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IDEE PER UNA STORIA DELL’ARCHEOLOGIA CLASSICA IN ITALIA

DALLA FINE DEL S ETTECENTO AL DOPOGUERRA

Una storia dell’archeologia classica in Italia è ancora da scrivere. La


ragione principale di questa mancanza è da riscontrare nella difficoltà degli
archeologi italiani – salvo alcune eccezioni – a riflettere sui metodi e sugli
strumenti che la ricerca archeologica ha utilizzato negli ultimi due secoli,
cioè in quel percorso che l’ha contraddistinta nel passaggio dallo stato di
interesse di pochi – colti aristocratici, eruditi, conoscitori – a scienza insegna­
ta nelle aule delle università d’Europa.
Ho provato talvolta a riflettere sul perché di questo disinteresse, a dare
uno sguardo d’insieme alla disciplina, alla sua storia, cercando di compren­
derne il processo formativo, i nodi irrisolti, i dissensi interni, le varie corren­
ti. Non sono giunto ad una conclusione. È vero, come ha scritto Alain Schnapp,
che gli archeologi sono più interessati alle “cose” che alle “parole” (SCHNAPP
1980, p. 13) ma ciò non spiega perché. Io posso soltanto dire di aver osserva­
to alcuni fenomeni diversi nel rapporto tra l’archeologo e la storia della disci­
plina cui egli si dedica:
– Esiste un tipo di archeologo di grandi capacità, che conosce bene la propria
scienza, sa come usarla, ne padroneggia i diversi strumenti di indagine e li
applica senza teorizzarli. In fondo quest’ultimo aspetto non gli interessa: non
è funzionale alla sua ricerca e la storia dell’archeologia deve sembrargli quasi
una perdita di tempo; meglio è occuparsi dei monumenti, dei problemi con­
creti, cercando di ricostruire una storia quanto più ampia possibile del mon­
do antico. Questo archeologo, si badi, non è contrario alla storia della disci­
plina e al dibattito metodologico. Il suo approccio alla scienza archeologica è
talmente ampio e intelligente da accogliere quasi tutte le forme, semplice­
mente egli non ha un interesse personale per questa branca specifica.
– Vi è poi l’archeologo che intende la storia dell’archeologia come agiografia,
una categoria in cui si trovano, ovviamente, studiosi di differente spessore. Si
va da chi scrive necrologi privi di chiaroscuro a chi, in ricerche spesso assai
informate, tende ad appiattire le posizioni ideologiche e scientifiche dello
studioso trattato.

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– Taluni intendono la storia dell’archeologia come storia del collezionismo, e
fin qui niente di male. Salvo che spesso i loro lavori si risolvono in algidi
cataloghi di documenti meticolosamente copiati e riprodotti, privi di passio­
ne, incapaci di dirci alcunché sul passato cui essi si riferiscono. Resta poi
oscuro o inespresso in queste opere se la storia del collezionismo ci possa
comunicare qualcosa sull’archeologia del tempo, sui pezzi descritti e catalogati,
sul gusto dei nobili committenti, sul rapporto tra sculture e ambiente architetto­
nico, sull’impatto di queste opere sulla cultura del tempo, sugli artisti che le
manipolavano, sull’immagine che gli uomini di quel tempo avevano dell’antichi-
tà. In realtà, la storia del collezionismo ci dovrebbe restituire tutti questi aspetti
nell’insieme, principalmente sulla storia del gusto nel Cinquecento, nel Sei­
cento, nel Settecento: invece da questi lavori spesso la storia non emerge
minimamente e tale tipo di ricerca si esaurisce in esangui resoconti notarili di
immagini e oggetti di fronte ai quali non si prova alcun brivido intellettuale.
– Il gradino più basso di rapporto con la storia dell’archeologia è espresso
dall’archeologo che più o meno apertamente disprezza ogni genere di storia
della disciplina, di metodologia, anzi la vede come fumo negli occhi: attività
inutile se non addirittura pericolosa. I motivi di questo atteggiamento sono
evidenti: per questo archeologo il “giudizio” di merito sui colleghi archeolo­
gi contemporanei va evitato per il mantenimento delle relazioni accademi­
che. Per quanto riguarda quelli defunti, si sa che non è bene parlar male dei
morti e poi si può sempre rischiare che per le filiazioni accademiche si vada a
toccare qualcuno, dispiacendo qualcun altro ancora in vita. In questa catego­
ria rientrano anche coloro che non hanno nessun interesse alla storia perché
le loro ricerche non hanno nessun orizzonte storico e si contentano del pas­
satempo erudito.
– Esistono infine degli archeologi che hanno trattato la storia dell’archeolo-
gia in maniera egregia, sia occupandosene direttamente sia promuovendo
studi in tal senso. Nelle ricerche di taluni di loro si scorge ben più che la
storia dell’archeologia: forse potremmo meglio dire che essa si è ampliata
diventando storia della cultura occidentale attraverso i suoi rapporti con l’an-
tichità. Altri hanno ricercato le radici della moderna archeologia nella cultu­
ra preilluminista e illuminista, altri ancora in tempi ancora pionieristici per
questo tipo di ricerche hanno posto in termini di contrasto il problema del
rapporto tra archeologia e storia dell’arte. Nell’ambito di un interesse sem­
pre più diffuso per la storia della disciplina recentemente si assiste alla pub­
blicazione di studi basati su materiali d’archivio di musei e soprintendenze, a
carattere locale, fornendo così i materiali necessari alla ricostruzione di una
visione d’insieme dell’archeologia italiana nell’Ottocento e nel secolo scorso.
In questa direzione opera il gruppo di ricerca AREA (Archives for European
Archaeology) coordinato da Alain Schnapp, Giovanni Scichilone, finanziato
dalla Comunità Europea, da me rappresentato per l’Italia.

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Occuparsi di storia dell’archeologia significa sostanzialmente studiare
la storia della cultura di un determinato periodo. Se facciamo incominciare il
nostro discorso dalla fine del ’700 non possiamo fare a meno di accennare al
valore che l’antico ebbe in questo periodo. Per la società europea vissuta tra
la seconda metà del XVIII secolo e il primo quindicennio del XIX l’antichità
non fu solo o esclusivamente un oggetto di studio ma «quasi un perduto Eden
nel quale tutti anelavano a tornare» (ASSUNTO 1973, p. 34). L’antichità offriva
un ideale estetico alla società europea su cui basare le scelte artistiche e ripla­
smare l’immagine del proprio mondo. L’esempio più palese di questo feno­
meno si osserva in Germania a partire dal primo decennio dell’Ottocento. La
Prussia, uscita dalle sconfitte napoleoniche, cercava una propria identità e la
trovò nell’antica Grecia. Il paese si ripropose come una nuova Ellade: l’archi-
tetto neoclassico Schinkel ne ridisegnò la capitale Berlino come una nuova
Atene, dove trionfano colonnati dorici, decorazioni a palmette e meandri; la
nuova Università fondata dall’umanista e uomo politico Wilhelm von
Humboldt nel 1810 si struttura sull’insegnamento della filologia classica. Sono
solo alcuni aspetti di quel vasto fenomeno del filellenismo germanico così
egregiamente descritto da Susan Marchand in un affascinante libro dedicato
a questo argomento (1996).
Che cosa spinse la società del XVIII secolo a dialogare intensamente
con la Grecia e la Roma antiche? Da un lato fatti concreti: gli scavi di Ercola­
no, intrapresi dal 1738 per volontà di Carlo III e poi a distanza di dieci anni
quelli di Pompei; alla fine del secolo la riscoperta dei monumenti greci a
Paestum, in Sicilia, in Grecia e in Turchia. Dall’altro il rimpianto della società
contemporanea per le condizioni sociali e politiche che avevano permesso la
costruzione di quei monumenti. Ritornare quindi a quell’arte, imitarla, signi­
ficava in un certo senso rigenerarsi alla maniera degli antichi. L’antichità è
certamente un mito, ma un mito vivo e operante. Lo dimostrano le architet­
ture di Schinkel a Berlino, di Ledoux a Parigi, le sculture di Canova, i dipinti
di David, per citare solo alcuni artisti tra i più noti. Non va inoltre dimentica­
to che nella seconda metà del secolo questa nuova idea dell’antichità può
anche contare su una solida elaborazione estetica dovuta all’opera di Joann
Joachim Winckelmann (1718-1768). Winckelmann è stato l’ispirato cantore
dell’antichità greca, che con la sua prosa nuova e affascinante aveva esteso
l’influenza della sua opera ben oltre il campo dei cultori dell’archeologia.
Tuttavia il limite di Winckelmann è che egli costruì la sua storia dell’ar-
te su copie romane e su di esse quindi formò il suo giudizio estetico e tipolo­
gico. Alla fine della sua Storia dell’Arte egli ammette, quasi en passant, che le
statue da lui studiate non potevano essere tutti originali. D’altra parte non ci
si deve meravigliare più di tanto: ormai la cultura antiquaria del Settecento
aveva già elaborato una tendenza alla classificazione che aveva poi condotto
a rendersi conto della serialità della produzione delle opere antiche. Per esem­
pio conoscitori come il pittore neoclassico Raphael Mengs avevano avuto

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coscienza di questo problema; in contrasto con Winckelmann, aveva cercato
di distinguere tra le statue del Belvedere gli originali dalle copie. Allo stesso
modo, critici come Francesco Milizia lo avevano affermato con sicurezza e
così nel momento più alto dell’antiquaria il conte di Caylus e P.-J. Mariette si
erano posti lo stesso problema. Il loro lavoro comunque restò più a livello di
constatazione e non fu oggetto di analisi accurata. Questa eredità venne rac­
colta da un grande antiquario italiano, Ennio Quirino Visconti (1745-1818)
che si può considerare il padre dell’archeologia filologica. Figlio del curatore
delle raccolte Vaticane, Giovanni Battista, Visconti aveva acquisito una stra­
ordinaria cultura antiquaria che univa a sviluppate doti mnemoniche e alla
precoce padronanza delle lingue classiche. La sua attività romana è legata ai
sette volumi del catalogo del Museo Pio-Clementino, pubblicati tra il 1783 e
il 1807 ed interamente opera sua, sebbene il primo volume porti la firma del
padre.
Visconti ebbe una vita movimentata che lo portò prima ad aderire alla
Repubblica Romana di cui fu eletto console e poi a seguire Napoleone a
Parigi dove fu uno degli artefici del Musée Napoléon, costituito in gran parte
con le opere che i Francesi avevano confiscato alle collezioni italiane, e nel
quale Visconti ricoprì il ruolo prestigioso di curatore delle antichità greche e
romane. Sempre per incarico di Napoleone curò opere come l’Iconographie
grecque (1808-1811) e l’Iconographie romaine (incompiuta) che contribuiro­
no a creargli una grande reputazione tra i contemporanei. In questo contesto
non possiamo soffermarci troppo a lungo sulla figura e sull’opera di Visconti
in generale, ma ci interessa porre l’attenzione al fatto che egli, muovendo
dall’erudizione antiquaria precedente, incominciò a elaborare la convinzione
che molte fra le statue di Roma fossero copie. Troppo lungo sarebbe descri­
vere il suo metodo (cfr. il mio contributo in questo stesso volume), ma andrà
almeno accennato al fatto che a lui si devono molte identificazioni di statue
famose, per esempio il Discobolo di Mirone nel 1781, la Cnidia di Prassitele,
l’Eirene e Ploutos di Cefisodoto che il Brunn riprenderà senza conoscerlo e
senza citarlo, la Tyche di Antiochia, per citare solo alcune tra le più famose.
Con Visconti viene inoltre introdotto un importante elemento di critica, la
nozione di storiografia artistica: la fama dei grandi maestri del passato non è
dovuta solo all’eccellenza della loro opera ma al fatto che esse sono passate
attraverso la lente della letteratura, specificatamente Plinio, dietro il quale ci
sono autori che non conosciamo. Spetta inoltre a lui l’aver posto su basi
chiare il problema della distinzione tra l’arte dei Greci e quella dei Romani:
un compito che risulterà centrale per la storia dell’arte antica dell’Ottocento.
All’inizio dell’800 l’affinarsi dei metodi di scavo e di prospezione ac­
centuano la sensibilità per i problemi della tutela, che erano già stati posti
nell’età dei lumi. In Francia, un personaggio come Quatrèmere de Quincy
verso la fine del secolo aveva auspicato che gli antiquari, e soprattutto i go-

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verni, cessassero di concupire le antichità di Roma e della Grecia e si preoc­
cupassero di valorizzare le antichità nazionali creando nuovi musei locali. A
questa nuova coscienza del valore del contesto si legava intimamente la valu­
tazione della cultura materiale, per la quale non solo le opere d’arte o le
iscrizioni o gli oggetti comunque singolari erano degni di considerazione, ma
anche tutti i materiali da costruzione, gli utensili, i mobili, gli oggetti della
vita quotidiana seppur frammentari. Un momento molto significativo di que­
sto processo di allargamento del concetto di bene culturale e delle sue impli­
cazioni nel campo della tutela si ebbe in Italia pochi anni dopo con il chiro­
grafo del 1802.
Autore materiale dell’editto fu Carlo Fea, Commissario alle Antichità
dello Stato Pontificio all’inizio del secolo. Definito il primo dei topografi
moderni, fu l’editore delle opere di Winckelmann. Si trattava di un comples­
so di leggi per la tutela dei monumenti, dove sono rintracciabili i contributi
intellettuali di Winckelmann, Herder, Canova e Quatremère de Quincy. Egli,
che era avvocato oltre che erudito, tentò di imporre il concetto di bene pub­
blico alle opere d’arte. Il chirografo poi fu ripreso nell’Editto Pacca del 1820
ed è stato alla base della legislazione di tutela dei beni archeologici fino al
1909, quando finalmente, vincendo l’opposizione di coloro che vedevano la
tutela in contrasto con il diritto di proprietà privata, fu approvata una legge
dello stato italiano. Anche il concetto di contesto sembra introdotto in que­
sto periodo: in un editto del Re di Napoli del 1839 si avverte che qualora un
monumento fosse stato tolto dal luogo in cui si trovava e trasportato al Mu­
seo Borbonico dovesse essere sostituito da una copia.
Un altro nome di rilievo per l’inizio del secolo è quello di Antonio
Nibby, professore di archeologia alla “Sapienza”, infaticabile indagatore del
suburbio romano.
Mentre in Germania nella prima metà dell’Ottocento l’Altertumswissen-
schaft andava affermandosi accademicamente, in Italia fiorivano studi anti­
quari di notevole livello. Certi giudizi negativi sull’antiquaria italiana espres­
si dalla storiografia recente, (cfr. SALMERI 1996, pp. 274-281) contrastano
con quanto Theodor Mommsen aveva espresso un secolo prima. Risponden­
do ad una lettera aperta sui mali dell’archeologia italiana, scritta dall’archeo-
logo perugino Conestabile della Staffa sulla Rivista di Filologia Classica, (1872­
1873; MOMMSEN 1874) concludeva il suo intervento con il rimpianto della
scomparsa di una generazione di antiquari come Celestino Cavedoni, biblio­
tecario e direttore del Gabinetto delle Medaglie del duca di Modena, di Giu­
seppe Furlanetto, autore di pubblicazioni sulle epigrafi patavine, di France­
sco Maria Avellino, docente di greco all’università di Napoli e dal 1839 di­
rettore del Reale Museo della città partenopea e soprintendente degli scavi
del Regno e infine di Bartolomeo Borghesi. Lo stesso Mommsen considerava
Borghesi suo maestro (MAZZARINO 1972-1973). Eduard Gerhard, uno degli
ispiratori della fondazione dell’Instituto di Corrispondenza Archeologica aveva

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manifestato il suo apprezzamento per Cavedoni e tutti questi studiosi si muo­
vevano nell’ambito dell’Instituto di cui erano membri apprezzati (MICHAELIS
1879, p. 22) e collaboravano con gli studiosi stranieri in un ambito di assolu­
ta parità e spesso di predominio (FRASCHETTI 1982, p. 140).
Perché la presenza di tali antiquari di rango non assicurò poi la conti­
nuità di un alto livello nella ricerca dopo l’Unità d’Italia? Probabilmente per­
ché poche eccellenti figure non riuscirono a fare scuola, o solo molto limita­
tamente, tanto che quando il nuovo stato cercò archeologi da inserire nelle
istituzioni per formare le generazioni future ebbe grandi difficoltà a trovar­
ne. L’antiquaria italiana subisce uno scacco nel momento in cui non riesce a
trasformarsi in una specializzazione disciplinare, mantenendo nello stesso
tempo un carattere onnicomprensivo e particolaristico. Era la conoscenza
irripetibile e personale a contare più che la scuola.
Al contrario, la scuola stava diventando uno dei cardini dell’insegna-
mento filologico in Germania. Rispetto a quest’ultimo paese, da un lato, mancò
all’Italia quella spinta unificatrice non solo politica ma anche culturale che in
Germania fu svolta dalla Prussia; dall’altro, una grande differenza consiste
nella circostanza che mentre per la Germania il rapporto con l’antichità greca
fin da Winckelmann, ma soprattutto dall’inizio dell’800, ha coinciso con la
ricerca di un’identità nazionale, per l’Italia non si è verificato lo stesso feno­
meno. Qualcosa di analogo avvenne sul rapporto con la romanità, con impli­
cazioni del tutto diverse.

Uno dei primi problemi che il nuovo stato italiano dovette affrontare
in materia di antichità fu quello di districarsi tra le diverse norme legislative
che ciascun regno preunitario aveva emanato nel corso del tempo. Il proces­
so di unificazione legislativa e politica aveva rivelato l’insufficienza della legi­
slazione preesistente, sia per l’assenza di uniformità sul piano dei contenuti,
sia per la maggiore o minore cura posta nel renderle effettivamente operati­
ve. La questione era di cruciale importanza e occorreva risolverla per scio­
gliere uno dei nodi principali dell’organizzazione del sistema archeologico
italiano, il regionalismo. Era necessario sottoporre tale sistema al controllo
di un’autorità centrale che, da un lato, si riprometteva scopi scientifici trami­
te la cura e il restauro dei monumenti ormai divenuti nazionali e, dall’altro,
tentava di affermare il controllo statale su materiali di interesse comune che,
fino a quel momento, raramente erano stati sottratti all’ambito della proprie­
tà privata.
Altrettanto necessario era trovare gli uomini che sarebbero stati in gra­
do di gestire materialmente l’archeologia del paese. L’unica soluzione prati­
cabile era di impiegare tutte le forze disponibili: personaggi già in carica con
i vecchi governi e liberali più o meno moderati che, avendo lottato contro le
monarchie precedenti, potevano ora aspirare ad un posto di prestigio all’in-
terno del nuovo assetto monarchico unitario. Durante il periodo di assesta-

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mento dell’organizzazione del sistema archeologico italiano le difficoltà eco­
nomiche del nuovo governo, i numerosi problemi da risolvere sul piano po­
litico e organizzativo determinarono una situazione fluida in cui le tradizioni
convissero con le innovazioni, imponendo soluzioni differenti che vanno va­
lutate caso per caso. Il nuovo stato ereditava inoltre l’enorme debito che il
piccolo regno piemontese aveva contratto per affrontare le imprese risorgi­
mentali e va rimarcato come per molti anni l’impegno più pressante fosse
quello di rimediare al profondo disavanzo delle finanze statali, circostanza
che consente di comprendere quella continua oscillazione tra l’esigenza di
riorganizzare il patrimonio culturale del paese e il fallimento di molte inizia­
tive.
Il poco tempo a disposizione in questa sede mi impedisce di scendere
nel dettaglio, procedendo per archeologi e per scuole all’interno della griglia
geografica del paese: sceglierò piuttosto di condurre il discorso secondo due
linee emergenti che, a mio parere, risaltano come le più incisive nel dibattito
sull’archeologia italiana postunitaria.
La prima di esse è la consapevolezza dell’arretratezza della condizione
degli studi archeologici nel nostro paese dopo il 1860 che viene contrapposta
ad una condizione diametralmente opposta nella prima metà del secolo, pe­
riodo in cui l’archeologia italiana aveva raggiunto un livello tale da rappre­
sentare un punto di riferimento per gli antichisti d’Europa. Tale consapevo­
lezza era altresì accompagnata dal riconoscimento di una supremazia della
Altertum swissenschaft tedesca, consolidatasi nel circa mezzo secolo che era
trascorso dalla fondazione dell’Instituto di Corrispondenza archeologica
(1829).
Dalla constatazione del decadimento degli studi archeologici – e qui
individuiamo l’altra linea di ricerca – scaturisce il dibattito in seno alla disci­
plina sull’antitesi fra pratica e modello. In altre parole ci si chiese allora: era
opportuno rinnovare l’archeologia italiana seguendo un percorso autonomo
che tenesse conto delle condizioni peculiari dello stato della disciplina nel
nostro paese, oppure bisognava indiscutibilmente ricorrere all’importazione
di un modello? Addentriamoci in questo dibattito.
Prendiamo in considerazione alcuni esempi da cui si può desumere la
consapevolezza dell’arretratezza dell’archeologia italiana dopo il 1860. Ci
serviremo di uno dei primi documenti ufficiali dell’epoca: nel 1866 il mini­
stro della Pubblica Istruzione Domenico Berti presenta al re Vittorio Ema­
nuele II una relazione in favore del progetto dell’archeologo Giuseppe Fio­
relli di creare una Scuola archeologica a Pompei. Si tratta di una diagnosi
preziosa della situazione dell’archeologia italiana contemporanea in cui, dopo
il richiamo ad un glorioso passato che l’Italia ha avuto in questo campo, si
evidenzia la necessità che il nostro paese recuperi quella tradizione, in un
contesto europeo in cui ormai erano ben altre le nazioni dominanti: la Ger­
mania per esempio, con l’Instituto di Corrispondenza archeologica, la Fran-

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cia che già dal 1846 aveva una propria scuola ad Atene. Scendendo però più
al livello della qualità della ricerca, si esprime il riconoscimento dei limiti
degli eruditi e degli antiquari, spesso studiosi di valore ma per lo più dediti
allo studio dell’Antichità inteso come conoscenza di singoli oggetti, la cui
esegesi era in funzione di spiegazioni mitologiche o dei costumi dei Greci e
dei Romani, e non rivolta ad una storia dell’arte. Accanto ad essi vengono
però riconosciute alcune luminose eccezioni: Ennio Quirino Visconti «il qua­
le abbracciando tutta intera l’[Antichità] e con essa tutta l’umana civiltà, aprì
una nuova ed altissima via agli illustratori di monumenti figurati». Oltre al
grande antiquario romano troviamo Bartolomeo Borghesi il quale mostrò
come «alla ricerca [della Storia] potesse giovare lo studio dei monumenti».
Lo stesso Fiorelli ribadendo l’importanza della Scuola di Pompei sotto­
lineava la necessità per l’Italia «restituentesi a unità e dignità di nazione, ricca
di monumenti superbi… di un’archeologia nostrale viva ed operosa», giacché
«v’era… smembrata e sparsa qua e là, la dottrina delle antichità, ma non v’era
una scienza italiana dei monumenti» (SASSATELLI 1981, p. 381).
Nel 1873 l’archeologo perugino Giancarlo Conestabile della Staffa en­
tra nel vivo della discussione pubblicando l’articolo Sull’insegnamento della
Scienza delle Antichità in Italia, in cui apertamente dà un quadro desolante
dell’archeologia italiana: la materia ha soltanto un minimo spazio all’interno
delle Facoltà letterarie; è insegnata da professori che sanno un po’ di tutto e
di conseguenza niente bene, mentre gli allievi la considerano del tutto margi­
nale. Sarebbe bastato oltrepassare le Alpi «al di là delle quali, in fatto di studi
archeologici, ciò che qui sembrerebbe un sogno, una impossibilità, una follia,
è riguardato invece come un elemento indispensabile al possesso di una com­
piuta e forte istruzione classica nel giovine, necessario a tener alto il livello
della cultura intellettuale della nazione» (CONESTABILE DELLA STAFFA 1872-1873,
p. 541).
Questa consapevolezza dell’arretratezza degli studi archeologici traspare
a distanza di mezzo secolo dall’unità d’Italia nella sintetica storia delle ricer­
che pubblicata da Gherardo Ghirardini. Il Ghirardini riconosce la suprema­
zia della Altertumswissenschaft tedesca consolidatasi sulla base dell’opera di
Winckelmann e rinnovatasi con studiosi del calibro di Heinrich Brunn. Egli
afferma: «Di fronte a tutta codesta fervida e poderosa produzione archeolo­
gica tedesca ben poco aveva da offrire di proprio l’Italia: si può anzi dire
decisamente che… una scienza italiana non esisteva quasi ancora, o, a dir
meglio, si provava né primi faticosi tentativi, moveva il passo lenta, perples­
sa, vacillante» (GHIRARDINI 1912, p. 8).
Torniamo ora per un momento al progetto della Scuola di Pompei, che
ci permette di osservare più da vicino il dibattito che si aprì in Italia dopo
l’Unità sulla dicotomia teoria e prassi. L’atto di nascita di questa impresa e le
discussioni politiche e archeologiche che attorno ad essa si svilupparono, ci
permettono di ricostruire un quadro ove sono rappresentati i dilemmi di una

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classe intellettuale e politica di fronte agli orientamenti da imprimere alla
nascente archeologia italiana.
Giuseppe Fiorelli, figura tra le più eminenti nell’archeologia italiana
postunitaria, attivo nelle ricerche a Pompei e titolare della cattedra napoleta­
na di archeologia fin dal 1861 (BARBANERA 1998, pp. 19 ss.), si rese ben presto
conto del problema della formazione di una nuova generazione di archeologi
da impegnare nella direzione dei musei, nella conduzione degli scavi, nella
catalogazione e nello studio dei materiali e da destinare all’insegnamento
universitario. Il suo interesse primario fu quello di creare una palestra ar­
cheologica ove i giovani potessero apprendere il metodo dello scavo e la
conoscenza dei monumenti tramite un rapporto diretto, in altre parole un
luogo ove il giovane archeologo potesse essere introdotto ad un’esperienza
completa: studio preliminare di un sito archeologico, scavo ed edizione fina­
le. Pompei sembrava il luogo più adatto per questo tipo di esperimento, poi­
ché consentiva di affrontare un contesto archeologico in cui era possibile
considerare i rapporti tra il dato topografico, il monumento e i singoli oggetti
e, tra questi ultimi, non soltanto i manufatti artistici, ma l’abbondante
instrumentum domesticum che costituiva una preziosa testimonianza della
vita quotidiana dei Romani. Fiorelli intende partire dal valore dello studio
del monumento, non solo secondo una prospettiva storico-artistica ma come
documento diretto che ci informa sul mondo antico alla stregua delle fonti
letterarie. In un’epoca di dominante archeologia filologica non sfuggirà la
portata di questo pensiero. Ma ci si spinge oltre, nel suggerire che l’archeolo-
gia ha una necessità in più rispetto alla filologia, cioè la conoscenza del meto­
do attraverso cui si giunge alla scoperta del monumento, il cui apprendimen­
to è considerato un completamento della formazione teorica dell’archeologo
nell’Università. Accanto alla filologia dei testi viene proposta una filologia
delle cose.
Il fallimento dei concorsi per l’ammissione dei giovani alla Scuola con­
dusse all’apertura di un’inchiesta che vide in Pasquale Villari, potente segre­
tario generale del ministero della Pubblica Istruzione, il paladino di un mo­
dello di studi di tipo germanico. Vennero chiesti pareri autorevoli ad antichi­
sti ritenuti tra i più influenti: a Theodor Mommsen, a Conestabile della Staf­
fa e, su parere di Mommsen, a Richard Schöne. Mommsen si mostrò del
tutto contrario all’iniziativa di Fiorelli «di fondare a Pompei una specie di
seminario teoretico-pratico per l’archeologia», sostenendo che la «vera scuo­
la dell’archeologo futuro è la filologia, cioè l’università». Schöne, all’epoca
d’altra parte assai giovane, riconobbe l’utilità dell’iniziativa di Fiorelli poiché
la disciplina in Italia per fatti oggettivi aveva necessità diverse da quelle che
presentava in Germania: il colossale sforzo di riorganizzazione amministrati­
va che prevedeva l’allestimento e la creazione dei musei, la redazione dei
cataloghi, la conservazione dei monumenti e l’intrapresa di scavi regolari per
i quali occorreva una nuova classe di funzionari dotati di preparazione scien-

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tifica e di esperienza pratica. Riconosciute queste esigenze, anche Schöne
poneva come fulcro della ricerca archeologica lo studio e la conoscenza della
storia dell’arte. Conestabile della Staffa sostenne che la formazione dei gio­
vani in una scuola archeologica doveva avvenire con l’ausilio della conoscen­
za di collezioni monumentali di musei, di sculture originali o di calchi, di
riproduzioni fotografiche, mutuando un tipo di insegnamento che in Germa­
nia aveva già una sua lunga tradizione.
Fiorelli, in via di principio, non era contrario al modello tedesco che si
voleva importare, ma sosteneva che per il momento esso era intraducibile in
quanto all’Italia mancava una equivalente organizzazione dell’insegnamento
ginnasiale e una struttura universitaria che, nel campo dello studio dell’Anti-
chità, potesse contare sulla ramificazione della Altertumswissenschaft in nu­
merosi insegnamenti. Possediamo una lettera di Fiorelli, quasi una memoria
difensiva scritta a Pasquale Villari: «Caro Pasqualino, conosci tu molti arche­
ologi in Italia? Ne hai trovato uno per farlo professore all’Università di Na­
poli, dopo che il Minervini si è ricusato?… In Germania come sai, oltre le
Antichità greche e romane che si dettano nei ginnasii, vi sono corsi speciali.
Vi è chi spiega l’epigrafia, come illustrazione del diritto romano, e questo fa
il Mommsen; il Jahn ha fatto ripetute volte un corso su i vasi dipinti; il Ritschl
spiega Plauto da molti anni, ed illustra il testo con disquisizioni archeologi­
che; solo il Brunn si occupa della storia dell’arte, ed è in ciò seguito
dall’Overbeck e da qualche altro di minor fama… Come avviene intanto, che
la Germania pullula di archeologi e che ogni anno vi si pubblicano opere
stupende? Il segreto sta in un’ottima preparazione ginnasiale. Si studia assai
bene il greco, il latino, la storia antica, la geografia antica, la mitologia, le
Antichità greche e romane». La struttura ormai complessa e differenziata del­
la scienza archeologica in Germania rivelava quanto fosse immatura l’idea di
un maestro che «compendiando in sé tutta la scienza potesse sostituirsi a quei
moltissimi, i quali hanno fatto l’argomento di tutta la loro vita lo studio di
una sola parte dell’archeologia» quella scienza che, sostiene l’empirico Fio­
relli, «si impara con gli occhi e non con l’udito» (BARBANERA 1998).
Nella mia sintesi di storia dell’archeologia italiana, ho dato a Fiorelli
un ruolo preminente non certo per ragioni campanilistiche quanto perché mi
sembrava di aver individuato nella sua personalità, tra le altre cose, la capaci­
tà di trovare la soluzione più pratica e più immediatamente aderente alle
esigenze della situazione italiana. La dicotomia di teoria e prassi era prima
pratica piuttosto che ideologica, anche se non mi sento di escludere che un
lavoro più approfondito su questo milieu intellettuale, su Villari e su Fiorelli
stessi, potrebbe mettere in luce le differenti radici intellettuali che ne condi­
zionarono le scelte.
Prima di procedere su questa linea e giungere a spiegare quale fu la
decisione prevalente, vorrei fare una piccola parentesi su un argomento giu­
stamente portato in causa da Fiorelli, cioè lo stato dell’istruzione pubblica in

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Italia. Non si poteva discorrere astrattamente delle carenze dell’archeologia
italiana senza prendere in considerazione la più ampia questione dell’arretra-
tezza degli studi classici. Alla metà degli anni ’70 del secolo scorso la Prussia
contava quasi ventiquattro milioni di abitanti e aveva oltre duecento ginnasi
tra regi e riconosciuti dal governo; l’Italia con 26 milioni di abitanti dispone­
va soltanto di 94 ginnasi, senza contare poi che agli allievi dei ginnasi tede­
schi si richiedeva una preparazione superiore a quella degli Italiani. Il gover­
no italiano era ben consapevole di questa situazione e fondò anche borse di
studio perché i ricercatori italiani si recassero a studiare in Germania, a Lipsia
ad esempio, dove insegnavano Ritschl e Lange, a Kiel con Nitsch, ad Halle
con Wolf e si fa strada l’idea sempre più diffusa che, superando i pregiudizi
nazionalistici, si potessero far venire professori tedeschi per insegnare filolo­
gia classica nei ginnasii, in altre parole la coscienza di andare a scuola dai
Tedeschi. Non va certo dimenticato che dal 1870 la Germania, vincitrice
sulla Francia, vede comunque crescere il proprio prestigio politico e culturale
in ambito europeo, una Germania di cui l’Italia è alleata fin dal 1866 nella
cosiddetta terza guerra di Indipendenza. Si verificò allora un capovolgimento
negli studi di antichità rispetto al primo cinquantennio del secolo: tramonta­
ta l’epoca dell’«italianismo culturale», ci si avviò sempre più decisamente ad
un «germanesimo culturale» (MAZZARINO 1972-1973). Se Mommsen si era
dichiarato allievo del Borghesi, a partire dagli anni ‘60 osserviamo che Ettore
De Ruggiero, il futuro ideatore del Dizionario Epigrafico si recò a scuola da
Mommsen, così come poi Ettore Pais. In Germania studiarono Eugenio Fer­
rari, Enea Piccolomini, Gerolamo Vitelli; il grande storico De Sanctis fu allie­
vo di Julius Beloch (MOMIGLIANO 1986). Ma con Beloch siamo su un gradino
ulteriore nel rapporto tra istituzioni italiane e scienza tedesca. Come ha rico­
nosciuto già mezzo secolo fa Arnaldo Momigliano, stabilita la supremazia
degli studi storico-archeologici dei tedeschi, si decise di importare diretta­
mente professori tedeschi: Adolf Holm insegnò storia antica a Palermo e a
Napoli; Julius Beloch insegnò a Roma. Si fondarono riviste scientifiche e
collezioni di scritti ispirati a modelli tedeschi come la Rivista di Filologia
Classica, nel 1873, il cui editore, Ermanno Löscher era di origine tedesca e
imparentato con i Teubner. Il primo direttore, Giuseppe Müller, era un au­
striaco. Assistiamo quindi ad una sorta di protettorato tedesco verso il quale
soltanto in prossimità della I guerra mondiale vi furono esplosioni di ostilità,
non solo per evidenti scelte politiche, ma per altre ragioni culturali che qui ci
porterebbero troppo lontano dal nostro argomento.
Soltanto per inciso vorrei comunque ricordare due figure di studiosi di
estremo valore, i quali rispettivamente nel campo della filologia e della glot­
tologia ebbero posizioni di forte autonomia: Domenico Comparetti e Gra­
ziadio Isaia Ascoli. Entrambi conoscevano la letteratura specifica tedesca e
non si sentirono mai inferiori, anzi Comparetti mise spesso luce la debolezza
della filologia tedesca (LA PENNA 1983).

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Questo era il clima sullo sfondo del quale le discussioni sull’archeolo-
gia italiana vanno concepite e il modello, che era stato vincente per la filolo­
gia, lo divenne anche per l’archeologia, come dimostra un episodio per tutti,
l’istituzione della nuova cattedra di archeologia e storia dell’arte antica di
Roma nel 1890. Nel 1889 il nuovo ministro dell’Istruzione Michele Coppi­
no, uomo politico consapevole dei problemi dell’insegnamento (per essere
stato lui stesso professore universitario), si fece promotore del rilancio della
Scuola italiana di archeologia e del concorso per la nuova cattedra di Roma.
I due provvedimenti vanno compresi sullo sfondo degli avvenimenti archeo­
logici coevi del nostro paese tra cui due in particolare incisero notevolmente
sullo sviluppo degli eventi: il primo fu la trasformazione dell’Instituto di Cor­
rispondenza archeologica da cosmopolita avamposto della cultura archeolo­
gica tedesca prima in Istituto prussiano (1871) e, in seguito, in Istituto impe­
riale archeologico germanico (1874). Quest’ultimo divenne un organo buro­
craticamente dipendente dal ministero degli Esteri tedesco (dal 1885), circo­
stanza che provocò conseguentemente una diminuzione del ruolo di Roma e
degli studiosi italiani, lo spostamento degli incontri della Direzione centrale
a Berlino e l’assunzione del tedesco come lingua ufficiale. L’altro fattore fu
costituito dalle imprese archeologiche a Creta che avevano rivelato le testi­
monianze di una cultura figurativa di fronte alla quale ci si sentiva imprepa­
rati.
Nel 1889 al Gotha dell’archeologia italiana fu affidato il compito di
scegliere il nuovo professore di archeologia dell’arte a Roma. La commissio­
ne era composta da Ariodante Fabretti, Giuseppe Fiorelli, Ettore De Ruggie­
ro, Giulio De Petra ed Edoardo Brizio. I candidati furono soltanto due:
Emanuel Löwy e Paolo Orsi e decidere in favore dell’uno o dell’altro avrebbe
conferito all’archeologia italiana un destino completamente diverso.
Löwy, nato a Vienna trentadue anni prima e già in possesso della libera
docenza, presentò quindici pubblicazioni su argomenti pertinenti «tutti al-
l’archeologia classica, cioè all’epigrafia greca e latina ed alla storia dell’arte»,
tra cui la sua dissertazione, Untersuchungen zur griechischen Künstlergeschichte
(1883), un articolo sul Torso del Belvedere e la grande raccolta delle iscrizio­
ni di artisti greci, Inschriften griechischer Bildhauer (1885), che fu considera­
ta «di una importanza veramente capitale per la storia dell’arte greca». Orsi,
di due anni più giovane, poteva essere considerato il più tedesco tra gli arche­
ologi italiani, essendo nato a Rovereto (Trento) come suddito austriaco e
avendo frequentato il secondo anno di università a Vienna; a quel tempo era
già ispettore archeologo a Siracusa. Presentò nove titoli che, se si fa eccezione
per uno di carattere numismatico e un altro, assai noto, sulle Antichità del-
l’Antro Ideo in Creta (1888), trattavano delle «Antichità preistoriche dell’Ita-
lia Superiore». Fu inoltre preso in considerazione lo studio sui cinturoni ita­
lici della prima età del ferro, basato sui confronti con quelli rappresentati su
monumenti egizi, ciprioti e greci. La commissione ribadì però che «nell’esa-

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me delle sculture di questi popoli egli si limita al costume, senza toccare le
quistioni dell’arte».
La scelta di Emanuel Löwy come vincitore del concorso fu la risposta
degli antichisti italiani ai reiterati dibattiti sulla questione del rinnovamento
dell’archeologia. Il giovane archeologo austriaco rappresentava l’erede mi­
gliore di una tradizione ove si saldavano l’estetismo di Winckelmann, l’acri-
bia di Visconti e la moderna scienza dell’Antichità tedesca, così come si era
strutturata nel corso del secolo. Egli era destinato a diventare il maestro di
una generazione di archeologi italiani e la sua influenza si protrasse oltre il
suo effettivo insegnamento che si concluse a Roma nel 1915, alla vigilia della
partecipazione dell’Italia alla I guerra mondiale, attraverso l’opera dei suoi
allievi, primo fra tutti, Alessandro della Seta.
Quali erano state comunque le caratteristiche che avevano fatto di Löwy
il candidato ideale per svecchiare l’archeologia Italiana? Nato a Vienna nel
1857, aveva qui studiato con Alexander Conze e con l’epigrafista Otto
Hirschfeld. Nella capitale austriaca fin dal 1877 aveva poi continuato gli
studi con Otto Benndorf di cui, dopo il dottorato, diventò collaboratore come
epigrafista, archeologo e disegnatore nella spedizione archeologica in Licia.
La formazione nel seminario viennese, i numerosi viaggi fatti in Grecia e in
Italia, l’acquisizione di un metodo aggiornato nello scavo e nell’edizione come
era allora possibile in ambiente austriaco e la conoscenza delle fonti antiche,
erano le premesse giuste per fare di questo giovane archeologo uno studioso
di alto livello; tra l’altro, la sua frequentazione di un milieu intellettuale cui
appartenevano figure come gli storici dell’arte Ernst Kris e Julius Schlosser e
Sigmund Freud, gli assicurava un’ampia apertura di interessi e orizzonti cul­
turali.
Alle soglie del nuovo secolo Löwy svolse il compito di rimuovere l’ar-
cheologia italiana portandola al livello della tanto ammirata archeologia te­
desca, facendo dell’Archäologie der Kunst il perno del suo insegnamento per
un quarto di secolo. Un suo studente di Vienna, divenuto poi assai famoso,
Ernst Gombrich, più tardi ebbe a dire che lo considerava tra «quegli spiriti co­
raggiosi che, tra la fine del secolo scorso e gli inizi di questo, cercarono di risolve­
re il problema del perché l’arte abbia una storia» (GOMBRICH 1960, p. 22).

Alla fine dell’Ottocento all’archeologia italiana si schiudono nuovi oriz­


zonti non solo in senso geografico ma anche di ambito scientifico. Nel 1884
il giovane epigrafista Federico Halbherr veniva inviato dal suo maestro Do­
menico Comparetti a Creta per ritrovare un’epigrafe che era stata copiata nel
1577 da Francesco Barozzi, nella Descrizione dell’isola di Creta. Il viaggio
cretese fruttò allo Halbherr ben più di ciò che si era riproposto: lo condusse
infatti alla scoperta della più grande delle iscrizioni greche, il codice di Gortina.
Questa circostanza spinse Halbherr a prolungare il suo soggiorno cretese e
ad ampliare le indagini di ricognizione e di scavo. Cominciava così, con un’ini-

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ziativa privata, l’interesse per le antichità di Creta che, nel momento in cui la
congiuntura politica italiana lo consentirà, si strutturerà prima con la Missio­
ne archeologica di Creta (1899) e poi con la fondazione della Scuola Archeo­
logica Italiana nel 1909.

Negli stessi anni venivano intensificate le ricerche archeologiche in Ita­


lia: lo spostamento della capitale del Regno a Roma rese necessari enormi
lavori di adattamento. La costruzione di ministeri e di interi quartieri per i
nuovi funzionari determinò imponenti lavori di sbancamento che certo resti­
tuirono una grande massa di materiali, ma per lo più fuori contesto visto il
disinteresse dell’amministrazione e la fretta di costruire i nuovi edifici. Infati­
cabile documentatore di questa attività fu Rodolfo Lanciani. Dopo essersi
distinto con una monografia sui Commentari di Frontino sugli acquedotti di
Roma, Lanciani aveva ricevuto incarichi via via più importanti, fino alla re­
sponsabilità dello scavo del Foro Romano nel 1884-85. Chiamato alla catte­
dra di topografia nel 1882, Lanciani può essere considerato il fondatore della
moderna topografia di Roma.
All’incirca contemporaneo di Lanciani fu Paolo Orsi che, dopo una
iniziale attività di ricerca antiquaria legata ai luoghi di origine, giunse a Sira­
cusa nel 1888 come ispettore del Museo Archeologico. Durante una lunga
attività di ricerca e di scavo, prolungatasi per oltre quarant’anni, prima in
Sicilia e poi in Calabria, Orsi dette un enorme apporto alla ricerca archeolo­
gica dalla preistoria all’età bizantina.

Tra le figure più interessanti al volgere del secolo va ricordato senz’altro


Giacomo Boni, che fu quasi un outsider nell’establishment archeologico. Boni
non ebbe cattedre e non era un archeologo di formazione, aveva fatto studi
di architettura. L’ambiente di Venezia dove svolse i suoi primi lavori e la
conoscenza della lingua inglese gli avevano permesso di avvicinarsi alla cultu­
ra in cui era fiorito il movimento neogotico di William Morris, di John Ruskin
e di Philip Webb. È probabile che queste frequentazioni abbiano contribuito
a maturare in lui un approccio al monumento considerato come testimonian­
za storica e non solo antiquaria. Nel 1898 gli venne affidata la direzione degli
scavi del Foro Romano. Mentre la comunità scientifica riteneva che si cono­
scessero già i monumenti principali del Foro, Boni, grazie a una lunga campa­
gna di scavi condotta tra il 1889 e il 1911, fece scoperte di singolare impor­
tanza. Per la prima volta un’impresa di scavo veniva condotta su ampia scala
e applicando metodi di indagine stratigrafica, consentendo l’individuazione
di ventitré strati archeologici per una profondità di quattro metri sotto il
lastricato medievale. Un altro apporto sostanziale di Boni all’archeologia fu
che egli avvertì la necessità di teorizzare le norme dello scavo, pubblicando
nel 1901 Il metodo negli scavi archeologici. Boni non fu un eccellente inter­
prete dei dati che andava acquisendo, peraltro rimasti in gran parte inediti,

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ma la sua opera, pur isolata, si colloca tra i momenti più positivi dell’archeo-
logia italiana.
La generazione di archeologi del primo Novecento formatasi alla scuo­
la di Löwy, ha una preparazione principalmente storico-artistica, ma deve
allo stesso tempo confrontarsi con le numerose imprese di scavo che si sono
aperte non solo in Italia ma in Grecia, soprattutto a Creta, in Africa e in Asia
Minore. Tra costoro si distinguono Lucio Mariani, che padroneggia vasti campi
della ricerca e si muove tra l’archeologia italica (Alfedena), quella minoica (Il
sarcofago di Haghia Triada) e le ricerche nell’ambito dell’arte greca. Alessan­
dro Della Seta seguì più da vicino di altri le orme del suo maestro Löwy con
le indagini sulle origini dello scorcio nell’arte greca, ma si avvicinò alle ricer­
che etruscologiche, ancora accademicamente inesistenti, nella sua attività al
Museo di Villa Giulia e, da direttore della Scuola Archeologica di Atene (1919­
1939), formò più di una generazione di archeologi italiani che imparavano a
scavare sul sito preistorico di Lemno. Vanno ancora menzionati Giulio Quiri­
no Giglioli che ha dato impulso agli studi etruscologici e Luigi Savignoni.
Attivi a quest’epoca sono Giulio Emanuele Rizzo e Pericle Ducati che appar­
tengono a una generazione precedente; provenivano l’uno dalla scuola paler­
mitana di Antonino Salinas, l’altro da quella bolognese di Brizio.
Dopo la scomparsa di Emanuel Löwy dal panorama accademico italia­
no (1917), la morte prematura di alcuni archeologi di talento come Mariani
(1924), Savignoni (1918) il decentramento di Della Seta, occupato con la
Scuola di Atene, rendono il panorama italiano meno vivace nel campo della
storia dell’arte antica, perdendosi il legame diretto con la Kunstarchäologie,
metodo che se oggi ci può apparire limitato, aveva avuto il merito di collega­
re l’Italia ai dibattiti storico-artistici più in voga in Europa.
Negli anni Venti figure come Pericle Ducati e Giulio Quirino Giglioli o
Roberto Paribeni sono piuttosto deboli sul piano teorico e spesso anche su
quello dei risultati oggettivi. Un libro come L’Arte Classica di Ducati, pubbli­
cato nel 1920 (con edizioni successive nel ’27 e nel ’39) è lo specchio di
questa situazione: privo di originalità, presenta un’utile raccolta di monu­
menti e si struttura su un modello storiografico dell’arte antica che in ultima
analisi risale a Winckelmann. Non diversamente accadrà per i libri di Giglio­
li, da L’Arte Etrusca fino al manuale L’Arte Greca.
Sullo sfondo di questa situazione si comprende la reazione di alcuni
giovani archeologi agli inizi degli anni ’30. Pirro Marconi nel 1929 aveva
pubblicato un libro sulla pittura romana, nella cui introduzione affermava
che le sculture romane non dovessero essere studiate soltanto come copie di
originali greci, ma tenendo conto del loro intrinseco valore, mezzo secolo
prima di quanto abbia fatto Paul Zanker nel suo Klassizistische Statuen. Ra­
nuccio Bianchi Bandinelli tentò allora di ricollegarsi alla tradizione di
Winckelmann e poi di Löwy trattando l’arte antica con gli stessi strumenti di

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quella moderna («La Critica d’Arte», 1935) e cercando in tal modo di supera­
re la fase positivistica dell’archeologia dei Bausteine, della raccolta dei mate­
riali. Influenzato dall’idealismo crociano, Bianchi Bandinelli, come
Winckelmann, sembra voler ricercare «l’essenza dell’arte»: in quest’epoca
abbandona le ricerche etruscologiche, prevalentemente di carattere topogra­
fico e si rivolge allo studio dell’arte greca e romana.
Negli stessi anni Silvio Ferri con le sue ricerche andava conferendo una
dignità agli studi sul materiale delle province romane. Tra ambiziose imprese
di scavo in Italia (via dei Fori Imperiali, Ostia) e all’estero (ad esempio Leptis
Magna), cui non corrispose il più delle volte una corretta tecnica di scavo, e
ricerche sostanzialmente storico-artistiche tradizionali l’archeologia italiana
ha vissuto una lunga stagione di conformismo fino agli anni ’60 in cui ovvia­
mente si possono e debbono distinguere personalità di livello assai differen­
ziato. Tra di essi Giovanni Becatti, nella cui opera convergono i grandi filoni
dell’archeologia classica sviluppatisi tra Ottocento e Novecento, soprattutto
quello della Meisterfrage e, in parte, quello antiquario.
Doro Levi, nuovo direttore della Scuola Archeologica italiana di Atene,
nel dopoguerra ha ripreso lo scavo del palazzo minoico di Festòs, sui cui
risultati ha basato un’ambiziosa revisione della cronologia della civiltà minoi­
ca.
Amedeo Mauri è stato l’instancabile indagatore di Pompei. Achille
Adriani ha condotto un’approfondita ricerca nell’ambito della c.d. arte ales­
sandrina.
La personalità di maggior spicco nell’archeologia del dopoguerra ita­
liano fino agli anni ’70 è stata sicuramente quella di Bianchi Bandinelli. Con
ciò non voglio affermare che egli sia l’unico archeologo valido del suo tem­
po. Ciò sarebbe un’affermazione ingenua e inesatta.
La rilevanza di Bianchi Bandinelli è dovuta a fattori che in parte sono
estranei al campo dell’archeologia. Paradossalmente si potrebbe affermare
che egli ancor prima di essere archeologo è stato un’intellettuale, “impegna­
to” come si diceva un tempo, che non poteva concepire la sua attività di
ricerca disgiunta dall’intervento concreto nella società. In questo senso non
temo di essere smentito nell’affermare che Bianchi Bandinelli non ha avuto
nessuno pari al suo livello nell’ambito archeologico italiano. L’ampia visione
scientifica, la lealtà intellettuale, il bisogno continuo di legare l’archeologia ai
problemi contemporanei, conferiscono all’opera di Bianchi Bandinelli un re­
spiro che io considero elemento assai più importante del contenuto specifico
di certi suoi scritti, oggi forse non più condivisibile. Non è casuale che dal
suo insegnamento siano nate tante ‘archeologie’ diverse, che oggi costituisco­
no alcune delle esperienze più vitali e innovatrici dell’archeologia italiana
contemporanea.
MARCELLO BARBANERA

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