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Introduzione
Sono seduto ad una pasticceria in centro città e parlo con un vecchio
amico, Daniele.
Non ci siamo frequentati molto da giovani, lui era taciturno, mi
sembrava riottoso, in mezzo ad una compagnia di coetanei immensa
e molto espansiva, ciò bastava a non avvicinarlo con frequenza.
Abbiamo poi passato gran parte della vita in viaggi che ci hanno fatto
rincontrare per brevissimi aggiornamenti, frasi brevi, saluti frettolosi,
cene con amici e rapidi incontri al bar.
Da qualche anno ci vediamo più spesso, la gigantesca compagnia di
una volta si è molto ristretta e lui, continuando con attitudine
riservata, è divenuto un riferimento. Tantissimi sono spariti.
Facciamo anagraficamente parte di quella generazione, cresciuta nel
primo dopoguerra, che, nella nostra città, è stata sovralimentata di
speranze ed ha passato una gioventù fantastica negli anni comodi,
durante una crescita costante dell’economia, fino all’inizio degli anni
’70. Ci siamo sentiti velocemente al telefono:
“Sai, ho voglia di fare un libro con la storia dei tornei di calcio di
Gaibola, ma non trovo nessuno che mi aiuti od abbia voglia di
ricordare quel periodo, un amico mi ha detto che tu forse potresti
aiutarmi, ti andrebbe?”
“Si, certo, vediamoci e parliamone, quando?”
“Anche oggi, non nel primo pomeriggio, un po' più tardi, …”
Ho risposto in modo affrettato, ma è un percorso che ho già fatto da
solo tante volte e quindi conosco già a memoria.
Due anni di clausura quasi totale, pandemia e conseguente attenzione
alla salute ci hanno obbligati a ripetuti ricordi consuntivi sul nostro
passato. Lui, come me, come tutta la mia generazione, sta rivedendo
a ritroso la sua esistenza, periodicamente, con frequenza sempre più
ansiosa, accelerato da notizie giornaliere che paiono bollettini di
guerra per i nostri coetanei, scappiamo da qualcosa che ci fa stare
sospesi. In troppo breve tempo tutta la nostra generazione è
caduta da un olimpo e dalla sensazione di immortalità ad una
percezione ctonia, terrestre e casuale.
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La nostra generazione, dei nati tra il ‘40 ed il ’50, ha due sport amati
in prevalenza, calcio e ciclismo, ma il ciclismo era fatto di fatica,
impegno e sudore, il calcio di talento e fantasia.
Per il calcio noi eravamo la generazione di appassionati che
desideravano rivivere il mito dello “Squadrone che tremare il mondo
fa”, ma, in attesa di nuove glorie, tutti ci convertimmo a quel gioco.
Il ciclismo aveva i suoi miti viventi in quegli anni ed era per noi, alla
fine della scuola, motivo di grandissimo interesse, ma durante la
pausa del campionato di calcio.
Il grande duello Coppi Bartali, amplificato dalla Gazzetta dello
Sport, e da tutti gli altri giornali sportivi creava un interesse
diffusissimo ed inatteso. Bartali si ritirò nel ’54 e Coppi morì nel ’60.
Da allora fino alla fine degli anni ’60 il primo sport per la nostra
generazione fu il calcio. In quegli anni il presidente Dall’Ara non
riuscì a ripetere i successi degli anni precedenti la guerra, solo
mantenne una decorosa presenza in serie A ed un pubblico
domenicale di tifosi appassionati.
Nel ’61 arrivò ad allenare la squadra Fulvio Bernardini ed in pochi
mesi il gioco della squadra divenne celestiale. In giro per la città, si
cominciò a respirare un clima euforico, agli allenamenti
infrasettimanali i tifosi riempivano gli spalti della tribuna, glorie
cittadine, giovanissime, ebbero accesso alla prima squadra, creando
tra noi, di poco più giovani, modelli da emulare.
La crescita fu immediata ed inarrestabile, in tre anni arrivammo a
vincere l’ultimo scudetto, poco rispetto al gioco che la squadra
riusciva ad esprimere, ma tanto se si considerano le povere risorse
economiche a disposizione e le strutture finanziarie delle avversarie.
Il 4 giugno del 1964, a Roma, ad una settimana dalla perdita del
nostro grande Presidente, la squadra, con un atteggiamento cauto ma
vittorioso affrontò la grande Inter di Herrera e batté sul campo la
squadra e tutte le operazioni avverse degli ultimi mesi perpetrate dai
media e dalla Lega. Il presidente era deceduto nella sede della Lega
Calcio da pochi giorni, in vista di una riunione preparatoria con il
Presidente Moratti. Quel giorno la Lega gli avrebbe proposto, per
l’anno in corso di assegnare due scudetti ex aequo, offerta non
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faccendiere, fra le altre cose non pretese mai che i suoi dipendenti
fossero iscritti al partito, e scelse, per la Nazionale, un commissario
tecnico, Vittorio Pozzo, che non ebbe mai la tessera.
Parte in causa in un proto-processo di corruzione tra Torino e
Juventus, dopo la squalifica del Torino, quell’anno primo in
classifica a fine campionato, non fece assegnare lo scudetto alla sua
squadra, il Bologna, arrivata seconda, semplicemente non assegnò lo
scudetto, spiegando con una lettera alla Gazzetta dello Sport le
motivazioni:
“Ho sempre agito in tutta la mia vita con molta prudenza e molto
equilibrio prima di pronunciarmi… Chi ha sbagliato deve pagare. Il
football italiano è pervaso da qualche tempo a questa parte da un
sottile veleno che lo mina alle origini. Guai se il pubblico comincia
a dubitare che anche nel football, giuoco collettivo e passionale al
massimo grado, siano possibili losche ed interessate pattuizioni di
singoli, intese a falsarne i risultati sportivi. Ho motivo di ritenere
che sarebbe a breve scadenza la fine per lo sport del calcio che se
pure godesse ancora dei favori delle folle piomberebbe nel
discredito così come è avvenuto purtroppo per altri sport che furono
pure in largo onore in Italia. Queste sono le ragioni per cui ho
voluto essere, ripeto, inesorabile e non ho considerato null’altro che
le buone ragioni del sano ed onesto sport. Ma quando ho acquistata
una certezza, quando ho scoperto qualche cosa di poco pulito, sono
sempre stato inflessibile e non ho mai guardato in faccia a nessuno.
Il titolo di campione d’Italia passerà ora al Bologna? Assolutamente
no. Il risultato dell’inchiesta è tale che ho riportato l’impressione
precisa che talune partite di campionato abbiano falsato l’esito del
campionato stesso. Il Bologna non avrà perciò il titolo tolto al
Torino; il campionato 1926-27 non avrà il suo vincitore”.
Altro commento singolare che voglio fare è che ancora oggi venga
ricordato, come motivo storico della uscita di scena di Arpinati, una
sua lite con Storace per il rifiuto fatto a lui ed ai suoi uomini di
entrare gratuitamente ad una partita di calcio a Roma, imponendogli,
come a tutti di pagare il biglietto.
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Quel circolo, sede del Circolo Ippico, nel dopoguerra ospitò anche il
neonato Circolo del Bridge, dove mio padre mi portava da
piccolissimo.
La Salus aveva un guardiano speciale, legato al campo stesso come
in un contratto matrimoniale, lo ho visto invecchiare col campo per
oltre quaranta anni, da bambino fino alla partita fra colleghi con
pancetta e colleghi giovani. Credevo dormisse anche lì. La mattina,
prima delle otto, quando passavo andando al liceo, lo trovavo già che
annaffiava quei quattro fili verdi che erano sopravvissuti sul
campetto, certe sere, giocando dopo cena, attendeva che uscissimo
dagli spogliatoi dopo le ventitré, poi puliva. Sono certo che se, dove
si trova adesso, gli dessero una sola ora di libera uscita, non andrebbe
a vedere i suoi discendenti, ma passerebbe dai fatiscenti spogliatoi e
docce per vedere se abbiamo lasciato pulito.
Qualche tempo fa ho trovato la porta socchiusa e sono entrato a
curiosare. Tutto uguale, mi aspettavo di vederlo uscire da dietro un
angolo, come sessanta anni fa, come se per lui il tempo fosse quello
leggendario della vita del campetto, non quello degli uomini.
“Di qua”, mi sono detto, “è passata tutta Bologna”.
Qui, negli ultimi tempi in cui giocava, una sera, venne con noi Ezio
Pascutti. In allenamento, con la squadra, non lo facevano giocare,
aveva un ginocchio “di vetro”, e siccome gli piaceva fare partita,
veniva in campo con noi. Dopo una mezz’oretta si fermava, perché il
ginocchio gli si gonfiava.
Era sempre disponibile ad un saluto, ad un sorriso, ad un racconto.
Aveva due personalità, una in campo, da eroe omerico, forte,
combattiva e fiera, si trasformava in guerriero, quella per cui noi tutti
lo abbiamo amato, la seconda, nella vita comune, di persona
qualunque, modesta, quasi timida, molto silenzioso dopo la sua la
partita contro l’URSS.
Ci raccontava della Nazionale, dei compagni, di Lo Bello; “E’
l’unico arbitro con cui sto tranquillo in campo, non permette entrate
pericolose, con lui mi sento sicuro per le gambe, quando gli passo
vicino delle volte mi dice: “vai faina!”
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La partita di Mosca del ’63 fu per lui una caduta dalla torre degli
asinelli, una perdita della popolarità che si era guadagnata in campo e
della stima del pubblico nazionale che gli dava forza.
Era l’unico racconto che non ci faceva volentieri, per rispetto a lui
non lo ricordo, non lo merita. L’ultima volta lo ho visto vicino al
mercato delle erbe, la gente lo salutava ancora con affetto in strada e
lui passava, con sguardo da basso profilo, occhi bassi, quasi a
schermirsi, a non credere di essere ancora popolare.
Ezio era stato una colonna della mitica squadra che vinse l’ultimo
scudetto del Bologna nel campionato 1963-64, l’ultimo scudetto del
Bologna F.C., prima che il calcio diventasse attività industriale,
eliminando dai sogni delle squadre provinciali lo Scudetto.
Alcuni anni che seguirono furono, per la nostra generazione, come
ho accennato, un periodo di crescita positiva per tutta la città, una
presa di coscienza della qualità della vita bolognese, un miracoloso
momento di equilibrio di tutte le energie cittadine. Sacro e profano,
pubblico e privato, lavoro e tempo libero, cultura e lavoro, studio e
svago trovarono equilibri e giusti dosaggi che furono le condizioni al
contorno per generare quel benessere sociale in cui noi abbiamo
vissuto.
La costruzione della gioia ha sempre origini lontane e valori di base
che possono essere facilmente individuate con lo studio degli eventi.
Credo valga la pena perdere alcuni minuti in questo esame.
La Bologna del ‘900.
La nostra città, analizzandone la storia del ‘900, deve partire da un
politico di riferimento, Francesco Zanardi. Nato a Mantova, da
famiglia agiata nel 1873, si laurea a Bologna in Farmacia e,
successivamente in Chimica.
Svolge attività politica ed amministrativa nel Partito Socialista
Mantovano e nel 1902 diviene sindaco di Poggio Rusco ed assessore
al comune di Bologna.
Il 15 luglio 1914 si riunisce il primo consiglio comunale a
maggioranza socialista di Bologna che elegge sindaco Francesco
Zanardi, «in nome del popolo». Bologna, dotta, liberale e turrita sotto
l'egemonia della Camera del lavoro e dell'analfabetismo, così titola
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Daniele ed io.
Scrivere un libro in due non è cosa facile.
Ognuno di noi ha impiegato oltre settanta anni a crearsi, del
mondo reale, una sua costruzione soggettiva, fatta di
percezioni personali ed immagazzinate in una memoria
filtrante, deviante ed a volte opaca nei ricordi.
Oltre a ciò, ci sforziamo di ricordare un periodo di vita in cui
le nostre coscienze personali e sociali non erano
completamente costruite, non avevano l’equilibrio raggiunto
con l’età, non si erano sedimentate cognitivamente.
Abbiamo quindi pensato di mantenere le due memorie
contemporaneamente, invitando anche altri coetanei che
abbiano partecipato agli eventi, non per creare un
monumento della memoria, ma un ologramma della
memoria. In più tributassimo un ricordo, tanto più
soggettivo, tanto più ne uscirebbe una visione vivida e reale,
declinata in tutte le sue forme.
In poche parole, Gaibola, come Bologna, come le sue mura,
le sue architetture ed i suoi abitanti, sono in continuo
movimento, nella nostra memoria, anche le due torri, che ci
sembrano ferme, si sono mosse, nella nostra mente, proprio
come Dante vide muoversi verso lui la Garisenda,
paragonandola al gigante Anteo. Le ritroveremo nella loro
posizione di allora solo se saremo in tanti, allora le coscienze
cittadine di tanti non creeranno quella dinamica che non ci fu
mai, ma eliminerà i bradisismi della memoria che mutano
luoghi, cose, architetture e persone, e con essi le emozioni
che se ne ricevono.
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1. Il Palazzo Vallisi
Le prime avvisaglie che sarebbe stato un ottimo giocatore di calcio le
diede a Ferrara, dove era stato messo in collegio per punizione, per
scarso rendimento scolastico, cosa comune in famiglia anche in
futuro.
Piero scrive nelle sue lettere alla madre un fatto curioso. Giocando
nella squadra del collegio come attaccante un compagno ricco e
grasso gli propose come patto di procurargli una pasta ad ogni goal
che avesse fatto. Piero si impegnò tanto che fece cinque goals nella
partita seguente, con il compenso di cinque paste.
A parte la facezia, Piero giocando nella squadra del collegio fu
notato da qualche dirigente del Bologna e segnalato come talentuoso
alla società, per cui arrivò a giocare come mediano sinistro col N° 8
nella squadra felsinea nei campionati 1920-21 e 1921-22.
Convocato per la
nazionale giovanile si
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3. Piero Pilati
3. Angiolino e Cito
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nel doppio per la società Virtus oltre a fare parte della prima squadra
del Bologna. Aveva 21 anni.
Bubi era il vezzeggiativo di Carlo Antonio Scimeca, figlio di un
Generale di Fanteria, comandante la sesta guarnigione di stanza a
Milano.
Il fatto creò sgomento in tutta la città e molto scalpore nell’ambiente
sportivo, poiché i due ragazzi, della Bologna “bene” erano molto
conosciuti ed amati.
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da Porta Saffi fino a via Marconi e poi ritorno, questo era il nostro
territorio.
I miei ricordi sono forse stupidi o insignificanti, ma molto nitidi e
pregnanti.
Da bambino, fu un attraversamento imprudente, di corsa della strada
verso la caserma Mameli, non c’erano i semafori, passai mentre
arrivava un camion che mi mancò per un soffio. Rimasi terrorizzato,
ma udii chiaramente la bestemmia del camionista: “Porca Mad…”
1 C’era un piccolo negozio di fotografo, praticamente di fronte
alla casa di Pinotti, circa al N°122, che aveva la vetrina
zeppa di foto di soldati, fra le quali spiccava il ritratto del
comico Franco Franchi. Più tardi compresi che i militari di
leva si facevano le foto da inviare alla famiglia e Franco era
stato uno di loro.
2 A questo punto vorrei parlare della famiglia Pinotti, tipica
della Bologna povera, come era la parte bassa di via San
Felice. Erano in sei, padre, madre, tre figli maschi ed una
femmina. Davanti ad uno degli ultimi numeri della via San
Felice veniva parcheggiata sempre una moto, di grossa
cilindrata con il manubrio all’americana. Questa era la moto
del padre, un tipo non tanto alto con barba e baffi rossi.
Era un pittore, ma in pratica faceva il cartellonista
pubblicitario, quindi: “un artista”.
La madre, una tambucciotta, modello lavandaia, sempre
molto truccata, portava un fazzoletto in testa annodato sulla
fronte che, come tutti pensavano, doveva nascondere una
forte calvizie, agghindata così assomigliava a Moira Orfei ed
era soprannominata” La spagnola”.
I tre figli maschi erano: Valerio, Claudio, detto Pegno e
Marco, morto purtroppo in un incidente stradale vicino a
Milano e Patti (Patrizia), la più piccola, che frequentava le
elementari con mia sorella Valeria.
Tutti i ragazzi Pinotti frequentavano la Fortitudo e
rappresentavano un livello medio alto di quell’ambiente
della Polisportiva che vi lascio immaginare.
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Fortitudo.
Io avevo il divieto assoluto di recarmici, da parte dei miei genitori,
che preferivano la parrocchia. Per me era molto più noiosa, in quanto
si poteva giocare solo a ping-pong o pallavolo.
Narro alcuni episodi per rendere meglio l’idea di cosa facessero i
frequentatori della Fortitudo, oltre a giocare ininterrottamente per
tutto il giorno, cioè fino alla sera a dopo il tramonto.
Per giocare a pallone, oltre al numero di giocatori, che sempre era in
eccesso, c’era bisogno del pallone, che nessuno aveva, e che quindi
nessuno portava.
16. Don Corrado con un Gruppo di Giovani Calciatori, tra cui Brunino
Perciò entrava in ballo la “Vecia Pandora”, madre di Don Corrado,
direttore della Fortitudo, che forniva il pallone solo se veniva lasciato
del denaro od un pegno che veniva restituito a sera alla riconsegna
della palla. Avvenne che per alcuni giorni nessuno avesse denaro od
oggetti di valore da dare alla “vecia pandora” in pegno al pallone,
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I lavori,
necessari per
ragioni di igiene,
si svolsero alla
fine degli anni
’50 e
cancellarono una
tipica opera della
Bologna
medievale che
conta una vasta
rete di canali,
oggi tutti
sotterranei, con
21. Monumento alle Lavandaie poche vestigia
affioranti. Tra le attività di lavoro, estintesi per ultime, vi è
quello delle lavandaie, che, piegate a livello acqua o inserite
in grossi tubi fognari asciutti verticali, lavavano i panni nel
Reno, sbattendo e risciacquando per ore. Dopo l’inizio degli
anni ’60 le case si riempirono di lavatrici. Ricordo bene certe
grosse pantegane che circolavano liberamente, spesso più
grosse di un comune gatto, che temevano solo i ragazzetti
locali che le cacciavano con sassi od altre armi improvvisate
come passatempo primario.
Di tutto ciò è rimasto solo il ricordo, oltre ad una ampia
strada con semaforo ed un parcheggio. Dalla parte di via
della Grada, dove erano rimaste alcune macerie è accosciata
una strana statua in bronzo di Sara Sarmenghi, raffigurante
una lavandaia praticamente nuda dentro una bacinella
d’acqua. La statua è dedicata al lavoro femminile, ma ha
ricevuto scarsa approvazione da quanti si ricordassero le
lavandaie al lavoro che in tre giorni ti restituivano i tuoi
panni lavati e stirati a prezzi onesti.
Un secondo lato negativo per la città dovuto alla copertura di
praticamente sette tra torrenti ed affluenti coperti in città è
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decente e con prezzi abbordabili, con una vista invidiabile dei colli,
vicino al centro, quindi facile da raggiungere, ed uno dei pochi
ristoranti in collina dove, d’estate, si poteva mangiare di sera e
godere di una discreta frescura.
Nella foto a
lato
possiamo
notare
Beppe
Savoldi con
Ezio
Pascutti e
Pesaola,
allenatore
del
Bologna.
Per questi
buoni
motivi il
Portichetto divenne ben presto meta dei giocatori di calcio del
Bologna, quindi, potere cenare con gli idoli di tanti tifosi diede un
lancio più che notevole al locale. Non era infatti improbabile vedere
e, magari, farsi fare un autografo, da: Pascutti, Bulgarelli, Pesaola,
Savoldi e Conti, Presidente del Bologna. Supereroi sopravvissuti ad
un inesorabile declino della squadra.
Rossi, il proprietario ed i suoi camerieri
vanno ricordati: Livio, Ivo, Cesarino,
Pippo ed i Gemelli con la Contessa.
Anche la moglie di Rossi, che non era
malaccio va ricordata, anche se si era
dedicata troppo ad uno dei gemelli.
Non abbiamo differenziato le foto in
quanto danno una idea dell’ambiente
prese nel loro insieme. Facciamo notare
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oggi lo si può vedere sorridente nella foto dei Rimondini prima della
partita contro i giovani di PINO che vincemmo 3 – 2.
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molte volte nessuno dei due li aveva in tasca, a quel punto occorreva
trovare i contanti per darli da conservare, durante le partite, ad una
persona di fiducia che poi, secondo il contratto negoziato, pagasse
ogni volta il vincitore.
I finanziatori più vicini erano i negozianti della zona con un flusso di
cassa sufficiente, ma non tutti i giocatori erano finanziabili. Alcuni
campioni, dal punto di vista della affidabilità finanziaria erano
sottozero. Quelli dovevano attingere finanza a fondi di denaro con
“interessi” variabili, da piccole percentuali fino allo strozzinaggio.
Esistevano campioni che giocavano alcune ore tutti i giorni e
facevano fatica a tenere per sé la cena.
Una volta trovata finanza e soci finanziatori si consegnavano i soldi
ad una persona di fiducia per entrambi e gli si spiegavano le regole
della scommessa.
La persona di fiducia del Salone era un anziano. La sua caratteristica
era non togliersi mai il cappello.
Siccome in altri tempi, per portamento, modo di parlare e rivolgersi
alle persone, mostrava avere avuto sorti diverse, veniva considerato,
da tutti, una persona affidabile.
Era velocissimo mentalmente e bene educato, molto preciso e
corretto quando riceveva i dati di una missione, non so se fosse stato
sempre onesto, il suo soprannome era “Vecchio T’inganni”, da
interpretare in tanti modi. Lui riceveva un pacco di banconote da
diecimila lire, erano come lenzuoli, in formato A4, le teneva separate
in due tasche diverse e ad ogni partita pagava con due banconote il
vincente. Se c’erano in giro visi strani, di persone non conosciute,
non si facevano circolare soldi.
Il gioco d’azzardo era proibito, quella partita andava sotto la
qualifica di competizione sportiva.
Il “vecchio” aveva una età indefinibile, certamente sopra i 60, ma per
quasi dieci anni lo vidi con lo stesso vestito e cappello, solo in
inverno indossava un cappotto di un colore scuro indefinito. Una
volta sola lo vidi togliersi il cappello e capii che era pelato. Non
commentava mai le partite e parlava raramente. Si sedeva vicino alla
buca centrale con una stadera per segnare i punti ed un tavolino ed
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Valerio Pinotti
Delle sue origini ne abbiamo già parlato descrivendo l’ambiente di
via San Felice.
Lo conobbi quando veniva a giocare a pallone a Gaibola. Tre cose mi
rimasero subito impresse:
Primo, lui si presentava al campetto accompagnato, sulla sua
lambretta, da una ragazza vistosa con capelli platinati a frangetta,
certa Mariarosa. La cosa strana era che questa ragazza non parlava
con nessuno e aspettava che Valerio finisse di giocare, anche 3 o 4
ore
Secondo, si vantava di aver scopato nei posti più astrusi, non
disdegnando un confessionale di una chiesa.
Terzo, assicurava di essere andato a tutti i concerti dell’amico Lucio
Dalla, perfino utilizzando un Solex, per seguirlo in Romagna, ad
Imola.
Passato del tempo e, sapendo che suo padre era cartellonista, gli feci
creare due striscioni per una festa dei 50 anni di molti di noi a
Gaibola. Famosi i suoi due slogan: “Cin, Cin, cinquanta!” e: “Tosti
ma non toast”. Molto apprezzati. Bisogna anche ricordare che
Valerio è stato conduttore di un programma televisivo sul basket:
“Sotto Canestro”, programma che aveva di peculiare il fatto di non
avere filtri e la parte delle telefonate con il pubblico a casa era
esilarante ma anche pericolosa. Ad una puntata furono invitati come
esperti Francesco Guccini e Giorgio Bonaga, il primo confessò che a
mala pena sapeva cosa fosse la pallacanestro e, al secondo, arrivò
una telefonata di qualcuno che per rimarcare la bassezza di Giorgio,
chiedeva se fosse seduto o in piedi. Quando si capì che la telefonata
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era di Berti Ceroni partirono gli insulti tutto sommato benevoli. Non
del tutto leggeri furono quelli di un altro ascoltatore che iniziò:
“Sfigato, pezzo di merda, ecc…” a Valerio, il quale rispose per le
rime con: “Testa di cazzo, se ti trovo ti spacco il culo ecc…”.
Conclusione: la trasmissione fu sospesa e non fu mai più rimessa in
onda!
Giorgio Rovinetti.
L’uomo dal braccino d’oro: molte facezie su di lui, alcune già
raccontate.
La cosa che mi faceva più piacere di Giorgio era che, nello
spogliatoio, sia che fossimo compagni che avversari, voleva che fossi
io ad allacciargli le scarpette. Grande segno di confidenza amicale.
Mauro Mingardi.
Si mise, con poca soddisfazione fisica, con una ragazza non bella, ma
disponibile e anche aggressiva. Dopo pochi giorni, la mollò e
addusse, come scusa, lui che non era proprio un tombeur de femmes,
la definizione poi rimasta famosa: “Quando si spogliava non si
capiva quale era il davanti e quale il didietro, a tutto c’è un limite”.
Fratelli Bonaga.
Grandi ballisti, non basterebbe tutto l’inchiostro del mondo per
raccontare tutte le loro balle.
Trio Tossani, Moscatelli e Poli: grandi mossieri
Lo Svizzero.
Viene a Londra, tenta di fare la guida turistica con poco successo:
all’esordio, sul pullman, prende in mano un piccolo ombrello nero
chiuso, credendolo, per l’emozione, il suo microfono e inizia a
parlare ai suoi turisti che lo guardano esterrefatti.
Questo fu il primo e unico tentativo di intraprendere la nobile arte di
guida turistica.
Incomprensione con la mia amica Nora, di diverso segno zodiacale.
A Londra lo Svizzero si trova senza la camera dove dormire. Scatta
l’emergenza e la mia amica Nora, napoletana, gli offre una camera
del suo vasto appartamento per una modica cifra. Lo Svizzero, tutto
contento, si presenta, la mattina dopo, armi e bagagli alla porta e
suona il campanello. A questo punto nasce un piccolo intoppo: Nora,
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Corrado
Sempre per citare l’argomento Gaibola vorrei raccontare come
questo luogo mi fosse caro fin dagli albori della mia vita: alle
elementari, oltre ai dettati e ai problemi, ci veniva richiesto di
svolgere temi per lo più su fatti di vita vissuta. Io che vivevo tutto
l’inverno recluso in una camera di via Saffi n.1 a litigare con mio
fratello Stefano. La vera vita vissuta era il periodo estivo passato a
Gaibola con il mio primo e grande amico Corrado e di questo
esclusivamente parlavo nei miei temi scolastici. Questa anomalia
risultò abbastanza strana tanto da indurre il maestro d’Errico a
chiamare mia madre per farsi spiegare cosa fosse questo luogo
fantastico di Gaibola e anche il “Corrado” così insistentemente
citato.
Vorrei raccontare il contenuto di uno di questi temi: Io e Corrado
avevamo assaggiato per la prima volta a casa un melone e
naturalmente ci era assai piaciuto. In seguito, trovandoci nell’orto
scorgemmo un frutto molto simile nella forma a un melone. Questo
bastò per indurci a raccoglierlo, dividerlo in due e mangiarcelo tutto
anche se il sapore ci sembrò un po’ strano. Il frutto era una zucca e il
risultato fu negativo anche perché’ noi non confessammo il furto
della zucca scambiata per melone e la gastroenterite ci tenne a letto
per qualche giorno.
Maccio.
Passati almeno una decina d’anni, cioè quando avevamo già una
ventina d’anni sulle spalle venne la moda di andare a disturbare le
coppiette che venivano in camporella in collina, approfittando del
caldo estivo e della oscurità della notte.
Avvenne che una sera fu avvistata un 600 Fiat ferma a fari spenti in
via dei Pozzetti. L’intento della coppia era evidente ma, col fatto che
era buio, non si vedeva nulla, allora, decidemmo, per un’azione di
disturbo. Io e Maccio ci posizionammo davanti alla macchina, ci
abbassammo le braghe come per fare un bisognino. Dopo pochi
minuti, l’autista accese gli abbaglianti e, a quel punto, io decisi che il
disturbo c’era stato e mi allontanai. Maccio insistette.
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disse che aveva sentito che all’ Ave Maria vendevano anche rosette
di pane, poi un altro rivelò di aver sentito, attraverso la porta di “Ave
Maria” due frasi illuminanti: l’ha detto “AleManzo Sandroni”, e,
“meglio mardi che…tai”. A questo punto due più due fa sempre
quattro. I due gaglioffi non potevano non essere che: il Caio, figlio
del fornaio, e Coltellini, il biorfano. Perché’ il biorfano? Semplice, la
sua famiglia era composta dalla madre, dal padre Coltellini e da un
secondo uomo, detto lo zio, uguale sputato a Coltellini figlio.
Quando avvenne che i due uomini morissero in pochissimo tempo,
uno dopo l’altro, Coltellini figlio diventò naturalmente biorfano.
L’intelligence di don Bonetti denunciò i titolari occulti dell’Ave
Maria che chiaramente dovevano essere quattro. Intervenne la curia,
la Cei, la sacra rota e anche lo IOR di Marcinkus, ma vennero presi
solo il caio e figlio, Terence Hill e Bud Spencer la fecero franca,
risultando latitanti. Intanto Paglia rimase socio del club “Rosso Blu”
e preparava il suo boom annunciato…!
Mia piccola annotazione
Negli anni ’60 ha stazionato per più di un anno, davanti al bar
Cristallo, in piazza maggiore, appoggiato di schiena a una colonna,
James Dean. Esattamente come in una foto del suo film: “ll
Gigante”. Faccia imperturbabile, jeans, T-shirt bianca e stivali da
cow boy. Attenzione, James non era morto in un incidente stradale
con la sua Porsche? Che non fosse lui? Chissà!
Maccio e Daniele ne “la notte brava “
Una sera noiosa al bar Donini. Improvvisamente arriva una fiat 2300
amaranto bicolore con una inchiodata spettacolare; scendono il Caio
e Augusto Marocci. Il secondo ha la macchina del nonno, una berlina
con motore potente, capace di velocità elevate, ma lui non ha che il
foglio rosa ed ha necessità di uno patentato per circolare legalmente.
Il Caio dice che deve andare a casa e la palla passa a Maccio, unico
titolare di patente, il quale acconsente a sedersi a fianco di Augusto
per fare un giretto in macchina, almeno così si disse.
Io seggo sul retro, Augusto parte sgommando e, in un baleno, ci
troviamo sulla via Emilia, direzione est, cioè il mare. Augusto dice
che vuol vedere la grande sedia posta presso la strada come
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Bruno: non sono pronto. Entra così come sei e tira deficiente!
Brunino obbedisce, ancora in camicia e con le scarpe slacciate,
prende una lunga rincorsa e segna il goal. La medicina dei Krupp era
veramente Brunino!
Il giocatore del Chelsea
Nel torneo di Gaibola non potevano giocare dei professionisti. Da
contratto se si fossero fatti male, la loro società li avrebbe multati
salatamente. È chiaro che chi avesse ingaggiato un giocatore di serie
A, pensava e sperava di vincere facilmente il torneo. Ci provò Arrigo
Veronesi con un giocatore del Chelsea che, essendo di una lega
straniera, era fuori dalle regole. Io e Maccio accettammo le buone
ragioni addotte e lo lasciammo giocare. Non toccò palla. Risultato:
magra figura. Il campetto di Gaibola era magico!
Anche la squadra di Daniela Seragnoli fu contestata, perché lei
presentò dei giocatori sconosciuti fuori dalla lista primaria. Date le
disponibilità di Daniela, i suoi avversari temevano, come al solito,
che prezzolasse dei professionisti. Io la obbligai a fotografare tutti i
suoi giocatori, compreso Foli, suo boyfriend, registrammo i
documenti e li facemmo giocare. Persero e furono eliminati. Meno
male!
La macchina della Coca Cola
Un giorno arrivò, non chiamato, il camion della Coca Cola.
Scaricarono una macchina distributrice di bibite, la istallarono sotto
il porticato della canonica e se ne andarono. Don Enea ci permise di
allacciare la macchina alla corrente elettrica e questa cominciò subito
a funzionare.
Sembra una stupidaggine, ma la distributrice di Coca Cola dava al
campetto di Gaibola un non so che di impianto sportivo che non gli
faceva male. La vendita delle bibite divenne anche una piccola fonte
di guadagno, infatti, anche chi non era interessato alle partite, ogni
tanto andava a farsi una Coca, specialmente i bambini. Il camionista,
che scambiava i vuoti coi pieni delle bibite, mi disse che la nostra
macchina era quella che “lavorava” di più nella sua zona.
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La ballerina di Bramieri.
Lingua parlata: alternanza di italiano modificato e dialetto locale.
Insostituibile, anche quando, silente, guarda di traverso la ragazza
di un nostro compagno, non ricordo chi, ma non particolarmente
simpatica al nostro Otello. Poca sintonia, definita da lui “Una
ballerina di Bramieri”. Neanche una ciambella regalata dalla
“ballerina” muove il sentimento di Otello, solo una espressione
dubitativa. Giovedì seguente. "Otello, com'era la ciambella che ti
ha regalato la fidanzata di x?” “Dura cumpagn a un sass, all’ho
de ai pizan...". (Dura come un sasso, l'ho data ai piccioni).
Avrete capito la grandezza assoluta del nostro custode. Fissato il
campo, giovedì ore venti. Il campo Salus diventa il nostro
appuntamento del giovedì sera, che vuol dire calcio più cena.
Siamo nei primi anni Ottanta.
La nostra squadra è la SABIONI abbigliamento, lo sponsor
ufficiale sono io, mi chiamo Stefano Sabioni e gestivo negozi
dove vendevo abbigliamento. Maglia rossa pesantissima, la sola
estate e inverno, maniche lunghe, polsini e collo a camicia
bianchi, numero bianco sulla schiena, e sul petto un rettangolo di
stoffa bianco cucito, con la scritta SABIONI in rosso. Nessuna
stampa, solo tessuto applicato. Lascio immaginare il peso.
D'inverno accettabile, anzi confortevole, in estate era come
giocare con un bimbo sulle spalle. Andava così. La squadra
SABIONI, era detta anche dei dottori, perché annoverava fra ì
componenti medici, dentisti, farmacisti, commercialisti, e altre lauree.
La squadra era, in verità, una accozzaglia, ma no, non voglio
essere cattivo, un insieme di amici appassionati di calcio, di quegli
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Centrocampisti.
Francesco (Checco) Vancini, dentista. Piede d'oro, fisico
atletico, bella visione di gioco, passaggi, lanci, tiri sempre a
segno. Spesso e volentieri vittima della sua lentezza, classica dei
centrocampisti anni Ottanta. Amico di Giovanni Gatti e mio,
spesso spronato da noi in maniera brutale per fare uscire la sua
grande qualità atletico calcistica. Sempre positivo. Angelo
Falasca. Qui bisogna spendere due parole in più. Angelo
Falasca, neurologo, era l'unico veramente dotato
calcisticamente. Aveva giocato, in gioventù, in squadre
importanti, quelle squadre nelle quali, noi marmaglia, avremmo
voluto giocare. Sogni di bimbo. Noi uguali a Falasca, questo
era il vero desiderio irrealizzabile. Per sottolinearne la bravura,
le squadre avversarie, prima di entrare nello spogliatoio, con aria
interrogativa: "C'è anche Falasca?” “Sì" "Cacchio, no!". Insomma,
Falasca invidiato da tutti.
Altro fondamentale centrocampista l’ingegnere Andrea Nesi.
Anche qui si diceva, pezzo grosso dell'IBM. Non si sa. Nesi è
uno di quelli che alla maturità dello scientifico si becca un bel
dieci in matematica, un genio. Giocatore stilisticamente
ineccepibile, edonista, gli occhiali sono d'obbligo. Piede fatato
per i lanci lunghi, peccato che il campo Salus di lunghezza ne
ha poca, non tarata sui lanci dell'ingegnere, per cui gran parte,
bellissimi, finiscono fuori campo, il che vuoi dire contro il muro di
cinta. Disappunto del nostro. Altro centrocampista, Andrea Benni,
ingegnere. Il Benní, fratello del popolare Stefano scrittore
e intellettuale, è un giocatore così detto articolato, la sua corsa è
confusa, pur tuttavia sempre utile alla squadra.
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Dopo marzo c’è aprile, Dopo aprile c’è maggio, e dopo maggio
c’è…Un anno, è passato un anno. Ebbene sì, dopo maggio c’è
giugno. Nell’aria si incomincia a sentire il profumo, l’invitante,
l’inebriante profumo del torneo. Sì, il torneo sta per fiorire. Come da
copione: “Stefano, sono Franco, ti ho già inserito nel torneo, passa
questa sera a portarmi i soldi dell’iscrizione”. Durissima risposta che
fa fatica ad uscire dalla mia bocca, ma devo farcela:
“Franco, quest’anno saltiamo il torneo, non contarci”. Non sto a dirvi
quello che dopo un secondo esce dalla bocca di Cremesani,
l’eruzione di un vulcano è roba da ridere, le tenta tutte per farci
cambiare idea. La telefonata dura più di mezz’ora. Io fermo sulla mia
posizione, categoricamente, finche’, ad un suo suggerimento la mia
irremovibilità comincia a vacillare. Quel gran furbone, abilissimo
stratega, dopo mille e mille tentativi di convincimento, sicuramente
pensando alle quattrocentomila lire, butta sul tavolo il carico: “Ma
scusa bene, mischia la Sabioni alla Gaibolas! Metti i migliori della
Sabioni e i migliori della Gaibolas! Non puoi sbagliare, passi il
turno, cento su cento!”. Io muto. Tentenno. Vacillo. La mia mente
passa in rassegna i migliori della Sabbioni e i migliori dei Gaibolesi.
Poche storie, non resisto, sicuro anche dell’approvazione dei miei e
dei Gambolesi. Soccia Franco, ce l’hai fatta, ce l’hai fatta anche
stavolta. Sei diabolico. Domani sera ti porto i soldi”. Informati i
Gaibolesi, entusiasti. Si fa. Selezionati cinque di noi e cinque di loro,
i più forti, almeno sulla carta. Siamo tutti carichi come delle molle,
siamo sicuri, finalmente abbiamo una squadra un po’ più
competitiva. È ovvio che non arriveremo in semifinale, ma superare
il primo turno, quello sì. Vorrei vedere! Ce l’abbiamo fatta! È la
volta buona, così sarà. Ci alleniamo nei pochi giorni restanti prima
dell’inizio del torneo. Ad onore del vero, e per onestà intellettuale,
devo confessare che Franco, sorteggiatore ufficiale dell’abbinamento
delle squadre, e ho detto tutto, dicevo Franco mi aveva garantito un
sorteggio con un occhio di riguardo, e con i giochi di prestigio che
solo lui sapeva fare, ci avrebbe miracolosamente fatto incontrare una
delle squadre più deboli. Su questo tema la sua frase per rassicurarci
è stata: “Tranquilli, ci penso io”. Ecco, queste affermazioni di
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profumo del torneo. Sì, il torneo sta per fiorire. Come da copione:
“Stefano, sono Franco, ti ho già inserito ….
Donato Zoffoli. Il calciatore poeta.
Donato, poco più grande di me, siamo stati per sette /otto anni,
grandi amici poi le nostre strade si sono divise. Le ragioni
dell’allontanamento a volte si comprendono, a volte no, nel nostro
caso le due messe insieme. Zoffoli geniale. Aveva una particolarità
tutta sua, annunciava o il suo arrivo, o si faceva scovare ovunque
fosse con una scoperta tutta sua: mani strette l’una abbraccia l’altra,
come incollate. L’aria non passa, solo una piccola fessura alla quale
si incollano le labbra soffianti, riesce così a modulare un suono
indescrivibile, irripetibile. Forse un’evoluzione dell’oboe? Un
richiamo del capo di una tribù amazzonica? No, un particolare suono
suo, di Donato. Solo di Donato Zoffoli. Una parte di Zoffoli riesce
infatti miracolosamente, con questa geniale invenzione, a riprodurre
qualsiasi aria, rock, classica, inventata. Il suo strumento, una parte di
Donato. Forse, come lui, altri due nel mondo. Ma non direi di no.
Eh…Zoffoli! Persona buona, intelligente, sensibile, fragile.
I genitori erano due professori molto conosciuti, severi, ma
apprezzati, del liceo classico Galvani, molto religiosi, molto formali
e rigorosi. Hanno sfornato sei figli. Nelle file di mezzo dei fratelli,
Donato. Grande appassionato, come me, di musica. Ascoltavamo per
ore, in mansarda da me, musiche di tutti i tipi, provenienti da radio
Lussemburgo, radio internazionale magica, dalle nascenti radio
libere. Ci sentivamo nel mondo. Ci sentivamo imbattibili per la
nostra intesa, condivisione, unità d’intenti, passione per la musica e
grandi risate.
Come dicevo, famiglia molto religiosa, cattolica osservante a tal
punto che ad una mia telefonata a casa Zoffoli, chiedendo di Donato,
il professore mi rispose che i figli non potevano avere contatti con
l’esterno, in quanto già iniziato il periodo di novena. Questo
atteggiamento è degno di rispetto, ma la dice lunga.
Donato e il calcio. Un poeta del pallone. Direi uno di quegli
attaccanti che sembrano estranei alle azioni. Quasi fermo, sembra
disinteressato a quello che accade intorno a lui, ma se la palla capita
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Non l’ho più visto, o meglio l’ho visto come non volevo vederlo.
Canella “O’ Rey”
Piero Canella, detto “O’ Rey” Attaccante, anzi, punta di diamante,
innamorato del calcio forse più di Maradona. Concentrazione sempre
a mille, grande attenzione al fisico che deve essere sempre tirato, al
massimo della forma. I muscoli ben allenati, guizzanti e questa
voglia del goal deve sempre comandare tutte le variabili preparatorie.
Salus. Mentre corro, pallone fra i piedi, uno strano rumore, dietro di
me, mi segue in qualsiasi mio spostamento e mi ricorda il rumore di
un sacchetto di plastica mentre viene accartocciato. Stupore. Mi giro,
Piero, per mantenere costante il peso forma si è costruito una specie
di tuta di plastica, trasparente, sistemata sotto la maglia e i pantaloni
della divisa. Così facendo il sudore aumenta copiosamente e gli
permette di mantenere il fisico in perfetta forma. Vi garantisco, un
rumore decisamente inquietante, ma non inquietanti le risate che
scatena in tutti noi.
Aneddoto. Più volte abbiamo giocato nel campo regolamentare
undici giocatori contro altri undici, Piero, nonostante i nostri tentativi
di dissuaderlo, voleva tirare lui e solo lui i calci d’angolo. Risultato,
la potenza dei muscoli delle sue gambe non gli consentiva nemmeno
di fare arrivare la palla alla altezza del primo palo… Canella, un mito
a 360 gradi, simpatia straordinaria, fantasia illimitata, super convinto
delle sue capacità.
Salus. Partita tiratissima, naturalmente contro i Gaibolesi. Canella
centravanti, sempre accompagnato dal cric crac della muta di
plastica, sempre ossessionato in maniera più che morbosa dal goal.
Atterra in modo veramente scorretto per un fallaccio da espulsione e,
in verità, anche da un pugno, il difensore, si trova così, davanti al
portiere avversario, solissimo. Con un urlo sovrumano: “Johnny
passaaaa!” Johnny, con un perfetto lancio, gli pennella un pallone
perfetto sul piede destro, il piede buono. Canella è a tu per tu col
portiere. Il portiere è titubante. Canella controlla perfettamente il
pallone, è a cinque metri dal portiere, i suoi occhi si incrociano con
quelli del portiere. Piero prepara il calcio, carica la gamba destra con
tutta la forza che ha, prepara il tiro per un goal già fatto. Colpo di
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presa al buio, via del Bolte 18/a. Johnny ci raggiungerà fra quattro
giorni. Arriviamo e scendiamo dalla macchina…muti.
Ci troviamo di fronte ad una casa a due piani, tutto fuorché invitante.
Porta d’entrata bassa e stretta, una sola finestra in affaccio, intonaco
non proprio curato. Silenzio assoluto. Solo Mastro prende la parola.
“Ma chi cacchio vi ha dato la dritta? Questo è un casolare da malga!
Guardate la porta di entrata, è larga cinquanta centimetri…Ma dai!
Tutte le volte che lascio fare a voi fate delle ca…te! È l’unica
vacanza che mi faccio quest’anno…che mi venga un bene…dai,
entriamo, cogl...oni”
Bisogna dirlo, siamo dei gran fighetti. Abbiamo tutti le bocche storte,
lo sbuffo in azione. “Soccia, ma non siamo neanche in centro…”
Esternazione di Alberto Gatti. Lasciamo le valigie in macchina e gli
sci sopra, pervasi da uno sdegnoso rifiuto, come pronti a ripartire, la
macchina sembra suggerirci “Forza, salite, dietrofront, questa non è
una casa per voi, è una bettola, non abbassatevi a tanto”.
Nel silenzio dominante parte l’ispezione. L’appartamento è al
secondo piano. Porta aperta. Ci troviamo di fronte ad una ripida scala
in legno, pareti in legno, soffitti in legno, la scala permette di far
salire una persona alla volta. Siamo sgomenti. Cavolo, è veramente
una bettola… Saliamo circa trenta scalini, altra porta di legno, stretta
come il resto. Sembriamo i sette nani, che poi siamo cinque, in fila
indiana, uno dietro l’altro, mesti che più mesti non si può. OK,
Mastro, come al solito, decide ed apre la porta, lentamente, molto
lentamente. La maniglia si abbassa. La porta, sempre più lentamente,
ormai nostra alleata, ci fa coraggio, quasi ci sorride e pare ci dica:
“Forza, non abbiate paura, spostatemi del tutto”. Così facciamo.
Siamo i sette nani, cinque, che vedono Biancaneve addormentata,
incredulità! Meraviglia! Stupore! Magia! Si presenta ai nostri occhi
una meraviglia di casa, una dimora principesca, degna, appunto, di
un principe, quello di Biancaneve. Porte in legno massello, intarsiate
a regola d’arte, in terra parquet di rovere ovunque, alle pareti quadri
e stampe bellissime, illuminazione perfetta, riscaldamento regolabile
a piacere in ogni camera, bagni talmente grandi da potere essere
trasformati in due monolocali. La stanza da letto padronale, per
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Mastro e Piero, una piazza d’armi, le altre camere non sto neanche a
descriverle. Ma il vero pezzo forte è il salone, straordinariamente
regale. Una vetrata lunga tutta la parete fa entrare in casa tutto il
gruppo delle Tofane, e noi le tocchiamo con un dito.
Duecento metri quadrati non di casa, ma di reggia, tutto quello che
non si può immaginare da fuori, tutto quello che si può desiderare
dentro. Di meglio non c’è. Siamo dei principi. Quando rientriamo
dopo una giornata di sci, ritmo dato da Mastro, sciatori a cottimo,
ridotti a stracci della polvere, e affrontiamo le scale con sofferenza
sovrumana, arriviamo alla porta di casa, e, maniglia girata, porta
spalancata…una meraviglia…un sogno…una visione celestiale.
Cinque stelle lusso, un conforto quasi immeritato. Le vasche da
bagno in un battibaleno occupate dai cinque nani. Un trionfo. La
SPA, in confronto a quanto fruito, roba da ridere. Che vacanza…
pareva una tragedia, ma miracolosamente il rospo si è trasformato in
principe, e noi da musi lunghi ci siamo trasformati in sorrisi a
trentadue denti. Sole, sciate, aperitivi, cene, sciate in notturna
illuminate da fiaccole, giro dei cinque passi, e…la Marmolada?
Ovvio, anche una sciata sul ghiacciaio non può mancare. Avete
presente un trionfo, che dico, un miracolo di vacanza? Questa. Così
trascorrono i primi tre giorni. E non dico altro. Checco:” Domani
sera arriva Johnny, mi ha detto che verso le 10 è qua. Avrà cenato?
Non avrà cenato” “Checco ma chi cacchio se ne frega se ha cenato o
no…” Checco sempre educato, premuroso, un gentiluomo. Mentre
sono meravigliosamente sprofondato nel divano di morbida pelle del
salone, mi guardo intorno e mi beo di tutto quello che mi sta intorno,
con le Tofane che mi fanno l’occhiolino, mi viene una diabolica idea,
la vera idea, la grande idea. Mi rivolgo ad Alberto, Checco, Alberto e
Piero, e: “Ragazzi, sentite cosa mi è venuto in mente: se facessimo
credere a Johnny, visto il suo terrore per la precarietà, l’indigenza e
la miseria, che la casa è una schifezza, piccola e invivibile?
Ricordatevi, quando siamo arrivati, eravamo convinti di entrare in
una bettola, in una schifezza di casa…”. Figuriamoci, adesione
entusiastica generale! “Dai! Lo facciamo morire! Grandissimo”.
L’unico è Checco che, cristianamente protettivo: “Dai, poveretto, ci
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risultato che di gol non se ne è mai visto uno dai loro piedi. Quindi la
tattica di squadra era: non passare, PER NESSUN MOTIVO, MAI e
poi MAI la palla ai sopraindicati numeri: meno 1! Ultima nota: i
GAIBOLAS non hanno mai avuto un portiere titolare e VALERIO
ROMITELLI, che lo era di nascita, decise che, in porta, non si
dimagriva abbastanza, quindi si improvvisò centrattacco di
sfondamento. decisione rovinosa che ci portò alla disfatta totale!
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