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In copertina un disegno di Emilio Greco

Le illustrazioni nel testo sono di Peter Hoffer

racconti
italiani
1966

SELEZIONE DAL READER'S DIGEST – MILANO


INDICE

Gaby la nana di Giovanni Arpino


roma 1944: pagine di un diario ritrovato di Giorgio Bassani
La luna è nostra di Giuseppe Berto
Il cappuccio da sci celeste-cielo di Italo Calvino
Le passeggiate di Carlo Cassola
Il traditore di Oreste del Buono
Con filosofia di Alberto Moravia
Parliamo del più e del meno di Goffredo Parise
L'ultima farsa di Domenico Rea
La guardia di Lalla Romano
Il Natale di Iride di Mario Soldati
Vacanza di un capitano di Mario Tobino
GIOVANNI ARPINO

Gaby la nana

ADESSO LO so BENE. Adesso ho capito. La felicità è un niente fatto di


niente, una nebbia senza sapore senza forma senza senso. È come la salute,
cominci a capirla quando ne esci, quando hai un male. È come il guscio
d'una noce, al quale la noce aderisce cosí bene dal di dentro. Della felicità
vieni a sapere solo quando ne sei stata sparata via, il guscio s'è spaccato e
tu ti ritrovi di colpo a dover giudicare da sola il freddo e il caldo, il
mangiare e il letto. E non si funziona più. Tutto diventa storto e
raggrinzito. Ti vesti, e non sai perché ti sei messa quegli stracci invece di
altri, ecco tutto. Ti pettini, e a un certo momento la mano si ferma nel gesto
e ti passa la voglia di finire, di uscire col pettine dal fondo dei capelli. Cosí
oggi, persino io, se qualcuno mi dicesse "bei tempi quelli di una volta, vero
Gaby?", persino io lo guarderei come si guarda un pazzo o un nemico.
Adesso tutti mi circondano di attenzioni, tutti sono premurosi, vengono
incontro a me cautamente come ci si avvicina a un'ammalata a letto, tutti
muovono le loro bocche in smorfie che vogliono essere di coraggio e di
gentilezza. Ma nessuno ride più con me. Nessuno mi cerca per pettegolare
o per domandarmi qualcosa. Talvolta li sento ridere o litigare, come
sempre, ma a parte, in un angolo del prato o in qualche carrozzone chiuso.
Non mi nominano, non mi invitano, mai più m'hanno richiesto d'una fune
perduta, d'un attrezzo smarrito, le solite cose che mettono in furia noi gente
di circo. Anche Canaris il prestigiatore non mi combina più scherzi. E tutte
le volte che il vecchio clown Celestino m'arriva addosso imbarazzato,
zoppicando con una pasta dolce in mano per consolarmi, mi prende una
fitta tra le costole. Persino il padrone, proprio lui, il "cavaliere"!, non mi
urla più dietro, e ieri addirittura mi ha chiamata "signorina"... Come se io
non capissi, come se io non mi fossi accorta che tutto è finito, o, peggio,
tutto per me sta per ricominciare, deve ricominciare.
Faccio fatica a riaddormentarmi, alla sera. Sto nel mio letto, guardo la
coperta a quadri gialli e neri, sento il vuoto di là della parete di legno. Ogni
tanto qualche animale soffia cupo nel recinto delle gabbie, e la tosse della
tigre Malesia, ammalata e decrepita, mi arriva come un torbido scalpiccío
per le erbe del prato.
Ma ogni sera, sempre — anche se ogni volta da un punto più lontano,
come attraverso un cannocchiale rovesciato — rivedo la densa massa di
luce che avvolgeva il minuscolo ring sulla pista. L'orchestra suona tutte le
sue trombe e nei fasci di luce, in due angoli opposti del ring, sono
appostati il mio Piccolo Tarzan e lo scimpanzè Singapore, in mutandine
bianche, guanti rossi da boxe, asciugamani di spugna attorno al collo, il
più bel numero del circo, c'è gente che torna tutte le sere per vederlo, non
c'è uno tra il pubblico che non rida per nove minuti esatti, fin quando
l'arbitro-clown Celestino vola fuori dal ring e Singapore, per un ultimo
uppercut di Piccolo Tarzan, crolla al tappeto in mille smorfie. Ed ecco che
Piccolo Tarzan s'inchina ai quattro angoli, alza il pugno inguantato di
rosso, l'orchestra strepita, e lui trotterella giù nel buio, lucido di sudore...
«E i polsi?», gli domandavo subito io ogni volta, asciugandogli la
schiena.
«Bene, stasera bene... Dagliela tu la birra a Singapore... E fa attenzione
che non sia ghiacciata...», rispondeva Piccolo Tarzan col fiato corto.
Di corsa, in accappatoio, andava a chiudersi nel nostro carrozzone. Gli
spaghetti erano già pronti e io, dopo aver stappata la birra per Singapore,
restavo di guardia sulla scaletta della carrozza. Piccolo Tarzan mangiava,
una forchettata via l'altra a testa bassa, e quel gesto di taglio lungo la
guancia alla fine, uscendo, per significarmi "ottimi!". Dalle maniche
dell'accappatoio si mostravano i suoi polsi arrossati, quei poveri polsi cosí
esili, cosí strani per un nano, diversi dai miei, nodosi e dalle sporgenze
come ribattute e squadrate in una massa ossea compatta.
«Una sera o l'altra il cavaliere si accorge che mangi prima della fine
dello spettacolo e allora vedi che multa...» dicevo io, come sempre,
massaggiandogli leggerissimamente i polsi sopra e sotto.
«E ci provi...» scopriva i denti Piccolo Tarzan, soddisfatto a stomaco
pieno: «Ci provi e lo piantiamo sui due piedi, lui e il suo circo pulcioso...
Ma lo sai che potremmo andare in America, col mio numero? O in un vero
teatro? Altro che questi stracci...».
«Sí, America... Ma io? Cosa faccio io:» mi preoccupavo.
«Tu? Potresti fare l'arbitro al posto di Celestino, o il manager, e
correresti su e giù durante i due intervalli delle riprese a massaggiarci, me
e Singapore... Dopotutto, tu sei quella che conosce meglio Singapore,
meglio anche di me... In un vero teatro, noi due...».
«Sí, va bene, bravo, ma qui si mangia tutto l'anno, non dimenticarlo...»
lo interrompevo.
E già lui si affrettava a chiudermi il costume alle spalle, la sigaretta in
bocca, l'occhio lustro per gli spaghetti ingoiati troppo alla svelta. Mi
rifilava una pacca spingendomi verso il prato. L'orchestra aveva attaccato
coi tamburi indiani, le ragazze del trapezio, ora tinte sulle guance e
pennute in capo, ballavano intorno al fuoco sacro e io avrei dovuto
scimmiottarle lungo l'anello di legno della pista, cacciando qualche strillo
e offrendo alla prima fila del pubblico cartoline di Piccolo Tarzan o di
Singapore che boxa davanti allo specchio.
Questo è il mio unico, vero ricordo. Tutto il resto mi torna su in una
polvere confusa, a scaglie ora violente ora smorte. Oh, certo!, ricordo bene
anche il giorno in cui scoprii Piccolo Tarzan che piangeva, nascosto dietro
il recinto dei bufali..., ma cerco sempre di respingere questa immagine
come se, allontanandola, potessi rallentare il ritmo delle cose che da quel
giorno precipitarono...
Piangeva, Piccolo Tarzan, dietro il recinto dei bufali, la testa piegata sui
ginocchi, le mani gracili attorcigliate alla nuca. Come lo scoprii, restai
immobile a guardarlo, incapace di credere a quelle sue spalle scosse da
singhiozzi. E mi torna in mente che proprio in quell'attimo scoprii di non
ricordare d'aver pianto mai io, figuriamoci Piccolo... Ho ancora negli occhi
i passi con cui mi portai davanti a lui, a testa vuota, senza capire, per
restarmene poi immobile ad aspettare.
Finí per dirmi tutto, dopo esserci abbracciati a lungo, in un silenzio che
mi faceva paura. Stretta nella sua spalla io seguitavo a ripetermi: guai se
butti una lacrima anche tu, cretina!, aspetta che parli lui e non far
domande...
Finí per dirmelo. Nell'ultima settimana era cresciuto di due centimetri.
Di altri due era cresciuto nei precedenti quindici giorni.
«Devo avere qualcosa, devo essere malato...» aveva concluso senza
guardarmi, mordendosi un labbro: «Capisci? Quattro centimetri! Non
avevo il coraggio di dirtelo... Non hai visto che da dieci giorni giro solo
più con le scarpe da tennis? Ancora tre centimetri e poi è la fine: come
posso boxare con Singapore? La gente si diverte perché sono più basso di
lui, se fossi più alto direbbe che picchio una povera bestia e addio. Tre anni
per preparare questo numero che doveva durare una vita. E adesso? Torno
a fare il pagliaccio? O se cresco ancora, il manovale?
Non riuscii a rispondergli, inebetita. Guardavo l'erba giallastra del prato.
L'odore umido e greve dei bufali ci arrivava dal recinto a ondate, coi
fremiti del trasformatore elettrico che pulsava nel cerchio dei carrozzoni.
Una fila di uomini, sottile come una lisca, lontana, stava allineata lungo un
gioco di bocce.
«Anche le braccia mi sono cresciute...» venne fuori Piccolo Tarzan con
voce esile: «Guarda i polsi... Vedi! Vedi le ossa?».
Non volli sentire l'ombra nera che mi pesò d'improvviso sul cuore, e
cercai di sorridergli, mentre gli reggevo i polsi e delicatamente misuravo
ogni centimetro d'osso e di pelle, su su fino al palmo delle mani.
E dissi: «Devi andare subito da un medico, ma di quelli bravi..., e senza
aver fatto parola con nessuno prima, meno che mai col cavaliere. Magari è
solo uno di quei ritardi di crescenza. Lo sai che può succedere... Ma vedrai
che non arrivi certo a un metro e trenta. È impossibile, impossibile! Vedrai
che...»
«Uno e trenta? Ebbene, con uno e trenta non posso già più boxare
insieme a Singapore. Fatto e finito! Capisci questo? Dopo tre anni di
lavoro... Uno poteva sperare di andar avanti finché fosse vecchio
Singapore. Un altro scimpanzè non sarebbe costato tanto, poi lo scimpanzè
impara alla svelta... Se cresco, con chi mi metto? Con un gorilla? E credi
che proprio io, io Piccolo Tarzan!, possa tornare a rotolarmi nella segatura,
a vuotare secchielli di vernice in testa agli altri nani o a sbattermi fuori
dall'auto di Ridolini? Ho quasi trent'anni, ormai...».
Aveva una specie di singulto e mi fissava con occhi spaventati.
«Buono, su buono... Perché vuoi soffrire già adesso? Non è meglio
aspettare cosa può dirci un dottore, un professore? Vedrai che un
professore...».
Ma ora l'ombra nera sul cuore mi pareva già più pesante, una pietra che
aveva preso forma e premeva.
«Ho mangiato troppi spaghetti... Credi anche tu che sarà colpa degli
spaghetti?» si lamentava Piccolo Tarzan tormentandosi le dita: «Guai se te
ne vedo cuocere ancora, capito Gaby?, guai a te se me li metti ancora
davanti...».
Senza più osare guardarci in faccia restammo seduti, lui appena scosso
dai suoi sospiri, io con una vertigine di cose che mi sbattevano in testa,
tutto quello che sapevo sulle crescite che possono capitare a noi nani, tutto
quello che sapevo sui giochi che noi possiamo fare nel circo, giochi odiosi
a Piccolo Tarzan, tutto quello che eravamo stati noi due, noi due...
Senza lo sfogo d'una lacrima fissavo la fila d'uomini laggiù, intenti alle
loro bocce nell'ora vuota di domenica che precede lo spettacolo
pomeridiano.
La confusione dei ricordi diventa una ribellione minacciosa, quando mi
tornano in mente i medici, tutti quei professori, cosí incuriositi pronti a
sorridere, e i loro gabinetti clinici, le loro stanze bianche e lucide oppure
scure e paurose, in cui ci trascinammo per mesi. Io, sempre nei corridoi, a
vergognarmi degli sguardi della gente, dei bambini che mi scoprivano con
uno strillo...
Piccolo Tarzan non mangiava quasi più, solo un boccone di verdura e
una pera, e s'era levato la birra, l'acqua, fumava poco, e alla sera tremava
quando doveva spogliarsi e salire sul ring, dove non riusciva più a
manovrare cosí leggero, spiritoso. Restava dentro la pasta densa della luce
piegato sui ginocchi, goffo. E con lui talmente ingobbito davanti, anche
Singapore pareva strano, in voglia di addormentarsi. L'orchestra
schiumava ferocissima sui tamburi, ma nella luce Piccolo Tarzan e
Singapore si attardavano lentissimi, come ubriachi, mentre il povero
arbitro Celestino si disperava in inutili sbracciamenti, rotolando qua e là.
Piangevo, al riparo buio del tendone, in fondo alla pista, e sentivo le
bestemmie del cavaliere, i mormorii stupefatti e preoccupati di Canaris e
degli altri, già qualche fischio deluso s'era infilato nel chiasso
dell'orchestra dalle ultime file di ragazzi e soldati. Ben poche cartoline di
Piccolo Tarzan e di Singapore avevo venduto durante il mio giro col
costume da indiana.
I professori non riuscirono a dirci niente di veramente certo, le loro
misurazioni consentivano di prevedere qualsiasi evento, e anche quello più
gentile, che non volle denaro perché molto interessato al fenomeno di
Piccolo Tarzan, si strinse sempre più nelle spalle. In altri quindici giorni,
Piccolo era cresciuto un nuovo centimetro e mezzo, ormai toccava il metro
e ventisette.
Gentile, o taciturno, o minaccioso, il cavaliere ci scrutava ora su ora, con
occhi obliqui e pugni chiusi, masticando il suo bocchino d'avorio. Si
raccomandava a me, oppure lo si udiva urlare inferocito agli altri,
promettendo multe, raddoppiando gli orari di prova. Il timore di offendere
Piccolo Tarzan non gli avrebbe impedito a lungo di affrontare uno scontro
decisivo.
Piccolo Tarzan, durante la notte, nel letto accanto al mio, non sospirava
neppur più. Guardava il soffitto di legno, si tastava i gomiti, socchiudeva le
palpebre, rispondendo alle mie rare domande con nervosi sporger di
labbra. A volte, risvegliandomi di soprassalto, lo sorprendevo seduto sul
bordo del letto che allunga va i piedi per scoprire se già riusciva a toccar
terra...
Una notte tra tante, cercai di dirgli: «Non c'entrano le ossa, Piccolo,
perché ti misuri tanto? Lo sai che non c'entrano le ossa... Sono le
ghiandole, tutti sono stati d'accordo sulle ghiandole...».
Ma lui: «E sta zitta! E non nominarmi quei ladri di medici che mi hanno
mangiato fino all'ultima lira... Sta' zitta. Dormi. Lasciami perdere...».
E aggrottava la fronte. Poi, di scatto, quasi volesse sfidarmi nel fondo
del mio dolore, della mia paura, si mise in piedi e forsennatamente provò,
allungando le mani tese verso la minuscola finestra del carrozzone, o
tenendosi ben ritto col petto davanti allo schienale della seggiola, o
appoggiandosi allo stipite della porta, via via più svelto, frenetico, girando
e rigirando, la ruga profonda tra i sopraccigli, senza più degnarmi di
un'occhiata...
«Soltanto ieri l'altro non arrivavo fin qui, lo so, lo giuro, posso
giurarlo!» esclamò in uno strido. E infine gli uscí ancora quella frase che
ogni volta mi si cacciava tra le ossa come un ferro: «Due volte dovevo
essere disgraziato nella vita, due volte! Prima e adesso, prima e adesso... E
zitta tu, cosa vuoi capirne tu, che sei una nana e basta, tu, tu...».
Tornò a letto senza aggiungere parola. Da più di un mese non allungava
mano a toccarmi.
Ma io, non riuscendo ad arrendermi: «Vuoi un po' di spinaci? Li ho
soltanto da riscaldare... Devi pur mangiare qualcosa... Li vuoi?» gli dicevo,
pur sapendo di non ottenere risposta.
Lui, indurito sotto la coperta, aveva ripreso a guardare il soffitto, a
tastarsi in silenzio le spalle, i gomiti, ogni giuntura d'osso. E io già sapevo
come avrebbe camminato l'indomani, su e giù per il prato tra i carrozzoni,
la sigaretta in bocca, il cavaliere furibondo ma silenzioso a spiarlo dalla
porta del suo veicolo dipinto a strisce... Ogni mattina, vedendolo
camminare cosí, temevo di assistere a un suo fulmineo, mostruoso
sbocciare verso l'alto... Allora mi chiudevo la bocca con la mano per non
uscire in chissà quale urlo. Ormai ero solo piena di paura e travolta da una
stanchezza che mi doleva in ogni muscolo.
So dov'è la mia colpa. Se non avessi avuto più paura che amore avrei
dovuto dirgli: sii contento, crescerai, sarai come gli altri, starai bene...
Avrei dovuto sapergli dire: tutto ti finirà bene, non avrai più a che fare con
una nana come me, ti capiteranno donne vere, grandi, magari belle
trapeziste, o forse impiegate...
Ma fu più forte la paura. E cosí potei leggere, anche questa volta senza
lacrime, il biglietto che mi lasciò sul tavolo un mattino. Diceva: «Cara
Gaby, oggi ho fatto l'uno e trenta, e allora me ne vado proprio. Pensavo di
andarmene già da tempo. Ho preso i soldi nel cassetto. Vedrai che te il
cavaliere ti tiene. Non pensare male per i soldi, ma devo pur andare il più
lontano possibile. Non possiamo più volerci bene, adesso che sto
diventando un altro. Dimentica».
Restai li col biglietto tra le mani finché arrivò Canaris, poi Celestino, poi
addirittura il cavaliere, che fu l'unico a scuoterci urlando, e io sentivo che
aveva ragione mi adattai subito a tutti quei movimenti che fanno una
giornata.
Non sono riuscita a piangere fino ad oggi, neanche di notte. Ogni ora è
passata tra le gentilezze altrui, con Celestino che avanza zoppicando e
regge tra le mani una pasta o con Canaris
che quando è in marsina finge un inchino invece di scherzare.
Adesso è tardi, sono qui davanti allo specchio e mi guardo, nel recinto
hanno già dato da mangiare a Singapore. L'orchestra suona, io non penso
proprio niente, so che va bene cosí, ascolto le trombe dell'orchestra che
sbattono come un fitto continuo dolore alla testa e non penso, non penso.
«Ciao Gaby, sei pronta?».
È entrata Crema, la madre delle due gemelle trapeziste. È una vecchia
donna grassa, vende le bibite a fianco della biglietteria, è stata anche lei
una grande acrobata, dice, ma ora è solo Crema per tutti noi, dato il lardo
che l'appesantisce dalla nuca fino ai polpacci. Sta sempre zitta e mangia, o
sparla degli uomini che odia.
Adesso io mi scopro. Perché Crema deve bendarmi strettamente il petto.
Con una maglietta colorata sopra le bende e i cerotti, e grazie anche a certi
baffetti che ho imparato a dipingermi, potrò boxare con Singapore come
un nano. Il pubblico non apprezzerebbe una donna. Ho dovuto anche
tagliarmi i capelli.
Singapore lo conosco bene, a pancia piena e sperando nella birra reciterà
la sua parte a perfezione. Celestino è solo il contorno del numero. Il
cavaliere dice che nessuno tra il pubblico si accorgerà delle mie gambe,
che sono da nana ma femminili, mentre quelle di Piccolo Tarzan erano
svelte e diritte come quelle di un bambino. Speriamolo. Ho provato tanto.
Il numero è necessario a tutti noi.
«Pronta, Gaby» dice Crema sbuffando.
L'orchestra rumoreggia sui tamburi, avranno già acceso le luci.
Singapore e io dobbiamo entrare da due angoli diversi della pista, e salire
contemporaneamente sul ring.
Per me, è una prima. E il mio nome, da oggi, è Chico, "il toro di
Lilliput". Ho il terzo posto sui cartelloni.
GIOVANNI ARPINO
Arpino e nato a Pola nel 1927 ma è sempre vissuto in Piemonte.
Collabora da anni a quotidiani e riviste. Di sé scrive: «Non sono quello
che si dice spregiativamente un "intellettuale", piuttosto sono una strana
specie di muratore, che si fabbrica di volta in volta i suoi mattoni, la sua
calce, il suo filo a piombo. E di li ricomincia un suo lavoro preciso,
attento, crudele...» I suoi libri sono molto tradotti, ha vinto il premio
«Strega».
OPERE PRINCIPALI: Sei stato felice, Giovanni, Einaudi 1952 - Il prezzo
dell'oro (poesie), Mondadori 1957 - La suora giovane, Einaudi 1959, poi
Mondadori - Altri libri, tutti Mondadori: Un delitto d'onore, 1961 - Una
nuvola d'ira, 1962 - L'ombra delle colline, 1964.
GIORGIO BASSANI

Roma 1944: pagine

di un diario ritrovato

MARTEDÌ (GENNAIO 1944).


"Roma è come una gran p.; aspetta di farsi f. dagli inglesi dopo essersi
fatta f. dai tedeschi". Fra tutti i discorsi uditi in questi giorni d'attesa, qui a
Roma, questo, sentito fare da C. ieri, verso l'ora d'un tramonto rosa,
stupendamente indifferente, m'è parso il più notevole.
Oggi ho visto di nuovo, davanti all'Adriano, A. Q. Q. è stato, in questi
ultimi anni, una creatura di Bottai (vedi una debole difesa dell'antico
protettore tentata da Q. all'Esperia, alcuni giorni or sono, contro la mia
eloquenza che riconosco giacobinamente volgare). È un grosso e tarchiato
tipo di padano sensuale e felice, Q., la borghesia settentrionale presenta
assai di frequente fisionomie del genere della sua, trasuda calcolo e
furbizia da tutti i pori d'una pelle spessa e arrossata di contadino inurbato
di fresco. Più che farmi la corte — come credevo in principio —, ha l'aria
di proteggermi. Mi ha confidato che nella redazione del "Risorgimento
liberale", di cui egli fa parte, le sue mansioni saranno quelle di sbrigare "la
politica interna". Q. conosce una quantità di gente, che mi viene di giorno
in giorno presentando. M'ha fatto conoscere, tra gli altri, anche un certo G.,
il redattore capo del "Popolo di Roma", un quarantenne deluso e sarcastico
piuttosto simpatico. Circola una curiosa atmosfera di mistificazione morale
tra tutti questi letterati in fregola di stipendi fissi. Atmosfera che,
nonostante l'abile e brillante vernice giornalistica alla "Omnibus", si
avverte anche tra le righe, pur alquanto rigide e impettite — benché povere
di contenuto politico e di vera attualità —, del "Risorgimento". Il Partito
liberale, come mi è apparso finora, mi sembra soprattutto una grossa
impresa giornalistica, nata da accordi tra ristrette camorre letterarie e
importanti fonti di danaro. Viene sussurrato, ad attirare i nostalgici e i puri,
qualche nome innocuo e pesante: Croce, Einaudi... E, per suggello, si
lasciano intravedere montagne di biglietti da mille. Centomila, mi
confidava d'averne nel portafogli il buon Q. Tutti destinati ad acquistar
carta per assicurare un mese di vita al giornale; il primo mese: perché
l'affare ha tutta l'intenzione di tirare in lungo e di prosperare.
Roma attende gli "anglo-americani" con la nostra ansia di perseguitati e
l'allegra febbre degli avventurieri di cui pullula. Si aspettano le fucilate da
un momento all'altro. Oggi il coprifuoco è stato anticipato alle cinque
pomeridiane, a causa di due bombe gettate — pare — davanti al Flora. La
radio ha più volte ripetuto che il Comando tedesco prenderà con
duecentomila lire chi fornirà indicazioni per rintracciare gli esecutori di un
attentato dinamitardo che è costato la vita a due donne. Ma ho idea che gli
attentatori non procureranno duecentomila lire a nessuno, riinghiottiti
come saranno di già da quel gran mare di case che è
Roma. Del resto i tedeschi hanno ben altro da pensare, ora. Il
monsignore che abita nella mia pensione, raccontava, con vaticana
prudenza d'aver visto coi suoi occhi un maggiore della Wehrmacht,
"animoso, come un leone, altre volte", piangere come un bambino. I
tedeschi (e pareva impossibile qualche anno fa) non hanno aeroplani,
difettano di uomini, di cannoni, di munizioni, di benzina. Fanno saltare la
Casilina. Insomma la ritirata da Cassino pare che sia già in atto, ma
attraverso le montagne dell'alto Abruzzo, davano gli inglesi ad Aprilia.
Verso sera, veniva in senso contrario alle corse degli ultimi passanti in
cerca degli ultimi tram, un ufficiale della Guardia Repubblicana col teschio
di metallo sul berretto basso calcato di sbieco, la grinta di cinquantenne
malvissuto e male invecchiato. Teneva sottobraccio due ragazze.
Sfiorandolo, ho colto questa frase: "Sai come si dice in napoletano
Francesca? No? Ciccia". La gente si voltava in fretta a guardarlo con la
stessa espressione d'ira impaurita e maligna dell'eterna plebe quando si
imbatte in un famoso brigante condannato sul luogo del supplizio.
26, MERCOLEDÌ
Per tutta la notte è durata la pioggia, accompagnata da grandine e vento
fortissimo. Non potevamo dormire. Stamattina il tempo è tornato di nuovo
bellissimo, e ha tutta l'aria di resistere. Oggi la radio diceva gli inglesi a
Velletri, a un passo di qua; eppure non si sente uno sparo, sembra che la
città sia circondata da un incantesimo. Ho incontrato, verso mezzogiorno,
T., senza barba, confabulante come sempre in gran segreto. E M., con tutta
la sua buona retorica giovialità romagnola d'improvviso qui a Roma, dopo
tante traversie: ed è stata pure una festa, ritrovarci assieme. Ho visto anche
G., quel N. G., ferrarese, litigioso inquilino di mio padre; il quale mi è
venuto incontro con la cordialità d'un vecchio amico. M'ha parlato di F.,
del "Movimento", della sua collaborazione alla "causa", insomma è poco
meno d'un personaggio, in seno al Partito d'Azione. La sua disinvoltura mi
metteva in imbarazzo. Me lo ricordavo con l'orbace, al seguito di Gaggioli,
di S., di R., fotografo semi-ufficiale del "Padano". Adesso è anche lui
ricercato dalla polizia, naturalmente. Mette conto di parlarne agli altri? Gli
avvocati sono sempre degli avvocati: e il Partito d'Azione andrà a fondo tra
le logorree degli avvocati e dei loro clienti.
Stasera, dalla terrazza della pensione, guardavamo verso i Castelli. Il
sole, riflettendosi nei vetri di lontane finestre, incendiava i paesi lungo il
pendio del colle di Rocca di Papa. Per un momento abbiamo creduto
davvero a degli incendi appiccati da soldati in fuga. Parevano fiamme
torcentisi senza dare fumo. Poi tutto si è spento. Mentre scrivo — ed è già
notte —, sento passare, sulla mia testa i grossi aeroplani da trasporto
tedeschi che vanno verso sud.
27, GIOVEDÌ
Anche ieri sera la ormai abituale partita a carte, tra conoscenze di
pensione: l'attore della radio, il direttore di banca sfollato, la signorina
verso i quaranta. Abbiamo giocato fino a tardi, fino a ciondolare tutti
quanti per il sonno. Ma poi, a letto, il sonno non è venuto che a fatica: e
per tutta la notte ci svegliava ogni tanto il rotolio cupo e continuo degli
aeroplani. Stamattina, di nuovo alle prese col lambiccato e cencioso gergo
spagnolesco del Pasqualigo. Falqui credeva d'aver messo la mano su chissà
che cosa, e pareva fin troppo bello avere scoperto un'anticipazione italiana
del romanzo epistolare francese del sei-settecento. Senonché, attraverso la
fitta e soffocante astrattezza del linguaggio, qui si sente uno spirito
grossamente borghese; parla, rivelandosi a tratti, una società volgare e
materialistica. Tutto il libro è lo specchio d'una cultura approssimativa,
provinciale, da nuovi ricchi. La dattilografa, che è una ragazza di buon
senso, mi vede capitare in ufficio, ogni mattina, con un'espressione di vera
disperazione negli occhi. Mi ha detto: «Chi leggerà mai una "pizza
simile"? Non so proprio darle torto».
Ho incontrato da Hoepli E. B., col vecchio N. dietro, e lei avida e
febbrile più che mai negli occhi lustri. Certo le sono antipatico. La urta
quella società ferrarese dalla quale è stata messa al bando fin dall'epoca in
cui faceva l'amore con Z., degli anni di fame, a Ferrara, a dar lezioni ai
ragazzi, e a sognare una vita regolare e borghese. Ho detto male di lei a J. e
Q. appunto come un borghese pettegolo e maligno. In realtà è difficile
riconoscersi e andar d'accordo, tra compagni di sventura.
Le notizie della guerra sono oggi quanto mai contraddittorie. Stamattina
la radio dava gli inglesi nei dintorni di Albano; ma poi ho sentito smentire
questa notizia da diverse persone. Il tono molto sicuro di radio Roma e il
cauto commento di Candidus di ieri sera hanno frenato gli entusiasmi e
deluso le aspettative. Pare che le cose andranno per le lunghe. L'immagine
romantica del sangue che macchierà la desolata e malinconica campagna
romana mi accompagna, da ieri sera, con una sorta di trista esaltazione.
Nel pomeriggio, sul viale del Pincio, ascoltavamo, fermi accanto all'erma
di René de Chateaubriand, i colpi sordi e ripetuti del cannone. La gente
non faceva caso né al cannone né alle sirene dell'allarme che hanno
suonato poco dopo. La "flânerie" pigra e beata dei pomeriggi al Pincio è
continuata lo stesso, quasi con la medesima eleganza d'un tempo.
Eppure la guerra, scesa la scalinata di Trinità de' Monti, l'abbiamo
sentita ben più vicina di ieri. Lungo il Corso è un trascorrere continuo e
veloce di autocarri, ambulanze, mezzi blindati mimetizzati con fronde e
rame verdissime, soldati sporchi e affaticati. In pieno Corso un ubriaco si è
messo a gridare: «Morte ai tedeschi!»; e due cittadini lo hanno
affettuosamente condotto, presolo sottobraccio, verso palazzo Wedekind.
Poco dopo abbiamo incontrato un altro uomo che camminava in fretta
rasente al muro, gli occhi fuori della testa, spiritato. Borbottava: «Italiani,
tutti porci». Lungo il Corso, la gente stava a guardare sull'orlo del
marciapiede, le mani dietro la schiena.
Ma adesso, qui, dalla nostra stanza, guardando attraverso i vetri della
finestra, mi lascio ancora sopraffare dalla dolcezza del più viola e più
scarlatto tramonto che abbia mai visto; da lembi di cielo puri e verdi come
gli sguardi di certe fanciulle, lembi che s'aprono teneramente tra nuvole
infiammate, a cupola sopra la piazza Cavour già immersa nell'oscurità ma
dove le rotaie dei tram restano a incrinare il selciato deserto come vene
azzurre e splendenti di gelo.
31, LUNEDÌ
Da giovedì, giorni trascorsi in una calma senza riposo. Non ho voglia di
lavorare, di leggere. Ho fame, questo sí; più che mai. Le radio non dicono
nulla. Si ha la sensazione tuttavia che qualcosa di grosso si vada
preparando. La guerra non si sente che per il trascorrere, a tratti, di
invisibili aeroplani, altissimi nel cielo. Roma è circondata da un quasi
continuo, sordo brontolio di detonazioni. L'altro ieri, dal Palatino tutto
dolcemente bagnato di aria azzurra e di sole pomeridiano, pareva un
temporale che salisse dall'orizzonte. Ma ad ogni modo non preoccupava
affatto le molte coppie di innamorati, abbracciati nell'erba con tenerezze
lascive nei gesti, né la frotta di ragazzi sboccati e maneschi che giocavano
al pallone tra le colonne mozze e i capitelli semi-interrati. La guerra, e il
pericolo in genere, invitano all'espansione dei sensi, ad una smemoratezza
pagana. Curioso è anche come tutta la zona del Foro Romano, dacché si è
rilassata la macchina rigida e retorica dell'organizzazione propagandistica
del fascismo, riprenda a poco a poco una sua vita desolata e romantica.
L'erba ha un vigore nuovo, prepotente e disordinato, a ciuffi neri e
scomposti come capigliature. Le grate che limitavano la zona dei marmi,
pencolano sotto la forza dei muschi, le serrature saltano, corrose dalla
ruggine. Lo spettacolo dei marmi gloriosi si va ricomponendo lentamente
in quello di un'umida maceria. Eppure, sebbene l'ora del coprifuoco
s'avvicini, circolano ancora tra le rovine gruppi di soldati tedeschi in visita
di istruzione. Li accompagnano dei preti affabili e faccendieri, con le
lunghe sottane nere agitantisi con vivacità quasi materna nell'ombra che
cresce. I pipistrelli si abbassano a precipizio sulle pozze d'acqua che
lustrano nel buio.
Da oggi, soltanto, anzi da stamattina, si è ritornati all'ansia dei primi
giorni dopo lo sbarco sulle coste del Lazio, quando la situazione dei
tedeschi pareva insostenibile e ci si aspettava la presa di Roma da un'ora
all'altra. Il cannoneggiamento si è improvvisamente avvicinato (i vetri
delle finestre ne vibrano di tempo in tempo), ed è ormai un continuo e
minaccioso suono cupo di bordone che sussulta, a volte, in scoppi
prolungati, in boati fragorosi. Che ci sia qualcosa di mutato nell'aria lo
dimostra il contegno degli stessi tedeschi, nei giorni scorsi quasi febbrile.
Il solito monsignore ci comunica che stanno infatti demolendo a colpi di
dinamite tutta la zona di Centocelle, fortificando la Flaminia e terminando
di rendere impraticabile la Casilina. E non si limitano a questo. Dopo una
mattina tranquilla, spesa per le botteghe di libri attorno al Pantheon e alla
Biblioteca Nazionale (senza aver tuttavia combinato niente in nessun
senso), di ritorno a casa ho trovato la pensione in preda al panico più vivo.
I tedeschi avevano infatti bloccato — come usano fare quando hanno fame
di uomini — la via Nazionale e altre vie nei dintorni della stazione. Gli
uomini, senza discriminazione di età, vengono caricati nei camion come
vitelli, e portati via. Il luogo di scarico del materiale umano è stato questa
volta la caserma di Castro Pretorio. Nel cortile della caserma (come mi ha
detto qualcuno, qui, che s'è potuto salvare scantonando a gambe levate per
strade traverse) è tutto un mare miserabile e confuso di teste, di uomini che
imprecano, reclamano, piangono. La folla è vigilata e tenuta raccolta da un
cordone di truppa: soldati duri e impassibili, armati fino ai denti. Fuori,
davanti all'ingresso, una torma di donne disperate, furibonde, impazzite:
mogli, madri, sorelle, figlie: e s'aggrappano alle sbarre dei cancelli chiusi.
Sembrerebbe come tutti questi prigionieri attendano l'ora della
decimazione, tanto avviliti sono. Non si tratterà, magari, invece, che di
essere avviati a riattare le strade, a scavare le trincee per la guerra tedesca.
Stasera, ad ogni modo, tra un ballabile e l'altro, è stato letto alla radio un
elenco di dieci ostaggi giustiziati nella giornata di oggi «per aver preparato
atti di sabotaggio contro le forze armate germaniche». Vero è che ieri notte
sono stati trovati, sul ponte Risorgimento, i corpi di due soldati tedeschi
crivellati di revolverate.
A mezzogiorno, in piazza Colonna, di fianco a palazzo Wedekind, ho
incontrato V., A., e L. Distribuivano ricevute sottomano. Pareva un gioco
tra scolari. A rendere ancora più viva questa impressione è spuntata da non
so dove, a un certo momento, la faccia familiare di un tale di cui non so il
nome, ma che ho incontrato chissà quante volte tra il Duomo e il Castello,
a Ferrara. Ho udito la sua voce strascicata e affettuosa. Impossibile
resistere al riso, alla festa dei giorni di vacanza.
MARTEDÌ, I (FEBBRAIO, 1944).
Resto in casa per tutta la giornata. Ho conosciuto, qui in pensione, un
certo dottor Gatto, amico di quel Roffi, bolognese, insegnante di francese a
Ferrara, presentatomi da Bert. Ha studiato medicina a Bologna, negli anni
in cui studiare medicina a Bologna voleva pur dire ancora qualcosa: gli
anni di Putti, Nigrisoli, Pincherle, ecc. È tutto permeato di umanesimo e di
entusiasmo intellettuale. Sentendolo ragionare o semplicemente discorrere
del più e del meno, ho l'impressione d'una calma armonia, d'una viva e
misurata intelligenza. Lui stesso mentre parla, s'ascolta volentieri: che è,
anche questa, una delle caratteristiche della scuola dalla quale esce. La sua
erudizione non è affatto straordinaria. Lo direi invece colto. Ha infatti un
gesto sicuro: questo è il segno d'una educazione dello spirito equilibrata e
profonda. Discorriamo di musica e di poesia. Di Bologna, anche. È di
ritorno, ora, dalla Croazia, dove ha fatto la guerra (mi parla dei boschi di
laggiù, profondi, tenebrosi e spiranti lezzo di putredine) e dove lo ha colto
l'armistizio. Per rientrare in Italia ha dovuto fare 250 chilometri a piedi, in
cinque giorni: per sfuggire ai campi di concentramento tedeschi, alle
vendette dei partigiani, alle torture degli "ustascia": al grande calderone
balcanico, insomma. Mi ha dato da leggere un diario di quella che lui
chiama, con terminologia forse inconsapevolmente dannunziana, la sua
disperata avventura. Pare un racconto di Stevenson. L'ansia e l'angoscia
dei fuggiaschi si acqueta nella felicità che offre ancora il ricordo d'una
zuppa preparata al momento giusto da ragazze bionde, con gli occhi celesti
e il tratto virile (partigiane tutte quante, armate di pistola e di pugnale), in
fondo a cucine profonde e accoglienti; d'un sonno senza memoria,
"bestiale", dopo una marcia estenuante. Il fienile odora come un talamo; la
luna di settembre, fuori, brilla sopra le foreste silenziose. «Un paesaggio
da cartolina», aggiunge lui. Io penso al
Friuli di Nievo, delle prime pagine delle "Confessioni", ai suoi colli
verdi, ai suoi castelli, ai suoi briganti. Ma oltre l'incanto letterario che gli
deriva dalla materia stupenda, mi commuove, nel diario di questo ufficiale
italiano, un sentimento di giustizia offeso ad ogni tratto: dallo spettacolo
dei commilitoni ammassati nei campi di concentramento senza pane,
senz'acqua, alla dura necessità di abbandonare la divisa, di nascondersi per
sfuggire al nemico esterno ed interno: i tedeschi e i fascisti. Non c'è che
una sofferenza morale patita assieme che possa ridare un fratello a un
fratello, un esiliato alla sua patria.
MERCOLEDÌ 2
Ore lunghe, penose da consumare. Si sta tutti nella camera da pranzo
comune, a giocare a carte e a fumare. La miscela di tabacco e camomilla
che fumo per risparmio mi rende pesante la testa. Suona l'allarme e
usciamo sul terrazzo. Il rombo del cannone è ora vicino, continuo, non
scemerà che verso sera. La battaglia infuria oltre i colli Albani, nascosta
nella foschia. Dopo un po', si ritorna da basso, assonnati e impazienti, a
girare come fantasmi inquieti per le stanze semibuie, porgendo l'orecchio
al cannone soffocato, controllando l'ora di tanto in tanto.
(Questa notte pensavo a Ferrara e non mi riusciva di dormire. Una città
agreste, con decorazioni di messi dorate per le strade trascorse da lenti
carri di buoi — non dirò guidati da un re assonnato che accenna con la
frusta, lentamente, ai campi aperti. Con viole, covili d'erba, case basse e
cucine a pianterreno: tutto per me, deserto per i miei ritorni dai campi di
ogni sera).
DOMENICA, 6
Da quattro giorni non si sente più il cannone, pare che i ted.
contrattacchino, che Roma non sia più minacciata. Lungo il Corso sono
passate, per tutta la settimana, grosse forze corazzate, e quei famosi
"Tigre" che riempivano di feroce orgoglio gli occhi celesti e infantili della
giovane signora tedesca incontrata da me in tram, a Firenze, il 10
settembre, verso il viale dei Colli. Ho sorpreso un sorriso di modesta
soddisfazione sfiorare le labbra di un borghese, fermo sul marciapiede a
guardare. Il sorriso del vecchio Salotti quando ci fu la presa dell'Albania
non era un po' simile a questo? "Nei circoli rionali lo si sapeva da un
pezzo, è opera nostra".
Hanno fatto sfilare, sempre per Corso Umberto, ottocento prigionieri
anglo-americani. Val. li ha potuti vedere, e me ne racconta con eccitazione.
Passavano ridendo tra la folla silenziosa, scherzando con le guardie
tedesche, mostrando l'indice e il medio della mano divaricati a V, il segno
di "victory" il "vinceremo" anglosassone, insomma. Con un aria tutt'altro
che militare, mi dicono, da gente contenta d'aver finito la sua guerra.
Piuttosto sicuri del fatto loro, peraltro. Uno, allampanato e biondo,
passando davanti a un caffè ha gridato, rivolto a un cameriere appoggiato
allo stipite della porta d'ingresso del locale: "Paesà"; accennando che gli
portasse da bere. La parola, imparata sulle montagne abruzzesi, ha fatto
ridere il pubblico.
Sembra che le retate siano per ora finite. Si dice che abbiano avviato
circa 10.000 persone al lavoro. Ci si azzarda a uscire nuovamente, dopo
una settimana di reclusione, nel sole luminosissimo, nell'aria che ha duri
movimenti di vento gelato.
MERCOLEDÌ, 9
Da qualche giorno dura la polemica tra i giornali romani, tutti neo-
fascisti, e l'"Osservatore Romano", a proposito della irruzione compiuta
nella notte tra il 3 e il 4 nei locali della Basilica di San Paolo da parte della
polizia repubblichina che ha violato i diritti dell'extraterritorialità. Essendo
stati trovati e catturati vari ufficiali (tra cui un generale), i soliti ebrei,
perfino degli ex agenti di P. S., dei giovanotti sfuggiti alle leve fasciste,
degli operai; la maggior parte travestiti con abiti ecclesiastici: i giornali
romani vengono in questi giorni stampando, con caratteristica crudeltà, le
grottesche immagini di questi disgraziati colti sul fatto. Nell'ardore della
polemica, qualche giornalista si lascia prendere la mano da impeti lirico-
descrittivi degni di ben altre corrispondenze di guerra: dove si discorre di
luna, di cavalli annitrenti nella notte, di interrotta quiete notturna, di colpo
di mano felicemente riuscito. E ripugna forse meno la rozza e direi quasi
innocente violenza immaginativa degli uni — non conoscono altra legge!
—, che la sogghignante ipocrisia, armata di argomentazioni velenose, dei
vari tartufi "intellettuali" tipo Spampanato, l'ultimo direttore del
"Messaggero". Riguardo al quale bisogna pure che dica che la sua scoperta
cattiveria, l'abilità con cui temporeggia a forza di lusinghe e sorrisi
cattivanti — nei momenti di tregua —, salvo poi a unirsi più tardi alla
marea montante della violenza e dell'ira scatenate; l'arte varia e molteplice
di contessere il suo quotidiano discorrere di pezzi forti alternati a
"sensibleries" quasi femminee; di imporsi alla bestia popolare (ma
soprattutto alle ultime disperate e taglieggiate falangi della piccola
borghesia italiana sulle quali il moribondo fascismo cerca tuttavia di far
leva) pur avendo tutta l'aria di abbandonarle le redini sul collo: rivelano, se
non altro, un carattere umano d'una complessità negativa straordinaria.
Cosí com'è, in ogni caso, S. rappresenta perfettamente il giornalista
repubblichino tipico: piglio franco, maniere spregiudicate e cordiali,
commozione "sincera", stile essenziale anche se corrivo, qua e là, a vezzi
d'oratoria sanculotta, di neoclassicismo "repubblicano". E che sia
rappresentativo del momento, valga l'esempio, e in un certo senso il
successo — analogo a questo di S. a Roma — di M. Giobbe a Firenze.
Qualche volta, nei momenti di indulgenza e di buon umore, mi viene da
pensare che un grande artista potrebbe servirsi con vantaggio delle
argomentazioni e dei discorsi di costoro: un grande artista che — non
senza obbedire un'alta, amara malinconia — desse a un delinquente,
ferrato di sottile spirito loico, potestà di commemorare una famosa
catastrofe: e mi ricordo di Ser Ciappelletto in punto di morte, di frate
Cipolla tra i villani di Certaldo, e soprattutto dell'Antonio shakesperiano
concionante sul cadavere di Cesare. Ma vero è che nel nostro caso non c'è
possibilità di catarsi. Da segni impercettibili, magari da certi particolari di
punteggiatura, un occhio esercitato si accorge presto, qui, di trovarsi al
cospetto di tipi totalmente volgari, ai quali è lecito attribuire a difetto
anche la circostanza altrimenti attenuante d'essere in fondo in buona fede.
Fossero degli scettici veri, assoluti! Il guaio è invece che questi signori
"credono". E sapete a che cosa? All'efficacia della truffa, del trucco. Siamo
di fronte al comune italiano disonesto, insomma ("furbastro", come dice il
dr. Gatto), persuaso che a cavarsela c'è sempre tempo e modo. Questione
di destrezza...
Ricopio dall'"Osservatore Romano" di oggi: "Il Vicariato di Roma
avvisa che alcuni uomini e donne, italiani e stranieri, sotto vesti di
sacerdote, religioso o religiosa, si aggirano per la città. I fedeli e
soprattutto i rettori di Chiese e le comunità maschili e femminili diffidino,
se non conoscono altrimenti e sicuramente l'identità delle persone, che
sotto tali abbigliamenti loro si presentassero, anche se muniti di documenti
apparentemente rilasciati o vistati dal Vicariato".
Certo la voce del Vaticano, che risponde con misurata eloquenza a ogni
scomposto attacco della muta degli avversari fremente di prepotenza a
stento contenuta, ci fa pur sempre la figura d'una voce educata e signorile
che emerga a tratti in mezzo a un coro sgangherato di avvinazzati.
Nell'assenza ufficiale di ogni altra fonte autorizzata, è ormai solo
dall'"Osservatore"— e del resto ciò dura da vari anni — che la borghesia
moderata attinge ogni giorno un po' di conforto, un po' di speranza. Nel
marasma generale, nell'incertezza angosciosa che attanaglia queste
famiglie di professionisti e di medi rentier bivaccanti nelle pensioni (le
pensioni di Roma pullulano di sfollati appartenenti a questo ceto),
l'"Osservatore" offre pur sempre un appiglio di sicurezza, è l'antico
panorama ragionevolmente liberale che si ripresenta alle coscienze contrite
di questi imperialisti rientrati e delusi. In tali circostanze non deve
sorprendere che il portavoce del Vaticano assuma sempre più la funzione
d'un foglio di un'ideale sinistra: viene letto con amorosa partecipazione,
viene, più che acquistato, trafugato dalle edicole. In realtà, anche oggi,
l'"Osservatore" è un giornale profondamente reazionario. Basterebbe,
definirlo tale, la diffida riporta da me poco sopra. Che è, nel suo genere, un
capolavoro di gesuitismo; e cancella di fatto, collaborando senza scandali
col nemico, il rischio anche solo verbale — delizia tuttavia dei pubblici
moderati — del pezzo polemico contenuto in prima pagina. Del resto si sa:
l"'Osservatore" non può essere un giornale di tendenza appunto perché la
Chiesa stessa è una istituzione sostanzialmente senza tendenze. Non c'è
niente più delle eloquenti e, letterariamente, dignitosissime variazioni in
chiave di Vangelo contenute ogni giorno negli elzeviri vaticani, che possa
dare a uno spirito disincantato il senso della aridità morale della Chiesa,
della sua inesauribile disposizione a subire e ad assorbire gli impulsi
estranei, ad adattarsi agli andazzi. L'accusa che un operaio, giorni fa,
rivolgeva alla Chiesa: di essere cioè per i ricchi, a differenza del Vangelo
che è per i poveri, veniva ribattuta da una penna apparentemente intinta
d'inchiostro liberal-democratico con argomentazioni tipicamente fasciste.
"Criticate gli uomini, non le istituzioni". La solita equivoca manovra. Di
fronte alla quale anche il pittoresco agitarsi di sottane ecclesiastiche per le
vie di Roma e per le anticamere dei conventi in soccorso di profughi e
diseredati, anche la tua opera silenziosa e benefica, caro P. B., anche il
lume di bontà dei tuoi occhi gravi e mansueti, ispirano diffidenza e
sospetto. Un po' come quella stessa arte cristiana, al servizio della
devozione e della edificazione delle anime, auspicata or non è molto da un
articolo evidentemente ufficioso quanto in qualche modo sempre senza
definitivo impegno dello stesso "Osservatore".
Eppure il colonnello P., un siciliano ospite della nostra stessa pensione,
deve anche lui ai buoni padri della Basilica di S. Paolo se ha potuto fino a
ieri sottrarsi alle leve fasciste, alla polizia tedesca. Pare che sia dei pochi
che in quella famosa notte sia riuscito a evitare la cattura acquattato dietro
un comignolo, sul tetto dell'abbazia. Vivacissimo nei gesti e nello sguardo,
come un ragazzo, ha per tutto il corpo la mobilità irrequieta della gente
della sua razza. Ha quarantasei anni e i capelli candidi, ancora folti.
Nell'eccitazione dello scampato pericolo bisognava pur discutere, con lui,
le prime due o tre sere dopo il suo arrivo qui. Non dava tregua a nessuno:
ma del resto il nervosismo era generale, per via della piega che proprio da
quei giorni hanno preso le operazioni militari attorno a Roma. Non s'è
sentito più il cannone, il brontolio amico e quasi paterno dei grossi calibri
avanzanti. Ora, nella calma rigida e pesante, anche il povero colonnello
non sa più cosa dire. S'è chiuso nel più disarmato dei silenzi. Sembra che
ieri, salendo le scale d'uno specialista di malattie nervose, si sia dovuto a
un dato punto mettere a sedere sopra uno scalino, per riprendere fiato. Lo
vediamo solo a cena. Gli altri pasti li prende — credo — da qualche
parente o presso qualche altro convento. Non ha più un soldo, è rimasto,
dopo l'avventura di San Paolo, senza vestiti: sposatosi nel 1938, pensa di
continuo alla moglie giovane, in Sicilia, senza notizie di lui fin dal
settembre. Dorme in un corridoio di passaggio, sopra un letto
improvvisato, vicino alla camera delle serve.
In altri tempi (vista la sua particolare vena di polemista su un piano di
buonsenso, di moralista entro limiti ristretti di convenienza: antifascista,
deplora che si sia perduta la guerra; antiVittorio Emanuele, resta pur
sempre monarchico; antitedesco e patriota, è ossessionato dal «pericolo
bolscevico»), l'avrei detto uomo sufficientemente detestabile. Ora non ho
più la forza di condannare la sua confusione, la sua miseria, da quando la
confusione e la miseria di mio padre hanno cominciato a farmi pietà, e non
mi irritano più; e questo m'è successo da quando sono uscito dal carc.: ma
è solo forse, perché anche il colonnello P., a guardarlo di spalle, gli
assomiglia un po' nella nuca, nella schiena, in qualche cosa di cadente e di
irremissibilmente in rovina che si esprime dalla sua figura del resto ancora
ben più giovanile e aitante? Non lo so. Certo è che il tenente De C., reduce
assieme al dr. Gatto dalla Slovenia, lo immagina, rabbrividendo, a dettar
legge a una tavolata di ufficiali subordinati. De C. subisce l'involuzione
caratteristica del soldato scampato per miracolo a un disastro militare, a
una guerra combattuta senza entusiasmo. Non vuole sentir parlare di
Patria. Della guerra non ricorda che i lati più abbietti, la propria viltà
soprattutto. Aspetta il futuro come chi dal futuro attenda ancora ogni cosa,
la vita ancora non vissuta, intatta, da vivere: quella stessa che un
bombardamento, a Bologna (racconta la sua avventura di due mesi fa con
una sorta di infantile rancore), per poco non gli sottraeva. Per lui il passato
non esiste neppure, è una pausa di tempo che si sforza di cancellare dalla
memoria, ostenta una specie di geloso egoismo che gli fa subordinare il
mondo intero alla sua individualità, al suo forsennato bisogno di libertà e
di indipendenza: mentre per il colonnello P. il passato è tutto in esso egli
ritrova moglie, divisa, re. Patria, disciplina, prestigio. La sua vita.
Queste potrebbero sembrare effusioni letterarie. Ma ad ogni modo è
certo che da qualcosa di simile a tale contrasto, sia pure schematico e
rigido, di atteggiamenti (di generazioni, diceva non a torto lo stesso
raziocinante colonnello), è nata la discussione dell'altra sera. La quale, se
ha avuto anche una parentesi di comicità (a un certo punto è perfino volato
per terra un bicchiere), tuttavia sono sicuro che riproducesse in qualche
modo il maggiore ma sostanzialmente identico dibattito che dura da tempo
in Italia tra gente che vive di memorie e gente che vive di speranze. Per
nessuno — adesso più che mai — il presente esiste, in esso non vive
nessuno. Un incubo doloroso e confuso: i nostri giorni sono questi.
VENERDI, II
Gatto e De C. sempre mi vengono raccontando della loro guerra, pare
come certi acerbi e amari racconti giovanili di Stuparich, di Gambini... È
una materia che lievita subito in me, forse scriverò un giorno la storia di
Bandina, di Mira, di Zlata, la storia delle piccole società romantiche di
Mocronog e di St. Vid? Prendo appunti, per la prima volta penso con
intensità a un romanzo. I cieli celesti, le acque verdi e pulite della Krka, le
tenebrose selve dei Gorfangi, questo porto ora in me come un talismano. I
baci di Mira, l'ardore delle sue gambe nude, madide nell'erba, tutto
avvolge un sentore acuto di resina; in Mira solo, nella sua fierezza, risento
la Tatiana impossibile dei miei ultimi anni delusi...
Dunque è proprio cosí: siamo di nuovo in alto mare. La posizione degli
Alleati sulla testa di sbarco di Anzio si è andata facendo, dopo i primi
giorni di euforia, sempre più critica. Parlano — e non solo i giornali! — di
una probabile nuova Dunquerque. Le speranze di una liberazione
svaniscono tra telefonate in gergo fra amici, ecc. Di nuovo viviamo in una
fascia di silenzio interrotta due o tre volte al giorno dagli ululati, cui
nessuno bada, delle sirene d'allarme. Incontro Q. sempre informatissimo.
Mi annunzia, tra l'altro, la morte di Leone Ginzburg avvenuta in carcere
giorni fa, e smentisce che l'abbiano accoppato a forza di bastonate. Per
tutt'oggi è circolata per Roma la notizia, non confermata poi da nessuna
ulteriore fonte autorizzata, di un nuovo sbarco dalle parti di Civitavecchia.
Fuori piove, a tratti; un vento gelato abbassa contro la terra le nuvole
pesanti, non so come difendermi dal freddo alle mani che mi si gonfiano
per i geloni.
GIOVEDÌ, 17
Nuovo capovolgimento di situazione. Dopo giorni d'angoscia, altri di
speranza. Di nuovo il rotolare dei cannoni, spesso vicino, echeggiato
lungamente con risonanze profonde nell'aria aperta, limpida e fredda come
d'alta montagna. Ogni tanto, a intervalli spesso cortissimi, la sirena
d'allarme. Passano centinaia e centinaia d'aeroplani sulle nostre teste. La
vita borghese si svolge quaggiù con una tenacia quasi eroica, commovente.
Signore abbigliate come ai tempi d'oro della prosperità, caffè affollati,
parole di speranzosa letizia colte sulle labbra purpuree di giovinette che
passano, allacciate, lungo la proda, tiepida di sole del Tevere. Ma questi
sono gli egoisti, ai quali la vita darà ragione sempre. Il vecchietto che
stamattina m'ha offerto, senza esserne richiesto, un fiammifero per
accendere la pipa non era di quelli. Aveva bisogno di sentirsi insieme a me,
d'aiutarmi, di risentirsi uomo tra uomini. Aveva bisogno di raccontarmi,
balbettando per il freddo che gli intirizziva le labbra, una sua storiella
allegra. Anch'io, pur non avendo capito che a metà le sue parole, avevo
bisogno di sorridergli, di far festa con lui. Nella bottega affollata si è
subito, attorno a noi, creato un circolo di affettuosa e amara solidarietà.
L'unica, a esserne esclusa la sussiegosa proprietaria del locale, vittoriosa
ma condannata lassù sul suo banco.
SABATO, 19
Ho incontrato P. De S. Piuttosto limitato e deluso, in faccia, visibilmente
stanco. Ha tenuto a precisare che si tratta di fatica fisica, non morale. In
questi ragazzi c'è un'ostentazione moralistica che è terribilmente ingenua.
Parlare di "fede", per loro, non è affatto improprio. Non potremo mai
essere amici. Quando ti parlano, gli occhi stabiliscono subito una distanza
morale invalicabile, tra te e loro. Le parole divengono inutili, allora, una
specie di vuoto formalismo che richiama quello che si forma comunemente
parlando coi preti. Non abbiamo in realtà niente da dirci. Eppure il mio
vizio consueto — bisogna che lo riconosca in me come un vizio! — di
pretendere rapporti più caldi, intimamente umani, mi porta a offrire troppo,
a sbracciarmi senza costrutto in promesse che non potrò mai mantenere.
Resta poi l'amaro di non essersi ritrovati amici di sentirsi tuttavia estranei,
e di aver mancato alla propria dignità.
Il suo pessimismo è del resto conforme a quello di G. P., intravisto l'altro
giorno in autobus. Non so fino a che punto sia il frutto d'un atteggiamento
personale, d'una personale valutazione dei fatti, o piuttosto il risultato
d'una «presa di posizione ufficiale delle sfere autorizzate». E ripenso al
Marchesi, al suo sorriso distante, cordiale e fanatico.
Visto anche L. Nel pomeriggio quasi domenicale siamo andati a spasso
per il lungotevere, sotto gli alberi spogli, nel sole scialbo e pur festoso.
L'appuntamento me l'aveva procurato G., al ponte Garibaldi. L'attesa
cominciava già a pesarmi, accanto all'edicola dei giornali; quand'ecco l'ho
visto che attraversava la strada con quell'andatura sua caratteristica,
dinoccolata e lenta, come di chi secondi volenterosamente, anche con la
persona, l'interna infinita probabilità dei pensieri, l'umanissima perplessità
del giudizio. Il viso di L. è mobile e dolce, con un che di vago nei
lineamenti che rasenta l'imprecisione. La bocca ironica e triste, libera quasi
a fatica, sorridendo ad ogni tratto, le parole. Gli occhi soltanto, socchiusi
dietro le lenti spesse, risplendono in una fissa chiarezza. La fronte ancora
giovanile, è sgombra e serena sotto il ciuffo dei capelli grossi e lunghi da
ragazzo studioso. Anch'egli è pessimista. Mi parla di divergenze in seno al
C. di L. Ha parole di accorata pietà per i compagni morenti nella casa di
via Tasso, il covo della Gestapo. L'intima inquietudine, l'incertezza di sé e
della efficacia della propria opera, la diffidenza intellettuale del ragionare
me lo tanno caro ed amico.
GIORGIO BASSANI
Bassani è nato a Bologna da genitori ferraresi nel 1916. Sino al '43 è
vissuto a Ferrara e ha partecipato alla lotta partigiana. Trasferitosi a
Roma ha lavorato per il cinema, nel giornalismo e come consulente di
case editrici. È redattore delle riviste «Botteghe Oscure» e «Paragone».
Da quest'anno è anche vice-presidente della RAI-TV. Ha vinto il premio
«Veillon» e 2 volte il premio «Strega».
OPERE PRINCIPALI: Storie di poveri amanti, Astrolabio 1946 - Un'altra libertà
(poesie), Mondadori 1952 - Gli ultimi anni di Clelia Trotti, Nistri-Lischi
1955 -Cinque storie ferraresi, Einaudi 1956 - Gli occhiali d'oro, Einaudi
1958 - Il giardino dei Finzi-Contini, Einaudi 1961 - Dietro la porta,
Einaudi 1963.
GIUSEPPE BERTO

la luna è nostra

BENE: LÀ DOVE fino ad oggi non sono ancora approdate le ambizioni


cosmonautiche sia della Unione delle Repubbliche Sovietiche che della
Unione degli Stati Uniti d'America, un italiano qualsiasi, certo Febo
Còrtore da Castrovillari in provincia di Cosenza, ce l'ha fatta: è riuscito ad
arrivare, sia pure con qualche inconveniente, sulla Luna. Una cosa
semplicissima, in fondo, paragonabile addirittura all'uovo di Colombo, e
ripetibile a volontà e con poca spesa, se il segreto ne fosse rivelato. Ma
temo che questo, ormai, non sia più possibile.
Febo Còrtore io lo conobbi qualche tempo fa, per puro caso, poiché,
com'era del resto ben prevedibile, mi si ruppe la frizione della 600 un
chilometro o poco più fuori da Castrovillari, sulla strada verso Cosenza.
Un brutto contrattempo, considerando che a Cosenza avevo chi mi
aspettava per condurmi in Sila, dove mi sarei dovuto incontrare col famoso
brigante Manzarrone per un'intervista che avrebbe senza fallo risollevato le
mie sorti al giornale dov'ero vicecronista, viceredattore della terza pagina
e, all'occorrenza, inviato speciale. Era già la quarta volta che tentavo un
contatto con questo Manzarrone che nella mia mente era diventato una
specie di ciambella di salvataggio per la mia carriera, ma sempre, per una
ragione o per l'altra, l'appuntamento era andato a vuoto. Questa volta, però,
emissari fidati venuti a cercarmi fino a Roma, m'avevano data la cosa per
sicura, e invece un banale incidente di macchina mi fermava sulla soglia
del successo. «Un meccanico: dov'è un meccanico?» chiesi ad un uomo
tutto vestito di nero che transitava seduto su di un asino.
Quello proseguí per la sua strada senza rispondermi nulla, forse
perché apparteneva ad un'epoca in cui la meccanica non era ancora
penetrata, oppure era semplicemente sordo. Per fortuna saltò fuori un
ragazzino che mi indicò una bassa costruzione a cubo poco lontana. «È
bravissimo», disse intuendo ch'io avevo bisogno d'un incoraggiamento, ma
subito dopo si toccò la fronte con un dito, nel modo che s'usa per
significare che qualcosa non funziona nel comprendonio, e non si capiva
se si trattava del comprendonio del meccanico, o mio. Comunque, non
c'era altra scelta.
L'elementare cubo che ospitava l'officina era una mediocre
costruzione di blocchi di cemento senza intonaco che esibiva, appeso a
bandiera sopra la porta, un cerchione arrugginito da bicicletta. Una scritta
mezzo scolorita aggiungeva il concetto: Officina riparazioni motocicli e
poi, in tinta più fresca, anche auto, cosicché risultava evidente che, alle
auto, il proprietario era arrivato solo di recente. Sul retro del cubo si
notava un insolito recinto a pareti altissime, fatte di vecchi tabelloni
pubblicitari, che s'allungava per una ventina di metri nella campagna, con
brandelli di scritte inneggianti a questo o a quel prodotto. Non si
scorgevano altre case intorno.
Quando entrai e vidi Febo Còrtore, ebbi l'immediata percezione di
trovarmi davanti ad un uomo straordinario, e non del tutto ignoto. Magro e
alto, all'incirca della mia stessa età o forse qualche anno più avanti, vestiva
una comune tuta azzurra da meccanico, non eccessivamente sporca. Aveva
un volto mesto, consapevole e lunghissimo, che finiva in uno spazzolino di
barba fluttuante, e gli occhi incavati, ora assorti in malinconia, ora
vivissimi per sprazzi d'incredibile intelligenza. In complesso, un volto da
pazzo, o perlomeno da nevrotico che non si cura. Un tipo cosí, io dovevo
averlo già conosciuto: ma dove, in quale occasione della mia vita dispersa?
In guerra, forse, o in prigionia. Dopo avermi dato una sommaria occhiata,
per quanto fosse facile intuire che io non potevo essere se non uno che
aveva bisogno di lui, s'era messo a guardare con non comune intensità un
grosso vaso da sottaceti che si trovava sul balcone in mezzo agli attrezzi, e
che conteneva quattro o cinque pesci rossi volteggianti con una certa
solennità. «Io avrei un po' di premura» azzardai dopo qualche istante.
Si staccò malvolentieri dalla contemplazione di quei pesci, come uno
preso da un'idea somma, che fa fatica ad applicarsi ad altre cose. «Il
segreto è tutto qui» disse, evidentemente riferendosi ai pesci: una frase il
cui vero significato, allora, mi sfuggí.
Poi, bontà sua, dimostrò sufficiente interesse per il mio caso.
Andammo insieme alla 600 e senza perder tempo volle provarla, sentí che
il motore rispondeva e costatò che, con tutta la marcia ingranata, la
macchina non si spostava d'un millimetro. Concluse che si trattava proprio
della frizione, come avevo opinato. «Quanto tempo ci vorrà per ripararla?»
gli chiesi. «Quattro ore, se siete disposto a darmi una mano.» «Non si
potrebbe far prima? Pagando, si capisce.» «Neppure a Torino riuscirebbero
a far prima» rispose dando un taglio netto all'argomento.
Insieme spingemmo la macchina fino all'officina, sopra una buca
scavata nel pavimento, dove egli subito si calò per mettersi al lavoro. Io
non avevo nient'altro da fare che porgergli ora questo ora quell'altro
attrezzo. Di quando in quando mi chiedeva anche di tenergli in modo
particolare la lampada collegata alla spina con un lungo cavo di gomma.
Erano le uniche parole che dicesse, cosa assai strana per un meridionale. In
poco più di un'ora riusci a smontare tutto e mi mostrò il disco della frizione
che, di fatto, era completamente logoro: si trattava d'una macchina
vecchia, con un passato forse laborioso, che io avevo acquistato di seconda
mano in un momento di buona speranza.
«Salgo in paese, a comprare il disco di ricambio» mi disse montando
su di una vecchia bicicletta. Lo guardai allontanarsi sulla strada, un uomo
molto magro che anche pedalando riusciva a suggerire l'idea d'una
tremenda serietà interiore, come possono fare appunto i matti, o anche i
santi, da un diverso punto di vista. E nonostante questo continuavo a
chiedermi dove mai l'avessi conosciuto: gli occhi, soprattutto, ma anche il
viso magro e lungo, e perfino il pizzo fluttuante, mi richiamavano
un'immagine nota. Forse in guerra, nella confusione d'una battaglia, ad
onta della sua aria disarmata, poiché veramente sono proprio i tipi
disarmati che si cacciano nei peggiori pasticci. Cosí pensavo a lui anche
dopo ch'era sparito, guardando soprappensiero la strada e il paesaggio,
entrambi di scarso interesse.
Rientrai nell'officina, dov'era rimasta accesa, posata sul pavimento la
lampadina portatile che ora buttava una luce tagliente su alcune cose,
lasciando del tutto in ombra alcune altre. Mi avevano incuriosito delle
fotografie appiccicate alle pareti che prima, per un riguardo al meccanico,
non avevo guardato da vicino. Non erano fotografie, bensì ritagli di
giornali illustrati con le immagini degli astronauti, sia russi che americani,
gente dalla faccia solida e pacata, e quindi tutt'al contrario di Febo Còrtore
il quale, non solo aveva ritagliato e appiccicato quelle figure, ma sotto
alcune aveva messo un'annotazione a penna. "Zoppicante", c'era scritto
sotto l'americano Glenn. "In gamba," c'era scritto sotto Gagarin, mentre
Valentina era ornata con un punto interrogativo giusto sull'occhio destro.
Non mancava, si capisce, tutta una serie di illustrazioni raffiguranti quel
russo, Leonov mi pare, che se n'era uscito dalla capsula per volteggiare nel
vuoto, ma in verità erano illustrazioni assai confuse, che avrebbero potuto
benissimo rappresentare un'altra cosa qualsiasi. Lí accanto poi c'era anche
un disegno forse astratto, ad acquerello, macchie vivacissime su sfondo
scuro, corredato da una scritta dovuta ad un certo L., con ogni probabilità
proprio quel Leonov: «Il cielo viola scuro, le grandi stelle immote,
l'accecante disco solare che sembra metallo fuso danno un'impressione
indimenticabile.» In un angolo del locale, sotto un cartello che diceva:
Attenzione!!! Non fumare!!! Pericolo di morte!!!, c'erano tre bidoni che, se
rispondeva al vero l'etichetta che esibivano, contenevano rispettivamente
benzina, petrolio e carburo di calcio. Sulla parete di fondo una robusta
porta di quercia massiccia era chiusa da un catenaccio e da un lucchetto
molto spropositati: di lí, senza dubbio, si usciva nel grande recinto di
tabelloni pubblicitari che avevo notato arrivando. Scoprii anche una grossa
cartella piena di ritagli di giornali con illustrazioni delle macchine e delle
strutture di lancio spaziali, stranamente mescolate con figure di opuscoli di
fantascienza, dove si vedevano deformi esseri extraterrestri con la testa
dentro bolle di vetro, e le antenne come le radio e magari un occhio solo
collocato su di un periscopio. Anche su queste illustrazioni il fantasioso
meccanico aveva annotato qualcosa, e ad esempio sotto la fotografia del
lancio d'un Thor-Able a Cape Kennedy aveva scritto: "Il rumore non è
forse energia»" C'era infine una quantità di disegni suoi, in gran parte
vivacissimi acquerelli, raffiguranti paesaggi cosmici o macchine astrali
piuttosto rozze, con formule algebriche lunghe talvolta tre o quattro
pagine. Per la verità, alquanto tocco doveva essere, quel Febo Còrtore. E
poi, i pesci rossi: che razza di segreto potevano contenere? Si trattava
d'animali molto stupidi, come lo sono in genere tutti quelli che si muovono
con solennità, e per di più pavidi: correvano tutti a rifugiarsi da una parte
non appena mi avvicinavo con un dito al vetro.
Febo Còrtore tornò che ormai era buio, con grande ritardo. A
quell'ora io mi sarei dovuto trovare nella chiesa di San Francesco a
Cosenza, appoggiato con un gomito all'acquasantiera di destra, pronto a
seguire una vecchietta che si sarebbe fatta tre volte il segno della croce,
tutte e tre le volte intingendo la mano nell'acquasantiera e pronunciando la
frase: "Santa Rita proteggimi tu." Addio, Manzarrone, e il salvataggio della
carriera mi appariva dubbio come non mai.
Febo Còrtore era tornato che puzzava un po' di vino, brontolando
contro il malcostume dei rivenditori di pezzi di ricambio che invece di
starsene nel negozio a disposizione dei clienti andavano a rintanarsi
nell'una o nell'altra delle numerose osterie del paese. La ricerca del
rivenditore adatto da parte del Còrtore doveva essere stata, immaginavo,
piena di soste. Ma tutto il malanimo che avevo accumulato cadde non
appena egli mi fu davanti col disco nuovo della frizione. Prima di tutto
perché dentro di me avevo sempre dubitato della possibilità di scovare una
cosa simile a Castrovillari, e poi perché Febo Còrtore possedeva nel fondo
della sua aria risecchita un che d'infantile e genuino, che non consentiva di
volergli male. Tirò fuori un'altra tuta da meccanico rattoppata ma
pulitissima e mi consigliò d'indossarla, dato che ora era necessario ch'io
pure scendessi nella buca a dargli una mano per stringere i bulloni.
Lavorammo cosí tre ore a fianco a fianco, e naturalmente non era possibile
star zitti tutto quel tempo. Tra un bullone e l'altro, mentre si montava e poi
si registrava la frizione, io gli raccontai certe avventure un po' inventate
della mia vita di giornalista della capitale, e pure lui alla fine si lasciò
andare a qualche confidenza. Non gli sarebbe spiaciuto, confessò, fare il
giornalista, o meglio lo scrittore, ma era del parere che prima di
cominciare fosse necessario correre qualche avventura del tutto
straordinaria. Dopo che ero andato a ficcare il naso nelle sue carte, non
faticavo a immaginare cosa egli intendesse per un'avventura del tutto
straordinaria: certo qualche impresa spaziale. C'era da ridere, ma quella
distinzione che lui aveva fatto tra giornalisti e scrittori a tutto vantaggio dei
secondi m'aveva un po' irritato, perciò gli dissi che per scrivere occorreva
qualcosa di più dell'esperienza: grammatica e sintassi, ad esempio, ed uno
stile, per quanto rudimentale. Ciò non lo imbarazzava per niente, affermò,
poiché aveva fatto degli studi, e piuttosto bene, sia nelle materie letterarie
che in quelle scientifiche, sebbene ai suoi tempi non si desse gran peso alle
materie scientifiche, specie in seminario dov'era stato dodici anni,
ultimando perfino i corsi di teologia prima d'accorgersi di non essere
tagliato per fare il sacerdote.
«Donne?» gli chiesi, con l'intenzione di spingerlo a maggiori
confidenze.
Mi guardò pietosamente. «Macché donne» rispose. «L'obbiettivo
unico e perenne rimane Dio. Soltanto che, con tutto il progresso scientifico
che c'è stato, non possiamo più accontentarci d'un Dio teologico o
filosofico. Dio esiste, fisicamente, in noi e attorno a noi. Non possiamo
vederlo, va bene, ma fino a quando? L'equazione di Einstein, velocità
eguale tempo, non vi dice nulla? Forse basterà soltanto staccarsi da questo
pianeta con la velocità di fuga per toccare immediatamente il concetto di
eternità e quindi accorgersi della natura fisica di Dio. Non siamo molto
lontani da ciò, ve l'assicuro.»
Nonostante la mia persuasione che fosse matto, una certa suggestione
riusciva egualmente a crearla, anche perché maneggiava con somma
perizia pinze e chiavi inglesi. «Intendete dire che è prossimo un viaggio
extraterrestre?» gli chiesi.
«Siete giornalista, no?» ribatté seccamente. «Bene, lasciatemi il
vostro indirizzo. Un giorno riceverete un telegramma: non avrete che da
ubbidire.»
Poco dopo, ma erano ormai le undici di sera, la 600 era pronta. A
Febo Còrtore avevo dato il mio biglietto di visita e diecimila lire quale
giusto compenso per le sue prestazioni. Al momento di stringergli la mano
mi sentivo commosso, e forse pure lui lo era, faticavamo a trovare le
parole per l'ultimo commiato. «Febo» gli dissi d'un tratto con incontenibile
familiarità, «non hai anche tu l'impressione che ci siamo già conosciuti in
qualche posto? In India? In Africa?»
«In India non ci sono mai stato» rispose con voglia di cambiare
argomento. «Ma in Africa?» insistei.
Mi guardò dritto, come faticando per tirar fuori un ricordo, ma poi di
colpo si mise a ridere: «Ma no? Sarebbe proprio bella! In Africa!»
Tuttavia il suo modo di fare non mi aveva convinto. Mentre correvo,
ormai senza fretta, verso Cosenza, ci pensavo e pensavo. Febo Còrtore era
lí davanti a me, grandioso e mobile nella luce dei fari, pieno d'incognite
come un fantasma. Un uomo eccezionale. Ed ecco che con un brivido
improvviso mi venne l'illuminazione: ma sí, come mai non mi era saltato
in mente subito? Bastava mettergli in testa un bacile di rame rovesciato e
in mano una lancia, e sotto il cavallo Ronzinante. Era proprio lui, Don
Chisciotte della Mancia, tale e quale come nelle illustrazioni del libro che
m'incantavo a guardare da bambino. Ciò spiegava anche tante altre cose. E
l'idea d'aver incontrato il grande hidalgo Don Chisciotte che nell'anno di
grazia 1965 faceva il meccanico a Castrovillari, mi riempí di perfetta
letizia.
I due giorni seguenti li passai appoggiato all'acquasantiera di destra
nella chiesa di San Francesco a Cosenza, ma di vecchiette che venissero a
dirmi: «Santa Rita, proteggimi tu», neppure l'ombra.
La sera telefonai al giornale. «Capo, Manzarrone al solito non s'è
fatto vedere...»
M'interruppe con una serie fitta di insolenze, nelle quali peraltro
riuscí a far entrare tutto, dalla mia inettitudine alle maggiori spese che
l'amministrazione aveva affrontato per il mio viaggio.
«Ma, Capo» arrivai a dirgli ad un certo punto. «Ho trovato a
Castrovillari un tipo curioso, una specie di matto che somiglia a Don
Chisciotte. Ci potrebbe saltar fuori un bel servizio...»
«Che vuoi che gliene freghi alla gente di Don Chisciotte?» gridò
dall'altra parte il redattore capo, il cui disprezzo per la cultura era
proverbiale perfino in un ambiente di modesta levatura, com'era il nostro
giornale.
«Ma, Capo» provai ad insistere. «È un uomo straordinario... un ex-
prete...»
«Bravo, proprio adesso ti vuoi mettere a parlare di ex-preti? Non hai
un briciolo di sensibilità giornalistica. Piglia la macchina e corri a Taranto.
Pare che nel Mar Piccolo sia entrata una balena lunga venti metri. Cerca di
farci anche qualche fotografia. E niente letteratura, mi raccomando: il
paesaggio non interessa.» Corsi a Taranto, dove naturalmente nessuno
aveva mai sentito parlare di balene. Perciò mi spedirono d'urgenza a
Trivento, nel Molise, dove un pastore del luogo aveva sterminato a
randellate la famiglia della fidanzata, nove persone compresi i bambini.
Quindi rientrai a Roma, alla solita routine. Febo Còrtore da
Castrovillari rimase nel mio ricordo come uno dei tanti personaggi di cui ci
piacerebbe scrivere, e ne verrebbe facilmente fuori un pezzo rivelatore, ma
dei quali, condannati come siamo alla mediocrità, non scriveremo mai.
Invece un paio di mesi più tardi, mi pervenne il seguente
telegramma: «Attendoti domani sera ore ventitré stop conferma
telegraficamente altrimenti inviterò locale corrispondente Gazzetta Calabra
stop abbraccioti Febo.»
La sera dopo, alle dieci e tre quarti, fermavo la 600 davanti
all'officina di Febo Còrtore, un chilometro o poco più fuori da
Castrovillari. La porta era chiusa, da dentro non filtrava luce e l'unico
rumore che si sentiva era un vasto cantare di grilli. Notte ideale per
avventure nello spazio: serena e senza vento. Suonai il clacson più volte e
battei forte alla porta, ma non ottenni risposta. Mi misi a sedere nella
macchina, coi vetri chiusi, perché faceva fresco. Tutto sommato, non ero
proprio sicuro d'aver fatto un affare. Quando gli avevo parlato di
Castrovillari, il Capo s'era messo a sbraitare, e io allora, con imprudente
entusiasmo, gli avevo proposto che se non fossi tornato con un servizio
sbalorditivo, tale da mettere in ginocchio tutti gli altri giornali della
capitale per non dire d'Italia, nessuna indennità mi sarebbe spettata, e in
più l'amministrazione avrebbe avuto la facoltà di conteggiarmi come ferie i
giorni d'assenza.
Ma alle undici in punto la porta dell'officina si aprí e mi apparve
Febo Còrtore: grosso, goffo, imprevedibilmente rivestito da capo a piedi
con una di quelle tute di gomma che i sommozzatori adoperano per le
lunghe immersioni: sembrava un marziano di statura superiore a quella che
di solito viene attribuita ai marziani, ed eccezionalmente grasso. Il volto,
però, risaltava più magro che mai, quindi era evidente che sotto la tuta
s'era ben bene imbottito di lana o di qualche altra materia. Con cenni
misteriosi m'invitò ad entrare e richiuse la porta prima d'accendere la luce.
Era, come sempre, consapevole, o meglio tale appariva, e l'idea ch'io mi
potessi meravigliare per il suo abbigliamento non gli passava neppure per
il cervello. Mi portò davanti al vaso dei pesci rossi. «Mi sono molto cari»
spiegò dopo averli guardati sufficientemente a lungo. «Domattina gli
cambierai l'acqua e gli darai un pizzico di cibo, non molto, perché sono
inclini alle indigestioni. E promettimi che avrai cura di loro, se per una
ragione qualsiasi non dovessi tornare.»
«Che, parti?» gli chiesi.
Assentí gravemente e poi spiegò: «Tra un quarto d'ora vado sulla
Luna.»
«Benissimo» risposi cercando di non dare importanza alla cosa. Il
suo aspetto tranquillo non mi faceva considerare la circostanza come
immediatamente pericolosa. «Quanto ai pesci, non darti pensiero:
provvederò io.»
«Ci tengo» replicò. «L'idea prima mi è nata proprio da lí: l'acqua è
una materia praticamente incomprimibile. Io viaggerò immerso in una
soluzione fisiologica. In questo modo eviterò anche i danni
dell'accelerazione e delle eventuali scosse. Pensa al feto nel grembo
materno.»
«Ci penso» lo rassicurai.
«Naturalmente, non posso affermare d'aver tutto previsto. Tra l'altro,
ho dovuto operare con mezzi limitatissimi. Ad esempio, so che tra gli
ottomila e i dodicimila chilometri incontrerò una temperatura esterna di
centocinquanta gradi. Se la soluzione si mettesse a bollire, finirei lessato
come un pollo.»
«Non c'è dubbio» confermai.
«Viceversa, più avanti incontrerò temperature bassissime. Ti
immagini cosa accadrebbe se la soluzione gelasse?» «Sicuro che me
l'immagino.»
«Io confido che l'isolante mi proteggerà. Del resto, queste imprese
eccezionali non si possono tentare senza qualche rischio.» «Dici bene. E
che farai, una volta sulla Luna?» «Questo non lo posso prevedere. Ad ogni
modo, ti terrò informato.»
«Grazie tante» gli dissi. «Sei un amico.» Senza perdere tempo a
rispondermi, si avviò alla porta di quercia massiccia e la aprí. Scorsi subito
l'enorme aggeggio: era un grosso tubo lungo una dozzina di metri, come
tanti fusti da benzina saldati insieme, che un'incastellatura di legno teneva
sollevato verso il cielo. Era dipinto a strisce fosforescenti di vario colore e
tutto copertola scritte. Riuscii a leggerne una, in latino: «Si spiritus prò
nobis, quis contra nos?»
«Febo» gli dissi. «Io per te farei qualsiasi cosa, ma non chiedermi di
collaborare in questa faccenda. Neppure un fiammifero accenderei.»
Sorrise mestamente. «Non arriverai mai alla poesia» disse. «Non
temere: farò tutto da solo e il tuo unico compito sarà di essermi testimonio.
La vanità è il mio punto debole, spero che mi scuserai. Ci tenevo ad avere
un giornalista della capitale, non altro.» Ciò detto mi condusse ad uno
sgabuzzino, fatto anche quello con vecchi tabelloni pubblicitari. C'era un
telescopio rudimentale ma abbastanza imponente, come se ne vedono
tuttora in certe fiere di paese per guardare la luna a pagamento, e c'era una
specie di banco da scuola con una radiolina, una lampada a campana, un
quaderno a righe ed una penna a sfera. «Serve per gli appunti, se vorrai
prenderne» mi disse. «La radio è già sintonizzata. Mi sentirai, ma non
potrai comunicare con me: non mi
bastavano i soldi per una trasmittente da terra. D'altra parte, a che
servirebbe? Il telescopio è più che altro per tuo divertimento: vedrai dei
bellissimi colori.»
Lo seguivo e ascoltavo col pensiero altrove, ossia preoccupato
dell'articolo: poteva tutto ciò riuscire interessante?
«Ed ora aiutami a infilare le cinghie» mi disse Febo. «Questo lo puoi
fare senza comprometterti, no?»
Lo aiutai a sistemarsi sulla schiena due grosse bombole da
respirazione. Era soprattutto un segno di simpatia che voleva da me,
perché all'occorrenza avrebbe anche potuto sistemarsele da solo. Poi prese
la maschera e si avviò. «Non mi accompagni?» chiese dopo qualche passo.
Mi scossi dal torpore e lo seguii in fondo al recinto e quindi su per la
ripida scaletta a pioli che conduceva alla punta dell'aggeggio. In alto c'era
una piccola piattaforma dalla quale lo sguardo poteva spingersi per largo
spazio all'intorno. Lontano, sopra una linea di basse colline a levante, la
luna era sorta, ovverossia un grosso pezzo di luna, come una spugna
imbevuta di rosso, piena di dubbi presagi. «La Luna» egli sospirò
guardando.
«Quando ci arriverai?» gli chiesi tanto per dire qualcosa.
«Vedi la mia direttrice di lancio?» rispose. «Io e la Luna abbiamo
appuntamento lassù, a 384.365 chilometri. Se tutto va bene, accadrà verso
le cinque di domattina. Per te quaggiù sarà l'alba.»
«E per te?»
«Imprevedibile, assolutamente imprevedibile» rispose a bassa ' voce.
Poi mi afferrò in fretta la mano destra e aggiunse: «È venuto il momento di
salutarci: da prodi, senza sentimentalismi. Fa conto che potrei essere di
ritorno anche domani sera. In ogni caso, a parte una gentildonna vissuta
tanto tempo fa, non ho nessuno da ricordare in modo particolare sulla terra.
Tutti, all'infuori di te, mi prendevano per matto.»
«Ma che dici? Sarà stata una tua impressione!»
Nonostante la buona volontà, la frase non fu pronunciata con la
necessaria persuasione, e lui dovette accorgersene. Bruscamente lasciò la
mia mano che ancora teneva e si applicò la maschera. Per quanto fosse
imbottito come un esquimese, superò abbastanza agilmente l'orlo del fusto,
s'immerse fino al collo nella soluzione fisiologica e afferrò il coperchio per
chiuderselo sulla testa. Fu allora che vidi la scritta sulla punta: Dulcinea.
«Febo, Febo!» lo chiamai. «Lo sapevi anche tu di essere Don
Chisciotte?»
Non scorsi la sua espressione perché aveva la maschera. Quanto alle
parole, si limitò a gridare con una voce irriconoscibile attraverso i tubi di
gomma: «Scendi subito emettiti un po' discosto.» Il coperchio di colpo
abbassato lo nascose alla mia vista.
Scesi la scala, mi allontanai come mi aveva detto e mi rigirai a
guardare. La prima probabilità era che con quel grosso aggeggio
fosforescente non accadesse assolutamente nulla. La seconda era che
accadesse qualcosa, e in questo caso l'enorme bussolotto sarebbe crollato
con grande fracasso tutt'al più finendo con l'elemento di testa al di là del
recinto, e se era esatta la teoria dell'acqua incomprimibile, il cosmonauta
Febo Don Chisciotte non si sarebbe fatto più male del glorioso hidalgo,
quando s'era scagliato contro i mulini a vento. Ammettendo che lo
ricoverassero in ospedale anche solo in stato di choc, ecco che il servizio
sarebbe venuto fuori. Già, perché era sempre il servizio che mi teneva
impensierito. Ma ecco che mi colpi un affannoso borbottio all'estremità
terrestre dell'aggeggio e scorsi una nuvoletta bianca in rapida crescita e mi
arrivò l'odore acre del petrolio misto al carburo di calcio, che è già per
conto suo una materia spaventevole: se qualcuno, nella circostanza,
correva un pericolo mortale, quel qualcuno ero proprio io. Mi buttai
precipitosamente a terra, giusto in tempo per sentire un soffio passarmi
sopra la testa, e anche il suolo tremò, benché non più forte che se sulla
strada vicina fosse passato un autotreno con rimorchio. Poi un sibilo, non
molto acuto, direi anzi quasi melodioso. Quando ebbi il coraggio di
sollevare la testa, l'astronave chiamata Dulcinea sorprendentemente
navigava nello spazio lasciandosi dietro una meravigliosa scia multicolore,
e si impiccioliva a vista d'occhio. Dall'orizzonte la luna le saliva incontro,
non più tanto sanguigna, bensí vestita del suo abituale e lieto color
argenteo. I grilli intorno a poco a poco ripresero a cantare, come se niente
fosse avvenuto. In un paio di minuti circa, Dulcinea non fu che una stella
nell'immensità del firmamento, appena un poco più vivace e luminosa
delle altre. A non sapere che era Dulcinea, si sarebbe potuto scambiarla per
una comune cometa. Al telescopio, naturalmente, la cosa era diversa, e in
effetti si vedevano dei bellissimi colori, com'egli aveva predetto. Ma era
uno spettacolo che a lungo andare veniva un po' a noia, perciò cominciai a
prendere qualche appunto.
«Castrovillari. Oggi, alle 23,17 — dell'ora non ero proprio sicuro,
m'ero dimenticato di guardare l'orologio — Febo Còrtore, un ex-
seminarista di professione meccanico, è partito per la Luna.» No,
sembrava la cronaca d'una partenza qualsiasi, di corridori ciclisti.
Bisognava prenderla da un punto di vista più umano: «Un modesto
meccanico per biciclette, un brav'uomo che fino ad oggi era considerato
poco sano di mente, è partito stanotte all'improvviso, destinazione Luna.»
Tentai anche un inizio più fervido, all'americana: «Amici, sono stato
appena testimone, unico testimone, del più grande avvenimento della
storia umana, dalla creazione del mondo in poi. Mi sento ancora tutto
sconvolto...» Capivo benissimo che neppure cosí andava bene, ma il fatto
era che il più grande avvenimento della storia umana, ancora in fieri, mi
sconvolgeva solo fino ad un certo punto. La naturalezza, la semplicità con
cui quel Còrtore era partito incontro alla Luna, si rivelavano contagiose.
Niente di più ordinario che andare sulla Luna, pareva, quasi come prendere
l'autobus. Ma doveva trattarsi d'un'impressione passeggera. Una volta
sistemato l'avvenimento in una logica prospettiva storica, e tenendo anche
conto dei fattori ambientali, esso non sarebbe potuto apparire se non
insolito, e allora l'articolo mi sarebbe venuto fuori da solo.
La voce della radio mi fece fare un sobbalzo: l'avevo scordata. Era
proprio lui, col suo inconfondibile accento meridionale, e diceva: «Qui
Febo Còrtore da Castrovillari. Primo comunicato per la stampa, e che Dio
mi perdoni. Mi trovo ad un decimo circa del tragitto Terra-Luna e tutto
procede secondo il previsto. Panorama splendido: cielo viola scuro e
grandi stelle, come aveva ben detto Leonov. La soluzione fisiologica è
stata la grande trovata, cioè il grembo materno. Temperatura mite,
pressione normale, pulsazioni settantadue, lieve appesantimento al capo.
Posso dire che se mi fossi portato un piramidone sarei perfettamente
felice.»
Faticai un poco a ripescare Dulcinea col telescopio, ormai non era
che una mobile macchia di colori. Quanto mai naturale, del resto: se ciò
che Febo aveva comunicato era vero — e bisognava pur cominciare a
dargli un po' di credito — l'astronave si trovava in quel momento a 38.436
chilometri da Castrovillari. Guardai l'orologio: segnava mezzanotte meno
cinque. Santo cielo, ma a quale mostruosa velocità andava mai? Mi misi a
fare calcoli. In trentotto minuti circa, Febo aveva percorso oltre 38.000
chilometri, ossia, per dirla chiara, aveva superato di ben 20.000 chilometri
all'ora la velocità di fuga. A quanto ne sapevo io, egli era non solo l'uomo,
ma addirittura l'oggetto più veloce che fosse mai uscito dalla Terra. Un
titolo impostato su questo concetto sarebbe stato sicuramente efficace:
Febo Còrtore, l'Uomo più Veloce dell'Universo. Eh, no. Con la retorica
imperante nel giornalismo, una frase cosí poteva adattarsi ad Anquetil, o a
John Surtees, o a uno qualsiasi di quegli americani che ogni settimana
battono un nuovo record con gli aviogetti. Qui la faccenda importante era
la Luna. Ad esempio, un titolo a piena pagina: La Luna conquistata. O
meglio ancora: La Luna è nostra, nel senso di nostra degli italiani, cosa
che avrebbe dato soddisfazione anche alle correnti nazionaliste che il mio
giornale certo non trascurava. Chissà se Febo aveva pensato a portarsi
dietro un tricolore, magari piccolo, da piantare sulla vetta più alta della
Luna. Comunque, anche se non l'aveva portato, potevo inventarmelo senza
fatica. Poi, certamente, la Domenica del Corriere ne avrebbe fatto una
copertina a colori. Febo Còrtore sulla copertina della Domenica del
Corriere! E se lo meritava, accipicchia. Alto, magro, austero, tale e quale
Don Chisciotte, nell'atto di piantare la bandiera sul picco.
La voce della radio tornò a prendermi di sorpresa: «Qui Febo Còrtore
da Castrovillari, cavaliere e cosmonauta. Comunicato stampa numero due.
Ora terrestre, meridiano di Monte Mario, 0,56. Ho aumentato
considerevolmente la velocità, dato che ormai viaggio nel vuoto assoluto.
Il tempo non solo è fermo, ma va a ritroso, perciò ringiovanisco.
Temperatura interna stazionaria. Cinque minuti fa ho evitato una grossa
meteorite capace di disintegrarmi. Dio esiste.»
Il terzo comunicato lo persi, perché m'ero appisolato. Ma posso
essere biasimato per questo? Chiunque al mio posto avrebbe ceduto al
sonno, dopo che la notte precedente avevo lavorato al giornale e il giorno
l'avevo passato al volante della 600. E per di più avevo finito le sigarette e
mi toccava raccattare i mozziconi che sconsideratamente avevo buttato via
troppo lunghi.
Il comunicato numero quattro, diramato alle 2,48 diceva
laconicamente che Dulcinea si trovava a tre quarti del viaggio — ma come
aveva fatto? — e che la Luna sembrava un'enorme frittata con funghi:
anche il colore era quello.
Il comunicato numero cinque, alle 3,21, fu cosí formulato: «Qui Febo
Còrtore da Castrovillari, nobile cavaliere e cosmonauta. Il male di testa
m'è passato, forse in conseguenza dell'attrazione della Luna, che ormai
percepisco sensibilmente. In compenso m'è venuto un fastidioso prurito
agli arti inferiori, causato forse dal deflusso di sangue, e mi riesce
impossibile grattarmi. Questi piccoli inconvenienti potranno essere evitati
nel futuro. Anche gli occhiali mi si sono appannati, ma la visibilità è
sufficiente. Il cielo si schiarisce ma oh le grandi stelle! Tra qualche minuto
comincerò a ridurre la velocità.»
Guardando col telescopio, Dulcinea non era più visibile, e io avevo
ben poco da fare. Continuamente mi davo dei pizzicotti per non farmi
riprendere dal sonno. La luna a poco a poco saliva verso il suo culmine,
andando inconsapevolmente incontro all'appuntamento datole da Febo
Còrtore. Sulla strada, con grande battere di ruote, passò un carretto, forse
un contadino che già andava al lavoro. Un gallo levò un richiamo da
lontano, e un altro gli rispose con insolenza, da più lontano ancora. I grilli,
dopo una notte di strepiti frenetici, andavano perdendo vigore.
Alle quattro meno tre minuti, il quinto comunicato. «Qui Febo
Còrtore da Castrovillari, nobile cosmonauta. Comunicato per la stampa
numero cinque. Funzionamento freni difettoso. L'alettone di sinistra scatta
solo a intermittenza. Rischio di entrare in orbita.»
Mi prese la palpitazione, anche se era chiaro che non potevo farci
nulla. Prima, forse, avessi avuto un po' più d'immaginazione, avrei potuto
tentare di dissuaderlo, ma Dio solo sa se anche questo sarebbe stato giusto.
Cinque minuti dopo, senza il solito preambolo «Qui Febo
Còrtore», eccetera eccetera, un nuovo comunicato in stile quasi
telegrafico: «Velocità eccessiva, alettone di sinistra saltato. Per evitare
pericolo orbita che porterebbe astronave a diventare satellite perenne Luna,
punto decisamente su pianeta. Nostre velocità combinate superano 200.000
chilometri ora, perciò solo miracolo potrebbe evitare catastrofe. Dio esiste.
Preciso: esiste fisicamente. Il cielo è chiaro.»
Da quel momento in poi le comunicazioni si susseguirono caotiche,
senza ordine, ma non per questo la voce di Febo Còrtore suonò alterata.
Fino all'ultimo quel grande uomo conservò la calma degli eroi, almeno da
quanto ne so io.
Ore 4.02 e 50 secondi: «Tenterò coi freni d'emergenza. Pulsazioni 82,
forse ho un po' di febbre. Tornato il senso di pesantezza al capo.»
Ore 4.03 e 6 secondi: «Ho troppo osato: ne chiedo venia
all'Onnipotente.»
Ore 4.03 e 56 secondi: «Potessi evitare la collisione violenta, mi
dirigerei su Marte, che visto da qui è stupendo.»
Ore 4.04 e 20 secondi: «È stata, comunque, una degna esperienza.
Dio esiste, visibilmente. Il cielo è luce.»
Ore 4.04 e 42 secondi: «Ci siamo. Vado a capofitto contro una catena
di montagne della zona in ombra. Dio esiste, esiste, esi...» Chissà quale
ispirazione mi aveva spinto, un attimo prima, ad applicare l'occhio al
cannocchiale. Cosí scorsi, distintamente scorsi sul bordo non illuminato
della luna, un lampo azzurrino, cui seguí un fungo atomico di proporzioni
considerevoli di colore arancione. Povero Febo Don Chisciotte. Si
spegneva, nell'alto dei cieli, la più grande esistenza, forse, di tutta la storia
umana. Neanche mezzo minuto dopo, la luna era ridiventata quella di
sempre, e come se non bastasse stava anche perdendo lucentezza, a causa
del giorno che cominciava. Nel livido chiarore dell'alba vidi bene il grande
squallore intorno: buona parte del recinto caduta, l'incastellatura che aveva
sostenuto Dulcinea ridotta ad un ammasso di legname che ormai nessuno,
salvo me, avrebbe potuto collegare all'eccelsa impresa cui era servita,
l'erba qua e là bruciacchiata, e io con la barba lunga, stanco, abbattuto, io
che mi sentivo più solo al mondo di quanto non mi fossi mai sentito fino
allora. Cosa significava quella strana somiglianza con Don Chisciotte, o
forse identità, se non che un mito, un ultimo mito era voluto sparire dalla
terra?
Entrai nell'officina, dove ogni cosa era stata lasciata in un ordine
scrupoloso. Pieno di ansia mi misi a frugare nella grande cartella dei
disegni, ma conteneva un foglio solo, col seguente messaggio: «Ho
distrutto ogni mio lavoro preparatorio perché, nel caso avessi sbagliato,
nessuno potesse seguirmi. Ma tu parlerai egualmente di me, non è vero? Ti
abbraccio. Febo, D. C.» Quel D. C. essendo insensato pensare che volesse
dire District of Columbia, non poteva avere che un solo, consapevole
significato: Don Chisciotte. Sul muro, a matita rossa, c'era una formula,
incomprensibile per me come per tanti altri. Tuttavia la trascrivo, chissà
mai che non metta sulla buona strada qualche volonteroso: x = oo -2. Ossia
x eguale infinito meno due.
Il viaggio di ritorno a Roma fu interminabile, perché sul sedile
accanto a me avevo il vaso dei pesci rossi che arrischiava di rovesciarsi ad
ogni curva, e solo il cielo conosce quante curve abbia la strada delle
Calabrie. Giunto a casa, vi rimasi chiuso tre giorni, tenendomi su con la
simpamina, e alla fine avevo accumulato settantadue cartelle fitte fitte, più
una quantità di disegni e schizzi, roba sufficiente a riempire un intero
numero del giornale, ma la qualità dell'avvenimento ben giustificava tale
abbondanza. Corsi a portare il tutto sul tavolo del redattore capo — lui non
era ancora arrivato in ufficio — e dopo tornai subito a casa, dove dormii
per tre giorni filati. Svegliandomi, pensai con controllata soddisfazione che
il mondo intero doveva essere a rumore per le notizie che io — io solo —
avevo divulgate. Non era neppure improbabile che con l'infornata della
Festa della Repubblica mi avrebbero fatto Cavaliere del Lavoro, cosa che
al mio direttore non era mai riuscita. Ma nei giornali che comprai in
abbondanza all'edicola sotto casa non c'era alcuna traccia della conquista
della Luna, nemmeno nei rotocalchi, di solito avidi d'un tal genere di
notizie. Perfino la Domenica del Corriere aveva la solita illustrazione del
Presidente che assisteva alle manovre navali.
Arrivai al giornale pronto a sparare. «Il mio pezzo!» urlai in faccia al
capo. «Dove l'avete messo il mio pezzo?»
Lui, da quel vigliacco che è, manco ebbe il coraggio di alzare la testa.
Si limitò ad indicarmi con un cenno la stanza del grande capo: era,
evidentemente, la sua unica risposta.
«Ma tu l'hai letto, tu?» gridai fuori di me. «Oppure l'hai messo da
parte perché era troppo lungo?»
«Ci ho dato un'occhiata» rispose senza granché scomporsi. «Ma sai,
era roba di responsabilità, e l'ho passata a lui. Guarda piuttosto: qui c'è un
pezzo da Matera che bisogna rivedere. Industrializzazione del
Mezzogiorno. Cerca di metterci un po' di buona volontà. Sai, non ci fossi
stato io, a quest'ora...» e fece un gesto per significare che, non ci fosse
stato lui, mi sarei già trovato sul lastrico.
Questa accadeva una settimana fa. Ieri il grande capo mi ha chiamato
nel suo ufficio per parlarmi a proposito d'una piccola rivoluzione sud-
americana che, a corto di notizie, m'ero inventata per l'ultima pagina. Lui
era del parere che inventare rivoluzioni americane era roba da mentecatti,
da deficienti rimasti ancorati ad un giornalismo fine 800: ora bisognava
inventarsi notizie più moderne, petrolio, Viet Nam, conquiste spaziali.
«A proposito, signor Direttore» gli dissi quand'ebbe finito. «C'era
appunto un mio servizio...»
«Quale servizio?» chiese con accentuata aggressività, nel tentativo
d'intimorirmi.
«Quel mio servizio da Castrovillari, signor Direttore,» precisai con
fermezza.
Ci pensò sopra un momento, poi batté un violento pugno sul tavolo.
«Senta» gridò. «Non mi salti fuori con la fantascienza da Castrovillari! Ci
sono panzane e panzane. Noi siamo un giornale serio!»
«Sissignore,» gli risposi, perché effettivamente aveva ragione lui: la
straordinaria, eccelsa impresa di Febo Còrtore aveva avuto quali unici
testimoni me stesso — e nessuno sembrava disposto a credermi — e
cinque pesci rossi i quali, come tutti i pesci, sono privi di parola e di ogni
altro mezzo per la diffusione del pensiero.
Stamane, appena arrivato al giornale, il capo mi ha passato un foglio
dicendo: «Guarda un po' questa roba del nostro corrispondente Calabro.
Cerca di darle una forma po' un decente. Se non ti riesce, buttala nel
cestino. Tanto, a chi vuoi che gliene freghi d'un ladro di galline?»
La notizia, scritta a mano con grafia incerta, diceva testualmente:
«Certo Còrtore Febo di anni 52 e di mestiere meccanico in Via Cosentina
14 a Castrovillari, ma che ha fatto gli studi in convento senza riuscirci, è
da alcuni giorni scomparso dalla sua abitazione. Era da tutti considerato
estroso, per non dire tocco di cervello, e comunque poco di buono. La sua
scomparsa è stata messa in relazione con certi furti di galline che si vanno
da tempo verificando nella zona. Ad ogni buon conto, i dati segnaletici del
Còrtore sono stati diramati alle varie stazioni carabinieri del circondario."
Ho buttato la notizia nel cestino, poi sono andato al gabinetto, perché
mi veniva da piangere.

GIUSEPPE BERTO
Berto è nato a Mogliano Veneto nel 1914. È laureato in lettere, è stato
volontario in Africa Orientale nel '36 e in Africa Settentrionale nel '42.
Condotto prigioniero nel Texas, ha scoperto la sua vocazione di scrittore
stendendo «Il cielo è rosso», grosso successo dell'immediato dopoguerra,
«Premio Letterario Firenze». Scrive Berto: «Non essendo più possibile
avere quella fiducia nella realtà, negli ordinamenti sociali, nella missione
dello scrittore, che si poteva avere negli ultimi anni della guerra e nel
dopoguerra, credo che ora uno scrittore debba guardare il mondo con
maggiore distacco, riflessione, senso critico, umorismo».
Ha vinto recentemente i premi «Viareggio» e «Campiello».
OPERE PRINCIPALI: Il cielo è rosso, Longanesi 1947 - Il brigante, Einaudi
1951 -Guerra in camicia nera, Garzanti 1955 - Il male oscuro, Rizzoli
1964.
ITALO CALVINO

il cappuccio da sci celeste – cielo

ALLO SKILIFT C'ERA la coda.


La comitiva dei ragazzi venuti col pullman s'era messa in fila,
affiancandosi a sci paralleli, e, a ogni passo avanti che la coda faceva —
una lunga coda che invece d'andar dritta come pure avrebbe potuto,
seguiva una casuale linea a zig-zag, un po' in salita un po' in discesa —
pesticciando in su oppure scivolando giù di fianco a seconda del punto in
cui si trovavano, e subito ripuntellandosi ai bastoncini, spesso andando a
gravare del proprio peso i vicini di sotto, o cercando di liberare racchette di
bastoncini da sotto a sci dei vicini di sopra, inciampandosi negli sci andati
a mettersi per storto, chinandosi ad aggiustare gli attacchi e arrestando cosí
tutta la fila, togliendosi le giacche a vento o i maglioni o rimettendoseli a
seconda se il sole appariva o spariva, ricacciando le filze di capelli sotto il
copriorecchi di lana o gli sbuffi delle camicie a scacchi dentro le cinture,
cercando i fazzoletti nelle tasche e soffiandosi i nasi rossi e gelati, e per
tutte queste operazioni togliendosi e rimettendosi i guantoni che talvolta
cadevano nella neve e bisognava con la punta dei bastoncini ripescarli:
quest'agitazione di piccoli gesti scomposti percorreva la fila e diventava
frenetica al suo culmine, là dove bisognava aprire le cerniere-lampo di
tutte le tasche per cercare dove s'erano cacciati i soldi per il biglietto
oppure il tesserino e porgerlo all'uomo dello skilift che ci faceva i buchi, e
poi rimettersi la roba nelle tasche, e i guantoni, e unire i bastoncini uno con
la punta infilata nella racchetta dell'altro, tutto questo superando la piccola
salita della piazzola dove bisognava essere pronti a mettere a posto
l'àncora dello skilift sotto il sedere e a lasciarsi trascinare su di strappo.
Il ragazzo con gli occhiali verdi era a metà della coda, intirizzito, con a
fianco un ragazzo grasso che spingeva. E mentre loro erano lí, passò la
ragazza col cappuccio celeste-cielo. Non si mise in coda; andava avanti, in
su, per il sentiero. E muoveva in salita gli sci leggera come camminasse.
«Cosa fa quella? Vuol fare la salita con le sue gambe?» si domandò il
ragazzo grasso che spingeva.
«Ha le pelli di foca» disse il ragazzo con gli occhiali verdi.
«Però, voglio vederla su dove è più ripido» disse il grasso.
«Ha poco da far la furba, sta' sicuro!»
La ragazza andava con un passo senza sforzo, con un movimento
regolare dei suoi alti ginocchi — era di gamba molto lunga, nei pantaloni
tirati, tesi alla caviglia — a tempo con l'alzare ed abbassare dei lucenti
bastoncini. Il sole in quell'aria gelata e bianca si mostrava come un esatto
disegno giallo, con tutti i suoi raggi; nelle distese di neve senza un'ombra,
solamente dal suo brillío si distinguevano gobbe e anfratti e il battuto delle
piste. Nella giacca a vento celeste-cielo il viso della ragazza bionda era
d'un rosa che diventava rosso sulle guance, contro la bianca felpa
dell'interno del cappuccio. Rideva verso il sole, appena socchiudendo gli
occhi. Andava su leggera, sulle pelli di foca. I ragazzi della comitiva del
pullman, con le orecchie gelate, l'arsura alle labbra, i nasi che tiravano su
moccio, non sapevano staccare gli occhi di dosso a lei, e si facevano
spingere nella coda; finché lei non superò un ciglio e sparí.
Man mano che toccava il loro turno, quelli della comitiva del pullman,
con parecchi inciampi iniziali e false partenze, prendevano a salire a due a
due, trainati per la pista quasi verticale. Al ragazzo con gli occhiali verdi
toccò lo stesso skilift del grasso che spingeva. Ed ecco, a metà salita, la
rividero.
«E come ha fatto ad arrivare fin quassù, questa?»
In quel punto il percorso dello skilift fiancheggiava una specie di
valletta, dove un sentiero battuto s'inoltrava tra dune alte di neve e radi
abeti frangiati di ricami di ghiaccio. La ragazza celeste-cielo veniva avanti
con quel suo passo esatto e quella spinta avanti delle mani guantate, strette
all'impugnatura dei bastoncini, senza affanno.
«Uuuh!» gridavano loro dello skilift salendo a gambe dure. «Quasi
arriva prima lei di noialtri!»
Lei aveva sulle labbra il suo sorriso gentile, e il ragazzo dagli occhiali
verdi restò confuso, e non osò continuare con i lazzi, perché lei abbassava
le ciglia e lui si sentí come cancellato.
Appena arrivato in cima, prese subito a buttarsi per la discesa, dietro il
ragazzo grasso, tutti e due pesanti come sacchi di patate. Ma quello che lui
cercava, arrabattandosi per la pista, era di riavvistare la giacca a vento
celeste-cielo, e si slanciò giù dritto, per farsi vedere coraggioso e nello
stesso tempo mascherare la sua malagrazia nel prendere le curve. «Pista!
Pista!» gridava inutilmente perché anche il ragazzo grasso e tutti loro della
comitiva stavano scendendo a rotta di collo gridando: «Pista! Pista!» e,
uno a uno, cadendo di sedere o di petto, e lui solo ancora tagliava l'aria
piegato in due sugli sci, finché la vide. La ragazza continuava a salire,
fuori dalla pista, nella neve fresca. Il ragazzo con gli occhiali verdi la
sfiorò passando come una freccia, s'inchiodò nella neve fresca, e ci
scomparve dentro a faccia avanti.
Ma al fondo della discesa, a fiato mozzo, infarinato di neve dalla testa ai
piedi, dài, era di nuovo là con tutti gli altri in coda per lo skilift, e poi di
nuovo, dài, su in cima. Stavolta la incontrò che stava scendendo anche lei.
Come andava? Per loro, campione era chi andava giù dritto come un
pazzo. «Beh, non è poi quel gran campione, la bionda» ebbe fretta di dire
il grasso, con sollievo. La ragazza celeste-cielo se ne veniva giù bel bello,
prendendo i suoi zig-zag tutti precisi, ossia, fino all'ultimo non si capiva se
volesse svoltare o cosa fare e tutt'a un tratto la vedevano che scendeva in
direzione opposta a prima. Veniva giù prendendosela calma, si sarebbe
detto, fermandosi ogni tanto, dritta sulle lunghe gambe, a studiare il
percorso; ma intanto, quelli del pullman non riuscivano a tenerle dietro.
Finché anche il grasso ammise: «Altro che storie! Va da dio!»
Il perché non l'avrebbero saputo spiegare, ma era questo che li teneva a
bocca aperta: tutti i movimenti le venivano i più semplici e i più adatti alla
sua persona, senza mai traboccare d'un centimetro, senza l'ombra di
turbamento o di sforzo, o di puntiglio a fare una cosa a tutti i costi, ma
facendola cosí, naturalmente; e prendendo, a seconda di com'era lo stato
della pista, anche certe movenze un po' incerte, come chi cammina in
punta di piedi, che era tutta una sua maniera per superare le difficoltà
senza far capire se le prendeva sí o no sul serio; insomma non con l'aria
sicura di chi fa le cose come vanno fatte, ma con una punta di ritrosía,
come stesse provando a fare il verso a qualcuno che scia bene e le
capitasse sempre di sciare meglio: questo era il modo in cui la ragazza
celeste-cielo andava sugli sci.
Allora, uno dopo l'altro, giù, goffi, pesanti, strappando i "cristiania",
forzando in "slalom" le "curve spazzaneve", quelli del pullman le si
buttavano dietro, e cercavano di seguirla, di superarla, gridando,
canzonandosi, ma tutto quel che facevano era un disordinato diroccare a
valle, con scomposti movimenti delle spalle, le braccia coi bastoni tenute
avanti, gli sci che s'incrociavano, gli attacchi che saltavano via dagli
scarponi, e dappertutto dove loro passavano la neve s'apriva in buche di
colpi di sedere, di fiancate, di tuffi a capofitto.
Da ogni caduta, appena alzavano la testa, con lo sguardo cercavano lei.
Attraversando la loro valanga, la ragazza celeste-cielo se ne veniva coi
suoi movimenti leggeri, e le pieghe dritte dei pantaloni tesi appena
s'angolavano in un molleggio cadenzato, e il suo sorriso non si capiva se
fosse di partecipazione alle prodezze e ai contrattempi dei compagni di
discesa o invece il segno che non li vedeva neppure.
Il sole intanto, invece di prendere più forza avvicinandosi al
mezzogiorno, s'intirizziva tutto finché non sparí, come bevuto da una
cartasuga. L'aria fu piena di leggeri cristalli senza colore che volavano
obliqui. Era il nevischio: non ci si vedeva di qui a lí. I ragazzi sciavano alla
cieca, gridando e chiamandosi, e tutti i momenti uscivano di pista e, dai,
cadevano. L'aria e la neve adesso erano tutto lo stesso colore, bianco
opaco, a maguzzandoci dentro gli occhi, per poco che si facesse meno
denso, ecco scorgevano l'ombra celeste-cielo come sospesa là in mezzo,
che volava in qua e in là come su una corda di violino.
Il nevischio aveva disperso la coda allo skilift. Il ragazzo con gli occhiali
verdi si trovò senza accorgersene vicino al casotto della stazione di
partenza. I compagni non si vedevano. La ragazza col cappuccio celeste-
cielo era già lí. Aspettava l'àncora, che adesso stava svoltando alla ruota.
«Presto!» gridò l'uomo dello skilift verso di lui, afferrando a volo l'àncora
e trattenendola perché la ragazza non partisse sola. Arrancando a spina di
pesce, riuscí ad affiancarsi alla ragazza appena in tempo per partire con lei,
quasi facendola cadere come si abbrancò al legno. Lei tenne l'equilibrio
anche per lui, finché non gli riuscí di mettersi su bene, farfugliando
recriminazioni, cui rispose una sommessa risata di lei come un glu-glu di
gallina faraona, soffocata dalla giacca a vento tirata su fin sopra la bocca.
Ora il cappuccio celeste-cielo, come un elmo d'armatura, le lasciava
scoperto solo il naso, che aveva un po' aquilino, gli occhi, qualche ricciolo
sulla fronte, e i pomelli delle gote. Cosí la vedeva, di profilo, il ragazzo
dagli occhiali verdi, e non sapeva se essere felice a trovarsi con lei sulla
stessa àncora di skilift, o vergognarsi d'esser lí tutto imbrattato di neve, coi
capelli sulle tempie, la camicia che gli sbuffava fuori tra il maglione e la
cintura, e che lui per non sbilanciarsi muovendo le braccia non osava
ricacciare a posto, e un po' sbirciava lei un po' stava attento alla posizione
degli sci che non uscissero fuori dal battuto nei momenti di trazione troppo
lenta o troppo tesa, ed era sempre lei a salvare l'equilibrio, ridendo il suo
gluglu di faraona, mentre lui non sapeva cosa dire.
Di nevicare aveva smesso. Ora anche l'aria nebbiosa si squarciò e nello
squarcio apparve un cielo finalmente azzurro e il sole splendente e le
montagne nitide ghiacciate una per una, solo qua e là piumate sulla cresta
dai soffici brandelli della nuvola di neve. La ragazza incappucciata
riaffacciò la bocca e il mento.
«Ritorna bello» fece, «io lo dicevo.»
«Sí» disse il ragazzo dagli occhiali verdi «bello. Poi la neve è buona.»
«Un po' molle.»
«Oh, già.»
«Ma a me cosí piace» lei disse, «e anche la discesa nella nebbia è mica
male.» «Finché si sa la pista...» disse lui. «No, cosí» disse lei,
«indovinandola.» «Io l'ho già fatta tre volte» disse il ragazzo. «Bravo. Io
una sola, ma sono andata su senza skilift.» «L'ho vista. Aveva messo le
pelli di foca.» «Si. Ora che c'è il sole vado fin sul colle.» «Sul colle dove?»
«Più in su di dove arriva lo skilift. Fin sulla cresta.» «E cosa c'è lassù?»
«Si vede il ghiacciaio che sembra di toccarlo. Poi le lepri bianche.» «Le
cosa?»
«Le lepri. A quest'altezza le lepri d'inverno mettono il pelo bianco.
Anche le pernici.» «Ci sono lí?»
«Pernici bianche. Con le penne tutte bianchissime. D'estate invece hanno
le penne caffelatte. Lei di dov'è?» «Italiano.» «Io sono svizzera.»
Erano arrivati. Al termine s'erano staccati dallo skilift, lui malamente, lei
accompagnando con la mano l'àncora per tutto il giro. Lei si tolse gli sci, li
mise ritti, dalla borsetta che portava alla cintola tirò fuori le pelli di foca e
le legò sotto gli sci. Lui la stava a guardare, strofinandosi le dita gelate nei
guantoni. Poi, quando lei prese a salire, le andò dietro. La salita dallo
skilift alla cima del colle era dura. Il ragazzo con gli occhiali verdi ci dava
dentro un po' a spina di pesce, un po' a gradini, un po' arrancando avanti e
riscivolando indietro, tenendosi ai bastoni come uno sciancato alle
stampelle. E lei era già lassù che lui ormai non la vedeva.
Arrivò al colle sudato, a lingua fuori, mezzo accecato dallo sfavillío che
si irradiava tutt'intorno. Là cominciava il mondo del ghiaccio. La ragazza
bionda s'era tolta la giacca a vento celeste-cielo e la portava annodata alla
vita. Anche lei s'era messa un paio di occhialoni. «Là! Ha visto? Ha
visto?»
«Cosa c'è?» faceva lui stordito. Era saltata una lepre bianca? Una
pernice?
«Ora non c'è più» lei disse.
Giù sopra la valle svolazzavano i soliti uccelli neri gracchianti dei
duemila metri. Era venuto fuori un limpidissimo mezzogiorno e da lassù lo
sguardo abbracciava le piste, i campi affollati di sciatori, di bambini con le
slitte, la stazione dello skilift con la coda che s'era subito riformata,
l'albergo, i pullman fermi.
La ragazza s'era già slanciata per la discesa e andava e andava con i suoi
tranquilli zig-zag, ora era già dove le piste erano più battute dagli sciatori,
ma in mezzo a tutto lo sfrecciare di sagome confuse e intercambiabili la
sua figura appena disegnata come un'oscillante parentesi non si perdeva,
restava l'unica che si potesse seguire e distinguere, sottratta al caso e al
disordine. L'aria era cosí nitida che il ragazzo dagli occhiali verdi
indovinava sulla neve il reticolo fitto delle orme di sci, dritte ed oblique,
delle strisciate, delle gobbe, delle buche, delle pestate di racchetta, e gli
pareva che là nell'informe pasticcio della vita fosse nascosta la linea
segreta, l'armonia, solamente rintracciabile alla ragazza celeste-cielo, e
questo fosse il miracolo di lei, di scegliere a ogni istante nel caos dei mille
movimenti possibili quello e quello solo che era giusto e limpido e lieve e
necessario, quel gesto e quello solo, tra mille gesti perduti, che contasse.
ITALO CALVINO
Calvino è nato a San Remo nel 1923. Dalla fine della guerra vive a
Torino, dove lavora presso la casa editrice Einaudi. Di sé scrive: «Sono
figlio di scienziati: mio padre era un agronomo, mia madre una botanica;
entrambi professori universitari. Tra i miei familiari solo gli studi
scientifici erano in onore; un mio zio materno era un chimico, professore
universitario, sposato a una chimica (anzi ha avuto due zii chimici sposati
a due zie chimiche); mio fratello è un geologo, professore universitario. Io
sono la pecora nera, l'unico letterato della famiglia.»
Calvino ha vinto il premio «Bagutta»; attualmente sta scrivendo racconti
di tipo nuovo: «Le cosmicomiche».
OPERE PRINCIPALI (tutte presso Einaudi): Il sentiero dei nidi di ragno, 1947 -
Il visconte dimezzato, 1951 - Il barone rampante, 1957 - I racconti, 1958 -
Il cavaliere inesistente, 1959 - La giornata di uno scrutatore, 1963.
CARLO CASSOLA

le passeggiate

FIORELLA ERA NATIVAdi Poggibonsi, dove aveva vissuto fino a dodici anni;
poi la sua famiglia s'era trasferita a Firenze. Qui Fiorella frequentò le
scuole secondarie e conseguí il diploma di maestra. Quando cominciò la
guerra, aveva vent'anni.
Successe che, a causa dei richiami alle armi, si liberarono molti posti
nelle scuole, comprese quelle secondarie, e, pur di coprirli, presidi e
direttori furono costretti ad assumere anche dei semplici diplomati. Spinta
da un'amica, Fiorella si trovò un posto all'istituto tecnico di Volterra. I
genitori erano contrari a che lei se ne andasse di casa, e ancora più
sarebbero stati contrari se avessero potuto prevederne le conseguenze.
Fiorella e l'amica alloggiavano insieme in una pensione di famiglia; ma
il fatto che fossero due ragazze sole attirò ben presto l'attenzione dei
giovanotti. Specialmente Fiorella, che era alta e slanciata, coi capelli neri
ricciuti e gli occhi azzurri. Un giovane medico, che alloggiava nella
pensione, prese a farle una corte insistente; ma a lei non piaceva, perché
era basso e pelato, e anche perché era poco riguardoso.
Invece non fu insensibile alle attenzioni di un giovanotto che insegnava
educazione fisica nel suo stesso istituto. Si chiamava Paolo Guerrieri,
aveva solo tre o quattr'anni più di lei, ed era senz'altro un bel ragazzo. Era
stato ferito a una gamba in quei combattimenti che ci furono sulle Alpi
subito all'inizio della guerra, e anzi, quando Fiorella lo conobbe,
camminava appoggiandosi a un bastone. Gli avevano dato una licenza di
convalescenza di un anno, ma era da prevedere che gliel'avrebbero
rinnovata e che lui, in guerra, non ci sarebbe andato più. In breve, si
innamorarono, e di lí a pochi mesi, quando Paolo ebbe trovato un impiego
migliore al Distretto, decisero di sposare. Ci fu un po' di opposizione da
parte della famiglia di lei, ma come figlia unica Fiorella era abituata a fare
di testa sua, e anche in quella circostanza riuscí a spuntarla.
Cosí cominciò la sua nuova vita, in una camera ammobiliata a Pisa.
Malgrado le difficoltà dei tempi, si amavano ed erano felici. Poi Fiorella
rimase incinta. Le difficoltà aumentarono. Lei andò a partorire in casa sua
a Firenze, ma appena possibile tornò a Pisa. Ma diventò un problema
riuscire a campare, col magro stipendio del marito e le poche centinaia di
lire di una supplenza che lei era riuscita a ottenere in una scuola di
avviamento; e, quel che è peggio, erano cominciati i bombardamenti, e si
temeva che prima o poi sarebbe toccato anche a Pisa.
Pisa fu bombardata il 31 agosto, quando era già caduto il fascismo.
Fiorella si trovava alla stazione, dov'era andata a prendere i suoi; e proprio
alla stazione ci fu la carneficina più spaventosa.
Lei ne uscí illesa, ma non era proprio più il caso di stare a Pisa; e
nemmeno di andare a Firenze; Cosí, sfollò a Volterra, in casa del suocero, e
Paolo veniva a trovarla tutte le domeniche.
Andarono avanti in questo modo fino al passaggio della guerra, quando
il Distretto fu chiuso, e anche Paolo si rifugiò a Volterra. Passarono l'estate
insieme, ma in autunno si separarono di nuovo. Paolo infatti dovette
riprendere servizio, e non c'era nemmeno da pensare che lei potesse
andargli dietro: a malapena lo stipendio sarebbe bastato a lui. Né Fiorella
poteva continuare a vivere alle spalle del suocero, un pensionato. Cosí
decise di rimettersi a far la maestra: era il solo modo per provvedere al
sostentamento del bambino, di se stessa, e della creatura che portava in
grembo.
Ebbe il posto in una scuola di campagna, a Metato. Non era un paese,
era poco più che una fattoria. Lei abitava appunto nell'edificio della
fattoria, in una stanzetta sprovvista della luce come dell'acqua. Il gabinetto,
lo aveva in comune con una squadra di boscaioli che alloggiava nella
stanza accanto.
Durante le ore di scuola, il bambino era affidato a una ragazzetta di
tredici anni. Subito dopo mangiato, Fiorella usciva a far due passi. La
prima volta, per non attraversare il villaggio, s'era spinta al di là della
fattoria. Costeggiando un campo pianeggiante, il viottolo s'indirizzò verso
un monticello isolato. Giunta sotto, Fiorella si fermò: il viottolo spariva
nella boscaglia. Ma la vista di un rudere avviluppato dai rovi la incuriosí,
spingendola a proseguire. Una salita breve ma ripida la condusse in cima,
in una specie di campicello sassoso.
Si accorse subito che un tempo doveva esserci stata una rocca: il
perimetro delle mura era ancora visibile. Forse lo stesso monticello era
artificiale. Le venne fatto di chiederlo a Irma: che naturalmente non le
seppe dir niente. Allora girò lungo il muro, che era più largo che alto:
confermandosi nell'idea che fosse il basamento di una rocca.
Si affacciò sulla vallata: in fondo c'era il paese di Saline, se meritavano
il nome di paese quelle costruzioni sparpagliate qua e là, con la fossa della
ferrovia che le divideva in due, lo stabilimento e la stazione da una parte,
le case dall'altra. Dietro Saline i poggi si facevano sempre più alti; e in
mezzo serpeggiava la strada. Si vedeva anche un segmento di linea
ferroviaria: scuro e diritto. Ancora più in là i poggi si spianavano,
formando il basamento su cui s'innalzava l'altura di Volterra. La linea delle
case occupava l'intera sommità. Fiorella la percorse con lo sguardo,
fermandosi sulle sagome familiari del Campanile, del Battistero e della
Torre del Palazzo Comunale. Era riconoscibile anche la sagoma bassa e
allungata della Fortezza, sotto cui correva il viale.
Se fosse rimasta a Volterra, a quell'ora sarebbe stata sul viale, a far
prendere una boccata d'aria al bambino. Perché in casa del suocero di aria
ce n'era poca davvero. Il sole, si vedeva giusto la mattina. Sul viale no,
bisognava riconoscere che ci si stava bene anche nel colmo dell'inverno:
perché la Fortezza riparava dalla tramontana.
"Se avessi un binocolo, chissà: forse riuscirei a vedere le persone."
Scrollò le spalle: "Per quel che me ne importa... Mi sono sempre stati
antipatici, i volterrani. Pettegoli, invidiosi, maligni..." E sul serio le
sembrava di aver sempre nutrito antipatia per la città: mentre era un
sentimento recente, frutto delle traversie e delle umiliazioni.
Voltò le spalle al panorama e si mise a guardare il bimbo che giocava
con Irma. Era contenta che si divertisse, ma aveva paura che prendesse
umido: e gli disse di alzarsi. Lo disse anche a Irma: «Ho paura che l'erba
sia bagnata. È meglio andare in un altro posto». «È bagnata, sí», confermò
la ragazzetta. E aggiunse: «E poi qui c'è pieno di vipere».
Fiorella si spaventò: «Perché non me l'hai detto subito?» Prese il
bambino in collo, e si affrettò giù per il viottolo, incurante di graffiarsi le
gambe. Un grosso rovo le sbatté sulla fronte: e una volta a casa, Fiorella
vide che le aveva lasciato il segno.
Il giorno dopo andò dalla parte opposta. C'era prima un breve tratto di
piano, poi la strada piegava a sinistra e cominciava a salire tra la macchia.
Fiorella, allora, piegò a destra, per un viottolo erboso che correva tra due
filari di viti. Altri filari erano disposti di traverso, dividendo i campi in
tanti rettangoli. Il viottolo saliva leggermente; ma già si vedeva il terreno
incurvarsi: e spuntava, in fondo, la mole scura di un poggio.
Fiorella si fermò al principio della discesa, appena si scoprí il panorama.
I fianchi della collina erano scoscesi: qualche muro a secco sosteneva certi
campicelli lunghi e stretti in cui un paio di olivi o una vite isolata o una
striscia di granturco costituivano la sola coltivazione. Più in basso
cominciava la macchia, a toppe: sempre più rada via via che si avvicinava
al letto di un torrentaccio. Subito al di là si ergeva il poggio scuro, con la
cima controsole.
Con lo sguardo Fiorella esplorò la gola: che faceva quasi paura. Come
una serpe che si snodi, il torrente sbucava da una stretta, girava intorno al
poggio e si perdeva nella campagna. Domandò a Irma come si chiamava; e
la ragazzetta le rispose che era la Pòssera.
Facendosi schermo con la mano, Fiorella guardò la cima frastagliata del
poggio. Di lontano le era parso che quel bizzarro contorno fosse il profilo
delle rocce: ora invece si accorse che erano case, costruite sullo
strapiombo. «Che paese è?»
«Micciano» rispose Irma.
«Che brutto posto» commentò Fiorella. Si domandava come facesse la
gente a vivere lassù, in cima a quel poggio dirupato. Delle case buie si
vedeva giusto la sagoma; e solo dalla forma Fiorella distinse la chiesa e
una specie di rocca. «E come ci si arriva?» Le pareva un luogo
inaccessibile.
«La strada è dall'altra parte» rispose Irma. E aggiunse: «Io una volta ci
sono stata. È un paese grande».
Fiorella sorrise:
«Più grande di Pomarance?»
«Di Pomarance no.»
«A Volterra, ci sei mai stata?»
«No» rispose Irma. Pomarance, era il paese più lontano in cui fosse
stata. "Pare incredibile" pensò Fiorella. "Ha tredici anni passati, eppure
non è mai stata in nessun posto. Addirittura non è mai uscita dal territorio
del comune."
"E io?" pensò a un tratto. "Io ne ho ventitré, di anni, eppure non sono
mai stata fuori della Toscana." E le tornò in mente il viaggio di nozze.
Avrebbe potuto essere l'occasione di andare per lo meno a Roma; ma Paolo
non ne aveva voluto sapere. Avevano passato la luna di miele in una
pensione a Marina di Pisa.
E invece, le sarebbe piaciuto tanto viaggiare. A scuola, la sua materia
preferita era la Geografia, ci prendeva sempre otto, nove: aveva preso nove
anche alla licenza. Le sue compagne la trovavano noiosa e la studiavano
quel tanto che bastava per avere la sufficienza. Mentre lei passava ore a
guardare l'atlante. Non guardava solo l'Italia; anche i Paesi stranieri, anzi
soprattutto quelli. Le piacevano i più lontani: l'Africa, l'Estremo Oriente,
l'America del Nord. Seguiva i confini segnati nei varii colori, rosa i
possedimenti inglesi, azzurri i francesi, gialli gli spagnoli, viola i
portoghesi. I nomi delle città erano scritti in lettere minuscole, oppure in
carattere stampatello, a seconda dell'importanza; le capitali con un rigo
sotto; mentre nelle carte fisiche erano segnate solo le città principali, e
anche quelle, con l'iniziale e basta. Ma la colorazione era più bella che
nelle carte politiche. Il verde dava proprio l'idea delle pianure, il giallo dei
deserti e delle steppe; il marrone, indicava che il terreno cominciava ad
elevarsi, e via via che incupiva le montagne diventavano più alte. Ecco
l'arco dell'Himalaja; ecco la Cina, e il Giappone, coi nomi delle città che la
facevano più sognare, Sciangai, Tokio, Yokohama; e l'Oceano Pacifico,
cosí immenso, con la miriade di isole in mezzo a tutto quell'azzurro... Le
piacevano anche le fotografie che c'erano dietro le carte geografiche. A
quel tempo, non leggeva romanzi, a meno che parlassero di paesi lontani.
"Ed eccomi finita a Metato." Non che rimpiangesse i posti dov'era
vissuta: giusto Poggibonsi, quando era bambina. Ma gli anni di Firenze
non li rimpiangeva certo. Eppure erano stati gli anni della sua prima
giovinezza: e lei era bella o per lo meno graziosa: se ne accorgeva dal
modo come i giovanotti la guardavano per strada. Qualcuno le rivolgeva
anche la parola; e lei, una volta, aveva acconsentito a farsi accompagnare;
e s'era lasciata strappare un appuntamento. Ma poi non c'era andata,
benché quel giovane avesse una faccia simpatica.
In seguito le sue passeggiate ebbero sempre per meta la Veduta. Era il
nome dato alla sella da cui ci si affacciava sulla vallata della Cecina. Sulla
sinistra c'era una cappellina; sulla destra una cipresseta. Da quel punto la
strada cominciava a scendere: se ne poteva seguire il tracciato, prima fra la
macchia bassa, poi fra i campi.
Sotto i cipressi il terreno era pulito, e Fiorella lasciava che Luigino
scorrazzasse a suo piacimento, tanto non c'erano pericoli.
Irma quel giorno s'era divertita a cogliere i ciclamini. Il bambino s'era
sforzato di imitarla, ma strappava i gambi anziché sfilarli delicatamente dal
terriccio: sicché gli erano rimaste in mano solo le corolle. Fiorella fece
mostra di gradirli lo stesso: «Come sei stato bravo», e si chinò a dargli un
bacio. Si aspettava che Irma le regalasse il suo mazzolino; invece, li aveva
colti per la Madonnina. Li infilò attraverso la grata, e prima di venir via si
fece il segno della croce.
Quel gesto stupì Fiorella: eppure lo sapeva che Irma era molto religiosa.
La mattina della domenica, veniva più tardi, perché non soltanto assisteva
alla Messa, ma si confessava e si comunicava. Invece lei, Fiorella, non
sentiva nemmeno il bisogno di entrare in chiesa. Erano anni che trascurava
le pratiche religiose. A Volterra aveva scandalizzato il suocero e la cognata
con la sua indifferenza.
"E ora scandalizzerò la gente di qui. Proprio io, la maestra, che dovrei
dare il buon esempio, non sono andata una volta alla Messa" Ma non
sapeva a chi lasciare il bambino; e portarselo dietro, non era il caso.
Una domenica mattina attraversò il villaggio senza incontrare nessuno:
era appunto l'ora della Messa. Invece di proseguire fino alla Veduta, le
venne l'idea di arrivare dove tagliavano. Prese per il viottolo fra la scuola e
il muro di cinta della villa ed entrò nel castagneto.
Ben presto del viottolo si perse ogni traccia: il suolo era coperto da uno
strato alto e cedevole di foglie marce. Ma poi i castagni diradarono, il
terreno e si fece scabro, affiorarono dei lastroni di roccia, e ricomparve una
traccia di viottolo. Andando ancora avanti, arrivò al bosco. Il viottolo vi
s'imbucava di sbieco e scendeva poi a serpentina. Il cammino era
malagevole, per i sassi e le buche, e Fiorella dovette prendere il bimbo in
braccio. Stava per tornare indietro, quando intese dei colpi. I boscaioli non
dovevano essere lontani. Infatti di lí a poco sbucò nella tagliata.
Un uomo stava caricando un mulo; un altro mulo aspettava a poca
distanza, strappando un festone pendente da un alberello. Sentendo il
rumore della ramaglia pestata, l'uomo si voltò di scatto. La barba lunga e il
carbone gli annerivano la faccia. Anche i suoi occhi erano neri e brillanti.
«Sa mica... dove sono i pistoiesi?»
«Qui siamo tutti pistoiesi.»
«Quelli che dormono alla fattoria. Uno lo chiamano il nonno» cercò di
spiegarsi Fiorella.
«Vada lungo questa proda.»
«Grazie» rispose Fiorella. Mentre gli passava accanto, si sentiva addosso
il suo sguardo.
I quattro erano al lavoro in una rientranza del taglio. Il ragazzo fu il
primo a vederla; sorrise, ma non disse nulla.
«Buongiorno» fece Fiorella.
Gli uomini borbottarono un saluto di risposta; il nonno accennò anche a
levarsi il cappello.
Fiorella sedette a una certa distanza, prendendosi il bimbo sulle
ginocchia. La incuriosiva vederli lavorare. Erano intenti ciascuno a un
lavoro diverso: uno degli uomini tagliava, l'altro accatastava la legna; il
vecchio faceva fascine con la ramaglia sparsa per il pendio; il ragazzo
ripuliva col pennato i ciocchi di scopa, buttandoli poi in una buca.
Ma a un tratto Fiorella si sentí a disagio. Che stava lí a fare? Il mulattiere
l'aveva fissata con diffidenza e forse anche quei quattro erano seccati che
lei stesse a guardarli lavorare. Non seccava anche a lei quando qualcuno si
metteva ai vetri della finestra a guardarla fare scuola? Si alzò, e li salutò in
fretta.
Di lí a una settimana, i boscaioli partirono; e lei fu più libera, ma anche
più sola... Per giunta era cominciato il cattivo tempo.
A metà gennaio, Fiorella lasciò Metato per andare a partorire a Volterra.
Né ebbe più occasione di tornarci.
A distanza di anni, aveva dimenticato i disagi e le umiliazioni; non si
ricordava nemmeno più delle persone (a parte Irma). Ma i luoghi, non li
aveva dimenticati. Quelle passeggiate col bambino e con Irma, le
tornavano spesso alla memoria. E le pareva che fosse stato un bel periodo,
uno dei più felici della sua vita.
CARLO CASSOLA
Cassola è nato a Roma nel 1917 da madre toscana e padre settentrionale.
Dopo la guerra è sempre vissuto in Toscana. Per vivere ha fatto il
professore di liceo e, per breve tempo, il giornalista. Da tre anni si dedica
esclusivamente alla letteratura.
Del suo «mestiere» dice: «Mi sono tenuto sempre piuttosto appartato
dalla letteratura ufficiale e non ho mai preso parte a movimenti e correnti,
un po' per temperamento e un po' per convinzione». Ha vinto i premi
«Salento», «Selezione Marzotto» e «Strega».
OPERE PRINCIPALI (tutte presso Einaudi): Fausto e Anna, 1952 - Il taglio del
bosco, 1959 - La visita, 1962 - La ragazza di Bube, 1960 (poi «Oscar»,
Mondadori, 1965) - Un cuore arido, 1961 - Il cacciatore, 1964.
ORESTE DEL BUONO

il traditore

PARTICOLARI. Quanto viene pubblicato in prima pagina dai giornali non mi


riguarda. Situazione internazionale, politica, strategia, finanze, tutto mi
pare cosí irreale, incomprensibile, inattingibile per le mie forze. Si, magari
c'è stato un tempo in cui ho tentato di distinguere: scegliere una parte
invece di un'altra, tenere per la verità. Ma è accaduto un secolo fa,
un'eternità addirittura, quando ogni illusione fioriva in me. E poi? Perché
ho cambiato idea? Più esattamente perché ho rinunciato ad avere un'idea
qualsiasi?
Per orizzontarsi bene nella nostra epoca, dice chi se ne intende, occorre
conoscere l'economia e la storia. Insomma, ci vogliono diligenza,
memoria, tenacia, inclinazione allo studio. E io sono sempre stato un
cattivo scolaro: distratto, approssimativo, pigro, volubile. Una fatica fisica
non mi ha mai fatto paura, una prova intellettuale mi ha sempre
sgomentato. Solo seguendo un metodo sicuro, dice chi se ne intende, si
può arrivare a scoprire la verità, a penetrarla, a comprenderla. È vero, lo
ammette anche l'intenditore, parti di verità o situazioni di fatto che portano
ad avvicinarvisi possono anche essere scoperte nel modo più semplice,
casuale, senza un metodo sicuro e persino senza una ricerca, soltanto
vivendo, ma da tali frammenti, da tali lampi di lucidità cosa può trarre il
negligente, l'ottuso egoista? Nulla che possa servire da insegnamento, da
monito, nulla che possa essere veramente utile agli uomini. Un
ragionamento giustissimo, non mi viene in mente la minima obiezione.
Essendo distratto, approssimativo, pigro, volubile, essendo soprattutto
egoista ma non presuntuoso, ho lasciato perdere una volta per sempre ogni
ricerca della verità. Mi accontento dei particolari: bastano e avanzano.
Ogni illusione di un tempo ha fatto presto a sfiorire come una pianta
dimenticata su un davanzale durante la siccità.
IL FUTURO. «Buono, buono, piccolino» dico, «lascia dormire la
mamma.»
Ho una mano sul ventre di N., ma mi s'informicolisce il braccio, lo ritiro
lentamente.
«Non vedo l'ora di averlo qui tra noi il nostro piccolino» torno a dire.
Sono sincero, perché non dovrei esserlo? Eppure mi pare di scoprire un
poco di sforzo nella mia voce, la diligenza, l'impegno con cui uno cerca di
convincersi. Cos'ho di meglio in mano per nutrire un briciolo di speranza
nei giorni che debbono venire?
«Dicevi?» chiede N., insonnolita.
«Nulla» dico, «pensavo al bambino. Diventerà senz'altro un grande
calciatore. Non lo manderò neppure a scuola. Che venga su analfabeta, ma
capace di tirar calci a un pallone. Sarà celebre e ci manterrà.»
«Cosa?» ripete N., sempre più insonnolita. «Cosa? Ma perché non
dormi? Dormi.»
Ritorna il silenzio tra noi. Mi giro nel letto a caccia della posizione
giusta. A proposito di particolari, chissà perché nell'ordine dell'universo
una discussione sul materialismo dialettico dovrebbe essere più importante
del figlio che mi sta per nascere o del filo d'erba che ho visto stamani
affacciarsi, miracolosamente, dalla fessura di quel marciapiede.
LO SBAGLIO. Allora è proprio vero, sta succedendo qualcosa, m'era
parso di sospettarlo prima, ma non si può essere sicuri di nulla, quando si
dorme. Ora, comunque, non dormo più, questo significa che, quando non
si dorme, si può essere sicuri di tutto? Riluttante ad ammettere la sconfitta,
il sonno ancora mi circonda come una ragnatela vischiosa, da solo non ce
la farei mai a liberarmene, tutte le membra cosí torpide. Ma non sono solo:
queste dita continuano a scuotermi, questa voce continua a ripetere il mio
nome, sta succedendo qualcosa, non mi è permesso indugiare. Le dita
premono maggiormente, la voce rinforza in tono di rimprovero. Certo, se
sta succedendo qualcosa di grave, indugiare in modo simile può essere
colpevole, irrimediabile, imperdonabile. Il tuffo del cuore, le palpebre che
si spiccicano faticosamente, le labbra che faticosamente si aprono:
«Allora?»
«Credo che ci siamo, O.» «Dove?» «Come dove?» «Dove siamo?» «Ci
siamo.»
Il pulsante oppone una qualche resistenza, e poi subito debbo
alzar la mano, a protegger gli occhi offesi dalla luce rosea, il pulsante
sbatte contro il fianco del comodino. «Non sarà un falso allarme?» dico, e
la spio attraverso le dita. «Insomma, i dolori li sento io, mica tu» protesta,
attraverso le dita vedo un pezzo della sua fronte, un occhio, un pezzo di
bocca. «Non t'arrabbiare, lo dicevo solo per...» Per cosa? Continuo a
spiarla attraverso le dita. Lo dicevo solo per avere un minimo di sicurezza
che, voi donne fate presto a, e poi se invece? Invece cosa? La mia testa
eternamente confusa. «Oh, ecco, ricominciano.» «Davvero?» «Non ci
credi?»
«Sí, ci credo, ci credo... Ma cosa posso farci?» Tiro giù la mano. La sua
faccia si altera, ma forse più di compatimento che di sofferenza. In.
qualche modo meglio cosí, dopotutto ci sono abituato, al suo
compatimento, o almeno dovrei esserci abituato. Perché?, ho anche il
minimo dubbio in proposito? Se ho continuato sino a ora a sopravvivere,
se continuo, se ho tutte le intenzioni di continuare. E adesso sto a pensare a
me, mentre lei? Siamo onesti: lei non avrà un buon carattere, ma io, il suo
compatimento, me lo merito, come no? «Bell'aiuto mi dai.»
«Via, non esagerare. Se solo sapessi cosa fare...» Dev'essere lei a darmi
l'imbeccata tra un sospiro e un gemito, ora la sofferenza prevale sul
disprezzo: «Muoviti. Almeno telefona a mamma.» Mi muovo. Scosto il
lenzuolo, poso i piedi nudi sul pavimento, una ciabatta è lí, e l'altra? L'altra
proprio non la vedo, sarà finita sotto il letto? Mi chino a cercarla, annaspo,
sotto il letto c'è troppa polvere. Bisogna deciderci a prendere una serva
fissa, adesso che N. non può più badare alla casa, e quanto verrà a costare?
Mi tiro
su, senza più cercare la ciabatta, cammino verso il salotto con un piede
scalzo, quanto verrà a costare? Naturalmente non posso non essere felice
di avere un figlio, però non posso non pensare che da adesso in poi le
spese continueranno ad aumentare. Comunque, questo lo sapevo anche
prima, e questo figlio non capita mica per caso. Compongo il numero,
sento il richiamo nascere nel mio orecchio con un tremolio di timidezza, e
poi consolidarsi, da querulo diventar perentorio. Ma perché non vengono a
rispondere? Ormai sto chiamando da. Nel mio orecchio esplode una voce
rauca, ringhiosa feroce:
«Ma chi è?»
«Sono io. N. dice che ci siamo...» e di colpo mi rendo conto di avere
sbagliato numero: non la riconosco proprio, la voce che continua a
tumultuare all'altro capo del filo:
«Ma chi è? Chi vuole?»
«Forse...»
«Chi vuole a quest'ora?»
Inutile tentare di spiegarmi, raccontare come stanno le cose, chiedere
perdono: ho sbagliato, sbaglio sempre, quando mai non sbaglio, io? Stacco
la comunicazione.
LA PAURA. «Sei sicura di dovere andare, N.?» le ho detto. «Sei sicura
che non si tratti di un falso allarme come tutti gli altri: è quasi un mese che
facciamo le grandi manovre.»
E stavo a guardare con gli occhi confusi mia moglie e mia suocera
mettere roba in una valigia.
«Dov'è la tua camicia nuova?» continuava a chiedere mia suocera.
«Dov'è la camicia che ti ho comprato l'altro giorno, dove l'hai messa?»
«Ma l'hai in mano, mamma» ho detto. «Come fai a non vederla?»
La questione stava esattamente nei termini seguenti: in piedi davo noia,
da qualsiasi parte mi mettessi finivo per intralciare i loro movimenti,
inutile provare a spostarmi e rispostarmi, sempre peggio, come se lo
facessi apposta. Apposta io?, e perché non apposta loro?, le donne sono
capaci di tutto pur di farti sentire in torto. Cosí ho pensato di dare meno
noia possibile, mi sono rificcato a letto, qui ero sicuro di non intralciare i
loro movimenti, non c'era un motivo, dico uno, di criticare la soluzione
scelta, la più pratica, la più logica, quindi la più giusta, eppure mi
guardavano cosí male. A dar totalmente retta alle loro occhiate, mi sarei
dovuto sentire un incrocio tra un verme e un criminale.
Alla fine ci siamo salutati. Dal basso, dalla strada, arrivava il richiamo di
una tromba d'automobile. A mia suocera è venuto in mente che l'autista del
taxi doveva essere stanco di aspettare. Allora l'ha presa una gran fretta.
Tirava per il braccio mia moglie.
«Allora ciao» ha detto N.
«Ciao» ho detto.
D'improvviso lei s'è liberata dalla mano di mia suocera, è tornata verso il
letto. Si è chinata a baciarmi, e non mi è piaciuta la sua espressione
compunta, triste. Sulla soglia si è fermata ancora. Ha cercato di sorridere: è
venuta fuori una smorfia mite, incerta.
«Sapessi quanta paura ho...»
Dalla strada è arrivato di nuovo il richiamo di quella tromba
d'automobile.
«È il taxi» ho detto stupidamente, per vincere l'impaccio. «Non fatevi
aspettare.»
Se ne sono andate. Sono restato solo, sono solo. D'accordo, sarei dovuto
andare con loro, a far la veglia in clinica, mi ci sono provato, a
proporglielo, non mi hanno forse detto di no, che avrei combinato più
confusione che altro? Dunque?, forse non ho insistito troppo, magari avrei
potuto costringerle a ripetermelo qualche altra volta il loro no. Insomma,
non esageriamo: se avevano davvero voglia della mia compagnia, sarebbe
bastato che parlassero. La realtà è che, tra tutti, oh, un discorso troppo
difficile, uno sbadiglio, e ci naufraga dentro. D'accordo, sarei potuto
andare con loro. Ma siamo agli inizi, avrei combinato più confusione che
altro, posso aspettare un poco, dormire con la coscienza a posto: se c'è
qualcosa di nuovo mi telefonano, in fondo siamo sicuri che non si tratti di
un altro falso allarme?
Ma l'espressione compunta, triste di N., quella sua smorfia mite, incerta
non vogliono cancellarsi dalla mia mente. Ecco, mi giro da quest'altra
parte. Ma perché dovrei trovare sollievo su questo fianco invece che su
quello? Pareva una sera come tante, ieri sera. Siamo stati a cena dai miei
suoceri e si è parlato soprattutto della serva fissa che ci occorre al più
presto adesso che sta per venire al mondo nostro figlio. N. non ha mai
voluto gente estranea per casa. Ma ora è una necessità, e non se ne trovano
che diano affidamento. Poi siamo rincasati, ci siamo messi a letto. E dopo
un poco lei mi ha chiamato, m'ha detto che c'eravamo. La terza volta che
capita di notte, e chissà quante volte è capitato di giorno, ma almeno di
giorno io non ci sono, lavorare serve a qualcosa. Davvero, e se fosse
ancora un falso allarme? Cosí, però, non l'ho mai vista; cosí impaurita.
Non è bello che io dorma, mentre lei ha paura. Non è bello, assolutamente,
ma, del resto, dov'è il sonno? Mi giro da quest'altra parte. Appena sarà
mattina andrò a trovare mia moglie. È lontana, la clinica. N. le ha visitate
tutte una a una prima di fare la sua scelta. E ogni sera mi raccontava quello
che aveva visto durante la giornata, i suoi dubbi sull'assistenza, sui prezzi
di quella o di quell'altra. Voleva conoscere il mio parere e io le dicevo che
ci pensasse lei, che doveva pensarci lei. Allora lei mi rinfacciava di essere
egoista. Ecco, ho riaperto gli occhi, mi sento in colpa. Mia moglie ha paura
e io, io cosa faccio io? Me ne sto a letto. Se è solo per questo ho paura
anch'io. Tanta tanta paura. Contenti tutti»
LE BASETTE. La famiglia di mia moglie è accampata in clinica. Sono
cosí felici che pare l'abbiano fatto loro, un figlio. Vengo spinto nella stanza
di N., e vedo subito la sua testa, piccola piccola contro il cuscino, con tutti
i capelli storti intorno in una raggera. Lei muove piano una mano nella mia
direzione, una mano smorta sul livido del lenzuolo. «O.» dice.
La mano non si muove già più. Forse non s'è mai mossa. Lei mi sta,
stremata, sotto. «Mi dispiace di essere arrivato tardi, ma...» comincio. Le
sue labbra stanche bisbigliano ancora: «O., scusami...» «Scusami tu, ma
sai...»
Mi chino a baciarla. La mia bocca scivola dalle sue labbra stanche al
tepido incavo del collo. Sto un attimo cosí chinato, con la bocca premuta
su questo punto della sua carne tenero, delicato, segreto: ascolto la sua vita
pulsare, con fievole ostinazione.
«O.» torna a dire lei, «scusami, volevi un bambino e ti ho fatto una
bambina.»
E il mio cuore sobbalza nel grande urlo esploso alle mie spalle. Mi giro:
ecco mia figlia. La bambina è tra le braccia della levatrice. Ma chiamarla
bambina è usar la fantasia: è una cosa strepitante e congestionata.
«Dio» dico, «Dio mio...», sono sinceramente smarrito. Mia suocera ha
un'aria battagliera. «Senti che polmoni» dice.
Li sento, eccome se li sento. Ho un improvviso, irresistibile bisogno di
mettermi a sedere.
«Allora cosa te ne pare?» dice mia moglie. «Per carità, non fare quella
faccia, altrimenti piango.»
«Ma no, ma no» protesto debolmente, «non dir stupidaggini.»
Guardo la cosa: il ghigno che sfigura la faccina tutta increspata, la
faccina irregolare, all'apparenza decrepita. Le grida mi lacerano i timpani..
«Dio mio...» mi sfugge detto di nuovo.
Tutti parlano nella stanza, siamo troppi.
«Quanti capelli ha» dice mia suocera, orgogliosa «e cosí lunghi, neri.»
In cima alla testina deforme sventola un ciuffo selvaggio, una specie di
criniera addirittura.
«Ha anche le basette» dico.
«Non sai proprio apprezzare il bello» dice mia suocera.
Con estrema delicatezza sfiora i capelli neri di mia figlia, già tanto
lunghi.
«Ma dite la verità, gente» declama, «avete mai visto un neonato cosí?
Avete mai visto una bambina cosí simpatica, cosí affascinante?»
Poi la levatrice dice:
«Ora che l'avete contemplata abbastanza me la riporto via. Fine
dell'esibizione.»
Se ne va con la cosa che non ha smesso un attimo di strepitare.
«Quella donna è troppo villana» si lamenta mia suocera.
Parlano tutti insieme, N. si rivolge ancora a me:
«Sei tanto deluso?»
Sono seduto accanto al suo letto, prendo questa sua mano, gliela stringo.
«Ma no» protesto, «non dire stupidaggini. Piuttosto, raccontami com'è
andata? Hai sofferto molto?»
La sua mano è inerte tra le mie dita.
«Oh, si» dice N., «Te lo avevo detto che sono una vera vigliacca, ma
tutta la mia paura era giustificata: ho proprio sofferto molto, sai?... Non so
come sono arrivata sino in fondo... A un certo punto sono persino svenuta,
o quasi, e la levatrice mi ha presa a schiaffi, e forti, di gusto, come se ci si
divertisse...»
«Quella donna non mi piace per nulla» dice mia suocera.
«Cara» dico, «cara...»
E mi rincresce non sapere essere più espansivo. Ma intanto apro le dita
perché sudiamo anche se qui c'è l'aria condizionata, non posso continuare a
stringere la sua mano umida, sempre più molle.
«Povera la mia N., povera la mia bambina...» dice mia suocera.
E mia moglie dice:
«Sai? Credo che mamma abbia sofferto anche più di me.»
Torna la levatrice con un'infermiera, una suora. Debbono rifare il letto,
debbono fare non so più cosa a N. Siamo troppi in questa stanza, lo dicevo
io. Ci tocca uscire. Ci trasferiamo nella sala d'attesa dall'altra parte del
corridoio. Mi butto giù su questa poltroncina. È scomoda. E quanto
possono parlare, questi. Mio suocero continua a chiedere ai figli:
«Secondo voi a chi somiglia di più? A lui o a lei?»
E gli altri rispondono. Ho la testa cosí confusa, persino più del solito. A
chi somiglia di più? Ma come può somigliare a qualcuno una cosa?
PAROLE. Debbo mettere giù le parole del telegramma da spedire ai miei
per annunciare la nascita della piccolina. Compito le parole, e
d'improvviso ecco la perplessità: non so più andare avanti. Via, com'è
possibile?, si tratta di un telegramma, si tratta solo di comunicare quello
che è successo, com'è possibile? Mi sono arenato, è addirittura ridicolo, la
cosa più ridicola che mi potesse capitare. È proprio un guaio che le parole
non dicano nulla, assolutamente nulla.
IL TRADIMENTO. Ho camminato in su e in giù nel corridoio davanti
alle porte di quelle stanze su cui occhieggiano fiocchi rosei e azzurri. Alla
fine la porta della stanza di mia moglie si è aperta, ne è uscita una suora,
mi pareva di averla già vista ieri, ma tanto sono tutte uguali. Mi ha sorriso.
«Un attimo ancora e potrà vedere sua moglie» mi ha detto e mi ha
sfiorato con il bianco frusciare della veste.
Ma si è fermata due o tre passi più in là, mi ha sorriso ancora:
«Vuol dare un'occhiata a sua figlia, mentre aspetta?...»
L'ho seguita sino in fondo al corridoio. I neonati sono schierati dietro la
gran vetrata. Sono parecchi. Mia figlia, però, l'ho riconosciuta subito:
bruna e grinzosa con quella specie di criniera, gli occhi vaghi, la bocca
spalancata e contorta in uno strepito che la lastra rende silenzioso, e
magari per questo più violento. La guardavo, sospiravo, poi mi sono
accorto di non esser solo. Mi sono girato: c'era la ragazza, neppure male.
«Ha visto che campione è riuscita a mettere insieme mia sorella?» ha
detto, allegra.
Batteva con un dito sulla lastra, mi indicava quel bambinone accanto a
mia figlia: enorme e roseo, con pochi peluzzi biondi sulla testa tonda, un
paziente, dolce, trionfante sorriso.
«È davvero un campione» ho detto, sincero e invidioso.
Neppure male, neppure male. Ha scosso quella ciocca di capelli,
tentando di liberare l'occhio, ma senza convinzione. La ciocca è ritornata
al suo posto, morbida, leggera.
«Mio cognato voleva proprio un maschio» ha detto.
«È stato fortunato» ho detto, sempre più sincero e invidioso.
Aveva voglia di parlare, lei, evidentemente. Dopo un attimo eccola
riaprire la bocca: «E lei perché è qui? Qual è il suo?» «Il mio?»
«Un figlio o una figlia?...»
Non mi dispiaceva affatto, non ho voluto rischiare brutte figure con lei:
mi vergognavo di quel tizzoncino troppo bruciacchiato dietro la lastra.
«Il mio non è ancora nato...» ho detto, e mi grattavo il naso come sempre
quando dico le bugie. «Sono venuto a dare un'occhiata qui per pura
curiosità. Spero di avere un maschio anch'io...» E ho ripetuto la lezione, il
luogo comune con cui ho creduto di essere spiritoso in questi mesi:
«Voglio tirarlo su analfabeta e fargli fare il calciatore. E campare alle sue
spalle, naturalmente...»
Lei ha riso: era chiaro che le piaceva esser guardata, ammirata.
«Lei è fatto per andare d'accordo con mio cognato» ha detto. Suo
cognato? Ne parlava con tono di possesso, di complicità. Ho provato una
lieve trafittura di gelosia, la gelosia è sempre irragionevole. Ma lei ha
scosso ancora quella ciocca di capelli, nascondendo, invece di scoprire
l'occhio.
«Però, ha visto bene anche questa bambinetta vicino a mio nipote?...» ha
detto. «È minuscola, ma guardi che amore. Quanti capelli. Non c'è nessuno
degli altri che ne abbia tanti. E che faccina ha. Con già un'espressione...»
In quell'attimo, in quel preciso attimo, mi sono sentito un traditore, e
sporco e vigliacco. M'è parso di vederla solo allora, mia figlia. Non
gridava più e non dormiva ancora: aveva quei suoi vaghi occhi aperti e ho
avuto paura che riuscisse a guardare proprio me, per rimproverarmi il
tradimento.
«È davvero una meraviglia» ho detto, io, sporco, vigliacco, traditore.
UN DUBBIO. Tutte le volte che rivedo i miei ho l'impressione che
qualcos'altro sia morto in loro. È più che un'impressione: sento la
scontentezza, la solita, eterna scontentezza farsi protesta e disperazione. Il
loro treno è arrivato in ritardo. Almeno di mezz'ora. Ho continuato a
passeggiare su quel marciapiede, tra quel fumo e quella sporcizia: faceva
caldo, il caldo di quando si prepara un temporale d'estate, la camicia mi si
è imbevuta di sudore. Poi è arrivato il treno, mi sono alzato sulla punta dei
piedi, ho guardato tra e oltre le facce anonime: mio padre e mia madre
erano gli ultimi, lei si teneva appesa al braccio di lui e parlava, lui non la
stava a sentire, badando a reggere con l'altra mano la valigia. Sono andato
loro incontro. Mia madre mi è apparsa un poco ingrassata, mio padre mi è
apparso un poco dimagrito. Ci siamo abbracciati e baciati.
«Cos'hai?» ha chiesto lei. «Non sei contento di vederci?»
«Io? Perché non dovrei esserlo?» ho protestato.
«Hai un'aria... Ma, del resto, non siamo mica venuti per veder te.»
Mio padre insisteva per portare lui la valigia. Non ammette che abbia
trent'anni, ormai. Ho dovuto poggiare una mano sulla sua, fare forza. E,
quando le sue dita si sono ritirate, la valigia è risultata di colpo pesante: mi
è andato giù tutto il braccio.
«Com'è la bambina?» ha chiesto mia madre.
«È troppo presto per giudicare...» ho detto.
Ma lei già chiedeva:
«A chi somiglia?»
La sua voce ha cominciato a ronzarmi negli orecchi, le parole si
sfaldavano, perdevano significato, facevano solo numero, massa per
impedire qualsiasi accenno, qualsiasi possibilità di silenzio. Scendevamo
le scale della stazione, la valigia mi sbatteva contro i ginocchi. Lui mi ha
guardato, ha strizzato un occhio. Lei continuava a parlare.
«Mi stai a sentire?» ha detto.
«Certo» ho detto, «certo...»
Mi pare una situazione cosí strana. Ma no, non è strana la situazione.
Sono strano io, stasera. N. e la piccolina sono ancora in clinica, mio padre
e mia madre sono miei ospiti, ho ceduto loro il letto matrimoniale. A
questo letto su cui sto, toccherà alla serva che dobbiamo assumere, non
sono abituato, ma la mia inquietudine di stasera può derivare dal cuscino
quasi inesistente, dal materasso troppo cedevole, dalle molle cigolanti, sia
pure piano piano, a ogni movimento? Sarebbe una spiegazione troppo
semplice, e ormai ho imparato che nulla è troppo semplice, nulla è
abbastanza semplice. Infatti, penso: mio padre e mia madre sono di là,
appena oltre questa parete, pochi mattoni e intonaco, penso questo e dentro
di me accade qualcosa. Chiudo gli occhi. Dormo già? Può darsi: chi è in
grado di affermare un dato, un solo dato esatto su se stesso? Mi pare di
andare e venire tra il mio presente e il mio passato. In quest'attimo, a
esempio, torno bambino. Io sto in questa stanza, sono bambino, ho fatto
davvero tutti i compiti in programma? Sarò davvero ben preparato?
Domattina m'interrogheranno in matematica. Che confusione: a trent'anni
vado ancora a scuola? Com'è possibile?
Adesso sono sveglio. C'è stato un rumore. Cosa può essere successo? In
questo letto non mi ritrovo proprio. Metto giù i piedi, mi alzo. Ma, al buio,
ho calcolato male le distanze, vado a sbattere contro l'altra parete, la mia
mano annaspa a lungo prima di riuscire ad aprire la porta. In cucina è
accesa la luce, cammino nel corridoio. E poi mi fermo sulla soglia della
cucina, sbatto le palpebre, mi schiarisco la gola: mio padre è seduto al
tavolo, ha i pochi capelli grigi spettinati, il pigiama gli si affloscia intorno
al corpo troppo magro, mia madre infagottata nella sua lisa vestaglia sta ai
fornelli.
«Ti abbiamo svegliato, O.?» chiede lei. «Mi dispiace, ho fatto fracasso.
Sono poco pratica della casa. Volevamo prepararci un caffè...»
«Un caffè a quest'ora?»
«Certo» dice lei, «tanto chi dorme?»
Sono sempre sulla soglia. Proprio davanti a me c'è il calendario.
Nessuno ha più staccato i foglietti dal giorno prima della nascita di mia
figlia.
«Io torno a letto» dico, «domani debbo andare a lavorare.»
Rientro nel bugigattolo ove mi tocca dormire per stanotte, mi butto sul
letto nel cigolare delle molle. E dopo poco, quanto è passato?, possibile
che sia passato più di un attimo?, mi tiro di nuovo su. Non debbo sprecare
il tempo in questo modo quando posso stare insieme con loro due. Non li
vedo, non gli parlo quasi mai. Domani o dopodomani li riaccompagnerò
alla stazione. Non sono liberi di trattenersi qui quanto vogliono: mia madre
ha da riprendere le sue lezioni, mio padre ha sempre da difendere il suo
impieguccio. Che vergogna che siano costretti ancora a lavorare al paese
alla loro età, che vergogna che io non guadagni abbastanza da mantenerli.
Ma questa è proprio la verità? Oppure io sono troppo avaro, lesino i soldi
ai miei? Via, andiamo per lo meno a fargli compagnia. Ora sto attento a
non sbattere contro la parete. Ecco la porta. Ecco la maniglia. Ecco il
corridoio, con quella luce in fondo.
Loro due sono sempre in cucina. Anche mia madre si è seduta al tavolo.
«Cos'hai, O.?» dice.
«Non riesco a dormire» dico.
«Anche tue È proprio un'abitudine di famiglia...»
Attraverso le tapparelle malchiuse si vede ormai il primo grigiore della
nuova giornata. Mi accosto alla parete, comincio a staccare i foglietti dal
calendario. Ecco la data della nascita di mia figlia: 25 giugno 1952. Stacco
anche questo foglietto, ne tolgo un altro.
«Quanti ne abbiamo oggi?» dico.
«Vuoi un caffè anche tu»» dice mia madre.
«E un'idea...» dico.
Lei si alza, torna ai fornelli. Mio padre mi guarda. Si sta accendendo una
sigaretta e il polso gli tremola molto, ma anche il mio, del resto, tremola
già abbastanza. Lui mi strizza un occhio.
«Te n'eri dimenticato, eh»»
«Di cosa?» dico.
«Di quanto può chiacchierare...»
«Oh» protesta lei, «mica tutti possono essere delle mummie.»
«Ti senti giovane, vero?» protesta lui.
Si sorridono, appena un accenno delle labbra pallide, segnate. Sono
proprio sicuro che in questo tempo sia morto qualcos'altro in loro e non in
me?
ORESTE DEL BUONO
Del Buono è nato all'isola d'Elba nel 1923, ma vive e lavora da vent'anni
a Milano. Ha fatto il giornalista per molti anni e collabora tuttora al
Corriere della Sera. È un eccellente traduttore dal francese e dall'inglese.
Sta preparando per Rizzoli un volume sul foot-ball con Gianni Rivera.
Non concorre per principio a premi letterari. Pensa che «la vita del
romanzo è legata a quella della borghesia che l'ha creato come sua
espressione. Noi non sopravvivremo al romanzo».
OPERE PRINCIPALI: La parte difficile, Mondadori 1947 - Acqua alla gola,
Mondadori 1953 - L'amore senza storie, Feltrinelli 1958 - Un intero
minuto, Feltrinelli 1959 - Per pura ingratitudine, Feltrinelli 1962 - Facile
da usare, Feltrinelli 1962 - Né vivere né morire, Mondadori 1963 - La
terza persona, Mondadori 1965.
ALBERTO MORAVIA

con filosofia

NON so COME mi ritrovai un giorno in quel salotto. Dico "mi ritrovai"


perché il salotto, come avviene talvolta con certi paesaggi che danno
inspiegabilmente la sensazione di averli già veduti, mi fece pensare,
appena mi affacciai sulla soglia, di esserci già stato in un'altra vita
probabilmente peggiore e soprattutto più noiosa di questa. In realtà si
trattava di un salotto del genere più comune trent'anni or sono, prima
dell'avvento dello stile svedese o del neoliberty: mobili novecento alquanto
opachi e malconci, vecchie poltrone e divani logori con i braccioli non
tanto puliti. E sedute in queste poltrone e in questi divani vidi una decina
di donne assai brutte e mature che parevano anch'esse rimaste ferme alla
moda di trent'anni or sono, cosí nei vestiti ridondanti come nelle tinture
eccessive. Sulla mia faccia, a questa vista, dovette dipingersi una tale
costernazione che la stessa padrona di casa mi disse bonariamente: «È
spaventato dalla prospettiva di essere il solo uomo tra tante donne»
Dovrebbe invece essere contento. Del resto trappoco non sarà più solo,
deve venire Perotti.»
Disse il nome di Perotti senza farlo precedere da alcun titolo come
cavaliere, dottore e simili, cosa strana in un ambiente come quello nel
quale mi pareva che i titoli dovessero essere di prammatica: lei stessa mi
aveva accolto dandomi del professore, benché professore io non sia.
Pronunziò, insomma, Perotti con aria di importanza, come si pronunzia il
nome di qualche importante artista o uomo politico. Risposi che non ero
affatto spaventato, al contrario e che avrei rivaleggiato con Perotti per
tenere alto, tra tante donne, il buon nome degli uomini.
Ero stato avvertito; e anzi proprio per questo avevo accettato l'invito: il
salotto di quella signora era quello che di solito si chiama un salotto
intellettuale. Ingenuamente, avevo pensato che non sarebbe forse stato
privo di interesse vedere l'arte e la cultura del nostro tempo dall'angolo
visuale di una società che avevo immaginato al tempo stesso entusiasta ed
incompetente. Ma dovetti accorgermi ben presto che mi ero sbagliato nelle
mie previsioni e che ero capitato in un mondo particolare e del tutto
autosufficiente, con gusti, valori e celebrità diversi dai valori dai gusti e
dalle celebrità universalmente riconosciute.
Mi ero appena seduto e la padrona di casa mi aveva appena fatto le
domande di rito: «Un vermut... oppure preferisce un pomodoro?», quando
tutte quelle signore cominciarono una discussione appassionata sull'opera
del pittore Canestrini. Nuovo salto indietro di trent'anni: Canestrini
altrettanto famoso in quel salotto quanto totalmente ignoto a me, era, come
pareva, un pittore non soltanto figurativo ma di una figuratività, per cosí
dire, aggressiva, naturalisticamente basata sulla più accurata imitazione
della natura.
«Mi piace come ritrattista» disse una prima signora, «perché i suoi
ritratti sono veramente rassomiglianti, anzi parlanti. Chissà come fa a
prendere cosí bene la somiglianza. Le nature morte invece mi lasciano un
po' incerta».
«Io invece preferisco le nature morte» disse una seconda, «specialmente
quelle di fiori.»
«Certo pochi oggi dipingono come lui» disse una terza.
«Sapete quanto fa pagare oggi un ritratto Canestrini? Più di un milione.
E spesso rifiuta perché ha troppo lavoro» disse una quarta.
«È molto... ma in fondo, a ben guardare è il suo prezzo» disse una
quinta.
«E lei che cosa ne pensa di Canestrini?» interrogò una sesta rivolgendosi
a me.
Risposi prontamente che Canestrini a mio vedere era certo uno dei
migliori pittori che ci fossero oggi in Italia. Fui approvato con una specie
di sollievo: l'espressione del mio viso forse aveva fatto supporre un
giudizio diverso. Ma già la conversazione abbandonava volubilmente la
pittura per la letteratura. Respirai, pensando che non sarebbe stato cosí
facile che i loro scrittori mi fossero altrettanto sconosciuti dei loro pittori.
Ma era ancora una volta un'illusione, come mi accorsi subito. Il nome di
un romanziere a quanto sembrava molto apprezzato e discusso in quel
salotto, mi riusci talmente nuovo che, credendo di avere inteso male,
dovetti farmelo ripetere due volte. Intanto le signore, senza curarsi di me,
discutevano su questo loro narratore preferito. Non soltanto parlavano con
infatuata ammirazione di lui ma anche dei suoi personaggi, cosa oltremodo
imbarazzante, perché se mi era ancora possibile, forse, dare a intendere
con lodi generiche e imprecise che conoscevo lo scrittore, lo stesso non
potevo fare quando una di quelle infervorate mi chiedeva che cosa
pensassi di Renato; se mi pareva che Irene facesse bene, a pagina tanto, a
darsi a Costantino; dove avessi mai veduto figura più simpatica di Mattia.
La discussione del resto non era propriamente di specie critica: la grande
questione era soltanto di sapere se fosse più bello questo o quest'altro
romanzo dello stesso autore, ecco tutto. A quanto pareva, lo scrittore non
meno fecondo che noto, ne aveva scritto ben ventidue. «A me piacciono
tutti» disse improvvisamente una delle signore, «appena ne esce uno, mi
precipito in libreria e il commesso lo sa cosí bene che non mi chiede
neppure cosa voglio. Mi tende già incartato il libro. Che bei romanzi.
Peccato che non ne scriva di più».
Vidi che la padrona di casa mi guardava con compiacimento, come
pensando: «Non è mica un salotto come gli altri il mio. Qui si parla di cose
elevate». E mi affrettai ad osservare: «Non sapevo che ci fosse ancora
tanto fervore per la letteratura».
«Ha letto l'ultimo libro di poesie di Pandimiglio?» mi domandò a
bruciapelo una delle interlocutrici.
Colto alla sprovvista, confessai che non lo avevo letto.
Subito due o tre voci esclamarono: «Come non l'ha letto? Che peccato.
Sono bellissime. Deve leggerlo.»
Amo la poesia, conosco di persona alcuni poeti degni di questo nome;
rimasi perciò assai sconcertato dall'idea che potessero esservi due generi di
poesie: uno per gli intenditori e l'altro per coloro che non se ne intendono,
come pareva essere il caso del poeta Pandimiglio e delle sue ammiratrici.
Come se non bastasse, il libro di questo celebre poeta si trovava appunto
sulla tavola e la padrona me lo presentò con un'espressione ammirativa
negli occhi, dicendo: «Eccolo, lo guardi, lo guardi pure e poi mi dica se
non sono belle.» Sfogliai il libro distrattamente, pieno di malumore,
pensando che era giunto il momento di congedarmi. Ma non feci a tempo a
leggere una di quelle liriche stampate a caratteri microscopici nel mezzo di
immense pagine bianche. Il campanello della porta risuonò, la padrona di
casa disse: «Deve essere Perotti» e si precipitò fuori del salotto. Di lí ad un
momento, infatti, Perotti comparve sulla soglia.
Lo guardai con una certa curiosità. Perotti era di statura mediocre, largo
di spalle e corto di gambe ma con una testa imponente: grandi occhi neri e
inespressivi, fronte marmorea, naso dritto, bocca nobile, capelli folti, forse
tinti, pettinatissimi. Era la testa di un seduttore di provincia, fin troppo
consapevole della propria avvenenza; e questa vanità cosí ingenua lo
rendeva al tempo stesso amabile e irritante. Perotti era vestito con
proprietà ma in fondo, quasi poveramente. La giubba blu scuro, di taglio
antiquato, era lustra ai gomiti; i pantaloni ormai smontati reggevano male
la piega; le scarpe rivelavano in più punti, sotto la vernice, delle
sdrusciture. Perotti di età più che matura, come dimostrava
l'afflosciamento delle guance e della gola, pareva indossare un busto sotto
la giacca, tanto si teneva ritto e impettito.
Fece il giro della tavola, molto cerimoniosamente, baciando una dopo
l'altra, la mano alle signore e chiamandole a parte con il loro nome e
diverse sfumature di voci secondo il grado di familiarità e di conoscenza.
Due che gli furono presentate per la prima volta, si ebbero un inchino più
profondo e un baciamano più prolungato. Quindi sedette mettendosi in
profilo e un pochino in penombra e per un momento stette zitto. Ma vide il
libro di Pandimiglio nelle mie mani e disse pronto, con uno sguardo
d'intesa: «Un poeta suggestivo, nevvero?»
Lo guardai. Aveva cavato di tasca un vecchio portasigarette d'argento,
con due o tre sigarette di qualità scadente, e ne accendeva una,
socchiudendo gli occhi nel fumo. Dissi, spinto da un impulso improvviso:
«Suggestivo, che vuol dire suggestivo?»
Rispose abbastanza tranquillo: «Suggestivo, vuol dire... suggestivo.» «E
cioè?»
«È una parola che si dice, no? Di tutte le cose che sono suggestive,
appunto.»
Una voce domandò: «Che ne pensa, Perotti, dei versi della signora
Badini Corallo?» «Un'anima eletta.»
Domandai di nuovo: «Eletta? Che vuol dire eletta?» Questa volta mi
guardò sconcertato: «Eletta cioè... beh eletta, si dice cosí: un'anima eletta.»
«Lei senza dubbio direbbe pure: sensibilità squisita.» «In certi casi, sí. Ma
perché poi mi fa questa domanda?» «Nonché: tormento spirituale, no?»
«Anche questo. Ma mi scusi, perché le interessa tanto di saperlo?»
Tacqui e non gli risposi. Perotti mi guardò, senza dubbio aspettando che io
parlassi, quindi si distrasse e attaccò discorso con una sua vicina. Guardai
l'orologio e decisi di andarmene. Ma sul punto di alzarmi, ecco udii la voce
di Perotti che diceva: «Io ho una mia religione» e quasi mio malgrado
saltai su: «E qual è questa religione?»
Ci fu un gran silenzio. Perotti mi fissò un momento coi grandi occhi neri
quindi, inghiottendo la saliva, arrischiò agli angoli della nobile bocca un
fine sorriso. Disse con sforzo: «Come sarebbe a dire: quale religione?»
Insistetti crudelmente: «Lei ha affermato che ha una sua religione.
Ebbene mi dica qual è questa religione.»
«Ma si dice cosí, che si ha una propria religione, per dire che ognuno
guarda a queste cose dal suo punto di vista. Si dice cosí, è una maniera di
dire.»
«Come si dice: poesie suggestive, anima eletta, sensibilità squisita e
tormento spirituale?» «Esatto.»
«Va bene, si dice cosí. Ma, insomma, lei ha detto, sia pure con una frase
convenzionale che ha una sua religione. Dunque, fuori questa religione, mi
dica com'è.»
Sorrise e rispose stringendosi nelle spalle: «Mi sembra che di queste
cose né io né lei potremmo parlare con competenza. Mi scusi, ma a che
serve, non potremmo dire che delle sciocchezze. E poi, anche se non le
dicessimo, le cose resterebbero come sono.» «E come sono?» «Come sono
che cosa?» «Come sono le cose?»
Mi fissò a lungo questa volta; quindi fece un gesto verso le signore,
galante e deferente: «Ma perché vogliamo annoiare tutte queste belle
signore con simili problemi? E poi mi dia retta: non serve a nulla. Bisogna
prendere il mondo com'è, senza tante storie, con filosofia.» «A proposito,
quale filosofia?»
Questa volta stupí davvero: «Con filosofia, si dice cosí, è una maniera di
dire.»
«Mi scusi credevo che lei intendesse una particolare filosofia, come per
esempio, che io so, l'esistenzialismo oppure la fenomenologia.»
«No, no», si affrettò a rispondere con serietà, un po' imbarazzato ma
anche lusingato che io gli attribuissi una cultura che non possedeva, «non
intendevo nessuna scuola filosofica in particolare. Ho voluto soltanto dire:
con filosofia, come si dice di solito, cosí, semplicemente.» «Mi scusi, non
avevo capito.»
Accettò le mie scuse con uno sguardo e un sorriso di gratitudine.
Adesso provavo un sentimento scomodo tra la compassione e
l'irritazione. Mi pareva che tutte quelle donne intorno la tavola, con le teste
dipinte e le loro persone impettite somigliassero a tante gonfie e querule
galline. Perotti, bell'uomo vanitoso e pieno di cerimonie, era il gallo in
quel numeroso pollaio. Ma dopo quella discussione, non sapevo neppure io
perché, mi pareva che il gallo, nonostante le belle penne e il portamento
maestoso, fosse diventato un cappone. Tuttavia le galline non se ne
accorgevano e continuavano a girargli intorno illuse di essere protette e
corteggiate.
Quest'immagine mi dava fastidio come una mosca importuna. Anche
perché si mescolava di crudeltà, facendomi balenare l'altra immagine della
massaia che, afferrato il falso gallo, lo rivoltava a testa in giù, lo palpava
per vedere se era grasso e quindi lo scaraventava, i piedi legati, sul marmo
della cucina. Sempre con questa immagine in testa, mi levai e mi congedai.
«Che ne dice di Perotti?» Mi domandò la padrona di casa
accompagnandomi.
Le risposi che in gioventù doveva essere stato un bellissimo uomo.
«Glielo dirò. So che gli farà piacere» lei disse. Io uscii.
ALBERTO MORAVIA
Moravia (vero nome Alberto Pincherle) è nato a Roma il 28 novembre
1907. È uno dei massimi narratori italiani contemporanei e certamente il
più tradotto. Ha sempre scritto anche per giornali, La Stampa, la Gazzetta
del Popolo, il Corriere della Sera. E critico cinematografico de L'Espresso
e condirettore di Nuovi Argomenti.
Ha vinto i premi «Strega» e «Marzotto». Da molti dei suoi libri sono stati
tratti film.
Di sé Moravia scrive: «La mia infanzia fu normale benché solitaria.
All'età di nove anni mi ammalai di tubercolosi ossea; e questa malattia mi
durò fino a sedici anni; ma gli effetti di essa si prolungarono almeno fino
a venticinque. Questa malattia è stato il fatto più importante della mia
vita».
OPERE PRINCIPALI: Gli indifferenti, Alpes 1929 - Le ambizioni sbagliate,
Mondadori 1935. Tutti gli altri suoi libri sono editi da Bompiani: Agostino,
1945 - La romana, 1947 - La disubbidienza, 1948 - L'amore coniugale,
1949 - Il Conformista, 1951 -Racconti Romani, 1954 - Il disprezzo, 1954 -
La ciociara, 1957 - Nuovi racconti romani, 1959 - La noia, 1960 - L'uomo
come fine, 1964 - L'attenzione, 1965.
GOFFREDO PARISE

parliamo del più e del meno

NON POTENDO COMUNICARE in altro modo con la donna che amava, M.


afferrò il telefono e provò a chiamarla. Non era affatto certo che l'avrebbe
trovata e non era nemmeno certo che, quand'anche fosse stata in casa e in
quella città, avrebbe acconsentito a parlargli. Cosí profondo era il mistero
in cui da qualche tempo era avvolta che M., pensando a lei, provava una
intensa sensazione di irrealtà: come se quella donna che egli aveva amato e
ancora amava non esistesse, non abitasse in nessuna città e non avesse
nessun numero di telefono. Eppure, non solo egli l'amava, ma era stata
accanto a lui per molti anni e forse anche lei lo aveva amato.
A questo ultimo pensiero M. provò dolore: infatti non riusciva a
ricordare in nessun modo come e quando lei lo avesse amato. Allora tentò
di ricostruirla davanti a sé con l'immaginazione come se fosse in quella
stanza dove tante volte aveva camminato, in quelle poltrone e su quel
divano dove tante volte si era seduta, accanto a quel telefono che tante
volte aveva usato. Cosí, aspettando lo squillo della comunicazione, M.
pensò di affidare all'immaginazione quanto la realtà gli negava.
Ecco dunque la donna entrare nel suo studio lievemente assonnata, le
piccole labbra gonfie color corallo appena schiuse nel sorriso. Ecco le sue
lunghe gambe attraversare la stanza con un che di timido e di frettoloso,
appoggiate appena sulla punta dei piedi come chi vuole passare
inosservato, o meglio come chi, trovandosi a passare in luogo dove c'è una
sola persona, spera tuttavia di attenuare e quasi di illanguidire la propria
figura fino al punto di non essere notata affatto. Ecco le braccia sottili e le
mani piccole e delicate sospese in aria, ai lati del corpo, con la leggerezza
e l'indeterminazione di certe manine di poppante che si agitano nel
tentativo di afferrare un dito della madre, un capezzolo, il poppatoio. Ecco
infine i lenti e lunghi occhi bruni guardare verso di lui come emergendo da
un sonno calmo e profondo, cioè quasi privi di conoscenza, ma pieni di
quel languore tenero e desolato di un bambino che ha fame e non sa di
averla.
"Eccola" pensò M. con commozione "è qui davanti a me e la sua figura,
cioè l'immagine di lei che io evoco con la mente è uguale alla sua figura
reale. Cosí nella realtà lei appariva nel mio studio al mattino, cosí
muoveva braccia e mani e cosí mi guardava, come mi guarda ora. E tutto
questo, cioè lei, i suoi movimenti, le sue gambe, le braccia, le dita, gli
occhi, era ciò che amavo e che ancora amo. Ma com'erano i suoi pensieri,
le sue parole, la sua voce? Anche questi amavo come quelli?
Con sorpresa M. si accorse di non poter rispondere a queste domande.
Infatti, come ricordava benissimo, al punto da vederla davanti a sé,
l'immagine della donna, cosí non riusciva invece in nessun modo a
ricordare la voce di lei, né le parole e nemmeno i pensieri che stavano
dietro le parole. Provò a concentrarsi per fare affiorare almeno un brano,
un frammento di conversazione che gli rimandasse la sua voce e con essa i
pensieri e le parole. Ma per quanto facesse non riuscí a nulla. L'immagine
della donna stava davanti a lui, chiara e limpida come nella realtà, e forse
ancora più chiara e limpida, ma lei non parlava affatto ed M. non riuscí a
ricordare un solo pensiero, un timbro della voce.
"Che strano" pensò con tristezza. "Io l'ho amata, l'amo ancora e tuttavia
conosco di lei soltanto ciò che ho visto e che ancora mi pare di vedere, ma
nulla di ciò che si ode e che si trasmette attraverso la parola. E nemmeno il
tono della voce, che, se non le parole, potrebbe aggiungere almeno un
elemento sonoro a questa immagine silenziosa. Eppure abbiamo tanto
parlato, o, almeno, io ho tanto parlato con lei e lei ha sempre risposto.
Forse il mistero di lei sta proprio qui e l'amo ancora appunto per questo.
Perché la mia conoscenza di lei è incompleta, conosco tutto ciò che ho
visto e toccato ma nulla di ciò che pensa o dice. Amo insomma qualche
cosa di effimero, un'ombra e non lei quale è, con i suoi tratti, ma anche coi
suoi pensieri e le sue parole."
In quel momento il telefono mandò un breve trillo. M. corse
all'apparecchio, sollevò il cornetto e disse più volte «pronto» senza
ottenere risposta. Sconsolato M. tornò a sedersi in poltrona.
"Allora significa che io ho amato una persona che non conosco" pensò
M. e provò un dolore profondo e perfino nauseante: come se l'immagine
della donna, cosí ineffabile e piena di significati, avesse perso di colpo
tutto il suo mistero. "E non soltanto che non conosco, ma di cui non c'è
nulla da conoscere al di là della sua apparenza. Come questa lampada o
quel portacenere o quella pianta grassa nell'angolo della stanza. Lampada,
portacenere e pianta grassa sono quello che sono, cioè quello che
appaiono. E li riconosco grazie alla loro forma. In essi e al di là di essi non
vi è alcun mistero, perché, appunto, la loro esistenza e la loro essenza si
manifestano immediatamente e definitivamente attraverso la loro forma e
il volume che occupano nello spazio. Come la curva di quel portacenere, il
colore di quella lampada o la polpa grassa e immota di quella pianta, anche
il volto, gli occhi, le mani e le lunghe gambe di lei sono quello che vedo e
nulla più».
In quel momento il telefono mandò uno squillo lunghissimo e lacerante
ed M. si precipitò a sollevare il cornetto per farlo smettere. Ma all'altro
capo del filo, in luogo del solito silenzio, M. udì la voce della donna che
amava. Questa voce era molto lieve, come di persona che non vuole
comunicare e proprio per questo parla e risponde in tono esangue: in modo
che le parole, a una cosí grande distanza, e attraverso quell'intrico di fili, si
scompongano, si perdano, si disgreghino fino a dissolversi. Ma sotto a
quella voce M. sentí una sorda e calma ostilità di cui l'esilità sonora non
era che il timbro volutamente mondano. Infatti la donna disse per prima
cosa, come si trattasse di parlare con una amica: «Come stai? Stai bene?
Hai amici? Ti diverti?» «Sí, sto bene, ho amici, ma questo che c'entra?»
disse M. ingenuamente.
«Dico cosí, per dire, non arrabbiarti subito.» «Non mi arrabbio.» «Ecco.
Bravo.»
L'ostilità camuffata da mondanità dominava violentemente quelle parole
ed M. non potè fare a meno di chiedere: «Bravo cosa?»
Ci fu una lunga pausa, poi la donna disse: «Come?»
Questa volta fu M. ad attendere a lungo prima di rispondere e nel timore
che quel silenzio fosse definitivo e che la donna avesse chiuso la
comunicazione, disse nervosamente:
«Pronto, pronto...»
«Si, pronto, sono qui, non gridare, ti sento benissimo.» Allora M., pur
sapendo che non avrebbe dovuto farlo chiese: «Ma tu pensi a me qualche
volta?» e la donna, lentamente, in tono gentile e accondiscendente rispose:
«Qualche volta.»
«E che cosa pensi?» continuò M. sempre più nervoso. «Come cosa
penso? Cosa vuoi che pensi? Non lo so.» «Non lo sai? Come non lo sai?
Pensi che mi vuoi bene?». «Non lo so. E poi non vedere tutto in questi
termini. Ma tu, stai bene? Ti muovi, fai un po' di sport? Forse stai troppo in
casa.» «Lascia stare lo sport e rispondimi. Mi vuoi bene o male?» «Sei
sempre lo stesso.» «E cioè?»
«E cioè sei una persona che manca di equilibrio. Bene o male, buono e
cattivo, bello e brutto... non esiste il bene e il male. Non vedere tutto in
questi termini. Le cose sono molto più semplici.» M. si sforzò di adattarsi
a quella conversazione e chiese: «Come mai ora stai lí? Non avevi detto
che andavi a Parigi?» «Infatti sto a Parigi. Sono qui solo da due giorni.»
«E qual è il tuo indirizzo di Parigi?»
La donna fece una lunga pausa durante la quale M. disse due volte
«Pronto?», poi rispose lentissimamente: «Lascia stare». «Come lascia
stare? Se voglio parlare con te come faccio?» M. udí una risatina all'altro
capo del filo poi la donna disse: «Non si può, è proibito.»
«Allora dimmi come faccio a comunicare con te...» «È impossibile.»
«Come è impossibile?».
«Dimmi, ma tu stai bene? Di salute, voglio dire, stai bene?».
«Ma si, te l'ho già detto che sto bene cosa c'entra? Perché cambi
discorso? Tu mi ami? Si o no?»
«Sai che qui abbiamo delle giornate stupende? Lí fa bello? Ho letto sui
giornali che c'è stata burrasca.» «Lascia stare la burrasca, rispondimi, ti
prego, cosa ti costa?» Dopo queste parole vi fu un silenzio lunghissimo,
finché la donna disse, dolorosamente, e quasi supplichevole: «Ma è
assurdo, perché mi parli cosí? È assurdo.» «Come?» M. non aveva capito
bene, che cosa era assurdo. «Come dici? Pronto?»
«Sí, pronto, ti sento benissimo» disse calma la donna. «Non arrabbiarti,
non essere sempre cosí eccessivo nelle cose.» «In quali cose?» «In tutto.»
A questo punto M. non seppe più cosa dire. Davanti a sé, come prima, la
figura della donna si aggirava nella stanza con mosse lievi e delicate. Al
suo orecchio, ora, insieme all'immagine che attirava disperatamente il suo
sguardo, giungeva il suono della sua voce. Dunque la conoscenza di lei
avrebbe dovuto aumentare, il mistero dissolversi e le due immagini, quella
di lui che l'amava e quella di lei che era amata, congiungersi per mezzo dei
pensieri e delle parole, fino a identificarsi.
«Dimmi, senti, dimmi tu mi ami?» disse M. con dolcezza e calma, ma
disperato. Ancora una pausa, poi la donna, chiaramente e con fermezza:
«Non parliamo di queste cose.»
«Allora di cosa vuoi che parliamo? Dimmi tu» rispose M. E a quella
proposta sentí la voce della donna mutare di colpo, addolcirsi e perdere
come d'incanto ogni indifferenza e ogni ostilità. E infatti, allegra e ridente
disse: «Parliamo del più e del meno».

GOFFREDO PARISE
Parise è nato a Vicenza nel 1929. Ha frequentato la facoltà di filosofia a
Padova senza peraltro laurearsi. Da anni lo scrittore veneto vive a Roma e
lavora come sceneggiatore cinematografico. Collabora anche al Corriere
della Sera. I suoi libri sono tutti autentici best-sellers, largamente tradotti.
Richiesto di definire la propria opera, ha risposto: «Realismo lirico-
stagionale» e ha aggiunto una puntata polemica sulla critica letteraria:
«La critica in Italia è assai incoerente e contraddittoria. Non c'è una vera
critica; esistono delle opinioni, tecnicistiche, accademiche, basate su molti
elementi spesso estranei alla produzione letteraria».
OPERE PRINCIPALI: Il ragazzo morto e le comete, Neri Pozza 1951 - Il prete
bello, Garzanti 1954 - Il fidanzamento, Garzanti 1956 - Atti impuri,
Garzanti 1959 - Il padrone, Feltrinelli 1965.
DOMENICO REA

l'ultima farsa

STRANO FATTO! Tonio mi aveva telefonato per chiedermi un po' di


compagnia. Tonio era mio cugino e la sua ultima telefonata risaliva a una
decina di mesi avanti. Gli dissi che anche io desideravo di far quattro
chiacchiere con lui, ma quel giorno ero occupato e non potevo. Me ne sarei
ricordato in occasione della visita d'affari in programma al Prof. xxx,
abitante in quei paraggi e a cui dovevo mostrare i nuovi prodotti della Casa
che rappresento.
Era un'estate torrida. La città, semideserta, e in maniera quasi totale nel
quartiere signorile dove in un barocco e monumentale edificio abitava la
famiglia di mia zia. Il portinaio era sempre lo stesso, invecchiato e
immiserito, in berretto violaceo con stemma e galloni dorati sulle maniche
della giacca.
«Dove andate?» mi chiese.
«Dai miei cugini. Non mi riconoscete?»
«Ah, caro dottore, come state? Da quanto tempo. Credo non ci sia
nessuno in casa.»
«Alle dieci?»
«Sono usciti tutti questa mattina. La baronessa non ha avuto neanche il
tempo di salutarmi. Abitualmente chiede notizie di mia moglie.»
«Ah già, donna Rosina, come sta?». Gli diedi cento lire e lui
rianimandosi aggiunse:
«Più di là che di qua... Salite, potrebbe esserci qualcuno.»
La marmorea scala era al buio. Le rampe giravano davanti a enormi
porte scure con i battenti a teste bronzee di leoni. C'era fresco, però. Bussai
e non posso negare che mi rimisi a posto colletto e cravatta. Sono porte
che impressionano: nere, tetre, grevi di silenzio. Bussai di nuovo. Mi
sarebbe dispiaciuto se non vi fosse stato nessuno. Dal Professore dovevo
andare alle dodici in punto e un po' di frescura mi avrebbe dato sollievo.
Bussai ancora incoraggiato dal dubbio che davvero non vi fosse nessuno,
quand'ecco un rumore di porta lontano e poi dei passi felpati.
«Sono io, Tonio» dissi, «scusami.»
«Scusa tu per l'attesa» rispose Tonio, aprendo di un filo la porta. «Non
guardare come mi trovo.»
Tonio era il ragazzo più semplice della famiglia, uno studente al
rallentatore della facoltà d'ingegneria.
«Ti faccio strada» disse, scappando in ciabatte verso la stanza da letto.
Rimasi solo nell'entrata. Al buio, al puzzo di chiuso e di spazzatura in
giacenza strinsi la bocca e in questo modo cercai di infilare il corridoio. A
destra c'era il vecchio salotto di velluto dove di solito gli ospiti venivano
"spinti" come prigionieri a cui si vuole impedire di vedere il resto. Nelle
altre stanze erano ammessi pochi intimi e le persone che avevano le loro
stesse abitudini sul modo di mantenere una casa signorile.
Nell'attraversare il corridoio non riuscii però a resistere dal lanciare
un'occhiata a ciò che in casa nostra da me e da mia sorella veniva ricordata
come la "camera della tortura": la cucina — tre metri per poco più di due,
rischiarata da una misera finestrella a inferriate — adibita a camera da
pranzo giornaliera. Ragazzo, le rare volte che finivo loro ospite, all'ora di
pranzo, cominciavo ad accusare disturbi e malesseri e sebbene io sia un
timido al terrore di finire là dentro, insistevo perché almeno quel giorno mi
si lasciasse osservare una rigida regola di digiuno. Ma essi mi ci
trascinavano a viva forza. Mia zia cercava di solleticarmi l'appetito,
dicendomi che proprio per festeggiarmi aveva preparato un piatto
complicatissimo, una crema francese o la lasagna, cibi molto lavorati e
impastocchiati e che per i miei gusti d'allora avrebbero richiesto uno
splendido laboratorio di pasticciere con bei tavoli puliti di marmo e mani
olezzanti di spiga. Si fosse trattato di quattro vermicelli bolliti e conditi
con pomodoro fresco e una goccia di burro si sarebbe potuto anche
superare il ribrezzo. Essi invece prediligevano quei maledetti intingoli
franciosi, creme salse ragù, preparati anche a regola d'arte ma che durante
la cottura prendevano i più disgustosi "sentori" da marmitte casseruole
padelle zuppiere mestoli già usati o appena sciacquati. Senza dire
dell'abitudine comune a tutti i miei parenti, mio zio compreso, che pure
sembrava una persona curata, di usare un solo piatto per tutte le portate e
di ficcare il dito con cui avevano rovistato naso e orecchi negli alimenti in
via di preparazione per saggiarne il gusto. Come al solito questa cucina era
in disordine quasi fermata dalla storia per tramandarla ai posteri.
«Ehi» gridò mio cugino dalla sua stanza, «ti sei incantato?»
Mi aspettava supino su una delle due brande sgangherate dalle materasse
striminzite, vuote in basso e ammonticchiate al capo in modo da fungere
anche da guanciali. Era coperto fino al collo.
«Fa caldo» disse.
«Molto. Permetti che apro un poco?»
«Ma certo. Non l'avevo fatto perché stavo ancora dormendo.» «Riesci a
dormire col balcone chiuso? Per me sarebbe impossibile. Cosí, come vedi,
ho mantenuto la parola e ti ringrazio di aver telefonato anche ieri. Mi devi
dire qualcosa?»
«Niente di particolare. Cosí, volevo rivederti. Siamo pur sempre cugini.»
Non era mai stato tanto affettuoso.
«Grazie. Anch'io. Hai visto che bell'estate? Oggi sarebbe l'ideale per fare
un bagno.»
«Ci avevo pensato» rispose, «ma lo sai, Napoli è come senza mare. Sta
troppo lontano e a prendere i mezzi non vale la pena. La folla mi disgusta,
puzza, non si lava.» «Molti hanno ancora quest'abitudine.»
«E allora, non potendo andarvi con tutti i comodi, preferisco restare qui.
È sempre questione di scelta, mettiamocelo una buona volta in testa»,
alludendo al mio tradimento sociale.
«Bene» risposi per chiudere su questo punto. «E che fai ora, vai sempre
all'università? Mi disse la zia che ti stavi interessando a un lavoro, cosí, per
far qualcosa d'altro.»
«Nulla di serio. Studiacchio. Ho cambiato facoltà. La conosci mia
madre, non aveva simpatia per l'ingegneria. Dice che gl'ingegneri sono dei
capomastri, dei capofficina e sono passato alla Legge, magistratura,
vecchio vizio di famiglia.»
(Inutile indagare su questa inesistente tradizione, che chiamavano vizio
per renderla verosimile. Nella nostra "stirpe" c'era stato sí un giudice, un
lontano parente e da allora mia zia sosteneva di discendere da una vecchia
stirpe di magistrati).
«Ora sono pagati bene» disse Tonio. «Un consigliere d'appello va sulle
quattrocentomila mensili. E cosí ho pensato valesse la
pena di andare fino in fondo in questa strada d'autorità. Stanno bene,
lavorano poco, mettono tutti sull'attenti.» «Questo è vero» aggiunsi.
«Sono gli ultimi re assoluti e in famiglia è sempre bene averne uno. Poi
con quattrocentomila, campi con una certa dignità.» Questo modo di
ragionare corrispondeva perfettamente al carattere della famiglia. Per
Tonio, aver dato un paio di esami alla facoltà di legge, equivaleva il
possesso della laurea, aver superato il concorso e trovarsi quasi alla fine
della carriera al grado di consigliere d'appello. Che dovevo rispondere? Su
assurdità di questo genere in passato ci eravamo accapigliati, lasciandoci
con astio è rancore. Ma ora... Ora, con loro, io e mia sorella avevamo
deciso di dargliela sempre vinta. E dissi: «Hai fatto un'ottima scelta».
Su una sedia c'erano alcune cicche in un foglio di velina. Estrassi il
pacchetto delle Marlboro e non lo invitai a fumare. «Come sta lo zio?»
chiese. «Bene.» «E Adalgisa?» «Bene, lavora.» «So che guadagna bene.»
«Benino.»
Quando mai Tonio si era interessato di mia sorella. «Fa troppo caldo.
Vien la voglia di far nulla. E intanto come si fa, bisogna lavorare.»
«Non me lo dire» rispose con rassegnazione. «Non riesco a far niente. Si
sta bene solo in posizione orizzontale e non hai un'idea delle cose che
dovrei fare. Tanto per cominciare dovrei telefonare a mia madre per
avvertirla della tua visita, almeno per farti offrire una tazza di caffè. Lo sai
che lo fa bene.» «Ma no, non scomodare la zia. Ne ho preso già tre tazze
da stamane.»
Si era alzato e, avvolto nel lenzuolo come un arabo, andò a telefonare.
Ritornato, riprese.
«Leggi ancora come una volta?»
«Si, qualche giallo.»
«Li ho esauriti tutti. Ora son passato ai libri di etnografia. Questo è
bellissimo» disse indicando il libro sulla sedia.
«Selvaggi?! Gentiluomini. Civilissimi. Altro che razze inferiori. Lo
saluto un negro se lo incontro. L'uomo è nato per l'amore, la caccia, la
guerra non per le sfacchinate e per vegetare nella promiscuità del
prossimo. Pensa un po' la civiltà occidentale cosa mi ha offerto, un posto
di accompagnatore turistico.»
«Hai accettato?»
«Ma scherzi. A parte il fatto che davano cinquantamila per sette ore al
giorno, come potevo accettare un lavoro di poco superiore a quello di una
guida di Pompei. Mia madre esagera per tanti versi, ma in questo caso le
ho dato pienamente ragione.»
«È vero» dissi.
«La voglia di lavorare ce l'abbiamo, caro Luigi, ma bisogna distinguere
lavoro da lavoro. C'è chi ha la faccia tosta di mettersi in giro con una borsa
sottobraccio — e credimi non voglio alludere a te; sai bene come ti
ammiro — e chi deve far conto che certe cose non sono adatte alla sua
persona, al suo nome. Rinunce, adattamenti. E la tua rappresentanza come
va?»
«Bene. Ora mi hanno dato anche una seicento.»
«Ma no» disse in falsetto. «Sta giù?»
«Si» risposi, gettando via mezza sigaretta. Il cugino vi lanciò un'occhiata
furtiva, forse per localizzare la cicca e ricordarsene appena me ne fossi
andato.
«Vi hanno dotati (i rappresentanti era sottinteso) anche di seicento? Una
buona macchina, mi è simpatica.» (Lui era frequentatore di amici,
possessori di Jaguar).
Ora Tonio si era scoperto e il suo aspetto si era mutato in quello di un
Lazzaro. La canottiera, giallognola, ridotta a uno straccio bucherellato. La
persona, pelle e ossa.
«Le seicento sono convenienti, ma troppo uomo comune.»
«E chi se ne importa.»
«Sono d'accordo, però, nei tuoi panni, la venderei e prenderei una sprint
d'occasione. Se ne vendono tante, veri affaroni.»
Andò in fondo all'argomento fino a dimostrare che a guidare un'auto
come la mia era una vergogna. Gli difettava il senso della realtà e animoso
della tesi sostenuta prese due cicche le sfarinò e avvolse il tabacco nella
carta velina con una abilità da muratore.
«Sei abile» dissi.
«Io? vedessi Edelmondo. Gli bastano due dita. Un artista. Devo dire che
preferisco queste mie alle sigarette normali. Le straniere poi, tu che fumi?»
«Marlboro. Mi piacciono.»
«Le straniere per me sono veleno.»
Curvandosi mostrò i due tronconi delle scapole come mostruose ali
mozze. Strofinò lo zolfanello sul pavimento e accese. La striminzita
sigaretta bruciò come un pagliaio.
«E a Capri ci andate quest'anno?»
«Non lo sappiamo ancora. Chi è che non va a Capri ora?» (Era una
chiara allusione alla mia fidanzata in quei giorni in villeggiatura a Capri),
«Fu Capri, caro Luigi. Per me l'estate è riposo, letto, solitudine.»
«Ma pochi possono fare questa vita.»
«Sono invece in parecchi a cominciare a farla. Questo boom di cui si
parla in giro mi rivoltola lo stomaco. E a te?»
Mi limitai a dire:
«Bah! Io dico che ha distribuito un po' di soldi a tutti.»
«E quest'è stato l'errore. Avremo presto un popolo di bestie. Scherziamo,
i soldi a tutti?» E li togliamo a chi ne avrebbe bisogno e ne sarebbe degno?
Ma che dico. Il ridicolo è che anche in casa nostra si comincia a giocare al
totocalcio. Papà ci crede, ci conta.» Facemmo silenzio. Mio zio una volta
era stato un uomo semplice e pratico, ma a forza di stare con la moglie, era
diventato una specie di generale dei numeri del lotto e di tutte le cabale che
pullulano a Napoli. In casa erano ricevuti come messaggeri celesti i
maestri delle giocate. Confidando nel lotto, mio zio aveva tirato avanti;
piccole vincite in attesa di una straordinaria e redentrice che l'avrebbe
vendicato dei sacrifici patiti.
«Capisci» disse Tonio con gli occhi sfavillanti e dimentico di quanto
aveva sostenuto fino a quel momento, «papà ha sfiorato per ben due volte
il tredici. L'ultima in occasione di quella vincita tremenda di 230 milioni.
Per un pelo! Avrei fatto vedere io a questa marea montante di volgarità.»
«Cosa avresti fatto, te ne saresti andato in campagna, a vivere da
eremita.»
«Ma che dici, amico. Con questa gente d'oggi vale solo l'offesa. Le
finezze non le capiscono. Vogliono vedere toccare le cose gli strumenti
della ricchezza e io glieli avrei mostrati. Come Gesù. Cosa fece coi
mercanti? Cosí farei con questi cafoni? Sai come chiama le automobili
Edelmondo? Ahahah, le cafoniere.» A parte il resto, la battuta era buona. E
risi. «E la ragazza, è sempre la stessa?» «E perché dovrei cambiare. È una
donna di classe.» La ragazza gli era maggiore di una decina d'anni. Una
settentrionale, madre di due bambini. Ma Tonio pur di avere un'amante su
che cosa non avrebbe passato. Si diceva, ma io non posso affermarlo, che
si lasciasse volentieri anche aiutare. «Veramente di classe. Ha cultura,
gusto, intelligenza.»
«Ma continua sempre a fare l'infermiera» dissi freddo, passando al
contrattacco. Come colpito da un fulmine e con un filo di voce rispose: «E
come lo sai?»
«Faccio quasi il suo mestiere, salgo e scendo da ospedali per i campioni.
E l'ho vista qualche volta. Abbiamo anche scambiato qualche parola, anzi
si lamentava della durezza dell'orario.» «Non sapevo che lo sapessi.» «E
che c'è di male.» «Nulla, ma sai, la riservatezza...»
«E chi parla» dissi, chiudendo la questione. A me piace vincere, non
stravincere. Fu però lui a dire una volgarità.
«Poi mica la devo sposare. Noi altri siamo fatti cosí. Ci facciamo le ossa
sulla roba comune e poi spicchiamo il salto e qualche volta il volo. Saprai
bene con chi si è fidanzato Edelmondo. Non lo sai? Ma se lo sa tutta
Napoli. È stato l'avvenimento di questa primavera.» «E io non lo so.» «Ma
dove vivi? con una Filippini.» Era un knock-out, e incassai a stento. «E
quando sposano?» dissi, cercando di non tradirmi. «Tua madre dovrebbe
saperlo.» «Credo di no. Me l'avrebbe detto.»
(Non ce l'aveva detto. Delle cose nostre mia madre riferiva a loro i
minimi particolari, delle loro... Invano mia sorella si faceva promettere di
tacere, di non dir nulla giacché più nulla sarebbe riuscito a dirlo a loro.
Presa nel laccio confidava tutto alla cognata, mia zia, che nessuno
conosceva poi meglio di mia madre. Niente da fare. Ogni tanto l'antico
prestigio baronale ritornava a far presa su di lei e la si sentiva dire: "Quello
che volete, saranno dei fannulloni, ma quanto savoir faire, che modo di
porgere". E se mia madre che conosceva vita e miracoli dei suoi parenti ci
cascava, cosa avrebbe dovuto fare una ragazza evidentemente ingenua
come la Filippini? Era caduta nella rete di Edelmondo, un blasé, che mi
aveva sempre guardato come si osserva saltare una pulce. Ora mi
ritornavano a mente gli anatemi di mia zia: "Sarà fatta giustizia! La
Provvidenza è giustiziera". "Io la provvidenza l'ho trovata studiando"
diceva mia sorella, trattata dalla cugina Eulalia come la classica parente
povera. "Ora lavoro, guadagno, certo, e che vogliono?" "Finiranno in una
strada" aggiungeva mio padre. Ma mia madre imperterrita, convinta dalla
cognata mia zia: "Eppure, vedrete, accadrà qualcosa che li riporterà a galla.
A nostra differenza hanno avuto l'abilità nonostante i guai e quasi la fame
di restare nel giro e prima o poi..." "Edelmondo passerà qualche guaio"
dissi io una delle ultime volte che ci eravamo riuniti a fare il punto sui
nostri parenti, "dicono che si droga, mamma, altro che giro").
Questa volta però il colpo era grosso. Una Filippini voleva dire una
posizione di miliardi, un'azienda solida e nota in tutto il Mezzogiorno;
possibilità d'inserimento nel mondo degli affari. Davanti a quest'elefante il
mio lavoro, i miei sacrifici diventavano inutili e privi di senso. Edelmondo,
uno sciocco fannullone, con una freccia ben aggiustata nel cuoricino di una
trepida fanciulla, conquistava una posizione umanamente imprendibile.
«Bel colpo» dissi.
«Noi abbiamo l'abitudine di sparare pochi colpi» disse sordamente
trionfante.
«E quando sposano?»
«Per ora si è al fidanzamento. Anzi a questo proposito volevo...»
Fu bussato alla porta e io andai ad aprire. Era mia zia.
«Quale onore che sorpresa» cominciò a cantare. «Ma stai benissimo. I
quattrini fanno diventare belli. Sei un uomo, ora.» «Quale uomo, zia. Sono
soltanto un povero rappresentante.» «Un povero in seicento. E il grosso
premio che hai ricevuto dalla Casa, su, confessa. Tua madre mi ha detto
tutto. Ma la buona zia vuol sapere da te cosa ne hai fatto dei due
milioncini, dei due leoncini.»
Fosse stato vero. Mia madre le aveva — una volta tanto — raccontato
una balla, forse per farle dispetto. Mi limitai a stare al gioco e a dire:
«Grazie dei complimenti. Voi piuttosto come state?» «Venite a parlare di
qua» gridò Tonio dalla sua stanza. «Ecco i miei figli, a quest'ora ancora a
letto. Caro Luigino, non so chi mi dà la forza di stare allegra. Forse è la tua
presenza, ma attraversiamo un momento terribile e potrebbe essere
meraviglioso. Dopo aver aiutato per anni tutti abbiamo trovato solo porte
chiuse» disse con una certa sincera emozione nella voce.
Ci aveva raggiunto Tonio in vestaglia, una specie di rete. Ero rimasto
all'impiedi per timore d'imbrattarmi il fondello dei calzoni o d'incappare in
un chiodo, specialità delle sedie della casa. «Vuoi un caffè?» disse mia zia.
Nel preparare il caffè napoletano era imbattibile. «Chi potrebbe rifiutare un
caffè preparato da voi?» «Te lo farò con le mani del cuore.»
A differenza dei figli che avevano ereditato solo i vizi e immalignendoli,
mia zia aveva più di una cordiale virtù, chiacchiera, buonumore, certe
uscite proverbiali, del resto, a Napoli, comuni a nobili e popolani. Svelta
operosa sciacquò per bene le varie parti della napoletana e riprese.
«Non si finisce mai d'imparare. Non si finisce mai d'apprendere che gli
unici a volerci bene e gli unici a volersi bene tra loro sono i parenti, noi e
voi.»
Ma fu bussato di nuovo alla porta. Era Eulalia. Entrò con violenza e
disse alla madre: «Una volta che ti ricordassi di lasciare la porta aperta.»
«Hai sentito. A questo pensano questi sciagurati. Avessi avuto un figlio
come te, a quest'ora chi sa dove sarei. Hai saputo di Edelmondo?»
«Si, me lo stava dicendo Tonio. Mi sembra una vera fortuna.» «Cosí
dovrebbe essere, ma per un capello potremmo perder tutto. È come uno
che ha vinto al totocalcio ma ha perduto la schedina. I Filippini,
scherziamo? Il più grosso partito di Napoli. Edelmondo entrerebbe a far
parte dell'azienda da vicepresidente.» «Da segretario» disse limitativo
Tonio.
«Zitto. Fatto vicepresidente gli sarà facile sistemare tutti noi. Eulalia
sposerebbe subito. Cognata dei Filippini, farebbero subito la fila. Lo
conosciamo bene questo paese. L'ho sempre detto che c'è una Provvidenza
giustiziera. Ma c'è un ma.» «Ah» dissi.
«A giorni si farà il fidanzamento ufficiale e non abbiamo liquido per
acquistare un anello adeguato.» «Ah» ripetei.
«E basterebbe un milione. Cos'è un milione contro una fortuna di
miliardi? Eppure, ho rovistato Napoli e ho trovato solo porte chiuse. Sono
stata da Bengrassi, cresciuto in casa nostra, quel disgraziato, neanche a
parlarne», rompendo in pianto. «Allora debbo finire nelle mani degli
usurai, debbo rovinarmi e sporcarmi più di quanto non...» Piangeva sul
serio, forte, un saliscendi di singhiozzi. «Avete detto niente a papà?» dissi.
«Tuo padre non è stato mai un fratello, nonostante la cosa dovrebbe far
piacere anche a lui. Volé malgré è anche lui un Bolaffio di Pianura.
Restituiremmo tutto. Vuoi aiutarci?»
«Vorrei, zia. Ma mia madre che vi ha detto dei due milioni vi ha taciuto
come io li abbia già impegnati nell'acquisto di una casuccia.»
«Ma tu vuoi» gridò mia zia, tentando di accarezzarmi. «Lo sai, a te ho
voluto sempre bene.»
Fumavo, ma le sue lacrime di madre, quanto si voglia esaltata e
squinternata, in trepidazione per la sorte del figlio, mi diedero una certa
emozione. Intanto fu bussato di nuovo alla porta e questa volta entrò
Edelmondo. La madre gli disse: «Forse ci salva Luigi».
Edelmondo mi tese la mano e disse persino un "come stai". Con la sua
solita aria, ma con un tono che gli dovette costare un grosso sforzo, disse:
«Si tratta di un prestito di breve durata. Ti restituirei tutto all'interesse
che vuoi. Lo trovo perfettamente giusto, logico. I soldi son soldi». Parlò
come chi non intende affatto umiliarsi, ma soltanto combinare un affare e
un affare che, a pensarci bene, sarebbe tornato a mio vantaggio. Mi venne
la voglia di dirgli tutto il mio disprezzo e quasi la zia lo avesse intuito
disse:
«Fallo per me. Edelmondo è buono. È freddo di carattere, ma ti vuol
bene.»
«Lo farei, zia, ma, ve l'ho detto, ho già impiegato il danaro.» «Non ti
preoccupare di questo. Vuoi veramente aiutarmi?» chiese Edelmondo,
umanizzandosi. «E come?»
«Potresti controfirmare delle cambiali.» «Ma la mia firma a che vale?»
«Non preoccuparti. Mi sono informato. Vale. C'è una banca che
accetterebbe la tua firma come contante.» «Parla» implorò mia zia.
«Chiedo mezza giornata di tempo.»
La casa esplose. Dal beccuccio della napoletana venne su una buffa e
gentile nuvoletta di vapore. Edelmondo mi trovò in gran forma. Eulalia
s'informò di Adalgisa, promettendomi di farmi una visita. Per la prima
volta li sentii cugini, cordiali, modesti, sinceri. Edelmondo Bolaffio
sarebbe diventato un Filippini e, nonostante il disappunto verso la fortuna
che premia sempre chi non merita, avevo deciso di fare qualcosa per loro.
Avrei detto ai miei: "Li abbiamo aiutati quando non c'era un filo di
speranza e ci rifiutiamo ora che sono sul punto di entrare in un palazzo
d'oro". Con questa favorevole disposizione li salutai tra mille altre loro
affettuosità. Abbracciai anche Edelmondo, che mi apparve curvo e
dimesso, lontano dall'aspetto glaciale e altero d'un tempo. La maturità
viene per tutti e la vita lascia a volte un suo inconfondibile segno.
«Telefonatemi domani» dissi e presi a discendere; quando, già fuori il
portone, mi avvidi di aver dimenticato la busta nera delle pratiche. Rientrai
nel palazzo e nel rifare le scale incontrai Zita, la vecchia cameriera di mia
zia. Portava dei cartoccetti.
«Questa è tutta la spesa, caro signorino Luigi» disse. «Ho vergogna io
per loro. È che hanno la testa pazza. E speriamo che non l'arrestino il
signorino Edelmondo.»
«Arrestarlo, e che ha fatto?»
«Mica parlano davanti a me, ma, lo sapete, gridano e ho sentito di un
mi-li-o-ne che dev'esser restituito a certo Filippelli, Filippotti, Filippucci,
vedeste, un omaccione, un dannato. Mi sa che il signorino deve averla fatta
grossa assai e...»
Eravamo giunti al piano. Si sentiva gridare furiosamente. Sudai freddo.
La vecchia aprí la porta con la sua chiave. Ma dovette credere alla
sparizione di un fantasma quando si avvide della mia scomparsa.

DOMENICO REA
Rea è nato a Napoli nel 1921. Rivelato, giovanissimo, da Francesco
Flora, esordi nel 1947 con Spaccanapoli, ottenendo subito un vivissimo
successo. Vive a Napoli e collabora a quotidiani e periodici. Di sé dice:
«La mia persona? È odiabile perché ho sempre fatto parte per me stesso,
quaggiù, in solitudine, senza Roma e senza Milano, senza salotti e senza
clan. Anche in ciò: secondo la più schietta e amara tradizione
meridionale». Lia vinto i premi «Viareggio» e «Napoli».
OPERE PRINCIPALI (tutte presso Mondadori): Spaccanapoli, 1947 - Le
formicele rosse, 1948 - Gesù, fate luce, 1950 - Ritratto di maggio, 1954 -
Quel che vide Cummeo, 1955 - Una vampata di rossore, 1959 - Il re e il
lustrascarpe, 1962 - Racconti, 1965.
LALLA ROMANO

la guardia

NON SONO VECCHIO» Trent'anni fa ne avevo venti. Ero anch'io audace e


moderno, come te; dico questo senza troppa ironia, perché una giovinezza
vale l'altra, e anzi voglio che tu non consideri il mio racconto come
polemico (intenzione da cui aborro) né esemplare, se non in quanto vero.
Scusa se spiego ancora che per vero non intendo "realmente accaduto",
anche se tale circostanza non è disprezzabile; lo giudico ancora vero, vale
a dire non indegno di essere evocato, perché non è stato annullato dalla
vita, ma reso più significativo: per me solo, si capisce, che lo posso
collegare al mio presente, e di questo aspetto cosí rilevante purtroppo non
ti posso far parte. Ma il suo contenuto di verità dovrebbe sussistere, mi
sembra, siccome tale verità è più nelle sfumature che nella tenue vicenda.
Lei aveva tre anni più di me. Era bella e se ne infischiava. Questo mi
piaceva molto in lei, il troppo femminile mi ha sempre nauseato. Ma
capivo anche quanto fosse pericoloso: comportava molta spregiudicatezza,
disinteresse e quasi disprezzo di sé, in quanto donna. Forse questo suo lato
che la rendeva patetica, indifesa ai miei occhi, influì sulla mia decisione: di
non approfittare della simpatia che mi dimostrava. In me divenne presto
anche un'attesa, perché dopo pochi mesi dacché l'avevo conosciuta, le
avevo chiesto di sposarmi. (Ero studente, il primo di cinque fratelli, e
questo progetto era una pazzia.) Lei aveva risposto con un'alzata di spalle,
che nel suo linguaggio poteva essere un si o un no; ma mi dava
appuntamenti molto ravvicinati e mi raccontava tutto di sé.
L'idea del viaggio a Roma fu mia, perché lei non esprimeva desideri, né
faceva programmi. Diceva anzi che stava meglio con me che con i suoi
soliti amici (letterati), perché essi non avevano mai iniziative.
Al momento della partenza, nonostante il mio fermo proposito, avevo
l'inebriante impressione di un viaggio di nozze: clandestino per di più!
Avevamo preso il biglietto di terza. Ci trovammo in uno scompartimento
vuoto. La abbracciai senza baciarla. Non potevo star fermo. Andai a
prendere i cuscini, poi i giornali, poi degli aranci: e ogni volta percorrevo
il treno in tutta la sua lunghezza, mi calavo e mi issavo sul vagone con un
balzo solo. Disposi con cura la sua roba e la mia sulla rete, e anche l'ordine
del nostro rifugio mi parve una buona cosa.
Ad Alessandria salirono una vecchia e un giovane che pareva suo figlio.
Sedettero davanti a noi e incominciarono a parlare fitto fitto sottovoce,
interrompendosi con risatine convinte che facevano sobbalzare alla
vecchia il ventre rotondo. Noi li fissavamo, come affascinati, e non
parlavamo più. Io sospettavo qualcosa di indecente, nei loro discorsi; ogni
tanto la donna ci guardava, ed erano occhiate non benevole, di vecchia
contadina mezzo tonta e mezzo furba.
Lei — chiamiamola Anna — non mi conosceva ancora abbastanza, se si
aspettava che il mio spirito pratico mi inducesse a commutare la luce,
senza sapere cosa ne pensassero gli altri. Ma lei non me lo chiese, e fu il
giovane che a un certo punto si alzò. Al buio la vecchia si tolse le scarpe e
puntò i piedi corti e noccheruti sul sedile accanto a me. Cercai di vincere il
disgusto e sorrisi, come se approvassi la cosa.
Anna aveva appoggiato il suo capo alla mia spalla; cominciò a
ciondolare, a rotolare sul mio petto. Io la sostenevo, stando rigido, come
già avevo fatto tante volte nel ritorno dai campi di sci. Quando sentii che
dormiva veramente, la distesi sul sedile di legno, la avvolsi coi soprabiti e
mi sedetti di fronte, accanto ai due che dormivano anche loro. La
guardavo, e non capivo come potesse dormire, in un viaggio come quello.
Ma mi piaceva anche di più per questa sua quasi noncuranza.
A Pisa il treno stette fermo un'eternità. La vecchia e il giovane erano
scesi. Io stavo in piedi, ma non osavo abbandonare Anna. Nel silenzio si
levò una voce: vicinissima, a parete. Una voce di donna, chiara, pastosa.
Evocava una donna matura, dalla pelle morbida, bianca. Una donna
certamente bella. Le rispondeva una voce maschile, bassa. Quando intesi
le parole, provai una emozione violenta. C'era, in quella voce, un languore
che non avevo notato prima; e quello che diceva era sconvolgente, per me
(avevo vent'anni!). Diceva: «Io e mio marito non ci stanchiamo tanto
presto...» E, quello che era più terribile, rideva. «Anche tutta la notte, e il
giorno dopo rimaniamo a letto.» E rideva, adagio, compiaciuta. Ero
indignato che una donna parlasse con un estraneo dei suoi rapporti col
marito; ma, proprio per questo (adesso lo so), la donna ignota mi riusciva
sommamente desiderabile. Arrivai a immaginare, per un attimo, che
l'uomo che era con lei scendesse, e che mentre Anna dormiva, io potessi
avvicinarla. Guardai Anna addormentata, il suo viso bianco, affilato, nella
semioscurità tinta di viola. Privo di sguardo era come remoto, freddo;
freddo e indifferente come la luna.
Col sole, il treno correva più veloce. Anna, affacciata, si faceva
scompigliare i capelli. Qualche filo, ogni tanto, mi vellicava la faccia. Lo
scompartimento s'era riempito: uomini e donne con ceste di verdura e
galline. Era giorno di mercato a Grosseto. Un cieco cantò,
accompagnandosi con la fisarmonica. Aveva la testa a forma d'uovo, rapata
come quella dei prigionieri, e la dondolava al ritmo delle sue canzoni, né
lo disturbava lo scandire fragoroso del treno che batteva un tempo molto
più rapido del suo.
Conoscevamo già Roma, io per esserci vissuto da ragazzo, Anna per
averla visitata in occasione di un concorso (si era laureata due anni prima).
Forse questo spiega perché andammo subito a passeggiare a Villa
Borghese. Sorreggevo Anna, perché lei camminava guardando in su. Era
mattina, era vacanza, i pini e l'aria di Roma erano abbastanza esotici per
noi, ma non tanto da farci smarrire.
A mangiare si andò in Trastevere, preferivamo la Roma paesana. Era
anzi Anna che proponeva, cosa insolita e segno in lei di allegria. In una di
quelle strade assolate trovammo una trattoria piccola e buia. Dal tavolo
vedevamo il muro di faccia, decrepito, ma color d'oro. Si sentiva battere
uno zoccolo di cavallo sul selciato.
Poi entrarono tutti insieme uomini grossi e rumorosi: lavoratori? Voci,
risate, manate. Si diedero a mordere cespi di lattuga. Noi due nordici dalle
spalle strette, li guardavamo incantati.
Quella gente che la divertiva, e il vino, e poi — ma cosa può capire un
ventenne? e che ne sapeva lei stessa? — qualcosa aveva trasformato Anna.
Mi guardava negli occhi ridendo senza motivo, come se mi canzonasse. Mi
provocava, e tale gioco era cosí nuovo in lei che la desideravo più che mai,
ma con rabbia.
Uscii tirandola dietro per la mano, mentre lei rideva. Camminavamo nel
sole, quasi correndo, io stordito — e non avevo bevuto — lei inebriata,
molle. Bastava si fosse avvicinato uno di quei vecchietti che offrono le
camere (questo lo penso ora, allora non pensavo nulla).
Diventammo man mano sempre più leggeri: anche lei, credo. Non la
guardavo; rideva ancora o frignava.
Imboccammo la Passeggiata Archeologica. I cancelli delle Terme erano
chiusi. Ci fermammo, un po' ansanti. Eravamo nell'ombra, fresca, delle alte
muraglie. Non c'era nessuno. Ma non era una solitudine complice, era
austera, come in montagna o in chiesa.
E qualcosa tra la chiesa diroccata e l'orrido di mezzamontagna, era
infatti quell'insieme: suntuoso, nonostante tutto. Doveva esser bello girare
lí dentro, perché appunto era incompiuto, pieno d'aria, di cielo. Cercavamo
qualcuno che ci sapesse dire a che ora aprivano. Vediamo lontano nel sole,
piccola come un burattino, la sagoma di un carabiniere. Si poteva
domandare a lui. Veniva avanti adagio, perché leggeva. Quando fu vicino,
si vide che leggeva tenendolo quasi sotto gli occhi, un grosso libro
sfasciato, di quei romanzoni tipo Eugenio Sue. Come segnalibro aveva
infilato un papavero, che spenzolava. Alzò il testone, aveva una faccia di
bambino, rossa, butterata. Socchiuse nel sorriso gli occhi piccoli e si
strinse nelle spalle.
Adagio nel pomeriggio calmo e bruciante, avevamo ripreso a
vagabondare. La strada saliva un colle, tra muri di giardini. "Villa
Celimontana." Anche lí silenzio, ma dolce, silenzio con fruscio di pini,
voci rade di donne che non si vedevano. Una panchina.
In quell'abbandono — tacevamo — io la guardai e vidi le sue labbra
aperte, e anche lei mi guardò. Chiudemmo gli occhi e le nostre labbra si
attaccarono, come uno che ha sete, alla cannuccia della fontana.
La ghiaia stridette; ci staccammo, poteva essere un bambino. Era una
guardia: «Si alzino in piedi». Io solo mi alzai. Credo che tremassi. Scrisse
rapidamente, compitandoli, i nostri nomi sul taccuino. «Li dichiaro in
arresto.» «Lei mi rovina» dissi piano. Anna si alzò, strappava le foglie
della siepe, le masticava e le sputava. Non guardavo lei, naturalmente, ma
la vedevo. Misi in mano alla guardia tutti i soldi che avevo, li tenne un
momento, come a pesarli, poi me li ridiede. Accennai al foglietto coi nomi,
lo staccò e me lo porse. Lo feci a pezzi, li cacciai in tasca. Presi Anna per
mano, e andammo via di là, giù per la strada tranquilla, correndo, come
fossimo inseguiti.
Lontano, mentre riprendevamo fiato, sminuzzai ancora i pezzetti di
foglio, li rimisi in tasca, e dissi: «Abbiamo trovato un brav'uomo». Anna
mi investí, io la lasciai dire. Erano cose, contro i poliziotti, il Regime,
Roma, dette da me cento volte. Sapevo che lei sfogava in quella collera lo
spavento, e soprattutto il peso della giornata; e in fondo anche un rancore
contro di me, forse (ma non per il motivo che pensava lei). Del resto non
mi importava che lei capisse. Mi accorsi poi che c'era anche qualcosa che
io non potevo afferrare, perché era una reazione femminile; lei era stata
offesa, dalla intrusione della guardia, offesa nel suo pudore oltre che nella
sua libertà. Infatti disse, a un certo punto: «Hai insudiciato tutto». Io
sorridevo, e questo la esasperava. Ma io sapevo che eravamo stati salvati
da molte cose.
Arrivammo in cima al Gianicolo. Anna sedette su un muretto, aveva i
piedi rotti, dopo tanto correre. Roma sembrava d'oro, al tramonto, e il
ridicolo Altare della Patria sporgeva, tutto bianco, di zucchero. Dietro,
invece, c'era una campagna tranquilla, verde, si vedeva pascolare un
gregge e nel folto un piccolo frontone classico, qualcosa alla Poussin.
(Tutto sparito, suppongo.) Si stava cosí bene lí, un po' immalinconiti dalla
bellezza, che di nuovo la mia vigilanza si era allentata: mi accorsi
improvvisamente che il sole era andato giù. Attraversammo la spianata
coperta di ghiaia, scendemmo senza affrettarci. Voci alle nostre spalle ci
fecero voltare: un gruppo di vigili ci seguiva. Ci seguiva nel senso che
veniva dietro, e parlavano tra loro, ridendo forte: erano l'immagine della
sicurezza di sé. Anna mi afferrò la mano, ma io la respinsi, e le feci cenno
di non correre. Eravamo gli ultimi, già si chiudevano i cancelli.
Dopo, al ristorante, non finivamo più di ridere, ma ci sentimmo sicuri
solo quando fu trovato e deciso l'orario della partenza.
Aspettammo l'ora in un caffè. Si era levato un vento freddo che soffiava
anche lí dentro, per la porta aperta. Gli specchi ci rimandavano le nostre
immagini un po' abbattute, di "dopo il peccato", o "scacciati dal Paradiso
Terrestre". Ma non avevamo più voglia di ridere. Di baci sí, ma anche il
caffè era per noi vigilato dalla spada fiammeggiante di un poliziotto.
Salimmo sul treno ancora vuoto, e buio. Caddi prima io, nel sonno; devo
anzi essere caduto addosso a lei, e lei poi si piegò su di me, e abbiamo
viaggiato cosí, come bambini stanchi.
Ci svegliammo insieme, e vedemmo che i compagni ci covavano con
occhio intenerito. Eravamo fiaccati dalla posizione incomoda, puzzolenti
di treno, ma solidali come vecchi camerati.
Fuori era l'alba. Il treno correva alto sul mare. Il mare era un occhio puro
e profondo — l'occhio di Dio? — che ci guardò.
Nell'entroterra, avvicinandoci a casa, tacevamo guardando accostarsi e
fuggire il paesaggio. Il paesaggio familiare, modesto. I gelsi ineleganti ed
utili, la terra lavorata, rossa, i verdi ingenuamente stridenti delle insalate.
Nessuna vista avrebbe potuto essere, per noi, più consolante.
Adesso dovrei dirti se Anna è diventata mia moglie, o se il nostro amore
naufragò o si concluse altrimenti. Ma questo non posso e non voglio dirlo.

LALLA ROMANO
Lalla Romano è nata in provincia di Cuneo. Fino ai trent'anni ha scritto
poesie. Ha insegnato lettere nelle scuole medie esercitando anche la
pittura e la critica d'arte. Durante la guerra ha partecipato alla
Resistenza nel Cuneese. Sui rapporti tra la Resistenza e la sua narrativa
scrive: «Qualcuno ha osservato che la Resistenza è lo sfondo e non è la
protagonista nelle mie opere: è vero, infatti l'ho considerata una realtà e
non un'occasione retorica». Ha vinto i premi «Veillon» e «Pavese».
OPERE PRINCIPALI: Maria, Einaudi 1953 - L'autunno (poesie), La Meridiana
1954 - Tetto Murato, Einaudi 1957 - La penombra che abbiamo
attraversato, Einaudi 1964.
MARIO SOLDATI

il Natale di Iride

SEMPRE, QUANDO si lasciava indietro l'ultimo villino di G., provava una


tristezza improvvisa. Quanti villini nuovi avevano costruito, a G., in quei
tre anni? per caso, quasi tutti sulla stradina verso il ponte, verso casa sua.
Ma finivano ancora troppo presto. E, subito, il silenzio della campagna le
pareva più profondo. Perfino nella buona stagione, quando cantavano gli
uccelli, e sulla provinciale, sotto, era un continuo traffico di macchine.
Non parliamo adesso. Adesso, oltre lo scricchiolio del proprio passo rapido
sulla terra gelata o sulla neve indurita, Iride istintivamente tendeva
l'orecchio a cogliere, appena le giungesse, il fruscio dell'Emo, dal fondo
della gola: e guardava con inconsapevole malinconia quel pezzo di
montagna, che aveva davanti a sé, verso cui camminava, e che conosceva
cosí bene, fino dalla più lontana infanzia: fino da quando, bambinetta, era
andata alle prime volte da sola a G., per qualche compera urgente:
il papà non c'era, lavorava su alla cava del Falò, e la mamma lavorava in
casa o nell'orto, e mentre lavorava doveva anche stare attenta ai più
piccoli, i fratellini e le sorelline: cosí Iride, che era la più grande, doveva
andare a G. lei. Oppure andava alla cava, a portare la colazione al papà.
Saliva per il sentiero. Ma scendeva per cespugli e per roccie, a rompicollo:
e si ritrovava, alla fine, su quella stessa stradina, appena un po' oltre,
all'altezza della cappella della Madonna del Sasso: con davanti agli occhi
quello stesso pezzo di montagna che, a differenza di G. e di Nocco e di
Levo, non era cambiato proprio niente: era rimasto identico, quello di
allora, cioè di quindici o anche venti anni prima: senza il bianco di una
casa né il rosso di un tetto, e selvaggio, deserto: a destra, di qua e di là
dall'Emo, tutta una confusione di massi e di buche, di rocce e di cespugli
che sembravano rovinare dal cielo, e che cominciavano, Iride lo sapeva, da
più alto della cava, quasi dalla vetta del Falò: di fronte, il grande bosco che
nascondeva la vista del Piano del Colle e della vecchia casa, e continuava,
coprendo colline, salendo e scendendo, fino al San Salvatore: a sinistra, la
valletta dell'Emo, stretta, profonda, buia, come una fenditura nera fino
quasi al lago... Niente era cambiato: per questo, forse, quel pezzo di strada,
che le faceva paura quando era bambina, adesso le faceva tristezza. Non si
vedevano case: soltanto, a un certo momento, quando si passava il ponte
sospeso sull'Emo, la presa dell'acqua per l'elettricità e l'abitazione del
custode, grigia e gelida anche d'estate. Iride sapeva, sí, che lí c'era il
custode: una volta o due, l'aveva visto: ma, avesse dovuto chiamarlo,
chiamare aiuto, sarebbe stato inutile: perché, come poteva con la sua voce,
una bambina di sei o sette anni, superare il fragore dell'acqua?
D'inverno, era poco più che un fruscío, sotto la neve. Ecco, da lontano,
udendolo, Iride lo riconobbe. Il ponte non si vedeva ancora. Affrettò il
passo e, per camminare più spedita, si gettò sulla spalla la rete coi regali.
Nell'alto silenzio, oltre lo scricchiolio dei suoi passi e il gorgoglio
dell'Emo, attraversò l'aria ferma e nebbiosa il grido di un uccelletto: un
grido mozzo, fioco, come intirizzito. Iride si guardò intorno: prati coperti
di neve, di qua e di là: e i primi alberi, cosí lontani: da dove poteva venire
quel grido? dove era l'uccelletto? Forse era un piccolo, uno sperduto:
questo pensò, subito, istintivamente, Iride: e pensò, insieme, alla sua
Bruna, due anni, che aveva lasciato a Levo, con la nonna paterna. E
ringraziò il Signore e la Madonna, che la sua Bruna avesse una casa, niente
di straordinario, ma calda, ma sicura, ma con tutte le cure che ci vogliono:
non un'infanzia come quella che aveva avuto lei, non una casa come quella
dove era nata e cresciuta lei, e tutti i suoi fratelli e sorelle: la casa sul colle,
di là dal bosco, la casa vecchia e sporca come una stalla, e anzi mezza casa
e mezza stalla; dove d'inverno, quando c'era la neve, come adesso,
bisognava davvero dormire nella stalla, insieme alle bestie. Tutte le notti di
Natale della sua infanzia, Iride ricordava, aveva dormito nella stalla, con le
mucche, come il bambino Gesù. Ma, lo sapeva anche lei da qualche
tempo: lo aveva detto il vecchio parroco di Vezzo, Don Vittorio, quello che
diceva sempre la verità: e poi lo aveva detto la televisione: Gesù era nato
in Asia, in Palestina; e in Palestina, nemmeno di dicembre, non fa proprio
questo freddo che fa in montagna da noi.
Prima ancora che lei se ne andasse a servire per la prima volta, prima
cioè che lei compisse i sedici anni, papà aveva potuto comprare una cucina
economica: funzionava a carbone e a legna. Cosí, un po' col caminetto un
po' con la cucina economica, e, quando faceva proprio freddo, con tutti e
due, la casa si riscaldava
abbastanza, e non era più stato necessario dormire nella stalla.
Che progresso, quel primo Natale nella sua branda! Iride non poteva
dimenticarsi di come aveva pianto, disperatamente, il Capodanno dell'anno
prima. Al veglione alla Parùsciola, tutti, in principio, di serata, le venivano
intorno e la chiedevano. Era bella, a quindici anni: già alta precisa come
adesso, ma però esile come una manchèn, mica tutta questa ciccia che ci
ha adesso: bella, bellissima, e elegante. Non importa: dopo i primi balli,
più niente. Chi aveva fatto con lei un ballo, non la chiedeva più. Dopo un
po', non la chiedevano più nemmeno gli altri, non la chiedeva più nessuno:
si era sparsa la voce che lei puzzava di stalla: e purtroppo era vero. Ah! la
sua Bruna avrebbe avuto una vita molto diversa. Altro che puzzare di
stalla. La sua Bruna sarebbe stata una signorina: pulita, profumata,
elegante, istruita, e bella: bella, sempre bella, e sempre esile, come lei era
stata soltanto fino a vent'anni. Non c'era sacrificio che non valesse la pena
di fare, perché Bruna diventasse come poteva diventare anche lei se non
avesse avuto la disgrazia di nascere venticinque anni prima. Non c'era
sacrificio: e, dalla piccola Bruna, il suo pensiero tornò dove correva tante
volte al giorno, con ostinazione appassionata: tornò a Carlo, al marito che
era lontano, in Germania, a lavorare, come muratore. Da quando si erano
sposati, Cario aveva passato con lei, in casa, a Levo, sí e no un mese ogni
anno!
I genitori di Carlo, con i quali Iride e la bambina vivevano, gestivano a
Levo una bottiglieria. Era un locale modesto: due stanze disadorne, un
bancone con la macchina dell'espresso, e l'angolo della privativa. Lavoro,
poco: praticamente soltanto il sabato sera e la domenica. E, con l'affitto, le
tasse, le spese, ci avrebbero rimesso se, d'estate, i villeggianti e i gitanti
non avessero portato quel guadagno che permetteva loro di vivere. Il
salario dì Carlo, dalla Germania, serviva: una metà a estinguere, a poco a
poco, il grosso debito contratto per ottenere la gestione della bottiglieria e
la concessione della privativa: l'altra metà, era risparmio. Carlo aveva un
progetto ben fisso: comprare, un giorno, tutta intiera la casa dove stavano e
dove, al piano terreno, era la bottiglieria: allora sí le cose sarebbero andate
bene. Ma quanti anni, ancora, ci sarebbero voluti? Valeva la pena di
soffrire cosí a lungo, separati e lontani?
Carlo era venuto l'ultima volta per le elezioni, in primavera. Ora, per le
feste, Iride aveva sperato. Ma no: l'ultima lettera diceva che sarebbe stato
ben difficile, a meno di perdere il posto.
Amava Carlo più di ogni cosa al mondo: era felice soltanto quando lui
c'era. E pativa per la sua lontananza una pena sorda, fisica, quasi
animalesca, che l'affetto e tutte le attenzioni per
la bambina non bastavano a medicare.
***
Però, non era stato il primo, né l'unico uomo della sua vita. Da
quell'estate che aveva incominciato a lavorare fuori casa, come cameriera
alla Parùsciola, aveva avuto, fino al giorno in cui si era fidanzata, più di un
capriccio e di un amico. Niente, mai, era stato, ed era ancora, paragonabile
alla felicità che provava col marito.
Rigotti, il figlio del proprietario dello Spaccio Alimentare di G., aveva
una simpatia per lei. Ricco, bel giovane, le aveva fatto un po' la corte
anche prima che lei si sposasse. Ma Iride non ci aveva badato, perché,
allora, lui era poco più di un ragazzino. Adesso, gli anni erano passati: e lui
sempre, quando la vedeva allo Spaccio, le sorrideva, e le faceva anche
qualche complimento, e perfino, se in negozio non c'era nessuno che se ne
accorgesse, sconti del venti e del trenta.
Con tutto il bene che voleva a Carlo, Iride era commossa. Le faceva
piacere, e non riusciva a nasconderlo al Rigotti. Si sentiva umiliata, di
essere diventata cosí grassa. Era sempre una bella ragazza, lo sapeva: ma
era anche, e a soli ventisei anni, un «peso» da novanta chili e più! I
complimenti e gli omaggi del Rigotti, lei dunque li benediceva: perché la
rincuoravano, la confortavano col pensiero che anche Carlo poteva
seguitare ad amarla, sebbene, ad ogni ritorno, la ritrovasse un po' più
grossa di quando l'aveva lasciata.
Finché, una sera dello scorso novembre, il destino aveva voluto che a
Stresa, dal parrucchiere, facesse più tardi del previsto e cosí perdesse
l'ultima corriera. Pioveva forte. Si era incamminata: fino a Levo, ci
avrebbe messo più di un'ora, prendendo la scorciatoia da Vedasco. Ma il
destino aveva anche voluto che proprio a Vedasco, un attimo prima che lei
sparisse nella scorciatoia, passasse in macchina il Rigotti, che tornava a G.
Come rifiutare il suo gentile invito a sedersi accanto a lui?
Le scorciatoie, su quella montagna, sono tante: ce n'è di strette,
praticabili soltanto a chi cammina, antiche mulattiere: e ce ne sono altre,
più larghe e comode, che portano, tra parchi e boschi, a ville o ad alberghi
di residenza estiva, e che, dopo i Santi, sono stabilmente deserte e prive di
qualsiasi traffico. Per una di queste, appunto, svicolò d'improvviso il
Rigotti con la sua macchina, nonostante la vivacissima opposizione di
Iride. E qualcosa accadde: ma non di troppo grave. «Perché non vuoi?» e,
dopo: «Perché non hai voluto?» le chiedeva il Rigotti. Iride rispondeva
soltanto: «Perché no».
Il perché era un sentimento cosí grande, cosí immenso, che la riempiva
tutta, e non le lasciava posto per niente, salvo che per Bruna, parte di
Carlo: non le lasciava posto neanche per riflettere con calma a quello
stesso sentimento: per accorgersene, per saperlo. Mentre il Rigotti la
interrogava desolato, le venne in mente, a un certo punto, di rispondere:
«Perché voglio bene a mio marito», ma sarebbe morta prima di dirlo: si
vergognava, e continuò a ripetere soltanto: «Perché no». Il Rigotti, allora,
disse: «Pensi forse che è peccato?» Lei scoppiò a ridere: «Macché
peccato!». Si sarebbe vergognata, di non rispondere cosí e di non ridere.
E oggi, vigilia di Natale, aveva preso la corriera a Levo, per andare a
fare gli auguri alla mamma e al papà: che sono, ormai, quasi vecchi, e che
abitano ancora nella casa di là dal ponte, con i due figli più piccoli, un
maschio e una femmina. Portava loro, per regalo, cinquemila lire in tutto.
Ma la corriera, d'inverno, dopo una sola corsa la mattina, non va oltre G.
Iride aveva continuato a piedi.
A meno di fare un giro lunghissimo, era obbligata ad attraversare il
paese, e a passare davanti allo Spaccio. Il Rigotti l'aveva vista subito,
attraverso la vetrina. E si era slanciato fuori. Dice che le ha preparato il
Gesti Bambino apposta per lei, il regalo di Natale! Era una rete bell'e
confezionata: piena di salami, scatolette, formaggi, un panettone, due
bottiglie di spumante. Iride l'aveva accettata volentieri. Per portarla alla
mamma, già che è sulla strada. E l'aveva detto sinceramente al Rigotti,
ringraziandolo: senza però aggiungere quello che aveva pensato: sarà per
loro un po' di festa, stanno meglio di una volta, ma non è che stiano bene.
Dopo il primo svolto del bosco, sul ciglio della strada, in riva al pendio
che circonda il Piano del Colle, la vecchia casa era rimasta isolata come un
tempo: tale e quale. Iride ci veniva di rado, ormai: giusto per Natale, e, una
volta o due, nel pieno dell'estate, a far merenda con la bambina.
Un filo di fumo si levava dal povero tetto bruno, e saliva diritto, sottile,
nell'aria senza vento, grigio sul fondo grigio della nebbia che chiudeva il
Piano verso la valle dell'Agogna. Era quasi notte, o almeno faceva
quell'effetto: e, a un chiarore tenue, oscillante, che traspariva da una
finestra terrena, Iride sospirò ricordando che neanche quest'anno, con tutte
le promesse e le belle parole del Comune, la luce elettrica era arrivata fino
alla casa dei suoi genitori.
Il silenzio pareva sempre più profondo. Non si udivano, lí, e Iride lo
sapeva bene, nemmeno le campane di G., con tutto che G. non fosse
neanche a mezz'ora di cammino: era lo sperone roccioso del Falò, a
interrompere il suono. Si udivano, invece, le campane di Coiromonte e
anche quelle di Sovazza: ma cosí lontane che sembrava di stare a sognarle.
Come adesso. Era arrivata, e si era fermata ad ascoltarle, nella
semioscurità, sulla strada, accanto alla scaletta di assi e di terra, fango
ghiacciato, che sale alla piccola aia davanti alla casa. Era arrivata. Le
campane lontanissime di Sovazza e di Coiromonte suonavano per il
Natale. Ma come sono più allegre e più belle le campane di Levo, che si
spandono tutto in giro per l'immensità del lago, fino alle montagne della
Svizzera: le campane del paese di Carlo, e dove Carlo dovrà pure tornare!
Come è migliore, ad ogni modo, la sua vita da sposata, a Levo oggi, e
anche se è senza Carlo, e anche se deve, tante volte, cucinare per i suoceri
e fare le pulizie giù in bottiglieria e servire la festa i clienti che urlano e
cantano ubriachi: come è migliore, che non una volta qui. Guarda un
momento, e poi grida: «Mamma, papà!» Un'ombra appare alla finestra.
Iride sale la scaletta, e di nuovo grida, senza più guardare, ma attenta a
dove mette i piedi: «Sun mí!»
***
Dopo neanche mezz'ora, pensò che la rete del Rigotti, oltre tutto, le
permetteva di andarsene prima. La verità è che aveva fretta: era
preoccupata per la bambina. La vigilia di Natale, in bottiglieria, ci sono
sempre clienti: cominciano la festa il pomeriggio, bevendo, giocando a
carte, guardando la televisione. Il suocero, da solo, non basta per il
servizio; la vecchia deve aiutarlo... e, la Bruna, non si può perderla
d'occhio un momento! La settimana prima, nella piazzetta davanti alla
casa, un miracolo che non fosse caduta in un tombino, aperto per
riparazioni.
Iride camminava rapida, contando di essere a Levo per l'ora di cena. Era
notte completa, ormai: ma lei non sentiva il freddo, e si era perfino
slacciata il cappottino. Al ponte, vede una macchina ferma, dalla parte di
là: la vede perché le accende e spegne i fari, due, tre volte, come per un
segnale, proprio in faccia. Un segnale a chi?
Era il Rigotti, naturalmente: che aspettava per accompagnarla a casa. Le
faceva proprio comodo, questa volta, trovarsi a casa in cinque minuti:
sentiva nel cuore come un'apprensione, quasi una paura, o forse no,
soltanto un'agitazione, un'impazienza, qualche cosa che le diceva di far
presto. Decise di essere sincera. Prima di accettare lo guardò sorridendo,
ma fissa e in silenzio, per un momento. Il Rigotti aveva occhi azzurri e
gentili, dall'espressione cosí inerme, nel volto pallido e sotto i capelli
biondicci, che non sembrava assolutamente capace di azioni violente o
malvage. Forse era un astuto, ecco: e proprio della sua dolcezza, forse,
bisognava diffidare.
«Io vengo e ti ringrazio, Battistino» gli disse finalmente Iride
continuando a fissarlo. «Ma a una condizione: che questa volta
mi porti diritto a Levo il più presto possibile. Ho giusto bisogno di fare
in fretta.» Il Rigotti rise.
«Se non trovavi me, scusa, come facevi? Calcola dunque di non avermi
trovato, e di andare a piedi: e il tempo che avanza...»
«Bravo, come l'altra volta... No, guarda: in questo caso grazie, ciao.» E
si avviò.
Il Rigotti, dalla macchina, quando la raggiunse, ebbe un tono che
avrebbe voluto concedere, e che in realtà implorava: «Cià, Iride, vieni su,
che ti porto.» «Ma prometti» disse Iride, svelta. «Prometti?» «Prometto.»
«Cià la man... Mument.» E, prima di salire sulla macchina, per ricevere
la promessa si sfilò il guanto, come aveva visto alle dive nei film.
Ecco le luci di Levo: meno di cinque minuti. Iride fece fermare
all'ultima curva, dov'è il lavatoio, e prima che comincino i fanali.
Raccomandò al Rigotti di fare manovra lí, tanto lo spazio c'era; di non
venire, per carità, fino in paese. Nei paesi, si sa come è: basta una
chiacchiera per rovinare una vita.
Prima di uscire dalla macchina, abbassò il cristallo, guardò attenta
nell'oscurità, in una direzione e nell'altra della strada, per assicurarsi che
non venisse nessuno. Aprí lo sportello. Ma, in quell'attimo, il Rigotti la
afferrò alla vita e si protese verso di lei.
Iride giocò d'astuzia. Invece di rifiutare, come certo il Rigotti si
aspettava che lei rifiutasse, lo baciò subito, per prima, sulla bocca: un
attimo e, approfittando dell'improvviso smarrimento di lui, sgusciò fuori e
si slanciò di corsa. Il gioco era riuscito.
Adesso Iride correva verso il paese, e intanto udiva la macchina che
faceva manovra, e pensava che Battistino non era tanto male, ma, in
confronto a Carlo, era poco o niente. Era, in confronto a Carlo... Era, in
confronto a Carlo... Correva, e cercava il paragone. Lo trovò soltanto nel
momento che arrivò sulla piazzetta: tutta illuminata, con due o tre
macchine di forestieri, e il farmacista che aveva messo fuori il piccolo
albero di Natale, che prima era dentro la farmacia. Battistino, in confronto
a Carlo, era come una caramella in confronto a un bel bicchiere di grappa
quando si ha freddo.
Guardò i vetri della bottiglieria: anche quelli parevano più illuminati.
Possibile, che avessero già acceso tutto? Vedeva agitarsi, nell'interno, di là
dai vetri appannati dal gelo, ombre confuse: e le pareva di udire voci e risa,
sebbene miste, certo, al frastuono della televisione, troppo alte e rumorose.
Possibile che ci fosse già tanta gente?
Ebbe tutti questi pensieri, subito dopo quello della grappa, in un
secondo: nel tempo necessario ad attraversare la piazzetta: perché, non era
ancora giunta alla porta vetrata della bottiglieria, che questa si aprí
violentemente, e apparve, ancora col berretto in testa e il giubbotto di pelle
marrone, alto, bello, forte, ridente — rideva già prima e rideva di più
l'attimo successivo, riconoscendola — il suo Carlo.
«Signore, Vi ringrazio!» disse forte Iride, e si gettò nelle sue braccia.
Carlo, dopo tutto, era riuscito a ottenere, le ferie fino a Capodanno. Era
arrivato cinque minuti prima. Aveva trovato Bruna alta il doppio, diceva.
Saputo che la moglie era andata a Piano del Colle per gli auguri, le veniva
incontro: non aveva potuto resistere neanche un minuto, tanta era
l'impazienza che aveva di riabbracciarla.
Iride, mentre lo abbracciava e lo baciava, e si sentiva stringere intorno ai
fianchi da quelle braccia forti e lunghe, e sentiva la massa morbida del
proprio petto finalmente schiacciata e premuta da quel petto grande e duro,
e trovava il suo Carlo non soltanto inebriante come una grappa, ma trovava
le sue labbra, a paragone di quelle esangui e come aride del Rigotti (non
poteva non pensarci: era accaduto due minuti prima) infinitamente più
dolci delicate succose, ebbe, per la prima volta, la certezza assoluta che, se
lei amava Carlo più di ogni cosa al mondo, anche Carlo, più di ogni cosa,
amava lei. La certezza che anche lei, in confronto alle altre donne-
caramelle, era per lui grappa. La certezza che erano, l'uno per l'altro, la
felicità.
***
Che cosa l'aveva svegliata» Forse la bambina aveva chiamato»
L'avevano portata alla Messa di Mezzanotte, se no Carlo non ci veniva.
Cosí piccola, c'era da temere che lo spettacolo insolito, le luci, i canti,
l'organo, avessero finito per agitarla. Ma la bambina dormiva serena, un
angelo, nel suo lettuccio in fondo alla stanza. Carlo, anche lui, dormiva
tranquillissimo, senza sudare e senza russare: con un sorriso fisso sulle
labbra carnose e generose, e sognava forse ancora il lunghissimo piacere
che avevano avuto. Non un rumore, l'aveva svegliata, non un passo, un
suono, niente. Tendeva l'orecchio nel silenzio notturno del piccolo paese e
della campagna nevosa, immaginando di udire lontano un canto di
ubriachi, o il motore di qualche macchina che tornava a Some-raro, gente
magari che era stata a G. per la cena di Natale. Ma no, niente. Il silenzio
era perfetto. Allora Iride, piano piano, cosí come si era levata dal letto per
andare a vedere la bambina, si infilò la vestaglia e sulla vestaglia il
cappottino: guardò ancora un momento il viso tranquillo e sorridente di
Carlo, spense la luce, e uscí dalla camera.
Nel corridoio era un grande specchio di quelli con la réclame stampata
sopra, che prima stava giù in bottiglieria. Iride accese per guardarsi. Col
bavero del cappottino tirato su, che, incorniciandole il volto, pareva
sfilarlo, farlo magro: con la massa dei suoi capelli rossi in disordine: con
gli occhi chiari nell'ombra appena rotta dalla luce della sola lampadina
debole e lontana: si trovò quasi bella. Indietreggiò, si voltò di fianco, si
strinse nel cappottino, fasciandosi la vita: era grossa, ma non sformata.
Carlo poteva ancora essere fiero di lei. Spense e, in punta di piedi, andò
fino alla porta finestra. Dava su un terrazzino di pietra, con la ringhiera di
ferro: da quel terrazzino, che era quasi d'angolo alla casa, si aveva la vista
su tutto il lago: dalle montagne della val del Toce fino al San Salvatore.
Iride, attenta a non far rumore, aprí e uscí: a guardare il panorama, come
facevano sempre, d'estate, i clienti dopo che avevano bevuto troppo. Ma
lei, perché lo faceva adesso? Non sapeva perché: provava soltanto il
bisogno di respirare l'aria della notte all'aperto. Non aveva più sonno. E si
accorgeva di essere stata e di essere ancora, felice e felice. Se dormiva, si
disse, si sarebbe dimenticata, forse, di essere cosí felice: forse avrebbe
sognato la casa di Piano del Colle e la stalla. No, lei voleva restare sveglia
e pensarci e ripeterselo: sono felice, fino a quando gli occhi le si sarebbero
di nuovo chiusi dal sonno. Capí, allora, che cosa era stato a svegliarla. Ma
certo, non era stato nessun rumore esterno: era stata la troppa felicità.
Un quarto di luna, prossima a tramontare proprio nella direzione di
Piano del Colle, attraverso una foschia leggera che copriva tutto il cielo,
illuminava fiocamente il lago e le montagne intorno. Si vedevano bene i
lumi di Pallanza e di Intra. Quelli più lontani, verso Ghiffa, e quelli
dell'altra parte del lago, potevano essere, più che visti, indovinati, da chi
sapeva che c'erano.
Iride si domandò: ma allora, che cos'era la vita? Era impossibile essere
più felici di lei. Anche se fosse stata ricca, ricchissima, molto più dei
Rigotti, più ricca, come si diceva nei tempi andati, del principe Borromeo
che possedeva tutto il lago con le isole e tutta la montagna, anche cosí, era
sicura che non avrebbe, in nessun caso, potuto essere più felice: e proprio
in questa sicurezza era, e lo sapeva, la sua più profonda felicità. Ma quanto
sarebbe durata? Il giorno due, Carlo ripartiva. E sarebbero passati mesi e
mesi, prima del suo ritorno. E per anni e anni, sarebbe andata avanti cosí.
Era breve, certo, il compenso: il tempo della sua felicità era quasi niente,
accanto al lungo tempo solitario e sacrificato del ricordo e dell'attesa. Pure,
allo stesso modo che era sicura di essere felice quella notte, era sicura di
essere una donna fortunata per sempre: fortunata perché aveva, anche cosí,
il suo Carlo: e non avrebbe cambiato con nessun'altra donna, di quelle che
vivevano insieme all'uomo che amavano. Che cos'era, dunque: anzi, che
cosa c'era nella vita?
Niente di più, in nessun caso, mai, per nessuno, di ciò che lei aveva
provato. La sua immensa felicità le parve, cosí, di colpo, quasi un
immenso dolore: per questo, che aveva capito che non c'era niente di più.
Se non fosse stato per Bruna, avrebbe voluto morire. Morire lei e il suo
Carlo insieme: tanto, avessero campato cento anni, non avrebbero avuto
niente di più. Ma c'era Bruna, e sarebbero venuti, forse, altri bambini. E
chissà, pensò Iride rientrando lentamente e chiudendo piano piano la
finestra, chissà che l'anno venturo, per Natale, non ce ne fosse già un altro.
E il desiderio, cosí forte, che aveva di averlo, l'amore, cosí vivo, che già
sentiva per lui (sarebbe stato un maschio, un piccolo Carlo), le parvero un
segno, che non poteva essere falso, della futura realtà.
MARIO SOLDATI
Soldati è nato a Torino nel 1906; fino all'Università ha studiato in un
collegio di Gesuiti. Uomo di ingegno assai versatile, Soldati ha svolto
molteplici attività: regista cinematografico, scrittore, giornalista su
quotidiani e alla televisione. Dal 1929 al '31 ha soggiornato a New York
(America primo amore), nel '54 ha vinto il premio «Strega» (Le lettere da
Capri). Tra i film da lui diretti ricordiamo «Piccolo mondo antico»,
«Malombra», «La Provinciale», «Policarpo». Alla televisione ha curato e
presentato il programma «Viaggio nella Valle del Po».
OPERE PRINCIPALI: America primo amore, Bemporad 1935, poi Einaudi, poi
Garzanti e infine Mondadori - La verità sul caso Motta, Rizzoli 1941 -
Fuga in Italia, Longanesi 1947 - A cena col commendatore, Longanesi
1952 poi Mondadori - Le lettere da Capri, La Confessione, Garzanti 1956,
poi Mondadori - Il vero Silvestri, Garzanti 1957, poi Mondadori - La
Messa dei villeggianti, Mondadori 1959 - Le due città, Garzanti 1964.
MARIO TOBINO

vacanza di un capitano

ESISTEVA a Viareggio in via Regia un caffè che si chiamava Giuseppe


Mazzini, un nudo stanzone cosparso di tavoli e di semplici sgabelli. Nel
fondo aveva il banco delle mescite e una rudimentale macchina per il
caffè. Le pareti avevano solo le due piccole fotografie del barco-bestia
Dedalo e della goletta Nelly; lassù, sopra il banco, il ritratto di Giuseppe
Mazzini, con sotto un lumino. Dario Carpili, il proprietario, considerava
fraterni amici i suoi clienti, tutti marinai e calafati.
Non c'era marittimo di qualche valore che scendesse in terra,
proveniente dalla darsena o dalla stazione, che prima di tutto non passasse
da Dario.
«Addio! Chi c'è?»
«È sbarcato Sisco, Ferrone, Beppino Berti.»
Il marinaio arrivava a casa, abbracciava la moglie, carezzava i figli —
che a ogni viaggio crescevano di uno — e ardeva rivedere gli amici,
impossessarsi delle novità di Viareggio, sapere di altri velieri, narrare del
suo.
Il caffè di Dario udí le più belle storie di mare, descrizioni di ardite
manovre quando dal capitano dipende la salvezza di tutti. I giudizi che si
davano sulle capacità di ogni marinaio erano definitivi e naturalmente al
caffè Mazzini vigeva una severa gerarchia: quando entrava il capitano
Antonio Antonini entrava un re, quando entrava suo figlio Angelo entrava
il delfino. Perché di lupi di mare, di nostromi carichi di esperienza, di
marinai scoiattoli a chiudere e mollare i velacci, Viareggio ne aveva tanti,
ma la risolutezza, l'illuminazione, la scienza marinara degli Antonini era
unica.
Io qui voglio dire una vacanza di uno dei due, di Angelo, il giovane, il
figlio, un suo periodo di riposo, una lieta vacanza, anche perché quando si
parla dei marinai della vela, dei loro viaggi a trasportare merce, troppo di
frequente si alza la luttuosa cortina della tempesta.
Viveva in quel tempo a Viareggio, circa il 1870, un certo barone
Ruggeri. Capitato su questa spiaggia, se ne era innamorato e si era fatto
costruire davanti al mare un palazzo gentile di marmi. Aveva acuto
interesse per le faccende marinare e frequentava la darsena, domandava ai
calafati, ascoltava i vecchi lupi di mare; aveva capito il genio che si
muoveva in Viareggio. Udì anche raccontare della dinastia degli Antonini e
a furia di sentirle ripetere sapeva a memoria certe loro frasi: «Il viaggio del
Sud America è da fannulloni una passeggiata!», «Sei peggio dell'erba che
taglia le catene" e tante altre. Però gli Antonini erano sempre per gli
oceani, il barone Ruggeri non li aveva mai conosciuti.
Accadde finalmente che gli Antonini sbarcarono, il loro bastimento era
andato in riparazione; e il barone Ruggeri si levò quella
voglia. In specie si legò di amicizia con Angelo, il più giovane, che non
si stancava di intrattenere in ogni marittima quistione. Una sera il dialogo
si fece più stretto: «Vorrei costruire un cutter, un cutter da diporto.» «Il più
bravo a Viareggio è Natino, il costruttore Fortunato Celli.»
«Mi piacerebbe lo impostasse lei, secondo i suoi intendimenti.»
«Volentieri. Sono in vacanza.» «E lei lo comandasse.»
«Bene.»
«Veleggeremo per il Tirreno.» «Mi metto subito al lavoro.»
Il cutter in poco tempo fu fatto, un cutter di undici metri, una farfalla
bianca. Il calafato Natino questa volta, stimolato della presenza
dell'Antonini, ci aveva messo anche più estro.
Gli fu messo il nome di Maria e cominciarono a bordeggiare davanti a
Viareggio, a spingersi a Livorno, a Spezia, all'isola d'Elba. Il capitano però
in quelle passeggiate un poco si annoiava. Aveva del resto una sua idea. A
Viareggio a mezzo dell'estate si svolgeva una regata internazionale,
venivano dalla Francia, dalla Spagna, dall'Inghilterra. Gli era venuto in
mente di provarsi con quegli specialisti della vela, con quei signori che
chissà poi se meritavano tutte le loro arie.
«È una barca da diporto la Maria, solo da diporto. Si potrebbe
trasformare da regata, farne una barca veramente marinara, da andarci
anche sull'oceano. Le barche belle sono quelle che sono pronte ad ogni
vento e a ogni mare.» Il barone si fece spiegare e accettò subito. «Lei farà
la regata. Modifichi come vuole.» Il capitano Angelo rifece la chiglia, da
se stesso si tagliò e cucí le vele.
Tra gli inscritti alla corsa era il famoso cutter Miss Mary, una barca
francese che, aveva vinto anche l'anno precedente, era reduce da regate
internazionali. Il suo nocchiero era un capitano nativo della vicina Nizza.
La colonia balneare e gli altri concorrenti davano per sicuro il successo del
cutter francese. Quelli del caffè Dario no, perché sapevano chi era
Antonini.
La mattina della partenza il maestrale era fresco; passando i minuti si
fece più brillante, con contentezza dell'Antonini che aveva misurato chiglia
e vele della Maria per una navigazione saporosa. I cutter erano più di
venti. Manovrarono prima della partenza nello specchio d'acqua antistante
le due boe.
Partí il colpo di pistola. Il capitano Antonini era in testa. Miss Mary era
seconda, ad alcuni metri.
Come poteva perdere il capitano Antonini che possedeva la scienza
marinara, le onde gli parlavano, era abituato a discutere col vento, era
passato in mezzo a tutti i colori delle tempeste» Vinse la bolina, vinse il
lasco, vinse la poppa. Più volte il Miss Mary tentò di manovrare per
superare la Maria e ogni volta l'Antonini, attento al timone come alle
bilancine il farmacista, fermi gli occhi al fiocco e alla prua, deluse il
nocchiero francese.
La sera ci fu la premiazione: il barone Ruggeri allegro per la sua Maria.
Il capitano francese si avvicinò all'Antonini:
«Fra quindici giorni c'è a Nizza una grande gara. Spero mi darà la
rivincita.»
Il barone Ruggeri intervenne:
«Ci saremo senza dubbio e» — sorridendo al capitano Angelo: —
«arrida la vittoria a chi è il migliore!»
Da Cannes si doveva arrivare a Nizza. Per tutta la costa l'aspettativa era
enorme. Tantissimi a quel tempo erano gli appassionati della vela. Il giorno
prima ci furono le prove, un leggero allenamento. La Maria si incrociò col
Miss Mary e non mancarono i reciproci saluti. Alia sera nel porto di
Cannes tutti i cutter erano acquattati in attesa della luce del giorno.
La notte si scatenò la tempesta, il mare si accavallava grandioso, il vento
era fortissimo. La partenza era stata stabilita alle nove.
I capitani si consultarono con la giuria. Davanti all'imboccatura le onde
si spezzavano in frantumi di vetro, pericoloso uscire, i cutter si sarebbero
sfasciati sugli scogli, preda dei rigurgiti. Era impossibile fare la gara.
L'Antonini disse il suo parere, che tante volte aveva navigato con un
mare peggiore, che la navigazione non è una passeggiata, che la partenza
era alle nove e lui alle nove sarebbe partito, da Cannes sarebbe arrivato a
Nizza.
Il presidente della giuria tentò convincerlo: «Convenga che è una pazzia.
Con questo fortunale è impossibile uscire dalle bocche».
«Monti a bordo e la porto a Nizza. Se per un po' di mistral ogni volta mi
rintanassi nei porti, farei fallire il mio armatore.»
«Se lei non ha paura, le dimostrerò che non l'ho neanch'io.»
«Bene. Tra pochi minuti si parte.»
L'Antonini e il presidente della giuria montarono a bordo della Maria. Il
capitano Angelo dette ordine di mollare le vele.
Il Miss Mary, vedendo che l'Antonini partiva, aprí anch'egli le vele. Gli
altri equipaggi stettero a vedere.
L'Antonini si mise al timone, per uscire dal porto si doveva orzeggiare,
modificare la rotta verso il vento. L'Antonini aveva preso la precauzione di
accorciare la randa. Le banchine erano affollatissime di persone che
discutevano, approvavano, riprovavano. La Maria, andando di bolina,
stringendo, guadagnando al vento, si piegava, ma continuava a correre, a
essere viva. Fu sulle bocche, sfiorò gli scogli, fu libera nel mare. Già
scompariva dietro un'onda e riappariva alta e allegra, una farfalla inebriata
di fiori.
Miss Mary si avvicinò all'imboccatura, non riuscí a virare, il vento tutto
di prua la teneva ferma, ammainò le vele, tornò indietro, sembrò andasse
alla deriva.
La Maria continuava nella procella, c'era da passare il capo della
Garoupe, si doveva fare molta orza. Il presidente della giuria gridò:
«Ma dove andiamo?»
«Stia tranquillo» gli rispose ridendo il capitano Angelo, «la porto a
Nizza.»
Gli altri equipaggi da terra seguivano, aspettavano la Maria al capo della
Garoupe. Fu un momento emozionante, lo montò di pochi metri.
L'Antonini aveva calcolato la forza del vento, lo scarroccio, la deriva,
conosceva lo scafo della Maria, lui stesso aveva modellato la chiglia,
cucito le vele.
A Nizza la folla accolse con entusiasmo il capitano viareggino. Il
presidente della giuria fu lieto di aver conosciuto quell'Antonini.
La premiazione doveva avvenire la sera. Nel dopopranzo alcuni
concorrenti cominciarono a mormorare e poi protestare che la gara non era
valida non c'era stata perché l'Antonini aveva corso da solo.
L'Antonini richiamò allora quelle persone alla verità, alla legge
marittima. È la virtù e il coraggio che pesano sul piatto della bilancia, non
la timidezza di chi rimane a casa.
La giuria gli dette ragione.

MARIO TOBINO
Tobino è nato a Viareggio nel 1910. E medico e dirige un importante
manicomio. Ha sempre scritto e collabora al Corriere della Sera. Di sé
dice: «Il periodo più bello della mia vita fu nel clandestino, nella lotta di
liberazione nazionale, dove finalmente avevo la mia bandiera. La libertà e
la trasfigurazione sono i segni della mia opera». Ha pubblicato anche
opere di poesia.
OPERE PRINCIPALI: L'angelo di Liponard, Vallecchi 1951 - Il deserto della
Libia, Einaudi 1951 - Le libere donne di Magliano, Vallecchi 1953 -
L'asso di picche (poesie), Vallecchi 1955 - La brace dei Biassoli, Einaudi
1956 - Il clandestino, Mondadori 1962.
Proprietà letteraria riservata,
Riproduzione intera, ed anche parziale,
vietata in italiano e nelle altre lingue.
diritti sono riservati in tutto il mondo.

© SELEZIONE DAL READER'S DIGEST 1965

A
I EDIZIONE
dal I° al 3oo° migliaio

Dir. resp.: Guido Artom - Edito da Selezione dal Reader's Digest S.p.A.,
Via Moscova 40, Milano - Stampa Off. Grafiche A. Mondadori, Verona. -
Supplemento al 11. 204 di Selezione dal Reader's Digest - Spedizione in
abbonamento postale - Gruppo III

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