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La guerra sociale: la prima unità d’Italia

Comunemente l’unità d’Italia viene fatta risalire al 1861, anno in cui, il 17 marzo, nacque il Regno d’Italia
sotto la guida dei Savoia. Tuttavia, la prima idea di unità italica risale addirittura al I secolo a.C., nonostante
il dominio romano sulla penisola. I popoli italici, tanto alleati quanto sottomessi da Roma nel corso dei
secoli, erano infatti giunti all’alba del I secolo a.C. a sentirsi in tutto e per tutto romani, senza però
condividerne i diritti: infatti molte popolazioni avevano affrontato guerre e difficoltà insieme ai romani,
specialmente durante la terribile seconda guerra punica, e tuttavia mantenevano uno stato di
subordinazione ormai anacronistico.

Nel II secolo a.C. il senato aveva assunto una sempre maggiore preminenza, mentre al contempo la forte
espansione di Roma nel Mediterraneo privava sempre più l’Urbe della partecipazione politica, finendo per
far assumere alla nobilitas senatoria un controllo maggiore sulla res publica. In seguito alla lex Calpurnia del
149 a.C. il senato era arrivato a controllare perfino i processi contro la malversazione e corruzione nelle
province, che però erano sempre amministrate dai senatori stessi. In questo contesto si inseriva il
programma gracchiano dei fratelli Tiberio e Gaio di ridare maggior peso ai piccoli proprietari terrieri,
sempre più assenti per molti anni dall’Italia, impegnati in lunghe e complesse campagne militari.
Contemporaneamente sul finire del II secolo a.C. assunsero sempre più importanza le realtà urbane nella
penisola, sulla scia dei grandi commerci che derivavano dalle conquiste (come anche il regno di Pergamo
che nel 133 a.C. venne ereditato dai romani secondo il testamento di Attalo III) in oriente.

Il ceto senatorio, essenzialmente tradizionalista e conservatore, non vedeva di solito di buon occhio
l’apertura verso il mondo ellenico e dunque grecofono. Le enormi ricchezze permisero a molti di arricchirsi,
tanto nel ceto equestre quanto nei negotiatores, che praticavano il commercio tra l’Italia e l’oriente e che
in quest’ultimo luogo venivano qualificati generalmente come “romani”, anche se erano spesso italici privi
della cittadinanza. Anche le leggi agrarie di Tiberio Gracco avevano probabilmente sottratto parte dei
territori degli italici a vantaggio dei cittadini romani. Dunque, gli italici desideravano partecipare
attivamente alla vita politica e sociale, specialmente ora che si aprivano molte opportunità (e visto anche il
processo di sempre maggiore assimilazione nel II secolo a.C., in cui gli ordinamenti politici locali si erano
sempre più adeguati al modello romano), ma allo stesso tempo la classe dirigente romana si muoveva verso
una chiusura dei diritti ai socii peninsulari.

Durante il tribunato della plebe di Lucio Apuleio Saturnino (103-100 a.C.) avvenne un’estesa immissione di
italici nel corpo della cittadinanza, facendo passare nelle liste dei cittadini molti italici (probabilmente anche
sulla scia delle invasioni di cimbri e teutoni affrontate da Gaio Mario e la sua apertura all’esercito ai
proletari); anche il censimento del 97 a.C. fece entrare molti che legalmente non avevano diritto, motivo
per cui nel 95 a.C. con la lex Licinia Mucia venne votata l’espulsione di coloro che erano entrati illegalmente
nel corpo civico.

Nel 91 a.C. il tribuno della plebe Marco Livio Druso propose una serie di riforme: immettere nel senato 300
cavalieri per riequilibrare il conflitto tra gli ordini, ridistribuire alcune terre ai cittadini romani e di
concedere la civitas romana alle popolazioni italiche. La proposta venne osteggiata tanto dal ceto senatorio
quanto da quello equestre; anche parte degli italici si dichiararono contrari perché la legge avrebbe
annullato le distanze sociali al loro interno.

La situazione precipitò alla morte di Lucio Licinio Crasso, principale sostenitore di Druso; il console in carica
Lucio Marcio Filippo si oppose strenuamente al provvedimento, dichiarandolo nullo e non facendolo mai
giungere alla votazione finale (sebbene in parte fosse già stato votato). Infine, dei sicari (forse legati al
console) uccisero il tribuno della plebe. La guerra (inizialmente bellum marsicum, poi bellum italicum, infine
bellum sociale) a questo punto divenne inevitabile e scoppiò alla fine dello stesso anno, portando ad una
coalizione di popoli italici contrapposti a Roma con capitale nella peligna Corfinium. Inoltre, vennero
coniate delle monete, tra cui alcune con la scritta Italia (per la prima volta nella storia una moneta
rappresentava l’unità dei popoli italici); anche la città venne ribattezzata Italia. Gli italici si diedero una
struttura federale e delle assemblee che ricalcavano i modelli romani: in fondo per tutto il II secolo a.C. le
popolazioni italiche si erano sempre più “romanizzate” anche nei costumi politici. Tutte le colonie latine (a
eccezione di Venusia) rimasero tuttavia fedeli a Roma. In ogni caso è bene precisare che la ribellione fu
voluta e messa in atto dalle classi dirigenti dei popoli italici, facendo anche leva su sentimenti antiromani
latenti, in modo da ottenere rapidamente la concessione della cittadinanza e contare nelle sorti politiche.

Il successivo svolgimento militare può essere ricostruito con buona approssimazione grazie al racconto di
Appiano (Bella civilia, 1.175-231). La strategia romana fu fin da subito quella di dividere gli alleati su due
fronti, inviando in quello settentrionale - comandato da Poppaedius Silo (sul fronte marsico) – il console
Publio Rutilio Lupo e in quello meridionale - comandato da Papius Mutilus (sul fronte sannitico) – il console
Lucio Giulio Cesare, puntando verso la via Valeria contro marsi e peligni. Poppaedius e Papius avevano la
carica di console: l’ordinamento datosi dai ribelli ricalcava anche nella carica più elevata quello romano. Si
combatté anche in Campania e nel Sannio, infine nell’89 a.C. venne presa Asculum: la vittoria romana era
stata repentina; d’altronde Publio Rutilio Lupo e Lucio Giulio Cesare avevano avuto come aiutanti niente
meno che, rispettivamente, Gaio Mario e Lucio Cornelio Silla.

Già nel 90 a.C. i romani avevano deciso di concedere la cittadinanza romana agli alleati rimasti fedeli
tramite la lex Iulia de civitate, proposta dal console Lucio Giulio Cesare, zio del ben più famoso dittatore. La
legge probabilmente prevedeva già le disposizioni su come ottenere la civitas: le comunità avrebbero
votato se ottenere la cittadinanza e dopo sarebbero state iscritte in otto nuove tribù provvisorie (oltre le 35
già esistenti), per poi essere riassorbite nel corso del tempo, in modo da evitare fin da subito un
preponderante peso politico delle popolazioni italiche. Nell’89 a.C. la lex Plautia Papiria terminò il processo
di concessione della cittadinanza, data a tutti gli abitanti liberi a sud del Po, con l’eccezione di sanniti e
lucani ancora in armi. Per le popolazioni a nord del fiume padano venne concesso dal console Pompeo
Strabone lo ius latii, ossia la cittadinanza latina senza la deduzione di nuovi coloni, promulgando nello
stesso anno la lex Pompeia. In questo modo i magistrati locali diventavano automaticamente cittadini
romani; probabilmente nel provvedimento si dichiarava anche che le comunità rurali dovessero essere
adtributae al più vicino insediamento romano (e quindi ottenere lo stesso status giuridico). Infine, nel 49
a.C., venne concessa anche alla transpadana la cittadinanza romana, rendendo di fatto l’Italia una penisola
fatta di cittadini romani, e quindi giuridicamente uguali tra loro (pur rimanendo una forte percentuale di
schiavitù, specialmente nella città di Roma – ma gli schiavi liberati, se avevano un padrone romano,
diventavano anch’essi cittadini, e ciò non capitava raramente).

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