzi modici ed affamati dalla scarsa appetibilità del rancio
di caserma.
Dopo avere mangiato,
tutti al cinema Saffi, per
potere rendere la naia
accettabile, con un locale
pieno zeppo di soldati,
quasi tutti fumatori, con
grida ed assetto da
avanspettacolo, fischi e
applausi nelle scene
violente, per film western
o di avventura.
Quando terminavano gli
spettacoli, in quella
saletta, dagli ultimi posti,
a malapena, si
intravedeva lo schermo.
L’episodio che voglio
raccontare si svolse di
mattina e coinvolse il
Signor Cesari,
24.Trattoria ex Danio proprietario di Danio.
Si racconta che il proprietario della trattoria “Da Daino”, in
via del Pratello si sia presentato da Danio, asserendo che gli
era stato copiato il nome. Alle parole seguirono i fatti, e

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Cesari fu minacciato con un coltello di cucina, tanto che


qualcuno chiamò i carabinieri per calmare lo scalmanato
invasore dell’altra trattoria.
La disputa si risolse solo mostrando all’invasore che
l’insegna non era uguale alla sua.
Il fatto fu riportato anche dal Resto del Carlino. La trattoria
oggi si chiama “Da me” ed è gestita dalla nipote, che ne ha
fatto un ristorante tipico di cucina Bolognese.
Aggiungo un ricordo che non ha nulla a vedere col
ristorante. Il figlio di Danio, al secolo Sig. Cesari, si chiama
Paolo, ragazzo carinissimo, educato ma anche un po' strano.
Io lo conobbi perché era compagno di scuola di mio fratello
Stefano. Frequentava il bar Donini, un giorno qualcuno disse
che si era suicidato. Per fortuna non morì, ma ci aveva
provato. Dopo qualche tempo, si ripresentò al bar. Un cretino
non seppe trattenersi dal chiedergli: “Ciao, Paolo, ma non ti
eri suicidato?” “No, adesso sto bene”. Ed il cretino, rivolto ai
presenti: “Allora adesso mi restituirete le 5.000 Lire che vi
ho dato per la corona di fiori”.
Nel ’68 Paolo fu molto attivo nel movimento studentesco
dell’Università di Bologna, le ultime notizie me lo hanno
dato come direttore del Giornale “Lotta Continua”.
13 Dopo la trattoria aprì Ugo, una gelateria ottima, ma quasi
sempre chiusa.
Nel negozio attiguo
c’era una cartoleria
che teneva le foto di
centinaia di attori
appese a una parete
bene in vista. Io da
ragazzino ero molto
timido, tanto da non
avere coraggio di
entrare in un
25. Gelateria UGO negozio da solo. La

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foto che desideravo mi fece superare ogni ritrosia, ancora


stento a crederci, entrai, la indicai, pagai ed uscii contento.
Era la foto di Marisa Allasio in Bikini, che mostrava due
magnifiche tette. La cosa comica fu che, quando indicai
l’attrice, per giustificarmi, dissi che mi mancava proprio
quella per la mia
collezione di foto di
attori, al che il
cartolaio borbottò che
ero già il quinto a cui
mancava solo quella
stessa foto.
A questo punto
bisogna fare una
piccola chiosa su
questo super noto
argomento così
popolare fra i ragazzi
maschi nell’età della
pubertà. Ho
sottolineato maschi,
perché’ delle ragazze
non so niente, sono
molto riservate. 26. Foto Mancante alla Collezione
In campagna, Gaibola
in particolare, le seghe si facevano in batteria nel fienile tutti
insieme, più come una esercitazione ginnica che un bisogno
sessuale: era divertente. Le cose cambiavano quando,
d’inverno, ci si trovava chiusi in casa da soli e annoiati: la
masturbazione diventava un passatempo.
Questo passatempo veniva aiutato dallo sfogliare i
settimanali ose’ in circolazione dai giornalai che, diventati
spesso nostri complici, passavano dal venderci Topolino e
figurine al fornirci sottobanco libercoli di donne nude.

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A parte tutto questo, mi ricordo che quasi tutti noi amici,


avevamo una foto particolare di una attrice, ballerina, o
simile, che tenevamo gelosamente nascosta, per avere quei
rapporti sessuali immaginari nell’ intimità del bagno. Nel
mio caso, mi ricordo di aver ritagliato, sedicenne, una foto
Anita Ekberg che seducente era dir poco e tenevo nascosta,
non per usarla come incitamento sessuale, ma proprio come
fidanzatina particolare.
14 Al N 20, incontrando una specie di rampa nel portico, c’è
una vetrina dove si vedevano tre donne costantemente
piegate su un lavoro di cucito, due anziane ed una giovane.
Al loro lato, in
vetrina, era in
mostra un
rammendo su un
tessuto ricucito e
riparato da un
taglio, ed a lato
il taglio prima
del rammendo.
Quello riparato
era perfetto, un
riparo invisibile,
un lavoro
perfetto. Ogni
volta che
passavo mi
27. Il Negozio delle fermavo a
Rammendatrici. guardarlo: “ma
come fanno?
Impossibile”.
Giorni fa sono passato davanti al N 20 dopo circa 50 anni, le
due anziane non ci sono più, la giovane, a suo tempo è
diventata anziana a sua volta e rammenda come sempre.

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Anche la prova capolavoro è in vetrina, ho stentato a


crederci.
15 Poco oltre, proseguendo verso il centro c’era il negozio di
Süss l’ebreo. Non conosco il perché di questo nome, era un
libraio di libri usati, specializzato in libri gialli, i famosi
Mondadori. Non aveva vetrina, al suo posto una specie di
scalinatella dove Süss allineava tutti i libri che si potevano
scegliere comprando e pagando o dandone due e ricevendone
uno. In questo modo mi sono appassionato ai gialli. Süss ,
intanto, al tavolo, riparava i libri sfasciati senza sosta.
Adesso, al suo posto, c’è una libreria che è specializzata in
libri con autrici femminili, che tristezza.
16 La ninfomane al bar Donini.
Episodio deplorevole e vergognoso, degno di Codice penale,
fu quello della ninfomane da strada. L’ho chiamata così
perché’ la ragazza in questione era una che non si faceva
adescare, anzi proponeva di far sesso a qualsiasi persona
incontrasse, e “gratis”. Quella sera passò davanti al bar
Donini inscenando la solita recita e gli avventori presenti
non si fecero chiamare due volte: capitanati da un egiziano
non frequentatore abituale del bar, indussero la ragazza a
salire in macchina e la portarono nell’appartamento di questo
straniero, forse in via Toscana. Il resto si può immaginare: i
convenuti erano circa una dozzina, 6 o 7 si misero in fila per
un sesso orale che lei compì un po’ a fatica, poi l’egiziano si
chiuse in una stanza per la botta finale. Il resto della
combriccola rimase a filippare, come si usava dire a quei
tempi, cioè: guardo ma non tocco.
17 All’inizio di via San Felice c’è l’incrocio, fra i più trafficati
di Bologna per mezzi e pedoni. Per questo un benpensante
assessore pensò e mise in funzione un sottopassaggio per
pedoni, il quale forse doveva proseguire fino a piazza
maggiore, e forse, all’angolo degli imbecilli, sotto il
Pavaglione. A quel tempo ricordo che la novità fece
scalpore, poi i bolognesi fecero capire che preferivano

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camminare sotto i portici piuttosto che infognarsi in


sotterranei puzzolenti. Il risultato è che le entrate del
sottopasso sono sbarrate, piene di immondizia, cartacce,
cicche, erbacce e rifiuti organici.
18 Ultimo luogo frequentato come spettatore, non come attore,
era l’Accademia Bigliardi di inizio via Lame, cui si entrava
anche da via San Felice.

28. Salone Bigliardi. Una vista di sala


Questa sala grandissima, sotterranea, conteneva almeno
trenta bigliardi, quasi tutti nati per giocare a boccette ed a
goriziana, due carambole e quattro bigliardi per gioco a
stecca.
A questo gioco eccellevano due miei conoscenti: l’amico
Bedogni ed il mio compagno di classe Bellanca.
Io, sinceramente,
preferivo
fermarmi a
guardare le sfide
dei tavoli centrali,
dove giocavano i
veri campioni,

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29. Scena della Banda Casaroli


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contornati da superesperti. Loro asserivano che: “Se, al


mumant Bertino l’è al miaur, però si dida (sei dita) al
sbucieva ch’lera onna meraveia”.
Queste stesse scenette le vidi nel film “La banda Casaroli”,
filmate, appunto, nella stessa sala.
Ultima nota: all’entrata, in cima alle scale, i proprietari
avevano installato due slot machine speciali, cioè si giocava
con le monete da 500 lire e, chi vinceva, incassava, mi fu
detto, un milione. Io non ho mai provato, perché ero sempre
“al brevo”, cioè non possedevo una lira… i miei mi tenevano
a stecchetto. Stefano Bonaga invece mi raccontò di avere
giocato una volta a lungo con alti e bassi, poi, persa l’ultima
moneta, aveva lasciato il campo, a questo punto arrivò Toio
che fece jackpot e incassò la cifra che avrebbe vinto se
avesse avuto un’altra moneta. Sarà stato vero? (Commento
di chi scrive: alla sala bigliardi non entrarono mai slot
machines di questo tipo, queste macchine c’erano a meno di
cinquanta metri di distanza, ad un circolo privato Virtus,
gestito dal fratello di Toio Pepoli, Umberto, dove il
presidente era Porelli ed il gioco d’azzardo era uso comune,
ma non esistevano bigliardi).
Il Portichetto.
Il ristorante “Portichetto” non esiste più, ma, allora, situato in via dei
colli, a pochi metri da via Pozzetti e via Gaibola, era molto in auge.
Molti di noi, dopo avere giocato nel campetto della chiesa tutto il
pomeriggio si fermavano lì a mangiare od a bere un aperitivo.
Al campetto si giocava in sei o
sette, a volte anche in otto,
quando si fosse in tanti. Certo
quelli che iniziavano alle due
del pomeriggio non erano gli
stessi che smettevano al
tramonto, ma il tempo non era
diviso per partite e squadre,
quando uno era stanco dava il

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30.Personale del Portichetto.


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cambio ad un Al Portichetto ben presto facemmo amicizia con Rossi,


il proprietario, e i simpatici camerieri, era un ristorante

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decente e con prezzi abbordabili, con una vista invidiabile dei colli,
vicino al centro, quindi facile da raggiungere, ed uno dei pochi
ristoranti in collina dove, d’estate, si poteva mangiare di sera e
godere di una discreta frescura.
Nella foto a
lato
possiamo
notare
Beppe
Savoldi con
Ezio
Pascutti e
Pesaola,
allenatore
del
Bologna.
Per questi
buoni
motivi il
Portichetto divenne ben presto meta dei giocatori di calcio del
Bologna, quindi, potere cenare con gli idoli di tanti tifosi diede un
lancio più che notevole al locale. Non era infatti improbabile vedere
e, magari, farsi fare un autografo, da: Pascutti, Bulgarelli, Pesaola,
Savoldi e Conti, Presidente del Bologna. Supereroi sopravvissuti ad
un inesorabile declino della squadra.
Rossi, il proprietario ed i suoi camerieri
vanno ricordati: Livio, Ivo, Cesarino,
Pippo ed i Gemelli con la Contessa.
Anche la moglie di Rossi, che non era
malaccio va ricordata, anche se si era
dedicata troppo ad uno dei gemelli.
Non abbiamo differenziato le foto in
quanto danno una idea dell’ambiente
prese nel loro insieme. Facciamo notare

31.32.33.34. Varie Foto del


Portichetto. 87
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che Benvenuti diventò campione del mondo battendo Griffith al


Madison
Square Garden nel 1967. In quegli anni il Bologna cambiò vari
allenatori. Ricordiamo, dopo la partenza di Bernardini, Scopigno,
Carniglia, Cervellati, Fabbri e Pesaola in un arco di dieci anni.
Ricordo anche che il prezzo a cui il Presidente Conti vendette
Savoldi ebbe risonanza mondiale (due miliardi di Lire).
Gelateria Oliviero.
Questa gelateria per noi era importante perché situata in una
posizione strategica: sui viali, alla porta Saragozza, all’angolo con
via Saragozza, di notte, in estate, restava aperta fino a tarda ora;
pertanto, era diventata un punto di incontro per quelli, come noi, che
erano stati al cinema od alla Salus, quando c’era il torneo serale dei
Bar o qualche partita serale.
Oliviero, il gestore, era un gran filone e ci teneva ad accontentarci sui
gelati per attirare con la nostra presenza il pubblico dei giovani.
A questo riguardo mi ricordo che inventò il gelato “Pornografico”,
(Cioccolato, panna e succo d’amarena) di cui andava molto fiero.
L’impietoso Angelo Zani però lo definì “Stranz e rufianaz”.
A parte queste facezie, da Oliviero riuscimmo a racimolare un paio
di squadre per i tornei.
Io oggi voglio dire qualcosa di più su questa baracchina storica,
perché Oliviero è stato un personaggio di quella Bologna che ha
allietato la nostra gioventù.
La sua baracchina, oltre che permettere facilità di parcheggio, era
situata in una posizione centrale a tante altre cose comuni alla mia
vita di quegli anni: Il liceo Righi, il Bar Margherita, i giardini di
Porta Saragozza, le facoltà di Ingegneria e Chimica industriale, la
strada per la via di Casaglia o la camminata a piedi per S.Luca.
Oliviero oltre ad essere un grande lavoratore era persona impegnata
socialmente, in quanto presidente della associazione lattai, alla cui
categoria erano accorpati i gelatai.
Con queste sue capacità politiche e diplomatiche di dialogo (quello
che Zani sintetizzò vedendone solo il lato più ingrato) riuscì ad
ottenere in affitto dal Comune, per farne il suo laboratorio, una metà

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dell’edificio della Porta. L’altra metà era un Circolo Del PCI-PSI,


che dopo alcuni anni fu espropriato per essere dedicato all’ARCI
GAY di Bologna, con immense polemiche che durarono alcuni anni.
Approfittando del laboratorio e magazzino Oliviero si esibì in pochi
anni con una gamma di gusti che nessuno allora seppe superare,
almeno in numero. Alla domanda: “Cosa puoi darmi stasera
Oliviero?” snocciolava un rosario di almeno 32 gusti, uno per dente
del cliente con una cantilena entusiasmante, alternando gusti
standard ordinari, quali crema, nocciola e stracciatella a gusti esotici
e nuovi quali: “Rum Pasa, fatto con Uva Zibibbo di Pantelleria,
Pistacchio di Bronte, Fichi caramellati, Mellone bianco Spagnolo”.
Ricordo in quegli anni, all’inizio della primavera, quando si
attendeva che iniziasse la grande stagione estiva di Riccione, si
andava a mangiare il gelato con Beppe Brilli. Lui per primo si
faceva ripetere tutti i gusti, poi, uno alla volta, arrivavamo noi
scaglionati ed ognuno di noi gli chiedeva che gusti avesse. Oliviero,
con la sua voce scandiva la lista a tutti, con un tono calmo e lento,
senza impappinarsi, come fosse la litania di un rito liturgico,
parlando al plurale, con Beppe che la riascoltava in silenzio assoluto,
sforzandosi di non scoppiare a ridere. ed alla fine, prendeva un
gelatino piccolo, di crema, ammaliato dalla performance.
Credo Oliviero avesse capito perfettamente lo scherzo, ma con
infinita pazienza, dritto e rigido come Christopher Lee, e con gli
occhi fiammeggianti, continuava a scandire le sue agghiaccianti
sciarade:
“Abbiamo tutti i gusti tradizionali, quali:
Crema, Cioccolato, Nocciola, Bacio, Stracciatella, Caffè, Fiocco di
neve, Rum Pasa, fatto con uva zibibbo, essiccata al sole, Gelato di
Pistacchio di Bronte, abbiamo tutti i tipi di frutta: Limone, Arancio,
Fragole, Ribes, Pesca, Mellone bianco spagnolo, Mirtillo e Frutti di
bosco, abbiamo un Torrone fatto con le mandorle, cedri ed aranci di
Sicilia canditi, oltre a questi abbiamo ogni altro tipo di frutta,
Mango, Banana, Prugna, Fichi caramellati…”
Verso le ore tarde del pomeriggio si cominciava a popolare la
pizzeria d’angolo, dentro Porta, con la via Saragozza ed

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iniziavano a pulire l’ingresso del Cinema all’aperto a lato, gli


avventori del Bar Margherita spesso venivano a sedersi alla
baracchina, io ne ricordo tre in particolare, Tobia, Raul Casali e
Roberto Calzolari. Per loro Oliviero era un passaggio, perché dopo
l’orario dei cinema li si incontrava da Cesari, in via Carbonesi, a
volte fino a notte inoltrata.
Come eravamo.
Cominciamo col modo di vestirci: l’innovazione più evidente di
quegli anni, secondo me, fu l’abbandono del colore imperante degli
abiti, che era il grigio, per scegliere colori più vivaci, come rosso,
verde, blu, senza disdegnare il rosa. Più che evidente che a questo
cambiamento di gusti abbia influito il modo di vestirsi dei ragazzi
americani che potevamo vedere su alcune riviste di moda giunte
dagli U.S.A., ma soprattutto, dalla “piazzola”, non quella che
vendeva il nuovo, ma quella dell’usato, detta anche “American
Stracci”, dove ci si recava il venerdì, come ora, per scegliere i pezzi
usati, meno rovinati e di misura, prima degli altri. C’era anche chi
prendeva il treno ed andava a Livorno, dove arrivavano le balle
ancora chiuse di indumenti usati direttamente dagli U.S.A. e si
potevano scegliere le primizie.
Chi, poi, ancora più fortunato, si poteva permettere un viaggio a New
York, andava a svaligiare “Il Triestino”, negozio sulla riva
dell’Hudson.
Dall’America, e quindi da Livorno, arrivò e soppiantò totalmente le
nostre abitudini un capo, apparentemente insignificante e nascosto,
come la canottiera, arrivarono le magliette girocollo di cotone bianco
in confezione da tre pezzi della Fruits of the Loom, che erano anche
di ottimo cotone ed a buon prezzo.
Naturalmente dietro ogni moda esisteva un traente emotivo che a
quei tempi era rappresentato dai divi incontrastati della gioventù:
Marlon Brando di “Il Selvaggio” e James Dean di “Gioventù
Bruciata” e di “Il Gigante”.
I pantaloni erano i più ricercati: di tela chiara, con risvolto, senza
pence, e, soprattutto, con una fibbietta di metallo sul retro, sotto la
cintura, che non sembrava avere alcuna funzione, solo teneva

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aderente la parte frontale al corpo e rendeva piatto il ventre, oltre ad


essere decorativo.
Arrivarono anche le prime camicie “button down”, a maniche
lunghe, e delle camicie coloratissime a maniche corte, con disegni
floreali o con bellissime scritte pubblicitarie, spesso incomprensibili,
per promozioni del loro mercato, che allora era regionale locale.
I pullover erano bellissimi, spesso fallati o tarmati, di Lambswool,
con scollo a vu e con colori molto sgargianti.
Tutti noi, quando andò di moda il girocollo, a scuola, giravamo il
davanti sul retro e, coprendolo con la giacca il gioco era fatto. Con la
moda del girocollo, poi arrivarono le magliette di cotone pesante a
manica lunga dei Marines del mercato di Livorno, che invasero tutta
Bologna ed omologarono tutta una generazione con un capo
durevole, di moda e comodo. Il grande distributore di queste
magliette, che avevano tre colori: blu, bordeaux e verde, fu un nostro
coetaneo, Carlo Beolchini, che acchiappò al volo l’onda della nuova
moda e, lasciando gli studi, guidato da un fiuto commerciale senza
eguali in pochi anni centrò tanti obbiettivi commerciali. Ebbe un
epilogo sfortunato, a causa di un incidente d’auto, che pose fine alla
sua carriera sfolgorante.
Io me lo ricordo ancora, davanti a PINO, con un taccuino in mano,
scrivere gli ordini per le maglie da portare da Livorno. Era
sufficiente che si fermasse fuori da una scuola perché si formasse il
capannello per passargli le ordinazioni.
Un aneddoto significativo: Corrado Tossani fu praticamente il primo
a comprare e indossare due pullover con colori sgargianti: rosso e
giallo (o forse rosa). Così vestito osò andare su e giù per via San
Felice, provocando inevitabilmente i commenti dei soliti
benpensanti, sempre pronti a pensar male. La madre di Corrado
incontrò pochi giorni dopo un’amica al negozio di frutta e questa non
esitò a chiedere: “So fiol, an sarà megga un busan?”
Una volta lasciata la piazzola per gli indumenti ci si occupa delle
scarpe, che dovevano essere rigorosamente mocassini della Saxone,
neri o burgundy, in vendita da Mantellassi in via Indipendenza. Guai
a chi avesse indossato i mocassini neri Lotus, in vendita da Schostal,

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in via Rizzoli, dove invece era d’obbligo comprare le cravatte inglesi


Regimental o di seta a fiorellini su fondo rosso marca Vivax. Col
tempo arrivarono anche i mocassini americani, sia per uomo che per
donna, chiamati College, con la monetina da un cent inserita nella
finestra della tomaia. Col tempo anche i calzettini divennero
importanti: sempre chiari, meglio bianchi, tipo tennis, o monocolore
di finta lana sintetica. In piena estate senza calze ai piedi.
Un negozio di grande moda fu “Camisa”, frequentatissimo dai
giovanissimi. Mantellassi, insieme alla “Casa dello Sport” di via Ugo
Bassi, prima di muoversi sotto la “Galleria” divennero anche
venditori delle “desert boots” Clark, scarpa che si cominciò ad usare
in inverno, ma poi, siccome scamosciate, si portavano tutto l’anno.
Non conosco nessuno che nella sua vita non abbia indossato un paio
di Clarks o quanto meno delle imitazioni.
Il cappello poteva essere di qualsiasi foggia, non lo portava nessuno.
Alcuni accessori cominciarono a diventare importanti, come gli
occhiali da sole, cominciarono a girare i primi Ray Ban a goccia,
usati dai piloti americani nei film, ma erano troppo cari per ragazzi
della nostra età.
Col permesso dei genitori, per il basso prezzo del nuovo
abbigliamento, presto, vestirsi così, diventò una divisa, ma anche una
moda ed una avanguardia innovativa, importantissima.
Voglio fare notare che le donne (mia madre con mio padre, Anna
Canetoli con Beppe Galassi e quasi tutte le altre) salivano sullo
scooter alla cavallerizza, come Audrey Hepburn nel film “Vacanze
Romane”, non perché amanti del pericolo evidente, ma perché
ancora erano poche quelle che portavano i pantaloni, e pertanto non
salivano a cavallo. Questa usanza fu soppiantata dalla nuova moda,
non viceversa. Il cambiamento era avvenuto anche per il genere
femminile. Adesso dobbiamo tornare al tema principale, il torneo.
I TORNEI DI GAIBOLA
Il primo torneo, Maccio ed io lo organizzammo alla Salus. Si giocava
il pomeriggio, era primavera e pioveva spesso. La nostra squadra si
chiamava “I Rimondini”, nome preso in prestito da un trio di virtuosi

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della fisarmonica romagnoli che si esibiva in un avanspettacolo


cittadino.

35.Foto Mista del Primo Torneo alla Salus.


La formazione base è quella della foto, ma con lo svolgersi del
torneo altri si unirono ai “Favolosi Rimondini”.
Il primo problema fu quello del portiere: non si trovava un amico o
conoscente che giocasse con noi, quando un giorno, all’università,
incontrammo Giampi Ludergnani, il mitico gatto di piombo che
aveva giocato al San Luigi con Bubi Scimeca in una squadra del
ginnasio. Quando gli proponemmo di giocare per noi, ci disse che gli
spiaceva, ma dopo avere ricevuto un calcio alla mano che gli aveva
rotto tutte le dita, tanto da non riuscire a togliersi il guanto, aveva
giurato di non presentarsi mai più fra i pali di una porta di calcio. Noi
facemmo orecchie da mercante e lo ringraziammo per avere accettato
la nostra proposta. Lui tentò di negarsi ancora qualche volta, con
rifiuti sempre più impercettibili, capimmo pertanto quanto, sotto
sotto, desiderasse mostrare il suo valore indiscusso accettando, ed

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oggi lo si può vedere sorridente nella foto dei Rimondini prima della
partita contro i giovani di PINO che vincemmo 3 – 2.

36.Rimondini Ufficiale, con Ludergnani e Checco Coniglio


Nella seconda partita si unì alla squadra Gigi Nanni, detto “Pedulz”
per la sua agile falcata che esibiva quando correva. Lui, per giocare
con noi usava un complicato stratagemma, perché la sua ragazza,
Daniela Bigi, gli proibiva di uscire, se non con lei. Gigi, dicendo una
bugia, nascondeva scarpette e divisa e veniva a giocare.
Durante una partita, sfortunatamente, prese un sonoro calcio ad una
gamba che lo stese a terra piangente, tanto che pensai di doverlo
portare all’ospedale Rizzoli, col rischio di doverlo ingessare o di
restare immobile qualche giorno. Quando, infine, si rialzò e
ricominciò a camminare, gli chiesi come mai continuasse a piangere,
visto che non era poi stato un urto così grave. La risposta fu che
piangeva per paura dell’ira di Daniela quando avesse scoperto
l’inganno.

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Anche i Rimondini usarono un ballottino per potere accedere alla


finale del torneo.
Le due squadre migliori erano i “White Eagles” ed i “Rossi”, che
avevano in porta Sandro Toni, detto “Il minatore”, per la tuta sporca
di terra che aveva indosso e Carlo Pelagalli, speleologo per passione
che, durante il torneo, morì, assieme ad un compagno, dopo avere
portato in salvo uno speleologo rimasto immobilizzato nella grotta
della Spipola. Entrambi sono stati insigniti di medaglia d’oro al
valore civile e la grotta oggi porta il suo nome.
I Rossi, per giocare la finale con i White Eagles, dovevano battere i
“Favolosi Rimondini”.
Il giorno dell’incontro pioveva a dirotto ed il campo in terra della
Salus era assolutamente impraticabile. Nessuno dei Rossi venne al
campo, ma Maccio ed io sì. Questo bastò per dichiararli perdenti a
tavolino per due a zero.

37. La squadra dei White Eagles.


Arrivammo al giorno della finale: “Rimondini versus White Eagles”.

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Giampi, il nostro portiere non si presentò, per paura dei calci di


Giovanni Baldini, veramente spaventosi. Noi, per alimentare
l’atmosfera di beffa montammo sulle gradinate due striscioni con la
scritta “RIMONDINI ONESTI E LEALI” (C’è chi dopo oltre
cinquanta anni li ricorda ancora). La tensione continuò ad aumentare,
ma alla fine del primo tempo eravamo ancora sul pari.
Noi potevamo al massimo perdere onorevolmente, e così facemmo.
White Eagles 10, Rimondini 7.
Ludergnani telefonò per conoscere il risultato finale, e quando gli
dissero 10 a 7 lui capì 17 a 0, come forse sarebbe stato più logico.
Quell’anno escogitammo una invenzione. Ponemmo a bordo campo
“La Bionda” seduto ad un tavolino con un megafono, col quale
faceva annunci pubblicitari, come allo Stadio. Alcune ditte misero in
palio loro prodotti.
Nicoletti un impermeabile tascabile in plastica, con cintura e
cappello, ma tanti altri accettarono con piccoli omaggi e pubblicità. Il
primo anno alla Salus terminò così.
Terminato il primo anno alla Salus, decidemmo di trasferirci a
Gaibola per l’anno seguente, ed il lavoro si fece molto interessante.
Per prima cosa bisognava risolvere il problema della buca. La palla,
infatti, ci finiva ogni due minuti e l’ultimo a calciarla doveva
scendere nella grotta a recuperarla, con immancabile disputa su chi la
avesse toccata per ultimo e così via. Anche il vecchio pino dava
molto fastidio in mezzo al campo. La soluzione fu drastica, ma presa
all’unanimità.
Il padre di Bedogni, al secolo “Bedo” eseguiva dei lavori con una
grossa ruspa nel giardino di una casa gaibolese, aspettammo il week
end e Bedo, che sapeva manovrare il Bulldozer, spianò il terreno e
chiuse la buca, dopo essersi assicurato che nessuno speleologo fosse
sceso in giornata. In pochi minuti abbatté l’albero, intruso spontaneo,
che facemmo prontamente sparire.
Ecco fatto il campo di gioco: un po'’ rischioso, ma fatto.
Il pericolo c’era, infatti, il 22 maggio del ’69, sul Resto del Carlino,
cronaca di Bologna, apparve, a tutta pagina, un articolo che
denunciava

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38. Articolo del Resto del Carlino.


la chiusura della grotta in barba a qualsiasi regola, senza chiedere
permessi, per fare giocare quattro teppistelli senza scrupoli.
Tutto ciò era anche vero, ma la cosa rimetteva in evidenza la
mancanza totale di strutture sportive per i giovani. Che poi fossimo
quattro gatti era sbagliato, alla finale del primo torneo, infatti,
contammo 110 automobili parcheggiate di spettatori che erano venuti
a vederci.
Superato questo ostacolo, che rischiò di sbarrare ogni iniziativa, ci
trovammo di fronte a problemi finanziari. Piccoli, ma per le nostre
tasche insormontabili. Occorrevano fondi per portare a termine il
progetto tanto desiderato. Maccio ed io facemmo due conti e
decidemmo di tassarci insieme a tutti gli amici, facoltosi o meno, e

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per non più di 10.000 lire a testa, per racimolare la finanza


necessaria. Qualcuno, sempre polemico, andava dicendo che
facevamo la questua per tenerci i soldi, ma alla fine dovettero
ricredersi. Tra questi ricordo i fratelli Bonaga.
La prima necessità del campetto, allora 48 x 25 metri, erano le porte,
che volevamo di metallo. Le dimensioni le inventammo noi, furono
poco più di cinque metri di larghezza per poco più di due metri e
venti di altezza. Ci sembrarono allora molto appropriate e adatte al
nostro campetto. Per i tubi di metallo ci aiutò Angelo Zani, che
commerciava in tubi di acciaio. Una volta prese le misure li
andammo a prendere con un carrello per bici e li portammo dal
saldatore che li tagliò e squadrò per farli diventare due porte.
Dopo poco tempo erano pronte e potemmo portarle a Gaibola per
verniciarle ed installarle.
Non ricordo chi sia stato, ma, da furbo, salì sulla scala per verniciare
la traversa appoggiandola dalla parte sbagliata e cadde con scala
pennelli, vernice, sostegni ed astuzie da principiante.
Ora mancava solo un tappeto verde per fare del nostro campo un
gioiellino. Il padre di un amico che commerciava in granaglie ci fece
avere un saccone di sementi che sarebbe bastato per un campo
regolare, quattro volte il nostro. Fresammo il campo, lo
rastrellammo, lo seminammo ed ogni giorno andavamo a spiare se
l’erba stesse crescendo, come si osserva un magico prodigio. L’erba
spuntò e venne anche il momento di spianarlo. Decidemmo la data e
formammo due squadre, prevalentemente gaibolesi, perché il campo
cominciava già ad essere di tutti noi, un dominio privato nostro, un
nostro posto delle fragole. Sul cancello di ingresso scrivemmo:
Campo “Angiolino Pilati”, lo facemmo benedire dal nostro parroco,
Don Enea, e da quel giorno, senza dircelo, fummo tutti più
soddisfatti di noi stessi.
Il primo incontro non fu un granché, ma la festa fu grande, era nato il
campo di casa dei “Gaibolas”. Certamente era di casa perché quando
fu adottato immediatamente anche dai nostri familiari, e quando
giocavamo, spesso, venivano a fare il tifo per la nostra squadra, a
volte esagerando.

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39.Una famiglia assiste seduta sulla soglia della chiesetta.


Ricordo un giorno, durante un incontro, Pietro Savini subì un
calcione ad una gamba, pesante, ma in azione di gioco, da parte di
Mitia. Da dietro la rete di protezione l’augusto genitore,
irreprensibile nei comportamenti giornalieri, direttore di una
succursale della Banca d’Italia, raccattò un sasso e lo tirò verso
Mitia, che al percepire quel gesto, ricevuto da parte di una persona al
di sopra di ogni sospetto, restò semiparalizzato come gran parte del
pubblico.
Un altro episodio, tra me e Maccio avvenne prima di una finale di
uno dei Tornei. Nacque fra noi un diverbio sull’opportunità di fare
giocare la partita o di posticiparla, per un motivo che non ricordo.
Maccio, indispettito, mi lasciò effettuare la finale, ma scomparve,
lasciandomi da solo a risolvere tutti i problemi e disse che non
sarebbe neppure venuto a vederla.
Fui fortunato e tutto filò liscio. Dopo la finale mi riconciliai con
Maccio, come nulla fosse accaduto.

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Dopo venti anni, Maccio mi rivelò di avere visto la finale, non da


bordo campo, da spettatore, ma infrattato tra gli alberi del bosco di
fronte, dopo avere seguito un percorso tra i rovi, per non darmi la
soddisfazione di averla vinta per una stupida diatriba di cui non
ricordavamo più l’origine.
Tanti mi hanno chiesto come mai nella famosa foto della formazione
dei “Gaibolas” indossiamo tutti gonne da donna. Le mettemmo per
deridere gli avversari, i “PINO”, che avevano dichiarato che ci
avrebbero battuto come fossimo “donnicciole”.

40.La Foto della Squadra vestita da “Donnicciole”.


Non so se entrare in campo con le gonne abbia sollevato uno spirito
vittorioso, il risultato a favore nostro fu 3 – 2 con un meraviglioso
gol mio indimenticabile che lasciò il portiere Ghiselli muto ed
impietrito.

GLI ARBITRI

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Una parola doverosa bisogna spenderla per gli arbitri: Maccio


contattò Paolo Tubertini, Masotti e Cesari, che acconsentirono tutti,
di buon grado, ad arbitrarci il torneo.
Un problema nacque subito. Masotti, alla prima partita si presentò a
Gaibola in perfetta divisa da arbitro, giacchetta nera, pantaloncini
neri, calzettoni neri ecc… Forse voleva dimostrare la sua
professionalità…sta di fatto che dopo dieci minuti aveva espulso due
giocatori e ammonito altri tre.
Proseguendo così l’incontro sarebbe finito due contro due, con
polemiche feroci e torneo rovinato.
Il torneo ironicamente chiamato “Dell’amicizia” sarebbe morto lì.
Io e Maccio parlammo con Masotti fermando provvidenzialmente la
partita, per spiegargli la situazione Gaibolese. Lui non volle ascoltare
storie e disse che se non ci andava il suo comportamento se ne
sarebbe andato via e basta.
Risultato: Masotti prese i suoi stracci neri e sparì. Cosa fare? Tra il
pubblico c’era Tobia, che prese il fischietto e arbitrò il resto della
partita, devo dire magistralmente, avendo capito dove e chi fossimo,
includendo qualche “scarpata” tra le regole del gioco.
Certamente la saggezza, ragionevolezza, autorità e disponibilità di
Tobia salvarono il torneo; infatti, arbitrò tutte le partite seguenti
senza problemi. Il mio commento fu: “Bravissimo”.
Cesari e Tubertini arbitrarono due finali con la consueta eleganza.
Solo Tubertini rischiò grosso arbitrando una partita dei White
Eagles.
Occorre dire che arbitri e giocatori si conoscevano molto bene,
eravamo tutti amici.
Giovanni Baldini, punta dei White Eagles continuava ad
imperversare con il suo gioco scorretto nell’aria avversaria e
Tubertini ometteva di fischiargli contro per amicizia. Ad un certo
punto, per un fallo inesistente Tubertini fischia un fallo a Giovanni.
Per normale reazione Giovanni lo manda a cagare, l’arbitro, per tutta
risposta gli rifila un bonario calcio nel sedere. Francone Neri,
difensore dei White Eagles vede la scena da lontano, la malinterpreta
e piomba, con la sua mole sul povero Tubertini con l’intento di

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strozzarlo. Fortunatamente si chiarirono e tutto sfumò in un nulla.


Questa era la atmosfera incendiaria dei tornei.
IL PUBBLICO
Il pubblico era sempre tanto, come le foto di allora mostrano. Alla
prima finale 110 auto parcheggiate in via Gaibola, tutta via dei
Pozzetti ed anche in via dei Colli.

41. Una Foto del Pubblico Durante Una Partita.


La caratteristica di quel pubblico non fu la quantità, ma l’età ed il
genere. Pochi spettatori superavano i 25 anni ed almeno un quarto
erano ragazze. Arrivavano con amici, in gruppo od anche da sole,
con “College” o con “Califfoni” Piaggio. Le partite iniziavano alle
14 e, in un paio di ore, tornavano a casa a studiare dopo una
passeggiata sui colli, anziché in un centro pieno di smog.
I nostri colli, all’inizio della primavera erano di un verde
lussureggiante, per fare risaltare un cielo azzurro e splendente, il sole
scaldava senza bruciare e l’aria era pura, pulita da rovesci frequenti,
ma brevissimi, l’atmosfera era elettrica e la piccola Mab viveva poco

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lontano dal campetto, tante ragazze venivano a curiosare, anche se


quello non era solo calcio.

42. Non solo Calcio.


Qualche nome: Rita Masini, Cristina Lambertini, Daniela Seragnoli,
Silvia Evangelisti, Sorelle Lampronti, La Martine, ecc…
Le offese del pubblico ai giocatori non mancavano neppure a
Gaibola, ma in genere, dato l’ambiente non si sentivano tremende
volgarità, bensì frasi molto colorite.
Zanfrognini gridava ad Enrico Frasnedi, sopranominato “Lo bue”,
credendo di offenderlo, “Lo Bue, Lo Bue”. A Zanfrognini, che lo
aveva ripetutamente colpito con le sue pedule marron, Beppe
Rossodivita intimò di smetterla, con il dito indice vicino alla faccia.
Carlo, invece di chiedergli scusa, incredibilmente, gli diede un morso
al dito da staccargli una falange. Incredibile ma non impossibile.

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48.Grandissima presenza Giovanile Cittadina.


Una delle battute più belle che ricordo fu detta, a proposito di un gol
contestato a “Manina” Rovinetti. Gli avversari sostenevano avesse
toccato la palla con la protesi, Giorgio diceva di avere una protesi di
legno, non la mano, a quel punto uno dei contendenti, forse “Lo
Bue” disse: “Se è legno ha fatto palo, quindi il gol deve essere
annullato”. Così fu.
Un altro piccolo aneddoto più amaro e crudele in cui fu coinvolto
l’amico Rovinetti fu il seguente.
Durante una partita con fondo molto fangoso Giorgio si trovò in area
avversaria solo ed avrebbe potuto segnare facilmente, ma scivolò e
perse la protesi nel fango. Si rialzò prontamente e cercò di recuperare
il “Manino”. Così facendo perse l’attimo per tirare e non segnò.
“Ma che cazzo cercavi in terra, dovevi segnare, invece, deficiente”.
Giorgio Tedeschi, appesantito dall’età, non vuole appendere le
scarpette al chiodo e si procura grosse ginocchiere per giocare
almeno in porta coi suoi amici: I Sodomiti. Verso la fine di una
partita
punizione contro, Giorgio impiega dieci minuti a sistemare la
barriera ed i suoi difensori. Un avversario tira. Il pallone viene parato
da Giorgio, ma un metro abbondante dentro la linea di porta. Giorgio
non ammette l’evidenza e sostiene di averla parata. Col benestare dei

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suoi compagni il goal viene convalidato e Giorgio, sentendosi solo


contro tutti si sfoga urlando “Arbitro faaascistaaa!
QUALCOSA DI RINO
Daniele, con i suoi racconti, semplici ma incisivi, ha riacceso tanti
ricordi assopiti e tante curiosità evocate da coincidenze di allora.
Quel tempo, ora, è diventato presente, per una magia che la memoria
sa creare quando si ricordano i momenti felici.
Ho scoperto che le aree del nostro mondo infantile erano contigue e
sovrapposte in parte, la linea di sovrapposizione era la via San
Felice, sulla quale io mi muovevo dall’inizio fino alla Fortitudo ed
alla mia Parrocchia, che era Santa Maria della Carità. Ricordo il
canale scoperto, la Manifattura Tabacchi quando ancora vi si
lavorava, fino al 1952, e l’area di piazza Azzarita, dove fu costruito il
Palazzo dello Sport. Io in Sala Borsa andavo regolarmente a vedere
la Virtus, vincemmo molti campionati. Quando passammo al palazzo
dello Sport restammo a bocca asciutta parecchi anni.
Venni ad abitare nel primo palazzo costruito in via Marconi, angolo
via san Felice, nel 1953 e ricordo bene tutta l’area. Dal terrazzo di
casa mia, allora, si vedeva la due torre degli Asinelli, il palazzo del
Gas ed una miriade di casupole basse tutto intorno, molte malmesse,
che ad una ad una furono abbattute e vi sorsero palazzi più alti del
mio. Dal cortile interno lo sguardo spaziava a perdita d’occhio, a sera
si sentiva il fischio dei treni.
La zona di via Lame, Riva Reno e Piazza Azzarita era piena di
macerie, dove spesso andavamo a giocare. Erano giochi di avventura,
non c’erano aree dove fosse possibile giocare a football, per fare
quello c’era il cortile della parrocchia o il parco pubblico.
Dalle macerie ognuno di noi portava via qualcosa, spesso un
mattone, per modellare, a casa, lo “zaccagno”. Questo gioco deve
essere vecchio di millenni, tutti i bambini di strada lo conoscevano e
lo praticavano, quasi tutti, fino alla metà degli anni ’50 avevano in
casa l’attrezzo e spesso si allenavano nel lancio. Si giocava a “soldi”.
Una, due e cinque lire in moneta. Ogni giocatore metteva la “Posta”,
poi si faceva la gara per chi tirava per primo.

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I soldi della posta si mettevano su un mattone in piedi. Da dieci passi


ogni giocatore iniziava a tirare il suo mattone contro quello in piedi.
Quando il mattone con le poste si fosse rovesciato ognuno aveva
diritto di prendere le monete più vicine al suo mattone. Se non si
fosse rovesciato, il più vicino al mattone in piedi avrebbe vinto tutte
le poste. Ogni giocatore giocava per sé, ma a seconda dell’ordine di
tiro si potevano formare accordi di scuderia. Un mattone sagomato
con bordi rialzati e circolari era più facile da lanciare e permetteva
comode misurazioni sulle distanze. Se non con monete si giocava
con figurine.
Altro gioco di grande moda tra quelle rovine era la guerra con le
cerbottane. Molte volte, semplicemente, giocavamo a demolire
ulteriormente le macerie o a rincorrerci.
Quando avevamo un pallone andavamo ai giardini, od in Piazza San
Francesco. I maschi giocavano a pallone, e le femmine alla Luna od
alle cinque pietre. Difficilmente si giocava insieme, ma a volte,
grazie all’intervento di qualche genitore, si giocava tutti a ruba
bandiera.
L’unico gioco che veramente accomunava tutti era il “Pallone”.
Tutti i cortili di parrocchia avevano a quei tempi almeno un tabellone
da basket ed una porta per giocare a porta romana.
In un raggio di pochi passi da casa avevo tutto ciò di cui un
adolescente aveva bisogno. Scuola, amici, cinema, negozi, librerie,
parrocchie e palestre. Nel mio palazzo avevo tre amici coetanei che,
uniti a quelli dei dintorni formavano un gruppetto di una decina con
cui mi vedevo quasi ogni giorno. Sotto casa mia c’era la Birreria
Bologna, a quei tempi aperta 24 ore su 24. Il bar Gamberini, dove il
proprietario era un amico coetaneo, ci teneva da parte i tappi di
bottiglia. Con quelli e le figurine Panini organizzavamo le squadre di
ciclismo e le piste per fare un nostro giro d’Italia in contemporanea
al vero Giro, di cui ascoltavamo, alla radio, i risultati, dopo le 17.
Tutte le sere stilavamo i nostri arrivi di tappa e calcolavamo la nuova
classifica. Tutti sapevamo fare somme con ore, minuti e secondi,
senza averle studiate a scuola.

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Togliendo il sughero dall’interno dei “coperchini”, e sistemandoli


lungo le rotaie del tram, al passaggio ritiravamo delle fiches piatte
che usavamo come moneta. Ricordo che quelli che andavano di più
erano Campari, Nocera Umbra, Oransoda, Lemonsoda e Chinotto
Neri.
Dal 19 marzo a metà ottobre avevamo aperta sotto casa la baracchina
dei gelati che poi divenne il negozio gelateria Ugo, in via San Felice.
Tutti i giorni, dopo le 17, dopo avere ascoltato le varie notizie
sportive alla radio ci incontravamo per una merenda golosa.
Arrivai alle soglie dell’adolescenza frequentando ottime scuole,
avanti un anno rispetto ai miei compagni e con un immenso mondo
nuovo da scoprire.
Le troppe possibilità di divertimento a portata di mano mi fecero
perdere l’attenzione allo studio, Non trovai, inoltre, la attenzione, nei
confronti del mio apprendimento, che avevo trovato negli insegnanti
elementari e quelli delle medie. Il mio ginnasio fu tremendo, cambiai
sette volte classe, scuola ed orientamento, in pratica frequentai tutti i
licei cittadini tranne il Galvani, dove però ero pieno di amici.
Considerato che a quei tempi le classi erano di almeno trentacinque
alunni ho avuto, durante il mio liceo oltre 250 compagni di scuola,
che, aggiunti a quelli delle medie, delle elementari e ad altri amici di
parrocchia, giochi e vacanze, creavano una rete di conoscenze
impressionante.
Non smisi mai di leggere molto la sera, ma ero talmente indaffarato
da non avere assolutamente tempo di studiare. Non persi mai un
giorno di scuola ed ero molto attento in classe, cosa che mi permise
di non crollare nei rendimenti, ma ero troppo vivace in classe per
potere piacere agli insegnanti di quei tempi. Quando raramente mi
promuovevano facevano promettere a mia madre che mi avrebbe
cambiato scuola l’anno seguente. Finii per arrivare alla maturità
saltando due anni in uno e portando il programma dei cinque anni.
In casa i miei genitori avevano subito la perdita di mia sorella che li
aveva annullati per un lungo periodo. Seguì un dissesto finanziario di
mio padre che lo impegnò in altri problemi.

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Io rimasi abbandonato a me stesso, in una autogestione in cui mi era


consentito fare ciò che più mi piaceva. La scivolata durò tutto il
periodo del liceo.
La unica cosa su cui non transigevano i miei era l’uscita serale. Non
era permessa mai, a meno dei periodi di vacanza.
Da ciò che ho detto, la mia giornata era già scritta, ogni mattina a
scuola, il pomeriggio si giocava e la sera si guardava la TV o si
leggeva. La TV in casa mia entrò nel 55, era un televisore Phonola a
valvole che impiegava un quarto d’ora a scaldarsi. Costava come una
600 Fiat, che arrivò sul mercato in quello stesso periodo.
Non studiare mai mi permetteva di leggere molto, ero abbonato ad
una biblioteca circolante e leggevo romanzi di avventura e di
narrativa a tutta forza, mi ricordo che amavo molto gli autori
stranieri, americani e francesi soprattutto, ma lessi anche Cechov e
Cronin.
Avevamo in casa una discreta biblioteca di romanzi francesi
dell’Ottocento, mi ricordo che li divoravo, mi chiudevo in camera,
dicevo di studiare e leggevo.
La totale mancanza di controllo in casa mi permetteva di stare fuori a
qualsiasi ora, bastava dire: “Esco”, chiudere la porta e tornare per
cena.
Andavo spesso anche al cinema Saffi, che citava Daniele, il pericolo
di incorrere in qualche pederasta c’era, ma era sufficiente sedersi
lateralmente vicino alla porta di ingresso per non essere disturbati.
L’altra opzione era quella di andare con Mauro Casali e metterlo
seduto all’interno, siccome lui fumava già, se qualcuno avesse
allungato le mani, lui gli avrebbe spento la sigaretta sulla mano.
Questo avvenne, ma dopo la prima volta non si avvicinò più nessuno.
Il cinema costava ottanta lire e programmava due spettacoli, uno più
importante per secondo, il primo scarso, spesso anteguerra ed in
bianco e nero.
Erano sempre film di guerra, western o commedie musicali, adatte ad
un pubblico di soldati che arrivava all’orario di libera uscita, dopo le
18,30.

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Io entravo alle 14 ed uscivo poco dopo le 17, pronto per fare


merenda o guardare la TV dei ragazzi. Con Casali spesso si andava a
giocare a pallone. A volte in terrazza da lui, altre ai giardini.
Lui aveva un pallone di cuoio che si portava dietro sempre.
Pesantissimo. Sulle palle alte io mi spostavo, ma lui dava delle
capocciate con la fronte da restare piantati in terra. L’altro compagno
di giochi con cui per alcuni anni abbiamo vissuto in simbiosi,
abitando nello stesso pianerottolo fu Franco Frabboni. Lui aveva
abitudini molto più nobili, non sarebbe mai entrato in un cinema di
seconda visione, frequentava il San Luigi e non la scuola pubblica. A
quei tempi andavano di gran moda i modellini di automobile in scala
della Dinky Toys, noi umani risparmiavamo tutto un mese per
comprarne uno, li vendevano alla Standa, in via Ugo Bassi. Quando
arrivava lui comprava tutto lo scaffale. Prima di trasferirsi nel
palazzo appena costruito da suo padre abitava poco lontano, in via
San Felice, in un cortile dove c’erano tanti ragazzi più grandi di noi,
tra i quali Beppe Lamberti.
Tutti i luoghi già elencati da Daniele erano anche mie visite
sistematiche, il libraio, la pizzeria Bella Napoli e così via, ma vorrei
soffermarmi su un paio di luoghi che conoscevo particolarmente.
La Accademia Bigliardi.
Tanti possono raccontare di avere frequentato e conseguito un
Master in Università prestigiose, la Bocconi, la Luiss, alcune
University americane, ma io li guarderò sempre sottecchi con una
certa ironia. Io il mio Master lo ho conseguito alla Accademia
Bigliardi di via Marconi, a Bologna.
Entrai la prima volta in questo locale a 15 anni, il titolare non ci
permetteva di giocare il pomeriggio, ma la mattina c’eravamo solo
noi e ci permetteva una partitella. In compenso in tarda mattinata e
primo pomeriggio cominciavano ad arrivare i giocatori veri. La
Accademia era sotto casa mia ed aveva anche prezzi del bar
convenienti, presto lo adottammo per nostro. Potemmo farlo grazie
ad una compagnia di studenti che comprendeva qualche ripetente e
quindi poteva mostrare di avere superato i 18 anni. Per me il vero

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divertimento non era giocare, ma l’avere scoperto un nuovo


spettacolo, molto più affascinante del cinema o del teatro.
Quando un Campione, infatti, scendeva in Salone, fin dal primo
momento, aveva un gruppetto di seguaci che si spostavano con lui,
era un pubblico affezionato che non avrebbe perso una sola mossa di
quanto avrebbe fatto o detto.
Tra i Campioni vi erano le categorie. Primo assoluto era Bertino,
l’allora campione italiano di boccette, poi venivano altri, alcuni
specialisti di boccette ed altri di goriziana.
La parte più divertente della partita era l’adescamento del “pollo”,
una recita da Oscar, come se il campione fosse una vergine ritrosa, si
concedeva ad una partita del caffè che perdeva regolarmente. Il
pollo, a questo punto, si ringalluzziva e rilanciava con una proposta
che gli sembrava equa: “Se mi dai dieci punti e primo pallino ai
cinquanta mi gioco diecimila”. (A quei tempi diecimila era la quarta
parte del salario mensile di un operaio). “Non ti si possono dare
punti, sei troppo forte”. Questa frase ringalluzziva ancora di più il
pollo che attaccava: “Mi accontento di otto punti e primo pallino”.
Secco il campione buttava lì l’ultima offerta, voltando le spalle,
come per andarsene. “Te ne do cinque e il primo pallino te lo
guadagni”. “Va bene cinque e il primo pallino” “Però lego dieci
partite”” Va bene”. A questo punto tutti i pensionati acchiappavano
una sedia e correvano dietro alla coppia, per accaparrare un posto in
prima fila, come ad uno spettacolo teatrale.
Sto parlando di anni in cui i centri sociali non erano così attivi e si
diventava anziani dopo i 60 anni, non dopo gli 80. Molti di quei
pensionati stazionavano più di otto ore al giorno, nei mesi invernali,
al Salone. Non giocavano mai, ma il titolare li aveva obbligati alla
consumazione. Qualcuno comprava cinque caramelle di menta, che
venivano accettate come consumazione, ma un bicchiere di tè od un
latte macchiato rappresentavano la consumazione media. Quando si
chiudeva un contratto di gioco iniziava un intermezzo ed in seguito
un secondo spettacolo. L’intermezzo consisteva nella ricerca di una
persona di fiducia che gestisse la parte contrattuale, a volte
addirittura un finanziatore. Dieci partite da 10.000 Lire erano soldi,

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molte volte nessuno dei due li aveva in tasca, a quel punto occorreva
trovare i contanti per darli da conservare, durante le partite, ad una
persona di fiducia che poi, secondo il contratto negoziato, pagasse
ogni volta il vincitore.
I finanziatori più vicini erano i negozianti della zona con un flusso di
cassa sufficiente, ma non tutti i giocatori erano finanziabili. Alcuni
campioni, dal punto di vista della affidabilità finanziaria erano
sottozero. Quelli dovevano attingere finanza a fondi di denaro con
“interessi” variabili, da piccole percentuali fino allo strozzinaggio.
Esistevano campioni che giocavano alcune ore tutti i giorni e
facevano fatica a tenere per sé la cena.
Una volta trovata finanza e soci finanziatori si consegnavano i soldi
ad una persona di fiducia per entrambi e gli si spiegavano le regole
della scommessa.
La persona di fiducia del Salone era un anziano. La sua caratteristica
era non togliersi mai il cappello.
Siccome in altri tempi, per portamento, modo di parlare e rivolgersi
alle persone, mostrava avere avuto sorti diverse, veniva considerato,
da tutti, una persona affidabile.
Era velocissimo mentalmente e bene educato, molto preciso e
corretto quando riceveva i dati di una missione, non so se fosse stato
sempre onesto, il suo soprannome era “Vecchio T’inganni”, da
interpretare in tanti modi. Lui riceveva un pacco di banconote da
diecimila lire, erano come lenzuoli, in formato A4, le teneva separate
in due tasche diverse e ad ogni partita pagava con due banconote il
vincente. Se c’erano in giro visi strani, di persone non conosciute,
non si facevano circolare soldi.
Il gioco d’azzardo era proibito, quella partita andava sotto la
qualifica di competizione sportiva.
Il “vecchio” aveva una età indefinibile, certamente sopra i 60, ma per
quasi dieci anni lo vidi con lo stesso vestito e cappello, solo in
inverno indossava un cappotto di un colore scuro indefinito. Una
volta sola lo vidi togliersi il cappello e capii che era pelato. Non
commentava mai le partite e parlava raramente. Si sedeva vicino alla
buca centrale con una stadera per segnare i punti ed un tavolino ed

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ogni volta che segnava qualcosa scandiva il nuovo punteggio a bassa


voce. Pretendeva il silenzio intorno al tavolo, era una persona
austera, ma non triste, aveva l’aplomb di un notaio.
Nessuno aveva informazioni su di lui. Aveva alcuni attrezzi del
mestiere, un piccolo compasso di plastica leggerissimo con punte
arrotondate per misurare di chi fosse il punto. Quando eseguiva una
misura aveva una ritualità ripetitiva, una, due volte, anche tre, fino a
quando i due contendenti non avessero accettato il suo verdetto.
I suoi compensi, per questo servizio, erano un bicchiere, di tè ed una
mancia dal vincente. A volte queste partite duravano fino alla
chiusura, all’una di notte. A volte continuavano, dopo l’orario, in
altri Bar che erano disposti, in caso di grandi sfide, a stare aperti tutta
notte.
Io non sempre restavo a guardare le partite, che erano la parte meno
divertente. Quello che mi divertiva era la scena dell’adescamento e
tutta la negoziazione, quella che ognuno recitava a canovaccio, sul
palcoscenico più importante della giornata, col suo pubblico a
seguito, fatto di pensionati devoti e fedeli. Erano sempre sfide in cui
esisteva un vincitore, ma alla fine della quale il vinto usciva con la
convinzione di essere stato vicino a sovvertire il pronostico. Il vero
campione, infatti, alla fine di una sequenza vittoriosa, perdeva
l’ultima o le ultime due partite con un duplice scopo, quello di
lasciargli qualche soldo in tasca e l’idea di avere avuto sfortuna nelle
prime partite.
Diversa erano le partite a goriziana, nelle quali si giocava alla pari,
tra due campioni, e contavano fattori di resistenza, occhio e forma
fisica. Queste, di solito, erano più rare ma molto più spettacolari.
L’adescamento non esisteva, per la goriziana, era una sfida, di solito
entrava qualche faccia nuova, spesso giovane e sconosciuta, di
provenienza da altri Bar o città ed andava direttamente dal campione
a sfidarlo. Allora tutta la sala reagiva finanziando e sostenendo il
proprio campione, col vecchio. T’inganni a contare i punti. I
finanziatori, in questi casi, scommettevano col giocatore.
La scherma dialettica fu una delle materie più importanti e difficili
del mio Master all’Accademia, ma tante altre materie di

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insegnamento componevano il piano di studio giornaliero di questo


mondo sotterraneo. Uno scantinato immenso, direi di 500 mq., con
sala TV, sala carte, salone Bar di ingresso, sala ping-pong e vari
flipper, tiri a segno e calcetti balilla. Nemmeno una finestra od un
ricambio d’aria, se non al bagno, totalmente insufficiente.
La sala dove si giocava a carte la sera diventava una camera a gas, a
volte non bastava una pausa notturna per disperdere il fumo.
Non esisteva un archetipo di frequentatore dell’Accademia, certo il
luogo era popolare, ma negli anni ho visto passare, da quella cantina,
tutta la città e tutta la mia generazione. Raramente entravano le
donne, quasi mai le mogli dei giocatori o dei campioni, mai,
comunque, con compiacenza verso il luogo.
Quando raramente fossero entrate, avrebbero percepito di avere
subito un oltraggio da un mondo sconosciuto, avrebbero portato con
sé rabbia ed astio, non gelosia, si sarebbero sentite trascurate dai loro
uomini a causa di una attività devastante ed usurante, una specie di
lavoro in miniera, ma con orari interminabili e senza salario. Un
supplizio.
Questa era la situazione di coppia dei frequentatori assidui del
Salone. Il comportamento sociale avveniva su questa linea, più o
meno allegramente. In verità, dietro al teatrino, all’adescamento, agli
sprazzi di grande furbizia che si esibivano in certi momenti e degli
indubbi talenti dimostrati al tavolo del bigliardo, esisteva uno
stimolo mentale costante che tentava di prolungare il gioco fino
all’ossessione. Una malefica ossessione ludica entrava poco a poco
nella mente di alcuni fino a convincerli che la ansiosa ricerca di se
stessi sarebbe terminata in un momento di appagamento solo
superando e battendo l’avversario, di cui, in alcuni momenti non
distinguevano più le sue sembianze dalle proprie, nel senso che non
era più l’avversario a superarli, ma loro a perdere, per una serie di
circostanze casuali, di sfortune indotte da persone vicine, di
malesseri momentanei, un insieme di cose che la prossima volta…
non si sarebbero ripetute.
Campioni e polli erano tutti, ogni campione era pollo per qualche
campionissimo ed ogni pollo era campione per qualche “gran

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caviglio” (alcune persone che il giorno di paga arrivavano di corsa e


sistematicamente non andavano a casa prima di avere perso tutta la
busta paga).
Il Campionissimo, per intenderci Bertino e simili, erano al di sopra di
queste ossessioni ludiche, loro ricevevano attacchi continui da
perdenti nati che li andavano a cercare per nome, senza mai averli
visti, come in certi film western, quando il pistolero giovane, in cerca
di gloria andava per monti e deserti a cercare Jesse James o Billy the
Kid per farsi uccidere da loro, ma vivere un istante di gloria.
Il supercampione, non soggetto alla sindrome del caviglio, nei
momenti di relax, era anche maestro di vita, sindaco di questa città
sotterranea e magnifico rettore dell’Università. Teneva vere e proprie
lezioni di comportamento a classi eterogenee e trasversali per età,
censo e cultura degli scolari.
Posso accennare alcuni titoli di lectio magistralis da me ascoltate od
apprese direttamente da presenti alle lectio negli anni, che, da soli,
spiegano il profondo livello di studi da me raggiunto in quella
Accademia e perché io lo consideri un Master.
- Al caviglio è inutile dare vantaggi, perché lui viene qui per
perdere, se gli si danno vantaggi, con cui anche una sola volta
dovesse vincere, non tornerà più e si è perso il caviglio, perché lui si
diverte solo a perdere.
Relatore: il Vetraio.
Dopo questa affermazione molti si attennero a questo
comportamento, ma tanti continuarono come prima, questa
affermazione è rimasta un bias scientifico.
- Quando si perde senza deposito è meglio non pagare e
sparire che fare assegni a vuoto. L’assegno a vuoto è una prova che
si è perso e questo genera una caduta di immagine.
Relatore: Pluto
Successo pieno della lectio tenuta da un hyper cattedratico
con decine di assegni protestati e fermi in Questura per
truffa.

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- Alle donne non va spiegato che giochiamo a bigliardo, non


capirebbero e non sanno cos’è, poi vorrebbero venire a vedere,
perché sono curiose.
Relatore: Charlie, il professore.
Nata come bias scientifico questa affermazione è stata
pienamente verificata in una generazione di studi sui
comportamenti attitudinali. Molti smisero anche di invitare
le donne ai concerti Jazz. Una sera, accompagnandolo a casa
Tamarindo mi disse: “Basile, set ca’stag con ‘na dona c’an
sa brisa xa vul dir filot?” “E perché non glie lo spieghi?”
“Me ai l’ò datt, mo li l’an capess brisa” Negli stessi periodi
Antonioni e Moravia parlavano di incomunicabilità.
- Il caviglio deve sempre uscire da qui con dei soldi in tasca,
altrimenti si rischia che non torni mai più. Se lo rovini può perdere il
vizio.
Relatore: Bertino
Questo era un chiaro richiamo di Bertino a non rovinare
nessuno e ad un modello etico di Campione dal volto umano,
in contrasto con strategie crudeli e distruttive di altri. Il suo
metodo soft avrebbe evitato il brusco risveglio scioccante di
“riconoscersi caviglio” e smettere di giocare.
- Quando vado a ballare con gli amici tengo l’anello al dito e
dico di essere sposato, perché questo dà sicurezza alla donna che
cerco io e crea già una selezione iniziale.
Relatore: Bertino
Dopo tale affermazione si cominciarono a dichiarare sposati
anche gli scapoli, anche se sessantenni, per evitare “certi tipi
di donna”
La donna, più che i motori, era l’argomento più ricorrente,
ma l’oggetto della discussione scivolava sempre sul trucido e
nessun vero campione poteva tirarsi indietro senza suscitare
biasimo, negli anni ho ascoltato lezioni sul sesso anale, sesso
sul bidet, sesso sulla lavatrice eccentrica, sesso in treno, in
ascensore, al bar ed al ristorante, casuale e legittimo, in
solitaria e di gruppo, in una rincorsa a chi ne sapeva di più e

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ne faceva di più, ma avevo comunque capito, fin dall’inizio,


che ore di bigliardo e sesso non si fossero intrecciati spesso,
sono come i filamenti del DNA, ritorti senza incroci.
Ricordo che in certi pomeriggi afosi estivi un campioncino
aveva preso in simpatia noi giovani e ci raccontava tremende
vicende sessuali e record di performance con sua moglie,
spiegandoci che, quando c’è affiatamento, non importa
andare a cercare guai altrove, con donne malate, quando hai
già tutto in casa. Noi lo ascoltavamo con massima attenzione
e buon profitto, prendevamo appunti e, come succede coi
bravi professori, eravamo anche diligenti nei compiti a casa
da soli. Un giorno lo incontrammo che portava due borse
della spesa ad un essere tronco conico che doveva essere sua
moglie, sicuramente donna, lo capimmo dalla gonna, ma con
due baffi da maresciallo dei carabinieri ed un naso da
ciclista, cisposo e bitorzoluto, che ci ricondusse al vero
arcano segreto della sua vita: “L’importante è accontentarsi”.
Il capo indiscusso di questa città sotterranea era Mariano,
persona che ancora oggi ricordo con stima ed ammirazione.
In questa città sotterranea, rappresentando la proprietà ed il
potere lui era il Questore. Gestire per tanti anni un ambiente
del genere non sarebbe stato facile per nessuno, ma, in più,
lui aveva una la capacità percettiva di un sensitivo e
avvertiva quando qualcuno, in tutto il salone, stesse passando
il limite del lecito. Dico percezione perché i limiti erano
sempre mutevoli, non fissi ed assoluti, dipendevano dai
giorni della settimana, dai mesi dell’anno, dalle persone
coinvolte.
Mi ricordo lo sguardo con cui osservava le persone che
scendevano lo scalone di fronte alla cassa, una vera
telecamera vintage con sistema di allarme. A volta con un
rapido segnale allertava i camerieri di sala che capivano chi
tenere d’occhio. In inverno c’era qualcuno, magrissimo che
entrava, indossava alcuni cappotti uno sopra l’altro e tentava

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di uscire. Il record fu sette, tra impermeabili e cappotti,


bloccato sulle scale.
C’era chi semplicemente tentava di rubare le boccette, chi i
birilli, chi le palline del calcio balilla, chi un mazzo di carte,
non pagava la consumazione. C’era di tutto.
In tanti anni non ho mai visto scoppiare una rissa nel locale,
alterchi si, tanti, le risse fuori.
Noi studenti, minorenni, eravamo sempre tenuti d’occhio e
protetti dal suo sguardo vigile, anche nei contatti con altri
gruppi. Ci riunivamo in sala giochi, intorno al Bar od alla
carambola. Dal nostro gruppo sono usciti tanti laureati, tanti
manager d’impresa, un direttore di giornale e qualcuno si è
perso strada facendo, ma in minuscola percentuale.
Il personale di servizio era sceltissimo ed istruito alla
perfezione, sia quello di sala che quello del Bar. Non
circolavano superalcolici né droghe, devo dire che
l’ambiente era molto popolare, ma fondamentalmente sano,
certamente non inferiore a quello dei Bar della zona.
Alcuni personaggi vanno ricordati per il colore che davano
allo zoo umano di quel sottosuolo.
Tamarindo.
Nessuno si ricorda il suo cognome, di nome si chiamava
Giuliano. La sua partita favorita era dare il pallino alla pari,
significava che lui, se il pallino fosse restato nella parte
bassa del tavolo, si sarebbe arrangiato a fare punti solo di
calcio. In questo gioco era un fenomeno. Era perennemente
senza soldi, non lavorando, ma passando la vita nei bar.
Trovava però con facilità finanziatori che gli compravano
anche una quota delle scommesse, perché era un vero
professionista. Era molto corretto, quando dava la parola la
manteneva, gli piaceva molto vincere per bravura e talento,
con colpi a sorpresa, non col raggiro. Qualcuno lo voleva
definire poco onesto, ma aveva un suo codice etico, dal quale
non derogava facilmente. Credo avesse delle forti forme di
nevrosi che a volte lo hanno portato in casa di cura, ma non

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lo ho mai visto, sul bigliardo, (lui diceva: sul lavoro) fuori


dalle righe. Era uno dei pochi che, quando spariva per un
po’, non era “al fresco”.
Soffriva di insonnia e leggeva molto le cose più strane.
Molte notti ho fatto con lui le ore piccole, non si stancava
mai di parlare di astrologia, conosceva i segni zodiacali di
tutti i grandi imperatori ed in generale dei grandi personaggi,
ti dimostrava che tutti erano nati tra luglio ed agosto,
Napoleone, addirittura era nato il 15 agosto. Lui era nato a
Parigi, da genitori emigrati, nel segno zodiacale del Leone.
Aveva una erre moscia francese che circostanziava l’avere
assorbito fonemi in giovane età in Francia.
Aveva grande ironia ed una sua logica di relazione ai suoi
riferimenti assoluti nella vita. Chiamava tutti per cognome,
come a scuola, per lui Bertino era Pelagatti, bravissimo, ma
nato in provincia, non del segno del Leone. Aveva una forma
di idolatria per Charlie, detto il Professore, più anziano di lui
e suo riferimento comportamentale costante. Quanto detto da
Charlie veniva citato come gli aforismi di Confucio. Spesso
il sabato sera o la domenica li vedevi arrivare in coppia con
dei vestiti scuri a righe di gesso e cravatte regimental con
colori sgargianti, a base di oro. Significava che si andava a
ballare, entrambi ballerini di rock and roll, si esibivano allo
Sporting Club di via Ugo Bassi o in balere estive di periferia.
Tamarindo era anche grande amante del Jazz, lo ho sempre
visto ai festival bolognesi, parlava molto di musica e di
ballo, ma soprattutto di bigliardo.
In qualche locale aveva conosciuto la sua “donna”, Lory
Nevada il nome d’arte, insieme si esibivano nei Rock and
Roll più sfrenati. Parteciparono al film di Fellini “Ginger e
Fred”, ed ebbero alcuni anni di fama in coppia esibendosi nei
locali.
“Mi sono innamorato” mi diceva, come se gli fosse capitata
una disgrazia, un brutto male. Sto trascurando il lavoro. (Si
riferiva al Bigliardo) “Mi sono innamorato di una donna che

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non sa cosa è il filotto”, ne parlava come fosse un evidente


segno di decadenza, una iattura, una malattia incurabile. Pupi
Avati, che lo conosceva, gli offrì un momento di gloria
invitandolo in televisione nel programma del sabato sera,
dove era ospite principale insieme alla jazz band bolognese,
con Lucio Dalla e Checco Coniglio.
Quando accedi alla notorietà acquisisci sempre dei nemici,
Nevada Loris veniva spesso chiamata “Calamity Jane” ed
anche “Calatemi i Jeans”, ma loro non se ne curavano,
volavano al di sopra di queste meschinità.
L’ultima volta che li vidi insieme erano in una pizzeria
vicina a casa loro, via dello Scalo, erano allegri, forse felici,
capii che avevano trovato un equilibrio di vita, malgrado le
loro differenze dal resto dell’umanità, vennero a salutarmi al
tavolo, lui sempre educatissimo, mi raccontò un po’ dei suoi
ultimi successi cinematografici. Fui felice per loro e li
guardai allontanarsi con lo stupore e l’incanto con cui si
guardano due cigni neri.
Il professore, Charlie, era più smaliziato e meno talentuoso
al gioco, faceva il muratore, spesso veniva in Salone prima
di passare da casa, quando il cantiere era vicino, allora
metteva una cravatta al collo della tuta o della salopette ed
una giacca od un cappotto sopra la tuta, era spesso
sorridente, aveva una borsa di pelle sotto il braccio dove,
credo, portasse da casa il pranzo ed una bottiglia di birra. Il
giorno che fecero una spaccata con un mattone alla vetrina di
Settimelli, in via Rizzoli, lui arrivò al Salone con una
cravatta nuova sopra la tuta.
Aveva una presenza scenica più riservata del suo pupillo, ma
era uno degli strateghi di ogni attività ricreativa. Intratteneva
rapporti con l’esterno e trovava i finanziatori della partita
quando necessario. Raramente lo vidi giocare, a volte a carte,
ma solo se sicuro di vincere. Credo fosse un grande
mangiatore nelle rare occasioni che gli si presentavano.

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Sembra che, malgrado l’età, fosse ancora un Casanova, da


giovane doveva essere stato un bell’uomo.
Pittura.
Il suo vero nome non lo conosceva nessuno. Arrivava da
Firenze ogni due o tre mesi, con uno o più amici. Era un
bocciatore formidabile ed un parlatore di eccezione, quando
arrivava stava fino ad una settimana a Bologna e giocava
dall’apertura del salone fino all’orario di chiusura. Il Clou
della settimana era lo scontro storico contro Bertino. In quei
giorni, scendendo dalla scala si vedeva da lontano un
immenso capannello intorno al bigliardo dove giocavano e si
avvertiva, nel silenzio assoluto, la sola parlata toscana.
Pittura infatti parlava in continuazione a gran voce ed
obbligava Bertino a rispondere. Lui parlava con sussurri
appena percepibili, che obbligavano la folla al silenzio totale.
Le partite erano magistrali, piene di colpi a sorpresa e
bellissime, per tutto il salone si sapeva a che punto della
partita si fosse. Di solito legavano dieci vittorie, mai, credo,
uno dei due sopravanzò di dieci l’altro.
L’amico di Pittura era un piccolo, silenzioso, magro, gran
fumatore, le dita ingiallite dalla nicotina, bocciava come si fa
oggi, strusciando il braccio come una stecca sul panno. Era
di una categoria inferiore, ma doveva vincere per vivere,
forse alla fine di una settimana aveva incassato più lui di
Pittura. Non aveva soprannome, questo dimostra la sua
scarsezza scenica, peggiorata dal colore pallido e malsano
della pelle ed un brillio sui capelli.
Chiunque avesse personalità sulla scena, al salone, aveva un
soprannome.
L’Accademia accoglieva anche tanti avventori normalissimi,
che venivano la sera, od il sabato e domenica a fare la
partitella con gli amici. Molti di questi erano ottimi
lavoratori, negozianti, padri di famiglia e tante volte anche
ottimi giocatori. Molti di questi giocavano a stecca negli
ultimi tavoli della sala, quelli che non occorreva tenere

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d’occhio. Chi giocava a stecca era di rango di civiltà più


elevato rispetto alle boccette, aveva frequentato circoli
militari od ambienti da club. Le boccette erano il gioco
largamente più popolare. Ricordo uno che chiamavano “Il
piccino”, alto due metri, giocava sempre con il “muratore”,
uno che ad ogni bocciata alzava la boccetta col pugno
chiuso, quasi ad eseguire il saluto comunista.
Il venerdì, spesso arrivava “Lo sparviero”, un venditore
ambulante di maglieria ed intimo per uomo che aveva una
“baracchina” al mercato della montagnola, ottimo giocatore.
Spesso veniva Tassi, ex campione italiano, grande giocatore
che ho letto sulla stampa informata che gioca ancora a quasi
90 anni.
Voglio ricordare alcuni soprannomi velocemente:
Pluto, piccolo imbroglione tuttofare, molto disponibile per
servizi a pagamento, con l’avvertenza di pagarlo a fine
servizio, altrimenti spariva. Una sua famosa frase quando,
dopo aver perso a boccette ed essere stato bloccato sulle
scale mentre tentava di scappare lasciando il cappotto,
obbligato dall’avversario, con le cattive maniere, cedette e
disse: “Va ban, at fag un asagn, se tl’incaset fagna a mez”
(Va bene, ti faccio un assegno, se l’incassi facciamo a
mezzo). Tipico informatore della polizia in cambio di un
occhio chiuso sulle sue piccole marachelle. Era stato anche
“In buia” dove aveva fatto, per guadagnare qualcosa, il
barbiere. Ogni tanto all’apparire di qualche faccia nuova
diceva: “Me a lo lè agliò fat la berba”.
Cioffa. Era una persona normale, ma aveva la faccia da
ladro. Non esistono caratteristiche del viso per identificare la
faccia da ladro, solo segni inconsci. Se in una sala affollata
qualcuno avesse gridato: “Mi hanno rubato il portafoglio!”,
tutti, istintivamente, si sarebbero girati verso di lui.
Impossibile descriverlo altrimenti né farne un identikit. Era
una persona assolutamente normale, ma non ispirava fiducia,
stava sempre in silenzio, ma qualcuno perennemente lo

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teneva d’occhio. Appena si allontanava qualcuno diceva


sempre:” Stev atanti, ragaz”. (State attenti, ragazzi).
Ho elencato pochi personaggi e nemmeno i più caratteristici
per dare un’idea, ma potrei parlare per ore di quell’universo
sotterraneo che è stato, oltre alla scuola ed alla parrocchia
una mia prima finestra sul mondo della vita reale.
Lo ho chiamato universo, perchè era più simile a quei piccoli
ecosistemi che si vendono in una gabbia di vetro stagnea e
che si regalano ai bambini come prima esperienza di scienze
naturali. Definiamolo, per capire: un ecosistema è un
insieme complesso in cui coesistono, in profondo equilibrio,
due elementi: gli organismi viventi e l'ambiente fisico.
Gli organismi chiudono un equilibrio ciclico vitale infinito e
traggono energia e sussistenza dall’ambiente fisico al
contorno.
Così è il dipolo Campione-Caviglio. Tante volte li ho visti
giocare ed erano sempre uguali, danzavano intorno al
bigliardo meglio che su una pista da ballo, entrambi erano
sereni, sia il vincente che il perdente, stavano trovando
quella quiete mentale e comodità fisica che ha chi esce dalle
ansie giornaliere e si siede in poltrona la sera in famiglia,
ripetevano i riti di sempre che li facevano stare bene. Il
pubblico era un di più, loro due erano già autosufficienti,
adesso e per sempre, ballavano il loro valzer eterno,
universale, uscivano dal mondo di noi poveri umani e
diventavano dei semidei, ebbri della ambrosia dei nostri
tempi, la dopamina.
Così tutti i campioni: Bertino, Tamarindo, Sonno, Dalla, La
Faina, Lo Sparviero, Tassi, Pittura, Stecchino, con le loro
gestualità teatrali, con quell’eleganza vistosa,
l’atteggiamento vittorioso e l’espressione grintosa.
L’interfaccia dei cavigli, altra metà della stessa medaglia,
uno sguardo diretto lontano, da buddista od occhi a terra, un
sorrisino furbo, una tenuta modesta, movimenti impacciati,
da neofita, espressione attenta e pensosa, sguardi rapidi

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sottecchi all’avversario quando sa di non essere visto.


Ognuno dei due ha deposto le sue ansie prima di prendere in
mano le boccette, adesso entrambi sono felici, questo vero
istante di felicità è lo stesso di Sisifo che rincorre il masso
che rotola in basso, come il pallino sui birilli, con un brusio
di acqua che scorre, col rumore dell’impatto nel silenzio
assoluto della platea al momento della battuta, quelle luci del
neon sul tappeto verde e il daimon ludico del gioco che
esalta i loro talenti, la loro sensibilità propiocettiva nei
movimenti, con le boccette che, nei loro colpi più difficili
diventano vettori di una mente estesa all’interno del panno
verde. In quei momenti si produce dopamina e spariscono le
stanchezze, il tempo, per molti le amarezze dell’ultima
settimana, a volte sparisce anche la busta paga appena
ritirata, e da domani ci sarà tempo un mese per convincersi
che è stata pura sfortuna, o il bigliardo, che non era regolare,
si penserà che la prossima volta sarà meglio un bigliardo
centrale, meno consumato, sì, allora vedremo.
A volte, quando risalivo la scala per uscire all’aperto, mi
meravigliavo dell’aria buona e del sole che splendeva, ma
negli anni, da quel piccolo mondo ho ricevuto il mio Master
di “vita vissuta”.
Fuori dal Salone mi sarei trovato a mio agio in qualsiasi altro
ambiente, e così fu. Università e Accademia: Laurea e
Master.
Il periodo dell’Accademia era stato un percorso costruttivo
del mio mondo, ma da tempo aveva esaurito la mia curiosità.
Iniziai presto a frequentare altri ambienti, favorito da un
percorso di studi ineguagliabile frequentai sette scuole
superiori nei cinque anni, accumulando compagni di scuola
di ogni ambiente e ceto. A parte i pochi amici intimi,
conobbi e frequentai tutta la città, almeno per qualche tempo.
Non riuscivo a provare simpatia per le persone troppo
regolari e noiose, i perdigiorno erano troppo più divertenti, e
divennero presto i miei compagni più cari. Dal primo anno di

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università, dopo un tremendo litigio in famiglia ricevetti il


permesso di uscire la sera, a patto di riportare buoni risultati
negli studi. Non mi ricordo, da quel giorno in avanti di
essermi coricato una notte prima dell’alba.
Eravamo sempre sorpresi dall’alba, la notte era sempre
insufficiente per i nostri programmi, alcune mattine
riuscivamo a rintanarci in locali bui, dove guadagnavamo
qualche ora. Più di una volta le donne delle pulizie,
arrivando con scope, stracci e spazzoni ci hanno buttato fuori
dei locali in malo modo, allora ci trovavamo in strada, in una
luce caravaggesca e fastidiosa, disfatti, come nei film di
vampiri, ed era un rapido salutarsi e correre a testa bassa
verso casa. Io avevo scelto la notte per studiare, così riuscivo
a passare qualche ora con gli amici che si fermavano sotto
casa e mi chiamavano col clacson.
La facilità di parcheggio e la centralità del riferimento
avevano fatto diventare casa mia una tappa di sosta per i
congiungimenti notturni.
La finestra accesa della stanza in cui studiavo era un segnale
semplice che indicava la mia presenza, da spenta avrebbe
segnalato che qualcuno era già passato, in questo caso,
aspettando, si sarebbe formato il gruppo.
La pausa durava da una a sette ore, secondo il piano di studi
e della lontananza dagli esami, ma non andava mai oltre
l’alba, a quella ora il nostro mondo, in cui ci conoscevamo
tutti ed ognuno aveva la sua funzione, spariva, con una
dissolvenza lenta, mescolata al nuovo turno, le cui persone
erano sconosciute ed ostili, camminavano a passo svelto, si
stringevano nei loro spazi accalcandosi per una brioche e
cappuccino o per il giornale, che rappresentava il testimone
di questa staffetta, la ultima operazione della notte, infatti,
era comprare il giornale in stazione, dove maggiormente si
mescolavano i due flussi, l’ultimo della notte ed il primo
della mattina. Io non mi sono mai accorto, fino a che sono
stato studente, che esistono regole di vita e che l’orario di

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lavoro impone spazi limitati agli svaghi, ai divertimenti, ed


allo stesso metabolismo, come se le persone della mattina si
muovessero per incubi o malattie che non permettessero loro
di dormire, non per necessità.
Nemmeno mi sono accorto che la velocità del tempo in cui
vivevamo era diverso dal tempo degli altri, non era
uniforme, ma variamente accelerato.
La notte volava, ed il giorno non passava mai, uscendo al
tramonto vedevamo gente stanca rientrare a casa
accasciandosi davanti alla televisione, pensavamo fosse per
la lunghezza della giornata, non per il lavoro, perché l’unica
attività che eravamo in grado di riconoscere era lo studio, gli
altri, secondo noi, non facevano nulla.
La nostra fu la prima compagnia trasversale della città, prima
di noi tante altre si riunivano in varie parti, anche negli stessi
bar, ma restavano impenetrabili, come nelle sette segrete, se
non si era introdotti, filtrati e controllati nei comportamenti e
nella provenienza non si entrava, noi fummo la prima ed una
delle ultime compagnie allargate ed aperte.
Prima di noi ci si evidenziava per classi di età, e per classi
sociali o per gruppo scolastico, o per circolo sportivo, o per
bolla goliardica, o per gruppo politico, sempre per
aggregazioni omogenee.
La nostra compagnia ruppe tutte le regole, in tutte le
direzioni, disprezzando, a volte anche troppo, ogni
organizzazione che cercasse di identificare un modello
comune di qualsiasi cosa, la regola era essere fuori branco e
fuori regola, con tempo a disposizione e con alcune
caratteristiche individuali che oltre ad una dose di simpatia
garantissero un primato locale. In questo modo, in pochi anni
di paziente ricerca, avevamo incorporato le individualità più
impensabili, e creato una compagnia che assomigliava ad un
circo più che ad un gruppo di amici, sul cui palco ognuno
aveva il diritto di esibirsi nel suo momento migliore e
quando il cambio di scenario gli permetteva l’entrata.

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Il circo, allargandosi come una macchia d’olio, prese le


dimensioni di una intera città, incorporando anziani
insospettabili, stimati professionisti e giovani studenti,
personaggi noti e sconosciuti, poveri e ricchi, onesti e
imbroglioni, maoisti e filonazisti, cocainomani e carabinieri
della narcotici e così via con la logica dei contrari, tanto che
la ipotetica media di questo gruppo sarebbe stato forse un
ragioniere del catasto, ma questa era la sola figura che ci
mancava.
I momenti di successo che ognuno di noi viveva sulla scena
di questo continuo spettacolo che fu la nostra gioventù ci
trasformava in supereroi e non ci dava attimi di sosta. Ho
appena cancellato quattro periodi più in alto la parola
“qualità” e la ho sostituita con la parola “caratteristiche”
perché oggi così le vedo, ma allora erano considerate qualità
delle persone a tutto tondo. Ne elenco alcune per rinforzare il
concetto:
- Bere molti alcolici e non mangiare mai
- Fumare senza filtro in carta mais o sigari toscani
- Sputare lontano
- Mangiare moltissimo quando fosse capitato
- Guidare spericolatamente - Correre in moto
- Giocare d’azzardo su qualsiasi evento
- Essere campione di rutti e scorregge
- Disprezzare la normalità
- Vestire elegantissimi o stracciati, senza vie di mezzo
- Essere i migliori a scuola od i peggiori, senza vie di mezzo
- Trattar male le ragazze, quasi vergognandosi della loro
voglia di equilibrio e tranquillità
- Essere campioni di bestemmie
- Disprezzare il clero
- Sfottere gli omosessuali
- Dichiararsi omosessuale
- Essere maniaci di calcio
- Vivere di notte

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- Ascoltare Brel od altri cantanti francesi


- Bere Pernod e chiamarlo “absence”
- Aver provato qualche spinello e dire: “non mi ha fatto
nessun effetto”
- Avere grandi disponibilità economiche
- Essere senza una lira sempre
- Piacere alle donne
- Essere campioni di sport o di culturismo
- Essere campioni di pigrizia
- Essere megalomani
- Essere nobili
- Essere intellettuali di sinistra
- Apprezzare la violenza, di destra o di sinistra
- Raccontare storie incredibili giurando che sono reali
- Mentire quando occorre, anche davanti all’evidenza
- Saper barare
- Giocare a carte
- Giocare a flipper
- Giocare a bigliardo
- Giocare a calciobalilla
- Praticare uno sport diverso da tutti (hockey, canoa, arco,
baseball, football americano, hockey su prato, hockey a
rotelle)
- Avere un hobby che ti prende per l’80% del tempo e
parlare solo di quello sempre (go-kart, autopista, fotografia,
collezione di fumetti)
- Fare fughino da scuola
- Non studiare mai
- Raccontare i propri rapporti sessuali al bar, a volte facendo
il nome della partner
- Trattare con protervia le persone mediocri.
La mia caratteristica, ad esempio, era non essere nulla di
quanto elencato sopra, ma di gestirmi giorno per giorno a
mio piacere, tutto in un atteggiamento di ironia caustica da
“fuori del branco” più tesa ad allontanare che ad avvicinare.

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Forse ero semplicemente campione di sarcasmo e di


“linguamerda” (tradotto per i radical scic in gossip e per i
linguisti in pettegolezzo) con qualche optional del tipo: non
guido la macchina, sto sveglio la notte, se vuoi posso essere
il tuo confessore laico e darti ottimi consigli, e più
importante di tutti: “sono bastian contrario per principio”.
La mia grande chance era esserci sempre, se qualcuno non
avesse saputo con chi fare quattro chiacchiere, sarebbe
passato sotto casa mia.
Esiste per ogni città un periodo più bello dell’anno. Per la
nostra va da inizio maggio a metà giugno. Le opportunità in
questo periodo aumentavano con progressione
impressionante ed essere ancora lontani dalle sessioni di
esame permetteva bizzarrie di ogni tipo. Elenco in disordine
ed ogni riga rappresenta un mondo, una sensazione, ed una
serie di storie che mi passano velocissime e rasenti.
Ognuna di queste storie potrebbe avere la base e la pienezza
di un romanzo, di una serie di romanzi, allungando la mano
potrei acchiapparli e fissarli con un semplice copia/incolla al
visore del computer, ma sono storie d’altri, ognuna per me
un quadretto, di cui resta uno sfumato colore. La emozione e
sensazione che proverebbe chiunque leggesse tali romanzi o
vedesse tali pitture è la stessa che si può provare
socchiudendo gli occhi dopo avere letto lentamente le righe
elencate qui sotto. Provate ed i ricordi saranno altrettanto
piacevoli, ma avrete volato nei vostri spazi e tempi:
- Primo Maggio
- La discesa al tempio della Vergine di San Luca e la
processione di ascensione
- La fine dei corsi di studio
- Il colore dei colli cambia
- La festa delle matricole
- La Pentecoste ed il suo ponte
- I primi week end al mare
- La prima piadina

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- La scorpacciata di cozze e spiedini


- Tutti alla baracchina dei gelati
- I tornei di football dilettanti
- I bar mettono fuori i tavolini
- Le giornate si allungano, ed il clima mite invita a stare
fuori fino a tardi
- Il centro rigurgita di gente, il mercato del venerdì e sabato
diventa un ritrovo
- Si studia senza ansie per la sessione estiva
- Le vicine campagne sono piene di ciliegie, duroni ed
amarene
- Le ragazze indossano vestiti leggeri e colorati e la piccola
Mab stimola i loro sogni
- Le case editrici pubblicano i libri dell’estate
- Le case discografiche escono coi dischi dell’estate.
Le struggenti voci dei cantanti, uscendo dai juke-box, hanno
ritmato la nostra vita in una rivoluzione di suoni dal
melodico al pop.
Oggi percorro gli stessi luoghi e non si rigenera la magia di
allora, quando tutto era spettacolo e sogno, come nei film di
Fellini.
Oggi la pista del circo che fu il palcoscenico delle nostre
gesta è deserta di emozioni. Periodicamente qualcuno
organizza riunioni celebrative a cui, se sono in città,
partecipo volentieri. La ultima che ricordo con nostalgia fu
grandiosa per il lavoro di ricerca diretto a rintracciare amici
spariti da oltre vent’anni e per il numero di partecipanti.
Riuscii ad andare e mi piacque tanto che scrissi a chi la
aveva organizzata questo biglietto: Caro Gigi,
ti scrivo queste poche righe per fissare alcuni pensieri che la
serata trascorsa con Te e tutti i presenti ha richiamato da
lontane memorie e per ringraziarti della semplicità e della
gioia con cui hai saputo evocare in noi emozioni per eventi
quasi dimenticati.

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Certamente la fase giocosa del riconoscersi e salutarsi è stata


appesantita da un velo di nostalgia per l’inevitabile,
inconscio e doloroso censimento che ognuno di noi stava
eseguendo. Questa sensazione è stata presto superata dalla
reale felicità di vedersi e mostrarsi con franchezza e serenità,
uno dei pochi vantaggi della nostra età, poiché impacci e
falsità ancora esistono, ma sono di facile individuazione.
Poi, su tutto, è calata la poesia della tua ospitalità in una
magica notte alla Muffa degna dei folletti di Yeats e ognuno
di noi si è ritrovato nella sua adolescenza ed ha scoperto,
commosso, un’emozione della memoria, la felicità.
Io, insieme a tanti altri, ho scoperto, quella sera, che è
esistito un tempo in cui eravamo felici.
Quando sei felice non te ne rendi conto, solo dopo anni, col
ricordo, puoi accorgertene, ma perché il fenomeno si compia
occorrono speciali condizioni e catalizzatori difficilmente
rintracciabili, tutti insieme messi in fila quella sera. Io ne
conosco alcuni che elenco in disordine, come in una ricetta
da pozione, ma non sono tutti e si possono utilizzare una sola
volta:
- Temperatura mite
- Luna grande
- Musica da sweet remember
- Vino genuino
- Prato di campagna
- Pasta al sugo
- Amici veri
- Animo semplice
- Grigliata
- Sera d’estate
- Poca fretta e tempo per ricordare.
Può sembrare facile, ma non mi è mai capitato, in maniera
così indiscutibile, di individuare la presenza di felicità in un
periodo della nostra vita, e, cosa più importante, rievocarne e
rinnovarne l’incanto dopo tanti anni.

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Mi hai concesso questa fortuna ed ho il piacere di


segnalartelo e di ringraziarti per questo, oltre a sperare che
Tu abbia condiviso con me la stessa emozione esaltante.
Casualmente ho incontrato qualche giorno dopo, in
aeroporto, Guido Riva che mi ha confermato sensazioni
molto simili a quelle che ti ho appena descritto. Credo che
non sia un caso di psicosi collettiva, abbiamo vissuto la
nostra gioventù su un’isola felice di cui i contorni e gli
abitanti sono stati da Te rievocati, durante la Tua cena,
venerdì 16 settembre 2005.
Grazie infinitamente, un abbraccio:
Rino.
Questa lettera ha creato tanta commozione all’amico che la
aveva ricevuta da inviarmi una risposta in tempi brevissimi,
accorata e nostalgica, ma anche di estrema gioia per essere
riuscito nell’intento che si era preposto.
Seppi anche che la mia lettera aveva compiuto vari percorsi
sempre generando commozione e consensi, tanto da
provocarmi una telefonata all’amico ripromettendoci una
cena quando fossi tornato, dopo qualche mese.
La cena la abbiamo fatta, ma la unica magia che si è ripetuta
è stata quella delle tagliatelle, che, fatte da abili mani e con
antiche regole, ci hanno fatto sognare più del fatto che
fossimo insieme. Eravamo stati più vicini da lontano,
rivivendo una emozione, che quella sera, cenando alla stessa
tavola, perché lontani eravamo nel passato, dei ragazzi, al
presente eravamo quattro anziani. Le evocazioni compiono
strani riti ed obbligano a sforzi di memoria.
Gigi Nanni. 49.
Quell’amico, che non
vedo da tanti anni, e mi
piace ricordare ancora con
affetto è Gigi Nanni,
(Pedulz). Avendo vissuto
l’esperienza di questa

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evocazione ho, con piacere accettato l’invito a scrivere


questo libro di Daniele.
Gigi fu un amico conosciuto al di fuori della cerchia
scolastica, potevamo avere 14 anni. In un lunghissimo
tragitto di adolescenza ero in continua ricerca di amici con
cui confrontarmi, cercando sempre modelli cui omologarmi,
lui mi attrasse a prima vista, su ogni domanda aveva risposte
semplici ed efficaci, suffragate da esempi e testimonianze
sbalorditive. Lo conobbi ad una festina privata, come si
facevano a quell’età: due dischi di Mina, uno di Paoli, uno di
Donaggio e si ballava tutto il pomeriggio a luci soffuse.
Appena un minuto per fare entrare un genitore con le
merende, si finiva tutto in due minuti e si ricominciava a
ballare.
Non conoscevamo il genere femminile, erano approcci
sempre impacciati, goffi e molto spesso impropri. Io
certamente ero il più impreparato, il mio modo di
comunicare era esuberante, vivace, spesso fuori luogo,
eccellevo in tutto ciò che alle ragazze di quell’età non
piaceva. Parlavo a voce alta, con espressioni rozze e spesso
sgraziate, non ero capace di comunicare o mostrare
sentimenti od emozioni, ero saputello senza motivo e
totalmente ignoravo le attese delle mie amiche. Per quanto
riguarda il livello psicologico ero molto infantile e, cosa per
loro imperdonabile, inesperto. Per darmi un tono, inoltre,
fumavo. Ero tutto quello che le ragazze evitano.
Da pochi mesi avevo dismesso i pantaloni alla zuava ricavati
da vestiti di parenti più piccoli di me, ero vestito in modo
decente, ma non alla moda, leggevo tanti libri, ma che
interessavano una esigua minoranza di amici, avevo
cominciato ad incassare i primi insuccessi scolastici, il mio
mondo si era costruito in ambienti restrittivi e poco moderni,
ero abituato a pensare, ma non a comunicare.
Anche Gigi veniva da un mondo piccolo, ma diverso dal mio
e, in apparenza, pieno di certezze.

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Frequentavamo scuole diverse, ma ci incontravamo da


PINO, dove lui passava tante mattine dopo avere fatto
fughino.
Mi ricordo che ogni tanto, per fargli uno scherzo, qualcuno
gridava: “La Bernardi!”, e lui correva con altri due o tre a
nascondersi al bagno.
Quello era infatti il cognome di una sua professoressa che,
abitando dopo la porta, passava, per andare al Galvani e per
tornare, davanti al Bar.
Io frequentavo il liceo Malpighi, in Corte Galluzzi, ed
appena uscivo non andavo a casa, ma da Pino a salutare gli
amici, fare quattro chiacchiere ed andare lentamente verso
casa. Eravamo due buoni camminatori, prima, parlando,
andavamo a casa sua, arrivati davanti a casa lui diceva: “Non
ho fame, ti accompagno a casa”. A volte, a furia di
camminare e parlare arrivavamo a casa alle tre. Anche lui
fumava, se ricordo bene, senza filtro, a volte Nazionali, a
volte sigarette inglesi.
Era fantastico avere trovato una interfaccia che attingeva, per
ogni mia domanda, risposte da un universo, il suo, che ne era
pieno, perfetto e semplice. Il mio era ingarbugliato,
complesso ed irrisolvibile, una matassa senza bandolo, non
solo non vedevo un mio futuro, ma leggevo male il passato e
mi sentivo scomodo al presente. Lui, orfano di padre, viveva
con una madre permissiva e tre sorelle che lo trattavano
come un principe. Aveva semplificato al massimo la sua
esistenza, non studiava mai, per non prendere brutti voti non
andava a scuola, faceva tutto il giorno ciò che voleva, ma la
cosa più importante è che non aveva controlli familiari né
crisi di coscienza. Era il mio amico ideale. In primavera si
trasferiva dal centro città ad una villa in campagna, a
Crespellano, che, nelle domeniche di fine scuola e giugno,
diventava un centro di ritrovo giovanile, grazie alla sua
ospitalità senza limiti. Io ero l’unico senza motorino, andavo
pertanto con chiunque avesse un posto libero. Naturalmente i

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posti liberi erano quelli che le ragazze rifiutavano, perché


non volevano andare con degli spericolati. Io, non
possedendo alcun mezzo per muovermi, da incosciente
spericolato, andavo con quelli più a rischio, con cui mi
sentivo molto a mio agio.
Alla fine del primo anno di amicizia, lui fu bocciato a giugno
ed io andai ad ottobre con due materie. Durante i primi
giorni di vacanza feci un incidente in moto e mi inzuccai con
un ragazzo che andò in prognosi riservata. Io tornai a casa a
piedi, grazie alla mia testa dura, ma il giorno dopo avevo un
occhio nero tumefatto che mi portai in giro per tutta estate.

50. Il Motom 48, uno dei preferiti della mia generazione.


I motorini fino a 50 cc di cilindrata potevano essere guidati a
15 anni, il Motom 48 era uno dei più popolari, ma aveva un
portapacchi posteriore, mentre il Motom 51 era catalogato
moto e consentiva un passeggero. Intorno a Bologna
esistevano tante fabbrichette che producevano motorini a
miscela. Maserati, MG, Cimatti, Morini, anche Guzzi e
Ducati, trascinate dalla domanda produssero motorini fino a
50cc a quattro tempi.
Il Rospo Maserati aveva appena battuto il record del mondo
di velocità, lo avevano Frabboni e De Faveri. Con Claudio

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tante volte, in due, appiattiti sul sellino abbiamo superato i


cento all’ora andando verso Crespellano.
Nel ’61 uscì la Lambretta 125, che ebbe un successo tra tutti
i sedicenni, in quanto permetteva di caricare comodamente
una persona e rubò grande mercato alla vespa GS 150 che
permetteva il trasporto di avvenenti ragazzine con foulard.
Questi mezzi rappresentarono il sogno dei giovani di una
epoca.

51. Il Rospo Maserati


Un giorno si presentarono da Pino anche Maurizio Marsilli e
Riccardo Sassoli con un mezzo a due ruote che avrebbe in
futuro segnato una epoca, il Monopattino.
Gigi, con la sua allegria e la sua gioia di vivere rappresentò,
per me, una nuova finestra sul mondo ed una prima
alternativa ad un mondo che era fatto solo di cose che si
dovevano fare e proibizioni assolute. Molti anni dopo capii
che tante cose, che reputavo vere e mi aveva raccontate,
erano pure balle che io mi ero bevute candidamente. Oggi so
anche che tante illusioni assorbite dai suoi racconti e fatte

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mie, erano bias positivi che mi scossero dalla mia vita


monotona. Illudersi è facile, a quell’età, perché si ha bisogno
di credere che quello che si desidera possa divenire realtà.
Forse per i suoi racconti surreali e fiabeschi di vita sperata, o
per gli incidenti in motorino, o per la vicinanza con Claudio,
che a fantasia non scherzava, iniziai la adolescenza chiuso e
pensoso e la finii con una zucca piena di sogni e di gioia. Lo
ho incontrato, poi, con minore frequenza, anche se con
eguale piacere, ed ho notato che non aveva dismesso ancora
il suo Loden verde, caro Gigi.
Claudio.
Con Claudio ci siamo frequentati per tutta la sua breve vita.
Credere all’incredibile, per tutta la mia generazione è stata
una regola, oltre che un modo per sognare. Non tutti sono
riusciti a fare i passi successivi, e sono ritornati in una realtà
immota, incapaci di volare. Pochi hanno volato tutta la vita,
credo, ma non ho elementi certi per confermarlo, qualcuno,
come me e con me è rimasto a mezza strada, come un
pennuto da cortile, facendo voletti goffi, senza intenzione di
alzarsi, ma per trovare una posizione più comoda, un punto
più elevato dove sonnecchiare a proprio agio. Io ho passato
gran parte della mia vita in questa aia, ed un giorno mi sono
accorto che le motivazioni a restare erano morte tutte, e con
loro i miei migliori amici, quelli con cui avevo passato una
stagione esaltante, indimenticabile e felice. Non me la sono
sentita di mettere la testa sotto l’ala e dormire, me ne sono
andato. Scrivere di loro sarebbe irriverente quanto non
ricordarli, perché sono stati e sono la parte della mia vita che
ricordo più volentieri e perché molti dei fatti accadutimi con
loro, cui darei grande importanza, sono normali ed
insignificanti, in valore assoluto, ma sono percorsi attraverso
cui è passata tutta la nostra generazione, ed erano pietre
miliari della nostra crescita e dei nostri sogni, in una epoca
felice in cui avevamo il mondo tra le mani e ci sembrava
essere ad un passo dal cambiarlo.

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Qualcuno mi ha spiegato, un giorno, che nella vita è più


facile l’incontro tra due persone quando i loro inconsci
combaciano. Credo questo sia il mio caso con Claudio.
“Sto studiando una formula universale, che le racchiuda
tutte, sia a livello matematico che fisico, che non abbia nulla
di teorico da capire, se non che, mettendo i valori ai
parametri ti esca un risultato inequivocabile, qualche cosa
che possa finalmente mettere fine a questi esercizi strazianti
che ci obbligano a passare le sere, tutte le sere, qui in casa a
studiare. Questo studio mi stanca molto ed ora ho bisogno di
svagarmi un poco, andiamo a sentire un po’ di musica”.
“Quando sarai completamente pazzo questa formula ti
sembrerà di averla già scritta da ragazzo, e spiegherai alla
gente che per molto meno, ad altri, hanno dato un premio
Nobel, mentre a te niente. Abbiamo l’esame fra una
settimana ed io devo ancora ripassare tre quarti del
programma, tu vai ad ascoltare la musica al Flamengo, ed io
studio”.
Gli accordi furono rispettati, io diedi l’esame di analisi, e lui
fu ricoverato in clinica psichiatrica. Sparì qualche mese dalla
circolazione e quando ritornò era ingrassato di dieci chili.
Non smettemmo mai di essere amici, continuai anche, finché
possibile, a studiare con lui.
Con lui sembravano semplici tutte le cose che a chiunque
altro sembravano impossibili o improbabili, perché la sua
normalità si svolgeva e declinava in un mondo fantastico. Un
giorno mi confessò di avere accettato un ruolo importante
nei servizi segreti e di essere in continuo panico per la sua
incolumità, non poteva dirmi di più, ma io avrei potuto
capire, era il fatto più importante di quegli anni e avrebbe
potuto avere un peso decisivo se proiettato su uno scenario
internazionale.
Collegai questo fatto con gli ultimi numeri di Segretissimo,
di cui era lettore assiduo. Eravamo agli esordi dei film di
James Bond. Dopo qualche tempo, dopo avere verificato che

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non rivelavo le confidenze, cominciò a raccontarmi fatti


pieni di pause e sottintesi dove i nomi ed i luoghi li dovevo
dire io, sembrava un gioco da Settimana Enigmistica.
Ogni volta che ci vedevamo, anche a distanza di mesi,
ricominciava da dove ci eravamo fermati l’ultima volta,
mostrando drammaticità e attenzione per quella storia, come
se davvero la stesse vivendo, credo proprio che abbia vissuto
più queste che la sua vita. Se gli dicevo parliamo d’altro
rientrava nella normalità in un secondo ed era vivace,
simpatico, divertente e grande anfitrione, il migliore amico.
Con slancio mi ascoltava parlare dei miei sogni futuri e li
rilanciava oltre la fantasia.
Studiava spesso con un siriano che, in seguito, mi diede
lezioni di arabo ed aveva la stessa sua negazione per le
materie scientifiche, altro che inventare la matematica, come
mi raccontava lui dandomi lezioni di lingua araba.
Quando gli chiedevo perché non cambiasse compagno di
studi mi faceva capire che questa persona lo avvantaggiava
sulle indagini in corso su un complotto internazionale in
Algeria, anche se in scienza delle costruzioni non era un gran
che.
Credo si sia iscritto all’Università fino all’ultimo, per
tantissimi anni, per riconoscenza nei confronti del padre che,
su questo argomento, non aveva mai permesso di deviare.
Lui era geometra, il nonno capomastro, e quindi.... In cambio
gli concedeva una vita agiata.
Con lui ho passato alcune tra le serate più belle della mia
vita, mai uguali e sempre strampalate. Sapevamo solo che
saremmo usciti, non dove saremmo andati o cosa avremmo
fatto, senza programmi, saremmo stati noi, forse altri e forse
avremmo fatto qualcosa, forse no; la serata si trasformava in
sogno e delirio con la semplice nostra presenza.
Sempre, intorno a noi, si sono create situazioni insolite che
mai ci hanno permesso di arrivare a casa prima dell’alba,
qualche volta parlando col metronotte, qualche volta

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andando a svegliare qualche amica, qualche notte scrivendo


lettere al figlio militare del barman del night che, in un raro
momento di lucido e sconsolato abbandono, ci aveva
confessato di essere analfabeta, qualche volta,
semplicemente, passavamo la notte a sognare ascoltando
musica e guardando la luna grande, finché non chiudeva
l’ultimo locale; certe sere non aveva grande facilità
nell’esprimersi, ma mostrava gioia per la mia presenza e la
musica, e tanto ci bastava.
Il suo locale preferito, ai piedi di casa sua era il Flamengo.
Sapeva amare e tante volte mi commuoveva per la capacità
di trovare poesia in un gesto, in uno sguardo femminile od in
un semplice racconto di un fatto qualsiasi.
Ancora adesso, ripensandoci, non so se sia stato più felice io,
con la normalità dei miei desideri o lui, entrando e uscendo
dalla logica comune, isolato e confinato, a volte, in una
solitudine delirante, ma piena di avventure.
Non sono andato al suo funerale, per un impegno di lavoro,
ma il giorno prima, accompagnato da sua moglie, ho passato
quasi una ora, solo con lui, nella cappella dell’obitorio, e,
non sapendo pregare, ho ripescato tanti ricordi di vita in
comune. Ad un certo momento, mi sono trovato a parlargli e
ridere, pensando alla volta che, all’esame di fisica, iniziò
l’esercizio alla lavagna dicendo: “Noi ci avviciniamo a
questo esercizio seguendo il metodo euristico” il silenzio
prese tutta l’aula per questo incipit accademico, poi, per
quasi mezz’ora, rimase fisso in perfetto silenzio, toccandosi
ogni tanto il naso, come se stesse per iniziare a parlare, ed
ammiccando. Fu gigantesco nella sua pantomima dello
scienziato. Fu il più lungo periodo di silenzio concesso
dall’istituto di fisica ad un alunno ammutolito; all’assistente,
che gli restituiva il libretto, disse: “Peccato, ero partito così
bene”. Quando tornò ai banchi lo abbracciammo e ci
complimentammo per il record assoluto, tra di noi c’erano
studenti che al massimo avevano resistito pochi minuti, lui

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era da Guinness. “Ho sbagliato l’approccio, disse, volevo


essere troppo brillante, se ripetessi l’esame ora andrebbe
sicuramente bene. E siccome, nel bene o nel male, l’esame lo
ho preparato e domani è un altro giorno, andiamo a
festeggiare”.
Ridere in una cappella mortuaria, cose da pazzi, ma attenti, il
pazzo era lui, ma ero io a ridere, si, ma lui era lo
sciroccato.........la scienza psichiatrica, per darsi contegno e
sopravvivere, ha la necessità di forgiare nomi di sindromi e
malattie tristemente famose, che per lui non andrebbero
applicate.
Se avesse potuto parlare, dopo la mia risata, mi avrebbe
detto: “Allora hai capito tutto, vedi, dopo il caso Moro e la
setta dei Lupi Grigi ho accumulato troppi nemici, l’unico
modo di sparire, per un po’, era questo, ma a te non la si fa,
tu hai capito tutto, appena posso ti chiamo io, così avrò più
tempo per mettere a punto quella formula e mi dirai cosa ne
pensi”.
Si, io ho capito, ti sei preso un intervallo nel tuo tempo. Io ho
impiegato quaranta anni a capire la tua formula, ed ora non
ho nessuno a cui raccontarla, perché il tuo essere presente ne
era uno dei parametri. Grazie di avere tentato di spiegarmela,
ma per me, allora, era impossibile capirla. Un amico a volte
è uno specchio dinamico, che riproietta l’immagine
trasformata secondo le sue prospettive spaziali e temporali, e
ti permette di vederti da altre posizioni e secondo altri valori
che non ti erano usuali.
Il giorno del giudizio sapremo anche se sei stato ottimo
cristiano e buon padre, io ora posso ricordarti semplicemente
come un grande amico con cui non posso più passare
momenti di svago creativo e che mi ha regalato una geniale
formula universale, spezzata nel tempo, che da solo non
posso usare.
Grazie, riposa in pace, quando sarai pronto a rientrare sulla
scena, telefonami, ricominceremo da quella formula.

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La memoria ha uno strano rapporto con la nostra vita, ci


segue ed alimenta perennemente, con risorse basiche
elementari per viverla, è quella che ci permette di essere e
costruire il nostro presente, anche se ci sembra che non
influisca sul nostro futuro.
Io la immagino come una fortezza piena di stanze e di
passaggi, ognuna piena di avvenimenti ed argomenti della
propria vita, costruita ed allargata su una pianta base fino
alle dimensioni più ridotte, adatte ad un anziano. Sono
visibili ancora le prime stanze ed esistono segrete cantine di
ricordi rimossi che si dice arrivino fino a grande profondità,
ma occorre, per visitarle, che qualcuno ti accompagni.
Nella stanza degli amici, oggi, sono tanti quelli mancati
durante il cammino percorso sino qui.
È bastato aprire la porta della stanza degli amici che un
grande numero di essi si è affollato ai bordi del tavolo dove
lavoro. Non sono loro che spingono per avvicinarmi, non mi
hanno riconosciuto, ma sono io che li attiro, perché dalla mia
memoria escono materializzati ricordi a loro noti, che li
attirano come, in estate, le lampade da giardino fanno con le
falene. Credo molte di esse siano quasi cieche, come i morti,
trainati da invisibili fili da quello che li attraeva in vita, senza
potere rivivere le sensazioni di allora. Per questo non mi
riconoscono, oltre che perché sono cambiato. Io non li vedo,
ma li riconosco per quello che vanno a toccare e spostano, e
per le vibrazioni che assumono certi oggetti una volta cari a
entrambi. Del resto, per la vita che ho condotto, casa mia è
piena di cose che non ho voluto gettare solo perché
sottendevano questo o quel ricordo, altrimenti sarebbe quasi
vuota.
La camera degli amici è un salone, il più grande della mia
fortezza, quello dove si sono celebrati tutti gli eventi, belli o
brutti che fossero, dove percepisco la mappatura di tutta la
sua costruzione nelle varie fasi del tempo. Averne ricordati
alcuni mi obbliga a ricordarne altri, non per creare una

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gerarchia, ma per dividerli in gruppi. Un gruppo è di ricordo,


cioè passa per la seconda volta attraverso il cuore, l’altro
gruppo è di memoria, si smemorizza, non si scorda, esce
dalla memoria o dalla mente, ma non è mai passato dal
cuore, come ciò che si scorda. Perdere la memoria non è solo
dimenticare, perdita di neuroni, ma è anche scordare, perdere
il flusso del cuore, il tracciato della storia del proprio cuore,
la vera vita.
Guido.
Il più antico che ricordo è Guido Alessandretti, biondo, di
media altezza, proveniente da una famiglia nobile, credo in
assoluto la persona più disponibile e gentile di cui mi ricordi
in quegli anni. Me lo presentò Gigi Nanni da PINO e, fin dal
primo momento, mi sembrò diverso dagli altri coetanei. Per
la nostra generazione l’adolescenza fu una rivoluzione di
abitudini, la fine degli anni ’50 introdussero nel parlare
comune frasi gergali popolane del tipo: “non mi rompere…,
ti tira il …, mi hai rotto i…”, tanto che, per comunicare tra
noi, non usavamo più di 300 parole. Tra queste erano
comprese tutti gli organi genitali maschili e femminili in tutti
gli idiomi dialettali più il culo, tutti i verbi che si riferissero
ad accoppiamenti sessuali, ogni argomento fecale ed ogni
tipo di offesa infamante come aggettivo. Tolte queste,
restavano, nel gruppo delle trecento, solo le coniugazioni dei
verbi ausiliari, qualche santo per le bestemmie, i pronomi
personali e Dio. Questo era il nostro lessico. Guido (Che noi
chiamavamo Il Conte) si esprimeva in altri idiomi. Non
ricordo di avergli mai sentito pronunciare, quando fosse
oltremodo arrabbiato, frasi diverse dal tipo: “Accidenti,
accidentaccio, perbacco”, il massimo della sua offesa era
“Sciocchino, imprudente, salame”. Malgrado ciò, glie ne
capitavano di tutti i colori.
Ricordo che, avendo già patente ed automobile, chiunque
avesse il foglio rosa, gli chiedeva di far pratica di guida, e
lui, gentilmente, si prestava a fare da navigatore.

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Anche Tufo gli chiese di guidare. Partiti in quattro, in una


curva a destra, strinse due motociclisti che rischiarono di
cadere a lato della strada. Questi lo rincorsero al semaforo
seguente e cominciarono ad inveire al Conte che era seduto
sulla destra della sua cinquecento, non scorgendo altri che
lui, da sopra la moto. Tufo, naturalmente, non taceva e
rispondeva a modo suo: “Sfigati, non rompetemi i coglioni,
state più attenti a dove andate, e se non sapete guidare state a
casa”.
Iniziò una serie di offese fittissime in una lingua sconosciuta
al Conte, che, pur defilandosi dalla direzione del duello
verbale, lo riceveva in pieno da due parti. Tutto sfociò in una
sfida.
Tufo partì al verde ed i motociclisti, infuriati, rifecero la
stessa scena, bussando, con molta più forza, sul vetro e sulla
capote della cinquecento del povero Guido.
I due, compressi dietro, intervennero nella diatriba
accettando la sfida dei motociclisti: “Scendete, se avete il
coraggio”
“Facci scendere, Conte che li facciamo neri”
Il Conte aprì la portiera e scese per permettere ai due dietro
di uscire, nello stesso istante il semaforo diventò verde, la
colonna di macchine dietro a Tufo cominciò a suonare, Tufo
capì di stare fermando il traffico e partì, superando
l’incrocio. Il Conte restò solo di fronte a questi due
energumeni inferociti che lo apostrofarono orrendamente
“Certo che è un Conte, guarda che faccia di culo!”
Gli amici fermarono la macchina dopo l’incrocio ed
accorsero, ma arrivarono tardi per acchiapparli, la moto era
già ripartita, Tufo riuscì a gridare loro ancora qualche
nefandezza, poi aiutarono il Conte a rialzarsi da terra.
L’arbitro lo avrebbe contato fino ad otto.
“Ma tu cosa gli hai detto, per farli inferocire tanto?” “Io,
quando mi hanno offeso ho detto: “Sì, ma i miei antenati
frustavano i vostri, che sicuramente erano degli schiavi”. Il

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Conte fu acclamato come martire, eroe e grande tribuno,


grande combattente contro la plebe ed i servi della gleba
dagli amici e, massaggiandosi la mascella si risedette
tristemente sul suo sedile di navigatore.
Chiunque potrebbe pensare questo sia stato l’ultimo giorno
di tutoria di guida, neanche per sogno, la sua disponibilità
continuò esattamente uguale a prima, ma con meno massaggi
alla mascella. La strada, comunque, non divenne la sua
migliore arena di esibizione.
Verso la fine anni ’50, quando cominciò ad andare di moda il
fumo di Londra anche per i ragazzi, sia come abito intero che
come pantalone per spezzati, lui indossò una specie di divisa
con pantalone nero fumo e giacca blu che portò quattro
stagioni all’anno giorno e notte. Mi ricordo un giorno un
amico gli chiese se avesse anche un pigiama fatto così, lui
con la sua calma olimpica rispose, senza capire l’ironia: “No,
la giacca da camera sì”. Non lo dissi, ma pensai che ne
avesse anche una da mettere sotto la doccia. In verità, devo
confessare che i primi tempi gli feci degli sfottò, ma quando
capii che lui nemmeno se ne accorgeva e rispondeva sempre
in modo trasparente, smisi subito, non c’era più gusto. Una
volta lo portammo dal barbiere da cui andavamo noi, si
chiamava Tonino, stava in via Saragozza, era considerato il
migliore per i giovani. Lo avevamo istruito e, quando arrivò
gli fece una scenata: “Dio mio signor Conte, ma lei questi
capelli come li ha trattati? Vuole restare calvo? Sono senza
forza, non hanno sostegno, occorre rinforzarli, sono sfibrati,
non hanno consistenza, le faccio subito una lozione, con una
fibra così debole potrebbe essere assalito dai pidocchi ed
allora ne avrebbe per mesi con le cure, e poi non vede quanta
forfora, con queste giacche scure si nota troppo, che disastro,
un vero cimitero”. Rimase dal parrucchiere più di due ore,
mentre noi ridevamo per i suoi silenzi. Uscì leccato e
cosparso di essenze pestilenziali come un barbone che vada a
nozze. Alla fine, tutti notammo come avesse una onda nei

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capelli con cui il suo aspetto perdeva monotonia. Gli


confessammo lo scherzo della messa in scena, lui
semplicemente disse: “Mi sembrava leggermente esagerato,
ma non ho voluto dire niente lo stesso, volevo valutare bene
la situazione”. Chiunque di noi avrebbe detto: “Stronzo lui,
ma peggio voi”. Mi disse poi un amico che era tornato da
Tonino, il quale divenne il suo barbiere di fiducia, ma la
seconda volta gli disse: “Sono tornato, ma vorrei fare più in
fretta della volta scorsa, ho un appuntamento fra una ora”.
Quando cercavamo di infilarci, non invitati, a festine di
compleanno di qualche ragazza di buona famiglia,
mandavamo sempre avanti lui. Si presentava col suo aplomb
universale, sapeva presentarsi alla famiglia ed a volte si
esibiva in qualche baciamano alle madri. Più volte venne
messo alla porta insieme a noi, non invitati né desiderati, non
certo per colpa sua, ma accettava, per spirito di gruppo, le
reprimende che venivano fatte sempre a lui, perché le
assorbiva senza battere ciglio, scusandosi. Noi, appena fuori
gridavamo: “Dovevi dirgli che i tuoi antenati frustavano i
suoi a quello screanzato plebeo” “Lasciamo stare, ragazzi,
dove andiamo?”
Lo persi di vista presto e quando mi iscrissi all’Università,
smisi di frequentarlo.
Resta, nel salone degli amici della mia fortezza, uno degli
specchi che rifletteva con più trasparenza la mia immagine di
ritorno, senza trucchi prospettici, tanto che, per questa
chiarezza di risposta, potei distinguere, riflesso, dietro le mie
spalle, un mondo che non avrei mai conosciuto, senza lui, in
nessun altro modo, perché gli avevo già girato le spalle
prima di conoscerlo, un mondo dove si parlava la sua lingua
a noi ignota.
Si sposò molto giovane ed andò a vivere in Liguria, ogni
tanto ricevevo di lui informazioni di seconda mano, non
certe. Spero il destino lo abbia trattato come meritava, con la
stessa mano lieve con cui lui trattava gli amici. Ancora oggi,

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avendo imparato da lui le parole di una lingua nuova, del suo


mondo, la uso e la insegno ai miei nipoti, dopo averla parlata
con mia figlia.
Mi dispiace non averglielo mai detto, anche la sua lingua, ho
scoperto, era universale, come la sua divisa.
Ho ancora alcuni amici che sento di dovere ricordare. Nel
salone occupano la specchiera più grande, quella che riflette
più luce e permette più campo visivo, con loro ho condiviso
tutto il periodo dei tornei di Gaibola e molto di più.
Tufo.
Tufo era più conosciuto con il soprannome che col vero
nome.
Lo conoscevo da sempre, avevo undici anni e ci trovammo a
Riccione in via Ugo Bassi, entrambi in vacanza, in una
strada che era chiusa dalla ferrovia e diventò il nostro
giardino.
Tutti i giorni, nel primo pomeriggio, nella controra, quando
tutti vogliono dormire, ci vedevamo in strada e
organizzavamo qualcosa, scambio giornalini, partite di
calcetto, battaglia con le pistole ad acqua. Lui era orfano di
padre, aveva libertà infinita, io ero molto controllato dai
genitori, in città non potevo uscire spesso. Ci vedemmo con
continuità dopo la quarta ginnasio, al Minghetti, perché ci
scambiammo classe a vicenda, ognuno pensava di avere dato
una fregatura all’altro, ma a marzo cambiammo scuola
entrambi. Da allora ci siamo incontrati ovunque. Aveva un
approccio con chiunque molto facile, non aveva difficoltà
nemmeno con le persone di età maggiore. Voleva sempre
sapere cosa facessero tutti gli amici e tutte le compagnie.
Quando voleva una informazione era asfissiante, telefonava
anche dieci volte in un giorno.
Quando usciva con una ragazza era sospettoso e circospetto.
Era difficilissimo incontrarlo nei locali più frequentati, era
possibile, per non essere visto, che andasse a cena a Modena
o Firenze. Amava gli sport e faceva vita sana, non ha mai

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fumato una sigaretta, qualche volta lo ho visto allegro, ma


per il vino, non beveva superalcolici.
Aveva una grande resistenza nella corsa ed una tendenza ad
ingrassare perché amava la buona tavola. Detestava studiare,
ma quando cominciò a lavorare si impegnò al massimo.
Attento col denaro ma generosissimo con gli amici, aveva
una propria rendita che amministrava con attenzione.
Non giocò i tornei con noi perché ci giudicò una squadra
materasso. Non aveva torto, le perdemmo sempre tutte, ma ci
divertivamo col solo stare in compagnia.
Quando organizzavamo qualcosa di divertente arrivava
sempre, come se lo sapesse prima. Per tutti gli anni
dell’università tutte le notti è passato sotto casa mia, dopo
mezzanotte a chiedere le novità, spesso aspettavamo sotto
casa che arrivassero gli altri. Dopo il cinema, accompagnata
a casa la ragazza di turno, quasi tutti passavano. Quando la
luce fosse stata spenta, ero già uscito.
Un anno l’Aeroclub di Bologna lanciò, per promozione, un
corso gratuito di Volo a vela. L’unico requisito per
frequentarlo era l’iscrizione all’università ed il brevetto di
paracadutista.
Un gruppo Paracadutista Bolognese Amatoriale teneva corsi
serali al Palazzo dello Sport con degli istruttori di livello
nazionale e pertanto Tufo, Alberto Olivieri, che già aveva un
brevetto di volo, ed io ci iscrivemmo al corso. Lì
incontrammo anche Bruno Boriani (il burazzo) e
cominciammo a frequentare con assiduità.
Gli istruttori erano molto seri ed appassionati, uno era
campione italiano di lancio e ci prese in carico quando si
trattò di insegnarci a chiudere, secondo le migliori
metodologie, il paracadute. Il corso stava finendo e due
domeniche prima del primo lancio si svolse una gara di
caduta libera vicino a Bologna. Noi eravamo invitati ad
andare a vedere la manifestazione per familiarizzare con
l’ambiente. Non andammo, ma il nostro istruttore, lanciatosi

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in discesa libera perse la vita. Noi tre fuggimmo a gambe


levate, ma Bruno fece i suoi lanci e prese il brevetto
malgrado non gli servisse per il corso di Volo a vela. Non ne
parlammo mai più.
Non ho ricordi particolari con Tufo, ci vedevamo tutti i
giorni, era una presenza costante, sia per me che per tanti
altri amici, i suoi percorsi erano instancabili: Pino, Il
Pescatore, Zanarini, Il Bar de ‘Toschi, la Capannina, Picnic,
Panoramica, Oliviero, Whisky a gogò, Flamengo, i Gaetano,
Cesari, Osteria del Moretto, Ideal Bar, Portichetto, Viscardi,
Roxy Bar. Chi si fosse piazzato in uno di questi luoghi lo
avrebbe visto arrivare almeno una volta ogni tre giorni.
Quando mi laureai non accesi più la luce, la sera, della
stanza dove ero solito studiare e lui sentenziò: “Quella luce
spenta ha chiuso un’epoca”.
Era vero, tutti eravamo laureati, qualche amico aveva già dei
figli, molti lavoravano, le responsabilità cominciavano ad
aumentare, non si vedeva più l’alba tutte le mattine ed i
tornei di Gaibola erano finiti.
Dopo la fine del liceo, per un paio di anni giocavamo di
tanto in tanto alla Salus organizzando partite tra noi o contro
gruppi di altri Bar. Di solito queste partite erano organizzate
da frequentatori di entrambi i Bar o amici comuni che si
incontravano in zona neutra (Pavaglione, Università, qualche
ristorante). Un incontro che ricorreva spesso era Bar
Panoramica contro Bar Margherita, la partita di solito veniva
organizzata al ristorante Cesari, a notte inoltrata, e ci
mettevamo d’accordo per la sfida entro una settimana.
Il Bar Panoramica aveva tra i suoi frequentatori assidui
Giovanni (il Nero) ed Enrico Bottari (Pippo). Giovanni,
ottimo giocatore, reclutava dentro il bar, ed Enrico, nostro
amico e compagno di studi, reclutava tra i compagni di studi
e amici.
Ad una di queste partecipai pure io.

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Le squadre si presentarono in campo con molto slancio ma


scarse capacità. Riuscimmo a vincere di misura grazie alla
presenza in campo da parte loro di un paio di giocatori
scadenti e da noi risultò eccellente Giovanni Bottari. Per il
resto schieravamo Cicci Farolfi, Mauro Casali (detto
Casalone gamba o pallone) Bottari, Tarabusi, Basile,
Giovannetti e mi sembra Enrico Becca in porta. Ricordo uno
scontro Tobia Bottari terminato nella polvere e con rischio di
dovere correre al Rizzoli, due o tre interventi di Cicci e
Casali da trauma ed alcuni buchi miei a porta vuota. Nulla di
rotto, ma il pericolo scampato era un ottimo motivo per una
allegra tavolata. La loro squadra annotava Raul Casali e
Tobia come personaggi di spicco e Roberto Calzolari sugli
spalti in qualità di unico tifoso. Noi avevamo sugli spalti
Filiberto Tovoli, nella sua doppia funzione di tifoso e
massaggiatore.
Tobia.
Negli spogliatoi, a fine partita, andammo da Tobia a dirgli
che aveva esagerato con Pippo, e lui rispose: “Dalle prime
entrate che mi aveva fatto avevo capito che apprezza il gioco
maschio, ed allora lo ho accontentato”. Vedevo Tobia da
anni, ma non lo conoscevo bene.
Col tempo si rivelò un personaggio prodigioso, caposaldo di
prima grandezza per ricordare un’epoca, insieme a tanti altri
che ricorderò in seguito.
Quasi tutte le sere, dopo la mezzanotte, arrivava da Cesari
con in mano una copia di Stadio, di cui leggeva i titoli
principali e consegnava a Paolone.
Con noi, più giovani, si comportava da “Tutor”, ed alla
maliziosa domanda: “Da dove arrivi, Tobia”. La consueta
risposta era: “Ragazzi, se volete essere felici nella vita ci
sono solo tre regole: buchen, capuzen e Stadio. Con queste
tre regole non si sbaglia mai”. “E tu da dove arrivi?”. Con un
gran sorriso malizioso rispondeva: “Vengo dal bere un
cappuccino e dal comprare Stadio in stazione”.

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In quegli anni Tobia era antennista, montava le antenne della


televisione sui tetti delle case, ma era anche un tuttofare con
grande capacità.
Un amico della compagnia, di cognome Montanari,
rappresentante di commercio, ebbe un problema con una
gamba e dovette restare a letto alcuni mesi. Avendo paura di
perdere parte della sua clientela, in un periodo di piena
stagione, chiese a Tobia se volesse aiutarlo a visitare dei
clienti. Si misero d’accordo su come ricompensarlo e
periodicamente Tobia lo informava sull’andamento delle
vendite. Dopo qualche mese, Montanari, ripresosi dai suoi
problemi, rientrò in compagnia e Tobia riprese a fare
l’antennista. Un amico una sera gli chiese se avesse perso
molti clienti in quel lungo periodo, la sua risposta fu: “Mi ha
aumentato il giro d’affari, e adesso, quando vado dai clienti,
mi chiedono dove sia finito e perché non va più. Dovrò
imparare a fare l’antennista”.
Pupi Avati girò a Bologna, all’inizio della carriera di regista,
alcuni film. Uno, in particolare, Balsamus, l’uomo di Satana,
fu girato con i criteri del film amatoriale, tutto fatto in casa.
Il soggetto, gli attori, i costumi, quasi tutto a basso costo,
tutte le scene ed i costumi trovati in provincia, non poteva
mancare, come direttore di produzione e rapporti col
personale Tobia.
Non si riusciva a girare una scena in cui la attrice principale
doveva, in una aula di anatomia, immergersi nuda in una
tinozza al centro della sala. Ogni volta che arrivava, era
impossibile partire col ciak, perché tutte le comparse, in abiti
del ‘600, con parrucche e capelli alla Rembrandt, si alzavano
in piedi per vederla nuda ed il regista era giunto, frustrato, al
termine della giornata di lavoro, dopo avere spiegato più
volte che in quella scena dovevano restare composti e seduti,
con grande gentilezza. Tobia capì il problema e disse: “Qui
ci vuole qualcuno che parli chiaro, Pupi, se permetti ci penso
io”. Senza attendere risposta andò al centro della stanza e

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disse: “Ragazzi, ho un messaggio molto chiaro da


comunicarvi, da parte della Direzione: Al prem c’as leva in
pi, un chelz in dal cul e nianc onna lira”.
In pochi minuti girarono la scena. Il film terminò e fu un
grosso insuccesso economico, ma servì da apripista alla
brillante carriera di regista di Pupi Avati.
Negli anni Tobia è diventato una leggenda, agente di Lucio
Dalla, uomo d’affari, tremendo esperto di contratti anche
internazionali. Le sue origini sono quelle di due Master in
“Tuttologia” del Bar Margherita e di Cesari dopo avere fatto
parte di quella generazione che dal dopoguerra in avanti si
sono trovate in un mondo che offriva immense possibilità sia
di lavoro che di tempo libero.
Le sue frasi rimaste celebri sono:
“Ianich, un baluastro!”.
“Tobia, quella cravatta è di Schostal?” “No, è di seta”.
“La gente vogliono la figa”.
“Chi chiava sta chiavato”.
“I musicisti di oggi? Meno chitarre e più badili”.
“Aiò una gran buaza” Al medico di Lipari che gli chiedeva
cosa sentisse dopo uno svenimento.
“Quelle sono sperme che nascono solo nel meridione” Dopo
avere visto il giocatore italiano di colore Attruia.
“Scusa se non mi fermo, ma devo correre al capezzolo di
mio padre che è in ospedale”.
“Bisogna scaricare la cattiveria dal buco del piscio, sennò si
è anche nervosi”.
“Stefano Bonaga, ch’lè un comunesta, i l’an fat assessore
allo ski-lift del Comue di Cortina”.
“Ai al dag me un lavurir a cal comunesta di Stefano Bonaga:
al Mottagrill, dietro al tavulen cha ié in tal cesso a dmander
piscia o caga?”
“Montanari, prestum ban la to faza ca voi fer brotta figura”.
Udita da Cesari, quando Montanari entrava con
atteggiamento vittorioso accompagnando una donna.

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A Berlino, ad un cameriere italiano che gli aveva chiesto in


italiano cosa volesse mangiare disse: “Non parlo inglese”.
“Meglio un ignorante vivo che un laureato morto”.
A Paolo Cesari di ritorno dalla Germania dopo una
costosissima cura dimagrante: “Paolone, un péret, una
damigena con la zengia”.
“A io let totta not al liber del filosofo della sfiga: quel ch’al
scema Shopenatter”
“Me a no mega tolt una ciavé a naser”.
Parlando delle persone parte di un ricordo comune a tutti, di
quegli anni, dobbiamo ricordare:
Beppe Brilli.
Beppe per molti di noi ha rappresentato un riferimento, per
tanti anni, per passare una serata di svago.
Oggi esistono i social che creano modelli di omologazione
per settori di interesse, hanno diversi nomi, si definiscono:
influencer. Servono a dare indirizzi alla moda nel vestire,
nella musica, per lo spettacolo o per il comportamento, sono
le persone con cui qualsiasi giovane vorrebbe farsi un
“selfie” da mostrare agli amici e con cui vorrebbe avere un
rapporto previlegiato. Ai nostri tempi Beppe Brilli fu tutto
questo insieme, un riferimento comune a tutta una fascia
generazionale che attendeva segnali da lui per decidere come
passare la serata.
Lo conobbi giovanissimo, lui aveva già la vespa ed una
quantità grande di amici più vecchi di noi. Aveva già allora
la passione del canto, si portava a volte alle feste un
registratore Gelosi con incisa qualche canzone che a lui
piacesse ed a richiesta di tutti le cantava sopra. Era un proto-
karaoke di quei tempi. Prediligeva il genere per quei tempi
super moderno: Celentano, Ferrer. Mi ricordo sue esibizioni
acclamatissime di “Non occupatemi il telefono” fatte a
centro sala, con mossa d’anca alla Elvis Presley. Aveva una
capacità rara ed innata di comunicare col prossimo sui punti
di viraggio della moda della sua epoca. In quegli anni, ad

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esempio, moriva il fascino per i cantanti come Nilla Pizzi o


Claudio Villa, ma non la canzone di tipo romantico, che
rinasceva con Peppino di Capri, Bruno Martino, Endrigo,
Donaggio, Paoli, Buongusto, Morandi e gli stessi Mina e
Celentano, oltre ai cantanti d’oltralpe, Aznavour, Adamo,
Brel, ebbene, lui diventò per tutti noi l’esegeta del nuovo.
Era lui, per noi, che sceglieva cosa ascoltare.
Sarebbe limitativo nei suoi confronti dire che questo
avveniva solo per la canzone, intorno a lui, gravitava tutto un
universo di rivoluzioni singolarmente effimere e modeste,
ma nel complesso, di quantità colossale. Credo a Bologna
Beppe abbia influito sull’ingresso della cultura Pop anche
per i suoi valori comportamentali, oltre che per la sua
presenza.
Io ricordo che la nostra compagnia di Riccione, fatta di
quindicenni, con pochi di noi che già avessero un motorino,
in bici, con Grazielle ed ogni altro mezzo, si spostava
all’Hockey Club a Misano dove lui ci allestiva un tavolo
gigante. Il clou della serata era un assolo di Batteria di Lele
Campo, in camicia e farfallino, con scrosci di applausi. Lui
fu l’unico che prestò attenzione ad una generazione giovane
emergente, negli altri locali si entrava in giacca e cravatta, al
Savioli, con Peppino di Capri, almeno mezza sala aveva il
black and white.
Posso testimoniare, ero in jeans e Lacoste, insieme al mio
migliore amico di allora, Claudio De Faveri, eravamo stati
invitati a fare due chiacchiere nel giardino dell’albergo
Savioli, da una nostra amica, conosciuta il pomeriggio con
un abbordaggio, ascoltammo il concerto sul dondolo
dell’Hotel da cui avevamo accesso alla pista da ballo.
Tutta la nostra compagnia era fuori, in una stradina sul retro
che ballava e cantava in mezzo alla strada, nessun altro
quindicenne era presente all’evento. Sentire in diretta “Voce
e notte” era elettrizzante, fu la canzone più gettonata di
quell’estate al Juke-box, oltre ai Platters.

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Mi ricordo la prima volta che Beppe salì sull’albero davanti


al Canasta per scommessa. A quel tempo, viale Dante e
Ceccarini, in quell’angolo, erano percorribili con le auto,
ebbene, il traffico si bloccò, non solo nell’angolo, in quasi
tutta Riccione, centinaia di persone a piedi si fermarono,
arrivarono vigili e carabinieri, Beppe finì sui giornali,
diventò la persona più importante del momento, un
riferimento per tutti ad una sola regola, il nuovo avanza. Fu
la più importante performance di un artista Pop a cui io abbia
assistito, per di più, fu una manifestazione istintiva e di puro
talento di improvvisazione, non cerebrale e studiata a
tavolino, perché Beppe, assorbendo il riflesso di interesse nei
suoi confronti da parte di un fiume di pubblico inatteso,
cominciò a saltellare di ramo in ramo agitando le braccia e
pigolando come un uccellino implume, rispondendo
fischiando anche all’ordine pubblico che gli intimava di
scendere in base a non si sa quale regola. Quando, dopo
tanto, scese fu accolto da un boato di applausi che, ripeto,
celebrarono il più alto livello di performance Pop di quegli
anni sulla Riviera.
Da quel momento Beppe fu famoso, un riferimento per una
Romagna trasgressiva e godereccia, una indicazione certa al
nuovo Doc che avanzava, era diventato un influencer pima
che questa funzione esistesse. Lui si definiva un P.R., ma per
la nostra generazione fu molto di più, fu la guida più
evidente attraverso la terra inesplorata del nuovo mondo che,
qui da noi, veniva da fuori e, da soli, non avremmo
conosciuto. Con la sua intuizione istintiva capì presto che i
segni di distinzione classici, la cravatta firmata, il foulard,
l’orologio di lusso, il vestito di marca, sarebbero defunti a
breve come segni di identificazione in un universo che
avanzava in jeans e T-Shirt. Cominciò allora, aiutato dalle
conoscenze professionali di famiglia, a vendere orologi a
basso costo e forte impatto agli amici, ma lo stesso successo

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avrebbe avuto con occhiali da sole o qualsiasi altro gadget


effimero ma di avanguardia avanzata.
Il successo di quegli anni fu eccezionale, lui arrivò con venti
anni di anticipo, rispetto ai grandi Marchi, a vendere orologi
per un corredo accessorio ma importante per l’epoca. Il Brilli
Watch divenne un obbligo di appartenenza ad un mondo, per
la nostra generazione, come più tardi il Fossil, il Seiko o lo
Swatch. Anche Dino Sarti se ne accorse e lo celebrò in
“Socmel Bulagna”.
Mi ricordo che una sera Fred Buongusto, grande amico di
Beppe, al Paradiso di Rimini, in piena serata, quando Beppe
entrò, si fece dare alcuni orologi e cominciò a venderli ai
tavoli, parlando in dialetto napoletano, ad un pubblico molto
divertito.
Mi ricordo le serate al Poggio Night, in cui i cantanti più
famosi di allora suonavano e cantavano gratis fino all’alba,
richiamati dalla sua presenza, dopo avere cantato una ora in
concerto in qualche locale della riviera a prezzi altissimi.
Arrivavano Celentano, Pilade, I Ribelli, Fausto Leali, Ricky
Gianco, Gino Santercole, Fred Buongusto e tanti altri.
Beppe non perse mai il gusto di esibirsi in un paio di canzoni
a lui care, ma non era stato dotato naturalmente della voce
che avrebbe voluto, spesso doveva sforzare, poco ripagato
nella sua passione.
A Bologna lo ricordo soprattutto nel suo periodo al Whisky a
Gogò, in cui, in uno scantinato poco frequentato sotto le due
torri lanciò il locale alla moda, ed allo Stork Club, dove Pat
Nesi lo scelse come intrattenitore in un locale di nuova
concezione, dove arrivarono a Bologna, direttamente dal
Derby di Milano tutti i migliori cabarettisti dell’epoca.
Aveva un modo spontaneo e semplice di approcciarsi alla
gente, tanto che io non ricordo in quale occasione gli sono
diventato amico, era come una persona di famiglia,
conosciuto da sempre, viveva in modo pubblico, in mezzo

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alla gente e si divertiva con loro, anche degli scherzi a suo


danno.
La sua compagnia era fatta di persone più anziane di noi, dei
suoi tempi ricordo Giusti, che a quell’epoca vendeva
cappelli, Baravelli, Mei, Occhialini e tanti altri.
Esisteva, in quei tempi antichi, il mito dell’orgia sul modello
romano, la grande abbuffata alla Ferreri, con l’idea che si
mangiasse nudi. Su questa idea fu creato uno scherzo a
Beppe. Lo informarono che a casa di un amico si sarebbe
svolta una orgia tale che quelle di Lucullo sarebbero
sembrate delle merende. Se ne continuò a parlare per
settimane, fino a quando non fu tutto organizzato, Beppe
tutte le sere passava da Viscardi o dal negozio di Giusti, a
quel tempo in via Rizzoli, per avere più informazioni, ma
non gli venivano fatti i nomi delle ragazze che avrebbero
partecipato. Finalmente venne il giorno designato e i due
anfitrioni gli vennero ad aprire alla porta completamente
nudi. Dall’ingresso si sentivano un tintinnio di bicchieri ed
allegre risate nell’attiguo salone, velato da una tenda su una
porta alla francese.
“Spogliati nudo, veloce, siamo già tutti nudi, in sala si entra
solo nudi, noi andiamo di là, quando sei pronto dacci un
colpo di tosse e noi ti presentiamo e poi spalanchiamo la
tenda, tu fai una entrata da spettacolo, alla Fred Astaire, mi
raccomando, sbrigati”. I due sparirono dalla cucina attigua
alla sala e Beppe si denudò nell’ingresso, ponendo anche in
ordine gli indumenti, controllò allo specchio il suo look da
orgia e diede il colpo di tosse.
Nell’altra stanza si udì l’annuncio: “Ed ora a voi signori e
signore, Beppe Brilli”. Beppe entrò in un fragore di applausi
con un paio di saltelli da avanspettacolo e si trovò
completamente nudo al centro di una sala dove una trentina
di persone, in giacca e cravatta ed abito da sera, adesso a
bocca aperta guardandolo, stavano allegramente cenando in
compagnia. I due amici si erano velocemente cambiati e si

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tenevano ai bordi della tenda per non cadere dalle risa. La


scena fu talmente comica che lo stesso Beppe scoppiò a
ridere come tutto il resto della sala.
Per tanto tempo non si parlò più di orge.
Beppe, grande frequentatore del Picnic dopo pranzo, aveva
due attenzioni e cure maniacali: la prima erano i suoi capelli,
che trattava come dei figli, chiamandoli per nome, la
seconda era una cinquecento bianca che aveva comprato coi
primi faticati guadagni. La teneva sempre pulitissima,
addirittura “leccata”, all’interno aveva creato un impianto hi-
fi di qualità, qualcuno la battezzò “il salottino” e tutti, da
quel momento, la chiamarono così, anche Beppe. Quando
arrivava al Picnic la parcheggiava lontano dalle zone di
manovra e dai rischi, sulla salita verso il Rizzoli, dove il
traffico era scarso.
Un pomeriggio decidemmo, come scherzo, di distrarlo in
qualche modo e pitturargli il “salottino”. Andammo a
comprare colori a tempera, lavabili e molto vivaci, quindi
scattò l’operazione. Beppe Galassi e Sandro Zambonini
portarono Beppe a fare un giro in macchina ed io e Valerio
Tarabusi, gli pitturammo il salotto a stelle e strisce con colori
vivaci. Dopo una ora, tornarono al bar tutti e tre dove noi
eravamo già seduti bevendo tranquillamente.
Ci mettemmo a parlare e ad un certo punto Beppe buttò uno
sguardo verso la salita al Rizzoli, cercando con l’occhio il
folgorio del suo lucido salotto.
“Mi hanno rubato la macchina! Non c’è più! Al ladro!
Denuncio tutti!”
“Ma dove era?”
“Lì, sulla salita!”
“Ma noi eravamo qui, non abbiamo visto niente, che targa
aveva?”
Ci dice la targa, e Valerio ed io ci dirigiamo verso la
macchina a stelle e strisce “E’ qui, è questa!”

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“No, la mia è bianca, non è quella lì” Poi guardando la targa


quasi si accasciò a terra, la aveva riconosciuta e non poteva
crederci.
“Denuncio tutti! Li voglio vedere in galera. Delinquenti!”
Ci volle quasi una ora per calmarlo, ed un’altra per
spiegargli che era tempera e sarebbe andata via con una
semplice lavata. Quando lo accompagnammo a Porta
Zamboni, dove Beppe Galassi aveva una carrozzeria vicina
all’ autolavaggio, gli dissero che una macchina così non la
avrebbero fatta correre nel tunnel, altrimenti avrebbe
sporcato le spazzole e tutte le macchine dietro a lei. Doveva
avere la pazienza di aspettare e la avrebbero lavata a mano.
Gridò tanto che glie la fecero subito, poi la passarono nel
tunnel, poi fece dare una speciale cera per lamiere e poi la
fece rilavare a mano. Dal giorno dopo si presentò tutti i
giorni a lavarla fino a quando non riconobbe di nuovo il suo
salotto. Noi non facemmo mai più scherzi alle macchine.
Io quel giorno compresi, attraverso le sue reazioni, che il suo
salotto era una parte di lui stesso, come per le tartarughe i
paguri o le lumache, faceva parte della sua mente estesa, con
il suo giradischi ed i gadget portasigarette ed accendini, era
una sua conquista e costruzione mentale, una sicurezza che
gli generava dopamina. Fu per questo, forse, che pochi mesi
dopo, a metà stagione balneare, quando Beppe decise di
comprare la Giulietta spider di Ciccio Casco d’Oro, a
Riccione, mi misi ad aiutarlo a contare i soldi. Capii quale
salto di autostima rappresentasse per lui quella macchina.
Lui si faceva pagare tutte le sere dal proprietario del locale
dove lavorava e, tornando in Albergo, tutte le sere, metteva i
soldi in una valigia sull’armadio dell’albergo dove
alloggiava, l’Hotel Blumen. Ricevetti una montagna di fogli
da mille lire appallottolati e stropicciati, ci volle più di una
ora per sistemare in pacchi omogenei quella massa informe.
L’acquisto rappresentò per Beppe un cambio di “muta”, un
addio al salotto ed un relativo cambio di coscienza, di

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mentalità e di vita. Si era affrancato col suo lavoro, aveva


guadagnato la sua indipendenza economica ed era cosciente
delle sue capacità professionali, era sostenuto da una folla di
“followers” che lo seguivano in ogni dove e di cui lui era il
garante, aveva inventato una nuova professione senza averne
i titoli od il supporto mediatico di oggi, che allora avevano
Nando Pucci e Paolo Bacilieri, e si era creato un solido
mercato alternativo con la vendita di orologi che, come
garanzia, ricevevano la sua parola sulla affidabilità.
La nuova vita gli portò anche l’amore, quello vero,
improvviso quanto volatile, che non gli riuscì ad acchiappare
e gli sfuggì prima di percepire di essere un essere
monogamo. Lui, all’amore lasciò aperta la finestra, e questi
gli volò via, perché lei aveva le ali. Il fenomeno non si
ripeté, ma questa è altra storia.
Oggi capisco che Beppe, per la nostra generazione, fu una
avanguardia del nuovo in arrivo e fu uno dei primi ad avere
coscienza che una epoca era definitivamente terminata, non
per mancanza di valori, ma per morte naturale ed
obsolescenza.
Ancora gli sono riconoscente da allora e spesso ci
incontriamo.
Beppe Galassi.
Daniele ricorda Beppe Galassi e racconta di lui che era un
tipo eclettico, simpatico, ma anche piuttosto sbruffone. Super
viziato dal padre che aveva un banco di carne e salumi al
mercato delle erbe di via Ugo Bassi, con notevoli
disponibilità pecuniarie, e che per il figlio, avrebbe fatto
qualsiasi cosa.
I primi passi di Beppe furono sul campetto della Fortitudo,
prima come portiere, poi come difensore. Me lo ricordo,
quando aspettavo l’autobus per andare a scuola, sfrecciare
con una vespa GS, quando gli amici, al massimo,
cavalcavano un Motom 48 rosso o bianco e, soprattutto,

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portava seduta sul sellino posteriore la bellissima Anna


Canetoli, a quel tempo, sua ragazza.
Da buon amico si offerse di fermare al mio posto una
ragazza che mi interessava (certa Bruna Scevola) e, con la
faccia tosta che si ritrovava, lo fece anche.
Poi ci fu il periodo della carrozzeria, che aprì a Porta
Zamboni, dove si beveva solo champagne e, interessandosi
di auto, pensò bene di farsi truccare una Abarth 850 per
potere fare delle “riprese” con altri truccatori di motori.
La cosa finì molto male perché, durante una di queste sfide,
con partenza dal Bar Panoramica ed arrivo al Bar Picnic, alla
prima ed unica curva, le due macchine si urtarono e Beppe
finì contro un platano, macchina distrutta, ma anche lui, con
varie fratture, fu condannato a zoppicare per sempre.
Altro fatto significativo mi è stato raccontato da Giorgio
Bonaga. Quando suo padre Bruno fu investito sulle strisce ed
ucciso da una auto targata Treviso, Beppe era presidente del
San Lazzaro Calcio. Informato del fatto, capì che erano stati
alcuni giocatori, appunto di Treviso, della sua squadra, e li
indusse a costituirsi.
La telefonata di Beppe a Giorgio, per scusarsi di quanto
accaduto, fu patetica e straziante e finì con un pianto
commovente.
Anche io fui molto amico di Beppe e voglio ricordarlo a mio
modo.
Quando ricordo molti miei amici del passato mi accorgo che,
come in questo caso, che il primo approccio ebbe un impatto
negativo, un rigetto. Avvenne in parrocchia, io allora
frequentavo la parrocchia di San Gregorio e Siro, in via
Montegrappa, ero nel cortile antistante la sagrestia quando
entra di corsa una ragazza, molto carina, che la frequentava.
“Aiuto, aiutami, mi stanno inseguendo, ho paura…”.
Mi impossessai immediatamente della investitura ed attesi il
peggio. Arrivarono, dietro a lei, tre ragazzi, molto ben
vestiti, con vistosa esuberanza, come se avessero acquistato

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l’eleganza al chilo, al centro dei tre era Beppe, con un


berretto a righe rosso blu, un sorriso sfottente ed un passo
vittorioso.
Il cortile non aveva vie di fuga e ad una rapida occhiata mi
resi conto che uno qualsiasi di quei tre mi avrebbe fatto a
pezzi in pochi secondi, dovevo giocarmela a parole: “Perché
andate in giro a spaventare le ragazze?”. A parole l’unico
capace di rispondermi dei tre era Beppe: “Macché
spaventare, volevamo solo dirle che è molto carina, che ci
piacerebbe conoscerla”.
La ragazza attaccò: “Non è così che avete detto in strada”.
“Certo” rispose Beppe, con quei sorrisi sfacciati di cui era
campione, “Per la strada si dice “bella gnocca”, ma qui
siamo in privato”. “Che finezza” dissi io, reimpossessandomi
della scena “Ne sai delle altre?”.
Per fortuna in quel momento arrivarono altre persone ed i
tre, dopo avermi guardato con una occhiata schifata, si
girarono e se ne andarono. Io ero gonfio come un rospo, ed
avevo avuto il mio momento di celebrità, ma la avevo
scampata per un pelo.
Malgrado tutto io non divenni più simpatico alla ragazza,
mentre lei da quel giorno prese a salutarlo con ampi sorrisi.
“Già” pensai io, “proprio come fanno le belle gnocche”.
Poco tempo dopo fummo presentati ad una festa a casa di
amici e lui nemmeno si ricordava più di me, cosa che mi
permise di studiarlo a fondo. Era sempre molto benvestito, in
modo scenico, di chi vuole farsi notare, aveva una erre
moscia da parmigiano, da infanzia in Francia. Aveva un
talento particolare nello scoprire il punto debole di chiunque,
ed in quel punto affondava il colpo, con brutale ferocia. Per
lui era importante conoscere una caratteristica segretissima
di chi gli stava vicino e, nel momento di maggiore attenzione
di tutti, sbattergliela in faccia, con un sorriso ingenuo ma
maligno, con formulazioni del tipo: “E’ vero che…; Mi
hanno detto che…; XXX mi ha detto che tu…”. Lui non

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voleva vincere un round od una partita, lui voleva umiliare


l’avversario, se possibile anche con metodi di combattimento
illeciti, come se dovesse vendicarsi di qualcosa, come se, in
un mondo di belve, occorresse avere sempre il primato
assoluto sui suoi pari, per sopravvivere. In compenso era
generoso con quanti considerava deboli. Forse per questo
diventammo amici, io ero fisicamente debole. Gli piaceva
molto correre in macchina e giocava a calcio ad un buon
livello. Negli anni ’60 comprò una 600 Abarth e correva
come un pazzo. Lui amava andare a Riccione nei week end
ed io, che a Riccione avevo casa, andavo spesso con lui, mi
ricordo che percorrevamo tutta la via Emilia in corsia di
sorpasso con il cuore in gola, ma non avrei mai rinunciato ad
andare con lui. Aveva sempre giradischi e dischi alla moda a
tutto volume, impianti stereo ultimo modello, ma con le
trombe del clacson a tutto volume ed i finestrini aperti non
sentivamo assolutamente il disco.
Divenne amico di Severo Boschi e di Italo Cucci, che
conosceva da quando giocava nel Rimini. Arrivò anche,
dopo l’incidente, a scrivere sul Guerrin Sportivo. Lasciò tale
attività per intraprendere la carriera di dirigente calcistico,
ricordo fu direttore sportivo di alcune squadre, tra cui il
Sanremo e poi andò al Modena, dove incontrò Bruno Pace
come allenatore, che già conosceva da giocatore a Bologna.
Dopo avere iniziato a lavorare persi le sue tracce.
Ho tanti ricordi con lui, tra gli altri, al primo torneo svolto a
Gaibola, giocò in porta con la nostra squadra, e, dalla
seconda partita, visto che Lele Campo voleva giocare in
porta, lui si mise a giocare fuori da centromediano. Era
fermo, a causa dello spostamento del bacino, ma meno di
noi. La nostra squadra aveva Lele Campo in porta, poi, col
nostro modulo di gioco sei avanti e sei indietro, urlanti ma
non tutti tornanti, tra cui: Piero Bortolotti, Giuseppe Galassi,
Guido Fabbri, Alessandro Zambonini, Lallo Frediani, Enrico
Bottari e lo scrivente. Non vincemmo né impattammo alcuna

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partita, ma eravamo quelli che si divertivano di più e


dovevamo allontanare quelli che volevano giocare nella
nostra squadra.
Nel ’63, dopo il caso Doping, organizzammo una serie di
rappresentanze e cortei a favore del Bologna percorrendo via
Indipendenza a cori spiegati, cantando inni a Moratti
Herrera, alla Lega Calcio ed al Buco del Culo. Si univano in
gruppo sempre Gianni Viola, che usciva di casa vestito da
giocatore del Bologna, Piero Bortolotti e tanti altri che in
quegli anni avevano visto crescere la squadra. Ricordo una
partita a San Siro, nel 1961. Eravamo partiti in sei, con la
macchina del nonno di Alessandro Zambonini, la
formazione, se ricordo, era: Beppe Brilli, Beppe Galassi,
Alessandro Zambonini, Enrico Bottari, Lallo Frediani ed io.
Andammo due volte in vantaggio con Vinicio e Pascutti, ma
terminammo il primo tempo 3-3 con indecisioni difensive sui
loro rari attacchi. Alla fine, perdemmo col punteggio di 6-4
con due papere che evidenziarono la necessità di un portiere
da serie A.
Durante tutto il viaggio di andata avevamo fatto attenzione a
non mostrare segni rossoblù, Beppe, per rinforzare i capelli
aveva la testa completamente pelata e preparandosi a qualche
angheria dei tifosi “bauscia” ripeteva in continuazione:
“Sono il Celentano di Bologna, amico del Celentano di
Milano”. Lo stadio di San Siro faceva paura, era pieno
stivato, noi eravamo nella tribuna del piano superiore,
sembrava, alzandosi dai sedili, di cadere in campo.
Al primo goal di Vinicio giù la maschera, ci mettemmo a
gridare come pazzi. Un bambino interista seduto vicino a
Brilli, che non aveva fiatato al goal, lo guardò fisso negli
occhi e gli disse: “Hai la testa come un culo”, Beppe disse
“Beeh, bambino, sono il Celentano di Bologna, amico del
Celentano di Milano” ed il bambino rispose: “Testa di culo”
continuarono così tutta la partita, per Beppe era la prima

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partita di calcio della sua vita, era venuto per stare in


compagnia. Credo sia anche stata l’ultima.
All’uscita dallo stadio, fino all’imbocco della A1 un corteo
di esagitati offendeva a gesti e parole tutte le auto targate
BO. Alla ultima curva Lallo, di lato al finestrino abbassò il
vetro, e quando vide che davanti la strada era libera, ad un
forsennato che era quasi entrato con la testa nell’auto
gridando “…cuuuloooooo…” mollò uno sputo in faccia che
nemmeno i lama sulle Ande dovevano avere mai visto. Poi si
girò verso Beppe e disse…” E adesso è meglio se corri”.
Ridemmo fino a Piacenza, anche se questa non era la
tipologia di scherzi che preferivo.
Gli scherzi, come ho detto, erano sempre feroci. Mi ricordo
un giorno Lallo passò l’intero pomeriggio a convincere
Galassi a regalare ad una ragazza cui faceva la corte un
salame felino, simbolo di virilità e forza, guarnito ed
ingentilito da un Foulard di Hermes.
In quegli anni la mia era già una compagnia trasversale in
tutte le direzioni, ogni ceto, genere, vizio, virtù e livello
culturale aveva nel nostro gruppo una sua rappresentanza.
Io avevo costruito un mondo piccolo e pieno di certezze, in
pochi anni tutti i miei amici distrussero le mie credenze e
dilatarono a dismisura le mie anguste, ma comode,
dimensioni mentali. In quegli anni verificai che il migliore
dono ricevuto geneticamente in dote era il mio senso del
limite. Capivo sempre quale fosse il momento per ritirarsi,
inconsciamente, ma con decisione facevo un passo indietro,
prima di oltrepassare l’orizzonte degli eventi. Tutti i miei
amici mi hanno insegnato qualcosa in quel periodo. Anche
gli insegnamenti negativi si sono trasformati in esperienze
sui tempi e gli spazi di frenata. Da allora ho capito che
nell’amicizia non occorra una etica od un comportamento
morale dell’amico, perché non lo si deve giudicare, gli si
domanda solo un comportamento leale, privo di inganni, e
questo è facile riceverlo anche dalla peggiore delle persone.

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Ho avuto tanti amici, molti ineffabili, ma tutti sinceri. Con


molti di loro ho passato giornate indimenticabili facendo
cose stupidissime, senza una scintilla di intelligenza, oggi
non mi dispiace avere passato tanto tempo con loro, mi
rincresce non averne passato di più. Essere giovani e
incoscienti, sentirsi in tasca il mondo, muoversi
vittoriosamente, rompere la monotonia con trovate
demenziali, rischiare in ogni dove la rissa o l’incidente,
andare senza cappotto allo stadio, camminare sotto la
pioggia, essere oltraggiosi con le persone false, usare l’ironia
ed il sarcasmo come arma di difesa dalle prepotenze,
sostenere il contrario di qualsiasi visione razionale
rappresentava per noi il ringraziamento alla nostra gioia di
essere e celebrazione alla vita.
Alessandro.
Alessandro una volta mi disse: “Qualsiasi donna, anche
sposata per amore, ha voglia una sera di cenare a lume di
candela in un ristorante famoso, mangiare aragosta e caviale
e bere champagne in compagnia di un ragazzo simpatico,
dopo una corsa in Ferrari, dopo avere avuto in regalo un
foulard di Hermes da mettere al collo con due gocce di
profumo, proprio dove vuole farsi baciare. Qualsiasi donna,
dopo una serata così ha voglia di essere baciata al chiaro di
luna e di lasciarsi andare. Io oramai ho una tale fama che ho
paura non ci siano abbastanza chiari di luna, nella mia vita.
So che morirò molto giovane, prima di restare sdentato,
pelato od in miseria. Almeno, per fortuna, Hermes non
accenna a scioperi”.
Costantino.
Costantino a queste uscite rispondeva: “Comodo per voi, che
andate solo con donne giovani, belle e viziate, io vengo dalla
campagna e rappresento la virilità, la donna va onorata anche
quando non è bella, io mi esalto quando do prove di virilità
incredibili giornaliere, più sono cadenti e più mi sento
virile”. “Per quelle non mi sento geloso, Virile, così non

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litigheremo mai, pensa che risparmio se Sandro fosse virile


come te” “Certo, mai, perché voi, dopo avere tanto studiato
vi laureerete e vi sposerete, ma avendo perso la virilità le
vostre mogli dovranno ricorrere al Virile, ed io sarò quello
che salverà i vostri matrimoni, la benedizione delle vostre
famiglie”.
Lallo.
Lallo entrava nella contesa dicendo: “Io non mi laureo per
concedervi l’handicap, perché voi siete troppo cavigli, vi
concedo questo vantaggio in partenza, sennò con tutti
laureati saremmo ancora tutti al palo, e tu Costa, quando dai
una prova di virilità, cerca di darla anche il giorno dopo,
sennò le tue donne finisce che vengono tutte da me. Quelle
belle, pazienza, ma le brutte sono tutte tue, devi curarle di
più, visto che sono tante”.
Maurizio.
Maurizio fu quello che più spesso ci coinvolse in litigi e
risse, essendo quello dotato di minore pazienza verso il
prossimo. Negli ultimi tempi, prima di sposarsi, aveva scelto
un approccio diverso al litigio, sfidava il contendente a
duello. Mi ricordo che più volte formammo squadre per
sfidarci a duello all’alba. Esisteva a quei tempi il Bar dello
Sterlino, in via Murri, era un locale d’altri tempi, con mobili
e arredi degli anni ’30, con una atmosfera antica oggi non
più reperibile. I due titolari del bar erano due persone
anziane che si alzavano prestissimo e, verso le cinque di
mattina aprivano il negozio. Prima delle sette in quel bar non
entrava nessuno. La coppia di proprietari era uguale alla
coppia di contadini del quadro di Grant Wood “American
Gothic” che avevo stampato sulla copertina di “Americana”
di Bompiani a cura di Elio Vittorini.
Il duello aveva regole fisse. Il proprietario del bar forniva ad
ogni contendente le armi: dieci panettoncini Motta. Due
tavolini per parte venivano abbassati e servivano da scudo e

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riparo da una parte e dall’altra dei fronti ed al via del titolare


iniziava la battaglia.
I panettoncini erano perfetti, lanciati con foga all’inizio della
contesa non distruggevano ma davano comunque un buon
impatto, specie se colpivano in faccia. I panettoncini
potevano essere raccattati da terra e tirati altre volte. Poteva
essere buona strategia raccoglierne tanti dalla propria parte
ed attaccare il nemico con incursioni improvvise quando gli
cominciassero a mancare munizioni. Di solito in meno di
mezz’ora, tirando e ricevendo colpi come forsennati le
braccia diventavano pesanti, il fiatone aumentava, la luce
dell’alba, entrando nelle Gotiche tenebre del bar davano una
sensazione di chiesa luterana più che di bar, e qualche
contendente proponeva l’armistizio. A tregua dichiarata la
signora, con matita e taccuino iniziava il sopraluogo per
valutare i costi.
“Questi cinque non sono molto rovinati, li potrei tenere per
la prossima volta, le sembra?”
“Certo, quello che fate voi è ben fatto”. Rispondeva
Maurizio.
Qualche panettone, non particolarmente distrutto, veniva
mangiato subito con dei cappuccini, qualche altro rottamato
e qualcuno salvato per la volta prossima.
Era la coppia di gestori più onesta che avessi mai trovato, ci
vendeva i panettoncini ad un prezzo di grossista, alla fine di
un duello, in genere, non si spendevano mai più di pochi
spiccioli, poco più di una colazione.
La prima volta che presenziai ad un duello ero talmente
sbalordito da non riuscire a parlare per lo stupore e
l’emozione. Tutto era surreale, il fatto in sé, Mic che
allentava colpi tremendi che dolevano, proprio con
l’intenzione di fare male allo sfidato, scaricando una rabbia
inconscia, i due proprietari dietro al bancone, gli urli e gli
strepiti della contesa, il tifo dei sostenitori avversi e dei

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testimoni, pazzesco. Pensai che se qualcuno ci avesse visti


avrebbe chiamato la ambulanza del Roncati.
La prima mattina rientrai che era già giorno ed una volta a
casa andai a vedere la copertina del mio libro, per essere
sicuro della somiglianza. Cominciai a ridere e dovetti
ammettere che questa volta Maurizio li aveva superati tutti.
Dal giorno dopo, fui sempre presente ai duelli a squadre.
Bosic.
In quegli anni Beppe Galassi, nella continua ricerca di
personaggi speciali adocchiò un signore che con aria
circospetta, guardandosi sempre intorno, ogni volta che ci
vedeva in giro, si accostava al nostro gruppo. Ascoltava tutto
facendo finta di niente, ci seguiva all’Osteria del Sole, nei
bar del centro, e la sera al Whisky a Gogò.
Chiedemmo a Brilli ed a Savio chi fosse e ci dissero che era
della Questura. Figurarsi Beppe, col suo modo di fare
cominciò ad invitarlo al tavolo, a mostrarsi amico, ed a
chiedere informazioni. In meno che non si dica scoprì i lati
deboli. Due nostri amici, con qualche anno in più, da poco,
erano stati arrestati ed avevano subito una lieve condanna
per uso e detenzione di droga. La storia poi si è ripetuta
periodicamente. Qualche infiltrato od informatore fa un
nome, viene coinvolto qualche consumatore di buona
famiglia, scoppia uno scandalo, tutti si girano nella direzione
dello scandalo e dall’altra parte, tagliando un ramo di
distribuzione malfunzionante, si reagisce a un errore di
mercato, salta qualche piccolo malavitoso, si rattoppa la
perdita. La struttura delinquenziale funziona meglio di prima
ed il commercio continua più attivo. La distribuzione in città
è andata aumentando in continuazione, la generazione dopo
la mia ha ricevuto un impatto sul tessuto sociale decimante e
straziante, ma gli sforzi di tutta la società per nascondere il
clamore dei possibili scandali hanno sempre fatto in modo
che l’opinione pubblica potesse non accorgersi della
capillarità di questo commercio devastante.

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A quei tempi, dopo lo scandalo, fu mandato ad interrompere


il commercio miliardario questo sprovveduto soldatino.
Aveva un cognome di origine croata, forse originario di
Pola, aveva passato un paio di anni in Sardegna, era
completamente spaesato a Bologna, Beppe lo adottò, lo
alloggiò in una casina di servizio di lato alla sua abitazione
che lui usava anche come alcova quando l’amico era di
servizio.
Cominciò a portarlo in giro per Bologna, a bere nelle osterie,
lo fece quasi diventare un personaggio pubblico. Il successo
gli diede alla testa, si trasformò in una specie di Serpico
emiliano, iniziò a prendere iniziative di testa sua. La prima
che fece fu quella di portare Padre Marella in questura per
accattonaggio. Quella sera, davanti al cinema Metropolitan
rischiò il linciaggio. Scomparve per una settimana. Quando
tornò era molto dimesso, lo dovevano avere strigliato per
bene. Restò mogio per una settimana. I nostri amici,
terminato il periodo di detenzione, si ripresentarono in
compagnia e, sapendo che tra noi girava un questurino in
borghese iniziarono a cercarlo per dirgli tutte le infamità
possibili. Mi ricordo di una sera in cui all’osteria, piangendo
ubriaco, assicurò tutti che avrebbe rassegnato le dimissioni,
se solo avesse trovato uno straccio di lavoro. Beppe, col
rischio di doverlo assumere in carrozzeria non proferì verbo.
Dopo meno di un mese, dopo avere lasciato a Beppe uno
scritto che testimoniava immensa riconoscenza ed amicizia,
ripartì all’alba per la Sardegna. Non abbiamo mai più saputo
nulla di lui. Il suo intervento più qualificante in oltre un anno
di permanenza a Bologna fu l’arresto di Padre Marella.
La Tenebra.
Lele era una persona mite e riflessiva. Ogni cosa sembrava
non fare parte del suo mondo, tanto da chiedere subito a tutti
dettagli, particolari, caratteristiche, informazioni ed
impressioni. Era interessato a tutto, come se non avesse mai
saputo o visto nulla, non si stancava mai di chiedere.

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Compariva sempre dopo il tramonto, per questo fu


soprannominato “La Tenebra”. Era un maestro della
chiacchierata a quattr’occhi, intimista, parlava sempre a
bassa voce, tanto che per chi lo vedesse parlare da distanza
poteva sembrare in un atto di confessione.
Era sempre disponibile per fare un piacere. Qualcuno diceva
che arrivava solo dopo il tramonto perché accompagnava una
amica paraplegica in carrozzina durante il giorno.
Non mi ricordo di avergli mai visto indossare qualcosa di
diverso dai blue jeans. In inverno portava dei completi di
lana sotto la solita mise, blue jeans e camicia di flanella a
quadri.
Sembrava non avere alcun tipo di vanità. Amava il basket e
non sapeva nulla di calcio.
I primi momenti di celebrità li ebbe una sera in via de’
Toschi, ad un bar tavola calda. Si era armata una sfida tra
l’Orso, personaggio di moda allora, ed alcuni scommettitori
che sostenevano non sarebbe riuscito a mangiare un metro di
salsiccia senza bere. L’Orso era un omone corpulento,
ricoperto di peli come l’uomo delle nevi, che, anche quando
usciva dal barbiere, sembrava avesse una barba di due giorni.
Parlava sempre con una vocina in falsetto come quella che
immagino avesse il lupo quando bussava alla porta dei tre
porcellini. Tutta la sua persona ricordava più il selvaggio
mondo animale che quello umano, spesso aveva delicate
espressioni o preoccupazioni che sbalordivano, specialmente
quando parlava di arte o di antiquariato. Tentava sempre di
mitigare l’impatto generato dalla sua irsuta presenza con
impeccabili abiti di sartoria, cravatte di Hermes e
cospargendosi di profumo, come un bonzo prima di darsi
fuoco con la benzina. Quando la salsiccia fu pronta, cucinata
a puntino dall’obeso e “mortadellato” Cik Ciak. Il
soprannome gli derivava dal fatto che sotto la giacca da chef
era di solito nudo ed al grido di saluto “Cik” lui alzava la
giacca e, mostrando un mal pingue ventre, si dava una

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manata sullo stomaco, e rispondeva “Ciak”. Lo dico


mortadellato perché, dopo lo schiaffo, il ventre si colorava
esattamente come quelle gigantesche mortadelle che
venivano esibite nella vetrina del ristorante Diana, con
grosse macchie bianche di grasso risaltanti sulla pelle rosa.
l’Orso cominciò a mangiare avidamente ansimando, dopo
avere trangugiato una ventina di centimetri emise un rantolo
ed uscì velocemente a prendere una boccata d’aria, perché
era sudato come gli avessero tirato una secchiata d’acqua.
Tutti lo seguirono e lui, sempre generoso con la platea,
inscenò un attacco cardiaco, spiegando che occorreva
rimandare la scommessa ad un momento in cui si fosse
sentito bene in salute. La discussione tardò alcuni minuti,
l’Orso si riprese, ma non dichiarò di volere continuare. A
questo punto il primo problema da risolvere era: “Chi paga la
salciccia?”.
In queste scommesse mangerecce, normalmente, il conto lo
paga chi vince. In questo caso, senza vincitori né vinti,
qualcuno avrebbe dovuto pagare. Tutti rientrammo al bar e
potemmo vedere che in quei pochi minuti “La Tenebra
“aveva mangiato tutta la salsiccia restante e stava mettendo
in bocca, con buona lena, l’ultimo pezzetto. “Ma la hai
mangiata tutta?” “Certo, sennò si sarebbe raffreddata” “Ma
come era?” “Abbastanza buona, ma non mi piace mangiarla
senza pane e senza contorno”.
Da quella sera divenne popolare e celebrato, ottanta
centimetri di salsiccia mangiati in dieci minuti era da
Guinness, per noi valevano più di una laurea al MIT.
Un giorno Lallo arrivò da Zanarini e cominciò a chiedere
soldi per una colletta. “Per cosa sono?” “Per la Tenebra che
va in America”. Con quello che aveva lui e quello che
raccolse il Lallo, Lele partì. Il mito narra che fosse partito
con un biglietto di sola andata, ma credo ciò non fosse
possibile nemmeno negli anni ’60, certo non partì con tanti
aggi.

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Per oltre un anno non sapemmo nulla, poi un giorno, a casa


di Sandro arrivò una lettera dagli USA in cui ci salutava, ci
assicurava di stare bene, e ci inviava un ritaglio di giornale in
cui si parlava dell’indossatore italiano: Lele Filippi, che
aveva fatto da modello ad una sfilata di moda maschile.
Tornò dopo oltre due anni, forse più, parlava solo di lavoro e
di basket. Quando partì il suo aforisma preferito era: “E’ già
difficile vivere, perché lavorare?”. Si era sposato, aveva
vissuto a Detroit, faceva il disegnatore meccanico per presse
che formavano le scocche delle automobili. A Detroit,
quando usciva dal lavoro, l’unico passatempo era andare in
una palestra e giocare a basket. Lui iniziò a farlo tutte le sere,
una volta venne con noi a fare la solita stanca partitella in
una palestra di una scuola in via S. Isaia, ci sbalordì vedere
quanto fosse migliorato. Cercava un lavoro, lo trovò alla
IMA, macchine automatiche da imballaggio.
L’America ne aveva fatto un’altra persona, credo allora non
avrebbe potuto ripetere l’impresa, vestiva anche in modo
elegante e disinvolto, lo continuammo a chiamare “La
Tenebra”, ma sapevamo che era diventato Lele Filippi,
dirigente d’azienda.
Credo qualcuno di noi abbia anche pensato: “Poveretto,
come si è ridotto, lavora e basta”.
Passeggiata a Gaibola.
Da quando mi sono incontrato con Daniele al bar la prima
volta sono passati pochi mesi.
Pensavo, allora, mi avrebbe trasferito informazioni sul calcio
e sul torneo. Nulla di tutto questo, mi ha trasferito solo la
percezione di un suo profondo attaccamento alla terra di
Gaibola, al suo ambiente, alla gente che la abita. Il torneo è
stato una finestra su una zona ed un ambiente che non
conosco. Vado un paio di volte a settimana al suo bar ad
incontrarlo, l’ultima volta mi ha detto: “Sto organizzando
una riunione a Gaibola, ho fatto pulire il campetto della
chiesa, invita chi vuoi, ma avvisami, io da solo ho quasi 170

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persone da chiamare, dimmi quante ne chiami tu”. Penso un


po’, poi mi viene in mente un amico che da poco abita lassù.
“Uno ce l’ho, te lo presenterò, era un mio collega, adesso
vive a Gaibola”.
Pensavo di andare a passeggiare da quelle parti, ma dopo
avere parlato con Daniele ho deciso di accelerare, il giorno
dopo è una bella giornata, mi preparo e vado.
Io, da sempre, sono un viandante, non un viaggiatore. Il
viaggiatore sa da dove parte e dove arriva, io, da viandante,
so solo da dove parto e conosco una direzione di massima,
ma non so mai dove arriverò, quello dipende da cosa
percepirò strada facendo.
Ho deciso di andare a piedi, per ricevere la piena sensazione
da cosa vado a visitare. Entro da via San Mamolo, nel
percorso dal parco di Villa Ghigi. Comincio a camminare.
Ho conosciuto questi posti tanti anni fa, ma oggi, in questo
deserto umano che è la mia città, mi sembra di vederli per la
prima volta. Quando comincio a salire è quasi freddo.
Incontro pochissime persone, le prime mi guardano
sottecchi, non fanno cenni, siamo ancora in mezzo a
condomini, quelli che scendono parlano ad alta voce, quelli
che salgono sono solitari e silenziosi, raccolti come si
recassero ad una funzione religiosa, tutti sanno dove devono
andare. Dopo avere superato l’ultima piazzola di parcheggio
comincio a vedere un cambio scenico impressionante, prati
verdi fioriti, la pioggia degli ultimi giorni ha regalato alla
zona la purezza di una aria fresca e priva di diffrazioni
polverose, la luce entra negli occhi senza abbagliare, si può
avvertire l’odore dell’erba, da tante mura penzolano glicini
dai colori pastello, molte siepi emanano il lieve profumo dei
gelsomini che risaltano, alla vista, un verde euforico, il
terreno in alcune zone è ancora bagnato, non scivoloso, mi
sembra ci siano le condizioni per una passeggiata perfetta.
Spengo il cellulare. Con questa semplice operazione esco dal
mio mondo ed entro in uno che non conosco, viandante in

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nuovi spazi e tempi di vita. Ho la percezione che da questo


momento mi voglio più bene.
La passeggiata è meravigliosa, da allora in poi tutti quelli
che ho incontrato mi hanno salutato sorridendo e mi hanno
detto buongiorno, questo significa che non sono più
invisibile e che quelli che incontro sono nel mio stesso
mondo. Poche persone, ma tutte comode in questo ambiente,
i prati hanno una fioritura festosa dove predomina il giallo
con alcuni rari papaveri e tanti soffioni. Sono anche contento
per non avere conoscenze sulla vegetazione locale, questo
accresce la attesa percettiva, quasi potesse uscire, da dietro
una siepe, uno gnomo od un folletto leprecano, come nei miti
irlandesi raccontati da Yeats.
Continuando a salire abbandono la sensazione del tempo,
cammino senza fardelli, leggero come stessi danzando in una
aria fresca e senza pressione, ci siamo, ho creato lo spazio
ideale per rigenerare la memoria. Il primo ricordo che torna
alla mente sono le corse con Tufo oltre il parco Cavaioni, in
questo stesso periodo dell’anno, lui davanti, lento ma
instancabile, da ufficiale alpino ed io arrancando dietro, col
fiatone del fumatore. Correvamo un paio d’ore, molto presto,
poi a casa a fare la doccia e studiare per il primo esame. A
fine maggio, alla fine dei corsi, iniziavano i primi preappelli
ed il torneo di calcio, bisognava essere in forma.
Continuo a salire, adesso lascio la strada e navigo col sole,
cammino sull’erba, riconosco alcuni pendii che ho visto in
un film di Pupi Avati, qualche sera prima, con Cavina e
Capolicchio giovani, sulle origini del Jazz bolognese.
Continuo a salire, arrivo a delle panchine, mi siedo e mi
rilasso, sto più comodo che su un divano di casa mia.
“Strano” penso, “qui mi sembra di essere in paradiso, ma
quando domani tornerò alla solita vita, una forma di amnesia
mi farà dimenticare questa sensazione di benessere e non
tornerò più, come se la mia mente rimuovesse, anziché i
traumi, le emozioni positive. Eppure, sono cosciente che

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quella di Sisifo fosse una condanna, non un premio. L’uomo


è sempre più incline a ripetere le cose sbagliate che non
quelle ben fatte”.
Mi alzo e continuo, non ho alcuna voglia di uscire dal parco,
ma sono arrivato in cima.
Superato il parcheggio vado verso Gaibola. Percorro con
calma la via, camminando contromano per scorgere le auto
che mi vengono incontro. Qualcuno ancora cammina e
saluta, fino alle prime case, qualcuno raccoglie fiori,
qualcuno fa passeggiare il cane. Le case sono poche e di
apparenza decente, senza lusso, le indicazioni ed i numeri
delle abitazioni tutte in ceramica. Ad un certo punto mi trovo
davanti, come potessi toccarla con la mano, la basilica di San
Luca, sull’altra cresta della vallata, ad un tiro di schioppo.
Mi ricordo di un racconto, registrato su un CD, ricevuto da
Daniele un mese fa, in cui, in una intervista, Raffaele Pistani
raccontava di un colpo di cannone sparato sopra le loro teste
dai militari tedeschi da un carro armato. Probabilmente il
colpo era andato a colpire la collina di fronte, attraversando
tutta la vallata. Mi fermo e guardo la vallata. È fantastica, la
si vede dalla strada, camminando, in ogni zona di estensione,
è coltivata e fiorente, rari tetti rossi si intravedono a distanza.
Non tutto è coltivato e pettinato, anche le aree incolte danno
fascino, sono macchie di colore più scuro e soffice.
Continuo a camminare e supero una casa colorata di bianco
affacciata sulla strada, una parete lunga, ritoccata da poco,
un muro che mostra pretese architettoniche non della zona ed
una lapide, mi avvicino per leggerla, è una epigrafe tombale
in latino maccheronico, forse di un tardo Settecento, quando
le lapidi erano curate dal parroco. Subito dopo averla
osservata mi sfreccia vicino un’auto della sicurezza che,
dopo avermi superato fa manovra al limite della recinzione e
ritorna verso di me, mi sento osservato ma non interessante,
almeno non invisibile, finisce l’effetto Ghigi, penso, ma

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questa non è la Gaibola di cui parla Daniele, quella delle


porte aperte.
Continuo a camminare ed arrivo al bivio con l’eremo di
Ronzano, non ho voglia di salire ancora, vado per la chiesa
ed il campetto. Supero una serie di case, qualcuna costruita
da poco, qualcuna rifatta, tutte con la stessa apparenza,
mostrano una origine ed una storia di vita agiata, senza
compiacimenti al lusso, come tutto nella campagna emiliana,
ricca ma senza troppo sfarzo. Supero tutte le case, trovo
ancora una persona su cinque che saluta. “Questa non è di
qua” penso, ricordando la stessa intervista di Daniele in cui
dice: “Noi di Gaibola non ci salutiamo, come si fa in
famiglia, non ci si dice Buongiorno incontrandosi la
mattina”.
Se è vero, nel giro di tre chilometri, ho attraversato tre
insiemi: la Bologna ostile, circospetta e rumorosa, la riserva
di villa Ghigi, accogliente e surreale, silenziosa ed empatica
e questo pseudo villaggio a misura d’uomo, tra montano e
contadino, che definirei terra di frontiera, accovacciato e
familiare.
Qui, anche dopo l’8 settembre, tutto restò quieto in famiglia,
non arrivarono rigurgiti delle lotte e delle violenze che
avvennero sull’altro fronte, oltre il parco Cavaioni, verso
Sasso e Marzabotto, nell’area di Sabbiuno.
Procedo tra case in ristrutturazione e costruzioni in
decadenza, supero il “Palazzo” di cui ha parlato Daniele,
supero la deviazione di via dei pozzetti ed arrivo alla
chiesetta di San Michele. Riconosco il cortile dove ci si
cambiava, ma non vedo più il campo, seminascosto dalle
siepi, ed anche semicoperto da una flora aggressiva e fiorita.
Se ne vede solo un lato, sulla parte di destra, ma non
riconosco le dimensioni. È molto più piccolo di come lo
ricordassi, decisamente un campetto minimo.
Eppure, lo ricordo grande e con più file di spettatori, spesso
urlanti. La memoria mi evoca una immagine più seducente

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della realtà attuale, mi lascio quindi trasportare dai miei


sfumati ricordi, più intensi e magici. In questo modo, dietro
la siepe che oggi ricopre gran parte del campo, posso ricreare
la percezione di allora e rincorrere sensazioni ed immagini
perdute per sempre. Queste “finzioni” oltre la siepe mi fanno
riflettere sulle illusioni della memoria.
Tra pochi anni la scienza avrà la capacità di spiegare come
avvenga il fenomeno con cui, ricordando un passato
indelebile, alcuni rincorrono i simboli, il tempo ed il corso
della storia, altri, persi nel sogno come in trance, evocano le
sensazioni della poesia della loro epoca che riescono a
rivivere con nostalgia e pari intensità di emozioni.
Io sono di questa seconda specie, alimentato da una memoria
labile ed illusiva, e mi commuovo per costruzioni della
mente che oggi mi appaiono ed allora non percepivo.
Vedo intorno a questo campetto una intera generazione
manifestare la gioia di vivere dei suoi venti anni, senza
creare barriere separatiste, semplicemente accogliendola con
semplicità. Fu festa dell’amicizia e della gioventù, non un
torneo di calcio, una festa primaverile in questa area della
città che distribuì una allegria trasversale a ceti ed a censi, a
invidie ed a meschinità, generata per mezzo di una cultura
del gioco più comune e popolare, che riuscì a fare divertire
un ambiente sociale allargato ed eterogeneo.
Sarebbe interessante studiare perché le premesse create
allora non si siano evolute ulteriormente, ma sono di altra
tipologia, come detto, fiuto e percepisco la nostalgia e la
poesia, non la storia. Immediatamente dopo aver corso dietro
al pallone, continuai a correre senza pallone e vado tuttora
con passo più lento, da viandante, senza rimpianti, è la mia
vita.
Del resto, gli unici errori in cui può incorrere un viandante
sono: “non partire” e “fermarsi”, io, allora, partii. Ancora
non mi sono fermato.

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Lascio il campetto e ritorno alla realtà, capisco che, di tutta


la strada percorsa oggi, questo angolo è il più angusto ed
abbandonato.
In quegli anni fu denso di emozioni, trasferiva sensazioni che
andavano ben oltre, il calcio era il nostro modo più giocoso
di declinare la vita, oltre quello, tutti abbiamo ricordi di notti
di primavera passate sui colli, del profumo dell’erba e dei
gelsomini, della opaca luce della luna grande, della ricerca
del luogo dove fermarsi indisturbati, di quella temperatura
stagionale che permetteva abiti leggeri, dell’amore in
utilitaria, della difesa dai guardoni, delle ore passate a
parlare guardando il cielo ed il suono dei juke-box di Ideale
o della Capannina, del canto dei grilli, della vista delle stelle
attraverso la capote alla ricerca della nostra stella per
tracciare la strada verso il cielo, il nostro percorso celeste
preferito.
Tutto questo oggi vive nel ricordo, non si è spento, è poesia,
non è storia.
Decido, contrariamente ai programmi iniziali, di rientrare
ritornando dalla via dei colli, verso la fine di San Mamolo,
per rivedere una strada che conosco meglio, che ho percorso
più volte.
Oggi, penso camminando, sono passato molto vicino al
“Posto delle fragole” di Daniele, non ne ho assorbito
certamente le emozioni che riceve lui, ma ho capito il suo
profondo legame con questa terra. Sorrido e cerco di
ricordare una poesia di Vincenzo Cardarelli che un tempo
sapevo a memoria, la ho cercata e ve ne scrivo una parte che
definisce il mio stato d’animo.
GABBIANI.
Non so dove i gabbiani abbiano il nido,
ove trovino pace.
Io son come loro
in perpetuo volo…

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Il rientro verso Bologna, in discesa è veloce, qui si perde


l’incanto di Gaibola, nessuno cammina a piedi, tranne me,
nessuno saluterebbe incrociandomi e qualcuno mi
guarderebbe con supponenza e sospetto già da metà di via
dei Pozzetti, solo vedendomi passare. Alcune ville
ristrutturate, in via dei colli, mostrano un lusso nuovo e
stridente per questa zona. Solo il centro di ricerca di
Montecuccolino appare da fuori immutato, non più austero,
come era una volta. Mi ricordo di quando, al tempo dei miei
primi impieghi, portavamo le schede perforate per
processarle al loro Centro Elaborazione Dati IBM, che ci
veniva affittato a minuti. Ci sembrava, allora, di avere fatto
un passo nel futuro. Oggi quel programma lo potrei fare
correre su un laptop di medio livello e qui non viene più
nessuno, da fuori, a processare progetti del mondo
commerciale, ma questa è storia, significa che sono già
ritornato all’ambiente di città, alle sue regole, al logos ed al
chiasso, fine dei miti.
Finalmente torno in pianura, l’orologio tecnologico mi
segnala tredicimila passi, ma non dà ragguagli su quanto sia
ringiovanito salendo ed invecchiato, di nuovo, scendendo,
non per un effetto fisico, ma della mente. Ero salito per
ricordare i tornei ed il calcio, ma, strada facendo, ho
ricordato solo alcuni amici e la poesia sfumata di quei tempi
lontani.
Ho dimenticato che in quattro anni di tornei abbiamo perse
tutte le partite, nemmeno una pareggiata, ma questo non ci
pesava, partecipavamo con massimo divertimento e voglia di
giocare, sempre più amici e sempre senza cercare nuovi
ingaggi. Grande squadra la nostra, leggermente perdente, ma
ugualmente grande.
Questa camminata mi ha riconciliato coi ricordi e con
l’ambiente dimenticato, ha sintonizzato la mia memoria sulla
frequenza dei ricordi di Daniele e trovo piacevole leggerli e
riscriverli di seguito, anche se molti di cui racconta mi sono

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ignoti, conosco già il linguaggio dominante, mi piace


ascoltarne il motivo semplice che le anima.
Spesso mi ha ricordato anche di alcune glorie ospitate
nell’area.
Gaibolesi famosi.
Dante Alighieri (fu ospite nell’area di parcheggio di villa Ghigi),
Carducci, Olindo Guerrini, Dino Boschi, (pittore)

Valerio Pinotti
Delle sue origini ne abbiamo già parlato descrivendo l’ambiente di
via San Felice.
Lo conobbi quando veniva a giocare a pallone a Gaibola. Tre cose mi
rimasero subito impresse:
Primo, lui si presentava al campetto accompagnato, sulla sua
lambretta, da una ragazza vistosa con capelli platinati a frangetta,
certa Mariarosa. La cosa strana era che questa ragazza non parlava
con nessuno e aspettava che Valerio finisse di giocare, anche 3 o 4
ore
Secondo, si vantava di aver scopato nei posti più astrusi, non
disdegnando un confessionale di una chiesa.
Terzo, assicurava di essere andato a tutti i concerti dell’amico Lucio
Dalla, perfino utilizzando un Solex, per seguirlo in Romagna, ad
Imola.
Passato del tempo e, sapendo che suo padre era cartellonista, gli feci
creare due striscioni per una festa dei 50 anni di molti di noi a
Gaibola. Famosi i suoi due slogan: “Cin, Cin, cinquanta!” e: “Tosti
ma non toast”. Molto apprezzati. Bisogna anche ricordare che
Valerio è stato conduttore di un programma televisivo sul basket:
“Sotto Canestro”, programma che aveva di peculiare il fatto di non
avere filtri e la parte delle telefonate con il pubblico a casa era
esilarante ma anche pericolosa. Ad una puntata furono invitati come
esperti Francesco Guccini e Giorgio Bonaga, il primo confessò che a
mala pena sapeva cosa fosse la pallacanestro e, al secondo, arrivò
una telefonata di qualcuno che per rimarcare la bassezza di Giorgio,
chiedeva se fosse seduto o in piedi. Quando si capì che la telefonata

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era di Berti Ceroni partirono gli insulti tutto sommato benevoli. Non
del tutto leggeri furono quelli di un altro ascoltatore che iniziò:
“Sfigato, pezzo di merda, ecc…” a Valerio, il quale rispose per le
rime con: “Testa di cazzo, se ti trovo ti spacco il culo ecc…”.
Conclusione: la trasmissione fu sospesa e non fu mai più rimessa in
onda!
Giorgio Rovinetti.
L’uomo dal braccino d’oro: molte facezie su di lui, alcune già
raccontate.
La cosa che mi faceva più piacere di Giorgio era che, nello
spogliatoio, sia che fossimo compagni che avversari, voleva che fossi
io ad allacciargli le scarpette. Grande segno di confidenza amicale.
Mauro Mingardi.
Si mise, con poca soddisfazione fisica, con una ragazza non bella, ma
disponibile e anche aggressiva. Dopo pochi giorni, la mollò e
addusse, come scusa, lui che non era proprio un tombeur de femmes,
la definizione poi rimasta famosa: “Quando si spogliava non si
capiva quale era il davanti e quale il didietro, a tutto c’è un limite”.
Fratelli Bonaga.
Grandi ballisti, non basterebbe tutto l’inchiostro del mondo per
raccontare tutte le loro balle.
Trio Tossani, Moscatelli e Poli: grandi mossieri
Lo Svizzero.
Viene a Londra, tenta di fare la guida turistica con poco successo:
all’esordio, sul pullman, prende in mano un piccolo ombrello nero
chiuso, credendolo, per l’emozione, il suo microfono e inizia a
parlare ai suoi turisti che lo guardano esterrefatti.
Questo fu il primo e unico tentativo di intraprendere la nobile arte di
guida turistica.
Incomprensione con la mia amica Nora, di diverso segno zodiacale.
A Londra lo Svizzero si trova senza la camera dove dormire. Scatta
l’emergenza e la mia amica Nora, napoletana, gli offre una camera
del suo vasto appartamento per una modica cifra. Lo Svizzero, tutto
contento, si presenta, la mattina dopo, armi e bagagli alla porta e
suona il campanello. A questo punto nasce un piccolo intoppo: Nora,

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incautamente, non aveva chiesto il segno zodiacale dello Svizzero e,


quando, sulla porta, si rende conto che è di un segno incompatibile
con il suo, non fa una piega, esclama: “Sorrry” e gli chiude la porta
in faccia.
Ultima storia.
Dopo un litigio con la fidanzatina italiana a Trafalgar Square, si
incazza tanto che decide di caricare le loro valigie sulla sua 500 blu e
partire per Bologna.
Mi hanno detto che per tutto il viaggio non si sono scambiati una
sola parola e, arrivati a Bologna, l’ha scaricata a casa sua e non si
sono mai più visti né parlati. Come hanno fatto? Mah!
Dino Boschi, pittore.
Quando la mia famiglia lasciò il Palazzo per trasferirsi nella nuova
casa nel boschetto, provai un po’ di rammarico, dopotutto in sono
nato nella camera da letto dei miei nonni, aiutato dalla levatrice
Trenti, il 4 novembre del 1943, sotto i bombardamenti, e tutta la mia
gioventù l’ho passata a Palazzo. Questo per dimostrare
l’attaccamento che ancor oggi provo per questa casona che ha un
significato speciale per la mia famiglia e per Gaibola stessa.
Quando seppi che nel mio appartamento si era installato il pittore
Boschi fui contento perché era un artista di cui mi piaceva il modo di
dipingere e che amava rappresentare gli interni.
Gli interni erano della maggior parte del mio ex appartamento e
recentemente mi è stato regalato un quadretto della sala da pranzo
dove fu rappresentata “150 la gallina canta “.
I fatti di Gaibola
Come son fatti i gaibolesi ed in particolare i Pilati? Ingenui? Forse,
comunque molto simpatici.
Chicco.
A Chicco chiedono di spegnere il gas sotto al caffè, lui lo spegne
soffiandovi sopra.
Sempre Chicco, in viale Vicini 13 per far divertire i gemelli, li
solleva dal primo piano con una camera d’aria. Dal pianterreno la zia
Tina li vede attraverso la finestra che si sollevano verso l’alto

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misteriosamente e pericolosamente. Risoluzione fisica: l’elastico


ciclistico si rompe e colpisce Chicco all’occhio sinistro.
Chicco, laureato in medicina, lavora come ortopedico al
traumatologico. Un giorno nel suo ambulatorio, mentre scrive i dati
di un paziente, lo invita a salire sul lettino per visitarlo. Quando si
volta vede che il paziente era salito “in piedi “sul lettino.
Cito
Cito si era fatto assumere da Policardi con l’intento malnascosto di
sposarne la figlia, peraltro non bellissima. Viene mandato a Londra
ad acquistare tessuti all’ultima moda per la ditta. Cito, in viaggio,
conosce una francese, anche questa non bellissima, ma moglie di un
Lord assai anziano, ne diventa l’amante, si trasferisce a Londra a
casa del Lord e per 20 anni non dà più sue notizie.
I fratelli Pilati, sei in tutto, da piccoli vollero battere il record di
quanti potessero salire in bicicletta allo stesso tempo. Come luogo fu
scelta la discesa da via di Gaibola alla palazzina, la formazione era: 4
sui mozzi delle due ruote, uno sul manubrio, 2 bambine sul cannone
e il guidatore naturalmente. Il record fu conseguito ma a caro prezzo,
infatti, lo schianto dopo pochi metri fu inevitabile e le ferite …anche.
Pietro.
Pietro, 18 anni, pensa di iscriversi a lettere moderne all’università:
moderne perché voleva evitare, se possibile, gli esami di latino,
materia che gli risultava un po’ ostica anche al liceo.
Lo accompagno nella babilonia delle segreterie di via Zamboni, a
lettere, addirittura 2 file chilometriche, Pietro, rassegnato e impaurito
dal primo impatto con le regole dell’università sceglie la fila più
corta e, dopo 2 ore sfinenti arriva il suo turno allo sportello della
segreteria.
Alla sua richiesta: vorrei iscrivermi a lettere moderne, la segretaria
gli fa notare che, anche se non c’è scritto da nessuna parte, quella è
lettere antiche e la “moderne “era quella a fianco cioè altre due ore di
fila come minimo. A questo punto, Pietro disse prontamente che
lettere antiche andava benissimo. E così fu.
I più simpatici gaibolesi: Gastone Savini, Alfonso Vallisi e Cesarino
Scota.

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Corrado
Sempre per citare l’argomento Gaibola vorrei raccontare come
questo luogo mi fosse caro fin dagli albori della mia vita: alle
elementari, oltre ai dettati e ai problemi, ci veniva richiesto di
svolgere temi per lo più su fatti di vita vissuta. Io che vivevo tutto
l’inverno recluso in una camera di via Saffi n.1 a litigare con mio
fratello Stefano. La vera vita vissuta era il periodo estivo passato a
Gaibola con il mio primo e grande amico Corrado e di questo
esclusivamente parlavo nei miei temi scolastici. Questa anomalia
risultò abbastanza strana tanto da indurre il maestro d’Errico a
chiamare mia madre per farsi spiegare cosa fosse questo luogo
fantastico di Gaibola e anche il “Corrado” così insistentemente
citato.
Vorrei raccontare il contenuto di uno di questi temi: Io e Corrado
avevamo assaggiato per la prima volta a casa un melone e
naturalmente ci era assai piaciuto. In seguito, trovandoci nell’orto
scorgemmo un frutto molto simile nella forma a un melone. Questo
bastò per indurci a raccoglierlo, dividerlo in due e mangiarcelo tutto
anche se il sapore ci sembrò un po’ strano. Il frutto era una zucca e il
risultato fu negativo anche perché’ noi non confessammo il furto
della zucca scambiata per melone e la gastroenterite ci tenne a letto
per qualche giorno.
Maccio.
Passati almeno una decina d’anni, cioè quando avevamo già una
ventina d’anni sulle spalle venne la moda di andare a disturbare le
coppiette che venivano in camporella in collina, approfittando del
caldo estivo e della oscurità della notte.
Avvenne che una sera fu avvistata un 600 Fiat ferma a fari spenti in
via dei Pozzetti. L’intento della coppia era evidente ma, col fatto che
era buio, non si vedeva nulla, allora, decidemmo, per un’azione di
disturbo. Io e Maccio ci posizionammo davanti alla macchina, ci
abbassammo le braghe come per fare un bisognino. Dopo pochi
minuti, l’autista accese gli abbaglianti e, a quel punto, io decisi che il
disturbo c’era stato e mi allontanai. Maccio insistette.

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Sempre coi fari accesi il guidatore importunato abbassò il finestrino


e urlò: “Maccio, fet sampar l’esen?”
Era uno del bar soprannominato: “la nonna “con la fidanzata.
La sputtanata fu totale.
I fatti di Bologna
Era il momento delle corse in salita con le auto truccate. La sera si
andava spesso a Zula per vedere i piloti improvvisati che si esibivano
nella piega della curva del ristorante. Con l’avvicinarsi della gara
Bologna / Raticosa era d’obbligo andare a far le pieghe nelle curve
della salita e non importava essere iscritti alla gara perché’ tutti si
sentivano piloti di formula uno e l’importante era far stridere le
gomme delle povere berlinette non progettate per correre. I miei
amici piloti erano: primo fra tutti Marco Magri poi Arrigo Protti,
Guido del Fante, Paolo Tullini e Marsiglio Marsilli. Alla gara Marco
arrivò primo, Paolo si cappottò prima della partenza, Guido, durante
la gara, uscì di strada e s’infilò in un fienile, Arrigo non partecipò e
Marsiglio nemmeno.
Su un muretto di una curva, sulla futa, qualche snaturato e anche
poco spiritoso scrisse con vernice indelebile: Lingua busone. Cosa
avrà voluto significare?
Io, Maccio e Aldo Venturi potevamo essere da meno dei nostri amici
piloti? Certamente no. Una domenica mattina chiedemmo ai nostri
padri di fare un giretto con le loro macchine: la 500 di mio padre, la
Dauphine grigia del padre di Aldo e la berlina bianca Lancia Appia
del dottor Monteguti. Ricevuti i mezzi, ci sentimmo subito dei
Nuvolari o giù di lì. Quel giorno da leoni cominciò presto, alle 9,30
in piazza Azzarita per la prova di ripresa. Memori della scena nel
film “Gioventù bruciata” schierammo i nostri bolidi all‘inizio di
piazza Azzarita. Io mi sentivo J. Dean, Aldo era Sal Mineo e Maccio
…Dennis Hopper. Per dare il via con un fazzoletto a scacchi furono
scelte le sorelle Muratori, una per ogni macchina. Le auto erano
allineate su una linea immaginaria, i motori erano accesi e ruggivano
nel silenzio domenicale Aldo, avendo una macchina francese
provava e riprovava il cambio che, dicevano, differente da quelli
italiani. Aspettammo a lungo le sorelle Muratori che, come al solito

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erano in forte ritardo, infatti si presentarono alle 11,30 circa. Il


problema ce lo risolse la Foca, alias Marco Romoli, che, indossando
prontamente un vestitino con gonna a fiori, diede il via sventolando
un foulard di Hermes. Le gomme lasciarono lunghe strisce nere
sull’asfalto ma l’anomalia fu che io e Maccio partimmo in avanti,
Aldo, invece, all’indietro …si era dimenticato di togliere la
retromarcia mentre provava le marce. La foca facendo una voce
femminile annullò la prova e si passò alla prova in linea. Le pieghe
sui colli finalmente erano anche nostre, il rombo dei motori ci
inebriava, l’urlo delle gomme mangiate dall’asfalto ci esaltava,
dell’adrenalina non ne saprei parlare; i pochi spettatori/camminatori
dei colli poterono assistere a una delle più spericolate esibizioni di
auto degne del rally di Montecarlo. Purtroppo, arrivarono presto le
12 e 30 e noi dovevamo riconsegnare le auto prese in prestito.
Questo episodio esaltante ma anche pericoloso è rimasto indelebile
nella mia memoria.
Il centro del malcostume e del vizio.
Negli anni Sessanta, al bar Donini, si sparse la voce che qualcuno
avesse aperto in via Riva Reno una centrale del vizio. Furbescamente
il negozio si presentava come succursale della libreria di don Bonetti,
situata di fianco alla chiesa. I titolari erano chiaramente dei
prestanome: Bud Spencer (Hatch Bessy), Terence Hill (Cat Stevens),
Eli Wallach (Cacopoulos) e Remo Capitani (Cangaceiro) come
riserva …Livio Lorenzon. In vetrina erano esposte effigi di santi,
madonnine e altre immagini sacre che facevano da paravento, nel
retro invece, la parte profana con vecchi filmini porno prestati da
Zacaria della Cam Sport, ma non solo, c’erano annate complete di
Playman, Playboy, Anal e, più grave di tutti, la serie completa de: “Il
montatore” con Lando Buzzanca, nota per essere in grado di
conturbare…non dico il Papa, ma giù di lì, forse, sì.
Al bar cominciò la caccia ai colpevoli, al bigliardo, silenzio assoluto,
tutti spiavano, tutti sperando di notare uno sguardo, un gesto
rivelatore per poter capire come iscriversi al club dal nome taroccato:
“Ave Maria”. Passarono alcuni giorni e quando ormai si perdeva la
speranza di scoprire gli organizzatori della centrale del vizio, uno

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disse che aveva sentito che all’ Ave Maria vendevano anche rosette
di pane, poi un altro rivelò di aver sentito, attraverso la porta di “Ave
Maria” due frasi illuminanti: l’ha detto “AleManzo Sandroni”, e,
“meglio mardi che…tai”. A questo punto due più due fa sempre
quattro. I due gaglioffi non potevano non essere che: il Caio, figlio
del fornaio, e Coltellini, il biorfano. Perché’ il biorfano? Semplice, la
sua famiglia era composta dalla madre, dal padre Coltellini e da un
secondo uomo, detto lo zio, uguale sputato a Coltellini figlio.
Quando avvenne che i due uomini morissero in pochissimo tempo,
uno dopo l’altro, Coltellini figlio diventò naturalmente biorfano.
L’intelligence di don Bonetti denunciò i titolari occulti dell’Ave
Maria che chiaramente dovevano essere quattro. Intervenne la curia,
la Cei, la sacra rota e anche lo IOR di Marcinkus, ma vennero presi
solo il caio e figlio, Terence Hill e Bud Spencer la fecero franca,
risultando latitanti. Intanto Paglia rimase socio del club “Rosso Blu”
e preparava il suo boom annunciato…!
Mia piccola annotazione
Negli anni ’60 ha stazionato per più di un anno, davanti al bar
Cristallo, in piazza maggiore, appoggiato di schiena a una colonna,
James Dean. Esattamente come in una foto del suo film: “ll
Gigante”. Faccia imperturbabile, jeans, T-shirt bianca e stivali da
cow boy. Attenzione, James non era morto in un incidente stradale
con la sua Porsche? Che non fosse lui? Chissà!
Maccio e Daniele ne “la notte brava “
Una sera noiosa al bar Donini. Improvvisamente arriva una fiat 2300
amaranto bicolore con una inchiodata spettacolare; scendono il Caio
e Augusto Marocci. Il secondo ha la macchina del nonno, una berlina
con motore potente, capace di velocità elevate, ma lui non ha che il
foglio rosa ed ha necessità di uno patentato per circolare legalmente.
Il Caio dice che deve andare a casa e la palla passa a Maccio, unico
titolare di patente, il quale acconsente a sedersi a fianco di Augusto
per fare un giretto in macchina, almeno così si disse.
Io seggo sul retro, Augusto parte sgommando e, in un baleno, ci
troviamo sulla via Emilia, direzione est, cioè il mare. Augusto dice
che vuol vedere la grande sedia posta presso la strada come

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pubblicità nella sua fabbrica di mobili, presso Imola. Ben presto


passiamo la grande sedia sulla destra e Augusto dice di voler andare
a salutare un suo amico a Rimini. A questo punto mi sono sentito
come Trintignant nel film “Il sorpasso”, in balia di un Gassman
scatenato. Con l’acceleratore sempre a tavoletta in poco tempo
arriviamo a Rimini ci fermiamo sul lungo mare, entriamo in un bar e
Augusto scorge l’amico chiamato “il serpente”. L’amico rettile è un
artista e come tutti gli artisti si sente un po’ maledetto e, per
dimostrarlo, dovette fare qualcosa di maledetto. Ci pensò un poco e
poi decise: siccome lui e Augusto avevano ordinato due calici di vino
rosso, per celebrare la loro amicizia sputarono saliva nei propri
bicchieri, se li scambiarono e, dopo un Cin Cin, si scolarono il
liquido bordeaux. Dopo questo incontro ritornammo velocemente a
bologna davanti al Donini. Siccome era solo l’una di notte Augusto
propose di fare un ultimo giro sui colli ma questa volta facendo “sul
serio”. Senza aspettare la nostra risposta partì a razzo per l’ultimo
giro da leoni. Io mi vidi come nel finale del “Sorpasso” giù per un
dirupo dopo una serata brava. Fortunatamente mi sbagliavo, dopo le
pieghe da brivido Augusto Marocci ci scaricò davanti al bar Donini
e, sempre sgommando, sparì nel buio della notte.
Romolo Valli.
Antefatto. Romolo Valli ha passato più di un anno durante la guerra
da militare al poggiolo a Gaibola e più di preciso presso la famiglia
Pistani. Romolo era molto benvoluto da tutti perché’ suonava la
fisarmonica, leggeva poesie e recitava testi famosi, presagendo
l’attore che sarebbe divenuto.
Primo episodio
Arrivò l’8 settembre e la compagnia di Romolo fu caricata su dei
camion per andare verso il nord, forse per continuare a combattere.
Racconta Romolo che, posizionato sull’ultimo carro, in una delle
curve di via del Genio venne sbalzato a terra e abbandonato a sé
stesso. Opportunità da prendere al volo: lui non si perse d’animo e,
come prima cosa, ritornò a piedi a Palazzo, da dove era partito. Tutti
gli amici gaibolesi gli fecero gran festa, lo tennero ancora alcuni
giorni, poi lo portarono al comando tedesco che, dopo aver ascoltato

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la sua storia gli diedero il congedo, e questa fu la fine della guerra


del soldato Romolo Valli, gaibolese ad honorem. In seguito, quando
veniva a recitare a Bologna, esigeva che l’Iva Pistani sedesse in
prima fila con sua mamma e, durante la recita, non mancava di
mandare baci alle due speciali spettatrici.
Secondo episodio
forse per la sua permanenza militare a Gaibola, Romolo era
diventato buon amico di Cesarino Scota, anche lui gaibolese
acquisito.
Passarono gli anni e accadde che Romolo venisse a Bologna a
recitare al teatro Duse insieme a de Lullo, con cui aveva un rapporto
riconosciuto molto intimo. Fin qui tutto bene. Romolo una mattina si
sente indisposto e febbricitante. Cosa fare? Chiama Cesarino Scota
per farsi consigliare un medico che gli potesse prescrivere un
medicinale riabilitante. Cesarino chiama mio padre, dottore di base,
che aveva conosciuto Romolo a Gaibola e insieme si recano all’Hotel
Roma per soccorrere l’attore ormai divenuto “noto attore “. Salgono
alla camera doppia indicatagli dalla reception e vengono accolti da
de Lullo che li introduce nella camera attigua. A questo punto devo
specificare che mio padre non era proprio di larghe vedute. Quando
si avvicinò al letto per visitare l’ammalato, lo vide coricato con
Massimo Ranieri (che diventò famoso cantante). Non fece una piega
per l’amicizia che intercorreva con Cesarino, ma l’imbarazzo fu
grandissimo e per un certo periodo non fu invitato a mangiare a casa
nostra.
Nota molto triste: si dice che l’incidente mortale di Romolo con la
sua auto lanciata a gran velocita ‘contro una cancellata non fosse
altro che un suicidio per motivi sentimentali.
Fenara.
Di Gianni Fenara, noto ballista di livello altissimo, tanto da
eguagliare Lucio e i Bonaga, si riportano alcune storie:
1 Durante un viaggio in India, per uno spostamento da città a
città in treno, prenotò un vagone intero perché’ i locali
puzzavano troppo.

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2 Sempre in India, una volta, pretendeva di avere in Hotel una


camera al pianterreno.
Non essendo disponibili perché’ inesistenti, pretese una
camera al primo piano purché ci fosse, accanto alla finestra,
un elefante che lui potesse cavalcare direttamente senza
dover scendere nella hall.
3 Una sera tardi, all’ osteria della chiesa, tirate giù le serrande,
si misero a giocare a poker: Fenara, Eva Robins, Tony
Curtis e Maurizio Costanzo, poi, a un certo punto,
sentirono della musica nella stanza a fianco e videro
Nureyev
che si allenava a danzare.
4 Chet Baker, che frequentava sempre l’osteria della chiesa,
quando veniva a Bologna, si presentava sempre in ciabatte
perché usava iniettarsi la droga fra le dita dei piedi.
I racconti del Birbo.
Chi era il Birbo? Si definiva così: lo zio Franco
Primo: un giorno il Birbo rimedia una ragazza alquanto bruttina, ma
che convince ad andare in camporella con lui nel campo del Poggiolo
a Gaibola. Il contadino Pio Facchini, detto “al leder”, li scorge e si
avvicina per avere spiegazioni.
Quando Pio si accorge che si tratta di Franco e che la ragazza si era
allontanata gli confida: sgnuren s’alsaveva ch’lera lò ai miteva an
tamaraz par guzer…e po’ sgnuren (con espressione ironica) va ban
che basta ch’la pessa ma li là le’ propri brotta.
Una sera in via sant’Isaia nell’oscurità, sotto il portico il Birbo
avanzava facendo delle scorreggette a ritmo cadenzato, come anche a
me a volte capita, quando un signore non visibile dietro una colonna
gli intimò: paasso…e…caadenza….
Ciccio.
Chi ha conosciuto Ciccio Ferratini potrà capire la comicità di questo
piccolo aneddoto.
Per anni, quando incontravo Ciccio, anche per una rivalità atavica di
tifo, lui per la Juve ed io per il Bologna, invece del saluto usavo
dirgli: “Ciccio brocco”, a cui lui rispondeva: “Daniele bidone”.

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Questa solfa è andata avanti per anni e mi risulta che succedesse la


stessa cosa con suo cognato Ettore, quindi, per anni ho sentito:
“Ciccio brocco” e “Ettore bidone”.
Fin qui tutto normale, si fa per dire, poi Ciccio è morto ed io, pochi
giorni fa, nei pressi dello Stadio sono transitato in via” Ettore Bidone
“. Non potevo credere che il Comune della nostra città avesse
dedicato una strada a questa famosa interiezione
Teatro
In mezzo a tutte queste facezie vorrei dedicare uno spazio doveroso
al lato culturale dello spirito gaibolese.
In quel tempo frequentava Gaibola Aldo Venturi, intenditore di
cinema e teatro.
Durante un pomeriggio autunnale, nei pressi di casa mia “al palazzo
“Aldo lanciò una proposta da non poter essere lasciata cadere: una
“pièce “da metter su e rappresentare in teatro. La rosa di interpreti
disponibili era fantastica: Aldo Venturi, Daniele Consolo, Massimo
Monteguti, Gianfranco Mignani (il grande rufus) Arrigo Protti,
Franco Littardi e, forse, Franco Notari (la bionda). La scelta della
pièce ricadde su un testo difficile e anche impegnativo, di un autore
assai ostico come Achille Campanile cioè il classico: Centocinquanta
la gallina canta.
Stabilito il cast e il dramma da interpretare, la scelta del teatro
ricadde sulla sala da pranzo di casa mia a Gaibola, perché’
disponibile a ottobre inoltrato quando la mia famiglia si fosse già
trasferita nei suoi alloggiamenti cittadini. Il testo fu memorizzato
dagli interpreti rubando il tempo all’ impegno scolastico, ma l’evento
ne valeva la pena. Si decise di abolire l’anteprima anzi la
rappresentazione sarebbe stata “unica e irripetibile”.
Con l’avvicinarsi della fatidica data decidemmo di introdurre nello
spettacolo la scenetta della biscia per alleggerire l’impegno dello
spettatore a seguire un drammone di tal sorta. La scenetta fu affidata
ad Arrigo Protti che si presentava in scena seminudo, con solo un
turbante in testa, le mutande e un cesto in mano. Dopo aver provato a
suonare un piffero sul cesto si alzava in fretta dicendo: “Scusatemi
ma devo andare perché’ mi scappa la biscia”. Il folto pubblico di ben

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12 spettatori apprezzò molto l’interpretazione di Arrigo e si


predispose ad affrontare l’ermetico testo di Centocinquanta la gallina
canta con più rilassatezza.
La bravura degli attori riuscì a completare la recita in undici minuti
circa; quindi, ci fu la possibilità di ripeterla in maniera accelerata,
alla Ridolini.
Gli applausi scroscianti durarono più a lungo della recita stessa.
Battaglia a cerbottane
Volevo raccontare due giorni a Gaibola, spesi a giocare con le
cerbottane. Non che questo gioco fosse strano, gli strani erano i
giocatori: tutti con un’età che andava dai 18 ai 25 anni.
Io, Maccio, Arrigo, Marco Magri, Tufo, Bibò, la sorella di Aimone
Neri e alcuni altri ci dividemmo in due squadre, tipo guardie e ladri e
poi si cominciò. Le cerbottane erano regolarmente di ottone da 50/60
centimetri, alcuni preferivano la doppia canna e le frecce dovevano
essere chiuse con la saliva, vietatissime quelle incollate o con punta
con ago. I duelli più belli si svolsero nella stalla abbandonata (mi
ricordavano la sfida all’O. K. Corral). Marco e Tufo inventarono
anche un mezzo corazzato utilizzando la 500 di marco che la guidava
e tufo che spuntava dal tetto apribile a mo’ di torretta di blindato per
colpire senza poter essere raggiunto dalle frecce nemiche.
La battaglia finì come sarebbe finita con ragazzini non ancora
teenagers cioè una discussione su: io ti ho colpito, no tu no … forse
di striscio.
Bibò sosteneva questo con una freccia che gli pendeva dal
sopracciglio.
Lucio.
Le balle e le stranezze di Lucio coi gaibolesi e non
1. Lucio, assiduo frequentatore della piscina comunale, era
noto per avere grande resistenza sott’acqua, dovuta alla sua
cassa toracica molto capiente. Si diceva attraversasse la
piscina per il lato corto, 25 metri, camminando sott’acqua
con un amico sulle spalle, cioè senza respirare. Ma la cosa
non bella che Lucio fece non è questa. Bobo Salerno,
frequentatore della piscina col fratello Gianni, buon

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pallanuotista, diventò amico di Lucio, tanto da dividere con


lui una cabina spogliatoio che la Rari Nantes metteva a
disposizione.
Una mattina Lucio prende la chiave della cabina, perché’
deve rientrare a casa in anticipo. Bobo rimane ancora
un‘oretta e, quando va nello spogliatoio, si accorge che
qualcuno si era masturbato e aveva utilizzato i mocassini
neri di Roveri e i calzini bianchi di Bobo per pulire la scena.
Dopo questo episodio Bobo telefonò a Lucio per
comunicargli di stargli lontano perché, se lo avesse
incontrato, gli avrebbe spaccato la faccia. Lucio non si fece
vedere in piscina per diversi giorni poi fu perdonato e tutto
finì lì.
2. Lucio incontra a Roma Pietro Savini, con la sua classe in gita
turistica e gli propone di fargli compagnia sulla sua auto, una
Jaguar berlina color amaranto nel viaggio di ritorno a
Bologna. Pietro non ci pensa due volte e, senza dir nulla ai
professori della scuola parte. Nessuno si accorse della
mancanza di Pietro sul pullman. Se questo succedesse oggi,
il professore che tornasse da una gita con 22 ragazzi invece
dei 23 partiti, verrebbe immediatamente radiato da tutte le
scuole.
Lucio, comunque, non era particolarmente spericolato, ma
molto imprudente alla guida. Confessò a Pietro di essere
contento della sua compagnia perché’ altrimenti avrebbe
dovuto leggere un libro per non annoiarsi in autostrada, pur
guidando tutto il tempo.
3. Paolo Vancini parte con Lucio per una tournée in Svizzera.
L’auto era una Porsche verde, guidata sempre da Paolo.
Durante il viaggio non succede niente, solo alcune carezze
amicali di Lucio sulla pancia di Paolino il quale, forse, non
intendendo il significato degli approcci, amoreggiò con una
ragazzina nell’hotel, scatenando la gelosia di Lucio, che pure
superò bellamente. Dopo il viaggio Lucio continuò a
frequentare la casa Vancini / Ferratini andando più volte a

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cena dalla Sofia con il benestare di Mario, che avrebbe


incoraggiato quest’amicizia, forse anche fino a un
fidanzamento ufficiale. Non fu così, i due ragazzi si persero
di vista e presero strade diverse, forse, anche più confacenti:
Lucio il cantante di successo e Paolino grigio travet dello
stato.
Forse ho esagerato?
4. Anche io ho qualche piccolo aneddoto da raccontare: c’è
stato un periodo che Lucio era innamorato di Gaibola, forse
perché suonava con la sua banda nella cantina dello zio
Alfonso, tanto che intitolò un suo 33 giri: Terra di Gaibola.
Un pomeriggio afoso d’estate facevo la dormitina nella
camera dei fratelli Consolo, le due sorelle dormivano in
un‘altra, verso le tre mi sveglio e vedo Lucio che dorme sul
letto di Stefano. Bisogna dire che allora a Gaibola non si
usavano cancelli chiusi, porte chiuse o altro, la fiducia nel
prossimo era totale, quindi io non feci una piega, scesi le
scale e uscii di casa come niente fosse. Lucio poi mi disse
che si sentiva stanco e aveva approfittato del letto vuoto.
5. A proposito di balle anch’io non ne fui esente, infatti,
parlando di sport, Lucio sosteneva che lo sport dove avrebbe
eccelso era la scherma e lo provava dicendomi che, col suo
fioretto che teneva a casa, aveva infilzato al primo colpo una
mosca che si era appoggiata su una parete di casa sua.
6. Ci fu anche una barzelletta, raccontata da Lucio, che mi fece
sorridere a suo tempo: un signore si reca da un rigattiere per
comprare qualcosa di insolito ma trova tutto molto caro. Il
rigattiere allora, gli propone un pezzo semplice ma a buon
prezzo: un cesso eschimese che consisteva in due bastoni,
uno corto e uno molto più lungo. Alla richiesta di come
funzionasse la risposta fu: quello corto va piantato nel
ghiaccio per sostenersi chinato con le braghe giù. E l’altro?
L’altro serve per tener lontani i lupi ….
7. Lucio e i gaibolesi a Ischia

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Un anno che non ricordo, per puro caso, ci fu una spedizione


non concordata a Ischia da parte di un gruppo di gaibolesi e
da Lucio. I primi per la spiaggia e il secondo con band e
codazzo di amici per andare a cantare in un camping, sulla
spiaggia, che aveva una sorta di anfiteatro adatto per la
musica e il ballo.
Le formazioni erano variegate: io con Paolino e Giorgino
Vancini, la Maddalena Savini con amiche Betty e Luisella,
Carla Farneti con amica Paola, Bonetti e Avoni con Lucio, la
band su un pullmino al seguito. Di giorno si stava in spiaggia
e, di sera, tutti invitati da Lucio al camping. Il problema era
che noi eravamo una dozzina e il pubblico totale …. sempre
una dozzina cioè nessuno. Va bene che Lucio non era ancora
molto conosciuto, specialmente al sud, ma uno sfacelo di tal
sorta non me lo sarei mai immaginato. Qualcuno, forse
Paolino, mi disse che il direttore del camping aveva tentato il
suicidio due volte per l’incasso così esiguo praticamente
nullo. Lucio si sbizzarriva nel cantare canzoni
incomprensibili e a dedicarle alle ragazze di Gaibola,
specialmente alla Maddalena…tanto il pubblico non c’era.
Una mattina venne in spiaggia anche Lucio e, pur essendo
esperto, continuava a chiedere a quelli già in acqua: come è
profondo il mare? Si tocca? Come è profondo il mare?
Siccome insisteva, qualcuno lo mandò a cagare. Volete
sapere come andò col camping? Benissimo, per fortuna il
sabato arrivò Nada per cantare le 2 sere del week end e
Lucio avrebbe fatto da riempimento. Lucio mi fece notare
quanto fosse stonata Nada e che schifo facesse la sua musica.
Aveva ragione, ma, il pubblico era traboccante e il direttore
era soddisfatto. Finita la settimana Lucio andò a parlare con
Bonetti a un paio di discografici in centro a Ischia. forse
aveva trovato la strada giusta per il successo? Ma dopotutto
chi era Bonetti?
8. Le maialate di Lucio.

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Lucio usava scaccolarsi il naso e attaccare le sue caccole


sotto il cruscotto della macchina, sotto il tavolo o alla
seggiola dove era seduto, ciò faceva molto schifo a molti, a
me non tanto perché usavo fare la stessa cosa. Un’altra
maialata di Lucio, cui non presenziai, per fortuna, fu questa:
ci fu un periodo che il nostro cantante soffriva di ulcera allo
stomaco, di conseguenza, per allievare il dolore, si riempiva
di Maalox, il famoso liquido bianco cangiante che
naturalmente aveva seguiti sbiancanti sulle feci. Una sera,
durante una tournee nel sud Italia, Lucio ebbe la bell’idea di
presentarsi a tavola, per ultimo, con un piatto colmo di cacca
bianca. La bella trovata non fu gradita da tutti!
9. Altro argomento più simpatico: il primo gruppo musicale di
Lucio si chiamava: “gli idoli”.
Fra questi i più simpatici erano: Giorgio, il batterista, e
Cabassi, il tastierista. Li frequentavo quando venivano a
suonare nella cantina dello zio Alfonso al Palazzo, a
Gaibola, come già aveva fatto Checco Coniglio con Alberto
Ronchi e Giuseppe Bigi, che suonavano nella stessa cantina
accompagnati, a volte, dai pianisti Bo Haan e di Marco. Il
romano Remigio, che ha suonato con Lucio per un certo
periodo, compose: “Regolarmente”, canzone che, pur
interpretata da Mina, ebbe pochissimo successo, malgrado a
mio parere, bellissima.

Gaibolesi adottati o acquisiti.


Cito (un ritorno), Romolo Valli, i Golfieri, Tino e Cesarino
(Cesarula) Scota, Arrigo Protti, Massimo Monteguti (Maccio),
Tomas, Ho Chi Min, Checco Coniglio, Lucio Dalla, Osti, Isabella
Seragnoli, Piero Miciano, Barbarella, Linda
La punizione di Brunino
Un pomeriggio i Krupp di Angelo Zani stanno giocando una partita
di torneo. Bruno Zucchini (la medicina) è in ritardo. Arriva una
macchina fra una nuvola di polvere, è Brunino? Sì, è lui, ma deve
cambiarsi. L’arbitro fischia una punizione a favore dei Krupp.

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Bruno: non sono pronto. Entra così come sei e tira deficiente!
Brunino obbedisce, ancora in camicia e con le scarpe slacciate,
prende una lunga rincorsa e segna il goal. La medicina dei Krupp era
veramente Brunino!
Il giocatore del Chelsea
Nel torneo di Gaibola non potevano giocare dei professionisti. Da
contratto se si fossero fatti male, la loro società li avrebbe multati
salatamente. È chiaro che chi avesse ingaggiato un giocatore di serie
A, pensava e sperava di vincere facilmente il torneo. Ci provò Arrigo
Veronesi con un giocatore del Chelsea che, essendo di una lega
straniera, era fuori dalle regole. Io e Maccio accettammo le buone
ragioni addotte e lo lasciammo giocare. Non toccò palla. Risultato:
magra figura. Il campetto di Gaibola era magico!
Anche la squadra di Daniela Seragnoli fu contestata, perché lei
presentò dei giocatori sconosciuti fuori dalla lista primaria. Date le
disponibilità di Daniela, i suoi avversari temevano, come al solito,
che prezzolasse dei professionisti. Io la obbligai a fotografare tutti i
suoi giocatori, compreso Foli, suo boyfriend, registrammo i
documenti e li facemmo giocare. Persero e furono eliminati. Meno
male!
La macchina della Coca Cola
Un giorno arrivò, non chiamato, il camion della Coca Cola.
Scaricarono una macchina distributrice di bibite, la istallarono sotto
il porticato della canonica e se ne andarono. Don Enea ci permise di
allacciare la macchina alla corrente elettrica e questa cominciò subito
a funzionare.
Sembra una stupidaggine, ma la distributrice di Coca Cola dava al
campetto di Gaibola un non so che di impianto sportivo che non gli
faceva male. La vendita delle bibite divenne anche una piccola fonte
di guadagno, infatti, anche chi non era interessato alle partite, ogni
tanto andava a farsi una Coca, specialmente i bambini. Il camionista,
che scambiava i vuoti coi pieni delle bibite, mi disse che la nostra
macchina era quella che “lavorava” di più nella sua zona.

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Contro il cinese i Gaibolas, nel fango e con Stefano Consolo, al


primo tempo, vincevano 7 a 3. Con Daniele Consolo, sempre nel
fango, persero. Risultato finale: 7 a 10.
Giovannino lo svizzero e il Gommone vengono chiamati per un
provino.
Il Gallero mollò un pugno a Zanicchio. Non si è mai saputo perché.
Forse ragioni extra calcio? Dato il primo soggetto è molto possibile.
Una considerazione importante su fatti che non c’entrano.
Rileggendo le pagine che ho scritto mi viene spesso da sorridere per i
ricordi dei fatti ridicoli che mi sono occorsi. C’è una cosa che
emerge dai cambiamenti degli anni ’60 nella vita, per esempio, mia e
del mio amico Corrado, che mi strabilia.
Negli anni ’50 avevamo 10 anni e abitavamo entrambi a Gaibola,
solo che io dormivo al Palazzo e lui nella casa sistemata negli anni
’40 per il contadino, io ero in vacanza e lui ci abitava
permanentemente, io mi sono sentito chiamare “al sgnuren” e lui
solo Corrado, io indossavo, d’estate i sandali, lui era scalzo, perché
gli scarponcini si mettevano solo in inverno e così riusciva a correre
su superfici per me impensabili. Io, con fatica, capivo il dialetto che
lui usava come lingua base.
Adesso non voglio rifare la storia di Olmo e Alfredo del film 900 di
Bertolucci, ma il modo abitativo di vita di Corrado negli anni
’50 /’60 era decisamente medievale: niente servizi igienici in casa,
per eventuali bisogni si usciva verso il porcile o, in caso di pioggia o
di notte, si usava la stalla, come le bestie, acqua corrente: un
rubinetto in cucina e uno nella stalla, sempre per le bestie, che erano
più importanti. Riscaldamento, neanche a parlarne. In inverno ci si
radunava tutti in cucina o nella stalla, col tepore delle mucche, e a
letto? Per riscaldarlo si usava il cosiddetto prete di legno che portava
la padella con le braci da mettere sotto le coltri. Il telefono era stato
già inventato ma non c’era la linea, quindi inesistente. L’unica novità
stravolgente era una voluminosa radio Phonola da cui si seguivano le
tappe dei giri d’Italia e di Francia con le imprese di Coppi e di
Bartali.

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Ho sempre pensato o mi è stato detto che l’uscita dal medio evo si è


verificata dopo la Seconda guerra mondiale ma, per quello che ho
visto occorsero altri 20 anni buoni per vedere la fine del medioevo,
per questo, infatti, in pochi anni, allora, si verificò una fuga generale
dai campi e da quella vita assurda e disperata per i tempi che
correvano.
Prima del fuggi fuggi, mi ricordo di aver visto in dotazione al fondo
del Palazzo un oggetto di modernità avanzata cioè una “segadora”
che, tirata comunque da una coppia di mucche, tagliava sia il
trifoglio che il frumento con grande risparmio di risorse umane.
Data l’innegabile utilità della scoperta meccanica, l’utilizzo della
stessa fu richiesto dai fondi di Gaibola come: la Palazzina, la Bassa,
gli Olmi, l’Ardizzone ecc.
Anche se i trattori non si erano ancora visti a Gaibola l’uso delle
scoperte meccaniche presagiva la fine della vita agricola concepita
fino ad allora.
La “liaison dangereuse” di Maccio con la moglie del campione.
Maccio aveva adocchiato, in via san Felice, una signorotta alquanto
piacente che andava su e giù con l’aria di quella che vuole farsi
notare. La signora risultò essere la sorella di Alis, nonché la moglie
di un campione, grande giocatore di boccette forse campione italiano
di questo “sport” e, frequentatore assiduo dell’Accademia Bigliardi
di via Marconi. Lui si sentiva un re in questo ambiente e, come tutti i
re, scordò i doveri privati, tanto che la signora si mise in pista per
trovare uno svago... perché no, anche sessuale. Perché non dico il
nome? Perché nessuno ha mai saputo il suo vero nome di battesimo
in tutta san Felice e alcuni dicono che perfino il campione la
chiamasse con vari pseudonimi nell’intimità familiare, decisamente
ignorandone il nome.
Ora, ci sono varie versioni dei fatti, io naturalmente darò la mia:
Maccio era “molto” parsimonioso (vox populis) e le prime telefonate
di approccio le fece fare a Mauro Paglia. Non c’erano i telefonini e le
chiamate costavano ma probabilmente Maccio si vergognava a fare il
primo passo. La signora ci mise zero secondi ad accondiscendere agli
inviti di Paglia in nome di Maccio; anzi, al telefono disse che non si

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era accorta che qualcuno la seguisse sotto i portici, ma che,


comunque fosse, era disponibile per un incontro. A questo punto
cominciò una ricerca serrata per un trappolo, rigorosamente gratis,
dove Maccio potesse tentare l’affondo. L’amico disponibile fu
trovato e l’avventura si poté materializzare. Diciamo che le cose
andarono avanti abbastanza bene finché ci fu la disponibilità del
trappolo, poi, una volta venuta meno questa, si cominciò a parlare di
un albergo a ore. Con più confort sì, ma ben più caro, qui rispuntò lo
spirito sparagnino del nostro amico che, con la scusa di un possibile
intervento della mala delle scommesse e del bigliardo, chiaramente
in mano al potente campione, contro di lui e i suoi amici (che
eravamo noi) decise di liquidare “l’affare “per il bene di tutti, meno
che per la misteriosa signora del campione. Lui continuò,
naturalmente, a raccontare, ai suoi discepoli, all’Accademia
Bigliardi, le sue fantastiche avventure sessuali.
Due prostitute a Pontecchio e Cozzolino
Questo racconto è di seconda mano, non essendo stato io presente,
ma avendolo sentito raccontare da più persone, sempre in una
maniera concordante, tanto da potere essere ritenuto assai veritiero.
La storia è abbastanza semplice: un sabato sera qualcuno propose,
invece del solito cinemino una serata sessuale da consumarsi
possibilmente in una villa a Pontcchio che, in inverno, era disabitata,
quindi disponibile (non dico il proprietario ma è abbastanza
intuibile). La materia, oggetto del desiderio, fu presto reclutata sui
viali, due prostitute che avrebbero dovuto soddisfare gli appetiti
impetuosi di una dozzina di giovani della Bologna bene, radunatisi,
per l’appunto, nella suddetta villa. La serata brava sembrava
procedere verso un successo facile, ma i conti erano stati fatti senza
l’oste, cioè Cozzolino. Io costui non l’ho mai visto e non saprei
descriverlo, ma so che la sua caratteristica non era la barba o gli
occhiali ma un cazzo enorme che non veniva mai. Cosa successe?
Che una prostituta si impegnò a lavorarsi Cozzolino che, alla fine
nemmeno venne, mentre l’altra accontentava tutta l’intera dozzina di
assatanati della banda!
Alla fine la domanda fu: sfacchinò di più la prima o la seconda?

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Secondo me fu un arrivo alla pari, ma il risultato poco importa!


Il lato comico della serata fu interpretato, come al solito, da Arrigo
Protti che girava nudo dopo essersi messo un paio di occhiali da sole
sull’uccello in modo che i peli sembrassero dei capelli neri ricci, il
pene era il naso e lo scroto le guance. Un’effigie simpaticissima.
Tutto ciò ebbe tanto successo che fu ripetuto in Versilia, in modo
nascosto e dissacratorio, a casa delle sorelle Toschi, solo che
qualcuno pensò di fotografare la becca di Arrigo con gli occhiali da
sole di Luciana, con una Nikon trovata in salotto e abbandonata dove
era stata trovata. L’inghippo fu che la macchina apparteneva
all’ingegner Toschi che, quando fece sviluppare la pellicola, ritirò le
stampe con un risolino di complicità del fotografo che lui, sul
momento, non intese.
Solo quando la moglie scorse le foto scoppiò il bubbone, sul
momento tutto filò liscio ma, dopo poco, Giovanni e Luciana si
lasciarono. Casualità?
Altro fatto delle vacanze in Versilia.
Luogo: Forte dei Marmi, la villa dei Crespi Perellino.
Attori: Valerio Tarabusi e Marsilio Marsilli, entrambi invaghiti della
affascinante, appunto, Claudia Crespi Perellino.
La giovane principessina aveva rivelato alle sue cortigiane di avere
un debole per entrambi i nobili pretendenti.
I due contendenti, in spiaggia, nel tardo pomeriggio, davanti agli
amici presenti, si sfidano per conquistare la dolce pulzella, come se
fossero due cavalieri medievali. Durante la notte vengono studiati i
piani per penetrare nel maniero della conquista.
La mattina dopo, i genitori regali sono assenti, Valerio, usando lo
stratagemma della consegna di un pacco, si presenta alla porta e
chiede di entrare. La megera, cioè la governante, si fa ingannare,
abbassa il ponte levatoio e fa entrare il cavalier Valerio.
A questo punto la singolar tenzone sembra essere vinta da Valerio de
Tarabusis, ma Marsilio de Marsillis non si dà per vinto e usa uno
strattagemma per rovinare i piani del rivale: prende una freccia (uno
stecchino) e lo pianta nel campanello del castello (la villa) e fa di
tutto per far credere il ritorno anticipato dei genitori. Il cavalier

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Valerio casca nel tranello e fugge in gran fretta lanciandosi da una


finestra su una auto in sosta (ma di questo non ci sono prove
documentali).
Sembra che la megera gettasse da una bifora della torre un paio di
pantaloni, un paio di mocassini e una ciabatta infradito.
Quel pomeriggio, in spiaggia, nessuno commentò l’accaduto e, il
giorno dopo, tutti partirono alla volta di Bologna, l’estate al mare era
finita.
Altri ricordi di Stefano Sabioni.
Questo libro dei ricordi si arricchisce di una ulteriore testimonianza
relativa a quel periodo. Stefano Sabioni, amico di Daniele e giocatore
in tempi forse un po’ sfalsati rispetto alla fine dei ’60, ci trasferisce
una allegra testimonianza di quanto detto fino ad ora. Il calcio
declinava e scandiva il nostro tempo libero e creava legami sociali
durevoli e solidi, fu uno degli scenari comuni a tutti i giovani di quel
periodo, così vario, vasto e felice per tutti noi.
Salus. Otello.
Checco mi ha dato il numero di telefono. L’avventura parte proprio
da quel momento. Telefono al custode del campo. Mi ha detto: “Si
chiama Otello”. Faccio il numero, una voce di uomo mi risponde:
“Tiffany” tre secondi di silenzio, e: "Mi scusi, ho sbagliato
numero”. Rispondo.
Pensa te, mi dà anche il numero sbagliato, cinema Tiffany, film
in inglese. Va bene che il campo è di fianco, ma...Mi conferma
che il numero è esatto. Riprovo: "Tiffany, il film è Rosamari Babe
fino a giovedì". Questa è la risposta, e la riporto come l'ho sentita. La
cadenza è marcatamente bolognese.
'Mi scusi, cercavo Il custode del campo di calcio Salus, il signor
Otello, ho sbagliato numero? “No, a san me”. (No, sono lo). Il
campo di calcio a sette Salus, in terra battuta, in realtà battuta
poco, è in attività da tre generazioni. Siamo a porta Saragozza,
Bologna. Appunto di fianco al cinema Tiffany. Otello, un mito.
Anni Ottanta, magro, media altezza, capelli bianchi come la neve,
occhi grandi azzurri, viso abbellito da rughe
importanti. Rigorosamente maglione pesante girocollo in inverno,

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rigorosamente maglione, un po’ meno pesante, girocollo, in estate.


Professione attuale: pensione, professione in attività: decoratore. Un
maestro della pittura di finti marmi. È lui che ci apre il campo, è
lui che riscuote le trentamila lire per l’affitto del campo,
consegnate in inverno in casa sua, in affaccio al campo, e,
in estate, davanti allo spogliatoio. È lui che chiude il campo ed
è lui che illumina il campo, collegando le luci.

La ballerina di Bramieri.
Lingua parlata: alternanza di italiano modificato e dialetto locale.
Insostituibile, anche quando, silente, guarda di traverso la ragazza
di un nostro compagno, non ricordo chi, ma non particolarmente
simpatica al nostro Otello. Poca sintonia, definita da lui “Una
ballerina di Bramieri”. Neanche una ciambella regalata dalla
“ballerina” muove il sentimento di Otello, solo una espressione
dubitativa. Giovedì seguente. "Otello, com'era la ciambella che ti
ha regalato la fidanzata di x?” “Dura cumpagn a un sass, all’ho
de ai pizan...". (Dura come un sasso, l'ho data ai piccioni).
Avrete capito la grandezza assoluta del nostro custode. Fissato il
campo, giovedì ore venti. Il campo Salus diventa il nostro
appuntamento del giovedì sera, che vuol dire calcio più cena.
Siamo nei primi anni Ottanta.
La nostra squadra è la SABIONI abbigliamento, lo sponsor
ufficiale sono io, mi chiamo Stefano Sabioni e gestivo negozi
dove vendevo abbigliamento. Maglia rossa pesantissima, la sola
estate e inverno, maniche lunghe, polsini e collo a camicia
bianchi, numero bianco sulla schiena, e sul petto un rettangolo di
stoffa bianco cucito, con la scritta SABIONI in rosso. Nessuna
stampa, solo tessuto applicato. Lascio immaginare il peso.
D'inverno accettabile, anzi confortevole, in estate era come
giocare con un bimbo sulle spalle. Andava così. La squadra
SABIONI, era detta anche dei dottori, perché annoverava fra ì
componenti medici, dentisti, farmacisti, commercialisti, e altre lauree.
La squadra era, in verità, una accozzaglia, ma no, non voglio
essere cattivo, un insieme di amici appassionati di calcio, di quegli

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amici che da bambini si divertono nei cortili, in strada e ovunque;


a dare calci al pallone, anche in solitaria. La squadra, in realtà
annovera molti giocatori, quindi elastica per quantità e qualità. La
rosa era più o meno di quindici atleti, dai quali, dì volta in volta,
estrapolati sette. Cominciamo dal portiere: non c'è un portiere
fisso, da vera squadra professionista si ruota a turno. Terzini, io,
Stefano Sabioni, bottegaio propinatore di abiti e annessi, da cui, come
ho detto, la squadra prendeva il nome. Difensore vigoroso, deciso,
con propensione all'attacco. Altro terzino il mitico Vittorio
Concato, giocatore coriaceo, preciso nei passaggi, un vincente.
Farmacista, insieme ai fratelli, si diceva, con la solita esagerazione
delle cose dette nello spogliatoio, mai approfondite, proprietari di
otto o nove farmacie.
Alberto Gatti. Lo psicologo.
Mediano di contrasto, il dottore in legge Alberto Gatti. Oggi barista di
lusso. Oltre alla nuova attività che lo vede fra clienti di ogni tipo,
bancone, bottiglie, macchine da caffè, tazzine, dehors e perle di
filosofia scambiate con lo storico amico di tutti i giorni, Francesco
Gironi, Alberto è solito amoreggiare, occhio languido, con un
cocktail Martini, il quale non tradisce mai. Due occhi di portico. Il
suo vero pesante impegno lavorativo, pieno di attività altamente
usuranti, che richiedono abnegazione, precisione, conoscenza
a menadito della matematica, e soprattutto impiego enorme di
tempo, dal lunedì mattina, pensate, fino al lunedì sera, è la
gestione dei due occhi di portico da via Ugo Bassi, angolo Cesare
Battisti, Bologna. Proprietà Gatti. Il dott. Alberto Gatti, da barista di
lusso con impegno a tempo pieno, a ligio amministratore senza
sosta. Settimane ricche di impegni decisamente logoranti, non c'è
neppure il tempo di comprarsi un bel paio di jeans e un bel pull di
cachemire. D’altro canto, quando c'è lavoro, non lo si
deve trascurare. Torniamo al Gatti calciatore portatore di occhiali
che correggono la forte miopia. Buon incontrista, molto spesso
vittima della rabbia, per qualche fallo subito, che scatena in lui
una spropositata aggressività. Colpi di testa non pervenuti.

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Alberto Gatti, il nostro filosofo, meglio, il nostro psicologo. Dal


modo di correre, dalla postura, dal movimento delle braccia, dal
busto eretto piuttosto che curvo, e quant'altro, inquadrava i
difetti, mente corpo, dell'atleta esaminato, e sentenziava così i
rimedi per portare il deviato sulla retta via.

Centrocampisti.
Francesco (Checco) Vancini, dentista. Piede d'oro, fisico
atletico, bella visione di gioco, passaggi, lanci, tiri sempre a
segno. Spesso e volentieri vittima della sua lentezza, classica dei
centrocampisti anni Ottanta. Amico di Giovanni Gatti e mio,
spesso spronato da noi in maniera brutale per fare uscire la sua
grande qualità atletico calcistica. Sempre positivo. Angelo
Falasca. Qui bisogna spendere due parole in più. Angelo
Falasca, neurologo, era l'unico veramente dotato
calcisticamente. Aveva giocato, in gioventù, in squadre
importanti, quelle squadre nelle quali, noi marmaglia, avremmo
voluto giocare. Sogni di bimbo. Noi uguali a Falasca, questo
era il vero desiderio irrealizzabile. Per sottolinearne la bravura,
le squadre avversarie, prima di entrare nello spogliatoio, con aria
interrogativa: "C'è anche Falasca?” “Sì" "Cacchio, no!". Insomma,
Falasca invidiato da tutti.
Altro fondamentale centrocampista l’ingegnere Andrea Nesi.
Anche qui si diceva, pezzo grosso dell'IBM. Non si sa. Nesi è
uno di quelli che alla maturità dello scientifico si becca un bel
dieci in matematica, un genio. Giocatore stilisticamente
ineccepibile, edonista, gli occhiali sono d'obbligo. Piede fatato
per i lanci lunghi, peccato che il campo Salus di lunghezza ne
ha poca, non tarata sui lanci dell'ingegnere, per cui gran parte,
bellissimi, finiscono fuori campo, il che vuoi dire contro il muro di
cinta. Disappunto del nostro. Altro centrocampista, Andrea Benni,
ingegnere. Il Benní, fratello del popolare Stefano scrittore
e intellettuale, è un giocatore così detto articolato, la sua corsa è
confusa, pur tuttavia sempre utile alla squadra.

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Ancora centrocampista, Angelo Rimbano, origine veneta. Beh,


qui si supera Falasca. Siamo in un altro mondo. Eh, sì. Rimbano
è stato un calciatore professionista, Napoli, soprattutto Bologna,
forse qualche nazionale. Tecnica, un altro pianeta. Il problema è
il caratterino, a volte professore, di quelli che criticano in maniera
quasi insopportabile "Se non sapete giocare state a casa!" La
serie A consente certe affermazioni. problema, le critiche non
erano dirette agli avversari, ma a noi, suoi compagni.
Comunque, ovviamente, una sicurezza. Attaccante: Giovanni
Gatti, medico di base fratello di Alberto. Lo spogliatoio è
straboccante di racconti del play boy Gatti, le dovizie di
particolari si sprecano. Le risate dello squadrone, mezzo
docciato e mezzo accasciato sulle panche, si sprecano. Johnny,
lo sciupafemmine. Gatti calciatore. Più alto del fratello di una
ventina di centimetri, gambe storte, ma tutto sommato quello
fra noi che aveva, insieme a Falasca, il fisico visivamente più
vicino a quello dei calciatori veri. Buono scatto, grande
impegno, ma condizionato dall'emotività. Anche qui i colpi
di testa latitano. Ogni tanto gli partivano delle fiammate, alcune
azioni fulminanti, noi allibiti. Dobbiamo ringraziarlo per averci
insegnato la tecnica, da lui sperimentata e messa in pratica,
di come si tirino i rigori. Rincorsa bella lunga, corpo sopra il
pallone, e qui la grande invenzione che rimarrà nella storia: al
momento del calcio, rigorosamente di punta, occhi chiusi, così
senza strategia di tiro, il destino decide dove va la palla, la mente
rimane leggera, senza pensieri forti, solo mindfulness, molto
lontano dagli stress.
Giovanni Gatti, oltre ad essere medico di base, è studioso di
medicina olistica. I suoi rapporti con studiosi orientali, o meglio
cinesi, è strettissima. Naturalmente tutti noi fruitori del suo
sapere. Aggiungo, sempre perla precisione, medico di Vasco
Rossi. Altro attaccante, Roberto Fantuzzi. Si diceva, e anche qui
la nostra fantasia volava, ricchissimo perché il padre era un grande
importatore di noccioline. Mah! Ci suonava un po’strano.

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Comunque, la fantasia che lo spogliatoio scatena, è unica ed


imprevedibile. Un luogo magico. Fantuzzi, un ariete, fisico
potente, goal sicuro. Altro giocatore Rudi Rossi, dentista.
Singolare, molto singolare, dotatissimo, ma troppo innamorato di
sé stesso, e poco innamorato degli avversari. Litigio, con rissa,
sempre pronto. Si vociferava che lo zio, generale dell'esercito, ai
tempi dell'Italia in Africa, non fosse così tenero, per usare un
eufemismo, con gli autoctoni. Purtroppo, credo verità. Questi i
giocatori, zoccolo duro, altri compaiono e scompaiono, Roberto
Galvani, puledro di razza, gol facile, Francesco Pascale,
difensore arcigno, non me ne vogliano i non citati.
La Gaibola calcio.
Gaibola, località situata nei primi colli bolognesi, residenza di
borghesia bolognese di tradizione, famiglie che masticano cultura,
residenze un tempo, solo estive. Francesco Checco Vancini,
Gaibolese. Nonostante figlio della terra di Gaibola, da sempre uno
dei pilastri della SABBIONI. È lui che propone ai GAIBOLESI per
la prima volta una sfida, sfida che dà il via all'avventura calcistica
del giovedì, durata quasi una decina di anni. IL campo Salus, porta
Saragozza, di fianco al cinema Tiffany, Bologna, ha avuto il grande
onore di ospitare i due squadroni, rivali di sempre. Diciamo la verità,
tirate le somme, non c'è stata una delle due squadre che alla fine delle
sfide ha prevalso nettamente sull'altra. Il bilancio è in pareggio, da
buoni fratelli. Team GAIBOLESI. Portieri: si alternano Paolo Vancini
e Sandro Toni. Paolo, si favoleggiava lavorasse alle tasse, alla guardia
di finanza...mah, nessuno ha mai capito, e nessuno ha mai osato
chiedere. Portiere puntuale, affidabile, molto professionale, e, dote
rarissima, sempre obiettivo. Noi, partigianissimi, increduli. Come
si dice, una sicurezza. Sandro, gran bel tipo, stazza robusta, occhiali
fissi, talentuoso, tanto silente quanto efficace. Vero acculturato fra
tutti noi. Vicedirettore della cineteca comunale, critico
cinematografico, esperto di letteratura francese, direttore della casa
editrice "Il cavaliere azzurro", scrittore, autore del libro "L'ABC
della cattiveria" e altri. Altro riconoscimento, la simpatia. Ecco, tutti

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noi messi insieme, non riusciamo ad avere neppure la metà dei


meriti di Sandro. come detto si alterna fra i pali con Paolo.
Daniele Consolo. Lo stilista.
Daniele Consolo, mai assente. Si può dire, la bandiera dei Gaibolesi.
Sempre in controllo di tutti i suoi soldati, e di tutto. Lo si può
definire un difensore moderno, interventi calcistici quasi sempre
efficaci. Si muove solo in due metri quadri, ma da lì nessuno passa.
Lo definirei un calciatore creativo, e creativi sono i suoi
abbigliamenti, ogni volta differenti. Si va dal grunge, a J. P. Gautier,
da Romeo Gigli, al finto povero. Suo cavallo di battaglia,
pantalone bermuda di felpa morbidiccia, molto largo di gamba,
lungo al ginocchio, colore marrone frate, dal quale spunta una
calzamaglia nera attillatissima. Un abbigliamento che fa trapelare
la sua spiccata tendenza allo stile. I sopra descritti bermuda sono
sorretti non dall'elastico o dalle classiche bretelle, ma da una unica
bretella diagonale, abbottonata davanti a sinistra, e dietro a destra.
Un genio. Da sfilata. Altra interpretazione stilistica degna di essere
menzionata: maglia di una qualche squadra inglese rossa e nera a
righe orizzontali, collo a camicia, pantaloni di felpa neri
assolutamente stinti dalle migliaia di lavaggi, molto larghi che si
fermano a metà polpaccio, calzettoni tubolari corti di colore blu, che
lasciano intravvedere due dita di polpaccio con annessi peli. Una
visione impegnativa, ma piena di creatività.
Maccio. Alias crisi.
Altro pilastro della squadra, centrocampista. Massimo Monteguti,
detto Maccio, solo da Otello detto Crisi. Perché? Raccoglitore
dei denari dai compagni per il noleggio del campo, ogni volta
Otello reclamava la mancanza di cinquanta, o cento lire. Crisi era
fatto così, In campo sempre in cabina di regia. Come si dice in
gergo, ha tutto: tiro, lancio, colpi d testa, tutto. La sua risata è
inconfondibile. Fisico veramente tamugno. Non so cosa mi sia
passato per la testa quando ho avuto la presunzione, o meglio, la
disgrazia di contrastare una palla alta con la mia testa che si alza
con la sua. Contatto, meglio, fronte di Maccio contro lo zigomo
di Sabbioni. Un dolore lancinante. Qui interviene la grande voglia

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di giocare, i dottori trasformati in bimbi. Gatti e Vancini, due


medici, controllano il mio stato e: "Non è niente, vatti a mettere
un po' di acqua, torna a giocare cheti passa tutto. Giorno seguente,
Rizzoli: Masillo facciale, zigomo sfondato, operato per ridurre la
frattura. Dei bambini. Unico grande problema di Maccio, in campo
è una radio accesa a tutto volume dall'inizio alla fine della partita.
Un incubo. I suoi incitamenti costanti hanno come vittima
prediletta. Il suo compagno di squadra Paolo Gotti, la cui
protesta, per contro, è espressa con un tono di voce tre ottave sotto
la media, in pratica un soliloquio. Paolo Gotti, architetto di
professione fotografo. Attaccante puro, forte con i piedi, forte di
testa, forte nel dribbling e nello scatto, io difensore, classica sua
frase prima di incominciare la partita: "Mi marchi tu Sabions?".
Sempre accettavo la sfida, peraltro divertente. Si vantava della sua
love story con quella che sarebbe divenuta la moglie di
Berlusconi. Noi zitti.
Gli incubi di Johnny Gatti.
Abbiamo i fratelli Rovinazzi. L’incubo di Jonny Gatti. Così come i
nostri avversari chiedevamo preoccupati “C’è anche Falasca?”, così
Johnny chiedeva “Ci sono anche quei falegnami dei Rovinazzi?”.
Gatti vive con la paura costante di farsi male, per cui i fratelli,
difensori di quelli che non fanno complimenti ed intervengono
duramente, lo mettono in forte crisi. Come li vede arrivare scappa,
facendo finta di attuare uno schema di gioco. Johnny gira alla larga.
Così come gira alla larga da Franco Canuti, dentista. Giocatore un
po’ legnoso, grande concentrazione, supplisce alla tecnica non
proprio eccelsa, al fallo ad ogni costo, il così detto fallo jolly. Il
rischio di fare male c’è. Johnny fugge ad oltranza, ogni parte del
campo lontana dal dentista va bene. Non possono certo mancare le
critiche a Mario Vicinelli, centrocampista, incontrista, buona tecnica,
nervo sempre a fior di pelle. Maccio è sempre il perno delle
polemiche con i suoi compagni Gotti, Vicinelli in testa. Più volte i
Gaibolesi si sono fermati, partita in corso, per criticare le giocate
fatte dai compagni battibeccando aspramente. La voce di Maccio
annulla tutte le altre. Mario Vicinelli, sprone per i suoi compagni,

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bello, vigoroso e positivo, dal mio punto di vista, insopportabile per i


suoi compagni. Sottosta’ comunque al dominio di Maccio,
incontrastato regista e incontrastato nella velocità nella quantità nel
volume di parole che riesce a fare uscire dalla bocca in un minuto.
Un martello. Grandissimo Maccio. Altri componenti della rosa che di
tanto in tanto appaiono, Stefano Consolo, fratello di Daniele
giocatore con fisico potente, silente, sempre concentrato, interventi
sempre molto decisi, al limite del fallo. Diciamo che gli si gira un
po’ alla larga, ci si avvicina quando proprio non se ne può fare a
meno.
La Salus e il ghiaccio.
La nostra voglia di giocare, e di onorare il campo della Salus era
talmente incontenibile, che
riuscivamo a raccontarci bugie. Messaggio telefonico dei Sabbioni ai
Gaibolesi: “Ragazzi,
il campo è ghiacciato, ma non tanto, solo un po’ davanti alle porte,
ma ho sentito le previsioni, dice che verso le sei, sette, ci sarà
scirocco, per cui vedrai che il ghiaccio non ci
sarà più, si gioca”. Risposta Gambolese: “Ma sai che l’ho sentito
anch’io, l’hanno detto anche a rete Sette. “Temperatura in aumento,
tardo pomeriggio ondata di scirocco”. Conversazione basata su
nessun dato reale, basata su niente. Alle otto, puntuali come al solito,
ci siamo tutti ma non la Salus. Portone chiuso. Una figura confusa
dalla nebbia: Otello. Otello abbracciato da un giaccone di montone di
due misure più grandi del necessario, braccia conserte, immobile,
silente, sguardo severo, soprattutto verso Maccio. È lì davanti, da
vero paladino. senza tante parole come d’abitudine, attacca in presa
diretta: “Ragazul, ans zuga brisa stasira, al camp l’è tot giazzé, la
sozietè an vol brisa dal responsabilitè, tot a cà! Traduzione:” Ragazzi
non si gioca stasera, il campo è tutto ghiacciato, la società non vuole
responsabilità, tutti a casa!”. Mesti, coda fra le gambe, le bugie si
fanno riconoscere, non una parola, non ci vede neanche la trattoria
Boni di via Saragozza. Cena a casa, un giovedì non onorato, subito
depressione, poi nervoso a fior di pelle. Quanto raccontato, so che
non ci crederete, tutto vero. Torniamo agli atleti fede Gaibola.

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Abbiamo Aldo Lena. Coriaceo difensore, stazza da norvegese,


sempre molto concentrato, insieme a Stefano Consolo, e al dentista
Canuti formano una difesa tosta, decisamente tosta e anche
abbastanza pericolosa, chiedetelo a Giovanni Gatti.
I tornei Salus. Fusione Sabioni-Gaibolas.
Lo storico torneo SALUS. L’epico torneo SALUS. Nasce dalla fine
anni ’70. Indiscusso inventore, l’inimitabile istrione che risponde al
nome di Franco Cremesani. Carattere esuberante, dialettica
invidiabile, toni di voce di quelli che scavalcano i muri, e continuano
in strada. Trascinatore di tutti i suoi soldati calciatori e della
esuberante compagnia. Grande talento calcistico, abbinato a un fisico
poderoso, potente e spinto da una insaziabile voglia di vincere. Un
faro dentro e fuori al campo. La furbizia non gli manca di certo. È lui
il grande organizzatore del torneo della SALUS, è lui che ogni anno
fa partire, a braccetto col mese di giugno, le tanto attese sfide
calcistiche che richiamano un pubblico decisamente apprezzabile,
non tanto per quantità, quanto per qualità, direi eccelsa….
Naturalmente il grande Franco ogni anno ci imbarbaglia con parole
sparate a mille, e ci fa scucire quattrocentomila lire, quota
d’iscrizione, che, come dice l’organizzatore, servono solamente per
coprire le spese: “non pensate che ci guadagni!”. Sa bene che non è
così, sa bene che non ci crediamo, anche perché’ le squadre iscritte
sono ogni anno sedici, per cui ad un incasso decisamente
considerevole, corrispondono spese di gestione molto basse.
Noleggio del campo, e compenso degli arbitri. Cifre irrisorie. Ma va
bene così. La Sabbioni si iscrive ogni anno, e ogni anno la stessa
storia: stato di palese inferiorità, non si passa mai il turno. Una
partita e a casa. Così non si può andare avanti. Purtroppo, ci siamo,
soffertissima ma inevitabile, decidiamo noi della Sabbioni, di non
partecipare più al titolato torneo. È stato toccato il fondo. All’annuale
ed ennesima sconfitta con punteggi umilianti, sono partiti i commenti
del distinto pubblico, del tipo “Vai pelato!” diretto al non proprio
capellone Giovanni Gatti. Oppure, “Mettiti bene una maschera da
sub, a vedere se ci prendi”. Consiglio diretto all’ing. Nesi, portatore
di occhiali. Così è troppo. Basta. Chiuso col torneo. Passano i mesi.

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Dopo marzo c’è aprile, Dopo aprile c’è maggio, e dopo maggio
c’è…Un anno, è passato un anno. Ebbene sì, dopo maggio c’è
giugno. Nell’aria si incomincia a sentire il profumo, l’invitante,
l’inebriante profumo del torneo. Sì, il torneo sta per fiorire. Come da
copione: “Stefano, sono Franco, ti ho già inserito nel torneo, passa
questa sera a portarmi i soldi dell’iscrizione”. Durissima risposta che
fa fatica ad uscire dalla mia bocca, ma devo farcela:
“Franco, quest’anno saltiamo il torneo, non contarci”. Non sto a dirvi
quello che dopo un secondo esce dalla bocca di Cremesani,
l’eruzione di un vulcano è roba da ridere, le tenta tutte per farci
cambiare idea. La telefonata dura più di mezz’ora. Io fermo sulla mia
posizione, categoricamente, finche’, ad un suo suggerimento la mia
irremovibilità comincia a vacillare. Quel gran furbone, abilissimo
stratega, dopo mille e mille tentativi di convincimento, sicuramente
pensando alle quattrocentomila lire, butta sul tavolo il carico: “Ma
scusa bene, mischia la Sabioni alla Gaibolas! Metti i migliori della
Sabioni e i migliori della Gaibolas! Non puoi sbagliare, passi il
turno, cento su cento!”. Io muto. Tentenno. Vacillo. La mia mente
passa in rassegna i migliori della Sabbioni e i migliori dei Gaibolesi.
Poche storie, non resisto, sicuro anche dell’approvazione dei miei e
dei Gambolesi. Soccia Franco, ce l’hai fatta, ce l’hai fatta anche
stavolta. Sei diabolico. Domani sera ti porto i soldi”. Informati i
Gaibolesi, entusiasti. Si fa. Selezionati cinque di noi e cinque di loro,
i più forti, almeno sulla carta. Siamo tutti carichi come delle molle,
siamo sicuri, finalmente abbiamo una squadra un po’ più
competitiva. È ovvio che non arriveremo in semifinale, ma superare
il primo turno, quello sì. Vorrei vedere! Ce l’abbiamo fatta! È la
volta buona, così sarà. Ci alleniamo nei pochi giorni restanti prima
dell’inizio del torneo. Ad onore del vero, e per onestà intellettuale,
devo confessare che Franco, sorteggiatore ufficiale dell’abbinamento
delle squadre, e ho detto tutto, dicevo Franco mi aveva garantito un
sorteggio con un occhio di riguardo, e con i giochi di prestigio che
solo lui sapeva fare, ci avrebbe miracolosamente fatto incontrare una
delle squadre più deboli. Su questo tema la sua frase per rassicurarci
è stata: “Tranquilli, ci penso io”. Ecco, queste affermazioni di

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Franco, sono quelle che gettano nella preoccupazione più profonda,


ma la speranza è l’ultima a morire, ormai siamo in ballo, balliamo.
Aspetto tecnico. La SABIONI CALCIO annovera questi talenti:
Concato, Gatti, Falasca, Nesi, Sabbioni e Fantuzzi. La GAIBOLA
CALCIO annovera questi fuoriclasse: Toni, Maccio, Denny, Gotti,
Rovinazzi e Vicinelli. Direi una buona rosa, il passaggio al secondo
turno ci sembra, seppur lontano, di intravvederlo. È arrivato il
giorno. Sorteggio. La voce di Franco, naturalmente sorteggiatore,
estrae il primo biglietto. Silenzio assoluto: “Sabioni” pausa. Siamo i
primi. Estrae il secondo biglietto, i nostri avversari, pausa, silenzio
assoluto, “I FIGLI DI BUBBA”. Il silenzio viene rotto dal brusio
degli astanti, gli sguardi si incrociano, e il brusio diventa commento
a mezza voce. È chiarissimo, Franco è sempre Franco, la sua voglia
di vincere non cambierà mai, I FIGLI DI BUBBA e ‘ la sua squadra.
Franco ci ha buggerato, deve essere sicuro di passare il turno, e ha
scelto noi come sparring partner. Capiamo siamo ancora una volta i
più deboli, e soprattutto siamo già sconfitti prima di partire. Non solo
la depressione modella i nostri volti, la speranza di vincere scende
lentamente dai capelli, direzione suola delle scarpe, e per farci
soffrire ancora di più, la discesa, giunta al polpaccio, rallenta, e ci fa
così provare quel dolore d’anima che va di pari passo con l’angoscia,
con il panico, e con un ‘ansia decisamente superiore a quella provata
per gli esami universitari. SALUS, I SABIONI, I GAIBOLAS, I
FIGLI DI BUBBA, CREMESANI, LE QUATTROCENTOMILA
LIRE, LA SCONFITTA 10 A 1, LE PRESE IN GIRO DEL
PUBBLICO e altre negatività hanno disintegrato, nell’umore, nella
fiducia
In Cremesani che, ad una nostra mite protesta dice: “Siete stati
sfortunati, oh, io non centro niente, avete avuto una bella sfortuna…
oh, non ho potuto fare niente col sorteggio, l’arbitro era sempre lì che
guardava…”.
Dopo marzo c’è aprile, dopo aprile c’è maggio…un anno, ebbene sì
è passato un anno….
Dopo maggio c’è giugno. Nell’aria si comincia a sentire il profumo,
l’invitante, l’inebriante

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profumo del torneo. Sì, il torneo sta per fiorire. Come da copione:
“Stefano, sono Franco, ti ho già inserito ….
Donato Zoffoli. Il calciatore poeta.
Donato, poco più grande di me, siamo stati per sette /otto anni,
grandi amici poi le nostre strade si sono divise. Le ragioni
dell’allontanamento a volte si comprendono, a volte no, nel nostro
caso le due messe insieme. Zoffoli geniale. Aveva una particolarità
tutta sua, annunciava o il suo arrivo, o si faceva scovare ovunque
fosse con una scoperta tutta sua: mani strette l’una abbraccia l’altra,
come incollate. L’aria non passa, solo una piccola fessura alla quale
si incollano le labbra soffianti, riesce così a modulare un suono
indescrivibile, irripetibile. Forse un’evoluzione dell’oboe? Un
richiamo del capo di una tribù amazzonica? No, un particolare suono
suo, di Donato. Solo di Donato Zoffoli. Una parte di Zoffoli riesce
infatti miracolosamente, con questa geniale invenzione, a riprodurre
qualsiasi aria, rock, classica, inventata. Il suo strumento, una parte di
Donato. Forse, come lui, altri due nel mondo. Ma non direi di no.
Eh…Zoffoli! Persona buona, intelligente, sensibile, fragile.
I genitori erano due professori molto conosciuti, severi, ma
apprezzati, del liceo classico Galvani, molto religiosi, molto formali
e rigorosi. Hanno sfornato sei figli. Nelle file di mezzo dei fratelli,
Donato. Grande appassionato, come me, di musica. Ascoltavamo per
ore, in mansarda da me, musiche di tutti i tipi, provenienti da radio
Lussemburgo, radio internazionale magica, dalle nascenti radio
libere. Ci sentivamo nel mondo. Ci sentivamo imbattibili per la
nostra intesa, condivisione, unità d’intenti, passione per la musica e
grandi risate.
Come dicevo, famiglia molto religiosa, cattolica osservante a tal
punto che ad una mia telefonata a casa Zoffoli, chiedendo di Donato,
il professore mi rispose che i figli non potevano avere contatti con
l’esterno, in quanto già iniziato il periodo di novena. Questo
atteggiamento è degno di rispetto, ma la dice lunga.
Donato e il calcio. Un poeta del pallone. Direi uno di quegli
attaccanti che sembrano estranei alle azioni. Quasi fermo, sembra
disinteressato a quello che accade intorno a lui, ma se la palla capita

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nella sua orbita, calzettoni arrotolati, polpacci scoperti, pantaloncini


molto corti al pari di quelli dei giocatori anni Sessanta, dribbling
imprevedibile, il gol è assicurato. Giocatore singolare, vincente.
Finite le partite, eravamo soliti chiedere a Donato di declamarci una
delle sue poesie, naturalmente una di quelle scritte espressamente per
lo spogliatoio, quelle corte ma che fanno centro e scatenano risate
sproporzionate. Quattro o cinque versi, le nostre risate, favorite
anche dal calo di adrenalina, e dalla stanchezza in attesa di doccia, si
sentono fino a casa del nostro fido e intoccabile Otello. Poi Donato
scompare da me, scompare dagli amici, scompare dal calcio. Così di
colpo. È come un gesso che di colpo viene cancellato dalla lavagna.
Che vuoto, che mancanza. Donato silente, ma la sua assenza si sente
molto, molto di più di quelli che dicono leader, perché Donato era il
vero leader.
Il pallone è stato cancellato dalla sua vita da un incidente che ha
annullato le sue caviglie. E qui interviene Johnny che, con le sue
uscite tirate fuori dal cilindro, e sempre molto apprezzate da noi,
esordisce: “Zoffoli, da adesso in poi, visto lo stato delle tue caviglie,
non ti chiami più Zoffoli, ma Zoppoli” ilarità generale, incontenibile,
applausi!
Dopo più o meno un anno, grande sorpresa, appare Zoffoli nello
spogliatoio. Festa, abbracci, baci, che felicità! Naturalmente gli viene
chiesta la solita poesia da spogliatoio. Donzo, il suo soprannome, e
lo dico solo ora, perché’ è adesso, che si va a fili scoperti.
Donzo si fa serio, non ride, e non sorride nemmeno. Le nostre facce
capiscono il momento, e non solo le facce. Donzo nel silenzio totale,
suo e nostro, fermo, immobile, con la faccia che è il tutto assoluto,
rompe il silenzio, è la sua ultima vera poesia.
Arrivederci matti da legare
me ne esco dal manicomio
e me ne vado in una gabbia
più grande
che è il mondo intero
dove i più coraggiosi
possono ogni tanto spiccare il volo.

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Non l’ho più visto, o meglio l’ho visto come non volevo vederlo.
Canella “O’ Rey”
Piero Canella, detto “O’ Rey” Attaccante, anzi, punta di diamante,
innamorato del calcio forse più di Maradona. Concentrazione sempre
a mille, grande attenzione al fisico che deve essere sempre tirato, al
massimo della forma. I muscoli ben allenati, guizzanti e questa
voglia del goal deve sempre comandare tutte le variabili preparatorie.
Salus. Mentre corro, pallone fra i piedi, uno strano rumore, dietro di
me, mi segue in qualsiasi mio spostamento e mi ricorda il rumore di
un sacchetto di plastica mentre viene accartocciato. Stupore. Mi giro,
Piero, per mantenere costante il peso forma si è costruito una specie
di tuta di plastica, trasparente, sistemata sotto la maglia e i pantaloni
della divisa. Così facendo il sudore aumenta copiosamente e gli
permette di mantenere il fisico in perfetta forma. Vi garantisco, un
rumore decisamente inquietante, ma non inquietanti le risate che
scatena in tutti noi.
Aneddoto. Più volte abbiamo giocato nel campo regolamentare
undici giocatori contro altri undici, Piero, nonostante i nostri tentativi
di dissuaderlo, voleva tirare lui e solo lui i calci d’angolo. Risultato,
la potenza dei muscoli delle sue gambe non gli consentiva nemmeno
di fare arrivare la palla alla altezza del primo palo… Canella, un mito
a 360 gradi, simpatia straordinaria, fantasia illimitata, super convinto
delle sue capacità.
Salus. Partita tiratissima, naturalmente contro i Gaibolesi. Canella
centravanti, sempre accompagnato dal cric crac della muta di
plastica, sempre ossessionato in maniera più che morbosa dal goal.
Atterra in modo veramente scorretto per un fallaccio da espulsione e,
in verità, anche da un pugno, il difensore, si trova così, davanti al
portiere avversario, solissimo. Con un urlo sovrumano: “Johnny
passaaaa!” Johnny, con un perfetto lancio, gli pennella un pallone
perfetto sul piede destro, il piede buono. Canella è a tu per tu col
portiere. Il portiere è titubante. Canella controlla perfettamente il
pallone, è a cinque metri dal portiere, i suoi occhi si incrociano con
quelli del portiere. Piero prepara il calcio, carica la gamba destra con
tutta la forza che ha, prepara il tiro per un goal già fatto. Colpo di

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scena, la punta della scarpa tacchettata destra tocca la caviglia della


gamba sinistra. Canella a terra. Pallone tra le braccia del portiere.
Una tragedia accompagnata dai nostri commenti che lascio
immaginare. Reazione vibrante di Piero “Johnny, se non sai giocare a
pallone, vai al circolo Benassi a giocare a briscola! Voi siete un
branco di negati! Sapete cosa vi dico? Su questo campo non mi
vedete più, tanto meno con voi! Adios! Imparate i fondamentali!
Negati!” Canella è Canella.
Ricordare le performance e le genialità regalateci in campo, con
grande consapevolezza, dal nostro Piero, scatena in noi una ilarità
incontenibile che subito viene travolta e trasformata in una grande
tristezza che ci cattura senza concederci scampo. O’ Rey non è più
con noi e non sentiremo mai più il rumore della plastica che ci
insegue. Un vuoto.
Johnny Gatti: Le femmine, il denaro.
Giovanni, come avete ben capito dalla nuova tecnica da lui elaborata
sul come tirare i calci di rigore, era l’inventore, mente vulcanica,
proponeva in continuazione progetti fantastici, sfide impossibili, al
limite della follia, a volte entusiasmanti, a volte praticabili solo da
David Copperfield o Houdini. Ecco la sua proposta: sfida Sabbioni
contro i ragazzi ciechi dell’istituto Cavazza di via Castiglione, a
Bologna. Annuncio nello spogliatoio alla fine della partita, momento
ideale per le esternazioni di Johnny. “Ragazzi, mi è venuta questa
idea! Praticamente è già fatto tutto. Giovedì prossimo giochiamo
contro i ragazzi ciechi del Cavazza, ho già studiato tutto. Un mio
paziente è uno di quei ragazzi, simpatico da matti, è un combattente
come piace a me. Le maglie ci sono già, sono quelle della Germania.
Ascoltatemi, non ridete, sulla parte dietro, che è bianca, col
pennarello rosso, quello grosso, scriviamo i loro nomi, così li
facciamo felici. “Giovanni, non lo leggono!”. Commento di Benni.
“Poi come portiere va uno di noi a turno, e via che si va!” Per un
minuto silenzio assoluto, solo bocche leggerissimamente socchiuse,
indecise se virare verso una risata o chiudersi in espressione
preoccupata. È l’ultima che vince. Spogliatoio paralizzato, poi,
naturalmente: “Tu devi essere matto, ma che cacchio ti viene in

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mente! Sei fuori come un balcone. Oh! Abbiamo in squadra chi fa i


miracoli, riesce per la partita a ridare la vista a sette ragazzi ciechi
che, dopo la partita, tornano a non vedere. Tu sei matto! Mi dici
come cavolo fanno a giocare, colpire la palla, tirare, passare, un
massacro per loro e per noi, non ci vedono! Giovanni, inventane
un’altra…” Voi, come al solito, non capite un tubo di niente. Ho già
pensato come fare. Faccio mettere da Fausto, il calzolaio, un
campanello dentro al pallone, di quei campanelli tondi che appena si
muovono, suonano, così loro sentono dove è la palla e possono
calciare…”. Nessun nostro commento, nessuna risata, solo il braccio
destro che, leggermente curvato, si alza dal basso fino ad altezza
testa, che vuol dire: “Ma va, dai, possibile Johnny, che strologhi
sempre delle cose da matto? Ma va là. Inventa bene delle cose
normali! Gli unici che ridono a crepapelle, da lacrime, naturalmente
senza farsi vedere, Vancini ed io, sponsor delle invenzioni
impossibili di Giovanni. Johnny, con le pive nel sacco, ancora
convinto che il suo progetto sia realizzabilissimo e che i ragazzi del
Cavazza si sarebbero divertiti oltre che essere felici per la nuova
avventura, esce dallo spogliatoio per ultimo, sguardo a terra,
andatura lenta e bofonchiante.
“Soccia oh, non capiscono un tubo, va bene, va bene, continuiamo
così, con i soliti giovedì, Benni, Concato, Denny, Gotti, Maccio…
bello, bellissimo…siete dei fenomeni, dei vecchi, andate pure avanti
così. Ricovero! Bravissimi! Dei cadaveri. Sfida Sabioni-Cavazza
annullata. E via, in attesa di nuove proposte, impraticabili, folli,
invenzioni di Giovanni.
Il nostro Giovanni, lo sciupafemmine. Il suo successo con le donne è
straordinario. Forte della sua timidezza trasformata, non tanto per
intuizione geniale, quanto per sopravvivenza, in logorroica parlantina
mischiata ad uscite insuperabili, scatenano grande ilarità e oltre.
Quello che in lui più fa presa è la sua parte femminile trattata dal
maschio che è in lui, il rossore della sua faccia quando la sua
timidezza lo travolge e il suo silenzio reclamano simpatia e
consolazione, presto ricevute. La sua finestra con le donne è
larghissima, va dai 16-17 anni a…non c’è limite superiore. Proprio

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qui voglio soffermarmi. Johnny, neanche trentenne, medico


rampante, fa invaghire e si invaghisce di una signora, una vera
signora, direi di una ventina di anni più grande di lui. Scalpore,
stupore, perplessità dei genitori, entusiasmo fra gli amici. Giovanni
unico al mondo! La signora, la vera signora, conosce molto bene la
ricchezza e come usarla. Giovanni, il play boy, non la disdegna e
comincia a capire come beneficiarne, con la sua banda di amici al
seguito. Siamo tutti fratelli! Ci penso io, ragazzi! Si va dal Raid nel
deserto in moto, amici e meccanico al seguito su Range Rover
attrezzata per l’occasione, al, all’impianto musicale di prim’ordine in
cantina, cantina solo di nome, ritrovo di noi amici ed altri tutti i
mercoledì dopo cena, alla moto BMV per lui. Per i suoi fratelli
inverni a Cortina, estati in villa a Mikonos. La signora, la vera
signora, in presenza o in smart working, sempre presente, i leprottini
sempre al seguito. Per finire, sempre presenti, Checco ed io, lacrime
agli occhi, risate soffocate come tra i banchi di scuola, veri sponsor
delle follie impossibili da suggerire fino allo sfinimento per l’ok
finale di Johnny. Due criminali.
Un pezzo di Salus a Cortina.
Quello che scrivo in seguito non ha nulla a che vedere con le tenzoni
calcistiche Sabbioni-Gaibola alla Salus, ma entra di diritto nella
nostra vita di allora e fa capire a quali vette eccelse potesse arrivare
la nostra fantasia, non solo calcistica.
Attori principali: Johnny Gatti, Checco Vancini e Stefano Sabbioni.
Campo da gioco Cortina, non Salus. I primi dieci giorni li
dedichiamo alla montagna, e la montagna, sorridendo, ci accoglie e
ci fa divertire. Di certo non albergo, ma è la casa affittata, molto
piacevole, che accoglie il solito consolidato gruppo. Formazione
tipo, come sempre, per le scappatelle blitz o per le vacanze serie,
come nel caso montagna. Mario Mastrorilli, detto Mastro, chirurgo
di fama nazionale ed oltre, Piero Andreotti, amico fedele e sincero di
Mastro, Alberto Gatti, laurea in giurisprudenza, Johnny Gatti,
medico, Checco Vancini, dentista, e Stefano Sabbioni, bottegaio.
Ci viene data la dritta da amici bolognesi, una casa nel centro di
Cortina, metratura perfetta per noi. Comodissimo, ci dicono. OK,

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presa al buio, via del Bolte 18/a. Johnny ci raggiungerà fra quattro
giorni. Arriviamo e scendiamo dalla macchina…muti.
Ci troviamo di fronte ad una casa a due piani, tutto fuorché invitante.
Porta d’entrata bassa e stretta, una sola finestra in affaccio, intonaco
non proprio curato. Silenzio assoluto. Solo Mastro prende la parola.
“Ma chi cacchio vi ha dato la dritta? Questo è un casolare da malga!
Guardate la porta di entrata, è larga cinquanta centimetri…Ma dai!
Tutte le volte che lascio fare a voi fate delle ca…te! È l’unica
vacanza che mi faccio quest’anno…che mi venga un bene…dai,
entriamo, cogl...oni”
Bisogna dirlo, siamo dei gran fighetti. Abbiamo tutti le bocche storte,
lo sbuffo in azione. “Soccia, ma non siamo neanche in centro…”
Esternazione di Alberto Gatti. Lasciamo le valigie in macchina e gli
sci sopra, pervasi da uno sdegnoso rifiuto, come pronti a ripartire, la
macchina sembra suggerirci “Forza, salite, dietrofront, questa non è
una casa per voi, è una bettola, non abbassatevi a tanto”.
Nel silenzio dominante parte l’ispezione. L’appartamento è al
secondo piano. Porta aperta. Ci troviamo di fronte ad una ripida scala
in legno, pareti in legno, soffitti in legno, la scala permette di far
salire una persona alla volta. Siamo sgomenti. Cavolo, è veramente
una bettola… Saliamo circa trenta scalini, altra porta di legno, stretta
come il resto. Sembriamo i sette nani, che poi siamo cinque, in fila
indiana, uno dietro l’altro, mesti che più mesti non si può. OK,
Mastro, come al solito, decide ed apre la porta, lentamente, molto
lentamente. La maniglia si abbassa. La porta, sempre più lentamente,
ormai nostra alleata, ci fa coraggio, quasi ci sorride e pare ci dica:
“Forza, non abbiate paura, spostatemi del tutto”. Così facciamo.
Siamo i sette nani, cinque, che vedono Biancaneve addormentata,
incredulità! Meraviglia! Stupore! Magia! Si presenta ai nostri occhi
una meraviglia di casa, una dimora principesca, degna, appunto, di
un principe, quello di Biancaneve. Porte in legno massello, intarsiate
a regola d’arte, in terra parquet di rovere ovunque, alle pareti quadri
e stampe bellissime, illuminazione perfetta, riscaldamento regolabile
a piacere in ogni camera, bagni talmente grandi da potere essere
trasformati in due monolocali. La stanza da letto padronale, per

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Mastro e Piero, una piazza d’armi, le altre camere non sto neanche a
descriverle. Ma il vero pezzo forte è il salone, straordinariamente
regale. Una vetrata lunga tutta la parete fa entrare in casa tutto il
gruppo delle Tofane, e noi le tocchiamo con un dito.
Duecento metri quadrati non di casa, ma di reggia, tutto quello che
non si può immaginare da fuori, tutto quello che si può desiderare
dentro. Di meglio non c’è. Siamo dei principi. Quando rientriamo
dopo una giornata di sci, ritmo dato da Mastro, sciatori a cottimo,
ridotti a stracci della polvere, e affrontiamo le scale con sofferenza
sovrumana, arriviamo alla porta di casa, e, maniglia girata, porta
spalancata…una meraviglia…un sogno…una visione celestiale.
Cinque stelle lusso, un conforto quasi immeritato. Le vasche da
bagno in un battibaleno occupate dai cinque nani. Un trionfo. La
SPA, in confronto a quanto fruito, roba da ridere. Che vacanza…
pareva una tragedia, ma miracolosamente il rospo si è trasformato in
principe, e noi da musi lunghi ci siamo trasformati in sorrisi a
trentadue denti. Sole, sciate, aperitivi, cene, sciate in notturna
illuminate da fiaccole, giro dei cinque passi, e…la Marmolada?
Ovvio, anche una sciata sul ghiacciaio non può mancare. Avete
presente un trionfo, che dico, un miracolo di vacanza? Questa. Così
trascorrono i primi tre giorni. E non dico altro. Checco:” Domani
sera arriva Johnny, mi ha detto che verso le 10 è qua. Avrà cenato?
Non avrà cenato” “Checco ma chi cacchio se ne frega se ha cenato o
no…” Checco sempre educato, premuroso, un gentiluomo. Mentre
sono meravigliosamente sprofondato nel divano di morbida pelle del
salone, mi guardo intorno e mi beo di tutto quello che mi sta intorno,
con le Tofane che mi fanno l’occhiolino, mi viene una diabolica idea,
la vera idea, la grande idea. Mi rivolgo ad Alberto, Checco, Alberto e
Piero, e: “Ragazzi, sentite cosa mi è venuto in mente: se facessimo
credere a Johnny, visto il suo terrore per la precarietà, l’indigenza e
la miseria, che la casa è una schifezza, piccola e invivibile?
Ricordatevi, quando siamo arrivati, eravamo convinti di entrare in
una bettola, in una schifezza di casa…”. Figuriamoci, adesione
entusiastica generale! “Dai! Lo facciamo morire! Grandissimo”.
L’unico è Checco che, cristianamente protettivo: “Dai, poveretto, ci

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rimane male, gli roviniamo la vacanza…”. All’unisono: “Ma


vaffan…lo!”.
È il giorno X, chiamiamo tutti gli amici bolognesi vacanzieri come
noi, una decina. Spieghiamo il programma, entusiasti, li istruiamo.
Appena arriva il malcapitato, tutti chiusi nel salone in silenzio
assoluto. Johnny:” Sono a metà strada, c’è anche Cenzo, che dorme
da suo cugino, com’è la casa?”
Ci siamo. “Bella?” “Ma sì, dai, Johnny, non male, forse un po’
piccolina, non è modernissima, però è abbastanza calda anche se il
riscaldamento è un po’ zoppo…Comunque, dai, ci stiamo! Poi i
problemi si superano, i problemi si superano, siamo tutti amici, uno
per tutti e tutti per uno! Dai Johnny, l’ottimismo è il sale della vita!
Ti aspettiamo!”. In trepida attesa prepariamo il set dello spettacolo.
Tutte le porte in affaccio all’ingresso chiuse, ingresso che funge da
monolocale, nostro appartamento. Foglio affisso alla porta del bagno
con gli orari di accesso e coi tempi di permanenza molto stretti,
perché: “L’ACQUA È SCARSA”, scritto in grassetto. Geniale: in
terra un materasso matrimoniale privo di lenzuoli, di fianco
all’entrata. Una ragazza, non si sa chi fosse, amica di amici, si presta
a recitare la squallida parte. Si siede sul materasso, camicia di
Mastro, bianca, enorme, volutamente sgualcita, capelli neri pettinati
a concio, come le nonne anni ’50. Di fianco Checco, il pezzo forte,
così vestito: maglia mia intima, strettissima, imposta da mia madre
quando vada a sciare. Il suo piccolino deve essere coperto bene: “Se
va molto sotto zero metti questa, dai, che così non hai freddo!”.
Impossibile rifiutarla. Checco, oltre alla immettibile maglia, foulard
alla contadina rosso al collo, calzamaglia beige, un po’ consumata,
tubolari marrone bucati apposta per l’occasione, seduto di fianco alla
povera derelitta. Sul materasso, una tazza di latte, un’arancia, due
mele ed un pacchetto di cracker. Immagine inquietante. L’indigenza,
la miseria. La: “non ce la possiamo fare”. Mastro, Piero, io ed una
decina di nostri amici, chiusi nel salone, bocche cucite, spettatori che
sbirciano da una fessura. Ci siamo, è il momento. Sentiamo
l’inconfondibile rumore Mercedes di Johnny. Parcheggio. Motore
spento, freno a mano. Chiusura prima portiera, Pedrazzi. Chiusura

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seconda portiera, Johnny. Chiacchiericcio allegro, risatine.


Campanello, entrata dei due. Chiacchiericcio finito. Fischiettio
nervoso di Pedrazzi. Silenzio tombale di Johnny. Rumore scale,
apertura porta di entrata. Muti. Voce mesta e balbettante. “Ciao
Johnny, ciao Cenzo, dai, venite dentro, chiudete la porta, che entra
freddo, che ne abbiamo già abbastanza!”. Checco recita la parte a
menadito, da attore consumato, mentre la ragazza, di sua iniziativa,
bravissima, finge una tosse secca, da enfisema. Checco:” Dai, siamo
un po’ stretti, ma vediamo, magari facendo i turni, ci stiamo tutti…
Per favore, guarda subito gli orari del bagno, è importante, sennò ci
incasiniamo e ci accavalliamo. Ah, gli altri sono in Enoteca a fare il
pieno di caldo, sai, anche oggi il riscaldamento va a zoppagalletto,
non so se questa notte funzionerà sempre…”. Ho impressa in mente,
nitida, la faccia di Giovanni, uno sguardo a destra, uno a sinistra, una
lettura al foglio affisso alla porta del bagno, una squadrata alla
fanciulla, vestita e pettinata da timorata novizia, ma fino all’inguine,
dopo di chè un paio di gambe nude da ballerina di Bramieri, come
diceva il mitico Otello. La testa di Johnny si sposta verso Checco,
immagine ed espressione della faccia del pastore che ha avuto il
gregge di pecore sbranato dai lupi. In tutto questo, Pedrazzi,
completamente fuori, fischietta motivetti inesistenti. Una scena
strepitosamente fantastica, meglio non si poteva desiderare. Neanche
dieci secondi di silenzio rotto da Johnny, che con voce ferma,
sottotono ma lapidaria dice:
“IO IN QUESTA RANA NON CI STO”.
Porta del salone spalancata, applauso generale, risate infinite, risatina
a bocca storta di Johnny: “Rido? Mi inca…o?” Ride. Pedrazzi non ha
capito niente di quello che è successo, ma non è importante,
l’importante è che lo scherzo sia riuscito. O no?
Queste poche pagine Sabbioni-Gaibola parlano della verità, della
reale verità, della vita, la vita reale.
Tutto il resto, routine, lavoro, biberon, fatture, vacanze, vendite,
denti nuovi, computer, badanti, vernici, conti correnti, ernie
inguinali, protesi d’anca, posto barca, prostata e tanto altro, non sono
la realtà, affrancano la realtà, quella vera, quella libera, quella che ti

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fa giocare alla Salus, quella che non ha scadenze, che ti fa vivere


liberamente, senza invidie, senza cattiveria, quella che ti fa volere
bene. Puoi tornare bimbo e calciatore. Sei il nuovo Maradona, idolo
delle folle, sei più forte di Ronaldo, quando e come vuoi tu. È tutto
così leggero, così facile, così magicamente fantastico ma reale…. È
vero, il calcio non si può giocare in eterno, il fisico comanda, ma non
comanda i Sabbioni-Gaibola. Le sfide continuano, ci si
ritrova ancora alla Salus, non in quella di Porta Saragozza, ma in
quella di piazza Santo Stefano. Non c’è più il campo in terra battuta,
non molto battuta, ma c’è una tovaglia bianca, non c’è il pallone, ma
delle tazzine che profumano di caffè, e poi ci sono i Sabbioni ed i
Gaibola che continuano a giocare con le parole.
In questi anni abbiamo visto cose che voi umani non potete
nemmeno immaginare. I giovedì ci hanno regalato la magia di potere
tornare bambini con l’aspetto di adulti, ma bimbi in tutto il resto, nel
correre, nel saltare, nel battere le mani, nel parlare, negli screzi, negli
abbracci, nelle mille e più sciocchezze, nelle vene, nell’amicizia
sincera e disinteressata. Tutto ciò al Campo Salus, di fianco al
cinema Tiffany, porta Saragozza, Bologna, dove anni fa proiettarono
il film “Rosemary babe”, ma solo fino a giovedì.
Una nota sulle sfide pluriennali fra i Gaibolas e Dottori/Sabioni.
È vero sono state divertenti. L’imitare i professionisti del pallone era
uno spasso: l’esultanza per un gol ci faceva diventare dei piccoli
attori che impersonavano i veri attori della domenica. l’unica nota
stonata era, come dice il SABIO. Il costante rumore della plastica
strusciata che indossavano alcuni (es. O REY E VALERIO
ROMITELLI) per cercare, sempre invano, di perdere un etto di lardo
o di ciccia col sudore della corsa trasformando così la nobile arte del
calcio in una sorta di SPA da hotel a due stelle! Sulla schiena di
questi personaggi e, aggiungo il nome emblematico di MARIO
VICINELLI, avrei cucito il numero: - 1. Il perché’ è evidente:
quando venivano a giocare alla SALUS (mai prima scelta) la loro
squadra giocava praticamente con uno in meno. Dribblomani fino
all’assurdo, quando venivano in possesso del pallone, non lo
passavano a nessuno cercando solo un avversario da dribblare con il

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risultato che di gol non se ne è mai visto uno dai loro piedi. Quindi la
tattica di squadra era: non passare, PER NESSUN MOTIVO, MAI e
poi MAI la palla ai sopraindicati numeri: meno 1! Ultima nota: i
GAIBOLAS non hanno mai avuto un portiere titolare e VALERIO
ROMITELLI, che lo era di nascita, decise che, in porta, non si
dimagriva abbastanza, quindi si improvvisò centrattacco di
sfondamento. decisione rovinosa che ci portò alla disfatta totale!

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