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Amicizia e Potere, Lazzarini

La fitta trama della società politica tardomedievale


L'onesto intreccio della famiglia, della roba, degli amici e di una qualche onorata autorità, costituisce le basi del
vivere civile e politico dell'Italia quattrocentesca. La società italiana tardomedievale era un mondo articolato in
amicizie, affinità e parentele. Parlare di amicizia in questo contesto, porta a chiedersi come l'istituzione dell'amicizia
plasmasse e regolasse la società umana. Nel Medioevo l'amicizia era un'istutuzione centrale per la vita politica e
l'ordine sociale, un legame formale che portava con sè obbligazioni e diritti, per creare e mantenere reti di affinità il
cui effetto si rifletteva su molti aspetti della vita associata. Tre ordini di relazioni - istituzionale, sociale, personale-
sono modi diversi di fare astrazione dello stesso comportamento affettivo. Appartenere alla società civile e politica
significava far parte di una serie di legami sociali di natura diversa e di vario respiro. Un'analisi degli intrecci
relazionali tra uomini e donne nel concreto della vita associata permette di leggere meglio elementi essenziali del
potere e della società.

Reti territoriali e solidarietà di parte


(amicizia letta come alleanza politica, coordinazione di parte, rete diplomatica)

Tra metà XIII e XV secolo, la costruzione di assetti di potere più complessi e ampi, incentrati su spazi territoriali
ordinati (stati maggiori che controllano stati minori) o imperniati su coalizioni a carattere funzionario (guelfi e
ghibellini), fece uso di legami di alleanza. Nel vuoto lasciato nella penisola dopo la morte di Federico II, il progetto
politico degli imperatori cedette il posto a molteplici progetti egemonici e conflitti. I grandi e piccoli comuni urbani
dell'Italia centro settentrionale, le signorie, il potere pontificio, le monarchie meridionali, si contrapposero in una
competizione politico-diplomatica esasperata. Questa conflittualità condusse, attraverso la stipulazione di trattati di
aderenza, alla formazione di leghe generali e particolari contratte a partire dal 1454 , anno della celebre pace di Lodi.
L'Italia era alla metà del Quattrocento un sottosistema conflittuale entro il più ampio sistema dei poteri europei.

Lega Italica, pietra miliare di un'età di equilibrio breve, prima dell'invasione francese del 1494. Trattato anomalo che
puntava a legittimare la supremazia dei principali stati italiani che fanno accordo definibile di non belligeranza,
proibendo alleanze a scopo bellico con paesi esteri. Cinque stati maggiori, ma non riuscirono a prevenire una serie di
crisi locali. Nel XV secolo, gli stati italiani, profondamente divisi, divennero pedine all'interno di progetti egemonici
più vasti.

I vari protagonisti dello scontro politico-militare si legavano tra loro in mutevoli assi combinatori, stipulando leghe,
alleanze, trattati difensivi e offensivi. A partire dal secondo Trecento venne evolvendo la tradizionale struttura dei
patti tra due o più contraenti di pari statuto giuridico , nuova forma di raccordo tra soggetti politici di diversa autorità
venne integrandosi nel contesto di accordi e leghe tradizionali. I rapporti di aderenza erano meno vincolanti
giuridicamente di quelli di aperta sudditanza o dipendenza vassallatica, ma usati per vincolare membri minori dello
Stato al centro o entità esterne non unite tra loro. Clausole di aderenza del genere, con indicazione di nomi e date,
arricchivano, leghe, paci e trattati. Quindi nel 300 gli accordi sono personali, nel 400 le aderenze avvengono su scala
territoriale e gerarchica, per creare nella penisola entità statali egemoniche. Trattati e paci generali nel secondo 400
imponevano una sintesi politico-diplomatica della penisola che si risolveva in poche unità di dominio legate da un
patto di reciproca legittimazione, usando il lessico dell'amicizia, dell'alleanza, della protezione.

Il linguaggio dell'amicizia venne usato anche in altri contesti e da altri protagonisti per tentare di organizzare forme
di dominio locale o controllare aree socraregionali grazie alla coordinazione di nuclei di dominio disseminati nello
spazio peninsulare e collegati in modo fluido a una comune adesione di parte: vicenda di guefi (in memoria di antichi
avversari germanici degli Hohenstaufen, Welfen) sostenitori della pars ecclesie e ghibellini (dal nome di un castello
svevo Wailblingen) sostenitori della pars imperii tra il secondo Duecento e il Trecento. Dirsi guelfo o ghibellino
nell'Italia del 400 significava fare una scelta legata a un idioma politico di memorie e tradizioni politiche. Significava
svincolarsi dalle appartenenze strettamente geografiche e organizzare la propria condotta politica in rapporto a
questo diverso orizzonte di riferimento. A un primo livello locale le fazioni si presentavano come raggruppamenti
verticali egemonizzati da grandi famiglie aristocratiche ed esercitavano un peso significativo come forma di
aggregazione alternativa allo stato territoriale; a un livello sovralocale, le fazioni si proponevano come modello di
organizzazione politica alternativa al sistema dell'equilibrio messo in atto dagli stati territoriali italiani. In alcuni
contesti regionali le due fazioni operarono come reti clientelari negli spazi aperti tra centro e periferia. Al momento
dell'annessione delle valli alpine e prealpine lombarde al ducato milanese, i capi delle fazioni agirono come
mediatori, sapendo contattare strategicamente altri individui che hanno accesso a risorse essenziali come terra,
lavoro, denaro, procurandosi vantaggi grazie al rapporto privilegiato di interlocutori di duchi e magistrature centrali,
ridistribuendo tali risorse a livello locale e garantendo ai principi per loro tramite il controllo di territorio e uomini.
Così rivitalizzarono i rapporti tra comunità e magistrature centrali in forme alternative ai patti di aderenza,
costruendo un raccordo tra centro e periferia fondato su relazioni patrono-mediatore e cementato in relazioni locali
e sovralocali di fedeltà non irrigidite in tipologie giudiziarie. In fasi di travaglio politico (es. guerra tra Milano e
Venezia per il controllo di Brescia e Bergamo), la trama delle fazioni sembrò incapsulare il sistema degli stati in un
sistema di lealtà e relazioni di parte. Nel secondo 400, la rete delle lealtà guelfe giunse a prospettarsi come possibile
alternativa al sistema dell'equilibrio tra regimi che controllavano gli stati (regime sforzesco a Milano, regime mediceo
a Firenze, regime aragonese a Napoli). Nell'Italia del primo 400 primeggiavano tra i condottieri e i capitani di ventura
due scuole di guerra e strategia, chiamate "braccesca" (da Braccio da Montone, aristocratico e condottiero perugino)
e "sforzesca", da Sforza. Tra i successori, Piccinino e Francesco Sforza si creò una rivalità militare e politica. Negli anni
30-40 Niccolò Piccinino e F. Sforza miravano a controllare le stesse regioni d'Italia (Stato della Chiesa e Lombardia)
per costruirvi una base personale di potere. Il successo dello Sforza che con l'aiuto dei Medici si impossessò del
ducato di Milano e come duca di Milano orientò a suo favore il sistema delle alleanze peninsulari stringendo un patto
con i medici, i papi e i re aragonesi a Napoli.La rete braccesca venne a saldarsi con un sistema di allenza alternativo,
opponendosi ai regimi che attraverso la lega italica miravano a controllare la penisola. La rete braccesca assunse un
colore guelfo costituendo una notevole forza militare che andava dagli Este, a Perugia, da Venezia alla Firenze
antimedicea, dalla casata d'Angiò ai guelfi milanesi: pericolo per regime sforzesco e mediceo e per i loro alleati
aragonesi. L'esperienza braccesca e la sua mutazione guelfa indicano come ancora nel 400 fosse possibile costruire
un antagonismo diffuso al sistema di controllo delle residue autonomie politiche messe in atto dai 5 regimi più forti
della penisola. L'intensificarsi dei rapporti politici richiese uno sforzo negoziale condotto tramite i canali della
diplomazia. C'era bisogno di una progressiva elaborazione di un network comunicativo che potesse controllare
questa massa di scambi e mantenere entro un contesto negoziale ogni potenziale conflitto. Tale network si costruì
attraverso una fittissima rete diplomatica in parte ufficiale (oratori pagati dagli stati) e informale (ad es. tramite
informatori di governi e poteri vari). La crescita dei carteggi diplomatici nel 400 è spia e strumento di questo
sovrapporsi di reti di rapporti politici: alle reti politiche si sovrapponevano le reti diplomatiche: frutto delle prime e
strumento per la loro messa in opera, ma sempre più in grado di controllarle attraverso la lettura che davano di
eventi, uomini e partiti.

Attorno ai principi: il cosmo cortigiano


Castiglione scrive "Libro del Cortegiano", dove rievoca con rimpianto la corte di Urbino, con le sue reti di amicizia
cortigiana attorno al potere centrale di principe e principessa. Legami cortigiani con persone all'interno e all'esterno
della corte. Le corti dell'Italia tre-quattrocentesca non sono state studiate come sistemi storici di relazioni politiche,
sociali ed economiche, ma sono state identificate in fenomeni cerimoniali e culturali o peggio in espressione di
irrazionalità e fasto superfluo. La casa del signore trecentesco recava in sè i tratti del servizio domestico e familiare: i
suoi membri si occupavano della cura della persona del signore, dei suoi familiari ecc. La familia trecentesca
organizzava l'intrattenimento dei signori, gestiva il patrimonio dinastico, fungeva da guardia armata e compagnia
militare. Tra 300-400 questo nucleo originario venne combinandosi con la struttura istituzionale urbana ereditata
dalla città di cui il signore aveva fatto la propria capitale. Il rafforzamento del potere del principe resero la corte nel
corso del 400 un luogo sempre più articolato e capace di esprimere un linguaggio peculiare di potere. Territorio di
possibili integrazioni sociali e geopolitiche, la corte sviluppò interessanti dinamiche nel contatto quotidiano con la
società politica di signorie, regni e principati. Diversi elementi concorrevano nel definire la fisionomia della corte: la
struttura territoriale del dominio, la fisionomia della società territoriale e delle sue elite (presenza o assenza di
comunità rurali autonome o organizzate in forme orizzontali di raccordo locale e di domini signorili di rilievo e
tradizione nel contado e la fisionomia idrogeologica del territorio facilitarono o contrastarono l'eventuale centralità
politica della società di corte, modellandone i caratteri. Importanti anche qualità e dimensioni del patrimonio
dinastico in rapporto alle entrate complessive del dominio e la fisionomia della famiglia al potere, in senso dinastico
e sociale. Tutte le dinastie signorili dell'Italia centro-settentrionali vissero una prima fase di radicamento egemonico
di tipo consortile: il dominio era esercitato dal consorzio dei parenti maschi adulti, padre e figli o gruppi di fratelli.
Gradualmente e con un processo di fissazione guridica delle modalità successorie queste dinastie optarono per la
scelta di un erede alla volta. Tale scelta non si estendeva al territorio che continuò a essere diviso tra fratelli. Questa
rete di soluzioni successorie si riflettè sulla fisionomia della corte signorile, di volta in volta consortile, multipla, unica
e sul suo rapporto con la città del dominio e con gli uomini e le donne della società politica. Ad esempio gli Este, di
origine carolingia e matrice signorile, erano estranei alla società politica ferrarese, mentre i Gonzaga per quanto di
origini rurali avevano sviluppato una fisionomia cittadina sia come scelta culturale sia come concreta geografia delle
risorse patrimoniali. Per quanto riguarda i regni meridionali, il nucleo originario della corte crebbe e mutò grazie
all'adeguamento obbligato alla crescente struttura territoriale del regno. Le trasformazioni della corte furono però
dovute più ai mutamenti della cultura politica e del personale di governo indotti da cambi dinastici (caratterizzati da
cambiamenti di stirpi, lingue, network relazionali), che non al mutare dei componenti. Le corti meridionali giunsero
al 400 con un patrimono di idiomi politici, esperienza umana più ampio e consolidato dei principati settentrionali.
Grazie agli studi di antropologia sociale gli storici hanno iniziato a interessarsi agli aspetti simbolici e rituali della
sovranità come a un tratto strutturale del sistema politico e hanno sviluppato un'attenzione alla dimensione
personale dei rapporti di principe e principessa con i membri della corte, identificando in essi modelli diversi di
patronage (mecenatismo artistico e clientelismo politico, inteso come sistema ineguale di scambio tra protezione e
dominio, tra potere e riconoscenza, per cui il cliente, inferiore per status, era tenuto a restituire al patrono servizi ,
fedeltà e affezione in cambio di protezione e favori). Il principe controllava un dato numero di risorse e le distribuiva
tra i suoi cortigiani in cambio di servizi e fedeltà. Ciò avveniva con la distribuzione di piccole e grandi risorse di tipo
patrimoniale, pubblico o privato (terre, doni, cariche, concessioni fiscali, remissione debiti, assegnazione di benefici
ecclesiastici). Il controllo dei membri della corte era garantito dalla pratica cruciale di gestire le parentele dei
cortigiani, pilotandone i matrimoni , assicurando doti alle fanciulle e tutelando eventuali eredi orfani, per costruire lo
stato come rete di rapporti di affinità incentrata sul principe o sul regime del potere. La corte era lo scenario ideale
per la messa in opera di sistemi di patronage così intesi; la corte era, dopo la famiglia, il luogo dell'intreccio
pubblico/privato e il centro di una politica ibrida in cui le relazioni patrono/cliente riproducevano la
complementarietà e gli obblighi affettivi del rapporto uomo/donna nella sfera familiare. Gli studi più attenti si sono
incentrati sul patronage delle principesse, più che su quello dei principi. La parentela era la cellula cruciale del nesso
tra stato e società. I network delle principesse presentano una maggiore compattezza documentaria. Gli studi di
gender history hanno distinto tra patronage e matronage o/e maternage: al primo rimane legata una valenza
principalmente politica, il maternage indica network più affettivi e femminili; Zarri distingue nell'azione di patronato
al femminile un matronage come mecenatismo artistico da un maternage di tipo caritativo-religioso. Viene fatto
l'esempio della lettera di Bianca Maria Visconti, duchessa di Milano e moglie di Francesco Sforza, del 1452 (prima
della pace di Lodi): supplica di Bianca che metteva in scena un rapporto triadico tra lo zio Maino (cliente), la
duchessa come mediatrice e il duca come dispensatore di beni, il tutto secondo uno schema preciso, affinchè venisse
nominato podestà. Equilibrio tra piano familiare, cortigiano e politico.

Le elite al servizio del principe costruivano un rapporto privilegiato con lui, con fedeltà personale e reciprocità, che si
caratterizzava per la sua unicità: la fedeltà e la lealtà erano promessi e dovuti a quel principe, quello stato. Ma
l'arbitrarietà e la fragilità di tale rapporto imponevano talora ai cortigiani di mantenere legami co altri signori,
potenziali patroni. La molteplicità delle relazioni di un cortigiano lo rendevano più prezioso, duttile ed efficace per il
suo signore garantendo una rete di rapporti di secondo o terzo livello (es. del ferrarese Bartolomeo di Gabriele
Pendaglia a contatto con la corte mantovana, che sarebbe stato voluto dallo stesso Sforza). Il fondamento dei legami
di fedeltà erano la gratitudine dell'uno e la carità dell'altro. I ruoli legati alla vita di corte richiedevano un alto grado
di competenza professionale.

Tra famiglia e città: il mondo dei mercanti


Reti di amicizia in ambiente mercantile e trasformazione politica nell'Italia tre-quattrocentesca. Per quanto si tratti di
un contesto prevalentemente maschile, l'importanza del matrimonio e delle alleanze per via femminile e la funzione
supplente di mogli, madri, vedove di mercanti all'estero o in esilio rivelano una cruciale partecipazione femminile
alle dinamiche costitutive dei reticoli di affinità mercantile. Lo slancio economico delle città italiane nel Duecento
diede vita a reti integrate di traffico su scale diverse grazie a una nuova stabilità politica e al ripristino di condizioni
sicure lungo le principali vie di collegamento continentali e mediterranee ed elaborò strumenti finanziari come la
lettera di cambio, contabili e monetari (bimetallismo oro-argento), commerciali (commenda, compagnie, banchi).
Nasce in questo periodo una grande narrazione storiografica, quella della civiltà urbana e mercantile italiana, diretta
antecedente dei fasti dell'Umanesimo e del Rinascimento di impronta repubblicana. Abbiamo una grande quantità di
fonti documentarie e una maggiore accessibilità ad esse, veicolata dal precoce passaggio al volgare delle scritture
mercantili. Questo articolato universo mercantile venne generato da uno slancio economico e finanziario di un
piccolo numero di grandi città di vocazione diversa, collegate a città minori che vennero costituendo in questo
periodo il cuore urbano d'Europa (Lombardia, Emilia Romagna, Toscana). Venezia si caratterizzò per una fisionomia
mediterranea: la città non fece mai parte dell'impero carolingio, rimanendo legata all'ecumene bizantina, sviluppò
una tradizione pubblica e giuridica non basata sul diritto romano-giustinianeo, ma su un proprio diritto
consuetudinario. Non si resse mai a comune, governandosi con una commistione di istituti autocratici, oligarchici,
collegiali. Firenze sviluppò una fisionomia economica manifatturiera e finanziaria e fu il comune per eccellenza
(consolare, podestarile, di popolo), divisa tra guelfi e ghibellini nel 200 svevo, poi guelfa e angioina in un 300 sempre
più oligarchico che sfociò in un 400 criptosignorile con il succedersi dei regimi di Albizzi e Medici. Genova ebbe una
proiezione solo marittima e una vocazione mercantile e finanziaria, fondata su una complessa commistione fra
interessi privati e identità pubbliche e con una fisionomia sociale, familiare e consortile particolare. Le grandi
famiglie cittadine organizzarono i propri network in alberghi, vale a dire in strutture consortili complesse e composte
non solo di consanguinei, ma anche di legati per sangue e di rango e ricchezza anche molto diversi. Tali strutture
erano radicate su un territorio urbano che contrinuirono a plasmare in nuclei autonomi e vennero regolate da norme
formalizzate e ruoli politici precisi. Milano, dagli sviluppi signorili a partire dalla fine del 200, fu per tutto il Medioevo
centrale e tardo un centro manifatturiero e di scambio di grande rilievo. La rete degli uomini d'affari italiani si estese
dal Mediterraneo a tutte le capitali dei regni e delle corti europee, alle città continentali sede di fiere, alle grandi
piazze commerciali e portuali che costituivano lo sbocco di importanti distretti agricoli o manifatturieri. Nei terminali
urbani di queste reti operavano compagnie mercantili articolate che organizzavano attività commerciali e creditizie e
procedevano alla ripartizione degli utili e delle perdite fra i numerosi soci e alla distribuzione degli interessi cui
depositi raccolti tra una clientela spesso internazionale di investitori e speculatori di diversa origine sociale. Nella
nota autobiografica di Lorenzo de Medici il termine "stato" definisce il regime di governo, cioè il sistema di potere
tramite il quale i Medici avevano governato Firenze. I maggiorenti del regime mediceo chiesero al giovane Lorenzo di
prendere le redini del loro partito per continuare a controllare la città ed egli concluse che se si voleva avere cura
degli amici e mantenere la roba, se si voleva dunque preservare ricchezza e potenza costruita agli avi attraverso la
mercatura, non ci si poteva tirare indietro dalla responsabilità politica connessa al governo del proprio partito, lo
"stato". Le reti dell'amicizia gemmata dalle relazioni d'affari erano peculiari da due punti di vista: da un lato si
collocavano in un continuum con le reti familiari e consortili perchè per le grandi famiglie mercantili non vi era
discontinuità tra il cerchio delle relazioni di consanguineità e il cerchio delle relazioni di amicizia di origine
professionale. L'amicizia fra cittadini era regolata da formali obbligazioni e in naturale equilibrio tra contrattualità e
spontanea espressione di una personale affezione tra uomini di status diverso in una società diseguale. Il secondo
elemento peculiare prevede che l'analisi delle reti di amicizia mercantile si innesta sull'indagine dei meccanismi di
potere che condussero alla trasformazione delle costutuzioni oligarchiche in senso criptosignorile. L'amicizia è stata
letta come patronage politico di diversa ampiezza, che si dispiegava dalla città dominante alle città soggette, da
palazzi urbani a società rurale. Nella complessa dialettica tra household (famiglia nucleare), lignaggio (famiglia
estesa), stirpe (che include anche legami per matrimonio), vicinanza urbana, parte politica o regime e governo dello
stato, i legami matrimoniali erano importanti perchè immettevano nel chiuso circolo del lignaggio parentele che
rappresentavano un patrimonio di risorse economiche, politiche, sociali esterne. Nella scelta di una moglie, non
bisognava solo fare attenzione alle famiglie del vicinato, che meglio si conoscevano, ma anche all'aderenza di parte,
a Firenze necessariamente guelfa, cruciale nell'identificazione tra individuo e società urbana. Le doti morali si
coniugavano con una solida fisionomia economica, sociale e politica di radicamento urbano e sperimentata fede
guelfa: il parente ottimale doveva essere un uomo di governo, abituato a ricoprire uffici pubblici e reputato capace di
provvedere in caso di necessità. I legami creati tramite il doppio binario dei contatti professionali e dei legami
parentali andavano curati: l'amicizia imponeva obbligazioni che attraversavano i diversi livelli sociali, implicavano atti
di omaggio, inducevano una reciprocità di servigi che stava alla base del successo sociale. Nell'età di Lorenzo questi
legami si connotarono di caratteri meno egualitari perchè le relazioni interne ai membri del regime mediceo si
orientarono in una struttura a piramide che convergeva sul solo Lorenzo; inoltre quest'ultimo divenne il terminale
ultimo di reti di amicizia e di patronage meno urbane e più rurali, proponendosi come protettore di famiglie e
individui che volevano avere con lui rapporti diretti di clientela e affinità. Le reti di amicizia e affinità nate sulla base
di interessi economici comuni e mediate dai rapporti di parentela e dalla coscienza di una comune appartenenza
cittadina si riverberarono anche in vasti sistemi di rapporti esterni, in grado di provvedere ai propri componenti,
oltre che informazioni e risorse, contatti, notizie, affinità politiche e personali. Queste reti intersecavano il sistema
degli stati europei e mediterranei , adempiendo anche a funzioni chiave di natura politico-diplomatica. I mercanti
venivano usati come diplomatici. Nella cultura degli uomin d'affari veneziani, pisani, genovesi, un sapere umano e
geografico si sedimentava attraverso una fase di esperienza all'estero, che li provvedeva anche dei fondamentali
contatti per costruire il proprio prestigio personale in patria. I caratteri dell'amicizia mercantile erano diffusi
nell'intera penisola.

Vivere in comunità: l'universo rurale


Viene citato uno scambio tra due valtellinesi che si incontrarono a Verona nel 1459, che si riconobbero come
entrambi di Valtellina e uno dei due affidò all'altro il compito di portare al Beccaria un messaggio politico
importante. Il riconoscimento avvenne tramite l'enumerazione di una serie di appartenenze, per collocare
l'interlocutore nello spazio sociale comunitario di provenienza e nel reticolo delle relazioni sociali locali. Un individuo
si definiva secondo parentela, terra di provenienza, rete di legami personali e fazione di appartenenza. Capitolo sulle
forme dei network sociali delle comunità rurali e delle diverse modalità con cui un individuo apparteneva a un luogo
in un contesto non urbano e in una dimensione locale. La comunità rurale emerge come un campo in cui il reticolo
delle relazioni sociali si struttura su multipli livelli e si dispiega su vari ambiti, dal possesso fondiario alla
stratificazione sociale. Per comitatinanza si intende il progressivo controllo urbano di porzioni ampie di territori
rurali, modificandone la natura giuridica e le forme di governo politico a livello locale. Nel corso del Novecento si è
tornati a un parziale riesame della natura dei comuni rurali, analizzati come forma di organizzazione locale del potere
e degli uomini, complementare e conflittuale non solo con la città, ma anche con i poteri signorili e poi con lo stato
regionale. Infatti fino a non molti anni fa la ricerca medievistica poco si è interessata allo studio delle comunità rurali,
di cui al massimo studiava l'organizzazione politica (comuni rurali). L'introduzione di categorie interpretative mediate
da studi di antropologia sociale, l'analisi microstorica sulle comunità rurali d'età moderna hanno articolato
un'immagine prima troppo rigida dello stato regionale e monarchico e hanno permesso di riformulare i termini
dell'indagine sugli insediamenti rurali anche in campo medievistico. Alle comunità si è restituita una dinamicità
processuale propria , senza abbandonare l'analisi delle loro quotidiane interferenze con realtà territoriali di scala
differente. Anche la piena età comunale è stata oggetto di intense ricerche e si è riconsiderato il tardo medioevo. Di
fronte a un potere centrale di volta in volta rappresentato dal principe, dai signori, da poteri esterni, si muovevano
gruppi di individui collegati da diverse forme associative, tra i quali si apriva una serie di scambi complessi che si
collocavano nello spazio politico locale, ma non si esaurivano in esso. Le comunità si organizzavano in federazioni o
diventavano comuni. I comuni maggiori diventavano centri di vicariato, di podesteria, capoluoghi fiscali e dunque
interlocutori privilegiati del potere centrale. I circuiti dei luoghi risultavano cruciali per ricostruire rapporti tra gli
uomini e per definirne ruoli e identità locali. Gli abitanti degli spazi rurali erano di volta in volta cittadini con
proprietà nel contado , rustici di qualche prestigio, semplici allodieri, affittuari, piccoli o grandi signori locali
(categorie che definivano identità parzialmente o totalmente locali). Le logiche della distinzione degli uomini si
basavano su criteri diversi: statuto personale, combinazione locale di parentela e vicinanza, esercizio di diverse
funzioni. Sulla base di queste logiche gli individui tessevano reti di relazioni reciproche: i legami di consanguineità
naturale o acquisita per matrimonio, l'adesione a uno schieramento di parte. Un uomo o una donna era definito
dalla somma delle sue identità locali e sovralocali. Una fonte privilegiata possono essere in questo caso i verbali delle
assemblee comunitarie, radunate per deliberare su questioni di interesse pubblico per la comunità (ovvero centro
demico connotato da un'organizzazione complessa e da una struttura sociale diversificata). L'assemblea plenaria dei
capifamiglia era il momento cruciale della decisione comunitaria, ma anche un momento difficile della vita politica
locale, sede in cui si nominavano i procuratori, si discutevano ed emanavano statuti, si approvavano spese. Erano
dunque anche difficili da gestire. Apriva il dibattito il suono triplice della campana, preceduto dalla convocazione
casa per casa da parte del ministeriale e su ordine dei consigli comunitari o degli uffici centrali. A presiedere c'erano i
consoli o il rappresentante del potere centrale. Il notai annotava i nomi dei partecipanti. Quando queste fonti sono
dispoibili si rivelano di estrema ricchezza perchè la loro stesura e il loro contenuto ci dicono molto sui network
relazionali interni alla comunità. La struttura formale del documento prevedeva una parte propositiva o deliberativa
(questioni dell'ordine del giorno, risoluzioni finali) e una parte in cui venivano registrati nominalmente tutti i
capifamiglia presenti e votanti. Il notaio, nel registrare i nomi, dava conto di una fitta trama di nessi tra uomini
presenti. Sceglieva un criterio di elencazione che poteva variare dalla successione apparentemente casuale al
rioridino dei partecipanti secondo parametri identificanti (poteva procedere per centri demici, per famiglie, per
gruppi sociali). Il sistema onomastico usato era inoltre rivelatore di criteri particolari di affinità. Il sistema onomastico
a due elementi dava agio a una molteplicità di soluzioni significative. Nella versione più elementare un uomo si
definiva con nome più secondo elemento qualificante , eventualmente da un terzo. L'appartenenza del secondo
elemento al sistema della parentela (es. Marco figlio del fu Giovanni) ne metteva in luce il peso, dando informazioni
sulle strutture del sistema familiare di riferimento dal momento che registrava se il secondo nome proveniva dal lato
paterno o materno. Il secondo elemento poteva essere formato anche da toponimi, soprannomi ecc. ll ricorrere a
una logica o ad un'altra sottolineava forza o debolezza dei legami parentali di tipo agnatizio o cognatizio e l'eventuale
prevalenza di altre condizioni determinanti nell'identificazione personale. Analizzando i toponimi si possono
ricostruire i flussi demici e insediativi e collocare comunità e uomini in significative reti di mobilità locale o
sovralocale. Anche le forme della scrittura non erano neutre, con differenze tra le minute e le versioni in mundo
dell'atto. I notai che redigevano queste carte potevano essere locali o meno e le loro scelte operative in termini di
registrazione erano il frutto di una combinazione delle esigenze dei loro clienti e delle loro attitudini e consuetudini
professionali. I sistemi sociali di amicizia che univano gli uomini delle comunità si riversavano oltre i confini degli
spazi locali, attraverso due diversi canali: la mediazione degli ufficiali del potere centrale, che ponevano gli uomini a
contatto con principe e la società politica centrale; e la trama delle coalizioni politiche a coloritura fazionaria che si
irraggiavano su scala sovraregionale. Il contatto con gli ufficiali selezionava nella collettività un numero ridotto di
interlocutori del potere centrale, privilegiando magnati locali e capi di consorzi signorili che da lunga data
controllavano quella porzione del territorio. La strategia selezionatrice degli ufficiali andava contro la comunità come
un tutto unico e collettivo a causa del tentativo del potere centrale di scindere in schieramenti minori la collettività e
governare con le parti. Gli stessi ufficiali venivano scelti tra i membri di questi gruppi consortili radicati sul territorio o
in altre zone dello stato. Questi uomini si muovevano aderendo a schieramenti fazionari e superando i i quadri dello
stato regionale per dialogare direttamente con governi della stessa coloritura politica. La maggior parte di queste
stirpi si radicavano in zone di confine e proponendosi come interlocutori del potere centrale e delle collettività locali,
gestivano risorse materiali, uomini, infrastrutture in modo autonomo. Le reti rurali di amicizia dunque facevano
parte di una stratificazione di reti di diversa estensione.

Al centro del mondo: la corte di Roma


La società ecclesiastica intersecava la società politica laica e da essa era intersecata. La principale conseguenza di
questo intreccio era che non solo nei vari contesti politici, ma soprattutto al centro del potere papale, a Roma, un
peculiare network relazionale nasceva dalla fittissima trama di fedeltà e amicizie a cavallo tra mondo laico e
gerarchie ecclesiasticbe, fra gli interessi e i doveri dell'uno e dell'altro. A partire dagli anni quaranta del XV secolo
Roma, dopo il periodo avignonese e la stagione degli scismi, non era solo la sede del papato, ma una delle grandi
corti italiane, la più grande. Lo Stato della Chiesa a sua volta era uno stato regionale, unito ai vari stati e poteri
italiani da rapporti diplomatici, militari e finanziari. Alla geografia politica dei vari stati se ne sovrapponeva un'altra di
istituzioni, forme associative e strumenti con proprie logiche, una geografia che si sovrapponeva a quella dei laici, ma
che con essa aveva in comune personaggi, interessi e linguaggi, gravitando intorno a Roma e alla curia papale.
Queste vennero assumendo dal secondo 400 il ruolo cruciale di nodi centrali intorno a cui si strigevano i fili della
politica italiana e intorno a cui la società italiana si organizzava in un profondo intreccio tra mondo civile ed
ecclesiastico. Lo Stato della Chiesa, centro spirituale della cristianità e stato regionale tra gli stati italiani, aveva una
natura ambigua che condizionava le relazioni tra gli stati italiani e Roma ell'età postconciliare. La chiesa trattava con
le monarchie europee stabilendo una rigida distanza istituzionale, mentre con gli stati regionali italiani sceglieva una
politica differente, preferendo una gestione negoziale che affrontava le possibili divergenze istituzionali (questione di
familiarità). I rapporti tra poteri laici ed ecclesiastici si indirizzavano sul prevalere della complessa e frammentata
contrattazione in seno a un ramificato sistema di rapporti tra laici ed ecclesiastici. Divenire o meno un ecclesiastico
era il risultato di una scelta pragmatica perchè nel contesto italiano il breve gap che separava laico da ecclesiastico
poteva essere colmato da forme di amicizia, dalla parentela al partito o alla fazione. Il campo d'azione in cui questa
attitudine si esplicava era vasto e uniforme e fra questi contesti due sono di peculiare importanza peri caratteri delle
affintà curiali. Una prima arena di confronto è il problema della provvista dei benefici ecclesiastici (controllo
assegnazione patrimoni), che potevano essere di proporzioni diverse: benefici legati alla parrocchia urbana o rurale,
di poca rendita ma di grande influenza locale, ricche prebende legate a seggi canonicali delle cattedrali, commende
dei grandi monasteri delle sedi vescovili. Avevano però tutti un'incidenza sulla società locale e sovralocale, in termini
economici e politici. La materia beneficiaria in Italia fu contrattata caso per caso da una pluralità di protagonisti e su
diversi livelli. Divenne dunque il terreno di confronto e riconoscimento di diversi attori. Il secondo contesto fu quello
diplomatico. Roma agiva da catalizzatore degli oratori dei diversi poteri locali italiani come capitale di uno degli stati
maggiori e anche come capitale della cristianità, essendo fulcro dei negoziati in materia ecclesiastica nelle province
della chiesa e centro di potenziale coordinamento della risposta cristiana all'avanzata ottomana a Oriente. Il
progressivo infittirsi di un regolare dialogo con regni e principati europei rese la sede papale uno scenario per
innumerevoli incroci politici e di relazioni con respiro sovrapeninunsulare. Per quanto riguarda i rapporti all'interno
del collegio cardinalizio e la natura delle relazioni di amicizia e clientela tra i cardinali di curia, è necessario
ripercorrere le tappe fondamentali dell'evoluzione del collegio cardinalizio tardomedievale: nella seconda metà
del400 i papi, Paolo II e Sisto VI, condussero un deciso attacco ai poteri dell'elite cardinalizia che aveva raggiunto
un'influenza sulla chiesa, operando attraverso il controllo delle assemblee conciliari. La crescita dei poteri cardinalizi
alla fine del Medioevo stava lasciando spazio all'autorità del papa. Paolo II( 1464-1471) intese la chiesa come corpo
mistico governato da un solo uomo, il papa, erede del solo Pietro e vicario di Cristo. Sisto VI (1471-1484) minò il
potere dei cardinali attraverso pratiche concrete: aumentò il numero dei membri del collegio per dividerlo e
indebolirlo, accelerò la trasformazione dei cardinali in elite burocratica, diede slancio alla politica nepostista, favorì la
politicizzazione e l'italianizzazione dei cardinali, accrescendo i cardinali principi, appartenenti a famiglie principesce o
regie o eletti in nome di un sovrano. Impegnati a rappresentare gli interessi della propria dinastia, più principi che
cardinali, non avrebbero saputo tutelare gli interessi del corpo cardinalizio come antagonista del papa nella chiesa.
Ciò dava luogo a giochi politici complessi soprattutto in occasione dei conclavi da cui sarebbero usciti i pontefici. In
tali confronti si spiegavano i rapporti orizzontali di alleanza e verticali di patronage (rapporti soprattutto politici).
Attorno ai cardinali di rango più elevato si raccoglievano cardinali meno influenti per condizione personale e
collocazione politica e a scendere una folla di chierici minori, cancellieri e segretari. La presenza di cardinali di rango
principesco all'interno della curia comportava una sorta di polarizzazione del sacro collegio, dove i cardinali poveri
cercavano potenti protettori cui offrire fedeltà in cambio di benefici. C'era una competizione interna al ceto curiale e
il ristretto gruppo di cardinali più potenti si contendeva benefici, assegnazioni di beni patrimoniali, cariche curiali per
far fronte ai propri poteri di patronato. Doveva restare una competizione tra confratelli, rivali ma legati tra loro dal
comune rango di principi della chiesa e da un patrimonio di valori, comportamenti e codici. Il confine da non
oltrepassare era quello dell'offesa irreparabile che avrebbe significato una perdita radicale del capitale della
credibilità politica dei contendenti. (es. rivalità tra Ascanio Maria Sforza e Giuliano della Rovere: alla vigilia del
conclave da cui sarebbe uscito papa il della Rovere lo Sforza si recò a visitarlo per offrirgli il suo voto e i due si
appartarono a discutere e giunsero alla conclusione che tra loro non era mai accaduto nulla di irreparabile e che gli
scontri erano stati causati dalle inimicizie tra le rispettive clientele cardinalizie per le risorse curiali. I due erano stati
identificati come i capi di due opposte fazioni e a separarli era stata la necessità di controllare risorse curiali
sufficienti a mantenere i propri clienti in collegio). In un contesto di clericalizzazione delle strategie familiari anche ai
livelli più bassi delle elite italiane si creavano intorno si prelati intere filier di scambio di favori e benefici in una forma
di patronage in cui la logica principesca si mescolava da un lato con gli schieramenti curiali, dall'altro con il
mantenimento di una solida base di consenso e di seguaci di ordine municipale. Per quanto riguarda i rapporti di
amicizia tra laici ed ecclesiastici, bisogna dire che le stanze pontificie erano gremite di gente di diverse condizioni e a
Roma la ricchezza di negoziati diplomatici e l'afflusso di notizie che passavano per la curia rendevano il dovere degli
oratori e degli emissari degli stati sovrani, dei principi, delle elite municipali un compito logorante. Gli ambasciatori,
oltre ad una buona resistenza fisica, dovevano imparare le regole del gioco, pena l'esclusione. (es. del negoziato
relativo all'elezione al cardinalato di Francesco Gonzaga condotto dall'oratore mantovano Bartolomeo Bonatti.
Bonatti era portavoce di un partito che comprendeva il marchese di Mantova e il duca di Milano Francesco Sforza e
altri. Il terminale ultimo era il pontefice con cui il Bonatti aveva stretto una minima amicizia personale, avendolo
accompagnato a Mantova in occasione della dieta per organizzare la crociata contro gli ottomani di Maometto il
Conquistatore.).

Tra culture e saperi: le reti intellettuali


Dalla dedica di Giovanni Pontano, cancelliere e grande umanista alla corte aragonese di Napoli, al suo trattato "De
sermone", capiamo che l'amicizia umanistica era una pratica di civile conversazione tra uomini, lontano dalle
molestie e dagli affanni della realtà quotidiana. L'amicizia umanistica era però, dall'inizio (dall'età di Petrarca), anche
un sodalizio immerso nelle questioni del secolo, civile e culturale. L' Umanesimo fu infatti una cultura laicale,
appannaggio di uomini appartenenti ai ceti professionali di giuristi e notai, ma ancora presenti negli uffici politico-
cancellereschi e nei centri di potere. Questi uomini sttrinsero tra loro, tra 300 e 400, reti sovraregionali di amicizia e
scambi, nella conversazione degli otia intellettuali e nella complessa arena dei negotia politici. L'Umanesimo è un
mutamento culturale che, nato sotto il segno del valore della memoria storica, elaborò nuovi metodi e strumenti per
ristabilire un legame diretto con il pensiero antico. A partire dalla fine del 200, il maturare di un contesto
istituzionale in cui gli uomini di stato elaborarono una nuova consapevolezza della natura sociale e politica della
scrittura, face sì che questi uomini tornassero agli studia humanitatis. A partire da Petrarca una cultura d'elite venne
separandosi da una cultura scolastico-universitaria. Grazie all'opera di Petrarca e alle sperimentazioni di quel
laboratorio culturale rappresentato dalla cancelleria fiorentina tra 300 e 400, nacquero una nuova figura di
intellettuale, consalevole della sua funzione culturale e sociale, e nuovi modelli culturali, nel solco di una tradizione
classica riscoperta senza mediazioni. Si trattò di un fenomero multipolare: le cancellerie degli stati regionali e anche
degli stati minori divennero propulsori di questa koinè culturale. Il mutamento interessò la cultura alta ma si
riverberò anche sulle forme di governo a causa del legame tra intellettuali e potere politico, trasformando inoltre
anche gli strumenti della comunicazione sia politica che culturale. Il volgare prevaleva sempre più del latino nella
prassi quotidiana mentre il latino si muoveva alla ricerca di un punto d'equilibrio tra recupero filologico, flessibilità
letteraria, vocazione normativa e di governo. Inoltre, le forme di grafia gotica notarile e cancelleresca vennero
sostituite dall'umanistica, uniforme e leggibile. Grazie a questi strumenti gli intellettuali elaborarono una vasta
gamma di testi scritti. Questa temperie culturale comune si rafforzò grazie all'itineranza dei suoi protagonisti, in
parte uomini di governo e in parte uomini di lettere al servizio dei principi, legati tra loro da rapporti di familiarità e
amicizia. Questa temperie culturale coinvolse, soprattutto nei più alti gradini della scala sociale, anche le donne del
400. La fisionomia sociale e la vocazione personale dei membri di questo gruppo erano molto differenziate perchè
diversa era la realtà politico-istituzionale dei vari periodi, ma anche per differenze di rango, formazione, ambizione,
potere. Tra questi uomini esisteva però qualcosa in comune, un milieu culturale di strumenti, saperi, modelli. Le reti
che legavano gli intellettuali presentavano la ricchezza della produzione testuale dei loro protagonisti. Tra i vari testi
umanistici, gli epistolari sono testimoni privilegiati, strumento e prodotto di questa fitta rete di rapporti. Erano le
raccolte delle lettere personali e pubbliche di un autore, riordinate in vita da lui stesso ai fini di una circolazione
manoscritta o a stampa. Scritti in un latino curatissimo, non funzionalmente pubblici, nè prettamente privati, si
richiamavano alla tradizione epistolare classica. Pur collocandosi tra l'intenzionalità del prodotto letterario e
l'immediatezza del documento, erano testi complessi e ricchi di richiami sia all'antico che al moderno. E' negli
epistolari umanistici che troviamo il monumento alle reti intellettuali italiane. Elementi fondamentali sono: i
contenuti culturali e politici dei rapporti d'amicizia; i caratteri formali di queste reti (incroci personali, scambi
epistolari, dispute intellettuali). Ma la diversa proporzione di personale affinità e concreta consuetudine e di scambi
epistolari o il variare dei contenuti delle relazioni dipendevano più dal contesto specifico che dalla natura
dell'amicizia. La conoscenza concreta, l'incontro personale trovavano nel linguaggio umanistico il terreno ideale per
la sopravvivenza di relazioni personali, talora connotate da affetto sincero. Il livello politico e puramente intellettuale
delle relazioni si incrociavano e alimentavano a vicenda. (es. di Ermolao Barbaro che chiudendo una carriera
prestigiosa con la carica di patriarca di Aquileia, aveva incontrato a Milano il nunzio pontificio Jacopo Gherardi da
Volterra. Un incontro professionale si tradusse in una calda amicizia intellettuale; importante anche l'epistolario di
Francesco Barbaro che offre decine di esempi di questa natura). La "Vita di Giannozzo Manetti" di Vespasiano da
Bisticci offre un catalogo degli intrecci fecondi tra politica e cultura e della forza della parola nel dialogo politico.Tra
gli esempi, uno è rilevante: nei primi anni 40, Manetti si diresse al campo del conte Francesco Sforza, alleato di
Firenze. Nel cercare di raggiungerlo, Manetti passò accanto al campo di Niccolò Piccinino, capitano dell'opposto
schieramento milanese, e venne privato di cavalli e carriaggi. Manetti venne rassicurato dal conte che avrebbe
riavuto indietro le sue cose grazie alla mediazione di un amico comune di Sforza e Piccinino, ma Manetti decise di
scrivere una lettera al condottiero milanese. I suoi beni gli vennere resttuiti, accompagnati da una lettera responsiva
di Piccinino. L'amicizia per lettera valeva di più della consueta trama delle amicizie professionali. Un caso
interessante di uso di reticoli di clientele intellettuali nel contesto della sopravvivenza politica di un partito è la
polemica attorno alla memoria di Pio II, nei primi anni del pontificato di Paolo II. Poco dopo la morte di Pio II e
l'elezione di Paolo II, Francesco Filelfo aveva aperto le ostilità di parte paolina con attività antipiesca volta ad
assicurargli un posto di rilievo nell'entourage del nuovo papa. In una lettera a Paolo II si accusava il defunto di non
aver ottenuto il titolo papale che per le sue qualità retoriche e di essersi dimostrato inferiore alle aspettative,
comportandosi da ingrato verso amici e maestri di humanae litterae. Il colpo più duro giunse a Filelfo dall'entourage
piccolominiano dal Crivelli che fece circolare fra letterati un suo testo, con cui lo scontro si trasferiva sul piano della
polemica tra letterati e abbandonava la ricostruzione della personalità del defunto papa. Ne seguì un duello testuale
e dopo quattro anni il conflitto si ricompose: da un lato la posizione dei cardinali piccolominiani in curia si rinsaldò di
fronte all'allentarsi dell'ostilità paolina, dall'altro gli intellettuali coinvolti ammorbidirono le loro contrapposizioni.
Filadelfo compose una palinodia, anche se il ravvicinamento non gli garantì la cattedra a Siena, cui aspirava. Questa
vicenda rivela le ambigue relazioni di potere e i limiti e le potenzialità politiche delle reti intellettuali in tempi di
progressiva chiusura degli spazi politici italiani. I testi prodotti dagli umanisti erano determinati da logiche sociali
complesse, che sottintendevano nella pratica di un sistema di protezione epatronato intellettuale dalle regole non
scritte, ma sempre più diffuse e che costituivano una grammatica comunicativa autonoma, in grado di riverberarsi
sul dibattito politico.

Lettera del 1523 di Machiavelli all'amico Francesco Vettori, ambasciatore a Roma, in cui gli anticipava la
composizione del Principe e raccontava delle sue giornate "in villa" (contrasto tra vita rurale e tarde serate impiegate
a studiare e scrivere, in un solenne dialogo con autori antichi). Vale la pena sottolineare che l'amicizia intellettuale
umanistica era concepita non solo per agire nel momento in cui si svolgeva, ma anche per durare nel tempo e nello
spazio. La peculiarità era la continuità.

Il mestiere delle armi: signori, gentiluomini e capitani


Nel primo libro delle Istorie Fiorentine, Machiavelli disegnò una geografia politica dell'Italia del 1434, composta da
stati di diverso peso, di cui gli stati principali (Napoli, Chiesa, Lombardia tra Visconti e Venezia, Serenissima, Toscana
in mano a Firenze) erano"di proprie armi disarmati" . Machiavelli elenca poi i maggiori capitani, iniziando dali
"uomini senza stato" che avevano fatto della guerra uno strumento di ascesa sociale (Carmagnola, Sforza, Piccinino)
per proseguire con i signori minori, i baroni di Roma (Orsini e Colonna) e gli altri signori. Questi avevano formato una
lega che avrebbe condotto gli stati italiani all'impotenza militare. Tanto l'elenco dei capitani dediti all'arte della
guerra quanto l'idea del loro costituire una sorta di circolo chiuso, un "intelligenza" gettano luce sulla rete di affinità
radicate nel mestiere delle armi, anch'essa sovraregionale e locale, professionale e politica. Nel tardo Medioevo
italiano ci furono una serie di scontri su scala locale e sovralocale che innescarono mutamenti profondi nel modo di
fare guerra. La prassi bellica medievale, basata su episodi non risolutivi che si dilungavano per anni, con eserciti assai
ridotti di numero ed efficaci per poche settimane l'anno anche per le difficoltà degli approvvigionamenti, si rivelò
inadatta a sostenere il peso della nuova dimensione spaziale e temporale dei conflitti. Bisognava disporre di milizie
addestrate per lunghi periodi (compagnie di ventura con mercenari professionisti ed eserciti permanenti mantenuti
dalla corona) e sostituire o integrare con corpi di fanteria armati di picche la cavalleria pesante di matrice feudale,
organizzata in lance. In Italia alle compagnie di ventura formate da cavalieri e soldati stranieri iniziarono a sostituirsi
le compagnie italiane, i cui servigi venivano patteggiati dagli stati maggiori sotto forma di "condotte". Ai condottieri
professionisti si affiancarono anche membri di alcune dinastie signorili di stati minori o di grandi dinastie baronali,
per cui la condotta era un modo per disporre di entrate rilevanti e per costruirsi un ruolo politico nel sistema
quattrocentesco dei rapporti. Questo meccanismo selezionò i protagonisti della scena politica, classificandoli e
creando tra loro vincoli significativi. Agli stati che impiegavano condottieri e mantenevano eserciti si affiancavano gli
stati, i signori, i capitani che fornivano soldati e competenze, traendo da ciò risorse economiche ed identitarie. Da
una parte gli uni erano in grado di offrire e gli altri erano nelle condizioni di chiedere forza militare. Nella guerra
gestita tramite le condotte emergeva un'idea forte di legame militare tra stati regionali e stirpi guerriere di
formazioni politiche minori. Con il secondo 400 e nel contesto territoriale sempre più controllato dalla lega italica, la
complementarietà tra stati maggiori e stati minori venne gradualmente perdendo la propria funzionalità bellica. Si
tradusse in un sistema di alleanze tra ineguali. Il rapporto governi-condottieri venne utilizzato per coprire e
giustificare rapporti di alleanza dalla legittimità dubbia anche in assenza di reali potenzialità militari (es. Bologna,
dove i Bentivoglio si inventarono condottieri per giustificare un'alleanza impari con il ducato di Milano che garantisse
la loro supremazia cittadina). Questa geografia a base diplomatico-militare presentava diverse fisionomie e alcuni
elementi di instabilità. Piccoli principi, signori, capitani attribuivano un ruolo sempre più politico all'esercizio delle
condotte, oltre che una fonte di risorse economiche. Quelli che non vollero rassegnarsi al ruolo subordinato che
veniva loro riservato divennero un problema da risolvere, mentre gli altri, i condottieri senza stato, divennero un
elemento di instabilità perchè, non avendo una propria base di potere ma controllando risorse importanti, avevano
ambizioni sproporzionate.Una buona parte di studi classici e recenti ci permette di avere un quadro del mondo delle
compagnie mercenarie e dell'organizzazione delle armate dei principali stati italiani, in particolare del regno di napoli
dove il Re Ferrante aveva sottratto ai grandi signori le risorse militari, dando vita ad un esercito demaniale,
controllato dal potere centrale. l'Italia del 400 stava infatti sviluppando strutture militari complesse e innovative,
composte da compagnie e gruppi di soldati reclutati dal potere centrale in modo permanente. La compagnia di un
condottiero era per molti aspetti simile a una compagni commerciale. Molti di coloro che si mettevano a seguito di
un condottiero avevano con lui legami di tipo familiare o personale, ma molti vi si legavano in forza di un contratto,
come se partecipassero a un'impresa d'affari. Una grande compagnia era divisa in "squadre": la principale
annoverava tra i suoi membri i cavalieri più esperti e fidati e la familia del capitano, con cancellieri e domestici. Nella
casa di un condottiero molti cavalieri appartenevano alle famiglie più eminenti dello stato, la cui presenza forniva al
condottiero un seguito onorevole e un numero di potenziali ostaggi, a garanzia delle fedeltà delle loro famiglie
d'origine. Le altre squadre erano comandate dagli squadrieri, legati con contratti individuali al condottiero e da
contratti personali con i soldati delle loro squadre. Il reclutamento avveniva in maniera fissa e flessibile attorno a un
nucleo fisso e fidato di veterani. La compagnia era un'entità economicamente autonoma e tale autosufficienza era
però legata alla solvibilità di chi ne domandava i servizi: i casi di saccheggio in tempo di guerra erano all'ordine del
giorno come in tempo di pace il rischio di scioglimento per le compagnie più piccole o l'inefficienza di quelle più
grandi per mancanza di fondi. Il mondo della compagnia era una comunità itinerante e aterritoriale. Il condottiero
aveva sovranità sui suoi uomini e talvolta anche sui luoghi da lui temporaneamente occupati, a richiesta degli
abitanti e in antagonismo con la giustizia locale. La comunità era legata anche da un forte sentimento di
appartenenza. La compagnia braccesca di Jacopo Piccinino era la più celebre d'Italia insieme a quella di Francesco
Sforza in quanto "scuole" di guerra. Erano emerse due fazioni (Sforzeschi e Bracceschi), e nel caso braccesco, il
sentimento di appartenzenza era dovuto soprattutto all'origine signorile del capitano, radicato a Perugia (origine che
Sforza non poteva vantare e che compensava con la sua virtù) e al fatto che i grandi capitani erano sempre meno
soltanto comandanti militari e sempre più uomini di potere. La forza delle loro truppe decideva i conflitti. Il loro
carisma personale si traduceva in peso politico, ambizioni, capacità di attrarre e polarizzare, determinando i caratteri
delle reti di affinità e i meccanismi di autoriconoscimento che legavano i loro seguaci. La compagnia era innervata da
rapporti di fedeltà personali trasmessi attraverso articolazioni di potere proprie, da un codice di valori e lealtà. Un
esercito italiano del 400 era composto dalla combinazione di due elementi: le compagnie mercenarie di condottieri e
conestabili e le truppe di diversa competenza, arruolati individualmente dal potere centrale. Provvisionati, famiglie,
ducati completavano gli organici mercenari. L'esperienza napoletana del secondo 400: re Ferrante riconfigurò il
grosso della potenza militare del regno come un esercito demaniale, in cui vennero assorbite e incorporate le
principali compagnie baronali confiscate, quelle degli eserciti nemici sconfitti e quelle dei condottieri aragonesi.
Principi e condottieri passavano dalla condizione di professionisti della guerra a quella di membri di un privilegiato
ceto militare. Ferrante non poteva coprire tutte le necessità belliche, nè le risorse fiscali del regno gli avrebbero
permesso di mantenere un esercito totalmente demaniale. Egi continuò dunque a reclutare condottieri ma li scelse
tra i capitani esterni al regno, come i baroni romani e continuò a contare sulle truppe messegli a disposizione dagli
stati della Lega. Le fedeltà furono riconfigurate, le reti parzialmente dissolte e ricomposte sotto l'autorità del duca di
Calabria, Alfonso, comandante dell'esercito. La riforndazione dell'esercito napoletano comportò una dislocazione
delle reti di rapporti e fedeltà interne alle unità militari che non dovette ricomporsi con facilità. I grandi del regno
pretendevano di tornare a essere insieme signori e condottieri.

Vicende della compagnia sforzesca dopo l'assunzione di Francesco Sforza al ducato e le tappe dell'inserimento della
compagnia del conte nello stato del duca. Si trattò di un processo complesso di radicamento locale dei soldati e
capitani sforzeschi giunti con il neoduca in Lombardia, molti dei quali erano stati educati fin da giovani nelle file del
suo esercito e processo di ridistribuzione degli uomini d'armi nelle diverse maglie del dispositivo difensivo e
offensivo del ducato. Non sempre il processo di riequilibrio dell'influenza delle reti sforzesche nel corpo di uno stato
territoriale si attuò in modo indolore. La compagnia sforzesca non si inseriva solo in un ducato, ma entrava in un
sistema difensivo e offensivo, quello visconteo, di propria tradizione. Lo Sforza aveva attratto a sè capitani e signori
lombardi, coinvolgendo anche uomini e famiglie della capitale, che componevano le elite politica del dominio. Le reti
di affinità militare avevano unito i tre elementi (governi, signori della guerra, sistema dei poteri italiani) componendo
lealtà e schieramenti. Le guerre in Italia, immettendo altri poteri, crearono un'arena vasta a condottieri e signori
minori e rappresentarono la liberazione improvvisa dagli stati regionali, riducendo la flessibilità e l'efficacia delle
affinità militari come strumenti di coalizione politica.

AMICIZIA/AMISTA'

Fine ottava novella, Giovanni Boccaccio fa una lode dell'amicizia, dicendo che è diversa dai legami di sangue e di
denaro, in quanto relazione disinteressata e sincera. Contrapposizione tra amicizia, libera e altruista e legami di
sangue e denaro, legati a ragioni estrinseche e limitati da queste ragioni. L'amicizia è comunque una categoria
fondamentale della pratica sociale e politica dell'Italia tardomedievale. Evidente densità delle reti relazionali che
coinvolgevano i singoli nella società quotidiana (spesso i protagonisti delle varie reti erano gli stessi) ed evidente
molteplicità degli elementi necessari a costruire l'immagine sociale di un individuo. I legami d'amicizia
tardomedievale furono più intensi rispetto ai secoli precedenti e al 500.

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