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Avere una voce, sentire le voci

La natura affettiva della voce, la sua capacità di veicolare un’intera storia, personale o collettiva,
depositata nelle vibrazioni del timbro, fa di essa un potente strumento di espressione. Attraverso la
voce il soggetto si racconta e, porta-voce di altrə voci, le rappresenta. Ci identifichiamo nella voce di
rappresentanti che promettono di dare voce a chi “non ce l’ha”. Parlanti, partecipiamo alla nostra
auto-rappresentazione quando chiediamo di essere riconosciuti. Attraverso la voce ci identifichiamo e
siamo identificati – siamo riconosciuti da qualcosa che nella voce ci dice e nella quale ci
riconosciamo. L’identità fra il soggetto e la sua voce è il presupposto su cui si fonda la politica fin dalle
sue origini ateniese e che il liberalismo contemporaneo intensifica, individuando in questa
corrispondenza la soggettività politica di cui necessita per funzionare. “Quando la rappresentazione
diventa obbligo per tutte”1 partecipiamo a questa fantasia. La policy liberale, che oppone l’“avere una
voce” al “sentire le voci”2, come ci dicono Fred Moten e Stefano Harney, ci chiede di prendere parte a
questa distribuzione delle voci, che definisce i suoi confini. Il vociare bar-barico dello straniero3, il
gossip subsensato feminile4, il lallare infantile5, il silenzio dei sordomuti6 e quello, alternato alle urla,
degli schiavi7, il verso dell’animale: lo spazio acustico della politica è segnato da una sordità
costitutiva a cui tuttə partecipiamo.
Pattugliamo le frontiere di questo paesaggio sonoro per non rinunciare al riconoscimento.
Articoliamo le nostre rivendicazioni in forma vocale, ma premendo ai confini che regolano l’accesso
alla vita politica sappiamo di poter solo avvicinare (senza superare) certe soglie di volume, doverci
“contenere” in univocità che ci vanno sempre troppo strette, passare attraverso delle coordinate di
leggibilità precise, ma che non parlano la nostra lingua. Alzare la voce per farci sentire: le
macro-politiche del riconoscimento prevedono che la voce si articoli conformemente alle norme che
regolano le modalità di ascolto della sfera pubblica maggioritaria (politica o mediatica) con la quale
vogliamo parlare, e dalla quale vogliamo farci ascoltare. Ma farsi sentire non basta: dobbiamo essere
riconosciutə. Com-prendendo in sé solo soggetti leggibili, ci si codifica in tratti essenziali che
diventano il segno di una differenza, attraverso la quale saremo ri-conosciutə. Facciamo finta che
questa voce ci rappresenti. Facciamo finta che la mia voce mi rappresenti.

One Nation Under a Voice

Perché la voce diventi un efficace strumento di riconoscimento ed empowerement collettivo, si


performa questa reductio ad unum come “essenzialismo strategico”8. Ma come ci insegna Julia
Kristeva, a “logica dell’identificazione”9 è fondata su un sacrificio originario: quello della complessità in
nome della leggibilità, per il riconoscimento. Bisogna allora far sì che questo sacrificio serva a
qualcosa, e imparare da chi, prima di noi, ne ha calcolato costi e benefici, colto i frutti e pagato il
prezzo. La storia del femminismo, delle sue lotte interne tra riformismo e rivoluzione10, uguaglianza e

1
Harney, Stefano, e Fred Moten. 2021. Undercommons. Pianificazione fuggitiva e studio nero.
Tamu.106.
2
ibid. 140.
3
Boletsi, Maria. 2013. Barbarism and Its Discontents. Stanford University Press. 4.
4
Federici, Silvia. 2020. “Sul significato di gossip.” in Caccia alle streghe, guerra alle donne. Nero.
57-67.
5
Heller-Roazen, Daniel. 2005. Echolalias: On the Forgetting of Language. Zone Books. 11.
6
Rée, Jonathan. 1999. I See a Voice: Deafness, Language, and the Senses--a Philosophical History.
Metropolitan Books.94.
7
Stoever, Jennifer Lynn. 2016. The Sonic Color Line Race and the Cultural Politics of Listening. New
York University Press. 41.
8
Spivak, Gayatri. 1984/5. “Criticism, Feminism and the Institution.” Thesis Eleven 10/11:
175-89
9
Kristeva, Julia. 1986 “Womenʼs Time.”ʼ, in The Kristeva Reader edited by Toril Moi. Blackwell,
Oxford. 194.
10
hooks, bell. 2021. Il femminismo è per tutti. Una politica appassionata. Tamu. 35.
differenza11, in questo senso, ha molto da dirci. Diverse “tecniche della performance nera”12
raccontano la perdita di un’essenza che non le è mai stata veramente riconosciuta. La musica, infine,
“deterritorializzazione della voce”13, ci offre le parole e la prassi per sintetizzare intere esperienze, e
sperimentarne di nuove.
Nella “sua” Cuándo Olvidaré il musicista gitano-andaluso C. Tangana identifica una fantomatica
“razza spagnola” con il canto melismatico del flamenco, attraverso il campionamento delle parole e
della voce di Pepe Blanco, uno dei suoi più grandi interpreti. Fissando il flusso del cante nella razza e
nella nazione, ne essenzializza i tratti in uno stereotipo acustico: opera un’identificazione in cui la
voce coincide con queste categorie. Se presa in parola, questa dichiarazione riduce la reale pluralità
di una voce diasporica impossibile da trattenere in “immagini acustiche” nazionaliste e razziste.
Sintetizzare il cante in questo modo rischia di appiattire differenze marcate da storie e relazioni di
potere sbilanciate, segnate dalla ferita aperta dell’imperialismo spagnolo. Ma il carattere finzionale
dell’identificazione operata da C. Tangana (della cui problematicità è pienamente cosciente) si svela
nella ridistribuzione della “voce della razza spagnola” su una polifonia di voci che la pluralizza, e
rende impossibile il suo cristallizzarsi: quelle, transnazionali, dei musicisti ispanofoni (centroamericani,
sudamericani, spagnoli) riuniti per il “suo” album “El Madrileño”. Questa “deterritorializzazione” della
voce spagnola è forse da intendere come un esperimento che si esaurisce nella temporaneità della
sua enunciazione collettiva, ma che per la sua durata riesce a “prospettare una comunità ancora a
venire … intrinsecamente diasporica”14 riunita sotto la “struttura del sentire comune”15 del cante
flamenco. La funzione tattica di questa operazione è poi da situare nel paesaggio sonoro in cui si
mette in scena, quello del pop globale, segnato da soglie di ascolto e relazioni di potere specifiche.
Essenzializzare, fissare, una “spagnolità” manifestamente fittizia in una voce che si fa carico di tutta la
sua differenza, contribuisce in questo senso a pluralizzare la sfera maggioritaria con cui dialoga e
dalla quale esige di essere ri-conosciuta.

Essenzialismo timbrico

Quando la differenza è fissata in “immagini acustiche” leggibili e ri-conoscibili, e assunte per vere
come caratteri essenziali di una persona o di una comunità, diventa l’eco di una voce obbligata a
ripetersi e significare sempre nient’altro che sé stessa. Il timbro, nella voce, è ciò che marchia il
soggetto al di là del linguaggio. Permette di identificarci, ri-conoscerci, istituendosi a segno della
differenza. Il timbro indica qualità non-verbali, ineffabili della voce, per le quali esisteranno voci
“gravi”, “dolci”, “grezze” e tutto un lessico sinestetico (che attinge specialmente dal tatto e dal gusto)
ma mai specificamente sonoro. Quando non le considera come effetto di performance volontarie, il
timbro stabilisce le qualità vocali che designa come prodotto di un corpo specifico che le produce e
che di conseguenza “ha” quel timbro. Il timbro, cioè, è la narrazione che salda il legame fra voce e
soggetto attraverso il corpo, e di cui si erge a corrispondenza, ad identità. Come il colore della pelle,
investito di significato dallo sguardo coloniale e razzista, che “epidermizza”16 il soggetto colonizzato,
anche il timbro è oggetto di pratiche di ascolto che ne fissano significato e valore, in complicità con
sistemi di oppressione. La produzione del timbro opera secondo un meccanismo di interpretazione e
significazione che ha origine nell’orecchio dell’ascoltatore, e che procede per isolamento di tratti dal
flusso sonoro vocale. Ricorrendo agli schemi di interpretazione dominanti, l’ascoltatore deduce dai

11
Grosz, Elizabeth. 1995. Space, Time, and Perversion: Essays on the Politics of Bodies. Routledge.
47.
12
Harney, Stefano, e Fred Moten. 2021. Undercommons. Pianificazione fuggitiva e studio nero. Tamu.
93.
13
Deleuze, Gilles, e Félix Guattari. 2017. Mille piani. Capitalismo e schizofrenia. Orthotes. 421.
14
Chambers, Iain. 2012. Mediterraneo blues. Musiche, malinconia postcoloniale, pensieri marittimi.
Bollati Boringhieri. 9.
15
Williams, Raymond. 2015. Il dottor Caligari a Cambridge. Cinema, dramma e classi popolari. Ombre
Corte. 12-13.
16
Fanon, Frantz. 2015. Pelle nera, maschere bianche. ETS. 15-16.
tratti vocali informazioni sul parlante e sulla sua identità, tra i quali stabilisce un rapporto indicale, e ai
quali assegna valore.
Attraverso il corpo, il timbro “abilita”17, attiva una connessione tra voce e identità che costruisce
come autoevidente, e della quale si autoproclama presupposto scientifico, suo “regime di verità”. La
definizione corrente e dominante di timbro, di matrice positivista, produce il suo oggetto (l’identità del
soggetto) come “stabile e conoscibile”18, e ha come corollario l’idea essenzialista e biologista secondo
la quale certi corpi avranno necessariamente certe voci. Quest’idea normativa e disciplinare è la
premessa sulla quale si fonda una modalità di ascolto dominante. Tanto più questa epistemologia di
ascolto passa inosservata quanto più si radica come verità autoevidente, che internalizziamo e che
attiva il lavoro della disciplina a cui tuttə partecipiamo. Chiamo essenzialismo timbrico questa
“macchina astratta”19 che estrae suono dalle voci e produce alterità.

Vocum discrimina

Quando non è assunta in maniera cosciente come essenzialismo strategico, l’adozione e


riproduzione di questo modo di pensare e ascoltare, può avere conseguenze materiali e concrete
sulla vita dei parlanti. L'efficiente violenza con cui si riversa questo modo di ascolto della voce è
materializzata dagli effetti dall’ascolto macchinico di cui siamo oggetto tuttə, ma soprattutto chi tra di
noi è sottopostə a un regime di sorveglianza costante e intensificata. La quantificazione del sé
operata dai dispositivi del capitalismo della sorveglianza e le tecnologie biometriche ha come obiettivo
l’identificazione tanto quanto la produzione di data subjects come soggettività economico-politiche.
Come sostiene l’antropologa Veronica Barassi, l’utilizzo dei dati fatto da queste tecnologie è
pericoloso nella misura in cui si traduce in una limitazione dell’agentività di cittadini-utenti le cui
libertà e diritti sono altamente dipendenti dal modo in cui vengono profilati20. L’idea che dalla voce, dai
suoi “contenuti” linguistici tanto quanto dai suoi tratti non-verbali si possano dedurre informazioni sul
parlante la rende un dato prezioso da sorvegliare. Favorite dal regime di verità pseudoscientifico del
timbro, “immagini acustiche” essenzialiste e stereotipiche sono codificate nei dispositivi che ci
ascoltano e con cui, sempre di più, interagiamo. Dalla voce, i dispositivi del capitalismo della
sorveglianza – smart assistants come Google Home, Siri, Alexa e i braccialetti Halo di Amazon, smart
TV, Spotify, frigoriferi, automobili… – estraggono valore in forma di dati. Tecnologie biometriche come
quelle utilizzate da banche ed enti governativi, sono gli apparati attraverso i quali si dispiega il
controllo acustico delle frontiere che regolano l’accesso a mutui e cittadinanza.
In questo senso, la biometrica vocale automatizza la struttura di esclusione costitutiva della
democrazia, della quale è semplicemente la versione biopolitica, l’upgrade più efficiente. In Germania,
ad esempio, l’Ufficio Migrazione (BAMF) utilizza un sistema di riconoscimento degli accenti per
verificare la provenienza dei richiedenti asilo (che, è bene ricordare, è obbligato a concedere in
adempienza di certi criteri), implementato nel 2017 a seguito dello scandalo di “Franco A.”, un
giovane militante neonazista che riuscì ad ottenere l’asilo politico spacciandosi per un migrante
siriano. Pochi mesi più tardi, Hajar, un cittadino della regione autonoma del Kurdistan, si vede negata
la sua richiesta in virtù del fatto che il dataset del sistema di riconoscimento vocale non includeva il
suo accento.21 Il caso di Hajar mostra il “doppio legame oppressivo”22 che, nell’era dell’”ascolto

17
Stoever, Jennifer Lynn. 2016. The Sonic Color Line Race and the Cultural Politics of Listening. New
York University Press. 38.
18
Eidsheim, Nina Sun. 2019. The Race of Sound: Listening, Timbre, and Vocality in African American
Music. Duke University Press. 2. Su questo e su tutto il tema del timbro come tratto essenzialista
rimando al lavoro di Nina Sun Eidsheim, una dellə pochissime ricercatricə ad aver investigato questo
problema l’attenzione che merita con rigore metodologico.
19
Deleuze, Gilles, e Félix Guattari. 2017. Mille piani. Capitalismo e schizofrenia. Orthotes. 426.
20
Barassi, Veronica. 2021. I figli dell’algoritmo. Sorvegliati, tracciati, profilati dalla nascita. Luiss
University Press. 13.
21
Leix Palumbo, Daniel. 2020. Voice Biometrics: Sound as a Tool of Biopolitical Power. Amsterdam
University. MA Thesis. 43-44.
22
Hirji, Sukaina. 2021. “Oppressive Double Binds.” Ethics 131 (4): 643–69.
macchinico, imbriglia il soggetto vocale, e riformula la questione centrale del riconoscimento. Ci fa
chiedere, cioè, se l’emancipazione debba passare attraverso la leggibilità, la corretta identificazione
necessaria alla sua inclusione, o se questa comporti necessariamente l’inaccettabile appiattimento di
un’identità sempre in eccesso rispetto ai calcoli dell’algoritmo, inevitabilmente in difetto davanti
all’”eteroglossia”23 del mondo.

Epistemologie alternative

L’essenzialismo timbrico “implica una limitazione delle variazioni e possibilità di cambiamento — in


altre parole impedisce al soggetto di agire in maniere contrarie alla sua essenza”24: “arresta un
flusso”25. Ascoltare la voce attraverso questa epistemologia limita l’agentività del soggetto e la sua
possibilità di autodeterminarsi, e atrofizza il potenziale performativo della voce. La riproduzione,
circolazione ed interiorizzazione di norme vocali fissa il timbro in tratti sonori essenziali, stereotipi con
i quali il parlantə è sempre costrettə a misurarsi. “Linee del colore sonore”26 attraversano ascolti
razzializzanti della voce, mentre un binarismo frequenziale che determina il nostro modo di ascoltare
il genere “riterritorializza [le voci] sulla distribuzione dei due sessi”, operando una cesura sul “flusso
sonoro continuo [che] passa ugualmente tra i due come in una differenza di potenziale”27. Spogliata
della sua ambiguità costitutiva, della sua differenza interna, la voce ritorna dal soggetto in forma di
eco per perseguitarlo, e costringerlo a ripetere sempre nient’altro che sé stessə, a ri-conoscersi in
un’identità che gli è estranea. Alla concezione essenzialista del timbro, tanto radicata quanto
trascurata, va allora opposto un differente modo di ascoltare, una diversa disposizione verso il suo
potere di rappresentare. Serve, cioè, un’epistemologia di ascolto che decentri il soggetto dalla sua
stessa voce, dove il timbro non si faccia segno trasparente di un’identità ri-conoscibile perciò già
catturata, e punita se deviante. Sperimentare un tale modo di pensare-ascoltare la voce, significherà
forse conoscerla nuovamente, e intensificarne la potenzialità espressiva.
Questa epistemologia di ascolto alternativa, radicalmente anti-essenzialista, si prefigge di
sciogliere i legami che saldano il soggetto all’identità vocale. Occorre sfatare una ad una le pretese
che il timbro avanza sul soggetto, e sostituirla con una prospettiva sintetica e plurale. Perché questo
modello di ascolto si prefigge inoltre di superare la logica dell’identificazione per ripensare la voce
come vettore di soggettivazione (politica ed esistenziale), propone di estendere il campo del senso
oltre il linguaggio come sua grammatica privilegiata, e aprirsi a diversi modi di vocalità. Resistere
l’essenzialismo timbrico significa addentrarsi in un mare sonoro di ambiguità che François J. Bonnet
chiama “infra-mondo”28. Discendendo al suo fondo opaco non troviamo la voce unica ed autentica del
parlante, ma l’assenza di un’essenza. Data non da un vuoto, ma da un talmente pieno che decentra il
soggetto, una moltitudine che il timbro dà l’effetto di sintetizzare. Per mettere in pratica questa
modalità d’ascolto basta sintonizzarsi sulle frequenze che la voce già trasmette, come espressione
della sua (in)naturale disposizione, o assistita da strumenti che ne attualizzano il potenziale.

Voce come sintesi


I. Voce senza umani

Le attuali tecnologie di ascolto, alterazione e clonazione vocale, non solo ci forzano a ripensare le
narrazioni dominanti sulla voce, la pretesa del timbro di rappresentare un’identità essenziale, unica e
“autentica”, ma ne esprimono il suo carattere plurale e sintetico latente. Se le smart assistants come
Google Home e Amazon Alexa sono già cittadine di “un mondo macchinocentrico, nel quale si parla,

23
Bachtin, Michail. 2001. Estetica e romanzo. Einaudi.
24
Grosz. 47.
25
Deleuze e Guattari. 387.
26
Stoever. 3.
27
Deleuze e Guattari. 426.
28
Vedi Bonnet, François J. 2018. The Infra-World. Falmouth, United Kingdom: Urbanomic.
si comunica, si agisce ‘assistiti’ da ogni genere di macchine” 29, il sogno millenario di una voce senza
umani si realizza in un presente nel quale distinguere fra voci sintetiche e organiche è già
virtualmente impossibile. Se fino a pochi anni fa la sintesi di timbri umani produceva risultati affatto
verosimili, oggi intelligenze artificiali come Lyrebird offrono servizi di clonazione vocale a livello user,
permettendoci di creare deepfakes talmente credibili da forzare le case discografiche a ripensare le
loro policy in materia di diritto d’autore30.
D’altro canto, la diffusione globale dell’autotune riprogramma la presunta autenticità e organicità
del timbro umano sui suoi codici “post-soul”31. Alterato dall’effetto detuning, il timbro umano riemerge
come automa cromato generato dall’accordatura dei parametri dell’algoritmo. La voce di Travi$ Scott,
ad esempio, non è più riconoscibile dalla specificità del suo corpo, ma dall’assemblaggio di esso con
un preciso setup tecnologico. La trasformazione della voce in qualcosa di più-che-umano o del tutto
impersonale, sovvertendo la logica dell’identificazione, diventa un’efficace tattica estetico-politica di
disidentificazione. Come sostiene Jace Clayton nella sua analisi della musica post-tradizionale
amazigh32, per le cantanti donne, punite se giudicate “troppo sensuali” quindi costrette a disincarnarsi,
l’autotune può funzionare come un hijab digitale, un potente strumento di espressione e “strategia di
sopravvivenza” estetico-politica che permette al soggetto minoritario di navigare in modo sicuro “uno
spazio pubblico maggioritario fobico”33. La stessa “ontologia dell’unicità”34 che il timbro pretende di
personificare è forzata a rimodellarsi su una nuova concezione di individualità. La diffusione
dell'autotune come standard globale, normalizzandone l’utilizzo, “naturalizza” la condizione sempre
già sintetica della voce. Fa sì che la mumble rapper35 queer francese di origine ivoriana Lala &ce,
autricə di brani come Cyborg (un’allucinazione di effetti vocali sintetici) possa rivendicare
“l’individualità come norma”36 ed essere presentatə come “lə più autenticə del game”37 senza nessuna
ironia né contraddizione.

II. Voce senza senso

La “globalalia”38 a-significante di Lala &ce ci porta poi verso una deterritorializzazione del senso
che disturba il nesso tra voce e soggettività politica. L’“oralità cinetica”39 del mumble performa un

29
Lazzarato, Maurizio. 2019. Segni e macchine. Il capitalismo e la produzione di soggettività. Ombre
Corte. 22.
30
Redazione di Billboard. 2021. “‘It’s Fan Fiction For Music’: Why Deepfake Vocals of Music Legends
Are on the Rise.” Billboard. July 6, 2021.
https://www.billboard.com/pro/deepfake-music-imitations-history/.
31
Eshun, Kodwo. 2021. Più brillante del sole. Avventure nella fantasonica. Nero. -8.
32
Clayton, Jace. 2016. Uproot. Travels in Twenty-First-Century Music and Digital Culture. Farrar,
Straus and Giroux. 55.
33
Muñoz, Jose Esteban. 2012. Disidentifications: Queens of Color and the Performance of Politics.
University of Minnesota Press. 4.
34
Cavarero, Adriana. 2005. For More than One Voice: Toward a Philosophy of Vocal Expression.
Stanford University Press. xxiii.
35
Il mumble rap designa un insieme di sottogeneri del rap caratterizzati da una vocalità “biascicata” e
testi che (spesso ma non necessariamente) riflettono un sentimento di apatia nichilista. Coniato da
Wiz Khalifa nel 2016, il termine originariamente aveva una connotazione derogatoria, e si riferiva a
una specifica scena originata su SoundCloud. Introdotto da rapper come Gucci Mane, Chief Keef e
Future, e “perfezionato” da Young Thug e Playboi Carti, forme di mumble sono state assimilate da
molto pop rap da classifica, al punto tale da aver perso la sua designazione dispregiativa.
36
Alohanews. “LALA &CE : Son Album, l’amour, Les Critiques, Les Normes Dans Le Rap...“ YouTube
video. https://youtu.be/YL6_vw8i_iQ.
37
Pougin, Eléna. “Rencontre avec Lala &ce, la rappeuse la plus authentique du game.” Konbini.
Consultato il 18 gennaio 2022. https://www.konbini.com/fr/musique/lala-ce-interview-le-son-apres.
38
Mutuo questa espressione dalla composizione omonima del sound artist Trevor Whishart, in cui
sillabe da 26 lingue sono organizzate in modo tale da esprimere l’asignificante (glossolalica)
differenza fonetica dei linguaggi globali.
39
Termine coniato da Cornel West, citato in Gilroy, Paul. 2003. The Black Atlantic. L’identità nera tra
modernità e doppia coscienza. Meltemi. 172.
affaticamento da discorso, opacizza il linguaggio, e lo sostituisce con una legge marziale del vibe.
Come nota Ma’an Abu Taleb, “in una concezione puramente discorsiva” della politica e di “ciò che è
rivoluzionario”40, perdiamo la capacità di ascoltare le forme diverse in cui si articolano rivendicazioni
politiche veramente radicali. In questo senso, l’arrogante indifferenza del mumble verso il linguaggio
come struttura di senso dominante esprime quella “condizione di essere senza interessi”41, che in una
tale riduttiva concezione della soggettività politica, come ci ricordano Fred Moten e Stefano Harney,
equivale al suo abbietto, a una radicalità che non potendo com-prendere, spesso finiamo per non
ascoltare. Seguendo il suggerimento di Abu Taleb, è questo il modo in cui dovremmo ascoltare la
rivendicazione del duo rap palestinese Shabjdeed & Al Nather di pensare a divertirsi, per una volta,
con buona pace di quel “NGO hip-hop”42 e di chi li vorrebbe cronisti della propria oppressione.
L’appello ad un ascolto anti-essenzialista deve interessare il senso stesso del dicibile. Prestare
ascolto alla voce al di là della sua capacità di rappresentare l’identità attraverso enunciazioni coerenti
significa anche ripensare il ruolo del linguaggio, investendo pratiche orali subsensate, illeggibili (quindi
in-comprensibili) della stessa attenzione riservata a tanti statement posizionali, ma invero consolatori,
che adottano categorie di pensiero e strategie d’azione svuotate di potenzialità radicale.

III. Umani senza voce

Le nozioni di origine, di autenticità, di identità, di senso – persino l’unicità stessa che il timbro
pretende di rappresentare viene diffratta in un infinito cromatismo di riflessi sonori, se si ascoltano le
vibrazioni che l’attraversano. Immergendoci nelle “profondità del corpo”43 per tracciare l’emersione
della voce, non troveremo altro che un fondo opaco, riserva viscerale di un “nonsenso profondo”44. Il
soggetto cogitante produttore di senso e padrone di sé stesso non è pervenuto; al suo posto una
cacofonia molteplice che ne scuote le fondamenta. La pratica di ascolto che propongo è
barbaramente materialista. La meccanica della fonazione, che passa attraverso l’assemblaggio di
laringe, faringe, muscoli, dentatura, cavità della bocca e altri risuonatori naturali, ormoni, struttura
ossea, postura, dà forma alla voce individuale come “fenomeno di sintesi”45. Vediamo allora che la
tecnologia semplicemente realizza una condizione naturale, cioè sintetica, della voce.
L’unicità, così, ci appare per quello che è: effetto della compartecipazione di una pluralità sempre
in eccesso rispetto al parlante. Nelle parole “di” Carmelo Bene, la cui pratica attoriale ha preso la
forma di una (s)comunicazione radicale di sé stesso, facendosi portavoce di un’alterità a sé interiore:
“quando crediamo d'esser noi a dire, siamo detti”. La voce ci dice attraverso un discorso la cui
esperienza è straniante. Perdere la voce, la raucedine di mattina dopo una festa, ascoltare la propria
voce registrata e non riconoscersi: la quotidianità di questi fenomeni del discorso proprio della voce
testimoniano di un’alienazione, uno straniamento al centro stesso del nesso tra voce e soggetto.
“L’arroganza volitiva d'ogni mia intenzione è irrimediabilmente frustrata”, continua Bene: “non siamo
noi dicenti ad argomentare in voce ciò che ci frulla in mente … Questa mia voce è, me-attraverso,
medium equivoco di un discorso ‘altro’ dal ‘mio discorso’” 46. Se la capacità della voce di parlare nostro
malgrado sembra rinviarci a quell’idea di timbro che, “zoccolo duro del reale”47, fornisce informazioni
coerenti su di noi e il nostro corpo, è invece la prova di una disidentificazione primaria:

40
Abu Taleb, Maan. 2021. “Sing No More: Arab Music and the Political Imperative.” The Funambulist
38 (Gennaio-febbraio): 43.
41
Harney e Moten. 106.
42
Redazione di Arabpop. 2021. “Da ascoltare.” Arabpop 1:128. Per “NGO hip-hop” è da intendere rap
dai contenuti conscious atto a sensibilizzare l’audience su temi sociali, finanziato da (o prodotto in
collaborazione con) organizzazioni internazionali non governative da musicisti di territori in cui esse
operano, come la Palestina.
43
Deleuze, Gilles. 1979. Logica del senso. Feltrinelli. 152.
44
ibid. 167.
45
Pigozzi, Laura. 2016. A nuda voce. Vocalità, inconscio, sessualità. Poiesis. 28.
46
Quattro momenti su tutto il nulla. “1: Il linguaggio.” Diretto da Carmelo Bene. Maggio 2001, RAI.
https://youtu.be/_PeYB3OFql4.
47
Pigozzi. 152.
dell’impossibilità del timbro di rappresentare pienamente il soggetto, e del soggetto di identificarsi
nella propria voce.

Un mare di folla

Sintonizzarsi con la moltitudine di vettori umani e non-umani che compongono la voce individuale,
aiuta a scardinare per quanto possibile l’epistemologia di ascolto radicata che rende il timbro un
carattere essenzialista. Snaturalizzare il regime di verità del timbro e la sua pretesa di rappresentare
coerentemente l’identità del parlante, significa sostituire i modelli di ascolto dominante con un altro,
che estende l’agentività del soggetto senza fissarla in norme vocali. Questa epistemologia
anti-essenzialista tenta di aprire l’ascolto all’esperienza delle disidentificazioni vocali come strategie di
sopravvivenza e atti creativi, esperimenti estetico-politici che manifestano la non-identità originaria di
soggetto e voce. Oltre il modello di ascolto dominante, ci apre ai modi diversi con cui la voce si fa
vettore di produzione di soggettività politica. Propone, in altre parole, di “sentire le voci” al posto di
“avere una voce”.
Adottare un tale modello di ascolto non vuol dire disfare l’identità in un pluralismo indefinito, sordo
all’espressione di un’esperienza individuale e collettiva articolata in voce. Questo significherebbe
ancora fare il lavoro della disciplina e rinforzare una soglia fuori dalla quale ascoltare non ha senso.
Ascoltare oltre la linea del colore e aldilà della distribuzione binaria della voce non vuole interiorizzare
un “daltonismo razziale” sonoro48 che pretende di non sentire la differenza, ma situare le enunciazioni
vocali all’interno di specifiche relazioni di potere, paesaggi sonori nei quali è resa necessaria
l’adozione di diverse strategie, e in cui la voce di volta in volta si sintetizza come identità essenziale, o
segno di una disidentificazione primaria. Come ci ricorda Elizabeth Grosz, “la decisione se ‘usare’
l’essenzialismo o rimanere in qualche modo al di là di esso… è una questione di calcolo”, una
questione strategica, “non una certezza”49.
Ciò che più conta, è che queste diverse tattiche estetico-politche, che corrispondono a due diverse
modalità di ascolto, non entrino in contraddizione o si escludano a vicenda. Non si tratta nemmeno di
raggiungere un compromesso tra due posizioni inconciliabili, ma di saperle navigare entrambe,
lasciando che sia la voce, identificandosi e disidentificandosi, a invitare diversi modi di ascoltarla.
Sarà ancora una volta la voce come suono e musica ad offrirci i modelli per pensare ed agire. Il
“flusso sonoro” che la attraversa ci suggerirà un movimento ondulatorio. La forma d’onda che ci dà
l’immagine del suo essere continuum, fluttuazione fra stati e modi plurali, ci immerge in un mare che è
anche una folla. Altri prima di noi si sono avventurati in questo “infra-mondo” di ambiguità “senza
conforto e certezza”50. Seguiamo Pauline Oliveros nei suoi esercizi di “ascolto profondo”: passando
da una prospettiva “globale” “diffusa e continuamente in espansione” a un’”attenzione focale”51
dettagliata, lasciamo che sia il suono della voce a guidarci nell’ascolto, che parlando per sé volga la
nostra attenzione di volta in volta alle sue macro-politiche o micro-oralità. Immergersi e riaffiorare dai
paesaggi sonori abitati dalla voce significherà “percepire il rumore del mare o quello di un raduno
senza percepire il mormorio di ogni onda e di ogni persona che compongono quelle totalità”52, ma
anche saper ascoltare il suono di ogni voce, di ogni onda. Come Gottfried Leibniz, che dall’ascolto del
mare ha dedotto la natura immanente di universale e particolare, la sussistenza della moltitudine
nell’individuale, delle voci nella voce. Per “sentire le voci”, aprirci cioè a un’esperienza plurale dei
modi in cui la voce ci/si esprime, tentiamo un ascolto ondulatorio, immergendoci e riaffiorando dal
“mare di folla” della voce.

48
Stoever. 27-28.
49
Grosz. 57.
50
Kodwo Eshun citato in Chambers. 9.
51
Oliveros, Pauline. 2005. Deep Listening: A Composer’s Sound Practice. iUniverse. 25.
52
Deleuze, Gilles. 2004. La piega. Leibniz e il barocco. Einaudi. 143.

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