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CORO DI MORTI di G.

Petrassi

“Coro di Morti”per coro maschile, tre pianoforti, ottoni, contrabbassi e percussione, su testo tratto
dal Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie nelle Operette morali di G. Leopardi, fu scritto
nel 1940-41 e rappresenta la maturità artistica di Goffredo Petrassi, in quanto racchiude tutte le sue
esperienze giovanili in un linguaggio profondamente unitario e coerente. La forma scelta da
Petrassi è quella del madrigale drammatico: il complesso delle esperienze musicali del compositore
confluisce in una ricerca semantica fra parola e musica, trovando equilibro nelle varie espressioni di
un sinolo inscindibile. L’influsso stravinskiano non è rilevabile negli elementi di superficie quanto
nella logica immanente del lavoro e nell’ontogenesi dello stesso pensiero compositivo. La scelta
dell’organico è, come in Histoire du Soldat di Stravinskij, parte stessa dell’interpretazione del testo
e genera un indiretto collegamento meta-rappresentativo fra il piano immaginario della vicenda
rappresentata e il piano reale della distribuzione degli strumenti sul palco.

I morti, nel testo di Leopardi, emergono da una distesa infinita di tempo indispiegato e la pesantezza
del «tempo vuoto» trapela attraverso le loro parole vaghe e indefinite. Le rime contribuiscono
all’effetto di dilatazione temporale e la riproposizione dei versi «Nostra ignuda Natura, lieta no, ma
sicura», all’inizio e alla fine del canto delle mummie, conferisce al componimento una forma
ciclica.
Petrassi, a sua volta, interpreta la tematica temporale del testo attraverso una struttura ciclica che
alterna cinque sezioni cantate a quattro sezioni strumentali, due delle quali sono in forma di
Scherzo. La struttura è inoltre palindromica, ovvero esibisce una simmetria che trova il suo asse a
metà della composizione.

La scrittura della parte corale sembra ricalcare le fasi dello sviluppo della musica vocale dalle
origini della polifonia - da notare l’uso delle quinte parallele caratteristiche dell’organum
parallelum dell’Ars Antiqua - fino ad una scrittura contrappuntistica più elaborata, passando per
una polifonia di carattere omofonico-accordale.
L’ostinato delle note basse dei pianoforti, unito alle note lunghe dei contrabbassi, genera un quasi
costante mormorio indistinto dal quale emergono i suoni più acuti. Come in Stravinskij, il
pianoforte ha sempre un ruolo ritmico anziché melodico. L’uso del tam-tam, della grancassa e del
tamburo militare genera una timbrica dal carattere bellico e funereo.
Su «profonda notte nella confusa mente» l’armonia si stagna su un accordo per quinte generando
una distesa di suono senza alcuna direzione, punteggiata da interventi strumentali che non risultano
mai davvero in primo piano.
Le parole «senza tedio» sono rappresentate da lunghi movimenti discendenti del coro e
dell’orchestra, a testimonianza della matrice madrigalistica della scrittura. L’ambito entro cui la
musica aderisce maggiormente al testo poetico è quello logico-strutturale, specialmente
nell’organizzazione dei periodi e nell’interpretazione della sintassi e della punteggiatura.

Gli Scherzi strumentali prendono la forma di episodi fugati con un andamento più rapido e un
carattere più icastico ed emotivamente distante. Il particolare significato che queste sezioni
assumono è quello del ricordo dei morti: un ricordo sardonico e lacunoso di una vita osservata con
la stessa lontananza e alienazione che il vivo prova nei confronti del concetto della morte.
L’impiego del fugato potrebbe rafforzare questa linea interpretativa, poiché la forma della Fuga
nasce storicamente dall’artificio e dall’uso sistematico della tecnica piuttosto che dal puro impulso
espressivo. Gli ottoni sono qui utilizzati in modo sguarnito e disadorno, al punto che Petrassi
specifica “freddo” sulla partitura, in modo da esacerbarne l’acredine timbrica.

La composizione raggiunge un potente climax su «l’ignota morte appar» per poi tornare ad
indugiare sulle stesse sonorità dell’inizio, annullando ogni impressione di sviluppo formale. La
musica sprigiona un ultimo impulso di energia su «però ch’esser beato nega ai mortali» per poi
estinguersi in un lugubre finale al pianissimo, marcato da solitari rintocchi delle percussioni.

Sulla scelta del testo Petrassi scrive: «Tutte le riflessioni leopardiane portano a una specie di
metafisica laica, non voglio dire religiosa, ma dico comunque che queste considerazioni non si
possono ridurre soltanto a una quotidiana esistenza terrena, c’è anche la considerazione dell’uomo
che vive ponendosi quegli interrogativi supremi che poi, del resto, si è sempre posto: chi siamo, da
dove veniamo, dove andiamo»1.
Coro di Morti è un’opera di guerra, scritta in reazione all’entrata in guerra dell’Italia nel 1940. Essa
va interpretata non tanto come espressione di una posizione politica quanto come una meditazione
sulla condizione esistenziale dell’uomo, «non più placata dalle risposte della fede religiosa, ma resa
acuta dalla consapevolezza che la fondamentale problematicità della condizione e del destino
umano si pone sotto il segno di un dubbio irrisolvibile»2.

Alessandro Pradella

1
Luca Lombardi, Conversazioni con Petrassi, pg. 108.
2
Roman Vlad, Goffredo Petrassi Esordio neoclassico, in La musica moderna, vol. V –Diffusione dell’atonalismo, pg.
144 (Fratelli Fabbri Editori, 1967)

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