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Kant e le fondazioni

dell’etica
R. Burlando da lezioni di A. Poma
Corso di Economia ed Etica 2020
Diversi economisti sostengono che l’economia si occupa solo di mezzi e non di fini,
mentre secondo altri in realtà essa estende l’approccio strumentale anche ai fini (e
quindi la tesi pare falsa).
Nel primo caso caso i fini sarebbero decisi dai singoli individui e non sarebbero da
analizzare (de gustibus non disputandum est).
Questa tesi implica però una precisa assunzione in termini di filosofia morale
(individualismo etico più egoismo) che non è normalmente riconosciuta dai suoi
proponenti, che pretendono di farla passare per una condizione naturale.
Per altri è la filosofia morale ad occuparsi dei fini, definendo un’area teorica che
attiene o alle scelte individuali o invece cerca di spiegare e/o giustificare queste
scelte in termini diversi dall’individualismo ed egoismo etici.
Entrambe le tesi sono assai discutibili.
In Filosofia Morale, invece, sono diverse le tesi che discutono dei mezzi e non
dei fini.
La teoria di Filosofia Morale più diffusa (nel mondo anglofono e, data l’attuale
predominanza di questo, nel mondo nel suo insieme) è l’utilitarismo che
assume il fine – l’utile – senza discuterlo.
Aristotele definisce e stabilisce il fine (l’eudaimonia) fin dall’inizio della sua
riflessione nell’Etica Nicomachea, sostanzialmente presupponendolo e non
studiandolo davvero, anche se opera per definirlo precisamente. Si può
dunque sostenere che la sua filosofia morale si occupi dei mezzi per
raggiungere questo fine, che per lui sono le virtù.
Pare dunque che sia l’economia che due dei principali filoni di Filosofia Morale
si occupino essenzialmente di mezzi e che separazione tra fini e scopi sia
dubbia.
Kant è uno dei pochi che ha discusso seriamente dei fini.

Gli interrogativi che si è posto sono:


• Qual’è il principio che rende valida una qualche legge morale?
• E perchè questo principio è valido?

Questo è il piano della fondazione, la ricerca della fondazione del fine.


Nella Critica della ragion pratica Kant si propone di rispondere alla domanda se sia
possibile “una volontà pura”.
Per lui l’azione nasce dalla volontà, da una determinazione che produce degli atti in
funzione di rappresentazioni mentali e la volontà non è solo una rappresentazione,
perché a questa deve seguire un atto altrimenti si ha solo una velleità.
Altrimenti un atto non determinato dalla volontà è invece involontario.
La sua conclusione è che una volontà pura, cioè interamente e unicamente
determinata dalla ragione e quindi non empirica (determinata solo da fatti) e
interamente libera è possibile.
Questo lavoro porta Kant a determinare anche quello che considera il principio
fondamentale della volontà, la 1° forma dell’ Imperativo Categorico, l’universalismo
(definisce poi le “leggi” di trasformazione di questo principio in altre versioni
equivalenti...)
La prima forma è un principio, un comando (tratto normativo) puramente formale.
Ci sono state molte critiche a questo tratto, al “formalismo” kantiano, ma si tratta
essenzialmente di critiche che davvero non colgono l’articolazione delle riflessioni
kantiane in diverse fasi e parti.
Nella fenomenologia trascendentale la forma non è vuota forma, unicamente forma.
Piuttosto il principio formale permette di definire, di determinare delle leggi, che
hanno un contenuto concreto.
Per fare un esempio: cos’è e cosa “ci dice” un corpo che si muove secondo un
moto uniformemente accelerato? Non si tratta solo di un corpo che cade
dell’alto ma rinvia alla legge di quel tipo di moto (condizioni teoriche), che
determina la sua dinamica.
Un’altra critica all’approccio Kantiano è che l’IC non sarebbe in grado di
definire i comportamenti perché il criterio che definisce è puramente formale.
Anche questa critica, però, è infondata, perché dimentica che le regole (sia in
filosofia che nelle scienze naturali) non sono tutte sullo stesso piano. Se
confondiamo i piani creiamo confusione e non capiamo quel che si dà.
In fisica ci sono regole di misurazione che sono fondate su leggi fisiche, che a
loro volta sono fondate su regole e su principi.
Si può poi chiedersi perché i principi sono validi e questa è l’indagine sui
fondamenti, quella cui Kant si dedica nella CR Pratica.
Il principio fonda le regole sulla cui base cui si definiscono poi le leggi morali, che a
loro volta fondano le regole di comportamento e/o di misura. E ‘ovvio, quindi, che i
principi di per conto loro non definiscano le regole di comportamento, cosa che sarà
compito dei passaggi successivi.
Su un principio (Crit Rag. Pratica) fondante si costruisce un sistema di Regole e di
Leggi morali (Metafisica dei costumi), che non sono più formali bensì sostanziali.
Su queste si fondano poi le regole di comportamento, applicabili caso per caso
(adattate cioè alle specifiche circostanze).
[Anche nella filosofia morale dello Yoga c’è una gerarchia di simile, seppure di
costruzione totalmente diversa. Il Sanatana Dharma è la Regola universale
(composta da Yama e Niyama) che deve essere articolata nello Swadharama,
individuale, che specifica la Regola nelle condizioni del singolo individuo, età, stadio
evolutivo, contesto sociale etc.).
Occorre rilevare come per diversi filosofi (e non solo) non esiste alcun
Fondamento comune (Moore sostiene che il concetto di bene non è definibile
e quindi che nessun principio morale fondamentale esiste, posizione
ampiamente condivisa).
Kant invece nella ricerca sui Fondamenti individua un principio fondamentale a
priori, su cui costruisce poi il resto della sua teorizzazione.
Merita rilevare come sia possibile concordare con Kant sui Fondamenti ma non
sul resto, sullo specifico della sua proposta di articolazione delle leggi morali
basate sui Fondamenti...
Sarebbe invece problematico l’inverso, perché il sistema etico kantiano (le
Leggi morali) si costruiscono su quel Fondamento, senza il quale le leggi morali
sarebbero come “sospese nel vuoto”.
Proprio questo aspetto è la base che da un lato evita il problema dell’
assolutismo e fondamentalismo etici, e dall’altro evidenzia come la
contrapposizione oggi non si dia tanto tra pluralismo e assolutismo (che pure
esiste ma è sostanzialmente “scoperta”) bensì tra pluralismo e relativismo.
Il pluralismo morale riconosce validità a diverse concezioni morali, sistemi
etici, che hanno la medesima legittimità poiché “costruite” sul medesimo
Fondamento.
Infatti, in base a cosa si stabilisce che una posizione è legittima?
In base alla conformità nei confronti della legge universale (IC).
Su questo piano non ci può essere pluralismo, il principio fondante è uno solo.
Ma su di esso si possono stabilire, costruire diversi sistemi di leggi morali e di
regole di comportamento, che sono legate a elementi contingenti, empirici,
che dipendono da tempo e spazio, culture e loro evoluzione.
Anche le leggi possono essere (meno delle regole di comportamento) molteplici, ma
devono basarsi sul principio fondante che le legittima.
Se manca un principio fondamentale che legittima le sue diverse declinazioni in
sistemi tra loro differenti non ci può essere pluralismo ma sono relativismo, perché
nessuno sistema etico non fondato è legittimo.
Il Pluralismo dunque non è illimitato, a differenza del relativismo. Il limite è il rispetto
del principio fondante.
E.g. Sono legittime diverse posizioni rispetto alla proprietà privata (definita da regole
di comportamento storicamente e geograficamente determinate, dunque diverse in
culture diverse) ma non rispetto all’omicidio.
Il Pluralismo presuppone l’esistenza di un principio assoluto, purché esso sia di
natura formale e quindi non assolutistico.
L’assolutismo dogmatico appare quindi come conciliabile col relativismo ma non col
pluralismo: tra tutte le versioni possibili, nessuna fondata e dunque limitata, la mia è
unica valida in assoluto.
Tra tutte le molteplici posizioni presenti nel relativismo storicamente prevale
quella sostenuta dal più forte, come già sapeva ed evidenziava Platone.

Il relativismo etico ha sempre come conseguenza la violenza del potere,


perché non pone limiti ad esso.

Il relativismo è dunque una facciata che nasconde la prevalenza del più forte.
Ed è così in economia come nella scienza.
Una delle implicazioni del relativismo etico è il fatto che nel nostro mondo
attuale non esiste più la “scienza”, nel senso classico del termine, tranne che in
piccole nicchie (teorie cosmologiche, pure riflessioni metafisiche). Nella fisica
come nelle altre scienze della natura (ed in economia) ora predomina la
tecnologia, le applicazioni.
Per Kant, invece, è possibile e utile l’attività scientifica pura, disinteressata,
mossa dallo “stupore” (Platone), da un interesse che non ha altro “interesse” se
non di conoscenza.
Occorre evidenziare come spesso si faccia confusione tra tecnica e tecnologia,
e come spesso ciò sia fatto volutamente, per confondere le idee.
Le tecniche, si sostiene, sono moralmente neutrali (un martello non è etico o
meno, dipende dall’uso che se ne fa..) e altrettanto le tecnologie che alle
tecniche vengono equiparate.
Ciò in realtà è vero per la tecnica (strumento, non progetto finalizzato) ma non
per la tecnologia (processo) che richiede programmazione e quindi
finanziamenti e la definizione di un fine.
La complessità delle tecnologie odierne richiede grandi finanziamenti e quindi
obiettivi e finalità.
e.g. La scissione dell’atomo è stata studiata per produrre la bomba H, anche se
poi quella ricerca ha prodotto pure applicazioni civili, quali le centrali
nucleari.
Segue che le scelte tecnologiche sono sempre anche scelte morali, non sono
affatto “eticamente neutre”.
Nella scienza invece le scelte morali riguardano le conseguenze delle
applicazioni delle sue scoperte e non essa stessa, a meno di confondere scienza
e tecnologia.
Anche in economia non esiste più (se non in nicchie di riflessione critica) una
scienza ma solo tanta tecnologia..
Molti approcci proposti come teorie etiche non sono propriamente tali ma in
realtà delle economie (economia delle virtù, della prudenza, dei mezzi per
raggiungere un fine definito...).
L’utilitarismo nasce per essere una teoria morale ma da subito è invece una
teoria economica.
Il liberalismo etico e politico, nel cui alveo si colloca, costituiscono la base su
cui si può sviluppare il liberismo economico, anche se non lo implicano
necessariamente (ne sono condizione necessaria ma non sufficiente). Il
riferimento è la concezione della persona come individuo, ma concepito in
modi diversi…
“La” cultura occidentale ha fornito importanti contributi al mondo, tra i quali
quello della concezione della persona umana come individuo - sviluppata nel
1600 e 1700 e presente nei Manifesti della rivoluzione francese e americana.
Si tratta di una acquisizione importante ma oggi rimessa in discussione dallo
stesso sviluppo della cultura occidentale per una serie di ragioni.
Da diversi decenni si è diffusa progressivamente una concezione
individualistica della persona umana, che si esaurisce con e nell’individuo.
Il che non è vero, perché la persona umana è anche costituita dalla
partecipazione alla vita sociale. Questa concezione ha conseguenze
drammatiche (e.g. negli Usa le armi da guerra sono vendute liberamente, ogni
tentativo di limitazione di questo commercio è considerato un attentato alle
libertà individuali)..
Il concetto di individuo oggi non indica più ciò che indicava nella cultura
moderna del 1600 e 1700 (cultura borghese), cioè chi possedeva proprietà e
lavorava.
Allora l’individuo era definito dalla propria proprietà e dal lavoro, tanto che
il diritto di voto era riservato a chi aveva una proprietà e lavorava. Ad esempio la
democrazia Usa è fondata, secondo la sua Costituzione, proprio sulla piccola
proprietà e sul lavoro, ed uno dei «Padri Fondatori», Adams, era particolarmente
preoccupato dalle possibili concentrazioni di potere economico e politico.
Entrambe comportavano diritti e doveri.
La complementarietà tra diritti e doveri, tipica della cultura moderna, pare
superata nella cultura post-moderna. In essa la persona-individuo è definita
solo da desideri, pulsioni. Che non hanno limiti (neppure nei diritti altrui).
Idealismo critico (kantismo) ed etica.
Il pensare non si esaurisce nel pensare l’essere ma deve includere anche il
dover essere (anche se non è). Altrimenti ciò che è semplicemente è, e con
esso anche lo spazio etico, è privo di significato.
Pare necessario affermare che il dover essere non è un “non-essere” ma ha la
stessa realtà dell’essere, anzi è più vero di quello (Platone come Parmenide,
vero essere).
L’essere vero è quello del dover essere, che misura l’essere (come le idee
Platoniche)..
Il luogo logico dell’essere e del dover essere è nella dimensione dell’essere,
non è trascendente in questo senso.
L’ideale è fondamentale per l’oggi, per il giudizio critico sull’esistente ben
prima che come riferimento per il futuro..
C’è tensione tra essere e dover essere, una distanza mai pienamente
colmata o colmabile, ma si persegue la ricerca di una loro unione nel
riconoscere l’ideale nel reale.
Vi è nell’umano una tendenza all’infinito, al sublime, che non è perseguita
attraverso il disprezzo del finito bensì nel suo apprezzamento, perché le
uniche forme di espressione dell’infinito sono nel finito.
Non c’è ontologia in questo sistema, il pensare riempie di significato l’essere
che non è un principio fondamentale.

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